Giustizia Tributaria 2010 n. 1

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comitato scientifico Fabrizio Amatucci

ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Massimo Basilavecchia

ordinario di diritto tributario Università di Teramo Silvia Cipollina

ordinario di diritto tributario Università di Pavia Angelo Contrino

associato di diritto tributario italiano ed europeo Università di Modena e Reggio Emilia Daria Coppa

straordinario di diritto tributario Università di Palermo Roberto Cordeiro Guerra

straordinario di diritto tributario Università di Firenze Francesco Fichera

ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Suor Orsola Benincasa Stefano Fiorentino

associato di diritto tributario Università di Salerno Maria Cecilia Fregni [coordinamento]

ordinario di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Gianfranco Gaffuri

ordinario di diritto tributario Università di Milano Carlo Garbarino

associato di diritto tributario Università Bocconi Alessandro Giovannini

ordinario di diritto tributario Università di Siena Manlio Ingrosso

ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Agostino Ennio La Scala

associato di diritto tributario Università di Palermo Maurizio Logozzo

straordinario di diritto tributario Università Cattolica del Sacro Cuore Antonio Lovisolo

comitato direttivo Claudio Consolo ordinario di diritto processuale civile Università di Padova

Lorenzo del Federico ordinario di diritto tributario Università di Chieti e Pescara

Salvatore Sammartino

associato di diritto tributario Università di Genova

ordinario di diritto tributario Università di Palermo

Alberto Marcheselli

Giuliano Tabet

associato di diritto tributario Università di Torino Enrico Marello

associato di diritto tributario Università di Torino Sebastiano Maurizio Messina

ordinario di diritto tributario Università di Verona

ordinario di diritto tributario Università di Roma - La Sapienza

Francesco Tesauro ordinario di diritto tributario Università degli Studi di Milano - Bicocca

Salvatore Muleo

straordinario di diritto tributario Università della Calabria Mario Nussi

associato di diritto tributario Università di Udine Raffaele Perrone Capano

ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Federico II Maria Cristina Pierro

associato di diritto tributario Università dell’Insubria Francesco Pistolesi

straordinario di diritto tributario Università di Siena Roberto Schiavolin

ordinario di diritto tributario Università di Padova Loris Tosi

ordinario di diritto tributario Università di Venezia - Ca’ Foscari Alessandro Turchi

associato di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Giuseppe Zizzo

straordinario di diritto tributario Università LIUC - Castellanza comitato di redazione Christian Califano Filippo Cicognani Alessandra Magliaro Annalisa Pace Alessandra Villecco [coordinamento]

www.giustiziatributaria.it


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hanno collaborato a questo numero Vito Achilli dottorando di ricerca in diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Domenico Ardolino dottore di ricerca in istituzioni e politiche ambientali, finanziarie e tributarie, Università degli Studi di Napoli - Federico II Ernesto-Marco Bagarotto professore a contratto, Università di Venezia Anna Rita Ciarcia dottore di ricerca in istituzioni e politiche ambientali, finanziarie e tributarie, Università degli Studi di Napoli - Federico II Andrea Conz avvocato in Roma Lorenzo del Federico professore ordinario di diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Alessandro De Marco dottore in giurisprudenza Sebastiano Garufi dottorando di ricerca in diritto internazionale dell’economia, Università Commerciale Luigi Bocconi Alberto Marcheselli associato di diritto tributario, Università di Torino Gabriele Marini dottore di ricerca in diritto tributario Michele Mauro dottore di ricerca in diritto tributario; professore a contratto di diritto tributario dell’impresa e diritto tributario internazionale, Università della Calabria Francesca Miconi dottoranda di ricerca in diritto europeo e comparato dell’impresa e del mercato, Università di Chieti e Pescara Luigi P. Murciano dottore di ricerca in diritto processuale tributario Annalisa Pace ricercatrice di diritto tributario, Università di Teramo Giorgio Sciubba dottorando di ricerca in diritto europeo e comparato dell’impresa e del mercato, sez. diritto tributario, Università di Chieti-Pescara Francesco Tesauro professore ordinario di diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Lorenzo Trombella dottore di ricerca in diritto processuale tributario Alessandro Turchi professore associato di diritto tributario, Università di Modena e Reggio Emilia Maurizio Villani avvocato tributarista in Lecce

direttore responsabile Daniela Artioli stampa Logo (Borgoricco PD) progetto grafico Avenida (Modena) © Gedit edizioni, aprile 2010 via Irnerio 12/5, 40126 Bologna tel. 051 4218740, fax 051 4210565, mail@gedit.com, www.gedit.com ISSN 1590-5381 Abbonamento 12 mesi: 7 160,00 Singolo fascicolo 7 50,00 I materiali per la pubblicazione vanno inviati per posta elettronica a redazione@giustiziatributaria.it oppure via fax al n. 051 4210565. Gli autori devono uniformarsi ai criteri redazionali che possono essere richiesti via e-mail all’indirizzo sopra indicato.


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Sommario

DOTTRINA SAGGI Gli atti impositivi viziati per violazione del diritto comunitario di Lorenzo del Federico

7

Riforma del rito civile, testimonianza scritta e giusto processo tributario di Alberto Marcheselli

17

La compatibilità con l’ordinamento comunitario della disciplina in materia di controlled foreign companies alla luce delle modifiche apportate dal «decreto anti-crisi» di Ernesto Marco Bagarotto

22

NOTE A SENTENZA Indagini bancarie, utilizzabilità delle prove irritualmente acquisite e sistema di presunzioni di cui al comma 2, art. 32 del D.P.R. 600/1973 di Giorgio Sciubba

31

L’omesso versamento delle rate successive alla prima non pregiudica gli effetti del condono di Anna Rita Ciarcia

38

Sui presupposti del diritto al rimborso derivante da doppia imposizione internazionale, secondo il diritto interno e secondo le convenzioni di Sebastiano Garufi

47

L’abuso del diritto nell’imposta di registro di Lorenzo Trombella

55

Frode “carosello” e neutralità dell’Iva di Luigi P. Murciano

61

La cessione dei crediti d’imposta dei fallimenti di Michele Mauro

70

Il “definitivo” orientamento in tema di giurisdizione tributaria sul fermo amministrativo di Vito Achilli

81

Il principio di proporzionalità limita la discrezionalità dell’agente per la riscossione nelle iscrizioni ipotecarie di Domenico Ardolino

86

La sanzione accessoria per mancata emissione degli scontrini fiscali, tra abolitio violationis e favor libertatis di Andrea Conz

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GIURISPRUDENZA ACCERTAMENTO Commissione tributaria regionale delle Marche, sez. VI, 7 maggio 2009, n. 111 Accertamento - Accertamenti bancari - Utilizzabilità delle prove acquisite irritualmente - Legittimità - Mancanza di autorizzazione alle indagini bancarie - Irrilevanza

30

Accertamento - Indagini bancarie effettuate nei confronti di società a ristretta base azionaria - Presunzione di distribuzione ai soci di utili “extra bilancio” - Deduzione di costi presunti dai ricavi lordi - Legittimità nota di Giorgio Sciubba

CONDONI E SANATORIE Commissione tributaria regionale di Roma, sez. XXXVIII, 8 giugno 2009, n. 159 Condoni e sanatorie - Condono ex art. 9-bis legge n. 289/2002 - Mancato pagamento delle rate successive alla prima - Persistente validità del condono

36

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. I, 17 giugno 2008, n. 369 Condoni e sanatorie - Condono ex art. 9-bis legge n. 289/2002 - Mancato pagamento delle rate successive alla prima - Persistente validità del condono - Iscrizione a ruolo ex art. 14 del D.P.R. n. 602/1973 - Legittimità

36

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXIV, 28 febbraio 2008, n. 27 Condoni e sanatorie - Condono ex art. 9-bis legge n. 289/2002 - Ritardato pagamento delle rate successive alla prima - Persistente validità del condono - Non applicabilità della sanzione massima nota di Anna Rita Ciarcia

37

DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. X, 11 dicembre 2009, n. 293 Diritto tributario internazionale - Convenzioni contro le doppie imposizioni - Imposte sui redditi - Doppia imposizione - Rimborso - Presupposto - Onere di prova dell’avvenuta doppia imposizione nota di Sebastiano Garufi

44

IMPOSTA DI REGISTRO Commissione tributaria provinciale di Cagliari, sez. II, 4 giugno 2009, n. 199 Imposta di registro - Interpretazione degli atti - Intrinseca natura ed effetti giuridici - Rilevanza - Causa reale dell’atto Riqualificazione - Ammissibilità - Cessione frazionata di beni aziendali - Riqualificazione come cessione di azienda - Applicabilità dell’art. 20, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 - Operazioni poste in essere per conseguire vantaggi fiscali - Divieto di abuso del diritto - Applicabilità nota di Lorenzo Trombella

52

Commissione tributaria provinciale di Varese, sez. III, 6 ottobre 2009, n. 122 Imposta di registro - Cessione con unico atto di più quote di una società di persone - Applicazione di una sola tassa fissa

57

IMPOSTE SUI REDDITI Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. I, 22 dicembre 2009, n. 709 Imposte sui redditi - Detraibilità costi - Operazioni soggettivamente inesistenti - Prova della oggettiva effettuazione operazione Rilevanza Iva - Detrazioni - Fatture - Operazioni soggettivamente inesistenti - Prova di buona fede - Effettiva esistenza delle operazioni Detraibilità dell’Iva di rivalsa nota di Luigi P. Murciano

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IRAP Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 7 gennaio 2009, n. 8 Irap - Esercenti arti e professioni - Medici generici convenzionati Asl- Soggettività passiva - Presupposto - Autonoma organizzazione - Insussistenza

64

IVA Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XLII, 18 aprile 2008, n. 46 Iva - Fallimento - Credito del fallimento non ancora inserito nella dichiarazione annuale e chiesto a rimborso - Cessione - Legittimità - Invalidità nei confronti dell’amministrazione finanziaria - Esclusione

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Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XLII, 18 settembre 2008, n. 144 Iva - Credito del fallimento inserito nella dichiarazione annuale e chiesto a rimborso - Cessione - Invalidità nei confronti dell’amministrazione finanziaria - Esclusione - Opponibilità della cessione nei confronti dell’Amministrazione finanziaria

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Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXXI, 17 febbraio 2009, n. 34 Iva - Credito Iva futuro - Cessione - Validità - Opponibilità all’amministrazione finanziaria subordinata alla presentazione della dichiarazione e alla notifica del negozio di cessione nota di Michele Mauro

68

Commissione tributaria regionale de L’Aquila, sez. IX, 24 aprile 2009, n. 108 Iva - Effettuazione di operazioni nel territorio dello Stato da parte di un non residente - Applicazione del reverse charge - Diritto del non residente al rimborso ex art. 38-ter, D.P.R. 633/1972 - Sussistenza - Norma nazionale non conforme alla sesta direttiva - Disapplicazione

73

Commissione tributaria provinciale di Varese, sez. XI, 14 settembre 2009, n. 51 Iva - Esportatore abituale - Acquisti in sospensione d’imposta oltre i limiti del plafond - Detraibilità dell’imposta accertata dall’ufficio

76

PROCESSO TRIBUTARIO Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 13 febbraio 2009, n. 44 Processo tributario - Ricorso contro fermo amministrativo di veicoli e natanti - Questioni di natura tributaria - Giurisdizione delle Commissioni tributarie - Violazione di disposizioni non tributarie - Contravvenzioni codice della strada - Giurisdizione ordinaria nota di Vito Achilli

78

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. I, 10 settembre 2009, n. 429 Processo tributario - Revocazione - Erroneo convincimento del giudice circa il mancato deposito in giudizio di documentazione relativa alla pendenza di causa pregiudiziale - Errore di fatto - Sussistenza

84

RISCOSSIONE Commissione tributaria provinciale di Massa Carrara, sez. I, 30 luglio 2009, n. 250 Riscossione - Iscrizione ipotecaria - Principio di proporzionalità - Applicabilità - Eccesso di tutela nota di Domenico Ardolino

86

SANZIONI AMMINISTRATIVE Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. I, 19 gennaio 2009, n. 2 Sanzioni amministrative - Mancata emissione dello scontrino fiscale - Modifica dell’art. 12, D.Lgs. n. 471 del 1999 - Favor rei - Applicabilità nota di Andrea Conz

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ATTI E INTERVENTI La residenza fiscale delle società nell’Ires e il fenomeno dell’esterovestizione societaria della Fondazione Centro Studi U.N.G.D.C.

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Le notifiche “dirette” di Maurizio Villani

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Ancora sulla nozione di area edificabile ai fini Ici. Brevi considerazioni di Annalisa Pace

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Indice cronologico delle sentenze

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GLI ATTI IMPOSITIVI VIZIATI PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO* di Lorenzo del Federico 1. Premessa - 2. La matrice comunitaria della riforma della legge n. 241/1990: le ricadute in materia tributaria - 3. Gli atti amministrativi in violazione del diritto comunitario: la tradizionale tesi dualistica e l’emergente tesi monistica, tra disapplicazione e illegittimità - 4. Le specificità degli atti impositivi - 5. La disapplicazione-nullità degli atti: oscillazioni giurisprudenziali e principio di equivalenza - 6. Segue: limiti alla disapplicazione in caso di procedure incompatibili con una direttiva: il problema dei condoni in materia di Iva - 7. Il riesame degli atti impositivi confliggenti con il diritto comunitario - 8. Conclusioni 1. Premessa Il tema del difficile equilibrio tra primato del diritto comunitario, certezza e stabilità dei rapporti giuridici ed imposizione tributaria risulta di grande attualità. La radicale affermazione del primato del diritto comunitario nel sistema della giustizia tributaria ha aperto un cratere vasto e frastagliato, dal quale eruttano costantemente sollecitazioni, principi e soluzioni applicative dirompenti, basti pensare alla problematiche del divieto degli aiuti di stato fiscali e del loro recupero, dell’incompatibilità comunitaria dei condoni in materia di Iva, della matrice comunitaria del divieto di abuso del diritto nella pianificazione fiscale ecc. Dopo la vivace e sofferta stagione del rimborso della cd. “tassa sulle società”, sopitisi gli entusiasmi suscitati dalla Corte di Giustizia con la sentenza Ponente Carni del 19931, la prospettiva di una tutela rafforzata del contribuente comunitario si è involuta, il tema della restituzione dei tributi incompatibili con l’ordinamento comunitario2 è stato metabolizzato e ridimensionato3; nel

* Contributo destinato agli studi in onore del prof. Andrea Parlato. 1 Corte di Giustizia 20 aprile 1993, cause C71/1991 e C-178/1991, in Racc., I, 1915, e in Fisco, 1993, 6014. L’incompatibilità della tassa di concessione governativa per l’iscrizione delle società nel registro delle imprese, cd. “tassa sulle società”, con la direttiva CEE n. 69/335, 17 luglio 1969 (concernente le imposte indirette sulla raccolta dei capitali), è tema ben noto, per un quadro generale v. AA.VV., Atti societari ed imposizione indiretta, a cura di Di Pietro, Padova, 2005. 2 Per il numero delle controversie, per la loro complessiva entità finanziaria, e soprattutto per la rilevanza sistematica delle delicate questioni giuridiche dibattute, si può certamente affermare che l’annosa problematica del rimborso della “tassa sulle società” ha assunto rilievo paradigmatico a proposito di ogni altra vicenda relativa al rimborso di tributi incompatibili con il diritto comunitario, offrendo terreno fertile per l’elaborazione e la puntualizzazione di principi generali di grande interesse. Tuttavia per la rassegna dei vari tributi incompatibili emersi nell’ordinamento italiano negli ultimi anni v. ATTARDI, Il ruolo della Corte europea nel processo tributario, Milano, 2008, 256 ss.

dibattito su diritto comunitario e fiscalità la sfera delle garanzie del contribuente risulta oggi recessiva. Tuttavia parte della dottrina tende a recuperare margini di tutela del contribuente mediante la valorizzazione del principio comunitario di effettività4, mentre per altro verso si aprono interessanti prospettive sul fronte della riforma della legge 7 agosto 1990, n. 241, significativamente modificata dalla novella 11 febbraio 2005, n. 15, e trasformata in una legge generale sull’azione amministrativa. 2. La matrice comunitaria della riforma della legge n. 241/1990: le ricadute in materia tributaria La riforma della legge n. 241/1990 si pone come intervento sintomatico del fenomeno dell’integrazione giuridica europea, basti pensare all’art. 1, comma 1, secondo cui «l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario»5. Spiccano altresì come punti qualificanti della riforma: - la valorizzazione della cd. amministrazione di risultato in luogo della tradizionale concezione formalistica dell’azione amministrativa; - la riaffermazione del principio di legalità; - il riconoscimento della possibilità per le pubbliche amministrazioni («nell’ambito di atti di natura non autoritativa», art. 1., comma 1-bis) di utilizzare gli strumenti di diritto privato, al fine di privilegiare, dovunque possibile, un modello paritario, non gerarchico e non statalista, nei rapporti fra i cittadini e le amministrazioni;

3 AMATUCCI, I vincoli posti dalla giurisprudenza comunitaria nei confronti della disciplina nazionale del rimborso d’imposta, in Riv. Dir. Trib., 2000, I, 291 ss.; DEL FEDERICO, Azioni e termini per il rimborso dei tributi incompatibili con l’ordinamento comunitario, in Giur. Imposte, 2003, 271 ss.; Id., Il rimborso dei tributi incompatibili con la direttiva, in AA.VV., Atti societari ed imposizione indiretta, cit., 229 ss.; DI VIA, La ripetizione dell’indebito, in AA.VV., L’attività ed il contratto, III, Trattato di diritto privato europeo, a cura di Lipari, Padova, 2003, 682 ss.; MONTANARI, Evoluzione del principio di effettività e rimborso dei tributi incompatibili con il diritto comunitario, in Riv. Dir. Pubbl. com., 2009, 89 ss.; DI PIETRO, Tutela del contribuente, primato del diritto comunitario e rimborso tributario, in AA.VV., Attuazione del tributo e diritti del contribuente in Europa, a cura di Tassani, Roma, 2009, 13 ss.; MICELI, Indebito comunitario e sistema tributario interno. Contributo allo studio del rimborso d’imposta secondo il principio di effettività, Milano, 2009. 4 V. per tutti il fondamentale contributo di MICELI, Indebito comunitario e sistema tributario, cit.

5 Sin dalle prime note del dibattito CARTEI, I principi del diritto comunitario, in AA.VV., in AA.VV., Dal procedimento amministrativo all’azione amministrativa. Atti dell’incontro di studio L’azione amministrativa nel progetto di revisione della legge n. 241/1990, a cura di Civitarese Matteucci e Gardini, Bologna, 2004, ha evidenziato acutamente che «la previsione contenuta nella nuova formulazione dell’art. 1 avrà come effetto principale l’estensione dell’applicazione dei principi del diritto comunitario anche a quei settori dell’attività amministrativa non costituenti esecuzione di disciplina comunitaria». In senso analogo: BASSANI-ITALIA, Commento all’art. 1, in AA.VV., L’azione amministrativa. Commento alla L. 7 agosto 1990, n. 241, cit., 74; MASSERA, I principi generali, in AA.VV., Trattato di diritto amministrativo europeo, diretto da CHITI e GRECO, Milano, 1997, 310 ss.; DE BENEDETTO, Il procedimento amministrativo tributario, in Dir. Amm., 2007, I, 127; contra SORACE, Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo, in Dir. Pubbl., 2008, nota 102, il quale tende a circoscrivere il richiamo esclusivamente all’attività di amministrazione indiretta comunitaria svolta dagli apparati italiani.


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- la “codificazione” dei vizi dell’atto amministrativo; - la compressione dell’area delle invalidità, mediante l’individuazione di vizi a carattere meramente formale non invalidanti6. Le ricadute sull’azione impositiva risultano di notevole rilevanza, ed invero va evidenziato che la novella del 2005 non tocca l’art. 13 della legge n. 241/1990, secondo cui le disposizioni contenute nel capo III della legge, «partecipazione al procedimento amministrativo», non si applicano ai procedimenti tributari. Resta quindi confermato che tutti gli altri capi della legge n. 241/1990, ab origine, ed ora così come modificati dalla novella, debbono trovare applicazione, per quanto compatibili, anche in materia tributaria7; addirittura la giurisprudenza opta per un’interpretazione costituzionalmente orientata anche di fronte a norme formulate in modo palesemente restrittivo, come nel caso dell’art. 24, che parrebbe escludere il diritto di accesso8. La novella della legge n. 241/1990 ha codificato i vizi del provvedimento amministrativo, dando corpo al difetto di attribuzioni (o assoluta carenza di potere) ed alla categoria della nullità, affiancata alla tradizionale annullabilità-illegittimità. Nella logica efficientista dell’amministrazione di risultato al depotenziamento dei vizi formali fa da pendant la valorizzazione e la “codificazione” della nullità, intesa in senso stretto. Infatti per le violazioni più gravi si supera la teoria dell’equiparazione dell’at-

6 In tal senso v. la relazione parlamentare del Senatore Bassanini; sulle premesse teoriche della riforma v., su diverse posizioni: GALETTA, Violazione di norme sul procedimento amministrativo e annullabilità del provvedimento, Milano, 2003, 175 ss.; CIVITARESE MATTEUCCI, La forma presa sul serio. Formalismo pratico, azione amministrativa e illegalità utile, Torino, 2006, 132 ss. 7 Dopo la novella del 2005 la questione dell’applicabilità della legge n. 241/1990 è stata centrata sul nuovo regime dei vizi; per l’orientamento favorevole v.: DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Pescara, 2003, 256 ss.; Id., Procedimento amministrativo e procedimento tributario: le prospettive di revisione della legge n. 241/1990, in AA.VV., Dal procedimento amministrativo all’azione amministrativa, cit., 87 ss.; CALIFANO, Le invalidità nel procedimento tributario, ibidem, 115 ss.; Id., La motivazione degli atti tributari. Studi preliminari, Bologna, 2008, 303 ss.; TESAURO, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 2005, 1447 ss.; Id., Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, I, Padova, 2008, 216 ss.; BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi. Considerazioni sul principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. Dir. Fin., 2006, I, 356 ss.; GAFFURI, Lezioni di diritto tributario, Padova, 2006, 58; GUIDARA, Gli accordi nella fase della riscossione, in AA.VV., Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di La Rosa, Milano, 2007, 352 ss., il quale tuttavia non fa riferimento specifico al tema dei vizi; PIANTAVIGNA, Osservazioni sul “procedimento tributario” dopo la riforma della legge sul procedimento amministrativo, in Riv. Dir. Fin., 2007, I, 75 ss.; BUTTUS, Implicazioni tributarie del nuovo regime dei vizi del provvedimento amministrativo, in Dir. e Prat. Trib., 2008, I, 468 ss.; RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, 222 ss. La prevalente dottrina tributaria evita di af-

to illegittimo all’atto legittimo sul piano degli effetti, e si sottrae la tutela dell’amministrato dalla rigida logica del giudizio impugnatorio da incardinare entro il classico tema decadenziale. Si prevede la nullità del provvedimento amministrativo mancante degli elementi essenziali, viziato da difetto assoluto di attribuzione, adottato in violazione o elusione del giudicato, e negli altri casi espressamente previsti dalla legge (art. 21-septies, comma 1). Resta normalmente annullabile il provvedimento adottato in violazione di legge, o viziato da eccesso di potere o da incompetenza (art. 21-octies, comma 1). Viceversa, non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti «qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» (art. 21-octies, comma 2)9. Si tratta di un vero e proprio stravolgimento degli assetti tradizionali – di palese matrice comunitaria10 – che richiede particolare attenzione da parte degli studiosi e grande impegno applicativo da parte della giurisprudenza. In questa sede si intende inquadrare il problema degli atti impositivi viziati per violazione del diritto comunitario, e quindi più in generale degli atti amministrativi analogamente viziati, cui peraltro la legge non fa esplicito riferimento.

frontare il tema; tuttavia contro l’applicabilità del nuovo regime dei vizi v.: MULEO-LUPI, Motivazione degli atti impositivi e (ipotetici) riflessi tributari delle modifiche alla legge n. 241/1990, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 533; MULEO, Il consenso nell’attività di indagine amministrativa, in AA.VV., Autorità e consenso, cit., 101 ss., nota 6; FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 355. 8 Il nuovo art. 24, L. n. 241/1990, con previsione di dubbia legittimità costituzionale, afferma che il diritto di accesso è escluso «nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li riguardano» (art. 24, comma 1, lett. b); v. per tutti la decisa critica di FERLAZZO NATOLI-MARTINES, La L. n. 15/2005 nega l’accesso agli atti del procedimento tributario. In claris non fit interpretatio?, in Rass. Trib., 2005, 1490. Tuttavia, molto opportunamente, la giurisprudenza risolve in via interpretativa i dubbi di legittimità, svalutando la formulazione restrittiva sino a ritenere che il divieto di accesso agli atti possa essere temporalmente limitato alla sola fase in cui il procedimento tributario è in corso (Cons. di Stato, sez. IV, 21 ottobre 2008, n. 5144, in Dialoghi Dir. Trib., 2009, 48, con commenti adesivi di BASILAVECCHIA-DI SIENA-LUPI, I principi generali del diritto amministrativo “salvano” l’accesso agli atti tributari). 9 L’art. 21-octies, comma 2, prevede infine che «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». 10 Si consideri al riguardo che secondo l’art. 230, Trattato CE la Corte di Giustizia, nell’ambito del controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni comunitarie, è competente a pronunciarsi sui ricorsi per incompe-

tenza, «violazione di forme sostanziali», violazione del Trattato o di qualsiasi regola relativa alla sua applicazione, ovvero per sviamento di potere. Al riguardo è interessante ricordare la sentenza 21 marzo 1990, causa C-142/1987, Belgio contra Commissione, in Racc., I, 959, nella quale la Corte di Giustizia ha affermato «perché una violazione dei diritti della difesa comporti un annullamento, deve cionondimeno risultare che, in mancanza di tale irregolarità, la procedura avrebbe potuto portare ad un risultato diverso»; v. altresì Corte di Giustizia 26 febbraio 1987, causa 15/85, Con. Coop. Abruzzo c. Commissione, in Racc., 1030, e le relative conclusioni dell’avv. gen. Mischo, secondo cui «la Corte considera generalmente i vizi procedurali motivo di annullamento di una decisione individuale solo qualora essi abbiano avuto conseguenze dannose per il ricorrente», in quanto «il principio di legalità non esige che ogni decisione inficiata da un vizio procedurale sia obbligatoriamente annullata». Sul tema si rinvia per i necessari approfondimenti a CARANTA, Giustizia amministrativa e diritto comunitario, Napoli, 1992, 140 ss., il quale osserva puntualmente che «sotto questo profilo [...] il giudizio comunitario ha scelto la soluzione del diritto germanico ed anglosassone, avvicinandosi al modello del giudizio sul rapporto, modello che, pare il caso non dimenticarsene, non necessariamente si traduce in un vantaggio per il ricorrente» (op. cit., 142), quantomeno in presenza di interessi oppositivi. Infatti sul rischio delle derive antigarantistiche di tale trend legislativo v. GALETTA, L’art. 21-octies della novellata legge sul procedimento amministrativo nelle prime applicazioni giurisprudenziali: un’interpretazione riduttiva delle garanzie procedimentali contraria alla Costituzione e al diritto comunitario, in Foro Amm., T.A.R., suppl. al 6, 2005, 99 ss.


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3. Gli atti amministrativi in violazione del diritto comunitario: la tradizionale tesi dualistica e l’emergente tesi monistica, tra disapplicazione e illegittimità Sul problema degli atti amministrativi in violazione del diritto comunitario la giurisprudenza e la dottrina si mostrano divise tra un orientamento più ortodosso, che utilizza la normale categoria dell’annullabilità11, ed un orientamento più radicale, tendente ad evitare che le violazioni del diritto comunitario possano risultare sterilizzate dalla legislazione domestica, che quindi utilizza le categorie della nullità, dell’inesistenza giuridica, o ritiene disapplicabile l’atto viziato12. Prima facie la tesi dell’annullabilità trova conforto non solo nella tendenza a ricondurre tutte le ipotesi di invalidità degli atti amministrativi alla annullabilità-illegittimità, ma anche nell’analoga vicenda dell’atto amministrativo emesso sulla base di una norma incostituzionale, rispetto al quale, nonostante talune riserve dogmatiche, in genere si ritiene configurabile, per l’appunto, la normale annullabilità13. Tuttavia il parallelismo Costituzione – confliggente legge ordinaria, da un lato, diritto comunitario – configgente legge ordinaria nazionale, dall’altro, è sembrato sino ad oggi un limite inadeguato ad assicurare il primato del diritto comunitario. Il magmatico problema dei rapporti tra diritto comunitario e legislazione nazionale è stato spesso affrontato dalla Corte costituzionale, ripetutamente costretta a mutare opinione, anche in ra-

11 T.A.R. Lazio, sez. I, 25 agosto 1988, n. 1185, in Foro Amm., 1989, I, 1859; T.A.R. Lombardia, sez. I, 25 novembre 1989, n. 389, in T.A.R., 1990, I, 116; T.A.R. Toscana, sez. II, 20 marzo 1996, n. 156, in T.A.R., 1996, I, 1973; Cons. di Stato, sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35, in Cons. di Stato, 2003, I, 25; Cons. di Stato, sez. IV, 21 febbraio 2005, n. 579, ibidem, 2005, I, 252; Cons. di Stato, sez. IV, 22 novembre 2006, n. 6831; GRECO, Fonti comunitarie e atti amministrativi italiani, in Riv. Dir. Pubbl. com., 1991, 33 ss.; Id., L’incidenza del diritto comunitario sugli atti amministrativi nazionali, in AA.VV., Trattato di diritto amministrativo europeo. Parte generale, cit., II, 933 ss.; FERRARI, Cittadinanza italiana e cittadinanza europea tra disapplicazione a causa di invalidità e non applicazione per il principio di specialità, in Riv. Dir. Pubbl. com., 1991, 1080 ss.; VIPIANA, Gli atti amministrativi: vizi di legittimità e di merito, cause di nullità e irregolarità, Padova, 2003, 448 ss. 12 T.A.R. Veneto, 14 dicembre 1978, n. 1075, in T.A.R., 1979, I, 489; T.A.R. Veneto, sez. I, 10 giugno 1991, n. 432, in Giur. It., 1992, III, 2, 431; T.A.R. Piemonte, sez. II, 8 febbraio 1989, n. 34, in Giur. It., 1989, III, 1, 148, con note di CARANTA, Inesistenza (o nullità) del provvedimento amministrativo adottato in forza di norma nazionale contrastante con il diritto comunitario?; MURRA, Contrasto tra norma nazionale e norma comunitaria: nullità assoluta degli atti amministrativi di applicazione della norma nazionale?, in Dir. proc. ammin., 1990, 281; TORCHIA, Il giudice disapplica e il legislatore reitera: variazioni in tema di rapporti fra diritto comunitario e diritto interno, in Foro It., 1990, III, 203; v. inoltre CHITI, I signori del diritto comunitario: la Corte di Giustizia e lo sviluppo del diritto amministrativo europeo, in Riv. Dir. Pubbl. com., 1991, 826 ss.; Id., Diritto amministrativo europeo, Milano, 2004, 469 ss. Per quanto riguarda la materia tributaria, su posizioni analoghe alle suindicate sentenze

gione dei latenti contrasti con la Corte di Giustizia. La questione risulta di estrema complessità, coinvolgendo delicate problematiche di diritto costituzionale, di diritto comunitario e di diritto internazionale. Si tratta di capire come, e fino a che punto, il primato del diritto comunitario incide negli ordinamenti nazionali. Soprattutto si tratta di capire quali sono i rapporti tra l’ordinamento comunitario e l’ordinamento nazionale, prevalendo per lo più la tesi dualistica della separazione degli ordinamenti14, rispetto alla tesi monistica dell’integrazione15 (riconducibili la prima alla esclusione della subordinazione dell’ordinamento interno a quello comunitario, e la seconda ad una vaga aspirazione federalista). Negli ultimi anni, sulla scia della spinta sostanzialmente monistica della Corte di Giustizia, si rinvengono notevoli aperture, sia nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, sia in alcune norme, ed in primo luogo nel nuovo art. 117, comma 1, Cost., a favore della tesi dell’integrazione, che certamente, prima o poi, finirà con l’affermarsi. Tuttavia, al di là delle tendenze evolutive e delle percezioni personali, in questa sede non si può che prendere atto del persistente prevalere della tesi dualistica della separazione, risultando inopportune ulteriori digressioni, anche in ragione del fatto che per la materia tributaria non emergono peculiarità di sorta16; per cui gli studi tributari debbono basarsi sui risultati raggiunti dalla dottrina e dalla giurisprudenza di naturale e specifica competenza17.

dei giudici amministrativi, v. Comm. Trib. II gr. Milano, 30 marzo 1995, in Foro It., III, 243, con nota di FORTUNATO. 13 Per la valorizzazione del parallelismo v. GRECO, Fonti comunitarie e atti amministrativi italiani, in Riv. Dir. Pubbl. com., 1991, 36 ss. Sul controverso tema degli effetti della pronuncia di incostituzionalità rispetto all’atto amministrativo v.: CERVATI, Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità delle leggi sull’atto amministrativo, in Giur. Cost., 1963, 1212; LA VALLE, La rilevanza nel giudizio amministrativo della incostituzionalità delle leggi, in Giur. It., 1964, III, 1, 66 ss.; ANGELETTI, Osservazioni in tema di mancanza di potere della pubblica amministrazione, conseguente a pronuncia della Corte costituzionale, ed inesistenza di provvedimento amministrativo, in Foro It., 1967, II, 136 ss. 14 MORI, La recente giurisprudenza della Corte costituzionale sui rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, in Riv. Dir. Internaz. Priv. e Proc., 1985, 782 ss.; Id., In tema di efficacia interna dei Trattati comunitari: le leggi contrastanti vanno espressamente abrogate?, in Riv. Dir. Internaz., 1987, 661 ss.; PIZZORUSSO, Sull’applicazione del diritto comunitario da parte del giudice italiano, in Quad. Reg., 1989, 48 ss.; Id., L’attuazione degli obblighi comunitari. Percorsi contenuti ed aspetti problematici di una riforma del quadro normativo, in Foro It., 1999, V, 226 ss. 15 Per i riferimenti alla giurisprudenza comunitaria favorevole alla tesi monista v. BARAV, Court constitutionnelle italienne et droit communautaire: le fantome de Simmenthal, in Rev. Trim. Dr. Europ., 1985, 331 ss.; per la dottrina italiana v. LA LOGGIA, Insufficienza della disapplicazione da parte di un giudice ordinario di una norma italiana configgente con una norma comunitaria, in Riv. Dir. Europ., 1987, 196 ss.; CARETTI, Il principio di sussidiarietà e i suoi riflessi sul piano dell’ordinamento comunita-

rio e dell’ordinamento nazionale, in Quad. Cost., 1993, 29 ss.; SORRENTINO, La Costituzione italiana di fronte al processo di integrazione europea, ibidem, 1993, 81 ss. 16 È stato comunque evidenziato che la tesi dualistica della disapplicazione ha contribuito al lassismo delle Commissioni tributarie, troppo spesso disattente ai profili comunitari della fiscalità (SACCHETTO-FREDIANI, La immediata applicabilità delle direttive comunitarie: prime “disapplicazioni della sentenza” n. 170 della Corte costituzionale da parte delle corti di merito, in Rass. Trib., 1988, II, 111 ss.; SACCHETTO, L’applicabilità delle direttive fiscali CEE nell’ordinamento italiano, in Riv. Dir. Pubbl. com., 1991, 1098 ss.). 17 Fra i tributaristi il tema è stato ampiamente studiato da: SACCHETTO, Il diritto comunitario e l’ordinamento tributario italiano, in Dir. e Prat. Trib. intern., 2001, 13 ss.; CALIFANO, Ordinamento tributario e ordinamento comunitario. Profili costituzionali, Bologna, 2000, 6 ss.; A. AMATUCCI, La normativa comunitaria quale fonte per l’ordinamento tributario interno, in AA.VV., Diritto tributario internazionale, a cura di V. Uckmar, Padova, 2005, 1193 ss.; FERLAZZO NATOLI, Rapporto tra ordinamento comunitario ed interno nel diritto tributario: dalla teoria dualistica alla teoria monistica?, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di Perrone e Berliri, Napoli, 2006, 323 ss.; BIZIOLI, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008; INGRAO, Dalle teorie moniste e dualiste all’integrazione dei valori nei rapporti tra diritto interno e comunitario alla luce del Trattato di Lisbona, in Riv. Dir. Trib., 2010, 230 ss.; per lo più tali autori si mostrano particolarmente sensibili alla tesi dell’integrazione, ma non in virtù di peculiarità della materia tributaria, quanto piuttosto per opzioni dogmatiche di carattere generale.


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Invero la giurisprudenza costituzionale è ancora orientata ad individuare «un punto fermo nella costruzione giurisprudenziale dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno; i due sistemi sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilità e garantita dal Trattato»; in tale contesto le norme comunitarie ricevono diretta applicazione nell’ordinamento nazionale, ma ciò «non comporta la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest’ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie»; in sostanza, pur essendo prevalente, la norma comunitaria non produce effetti estintivi e «non dà luogo ad ipotesi di abrogazione o di deroga, né a forme di caducazione o di annullamento per invalidità della norma interna incompatibile, ma produce un effetto di mera disapplicazione»18. In tale ottica è stato acutamente evidenziato che l’atto amministrativo adottato in esecuzione di una norma di legge confliggente con il diritto comunitario non può essere meramente annullabile, in quanto la norma su cui esso si fonda deve essere disapplicata, ed è quindi improduttiva di effetti; l’atto deve quindi ritenersi nullo, o comunque improduttivo di effetti, così come la norma su cui si è basato19. Al riguardo si è criticamente evidenziato che questa «conclusione è da escludere, almeno tutte le volte in cui – e si tratta dei casi di gran lunga più frequenti – la legge italiana nella parte incompatibile si limiti a prevedere segmenti della fattispecie normativa di disciplina del potere amministrativo, ma non l’intera fattispecie che radica il potere. In tali casi, infatti, trattandosi di norme sul modo di esercizio di detto potere, la loro disapplicazione non può ripercuotersi in termini di carenza di potere – nullità sull’atto amministrativo che ne aveva dato esecuzione, sebbene solo in termini di illegittimità – annullabilità, con tutte le conseguenze che ne derivano»20. Orbene mentre la casistica dei rapporti tra atti amministrativi, diritto nazionale e diritto comunitario risulta quanto mai variegata, e quindi la tesi della disapplicazione-nullità dell’atto amministrativo confliggente con il diritto comunitario può risultare eccessivamente omogeneizzante, e può quindi giustificare critiche di tal fatta21, la situazione risulta alquanto più lineare per quanto attiene gli atti impositivi22.

18 Così Corte cost., 5 giugno 1984, n. 170, in Riv. Dir. Internaz. Priv., 1984, 297; in senso analogo: Corte cost., 19 aprile 1985, n. 113, in Riv. Dir. Internaz. Priv., 1985, 817; Corte cost. 11 luglio 1989, n. 389, in Corr. Giur., 1989, 1058; Corte cost., 26 marzo 1990, n. 144, in Riv. Dir. Pubbl. com., 1991, 515; Corte cost., 14 giugno 2002, n. 238, in Giur. Cost., 2002, 1792; Cass., sez. un., 21 giugno 1996, n. 5731, in Foro It., 1997, I, 540. 19 Si aderisce evidentemente alla nota tesi di: CHITI, I signori del diritto comunitario: la Corte di Giustizia, cit., 824 ss.; Id., Diritto amministrativo europeo, cit., 463 ss.; CARANTA, Inesistenza (o nullità) del provvedimento amministrativo, cit.; Id., Giustizia amministrativa e diritto comunitario, Napoli, 1992, 368 ss.; CARINGELLA, Il riparto in base al criterio della causa petendi, in CARINGELLA-DE NICTOLIS-GAROFOLI-POLI, Il riparto di giurisdizione, Milano, 2008, 82 ss. Caranta, evidenzia poi pragmaticamente, che comunque «la tesi dell’annullabilità del provvedimento adottato in violazione del diritto comunitario, se temperata dalla rilevabilità d’ufficio, parrebbe idonea a conciliare le opposte esigenze di assicurare un più incisivo controllo sul rispetto del diritto comunitario, senza peraltro

4. Le specificità degli atti impositivi Nel diritto tributario strictu sensu il conflitto tra provvedimento impositivo e diritto comunitario può emergere in ipotesi tutto sommato schematiche23: a) il tributo è istituito in violazione del diritto comunitario primario o derivato; il provvedimento impositivo è quindi attuativo di una legge tributaria nazionale che deve essere disapplicata; l’imposizione tributaria non è consentita dall’ordinamento comunitario; il potere impositivo non esiste; il provvedimento è quindi adottato in assoluta carenza di potere; b) il tributo è legittimamente istituito, in conformità del diritto comunitario, ma il provvedimento impositivo risulta viziato per violazione di norme procedimentali e/o di principi del diritto comunitario (quali il principio di proporzionalità, il principio del contraddittorio ecc.); qui l’imposizione è consentita dall’ordinamento comunitario; il potere impositivo esiste, ma è stato male esercitato; il provvedimento è affetto da vizi attinenti al mero uso del potere; c) il tributo è legittimamente istituito, ma in taluni casi si pone in contrasto con il diritto comunitario, ad esempio incidendo in misura maggiore e discriminatoria su un non residente, o su beni provenienti da altri paesi della Comunità ecc.; il potere impositivo di tassare in modo discriminatorio non esiste (non esiste tale porzione del potere impositivo); la norma nazionale confliggente con l’ordinamento comunitario deve essere disapplicata; il provvedimento attuativo della norma nazionale è un provvedimento che fa indebitamente uso di un potere inesistente; d) il tributo è legittimamente istituito, ma la direttiva non risulta adeguatamente attuata dalla legge nazionale per quanto attiene ai profili applicativi del tributo, si tratti di adempimenti procedurali, di obblighi strumentali, dei controlli amministrativi ecc.; l’incompatibilità riguarda quindi profili della direttiva diversi da quelli che delimitano la fattispecie imponibile; l’imposizione è perciò consentita dall’ordinamento comunitario; il legislatore nazionale ha il potere di istituire il tributo, anche se la norma in contrasto con la direttiva deve essere disapplicata; il provvedimento attuativo della norma nazionale è affetto da vizi attinenti al mero uso del potere; e) infine va segnalata un’ipotesi di rilievo procedimentale, analoga a quella sub b, ma tale da richiedere particolari precisazioni in ragione dell’art. 1, comma 1, legge n. 241/1990, che ha comportato l’ingresso dei principi co-

aprire la strada ad impugnazioni che mettano in discussione, dopo molti anni un provvedimento dell’amministrazione, compromettendo intuibili ragioni di certezza giuridica» (Giustizia amministrativa, cit., 369); tale tesi si è affermata nell’ordinamento francese (HAGELSTEEN, Le juge doit-il soulever d’office l’incompatibilité d’un texte avec une directive communautarire, in Rev. Fr. Dr. Adm., 1991, 652). 20 Così GRECO, L’incidenza del diritto comunitario sugli atti amministrativi, cit., 559 (analogamente op. cit., II ed., 940), il quale tende poi a ricondurre tutti i casi alla normale annullabilità. 21 Oltre agli studi già indicati nelle note precedenti v.: COCCO, Una convivenza voluta ma sofferta: il rapporto tra diritto comunitario e diritto interno, in Riv. Dir. Pubbl. com., 1991, 641 ss.; Id., Le Liaisons dangereuses tra norme comunitarie, norme interne e atti amministrativi, ibidem, 1995, 673 ss.; ROSSOLINI, Conflitto tra diritto comunitario e provvedimento amministrativo, in Dir. Com. e Sc. Int., 1991, 19 ss.; CAFAGNO, L’invalidità degli atti amministrativi emessi in forza di legge contraria a direttiva CEE immediatamente applicabile, in Riv. Dir. Pubbl. com., 1992, 539

ss.; GIACCHETTI, Profili problematici della così detta illegittimità comunitaria, in Rass. Giur., 1993, 549 ss.; BARBIERI, Diritto comunitario ed istituti generali del diritto amministrativo nazionale, in Riv. Dir. Pubbl. com., 1994, 3 ss.; Id., Norme comunitarie self executing e decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza, ibidem, 1995, 73 ss. 22 Tuttavia per analoghe critiche (cfr. alle opinioni indicate nelle note precedenti) anche in materia tributaria v. ATTARDI, Il ruolo della Corte europea, cit., 93 ss.; Avviso d’accertamento contrario al diritto comunitario, in Boll. Trib., 2007, 941, il quale opta per la mera illegittimità-annullabilità. 23 Al di là degli schemi di base esemplificati nel testo, per l’inquadramento teorico dei rapporti tra ordinamento comunitario e sistema tributario italiano v.: SACCHETTO, Il diritto comunitario e l’ordinamento tributario italiano, cit.; GALLO, Ordinamento comunitario e principi fondamentali tributari, Napoli, 2006; FERLAZZO NATOLI, Rapporto tra ordinamento comunitario ed interno nel diritto tributario, cit.; BIZIOLI, Il processo di integrazione dei principi tributari, cit.; INGRAO, Dalle teorie moniste e dualiste all’integrazione dei valori, cit.


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munitari nel nostro ordinamento. Ormai la violazione di questi principi (per tale via affluiti nel diritto interno) si configura come violazione del diritto nazionale; più precisamente come violazione del diritto nazionale nell’ambito di quei settori dell’azione amministrativa e dell’azione impositiva non costituenti esecuzione di disciplina comunitaria; mentre si configura come violazione del diritto comunitario per i settori di amministrazione indiretta comunitaria svolta dagli apparati italiani. Si può quindi ritenere che nei casi sub a) e c) il provvedimento impositivo sia insuscettibile di diventare definitivo (rectius inoppugnabile), nonostante il rituale decorso del termine di decadenza per l’impugnazione; il vizio sarebbe rilevabile anche d’ufficio24; il provvedimento resterebbe sempre disapplicabile, da parte del giudice o dell’amministrazione, salva la consolidazione della fattispecie25. 5. La disapplicazione-nullità degli atti: oscillazioni giurisprudenziali e principio di equivalenza Nonostante le comprensibili perplessità manifestate dalla dottrina più sensibile alla stabilità delle classiche categorie giuridiche, alla certezza del diritto ed alla salvaguardia del pubblico interesse, la tesi della disapplicazione-nullità degli atti amministrativi adottati in violazione del diritto comunitario trova conforto nella giurisprudenza comunitaria. Secondo la Corte di Giustizia il diritto comunitario osta all’applicazione di una norma processuale nazionale che vieti al giudice nazionale di valutare d’ufficio la legittimità di un provvedimento amministrativo, ovvero la compatibilità di una norma nazionale, con una norma comunitaria, nel caso in cui quest’ultima non sia stata invocata entro un breve termine di decadenza26. Al riguardo è stato criticamente evidenziato che tali notevoli

24 La giurisprudenza amministrativa sembra sostanzialmente orientata in senso analogo laddove è giunta a chiarire che «la violazione di una disposizione comunitaria implica un vizio di legittimità-annullabilità dell’atto amministrativo interno con essa contrastante, mentre la diversa forma patologica della nullità (o della inesistenza) risulta configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna (attributiva di potere) incompatibile (e, quindi, disapplicabile) con il diritto comunitario. Pertanto, al di fuori del caso da ultimo descritto, la inosservanza di una disposizione comunitaria direttamente applicabile comporta l’annullabilità del provvedimento viziato, nonché sul piano processuale, l’onere della sua impugnazione davanti al giudice amministrativo entro il termine di decadenza, pena la sua inoppugnabilità » (Cons. di Stato n. 579/2005, ma nel pregresso regime dei vizi; v. pure Cons. di Stato n. 35/2003 e Cons. di Stato n. 6831/2006; sembrerebbero quindi superate le più ampie aperture di Cons. di Stato, sez. V, 22 luglio 2002, n. 4012, con nota di GATTO, I poteri del giudice amministrativo rispetto a provvedimenti individuali e concreti contrastanti con il diritto comunitario, in Riv. Dir. Pubbl. com., 2002, 1429). 25 Sino ad oggi la dottrina e la giurisprudenza hanno affrontato il tema dei tributi incompatibili con l’ordinamento comunitario quasi esclusivamente dal punto di vista delle azioni di rimborso, trascurando la problematica degli atti impositivi “comunitariamente” illegittimi; v. però: SACCHETTO-CASERTANO, Tributi, in

aperture erano in realtà spiegabili solo in ragione della specificità del caso, e che comunque «con una più recente sentenza la Corte di Giustizia ha precisato e circoscritto il proprio orientamento, imponendo la disapplicabilità anche d’ufficio dell’atto amministrativo comunitariamente illegittimo, solo se analogo potere sussiste con riferimento alla violazione di norme nazionali»27; in altri termini, la Corte di Giustizia si sarebbe limitata a riaffermare il principio dell’equivalenza (v. infra). Tuttavia il rilievo non è affatto risolutivo, giacché la giurisprudenza comunitaria continua ad oscillare e sembra lontana dal trovare un assetto condiviso con le magistrature superiori degli Stati membri28; inoltre, emerge la più assoluta insoddisfazione sotto il profilo del principio di equivalenza (v. infra). Comunque sia non può che prendersi atto del fatto che la giurisprudenza della nostra Corte di Cassazione si è ormai orientata nel ritenere che il giudice nazionale, in ossequio ai principi del primato e dell’effettività del diritto comunitario, deve verificare la compatibilità del diritto interno con le norme comunitarie, dando a queste ultime applicazione anche d’ufficio; con la conseguenza che nel giudizio di legittimità, il predetto controllo di compatibilità non è condizionato dalla deduzione di uno specifico motivo e le relative questioni possono essere conosciute anche d’ufficio, purché l’applicazione del diritto interno sia ancora controversa, costituendo oggetto del dibattito introdotto con i motivi di ricorso29. Si tratta di argomento che conforta indubbiamente la tesi della disapplicazione-nullità dell’atto amministrativo, ancorché di per se non risolutivo. Invero suscita profonde perplessità la tendenza della giurisprudenza, comunitaria e nazionale, ad assicurare sempre e comunque il radicale primato del diritto comunitario, giungendo a di-

AA.VV., Trattato di diritto amministrativo europeo, cit., Parte speciale II, 1302; SELICATO, I nuovi strumenti di tutela fiscale nell’Unione europea, in Boll. Trib., 2000, 1528, il quale tuttavia qualifica tali atti come meramente illegittimi, pur evidenziando la doverosità dell’annullamento d’ufficio da parte dell’amministrazione finanziaria; F. TESAURO, Giurisdizione tributaria e diritto comunitario, in Corr. Trib., 2007, 465; MICELI, Indebito comunitario e sistema interno, cit., 88 ss., dedica notevole attenzione anche al tema degli atti impositivi “anticomunitari”, optando per la tesi della disapplicazione-inefficacia. 26 Seduta plenaria, Peterbroeck, 14 dicembre 1995, causa C-312/1993 cit., e Seduta plenaria, van Schijndel, 14 dicembre 1995, cause C-430 e C-431/1993, cit., con nota adesiva di CARANTA, Impulso di parte e iniziativa del giudice nell’applicazione del diritto comunitario (in Giur. It., 1996, I, 1, 1289); la prevalente dottrina è tuttavia fortemente avversa a tali aperture, v. ad es. le note critiche di BARBIERI, Poteri del giudice amministrativo e diritto comunitario, in Riv. Dir. Pubbl. com., 1996, 692 ss.; Id., Poteri dei giudici nazionali e situazioni soggettive di diritto comunitario, ibidem, 1997, 144 ss. 27 Così Greco, L’incidenza del diritto comunitario sugli atti amministrativi, cit., 946, in relazione a Corte di Giustizia, Seduta plenaria, Kraaijeveld, 24 ottobre 1996, causa C72/1995, in Racc., 5403, e in Riv. Dir. Pubbl. com., 1997, 130; su tale sentenza v. amplius BARBIERI, Poteri dei giudici nazionali e situazioni soggettive di diritto comunitario, cit. 28 Si pensi alla prudente sentenza Santex resa

dalla Corte di Giustizia nel 2003, in tema di vizi e regime dell’atto amministrativo in contrasto con il diritto comunitario (27 febbraio 2003, causa C-327/2000, in Riv. Dir. Pubbl. com., 2003, 838), poi seguita da alcune radicali sentenze della stessa Corte in tema di riesame di decisione amministrativa definitiva ma in contrasto con una sopravvenuta sentenza comunitaria (7 gennaio 2004, causa C-201/2002, Wells, in Racc., I, 725; 13 gennaio 2004, causa C-453/2000, Kuhne & Heitz, ibidem, 837; 19 settembre 2006, cause riunite C-392/2004 e C-422/2004, Arcor, ibidem, 8559); sulle più recenti evoluzioni v. MASSERA, I principi generali, cit., 393 ss.; SANDULLI, Diritto europeo e processo amministrativo, in Riv. Dir. Pubbl. com., 2008, 37 e MONTEDORO, Il giudizio amministrativo fra annullamento e disapplicazione (ovvero dell’«insostenibile leggerezza» del processo impugnatorio), ibidem, 2008, 519. 29 In tal senso ex multis: Cass., sez. trib., 9 giugno 2000, n. 7909, in Giur. Imposte, 2000, 1348; Cass., 10 dicembre 2002, n. 17564, in Rass. Trib., 2003, 1043; Cass., sez. trib., 28 marzo 2003, n. 4702; Cass., sez. trib., 28 marzo 2003, n. 4703, in Fisco, 2003, 2987; In dottrina v. per tutti: GALLO, L’applicazione d’ufficio del diritto comunitario da parte del giudice nazionale nel processo tributario e nel giudizio di Cassazione, in Rass. Trib., 2003, 311 ss., il quale invoca al riguardo il principio iura novit curia, di cui all’art. 113, c.p.c., chiarendo che l’applicabilità d’ufficio opera sia nel processo tributario di merito, sia nel giudizio di legittimità dinanzi alla Corte di Cassazione (op. cit., 315 ss.).


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sapplicare non solo le singole norme nazionali specificamente in contrasto con il diritto comunitario (norme confliggenti), e se del caso i provvedimenti amministrativi emessi in attuazione di tali norme, ma anche tutte le norme procedurali la cui normale operatività risulti in concreto tale da precludere la riaffermazione del diritto comunitario violato (norme strumentali)30. Tale diffusa tendenza è priva di base normativa, risulta distonica rispetto all’equilibrio tra salvaguardia dei valori costituzionali e salvaguardia dei valori comunitari, ma sopratutto si pone in contrasto con il principio di autonomia procedurale degli Stati membri nell’attuazione del diritto comunitario e nella tutela delle situazioni soggettive, affermato dagli artt. 5, 7 e 10 Trattato CE. È vero che per assicurare l’effettiva attuazione del diritto comunitario la Corte di Giustizia ha elaborato quali limiti dell’autonomia dei singoli Stati31 il principio di equivalenza (la tutela delle situazioni soggettive comunitarie non può essere disciplinata in modo sfavorevole rispetto alle equivalenti tutele di diritto interno)32, ed il principio di effettività in senso stretto (la disciplina interna non può rendere praticamente impossibile la tutela)33. Ma per l’appunto tali principi possono giustificare la disapplicazione delle norme procedurali (norme strumentali) soltanto laddove esse rendano praticamente impossibile la tutela o siano proprio finalizzate a precludere, differenziare e penalizzare le situazioni soggettive di rilievo comunitario.

30 L’esempio più clamoroso riguarda la disapplicazione delle norme nazionali sul giudicato, salvo il caso ben diverso, giustificabile in base al principio di equivalenza, del riesame dell’atto impositivo nonostante il giudicato (v. infra, paragrafo 5). Per la disapplicazione del giudicato si fa riferimento alla sentenza Lucchini resa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia, 18 luglio 2007, causa C-119/2005, in Riv. Dir. Trib., 2008, 149, con nota di NUCERA, La tenuta del giudicato nazionale al banco di prova del contrasto con l’ordinamento comunitario, 161; v. altresì: CONSOLO, La sentenza Lucchini della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, in Riv. Dir. Proc., 2007, 225; BIAVATI, La sentenza Lucchini: il giudicato nazionale cede al diritto comunitario, in Rass. Trib., 2007, 1591; PETRILLO, Il caso Lucchini: il giudicato nazionale cede al diritto comunitario, in Dir. e Prat. Trib., 2008, 425. Successivamente la Corte di Giustizia nella sentenza Olimpiclub, 3 settembre 2009, causa C-2/2008 (in Rass. Trib., 2009, 1839), ancora in relazione all’ordinamento italiano: ha ribadito l’importanza fondamentale del principio del giudicato sia nell’ordinamento comunitario, sia negli ordinamenti degli Stati membri (punto 22); ha chiarito che la sentenza Lucchini non comporta affatto il superamento del principio del giudicato, giacché «tale sentenza riguardava una situazione del tutto particolare in cui erano in questione principi che disciplinano la ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e la Comunità in materia di aiuti di Stato, posto che la Commissione delle Comunità europee dispone di una competenza esclusiva per esaminare la compatibilità di una misura nazionale di aiuti di Stato con il mercato comune» (punto 25); ma poi è giunta ad affermare – sotto il profilo del primato del diritto comunitario e dell’effettività – l’incompatibilità del giudicato esterno che, a norma dell’art. 2909, c.c., venga invocato come circostanza preclusiva

Pertanto in base al principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri tutti gli interventi ripristinatori della legalità comunitaria, aventi ad oggetto rapporti patrimoniali, fiscali o extrafiscali, fra Stati e cittadini, amministrati, contribuenti ecc., debbono essere attuati nei modi e termini previsti da ciascun ordinamento nazionale per le normali azioni equivalenti. E ciò indifferentemente, sia per le azioni di rimborso dei tributi, o degli altri prelievi pubblici, riscossi in violazione del diritto comunitario, sia per il recupero degli aiuti di Stato indebitamente fruiti, sia per l’impugnativa ed il sindacato degli atti e provvedimenti amministrativi o impositivi. Laddove la tutela delle situazioni soggettive interne lese da leggi e provvedimenti attuativi in contrato con le norme costituzionali si risolva sul piano della illegittimità, collocare la tutela delle situazioni soggettive di rilievo comunitario sul piano della disapplicazione configura una disparità di trattamento intollerabile rispetto all’equilibrio tra valori costituzionali e valori comunitari, e ciò soprattutto nel caso in cui la disapplicazione sia spinta sino ad inibire le ordinarie e comuni norme procedurali. 6. Segue: limiti alla disapplicazione in caso di procedure incompatibili con una direttiva: il problema dei condoni in materia di Iva È noto il clamore suscitato dalla Corte di Giustizia nel 2008 – con sentenza ex art. 226 Trattato CE, a seguito di procedura di

dell’accertamento «laddove la decisione giurisdizionale divenuta definitiva sia fondata su un’interpretazione delle norme comunitarie relative a pratiche abusive in materia di Iva in contrasto con il diritto comunitario», in quanto «la non corretta applicazione di tali regole si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia possibile correggere tale erronea interpretazione» (punto 30). Orbene mentre le perplessità suscitate dalla sentenza Lucchini potrebbero essere superate recuperando le assonanze con il ben noto istituto della revocazione delle sentenze ex art. 395 c.p.c. (alla cui logica sembra nella sostanza riconducibile la radicale soluzione cui è giunta la grande sezione della Corte di Giustizia), preoccupa l’ulteriore colpo inferto al principio del giudicato dalla sentenza Olimpiclub (sulla questione v. MICELI, Riflessioni sull’efficacia del giudicato tributario alla luce della recente sentenza Olimpiclub, in Rass. Trib., 2009, 1839). 31 Corte di Giustizia, Rewe, 16 dicembre 1976, causa 33/1976, in Foro It., 1977, IV, 192; Denkavit italiana, 27 marzo 1980, causa 69/1979, punti 25-28, e Meridionale industria salumi, 27 marzo 1980, case riunite 66/1979, 127/1979 e 128/1979, punti 18-21, entrambe in Rass. Avv. Stato, 1980, I, 534; Deutsche Milchkontor GmbH, 21 settembre 1983, cause C-205/1982 e C-2015/1982, in Foro It., 984, IV, 298; San Giorgio, 9 novembre 1983, causa 199/1982, ibidem, 1984, IV, 298; Edis, 15 settembre 1998, causa C231/1996, punti 19, 34-39, in Rass. Trib., 1998, II, 1063; Marks & Spencer, 11 luglio 2002, causa C62/2000, punto 34, in Dir. e Prat. Trib. intern., 2003, 308. In argomento v.: TIZZANO, La tutela dei privati nei confronti degli Stati membri dell’Unione europea, in Foro It., 1995, IV, 24 ss.; VAN GERVEN, Bridging the Gap between Community and Nationl Laws: Towards a Principle of Homogeneity in the Field of Legal Remedies?, in Comm. Market rev., 1995, 679 ss.; CANOR, Harmonizing the european Community’s Standard of Judicial Review?, 2001, 135 ss.;

RODRIGUEZ IGLESIAS, Sui limiti dell’autonomia procedimentale e processuale degli Stati membri nell’applicazione del diritto comunitario, in Riv. Dir. Pubbl. com., 2001, 5 ss.; GIRERD, Les principes d’équivalence et d’effectivité: encadrement ou désencadrement de l’autonomie procédurele des Etats membres?, in Riv. Trim. Dr., 2002, 75 ss.; MICELI, Indebito comunitario e sistema tributario, cit., 34 ss. 32 Corte di Giustizia, Barra, 2 febbraio 1988, causa 309/1987, in Foro It., 1988, IV, 422; Deville, 29 giugno 1988, causa 240/1987, in Dir. e Prat. Trib., 1990, II, 987; Ansaldo, 15 settembre 1998, cause C-279/1996, C280/1996 e C-281/1996 punto 29, in Guida Dir., 1998, 38, 15 ss.; Edis, 15 settembre 1998, causa C-231/1996, cit., punto 36; Dilexport, 9 febbraio 1999, causa C-343/1996, punto 27, in Racc., I, 579. Si ritiene che il principio di equivalenza sia riconducibile al più generale principio di non discriminazione: ADINOLFI, La tutela giurisdizionale nazionale delle situazioni soggettive nazionali conferite dal diritto comunitario, in Il diritto dell’Unione europea, 2001, 45; DANIELE, Forme e conseguenze dell’impatto del diritto comunitario sul diritto processuale interno, ibidem, 77. 33 Corte di Giustizia, 17 novembre 1998, causa C228/1996, Aprile II, in Racc., I, 7141, punto 18; Dilexport, 9 febbraio 1999, causa C-343/1996, cit., punti 25 e 41-42; 8 marzo 2001, cause riunite C-397/1998 e C-410/1998, Metallgesellschaft, in Racc., I, 1727, punto 85; Marks & Spencer, 11 luglio 2002, causa C-62/2000, cit., punti 34-38; 24 settembre 2002, causa C255/2000, G.I., in Fisco, 2002, 7563, punti 3537. Si parla frequentemente di principio di effettività in senso stretto, a fronte del più generale principio di effettività ex art. 10 Trattato CE, v. ad es.: PICOZZA, Giustizia amministrativa e diritto comunitario, in Enc. Giur., 6; MICELI, Indebito comunitario e sistema tributario, cit., 47 ss.


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infrazione-inadempimento34 – allorché è stato dichiarato incompatibile con l’ordinamento comunitario il condono in materia di Iva ex legge 27 dicembre 2002, n. 289, per contrasto con la VI direttiva CEE del 17 maggio 1977, n. 38835. A fonte di taluni orientamenti svalutativi inizialmente espressi da parte della dottrina e dalla prassi amministrativa, la giurisprudenza ha assunto posizioni rigorose36. In una prima fase la Corte di Cassazione ha valorizzato al massimo gli obblighi conformativi e gli effetti normativi della sentenza della Corte di Giustizia, tendendo alla radicale disapplicazione di tutte le norme nazionali (e di tutti i relativi procedimenti e provvedimenti attuativi) ritenute tali da impedire la piena applicazione del diritto comunitario37; successivamente le sezioni unite hanno optato per una linea interpretativa più prudente38, chiarendo che la sentenza della Corte di Giustizia non comporta l’obbligo del giudice nazionale di disapplicare tutte le disposizioni della legge 27 dicembre 2002, n. 289, relative ai variegati condoni Iva, né tantomeno l’obbligo di disapplicare le norme procedurali e processuali, ed i relativi provvedimenti attuativi, in quanto tale sentenza deve essere interpretata restrittivamente, giacché resa nell’ambito di una procedura di infrazione-inadempimento che prelude l’applicazione di una sanzione39. Si condivide la prudenza rispetto agli eccessi della vis disapplicativa delle norme interne procedurali, ma in ragione della natura di direttiva della normativa comunitaria violata (v. infra) e sulla base di altre varie argomentazioni (sulle quali v. retro, paragrafo 4); viceversa suscita perplessità la vaga tesi dell’interpretazione restrittiva delle sentenze ex art. 226 Trattato CE. Invero anche prima della fase di condanna ex art. 228 Trattato CE la sentenza di accertamento produce effetti conformativi ed effetti normativi; lo Stato è tenuto a porre in essere tutti i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza di inadempimento comporta40, ma è libero nella scelta dei mezzi da utilizzare per conformarsi alla sentenza, fermo l’obbligo di risultato41. Talvolta la Corte formula espliciti “suggerimenti” circa le misure da

34 Sono emerse incertezze sugli effetti delle sentenze ex art. 226 Trattato CE, in quanto nella prima fase la Corte si limita ad accertare l’inadempimento, risultando opinabili gli effetti normativi di una pronuncia del genere rispetto agli effetti normativi classici delle pronunce rese in via pregiudiziale interpretativa, e sopratutto scarsamente definiti i meccanismi di raccordo tra obbligo di conformazione, impossibilità di attuazione coattiva, responsabilità sanzionatoria e permanenza dell’obbligo conformativo. Sul tema v.: FUMAGALLI, Procedimento di infrazione, in esecuzione di sentenza e coercizione: prima applicazione dell’art. 228, paragrafo 2 del Trattato CE, in Il diritto dell’Unione europea, 2000, 787; BIAVATI, Diritto processuale dell’Unione europea, Milano, III, 2005, 58 ss.; COLCELLI, Il sistema di conformazione delle istituzioni europee alle sentenze del tribunale di primo grado e della Corte di Giustizia. Una ricognizione, in Riv. Dir. Pubbl. com., 2008, 149; CONDINANZI-MASTROIANNI, Il contenzioso nell’Unione europea, Torino, 2009, 75 ss. 35 Corte di Giustizia, grande sezione, 17 luglio 2008, Commissione c. Rep. Italiana, causa C-132/2006, in Riv. Dir. Trib., 2008, II, 334, con nota di FALSITTA, I condoni fiscali Iva come provvedimenti di natura agevolativa violatori di neutralità del tributo; v. altresì MICE-

adottare per ovviare all’inadempimento42, ma prevale nettamente l’orientamento restrittivo, secondo cui non essa non può ingiungere allo Stato di adottare determinati e specifici provvedimenti43. Quanto agli effetti normativi una delle funzioni della procedura per inadempimento è quella di determinare la portata esatta degli obblighi comunitari degli Stati in caso di interpretazioni divergenti. L’interpretazione resa in giudizio è quindi opponibile erga omnes ed ha l’effetto di consentire al giudice nazionale di ultima istanza, in deroga all’art. 234, comma 3, Trattato CE di non procedere ad un rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia44. Pertanto la sentenza ex art. 226 Trattato CE. ha generalmente efficacia retroattiva. La Corte ammette la possibilità di limitare nel tempo gli effetti della pronuncia esclusivamente in casi eccezionali, così come avviene talvolta per le sentenze di annullamento o per quelle su questioni pregiudiziali interpretative. Pertanto non sussistono margini per una interpretazione restrittiva delle sentenze rese ex art. 226 Trattato CE, rispetto a quelle rese ex art. 234 Trattato CE: in entrambi i casi i giudici nazionali sono tenuti a salvaguardare la corretta attuazione del diritto comunitario; a seguito della sentenza ex art. 226 Trattato CE i giudici nazionali sono tenuti a disapplicare le disposizioni dichiarate in contrasto con il diritto comunitario45. È stato altresì chiarito che la sentenza di accertamento dell’infrazione può valere come fondamento della responsabilità ascrivibile allo Stato membro nei confronti dei privati, allorché si tratti di violazione di norme comunitarie, anche non direttamente applicabili, volte ad attribuire diritti46. Ma sotto altro profilo si condivide la prudenza rispetto agli eccessi della vis disapplicativa, e segnatamente in ragione della natura di direttiva della normativa comunitaria violata. Invero in molteplici occasioni la Corte di Giustizia ha ritenuto che nel caso di omessa, tardiva o inadeguata attuazione di una direttiva comunitaria da parte dello Stato, gli effetti della direttiva possono prodursi soltanto in senso favorevole ai soggetti lesi dal comportamento dello Stato, cd. effetti in bonam partem47.

LI, I condoni fiscali “impuri” in materia di Iva e il principio comunitario di effettività: l’evidente contrasto e le incerte conseguenze, in Dir. e Prat. Trib. intern., 2008, 1293; MARELLO, La Corte di Giustizia censura il condono Iva: le ricadute di un’importante decisione, in Giur. It., 2009, I, 241. 36 Per un quadro generale v. Falsitta, I condoni fiscali Iva come provvedimenti di natura agevolativa, cit., MICELI, I condoni fiscali “impuri” in materia di Iva, cit., e MARELLO, La Corte di Giustizia censura il condono Iva, cit., i quali anticipano talune delle implicazioni rigoristiche poi sviluppate dalla giurisprudenza. 37 Cass., sez. trib., 18 settembre 2009, n. 20068 e n. 20069; va evidenziato che tali sentenze hanno fatto riferimento alle norme sul condono Iva di cui alla legge 31 dicembre 1991, n. 413, e non a quelle di cui alla legge 27 dicembre 2002, n. 289, sulle quali si è pronunciata la Corte di Giustizia. 38 Sulle questioni poste dalle ordinanze di rimessione alle sezioni unite, vedi – in ottica prudente e problematica – BASILAVECCHIA, Condono e processo: la parola alle sezioni unite, in Corr. Trib., 2010, 423. 39 Cass., sez. un., 17 febbraio 2010, n. 3673 e n. 3676, le quali hanno fatto salvo il condono sulle liti pendenti in materia di Iva (art. 16, L. n. 289/2002), la stabilità delle norme procedurali e processuali e dei relativi provvedi-

menti attuativi. 40Corte di Giustizia, 18 novembre 2004, causa C-126/2003, Commissione c. Germania, in Racc., 2004, I, 1169. 41 V. per tutte Corte di Giustizia, 16 dicembre 1960, causa 6/1960, Humblet c. Belgio, in Racc., 1125. 42 V. ad es. Corte di Giustizia, 6 maggio 1980, causa 102/1979, Commissione c. Belgio, in Racc., 1473. 43 Corte di Giustizia, 14 aprile 2005, causa C104/2002, Commissione c. Germania, in Racc., I, 2689, punti 49 e 50. 44Corte di Giustizia, 6 dicembre 1982, causa 283/1981, Cilfit c. Italia, in Racc., 3415. 45Corte di Giustizia, 19 gennaio 1993, causa C101/1991, Commissione c. Italia, in Racc., 191. 46Per la giurisprudenza della Corte di Giustizia v.: 7 febbraio 1973, causa 39/1972, Commissione c. Italia, in Racc., 101; 20 febbraio 1986, causa 309/1984, Commissione c. Italia, ibidem, 599; 17 giugno 1987, causa 154/1985, Commissione c. Italia, ibidem, 2717; 24 marzo 1988, causa 240/1986, Commissione c. Grecia, ibidem, 1835; 18 gennaio 1990, causa C-287/1987, Commissione c. Grecia, ibidem, I, 125; 19 marzo 1991, causa C-249/1988, Commissione c. Grecia, ibidem, I, 1275). 47 Corte di Giustizia: 5 aprile 1979, causa 148/1978, Ratti, in Racc,. 1979, 1629; 26 febbraio 1986, causa 152/1984, Marshall, ibidem,


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La Corte giustifica la limitazione ai soli effetti in bonam partem in chiave di responsabilizzazione dello Stato alla tempestiva e corretta applicazione del diritto comunitario, e di non imputabilità della violazione ai cittadini che hanno agito in modo conforme al diritto interno; per l’inquadramento generale di tale orientamento48. Questa concezione limitativa risulta assolutamente condivisibile49, e rafforza – anche in ottica comunitaria – la reazione avverso gli eccessi della vis disapplicativa. 7. Il riesame degli atti impositivi configgenti con il diritto comunitario Infine merita particolare attenzione la tesi che riconosce il diritto del singolo al riesame di una decisione amministrativa definitiva ma in contrasto con una sopravvenuta sentenza della Corte di Giustizia, ancorché in merito si sia formato un giudicato50. In particolare con la sentenza Kuhne & Heitz del 2004, la Corte di Giustizia ha evidenziato che: - l’interpretazione di una norma di diritto comunitario resa ex art. 234 Trattato CE chiarisce e precisa il significato e la portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto essere, intesa e applicata dalla sua entrata in vigore; - ne consegue che una norma di diritto comunitario così interpretata deve essere applicata dall’amministrazione nazionale anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima del momento in cui è sopravvenuta la sentenza in cui la Corte si pronuncia sull’ interpretazione; - «la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario. Il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza e da ciò deriva che il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo» (punto 25); - «tuttavia il giudice del rinvio ha precisato che, in diritto olandese, un organo amministrativo ha sempre il potere di ritornare su una decisione amministrativa definitiva, purché non siano lesi gli interessi di terzi, e che, secondo le circostanze, l’esistenza di siffatto potere può implicare l’obbligo di revocare una simile decisione, anche se tale diritto non esige che l’organo competente ritorni sistematicamente su decisioni amministrative definitive per conformarsi ad una giurisprudenza successiva [...]. La questione di tale giudice è diretta a stabilire se, in circostanze analoghe a quelle della causa principale, un obbligo di ritornare su una decisione amministrativa definitiva derivi dal diritto comu-

1986, 72;14 luglio 1994, causa C-91/1992, Faccini Dori, ibidem, I, 3325; 5 ottobre 2004, cause riunite C-397/2001 e C-403/2001, causa Pfeiffer, ibidem, 2004, I, 8835. 48 G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2008, 171 ss.; DANIELE, Diritto dell’Unione europea, Milano, 2007, 185 ss.; per analoghi spunti in materia tributaria v: GIORGI, Disapplicazione, in malam partem, del diritto interno a favore di quello comunitario e tutela dell’affidamento del contribuente, in Dialoghi Dir. Trib., 2004, 797; PERRONE, L’armonizzazione dell’Iva: il ruolo della Corte di Giustizia, gli effetti verticali delle direttive e l’affidamento del contribuente, in Rass. Trib., 2006, 423. 49 V. per tutti le acute e condivisibili considerazioni di MICELI, nel saggio in corso di pubblicazione sulla Rivista di diritto tributario. 50 Corte di Giustizia: 7 gennaio 2004, causa C201/2002, Wells, in Racc., I, 725; 13 gennaio

nitario» (punto 25); - «[...] tali circostanze sono le seguenti. In primo luogo, il diritto nazionale riconosce all’organo amministrativo la possibilità di ritornare sulla decisione in discussione nella causa principale, divenuta definitiva. In secondo luogo, tale decisione ha acquisito il suo carattere definitivo solo in seguito alla sentenza di un giudice nazionale le cui decisioni non sono suscettibili di un ricorso giurisdizionale. In terzo luogo, tale sentenza era fondata su un’interpretazione del diritto comunitario che, alla luce di una sentenza successiva della Corte, si rivelava errata ed era stata adottata senza che la Corte stessa fosse adita in via pregiudiziale[...] In quarto luogo, l’interessata si è rivolta all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stata informata di tale sentenza della Corte» (punto 26). Su tali basi la Corte di Giustizia ha ritenuto che il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 Trattato CE impone all’amministrazione nazionale di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione successivamente sancita dalla Corte qualora: a) disponga secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; b) la decisione sia divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; c) tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario, adottata senza che la Corte fosse adita in via pregiudiziale; d) l’interessato si sia rivolto all’amministrazione immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza. Si ritiene che tale orientamento, e specificamente la doverosità del riesame nel caso di atti amministrativi definitivi ma in contrasto con il diritto comunitario, debba trovare applicazione anche nell’ordinamento italiano, sia nel diritto amministrativo generale51, sia, ed a maggior ragione, nel diritto tributario52. Infatti nel diritto amministrativo il potere di riesame non è positivizzato (salvo qualche cenno nella novellata legge n. 241/1990), mentre nel diritto tributario è proprio la disciplina specifica ad offrire variegati spunti favorevoli alla doverosità dell’esercizio del potere. In materia tributaria il quadro normativo del potere di riesame si rinviene nell’art 68, D.P.R. 27 marzo 1992, n 287, nell’art 2-quater, della legge 30 novembre 1994, n. 656, e nel D.M. 11 febbraio 1997, n. 37. Il tema denota notevole interesse e risulta ampiamente dibattuto, sia per l’apposito assetto normativo, sia per le peculiarità della funzione impositiva, essenzialmente vincolata ed ancorata al principio sostanziale della capacità contributiva ex art. 53 Cost.53, ma in questa sede è sufficiente evidenziare i profili di rilievo ai fini della problematica comunitaria in esame.

2004, causa C-453/2000, Kuhne & Heitz, ibidem, 837; 19 settembre 2006, cause riunite C-392/2004 e C-422/2004, Arcor, ibidem, 8559; 12 febbraio 2008, C-2/2006, causa Kempter, in Racc., I, 411. 51 GALETTA, Autotutela decisoria e diritto comunitario, in Riv. Dir. Pubbl. com., 2005, 35 ss.; CARINGELLA, Affidamento e autotutela: la strana coppia, ibidem, 2008, 425 ss.; tuttavia esprimono profonde perplessità: MARI, La forza del giudicato delle decisioni dei giudici di ultima istanza nella giurisprudenza comunitaria, ibidem, 2004, 1107 ss.; GRUNER, L’annullamento d’ufficio in bilico tra i principi di preminenza e di effettività del diritto comunitario, da un lato, ed i principi di certezza del diritto e dell’autonomia procedurale degli Stati membri, dall’altro, in Dir. proc. ammin., 2007, 240 ss. 52 D’AYALA VALVA, L’attivazione delle “procedure”

di autotutela tributaria, in Riv. Dir. Trib., 2004, 147; ATTARDI, Il ruolo della Corte europea, cit., 99 ss.; ROSSI, Il riesame degli atti di accertamento, Milano, 2008, 232 ss.; F. TESAURO, Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente, in questa rivista, 2008, 23 ss.; TASSANI, Il riesame degli atti impositivi incompatibili con il diritto comunitario, in AA.VV., Attuazione del tributo, cit., 21 ss.; MICELI, Indebito comunitario e sistema tributario, cit., 206; INGRAO, Dalle teorie moniste e dualiste all’integrazione dei valori, cit., 230 ss. 53 Limitatamente agli studi monografici v.: MUSCARÀ, Riesame e rinnovazione degli atti nel diritto tributario, Milano, 1992; STEVANATO, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria. L’annullamento d’ufficio a favore del contribuente, Padova, 1996; FICARI, Autotutela e riesame nell’accertamento tributario, Milano, 1999; ROSSI, Il riesame degli atti, cit.


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Vi è una certa concordia di opinioni nel ritenere che la presentazione dell’istanza da parte del contribuente faccia sorgere in capo all’amministrazione finanziaria l’obbligo di valutarne la fondatezza e di procedere al controllo del proprio operato mediante l’attivazione del procedimento, nonché l’obbligo di rispondere espressamente e motivatamente (doverosità del riesame), mentre nel merito, per quanto riguarda l’annullamento d’ufficio, non sono configurabili profili di doverosità (ma quest’ultimo aspetto è controverso)54. Tuttavia sussistono anche ipotesi eccezionali di doverosità dell’annullamento d’ufficio, si pensi: all’esigenza, talvolta positivizzata, di conformare l’operato dell’amministrazione finanziaria ad accertamenti di fatto perfezionatisi in sedi giurisdizionali extratributarie (oltre al vecchio art. 12, comma 2, L. 7 agosto 1982, n. 516, ormai abrogato, v. il vecchissimo, ma tutt’ora vigente, art. 4, comma 2, all. E, L. 22 marzo 1865, n. 2248)55; alla valorizzazione del giudicato tributario, da cui consegue che anche in presenza di atti di accertamento definitivi sia doveroso il recepimento del giudicato di accoglimento in tema di tributi periodici (qualora vi sia identità del fatto e non emergano variazioni quantitative o qualitative); alla presenza di talune ipotesi di vera e propria nullità degli atti impositivi, da cui scaturisce la doverosità dell’annullamento d’ufficio – o comunque della rimozione – dell’atto impositivo conseguenziale e quindi viziato. Per quanto riguarda il profilo comunitario qui in esame, in ragione del principio di equivalenza assumono particolare rilievo l’art. 68, D.P.R. n. 287/1992 e il D.M. n. 37/1997, i quali escludono che l’annullamento d’ufficio possa avere luogo in presenza di un giudicato pregresso. L’art. 2, D.M. n. 37/1997, precisa che l’atto non è annullabile per i motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione finanziaria. Tuttavia il riferimento al giudicato non può essere indiscriminato, occorrendo distinguere fra giudicato formale e giudicato sostanziale e riferendosi soltanto a quest’ultimo l’effetto preclusivo; del resto poiché il potere di riesame esprime una funzione di amministrazione attiva il suo esercizio potrà essere limitato solo da un giudicato che attenga al profilo sostanziale e di merito della controversia56. Pertanto, entro tali limiti – ed in stretto ossequio al principio di equivalenza57 – anche nell’ordinamento italiano deve essere riconosciuto il diritto del contribuente al riesame di una decisione amministrativa definitiva ma in contrasto con una sopravvenuta sentenza della Corte di Giustizia, ancorché in merito si sia formato un giudicato.

54 La dottrina che più ha studiato il tema dell’annullamento d’ufficio propende per la connotazione doverosa, mentre la giurisprudenza è pressoché consolidata per la connotazione discrezionale (per la completa ricostruzione delle posizioni di dottrina e giurisprudenza v. da ultimo ROSSI, Il riesame degli atti, cit., 207 ss. che in sintonia con il prevalente orientamento dogmatico valorizza il parallelismo tra vincolatezza della funzione impositiva e vincolatezza del potere di annullamento d’ufficio). 55 Che l’amministrazione finanziaria debba ottemperare al giudicato penale è affermato con nettezza dalla Corte costituzionale nella sentenza 23 novembre 1992, n. 120 (in Foro It., 1993, I, 1060) e nella sentenza 23 luglio 1997, n. 264, in Riv. Dir. Trib., 1998, 101, con nota di FICARI, Art. 12, comma 1, L. n. 516/1982 e potere di autotutela negativa dell’amministrazione finanziaria; sul punto v. F. TESAURO, Riesame degli atti impositivi,

8. Conclusioni In via di estrema sintesi si può concludere ribadendo che la tesi della disapplicazione-nullità degli atti amministrativi, e degli atti impositivi, in violazione del diritto comunitario trova decisivo conforto nella giurisprudenza comunitaria ed in quella nazionale. Invero secondo la Corte di Giustizia il diritto comunitario osta all’applicazione di una norma processuale nazionale che vieti al giudice nazionale di valutare d’ufficio la legittimità di un provvedimento amministrativo, ovvero la compatibilità di una norma nazionale, con una norma comunitaria, nel caso in cui quest’ultima non sia stata invocata entro un breve termine di decadenza. Emergono certamente taluni profili di garanzia in favore dei contribuenti, tuttavia deve essere contrastata la tendenza giurisprudenziale ad assicurare il radicale primato del diritto comunitario, giungendo a disapplicare non solo le singole norme nazionali specificamente incompatibili (norme confliggenti), e se del caso i provvedimenti amministrativi emessi in attuazione di tali norme, ma anche tutte le norme procedurali la cui naturale operatività risulti in concreto tale da precludere l’applicazione del diritto comunitario (norme strumentali). Per tale via la giurisprudenza -in tutta l’area della fiscalità di rilievo comunitario, e talvolta oltre- si sta spingendo sino a disapplicare le norme nazionali sul giudicato, sulla definitività degli atti amministrativi, sulle preclusioni processuali nella delimitazione del thema decidendum, sulle preclusioni da condono, sul decorso dei termini decadenziali ecc. Si è avuto modo di chiarire che tale orientamento è privo di base normativa e si pone in contrasto con il principio di autonomia procedurale degli Stati membri (artt. 5, 7 e 10 Trattato CE). Inoltre per quanto riguarda i casi di violazione di una direttiva da parte dello Stato, gli effetti scaturenti dalla direttiva possono operare soltanto in senso favorevole ai contribuenti lesi dal comportamento dello Stato, cd. effetti in bonam partem. Sul piano generale la suggestiva vis disapplicativa delle norme strumentali è ammissibile soltanto laddove risulti conforme al fondamentale principio comunitario di equivalenza. È probabile che nel sistema della giustizia tributaria la vis disapplicativa possa spingere verso il giudizio sul rapporto, indebolendo la preclusività dell’atto e ridando vigore – anche in ottica meramente interna -alla teoria della carenza dello ius impositionis58, che ha già avuto un certo seguito nelle controversie tributarie (in passato) devolute all’a.g.o.59. Comunque sia, a prescindere da ipotetiche prospettive, un punto fermo è certamente costituito dal nuovo regime dei vizi del

cit., 22 ss.; ROSSI, Il riesame degli atti, cit., 160 ss. 56 Su questi profili v. anche FRANSONI, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2001, 214 ss., 269 ss. 57 Si dissente quindi dall’opinione di TASSANI, Il riesame degli atti impositivi incompatibili, cit., 35, secondo cui «le affermazioni della Corte di Giustizia realizzano una soluzione esclusivamente comunitaria, in grado di essere percorsa quasi indipendentemente dalle scelte nazionali». 58 Su tale teoria v.: RUSSO, Il nuovo processo tributario, Milano, 1974, 278; Id., Azione giudiziaria in materia tributaria, in Enc. Giur.; TREMONTI, Imposizione realizzata in carenza di presupposto (o su presupposto esente) e disapplicazione da parte del giudice ordinario, in Riv. Dir. Fin., 1975, 1, 83; Id., Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977, 380 ss.; F. TESAURO, Limiti di esclusività

della giurisdizione delle Commissioni tributarie, in Riv. Dir. Fin., 1979, II, 102; Id., Profili sistematici del processo tributario, Padova, 1980, 161; Id., Omessa impugnazione dell’accertamento ed impugnazione dell’ingiunzione in materia di imposta, in Finanza loc., 1981, 1983; GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova 1984, 87; COBAU, Giurisdizione esclusiva delle Commissioni tributarie e atti emessi dalla pubblica amministrazione in carenza di potere, in Boll. Trib., 1988, 1711. 59 Tuttavia è ormai prevalente l’orientamento che esclude rilevanza alla distinzione tra carenza dello ius impositionis ed illegittimo esercizio dello stesso; per quanto riguarda la giurisdizione (speciale) tributaria v.: Cass., sez. un., 9 marzo 1993, n. 2802, in Riv. Legisl. Fiscale, 1994, 1684; Cass., sez. un., 25 maggio 1993, n. 5841, in Riv. Dir. Trib., 1993, II, 605; Cass., sez. un., 21 giugno 1996, n. 5731, in Corr. Trib., 1996, 2817; per quanto riguarda la giurisdizione ordi-


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provvedimento amministrativo, introdotto dalla novella della legge n. 241/1990, tra cui spiccano il difetto di attribuzioni (o assoluta carenza di potere)60 e la categoria della nullità61. Pertanto la tesi della (disapplicazione) nullità dei provvedimenti adottati in

naria v.: Cass., sez. un., 12 aprile 1996, n. 3457, cit.; Cass., sez. un., 12 aprile 1996, n. 3458, cit.; Cass., sez. un., 11 giugno 1998, n. 5803, in Cons. Stato, 1998, II, 1647; ma contra: Cass., 30 novembre 1985, n. 5985, in Dir. e Prat. Trib., 1987, II, 1164; Cass., 10 luglio 1992, n. 8405; Cass., 15 ottobre 1992, n. 11266, in Boll. Trib., 1993, 1751; Cass., sez. un., 11 giugno 1998, n. 5803, in Cons.

violazione del diritto comunitario, nei limiti in cui un vizio di tale gravità sia configurabile in ragione del diritto interno, assume rilevanza anche secondo il principio dell’equivalenza, e quindi risulta pienamente condivisibile.

Stato, 1998, II, 1647. 60 Sembrerebbe agevole ricondurre a tale vizio tutte quelle ipotesi di disapplicazionenullità dei provvedimenti amministrativi indicate nel testo, anche nel caso in cui – come è auspicabile – giunga a prevalere la tesi monistica dell’integrazione tra ordinamento comunitario ed ordinamento nazionale.

61 Nel corso dei lavori preparatori era emersa anche la previsione della mera annullabilità per violazione di disposizioni di diritto comunitario, ma sarebbe rimasto comunque differenziato il regime della violazione del diritto comunitario per carenza di potere, o per difetto di attribuzione che dir si voglia.


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RIFORMA DEL RITO CIVILE, TESTIMONIANZA SCRITTA E GIUSTO PROCESSO TRIBUTARIO di Alberto Marcheselli 1. Premessa: prova testimoniale e processo tributario - 2. Segue: effettività della tutela giurisdizionale ed elementi di debolezza della giurisprudenza costituzionale - 3. Segue: le aperture della giurisprudenza interna e internazionale - 4. La testimonianza scritta come possibile correttivo di una distonia sistematica - 5. Testimonianza scritta e diritto di azione e difesa - 6. Testimonianza scritta fasi di impugnazione nel processo tributario 1. Premessa: prova testimoniale e processo tributario La riforma del diritto processuale civile attuata nel 20091, ha, come noto, introdotto la cd. testimonianza scritta, disciplinata dall’art. 257-bis c.p.c. Oggetto delle presenti riflessioni è l’interrogativo circa la utilizzabilità di tale strumento nel processo tributario. Ciò, secondo quel che si vedrà poco più avanti, non necessariamente in forza della diretta applicabilità della norma processualcivilistica al processo tributario (profilo che, del resto, quasi sicuramente era al di fuori dell’area di intervento progettato dal legislatore), ma anche, eventualmente e in via subordinata, per una ragione indiretta, ma non per questo meno importante. I termini della questione attinente legittimità e limiti del divieto di assunzione della prova testimoniale nel processo tributario2 sono noti e ormai largamente dibattuti3. È comunque utile ripercorrere sinteticamente gli elementi essenziali della questione, nella misura in cui essi possono essere qui rilevanti. Va allora rammentato che la Corte costituzionale ha stabilito che: a) la preclusione della testimonianza nel processo tributario è legittima; b) tale preclusione non viola il principio di uguaglianza, perché l’ordinamento consente regimi processuali diversi e il processo tributario è essenzialmente documentale; c) non è violato neppure il diritto di difesa perché la scelta dei mezzi di prova esperibili è rimessa alla discrezionalità del legislatore; d) non sussiste la violazione della parità delle armi processuali, che era stata ipotizzata non potendo il contribuente contrapporre l’esame dei testi alle dichiarazioni raccolte nei verbali redatti dall’ufficio tributario o dalla Guardia di Finanza, visto che tali di-

1 Legge 18 giugno 2009, n. 69. 2 Art. 7, comma 4, D.Lgs. 546/1992. 3 In tema, senza pretesa di completezza TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2009, 374 s.; SCHIAVOLIN, Le prove, in Il processo tributario. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, a cura di Tesauro, Milano, 1988, 507 ss; RUSSO, Il giusto processo tributario, in Rass. Trib., 2004, 26 ss.; BATISTONI FERRARA, Processo tributario (riflessioni sulla prova), in Dir. e Prat. Trib., 1983, 1603; MANZON, Processo tributario e costituzione. riflessioni circa l’incidenza della novella dell’art. 111 Cost., sul diritto processuale tributario, in Riv. Dir. Trib., 2001, 1095; MURCIANO, Prova testimoniale: processo tributario o procedimento giustiziale amministrativo?, in Riv. Dir. Trib., 2000, 7 ss.; RUSSO, Il divieto della prova testimoniale nel processo tributario: un residuato storico che resiste all’usura del

chiarazioni non possono costituire prova piena delle circostanze dichiarate.4 2. Segue: effettività della tutela giurisdizionale ed elementi di debolezza della giurisprudenza costituzionale A tale impostazione è agevole contrapporre almeno una coppia di obiezioni. La prima è che è vero che il diritto di difesa (o, meglio, di azione in giudizio5) può indubbiamente essere modulato secondo scansioni discrezionali del legislatore, ma è altresì vero che esse sono vincolate al rispetto del canone di ragionevolezza, che implica, tra l’altro, che non sarebbe legittima la preclusione di strumenti di prova necessari alla tutela delle ragioni giuridiche delle parti6: operante una tale preclusione in concreto, infatti, resterebbe preclusa la soddisfazione del diritto7. Tale considerazione esce notevolmente rafforzata dalla più moderna giurisprudenza internazionale. Ad esempio, nel campo del diritto comunitario, è ormai regola solidamente acquisita quella per cui (rispetto a diritti e posizioni garantite dal diritto della UE) deve essere assicurata la effettività della tutela8. Ed è ormai risultato acquisito che il giudice nazionale possa disapplicare le norme nazionali in contrasto con tale principio (così come nel caso di contrasto con quello di equivalenza tra rimedi posti a presidio del diritto interno e del diritto comunitario9), eventualmente richiedendo preventivamente, in sede di questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, elementi di interpretazione degli stessi principi comunitari rispetto alla fattispecie oggetto del giudizio10. La seconda obiezione è che non si vede perché le dichiarazioni verbalizzate prodotte dalla amministrazione finanziaria (o, se ammesse, dal contribuente) dovrebbero sempre essere prive della dignità di prova piena11. In linea di fatto, tenuto conto delle circostanze, dichiarazioni verbalizzate ben potrebbero essere convincenti: non appare ragionevole escluderne a priori l’efficacia probatoria. Men che meno quando l’esclusione di tale efficacia non dipenda dalla ritenuta debolezza intrinseca del mezzo utilizzato ma da ragioni di simmetria tra i poteri delle parti. Detto in altri termini, appare assai artificiosa la costruzione della Corte costituzionale secondo la quale un mezzo ragionevolmente idoneo a

tempo, in Rass. Trib., 2000, 567 ss.; MOL’utilizzo delle dichiarazioni di terzo, tra fonte non utilizzabile nel processo tributario e mezzo atipico di prova. Problemi connessi di carattere generale, in Dir. e Prat. Trib., 1999, 17 ss., nonché, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, MARCHESELLI, Il giusto processo tributario, in Giusto processo e riti speciali, Milano, 2009, 393 ss. 4 Corte cost., sentenza 18 gennaio 2000, n. 18. 5 Per lucidissime considerazioni sul diritto di azione e i suoi addentellati probatori e la riconduzione del tema dei limiti alle facoltà di prova a tale diritto, più che non al diritto di difesa, si veda ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, Milano, 1997, II, 12. 6 Sia consentito, anche per i doverosi riferimenti bibliografici, in tema di legittimità costituzionale dei limiti al diritto alla prova, rinSCHETTI,

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viare a MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario. Dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008, 99 ss. Argomento, questo, sostanzialmente eluso nell’economia della motivazione della sentenza 18/2000 citata, a favore di un richiamo, con formula acritica e stereotipata, al potere discrezionale del legislatore. In tema, CARBONE, Principio di effettività e diritto comunitario, Napoli, 2009, passim. Sul principio di equivalenza si veda Corte Giustizia UE, 26 gennaio 2010, 118/2008, 33 ss. Corte Giustizia UE, 26 gennaio 2010, 118/2008, 26 ss. Per una ricca panoramica della materia si veda DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Montesilvano, 2003, passim. In giurisprudenza: Cass., 14 maggio 2003, n. 7445.


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fornire la prova dei fatti da accertare dovrebbe essere degradato a mero argomento di prova solo perché non si vuole ammettere la possibile utilizzazione di mezzi di difesa contrapposti da parte della controparte. Escludere l’efficacia di mezzi di prova (verbali di dichiarazioni) necessari a una delle parti (il fisco), per negare l’esistenza di una asimmetria nei poteri processuali causata dalla la preclusione della prova contraria (la testimonianza) per l’altra parte (il contribuente) sembra allontanare, senza alcuna necessità, il processo dalla sua funzione, che è, a seconda dei punti di vista, accertare la verità, ovvero consentire alle parti la tutela dei propri diritti. Se una asimmetria vi è perché una parte può utilizzare degli strumenti necessari e l’altra no, l’asimmetria non si corregge e il giusto processo non si attua precludendo l’uso del mezzo di prova anche alla prima, ma ampliando i poteri della seconda. Altrimenti, si elimina l’asimmetria, ma si calpesta il diritto di azione. 3. Segue: le aperture della giurisprudenza interna e internazionale In questo quadro si è inserita, innanzitutto, la prassi giurisprudenziale che ammette che, eventualmente ma non necessariamente in contrapposizione con dichiarazioni verbalizzate dal Fisco, il contribuente possa o utilizzare verbalizzazioni a suo favore12 o far procedere alla audizione del terzo, ma la di fuori delle formalità sacramentali dell’esame testimoniale13. Può osservarsi che, alla luce di questo, la degradazione dell’efficacia probatoria al livello di “indizio” insufficiente a fornire la piena prova appare definitivamente incomprensibile: essa, già ingiustificabile in termini assoluti, non può più neppure fondarsi (in modo peraltro zoppicante) sull’esigenza di limitare una asimmetria nel diritto alla prova delle parti. È pertanto verosimile che, tosto, tale orientamento venga superato dalla giurisprudenza più avvertita. In secondo luogo, è sopraggiunta la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo14 che, in aderenza alle considerazioni di cui sopra, ha ritenuto, sia pure con riferimento al campo delle sanzioni amministrative tributarie15, contraria al principio del giusto processo la preclusione assoluta di mezzi di prova, se concretamente ritenuti necessari all’attuazione del diritto di azione. Esiste, quindi, un punto di tensione originato dalla preclusione della prova testimoniale, da un lato, e il riconoscimento della necessaria ammissione di «tutti i mezzi di prova concretamente necessari a garantire la tutela delle posizione giuridiche» evocate nel processo, dall’altro. 4. La testimonianza scritta come possibile correttivo di una distonia sistematica È proprio qui che potrebbe allora inserirsi, con apprezzabile efficacia, quantomeno suggestiva, la neonata testimonianza scritta del processo civile. Essa si presenta come una soluzione mediana decisamente accattivante, in una posizione per così dire a cavallo tra la realtà del processo civile, da un lato, e del processo tributa-

12 La giurisprudenza della Cassazione è stata in proposito più avanzata di quella della Corte costituzionale, ammettendo ad esempio, in attuazione del principio della parità delle armi tra le parti del processo (che la Corte delle leggi aveva invece ritenuto non rilevante nella fattispecie), la produzione di dichiarazioni private verbalizzate in dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà: Cass., sez. trib., 26 marzo 2003, n. 4423; Cass., sez. trib., 15 aprile 2003, n. 5957; Cass., sez. trib., 21 aprile 2008, n. 10261. Si vedano anche Cass., sez. trib., n. 4269/2002, e n. 903/2002. 13 Per i necessari approfondimenti, GLENDI, in

rio, dall’altro. Può osservarsi, infatti, che, nell’ipotesi si possa raggiungere la conclusione positiva alla sua ammissibilità nel processo tributario, si realizzerebbe una curiosa simmetria. La testimonianza scritta, introdotta nel processo civile come strumento di semplificazione e, in un certo senso, di restrizione (facoltativa) delle garanzie e formalismi necessari per la prova16, calata nel processo tributario costituirebbe, all’inverso, un allargamento dello strumentario probatorio a disposizione delle parti (e delle garanzie del diritto di azione). Lo strumento della testimonianza scritta potrebbe, insomma, essere la “veste” nella quale calare un avvio di soluzione, sistematica, al problema dell’ingresso delle dichiarazioni di terzo nel processo tributario. Posta questa premessa, restano da esaminare alcuni profili problematici. In primo luogo, l’individuazione della via attraverso la quale la testimonianza scritta potrebbe trovare ingresso nel contenzioso fiscale. A tutta prima, la norma dell’art. 257-bis c.p.c. non risulta applicabile al processo tributario. Essa è destinata al processo civile e nel processo tributario non pare esistere una lacuna di disciplina17: la testimonianza è prevista ed espressamente vietata dal comma 4 dell’art. 7 D.Lgs. 546/1992. Seguendo questa linea, non vi sarebbe spazio né per una applicazione diretta né per la applicazione analogica dell’articolo del codice di rito. Uno spazio argomentativo, di efficacia e ampiezza tutta da verificare, potrebbe tuttavia fondarsi una interpretazione che combini l’argomento a contrario e quello della volontà del legislatore storico, insieme ad argomenti sistematici. In effetti, si potrebbe dire, il D.Lgs. 546/1992, così come autorevolmente interpretato dalla Corte costituzionale, non esclude la prova testimoniale in forza di una preclusione, generalizzata, dei mezzi di prova fondati sulla scienza del terzo, ma in omaggio alla tradizionale impostazione documentale del rito dei tributi. È, allora, coerente con tale impostazione la preclusione, tout court della prova testimoniale in un ordinamento che conosce la sola prova testimoniale orale. Ma, assunto quanto sopra, regge il divieto generalizzato quando, accanto alla testimonianza tradizionale, orale, viene introdotta la testimonianza scritta? Si può tentare di ritagliare una area del divieto dell’art. 7 limitata alla testimonianza orale, sia perché essa era la sola tipologia di testimonianza prevista al momento della introduzione del divieto, sia perché essa è l’unica testimonianza che cozza contro la ratio dello stesso (carattere documentale del processo). A seguire questa linea, la testimonianza scritta sarebbe ammessa, a contrario, perché non rientrante nel divieto espresso contenuto nell’art. 7, comma 4. A voler seguire questa linea (che appare dotata di indiscutibile pregio argomentativo), tuttavia, residuerebbero alcuni inconvenienti tecnico interpretativi da risolvere. Il primo è che la norma del codice di procedura civile prevede la testimonianza scritta come mezzo facoltativo (o, meglio, discrezionale). Ciò si spiega, nel

Postilla a Marcheselli, Processo tributario. Nelle liti sulle sanzioni fiscali non può escludersi il contraddittorio orale sulle prove, in Riv. Giur. Trib., 2007, 389. 14 CEDU, 23 novembre 2006, Case of Jussila v. Finland, n. 73053/2001, con nota di GREGGI, Giusto processo e diritto tributario europeo: la prova testimoniale nell’applicazione della Cedu (il caso Jussila), in Rass. Trib., 2007, 228. 15 Tale limitazione non appare tuttavia particolarmente selettiva, sia perché, normalmente, la prova dei fatti che giustificano le sanzioni è, inscindibilmente, la prova del fatto imponibile e sia perché, da altro punto di vista, il concetto di

giusto processo appare, quantomeno nell’ordinamento italiano, unitario e la circoscrizione del principio del giusto processo al solo diritto punitivo vale, fino a che non cadrà, solo per la giurisprudenza della Cedu, ma non per l’art. 111 Cost. nella prospettiva interna. La nozione di giusto processo appare, in altre parole, insuscettibile di segmentazioni per materia. 16 La finalità è, palesemente, deflattiva dei tempi delle istruttorie nanti l’organo giudicante. 17 Solo in presenza di lacuna normativa si potrebbe infatti schiudere l’applicazione del generale richiamo alle norme del c.p.c. contenuto nell’art. 1, comma 2, D.Lgs. 546/1992.


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rito civile, per il fatto che essa è alternativa alla versione orale, che costituisce la regola ed è rimesso al giudice di valutare se sia sufficiente la testimonianza semplificata. Il riferimento alla facoltà di scelta, nel processo tributario muterebbe invece necessariamente di ratio: verrebbe a corrispondere al giudizio di rilevanza e necessità di acquisire la prova dal terzo e non alla sufficienza di una acquisizione solo scritta e non orale. In secondo luogo, nella norma dell’art. 257-bis c.p.c., la testimonianza scritta è disciplinata per relationem, rinviando alla disciplina della testimonianza tradizionale, inapplicabile nel processo tributario. Il terzo inconveniente è che la norma civilistica, da un lato, prevede l’accordo delle parti come presupposto per l’ammissione della testimonianza scritta e, dall’altro, prevede la possibile successiva testimonianza orale, se il giudice ritiene insoddisfacente quella scritta. L’accordo delle parti non potrebbe trovare applicazione nel processo tributario: esso si giustifica nel processo civile, perché la forma scritta è alternativa alla forma orale ordinaria, ma non si giustificherebbe nel rito tributario, ove il rifiuto di consenso precluderebbe, in radice, l’ammissione della prova (e non, a un livello più basso, la scelta di una sua forma di attuazione). Detto in altri termini, il veto di una delle parti paralizzerebbe non uno dei modi alternativi di realizzare il diritto alla prova dell’altra, ma il diritto alla prova tout court18. Quanto poi alla audizione orale del teste, in caso di carattere insoddisfacente della testimonianza scritta, è evidente che, se si tratta di deposizione formale testimoniale, come appare evidente, essa cozza contro il divieto di cui all’art. 7, comma 4, D.Lgs 546/1992: nella linea argomentativa fin qui ipotizzata l’art. 257-bis sarebbe applicabile in quanto non contrastante con le regole del rito tributario, ma, con riguardo al comma 8, il contrasto sussisterebbe. Chi ritenga di sostenere l’applicazione dell’art. 257bis al processo tributario dovrebbe pertanto espungerne sia, e non senza qualche difficoltà, il riferimento all’accordo delle parti, sia il comma 8 sulla testimonianza orale. In alternativa, a un risultato interpretativo equivalente potrebbe pervenirsi per il tramite di percorsi più tortuosi e de jure condendo. Il primo è quello della riforma legislativa. Il secondo quello della declaratoria di illegittimità costituzionale del divieto di cui all’art. 7, comma 4, D. Lgs. 546/1992. In effetti, seguendo i binari del ragionamento svolto dalla Corte costituzionale, potrebbe costruirsi il sillogismo seguente a) il divieto di prova testimoniale è legittimo perché il processo tributario deve essere documentale; b) dal 2009 esiste una prova testimoniale documentale; c) il divieto di prova testimoniale è illegittimo nella parte in cui vieta anche la testimonianza documentale. E’ verosimile che questa linea argomentativa venga sottoposta all’attenzione della Corte costituzionale, ove non si ritenga l’art. 257-bis c.p.c. applicabile al rito tributario. 5. Testimonianza scritta e diritto di azione e difesa Da altro punto di vista (e in attesa del consolidamento di orientamenti giurisprudenziali in tema), resta da domandarsi se, in ipotesi, la applicazione della testimonianza scritta al processo tributario, sicuramente utile e opportuna, sarebbe anche sufficiente ad

18 Tale regime sarebbe palesemente in contrasto il diritto di azione e con il principio del giusto processo. Per analogia si può qui rammentare la giurisprudenza che ammette, proprio per superare l’eventuale stallo provocato dalla mancata collaborazione di una delle parti, nella cui disponibilità sia un documento o comunque la prova favorevole all’altra, l’esercizio dei poteri istruttori ufficiosi del giudice tributario, così, ad esempio Cass., sez. trib., 9 giugno 2009, n. 13201, con nota di MARCHESELLI, Poteri istruttori integrativi dei giudici

eliminare tutte le distonie sopra segnalate, quanto alla piena realizzazione del diritto di azione. A ben vedere, la soluzione di questo problema corrisponde alla risposta al quesito se possa, in qualche caso, essere necessaria, alla realizzazione del diritto delle parti, la testimonianza orale. La testimonianza orale non è l’esatto equipollente di quella scritta, né dal punto di vista della idoneità probatoria, né da quello della realizzazione del contraddittorio processuale. Sotto il primo profilo, è innegabile che, nella valutazione del teste, un notevole peso abbiano anche alcuni aspetti, spesso trascurati dalla pubblicistica, ma rilevanti e incompatibili con la forma scritta. Essi sono, essenzialmente, 1) la valutazione dell’atteggiamento (corporeo) e del linguaggio non verbale del teste19; 2) la possibilità di un immediato approfondimento dell’esame sulla base delle risposte e dell’atteggiamento predetti. Sotto il secondo aspetto, la differenza è talmente netta che il legislatore del novellato articolo 111 Cost. ha addirittura costituzionalizzato il principio del contraddittorio nella formazione della prova, limitatamente al processo penale. Non è la medesima cosa, per la controparte, assistere all’esame del teste, potendo intervenire, ovvero leggere la verbalizzazione di risposte avvenute in sua assenza. E di ciò costituisce a ben vedere ulteriore conferma anche la citata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha riconosciuto la necessità della prova testimoniale alla attuazione del diritto di difesa, non nel senso limitato di acquisizione di dichiarazioni dal terzo, ma di possibilità di sentire e controinterrogare il teste. Che i due strumenti non siano perfettamente equipollenti non significa, tuttavia, ancora che la testimonianza orale sia o possa essere uno strumento necessario nel processo tributario. In effetti, un forte argomento a sostegno della tesi contraria si desume proprio dalla citata riforma dell’art. 111 Cost. che ha sì costituzionalizzato il contraddittorio sulla formazione della prova, ma solo rispetto al processo penale. A contrario, sembra potersene dedurre che il contraddittorio sulla prova non corrisponde a un valore costituzionale rispetto agli altri processi, processo tributario in primis. Ciò, però, esclude che la testimonianza orale sia costituzionalmente imposta, ma non toglie che essa potrebbe essere auspicabile e opportuna. L’introduzione nel processo tributario della sola testimonianza scritta20, quindi, apparirebbe a tutta prima conforme al solco tracciato dalla Costituzione italiana. L’ammissione di tale mezzo di prova eliderebbe gran parte delle ragioni di preoccupazione per la legittimità costituzionale del processo come oggi disciplinato, con il divieto assoluto di prova testimoniale, e sotto questo aspetto parrebbe quindi necessaria, da un lato. Dall’altro, visto il tenore dell’art. 111 Cost., tale strumento potrebbe essere ritenuto adeguato a consentire l’attuazione del diritto di azione, essendo quindi sufficiente. Questa soluzione rappresenterebbe un notevolissimo passo avanti, nel quadro della attuazione dei principi fondamentali, rispetto alla disciplina attualmente vigente. Le dichiarazioni di terzo verbalizzate di cui eventualmente si ammetta l’ingresso nel processo (o l’audizione informale del terzo) sono caratterizzate, infatti, da un

tributari, contabilità parallela e diritto di difesa del terzo, in Riv. Giur. Trib., anno 2010, 2, 138 ss. Per i limiti del potere di integrazione istruttoria del giudice tributario, che non può costituire supplenza dell’inerzia della amministrazione, Cost.,. sentenza 29 marzo 2007, n. 109. In tema si veda DEL FEDERICO, I poteri istruttori delle Commissioni tributarie, in Quaderni del Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, 2002, 79. TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 158 ss. 19 Elementi che nella formazione del convinci-

mento hanno un peso tanto cospicuo quanto difficilmente razionalizzabile, ma ben presente alla tradizione giuridica che ha costruito e conservato la testimonianza come strumento orale. Elementi la cui trascuranza è, all’opposto, fonte di molteplici inconvenienti nel processo penale, ove è anche nota la discrepanza esistente tra la lettura delle trascrizioni delle intercettazioni e l’ascolto delle relative registrazioni. 20 Ovvero il riconoscimento della sua diretta applicazione.


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più basso livello di efficacia. Ciò sotto almeno due profili. L’uno è, seguendo la giurisprudenza della Corte costituzionale21, la pretesa (e discutibile) valenza limitata all’argomento di prova e inidoneità a fornire la piena prova dei verbali di dichiarazioni. L’altra, il fatto che la prova testimoniale comporta tutto un apparato di solennità, per quanto più agili, nella versione scritta, e di conseguenze sanzionatorie in caso di false dichiarazioni, con la configurazione del delitto di falsa testimonianza, che potrebbe avere un certo, sia pur parziale, effetto deterrente e di maggiore garanzia. Pur condivisa questa premessa, sulla quale è ipotizzabile potrebbe allinearsi anche la giurisprudenza costituzionale, ritengo tuttavia che il sistema che coniugherebbe meglio il diritto di azione con il principio di ragionevolezza e speditezza, rimanendo in armonia con il carattere tendenzialmente documentale del processo tributario dovrebbe essere leggermente più avanzato ancora. Esso dovrebbe prevedere non solo la possibile ammissione della prova testimoniale scritta, se rilevante per la decisione, ma anche, nei casi in cui il giudice motivatamente ritenga, alla luce delle circostanze del processo o delle particolari allegazioni difensive della controparte, necessario l’esame orale del teste, la testimonianza orale. Attribuire al giudice la possibilità di modulare, alla luce dei parametri di proporzionalità e necessità, lo spettro più ampio e completo possibile degli strumenti istruttori è la soluzione teoricamente più appagante, e non praticamente controindicata, non comportando la indiscriminata ammissione del mezzo orale, ma il suo utilizzo solo nei casi di effettiva necessità. Il processo tributario manterrebbe la sua netta peculiarità e originalità rispetto al processo civile: nel secondo la regola sarebbe quella della testimonianza orale, nel primo quella della testimonianza scritta. 6. Testimonianza scritta fasi di impugnazione nel processo tributario Un breve cenno può essere poi dedicato al tema della possibile ammissione della testimonianza scritta in grado di impugnazione. Ammesso che tale mezzo di prova sia ammissibile nel processo tributario (tale premessa generale è l’evidente presupposto logico per la rilevanza del problema in sede di gravame), vien da

21 Cost., n. 18/2000. Si veda anche Cass., 14 maggio 2003, n. 7445. 22 Può osservarsi che non solo sussiste una rilevante differenza tra documenti e altri mezzi di prova quanto alla disciplina della istruttoria di secondo grado nel processo tributario, ma che permane una significativa differenza di disciplina anche tra il processo civile e quello tributario quanto alla produzione di documenti in appello. Per il primo, l’art. 345 c.p.c. prevede che «non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile». Nel processo tributario invece: «è fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti» (art. 58, comma 2, D.Lgs. 546/1992) La produzione di documenti in appello appare pertanto consentita con maggiore larghezza nel rito tributario: essa non è condizionata a uno scrutinio di indispensabilità per la decisione. o dell’impossibilità incolpevole della produzione, nel grado precedente, per la parte che intende avvalersene. La soluzione processualcivilistica, in effetti, appare maggiormente in linea con il principio di concentrazione, buona fede e diligenza processuale: il fatto che in appello non possano che

domandarsi se e in quale misura possa essere utilizzato nei gradi successivi al primo. Non si intende, ovviamente qui porre la questione rispetto alle ipotesi in cui la prova sia stata ammessa in primo grado e ne sia contestata la valutazione (o, in radice, la ammissione) in sede di impugnazione, ovvero non sia stata ammessa in primo grado e se ne contesti la mancata ammissione in sede di impugnazione. In questi casi, in effetti, la questione, nelle sue linee generali, non pare porsi in modo significativamente diverso per la testimonianza rispetto alle altre prove. I poteri del giudice di appello e della Cassazione corrispondono a quelli previsti per il resto dello strumentario istruttorio. Un primo quesito potrebbe invece essere se la testimonianza scritta potrebbe essere ammessa per la prima volta (perché proposta per la prima volta) in sede di appello. Non vi è dubbio che la questione dovrebbe trovare la sua disciplina nell’art. 58 D.Lgs. 546/1992. Il punto di interesse potrebbe semmai essere nel quesito se essa dovrebbe trovare collocazione nel primo comma della disposizione (che prevede la possibilità di ammettere nuove prove solo se indispensabili alla decisione) ovvero nel secondo comma, che prevede la libera facoltà delle parti di depositare documenti22. La superficiale suggestione che potrebbe sorgere in proposito è l’attrazione della eventuale testimonianza scritta nella seconda categoria. Tale suggestione appare però assai discutibile, atteso che, nella sistematica del codice di procedura civile, la testimonianza scritta, sia pure tradotta in una dimensione documentale, sembra costituire un mezzo di prova a sé stante, o comunque assimilato alla prova testimoniale e non alla prova documentale23. Se tali rilievi sono corretti, la testimonianza scritta potrebbe essere ammessa in appello solo se assolutamente necessaria alla decisione. Di un certo interesse rilevare che la stessa soluzione non sembra invece attagliarsi (almeno non con la stessa sicurezza) alla produzione in appello di verbalizzazioni di terzo non assistite dalle formalità e dalla ritualità della testimonianza scritta. Un po’ paradossalmente (e a mio avviso non del tutto correttamente, dal punto di vista sistematico) esse dovrebbero essere ammesse liberamente in appello24, a meno di non volerle considerare prove atipiche diverse dai documenti25.

prodursi documenti indispensabili per la decisione o che non era stato possibile produrre prima incentiva evidentemente le parti a giocare tutte le carte, sotto il profilo probatorio, entro i limiti consentiti, nell’ambito del processo di primo grado. Nel processo tributario è così consentito produrre in appello documenti che non si fossero prodotti ritualmente in primo grado (Cass., sez. trib., 13 maggio 2003, n. 7329). Sulla disciplina delle prove nell’appello civilistico si e sulla finalità di contemperare il principio dispositivo e la concentrazione del processo con l’esigenza di accertamento della verità le sentenze Cass., sez. un., n. 8202 e n. 8203, entrambe del 20 aprile 2005 in Corr. Giur., 2005, 929, con note di RUFFINI, Preclusioni istruttorie in primo grado e ammissioni di nuove prove in appello: gli art. 345 , comma 3, e 347, comma 2, c.p.c. al vaglio delle sezioni unite, e di CAVALLINI, Le sezioni unite restringono i limiti delle nuove produzioni documentali nell’appello civile ma non li vietano in Giust. Civ., 2005, I, 2019, con note di GIACALONE-CACCAVIELLO, Nuove prove in appello: viene meno la distinzione tra prove costituite e prove costituende, e di GIORDANO, La produzione di nuovi documenti in appello nel processo ordinario e in quello di lavoro secondo le sezioni unite della Corte di Cassazione. In esse si afferma, tra l’altro, che il pericolo che il

sistema delle preclusioni determini soluzioni distanti dalla realtà fattuale trova un correttivo con l’attribuzione al giudice d’ appello di incisivi poteri d’ufficio in materia di ammissione di nuovi «mezzi di prova» ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, e cioè in presenza di prove che, per il loro spessore contenutistico, sono idonee a fornire un contributo decisivo all’accertamento della verità materiale, ribadendo comunque che il giudice dell’ appello, nell’ammettere le nuove prove, esercita un potere del cui esercizio deve dare conto con un provvedimento motivato, censurabile, come quello analogo del giudice del lavoro, alla stregua dell’art. 360, n. 3 e 5, c.p.c. 23 Si può osservare come tali rilievi mettano indirettamente in evidenza il carattere ambiguo della testimonianza scritta, posto che essa coniuga la sostanza tipica di una prova orale, considerata la fonte, con, almeno in parte, la forma propria dei documenti (la scrittura). 24 Derivandone ulteriori motivate perplessità sulla coerenza complessiva dell’art. 58 D.Lgs. 546/1992, sia sotto il profilo della coerenza interna alla disciplina del processo tributario, sia sotto il profilo della coerenza con la disciplina del processo civile. 25 MOSCHETTI, L’utilizzo delle dichiarazioni di terzo, tra fonte non utilizzabile nel processo tri-


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Per quanto infine concerne il giudizio di legittimità, ostacolo generalizzato appare trovarsi nella natura stessa del giudizio e nella inammissibilità all’interno di esso di una fase istruttoria. In tale fase di giudizio gli unici profili di prova nuovi (diversi da quelli concernenti la ammissibilità e la valutazione delle prove nei precedenti gradi del giudizio) concernono il limitato ambito della “prova” della nullità della sentenza o dell’inammissibilità del ricorso o, secondo la giurisprudenza, le questioni proponibili per la prima volta in cassazione o ivi rilevabili d’ufficio26. A tali fini è consentito il solo deposito di atti e documenti (art. 372 c.p.c.) e non il ricorso ad altri mezzi. A contrariis, l’art. 384, comma 2, c.p.c. , prevede la decisione nel merito da parte della Corte nel solo ca-

butario e mezzo atipico di prova. Problemi connessi di carattere generale, in Dir. e Prat. Trib., 1999, 17 ss. Più in generale: CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, Milano, 1962, soprattutto 270; TARUFFO, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. Dir. Proc., 1973, 389 ss.; Id., La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, cit., 377 ss.; COMOGLIO, Le prove, in Trattato Rescigno, 1985, cit., 171 ss.; ANDOLINA-VIGNERA, Il modello costituzionale del processo civile italiano, Torino, 1990, 97; RICCI, Premessa ad uno studio sulle prove atipiche, Arezzo, 1991, passim; PE-

so in cui non siano necessari nuovi accertamenti di fatto. La testimonianza scritta non appare pertanto configurabile nella fase di legittimità, a meno di non poterla considerare un atto o documento nel quadro dell’art. 372 c.p.c. e che essa sia rilevante ai limitati fini di provare nullità di sentenza, inammissibilità del ricorso o altre questioni proponibili o rilevabili d’ufficio in sede di cassazione. Resta invece aperta, secondo quanto si diceva sopra, la possibilità di delibare, in sede di legittimità, la ammissibilità e valutazione della testimonianza scritta (che si ritenga di poter ammettere nel processo tributario), come di qualsiasi altra prova, nei gradi precedenti di giudizio, nel quadro dei motivi di cui, a seconda dei casi, numeri 3, 4 o 5 dell’art. 360 c.p.c.

LIGRA, Il documento amministrativo come prova “atipica” nel processo civile contro la pubblica amministrazione, in Dir. Proc. Amm., 1994, 707 ss.; VIAZZI, La riforma del processo civile e alcune prassi giurisprudenziali in materia di prove: un nodo irrisolto, in Foro It., 1994, V, 106 ss. e specialmente 2b; CHIARLONI, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1986, 819 ss.; MONTESANO, Le prove atipiche etc., in Riv. Dir. Proc., 1980, II, 233 ss.; DE STEFANO, Sui limiti dei poteri istruttori del giudice nel processo del lavoro, in nota a Trib. Palmi 11

novembre 77, in Giur. It. 1979, I, 1b, 35 ss.; RICCI, Prove atipiche, argomenti di prova e presunzioni, Relazione tenuta al corso organizzato dall’8 al 10 maggio 2000 dal Csm, in FRASCATI sul tema; DE STEFANO, Le prove atipiche e illecite, relazione all’incontro di studio organizzato dal Consiglio superiore della magistratura sul tema: le prove nel processo civile, Roma, 26-28 novembre 2001, reperibile in www.csm.it; COMOGLIO, Prove penali, “giusto processo” e poteri di acquisizione del giudice tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2000, I, 943 ss. 26 Cass., sez. un., 16 giugno 2006, n. 13916.


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LA COMPATIBILITÀ CON L’ORDINAMENTO COMUNITARIO DELLA DISCIPLINA IN MATERIA DI CONTROLLED FOREIGN COMPANIES ALLA LUCE DELLE MODIFICHE APPORTATE DAL «DECRETO ANTI-CRISI» di Ernesto Marco Bagarotto 1. Le modifiche apportate alla disciplina CFC dal «decreto anti-crisi» - 2. Le modifiche alla esimente di cui alla lett. a, comma 5, dell’art. 167 del T.U.I.R. - 3. La non operatività dell’esimente di cui alla lett. a del comma 5 dell’art. 167 del T.U.I.R. - 4. L’ampliamento dell’ambito oggettivo di applicazione della disciplina CFC 1. Le modifiche apportate alla disciplina CFC dal «decreto anti-crisi» L’art. 13 del D.L. 1 luglio 2009, n. 78 (cd. «decreto anti-crisi») ha apportato tre modifiche alle disposizioni in materia di imprese estere controllate e collegate (CFC): le prime due riguardano il regime della prova richiesta per ottenere la disapplicazione della disciplina CFC, mentre la terza estende detta disciplina a tutte le società controllate che rispettino determinate condizioni, indipendentemente dalla residenza in un Paese black list1. Ora, la disciplina CFC trova applicazione anche con riferimento a talune partecipazioni in società residenti in Paesi membri dell’Unione europea. Ciò non solo per effetto della sopra richiamata modifica apportata dal «decreto anti-crisi», ma anche perché, ad oggi, nella black list contenuta nel D.M. 21 novembre 20012 sono inclusi alcuni Paesi membri UE3.

1 Merita precisare che le prime due modifiche – in forza del richiamo operato dall’art. 168, comma 1, del T.U.I.R. – influiscono anche sulla disciplina delle società estere “collegate”. La terza modifica, di converso, rileva esclusivamente con riferimento alle società estere “controllate”. 2 Nel prosieguo si farà riferimento al sistema della black list, considerato che, ad oggi, non è stata ancora emanata la white list prevista dal secondo comma del neointrodotto art. 168-bis del T.U.I.R.. Quest’ultima è destinata a contenere l’elenco dei Paesi con i quali l’amministrazione finanziaria italiana ha un adeguato scambio di informazioni e nei quali il livello di tassazione non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia. Dopo l’emanazione della white list – in base a quanto previsto dall’art. 1, commi 83 ed 88, della L. 24 dicembre 2007, n. 244 – la normativa CFC verrà applicata alle partecipazioni in società residenti nei Paesi non inclusi in detta ultima lista. 3 Nella black list di cui al D.M. 21 novembre 2001 sono inclusi Cipro, Lussemburgo (con riferimento alle cd. holding del 1929) e Malta (con riferimento alle società i cui proventi affluiscono da fonti estere, quali quelle di cui al Malta Financial Services Centre Act, alle società di cui al Malta Merchant Shipping Act e alle società di cui al Malta Freeport Act).

La compatibilità della disciplina CFC rispetto all’ordinamento comunitario, invero, è già stata oggetto di approfondimenti, anche in considerazione della circostanza che in diversi Paesi europei è presente una disposizione simile a quella contenuta nell’art. 167 del T.U.I.R. In materia, un punto di riferimento è certamente rappresentato dalla sentenza 12 settembre 2006, C-196/2004, Cadbury-Schweppes, con cui la Corte di Giustizia ha ribadito alcuni principi ed è pervenuta a conclusioni di particolare rilievo: la libertà di stabilimento comporta la possibilità di esercitare la propria attività negli Stati membri mediante controllate, succursali o agenzie e vieta le forme di restrizione o intralcio allo stabilimento in un altro Stato membro; i soggetti di uno Stato membro, tuttavia, non possono sottrarsi alle leggi nazionali avvalendosi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario4; perché la legislazione sulle CFC sia conforme al diritto comunitario, il meccanismo di tassazione per trasparenza da essa previsto non deve trovare applicazione se la costituzione di una impresa estera controllata corrisponde a una «realtà economica»;di converso, tale legislazione può trovare applicazione con riferimento alle installazioni fittizie che non esercitano alcuna attività economica effettiva sul territorio dello Stato membro di stabilimento (società «fantasma» o «schermo»5), cioè alle «costruzioni di puro artificio»6; il fatto che la volontà di ottenere uno sgravio fiscale abbia ispirato la

4 Già nella sentenza 9 marzo 1999, C-212/1997, Centros, la Corte di Giustizia ha evidenziato che ciascuno Stato membro ha il «diritto di adottare misure volte ad impedire che, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, taluni dei suoi cittadini tentino di sottrarsi all’impero delle leggi nazionali, e che gli interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario». Ma che, d’altro canto, «i provvedimenti nazionali che possono ostacolare o scoraggiare l’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato devono soddisfare quattro condizioni: essi devono applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificati da motivi imperativi di interesse pubblico, essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo (v. sentenza 31 marzo 1993, causa C-19/1992, Kraus, in Racc., I ss., punto 32, e 30 novembre 1995, causa C-55/1994, Gebhard, in Racc., I ss., punto 37)». 5 Il termine «società fantasma, la quale non svolgesse alcuna attività sul territorio dello Stato membro in cui si trova la sua sede sociale» si ritrova nella sentenza della Corte di Giustizia 2 maggio 2006, C-341/2004, Eurofood IFSC. 6 La Corte di Giustizia è pervenuta a conclusioni sostanzialmente analoghe nella sen-

tenza 13 marzo 2007, C-524/2004, Thin Cap, in cui è stata affrontata una normativa che limitava la deducibilità degli interessi pagati sui prestiti concessi alle società residenti dalle società controllanti, se residenti in un altro Stato membro (o da una società residente in un altro Stato membro, controllata da detta società controllante) e che non assoggettava a tale limitazione i prestiti erogati dalle società residenti nel medesimo Paese. Ebbene, la Corte di Giustizia, tra le altre cose, ha ritenuto tale normativa applicabile solamente alle fattispecie in cui la società che erogava il finanziamento fosse una «costruzione di puro artificio attuata a soli fini fiscali». V. anche la sent. 16 luglio 1998, C-264/1996, Ici, in cui è stata censurata una disposizione agevolativa introdotta da un Paese membro (il Regno Unito) che, sistematicamente, non trovava applicazione per le holding le cui partecipate fossero prevalentemente stabilite al di fuori del Paese stesso, indipendentemente dalla verifica in ordine alla artificiosità della fattispecie. Più precisamente, la Corte di Giustizia ha motivato la propria decisione evidenziando che la normativa oggetto della controversia non aveva «l’obiettivo specifico di escludere da un vantaggio fiscale le costruzioni puramente artificiose il cui scopo sia quello di eludere la legge fiscale del Regno Unito», ma con-


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costituzione dell’impresa estera non è sufficiente per affermare che l’impresa estera sia una «costruzione di puro artificio» finalizzata ad abusare del diritto comunitario7. La Corte di Giustizia ha, dunque, assunto una posizione mirata a bilanciare, da un lato, l’esigenza di tutelare la libertà di stabilimento ed il diritto delle imprese di collocarsi all’interno dei Paesi dell’Unione europea sulla base delle proprie valutazioni, anche di opportunità fiscale, e, dall’altro lato, la necessità di evitare che tale libertà venga strumentalizzata, mediante l’impiego di costruzioni di puro artificio, al solo fine di sottrarsi alle norme – anche tributarie – di un Paese membro. Sul punto è recentemente tornata anche la Commissione, con la Comunicazione 10 dicembre 2007, nella quale si sottolinea che, pur essendo le norme sulle CFC compatibili con il diritto comunitario, è necessario che esse siano «mirate esclusivamente alle costruzioni di puro artificio», che il campo di applicazione di tale normativa «può essere ridotto introducendo varie eccezioni, come ad esempio una politica di distribuzione accettabile, l’esenzione di attività (industriali o commerciali effettive), la quotazione pubblica, ecc.» e inoltre che è «soprattutto essenziale che i contribuenti siano messi in grado di dimostrare, nell’ambito di un controllo giurisdizionale, che le loro transazioni commerciali si sono svolte in buona fede»8.

siderava «in via generale, qualunque situazione in cui le società controllate da un gruppo si trovino in maggioranza stabilite, per qualsiasi motivo, fuori dal Regno Unito», concludendo che «lo stabilimento di una società fuori dal Regno Unito non comporta, di per sé, l’evasione fiscale, dato che la società di cui trattasi è comunque soggetta alla legge fiscale dello Stato di stabilimento». Si veda, inoltre, la sentenza 12 dicembre 2002, C324/2000, Lankhorst-Hohorst, con cui è stata giudicata illegittima la norma contenuta nel Körperschaftsteuergesetz (la legge tedesca relativa all’imposta sulle società), che, ricorrendo determinate condizioni, considerava il pagamento di interessi passivi come distribuzione dissimulata di utili. Tale disposizione, applicandosi ai soli soci che non avevano diritto al credito d’imposta, era sistematicamente applicabile ai soci residenti all’estero, mentre era tendenzialmente inapplicabile ai soci residenti in Germania. Ebbene, la Corte di Giustizia ha affermato che tale disposizione contrasta con la libertà di stabilimento poiché detta normativa ricomprende, in via generale, qualunque situazione in cui il socio-società capogruppo abbia la sua sede, per qualsiasi motivo, fuori dalla Repubblica federale tedesca, sebbene tale situazione non comporti, di per sé, un rischio di evasione fiscale, dato che la società di cui trattasi è comunque soggetta alla normativa fiscale dello Stato in cui è stabilita. Nello stesso senso v., infine, le sentenze 11 marzo 2004, C-9/2002, De Lasteyrie du Saillant (che ha giudicato illegittima la exit tax francese); 13 dicembre 2005, C-446/2003, Marks & Spencer (che ha affrontato la normativa del Regno Unito sulla deducibilità delle perdite conseguite dalle controllate estere) e l’ordinanza 23 aprile 2008, C201/2005, Test Claimants in the CFC and Dividend Group Litigation. 7 La Corte di Giustizia ha concluso stabilendo che «gli artt. 43 e 48 CE vanno interpretati

Alla luce dei principi sopra enunciati, la dottrina si è interrogata sulla compatibilità dell’art. 167 del T.U.I.R. con il diritto comunitario, pervenendo a soluzioni talvolta positive, ma il più delle volte critiche, soprattutto con riguardo ai potenziali contrasti con la libertà di stabilimento, oltre che con la direttiva madre-figlia9. Orbene, nel prosieguo si intende verificare se le modifiche recentemente apportate dal «decreto anti-crisi» siano in linea con i principi sottesi alla citata sentenza ed agli ulteriori pronunciamenti della Corte di Giustizia in materia, o se la novellata disciplina si sia ulteriormente allontanata da un ideale modello di normativa CFC compatibile – per quel che riguarda le controllate ubicate in Paesi membri UE – con l’ordinamento comunitario. 2. Le modifiche alla esimente di cui alla lett. a, comma 5, dell’art. 167 del T.U.I.R. Come noto, la normativa in materia di imprese estere controllate può essere disapplicata, alternativamente, al verificarsi di una delle due condizioni previste dal quinto comma dell’art. 167. Mentre la seconda esimente (la dimostrazione che dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Paesi black list) è rimasta immutata, la prima è stata modificata e – così sembra – resa maggiormente complessa da dimostrare.

nel senso che ostano all’inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato membro, degli utili realizzati da una SEC stabilita in un altro Stato allorché tali utili sono ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore a quello applicabile nel primo Stato, a meno che tale inclusione non riguardi costruzioni di puro artificio destinate a eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta» e che «l’applicazione di una misura impositiva siffatta deve perciò essere esclusa ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la SEC è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive». Sul ruolo della Corte di Giustizia rispetto al tema della tassazione delle società v. TESAURO, Il ruolo della corte di giustizia nel coordinamento della tassazione delle società, in Tributi Impresa, 2004, 1, 3 ss. 8 La Commissione, tra le altre cose, ha sottolineato l’equilibrio che dovrebbe caratterizzare le disposizioni sulle CFC: «la definizione di criteri presuntivi ragionevoli contribuisce a un’applicazione equilibrata delle misure antiabuso nazionali, in quanto risponde all’interesse della certezza del diritto per i contribuenti e della praticità per le autorità fiscali. Tuttavia, per garantire che transazioni e insediamenti effettivi non vengano indebitamente sanzionati è essenziale che, ove si presuma l’esistenza di una costruzione di puro artificio, il contribuente sia messo in grado, senza eccessivi oneri amministrativi, di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali per le quali tale transazione è stata conclusa. La misura in cui al contribuente può spettare l’onere di dimostrare che le transazioni commerciali si sono svolte in buona fede si può determinare solo caso per caso. A tale riguardo la Commissione ritiene che l’onere della prova non dovrebbe gravare solo sul contribuente e che si dovrebbe tener conto della capacità gene-

rale del contribuente di conformarsi alle norme e del tipo di transazione considerata. È ugualmente essenziale nell’interesse della proporzionalità che il risultato della pertinente valutazione da parte dell’autorità fiscale possa essere sottoposto a un controllo giurisdizionale indipendente». 9 Ritiene che, sul piano normativo, la disciplina in materia di imprese estere controllate sia in linea con le conclusioni della Corte di Giustizia, DELLA VALLE, Tassazione degli utili della società estera controllata e rispetto del diritto di stabilimento, in Corr. Trib., 2006, 3352 (il quale, tuttavia, solleva condivisibili dubbi in ordine alla disciplina delle imprese estere collegate). Sulla difficile conciliabilità della normativa CFC con l’ordinamento comunitario v. invece SACCHETTOPLEBANI, Compatibilità della legislazione CFC italiana con le norme convenzionali e con l’ordinamento comunitario, in Dir. e Prat. Trib. intern., 2002, 25 ss.; GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, Milano, 2008, 1636; PISTONE, Normativa CFC , convenzioni internazionali e diritto comunitario, in Tributimpresa, 2004, 50 ss.; CORDEIRO GUERRA, La nuova definizione di “regime fiscale privilegiato” nell’ambito della disciplina in tema di controlled foreign companies e di componenti negative derivanti da operazioni con imprese estere, in Rass. Trib., 2000, 1798; MARRAFFA-INGRAO-LUPI, Regole CFC e stati membri della comunità europea, in Dialoghi Dir. Trib., 2007, 1017. In tema v. anche GAFFURI, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero, Milano, 2008, 282 ss.; CALIFANO, Controlled foreign companies: esperienze tributarie nazionali e principi del Trattato, in Lo stato della fiscalità dell’Unione europea, a cura di Di Pietro, Roma, 2003, II, 757; ROTONDARO, Note minime in tema di compatibilità dei regimi CFC con il diritto comunitario. Alcune riflessioni sul caso italiano, in Riv. Dir. Trib., 2000, I, 517.


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Anteriormente alla novella era necessario provare che l’attività industriale o commerciale, oggetto principale della partecipata estera, venisse «svolta nello Stato o territorio» estero. Tale previsione è stata interpretata nel senso che, per disapplicare la normativa CFC, era tendenzialmente necessario che la società partecipata disponesse, nel Paese estero in cui era collocata, di una struttura radicata sul territorio10. In tal senso, oltre alla dottrina, si è espressa l’Agenzia delle entrate in talune risoluzioni che hanno riconosciuto la sussistenza dell’esimente di cui alla lett. a soffermandosi proprio sulla struttura (sede, dipendenti, utenze, ecc.) della controllata estera11. Per effetto della novella apportata dal «decreto anti-crisi», invece, è richiesta la prova che la società estera svolga un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, «nel mercato dello stato o territorio di insediamento»12. Ad una prima lettura, la novellata normativa sembrerebbe interpretabile nel senso che l’esimente in argomento potrebbe essere riconosciuta solo con riferimento alle attività che si rivolgono al mercato del Paese estero di insediamento della CFC13. Concretamente, sarebbe necessario verificare se i clienti (o, forse, i fornitori) dell’impresa estera siano localizzati nel Paese di stabilimento della CFC o meno. Una siffatta ricostruzione potrebbe trovare conferma nello stesso nuovo testo dell’art. 167, nella parte in cui, con specifico riferimento alle attività bancarie, finanziarie e assicurative, stabilisce che l’esimente di cui alla lettera a risulta integrata a condizione che venga dimostrato che «la maggior parte delle fonti, impieghi o ricavi originano nello Stato o territorio di insediamento».

10 In tal senso v. LUPI, Principi generali in tema di CFC e radicamento territoriale delle imprese, in Rass. Trib., 2000, 1735 (secondo cui l’esimente in parola può «applicarsi a un buon numero di situazioni in cui esiste un radicamento territoriale effettivo; oggi, scomparso il riferimento al mercato dello stato o del territorio, le società esercenti una attività industriale o commerciale effettiva sono immuni dalla disposizione. È stato eliminato un forte elemento dirigistico prendendo atto che è del tutto lecito, nell’era della globalizzazione, produrre in un determinato Paese e poi vendere in un altro»); CORDEIRO GUERRA, Riflessioni critiche e spunti sistematici sulla introducenda disciplina delle controlled foreign companies, in Rass. Trib., 2000, 1408 (il quale evidenzia come la norma tenda a colpire «le ipotesi di produzione di reddito tramite attività – ancorché industriali o commerciali – non radicate in loco, e dunque fittiziamente dirottate sulla controllata»). In tema v. anche MARONGIU, Imprese estere partecipate: prime riflessioni sulle circostanze escludenti l’imputazione dei redditi ai soggetti controllanti, in Dir. e Prat. Trib., 2001, I, 141 ss.; MAISTO, Il regime di imputazione dei redditi delle imprese estere partecipate (cd. controlled foreign companies). Commento all’art. 1 del disegno di legge n. 4336/2000, in Riv. Dir. Trib., IV, 55 ss. 11 V., per esempio, le risoluzioni 19 dicembre 2002, n. 389 e 31 ottobre 2002, n. 343/E. 12 Si è, dunque, passati ad un testo simile a quello proposto prima dell’approvazione definitiva dell’art. 127-bis (ora 167) del T.U.I.R. – in cui si faceva riferimento all’aver svolto «principalmente un’attività industriale o commerciale effettiva nel mercato nel quale ha sede» la controllata – e poi modificato per effetto del-

Se per le imprese bancarie, finanziarie ed assicurative, l’esimente di cui alla lett. a ricorre qualora «la maggior parte delle fonti, impieghi o ricavi originano nello Stato o territorio di insediamento», infatti, si potrebbe desumere che per le altre tipologie di imprese (industriali, commerciali e di servizi) detta esimente dovrebbe considerarsi integrata a condizione che i clienti, i fornitori (in un certo modo assimilabili ai soggetti che nelle imprese finanziarie apportano le fonti e sono destinatari degli impieghi) o i ricavi «originano nello Stato o territorio di insediamento»14. Orbene, non sembra corretto ritenere che il radicamento di un’impresa, di un’attività economica effettiva, possa dirsi realizzato in un determinato Paese solamente a condizione che in detto Paese siano localizzati i fornitori e/o i clienti (e, quindi, in un certo senso, il luogo da cui «provengono» i ricavi). Né sembra che l’art. 167 del T.U.I.R. debba necessariamente essere letto secondo tale prospettiva. Volendo valorizzare, innanzitutto, la ratio della libertà di stabilimento15 – e, cioè, l’esigenza di permettere ai soggetti comunitari di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi attività e partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio, favorendo così l’interpenetrazione economica e sociale nell’ambito della Comunità nel settore delle attività indipendenti16 – non sembra che si possa negare che chi opera con una struttura effettiva in un determinato Stato, ancorché – per esempio – commerci «estero su estero» (eppertanto non abbia né fornitori né clienti in detto Stato), non sia integrato, non partecipi in modo stabile alla vita economica di detto Stato.

l’approvazione di un emendamento (XIII legislatura, seduta del 26 settembre 2000, n. 777, allegato A, 40, n. 1.19, Onorevole Pace e altri) che, per l’appunto, ha eliminato il riferimento al «mercato». In tema v. LUPI, Principi generali in tema di CFC e radicamento territoriale delle imprese, in Rass. Trib., 2000, 1733; IANNACCONE, La dimostrazione della “prima circostanza esimente” per disapplicare la normativa CFC e l’art. 110, comma 10, del T.U.I.R.: è giustificata una assimilazione delle due norme e quale importanza hanno le interrelazioni dei soggetti non residenti con il “mercato locale” del Paese estero?, in Riv. Dir. Trib., 2009, V, 118 ss. 13 Sul punto v. STEVANATO, Delocalizzazioni produttive e metamorfosi della disciplina CFC: dalla tassazione dei «passive income» alla penalizzazione dei «business income», in Dialoghi Dir. Trib., 2009, 358 ss., il quale critica la novella normativa proprio con riferimento alla sua compatibilità con l’ordinamento comunitario. 14 Una tale lettura, peraltro, pare in parte coincidere con la posizione recentemente assunta dall’amministrazione finanziaria, che, con la risoluzione 10 novembre 2008, n. 427/E, ha negato che sia possibile sostenere «che ai fini del radicamento della controllata estera nel territorio ospitante sia di per sé sufficiente la mera disponibilità in loco di una struttura organizzativa». Il caso affrontato, più precisamente, era quello di una società commerciale svizzera che, pur disponendo di una struttura organizzativa nel territorio della Confederazione elvetica, operava «estero su estero». Nella citata risoluzione si legge che «i beni oggetto di commercializzazione, generalmente, vengono direttamente spediti dalla società pro-

duttrice al cliente della CFC svizzera, senza transitare per il territorio elvetico. Il risultato finale è la localizzazione in territorio elvetico dell’utile relativo alle operazioni effettuate, che di fatto viene spostato da Paesi a fiscalità ordinaria alla Svizzera». Ebbene, l’Agenzia ha ritenuto non sussistere l’esimente di cui alla lett. a perché, operando la società «estero su estero», non vi sarebbe «alcun nesso economico, politico, geografico o strategico tra il Paese in cui la CFC è localizzata e i mercati ai quali si rivolge l’attività svolta». La posizione dell’agenzia, dunque, sembra aver anticipato la citata novella apportata dal «decreto anti-crisi» (sostenendone la piena compatibilità con l’ordinamento comunitario). 15 Giova ricordare che la sentenza CadburySchweppes ha espressamente affermato che «nel valutare il comportamento del soggetto imponibile si deve tener particolarmente presente l’obiettivo perseguito dalla libertà di stabilimento». Similmente, la sentenza 21 novembre 2002, C-436/2000, X e Y, ha affermato che «sebbene i giudici nazionali possano tener conto, caso per caso, basandosi su elementi obiettivi, del comportamento abusivo o fraudolento dell’interessato per negargli eventualmente la possibilità di fruire delle disposizioni di diritto comunitario invocate, tuttavia, nel valutare tale comportamento, essi devono tener presente le finalità perseguite dalle disposizioni comunitarie di cui trattasi» (nello stesso senso v. anche la sentenza Centros e la sentenza 2 maggio 1996, C206/1994, Paletta). 16 In questi termini le sentenze della Corte di Giustizia 30 novembre 1995, C-55/1994, Gebhard, e 21 giugno 1974, C-2/1974, Reyners.


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Il vero punto nodale di cui tenere conto nella valutazione del radicamento di un’impresa rispetto ad un determinato territorio appare, piuttosto, la sua presenza nel Paese di stabilimento mediante un’organizzazione effettiva, reale, tangibile, che svolga effettivamente la propria attività. Tant’è che nella sentenza Cadbury-Schweppes, la Corte di Giustizia ha sottolineato come, per essere giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive e quindi compatibile con il diritto comunitario, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo specifico scopo di ostacolare comportamenti consistenti nella creazione di costruzioni puramente artificiose «prive di effettività economica» e finalizzate ad eludere le imposte sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale, in quanto tali comportamenti violano il diritto degli Stati membri di esercitare la propria competenza fiscale in relazione alle attività svolte sul loro territorio e compromettono l’equilibrata ripartizione del potere impositivo. In tale sentenza, proprio muovendo dagli obiettivi perseguiti dalla libertà di stabilimento, è stato affermato che la nozione di stabilimento implica l’«esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro», eppertanto presuppone «un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale»17. E la verifica in ordine alla circostanza che la società estera rappresenti un insediamento reale, che abbia per oggetto l’espletamento di attività economiche effettive nello Stato membro di stabilimento, sempre secondo la Corte di Giustizia, dovrebbe poggiare su «elementi oggettivi [...] relativi, in particolare, al livello di presenza fisica [...] in termini di locali, di personale e di attrezzature». Ebbene, non vi è dubbio che una struttura tangibile localizzata in un determinato Paese, deputata all’esercizio di un’attività economica, possa rappresentare l’«insediamento effettivo» richiamato dalla Corte di Giustizia. Queste conclusioni dovrebbero valere altresì nel caso in cui essa operi prevalentemente – «in entrata» e/o «in uscita» – con l’estero, cioè senza rivolgersi al mercato si sbocco del Paese di stabilimento. L’esercizio di una «attività economica reale» in un determinato Paese, invero, dovrebbe presupporre che le principali operazioni di gestione in cui la citata attività si estrinseca avvengano in detto Paese (per il tramite, giustappunto, del citato insediamento effettivo), ma non necessita che anche i relativi clienti e fornitori siano localizzati nel Paese stesso. Tale distinzione è particolarmente rilevante con riferimento, per esempio, alle imprese commerciali che operano «estero su estero»: qualora un’impresa abbia sede in un determinato Stato membro, e da qui organizzi, coordini e gestisca la sua attività, tale attività dovrebbe considerarsi effettivamente insediata in detto Stato, indipendentemente dal fatto che l’«oggetto» dell’attività si trovi o sia diretto all’interno o all’esterno dello stesso. Una posizione contraria, del resto, rischierebbe di confondere l’attività (cioè l’organizzazione, il coordinamento dei fattori produttivi, la gestione del commercio, la produzione, l’erogazione di

17 In tema si veda altresì la sentenza 4 ottobre 1991, C-246/1989, Commissione/Regno Unito, che, muovendo dal presupposto che la nozione di stabilimento implica l’«esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro» ha affermato che la sola immatricolazione di una nave non implica necessariamente uno «stabilimento», specie nel caso in cui la nave non venga utilizzata per l’e-

un servizio, ecc.) con l’oggetto dell’attività (cioè la merce prodotta o commercializzata, ecc.). In materia sembra possibile valorizzare altresì il contenuto delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, in base alle quali la tie breaker rule ai fini della determinazione della residenza di una società è quella del luogo in cui si trova la sede della direzione (e non certo del luogo in cui sono localizzati clienti e fornitori). In base all’art. 4, par. 3 del modello di convenzione bilaterale Ocse, nel caso in cui una società risulti residente in ambedue gli Stati contraenti, al fine di dirimere la questione e scongiurare doppie imposizioni, è necessario fare riferimento al luogo in cui si trova la «sede della direzione effettiva»18. E la «sede della direzione effettiva», come si evince dal Commentario al modello di convenzione Ocse, coincide con il luogo in cui vengono prese le decisioni principali relative alla gestione dell’impresa e che, normalmente, corrisponde al luogo in cui la persona o le persone che esercitano le funzioni principali assumono le loro decisioni, fermo restando che debbono comunque essere prese in considerazione circostanze concrete da valutare caso per caso. Ebbene, se la presenza, all’interno del territorio di un determinato Paese, dell’organo amministrativo di un’impresa rappresenta un elemento tale da determinarne la residenza, allora tale elemento non potrà certo essere tout court ignorato per verificare – nell’ambito dell’applicazione delle regole CFC – il radicamento della stessa rispetto al citato territorio. La presenza fisica dell’organo amministrativo all’interno del Paese, infatti, dovrebbe presupporre altresì che le operazioni di coordinamento dei fattori produttivi impiegati avvengano all’interno del Paese stesso. Certo è che anche la forte presenza in un determinato Paese di clienti (magari associata alla sussistenza di una rete di vendita stabile ed organizzata) o di fornitori (nuovamente, magari con una organizzazione finalizzata alla conclusione dei contratti di acquisto) costituisce un segno del radicamento dell’impresa rispetto al territorio. La presenza della clientela e/o dei fornitori in un determinato Paese, cioè, in taluni casi può rappresentare una condizione sufficiente, ma non necessaria, per valutare il radicamento dell’impresa sul territorio. Si dovrebbe perciò considerare non radicata sul territorio quell’impresa che, a seguito di un’analisi specifica, che tenga in considerazione anche la tipologia di attività svolta e le caratteristiche del settore, non risulti legata al territorio stesso da un’organizzazione di mezzi, di risorse umane, di relazioni commerciali o da qualunque altro elemento idoneo a collegare l’impresa al Paese di stabilimento. Ebbene, una simile lettura – oltre ad essere in linea con l’orientamento della Corte di Giustizia – sembra comunque compatibile con la nuova formulazione dell’art. 167 del T.U.I.R. Laddove detta disposizione richiama il «mercato», invero, non si dovrebbe intendere il solo mercato di sbocco dei beni prodotti o commercializzati (o dei servizi erogati) dall’impresa CFC, e quindi la clientela della stessa. Né l’eventuale mercato di approvvigionamento, cioè i fornitori.

sercizio di un’attività economica o la domanda d’immatricolazione sia proposta da (o per conto di) una persona che non si è stabilita né si stabilirà nello Stato membro considerato. Ciononostante, conclude la Corte, qualora detta nave rappresenti uno strumento funzionale all’esercizio di una «attività economica implicante un insediamento in pianta stabile nello Stato membro considerato, la sua immatricolazione non può essere scissa dall’ esercizio della libertà di stabilimento.

Talché, le condizioni prescritte per l’immatricolazione di una nave non debbono creare ostacoli alla libertà di stabilimento» (negli stessi termini v. la sentenza 25 luglio 1991, C221/1989, Factortame). 18 Il citato art. 4, par. 3, stabilisce che «quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è residente di entrambi gli Stati contraenti, si ritiene che essa è residente solo dello Stato in cui si trova la sede della sua direzione effettiva».


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Al termine «mercato» – termine che, d’altro canto, non ha un preciso significato in ambito tributario – sembra possa essere data una lettura ampia, non solo come mercato dei beni trattati dall’impresa (mercato di approvvigionamento e di sbocco) ma anche come mercato del lavoro, mercato dei servizi, mercato dei capitali, ecc. Si tratta di una soluzione più ragionevole, considerato che nell’ambito di un’economia globalizzata e caratterizzata da forti fenomeni di delocalizzazione, fare riferimento all’ubicazione della clientela o dei fornitori, ai fini della verifica del radicamento sul territorio, potrebbe portare a risultati fuorvianti. Né può dimenticarsi che il «mercato» di alcuni Paesi è difficilmente circoscrivibile e non può considerarsi coincidente con i relativi confini geografici19. In altre parole, sembra necessario effettuare una valutazione case by case basata anche, ma non solo, sull’analisi della clientela e dei fornitori dell’impresa estera e che tenga altresì in considerazione dell’interpenetrazione della stessa sul «mercato» (inteso, per l’appunto, in senso ampio) del Paese estero. Il tutto in termini di presenza tangibile sul territorio e, quindi, di contatto con il mercato del lavoro e delle risorse umane, del mercato immobiliare, del mercato dei servizi, del mercato dei capitali, ecc.20 Tale ricostruzione ha il pregio di essere ragionevole e compatibile con il dettato normativo e, per quel che riguarda le controllate ubicate in Paesi UE, di rendere quest’ultimo coerente con i principi fissati dalla Corte di Giustizia, che – discendendo dalla ratio della libertà di stabilimento – richiedono che venga operata una verifica in ordine alla partecipazione alla vita economica del Paese estero. 3. La non operatività dell’esimente di cui alla lett. a del comma 5 dell’art. 167 del T.U.I.R. La disciplina dell’art. 167 del T.U.I.R. è stata ulteriormente integrata con l’introduzione del comma 5-bis, in forza del quale la citata esimente di cui alla lett. a non può essere ottenuta con riferimento alle partecipazioni in società i cui proventi derivano per più del 50% del loro ammontare «dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre atti-

19 Il punto appare pacifico con riferimento ai soggetti localizzati in Paesi comunitari, che, per definizione, dovrebbero poter operare liberamente all’interno del mercato unico. A tal proposito è utile richiamare il contenuto della risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 26 maggio 2009, n. 128/E, che, sebbene riferita al caso di un’impresa controllata ubicata al di fuori del territorio dell’Unione europea (e, segnatamente, a Hong Kong) ha riconosciuto la possibilità che il «mercato» non coincida con i confini geografici di un determinato Paese o territorio. Tale risoluzione, infatti, ha confermato la sussistenza dell’esimente di cui alla lett. a) con riferimento ad una società ubicata ad Hong Kong, evidenziando che «la localizzazione della società controllata BETA Limited nel territorio di Hong Kong trae motivazioni economiche dalla circostanza che le fonti di produzione e di lavorazione dell’attività esercitata si trovano in quel territorio e nell’area geografica circostante, che rappresenta peraltro un significativo mercato di sbocco della società controllata medesima». 20 Come condivisibilmente rilevato da MAISTOPISTONE, Modello europeo per le legislazioni degli stati membri in materia di imposizione fiscale delle società controllate estere (CFC), in Riv. Dir. Trib., 2008, V, 210, la verifica della sussistenza di una costruzione di

vità finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica, nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari». Viene, dunque, negata la ricorrenza dell’esimente di cui alla lett. a in considerazione della tipologia di proventi conseguiti dalla società controllata, con una sorta di presunzione assoluta di non radicamento sul (e di non esercizio di attività economiche effettive nel) territorio estero. La norma sembra muovere dal presupposto che le società che conseguono, per oltre il 50% del totale, i proventi sopra indicati, siano sistematicamente «costruzioni di puro artificio» che non svolgono attività economiche effettive nel Paese di residenza. Si tratta di un’ipotesi non condivisibile e non ragionevole. Per quanto non possa escludersi che dietro una società che – per esempio – consegue esclusivamente royalty per la concessione in uso di un brevetto si nasconda un soggetto che non svolge alcuna attività economica effettiva (una «costruzione di puro artificio»), non può certo affermarsi che società che conseguono detti proventi, producono brevetti, hanno una struttura, dipendenti, beni strumentali, ecc., siano del pari sistematicamente società «fantasma» o «schermo» che non svolgono alcuna attività economica effettiva nel Paese di insediamento. Analogamente, vi sono holding che esercitano concretamente attività di gestione e coordinamento delle partecipazioni detenute ed erogano servizi in modo accentrato alle società controllate, e holding che, diversamente, si limitano a detenere partecipazioni e ad incassarne i relativi frutti, senza svolgere alcuna attività. Ebbene, tra le ipotesi–limite formulabili (attività estremamente dinamiche, da una parte, attività assolutamente statiche, dall’altra) vi è certamente un’ampia «zona grigia» costituita da società – sia holding21 sia società che percepiscono esclusivamente royalty

mero artificio dovrebbe considerare non solo l’elemento oggettivo – consistente nell’assenza di un insediamento reale avente ad oggetto l’espletamento di un’attività economica effettiva nel Paese di stabilimento – ma anche l’elemento soggettivo, vale a dire la volontà di ottenere un vantaggio fiscale. 21 La possibilità di assoggettare sistematicamente alla disciplina CFC le società che si limitano a conseguire passive income potrebbe derivare, secondo una certa ricostruzione, dalla circostanza che esse non eserciterebbero effettivamente quella «attività economica» richiesta dalla Corte di Giustizia affinché sia possibile invocare la libertà di stabilimento. Il punto è stato oggetto di dibattito con particolare riferimento alle holding. A tal proposito – senza alcuna pretesa di esaustività – è interessante notare che, sia pure nell’ambito di una controversia che non riguardava le disposizioni CFC, la Corte di Giustizia, nella sentenza 10 gennaio 2006, C222/2004, Cassa di Risparmio di Firenze S.p.A., ha affermato che «il semplice possesso di partecipazioni, anche di controllo, non è sufficiente a configurare un’attività economica del soggetto che detiene tali partecipazioni, quando tale possesso dà luogo soltanto all’esercizio dei diritti connessi alla qualità di azionista o socio nonché, eventualmente, alla percezione dei dividendi, sempli-

ci frutti della proprietà di un bene. Viceversa, un soggetto che, titolare di partecipazioni di controllo in una società, eserciti effettivamente tale controllo partecipando direttamente o indirettamente alla gestione di essa, deve essere considerato partecipe dell’attività economica svolta dall’impresa controllata» (per la giurisprudenza nazionale si richiamano, invece, le sentenze della Corte di Cassazione a sez. un. 22 gennaio 2009, n. 1576 e 22 gennaio 2009, n. 1593, riferite al caso delle fondazioni bancarie, secondo cui «anche la detenzione di partecipazioni, quando si traduce in un vero e proprio controllo, dà luogo ad esercizio di impresa e ad assoggettamento a procedura concorsuale»). Per quel che riguarda l’attività di erogazione di finanziamenti da parte di una holding, la sentenza 14 novembre 2000, C142/1999, Floridienne SA, Berginvest SA, ha affermato – in materia di Iva – che «affinché l’attività di una holding consistente nel mettere un capitale a disposizione delle sue consociate possa essere considerata di per sé un’attività economica, consistente nello sfruttamento di detto capitale per ricavarne introiti aventi carattere permanente sotto forma di interessi, occorre che tale attività non sia esercitata soltanto a titolo occasionale e che non si limiti alla gestione di un portafoglio di investimenti alla guisa di un


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o interessi22 – che possono avere diversi gradi di vitalità economica e la cui natura, ai fini della disciplina in argomento, è assai complessa da determinare e, comunque, mal si presta ad essere prestabilita con il meccanismo introdotto dal legislatore, basato esclusivamente sulla tipologia di proventi conseguiti23. Tale constatazione è ancor più evidente per quanto riguarda le società che esercitano le attività, richiamate dal citato comma 5bis, di service intragruppo. È forse possibile affermare che una società che – con una struttura dotata di dipendenti ed adeguate risorse – si occupa di erogare servizi infragruppo (promozione del marchio piuttosto che contabilità o formazione del personale, ecc.) sia sistematicamente una società «fantasma» o «schermo»24? L’esercizio delle attività elencate dal legislatore – in assenza di ulteriori elementi sintomatici – non appare in grado di individuare, con ragionevole certezza, le società «fantasma» o «schermo» verso le quali la norma CFC può e deve essere indirizzata. Il legislatore, dunque, ha sostanzialmente introdotto una sorta di presunzione assoluta25, che non è neppure fondata sull’id quod plerumque accidit26. Né si dica che la possibilità di dimostrare la sussistenza della esimente sub b sarebbe sufficiente a rendere coerente e ragionevole la disposizione in rassegna. Qualora un’impresa controllata fruisca di un trattamento fiscale di favore in un Paese membro, ma non rappresenti una «costruzione di puro artificio», essa non può essere assoggettata ad un regime fiscale di sfavore. In base agli illustrati principi enunciati

investitore privato [...] ma che sia effettuata nell’ambito di un obiettivo imprenditoriale o ad un fine commerciale, contraddistinto in particolare dall’intento di garantire la redditività dei capitali investiti». La posizione della Corte di Giustizia, sia pure non maturata nello specifico ambito di cui si tratta, potrebbe essere ricostruita nel senso di riconoscere lo svolgimento di un’attività economica effettiva in quei casi in cui il conseguimento di passive income si accompagni all’effettuazione di, sia pure limitate, «operazioni attive». E ciò, ai fini che qui interessano, potrebbe essere in linea con la ratio della libertà di stabilimento – che la Corte di Giustizia espressamente richiede di valutare – di tutelare i soggetti che si stabiliscono in uno Stato membro per esercitarvi un’attività, favorendo così l’interpenetrazione economica e sociale. In dottrina sul punto v. anche LUPI, Principi generali in tema di CFC, e radicamento territoriale delle imprese, in Rass. Trib., 2000, 1730 ss.; GRILLI, Le costruzioni di puro artificio nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: considerazioni in tema di effettiva attività economica, in Rass. Trib., 2008, 1169 ss. 22 In argomento v. LUPI, Regole cfc e stati membri della comunità europea, in Dialoghi Dir. Trib., 2007, 1030, il quale sottolinea il contrasto tra la nozione di «costruzione di puro artificio» e la normativa italiana (che si riferisce all’esercizio di un’attività economica effettiva), evidenziando che «la percezione di royalties, o di interessi attivi, se effettiva, non è una costruzione di mero artificio, mentre secondo la norma italiana non è una attività – industriale o commerciale effettiva». Similmente v. Id., Illegittimità delle regole CFC se rivolte a paesi comunitari: punti fermi e sollecitazioni sulla sentenza

dalla Corte di Giustizia, infatti, deve essere possibile ottenere la disapplicazione della normativa CFC qualora la società partecipata non sia una «costruzione di puro artificio», ancorché questa si sia radicata all’estero proprio con la finalità di fruire del miglior regime fiscale (e, quindi, nella specie, indipendentemente dalla ricorrenza della esimente sub b). Ma, come visto, non è corretto ritenere che una società i cui proventi derivano per più del 50% dalle sopra individuate attività (a maggior ragione se trattasi di servizi intragruppo) sia sistematicamente una «costruzione di puro artificio» che non esercita alcuna attività economica effettiva nel Paese di stabilimento. Talché, sotto questo profilo, la novella apportata all’art. 167 del T.U.I.R. si presta ad essere censurata – quantomeno con riferimento alle partecipate localizzate in Paesi UE – in quanto irragionevole ed in contrasto con i principi enunciati dalla Corte di Giustizia. 4. L’ampliamento dell’ambito oggettivo di applicazione della disciplina CFC L’ultima modifica apportata alla disciplina CFC riguarda l’ambito oggettivo di applicazione. Con il neointrodotto comma 8-bis è stata estesa l’applicazione del meccanismo di tassazione per trasparenza a tutte le società controllate, indipendentemente dal Paese di residenza, a condizione che si verifichino congiuntamente due condizioni. In particolare, il soggetto controllato deve: a) essere assoggettato a «tassazione effettiva inferiore a più della metà» di quella a cui sarebbe stato soggetto se residente in Italia27; b) aver conseguito,

«Schweppes», in Dialoghi Dir. Trib., 2006, 1591. 23 Non dovrebbe rilevare, invece, la circostanza che trattasi di attività che, tendenzialmente, per loro natura si prestano ad essere svolte indifferentemente in un Paese piuttosto che nell’altro, posto che la Corte di Giustizia, nella sentenza Cadbury-Schweppes, ha affermato che «la circostanza che le attività corrispondenti agli utili della SEC ben avrebbero potuto essere effettuate anche da una società stabilita sul territorio dello Stato membro in cui si trova la società residente non può permettere di concludere per l’esistenza di una costruzione di puro artificio». 24 È interessante notare che la Corte di Giustizia, nella citata sentenza 14 novembre 2000, C-142/1999, Floridienne SA, Berginvest SA, nell’ambito di una controversia in materia di imposta sul valore aggiunto, ha sottolineato come l’attività svolta da società holding e che implica il compimento «di operazioni soggette all’Iva [...] quali la prestazione di servizi amministrativi, di contabilità ed informatici [...] alle loro consociate» possa considerarsi «un’attività economica ai sensi dell’art. 4, n. 2, della sesta direttiva». 25 Sulla contrarietà al diritto comunitario delle presunzioni assolute dell’insussistenza di un’attività economica effettiva con riferimento a determinati comparti economici v. MAISTO-PISTONE, Modello europeo per le legislazioni degli stati membri in materia di imposizione fiscale delle società controllate estere (CFC), in Riv. Dir. Trib., 2008, V, 199. 26 Sebbene la previsione in argomento riguardi solamente le società che esercitano determinate attività, non può sottacersi che la Corte di Giustizia, anche nella sentenza CadburySchweppes, ha affermato che la mera circostanza che una società residente costituisca

una società controllata in un altro Stato membro non può fondare una presunzione generale di frode fiscale, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato. Sul punto v. anche la sentenza 21 novembre 2002, C436/2000, X e Y, con cui la Corte di Giustizia ha ritenuto contrastante con la libertà di stabilimento una norma svedese che, nel caso di cessione sottoprezzo di azioni di società, escludeva il cedente dal beneficio di un differimento del pagamento dell’imposta sulle plusvalenze realizzate, nel caso in cui la cessione fosse effettuata a favore di una persona giuridica straniera (e a condizione che in tale persona giuridica il cedente detenesse, direttamente o indirettamente, una partecipazione tale da conferirgli un’influenza certa sulle decisioni della stessa) o a favore di una società per azioni svedese controllata da tale persona giuridica straniera. Il tutto affermando il principio che «una presunzione generale di evasione o di frode fiscale non può fondarsi sul fatto che la società cessionaria o la società controllante di questa abbia sede in un altro Stato membro, né giustificare una misura fiscale che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato». V. anche la sentenza 4 marzo 2004, C-334/2002, Commissione/Francia, in cui, pur muovendo dal presupposto che la lotta contro l’evasione fiscale e l’efficacia dei controlli fiscali possono essere invocate per giustificare restrizioni dell’esercizio delle libertà fondamentali, è stato affermato che «una presunzione generale di evasione o di frodi fiscali non può bastare a giustificare una misura fiscale che pregiudichi gli obiettivi del Trattato». 27 Per operare la comparazione richiesta dalla norma dovrebbe essere necessario ricomputare il reddito conseguito dalla società este-


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per più del 50% del loro totale, proventi derivanti «dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari». La testé descritta estensione della normativa CFC può essere comunque evitata, a condizione che il contribuente dimostri che «l’insediamento all’estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale» (così il comma 8-ter, introdotto dal «decreto anti-crisi»). Quest’ultima costituisce una clausola di chiusura, evidentemente mirata a scongiurare che la citata disposizione contrasti apertamente con l’ordinamento comunitario e con i principi affermati dalla Corte di Giustizia che, come visto, ha stabilito, proprio con riferimento alle società controllate residenti in Paesi UE, che affinché non venga violata la libertà di stabilimento di cui all’articolo 42 del Trattato UE «le misure antiabuso devono essere precisamente mirate alle costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa nazionale»28. Merita tuttavia approfondire se, indipendentemente dalla clausola di chiusura contenuta nel comma 8-ter, la disposizione in argomento possa comunque stridere rispetto ai citati principi. A tal proposito va innanzitutto ricordato che anche nei casi in cui una disposizione che limita l’esercizio della libertà di stabilimento sia giustificata da ragioni imperative di interesse generale, la sua applicazione, in base al principio di proporzionalità, deve essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo in tal modo perseguito ma non eccedere quanto necessario per raggiungerlo29. A ciò si aggiunga che parte della dottrina30, richiamando i principi espressi nella precedente sentenza della Corte di Giustizia 28 ottobre 1999, C-55/1998, Bent Vestergaard, ha evidenziato che an-

ra applicando le disposizioni italiane, determinare – sempre applicando le disposizioni italiane – la relativa imposta e confrontare tale importo con le imposte sostenute all’estero. In tal senso è orientato anche il documento ASSONIME, Commenti in relazione all’articolo 13 del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, in http://www.abi.it/doc/125966761682620_g __servizi_1.pdf, 22, in cui – per quanto riguarda le holding – viene correttamente evidenziato che la tassazione sul 5% di plusvalenze e dividendi di cui agli artt. 87 e 89 del T.U.I.R. costituisce un recupero forfettario di costi indeducibili e che pertanto, nell’ambito della comparazione in argomento, il regime italiano dovrebbe essere considerato analogo a quello di integrale esenzione. 28 In questi termini la sent. 12 settembre 2006, C-196/2004, Cadbury-Schweppes. 29 In tal senso, per tutte, v. la sentenza della Corte di Giustizia, 13 dicembre 2005, C446/2003, Marks & Spencer. 30 PISTONE, Normativa CFC, convenzioni internazionali e diritto comunitario, in Tributi Impresa, 2004, 53. Sul versante interno, v. da ultimo, Le società di comodo, a cura di Tosi, Padova, 2008, 8, secondo cui è errato ritenere che qualora al contribuente venga riconosciuto il diritto di difendersi e di fornire la prova contraria, qualunque regime presuntivo sarebbe legittimo: «prima il contribuente ha diritto a misurarsi rispetto ad una conte-

che l’inversione dell’onere della prova – in presenza della direttiva comunitaria sullo scambio di informazioni31 – rischia di essere una misura che eccede quanto necessario per contrastare i fenomeni abusivi. Ebbene, l’assoggettamento a tassazione effettiva inferiore alla metà di quella a cui la società controllata sarebbe stato soggetta se residente in Italia e l’esercizio prevalente delle attività elencate dal legislatore (gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, ecc.) rappresentano senz’altro elementi indiziari che possono aiutare ad individuare le società «fantasma» o «schermo». Non sembra, tuttavia, che si tratti di elementi diretti idonei a dimostrare con sufficiente certezza la circostanza che la società estera è una costruzione di puro artificio, quali potrebbero essere, piuttosto, a titolo esemplificativo, la mancata disponibilità di una sede, l’assenza in loco di asset o risorse, ecc. Quanto al livello di tassazione, è sufficiente ricordare che la Corte di Giustizia ha chiaramente affermato che un soggetto comunitario non può essere privato della possibilità di avvalersi delle disposizioni del Trattato solo perché ha voluto fruire dei vantaggi fiscali offerti dalle norme di uno Stato membro diverso da quello in cui risiede32 e che la costituzione di una società in uno Stato membro con la finalità di fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso della libertà di stabilimento33. Tant’è che nella sentenza 12 settembre 2006, causa C-196/2004, Cadbury-Schweppes, la Corte di Giustizia ha affermato espressamente che il fatto che una società di un Paese membro abbia deciso di costituire due filiali «al fine di beneficiare del favorevole regime fiscale che tale stabilimento comporta non costituisce di per sé un abuso» e pertanto non preclude alla prima di invocare la libertà di stabilimento34. Quanto all’attività svolta, invece, si è già evidenziato che lo svolgimento delle attività citate dal legislatore sia assolutamente compatibile con la sussistenza di un’attività economica effettiva. La scelta del legislatore è perciò quantomeno discutibile poiché,

stazione fondata; poi, rispetto ad una contestazione fondata, il contribuente ha anche il diritto di difendersi. Come noto, infatti, la Carta costituzionale riconosce il diritto di difesa all’art. 24, ma, all’art. 53, sancisce l’obbligo per il legislatore di introdurre disposizioni (e, per l’amministrazione finanziaria, di operare accertamenti) che siano rispettose del principio di capacità contributiva». 31 E in quest’ottica non può sottovalutarsi come la stessa Corte di Giustizia, nella sentenza Cadbury-Schweppes, abbia sottolineato che, nel caso affrontato, le autorità nazionali competenti avevano la possibilità, per ottenere le informazioni necessarie sulla reale situazione della società estera controllata, di ricorrere ai meccanismi di collaborazione e di scambio d’informazioni (nella fattispecie si trattava della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, 77/799/CEE e della convenzione bilaterale tra Regno Unito e Irlanda). Sulla necessità che nell’ambito dell’applicazione delle disposizioni CFC l’amministrazione finanziaria abbia un ruolo attivo v. BEGHIN, La sentenza Cadbury-Schweppes e il “malleabile” principio della libertà di stabilimento, in Rass. Trib., 2007, 992. 32 Così si esprime la sentenza CadburySchweppes, nonché la precedente sentenza 11 dicembre 2003, C 364/2001, Barbier. 33 Analogamente, sia pure con riferimento a questioni non tributarie, la Corte di Giustizia

ha evidenziato che «il fatto che un cittadino di uno Stato membro che desideri creare una società scelga di costituirla nello Stato membro le cui norme di diritto societario gli sembrino meno severe e crei succursali in altri Stati membri non può costituire di per sé un abuso del diritto di stabilimento. Infatti, il diritto di costituire una società in conformità alla normativa di uno Stato membro e di creare succursali in altri Stati membri è inerente all’esercizio, nell’ambito di un mercato unico, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato» (sentenza 9 marzo 1999, C-212/1997, Centros). In tema v. anche la sentenza 30 settembre 2003, C-167/2001, Inspire Art. 34 Sul tema della esclusività dello scopo del risparmio fiscale v. BEGHIN, La sentenza Cadbury-Schweppes e il “malleabile” principio della libertà di stabilimento, in Rass. Trib., 2007, 986 ss., il quale evidenzia che la sentenza Cadbury-Schweppes ha riconosciuto la conformità al sistema dello «sfruttamento delle asimmetrie tra le disposizioni (non armonizzate) che, nell’ambito degli Stati aderenti all’Unione europea, consentono di minimizzare l’impatto dell’imposta reddituale. Più semplicemente, secondo la Corte il vantaggio connesso alla particolare localizzazione extraterritoriale della struttura produttiva non costituisce una forzatura (un abuso, appunto) delle libertà garantite dal diritto comunitario».


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pur riconoscendo espressamente la possibilità di dimostrare che la società estera non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale, pone l’onere probatorio a carico del contribuente al ricorrere di circostanze solamente parzialmente indicative della sussistenza di un’ipotesi abusiva ed indipendentemente dalla circostanza che la società estera sia localizzata in un Paese con il quale l’amministrazione finanziaria può attuare efficacemente scambi di informazioni. In definitiva, la disposizione in commento, comportando un’inversione dell’onere probatorio a carico del contribuente al verifi-

35 In tema è interessante ricordare che la Corte di Giustizia ha negato la legittimità della exit tax francese, affermando che contrasta con il Trattato anche una limitazione della libertà di stabilimento «di debole portata o di minore importanza» (sentenza 11 marzo 2004, 9/2002, Lasteyre du Saillant). Più

carsi dell’esercizio di un’attività in altro Paese membro per il tramite di una controllata, provoca una – sia pure di minor importanza – limitazione alla libertà di stabilimento35. Limitazione che non sembra pienamente giustificata in termini di proporzionalità, se si considera la descritta scarsa selettività della disposizione in argomento (che, come detto, si basa su elementi non sempre indicativi della sussistenza di un’ipotesi abusiva) e la circostanza che essa non considera in alcun modo la possibilità per l’amministrazione finanziaria di acquisire elementi utili ai fini accertativi mediante i procedimenti di scambio di informazioni.

precisamente, in applicazione di tale principio, la Corte di Giustizia ha ritenuto che, per rendere compatibile la exit tax rispetto al principio della libertà di stabilimento, non era sufficiente la previsione che consentiva di ottenere il rinvio del pagamento di detto tributo, in quanto tale rinvio non era auto-

matico, bensì «soggetto a rigorose condizioni, come l’obbligo di effettuare una dichiarazione entro il termine previsto, di designare un rappresentante residente in Francia e di costituire garanzie idonee ad assicurare la riscossione delle imposte».


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ACCERTAMENTO INDAGINI BANCARIE, UTILIZZABILITÀ DELLE PROVE IRRITUALMENTE ACQUISITE E SISTEMA DI PRESUNZIONI DI CUI AL COMMA 2, ART. 32 DEL D.P.R. 600/1973 1

Commissione tributaria regionale delle Marche, sez. VI, 7 maggio 2009, n. 111 Presidente: Spingardi - Relatore: Ferri

Accertamento - Accertamenti bancari - Utilizzabilità delle prove acquisite irritualmente - Legittimità Mancanza di autorizzazione alle indagini bancarie Irrilevanza (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32) Accertamento - Indagini bancarie effettuate nei confronti di società a ristretta base azionaria - Presunzione di distribuzione ai soci di utili “extra bilancio” - Deduzione di costi presunti dai ricavi lordi - Legittimità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32) Non sono inutilizzabili le prove acquisite mediante accertamenti bancari effettuati in assenza dell’autorizzazione del comandante della Guardia di Finanza o del direttore dell’Agenzia delle Entrate riguardando, tale autorizzazione, rapporti interni all’amministrazione finanziaria. In caso di indagini bancarie effettuate nei confronti di una società a azionaria ristretta e/o familiare, la presunzione di distribuzione ai soci di utili non contabilizzati può essere fondata sui movimenti bancari dei conti correnti della società, deducendo, dai ricavi lordi, una percentuale presunta di costi. Con atto di accertamento n. [...], notificato il 28 dicembre 2000, l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Macerata accertava per l’anno 1995, ai sensi dell’art. 41-bis del D.P.R. n. 600/1973, a carico della sig.ra G.A., il reddito di capitale di lire 2.135.914.000. L’accertamento si basava sulla rettifica del reddito d’impresa effettuato, per lo stesso periodo, in capo della società C.R. S.r.l. mediante avviso di accertamento n. [...], allegato all’atto di accertamento citato in premessa e peraltro notificato anche alla contribuente nella qualità di liquidatore, di cui la contribuente risultava essere proprietaria di quote societarie nella misura del 90% del capitale sociale. L’ufficio finanziario, basandosi sulla circostanza che la società era a ristretta base azionaria e familiare, presumeva che i maggiori ricavi non contabilizzati né dichiarati dalla società pari a £ 2.373.238.134 fossero stati distribuiti come utile extrabilancio ai soci «mancando nella fattispecie, la dimostrazione della destinazione di tali ricavi evasi». I suddetti maggiori ricavi, come da Pvc redatto dalla Guardia di Finanza, comando compagnia di Civitanova Marche in data 25 giugno 2001 e notificato in pari data alla contribuente, originavano da operazioni bancarie su conto correnti bancari intestati ai soci di cui lire 1.419.763.149 relativi ad accreditamenti dei quali la società non aveva dimostrato di averne tenuto conto nella determinazione del reddito d’impresa e lire 953.474.985 relativi a prelevamenti dei quali la società non aveva indicato il beneficiario né la loro destinazione. La contribuente impugnava l’atto impositivo dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Macerata eccependo: 1. violazione dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973 per carenza di motivazione dell’avviso di accertamento;

2. violazione dell’art. 41-bis del D.P.R. n. 600/1973; 3. illegittimità della presunzione di distribuzione di utili extrabilancio; 4. illegittimità dell’atto per delega del potere di accertamento a soggetto non legittimato nonché illegittima acquisizione di prove. La Commissione adita con sentenza n. 77/3/2006, pronunciata il 24 novembre 2006 e depositata il 15 dicembre 2006, respingeva il ricorso. Contro tale sentenza, con atto notificato il 25 gennaio 2008 e depositato il 5 febbraio 2008, presentava appello la contribuente chiedendone la riforma e per l’effetto di dichiarare illegittimo o, comunque, infondato l’avviso di accertamento anche con riferimento alla irrogazione delle sanzioni, con vittoria di spese di entrambi i gradi di giudizio. L’appellante dopo aver lamentato un’insufficiente e caotica motivazione della sentenza gravata ripresenta le doglianze già sviluppate in primo grado. Con atto depositato il 17 marzo 2008 si costituisce l’ufficio chiedendo il rigetto dell’appello con vittoria delle spese di giudizio di entrambi i gradi di giudizio. La causa è discussa in pubblica udienza, presenti entrambe le parti in causa. In sede dibattimentale l’ufficio fa presente che la sentenza n. 93/03/2006 della Comm. trib. prov. di Macerata, depositata il 24 settembre 2007, che ha respinto il ricorso della società C.R. S.r.l. avverso il maggiore accertamento del reddito dell’anno 1995 non risulta essere stata impugnata nei termini per cui il maggior ricavo è pari a lire 2.373.238.134 si è reso definitivo. Il difensore della contribuente osserva che l’omessa impugnazione trovava motivo nel sopravvenuto fallimento della società, ma che, comunque, la contribuente ha contestato l’infondatezza della pretesa erariale in diritto e nel merito sin dal 1 grado. Vanno preliminarmente respinte le eccezioni dell’appellante riguardanti la presunta omessa motivazione dell’avviso di accertamento per omessa allegazione del Pvc della Guardia di Finanza e l’errata applicazione dell’art. 41-bis del D.P.R. 600/1973. Sul primo punto osserva il Collegio che la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 1873 del 2 luglio 2008 con riferimento all’art. 7, comma 1, del cd. Statuto del contribuente così si è espressa: «la norma citata, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non intende certo riferirsi adatti di cui il contribuente avvia già integrale e legale conoscenza per effetto di precedente notificazione. L’interpretazione puramente formalistica nel senso della necessità di allegare all’atto menzionato nella motivazione, anche se già notificato separatamente al destinatari, si porrebbe infatti in contrasto col criterio ermeneutico che impone di dare alle norme procedurali una lettura che, nell’interesse generale , faccia bensì salva la funzione di garanzia loro propria, limitando pèrò al massimo le cause d’invalidità o d’inammissibilità chiaramente irragionevoli (criterio richiamato anche da Corte cost., sent. n. 189/2000, con specifico riferimento al processo tributario, ma sicuramente estensibile alla procedura amministrativa predisposta per l’emis-


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sione dell’atto impositivo; nello stesso senso, sez. un., n. 3118 e 3116/2006; Cass., n. 5356/2006, 18088/2004)». Ciò premesso nel casso di specie il Pvc redatto dalla Guardia di Finanza in data 25 giugno 2001 risultava notificato alla contribuente appellante in quanto , all’epoca dei fatti, legale rappresentante della società C.R. S.r.l. La Suprema Corte si è espressa anche sull’istituto dell’accertamento parziale di cui all’art. 41-bis del D.P.R. n. 600/1973 affermando testualmente che «l’utilizzo dell’accertamento parziale è nella disponibilità degli uffici quando ad essi pervenga una segnalazione per ritenere la sussistenza di un reddito non dichiarato senza che tale strumento (neppure prima delle modifiche apportate nel 2004) possa essere subordinato ad una particolare semplicità della segnalazione pervenuta» (Cass., sez. V, n. 11057 del 2006). Non va, peraltro, sottaciuto che nel presente caso la prova presunta era caratterizzata da una consistente gravità fondata su accertamenti bancari. Parimenti infondate sono le eccezioni circa la illegittimità delega del potere di accertamento a soggetto non legittimato (Guardia di Finanza) e illegittima acquisizione delle prove. Con sentenza n. 1236 del 23 gennaio 2006 la Corte di Cassazione nel cassare mediante rinvio una sentenza di un Comm. trib. reg. ha espresso il principio di diritto secondo il quale «l’atto amministrativo finale d’imposizione tributaria , il quale sia il risultato dell’esercizio di un potere amministrativo frazionato anche in poteri istruttori attribuiti, in proprio o per delega, ad altri uffici amministrativi, è legittimamente adottato quanto, munendosi si un’adeguata motivazione, faccia propri i risultati conseguiti nelle precedenti fasi procedimentali». Il Collegio non ha motivo di discostarsi da tale principio di diritto tenuto conto dell’adeguata motivazione dell’avviso di accertamento. E, sempre secondo la giurisprudenza di legittimità, l’avviso di accertamento fondato sulle presunzioni derivanti dalle movimentazione bancarie è legittimo anche qualora la verifica sia stata eseguita in assenza dell’autorizzazione del comandante di zona (per la Guardia di Finanza) o del direttore centrale dell’accertamento (per l’Agenzia delle Entrate) cos’ come previsto dall’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 in quanto l’assenza della suddetta autorizzazione non comporta l’inutilizzabilità dei dati acquisiti, posto che essa attiene ai rapporto interni e che in materia tributaria non vige il principio di inutilizzabilità delle prove irritualmente acquisite (ultima sent., Cass., n. 4001 del 2009). Va aggiunto che l’appellante non ha affermato che sui conti bancari, oggetto della verifica, non fossero transitate operazioni riconducibili alla società e quindi legittimamente la Guardia di Finanza li ha ritenuti nella disponibilità della stessa. Circa, infine, la validità della presunzione di automatica attribuzione, ai soci, di utili extracontabili accertati in capo a società di capitali a ristretta base azionaria o familiare la giurisprudenza della Cassazione è ormai consolidata nel senso che «non può in principio escludersi la idoneità della base azionaria ristretta e/o familiare a fondare la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati». La ristretta base partecipativa della società non risulta, peraltro, contestata. Ciò premesso, tuttavia, il Collegio osserva che la Cassazione ha,

in ogni caso, precisato che l’art. 5 del T.U.I.R. non è suscettibile di applicazione analogica. (cfr. Cass., n. 3254/2000). Con la successiva sentenza n. 19803 del 2003 ha ulteriormente puntualizzato: «non è dunque stato applicato il principio di trasparenza di cui all’art. 5 del D.P.R. 917/1986 (concernente le società di persone e improntato al diverso principio dell’imputazione ai soci del reddito sociale, indipendentemente dall’effettiva percezione), ma proprio il principio (di cassa) dell’imputazione ai soci del reddito delle società di capitali effettivamente percepito come dividendo». A seguito della suddetta precisazione della Suprema Corte il Collegio ritiene di dover ulteriormente osservare che il dividendo distribuito ai soci delle società di capitali differisce dal reddito imputato ai soci per trasparenza nella società di persone. Il primo, infatti, fa riferimento all’utile civilistico che tiene conto di tutti i costi sostenuti, mentre il secondo a l reddito fiscale il quale, quest’ultimo, include anche costi ritenuti fiscalmente deducibili. Sul punto la Suprema Corte si è espressa solo con riguardo all’utile al netto delle imposte affermando che «la quota attribuita al socio non può essere considerata al netto delle imposte che la società è tenuta a pagare, in quanto, trattandosi di ricavi extracontabili, nessun pagamento di imposte è ipotizzabile» (Cass., sez. V, n. 16885 del 2003). Con ciò però implicitamente riconoscendo che l’utile da attribuire ai soci deve essere corretto di quei costi recuperati a tassazione dall’amministrazione finanziaria ma che la società effettivamente ha sostenuto e di cui non è ipotizzabile una distribuzione. Alla luce delle suesposte considerazioni nella presente fattispecie il maggior reddito accertato dall’ufficio poggia sull’applicazione della presunzione legale ex art. 32 D.P.R. 600/1973 nel senso che tutti i movimenti rilevati sui conti bancari nella disponibilità della società, sia di accreditamento che di prelevamento, costituiscono ricavi non dichiarati dalla società. Rispetto alla suddetta presunzione legale il Collegio pone in evidenza che la Corte costituzionale con la sentenza n. 258 del 2005, nel rigettare la questione di costituzionalità, sollevata con riferimento all’art. 32, comma 1 del D.P.R. 600/1973 per la parte riferita ai prelevamenti, si atteneva alla giurisprudenza di legittimità che aveva in precedenza affermato che in caso di accertamento induttivo di maggiori ricavi l’ufficio deve tenere conto «della incidenza percentuale dei costi relativi che vanno dunque detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati». Poiché l’ufficio appellato, nel determinare il maggior reddito in capo alla società aveva riconosciuto i prelevamenti (pari a lire 953.474.985) come redditi anziché come ricavi lordi il Collegio ritiene di correggere tale dato riconoscendo, tenuto conto dell’attività di commercio all’ingrosso di calzature ed accessori esercita dalla stessa, una percentuale di costi sostenuti pari al 70 per cento (lire 667.432.490). Respinte ogni altra eccezione. La sanzione segue la rettifica operata. Nell’accoglimento parziale dell’appello sono i motivi della compensazione delle spese del presente grado di giudizio. La Commissione in parziale accoglimento dell’appello della contribuente determina in lire 1.705.805.644 (euro 880.975,00) il reddito di capitale accertato. Spese compensate.

Nota di Giorgio Sciubba

che verteva sulla legittimità o meno della presunzione di distribuzione di utili extrabilancio, derivanti da maggiori ricavi non contabilizzati né dichiarati. Secondo quanto riportato dalla Guardia di Finanza nel Pvc notificato al contribuente, i suddetti maggiori ricavi originavano da operazioni di accredito su conti correnti bancari intestati ai soci e di prelievo dei quali la società non aveva indicato il beneficiario né la loro destinazione.

1. Il caso all’esame della Comm. trib. reg. Nella sentenza in epigrafe, la Commissione tributaria regionale delle Marche ha affrontato tematiche di notevole rilievo in merito ai presupposti e la legittimità dell’attività di accertamento. La questione sottoposta all’attenzione della Comm. trib. reg. Mar-


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Ulteriori doglianze sollevate dal ricorrente riguardavano la presunta violazione dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973 per carenza di motivazione, derivante dalla omessa allegazione del Pvc. Della Guardia di Finanza, nonché l’illegittimità acquisizione delle prove conseguente alla mancata emissione dell’autorizzazione, da parte dei soggetti competenti, previsti dall’art. 32, comma 7, D.P.R. 600/1973. 2. La problematica dell’autorizzazione negli accertamenti bancari Sotto altro profilo, la Comm. trib. reg. Marche ha riconosciuto e affermato la legittimità dell’accertamento bancario effettuato ai sensi dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 in assenza della prescritta autorizzazione e la conseguente utilizzabilità dei dati raccolti, rilevando che la suddetta autorizzazione attiene ai rapporti interni all’amministrazione finanziaria. In riferimento ai riflessi processuali nell’istruttoria amministrativa, ovvero dei riverberi dell’espletamento di indagini bancarie in assenza della prescritta autorizzazione da parte degli organi competenti, la Comm. trib. reg., nella sentenza in commento, ha ritenuto – in senso conforme alla giurisprudenza della Suprema Corte1 – che non sussiste nell’ordinamento tributario il principio generale di inutilizzabilità delle prove irritualmente acquisite, che rinviene il proprio fondamento nel disposto dell’art. 191 c.p.p., comma 1, (a mente del quale, come noto, «le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate»). La sentenza in esame si inserisce nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’acquisizione irrituale di elementi di prova non comporta la inutilizzabilità degli stessi in mancanza di una disposizione specifica in merito, poiché gli organi accertatori possono utilizzare tutti i documenti di cui siano venuti in possesso, salvo la verifica della loro attendibilità, da effettuarsi sulla scorta della loro natura e del contenuto degli stessi documenti2. In adesione a tale orientamento giurisprudenziale3, la Comm. trib. reg. Marche ha, come già evidenziato, ritenuto, che la circostanza che l’acquisizione di notizie, dati e documenti sia avvenuta in assenza della prescritta autorizzazione non ne preclude l’utilizzabilità, in quanto l’autorizzazione attiene ai rapporti interni. Si consideri altresì che, in materia tributaria, gli organi accertatori possono utilizzare i documenti, dati ed elementi di cui siano venuti in possesso, facendo salvo, come già affermato in precedenti pronunce, la verifica della relativa attendibilità in considerazione della natura e del contenuto dei documenti stessi, e dei limiti di utilizzabilità derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico4. La natura interna della predetta autorizzazione sembra essere stata confermata – implicitamente – dall’omessa menzione tra gli elementi da indicare nella richiesta degli estremi dell’autorizzazione da parte della Guardia di Finanza5, essendo previsto solo che vengano indicati il motivo ed i presupposti di fatto della richiesta. Cosicché, le disposizioni procedurali della circolare n. 1/2008 nulla impongono sulla necessità che il soggetto ricevente venga a conoscenza dell’autorizzazione6.

1 Cfr. Cass., sez. trib., 19 giugno 2001, n. 8344 2 In dottrina, PICCARDO, Gli accertamenti bancari:evoluzione normativa ed applicazioni giurisprudenziali, in Dir. e Prat. Trib., 2007, I, 776, nonché MARCHESELLI, Dati bancari, contraddittorio e inutilizzabilità delle fonti di prova acquisite illegittimamente, in Dir. e Prat. Trib., 2004, II, 1142. 3 In merito già Cass., sez. trib. , 27 ottobre 1998, n. 10664 e, tra le ultime pronunce,

Sono, tuttavia, da segnalare precedenti pronunce di contrario avviso, nelle quali è stato affermato che «costituisce principio generale immanente al sistema giusprocessualistico quello per il quale il giudice prima di utilizzare ai fini della decisione una qualsiasi emergenza probatoria, deve verificare la regolarità della relativa acquisizione, restando tenuto a non porre a base delle sua pronuncia prove che riscontri indebitamente raccolte»7. Tale affermazione si rinviene già in pronunce degli anni 1990 che hanno trovato piena conferma nella sentenza delle sez. un., 8 agosto 1990, n. 8062, nella quale si è ritenuto come l’autorizzazione costituisca elemento condizionante la legittimità del provvedimento impositivo finale. Il pensiero espresso in tale pronuncia è stato ripreso in altre sentenze della Suprema Corte di Cassazione, nelle quali si è peraltro ritenuto che il giudice è tenuto ad effettuare un vaglio delle prove prodotte, ponendo a base della propria decisione solo quelle acquisite in conformità alle legge senza che possa influire a vantaggio del soggetto responsabile di tale violazione8. In riferimento al tema dei poteri di indagine della Guardia di Finanza, la Corte di Cassazione9 ha recentemente affermato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, ai fini dell’acquisizione e dell’utilizzazione della documentazione relativi ai rapporti ed alle operazioni bancarie riconducibili al contribuente da parte della Guardia di Finanza, è richiesta la preventiva autorizzazione del Comandante regionale del medesimo corpo o del direttore regionale dell’Agenzia della Entrate, come previsto dall’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973; a quest’ultimo compete valutare l’opportunità e la necessità dell’accertamento bancario, non potendo la Guardia di Finanza avvalersi, a tal fine, dei poteri di polizia valutaria, i quali possono infatti esserle delegati, infatti, solo per le indagini di natura valutaria, e non anche tributaria. In tema, da ultimo, è opportuno rilevare come le sezioni unite10, nel ricomporre un contrasto giurisprudenziale in merito all’utilizzabilità di dati e notizie acquisiti in assenza dell’autorizzazione prescritta dall’art. 33 del D.P.R. 600/1973, abbiano ritenuto che l’acquisizione di prove, in violazione delle norma sull’accertamento tributario, determini la inutilizzabilità delle prove stesse; inutilizzabilità che, pur in assenza di una espressa previsione normativa, analoga a quella dell’art. 191 del codice di procedura penale, deriva dalla «regola generale secondo cui l’assenza di un presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola». Da tale pronuncia è possibile estrapolare il principio di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, che però – a ben vedere – viene circoscritto ai casi di attività di indagine effettuata in assenza dell’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prevista, in presenza di gravi indizi di violazioni delle norme tributarie, dagli articoli 52, comma 2, D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, e 33 D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, anche in considerazione del fatto che la necessità di un’autorizzazione dell’autorità giudiziaria trova base logica nell’art. 14 Cost. sull’inviolabilità del domicilio. Tale pronuncia pare inserirsi nel solco di un orientamento giurisprudenziale11 secondo il quale è opportuno operare, sul piano dell’effettività, una distinzione fra regole procedurali meramente

Cass., sez. trib., 1 aprile 2003, n. 4987 e 19 febbraio 2009, n. 4001. 4 Cfr. Cass., sez. trib., 19 giugno 2001, n. 8344 e 8 giugno 2001, n. 7791. 5 Cfr. circolare del Ministero delle Finanze n. 1/2008 6 In materia, si veda TOSCANO, La tutela del contribuente e dei terzi nella indagini bancarie, in Riv. Guardia di Finanza, 2000, 2, 767.

7 In merito, cfr. Cass., sez. trib., 29 novembre 2001, n. 15230. 8 Tra le più recenti, Cass., sez. trib., 1 ottobre 2004, n. 19689, nonché della medesima sezione la sentenza n. 9568 del 23 aprile 2007. 9 Cfr. Cass., sez. trib., 10 aprile 2009, n. 8766. 10 Cfr. Cass., sez. un., 21 novembre 2002, n. 8683. 11 Tra le varie pronunce Cass., sez. trib., 8 giugno 2001, n. 7791.


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formali (la cui inosservanza non determinerebbe l’inutilizzabilità degli atti posti in essere) e disposizioni di carattere sostanziale, poste a presidio di garanzie costituzionalmente sancite dalla cui violazione discenderebbe l’inutilizzabilità dei dati acquisiti con conseguente illegittimità dell’avviso di accertamento emanato (come ad es. tra esse le disposizioni inerenti i regimi autorizzativi previsti per l’esecuzione di accessi)12. 3. L’applicabilità del sistema di presunzioni di cui al comma 2 art. 32 del D.P.R. 600/1973 rispetto a dati annotati su rapporti bancari intestati a soggetti terzi rispetto al contribuente. Tornando alla sentenza della Comm. trib. reg. Marche, essa si è soffermata anche sull’applicabilità della presunzione di automatica attribuzione ai soci di utili extrabilancio accertati in capo a società di capitali a base ristretta e/o familiare. I giudici di merito, hanno affermato che non può escludersi l’idoneità della base azionaria ristretta e/o familiare a fondare la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati. Difatti, nella sentenza in commento, viene in rilievo il tema dell’utilizzabilità delle risultanze derivanti dall’acquisizione di dati bancari su rapporti di conto corrente intestati a soggetti terzi rispetto al contribuente in assenza delle prescritte autorizzazioni13, nonché l’eventuale applicabilità del sistema di presunzioni previsto al comma 2 dell’art. 32 del D.P.R. 600/1973. È bene ricordare come nella citata disposizione di legge sia previsto che le risultanza acquisite nel corso delle indagini bancarie vengono poste a base degli accertamenti se il contribuente non fornisce la prova che ne ha tenuto conto ai fini della determinazione del reddito o che non hanno rilevanza allo stesso fine; nella medesima disposizione è previsto, altresì, che i prelevamenti effettuati sono posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche e degli accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempre che non risultino dalle scritture contabili14. Da più parti si è affermato che tale prova è implicitamente acquisita laddove l’attività di indagine riguardi dati bancari relativi a soggetti con i quali il contribuente (persona fisica o società) sottoposto ad accertamento si trova in particolari rapporti (di parentela, società o amministrazione societaria); ciò in virtù della presunzione semplice per cui il contribuente che intenda occultare i propri redditi si avvale di tutti i conti di cui possa disporre, ancorché non formalmente intestati allo stesso15: non vi è chi non veda infatti quanto rilevante sia la possibilità che il contribuente utilizzi anche rapporti bancari intestati a terzi (in particolar modo familiari) nell’ambito della propria attività16. In tal senso, anche l’Agenzia delle Entrate17, ha precisato che «nonostante la mancanza una espressa previsione normativa, risulta ormai fuori dubbio l’estensibilità delle indagini ai conti dei terzi».

12 In materia, ARICI, Limiti e potestà nelle contestazioni delle risultanze delle indagini bancarie, in Riv. Guardia di Finanza, 2002, 6, 2333. 13 Si precisa come l’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973 prevede la possibilità per l’amministrazione finanziaria di acquisire di dati bancari sono nei confronti del contribuente, senza menzionare altri soggetti, salvo il caso di terzi che abbiano prestato garanzia in favore del contribuente riguardato dall’attività di indagine. 14 In merito, si veda MENTI, I dati e gli elementi relativi a rapporti e operazioni tra banca e contribuente posti a base delle rettifiche e accertamenti, in Dir. e Prat. Trib., 2007, II, 776.

Sul punto, da altra parte, si è ritenuto che la ricostruzione del reddito del soggetto sottoposto ad accertamento può avvenire anche mediante l’acquisizione di dati bancari relativi a soggetti terzi, purché sia dia prova (anche presuntiva) della riferibilità al contribuente dei dati acquisiti. Tale interpretazione è stata ben esposta dalla Corte di Cassazione, sez. V, nella sentenza 28186 del 14 novembre 2008, nella quale è stato affermato come nel dettato normativo non è rinvenibile una presunzione di riferibilità all’attività fiscalmente rilevante del contribuente delle movimentazioni annotate su conti intestati a soggetti terzi, collegabili al contribuente solo in virtù di un rapporto organico o familiare. La Corte di Cassazione prosegue soffermandosi sul fatto che «se è vero, infatti, che la possibilità di acquisizione dei dati dei conti correnti può essere estesa anche a quelli intestati a persone che per la loro contiguità al contribuente possono essere considerate per ciò solo sospette in base a considerazioni desumibili dalla comune esperienza questo non significa che le movimentazioni rilevate possano per ciò solo essere, sic et simpliciter, imputate al contribuente in quanto così operando si fa assurgere quella che è una semplice possibilità, sia pure avvalorata dalla concreta osservazione del fenomeno, a regola di comune esperienza rispondente al canone dell’id quod plerumque accidit, così da dare per scontata l’esistenza di una situazione sostanziale confliggente con quella formale anche in assenza di una norma che autorizzi espressamente una tale operazione mentre è necessario un ulteriore passaggio consistente nell’accertamento che l’intestazione sia sostanzialmente fittizia nel senso che il conto corrente esaminato sia in realtà utilizzato dal contribuente stesso»18. Tale interpretazione è pienamente condivisibile, essendo evidente come la suddetta disposizione non consenta l’automatica imputazione al contribuente delle posizioni creditorie e debitorie annotate sui conti correnti intestati a soggetti terzi, spettando invece all’amministrazione finanziaria la dimostrazione dell’intestazione fittizia dei rapporti bancari, volta a far risultare come altrui operazioni delle movimentazioni riconducibili al contribuente, o della sostanziale imputabilità al contribuente delle operazioni riscontrate19. Difatti, la presunzione in esame «non opera quale criterio previsto dalla legge per l’attribuibilità ex lege e iuris et de iure al contribuente delle risultanze dei conti correnti intestati a soggetti che con lo stesso abbiano una qualche relazione ma come ordinario criterio di valutazione degli elementi di fatto la cui introduzione nel giudizio spetta a colui su cui fa carico l’onere probatorio»20. In merito, è peraltro opportuno osservare come nell’ordinamento tributario non esiste alcuna disposizione che consideri la famiglia quale soggetto autonomo d’imposta, né tanto meno lo status di coniuge quale presupposto impositivo21. Di talché, l’amministrazione finanziaria è tenuta ad indicare ele-

15 Cfr. In merito, la Cass., sez. trib., sentenze n. 1728 del 2 marzo 1999, sent. 2738 del febbraio 2001. 16 In materia, si veda VERDUCI, La presunzione in base ai dati bancari nel sistema delle prove, in Riv. Dir. Trib., 2000, I, 612, nonché FIORENTINO, La Corte di Cassazione e gli “accertamenti bancari”: questioni “vecchie e nuove” tra retroattività, obbligo di preventivo contraddittorio e valenza “probatoria” della movimentazioni bancarie alla stregua di una interessante pronuncia della Suprema Corte, in Riv. Dir. Trib, 2002, II, 330. 17 Cfr. circ., 19 ottobre 2006, n. 32/E. 18 In merito, si veda RAVACCIA, Note critiche all’eliminazione delle garanzie spettanti nella fattispecie di ampliamento delle indagini

bancarie sui conti del coniuge, in Riv. Dir. Trib., 2002, II, 575. 19 Cfr. in merito Cass., sez. trib., 28 giugno 2001, n. 8826. In dottrina, BUCCI, Considerazioni sulla valenza presuntiva delle movimentazioni bancarie ai fini dell’accertamento, in Rass. Trib., 2001, è stato puntualizzato che la dimostrazione dell’effettiva scissione tra soggetto intestatario e destinatario sostanziale dei movimenti effettuati è a carico dell’ufficio accertatore. 20 Cfr. Cass., sez. trib., 14 novembre 2008, n. 28186. 21 In tal senso si è espresso MONTANARI, Indagini bancarie, capacità contributiva e «soggettività tributaria della famiglia»: brevi note alla luce di una contrastante giurisprudenza


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menti concreti che consentano di collegare le movimentazioni riscontrate sui conti correnti, in tal caso anche di natura presuntiva (es. l’assenza di fonti apparenti che giustifichino i versamenti in conto, nonché la coincidenza tra versamenti o prelevamenti e operazioni di presumibile equivalente valore effettuate dal contribuente o anche l’abnormità della movimentazioni di denaro rispetto all’attività del titolare del conto). Con particolare riferimento al vincolo tra soci e società (in particolare nel caso di società di capitali) è stato evidenziato che l’ente societario ha una propria autonomia patrimoniale; di conseguenza, è onere del soggetto che intenda avvalersi dei dati annotati sui conti correnti indicare gli elementi utili al superamento del dato formale (come ad es. l’assenza di fonti da parte del titolare che giustificano i versamenti, la coincidenza tra versamenti sul conto del terzo con i prelevamenti da quello della società o l’abnormità delle movimentazioni di denaro rispetto all’attività del terzo). Le peculiarità che connotano tale accertamento hanno portato a ritenere che in tal caso l’attività di accertamento dovrebbe fondarsi su apposita autorizzazione, emessa ai sensi e per gli effetti dell’art. 37 del D.P.R. 600/1973, stante la potenziale interposizione nella titolarità dei redditi22. Da ultimo si rileva come sulla natura dell’analizzata presunzione di cui al comma 2 dell’art. 32 del D.P.R. 600/1973 si siano sviluppati distinti e contrastanti orientamenti di pensiero, il primo dei quali ritiene che si tratti di presunzione legale23. In tal senso si è affermato in giurisprudenza come, nel caso in cui l’accertamento effettuato dall’ufficio si fondi su verifiche di conti correnti bancari, in favore dell’amministrazione finanziaria operi una presunzione legale per la quale l’onere probatorio è assolto attraverso il possesso di dati ed elementi attinenti i rapporti di conto corrente riconducibili al contribuente, così da porre a carico di quest’ultimo l’onere di giustificare i prelevamenti effettuati dai conti correnti e la loro non riferibilità ad operazioni imponibili24. Come già detto, l’inversione dell’onere della prova attuato in virtù della suddetta presunzione comporta l’assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’ufficio; a seguito di tale adempimento il contribuente può dimostrare di aver tenuto conto dei movimenti rilevanti sui conti correnti nella determinazione dei redditi o che essi non aveva rilevanza a tal fine. Altri autori25 ritengono che si tratti di valutazioni che l’ufficio è tenuto ad effettuare circa l’effettiva portata probatoria dei dati acquisiti, data la eterogeneità degli elementi che i conti possono rilevare e la genericità della disposizione (la norma non prevede con sufficiente analiticità né il fatto noto né tanto meno quello presunto). Medesima soluzione è stata prospettata anche in giurisprudenza, laddove si è affermato come l’operatività della presunzione non operi quale criterio di attribuibilità iuris et de iure dei dati rac-

di legittimità, in Dir. e Prat. Trib., II, 2001, 923, il quale ha precisato «come il presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche consiste nel possesso del reddito, possesso non inteso nell’accezione civilistica del termine, ossia come potere di fatto, ma come titolarità giuridica del reddito». Lo stesso autore ha affermato, inoltre, come la presunzione di interposizione di persone porterebbe alla potenziale violazione del divieto di doppia imposizione, in quanto le somme rinvenute sui conti correnti del coniuge e poste a base della rettifica del contribuente potrebbero riferirsi a somme regolarmente dichiarate. 22 Cfr. in merito MARRONE, La disciplina degli accertamenti bancari ai fini fiscali, in Rass. Trib., 1996, I, 612.

colti, ma come criterio ordinario di valutazione di dati fattuali26. In merito si è soffermata anche la Corte costituzionale affermando che «il valore presuntivo assegnato dalla legge alle risultanze dei conti correnti, con presunzione sempre suscettibile di prova contraria, si fonda ragionevolmente sul carattere oggettivo di dette risultanze, relative a rapporti facenti capo al contribuente». 4. Conclusioni Premesso che dalla lettera dell’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. 600/1973, si può rinvenire la possibilità, per l’amministrazione finanziaria, di procedere all’acquisizione dei dati bancari solo ed esclusivamente nei confronti del contribuente, ciò costituisce di per sé elemento inconfutabile e sufficiente a non consentire forzature del sistema normativo. Come in precedenza esposto, si è però formato e consolidato un orientamento di pensiero favorevole all’estensione degli accertamenti bancari ai rapporti intestati a soggetti terzi rispetto al contribuente, con la conseguente applicabilità in tal caso della menzionata presunzione di cui al comma 2 dell’art. 32 del D.P.R. 600/1973. Il pericolo principale che si può ravvisare nell’applicazione del sistema dell’estensione degli accertamenti ai rapporti intestati a soggetti terzi è che tale operazione si fondi su elementi meramente presuntivi. Da ciò, l’inammissibile applicazione contestuale di due presunzioni al fine di addivenire alla prova di un fatto, sistema non ammesso nel nostro ordinamento27. Ciò è quello che può accadere laddove venga dimostrata in via presuntiva la riferibilità al contribuente di rapporti di conto corrente intestati a terzi. Pertanto, l’amministrazione finanziaria è tenuta a provare specificamente, anche tramite presunzioni (gravi, precise e concordanti), la sostanziale e specifica riferibilità dei conti o dei dati dagli stessi desumibili al soggetto in verifica28; ciò al fine di veder rispettati i principi in tema di onere della prova ed, in particolare, della disposizione di cui all’art. 2729 c.c., nel quale è previsto che «le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti»29. Nel concordare con quest’ultima affermazione, si ritiene opportuno precisare come l’applicazione della presunzione in oggetto non possa prescindere dalla diretta ed effettiva riferibilità al contribuente di movimenti bancari annotati su rapporti bancari formalmente intestati a terzi, da provarsi secondo quanto detto. I criteri generali inerenti la riferibilità al contribuente dei rapporti bancari intestati a soggetti terzi (rapporto familiare o societario) possono considerarsi elementi utili per l’avvio di una valutazione concreta di idoneità del rapporto intercorrente tra le parti a fondare la presunzione di distribuzione a terzi di somme non

23 Si veda, in dottrina tra gli altri FANTOZZI, I rapporti fisco-contribuente nella prospettiva del nuovo accertamento tributario, in Riv. Dir. Fin., 1984, I, 231; in giurisprudenza Cass., sez. trib., 5 luglio 2001, n. 9103 e 26 febbraio 2002, n. 2814. 24 Cfr. Cass., sez. trib., 26 febbraio 2009, n. 4589 e Cass., sez. trib., 12 maggio 2008, n. 11750 25 Tra tutti si veda MARCHESELLI, Tendenze attuali in tema di accertamenti tributari fondati su presunzioni (accertamenti sintetici, accertamenti bancari e coefficienti presuntivi in particolare), in Dir. e Prat. Trib., 2008, II, 670. 26 Cfr. in tal senso Cass., sez. trib., 14 novembre 2008, n. 27186 27 In tal senso PICCARDO, Per l’accertamento

fondato su dati bancari è necessario il contraddittorio tra contribuente e fisco, Dir. e Prat. Trib., 1998, II, 18. Tale autore ha evidenziato come «far presumere che il conto corrente di un soggetto di diritto (prima presunzione) sia collegabile alle movimentazioni di un distinto soggetto di diritto, al fine di presumere ricavi non contabilizzati da quest’ultimo (seconda presunzione) è un’operazione indiziaria e ipotetica non possibile nel nostro ordinamento». 28 BONAVITACOLA, Utilizzabilità di prove irritualmente acquisite, in Riv. Dir. Trib., 2003, II, 571. 29 MONTANARI, Riflessioni sui limiti di utilizzo delle movimentazioni bancarie dei soci per rettificare il reddito di una società di persone:un contrasto giurisprudenziale, in Riv. Dir. Trib., 2001, II, 423.


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dichiarate, ma di certo non sono sufficienti a giustificare l’automatico utilizzo dei dati ivi raccolti in ragione del solo legame intercorrente tra le parti. Per quanto detto, è evidente come l’onere della prova non possa che essere ricondotto in capo al soggetto, che intenda avvalersi dei dati bancari acquisiti, il quale dovrà dimostrare l’effettiva riferibilità, al di là della formale intestazione, al contribuente dei movimenti bancari. Tale onere appare ancor più gravoso nel caso in cui il rapporto intercorrente tra le parti sia di natura societario, laddove non si può prescindere dalla prova della effettiva riferibilità all’ente societario delle movimentazioni annotate sui conti correnti dei propri soci, essendo palese l’autonomia negoziale e patrimoniale della società, che costituisce autonomo soggetto di diritto anche se privo di personalità giuridica30. Come evidenziato in precedenza, parte della giurisprudenza ritiene l’assenza dell’autorizzazione prescritta dalla legge come elemento non inficiante l’utilizzabilità dei dati raccolti, in quanto atto di natura interna. Tale orientamento deve assolutamente essere analizzato alla luce del principio di legalità vigente nel nostro ordinamento, dalla cui applicazione discende che le risultanze di un’attività istruttoria non possano essere utilizzate se illegittimamente acquisite. L’assenza di una norma similare a quella espressa nell’art. 191 c.p.p. o l’impossibilità di considerare quest’ultima norma di portata generale, non incide su quanto dinanzi affermato, poiché la stessa disposizione del codice di procedura penale discende proprio dal principio dinanzi richiamato, che dovrà ritenersi pienamente applicabile nella fattispecie in esame. Di conseguenza, si può peraltro prescindere da un’eventuale analisi comparativa degli interessi perseguiti nelle indagini bancarie e quelli riconducibili al contribuente, prospettato quale passaggio ulteriore per verificare la legittimità dell’attività di accertamento posta in essere. In genere, così come nel caso in esame, l’emissione dell’atto autorizzativo sottostà ad una valutazione di opportunità e necessità da parte di un soggetto preposto (in tal caso il Comandante regionale della Guardia di Finanza o il Direttore regionale dell’Agenzia), necessaria per garantire a terzi la legittimità dell’attività autorizzata. Pertanto, l’attività di accertamento posta in essere dovrà ritenersi non autorizzata e, conseguentemente, illegittima, con inevitabili e logiche ripercussioni sull’utilizzabilità dei dati raccolti. L’assunto secondo cui all’autorizzazione in oggetto deve essere riconosciuta natura meramente interna non appare del tutto convincente. In particolar modo poiché ritenuto necessario al fine di consentire l’evasione della richiesta di dati o notizie riguardanti i rapporti bancari intrattenuti dal contribuente, il quale

estrinseca – seppur indirettamente – effetti nei confronti di terzi (si pensi all’istituto bancario destinatario della richiesta). Come visto, secondo le norme operative della Guardia di Finanza (circolare n. 1/2008), l’autorizzazione non viene in alcun modo menzionata o allegata alla richiesta di informazioni evasa, sebbene quest’ultima debba indicare i motivi e i presupposti della richiesta, che naturalmente non possono che essere ripresi dall’autorizzazione emessa in precedenza. Di talché, appare improbabile che la richiesta possa essere evasa in assenza di autorizzazione, in quanto elementi (quali motivi e presupposti di fatto) essenziali e legittimanti la stessa verrebbero necessariamente enucleati da autorità in alcun modo autorizzate, così da lasciare all’esclusiva discrezione di soggetti, non competenti – in via esclusiva – l’intera attività di accertamento bancario. La natura interna è ancor più opinabile laddove si pensi alla possibilità (seppur remota) che il destinatario della richiesta rifiuti di dar seguito alla stessa, una volta accertata (da mancata allegazione o indicazione) la carenza dell’autorizzazione prevista dalla legge. L’autorizzazione in oggetto deve, peraltro, essere nel possesso dei soggetti destinatari della richiesta – di solito la sede centrale dell’istituto – poiché necessaria per poter acquisire i dati richiesti anche presso le proprie filiali ed il personale ivi operante. L’assenza di autorizzazione nell’ambito degli accertamenti bancari costituisce problematica in parte risolta dai nuovi sistemi predisposti nei rapporti tra Guardia di Finanza e intermediari, poiché, in passato, in attesa dell’invio cartaceo dell’autorizzazione, i reparti territoriali del corpo inviavano comunque le richieste già prima di ricevere la predetta autorizzazione, prive degli elementi autorizzativi. Al fine di evitare l’invio di richieste prive di autorizzazione, con tutti le conseguenze del caso, è stato posto predisposto un sistema informatico, accessibile agli intermediari ed agli appartenenti al corpo, mediante il quale si inoltrano le richieste di dati ed elementi utili alle indagini in possesso delle banche; tale sistema preclude l’invio delle richiesta, per via telematica, in assenza dell’assenso da parte del Comandate regionale, al quale consegue la ricezione da parte degli intermediari della richiesta con la possibilità di visualizzare l’autorizzazione mediante firma digitale. Seppur in assenza di specifico riferimento normativo, nel rispetto del principio di legalità dinanzi citato, l’organo giudicante è tenuto a valutare e decidere circa l’utilizzabilità in giudizio dei dati e notizie raccolte in carenza di autorizzazione, con il vincolo di poter porre a base delle propria decisione solo ed esclusivamente prove raccolte in osservanza della normativa che ne regola l’acquisizione. A ciò sarà tenuto anche laddove volesse riconoscere la natura endoprocedimentale dell’autorizzazione, poiché sarebbe da considerare quale un atto endoprocedimentale, presupposto dell’atto impositivo oggetto di impugnazione.

30 In tal senso MONTANARI, Riflessioni sui limiti di utilizzo delle movimentazioni bancarie, op. cit., 423.


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CONDONI E SANATORIE L’OMESSO VERSAMENTO DELLE RATE SUCCESSIVE ALLA PRIMA NON PREGIUDICA GLI EFFETTI DEL CONDONO I 2

Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. XXXVIII, 8 giugno 2009, n. 159 Presidente: Patrizi - Relatore: Terrinoni

Condoni e sanatorie - Condono ex art. 9-bis legge n. 289/2002 - Mancato pagamento delle rate successive alla prima - Persistente validità del condono (L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9-bis) La subordinazione dell’efficacia della sanatoria all’integrale versamento di quanto dovuto sussiste solo nei casi in cui è espressamente prevista; negli altri casi (tra i quali quello di cui all’art. 9-bis della legge n. 289/2002) nel silenzio della norma, deve ritenersi che l’efficacia del condono è collegata solo alla presentazione della domanda ed alla tempestività del primo versamento. Svolgimento del processo La società [...] impugnava, con due distinti ricorsi, le due cartelle di pagamento in epigrafe, limitatamente alle partite di ruolo mod. unico 2001 e mod. unico 2002, lamentando l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo per avere aderito al condono ex art. 9, L. 289/2002. L’ufficio si costituiva nei distinti giudizi contestando il mancato perfezionamento del condono dal momento che le somme versate non risultavano capienti, precisava tuttavia che i versamenti effettuati erano stati comunque considerati a parziale soddisfazione del debito con conseguente parziale sgravio delle iscrizioni a ruolo. I giudici aditi, previa riunione dei ricorsi, accoglievano parzialmente le ragioni del ricorso della contribuente, confermando la validità delle definizioni ex art. 9 L. 289/2002 con l’obbligo, per l’ufficio, di recuperare quanto dovuto oltre le sanzioni di cui all’art. 13 D.Lgs. 471/1997. Avverso la decisione propone appello l’ufficio lamentando la violazione e falsa applicazione dell’art. 9 D.Lgs. 289/2002. Osserva infatti che nel citato art. 9-bis non è espressamente previsto che «la definizione si perfeziona col tempestivo versamento della prima rata» e illegittimamente i primi giudizi hanno applicato il principio. Osserva al riguardo che da ultimo la Cassazione (sent. n. 18353/2007) ha evidenziato la netta distinzione tra la definizione prevista nell’art. 9-bis e le altre tipologie di sanatoria fiscale e an-

che l’a.f. ha chiarito sul punto, con la circ. A.d.E. n. 23 del 2008, che la sanatoria prevista dall’art. 9-bis opera solo per effetto dell’integrale pagamento degli importi dovuti e, in caso di rateazione, solo dopo che si è provveduto all’integrale pagamento di tutte le rate. Ad ulteriore conferma della correttezza del proprio operato, osserva che le norme agevolative ed in particolare quelle sui condoni, non sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva in quanto sono da ritenersi di stretta interpretazione. Chiede pertanto accogliersi il proposto appello con la riforma dell’impugnata sentenza. La parte contribuente non è costituita in giudizio. Questa Commissione, preso atto di quanto dedotto e prodotto, osserva: l’assunto dell’ufficio secondo cui il mancato versamento di tutte le rate di condono, successive alla prima, così come indicate nella dichiarazione integrativa, non consentirebbe il perfezionamento del condono effettuato ex art. 9-bis L. 289/2002 e determinerebbe la decadenza per il contribuente dai benefici dello stesso previsti, non può essere condivisa alla luce della più generale e complessiva lettura della intera normativa sul condono, nonché alla luce della lettura della specifica formulazione del medesimo art. 9-bis che non prevede tale profilo consequenziale. Si ritiene invece di condividere l’assunto dei primi giudizi che hanno inteso accogliere parzialmente il ricorso della società affermando che nel caso di specie il condono deve essere considerato valido ed efficace nei limiti degli importi pagati salva la possibilità per l’a.f., di iscrivere a ruolo gli importi relativi alle rate non pagate, applicando agli stessi la sanzione del 30%, oltre interessi. Del resto, dall’esame dell’intera normativa sul condono, emerge che là dove si è voluto subordinare l’efficacia della sanatoria all’integrale versamento di quanto esposto nella dichiarazione integrativa, lo si è espressamente previsto, mentre, in tutti gli altri casi, tra i quali quello di cui all’art. 9-bis nel quale nulla dispone, l’efficacia del condono si ricollega alla presentazione della domanda ed alla tempestività del primo versamento. Con riguardo alle spese del presente grado di giudizio, si ritiene di compensarle tra le parti attesa l’oscillazione della giurisprudenza sulle questioni trattate.

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Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. I, 17 giugno 2008, n. 369 Presidente: De Pascalis - Relatore: De Lecce

Condoni e sanatorie - Condono ex art. 9-bis legge n. 289/2002 - Mancato pagamento delle rate successive alla prima - Persistente validità del condono - Iscrizione a ruolo ex art. 14 del D.P.R. n. 602/1973 - Legittimità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 14; L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9-bis)

Il mancato versamento dei ratei successivi al primo, nelle ipotesi di condono di cui all’art. 9-bis della legge n. 289/2002, non rende inefficace il condono ma l’amministrazione potrà procedere all’iscrizione a ruolo a titolo definitivo delle rate non versate ed irrogare anche le sanzioni. Svolgimento del processo Con ricorso pervenuto in data 4 aprile 2006 C.V., da Lecce, a ministero dell’avv. M.V., impugnava il diniego di definizione per


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ritardati, omessi versamenti ex art. 9-bis legge 289/2002 predisposto dall’a.f. di Lecce, cui conseguiva relativa cartella di pagamento notificata il 10 marzo 2006. Eccepiva in via preliminare l’istante la nullità dell’impugnato provvedimento per assunta carenza di motivazione e comunque per difetto di sottoscrizione del medesimo. Deduceva nel merito l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo siccome asseritamente operata in violazione delle previsioni di legge, segnatamente dell’art. 9-bis della legge 289/2002, con specifico riferimento alle conseguenze del mancato tempestivo pagamento delle rate di condono fiscale successive alla prima. Concludeva chiedendo – previa sospensiva – l’annullamento dell’atto di diniego impugnato e della correlata cartella di pagamento, con ogni consequenziale statuizione; in via gradata, invocava congrua riduzione delle sanzioni irrogate, sempre con vittoria di spese. Con nota prot. n. [...] del 25 maggio 2006 si costituiva l’odierna Agenzia delle Entrate di Lecce riportandosi al proprio operato, ritenuto legittimo e fondato, chiedendo il rigetto del ricorso; vinte le spese. All’udienza di discussione parte ricorrente sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 9-bis della legge 289/2002 in relazione ai denunciati profili, da valutarsi in ipotesi di rigetto del ricorso nel merito. Non si costituiva il concessionario S. di Lecce. Motivi della decisione Il ricorso è fondato e merita accoglimento. Non trova riscontro l’eccepita carenza di motivazione del provvedimento impugnato emergendo all’evidenza che lo stesso, oltre ad esporre le ragioni giuridiche poste a base della pretesa fiscale, ha consentito all’odierna ricorrente di svolgere compiutamente le proprie difese; ciò, anche in relazione alla conseguente cartella di pagamento, riportante gli elementi essenziali previsti dal combinato disposto degli artt. 12 e 25 del D.P.R. 602/1973 conformemente ai modelli approvati con decreto del Ministero delle Finanze. Parimenti infondata si appalesa l’eccezione concernente la mancata sottoscrizione del provvedimento di diniego. È noto, infatti, che gli atti che contengono ingiunzioni di pagamento per le quali non sia stata comminata la nullità espressamente dalla legge non sono nulli, ove non sottoscritti, a condizione che sia certa la provenienza dell’atto amministrativo, e ciò perché l’informatizzazione degli atti della p.a. rende non indispensabile la sottoscrizione ove la provenienza dall’autorità emanante – come nel caso di specie – sia fuori discussione.

Ad ogni buon conto, nella fattispecie, il provvedimento de quo risulta firmato dal funzionario delegato dal direttore dell’ufficio, in conformità al principio contenuto nell’art. 42 del D.P.R. 600/1973 il quale dispone che «gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato». Sicché non v’è dubbio che in osservanza degli enunciati principi l’atto in oggetto sia conforme ai requisiti di legge. Passando al merito della controversia, occorre stabilire quale sia la conseguenza del mancato o ritardato versamento delle rate successive alla prima nella regolarizzazione dei versamenti di cui al comma 1 dell’art. 9-bis della legge sul condono n. 289/2002. Al riguardo, la Commissione ritiene di dover condividere il prevalente orientamento della giurisprudenza di merito, secondo cui, contrariamente a quanto sostenuto dall’a.f., la circostanza che detto art. 9-bis non stabilisce le conseguenze del mancato tempestivo versamento dei ratei successivi al primo, non porta alla inefficacia delle definizioni per condono dalla stessa norma prevista. Invero, non esiste una disposizione generale che imponga l’integrale pagamento delle somme indicate come dovute al fine di poter considerare perfezionata le definizione del “condono”. Semmai, nel microsistema di cui alla legge 289/2002, esiste una regola di segno opposto, per la quale la definizione è perfezionata con il semplice pagamento della prima rata. In tali casi, le successive rate non versate potranno essere recuperate attraverso l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo ex art. 14 D.P.R. 602/1973 e l’irrogazione di sanzioni pari al 30% delle somme non versate, oltre interessi, applicando per analogia il regime di non efficacia dei condoni e del recupero coattivo contemplato dagli artt. 7, commi 5, 8, 3, 9, 12, 17 e 15 e commi 5, 16, 2, della legge 289/2002. Norme che nel loro insieme costituiscono, come detto, un microsistema disciplinare valevole per tutti i casi di condono nei quali non siano stati effettuati – come nella fattispecie – soltanto alcuni dei prescritti versamenti dilazionati. Di talché deve ritenersi illegittimo il diniego di concessione del beneficio espresso dall’ufficio ed impugnato dal contribuente; salva la facoltà di recupero del dovuto mediante autonoma iscrizione a ruolo. L’accoglimento nel merito del ricorso rende superfluo l’esame degli altri motivi di gravame, compresi quelli concernenti i dubbi di costituzionalità normativa sollevati in sede di discussione. I motivi della decisione, nonché le risultanze processuali, considerata la peculiarità delle questioni dibattute, consigliano di compensare le spese tra le parti.

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Commissione tributaria provinciale Milano, sez. XXIV, 28 febbraio 2008, n. 27 Presidente: Verniero - Relatore: Del Re

Condoni e sanatorie - Condono ex art. 9-bis legge n. 289/2002 - Ritardato pagamento delle rate successive alla prima - Persistente validità del condono - Non applicabilità della sanzione massima (L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9-bis) La legge n. 289/2002 è un microsistema nel quale esiste una regola per cui il condono si perfeziona con il versamento della prima rata; in caso di ritardo il contribuente sarà tenuto a versare la rata dovuta con le sanzioni minime e gli interessi. Svolgimento del processo Con tempestivo ricorso a codesta Commissione tributaria pro-

vinciale di Milano la [...] ha impugnato la cartella in oggetto che deriva dal diniego del provvedimento di condono ex articolo 9bis della legge 289/2002, impugnato e discusso in data 14 novembre 2006 presso la sezione XVII di codesta on.le Commissione provinciale di Milano chiedendone l’annullamento per i motivi di cui al ricorso. L’ente impositore si è costituito in giudizio sostenendo che la cartella deriva da un provvedimento di diniego che deriva dal mancato tempestivo pagamento delle rate alle scadenze prescritte dal legislatore pertanto ha chiesto il rigetto del ricorso. Alla pubblica udienza il rappresentante dell’ufficio ha chiesto il rigetto del ricorso mentre il contribuente ha chiesto l’annullamento dell’atto impugnato. La Commissione quindi si è ritirata in Camera di Consiglio per la deliberazione.


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Occorre stabilire quale sia la conseguenza del ritardato e/o mancato versamento delle rate successive alla prima, nella regolarizzazione degli omessi versamenti di cui al comma 1 dell’articolo 9-bis della più volte menzionata legge n. 289/2002. Motivi della decisione Al riguardo la Commissione ritiene di dover condividere il prevalente orientamento della giurisprudenza di merito e della dottrina, secondo cui, contrariamente a quanto sostenuto dall’Agenzia delle Entrate, la circostanza che detto articolo 9-bis non stabilisce le conseguenze del mancato tempestivo versamento dei ratei successivi al primo non porta all’inefficacia del condono dalla stessa norma previste. Non esiste un principio generale che imponga l’integrale pagamento delle somme indicate come dovute al fine di poter considerare perfezionata la definizione del “condono”. Semmai, nel microsistema di cui alla legge n. 289/2002 esiste una regola di segno opposto per la quale la definizione è perfezionata con il semplice pagamento della prima rata (cfr. sent. n. 518/2004 della Comm. trib. prov. di Ferrara, sez. I). Per la Commissione tributaria provinciale di Vicenza (cfr. sent. n. 82/06/2006, depositata il 4 maggio 2006, sezione VI) il ritardo può essere regolarizzato anche con pagamenti tardivi avvalendosi del ravvedimento operoso, pagando quindi, oltre al tributo, le sanzioni ridotte e gli interessi. Per la Commissione tributaria proI - III Nota di Anna Rita Ciarcia 1. Premessa Le Commissioni tributarie, nelle sentenze che si annotano, si sono pronunciate in merito al perfezionamento del condono nell’ipotesi in cui il contribuente, dopo aver aderito all’ipotesi di condono di cui all’art. 9-bis della legge n. 289 del 27 dicembre 2002, effettui il versamento solo della prima rata. I casi esaminati hanno come oggetto di impugnativa i dinieghi di condono e le relative cartelle di pagamento con cui sono state iscritte a ruolo le somme dovute a seguito di condono ex art. 9bis nei casi in cui i contribuenti, dopo aver regolarmente versato la prima rata, avevano omesso o ritardato il pagamento delle rate successive. Le Commissioni, nei casi in esame, hanno ritenuto che il condono deve essere considerato valido ed efficace nei limiti degli importi pagati salva la possibilità per l’amministrazione finanziaria di iscrivere a ruolo gli importi relativi alle rate non pagate, applicando agli stessi la sanzione del 30%, oltre interessi. 2. L’art. 9-bis della L. n. 289/2002 L’art. 9-bis, comma 1, della L. n. 289/2002 consente la definizione agevolata dei ritardati od omessi versamenti delle imposte o delle ritenute risultanti dalle dichiarazioni annuali presentate entro il 31 ottobre 2002, per le quali il termine di versamento è scaduto anteriormente a tale data. Nei confronti dei contribuenti e dei sostituti d’imposta che provvedono al pagamento delle imposte e delle ritenute alla data del 16 aprile 2004, non si applica la sanzione amministrativa pari al 30% di ogni importo non versato o versato in ritardo, come previsto dall’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997. L’articolo, inoltre, stabilisce che se gli importi da versare eccedono, per le persone fisiche, la somma di 3.000 euro e, per gli altri soggetti, la somma di 6.000 euro, gli importi eccedenti, maggiorati degli interessi, possono essere versati in tre rate di pari importo. Tale comma è stato integrato dall’art. 2, comma 45, della legge n. 350 del 27 dicembre 2003 (legge finanziaria 2004), che ha di-

vinciale di Vicenza è sbagliato che venga applicata la sanzione piena del 30% anche sugli altri versamenti eseguiti nei termini, in relazione alla sanatoria presentata. Né tale indirizzo giurisprudenziale può essere revocato in dubbio dall’interpretazione che del menzionato articolo 9-bis ha dato l’Agenzia delle Entrate con circolare n. 36/E del 9 agosto 2005 che ritiene dovute le sanzioni nella misura del 30% sull’intero importo originariamente dovuto. La sanatoria sui tardivi e/o omessi versamenti, diversamente dagli altri condoni automatici, in particolare l’articolo 7 comma 5 della legge 289/2002 per il concordato per gli anni pregressi e l’articolo 9, comma 12, per il condono tombale non disciplina il caso dei pagamenti rateali, indicati nella definizione, che il contribuente esegue in ritardo rispetto alle scadenze previste dalla sanatoria. Resta in ogni caso la disapplicazione della sanzione del 30% in relazione ai pagamenti rateali puntualmente e integralmente eseguiti dal contribuente nei termini. Pertanto il provvedimento assunto dall’ufficio di [...] come diniego all’istanza di definizione inviata dalla società, peraltro motivato con l’affermazione che i versamenti rateali complessivamente eseguiti sono inferiori a quelli dichiarati, non è conforme alla disciplina dettata dal citato articolo 9-bis della legge 289/2002. Sussistono giusti motivi, ravvisabili nella peculiarità e complessità delle questioni poste, per la totale compensazione delle spese di giudizio. sposto l’estensione temporale della sanatoria, consentendo la definizione in relazione ai pagamenti delle imposte dovute alla data di entrata in vigore della legge (1 gennaio 2004). A differenza della disposizione originaria, la legge finanziaria 2004 consente di sanare anche i ritardati od omessi versamenti di somme non risultanti da una dichiarazione annuale. Alla dichiarazione di sanatoria, quindi, si deve affiancare il pagamento dell’intero importo dovuto, oppure un importo minimo o cd. tassa d’ingresso, dovuto in misura diversa a seconda della soggettività del condonante. L’art. 9-bis, però, presenta una lacuna, che nemmeno il successivo intervento normativo ha colmato, ossia nulla dispone circa il momento del perfezionamento del condono e sulle conseguenze nel caso di mancato tempestivo pagamento delle rate successive alla prima. Lo stesso vuoto normativo si verifica nell’ipotesi prevista dall’art. 12 della L. n. 289/2002 (definizione dei carichi di ruolo pregressi); al contrario, le altre disposizioni che pure prevedono un meccanismo di rateizzazione dei pagamenti (art. 7, comma 5, definizione automatica di redditi d’impresa e di lavoro autonomo; art. 8, comma 3, dichiarazione integrativa; art. 9, comma 12, definizione automatica per gli anni pregressi; art. 15, comma 5, definizione degli accertamenti, degli inviti al contraddittorio, degli atti di contestazione e degli avvisi di irrogazione delle sanzioni; art. 16, comma 2, chiusura delle liti fiscali pendenti) espressamente stabiliscono che la definizione agevolata si perfeziona – nel senso che i relativi benefici vengono conseguiti definitivamente dal contribuente – con l’effettuazione degli adempimenti essenziali e con il versamento delle somme corrispondenti all’ammontare della prima rata. Ne consegue che l’omesso versamento delle rate successive non comporta inefficacia della definizione, bensì il recupero delle rate scadute con applicazione delle disposizioni dell’art. 14 del D.P.R. n. 602/1973, e successive modificazioni, e con l’applicazione di una sanzione amministrativa di ammontare pari al 30% delle somme non versate, ridotta alla metà in caso di versamento eseguito entro i trenta giorni successivi alla scadenza medesima e con i relativi interessi legali.


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La lacuna normativa ha dato origine ad una diversa interpreta- L’agenzia, infine, con la circolare n. 23/E del 19 marzo 2008, si zione tra l’amministrazione finanziaria da un lato e la giurispru- è espressa nuovamente confermando il precedente orientamento denza e la dottrina dall’altro. che vuole invalido il condono nel caso di omesso versamento delle rate successive alla prima2, riportando a suo sostegno l’art. 37, 3. Il parere dell’Agenzia delle Entrate comma 44, del D.L. n. 223 del 4 luglio 2006, convertito, con moL’Agenzia delle Entrate è intervenuta più volte in merito al mo- dificazione, dalla L. n. 248 del 4 agosto 2006, il quale al primo mento in cui si perfezionerebbe il condono: con la circolare n. periodo ha disposto il termine di decadenza del 31 dicembre 22/E del 28 aprile 2003 nella quale ha affermato che la defini- 2008 per la notifica delle cartelle di pagamento conseguenti alle zione degli omessi versamenti si perfeziona solo al momento iscrizioni a ruolo previste dagli artt. 7, 8, 9, 14, 15 e 16 della L. dell’integrale pagamento degli importi dovuti; quindi, in caso di n. 289/2002, mentre, al secondo periodo, ha stabilito il medesirateazione, quando siano state pagate tutte le rate1; con la circ. mo termine di decadenza per il diverso caso disciplinato dall’art. n. 28 del 12 maggio 2003, con cui chiarisce che il versamento 9-bis della L. 289/2002. soltanto parziale degli importi dovuti al 16 maggio 2003 o al 16 Nella circolare del 2008, infine, l’Agenzia, a sostegno della propria aprile 2004 comporta per il contribuente la decadenza dai be- tesi, cita due pronunce delle Corte di Cassazione: 1) l’ordinanza n. nefici della sanatoria in questione. Ciò in quanto manca nell’art. 6370 del 2006, riguardante un caso di definizione di lite fiscale ai 12 una disposizione analoga a quelle contemplate agli artt. 7, sensi dell’art. 16 della legge n. 289/2002. Dalle statuizioni contecomma 5, 8, comma 3, 9 comma 12, 15, comma 5, 16, comma nute nell’ordinanza del 2006 si desumerebbe che il «sistema che 2, che pur in presenza di pagamento parziale, faccia salvi gli ef- condiziona l’insorgere della situazione “premiale” [...] all’impegno fetti della sanatoria. Con la risoluzione n. 125/E del 12 agosto assunto dal contribuente con la relativa istanza di versare l’impor2005 secondo la quale il contribuente che alla scadenza di leg- to determinato dalla legge, asseverato, nel caso di rateizzazione delge versi solo in parte gli importi dovuti – a fortiori qualora non li l’importo medesimo, dal versamento della prima rata» vale, in soversi affatto – decade dal beneficio della definizione dei carichi stanza, con esclusivo riferimento alle definizioni agevolate di cui di ruolo pregressi ex art. 12 della legge n. 289/2002 per man- agli artt. 7, 8, 9, 15 e 16 della legge n. 289/20023; 2) la sentenza n. cato perfezionamento della definizione, che avviene solamente 18353 del 2007, secondo la quale «le due disposizioni normative, quando siano state versate integralmente le somme dovute e sia cioè quelle contenute negli artt. 8 e 9-bis della L. n. 289/2002, danstata rispettata la scadenza prevista dalla legge. Diversamente no vita a due specie diverse di condono tributario. Infatti, mentre dalle altre ipotesi definitorie di cui alla legge n. 289/2002, in- la prima introduce un condono tributario premiale, riconoscendo fatti, manca nell’art. 12 una disposizione che, a fronte del man- al contribuente il diritto potestativo di chiedere che il suo rapporto cato pagamento nei termini indicati, faccia salvi gli effetti della giuridico tributario sia sottoposto ad un accertamento straordinasanatoria. rio, da effettuarsi cioè secondo regole diverse da quelle ordinarie, la L’interpretazione dell’Agenzia si fondava sulla mancata previsio- seconda concede un condono tributario clemenziale, che, basanne nell’art. 9-bis, così come nell’art. 12, di una espressa disposi- dosi sul presupposto di un illecito tributario, elimina o riduce le sanzione che faccia salvi gli effetti della sanatoria in ipotesi di omes- zioni e, a determinate condizioni, concede modalità di favore per il so o tardivo versamento delle rate successive alla prima, così co- loro pagamento, ma senza prevedere, come logica vuole, alcuna me accade nelle altre ipotesi citate, evidenziando, quindi, la vo- forma di accertamento tributario straordinario»4; lontà negativa del legislatore. A tal proposito, a parte l’infondatezza della tesi della doppia tiIn particolare, si ritiene che alla stregua del principio secondo il pologia di condono che verrà di seguito dimostrata, deve sottoliquale ubi lex voluit dixit et ubi noluit tacuit, siccome l’inefficacia del- nearsi come la circolare esplicativa emanata in materia tributala domanda di definizione o la decadenza dal beneficio viene ria non vincola né il contribuente né il giudice tributario. espressamente prevista solo dall’art. 11, comma 3, della legge n. Deve, infatti, ritenersi esclusa la natura e l’efficacia di atto norma289/2002, in tutti gli altri casi dovrebbero considerarsi comun- tivo alle circolari esplicative emanate in materia tributaria (nella que efficaci le definizioni o sanatorie previste, quand’anche mai specie, dall’Agenzia delle Entrate), essendo detti provvedimenti dotati unicamente di efficacia interna all’amministrazione emitfossero stati effettuati i versamenti prescritti.

1 Circ. n. 22/E del 28 aprile 2003, 7.3, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 2 Circ. n. 23/E del 19 marzo 2008, in Corr. Trib., 17, 2008, 1405. 3 Cass., sez. trib., ord. n. 6370 del 21 febbraio 2006, in banca dati fiscovideo, per la quale dalla disposizione del comma 2 dell’art. 16 «emerge la volontà del legislatore di ritenere sufficiente, per la definizione della lite pendente, l’accettazione da parte dell’ufficio competente della relativa domanda presentata dal contribuente, seguita dal versamento delle rate nelle quali sia eventualmente ripartito il pagamento degli importi richiesti dalla norma [...]. Questa circostanza appare conclusivamente confermata da altre disposizioni della stessa legge – gli artt. 7, comma 5, ultimo periodo, 5, comma 3, quinto periodo, 9, comma 12, secondo periodo, 17, quarto periodo, 15, comma 5, terzo periodo – dalle quali emerge che nelle ipotesi ivi previste di definizione con pagamento rateale, il man-

cato versamento delle rate successive alla prima non determina l’inefficacia della “definizione automatica” (nei casi previsti dagli art. 15, comma 5, e 16, comma 2) o della “integrazione” (nei casi previsti dagli artt. 8, comma 3, e 9 comma 12)». 4 Cfr. Cass. sez. trib., sent. n. 18353 del 31 agosto 2007, in banca dati fiscovideo. Sulle due specie di condoni, la Cassazione in tale sentenza rinvia ad un’altra sua sentenza, la n. 5077 del 12 marzo 2004, nella quale si afferma che la domanda di definizione agevolata delle liti pendenti, ex art. 2-quinquies del D.L. n. 564 del 30 settembre 1994, (convertito nella legge n. 656 del 30 novembre 1994), preclude ulteriori atti di accertamento, anche in sede di autotutela (tanto in malam partem, quanto in bonam partem): ciò sia perché la citata normativa costituisce un atto di condono tributario premiale – che contiene una disciplina derogatoria introduttiva di un accertamento speciale temporaneo, il quale può essere oggetto di una

scelta del contribuente vincolante per l’ufficio –, sia perché il potere dell’ufficio è ridotto a quello di verificare l’applicazione dei criteri parametrici di determinazione automatica della quantità del contenuto dell’imposta, sia, infine, perché manca il presupposto dell’interesse pubblico specifico per l’esercizio del potere di autotutela. La definizione agevolata delle liti pendenti, prevista dall’art. 2quinquies del D.L. citato, è limitata alle sole liti in cui si controverta di una maggiore richiesta impositiva dell’ufficio perciò, in materia di imposta di successione, sono condonabili le sole liti che riguardino il valore del maggior imponibile accertato, cioè la maggiore quantità dell’oggetto dell’imposta risultante dall’esercizio di un potere di accertamento tributario, con esclusione delle liti in cui si controverta della maggiore quantità del contenuto dell’imposta, determinata dall’ufficio applicando, su richiesta del contribuente, un criterio automatico di determinazione del valore dell’imponibile.


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tente ed assumendo veste di istruzione, ordine di servizio, direttiva impartita agli uffici ed all’organico. Esse sono pertanto destinate ad esercitare una funzione direttiva degli uffici dipendenti insuscettibile di incidere in alcun modo sul rapporto giuridico tributario disciplinato dalla riserva di legge, con esclusione di poteri o facoltà discrezionali accordati all’amministrazione finanziaria5. 4. La lacuna normativa e gli orientamenti della dottrina Secondo la dottrina la posizione dell’Agenzia sembra inconciliabile con l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale6, pertanto, la lacuna dell’art. 9-bis, così come dell’art. 12, ben potrebbe essere colmata attraverso l’estensione in via analogica di quanto espressamente previsto nelle altre disposizioni. Infatti, nel caso di fattispecie non regolate completamente dalla legge, il ricorso all’analogia si verifica quando tale fattispecie sia per certi aspetti eguale e per altri diversa rispetto a quella il cui regolamento si ritiene di dover applicare, e l’uguaglianza prevalga sulla diversità nei punti decisivi per la valutazione giuridica7. Nel caso in esame appaiono evidenti gli elementi di uguaglianza degli artt. 9-bis e 12, rispetto agli artt. 7, comma 5, 8, comma 3, 9 comma 12, 15, comma 5 e 16, comma 2, in quanto in tutti i casi citati l’avvenuta presentazione dell’istanza definitoria e il versamento della maggior parte delle somme dovute realizzano a pieno titolo l’intento del legislatore, ossia quello di facilitare il contribuente che abbia aderito alla sanatoria così da escludere la sua inoperatività per il semplice motivo, in sé considerato, del mancato versamento del saldo dovuto. Gli elementi di disuguaglianza si riducono, dunque, solamente a qualche maggiore o minore estensione dei tempi e delle misure dei ratei. Nella L. n. 289/2002 l’ininfluenza, ai fini della definizione, delle omissioni di versamento delle rate successive alla prima assurge al rango di regola generale che caratterizza il sistema normativo di tutte le definizioni agevolate8, quindi, salvo che non sia diversamente stabilito, dovrebbe applicarsi sempre e comunque anche nel silenzio della singola disposizione. Si può ritenere, pertanto, che la mancata riproposizione nel contesto dell’art. 9-bis esprimerebbe un criterio di economia che induce a non ripetere una prescrizione già ampiamente sancita nel contesto della disciplina relativa a ciascuna tipologia di definizione9. Il legislatore, quindi, inserendo la previsione dell’art. 9-bis nel microsistema della L. n. 289/2002 ha inteso rimandare quanto alla sua disciplina più generale e residuale a quella già stabilita per altri condoni, in modo da consentire, anche alla fattispecie disci-

5 Per tutte, cfr.: Cass., sez. trib., sent. n. 23020 del 30 ottobre 2009, in banca dati fiscovideo. In dottrina: DI SIENA, La valenza delle circolari interpretative dell’amministrazione finanziaria e la prospettiva di tutela del contribuente, in Rass. Trib., 6, 2007, 1846. 6 Cfr. SOLLINI, La dichiarazione di condono per omessi o tardivi versamenti ex art. 9-bis della legge n. 289/2002 è valida anche se non sono state pagate le rate successive alla tassa d’ingresso, in Boll. Trib., 20, 2006, 1657, secondo il quale in base ad una interpretazione letterale si deve rilevare che l’art. 9-bis non dispone la nullità del condono in caso di irregolari o omessi pagamenti delle somme rateizzate. Ad una norma non si può far dire quello che letteralmente non dice. 7 GLENDI, “Non inefficacia” dei condoni per mancato versamento dei ratei, in Corr. Trib., 37, 2005, 2969. 8 RITTÀ, Le questioni interpretative sollevate

plinata dall’art. 9-bis, il perfezionamento della definizione con il versamento tempestivo della sola prima rata; in tal modo, l’omesso versamento delle rate successive non potrà determinare la nullità o l’inefficacia della definizione quanto, piuttosto, il recupero delle rate scadute unitamente alla sanzione del 30% e i relativi interessi attraverso l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo ex art. 14 del D.P.R. n. 602/197310. 5. L’orientamento della giurisprudenza Come visto in precedenza in materia sono intervenute alcune pronunce della Corte di Cassazione che, secondo l’interpretazione data dall’Agenzia delle Entrate, negano la validità del condono ex art. 9-bis nei casi di mancato versamento delle rate successive. In realtà, però, l’ordinanza n. 6370 del 2006, sebbene, come vedremo, si riferisca al diverso caso dell’art. 16 della legge sul condono11, contiene un principio di carattere generale che deve ritenersi valevole per tutte le tipologie di condono disciplinate dalla legge n. 289/2002. A parere della Corte, difatti, «la trama tessuta dalle predette disposizioni disegna, all’interno della legge, un sistema che condiziona l’insorgere della situazione “premiale” – il condono nelle sue varie forme – all’impegno assunto dal contribuente con la relativa istanza di versare l’importo determinato dalla legge, asseverato, nel caso di rateizzazione dell’importo medesimo, dal versamento della prima rata: tanto è sufficiente perché il condono diventi irrevocabile sia per il contribuente, che resta obbligato al pagamento di quanto si è impegnato a corrispondere, sia per l’amministrazione finanziaria, che potrà limitare la propria azione al solo recupero delle rate (del pagamento promesso dal contribuente) successive alla prima che siano state eventualmente non corrisposte nei termini previsti» e, pertanto «non può esservi dubbio che, nelle ipotesi di condono con pagamento rateizzato, il pagamento da attestare ai fini della dichiarazione di estinzione del giudizio non possa essere che quella attinente al versamento della prima rata: tale versamento determina, in ragione della conseguita efficacia della definizione, la sostituzione dell’obbligazione tributaria oggetto della controversia con la nuova e diversa obbligazione nascente dal richiesto condono». La Corte, con tale chiarimento, ha in qualche modo confermato l’esistenza di un micro-sistema all’interno della legge sul condono. Quanto alla sentenza n. 18353 del 2007, deve ritenersi che la possibilità di un «accertamento straordinario» (ex art. 8) nel condono premiale non giustifica la differenza12 rispetto a quello clemenziale, come sostenuto dalla Suprema Corte, in quanto essa è

delle norme sulla definizione dei carichi di ruolo pregressi, in Riv. Giur. Trib., 3, 2008, 239. 9 BASILAVECCHIA, Il perfezionamento della definizione mediante condono ex art. 9-bis della legge n. 289/2002, in Riv. Giur. Trib., 9, 2005, 852. 10 Cfr. AMOROSO, Condoni fiscali. Valide le definizioni dei ritardati od omessi versamenti anche in ipotesi di omesso o insufficiente versamento dei ratei successivi al primo, in Fisco, 5, 2006, 675, per il quale la mancata riproposizione nell’art. 9-bis della regola per cui l’omesso versamento delle rate successive non determina la nullità o l’inefficacia della sanatoria non deriva da una diversità strutturale dell’art. 9-bis rispetto alle altre fattispecie premiali, quanto, piuttosto, da un criterio di economia che ha indotto il legislatore a non ripetere ulteriormente una evenienza pedissequamente sancita e presente

nel contesto della disciplina relativa a ciascuna, singola tipologia di definizione. 11 Cfr. BOGLIONE, Lite pendente attaccata alla prima rata, in Fisco Oggi, del 24 aprile 2004, per l’autore occorre evidenziare come la pronuncia non fa alcun riferimento alle procedure di cui agli artt. 9-bis e 12. In tali casi, la norma non prevede espressamente che a fronte del mancato pagamento delle somme dovute nei termini indicati sono salvi gli effetti della sanatoria; ne consegue che, per queste procedure, se il contribuente nei termini di legge non versa quanto dovuto, decade dal beneficio in esame per mancato perfezionamento della definizione. 12 In dottrina c’è chi non condivide tale distinzione, ritenendo che in entrambi i casi si tratti di condono premiale, in quanto l’efficacia delle due sanatorie è subordinata al compimento da parte dell’interessato di azioni, quali la presentazione della dichiarazione e


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prevista anche nel caso dell’art. 9-bis (cd. clemenziale) e, di conseguenza, non giustifica diverse conseguenze in caso di omissione da parte del contribuente. Quanto affermato è dimostrato anche dalla circolare n.36/E del 9 agosto 2005 relativa agli esiti dei controlli di cui agli artt. 36bis del D.P.R. n. 600/1973 e 54-bis del D.P.R. n. 633/1972 in presenza di istanze di definizione di cui all’art. 9-bis. In tale circolare infatti, al punto 5.2, è chiarito che «In caso di mancato pagamento delle somme richieste con la comunicazione si procede all’iscrizione a ruolo secondo i criteri indicati nel paragrafo 3», ossia ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973. Tali criteri coincidono con quelli previsti dall’art.8 della legge n.289/2008 secondo cui, al comma 3, «l’omesso versamento delle predette eccedenze entro le date indicate non determina l’inefficacia della integrazione; per il recupero delle somme non corrisposte a tali scadenze si applicano le disposizioni dell’articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n.602», che disciplina l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo delle imposte ai sensi, appunto, dell’art.36-bis del D.P.R. n. 600/1973. L’orientamento delle commissioni tributarie in merito è altalenante. Talvolta hanno negato la validità del condono ex art. 9-bis nei casi di mancato versamento delle rate successive13. In particolare, merita di essere segnalato il dettagliato orientamento della Commissione tributaria provinciale di Catania secondo la quale, «l’art. 9-bis regola esclusivamente la materia della riduzione delle sanzioni, in presenza di debiti d’imposta dichiarati dal contribuente, e quindi già determinati nel loro ammontare, ma non seguiti dai dovuti versamenti. Tale disposizione, quindi, è meramente agevolativa per il contribuente inadempiente ma non comporta per l’amministrazione finanziaria alcun beneficio in termini di determinazione definitiva dei debiti d’imposta. L’unico vantaggio per l’amministrazione consiste nella riscossione in tempi definiti e relativamente brevi del debito ormai definito; però tale vantaggio viene meno a seguito del comportamento

il versamento degli importi dichiarati, utili a reintegrare il bene giuridico protetto dalla norma violata, cfr. BUSICO, Commento alla circ. 19 marzo 2008, n. 23/E, in Corr. Trib., 17, 2008, 1410, il quale rinvia a PIERGALLINI, Non punibilità e condoni fiscali, in Rass. Trib., 1, 2006, 116 e a PREZIOSI, Il condono fiscale, Milano, 1987, 15 per il quale si può ravvisare l’ipotesi di condono clemenziale solo allorché la sanatoria risulti assolutamente incondizionata, ovvero quando sia incontestabile dimostrato che sul piano funzionale la rimessione della pena risulti direttamente connessa all’effetto proprio della norma. 13 Comm. trib. reg. di Roma, sez. XX, sent. n. 36 del 16 febbraio 2009, in banca dati fiscovideo; Comm. trib. reg. di Bari, sez. XV, sent. n. 19 del 12 febbraio 2009, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, Comm. trib. reg. di Firenze, sez. XXXIII, sent. n. 10 del 13 marzo 2008, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. reg. di Milano, sez. LXVI, sent. n. 1 del 23 gennaio 2008, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 14 Comm. trib. prov. di Catania, sez. IV, sent. n. 630 del 13 febbraio 2008, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. Per la Commissione, poi, le altre disposizioni sul condono, contenute nella stessa legge, riguardano la materia impositiva ancora da de-

omissivo del contribuente, che, dopo aver presentato l’istanza di condono, paga sola la prima rata. In tal modo si frustra completamente l’interesse dell’erario, in vista del quale era stato previsto il condono. Nel caso dell’art. 9-bis, invece, la certezza di debiti e crediti esiste già, prima ancora che si attivi la procedura di riscossione, pertanto l’unico interesse dell’amministrazione finanziaria è l’aspettativa di una riscossione del suo credito in tempi definiti e relativamente brevi». Ne consegue, che sarebbero differenti le fattispecie e gli interessi regolati, rispettivamente, dall’art. 9-bis e dalle altre norme e sarebbe perciò da escludersi la possibilità giuridica di una applicazione analogica, alla fattispecie regolata dall’art. 9-bis, delle altre norme. In conclusione, in mancanza dell’integrale pagamento di tutte le rate alle scadenze, le agevolazioni previste dall’art. 9-bis vanno a decadere, fermo restando il diritto del contribuente di vedere decurtato il debito d’imposta per la cifra pari ai versamenti effettuati14. La definizione ai sensi dell’art. 9-bis della L. n. 289/2002, a differenza delle altre fattispecie della stessa legge il cui fine è quello di eliminare i contenziosi in essere e prevenire quelli futuri, richiederebbe il pagamento per intero delle somme dovute nella dichiarazione integrativa entro i termini stabiliti, quale ulteriore agevolazione prevista per la disapplicazione di sanzioni amministrative15. Vi è, però, un orientamento maggioritario delle Commissioni tributarie che, conformemente alle sentenze che si commentano, accoglie la linea difensiva sostenuta dal contribuente, riconoscendo che il mancato versamento delle rate successive alla prima non invalida l’efficacia del condono ex art. 9-bis e 12 della L. n. 289/2002, in tal modo applicando per analogia a tali articoli le disposizioni contenute negli altri articoli della legge16, anche nella considerazione che tra le finalità che si intendono perseguire con i condoni quella fondamentale è di far affluire entrate con una certa speditezza nelle casse dell’erario17. In particolare, alcuni giudici hanno ritenuto che la posizione dell’amministrazione, fondata sull’assioma ubi lex voluit dixit et ubi noluit tacuit, induca ad un’interpretazione strettamente letterale che non

terminare (in quanto talvolta si é in presenza di dichiarazioni non controllate e quindi non definite e tal’altre in presenza di giudizi pendenti) pertanto, in questi casi, in mancanza dell’istanza di condono e della sua applicazione, resterebbe incerto per il fisco l’esito della procedura e quindi l’ammontare del debito tributario, che è legato ad esiti da definire col contribuente in via amministrativa o giurisdizionale. Da ciò, si può dedurre agevolmente come in tali casi l’amministrazione ha tutto l’interesse a mantenere efficace il condono, sebbene vi sia l’omesso versamento delle rate da parte del contribuente. Infatti, la permanente efficacia del condono anche in caso di mancato versamento delle rate successive alla prima risponde ad una esigenza di certezza non solo nei confronti del contribuente ma anche nei confronti dell’erario: la domanda e il versamento della prima rata vincolano entrambe le parti alle conseguenze irreversibili del condono e quindi a garantire tanto al contribuente quanto all’amministrazione la certezza rispettivamente di obbligazioni e crediti definiti in via pattizia. In conclusione, per la Commissione, la diversità delle fattispecie previste dalla legge, non solo spiega perché l’art. 9 bis non preveda il mantenimento della validità ed efficacia del condono nel caso di mancato integrale versamento delle rate successive alla prima (e spiega, quindi, perché il

“silenzio” della norma sulle conseguenze dell’omesso versamento integrale delle rate ha un suo proprio e preciso corso) ma esclude anche in radice la possibilità del ricorso all’istituto dell’analogia (fondato sul principio per cui ubi eadem legis ratio, ibi eadem legis dispositio) proprio perché la ratio della norma di cui all’art. 9-bis non è affatto la stessa, ma è diversa rispetto a quella delle altre norme della L. n. 289/2002. 15 Comm. trib. reg. di Bari, sez. XV, sent. n. 19 del 12 febbraio 2009, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. reg. de L’Aquila, sez. X, sent. n. 7 del 15 gennaio 2009, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 16 Comm. trib. prov. di Torino, sez. XXX, sent. n. 19 del 30 maggio 2008, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. di Avellino, sez. VII, sent. n. 147 dell’8 novembre 2007, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. di Salerno, sez. XIII, sent. n. 305 del 5 settembre 2006, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. di Agrigento, sez. V, sent. n. 338 del 23 novembre 2005, in Boll. Trib., 20, 2006, 1656. 17 Comm. trib. reg. di Napoli, sez. I, sent. n. 357 del 22 settembre 2008, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big.


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può trovare applicabilità assoluta. A ciò deve aggiungersi che, specie in materia tributaria, esistono delle isole normative e pertanto bisogna accettare la possibilità che ci siano altre forme interpretative. Un ragionevole metro applicativo dei vari procedimenti potrebbe essere quello di valutare non il singolo caso, astrattamente preso di per sé, ma di osservarlo nell’ambito generale nel quale si trova. In altri termini la circostanza che per l’ipotesi di cui all’art. 12 (e 9-bis) della L. n. 289/2002 il legislatore non si sia espresso esplicitamente nel caso che il contribuente ha diritto al condono pur nel caso di mancato o tardivo versamento di una rata, non può condurre semplicemente ed automaticamente a ritenere che per tale fattispecie si fosse deciso di applicare una disciplina più rigorosa e quasi punitiva nei confronti del contribuente18. Secondo altri giudici, inoltre, si deve rilevare che l’art. 9-bis non dispone espressamente la nullità del condono in caso di irregolari od omessi versamenti della somma rateizzata. Ad una norma non si può far dire quello che letteralmente non dice: in mancanza, quindi, di una esplicita previsione di inefficacia si deve ricorrere ad una interpretazione sistematica ovvero valutare tutto il contesto della legge che la contiene. Pertanto, osservando in generale tutta la normativa del condono ed alla luce dello scopo per cui è stata emanata, non si può che concludere per la piena validità del condono ex art. 9-bis anche in caso di irregolarità o mancanza di pagamenti19. In più, bisogna notare che, per quanto attiene alle norme eccezionali, come quella di cui trattasi, vige la preclusione di cui all’art. 14 delle preleggi, secondo cui «le leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati». Ne discende che, di tali norme, mentre è pacificamente esclusa l’interpretazione analogica, può essere consentita l’interpretazione estensiva basata, non sulla similitudine con altre norme che regolano casi analoghi, bensì sull’intenzione del legislatore e quindi sulla ratio legis. Nel caso di cui si tratta, dunque, laddove il legislatore avesse voluto ricomprendere nella sfera di efficacia della norma la decadenza del beneficio fiscale come conseguenza del ritardato od omesso versamento delle rate di pagamento, l’avrebbe espressamente previsto: ubi lex voluit dixit ubi non dixit noluit20. Una parte della giurisprudenza di merito, infine, ritiene che la risposta al problema della validità o meno del condono possa essere trovata nell’ambito della stessa L. n. 289/2002 che in più parti, dopo il riferimento alla rateizzazione degli importi eccedenti la somma di euro 6.000, dispone che l’omesso versamento delle predette eccedenze entro le date indicate non determina l’inefficacia della definizione. Per il recupero delle somme non cor-

18 Comm. trib. prov. di Torino, sez. I, sent. n. 109 del 4 settembre 2007, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 19 Comm. trib. reg. di Milano, sez. VI, sent. n. 62 del 9 ottobre 2008, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. di Avellino, sez. V, sent. n. 155 del 14 maggio 2007, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 20 Comm. trib. prov. di Parma, sez. VII, sent. n. 91 del 2 dicembre 2008, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, nella quale si cita la sentenza della Cass, civ., sez. lav., sent. n. 1800 del 28 marzo 1981: Per le disposizioni di diritto singolare, è vietata soltanto l’interpretazione analogica, mentre è consentita quella estensiva; ma neppure a quest’ultima può farsi luogo se la ratio legis non persuada che il legislatore ebbe in mente di

risposte alle scadenze normativamente previste, si applicano le disposizioni di cui all’art.14 del D.P.R. 602/1973 e successive modificazioni ed è altresì dovuta la sanzione amministrativa di ammontare pari al 30% delle somme non versate ex art. 13 del D.Lgs. n. 471/199721. In conclusione, non esiste un principio generale che imponga l’integrale pagamento delle somme indicate come dovute, al fine di poter considerare perfezionata la definizione del condono, semmai, la mancata riproposizione nell’art. 9-bis risponde solo ad un criterio di economia legislativa22 che ritiene preferibile non ripetere una regola di segno opposto che esiste già nel microsistema della L. n. 289/2002, per la quale il pagamento della prima rata è atto sufficiente a determinare la definizione e tale orientamento è confermato anche da due recenti ordinanze della Suprema Corte di Cassazione23. 6. La chiusura delle liti fiscali pendenti: il caso dell’art. 16 della L. n. 289/2002 L’art. 16 della legge n. 289/2002 disciplina la chiusura delle liti fiscali pendenti24, in particolare, il comma 2, stabilisce espressamente che l’omesso versamento delle rate successive alla prima entro le date indicate non determina l’inefficacia della definizione, mentre il successivo comma 8, invece, ritiene che il giudice dichiara l’estinzione del giudizio a seguito della comunicazione degli uffici attestante la regolarità della domanda di definizione ed il pagamento integrale di quanto dovuto. L’Agenzia delle entrate, in merito all’art. 16 era intervenuta con una serie di circolari ritenendo che, ai sensi del comma 2, in caso di omesso pagamento di una o più rate successive alla prima non poteva notificarsi al contribuente il provvedimento di diniego di condono, in quanto la definizione si era perfezionata a seguito dell’integrale e tempestivo versamento della prima rata, pertanto al fine di assicurare all’erario le somme dovute, il legislatore ha previsto la riscossione coattiva mediante iscrizione a ruolo delle rate successive alla prima non versate spontaneamente dal contribuente25. Nel caso, invece, del comma 8, sempre secondo l’Agenzia delle Entrate, la pronuncia di estinzione della lite pendente è condizionata alla verifica della regolarità della domanda di definizione e al pagamento integrale di quanto dovuto, pertanto, in caso di pagamento rateale, solo a seguito dell’avvenuto pagamento di tutte le rate trimestrali l’ufficio competente comunica la regolarità della definizione all’organo giurisdizionale presso il quale pende la lite e procede allo sgravio dei ruoli non pagati26. Di diverso parere, invece la giurisprudenza, infatti, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 2006 citata in precedenza27, ha

estendere il suo precetto a casi apparentemente non contemplati. 21 Comm. trib. prov. di Ferrara, sez. I, sent. n. 9 del 12 maggio 2005, in Riv. Giur. Trib., 9, 2005, 849. 22 Comm. trib. prov. di Lecce, sez. I, sent. n. 369 del 17 giugno 2008, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. di Salerno, sez. XVIII, sent. n. 36 del 26 febbraio 2007, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, secondo i giudici un’interpretazione restrittiva contrasterebbe con lo scopo proprio dei condoni che sarebbe quello di regolarizzare il maggior numero possibile di situazioni. 23 Cfr. Cass., sez. trib., ord. n. 22569 e n. 22639 del 23 ottobre 2009, ove è previsto che dal sistema della legge n. 289 del 27 dicembre 2002 si ricava che, in caso di rateizzazione del-

l’importo dovuto, per la definizione della lite pendente è sufficiente l’accettazione della relativa domanda presentata dal contribuente, seguita dal versamento della prima delle rate nelle quali sia eventualmente ripartito il pagamento degli importi richiesti dalla norma. 24 Su tale forma di condono, cfr. RICCA, Le modalità di chiusura delle liti pendenti, in Corr. Trib., 3, 2003, 194. 25 Circ. n. 4/E del 2 febbraio 2007, in banca dati fiscovideo. 26 Circ. n. 22 del 28 aprile 2003 e circ. n. 41 del 17 settembre 2004, entrambe in banca dati fiscovideo. 27 Cass., sez. trib., ord. n. 6370 del 21 febbraio 2006, in banca dati fiscovideo. Nello stesso senso: Cass., sez. trib., ord. n. 12410 del 28 maggio 2007, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Cass., sez. trib.,


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chiarito, proprio relativamente a tale norma, come dal sistema della L. n. 289/2002 ed, in particolare, dalla lettura delle disposizioni di cui agli artt. 7, comma 5, 8, comma. 3, 9, comma 12, 15, comma 5 e 16, comma 2, si ricava che, nelle ipotesi di rateizzazione dell’importo dovuto, è sufficiente, per la definizione della lite pendente, l’accettazione da parte dell’ufficio competente della relativa domanda presentata dal contribuente, seguita dal versamento della prima delle rate nelle quali sia eventualmente ripartito il pagamento degli importi richiesti dalla norma. Il verificarsi di queste condizioni determina, nella prospettiva delineata dal legislatore, la definitiva sostituzione dell’obbligazione assunta dal contribuente con la presentazione della domanda di condono all’obbligazione tributaria oggetto della lite pendente. In tale quadro, tenuto conto della conseguente doverosità di una lettura sistematica delle disposizioni di cui ai commi 2 ed 8 dell’art.16 della L. n. 289/2002, nell’ipotesi di accoglimento da parte dell’ufficio competente della domanda di condono del contribuente per la definizione della lite pendente con pagamento rateale, l’attestazione relativa al «pagamento integrale di quanto dovuto» deve intendersi riferita al-

sent. n. 22788 del 23 ottobre 2006, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Cass., sez. trib., ord. n. 6937 del 27marzo 2006, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 28 Comm. trib. prov. di Cagliari, sez. I, sent. n.

l’avvenuto pagamento della prima delle rate previste: se, infatti, nel sistema della legge il pagamento della prima rata è atto sufficiente a determinare, nel caso, la definizione della lite pendente, il pagamento da attestare ai fini della dichiarazione di estinzione del giudizio non può essere, nelle ipotesi di condono con pagamento rateizzato, che quello attinente al versamento della prima rata. Nel caso disciplinato dal comma 8, pertanto, in caso di versamento della sola prima rata, il condono deve ritenersi sempre e comunque perfezionato, ma l’ufficio potrà procedere ad iscrivere a ruolo le somme ancora non riscosse. D’altronde nessun interesse potrebbe riconoscersi in capo all’ufficio a mantenere in vita una controversia dal momento che deve sicuramente escludersi che l’omesso versamento delle rate successive alla prima determini la decadenza dal beneficio della definizione28. Quanto al termine entro cui trasmettere la comunicazione alle Commissioni tributarie, la Suprema Corte ha ritenuto tale termine non perentorio, da ciò conseguendo che la mancata comunicazione da parte dell’ufficio di irregolarità nel termine previsto non inficerà sulla regolarità del condono29.

123 del 14 luglio 2005, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 29 Cass., sez. trib., sent. n. 24910 del 10 ottobre 2008, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. In dottrina: COGLIANDRO, Effetti del mancato pagamento inte-

grale delle rate nel condono relativo alla definizione delle liti fiscali pendenti ex art. 16 della L. n. 289/2002, in Fiscalitax, 3, 2009, 399, secondo il quale, nell’attesa della comunicazione, il contribuente si trova in un limbo.


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DIRITTO TRIBUTARIO INTERNAZIONALE SUI PRESUPPOSTI DEL DIRITTO AL RIMBORSO DERIVANTE DA DOPPIA IMPOSIZIONE INTERNAZIONALE, SECONDO IL DIRITTO INTERNO E SECONDO LE CONVENZIONI 5

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. X, 11 dicembre 2009, n. 293 Presidente: Maffei - Relatore: Carmenini

Diritto tributario internazionale - Convenzioni contro le doppie imposizioni - Imposte sui redditi - Doppia imposizione - Rimborso - Presupposto - Onere della prova - Grava sul contribuente (D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124; Convenzione Italia-Argentina, L. 27 aprile 1982, n. 282, artt. 23 e 50, T.U.I.R.) In materia di convenzioni contro le doppie imposizioni del medesimo reddito, il rimborso delle imposte riscosse in uno Stato contraente mediante ritenuta alla fonte presuppone l’avvenuta doppia imposizione dello stesso reddito nei due Stati contraenti; pertanto, se il contribuente non dimostra di esser stato assoggettato ad imposta nello Stato estero di residenza, lo Stato della fonte può legittimamente respingere l’istanza di rimborso delle ritenute alla fonte (nella specie, ad un contribuente residente in Argentina, è stato rifiutato il rimborso delle ritenute effettuate in Italia sulle somme incassate a seguito del riscatto di un fondo pensione complementare in quanto non ha dimostrato di essere stato tassato anche in Argentina). Svolgimento del processo Con atto ritualmente notificato il sig. L.D. e tempestivamente notificato in cancelleria, l’Agenzia delle Entrate, Centro operativo di Pescara proponeva appello avverso la sentenza della Comm. trib. prov. di Pescara n. 24 del 28 febbraio 2007, con la quale era stato accolto il ricorso del contribuente avverso il silenzio rifiuto frapposto dalla a.f. alla istanza di rimborso, presentata il 5 gennaio 2006, della complessiva somma di euro 79.138,39 corrispondente alle ritenute fiscali subite sulla liquidazione, erogata nel 2005 da A. Assicurazioni, del riscatto di un fondo pensione complementare, a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro che il ricorrente aveva intrattenuto, con la qualifica di dirigente, con la società T. S.p.A. fino alla data del 31 dicembre 2004. Il ricorrente aveva eccepito la illegittimità delle ritenute fiscali subite, in quanto effettuate in violazione della Convenzione ItaliaArgentina, ratificata con L. n. 282/1982 ed entrata in vigore il 15 dicembre 1983, la quale all’art. 18 stabilisce che: «le pensioni e le altre remunerazioni analoghe pagate ad un residente di uno Stato contraente in relazione ad un cessato impiego sono imponibili soltanto in questo Stato»; cioè in Argentina ove il contribuente assumeva di essere residente. L’ufficio resistente aveva contro dedotto di aver correttamente applicato il disposto degli artt. 23 e 50 del T.U.I.R. 917/1986, eccependo altresì che il ricorrente, alla stregua di quanto previsto dall’art. 2697 c.c. e dall’art. 23 della Convenzione Italia-Argentina, non aveva fornito la prova della esistenza delle condizioni per l’applicazione dell’art. 18 della Convenzione medesima e, soprattutto, non aveva corredato l’istanza di rimborso, ai sensi dell’art. 29 della Convenzione, di un attestato rilasciato dallo Stato di residenza (Argentina) circa l’esistenza delle condizioni richieste per avere diritto alla esenzione in Italia. La Comm. trib. prov. di Pescara, rilevato che il ricorrente: «già in sede di ricorso aveva prodotto un certificato del Comune di Roma attestante la sua iscrizione all’anagrafe dei cittadini italia-

ni residenti all’estero (Aire) e la residenza in Argentina», rilevava altresì che il contribuente: «ha esibito in sede di memoria di replica un certificato del Ministero della Economia e della Produzione dell’Argentina, dal quale risulta intanto che il certificato veniva rilasciato ai sensi della Convenzione per evitare la doppia imposizione; poi che il ricorrente era considerato residente agli effetti fiscali nella Repubblica argentina durante i periodi fiscali 2003-2004-2005 e 2006». Sulla base di tali rilievi, la Comm. trib. prov. di Pescara accoglieva il ricorso, così motivando: «è chiaro che il contribuente ha provato non solo di non essere residente in Italia, ma di essere residente, anche agli effetti fiscali, in Argentina nel periodo anteriore e successivo a quello di pagamento della liquidazione». Con l’appello in esame l’ufficio eccepiva la erroneità della sentenza di primo grado e ne chiedeva l’integrale riforma per i seguenti motivi: 1) Errata interpretazione ed applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 29 della Convenzione Italia-Argentina contro le doppie imposizioni, ratificata con legge n. 282/1982: Deduceva l’appellante che il certificato rilasciato dalla autorità argentina, peraltro depositato tardivamente dal ricorrente e relativo ai soli periodi fiscali dal 2003 al 2006, pur se esplicitamente riferito all’effettivo assoggettamento a tassazione delle somme percepite in quello Stato di residenza, per cui non era idoneo a dimostrare l’avvenuta doppia imposizione e quindi a giustificare la pretesa restitutoria; 2) Errata interpretazione e applicazione dell’art. 15 della Convenzione Italia-Argentina: Deduceva l’appellante che nel caso in esame dovevano applicarsi non già le disposizioni previste dall’art. 18 della Convenzione per le «pensioni o altre remunerazioni analoghe» – come ritenuto dal ricorrente – bensì l’artt. 15 di detta Convenzione, trattandosi di somme erogate da un fondo pensione complementare, ricomprese nell’art. 50, comma 1, del T.U.I.R. e come tali assimilabili ad ogni effetto al trattamento di fine rapporto erogato ai sensi dell’art. 2120 c.c., che costituisce una retribuzione differita del lavoro dipendente. Con controdeduzioni del 17 ottobre 2007 il contribuente appellato contestava in toto la fondatezza dell’appello e ne chiedeva il rigetto, eccependo in via preliminare la «inammissibilità del nuovo motivo di appello relativo alla errata applicazione dell’art. 15 della Convenzione Italia-Argentina, in violazione dell’art. 57 D.Lgs. 546/1992» e, in via subordinata, nel merito, la «errata assimilazione al Tfr delle somme erogate dalla A. Assicurazioni nel confronti del resistente». L’appellato eccepiva inoltre, sempre nel merito, la errata interpretazione dell’art. 15 della Convenzione Italia-Argentina contro le doppie imposizioni, stante l’assenza di lavoro dipendente svolto in Italia e mancando un collegamento giuridicamente qualificato tra il reddito di lavoro dipendente percepito da esso ricorrente e lo Stato italiano. Il contribuente appellato eccepiva, inoltre, la inesistenza dell’obbligo di dimostrare l’effettiva tassazione in Argentina ed errata interpretazione degli artt. 4, 24 e 29 della Convenzione Italia-Argentina; deduceva, infine, di aver ampiamente soddisfatto il proprio onere probatorio sia con riferimento alla propria residenza


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in Argentina nell’anno 2005 – periodo nel quale aveva percepito le somme in questione – sia con riferimento alla attività lavorativa svolta in Argentina, a tal uopo richiamando tutta la documentazione prodotta; insisteva, inoltre, nel far rilevare la validità sostanziale del certificato rilasciato dalla autorità argentina ai sensi dell’art. 29 della vigente Convenzione tra i due Stati. Con memorie illustrative del 23 ottobre 2008, l’appellato ulteriormente deduceva sulla «errata interpretazione ed applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 29 della Convenzione Italia-Argentina», confutando le censure contenute al primo motivo dell’appello, e sulla «errata interpretazione ed applicazione dell’art. 15 della Convenzione medesima», insistendo per la correttezza e per la conferma della sentenza di primo grado. Con memorie illustrative del 31 gennaio 2008, l’ufficio appellante replicava alla eccezione di inammissibilità di parte dell’appello sollevata da controparte, eccependone la infondatezza, ed ulteriormente deduceva sul ritenuto corretto inquadramento giuridico delle somme liquidate quali fondo complementare di pensione per conseguente applicazione dell’art. 15 della Convenzione Italia-Argentina; nonché sulla mancanza del requisito della permanenza in Argentina, nell’anno 2005, per un periodo superiore a 183 giorni e sul mancato assolvimento dell’onere della prova ex art. 29 della Convenzione medesima. All’udienza pubblica di discussione il relatore illustrava i fatti e le questioni della controversia. I rappresentanti delle parti si riportavano ai propri atti ed insistevano per l’accoglimento delle spiegate conclusioni. Il Collegio deliberava quindi la decisione in camera di consiglio. Motivi della decisione Il Collegio rileva preliminarmente la infondatezza della eccezione di inammissibilità sollevata dalla parte appellata, in quanto le questioni dedotte dall’ufficio nel secondo motivo dell’appello – riguardanti la qualificazione giuridica da attribuire alle somme liquidate da A. Assicurazioni e l’applicabilità nel caso in esame dell’art. 15 della Convenzione Italia-Argentina (anziché dell’art. 18 della medesima Convenzione) – erano state in effetti già introdotte dall’ufficio resistente nel giudizio di primo grado con le memorie illustrative depositate a compendio delle proprie controdeduzioni. L’appellante non ha perciò introdotto in questa fase di giudizio, come sostenuto dall’eccepente, una causa petendi nuova o fondata su questioni di fatto e diritto non prospettate nel giudizio di primo grado e che non siano state poste all’attenzione del giudice di prime cure. Nel merito, l’appello dell’ufficio è fondato e va pertanto accolto. Con il primo motivo, l’appellante, in contestazione della sentenza impugnata, ha sostanzialmente eccepito che il sig. L.D., sia con la domanda di rimborso che nel giudizio di primo grado, non aveva fornito la prova della avvenuta doppia imposizione delle remunerazioni percepite nel 2005, costituente presupposto necessario per il rimborso ai sensi dell’art. 29 della Convenzione Italia-Argentina contro le doppie imposizioni, ratificata con legge n. 282/1982. Riteneva l’ufficio che l’attestato rilasciato dall’autorità argentina, peraltro tardivamente depositato rispetto alla istanza di rimborso, non era di per sé idoneo a dimostrare l’avvenuta doppia imposizione ed a giustificare la pretesa restitutoria. Al riguardo il Collegio in primo luogo rileva, che in materia di rimborsi grava sul richiedente l’onere di dimostrare l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che legittimano il diritto al rimborso delle imposte che si assumono indebitamente pagate. Sul punto è uniforme l’indirizzo della Cassazione (ex plurimis: n.8439 del 4 maggio 2004), secondo cui il principio dell’art. 2697 c.c. riguardante l’onere della prova si applica anche nel contenzioso tributario e, nello specifico, tale onere nelle azioni di rimborso ricade sul

contribuente e investe innanzi tutto il «fatto storico della duplicazione del pagamento di cui si chiede la restituzione». Ciò assodato, si tratta di verificare attraverso la documentazione in atti se nella fattispecie – rientrante nella disciplina della Convenzione tra Italia ed Argentina, data la preminenza della disciplina convenzionale sulla normativa statale – il contribuente appellato abbia o meno soddisfatto l’onere probatorio su di lui gravante. È opportuno al riguardo richiamare quanto stabilito all’art. 29, paragrafo 2, della Convenzione Italia-Argentina, secondo cui: «le istanze di rimborso, da prodursi in osservanza dei termini stabiliti dalla legislazione dello Stato tenuto ad effettuare il rimborso stesso, devono essere corredate da un attestato ufficiale dello Stato di cui il contribuente è residente, certificante che sussistono le condizioni richieste per avere diritto all’applicazione delle esenzioni o delle riduzioni previste dalla Convenzione». Con riferimento a tale disposizione, osserva il Collegio che le “condizioni richieste” per avere diritto alle esenzioni o riduzioni debbano essere ricercate, oltre che nella disciplina convenzionale e nelle diverse ipotesi regolatrici del potere impositivo degli Stati contraenti ivi previste, anche e soprattutto nella individuazione del fatto costitutivo del diritto al rimborso. A tal riguardo non può non rilevarsi che le Convenzioni internazionali – compresa quella stipulata tra Italia ed Argentina – hanno dichiaratamente lo scopo di «evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e prevenire le evasioni fiscali»: tali obiettivi – di cui è preminente quello diretto ad evitare che il contribuente sia assoggettato ad una doppia imposizione sul medesimo cespite – vengono perseguiti dalla disciplina convenzionale o prevenendo tale pregiudizio a danno del contribuente con lo stabilire a monte le regole in base alle quali, ricorrendo determinati presupposti, uno dei due Stati contraenti rinuncia in tutto o in parte alla propria potestà impositiva in favore dell’altro Stato; ovvero con la previsione in favore del contribuente doppiamente tassato della possibilità di ottenere benefici fiscali compensativi in uno dei due Stati, che nel caso in esame si sostanziano nella pretesa di rimborso delle ritenute fiscali subite in Italia. La ratio della disciplina convenzionale e le specifiche disposizioni dell’art. 29 in materia di domande di rimborso delle imposte riscosse in uno Stato mediante ritenuta alla fonte, inducono il Collegio a ritenere – contrariamente all’assunto del contribuente appellato, secondo cui per la piena applicazione della Convenzione l’unico presupposto giuridico risiederebbe nel conflitto tra le potestà impositive degli stati contraenti, tra di loro concorrenti – che il fatto giuridico costitutivo del diritto al rimborso (la cui domanda è proponibile quando il diritto alla percezione delle imposte ritenute alla fonte sia limitato dalla disciplina convenzionale, come previsto al paragrafo n. 1 dell’art. 29) debba necessariamente sostanziarsi nella avvenuta doppia imposizione dello stesso cespite sia nel Paese ove ha sede l’ente erogante che nello Stato di residenza del contribuente. La stessa Corte di Cassazione, nella più sopra richiamata sentenza n. 8439/2004, ha peraltro chiarito che il contribuente nelle azioni di rimborso deve innanzi tutto assolvere all’onere di provare il «fatto storico della duplicazione del pagamento di cui si chiede la restituzione». Ciò posto, si tratta di verificare se l’attestato rilasciato il 7 novembre 2006 dal Ministero della Economia e della Produzione della Repubblica Argentina – prodotto dal ricorrente nel giudizio di primo grado – sia idoneo o meno a dimostrare la tassazione anche in quello Stato, di sua residenza, del cespite tassato alla fonte in Italia. Dall’esame di tale documento – ove si attesta che il sig. L.D. «[...] è considerato residente agli effetti fiscali nella Repubblica Argentina durante i periodi fiscali 2003, 2004, 2005 fino alla data di rilascio del presente certificato, ai sensi della Convenzione per evitare la doppia imposizione sottoscritto tra l’Italia e l’Argentina» – non


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emerge in alcun modo che le somme percepite dal contribuente appellato nell’anno 2005 da A. Assicurazioni siano state in effetti assoggettate a tassazione anche in Argentina; né tale presupposto della doppia imposizione del cespite in questione risulta in altro modo idoneamente dimostrato dal richiedente il rimborso; neanche con l’attestazione allegata alla istanza di rimborso rilasciata presumibilmente da uno studio di commercialista. Si rileva, inoltre, che al paragrafo 3 dell’art. 24 della Convenzione (disposizioni per eliminare la doppia imposizione) è stabilito quanto segue: «per quanto concerne l’Argentina: se un residente dell’Argentina riceve redditi provenienti dall’Italia, tali redditi saranno esclusi dalla base imponibile sulla quale è calcolata l’imposta argentina». Tale disposizione, almeno sul piano astratto della previsione, porterebbe ad escludere che il cespite in questione possa essere stato assoggettato a tassazione nello Stato di residenza del contribuente. Sulla base delle suesposte valutazioni deve dunque ritenersi fondato il motivo dell’appello in esame. Con il secondo motivo l’ufficio appellante ha eccepito la erroneità della sentenza impugnata «laddove non provvede ad applicare l’art. 15 della Convenzione Italia Argentina». Sostiene l’ufficio che, conformemente a quanto stabilito dalla Cassazione con sentenza n. 11780/1998, il trattamento di fine rapporto, erogato ai sensi dell’art. 2120 c.c. – al quale vanno naturalmente assimilate le somme erogate a titolo di riscatto di fondo pensione complementare ricomprese nell’art. 50, comma 1 lett. h-bis del T.U.I.R. – costituisce una retribuzione differita di lavoro dipendente, come tale rientrante nella disciplina dell’art. 15 (lavoro subordinato) della Convenzione Italia-Argentina contro le doppie imposizioni, che stabilisce la tassazione esclusiva nello Stato di residenza, se l’attività lavorativa è svolta in detto Stato, e la tassazione concorrente in entrambi i Paesi quando l’attività lavorativa è prestata nell’altro Stato contraente e non ricorrano le tre condizioni previste al paragrafo 2 del medesimo art. 15. Il Contribuente appellato ha contestato la fondatezza di tale assunto attoreo, sostenendo che la liquidazione del riscatto del fondo pensione complementare non può essere assimilato al Tfr, quanto piuttosto alle pensioni trattandosi di remunerazioni a queste analoghe, con conseguente applicabilità dell’art. 18 (pensioni) della Convenzione Italia Argentina. L’appellato eccepiva, in ogni caso, la errata interpretazione, da parte dell’appellante, dell’art. 15 della Convenzione, sul rilievo che egli non solo non era residente in Italia, ma che in tale Stato non aveva mai svolto attività lavorativa per conto di T., per cui il fisco italiano non aveva alcun titolo per assoggettare a tassazione i suoi redditi di lavoro dipendente. Con riferimento alla fattispecie disciplinata al paragrafo 2 del medesimo art. 15, l’appellato faceva rilevare che lo Stato della fonte può avere una sua potestà impositiva (in ogni caso concorrente con quella dello Stato di residenza) solo nel caso in cui l’attività lavorativa venga svolta all’interno di tale Stato, con particolari e rilevanti caratteristiche di stabilità e/o collegamento con il relativo territorio. Secondo l’appellato, la circostanza che la sua attività di lavoratore si era sempre esplicata all’estero e non in Italia e la mancanza di un collegamento oggettivo giuridicamente qualificato tra il reddito di lavoro dipendente da lui percepito e lo Stato italiano, impedivano che questo Stato potesse esercitare la propria potestà impositiva nei suoi confronti; di talché doveva ritenersi esclusiva la potestà impositiva dello Stato di residenza. Così precisate le posizioni delle parti, rileva in primo luogo il Collegio che la somma percepita nel 2005 dal sig. L.D. da A. Assicurazioni per riscatto di un fondo pensione complementare, ai sensi dell’art. 50, comma 1 lett. h-bis, del T.U.I.R. approvato con D.P.R. 917/1986 va correttamente assimilata ai redditi di lavoro dipendente, essendo tale remunerazione in qualche modo connessa alla risoluzione del rapporto di lavoro intrattenuto alle di-

pendenze di T. S.p.A. fino alla data del 31 dicembre 2004 e rientrando essa, in assenza di diversa specifica indicazione normativa, nel novero delle prestazioni “comunque erogate” di cui al D.Lgs. n. 124/1993 e successive modifiche ed integrazioni. Si rileva, inoltre, che l’art. 20 del T.U.I.R. disciplinante l’applicazione dell’imposta ai non residenti, al comma 2, lett. b, stabilisce che i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente si considerano prodotti nel territorio dello Stato se corrisposti dallo Stato o da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti. Si rileva, altresì, che nel caso in esame va applicata la disciplina della Convenzione Italia-Argentina – ratificata con la legge n. 282/1982 e perciò, data anche la sua specialità, preminente sulla normativa statuale – e, nello specifico, non l’art. 18 (che riguarda i redditi derivanti da pensione), bensì l’art. 15 che riguarda in generale i redditi da lavoro subordinato (salari e stipendi) e le altre remunerazioni analoghe ed assimilabili per legge, come più sopra specificato. Tutto quanto rilevato in ordine alla riqualificazione giuridica da attribuire alla remunerazione percepita dalla A. Assicurazioni e alla individuazione della norma convenzionale applicabile nella fattispecie, non può prescindere da un esame delle circostanze di fatto inerenti la situazione giuridica soggettiva dell’appellato. Dalla documentazione in atti appare sufficientemente provata la residenza in Argentina del sig. L.D. negli anni 2003 e 2004 e nell’anno 2005 in cui, alla risoluzione del suo rapporto di lavoro con T. S.p.A. avvenuta in data 31 dicembre 2004, gli era stata corrisposta la somma relativa al riscatto del fondo di pensione complementare. Non può invece ritenersi raggiunta la prova che l’appellante nel corso del 2005 abbia soggiornato in Argentina per più di 183 giorni; infatti tale circostanza non è rilevabile in modo certo dalla documentazione all’uopo prodotta, mancando altresì in positivo idonea prova dell’effettivo soggiorno in Argentina per la maggior parte del periodo di imposta anno 2005. Dalle notizie rilevate dall’anagrafe tributaria – richiamate dall’ufficio appellante e non contestate dall’appellato – emerge che nel corso degli anni a riferimento il sig. L.D. aveva conservato in Italia la sede non secondaria dei suoi affari ed interessi, anche di carattere familiare e sociale (abitazione permanente in Roma, ove risiedevano i figli, mantenimento della nazionalità italiana oltre ad altra non specificata, possesso della tessera sanitaria, acquisto in Italia di beni immobili e diritti reali), cioè “il centro degli interessi”. Ne consegue che alla stregua delle disposizioni contenute all’art. 2, comma 2 del T.U.I.R. e delle norme civilistiche in materia di “residenza” e “domicilio”, art. 43 c.c., richiamati e applicati i criteri posti all’art. 4, paragrafo 2, della Convenzione Italia-Argentina, il sig. L.D. deve necessariamente essere considerato fiscalmente residente, oltre che in Argentina, anche in Italia, atteso che egli oltre all’abitazione permanente ha quivi mantenuto il centro dei propri interessi, conservando altresì la nazionalità italiana. Applicando dunque alla fattispecie così accertata le richiamate disposizioni della Convenzione, si ricava che il contribuente appellato va assoggettato ad imposizione in Italia, ove aveva conservato la residenza fiscale, anche sul reddito prodotto in Argentina, ove egli non potrebbe essere assoggettato a tassazione, essendo soddisfatte tutte le condizioni previste al paragrafo 2 dell’art. 15 della Convenzione medesima (cioè: permanenza inferiore ai 183 giorni e remunerazione corrisposta da soggetto non residente nello Stato estero, quivi privo di stabile organizzazione). Si rileva, inoltre, che anche se il sig. L.D. nel 2005 avesse dimorato in Argentina per oltre 183 giorni, ugualmente egli, oltre che in detto Stato, sarebbe stato assoggettabile a tassazione in Italia, ove ai sensi dell’art. 2 del T.U.I.R. deve essere considerato fiscalmente residente. In tale ipotesi egli sarebbe stato tenuto ad assolvere anche in detto Stato estero agli obblighi dichiarativi e di


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pagamento dell’imposta secondo la normativa colà vigente. Tale doppia imposizione, se adeguatamente dimostrata – come in effetti non è avvenuto, come più sopra rilevato in relazione all’esame del primo motivo dell’appello – avrebbe potuto comportare il riconoscimento in Italia di un credito di imposta e di un conseguente titolo di rimborso. Conclusivamente, sulla base delle suesposte valutazioni, ritenuto

fondato anche il secondo motivo dell’appello, il Collegio, in riforma della sentenza impugnata, ritiene che legittimamente erano state applicate le ritenute alla fonte sulla remunerazione corrisposta da A. Assicurazioni al sig. L.D. e che legittimamente l’ufficio, seppur tacitamente, ne aveva rifiutato il rimborso. La complessità della materia trattata induce a ritenere i motivi per la compensazione delle spese del doppio grado.

Nota di Sebastiano Garufi

Sembra che il motivo informatore del pronunciamento sia quello di evitare varchi impositivi, ossia che il contribuente possa beneficiare di una doppia non tassazione dei redditi in questione in entrambi gli Stati. Così, guardando agli sgradevoli effetti che sarebbero scaturiti da una corretta applicazione delle disposizioni interne e convenzionali, i giudici di seconde cure pervengono a una paradossale soluzione interpretativa che non convince sotto il profilo delle norme pattizie applicabili e che, seppur non espressamente richiamato, rievoca un non lontano orientamento analogo della Corte di cassazione, che non è andato esente da critiche in dottrina3.

1. Introduzione Con la sentenza n. 293/10/2009 la Commissione regionale dell’Abruzzo affronta il tema del regime tributario nei rapporti internazionali dei redditi di lavoro dipendente, offrendo lo spunto per alcune riflessioni critiche riguardanti le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione1. La fattispecie decisa riguarda la lite insorta tra l’amministrazione finanziaria e un contribuente persona fisica (che assume essere) residente in Argentina, a seguito del rifiuto opposto dall’ufficio di rimborsare alcune imposte. Queste ultime erano state prelevate a mezzo ritenuta sulla liquidazione del riscatto di un fondo pensione complementare erogata da una compagnia assicurativa, a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro, che il contribuente aveva intrattenuto alle dipendenze di una società italiana. Nel giudizio di primo grado2, la Commissione provinciale accolse il ricorso presentato dal contribuente e dichiarò l’illegittimità del prelievo subito alla luce delle disposizioni contenute all’art. 18 della Convenzione contro la doppia imposizione tra Italia e Argentina, essendo il contribuente residente in quest’ultimo Stato. Nel procedimento di appello, conclusosi con l’emanazione del pronunciamento che qui si commenta, l’ufficio chiese l’integrale riforma della sentenza di primo grado per due ordini di motivi. Il primo attiene all’errata interpretazione ed applicazione dell’art. 1697 c.c., in relazione all’art. 29 della Convenzione. Secondo l’amministrazione finanziaria, il certificato rilasciato dal Ministero dell’Economia e della Produzione dell’Argentina, prodotto dal contribuente e richiesto dal citato art. 29 ai fini dell’istanza di rimborso, non provava l’avvenuto effettivo assoggettamento ad imposta delle somme percepite nello Stato di residenza del contribuente. Conseguentemente, esso era inidoneo a dimostrare l’avvenuta doppia imposizione e, quindi, a giustificare la pretesa restitutoria. Il secondo motivo d’impugnazione concerne l’asserita errata interpretazione ed applicazione della Convenzione. A parere dell’amministrazione appellante, il trattamento fiscale delle somme in questione doveva essere disciplinato non già dall’art. 18 del Trattato (pensioni), ma dall’art. 15 (lavoro subordinato). Le somme erogate da un fondo pensione complementare rientrerebbero, infatti, nelle disposizioni di cui all’art. 50, comma 1, T.U.I.R. ed essendo assimilabili a tutti gli effetti al trattamento di fine rapporto erogato ai sensi dell’art. 2120 c.c., costituirebbero una retribuzione differita del lavoro dipendente. Con un percorso logico-argomentativo assai discutibile, la Commissione tributaria regionale accoglie l’appello dell’ufficio e riforma la sentenza di primo grado.

1 La Commissione tributaria di Pescara ha avuto modo di esprimersi sullo stesso oggetto, pervenendo a conclusioni simili a quelle della presente pronuncia (Comm. trib. prov. Pescara, sez. I, 5 giugno 2006, n. 188, in questa rivista, 2007, 551 ss. con nota di CERMIGNANI).

2. Il problema del diniego di rimborso e l’inquadramento delle Convenzioni contro la doppia imposizione Il primo ordine di motivazioni della Commissione riguarda l’art. 29 della Convenzione Italia-Argentina. Detta norma dispone al paragrafo 1 che le imposte riscosse in uno Stato mediante ritenuta alla fonte siano rimborsate a richiesta dell’interessato qualora il diritto alla percezione di dette imposte sia limitato dalle disposizioni della Convenzione. A tal fine, e ai sensi del successivo paragrafo 2, le istanze di rimborso devono essere corredate da un attestato ufficiale dello Stato di cui il contribuente è residente, certificante che sussistono le condizioni richieste per avere il diritto all’applicazione delle esenzioni o delle riduzioni previste dalla Convenzione. I giudici rilevano che l’attestazione fornita dal contribuente e rilasciata dall’autorità argentina non era di per sé idonea a dimostrare l’avvenuta imposizione dello stesso reddito nello Stato estero, in quanto non forniva la prova dell’avvenuto duplice prelievo fiscale. La pretesa restitutoria era, quindi, illegittima. In materia di rimborsi, osserva la Commissione, il contribuente è gravato dall’onere di dimostrare l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che legittimano il rimborso delle imposte che si assumono indebitamente pagate, stando alle disposizioni di cui all’art. 2697 c.c. che, conformemente a quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 4 maggio 2004, n. 8439, trovano applicazione anche al contenzioso tributario. Secondo i giudici di seconde cure, pertanto, il contribuente avrebbe dovuto dimostrare il fatto storico della duplicazione del pagamento, di cui chiedeva la restituzione. Atteso che dal documento rilasciato dall’autorità straniera non emergeva l’avvenuto assoggettamento ad imposta delle somme percepite dal contribuente in Argentina, il rimborso non poteva essere accordato. Il ragionamento della Commissione non può essere condiviso, perché si fonda su premesse errate. Dal tenore letterale dell’art. 29 emerge unicamente che le condizioni stabilite dalla norma per il rimborso in questione siano la

2 Conclusosi con la sentenza n. 24 del 28 febbraio 2007 della Commissione tributaria provinciale di Pescara. 3 Cfr. Cass., n. 29455 del 17 dicembre 2008, avente ad oggetto il rimborso delle ritenute subite da un contribuente residente in Svizzera sul reddito di lavoro dipendente ivi pre-

stato a favore alle dipendenze dell’ente Ferrovie dello Stato. Si veda anche il commento di D’ANDREA, Note minime a margine di un recente orientamento della Corte di Cassazione in tema di lavoro dipendente all’estero, in Boll. Trib., 5, 2009, 396 ss.


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sussistenza di una norma pattizia ai sensi della quale si limita la potestà impositiva di uno degli Stati contraenti e l’avvenuto prelievo fiscale a mezzo di ritenuta alla fonte. L’interpretazione fornita dai giudici, i quali ravvedono, invece, quale fattispecie costitutiva del diritto al rimborso, l’allegazione della prova dell’avvenuta imposizione nell’altro Stato, va ben oltre il chiaro dettato del precetto convenzionale. L’art. 29 citato, infatti, si rivolge unicamente allo Stato che abbia prelevato un’imposta (ai sensi della propria legislazione interna) in misura superiore a quella (più limitata) ammessa dalla Convenzione e obbliga lo stesso a rimborsare la differenza, a prescindere dall’eventuale trattamento fiscale che il reddito transnazionale abbia subito nell’altro Stato contraente. L’interpretazione dei giudici abruzzesi, secondo cui lo Stato contraente rimborsa l’imposta prelevata soltanto nelle ipotesi in cui l’altro Stato abbia anche esercitato un prelievo, trascende il disposto della norma e consente (di fatto) allo Stato, in capo al quale incombe l’obbligo di limitare la propria potestà impositiva, di sottrarsi unilateralmente agli obblighi derivanti dal Trattato. Sorprendenti appaiono le argomentazioni addotte dalla Commissione a sostegno di tale interpretazione. Essa rileva che lo scopo dichiarato delle Convenzioni internazionali è quello di evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e di prevenire le evasioni fiscali. A tal fine – continuano ad osservare i giudici – stabiliscono delle regole in base alle quali, ricorrendo determinati presupposti, uno dei due Stati contraenti rinuncia in tutto o in parte alla propria potestà impositiva in favore dell’altro Stato, ovvero prevedono a favore del contribuente soggetto a doppia tassazione la possibilità di ottenere benefici fiscali compensativi in uno dei due Stati, che – nel caso di specie – si sostanziano nella pretesa di rimborso delle ritenute subite in Italia. Invero, malgrado la correttezza di tale affermazione4, i giudici trascurano un dato fondamentale: le modalità attraverso le quali le norme convenzionali intendono perseguire tale obiettivo. Più specificamente, in virtù della Convenzione, gli Stati contraenti si vincolano reciprocamente a modificare le rispettive potestà impositive unilaterali rispetto ad una determinata fattispecie reddituale transnazionale, al fine di risolvere i potenziali conflitti bilaterali di potere impositivo. La norma formale convenzionale, che fissa specifici criteri di collegamento mutualmente stabiliti e che individua quale degli Stati possa esercitare la propria potestà impositiva, determina le varie forme di concorso di sovranità degli Stati contraenti. Così, in relazione ad una specifica fattispecie reddituale transnazionale, la norma convenzionale di distribuzione o riparto5, al fine di eliminare la doppia imposizione, delimita il contenuto del potere normativo dei singoli Stati che si estrinseca per mezzo della norma interna, e senza costituire ex novo obblighi di applicare tributi che non erano previsti da tale legislazione6, individua fat-

4 Si veda in dottrina GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, Milano, 2008, 160, il quale evidenzia che le altre due funzioni principali delle Convenzioni sono: risolvere le controversie e prevenire e combattere l’evasione fiscale. In tal senso, vedasi anche CARPENTIERILUPI-STEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, 65 e FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 219. 5 CARPENTIERI-LUPI-STEVANATO, op. cit., 67. 6 È stato rilevato da FANTOZZI, op. cit., 220, nota 1: «le norme convenzionali delimitano [...] il potere normativo dei singoli Stati, sotto il profilo del suo contenuto, al fine di eliminare la doppia imposizione. Le loro fattispecie si ag-

tispecie a potestà impositiva esclusiva e fattispecie a potestà impositiva concorrente. Nelle prime, il problema della doppia imposizione è evitato per mezzo della fissazione di un obbligo in capo ad uno degli Stati di astenersi dall’esercitare un qualunque prelievo. Nelle seconde (che sono le più prevalenti), a fronte del potere dello Stato della fonte di esercitare (seppur talvolta in misura limitata) la propria potestà impositiva, lo Stato della residenza si vincola a eliminare la risultante doppia imposizione concedendo un’esenzione ovvero un credito d’imposta. La norma convenzionale di riparto, dunque, individuando quale Stato possa legittimamente esercitare la propria potestà impositiva su un determinato reddito, rimanda necessariamente alle disposizioni nazionali interne che regolano le concrete modalità di tassazione. A ben vedere, dunque, la doppia imposizione internazionale sussiste laddove in base alla norma convenzionale entrambi gli Stati possano esercitare la propria potestà impositiva e, allo stesso tempo, laddove in relazione a quella fattispecie concreta la norma sostanziale interna degli Stati preveda in concreto l’applicazione di un prelievo. Così, per effetto dell’operare congiunto delle norme formali convenzionali con quelle sostanziali interne, atteso che la “non imponibilità” rappresenta comunque l’estrinsecarsi del potere statuale al pari della tassazione, ben possono verificarsi ipotesi di unica imposizione nello Stato della fonte, unica imposizione nello Stato della residenza, ma anche casi di doppia imposizione ovvero doppia esenzione7. Ora, se per effetto della norma formale convenzionale uno Stato rimane carente in modo assoluto di qualunque potere impositivo su una certa fattispecie reddituale, occorre prescindere non soltanto dalla presenza di un’eventuale norma sostanziale interna che disciplini il prelievo, ma anche dalla sorte che lo stesso reddito avrà nell’altro Stato contraente. L’operatività della norma sostanziale interna, dunque, è e resta subordinata alla norma convenzionale di riparto, non già al mancato esercizio della potestà impositiva dell’altro Stato contraente per effetto di una norma interna di quest’ultimo. Le conclusioni dei giudici abruzzesi, invece, ribaltano questa impostazione e dalle motivazioni di cui alla sentenza emerge che la rinuncia all’esercizio di un prelievo da parte di uno Stato contraente (che trae tale potere da una norma convenzionale di riparto) legittimerebbe l’esercizio della potestà impositiva dell’altro Stato. Ancor più sorprendente è la non condivisibile interpretazione fatta dal Collegio dell’art. 24, paragrafo 3 della Convenzione, contenente disposizioni per eliminare la doppia imposizione internazionale. A parere della Commissione, infatti, atteso che in base a dette disposizioni l’Argentina si impegna ad escludere dalla base imponibile dei propri contribuenti residenti il reddito di fonte italiana è indice della circostanza che detto reddito non sia assoggettato

giungono a quelle norme interne e gli effetti delle prime modificano l’efficacia delle seconde o nel senso che al verificarsi della fattispecie convenzionale viene esclusa in uno degli Stati contraenti l’obbligazione d’imposta nascente dal verificarsi della fattispecie di diritto interno (metodo dell’esenzione); ovvero nel senso che gli Stati contraenti si impegnano reciprocamente a compensare le obbligazioni d’imposta di diritto interno a seguito del verificarsi della fattispecie convenzionale (metodo dell’imputazione). Nell’ambito di efficacia di una convenzione contro la doppia imposizione, dunque, l’obbligazione tributaria sussiste solo quando accanto ai presupposti della

legislazione interna si verifichino anche quelli previsti dalla convenzione». 7 GARBARINO, op. cit., 49, nota 1 afferma che non esiste alcun principio in base al quale se un reddito non è tassato in uno Stato contraente, esso debba necessariamente essere tassato nell’altro Stato contraente. Sul tema della doppia imposizione e della doppia non imposizione si rimanda più diffusamente a MIRAULO, Doppia imposizione internazionale, Milano, 1990; FANTOZZI-VOGEL, voce Doppia imposizione internazionale, in Dig. Disc. Priv., Torino, 1996, V, 186; Congresso Ifa di Vienna, Cahiers de droit fiscal iternationale, Double non-taxation, 89a, 2004.


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ad imposta nello Stato estero in questione. Conseguentemente, conclude, non vi sarebbe alcun motivo di concedere il rimborso. È chiaro che questa interpretazione non può essere condivisa. Le disposizioni dell’art. 24, che di norma ricalcano quelle contenute all’art. 23 del modello Ocse, stabiliscono le modalità per eliminare la doppia imposizione. Lo Stato della residenza, qualora lo stesso reddito sia stato soggetto ad imposta nello Stato della fonte in capo allo stesso contribuente, si impegna a concedere uno sgravio sotto forma di esenzione o credito di imposta. Anche le disposizioni convenzionali riguardanti l’eliminazione della doppia imposizione devono essere intese come regole volte a dirimere i conflitti derivanti dal concorrente esercizio della potestà impositiva di due Stati8. Laddove uno stesso reddito prodotto da uno stesso contribuente sia soggetto alla potestà impositiva concorrente delle due giurisdizioni, l’art. 23 del modello Ocse ripartisce le sovranità dei due Stati stabilendo in capo allo Stato della residenza9 un obbligo di rinuncia al prelievo (esenzione), ovvero di concessione di uno sgravio (credito di imposta). Così, laddove la norma convenzionale preveda un’ipotesi di potestà impositiva esclusiva e lo Stato della fonte, in base alla propria legislazione interna, non assoggetti quel reddito ad imposta, la norma che stabilisce l’eliminazione della doppia imposizione non conferisce assolutamente alcuna potestà impositiva allo Stato della residenza. Quest’ultimo, infatti, avendo già rinunciato all’esercizio di un prelievo in sede di ripartizione bilaterale della potestà impositiva, non può unilateralmente arrogarsi il diritto di tassare in ragione del mancato assoggettamento del reddito ad imposta nell’altro Stato. 3. La qualificazione del reddito secondo le disposizioni convenzionali Il secondo motivo di impugnazione addotto dall’ufficio appellante riguarda la corretta qualificazione del reddito percepito dal contribuente. Secondo l’amministrazione le somme pagate al contribuente a titolo di riscatto di un fondo pensione complementare costituirebbero un trattamento di fine rapporto, erogato ai sensi dell’art. 2120 c.c. Atteso che in base alle disposizioni interne (art. 50, comma 1, lett. h-bis, T.U.I.R.) tali somme sono qualificate quali redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, si renderebbero applicabili le previsioni di cui all’art. 15 della Convenzione (lavoro subordinato). Detta norma stabilisce la tassazione esclusiva del reddito nello Stato di residenza, se l’attività lavorativa è svolta in detto Stato e la tassazione concorrente in entrambi i Paesi quando l’attività lavorativa è prestata nell’altro Stato contraente e non ricorrano tutte e tre le condizioni stabilite al successivo paragrafo 2 dello stesso articolo10. A parere del contribuente, invece, la liquidazione del riscatto del fondo pensione complementare deve essere più correttamente assimilato, non già al trattamento di fine rapporto, bensì alle

8 In questo senso si veda il commentario agli articoli 23a e 23b del modello di convenzione Ocse, paragrafi 4 ss. 9 Cfr. paragrafo 8 del commentario agli articoli 23a e 23b del modello di convenzione Ocse. 10 Per chiarezza espositiva si riporta il testo del paragrafo 2 dell’art. 15 della Convenzione: «nonostante le disposizioni del paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente svolta nell’altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel primo Stato se si verificano congiuntamente le seguenti condizioni: a)il beneficiario sog-

pensioni, trattandosi di remunerazioni a queste analoghe. A livello convenzionale, dunque, la fattispecie non rientrerebbe nelle disposizioni dell’art. 15 come assunto dall’ufficio appellante, ma piuttosto in quelle contenute all’art. 18 sulle pensioni, che prevede la tassazione esclusiva delle pensioni e delle altre remunerazioni analoghe pagate in relazione ad un cessato impiego nello Stato di residenza del contribuente. Si evince facilmente che il problema della corretta qualificazione del reddito non riveste scarsa importanza. Le due norme convenzionali potenzialmente applicabili stabiliscono, infatti, criteri di ripartizione differenti della potestà impositiva (concorrente l’una ed esclusiva l’altra). La qualificazione delle fattispecie reddituali transnazionali ai sensi delle Convenzioni è un problema di interpretazione, che attiene più specificamente al significato delle disposizioni nei casi in cui esso debba essere attribuito in base al diritto interno11. La soluzione al problema può essere fornita dalla Convenzione stessa, laddove è stabilita una definizione autonoma dei termini12, ovvero dal diritto interno, laddove il Trattato operi un rinvio alla qualificazione effettuata da uno dei due Stati contraenti. In base alle disposizioni stabilite all’art. 3, paragrafo 2 delle Convenzioni, le espressioni non diversamente definite hanno il significato che ad esse è attribuito dalla legislazione di detto Stato relativa alle imposte oggetto della Convenzione, a meno che il contesto non richieda una diversa interpretazione. Così, se manca nella Convenzione un’autonoma definizione di quel reddito, per verificare quale Stato abbia o meno potestà impositiva in relazione ad una certa fattispecie, occorre riferirsi alla qualificazione reddituale operata dal diritto nazionale dello Stato della fonte del reddito, alla quale lo Stato della residenza deve uniformarsi13. Nel caso di specie, considerata l’assenza di un’autonoma definizione del reddito in questione nella Convenzione Italia-Argentina, per verificare la correttezza della qualificazione operata dall’ufficio appellante, valido sussidio interpretativo può essere certamente rinvenuto nel commentario al modello di Convenzione Ocse, atteso che questo contiene le interpretazioni generalmente accettate e rappresenta l’elemento fondamentale nei casi di interpretazione autonoma della Convenzione14. Posto che l’art. 15 fa salve le disposizioni di cui all’art. 18, e quindi trova applicazione solo laddove le altre disposizioni speciali in quest’ultimo articolo contenute non siano applicabili, l’art. 18 sarà esaminato per primo. L’art. 18 della Convenzione non contiene una nozione autonoma di “pensioni”15. Tuttavia, il paragrafo 3 del commentario all’art. 18 del modello Ocse osserva che i tipi di pagamento che rientrano in questo articolo includono non soltanto le pensioni direttamente pagate all’ex dipendente, ma anche gli altri pagamenti analoghi, quali le rendite vitalizie, corrisposti in ragione di un cessato impiego.

giorna nell’altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell’anno solare considerato; b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente nell’altro Stato; c) l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato». 11 GARBARINO, op. cit., 195, nota 1. Sul tema si veda più diffusamente MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003. 12 Si pensi ad esempio alla definizione di stabile organizzazione (art. 5), di dividendi (art. 10, paragrafo 3), di interessi (art. 11, para-

grafo 3) o di royalties (art. 12, paragrafo 2). 13 GARBARINO, op. cit., 195, nota 1. 14 GARBARINO, op. cit., 204, nota 1 secondo il quale il significato dei termini e delle espressioni della Convenzione è rinvenuto nell’ambito del sistema del modello Ocse ed il commentario è il documento che primariamente indica il contenuto di tale interpretazione. 15 Sul tema delle pensioni transfrontaliere e l’inquadramento nelle Convenzioni internazionali si rimanda più diffusamente a BOBETTAVERY JONES, Treaty issues related to the treatment of cross-border pension contribution and benefits, in Bulletin for International Fiscal Documentation, 1, 2004, 9ss.


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Il paragrafo 6 del commentario allo stesso articolo osserva che nel caso in cui dovesse risultare arduo stabilire se una determinata erogazione debba ricadere nelle disposizioni di cui all’art. 15 ovvero all’art. 18, occorrerà guardare alla causa giuridica dell’erogazione per qualificare il tipo di reddito. A tal fine potrà risultare utile ricorrere a diversi fattori e verificare se il pagamento è avvenuto nel corso o successivamente all’impiego, se il lavoratore stia o meno continuando a lavorare, se questi abbia raggiunto l’età pensionabile, etc. Di norma, quindi, l’art. 18 risulta applicabile solo in relazione alle prestazioni pensionistiche integrative erogate in forma di rendita e alle rendite vitalizie aventi contenuto previdenziale, quando il cessato impiego costituisce una condizione per quell’erogazione. Analogamente a quanto evidenziato per l’art. 18, anche l’art. 15 della Convenzione non contiene un’espressa definizione dei redditi in questione, ma si riferisce più genericamente agli stipendi e alle altre remunerazioni analoghe ricevute come corrispettivo di un’attività dipendente. I paragrafi 2.1 e 2.2 del commentario osservano che nella nozione in esame sono ricompresi non soltanto i compensi in denaro, ma anche quelli in natura, che sono corrisposti in ragione dell’esercizio di un’attività lavorativa dipendente16. Nella fattispecie oggetto della controversia in esame, l’amministrazione finanziaria qualifica le somme percepite dal contribuente quale reddito di lavoro dipendente, atteso che tali sono considerati dalla normativa interna. Pur in assenza dell’evidenziata autonoma definizione convenzionale e malgrado il carattere non vincolante del commentario, non si condivide la qualificazione dell’ufficio. Il carattere speciale della Convenzione rispetto alla normativa interna e la percezione del reddito in questione in relazione al cessato impiego del contribuente avrebbero facilmente rappresentato i principali motivi in virtù dei quali l’interprete avrebbe fatto ricadere le somme in questione nelle “altre remunerazioni analoghe” di cui all’art. 18 del Trattato Italia-Argentina. Pur tuttavia, argomenta l’appellato, quand’anche fosse stata corretta la qualificazione del reddito operata dall’ufficio, si sarebbe configurata in ogni caso un’ipotesi di potestà impositiva esclusiva dello Stato della residenza (l’Argentina), attesa l’assenza di un qualsivoglia collegamento di tipo personale (residenza) o reale (produzione del reddito) con l’Italia17. In altri termini, a detta del contribuente, il fisco italiano non avrebbe dovuto prelevare alcuna imposta sul reddito in questione, poiché, se si fosse trattato di redditi rientranti nelle disposizioni di cui all’art. 18, la potestà impositiva sarebbe spettata esclusivamente all’Argentina. Se, invece, si fosse trattato di redditi di lavoro dipendente, di cui all’art. 15, la potestà impositiva dell’Italia, Stato della fonte, si sarebbe configurata unicamente nell’ipotesi in cui l’attività lavorativa fosse stata quivi svolta. Nel caso di specie, invece, l’attività era stata prestata in Argentina. I giudici abruzzesi, accogliendo la tesi dell’amministrazione finanziaria, affermano che la somma percepita dal contribuente dalla compagnia assicurativa per riscatto di un fondo pensione complementare debba essere correttamente assimilata ai redditi di lavoro dipendente, ai sensi dell’art. 50, comma 1, lett. h-bis, T.U.I.R., considerato che la remunerazione in questione è in qualche modo

16 Sul trattamento convenzionale dei redditi di lavoro subordinato, si veda più diffusamente CARDELLA, Il punto sulla disciplina dei redditi di lavoro dipendente prestato all’estero, in Rass. Trib., 3, 2003, 894 ss.; AULENTA, La tassazione dei redditi di lavoro dipendente prodotti all’estero, in Rass. Trib., 1, 2002, 151 ss.; CARALLO, Tassazione dei redditi di la-

connessa alla risoluzione del rapporto di lavoro intrattenuto alle dipendenze di una società italiana fino al 31 dicembre 2004. In assenza di diversa specifica indicazione normativa detto reddito rientra nel novero delle prestazioni “comunque erogate” di cui al D.Lgs. 124/1993 e successive modifiche e integrazioni. La Commissione, inoltre, rileva che l’art. 23, T.U.I.R., disciplinando l’applicazione dell’imposta ai non residenti, stabilisce al comma 2, lett. b che i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente si considerano prodotti nel territorio dello Stato se corrisposti dallo Stato o da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti, così sancendo la prevalenza del criterio di collegamento con il territorio dello Stato previsto dalla norma interna su quello convenzionale. Da queste considerazioni discende, per i giudici, la necessità di far ricadere la fattispecie di cui è investita nelle previsioni di cui all’art. 15 della Convenzione. La Commissione tributaria regionale riconosce come sufficientemente provata la residenza in Argentina del contribuente nel periodo di imposta in cui questi percepì la somma relativa al riscatto del fondo pensione complementare. Tuttavia, ritiene non raggiunta la prova che lo stesso contribuente abbia soggiornato nello Stato estero per più di 183 giorni nel corso del periodo di imposta successivo. Dalle notizie rilevate dall’anagrafe tributaria sarebbe emerso che il contribuente abbia conservato in Italia la sede principale dei propri affari ed interessi, anche di carattere familiare e sociale, ed è conseguentemente considerato fiscalmente residente, oltre che in Argentina, anche in Italia, ove oltre all’abitazione permanente ha mantenuto il centro dei propri interessi e la nazionalità. Il contribuente – sempre secondo i giudici – deve, pertanto, essere assoggettato ad imposta in Italia, giacché risultano soddisfatte tutte le condizioni previste al paragrafo 2 dell’art. 15 della stessa Convenzione (i.e. permanenza inferiore ai 183 giorni e remunerazione corrisposta da soggetto non residente nello Stato estero, ivi privo di stabile organizzazione). Questo ragionamento non può andare esente da critiche, quanto meno con riferimento alla discutibile impostazione metodologica-interpretativa adottata dalla Commissione. Come più sopra evidenziato, le disposizioni del paragrafo 2 stabiliscono una deroga alla regola generale della potestà impositiva concorrente dello Stato della residenza e dello Stato della fonte, quando l’attività lavorativa del contribuente è svolta sul territorio di quest’ultimo Stato. In altre parole, in base al dettato convenzionale, ferma restando la potestà impositiva dello Stato della residenza del lavoratore, lo Stato della fonte (ove l’attività è svolta) può esercitare un prelievo quando il criterio di collegamento reale stabilito dalla Convenzione presenti determinate e specifiche caratteristiche di stabilità e continuità e, dunque, se alternativamente: (i) il beneficiario soggiorna nel proprio territorio per un periodo o periodi che oltrepassano in totale 183 giorni nell’anno fiscale considerato; o (ii) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che è residente in tale Stato; o (iii) l’onere delle remunerazioni è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha in tale Stato. Ricorrendo anche uno solo dei requisiti citati, a fronte del prelievo nello Stato della fonte, lo Stato della residenza del lavoratore dipendente dovrà garantire l’eliminazione della dop-

voro dipendente prodotti all’estero, convenzioni internazionali contro la doppia imposizione e worldwide principle, in Riv. Dir. Trib. intern., 3, 2000, 1, 130 ss.; PUOTI, I redditi di lavoro nel modello Ocse, in UCKMAR, Corso di diritto tributario internazionale, Padova, 1999, 332 ss. 17 Giova ricordare che il criterio di collegamen-

to di tipo reale si ricollega alla fattispecie produttiva di reddito e rappresenta il rapporto esistente tra l’evento economico e lo Stato di riferimento. Il collegamento personale, invece, riguarda il rapporto tra il soggetto passivo, titolare del presupposto di imposta e lo Stato, che di norma si sostanzia nello status di residente fiscale.


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pia imposizione secondo i meccanismi previsti dalla Convenzione (concedendo, dunque, un’esenzione ovvero un credito di imposta). Laddove, invece, il collegamento reale con lo Stato della fonte non presenti alcuno delle condizioni menzionate ed è quindi considerato bilateralmente troppo labile, il problema del duplice prelievo fiscale è risolto ex ante mediante l’attribuzione della potestà impositiva esclusiva al solo Stato della residenza. Nel caso in esame, i giudici accertano la residenza ai fini fiscali del contribuente in Italia in ragione dell’esistenza del suo domicilio18 in questa giurisdizione ed esaminano il disposto di cui al paragrafo 2 dell’art. 15 per illustrare la legittimità del prelievo fiscale in tale Stato. Invero, la Commissione trascura che se, appunto, l’Italia fosse stata lo Stato di residenza, la sua potestà impositiva vi sarebbe stata in ogni caso, a prescindere dal soddisfacimento dei requisiti previsti dalla norma citata, in ragione del collegamento personale. Come evidenziato, questi ultimi assolvono la funzione di dettare le condizioni al verificarsi delle quali lo Stato della fonte (ove l’attività è svolta) rinuncia alla propria potestà impositiva in favore di quella esclusiva dello Stato della residenza. Pertanto, se l’Italia si fosse considerata Stato della fonte in base al contenuto di una norma formale interna, l’altro Stato avrebbe avuto potestà impositiva esclusiva, come Stato della residenza, atteso che sarebbe mancato un qualsiasi collegamento oggettivo giuridicamente rilevante idoneo a qualificare l’Italia come Stato convenzionale della fonte del reddito di lavoro dipendente, in base alla prevalenza della norma formale convenzionale su quella interna. Dalle risultanze del caso emergerebbe, invero, che – come anzidetto – l’attività lavorativa sia stata prestata in Argentina, alle dipendenze di un datore di lavoro italiano e, dunque, in base al disposto dell’art. 15 l’Italia non avrebbe potuto esercitare alcun prelievo. Se, invece, l’Italia si fosse considerata Stato della residenza, la sua potestà impositiva vi sarebbe stata in ogni caso e, dunque, avrebbe reso del tutto inutile l’analisi del soddisfacimento delle condizioni di cui al paragrafo 2 dell’art. 15 che, come detto, attengono unicamente allo Stato della fonte.

La Commissione, invece, trae la conclusione dell’assoggettabilità in Italia del contribuente che si assume ivi residente dalla constatazione della mancanza del “collegamento qualificato” (di cui ai requisiti del paragrafo 2 citato) con l’altro Stato estero. Così, ritenendo fondato anche il secondo motivo di appello, i giudici d’appello riformano la sentenza impugnata e sanciscono la corretta applicazione delle ritenute alla fonte sulla remunerazione corrisposta dalla compagnia assicurativa e il legittimo diniego di rimborso. 4. Conclusioni Come più volte sopra affermato, la decisione della Commissione tributaria regionale non pare trovare alcun riscontro nell’ordinamento positivo, né convince sotto il profilo dell’interpretazione delle norme di diritto tributario interno e di diritto tributario convenzionale. Sembra che i giudici condizionino l’operatività delle disposizioni applicabili ad una valutazione di correttezza economica o di opportunità che, in realtà, dovrebbe essere stata già compiuta dallo Stato in sede di negoziazione bilaterale della Convenzione, dove acconsente ad una rinuncia ovvero ad un esercizio limitato della propria potestà impositiva. Probabilmente il motivo ispiratore del giudizio è il timore che il reddito percepito sarebbe andato esente da imposta sia in Argentina che in Italia e l’“aberrante” doppio vantaggio fiscale che ne sarebbe derivato, seppur corretto in base all’esatta applicazione dei principi dell’ordinamento, ha indotto i giudici ad accogliere la non condivisibile conclusione di assoggettare comunque ad imposta il contribuente. Dalla lettura della sentenza emerge che la prestazione lavorativa era stata svolta in Argentina da un contribuente ivi residente e che, dunque, nessun collegamento tra il reddito in questione e il territorio italiano si era mai verificato. Non potendo qualificare l’Italia quale Stato convenzionale della fonte del reddito appare, invece, evidente la sussistenza del diritto al rimborso, per la quale non è assolutamente richiesto dalla normativa convenzionale la prova dell’avvenuta imposizione nell’altro Stato.

18 Si evidenzia che non si comprendono le ragioni per le quali la Commissione nella sentenza faccia riferimento alla nazionalità, atteso che — come noto — nel nostro ordinamento essa non integra alcun criterio di collegamento ai fini delle imposte sui redditi.


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IMPOSTA DI REGISTRO L’ABUSO DEL DIRITTO NELL’IMPOSTA DI REGISTRO 6

Commissione tributaria provinciale di Cagliari, sez. II, 4 giugno 2009, n. 199 Presidente e Relatore: Corradini

Imposta di registro - Interpretazione degli atti - Intrinseca natura ed effetti giuridici - Rilevanza - Causa reale dell’atto - Riqualificazione - Ammissibilità - Cessione frazionata di beni aziendali - Riqualificazione come cessione di azienda - Applicabilità dell’art. 20, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 - Operazioni poste in essere per conseguire vantaggi fiscali - Divieto di abuso del diritto - Applicabilità (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20) Il criterio dell’art. 20 del D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, ai fini dell’imposta di registro, è quello di legare l’imposizione alla intrinseca natura e agli effetti giuridici degli atti, con la conseguenza che deve attribuirsi rilievo preminente alla causa reale del negozio ed alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti; pertanto, nel caso di vendita frazionata con più contratti dei beni di una azienda, qualora non si abbia dissolvimento dell’azienda, la natura sostanziale dell’atto sarà quella di cessione di azienda, soggetta ad imposta di registro; alle stesse conclusioni, in presenza di vantaggi fiscalmente rilevanti, si deve in ogni caso pervenire adottando il criterio del divieto di abuso del diritto. All’udienza del 2 aprile 2009 la causa è stata assegnata a decisione sulle seguenti conclusioni. Nell’interesse della società ricorrente, conclude affinché codesta Commissione tributaria provinciale, contrariis reiectis, voglia: 1) in via principale accertare che il rogito notarile registrato a Iglesias il 7 giugno 2005 aveva ad oggetto la cessione di beni immobili e non la cessione di azienda e per l’effetto annullare l’avviso di liquidazione e accertamento n. [...] notificato l’1 giugno 2007; perché emesso in violazione degli artt. 7, L. 212/2000 e 51/1952, D.P.R. 131/1986 in quanto carente di motivazione; perché illegittimo ai sensi dell’art. 2697 c.c. 2) In via subordinata: nella denegata ipotesi che codesta Comm. trib. prov. dovesse ritenere legittimo l’avviso di liquidazione accertamento impugnato, disporre la compensazione tra l’imposta di registro richiesta e l’Iva addebitata alla [...]. In via ancor più subordinata, dichiarare non dovute le sanzioni per mancanza del presupposto della colpevolezza ai sensi dell’art. 5, D.Lgs. 462/1997. 5) In ogni caso con vittoria di spese e onorari. Nell’interesse della resistente Agenzia delle Entrate, ufficio di Iglesias. Si chiede a codesta ecc.ma Commissione: il rigetto del ricorso di parte con conseguente conferma dell’operato dell’ufficio; la condanna alle spese di giudizio. Svolgimento del processo Con atto pubblico 27 maggio 2005, registrato il 7 giugno successivo, [...] titolare della impresa individuale corrente in Pula, frazione Santa Margherita [...] cedeva alla [...] con sede legale in Pula [...], località Sa Murta Bianca, i cui soci erano il figlio e la nuora del [...] una unità immobiliare di nove vani per uso di civile abitazione in località Sa Murta Bianca, un complesso immobiliare ad uso alberghiero ubicato sempre in località Sa Murta Bianca ed un fabbricato ad uso alberghiero distribuito su tre

livelli, tutti con tratti di terreno circostanti ed infine un appezzamento di terreno della superficie catastale di mq 4010 ricadente, così come gli altri immobili, all’interno dell’area oggetto di convenzione edilizia stipulata con il Comune di Pula il 28 novembre 1987, modificata il 28 gennaio 1980, formante corpo unico, per il prezzo complessivo di euro 3.549.000, oltre Iva nella misura di legge, che la parte acquirente dichiarava di avere già ricevuto. La G.C., istituita il 3 dicembre 2001, iniziava la attività l’1 febbraio 2005, nella stessa sede legale che già aveva avuto il cedente, in concomitanza con la cessazione della attività da parte del cedente S., avvenuta formalmente subito dopo l’atto di cessione. del complesso immobiliare ad uso alberghiero in favore della società costituita dai suoi familiari. Per tale cessione, come risultante dall’atto di vendita, il [...] emetteva la fattura n. 1 del 27 maggio 2005 per il prezzo di vendita sopra indicato, determinato mediante perizia giurata di stima asseverata con giuramento da un tecnico abilitato nella stessa data, con la quale applicava nei confronti della società acquirente l’Iva con la aliquota del 20%, mentre invece registrava l’atto dl cessione a tassa fissa. Con l’avviso di rettifica indicato in epigrafe, notificato l’1 giugno 2007, l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Iglesias, ritenendo che le parti del negozio avessero utilizzato impropriamente il codice. 1102 (trasferimento immobiliare soggetto ad Iva), anziché il codice 1118 (trasferimento di azienda soggetto a registro), trattandosi in realtà di cessione di una azienda alberghiera che doveva essere assoggettata a imposta di registro con la aliquota del 7%, accertava, ai sensi degli artt. 51 e 52 del D.P.R. n. 131 del 1986, le imposte di registro, ipotecarie e catastali nella misura di euro 457.625,82, comprensiva di sanzioni ed interessi. Contro tale avviso ha proposto ricorso la [...] con atto notificato all’ufficio di Iglesias in data 23 luglio 2007 e depositalo nella segreteria di questa Commissione l’8 agosto successivo lamentando: l’atto di rettifica e liquidazione era illegittimo perché privo di motivazione ai sensi degli artt. 52, comma 2-bis, del D.P.R. n. 131 del 1986 e 7 della legge n. 212 del 2000; era stato trasferito un complesso immobiliare alberghiero ma non l’azienda alberghiera poiché nell’atto di vendita non veniva menzionata l’azienda ed anche il perito che aveva operato la stima aveva valutato soltanto gli immobili; la azienda si distingueva, ex art. 2555 c.c., dai singoli beni che la componevano e comunque, non essendo stato ceduto l’avviamento, non era stato trasferito un complesso di beni idoneo a consentire la attività di impresa; la amministrazione finanziaria non aveva indicato nell’accertamento le prove a sostegno del suo assunto, come pure sarebbe stata tenuta a fare; era erroneo l’accertamento laddove sosteneva «il difetto in capo al cedente della soggettività passiva Iva» poiché il S. era titolare di una impresa individuale e di partita Iva; in via subordinata avrebbe dovuto essere disposta la compensazione fra l’Iva versata e l’imposta di registro pretesa; in via ancora più subordinata dovevano essere escluse le sanzioni per mancanza del presupposto di colpevolezza ex art. 5 del D.Lgs. n. 472 del 1997. L’ufficio di Iglesias, nel costituirsi in giudizio e presentare le proprie controdeduzioni, si è opposto al ricorso rilevando: l’accertamento era motivato poiché indicava i presupposti di diritto, l’imponibile, la aliquota, la natura dell’imposta, ma soprattutto la


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circostanza che era stato erroneo il riferimento, da parte del ricorrente, al trasferimento immobiliare soggetto ad Iva, perché in realtà si trattava di trasferimento dì azienda soggetto a registro; sul trasferimento dell’azienda l’ufficio aveva seguito la teoria universalistica dell’azienda per cui ciò che contava era il risultato finale anche nel caso in cui si procedeva fittiziamente alla alienazione frazionata al fine di risparmio fiscale; la cessione del complesso organizzato ad uso alberghiero, come si leggeva nell’atto di compravendita, era un mero strumento utilizzato dalla società cessionaria per proseguire la stessa attività del cedente, nella stessa sede, come era comprovato dalla circostanza che la società cessionaria, che era una S.r.l. con capitale irrisorio, era costituita da parenti del cedente ed aveva iniziato la attività al momento dell’acquisto, mentre, contemporaneamente, il cedente aveva dichiarato la cessazione della stessa attività; in tal modo il cessionario aveva ottenuto il risultato dl proseguire la attività del cedente, di detrarre l’acquisto contabilizzando un costo fittizio di acquisto, non corrisposto, di euro 3.500.000 e di chiedere il relativo rimborso Iva; il diritto di detrazione dell’Iva era escluso poiché, stante l’intervento elusivo delle parti, il tributo esposto in maniera illegittima o erronea era indetraibile; anche la richiesta della società ricorrente dl escludere le sanzioni era ingiustificata. La società ricorrente ha successivamente presentato una memoria difensiva con cui ha ribadito la illegittimità dell’accertamento. La trattazione del ricorso è avvenuta in udienza pubblica, nel corso della quale sono comparsi i rappresentanti delle parti che hanno insistito per l’accoglimento delle tesi già esposte ne rispettivi scritti difensivi. Quindi il ricorso è stato assegnato a decisione sulle conclusioni sopra trascritte. Motivi della decisione Deve essere preliminarmente esaminata la questione di nullità degli accertamenti per difetto di motivazione, che, se fondata, sarebbe idonea a definire la lite. La società ricorrente assume a tale proposito la violazione degli artt. 52, comma 2-bis, del D.P.R. n. 131 del 1986 e 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, poiché in particolare mancherebbe la indicazione dei presupposti di fatto che giustificavano l’accertamento e la indicazione delle prove dell’assunto dell’ufficio che, ad avviso del contribuente, dovrebbero essere contenute già nell’atto di accertamento. Sul punto occorre rilevare che l’accertamento, come riportato nella parte espositiva, non solo indica i presupposti di diritto ma anche quelli di fatti giustificativi ed anzi fa riferimento pure all’intrinseco contenuto negoziale che rendeva evidente trattarsi di cessione di azienda e non di immobile, per cui pare difficilmente sostenibile la ipotesi del difetto di motivazione, sol che si consideri che la società ricorrente si è difesa ampiamente sotto tutti i profili con un lunghissimo ricorso e con una successiva memoria difensiva, ugualmente diffusa. La circostanza che all’atto di accertamento non siano state allegate le prove a sostegno dello stesso (prodotte successivamente dall’ufficio in allegato all’atto di costituzione in giudizio) non si pone in violazione dell’obbligo di motivazione dell’accertamento e tanto meno in contrasto con l’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente poiché nessuna disposizione impone che le prove siano contenute nell’atto di accertamento, essendo al contrario il giudizio la sede della loro raccolta nel contraddittorio tra le parti. Costituisce infatti principio giurisprudenziale consolidato quello per cui anche nel processo tributario la prova si forma nel giudizio, costituendo l’accertamento soltanto una provocatio ad opponendum, per cui si deve ritenere che costituisse diritto dell’ufficio produrre in giudizio nuovi documenti, pur se non allegati all’accertamento, come avvenuto nel caso in esame con riguardo

alle dichiarazioni dei redditi del S. e alla visura storica camerale della [...] delle sue vicende; su cui poi, comunque, la società ricorrente ha avuto possibilità di rispondere con la successiva memoria difensiva. Sarebbe invero singolare ritenere che l’ufficio, una volta emesso l’accertamento non potesse più produrre documenti preesistenti anche perché resterebbero senza senso le disposizioni di cui all’art. 24 del D.Lgs. n. 546 del 1992 che autorizzano, in caso di deposito di documenti nuovi da parte dell’ufficio in sede di controdeduzioni, la integrazione dei motivi di ricorsi, la presentazione di motivi aggiunti ed addirittura il rinvio della udienza di discussione già fissata (in tal senso v. Cass., n. 11 del 1997). D’altronde gli atti menzionati nell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente e che devono essere allegati all’accertamento sono soltanto quelli integranti la motivazione dell’accertamento e richiamati specificamente per relationem, cosicché il contribuente, in assenza della loro allegazione, non è messo in grado di comprendere il contenuto dell’accertamento, con esclusione quindi degli atti probatori che possono essere prodotti anche nel corso del giudizio, non potendosi pretendere che l’accertamento divenga una copia integrale del fascicolo dell’ufficio e tanto meno che l’ufficio sia obbligato a chiudere la sua attività istruttoria al momento della emanazione dell’accertamento. Neppure l’evidente errore contenuto nell’accertamento per cui «il cedente sarebbe stato privo di soggettività passiva Iva», mentre invece il [...] era un imprenditore individuale che aveva sempre esercitato attività alberghiera (errore che l’ufficio ha cercato, inutilmente, di spiegare dando alla espressione usata un senso diverso da quello fatto palese dal significato proprio dalle parole usate, secondo la connessione di esse) incide sulla sua validità poiché è completamente irrilevante ai fini della motivazione dell’atto che si regge su altre argomentazioni autonome ed autosufficienti. La eccezione di invalidità dell’accertamento per difetto di motivazione è quindi completamente infondata. Passando al merito del ricorso, al di là della infelice espressione utilizzata dall’atto di cessione con cui si afferma di vendere «un complesso immobiliare ad uso alberghiero», si tratta di verificare se la vendita abbia riguardato soltanto gli immobili ovvero l’azienda. La giurisprudenza ha più volte affrontato la questione della interpretazione dell’atto di cessione, in presenza dei vari strumenti utilizzati nella pratica notarile al fine di frodare il fisco, quali la cd. formula dello spezzatino ovvero la cessazione più o meno simulata della attività aziendale o ancora la cessione a soggetto non formalmente munito della autorizzazione all’esercizio della attività del cedente al momento della cessione, onde individuare dei criteri oggettivi che consentano di qualificare un atto come cessione di azienda invece che come cessione di singoli beni aziendali. Il criterio fissato dal D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20, ai fini della imposta di registro, è quello della intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti, il quale comporta che, nella imposizione di un negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale ed alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, al di là delle formule giuridiche di cui la operazione economica sia più o meno fittiziamente rivestita; in tale ambito, proprio con riguardo alla cessione di una azienda alberghiera che costituisce uno dei campi di maggiore attenzione per il rilevante numero di contratti posti in essere, nella pratica, in frode alla normativa fiscale, qualora per dissimulare la vendita della azienda venga usata, ad esempio, la formula dello “spezzatino” non può attribuirsi rilievo preminente alla diversità di oggetto e di causa relativi ai vari contratti, per negare il loro collegamento e consentire di individuare in tal modo un intento elusivo di una fattispecie tributaria (v. Cass., n. 10660 del


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2003, n. 564655), così come diviene irrilevante la circostanza che il cedente non fosse munito di autorizzazione all’esercizio alberghiero, concesso in affitto ovvero alla ulteriore circostanza che al momento della cessione la azienda fosse o meno in attività (v. Cass., sez. V, n. 1350 del 2007, n. 599292). L’interprete deve infatti privilegiare il dato giuridico reale rispetto ai dati formalmente enunciati – anche frazionatamente – in uno o più atti e cioè il risultato di un comportamento sostanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, con la conseguenza che, nell’ipotesi di comportamenti funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto finale, essi vanno considerati, ai fini della imposta di registro, come un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva (v. Cass., n. 2715 del 2002). Quel che conta è quindi l’accertamento del fatto che il cessionario, dal punto di vista sostanziale ed al di là degli strumenti usati e diretti a diversi scopi leciti, sia o meno venuto a disporre di un complesso che integra le caratteristiche della azienda (alberghiera nella specie), attraverso il riscontro degli elementi effettivamente rilevanti della fattispecie, consistenti nella verifica della preesistenza di una attività economica organizzata, anche se in ipotesi non ancora iniziata oppure sospesa ma comunque dotata di potenzialità produttiva e la acquisizione, da parte del cessionario, di tale potenzialità produttiva, eventualmente pure al seguito di prevedibili ristrutturazioni (v. Cass., n. 8362 del 1992). Il criterio distintivo fra le due fattispecie, in sostanza, è quello della cessione o meno di beni strumentali atti nel loro complesso e nella loro interdipendenza all’esercizio della impresa: qualora non si abbia, in virtù degli strumenti posti in essere, dissolvimento sicuro dell’azienda, mediante alienazione atomistica dei suoi componenti, la natura sostanziale dell’atto sarà quella di cessione dell’azienda, mentre invece sarà assoggettata ad Iva la cessione di singoli beni, inidonei in sé ad integrare la potenzialità produttiva propria dell’impresa; né la cessione dell’azienda è esclusa per il fatto che non risultino cedute anche le relazioni finanziarie commerciali e personali, non menzionate nell’atto pubblico di cessione, essendo questo lo strumento attraverso cui, normalmente e notoriamente, si persegue dal punto dì vista pratico la frode alla legge a fini di risparmio fiscale (v. Cass., n. 16818 del 2008, rv. 604371; Cass., n. 23857 del 2007, rv. 601114; Cass., n. 11769 del 2008, rv. 603335) Orbene, alla stregua di tali criteri, individuati dalla giurisprudenza ampiamente consolidata della Corte di Cassazione, appare corretta la interpretazione dell’atto di cessione offerta dall’ufficio finanziario, laddove ha ritenuto, anche in base alla individuazione della causa reale del negozio e della regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dalle parti, che [...] abbia ceduto alla società costituita ad hoc dai suoi familiari (in quanto ha incominciato a funzionare soltanto al momento dell’acquisto) la attività alberghiera che già esercitava il S. in quel complesso organizzato per quello scopo e cioè in sostanza la azienda alberghiera che è semplicemente “passata di mano”, sempre nell’ambito familiare e di un ricambio generazionale, restando uguale la attività e la sede della stessa. Non interessa che nell’atto di compravendita non sia stato menzionato l’avviamento poiché la cessione del complesso alberghiero organizzato comprendeva all’evidenza anche l’avviamento che era “incorporato” in quel complesso organizzato e che non poteva neppure essere trasferito altrove con il vecchio gestore che ha contemporaneamente cessato la attività in favore del figlio e della nuora. La cessione di una azienda funzionante e che ha continuato a funzionare attraverso i più giovani familiari del cedente dimostra, già da sola, che lo strumento notarile usato è stato il mezzo attraverso cui è stata mascherata la effettiva finalità

del negozio. È vero che non risultano atti di cessione dei beni strumentali però la società ricorrente non ha neppure allegato che la cessione sarebbe avvenuta in favore di terzi; e, pur spettando all’ufficio dimostrare che si trattava nella sostanza di una cessione di azienda, peraltro tale dimostrazione è stata offerta attraverso la prova documentale e logica, mentre la controparte non ha, per converso, offerto alcuna controprova ed anzi non ha neppure allegato che vi sarebbe stata una cessione separata di altri componenti dell’azienda che avrebbe consentito la applicazione dell’Iva alla sola cessione dei beni immobili, separati dagli altri componenti dell’azienda ormai definitivamente dissolta. Vi è poi un altro profilo del problema, che è stato solo accennato dalla Agenzia resistente, ma che può essere rilevato anche d’ufficio, che consente di giungere alla stessa soluzione e cioè quello di applicazione del principio di “abuso del diritto”. Il principio, elaborato dalla dottrina tedesca e dalla giurisprudenza comunitaria, è ormai approdato nel diritto nazionale italiano nella materia tributaria che era particolarmente sensibile a tale istituto, anche per la “invadenza” della legislazione comunitaria nella legislazione tributaria nazionale, ma che finirà necessariamente per estendersi ad altri rami del diritto in quanto esigenza basilare della legislazione e della giurisprudenza comunitaria che, al contrario della legislazione italiana e prima ancora della mentalità italiana, non tollera la utilizzazione di un istituto per il raggiungimento di scopi che non siano propri di quel singolo istituto e diretti invece allo scopo di eludere la applicazione di norme cogenti e finisce per non comprendere come la legislazione italiana accetti in alcuni campi l’abuso del diritto. Si tratta di un istituto per cui, in materia tributaria, sussiste l’abuso del diritto quando le operazioni poste in essere nonostante siano formalmente lecite e rispettose della legislazione comunitaria e nazionale, procurino alla parte un vantaggio fiscale contrario all’obiettivo perseguito dalle disposizioni di legge formalmente rispettate; in tal caso il giudice nazionale può prendere in considerazione il carattere totalmente o parzialmente elusivo delle operazioni per escludere la opponibilità dei negozi giuridici alla amministrazione finanziaria (v. Cass., n. 4503 del 2009, rv. 606844; Cass., n. 12237 del 2008, rv. 603278; Cass., n. 30055 del 2008, rv. 605850). La questione è già passata al vaglio anche delle sezioni unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 30055 del 2008) per cui si può pacificamente affermare che è ormai diritto vivente la rilevabilità di ufficio di eventuali cause di invalidità o di inopponibilità del negozio alla amministrazione finanziaria qualora lo stesso sia dettato dalla finalità di conseguire vantaggi fiscali mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione ovvero un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino la operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio, secondo la elaborazione delle sezioni unite, trova giustificazione nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività della imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nella imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti alla legge, bensì nel disconoscimento di effetti abusivi del negozio posto in essere al solo fine di eludere la applicazione di norme fiscali. Esso comporta la inopponibilità del negozio alla amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di fare discendere dalla operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive addirittura entrate in vigore in epoca successiva al compimento della operazione. Ciò posto, poiché la vendita, con la formula ambigua utilizzata nell’atto di cessione «del complesso immobiliare ad uso alberghiero» ha comportato l’immediato esercizio della attività alber-


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ghiera da parte del cessionario nello stesso complesso che era già tecnicamente organizzato per tale attività, si deve ritenere provato che lo strumento della cessione dei soli immobili sia stato utilizzato a fini esclusivi di rilevante risparmio fiscale, come specificati sopra, mentre invece lo scopo perseguito dalle parti era la cessione della attività e cioè dell’azienda, poi effettivamente raggiunto in spregio delle disposizioni antielusive. Anche sotto tale diverso profilo si deve di conseguenza ritenere corretto l’accertamento dell’ufficio essendosi trattato di un abuso del diritto poiché il meccanismo utilizzato dalle parti non aveva altro fine diverso da quello della frode fiscale; né la ricorrente è stata in grado di indicarne alcuno, essendosi trincerata dietro l’obbligo dell’ufficio di fornire la prova documentale della vendita dell’azienda, senza però offrire alcun elemento fattuale a sostegno della tesi dell’interesse della acquirente alla cessione dei soli immobili e del preventivo dissolvimento dell’azienda già facente capo al S. È vero che l’ordinamento appresta molto spesso più di uno strumento per raggiungere lo stesso risultato e non sempre il diverso strumento, anche se indiretto, è elusivo, non potendo essere imposto dalla amministrazione finanziaria lo strumento più oneroso, ma una volta che il meccanismo usato appare diretto esclusivamente alla frode fiscale in assenza di qualsiasi esigenza economica per la sua utilizzazione, allora non vi è dubbio che delle conseguenze della frode fiscale debbano rispondere tutti gli anelli della catena che vi hanno partecipato e hanno approfittato del risparmio fiscale.

Tali ultime considerazioni giustificano già da sole la esclusione della compensazione fra Iva ed imposta di registro richiesta in via subordinata dalla società ricorrente (v. Cass., n. 29467 del 2008, rv. 606006; Cass., n. 2847 del 2008, rv. 602106). In ogni caso la compensazione è esclusa anche per il rilievo, posto in luce dall’ufficio, che l’ordinamento ammette il cessionario alla azione di rimborso nei confronti della amministrazione finanziaria soltanto in presenza dei requisiti sostanziali della operazione, per cui il cessionario avrà diritto alta detrazione soltanto in presenza di operazioni tassativamente e sostanzialmente imponibili e non invece in presenza di operazioni elusive (v. Cass., n. 12547 del 2001; Cass., n. 6352 del 2002; Cass., n. 11109 del 2003; Cass., n. 1015 del 2005). È infondata anche la questione relativa alla pretesa illegittimità della applicazione delle sanzioni. La società ricorrente si è limitata ad invocare la mancanza del requisito della colpevolezza che però nella specie è insita nella consapevole partecipazione dell’acquirente al negozio elusivo. In ogni caso il motivo sarebbe inammissibile per totale mancanza di specificità. Il ricorso deve essere in definitiva respinto perché infondato sotto tutti i profili addotti. Le spese seguono la soccombenza della società ricorrente, a norma dell’art. 91 c.p.c. e vanno liquidate come in dispositivo sulla base della tariffa degli avvocati, tenuto conto del fatto che la Agenzia delle Entrate è stata assistita da funzionari abilitati, ridotti gli onorari di avvocato del 20% (art. 15 del D.Lgs. n. 456 del 1992).

Nota di Lorenzo Trombella

Collegio una serie di elementi, quale, su tutti, la cessazione dell’impresa individuale del cedente contestualmente all’alienazione dei citati beni strumentali e all’inizio dell’attività alberghiera da parte della società cessionaria. Fin qui, a ben vedere, niente di nuovo, poiché fattispecie identiche a quella oggetto di giudizio sono al centro di discussioni ormai antiche, con copiosa giurisprudenza1 e dottrina2, anche risalente. La particolarità della sentenza3, dunque, non attiene tanto alla qualificazione del contratto, quanto al richiamo al principio del divieto dell’abuso del diritto e all’ambito applicativo dell’art. 20 del D.P.R. n. 131 sull’imposta di registro4.

1. La fattispecie oggetto di giudizio Il caso sottoposto all’esame dei giudici cagliaritani muove dalla qualificazione operata dall’Agenzia delle Entrate di Iglesias di un atto di trasferimento di unità immobiliare ad uso abitativo e contestualmente di due complessi immobiliari ad uso alberghiero da imprenditore individuale a società a ristretta base familiare: per l’ufficio tale trasferimento, siccome compravendita di azienda, avrebbe dovuto essere assoggettato all’imposta di registro, anziché all’Iva. A prova di siffatta qualificazione, l’ufficio porta all’attenzione del

1 È sufficiente richiamare Cass., sez. I, sent. n. 2115/1978, rintracciabile in Rass. Trib., 1979, II, 50 ss.; sent. n. 2658/1979 in Rass. Trib., 1980, II, 3 ss. e sent. n. 9274/1995, in Boll. Trib., 1996, 163 ss. Più recenti, Cass., sent. n. 10660/2003, n. 2713/2002, n. 16818/2008 e n. 11769/2008, tutte rintracciabili in banca dati fisconline. 2 Il riferimento è alla dottrina che riconosce la possibilità di un’interpretazione antielusiva degli atti sottoposti a registrazione: su tutti, GRIZIOTTI, Il teorema della prevalenza della natura economica degli atti oggetto delle imposte di registro, in Riv. Dir. Fin., 1941, II, 28 ss.; VANONI, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, in Opere giuridiche, Milano, 1961, 210 ss. e JARACH, Il fatto imponibile, Padova, 1981, 24 ss. Contrari ad un’impostazione per così dire economica, tra gli altri, RASTELLO, Il tributo di registro, Roma, 1955, 258 ss.; UCKMAR, La legge di registro, I, Padova, 1958, 191 ss. e BERLIRI, Le leggi di registro, Milano, 1961, 141 ss. Più recentemente, si vedano, CERRATO, Elusione fiscale ed imposizione indiretta nelle operazioni societarie, in AA.VV., Elusione ed abuso del diritto tributario, a cura di Maisto, Mila-

no, 2009, 379 ss.; studio n. 95/2003/T del Consiglio nazionale del notariato, rintracciabile sul sito www.notariato.it; ZIZZO, Sull’elusività del conferimento di azienda seguito dalla cessione di partecipazione, in questa rivista, 2008, 274 ss.; DONATELLI, La rilevanza degli elementi extratestuali ai fini dell’interpretazione dei contratti nell’imposta di registro, in Rass. Trib., 2002, 1342 ss.; MAINARDI, A proposito della cd. funzione antielusiva dell’art. 20 del D.P.R. 131 del 1986: in particolare, il frazionamento degli atti negoziali, in Boll. Trib., 1996, 678 ss. e DELLA VALLE, L’elusione nella circolazione indiretta nel complesso aziendale, in Rass. Trib., 2009, 375 ss. 3 La sentenza che si annota, nell’estendere il divieto di abuso del diritto all’imposta di registro, esprime peraltro posizioni non nuove nel panorama giurisprudenziale: si veda, infatti, Cass., sent. n. 18374 del 31 agosto 2007, rintracciabile in banca dati fisconline. 4 La “creazione” del concetto del divieto di abuso del diritto a livello di giurisprudenza comunitaria e della sua “nazionalizzazione” ad opera della Corte di Cassazione sono oggetto di un amplissimo dibattito dottrinale.

Sia sufficiente richiamare, in questa sede, TESAURO, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur. It., 2008, 1029 ss.; BEGHIN, Abuso del diritto, giustizia tributaria e certezza dei rapporti tra fisco e contribuente, in Riv. Dir. Trib., II, 2009, 408 ss.; Id, Evoluzione e stato della giurisprudenza tributaria: dalla nullità negoziale all’abuso del diritto nel sistema impositivo nazionale, in AA.VV., Elusione ed abuso del diritto tributario, op. cit., 23 ss.; MELIS, Sull’“interpretazione antielusiva” in Benvenuto Griziotti e sul rapporto con la scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni, in Riv. Dir. Trib., I, 2008, 413 ss.; ZIZZO, Clausola anti elusione e capacità contributiva, in Rass. Trib., II, 487 ss.; Id, L’elusione tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario: definizioni a confronto e prospettive di coordinamento, in AA.VV., Elusione ed abuso, op. cit., 57 ss.; FALSITTA, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in AA.VV., Elu-


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2. La ratio antielusiva dell’art. 20, D.P.R. n. 131 del 1986 Bisogna infatti dire che, come ha correttamente osservato la commissione, la fattispecie deve essere inquadrata nell’ambito dell’art. 20 del testo unico, il quale d’altra parte è riproduttivo di identica disposizione presente già nel testo unico del 1865 (art. 7), successivamente richiamata in quello del 1923 (art. 8) ed anche, infine, con identica formulazione, nel D.P.R. n. 634 del 19725 (art. 19). Tale norma dispone che «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente»: la soluzione del caso concreto, pertanto, deve essere ricercata anzitutto in seno alla previsione dell’attuale testo unico, che senz’altro assume ruolo di disposizione antielusiva generale con riferimento all’imposta di registro6. L’art. 20 citato, infatti, richiamando sia l’“intrinseca natura”, sia gli “effetti giuridici” degli atti sottoposti a tassazione, conferma come il presupposto dell’imposta di registro debba essere individuato nell’atto avuto riguardo non tanto alla sua materialità, quanto alla “sua proiezione effettuale, e cioè in considerazione degli effetti che esso è potenzialmente idoneo a produrre”: «invero, è l’efficacia e non la materialità dell’atto idonea a palesare un’effettiva attitudine della parte al concorso alle spese pubbliche»7. Tale conclusione, del resto, mi pare conforme anche alle modalità di selezione delle fattispecie impositive individuate nella tariffa in relazione agli effetti giuridici degli atti, nel rispetto della

sione ed abuso, op. cit., 3 ss.; FICARI, Clausola generale antielusiva, art. 53 della Costituzione regole giurisprudenziali, in Rass. Trib., 2009, 390 ss.; LOVISOLO, Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio, in Riv. Dir. Trib., 2009, 49 ss. 5 L’art. 7 della l. 21 aprile 1862, n. 585, stabiliva, infatti, che «la tassa è applicata secondo l’intrinseca natura degli atti e non secondo la loro forma apparente» con un contenuto sostanzialmente analogo a quello del (cronologicamente) successivo art. 8, comma 1, D.P.R. 30 dicembre 1923 n. 3269 per il quale «le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti e dei trasferimenti, se anche non vi corrisponda il titolo o la forma apparente». Infine, come ricordato, l’art. 19 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634, statuisce che «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrIsponda il titolo o la forma apparente». 6 Già l’art. 8, D.P.R. 3269 del 1923 aveva assunto, con riferimento all’interpretazione antielusiva, un ruolo sistematico di assoluta preminenza, addirittura esorbitante i ristretti confini dell’imposta di registro. Per JARACH, Principi per l’applicazione delle tasse di registro, Padova, 1937 e Id, Metodo e risultati nello studio delle imposte di registro, in Dir. e Prat. Trib., 1938, 93 ss., tale disposizione contiene, infatti, l’esplicita codificazione di una clausola antielusiva valida per tutto l’ordinamento e non solo per il più limitato ambito dell’imposta di registro. Per GRIZIOTTI, Lo studio funzionale dei fatti finanziari, in Riv. Dir. Fin., 1940, 306 ss. e Id, L’interpretazione funzionale delle leggi finanziarie, in Riv. Dir. Fin., 1949, 349 ss., invece, sulla base della considerazione per cui l’imposta rappresenta la quota individuale con la quale si attua il concorso di ciascuno alla pubblica contribu-

libertà negoziale delle parti (trasferimento di immobile, trasferimento di azienda, ecc.)8. Non vedo, quindi, ostacoli all’attività degli uffici a procedere, per il tramite dell’art. 20, ad una riqualificazione dell’atto utilizzato dai contribuenti avendo riguardo ad una equivalenza di effetti giuridici. Equivalenza di effetti desumibile altresì da elementi extracartolari rispetto all’atto sottoposto a registrazione, come conferma il nuovo art. 53-bis del medesimo D.P.R. 131/1986, rubricato «Attribuzioni e poteri degli uffici», per il quale «le attribuzioni e i poteri di cui agli articoli 31 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e successive modificazioni, possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale previste dal testo unico di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347». A nulla, infatti, varrebbe una simile estensione dei mezzi istruttori se poi gli uffici dovessero limitare le loro attività di verifica a soli dati testuali o puramente cartolari, direttamente emergenti dall’atto sottoposto a registrazione9. Nel caso di specie, quindi, l’ufficio ha correttamente applicato l’art. 20, qualificando gli effetti giuridici della compravendita in termini di cessione di azienda10, dal momento che la medesima compravendita aveva quale oggetto la cessione di tutti i beni strumentali dell’impresa individuale, di per sé immediatamente idonei, nel loro complesso, alla prosecuzione dell’attività Così interpretato, l’art. 20 si pone, seppur nel solo ambito dell’imposta di registro, quale clausola generale antielusiva, perfet-

zione, nell’ipotesi di fattispecie impositive difettose, frammentarie e incomplete, la loro interpretazione deve corrispondere allo scopo della norma giuridica della distribuzione e deve osservare il canone fondamentale della uguaglianza nell’assetto dei tributi: proprio l’art. 8 citato costituisce la prima evidenza fattuale di tale impostazione. Va, comunque, sottolineato come simili impostazioni abbiano sempre costituito, in dottrina, orientamento assolutamente minoritario. 7 Così, letteralmente, RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2009, 373. 8 RUSSO, op. cit., 373, sottolinea «l’equivocità della tradizionale definizione dell’imposta come imposta d’atto, negando che tale definizione possa significare in linea di principio la tassabilità dell’atto in forza della sua mera esistenza, a prescindere dalla sua efficacia. Invero, è l’efficacia e non la materialità dell’atto idonea a palesare un’effettiva attitudine della parte al concorso alle spese pubbliche». Per TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2005, 272, ciò che rileva è la “sostanza giuridica”, la quale soltanto viene in considerazione , non avendo rilievo la “sostanza economica”. Non pare, quindi, condivisibile la posizione di chi ritiene che l’imposta di registro si configura espressamente come imposta d’atto, come imposta, cioè, che colpisce l’atto in se e non mai il trasferimento. Tale circostanza impedirebbe all’ufficio di andare al di la della qualificazione civilistica e degli effetti giuridici desumibili da un’interpretazione complessiva dei singoli atti, isolatamente considerati: precluderebbe, in altre parole, al medesimo ufficio, «in linea di principio, l’utilizzo di elementi extratestuali nell’attività di interpretazione dell’atto assoggettato ad imposizione» (così CERRATO, Elusione fiscale ed imposizione indiretta, op. cit., 385. Conforme

studio n. 95/2003/T del Consiglio nazionale del notariato, op. cit.). 9 Sul punto, si concorda con chi esclude l’estensione all’Imposta di registro dell’applicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, sulla base della natura sostanziale di tale ultima disposizione: tra gli altri, ZANETTI, Conferimento d’azienda e cessione della partecipazione ricevuta, in Fisco, 2008, I, 950 ss.; DELLA VALLE, L’elusione nella circolazione, op. cit,. studio n. 68/200//T del Consiglio nazionale del notariato, rintracciabile sul sito www.notariato.it. 10 Appare utile citare, sul punto, la sentenza n. 2713 del 2002 della Corte di Cassazione, in banca dati fisconline, per la quale «l’assunzione, non degli atti registrati, ma dei loro effetti giuridici come oggetto dell’imposta di registro non lede l’autonomia privata, perché i soggetti restano liberi di perseguire e di conseguire un dato mutamento dei loro patrimoni giuridici scegliendo nella gamma dei poteri negoziali, messi a loro disposizione dall’ordinamento, quelli che ritengono più opportuno esercitare. Ma, ai fini dell’imposta di registro, l’incorporazione in un solo documento di una sola dichiarazione negoziale ad effetto giuridico unico, l’incorporazione in un solo documento di più dichiarazioni negoziali [...] producendo effetti giuridici distinti [...] e l’incorporazione in documenti diversi di dichiarazioni negoziali miranti a realizzare, attraverso effetti giuridici parziali, un unico effetto giuridico finale traslativo [...] costituiscono tecniche operative alternative per i contribuenti che si trovano, però, dinanzi ad una sola e costante qualificazione giuridica formulata dal legislatore tributario: la sottoposizione ad imposta di registro del loro atto o dei loro atti in base alla natura dell’effetto giuridico (finale) dei loro comportamenti, semplici o complessi che siano».


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tamente disegnata per un ordinamento come il nostro, all’interno del quale il principio della riserva di legge consacrato nell’art. 23 della Costituzione diviene al contempo parametro di produzione normativa e norma cardine legittimante il prelievo soltanto sulle fattispecie legislativamente selezionate11.

fiscale e valide ragioni economiche, però, che costituiscono criteri estranei sia all’art. 20, sia alla sua tradizione applicativa. In buona sostanza, poiché la tariffa allegata al T.U. riconduce a tassazione atti in cui forma e sostanza normalmente coincidono, qualora tale coincidenza venga a mancare, è già l’art. 20 che obbliga a dare prevalenza alla sostanza, rendendo irrilevanti valuta3. Il richiamo al divieto dell’abuso del diritto zioni ulteriori sul risparmio fiscale ottenuto e sulle ragioni econoSe le osservazioni che precedono sono corrette, del tutto impro- miche che hanno orientato il comportamento del contribuente. prio appare il riferimento, operato dalla Commissione, al divieto dell’abuso del diritto. 4. Conclusioni Il richiamo è anzitutto inutile, perché l’area di operatività del di- Tirando le fila delle considerazioni sin qui svolte, appare evidenvieto di abuso del diritto risulta perfettamente “coperta” dall’art. te come, parafrasando illustre dottrina, la lite tributaria avrebbe 20 citato: in altre parole, la scelta legislativa di contrasto alle pra- potuto concludersi vittoriosamente per la pretesa fiscale, sacrotiche abusive è stata cristallizzata, nel corpo dell’imposta di regi- santa, senza chiedere ausilio all’ormai troppo ingombrante e stro, in tale ultima disposizione e «a quella scelta l’amministra- quasi invadente concetto di abuso del diritto14. zione finanziaria e i giudici tributari dovranno attenersi, senza Per questo motivo, viene naturale rilevare come l’abuso del diritlasciare spazio all’applicazione di principi “immanenti” che [...] to assuma ormai le sembianze, per così dire, di un virus con innon siano incorporati in una disposizione»12. clinazioni pandemiche. Anzi, proprio la sentenza che si annota Il medesimo richiamo è anche fuorviante, perché, come si è scrit- adombra un’evoluzione giurisprudenziale diretta alla sostituzioto, «non è stato ancora delineato con precisione dalla giurispru- ne della clausola antielusiva espressa di cui all’art. 20 con la claudenza che si è occupata del principio [...] il perimetro del com- sola antielusiva generale inespressa del divieto di abuso15. portamento elusivo che può essere colpito in materia di imposi- Con un duplice ordine di rischi, legati, da un lato, all’eventualità zione indiretta»13. che la giurisprudenza finisca per legittimare l’amministrazione alIn particolare, la clausola del divieto di abuso del diritto introdur- l’uso generalizzato del divieto, anche in ipotesi nelle quali non vi è rebbe anche nel settore dell’imposta di registro un obbligo di valu- ragione giuridica per farvi ricorso; dall’altro, alla perdita delle gatazione sulla legittimità del risparmio fiscale e, quindi, di valuta- ranzie procedimentali e processuali proprie della clausola antieluzione delle valide ragioni economiche che, a mo’ di esimenti, po- siva di cui all’art. 20, tra le quali l’obbligo di motivazione dell’amtrebbero giustificare il comportamento del contribuente: risparmio ministrazione e la non rilevabilità ex officio da parte del giudice16.

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Commissione tributaria provinciale di Varese, sez. III, 6 ottobre 2009, n. 122 Presidente: Novara - Relatore: Vitelli

Con ricorso presentato in data 25 marzo 2009 il ricorrente [...] impugna l’avviso di liquidazione relativo all’atto n. [...] come sopra riportato, in quanto ritiene che l’atto impositivo sia fondato sull’errato presupposto, da parte dell’ufficio, che lo stesso in conseguenza della pluralità di disposizioni ancorché contenute in un unico atto vada assoggettato a tante imposte fisse di registro quante sono le autonome disposizioni negoziali. A tal fine richiama le Ai fini dell’imposta di registro, la cessione con unico atto di più quote di so- disposizioni contenute negli art. 1 e 2 del D.P.R. n. 131/1986 e in cietà di una società di persone presenta natura unitaria, e non comporta, per- particolar modo la tariffa allegata al D.P.R. n. 131 che testualtanto, l’applicazione di distinte tasse fisse, in relazione a ciascuna quota, ma mente prevede una sola imposta fissa per «gli atti e le scritture priuna sola tassa vate autenticate aventi ad oggetto la negoziazione di quote». La Imposta di registro - Cessione con unico atto di più quote di una società di persone - Applicazione di una sola tassa fissa (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 1, 2 e 21; Tariffa, parte II, art. 11, comma 1)

11 Contrario a riconoscere qualunque funzione antielusiva al citato art. 20, non solo con riferimento agli effetti economici degli atti ma anche ai loro effetti giuridici apprezzati alla luce della propria causa concreta, MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 292 ss. per il quale «il negozio perfettamente corrispondete alla volontà delle parti e trasfuso nel corrispondente tipo normativo non potrà quindi essere disconosciuto anche se posto in essere al solo fine di conseguire un risparmio di imposta». 12 Così BEGHIN, Abuso del diritto, giustizia tributaria, op. cit., 411. 13 CERRATO, Elusione fiscale ed imposizione indiretta, op. cit., 402, cui si rimanda per ulteriori valutazioni critiche. 14 Il riferimento è, ancora, a FALSITTA, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria, op. cit., 20.

15 Conforme, sul punto, CERRATO, Elusione fiscale ed imposizione indiretta, op. cit. 16 Proprio la rilevabilità d’ufficio della applicabilità del divieto di abuso del diritto sembra mortificare la funzione della motivazione degli atti di accertamento. Come sostenuto anche da SCHIAVOLIN, L’elusione fiscale come abuso del diritto: allo stato dell’arte, più problemi che soluzioni, intervento al convegno Elusione fiscale: la nullità civilistica come strumento generale antielusivo. Riflessioni a margone dei recenti orientamenti della Cassazione civile, rintracciabile in banca dati fisconline, «la garanzia della motivazione si è sviluppata anche per escludere una funzione di supplenza del giudice rispetto alle carenze dell’azione amministrativa. Non mi sembra possibile che ciò riguardi solo l’accertamento dei fatti, mentre per quanto riguarda le ragioni giuridiche sia

possibile “scoprirle” anche dopo molti anni, magari in seguito a revirement giurisprudenziali tali da capovolgere il quadro normativo sul quale i contribuenti hanno fatto affidamento». Va, in ogni caso, sottolineato come il problema delle rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di abuso del diritto venga fortemente sdrammatizzato dall’applicabilità degli artt. 183, comma 4 e 101, ult. comma, c.p.c. Sul punto, CANTILLO, Profili processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note sulla rilevabilità d’ufficio, in Rass. Trib., 2009, 487 ss.; PODDIGHE, Abuso del diritto e contraddittorio processuale, in Rass. Trib., 2009, 1830 ss. e RAGUCCI, Rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di abuso del diritto e difesa del contribuente, in questa rivista, 2009.


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parte ricorrente richiama in proposito uno studio del Consiglio del notariato ed alcune sentenze della Comm. trib. prov. di Como. Si costituisce in giudizio l’Agenzia e in relazione al ricorso, presentato il 24 marzo 2009, avverso l’avviso di liquidazione relativo all’atto n. 2009/1 T/1345, presenta le contro deduzioni. In diritto trattasi di ricorso avverso l’avviso di liquidazione del 20 marzo 2009, con il quale lo ufficio ha richiesto al notaio [...] il pagamento delle imposte fisse per ogni cessione di quote sociali, con riferimento all’atto registrato in via telematica il 20 febbraio 2001) al n. 1345 serie 1 T con il quale sono state cedute, da parte di soggetti diversi, quote della società. La parte attrice sostiene che, se in un atto vengono enunciati più negozi giuridici, tutti soggetti a tassa fissa, è dovuta un’unica tassa che, nel caso in oggetto, trattandosi di tassa fissa, sarebbe di euro 168.00. In sostanza, il ricorrente sostiene che non dovrebbero essere tassati singolarmente tutti i negozi giuridici enunciati nell’atto, ma l’atto in quanto tale e quindi, nel caso di specie, trattandosi di cessione di quote societarie, dovrebbe essere pagata una sola tassa fissa, a prescindere dal numero delle cessioni. L’eccezione mossa dal ricorrete è del tutto fondata. La Commissione è dell’avviso che il richiamo fatto dall’ufficio all’art. 21 del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, ap-

provato con D.P.R. 20 aprile 1986, n. 131, che stabilisce: «se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto. Se le disposizioni contenute nell’atto derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, l’imposta si applica come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo all’imposizione più onerosa», non sia corretto. La Commissione rileva che l’utilizzo dell’atto pubblico e/o della scrittura privata autenticata rappresenta la normale forma contrattuale della cessione di partecipazioni sociali in quanto la legge n. 310/1993 impone tale tecnica di redazione per effettuare il deposito dell’atto di trasferimento di quote, presso il competente registro delle imprese, per un’eventuale opposizione di terzi. Inoltre la circostanza che nel caso in esame, cessione di quote di una società di persone, la natura unitaria dell’atto è ancora di più avvalorata dal fatto che trattasi di una modifica di patti sociali e più in particolare, la circostanza che la cessione riguardi più quote di una società di persone, non fa perdere all’atto la sua natura unitaria pertanto la tassa fissa è dovuta esclusivamente in ragione dell’unica e complessa formalità di registrazione. Esistono i presupposti per compensare le spese.

Nota

le distinguere se si tratta di contratto complesso o di collegamento negoziale. «[...] Solo un’indagine condotta caso per caso permette di pervenire alla soluzione, fermo restando che l’operazione economica deve essere valutata, pur in tal caso, non già in termini di astratta funzione economico-sociale ma piuttosto di concreto scopo oggettivo e di concreti interessi perseguiti dai contraenti» (GAZZONI, Manuale di Diritto Privato, VI edizione aggiornata, 1996, Napoli, 775). La posizione dei giudici di merito si discosta da quella dell’Agenzia delle Entrate. La giurisprudenza sostiene che in caso di cessione di quote sociali non dovrebbero essere tassati i singoli negozi giuridici presenti nell’atto, ma l’atto in sé: dovrebbe essere pagata una sola tassa fissa senza tener conto del numero di cessioni. Ritiene, in sostanza, che l’applicazione effettuata dell’Agenzia delle Entrate dell’art 21 D.P.R. n. 131/1986 non sia corretta. Innanzitutto perché l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata rappresentano la forma con cui si concretizza la cessione di partecipazioni sociali secondo la legge n. 310/1995: essa impone la tipologia di atto da adottare per il deposito dell’atto di trasferimento di quote presso l’ufficio del registro delle imprese al fine dell’opponibilità a soggetti terzi (cfr. Comm. trib. prov. Como, sez. VII, n. 2, 12 gennaio 2009; Comm. trib. prov. Como, sez. V, n. 3, 13 gennaio 2009; Comm. trib. prov. Novara, sez. 1, n. 56, 4 giugno 2009). Nella stessa direzione della giurisprudenza, si è di recente pronunciato il Consiglio nazionale del notariato (studio n. 4-2008/T del 18 aprile 2008 di DENORA, Abolizione della Tassa sui contratti di borsa, approvato dalla Commissione studi tributari il 18 aprile 2008, nonché lo studio n. 238/2008/T di DENORA, La natura di “tassa d’atto” dell’imposta di registro dovuta in misura fissa, approvato dalla Commissione studi tributari il 21 novembre 2008, entrambi consultabili su www.notariato.it). Si è osservato che, l’imposizione in misura fissa, pertanto, non sarebbe collegata alla natura/tipologia e agli effetti del negozio oggetto di registrazione, ma alla formalità della registrazione in sé. Ciò porterebbe a ritenere che non vi sia motivo di sottoporre a ulteriore imposta fissa le altre disposizione contenute nello stesso atto: per tale atto è previsto il pagamento dell’imposta fissa di registro ai fini della registrazione. Se l’atto contiene una o più disposizioni ciò non rileverebbe. In altre parole non vi sarebbero i presupposti per sottoporre ad ulteriore imposta fissa le altre disposizioni contenute nell’atto per il quale il legislatore ha previsto l’imposta fissa di registro in sostituzione di quella proporzionale. Sulle questioni affrontate v. recentemente MONTESANO, Tassazione ai fini dell’imposta di registro dell’atto contenente più cessioni di quote sociali, in Fisco, 3, 2010.

Con la sentenza in epigrafe la Commissione tributaria provinciale di Varese si è pronunciata sull’applicazione dell’imposta di registro nell’ipotesi di tassazione di atti che contengano più disposizioni. Nel caso concreto era stato impugnato un avviso di liquidazione con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva richiesto al notaio il pagamento di una imposta fissa per ogni cessione di quota sociale avvenuta con lo stesso atto. Il ricorrente contestava l’assunto dell’ufficio sostenendo che se in un atto sono enunciati più negozi giuridici, tutti soggetti a imposta di registro in misura fissa, è dovuta un’unica tassa fissa. La Commissione tributaria provinciale ha accolto il ricorso, sostenendo che l’utilizzo dell’atto pubblico e/o della scrittura privata autenticata è la normale forma contrattuale della cessione di partecipazioni sociali finalizzata al deposito dell’atto di trasferimento di quote presso il registro delle imprese per l’eventuale opposizione di terzi (L. 310/1993); inoltre che, nel caso oggetto del giudizio, la natura unitaria dell’atto sarebbe ulteriormente avvalorata dal fatto che trattasi di modifica di patti sociali. Il quadro normativo è lineare. L’art. 11 della tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986 prevede che il trasferimento di quote sociali sconti l’imposta di registro in misura fissa. L’art. 21 D.P.R. n. 131/1986 stabilisce poi, al comma 1, che «se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse e’ soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto» Il comma 2 disciplina il caso in cui, invece, le disposizioni derivino necessariamente per loro intrinseca natura le une dalle altre: «l’imposta si applica come se l’atto contenesse la sola disposizione che da’ luogo alla imposizione più onerosa». La posizione dell’Agenzia delle Entrate, in merito alla cessione di più quote sociali, è stata recentemente espressa con la risoluzione n. 225/E del 5 giugno 2008. La Risoluzione rileva come il legislatore abbia fatto propria «la distinzione di matrice civilistica tra collegamento negoziale (primo comma dell’articolo 21 del T.U.R.) e negozi complessi (secondo comma dell’articolo 21 del T.U.R.)»; in questo quadro, «il negozio complesso si caratterizza per la fusione nel contenuto di un unico negozio di più elementi. Nel collegamento negoziale, invece, i singoli negozi sono strutturalmente autonomi e inquadrabili in distinti schemi causali». Ne consegue che ad avviso dell’Agenzia, la cessione di più quote fa sì che le diverse cessioni mantengano «autonoma rilevanza giuridica» e che, quindi, l’atto di cessione debba scontare tante imposte di registro in misura fissa quanti sono i trasferimenti di quote in esso contenuti. Autorevole dottrina ha sostenuto, puntualmente, che non sempre è faci-


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IMPOSTE SUI REDDITI FRODE “CAROSELLO” E NEUTRALITÀ DELL’IVA 8

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. I, 22 dicembre 2009, n. 709 Presidente: De Pascalis - Relatore: Pepe

Imposte sui redditi - Detraibilità costi - Operazioni soggettivamente inesistenti - Prova della oggettiva effettuazione operazione - Rilevanza (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39)

5) per infondatezza nel merito; 6) per illegittimità delle sanzioni. Invocava, in subordine, una sensibile riduzione sia del maggior imponibile accertato e sia delle sanzioni. L’Agenzia, costituitasi, chiedeva il rigetto del ricorso. Motivi della decisione

Iva - Detrazioni - Fatture - Operazioni soggettivamente inesistenti - Prova di buona fede - Effettiva esistenza delle operazioni - Detraibilità dell’Iva di rivalsa (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39) Ai fini della imposizione diretta, i costi risultanti da fatture soggettivamente inesistenti, ove rispondano a tutti i requisiti previsti dalla legge (effettività, inerenza, contabilizzazione nelle scritture contabili), sono deducibili, senza che possa rilevare la irregolarità delle fatture medesime, in quanto non preclusiva della corretta determinazione del rapporto fra ricavi e costi. L’Iva relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti è detraibile, se il contribuente offra elementi di prova idonei a dimostrare la propria buona fede e la effettiva esistenza delle operazioni fatturate. Svolgimento del processo Con ricorso 10 giugno 2008 G.R., in qualità di ex titolare dell’impresa artigiana S.A. con sede in Parabita, impugnava dinanzi a questa Commissione tributaria provinciale l’avviso di accertamento, relativo al periodo d’imposta 2003, notificatogli dall’Agenzia delle Entrate, ufficio di Casarano, in data 17 aprile 2008. Con il predetto avviso l’ufficio accertava, ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 54 del D.P.R. n. 633 del 1972, una maggiore imposta Irpef pari ad euro 13.706,00, una maggiore addizionale regionale pari ad euro 461,00, una maggiore addizionale comunale all’Irpef pari ad euro 153,00, una maggiore imposta Irap pari ad euro 1.634,00, una maggiore imposta Iva pari ad euro 7.689,00 ed al contempo irrogava sanzioni per euro 20.559,00. Il ricorrente esponeva: - che all’origine dell’atto impugnato vi era un Pvc redatto dalla Guardia di Finanza di Gallipoli in data 31 ottobre 2007, ove si era rilevato che la ditta C.S.A.U.E. di C.S. con sede in Chieti, esercente il commercio di autoveicoli, aveva emesso fatture – nei confronti di vari clienti, e quindi anche della ditta S.A. di esso G. – relative ad operazioni inesistenti; - che l’ammontare complessivo delle suddette fatture, per le quali sarebbe stata indebitamente detratta l’Iva a credito ed indebitamente dedotto dal reddito il relativo costo, era indicato in euro 44.820,00, con un imponibile pari ad euro 38.450,00, oltre Iva al 20%, pari ad euro 6.370,00. Chiedeva l’annullamento dell’avviso impugnato: 1) per carenza di motivazione; 2) per omessa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, ai sensi dell’art. 63, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972; 3) per carenza di prova; 4) per lesione della buona fede e dell’affidamento del contribuente ex art. 10 della legge 212/2000;

1. Non sussiste il vizio di carenza di motivazione denunziato dal ricorrente. Nel caso in esame l’obbligo della motivazione deve ritenersi soddisfatto, poiché sono state esternate, ancorché in forma estremamente contratta e semplificata, le ragioni del provvedimento, e ne sono stati evidenziati i momenti ricognitivi e logico-deduttivi essenziali. E infatti le argomentazioni contenute in ricorso dimostrano inequivocabilmente che il ricorrente ha ben compreso l’iter logicogiuridico seguito dall’ufficio nella determinazione della pretesa, tanto da approntare una puntuale e circostanziata difesa. 2. Non sussiste neppure la nullità dell’avviso di accertamento «per omessa autorizzazione dell’autorità giudiziaria». In materia di Iva, l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, richiesta dall’art 63, comma 1, D.P.R. n. 633/1972, per la trasmissione agli uffici delle Imposte dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di Finanza nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, con la conseguenza che la sua mancanza, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi. L’autorizzazione in parola è stata infatti introdotta per realizzare una maggiore tutela degli interessi protetti dal segreto istruttorio (Corte cost., sent. n. 51 del 1992), piuttosto che per filtrare ulteriormente l’acquisizione di elementi significativi a fini fiscali (cfr. ex plurimis Cass. civ., sez. trib., 23 marzo 2007, n. 7144; 16 maggio 2007, n. 11203). Si osserva tuttavia che nel caso in esame, al termine delle indagini di polizia giudiziaria espletate dalla G. di F. di Chieti, l’a.g. ha autorizzato l’utilizzo dei dati acquisiti anche per fini fiscali (cfr. quinto foglio della segnalazione della G. di F. di Chieti). 3. Il terzo ed il quarto motivo del ricorso vanno esaminati congiuntamente al merito, poiché pongono in discussione il fondamento della pretesa fiscale. E infatti con questi motivi il ricorrente, per un verso nega la esistenza di prove certe a sostegno delle violazioni contestate, per altro verso afferma che il comportamento dell’Agenzia non sarebbe stato improntato al principio della collaborazione e della buona fede. Si assume poi, nel merito del ricorso, che gli acquisti relativi alle fatture in contestazione sono stati effettivamente sostenuti e che ciò comporterebbe l’assoluta infondatezza ed illegittimità del recupero fiscale operato dall’ufficio di Casarano. L’Agenzia, da parte sua, nega che il ricorrente possa fruire della deducibilità dei costi e della detrazione dell’Iva a fronte di fatturazioni soggettivamente inesistenti. 3.1 Ciò posto, va premesso, in punto di fatto, che il controllo eseguito dalla G. di F. di Gallipoli nei confronti della ditta G. ha preso a base anche i fatti di cui alla segnalazione pervenuta dalla


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Compagnia G. di F. di Chieti. Con tale segnalazione sono state comunicate le risultanze emerse a seguito della verifica fiscale eseguita nei confronti della C.S.A.I.E. di C.S. con sede in Chieti. Nella predetta segnalazione sono stati esposti i motivi per cui la ditta del C. è stata ritenuta una società cartiera; conseguentemente, le fatture emesse da quest’ultima nei confronti dei vari clienti, e quindi anche della ditta del G., sono state considerate relative ad operazioni soggettivamente inesistenti. Le fatture in questione (sette in tutto), analiticamente descritte nel prospetto allegato alla citata segnalazione, sono risultate contabilizzate nelle scritture della ditta G. (registro delle fatture; giornale contabile, anno 2003) e dichiarate in sede di modello unico. L’ammontare complessivo delle suddette fatture passive, per le quali – secondo l’ufficio – sarebbe stata indebitamente detratta l’Iva a credito e sarebbe stato dedotto indebitamente dal reddito il relativo costo, è pari ad euro 44.820,00 con imponibile di euro 38.450,00, oltre Iva. In relazione a quanto precede, gli acquisti delle autovetture di cui alle fatture in argomento, per le motivazioni esposte nella citata segnalazione, sono stati considerati come effettuati da parte della ditta G. direttamente presso gli operatori intracomunitari, con la conseguente mancata fatturazione in acquisto delle autovetture medesime. Da qui la contestazione di infedele dichiarazione sia ai fini delle imposte sui redditi (essendo stati esposti maggiori costi derivanti dalla contabilizzazione delle fatture in questione) e sia ai tini Iva (essendo stata esposta un’eccedenza detraibile di imposta superiore a quella spettante). 3.2 Dopo aver fatto questa doverosa premessa, reputa la Commissione che le ragioni addotte dal ricorrente siano meritevoli di accoglimento. Il problema posto riguarda la rilevanza delle «fatturazioni soggettivamente inesistenti» sia ai fini della imposizione diretta e sia ai fini dell’Iva. In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la Suprema Corte ha affermato il seguenti principio di diritto: «se alcuni costi contabilizzati e portati in deduzione dal reddito siano rappresentati da fatture che l’amministrazione finanziaria ritiene irregolari, il contribuente è ammesso a provare che l’operazione e il corrispondente esborso sono reali, a prescindere dalla falsità della fattura; dovendosi, in caso di esito positivo della prova, riconoscere la deducibilità del costo inerente alla produzione del reddito; nella misura in cui risulta contabilizzato ed imputato al conto dei profitti e delle perdite relativo all’esercizio di competenza» (cfr. Cass., 8 settembre 2006, n. 19353). Orbene, sul punto il G., mediante deposito in atti di ampia documentazione, ha fornito prova che le operazioni sottostanti erano state realmente compiute e che le stesse erano inerenti all’attività dell’impresa utilizzatrice. Gli autoveicoli oggetto delle sette fatture in contestazione provengono effettivamente da acquisti intracomunitari. In particolare, tre delle predette vetture [...] provengono dal Belgio, come da fatture d’acquisto sottoscritte dal C. In relazione a tali acquisti sono stati assolti gli obblighi Iva. Anche le altre quattro vetture sono provenienti da ulteriori acquisti intracomunitari, effettuati dal C. presso la ditta C.A.S.L., con sede a Lettomanopello in provincia di Pescara. Quest’ultima ditta aveva acquistato tali beni dalla Germania. A conferma della effettività delle operazioni il G. ha prodotto gli assegni incassati dal C., come corrispettivo della vendita delle autovetture in questione. V’è poi la dichiarazione del sig. C.A., il quale, interrogato dalla (G. di F. di Otranto su richiesta della Procura della Repubblica di Chieti, ha riferito di aver trasportato autovetture per conto del G., prelevandole da Chieti. Ha precisato che l’attività di trasporto è avvenuta nel 2003 e che egli era incaricato, altresì, di conse-

gnare i relativi assegni e/o contanti a titolo di corrispettivo degli acquisti effettuati. Dalla documentazione prodotta risulta inoltre che il G. ebbe rapporti commerciali del tutto occasionali e sporadici con il C., mentre era solito effettuare più frequenti acquisti di autoveicoli presso diversi altri rivenditori dell’Abruzzo. In merito a questi più numerosi acquisti – tutti documentati con le relative fatture prodotte nell’allegato n. 1113 – il G. non ha mai ricevuto alcuna contestazione di carattere tributario. Egli ha svolto la sua attività in maniera seria, trasparente ed in conformità con le prescrizioni di legge in materia. Pertanto, ai fini della imposizione diretta, non sussiste alcun motivo per negare la deducibilità dei relativi costi, rispondendo questi a tutti i requisiti previsti dalla legge (effettività, inerenza, contabilizzazione nelle scritture contabili), senza che possa rilevare la irregolarità delle fatture medesime, in quanto non preclusiva ai fini della corretta determinazione del rapporto fra ricavi e costi determinanti il reddito tassabile. 3.3 Nel settore dell’Iva il problema della rilevanza delle operazioni cd. “inesistenti” si pone in termini alquanto diversi, stante la posizione da tempo assunta da parte della Corte di Cassazione, secondo cui l’Iva relativa ad «operazioni (oggettivamente) inesistenti» è indetraibile da parte del soggetto che riceve la fattura. Ciò perché «il corrispondente tributo viene, in realtà, ad essere considerato “fuori conto”, e la relativa obbligazione, conseguentemente, “isolata” da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate, ed estraniata, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione che presiede alla detrazione d’imposta» (Cass., 7 ottobre 2002, n. 14337; 11 gennaio 2006, n. 309). Sempre secondo la Cassazione, tale conclusione deve estendersi anche ai casi di «operazioni soggettivamente inesistenti», ossia intercorse tra soggetti diversi da quelli documentalmente apparenti. Secondo la Corte infatti «si ricorre alla fatturazione soggettivamente falsa quando si ha la necessità di ufficializzare beni o servizi acquistati da soggetti che non possono o non vogliono apparire» (Cass., 12 marzo 2002, n. 3550). Nonostante questo rigoroso orientamento, recentemente la Corte non ha mancato tuttavia di soffermarsi a valutare l’elemento soggettivo della parte acquirente, valorizzando il concetto di “buona fede” e la prova – a carico dell’operatore economico ignaro della frode Iva – di aver diligentemente operato per scongiurare un proprio coinvolgimento in altrui condotte fraudolente, ovvero, per conoscere della realtà oggettiva e soggettiva dell’operazione compiuta. Con la sentenza n. 13211 del 9 giugno 2009 la Cassazione ha specificato: «in tema di Iva, qualora l’amministrazione contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture per operazioni inesistenti, per avere, in particolare, acquistato beni da società prive di qualsiasi organizzazione aziendale, costituite al solo scopo di frodare il fisco, acquistando beni dall’estero e rivendendoli senza riversare l’Iva all’erario, al contribuente medesimo può essere riconosciuta la buona fede, invocando l’affidamento nel funzionamento del sistema, ma solo a condizione che provi che la controparte venditrice appariva, ex art. 1189 c.c., legittimata a ricevere il pagamento dell’Iva in base a circostanze univoche e sempreché dimostri di essere esente da ogni profilo di colpa». In tema di operazioni soggettivamente inesistenti si è pronunziata pure la Commissione tributaria provinciale di Bari, con sentenza 6 maggio 2008, n. 107, sez. XVI, e ha affermato: «i cessionari, i quali abbiano adottato tutte le cautele che da loro si possano pretendere al fine di scongiurare il proprio coinvolgimento in una frode Iva, devono poter fare affidamento sulla liceità delle operazioni di acquisto effettivamente compiute e sul diritto alla detrazione dell’imposta assolta a monte, anche in quanto l’art. 7 della cd. VI direttiva Iva osta ad una norma di diritto nazionale che comporti per perdita dei diritto alla deduzione».


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Con questa sentenza la Commissione di Bari ha evocato la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE sul diritto alla detrazione dell’Iva assolta sugli acquisti, allorché riconosce legittima la detrazione dell’Iva assolta dall’effettivo cessionario, quando quest’ultimo abbia operato con adeguata e ragionevole cautela e, ciononostante, sia rimasto ignaro della natura soggettivamente fittizia dell’atto di cessione o della condotta fraudolenta dell’apparente cedente (cfr., ex plurimis, Corte di Giustizia CE, sentenza 27 settembre 2007, sez. III, procedimento C-409/2004; sentenza 21 febbraio 2008, sez. IV, procedimento C-271/2006). Nel caso di specie il G. ha offerto elementi di prova idonei a dimostrare la propria buona fede e la effettiva esistenza delle operazioni fatturate (come evidenziato retro, sub 3.2, a proposito della rilevanza delle fatture ai tini della imposizione diretta). La documentazione prodotta dimostra che il G. ha intrattenuto con il C. un rapporto commerciale occasionale, limitato ai primi

due mesi del 2003; periodo di tempo, questo, insufficiente – anche per la distanza tra Parabita e Chieti – per rendersi conto del modo di agire, disinvolto e spregiudicato, della controparte. Ad ulteriore conferma di quanto innanzi precisato è sufficiente evidenziare che l’incidenza degli acquisti effettuati dal G. presso il C. è veramente minima, rispetto al volume degli acquisti effettuati presso altri venditori di autoveicoli usati della stessa zona. L’ufficio, al contrario, ha fatto propria la tesi dei verificatori, limitandosi poi ad una generica ed apodittica contestazione della documentazione prodotta dal contribuente, senza indicare specifici elementi idonei ad inficiate le prove offerte dal ricorrente. Il ricorso va dunque accolto e, di conseguenza, va annullato l’avviso di accertamento impugnato. La complessità e la novità delle questioni trattate giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio.

Nota di Luigi P. Murciano

fornitore non avesse versato l’imposta, ottenuta in rivalsa, non potesse valere, di per sé, a impedire la legittima detraibilità di quella medesima imposta da parte del cessionario, considerando anzi irrilevante per l’esercizio della detrazione «stabilire se l’Iva dovuta sulle operazioni di vendita precedenti o successive riguardanti i beni interessati [fosse] stata versata o meno all’erario». E anche nelle pronunce in cui ha valorizzato l’interesse comunitario all’esatta riscossione dell’imposta ed al contrasto delle frodi, la Corte ha sempre negato che si possa considerare conforme al diritto comunitario «una generalizzata ed automatica non deducibilità dell’imposta a fronte di irregolarità dell’emittente il documento»4, chiarendo, al contrario, che il giudice nazionale può ritenersi legittimato a negare il beneficio del diritto alla detrazione solo quando risulti provato che il soggetto colpito dall’accertamento «sapeva o avrebbe dovuto sapere» di essere partecipe di un’operazione fraudolenta, per l’evasione dell’imposta sul valore aggiunto5 e che, in ogni caso, «i provvedimenti che gli Stati membri possono adottare ai sensi dell’articolo 22, n. 8, della sesta direttiva, per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta ed evitare le frodi non devono eccedere quanto é necessario a tal fine»6 e devono risultare compatibili con il principio di proporzionalità7 e dunque tali da non poter prevedere che l’intera responsabilità del pagamento dell’Iva ricada su un dato operatore, indipendentemente dal suo coinvolgimento o meno nella frode commessa dal terzo8. Non si può non condividere, allora, l’affermazione contenuta nel-

1. La sentenza annotata s’inserisce nella lunga teoria di pronunce sulla detraibilità dell’Iva corrisposta a fronte di fatture emesse per operazioni ritenute soggettivamente inesistenti e poste in essere nell’ambito delle c.d. “frodi carosello”, e su quella della deducibilità dei costi correlati ai fini delle imposte dirette1. 1.1. Disattendendo, in qualche misura, il recente orientamento della Corte di Cassazione2, la Commissione salentina ha affermato due regole a mio parere senz’altro condivisibili: la prima è che il contrasto alle frodi non può giustificare la duplicazione dell’imposizione a carico del soggetto che, avendo agito in buona fede e secondo le normali regole di diligenza, non sia rimproverabile di esser stato coinvolto in una vicenda fraudolenta; la seconda è che i costi sostenuti dall’imprenditore, se certi ed effettivi, non possono che essere considerati deducibili per la determinazione del reddito, ancorché si riferiscano ad operazioni intervenute, di fatto, tra soggetti diversi da quelli indicati in fattura. La necessità di discriminare, ai fini dell’imposta indiretta, tra chi si sia giovato o abbia avuto consapevolezza della frode e chi, invece, ne sia risultato partecipe senza coscienza o colpa, è stata ripetutamente affermata dalla Corte di Giustizia della Comunità europea3. Già con ordinanza 3 marzo 2004, emessa nella C-395/2002 e con la successiva sentenza 12 gennaio 2006, pronunciate nelle cause riunite C-354/2003, C-355/2003 e C-484/2003, il giudice comunitario aveva chiarito, invero, come la circostanza che il

1 Sull’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione sul punto, cfr. BOCCALATTE, Riconoscimento dello stato soggettivo del cessionario/committente in caso di operazioni soggettivamente inesistenti e onere della prova, in Riv. Giur. Trib., 5, 2009, 414. 2 Cfr. Corte di Cassazione, sez. V trib., sentenze 5 giugno 2003, n. 8959 (nella quale è stato negato il diritto alla detrazione dell’Iva assolta a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti, sulla considerazione che: «l’elemento soggettivo della conoscenza della circostanza relativa alla illegalità o illiceità degli accordi esistenti tra le società variamente interessate alle vendite non viene in rilievo agli effetti del rapporto tributario. L’infrazione fiscale si configura, infatti, per il solo fatto oggettivo che il contribuente con il proprio comportamento, doloso o colposo che sia, abbia determinato il rischio per l’amministrazione di non conseguire il pagamento

dell’imposta effettivamente dovuta»); 29 maggio 2001, n. 7289; 23 febbraio 2007, n. 4247; 19 ottobre 2007, n. 21952; 5 novembre 2001, n. 13662; 3 maggio 2002, n. 6341; 4 novembre 2002, n. 15374; 16 settembre 2003, n. 13605; 22 marzo 2006, n. 6378; 24 gennaio 2007, n. 1569; 26 gennaio 2007, n. 1727; 12 marzo 2007, n. 5717; 12 marzo 2007, n. 5718; 12 marzo 2007, n. 5719; 30 luglio 2007, n. 16822; 26 ottobre 2007, n. 22555; 11 giugno 2008, n. 15438; 1 agosto 2008, n. 20968. Contra, invece, Corte di Cassazione, sez. V trib., sentenza 24 luglio 2009 n. 17377. Si veda, inoltre, CAPOLUPO, La responsabilità del cessionario nelle frodi Iva. Orientamento della giurisprudenza, in Fisco, 37, 2009, 1 ss. 3 Sul punto, BASILAVECCHIA, Sulla prova della responsabilità del cessionario nelle frodi Iva, in Corr. Trib., 20, 2007, 1625; DE GIROLAMO, L’evoluzione della giurisprudenza comunitaria in tema di responsabilità del cessionario

nelle frodi Iva, in Fisco, 31, 2007, 1 ss.; CENTOL’evoluzione della giurisprudenza comunitaria in tema di frodi Iva, in Riv. Giur. Trib., 2006, 843 ss.; SIRRI-ZAVATTA, La responsabilità degli operatori coinvolti nella frodi Iva, in Riv. Giur. Trib., 2006, 292 ss. Cfr. sentenza 19 settembre 2000 nella causa C-454/1998. Cfr. sentenza del 6 luglio 2006, nelle cause riunite C-439/2004 e C-440/2004. Cfr. sent. 21 marzo 2000, nelle cause riunite da C-110/1998 a C-147/1998. Vale a dire il principio alla stregua del quale le misure devono essere appropriate rispetto all’obiettivo che intendono raggiungere (cfr. la sentenza 18 dicembre 1997, cause riunite C-286/1994, C-340/1995, C-401/1995 e C-47/1996, Molenheide, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big) Cfr. sentenza 21 febbraio 2008, nella causa C-271/2006. RE,

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la sentenza qui annotata, anche in considerazione dell’efficacia vincolante, rispetto alle giurisdizioni nazionali, delle sentenze della Corte di Giustizia interpretative della normativa comunitaria9. 1.2 Sulla deduzione dei costi in seno alle imposte sui redditi, è noto come per la Corte di Cassazione10 la inesistenza soggettiva delle operazioni determini una frattura del nesso di inerenza tra i costi stessi e l’attività di impresa e, quindi, comporti la loro indeducibilità. La sentenza in esame contraddice radicalmente questo orientamento. È bene ricordare come il quadro normativo ricavabile dal T.U.I.R. imponga di considerare costi deducibili, siccome inerenti all’attività di impresa, quelli che abbiano concorso, in maniera diretta o indiretta, alla realizzazione del reddito, ancorché non siano stati registrati nel conto economico dell’esercizio di competenza e purché risultino da elementi certi e precisi. Il recupero a tassazione di costi sotto ogni altro profilo deducibili, effettuato sulla sola considerazione del carattere asseritamente fraudolento dell’operazione, assumerebbe di conseguenza carattere impropriamente sanzionatorio e arrecherebbe un vulnus irreparabile al principio della riserva di legge in materia di sanzioni, sancito dall’art. 25 Cost. e dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.11 2 Questi gli aspetti salienti della sentenza, la quale però offre spunti di riflessione su argomenti meritevoli di esame. 2.1 La prima questione attiene alla discrasia tra la disciplina della responsabilità del cessionario, in caso di omesso versamento da parte del cedente, risultante dalla soluzione qui esaminata, e quella indicata nell’art. 60-bis del D.P.R. 633/1972. Nel suo argomentare la Commissione di Lecce muove dal presupposto – non esplicitato, ma chiaramente desumibile dal tenore della motivazione – che l’amministrazione possa legittimamente recuperare dal cessionario l’imposta non versata dal cedente solo se l’omesso versamento risulti il frutto di un disegno fraudolento, nel quale il cessionario stesso sia coinvolto. Detto in altri termini: che la ricorrenza di una frode sia “elemento costitutivo” dell’obbligazione del cessionario, che, come tale, deve essere provato, nella sua consistenza oggettiva e soggettiva, dall’amministrazione finanziaria, ancorché per semplici elementi indiziari. In questo quadro, l’ignoranza incolpevole del cessionario, rispetto al meccanismo fraudolento, diventa, per così dire, “elemento estintivo” di quella obbligazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente, ai sensi dell’art. 2697 c.c., ma può esserlo con l’allegazione di ogni elemento di fatto che, secondo l’id quod plerumque accidit, possa dimostrare che egli ha operato con

9 TESAURO, Il ruolo della Corte di Giustizia nel coordinamento della tassazione delle società, in Tributi Impresa, 2004, 1, 3 ss.; BRIGUGLIO, voce Pregiudizialità comunitaria, in Enc. Giur., XXIII, Roma, 1997, 3; DRAETTA, Elementi di diritto comunitario. Parte istituzionale, Milano, 1995, 242 ss.; SAJA, Rapporti tra Corte di Giustizia europea e autorità giudiziaria italiana, in ordine alla vincolatività dei principi di diritto stabiliti dalla Corte di Giustizia, in Scritti in onore di S. Pugliatti, Milano, 1978, III, 1270; NUCERA, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia ed il loro impatto sul sistema tributario, in Rass. Trib., 2006, 1136 ss. 10 Cfr., in particolare, Cass. civ., sez. V trib., sentenza 19 gennaio 2010, n. 735. 11 GIOVANNINI, Costo e sanzione nel reddito d’impresa, in Riv. Dir. Trib., 2002, 9, 875.

criteri di prudenza nella scelta dei contraenti e, comunque, secondo criteri di ordinaria diligenza nella gestione dell’attività; finalmente, in buona fede, ignorando di ledere l’altrui diritto, ovvero il diritto di credito dell’amministrazione pubblica. Ora, il quadro ricostruttivo fin qui prospettato diverge sensibilmente dalla disciplina della responsabilità del cessionario dettata dall’art. 60-bis D.P.R. 633/1972, nel quale si prevede che il cessionario possa essere chiamato al pagamento dell’imposta già versata in rivalsa per il sol fatto che il cedente ne abbia omesso il versamento (e quindi anche per ragioni affatto diverse dall’essere autore di una frode all’erario) e che l’acquisto risulti effettuato a prezzi inferiori al valore normale e dispone che egli possa liberarsi dell’obbligo così costituito solo ove riesca a provare, documentalmente12, che il prezzo inferiore dei beni è stato determinato in ragione di eventi o situazioni oggettivamente rilevabili o sulla base di specifiche disposizioni di legge e che comunque non è connesso con il mancato pagamento dell’imposta. Detta, insomma, un regolamento centrato su elementi oggettivi e documentalmente rilevabili, che nulla hanno a che vedere con la sussistenza di un disegno fraudolento a danno dell’erario, o con la buona o mala fede del cessionario13. È fuori di dubbio che non si possa fare questione di applicabilità dell’art. 60-bis alla fattispecie esaminata dai giudici salentini, non fosse che per la circostanza – a mio avviso dirimente – che quella fattispecie riguarda il periodo d’imposta 2003, mentre la disposizione in discorso è entrata in vigore nel 2005 e, per la sua natura di norma sostanziale, non è suscettibile di applicazione retroattiva14. Nondimeno, è indispensabile domandarsi se quella norma possa ritenersi compatibile con il sistema dei principi comunitari e costituzionali, proprio alla luce della lettura che di quei principi offre la decisione dei giudici salentini. Il punto è questo: il quadro normativo comunitario, al quale la sentenza annotata sembra legarsi strettamente, impone, in ossequio al principio della neutralità dell’Iva, che il cessionario non possa essere chiamato a rispondere dell’imposta già versata in rivalsa, anche nelle ipotesi in cui il cedente ne abbia omesso il versamento, salvo – ovviamente – che l’omesso versamento non si connoti come fraudolento e che non si possa ritenere la consapevole partecipazione del cessionario alla frode. A stretto rigore e per logica conseguenza, deve considerarsi illegittima la norma nazionale che costituisca la responsabilità del cessionario per l’imposta non versata dal cedente anche in situazioni diverse da quelle sopra ipotizzate. E ciò a maggior ragione quando comprima il diritto alla difesa e trasformi l’imposta in impropria sanzione.

12 I limiti che l’art. 60-bis D.P.R. 633/1972 impone alla facoltà di prova del contribuente non possono che apparire lesivi del principio consacrato dall’art. 24 Cost. Mi pare, peraltro, che la sentenza annotata obblighi a denunciare, più in generale, l’inadeguatezza del sistema delle prove disegnato dall’art. 7 D.Lgs. 546/1992 a tutelare il diritto di difesa del contribuente. L’affermazione del rilievo dello stato soggettivo del contribuente, con riguardo all’obbligazione tributaria oltre che a quella sanzionatoria, comporta, invero, un inevitabile allargamento del perimetro probatorio del processo alle circostanze che possono essere utilmente allegate, al fine di dimostrare l’estraneità dell’accertato alla frode. Si tratta, però, di circostanze che non possono essere individuate a priori e che non necessariamente sono suscettibili di

prova documentale. (Sulla questione, assai dibattuta in dottrina, della legittimità costituzionale dell’art. 7 D.Lgs. 546/1992, si veda, fra i tanti, RUSSO, Il divieto della prova testimoniale nel processo tributario: un residuato storico che resiste all’usura del tempo, in Rass. Trib., 2, 2000, 574). 13 DAL SAVIO, Iva: la responsabilità del cessionario per l’omesso versamento dell’imposta. Alcune riflessioni sull’applicazione dell’art. 60-bis del D.P.R. n. 633/1972, in Fisco, 46, 2005, 1 ss.; MASTROGIACOMO, La responsabilità solidale del cessionario nelle frodi Iva (art. 60-bis del D.P.R. n. 633/1972), in Fisco, 17, 2006, 1 ss. 14 MARONGIU, La retroattività della legge tributaria, in Corr. Trib., 6, 2002, 469, nonché GIOVANNINI, Retroattività e stabilità delle leggi d’imposta, in Giur. It., 1995, I, 1265 ss.


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Pertanto il nostro art. 60-bis, nella parte in cui prevede che il cessionario risponda, in solido con il cedente, dell’Iva già corrisposta in rivalsa, ma da questi non versata, per il sol fatto che il prezzo d’acquisto possa risultare inferiore a quello medio di mercato ed in quella in cui limita le modalità attraverso le quali il contribuente può offrire la prova liberatoria, non può che essere considerato, per un verso, non proporzionato rispetto al fine di contrasto alle frodi; per un altro, suscettibile di determinare duplicazione dell’imposizione e dunque di arrecare un vulnus al principio di neutralità; e da ultimo lesivo del diritto alla difesa e del principio personalistico della sanzione15. 2.2 La sentenza dei giudici di Lecce consente un’ulteriore considerazione, in ordine al rilievo che essa attribuisce all’elemento della buona fede (soggettiva), in sede di definizione della portata oggettiva del rapporto d’imposta. Ho già rilevato come, sulla scorta del suo argomentare, non si possa che attribuire all’ignoranza incolpevole del cessionario la portata e l’efficacia propria di fatto estintivo dell’obbligazione, costituita in capo allo stesso cessionario dalla circostanza che l’o-

15 MONDINI, La nuova responsabilità solidale del cessionario Iva e la sua compatibilità con il diritto comunitario, in Rass. Trib., 3, 2005, 755; DI COLA, La legittimazione del cessionario Iva nelle controversie di rimborso da in-

perazione da lui posta in essere si configuri come fraudolenta, ancorché solo ex latere cedente. Credo, però, che, così argomentando, si finisca per legare l’obbligazione tributaria ad una condizione soggettiva di ignoranza, scusabile alla luce dell’id quod plerumque accidit, e, dunque, in definitiva, per attribuire alla buona fede (soggettiva) la valenza di elemento correttivo dello strictum ius, idoneo ad incidere, fino a negarla o estinguerla, su una situazione giuridica altrimenti perfetta. La questione meriterebbe una trattazione più ampia, legandosi al rilievo proprio della buona fede nelle fasi costitutive ed estintive dell’obbligazione tributaria16. In questa sede mi basta evidenziare come un simile percorso ricostruttivo, per un verso, possa rinvigorire le teorie sulla buona fede, anche al di là degli angusti limiti che paiono tracciati dall’art. 10 della legge n. 212/2000; per altro verso e in termini innovativi, offrire una chiave di lettura costituzionalmente orientata dell’art. 60 bis, attenuando il suo rigore letterale che ne potrebbe altrimenti determinare l’illegittimità per incompatibilità con i principi comunitari sopra richiamati e con i principi fondanti dell’Iva anche nell’ambito del diritto nazionale.

debito tra diritto interno e diritto comunitario, in Riv. Giur. Trib., 2006, 662 ss. 16 Sul rilievo del principio della buona fede nel diritto pubblico e nel diritto tributario, cfr. TRIVELLIN, Il principio di buona fede nel rap-

porto tributario, Milano, 2009; DELLA VALLE, Affidamento e certezza nel diritto tributario, Milano, 2001, ma soprattutto MERUSI, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico, Milano, 2001.


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Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 7 gennaio 2009, n. 8 Presidente: Zazzetta - Relatore: Papa

Irap - Esercenti arti e professioni - Medici generici convenzionati Asl - Soggettività passiva - Presupposto Autonoma organizzazione - Insussistenza (D.P.R. 16 ottobre 1984, n. 882; D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270; D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, artt. 2 e 3) Il medico generico convenzionato con il servizio sanitario nazionale non è soggetto ad Irap in quanto sprovvisto di autonoma organizzazione; difatti, nell’esercizio della sua professione, egli spende la propria opera con l’ausilio di mezzi tecnici minimi, osservando le norme di cui ai D.P.R. 16 ottobre 1984, n. 882 e D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270, nonché degli accordi con la Asl. Fatto Il ricorrente in epigrafe individuato impugnava il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle Entrate di [...] formatosi sulla sua richiesta di rimborso delle somme versate a titolo di Irap dal 1998 al 2003. Il contribuente prendendo spunto dalla molteplice giurisprudenza della Corte di Cassazione, formatasi tra il 2007 e il 2008, successivamente alla sentenza della Corte Costituzionale n. 156/2001, per sostenere che svolgendo l’attività di medico di base, senza l’ausilio di lavoratori dipendenti e con mezzi modesti, il reddito prodotto sfuggiva all’imposizione Irap, in quanto come chiarito dalla Cassazione, tale imposta non colpiva il reddito ma, il valore aggiunto generato dalle attività produttive autonomamente organizzate. Per cui riteneva che la sua attività, prestata senza collaborazione di terze persone e con capitale proprio, non potesse essere sottoposta a tassazione Irap richiamava copiosa giurisprudenza favorevole alla tesi del contribuente e non ultima una circolare del 2008 dell’Agenzia delle Entrate. Allegava, inoltre, come prova di quanto sostenuto, la dichiarazione dei redditi. Chiedeva, quindi l’annullamento dell’atto di diniego e il rimborso delle somme versate. Si costituiva l’ufficio il quale sosteneva la correttezza del proprio operato, affermando che tutti i liberi professionisti erano soggetti all’imposta de quo, fondato tale affermazione su cospicua giurisprudenza. Inoltre sosteneva l’inammissibilità dell’istanza, poiché presentata ai sensi v. o. del 36-bis la richiesta formulata dal contribuente. Riteneva, pertanto, infondata la richiesta di rimborso di cui chiedeva il rigetto. Diritto Osserva la Commissione, come l’eccezione preliminare dell’ufficio sia destituita di fondamento alla luce della risoluzione n. 80/E del 2003, in cui a seguito di istanza di interpello, l’Agenzia delle Entrate, direzione centrale normativa e contenzioso, chiariva come sensi dell’art. 25 D.Lgs. 446/1997: «fino a quando non hanno effetto le leggi regionali di cui all’articolo 24, per le attività di controllo e rettifica della dichiarazione, per l’accertamento e per la riscossione dell’imposta regionale, nonché per il relativo contenzioso si applicano le disposizioni in materia di imposte sui redditi ad eccezione degli articoli 38, commi dal 4 al 7, 44 e 45 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n.600». Pertanto anche alla luce di tale chiarimento il soggetto che ritiene di avere versato l’Irap “ingiustamente” deve proporre istanza di rimborso ai sensi del più volte citato art.38 comma 1. La Commissione quindi, ritiene che l’eccezione solle-

vata dall’ufficio violi il principio secondo il quale ubi lex voluit dixit et ubi noluit tacuit, ciò sulla attenta considerazione che il legislatore ha espressamente previsto nell’art. 25 D.Lgs. 446/1997 la non applicabilità dell’Irap solo dei commi dal 4 al 7 dell’art.38, ma non di quelli relativi al rimborso, per cui l’eccezione sollevata dall’ente risulta in netto contrasto con il dettato normativo, a causa di una non accorta lettura della norma. Entrando nel merito della vicenda, osserva, questa Commissione, come per il rapporto di lavoro instaurato dai medici generici in convenzione con il Ssn, bisogna far riferimento ai D.P.R. n.882/1984 e ss. nonché al D.P.R. 270/2000. Alla luce di tali norme, il rapporto lavorativo dei medici di famiglia, pur non potendosi inquadrare fra i rapporti di lavoro dipendente e/o di pubblico impiego, difettando del requisito della subordinazione piena e della piena gerarchia tecnico-amministrativa, presenta però tutti i connotati della cosiddetta parasubordinazione e pertanto beneficia sia a livello di diritto processuale civilistico che di diritto sostanziale, di un regime di favore tendente all’equiparazione con il lavoro subordinato. In diritto tributario la parasubordinazione è un istituto poco conosciuto, il quale però si inserisce nel processo tributario per il disposto dell’art. 1, comma 2 D.Lgs. 546/1992, che prevede l’applicazione del c.p.c., per quanto non previsto nel D.Lgs. citato, di conseguenza il concetto di lavoro parasubordinato va attinto facendo riferimento all’art. 409 comma 3 c.p.c., che permette di qualificare tale rapporto come parasubordinato (vedesi in tal senso le molteplici sentenze della Cass., tra cui le più recenti n. 11372/2003, 11362/2003; Cass., 23744/2008, Comm. trib. reg. Bari 146/15/2005). Alla luce della costante giurisprudenza di Cassazione e del dettato codicistico, quindi al medico, a cui viene conferito l’incarico di medico di base, è riconosciuto lo status di lavoratore parasubordinato poiché 1) è sottoposto al potere di sorveglianza delle Asl 2) deve aprire un laboratorio secondo alcune prescrizioni previste dallo stesso accordo, solo nella località carente assegnatagli, con trasferimento della propria residenza ed iscrizione nell’albo professionale della provincia (art. 5 comma 1 e art. 20 comma 2 D.P.R. citati); 3) Non può superare un numero massimo di assistiti (art. 7 e art. 25 D.P.R. citati); 4) deve osservare un orario settimanale di apertura dell’ambulatorio (art. 21) e di esecuzione di visite domiciliari disciplinate dall’art. 64 del D.P.R. 270/2000; 5) Deve comunicare preventivamente per il periodo di ferie o riposo annuale, la sua sostituzione; 6) ha diritto ad esercitare il diritto di sciopero (art.17). Conseguentemente, analizzando gli aspetti precedenti da un punto di vista tributario, si evince che il medico di base svolge la propria attività, in assenza di elementi di organizzazione in quanto il professionista nell’esercizio della professione, spende soltanto la propria opera, la quale deve essere organizzata nel rispetto delle norme di cui ai Decreti Presidenziali citati e degli accordi con Asl La situazione de qua, quindi, esclude lo stesso dal pagamento Irap, sulla base di quanto evidenziato dalla Corte di Cassazione, in ben undici sentenze emesse nel 2007 tra cui la n. 3678/2007, e numerose emesse durante il 2008. In tutte le richiamate sentenze la Suprema Corte ha chiarito che: «il requisito dell’autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente a) sia sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e, non sia inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’e-


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sercizio dell’attività in assenza di organizzazione». Di conseguenza se la Corte di Cassazione, ha escluso che l’imposta possa gravare su quei liberi professionisti che utilizzano solo il proprio lavoro, con l’ausilio di mezzi tecnici minimi, quali un ufficio con arredi essenziali, computer, fax, cellulari, senza essere coadiuvati nello svolgimento di tale lavoro, da personale esterno o con mezzi tecnici sofisticati; a maggior ragione si applica al medico di base, che lavoristicamente è equiparato ad un prestatore d’opera parasubordinato. Infatti, sempre la Cassazione ha rilevato come l’Irap incide sull’incremento potenziale che si genera appunto attraverso l’utilizzo da parte del professionista di ulteriori fattori, diversi dall’impiego delle proprie facoltà mentali, attitudini e spirito d’iniziativa, che viene già tassato ai fini Irpef e che subirebbe una doppia imposizione con l’Irap, poiché l’Irap non è imposta di natura reddituale (Cass., sent. 1414/2008). Il ricorrente, quindi, non avrebbe dovuto pagare l’imposta ab origine, poiché rientrava a pieno nella fattispecie delineata dalla Corte, come chiarito anche dalla recente circolare n. 45/2008, non so-

lo perché non ha dipendenti, ma anche perché l’attività viene svolta con i mezzi necessari e in base ad un rapporto di lavoro parasubordinato. Il tutto viene evidenziato dalla dichiarazione dei redditi, e dai documenti contabili e tributari allegati in atti. L’ufficio, di contro, non ha dimostrato che il contribuente avesse utilizzato lavoratori dipendenti o fosse ricorso a strumenti finanziari o avesse beni strumentali ulteriori rispetto a quelli dichiarati, oppure non fosse un medico di famiglia, questo ha fondato il proprio rigetto unicamente sul reddito lordo prodotto, nonostante l’Irap, così come affermato dal legislatore, ribadito dalla v. o. Corte di Cassazione, non è un’imposta basata sul reddito ma sul valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, valore generato non dall’attività prestata personalmente dal libero professionista, ma dall’attività derivata da persone dipendenti, credito bancario e beni strumentali eccedenti il minimo (Cass., n. 23744/2008). La Commissione, quindi, accoglie il ricorso. Compensa le spese stante la peculiarità del rapporto di lavoro alla base della pretesa fiscale.

Nota

dell’attività in assenza di organizzazione». Sulla base anche di tali presupposti, i giudici hanno affermato che se la Corte di Cassazione ha escluso che l’imposta possa gravare su quei liberi professionisti che utilizzano solo il proprio lavoro con l’ausilio di mezzi tecnici minimi, a maggior ragione l’esclusione si applica al medico generico che dal punto di vista lavoristico è considerato un prestatore d’opera parasubordinato. Conformemente alla decisione in esame, la giurisprudenza di merito ritiene che il medico convenzionato non è assoggettabile ad Irap, in quanto tale professione è rigorosamente regolata dalla convenzione con il Servizio sanitario nazionale (in tal senso, Comm. trib. prov. Caserta, sez. V, 9 gennaio 2009 n. 9; Comm. trib. prov. Torino, sez. IX, 1 ottobre 2009, n. 106; Comm. trib. prov. Cuneo, sez. III, 27 ottobre 2009, n. 163; Comm. trib. reg. Toscana, sez. XVIII, 21 febbraio 2008, n. 5, tutte in questa rivista, 2009, 452 ss.; Comm. trib. reg. Bari, sez. XV, del 17 gennaio 2006, n. 146, cit.; Comm. trib. prov. di Treviso, sez. VI, del 19 marzo 2009, n. 34; Comm. trib. prov. di Treviso, sez. I, del 20 febbraio 2009, n. 19, tutte in banca dati fisconline). In particolare la Comm. trib. prov. Torino, sez. XIII, 7 luglio 2009, n. 74, in questa rivista, 2009, 455, ha sostenuto che, «i proventi riconosciuti al medico di base sono in funzione del numero dei mutuati, e quindi sfuggono a qualsiasi valutazione discrezionale di tipo economico o gestionale. In sintesi, qualunque sia l’organizzazione che il medico intende darsi, non ha alcuna rilevanza economica, in quanto non produce vantaggi economici maggiori rispetto a quelli prodotti con le proprie capacità individuali. Manca quindi quel quid pluris che l’organizzazione può dare in termini di arricchimento del medico, in sovrappiù rispetto a quanto da lui prodotto con le proprie capacità individuali». Di diverso avviso sono i giudici di legittimità, i quali, in numerose occasioni, hanno sostenuto che anche per i medici di base convenzionati con il servizio sanitario nazionale è necessario verificare caso per caso l’esistenza dell’autonoma organizzazione (tra le altre, Cass., 16 febbraio 2007, n. 3674; Cass., 5 febbraio 2009, n. 28506; Cass., 6 febbraio 2009, n 2944; Cass., 23 febbraio 2009, n. 4282; Cass., 24 febbraio 2009, n. 4454; Cass., 26 febbraio 2009, n. 4722; Cass., 16 marzo 2009, n. 6370; Cass., 12 maggio 2009, n. 10937; Cass., 30 novembre 2009, n. 25165; Cass., 8 gennaio 2010, n. 86; Cass., 27 gennaio 2010, n. 1679; Cass., 2 marzo 2010, n. 4915, tutte in banca dati Dejure). In dottrina è stato sottolineato che la struttura organizzativa con la quale i medici generici convenzionati con la Asl esercitano la propria attività, presenta peculiarità tali da distinguerla da quella tipica dei lavoratori autonomi, dovendo sottostare a dei vincoli dettati dalla convezione nazionale con il Servizio sanitario

La giurisprudenza di merito torna nuovamente ad occuparsi dell’ormai nota problematica dell’assoggettabilità ad Irap dei lavoratori autonomi, occupandosi in particolare, questa volta, dei medici generici convenzionati con la Asl. La Commissione tributaria provinciale di Teramo ha affermato che i medici generici convenzionati, essendo equiparati a prestatori d’opera parasubordinati, non sono mai assoggettabili ad Irap perché difettano del requisito dell’autonoma organizzazione di cui all’art. 2 del D.Lgs. 15 dicembre 1997 n. 446. Richiamando numerosa giurisprudenza di legittimità e di merito (tra le più recenti Cass., 22 luglio 2003, n. 11372 e 11362; Cass., 17 settembre 2008 n. 23744, tutte in banca dati Dejure; Comm. trib. reg. Bari, sez. XV, 17 gennaio 2006, n. 146, in banca dati fisconline), nonché la legislazione ad essi applicabile (D.P.R. 16 ottobre 1984, n. 882 e D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270), i giudici teramani hanno sostenuto che al medico di base è riconosciuto lo status di lavoratore parasubordinato ex art. 409, comma 3, c.p.c., poiché: «1) è sottoposto al potere di sorveglianza della Asl; 2) deve aprire un ambulatorio secondo alcune prescrizioni previste dallo stesso accordo, solo nella località carente assegnatagli, con trasferimento della propria residenza ed iscrizione nell’albo professionale della provincia (art. 5, comma 1 e art. 20, comma 2 D.P.R. citati); 3) non può superare un numero massimo di assistiti (art. 7 e art. 25 D.P.R. citati); 4) deve osservare un orario settimanale di apertura dell’ambulatorio (art. 21) e di esecuzione di visite domiciliari disciplinate dall’art. 64 del D.P.R. 270/2000; 5) deve comunicare preventivamente per il periodo di ferie o riposo annuale la sua sostituzione; 6) ha diritto di esercitare il diritto di sciopero (art. 17)». I giudici di merito, in relazione alla sussistenza del presupposto impositivo Irap, hanno affermato che il medico generico convenzionato non svolge un’attività autonomamente organizzata in quanto nell’esercizio della sua professione egli spende soltanto la propria opera, la quale deve essere organizzata nel rispetto delle norme di cui ai decreti presidenziali citati e degli accordi con le Asl. Sul punto viene richiamata la ormai nota giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Cass., 16 febbraio 2007, n. 3673, n. 3676 e n. 3680, tutte in banca dati Dejure, e Cass., 16 febbraio 2007, n. 3678, in Corr. Trib., 2007, 885) secondo la quale «il requisito della autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente a) sia sotto qualsiasi forma il responsabile dell’organizzazione e non sia inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio


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nazionale. Tali caratteristiche escludono di per sé l’esistenza dell’autonoma organizzazione, con la conseguenza che per tali soggetti non si deve procedere all’accertamento della sussistenza dell’autonoma organizzazione prevista in generale per i lavoratori autonomi (in tal senso MELONCELLI, L’organizzazione nell’attività dei medici convenzionati con il servizio sanitario nazionale: la mancanza del requisito dell’autonomia ai fini dell’Irap, in questa rivista, 2009, 475 ss.; CICALA, Il rimborso dell’Irap versata dai professionisti: una sentenza della commissione tributaria provinciale di Roma anima (ulteriormente) la discussione, in Fisco, 2004, 6148 ss. Ritiene, invece, che anche per i medici di base sia necessario un accertamento di fatto BRIGHENTI, Quando il medico di base non paga l’Irap, in Boll. Trib., 2006, 1825 ss. Per una disamina più generale dell’assoggettabilità ad Irap dei lavoratori autonomi, tra gli altri: MARONGIU, Irap, lavoro autonomo e costituzione, in Dir. e Prat. Trib., 2000, 1646; PAPA-PROCOPIO-LUPI, “Irap professionisti” nelle sentenze della corte di cassazione, in Dialoghi Dir. Trib., 2007, 785; SCHIAVOLIN, L’imposta regionale sulle attività produttive. Profili sistematici, Milano, 2007, 244 ss.; Id, L’autonomia organizzativa nell’Irap: il faticoso svi-

luppo del “diritto vivente” nella giurisprudenza di merito, in questa rivista, 2008, 779 ss.). L’Agenzia delle Entrate, con risoluzione del 21 luglio 2008 n. 304 (in www.agenziaentrate.it), ha affermato che «le prestazioni rese dal medico di famiglia in favore dei cittadini-utenti del Servizio sanitario nazionale trovano fondamento nel rapporto cd. convenzionale esistente tra il professionista ed il Servizio sanitario nazionale che, in base alle disposizioni della legge 23 dicembre 1978 n. 833 (istitutiva del Servizio sanitario nazionale), ha natura privatistica di prestazione d’opera professionale, svolta con carattere di parasubordinazione». Tuttavia, con circolare del 28 maggio 2010 n.28 (in www.agenziaentrate.it), l’Agenzia delle Entrate ha affermato che, per l’attività di medico di medicina generale, l’accertamento della sussistenza del presupposto impositivo deve essere verificato caso per caso. L’Agenzia ha precisato che il medico non è assoggettabile ad Irap, per assenza di autonoma organizzazione, se nell’esercizio della sua attività si avvale solo dei beni strumentali dallo schema tipo di convenzione con il Ssn.


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IVA LA CESSIONE DEI CREDITI D’IMPOSTA DEI FALLIMENTI I Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XLII, 18 aprile 2008, n. 46 10 Presidente e Relatore: Tucci Iva - Credito del fallimento non ancora inserito nella dichiarazione annuale e chiesto a rimborso - Cessione Legittimità - Invalidità nei confronti dell’amministrazione finanziaria - Esclusione (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 30 e 38-bis; D.L. 14 marzo 1988, n. 70, art. 5, comma 4-ter; R.D. 16 marzo 1942, n. 267, nel testo anteriore alla riforma attuata con il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e con il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169; C.c., art. 1260) I crediti fiscali dei fallimenti possono essere ceduti in base alla disciplina generale civilistica in materia di cessione di crediti, ed il credito Iva, pur se non ancora indicato nella dichiarazione annuale e chiesto a rimborso, è cedibile, ma è opponibile nei confronti dell’erario solo dopo la presentazione della dichiarazione annuale e la richiesta di rimborso da parte del curatore. Con atto rituale la [...] impugnava il diniego opposto dall’Agenzia delle Entrate all’istanza di rimborso del credito Iva relativo all’anno 2005 spettante al fallimento [...] e da questo ceduto alla ricorrente. Si sosteneva nel ricorso che l’avvenuto diniego, essendo stato giustificato solo con una presunta inefficacia nei confronti dell’amministrazione finanziaria della cessione del credito effettuata prima che lo stesso venisse inserito nella dichiarazione annuale Iva e richiesto a rimborso con apposito modello VR, era da considerarsi privo di valida motivazione, del tutto illegittimo e doveva, quindi, essere annullato con conseguente rimborso della somma di euro 2.113,00 e relativi interessi. In particolare la ricorrente rilevava che non esiste alcuna norma civilistica o tributaria che vieti il trasferimento dei crediti fiscali, per cui deve escludersi che possa ritenersi operante un simile divieto e ciò anche perché, ai sensi e per l’effetto di quanto disposto dall’art. 1260 c.c., i casi di divieto di cessione del credito devono essere espressamente previsti da una disposizione di legge. Precisava altresì che nel caso concreto la cessione del credito Iva era avvenuta quando tale credito era già certo, perché derivante da restituzione di Iva assolta sulle operazioni passive e perché il credito Iva – così come pure il debito – sorge al momento di effettuazione dell’operazione soggetta ad imposta; nonché liquido, essendo esattamente determinato nel suo ammontare peraltro coincidente con quello indicato nell’atto di cessione; anche se non ancora esigibile, perché non era stato ancora inserito nella dichiarazione annuale Iva e nel modello VR/2006. Chiariva quindi che la cessione di quel credito, fatta quando il credito stesso non era ancora esigibile, era valida a tutti gli effetti per le parti tra le quali era avvenuta, anche se non si prospettava opponibile all’erario debitore, a cui era stata invece opposta solo dopo la presentazione della dichiarazione Iva e del mod. VR/2006, quindi quando il credito era divenuto anche esigibile. Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle Entrate confermando la legittimità del proprio operato, contestando le richieste della ricorrente ed osservando, in particolare, che l’opposto rifiuto di rimborso traeva giustificazione anche nella disposizione contenuta nell’art. 5 comma 4-ter del D.L. n. 70 del 1988 la quale, «nel disciplinare le garanzie da prestarsi a favore dell’erario nel caso di imposta chiesta a rimborso, ha previsto implicitamente la ce-

dibilità dei crediti Iva “risultanti dalla dichiarazione annuale”». Con memoria di replica la ricorrente si riportava alle proprie argomentazioni e rilevava l’infondatezza di quanto osservato dalla controparte, precisando che il richiamo dell’art. 5 comma 4ter D.L. 70/1988 non era pertinente in quanto detta disposizione non vieta le cessioni di credito prima della presentazione della dichiarazione, ma si limita solo a prevedere, quale forma di tutela dell’erario, una solidarietà tra cedente e cessionario qualora il credito rimborsato al cessionario dopo la presentazione della dichiarazione del cedente risulti in tutto o in parte non dovuto. Il ricorso merita accoglimento. In effetti per decidere della questione sottoposta all’attenzione di questa Commissione e quindi valutare la legittimità del rifiuto opposto alla richiesta di rimborso, occorre necessariamente stabilire se la cessione del credito Iva operata dal fallimento [...] in favore di [...] debba essere considerata giuridicamente valida anche dall’amministrazione erariale, nonché a quest’ultima opponibile, e quando. Riguardo al primo problema vi è anzitutto da considerare che manca qualsiasi disposizione normativa da cui dedurre una disciplina particolare riguardo ai crediti vantati nei confronti dello Stato ovvero di enti statali. È quindi giocoforza doversi rifare alla disciplina generale civilistica di crediti ed in particolare alla previsione contenuta nell’art. 1260 c.c. Quest’ultima norma abilita il creditore a trasferire, a titolo oneroso o gratuito, il proprio credito «anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge». Il credito in controversia non ha certo caratteristiche che lo possano ricondurre ad una delle categorie per le quali deve ritenersi non consentita dalla legge la sua cessione in favore di soggetti terzi. Esso infatti non è connotato da peculiarità in cui l’intuitus personae assume rilevanza determinante per la conclusione del contratto, come invece potrebbe essere in ipotesi di contratto di fideiussione ovvero di contratto di prestazione d’opera avente caratteristiche peculiari. Né d’altro canto il suo trasferimento è vietato dalla legge, come accade ex art. 447 c.c. per il credito alimentare. Essendo quindi il credito in parola per sua natura cedibile, la sua cessione ed i conseguenti effetti riguardo al debitore ceduto non possono che essere regolati dalle norme civilistiche generali. Nel caso di specie – come correttamente rileva il ricorrente – quando fu eseguita la cessione del credito Iva da parte del fallimento [...] in favore di [...] quel credito già era sorto ed era certo nel suo ammontare, essendo state compiute le operazioni passive da cui lo stesso scaturiva, e si prospettava altresì liquido dal momento che consisteva in un credito pecuniario ben definito ed il cui effettivo ammontare corrispondeva esattamente a quello indicato nell’atto di cessione. Non era, invece, esigibile perché ancora non era stato indicato nella dichiarazione annuale Iva e nel mod. VR/2006 e perciò all’epoca non se ne poteva pretendere il rimborso. Tale sua inesigibilità, però, non aveva alcuna incidenza sulla validità del negozio di avvenuta cessione del credito pure per l’erario, debitore ceduto, anche se nei riguardi di quest’ultimo quella cessione avrebbe acquistato efficacia solo nel momento in cui il credito fosse divenuto anche esigibile a seguito della presentazio-


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ne della dichiarazione annuale Iva e del mod. VR/2006. Appare quindi del tutto ingiustificata e giuridicamente infondata la tesi dell’erario secondo cui quella cessione non ha mai acquistato validità per l’amministrazione finanziaria, essendo stata compiuta prima della presentazione della dichiarazione a perciò prima del momento a partire dal quale il credito era divenuto esigibile. Né d’altra parte, per escludere la cedibilità dei crediti Iva risultanti dalla dichiarazione annuale, appare in qualche modo idoneo il richiamo alla disposizione contenuta nell’art. 5 comma 4ter D.L. n. 70/1988. Invero la predetta norma – come osserva la ricorrente – non fa che prevedere un’ulteriore forma di garanzia a favore dell’erario, disponendo che quest’ultimo, in caso di cessione di credito Iva risultante dalla dichiarazione annuale, possa

ripetere sia dal cedente che dal cessionario le somme rimborsate; ma nulla dice circa una presunta invalidità della cessione stessa nei confronti dell’erario se fatta prima della presentazione della dichiarazione annuale Iva e del mod. VR/2006. Poiché nel caso in questione la richiesta del rimborso è stata ritualmente proposta a seguito della presentazione della dichiarazione annuale Iva e del relativo mod. VR/2006, e quindi allorché il credito nei confronti dell’erario oltre ad essere certo e liquido era divenuto anche esigibile, non sussisteva alcuna ragione per non accoglierla e perciò l’opposto diniego è del tutto illegittimo. La peculiarità della questione giustifica la compensazione integrale delle spese. La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate.

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Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XLII, 18 settembre 2008, n. 144 Presidente: Maniaci - Relatore: Ruggiero

Iva - Credito del fallimento inserito nella dichiarazione annuale e chiesto a rimborso - Cessione - Invalidità nei confronti dell’amministrazione finanziaria - Esclusione - Opponibilità della cessione nei confronti dell’amministrazione finanziaria (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 30 e 38-bis; R.D. 16 marzo 1942, n. 267, nel testo anteriore alla riforma attuata con il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e con il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169; C.c., art. 1260) I crediti fiscali devono ritenersi cedibili in base alla disciplina generale civilistica in materia di cessione di crediti; è pertanto giuridicamente valido ed opponibile nei confronti dell’erario il negozio di cessione da parte del fallimento del credito Iva inserito nella dichiarazione annuale e chiesto a rimborso. La società [...] ricorre avverso il silenzio rifiuto tacito al rimborso del credito Iva di euro 25984,00 già domandato a rimborso da [...] in liquidazione e in fallimento con mod. VR e dichiarazione Iva 2005 e poi ceduto alla ricorrente con forme di legge; e nuovamente domandato in restituzione da quest’ultima con istanza in via amministrativa presentata il 4 aprile 2007. Mel frattempo l’attività era cessata ex art. 35 D.P.R. 633/1972 a far data dal 31 dicembre 2004. La compravendita del credito è avvenuta con scrittura privata autenticata regolarmente registrata e poi notificata tanto all’Agenzia delle Entrate tanto al competente Concessionario della riscossione. Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle Entrate confermando la legittimità del proprio operato. Il ricorso merita accoglimento. In effetti per decidere sulla questione sottoposta all’attenzione di questa Commissione e quindi valutare la legittimità del rifiuto opposto alla richiesta di rimborso, occorre necessariamente stabilire se la cessione del credito Iva operata dal fallimento [...] in favore di [...] debba essere considerata

giuridicamente valida anche dall’amministrazione erariale, nonché a quest’ultima opponibile, e quando. Riguardo al primo problema vi è innanzitutto da considerare che manca qualsiasi disposizione normativa da cui dedurre una disciplina particolare riguardo ai crediti vantati nei confronti dello Stato ovvero di enti statali. È quindi giocoforza doversi rifare alla disciplina generale civilistica di crediti ed in particolare alla previsione contenuta nell’art. 1260 c.c. Quest’ultima norma abilita il creditore a trasferire, a titolo oneroso o gratuito, il proprio credito «anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge». Il credito in controversia non ha certo caratteristiche che lo possono ricondurre ad una delle categorie per le quali deve ritenersi non consentita dalla legge la sua cessione in favore di soggetti terzi. Esso infatti non è connotato da peculiarità in cui l’intuitus personae assume rilevanza determinante per la conclusione del contratto, come invece potrebbe essere in ipotesi di contratto di fideiussione ovvero di contratto di prestazione d’opera avente caratteristiche peculiari. Né d’altro canto il suo trasferimento è vietato dalla legge, come accade ex art. 447 c.c. per il credito alimentare. Essendo quindi il credito in parola per sua natura cedibile, la sua cessione ed i conseguenti effetti riguardo al debitore ceduto non possono che essere regolati dalle norme civilistiche generali. Poiché nel caso in questione la richiesta di rimborso è stata ritualmente proposta a seguito della dichiarazione annuale Iva e del relativo mod. VR/2006 e quindi allorché il credito nei confronti dell’erario oltre ad essere certo e liquido era divenuto anche esigibile, non sussisteva alcuna ragione per non accoglierla e perciò l’opposto diniego è del tutto illegittimo. La peculiarità della questione giustifica la compensazione integrale delle spese. La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate.

III 12 Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXXI, 17 febbraio 2009, n. 34 Presidente: Scuffi - Relatore: Ventura Iva - Credito Iva futuro - Cessione - Validità - Opponibilità all’amministrazione finanziaria subordinata alla presentazione della dichiarazione e alla notifica del negozio di cessione (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 30 e 38-bis; D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2; R.D. 16 marzo 1942, n. 267, nel testo ante-

riore alla riforma attuata con il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e con il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169) È giuridicamente valido tra le parti, avendo natura consensuale, il contratto di cessione da parte del fallimento del credito Iva futuro, il cui trasferimento dal cedente al cessionario si verifica solo nel momento in cui il credito viene ad esistenza; inoltre, tale negozio è opponibile all’amministrazione finanzia-


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ria, in qualità di debitore ceduto, solo dopo la presentazione della dichiara- natura fiscale o futuri» (art. 106, L. fall.) e che in sede di ripartizione annuale che espone il credito ceduto di cui si chiede il rimborso e la no- zione finale «il giudice delegato [...] può disporre che a singoli tifica del contratto di cessione. creditori che vi consentono siano assegnati in luogo delle somme agli stessi spettanti, crediti di imposta del fallito non ancora rimFatto borsati» (art. 117, comma 3, L. fall.). Tali cessioni devono avvenire prima della presentazione delle dichiarazioni fiscali perché Con ricorso in epigrafe, la [...] impugnava l’avviso di diniego queste devono essere presentate solo in seguito e cioè dopo le farimborso Iva 2005 emesso dall’Agenzia delle Entrate, ufficio di si di liquidazione e riparto dell’attivo. Milano 6, con il quale l’ufficio negava il rimborso del credito di - la giurisprudenza di cassazione citata dall’ufficio non è pertieuro 17.157,00 ceduto alla ricorrente dalla società [...] in falli- nente. mento. La ricorrente concludeva chiedendo fosse dichiarata l’illegittiLa ricorrente premetteva quanto segue: con scrittura privata au- mità e infondatezza del diniego, ordinare il rimborso di euro tenticata del 30 settembre 2005 la società ricorrente acquistava da 17.157,00 oltre interessi di legge con condanna al pagamento [...] in fallimento il credito fiscale Iva vantato da quest’ultima ver- delle spese di giudizio, oltre Iva e cpa. so l’erario nell’anno 2005 per euro 17.157,00, oltre, come previsto L’ufficio si costituiva con controdeduzioni generiche e chiedeva dall’art. 6 del contratto, le eventuali maggiori somme che in sede la conferma del proprio operato e il rigetto del ricorso con condi liquidazione fossero risultate dovute e che dovevano essere chie- danna della parte soccombente alle spese di lite. ste a rimborso entro l’anno 2007. Inoltre nell’art. 10 del contratto Alla pubblica udienza del 16 gennaio 2009 i rappresentanti delle parti hanno espressamente dato atto che gli effetti della cessa- le parti si riportavano alle rispettive difese. zione nei confronti dell’amministrazione finanziaria decorreranno soltanto «dalla data del suo perfezionamento, che avverrà con la Diritto presentazione all’ufficio competente della richiesta di rimborso del credito sopra specificato tramite il mod. VR». Il ricorso è fondato. La Commissione rileva preliminarmente che In ottemperanza alle previsioni contrattuali, la curatela ha do- l’ufficio si è limitato a generiche controdeduzioni che nulla agmandato a rimborso le eccedenze fiscali per Iva anno 2005 a giungono a quanto contenuto nel rigetto espresso di rimborso mezzo VR/2006 presentato il 7 marzo 2006 e la società cessio- laddove tale diniego è giustificato sul presupposto che nel caso di naria ha notificato l’atto di cessione del credito all’Agenzia delle specie si è trattato di cessione di un credito tributario futuro che, Entrate e al Concessionario della Riscossione il 20 marzo 2006. pur avendo rilevanza tra le parti, può non produrre alcun effetA sostegno del ricorso la ricorrente eccepiva i seguenti motivi: to nei confronti dell’amministrazione finanziaria. - illegittimità ed infondatezza del diniego. L’ufficio nega l’effica- Nella fattispecie in esame l’atto di cessione non si sarebbe perfecia del contratto di cessione del credito fiscale nei confronti del- zionato nei confronti dell’amministrazione, in quanto il credito l’amministrazione finanziaria: l’atto non si sarebbe perfezionato Iva, alla data dell’atto di cessione, non era stato inserito nella dinei confronti dell’amministrazione in quanto il credito ceduto al- chiarazione annuale dati Iva; tale requisito, a parere dell’ammila data dell’atto non era ancora stato inserito nella dichiarazione nistrazione, non è un mero formalismo ma un necessario ademannuale Iva e richiesto a rimborso con apposito modello VR; pimento che consente alla stessa un controllo sostanziale sulla l’ufficio richiama la risoluzione 12 agosto 2002 n. 279/E. Si trat- spettanza o meno del credito. terebbe in sostanza di un credito futuro, ceduto prima del suo ve- Tali argomentazioni, tuttavia, non appaiono convincenti. nire in essere e pertanto non opponibile all’amministrazione fi- Premesso che la natura consensuale del contratto di cessione di nanziaria; in realtà la circolare n. 279/E del 12 agosto 2002 ri- credito importa che esso si perfeziona per effetto del solo conconosce la piena legittimità ed efficacia dell’atto di cessione di un senso dei contraenti; che nel caso in cui oggetto del contratto di credito non ancora chiesto a rimborso, limitandosi unicamente cessione sia un credito futuro, il trasferimento del credito dal cead escludere ogni effetto vincolante per l’ufficio anteriormente dente al cessionario si verifica solo nel momento in cui il credito alla presentazione della dichiarazione; nel caso di specie la ces- viene ad esistenza; che, prima di allora, il contratto, pur essendo sione del credito è stata validamente opposta all’Agenzia delle perfetto, esplica efficacia meramente obbligatoria tra le parti, la Entrate successivamente alla presentazione della richiesta di rim- Commissione rileva che nella fattispecie che ci occupa il credito borso a mezzo mod. VR e la curatela ha provveduto all’invio te- è venuto a esistenza secondo la precisa serie di atti posti dalla lematico della dichiarazione Iva di periodo. normativa fiscale a tutela delle ragioni erariali e deve, pertanto, - il contratto era sottoposto alla condizione che gli effetti dello essere rimborsato al cessionario. stesso sarebbero decorsi solo dalla data di presentazione della ri- L’ufficio non ha infatti nessuna possibilità di contestare la valichiesta di rimborso avvenuta a mezzo del mod. VR cui è segui- dità del contratto che è stato concluso per effetto del consenso ta la notifica della cessione del credito all’ufficio e la dichiarazio- espresso dal cedente e dal cessionario dovendosi limitare, nel ne annuale a rimborso; momento in cui sorgerà il credito, ad individuare quale sia il sog- anche qualora il credito di cui si discute fosse un credito futuro, getto titolare del rimborso cui liquidare quanto dovuto. l’operato della società non sarebbe contestabile. L’effetto trasla- Tuttavia, in questo caso, la cessione è stata validamente stipulata tivo verrebbe a prodursi solo con la presentazione del modello con efficacia tra le parti al momento della sottoscrizione del conVR e poi della dichiarazione annuale che espongono il credito tratto e il credito è stato correttamente domandato in restituzioceduto di cui si chiede il rimborso. ne secondo le precisazioni dell’art. 38-bis D.P.R. 633/1972 al - dalla lettura e dall’interpretazione delle disposizioni recate dal- momento della presentazione del mod. VR. l’art. 69 del R.D. 2440/1923, che disciplina le modalità di ces- Tale modello, per il combinato disposto dell’art. 2, comma 7, sione dei crediti verso lo Stato emergono ulteriori profili di erro- D.P.R. 322/1998 e dell’art. 38-bis D.P.R. 633/1972, comma 1, neità delle tesi esposte dall’ufficio penultimo periodo, vale come dichiarazione annuale limitata- con le recenti modifiche alla legge fallimentare il legislatore, mente ai dati in esso indicati: in questo senso si è pronunciata preso atto della prassi operativa consolidatasi nel tribunali, l’ha l’Agenzia delle Entrate nelle istruzioni al mod. VR. espressamente codificata prevedendo che, ben prima della pre- È evidente, dunque, che l’ufficio è stato posto nella condizione di sentazione delle dichiarazioni fiscali e cioè in sede di liquidazio- esercitare quel controllo sostanziale necessario a definire la spetne dell’attivo «il curatore può cedere i crediti, compresi quelli di tanza o meno del credito, credito che, peraltro, nella sostanza,


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non è mai stato in contestazione. Infine, a conferma della scelta operata in sede di presentazione del mod. VR, l’importo domandato a rimborso è stato indicato anche nella dichiarazione annuale Iva. L’ufficio confonde tra effetti obbligatori ed effetti reali del contratto di cessione. Se è vero che la natura consensuale del contratto di cessione di credito comporta che esso si perfezioni per effetto del solo consenso dei contraenti, cedente e cessionario, tuttavia ciò non significa che al perfezionamento del contratto consegua sempre il trasferimento del credito dal cedente al cessionario. Nel caso in cui oggetto del contratto di cessione sia un credito futuro, il trasferimento del credito dal cedente al cessionario si verifica soltanto nel momento in cui il credito viene ad esistenza, prima di allora il contratto, pur essendo perfetto, esplica efficacia meramente obbligatoria – v. in questo senso Cass., n. 6422/2003. È evidente, pertanto, che fino alla presentazione della dichiarazione la cessione aveva efficacia solo tra le parti, ed è divenuta opponibile all’amministrazione in qualità di debitore ceduto solo con la presentazione della dichiarazione annuale che espone il

credito ceduto di cui si chiede il rimborso e con la notifica del contratto di cessione: la società ha presentato il mod. VR in data 30 marzo 2006, l’atto di cessione è stato notificato all’ufficio e successivamente il curatore ha presentato la dichiarazione annuale Iva, reiterando la richiesta di rimborso dell’importo già espresso nel mod. VR. Si può quindi affermare che se la stipula dell’atto di cessione è avvenuta in data antecedente la presentazione della richiesta di restituzione, l’efficacia della cessione è stata cronologicamente rinviata – tramite l’apposizione di un termine e /o condizione espressamente inserita nell’art. 10 del contratto – al successivo momento costituito dalla presentazione della dichiarazione a rimborso. La Commissione, pertanto, accoglie il ricorso e condanna l’Agenzia delle Entrate, Milano 6, al rimborso di euro 17.157,00 oltre interessi di legge. Tenuto conto dell’esito del giudizio e della peculiarità della questione trattata, sussistono giusti motivi di integrale compensazione delle spese di lite. La Commissione accoglie il ricorso e condanna l’Agenzia delle Entrate, Milano 6, al rimborso di euro 17.157,00 oltre interessi di legge. Spese compensate.

I - III

ria a seguito della cessione del credito alla ricorrente da parte del curatore fallimentare. Dalla narrazione dei fatti di causa è emerso che il nodo essenziale della tesi erariale comune a due delle decisioni, basata anche su impropri richiami di disposizioni normative o su prassi non del tutto intellegibili2, è stato l’aver giudicato priva di effetti, nei confronti dell’amministrazione, la cessione del credito Iva in quanto effettuata anteriormente alla presentazione della richiesta di rimborso e della relativa dichiarazione annuale3. Le società ricorrenti, per contro, nelle varie fattispecie concrete hanno tutte affermato la legittimità della cessione dei crediti fi-

Nota di Michele Mauro 1. I casi esaminati e le differenti qualificazioni del credito tributario ceduto e del negozio di cessione La presenti pronunce, pur con differenti qualificazioni in ordine all’origine del credito interessato, hanno confermato la legittimità della cessione dei crediti tributari nel fallimento, in consonanza con la dottrina maggioritaria che da sempre si era espressa in tal senso1. Le fattispecie concrete hanno tutte riguardato il ricorso avverso il rifiuto di rimborso Iva opposto dall’amministrazione finanzia-

1 In generale, sul tema della cessione dei crediti d’imposta, si veda INGROSSO, Il credito d’imposta, Milano, 1984, passim e spec. 7 ss. Sulla cedibilità dei crediti per imposte dirette cfr., fra gli altri, CURATOLO, La cessione del credito per le imposte sui redditi, in Boll. Trib., 1989, 1460, che ha ritenuto ammissibile la cessione ancor prima dell’espressa previsione di cui all’art. 43-bis del D.P.R. n. 602/1973; ZOPPINI, Profili ricostruttivi ed applicativi della cessione dei crediti per imposte dirette, in Boll. Trib., 1997, 983 ss.; CANTILLO, La cessione dei crediti per imposte dirette, in Rass. Trib., 1999, 28 ss., ove approfonditi richiami alla dottrina civilistica; TESAURO, In tema di ritenute d’acconto a carico dei fallimenti e di cessione dei crediti d’imposta, in AA.VV., Problematiche fiscali del fallimento, a cura di Tosi, Padova, 2005, 48 ss.; MARINI, Appunti in tema di ritenute sugli interessi attivi accreditati nel corso delle procedure concorsuali, in Rass. Trib., 2000, 812; Id., Ancora sulle ritenute operate sugli interessi attivi accreditati nel corso delle procedure concorsuali, in Riv. Dir. Trib., 2004, II, 487 ss. 2 In particolare in un caso l’amministrazione finanziaria ha richiamato l’art. 5, comma 4ter, del D.L. n. 70/1988 asserendo che la norma «nel disciplinare le garanzie da prestarsi a favore dell’erario nel caso di imposta chiesta a rimborso, ha previsto implicitamente la cedibilità dei crediti Iva “risultanti dalla dichiarazione annuale”». Il riferimento a tale

disposizione, tuttavia, è stato ritenuto inconferente da parte dei giudici che hanno evidenziato, in sintonia con i rilievi della società ricorrente, come la suddetta norma si limiti a prevedere un’ulteriore forma di garanzia a favore dell’erario il quale, in caso di cessione di credito Iva risultante dalla dichiarazione annuale, può ripetere sia dal cedente che dal cessionario le somme rimborsate, nulla affermando, invece, circa una presunta invalidità della cessione stessa nei confronti dell’erario se realizzata prima della presentazione della richiesta di rimborso e della dichiarazione annuale. In un altro caso, l’amministrazione ha richiamato a sostegno della propria tesi la risoluzione 12 agosto 2002 n. 279/E, la quale, ancorché in maniera non del tutto esplicita, sembra aver escluso la cessione del credito Iva prima della sua indicazione nella dichiarazione annuale, attribuendogli esclusivamente rilevanza civilistica tra le parti. Peraltro, ad avviso della ricorrente, la suddetta risoluzione riconoscerebbe invece la piena legittimità dell’atto di cessione di un credito non ancora chiesto a rimborso limitandosi soltanto ad escludere ogni effetto vincolante per l’ufficio anteriormente alla presentazione della dichiarazione. 3 In una delle pronunce (Comm. trib. prov. di Milano n. 144 del 2008), invece, la cessione del credito Iva è avvenuta successivamente alla richiesta di rimborso dello stesso ed al suo inserimento nella relativa dichiarazione

annuale, per cui in quel caso non è dato comprendere, né d’altronde si evince dalla narrazione dei fatti esposta nella sentenza, la motivazione del rifiuto (tacito) dell’amministrazione finanziaria al rimborso del credito al cessionario. Peraltro, nella controversia decisa con la sentenza della Comm. trib. prov. di Milano n. 34 del 2009, l’amministrazione finanziaria ha addirittura sostenuto che la dichiarazione annuale (nella fattispecie quella “dati Iva”), lungi dall’essere un mero formalismo, fosse funzionale al controllo sostanziale dell’ufficio sulla spettanza o meno del credito. In proposito, fermo restando che la spettanza del credito non è mai stata in contestazione nel caso concreto, i giudici hanno osservato che già la richiesta di rimborso, in quel caso debitamente presentata, in virtù di specifiche disposizioni tributarie (combinato disposto dell’art. 2, comma 7, del D.P.R. n. 322/1998 e dell’art. 38-bis del D.P.R. n. 633/1972) funge da dichiarazione annuale limitatamente ai dati in essa indicati ed è dunque in grado di consentire il controllo sostanziale sulla spettanza del credito. In realtà, la richiamata argomentazione difensiva dell’amministrazione è da ritenere inconferente. Invero il controllo sostanziale del credito Iva vantato dalla ricorrente non può che essere svolto mediante l’esercizio dei noti poteri istruttori e metodi di accertamento previsti dalla disciplina dell’Iva (artt. 51 ss. del D.P.R. n. 633/1972), dovendosi viceversa ricondurre il controllo


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scali rilevando, sostanzialmente, come non esista alcuna norma civilistica o tributaria che vieti il trasferimento dei crediti suddetti e, poiché ai sensi dell’art. 1260 del codice civile i casi di divieto di cessione del credito devono essere espressamente previsti da una disposizione di legge, era senz’altro da escludere che potesse operare un simile divieto. Peraltro – hanno osservato le ricorrenti – ferma restando la validità della cessione del credito effettuata nel rispetto delle forme previste, è pur vero che gli effetti della stessa nei confronti dell’amministrazione finanziaria dovevano prodursi, e si sono prodotti, successivamente alla richiesta di rimborso ed alla presentazione della corrispondente dichiarazione annuale, quando cioè il credito era esistente ed esigibile. Sulla base delle richiamate argomentazioni delle parti, i giudici hanno affrontato diffusamente il tema della cessione dei crediti tributari, accogliendo pienamente le tesi delle ricorrenti. In particolare, dopo aver rilevato la mancanza di una disciplina specifica relativa ai crediti vantati verso lo Stato ovvero verso enti statali, le pronunce in esame hanno sottolineato come, con riguardo alla suddetta tipologia di crediti, dovesse farsi riferimento alla disciplina civilistica sulla cessione dei crediti ed in particolare all’art. 1260 del codice civile, che vieta il trasferimento degli stessi soltanto per i crediti con carattere strettamente personale oppure ove previsto dalla legge; condizioni, entrambe, non riscontrabili nei casi di specie. Pertanto, nella ricostruzione dei giudici, la mancata presentazione della richiesta di rimborso del credito e della relativa dichiarazione annuale, lungi dal poter inficiare la validità della cessione, si traduce unicamente nell’impossibilità di esigere il credito nei confronti dell’erario. A tal proposito, ossia per ciò che attiene agli effetti della cessione nei confronti dell’erario, è da rilevare, tuttavia, una dissonanza tra le sentenze in esame in ordine alla nascita del credito Iva ed alla conseguente qualificazione del relativo negozio di cessione. Invero, mentre in un caso (Comm. trib. prov. Milano n. 46 del 2008) i giudici hanno ritenuto esistente il credito Iva al momento della cessione ma inesigibile nei confronti dell’amministrazione in quanto non ancora inserito nella dichiarazione annuale e chiesto a rimborso, nell’altro caso (Comm. trib. prov. Milano n. 34 del 2009), in presenza delle medesime circostanze di fatto, hanno qualificato il credito Iva alla stregua di credito futuro attribuendo efficacia meramente obbligatoria, tra le parti, al relativo negozio di cessione e riferendo l’effetto traslativo del credito, opponibile anche all’erario, all’epoca in cui lo stesso fosse venuto ad esistenza, ossia all’epoca della presentazione della dichia-

effettuato sul contenuto della dichiarazione annuale nell’alveo dei controlli formali. Né, d’altra parte, tale eccezione assume particolare rilevanza al realizzarsi della cessione del credito Iva in quanto la responsabilità solidale tra cedente e cessionario, prevista dall’art. 5, comma 4-ter, del D.L. n. 70/1988, esclude anche la sola opportunità di un controllo sostanziale più stringente sulla spettanza del credito suddetto, da parte dell’erario, nell’ipotesi di richiesta di rimborso presentata da parte del cessionario. 4 Peraltro in quest’ultima sentenza i giudici hanno valorizzato l’eccezione, proposta dalla ricorrente, riguardante l’apposizione di un termine e/o condizione, espressamente inserita nel contratto, che rinviava l’efficacia della cessione al successivo momento di presentazione della dichiarazione a rimborso. Tale affermazione, tuttavia, appare superflua in

razione annuale e della richiesta di rimborso4. Nonostante la diversa qualificazione giuridica della cessione (cessione del credito ovvero cessione del credito futuro) non dia origine, come anche è stato sancito nelle sentenze in esame, a divergenze in ordine alla validità del corrispondente negozio né, in punto di fatto, al momento temporale in cui la cessione produce effetti nei confronti dell’amministrazione finanziaria, in quanto connesso inscindibilmente alla presentazione della dichiarazione annuale e della domanda di rimborso, sembra doveroso pronunciarsi circa l’origine del credito Iva in oggetto. Ancorché la questione non sia pacifica in dottrina, appare corretto ritenere, alla luce del dettato normativo sul rimborso dell’imposta, che si tratti di credito futuro. Invero l’art. 30, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 prevede che nel caso in cui dalla dichiarazione annuale risulti che l’ammontare dell’imposta detraibile, aumentato degli importi versati nell’anno, è superiore all’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni imponibili, il contribuente ha diritto di computare l’importo dell’eccedenza in detrazione nell’anno successivo, ovvero di chiedere il rimborso nelle ipotesi specificate nei commi successivi dello stesso articolo. È evidente, dunque, come, non essendo rimborsabile il credito Iva che non derivi dalla dichiarazione annuale, non possa prodursi, prima di tale evento, l’effetto traslativo della cessione del credito, opponibile anche all’erario, dovendosi pertanto riconoscere alla suddetta cessione soltanto efficacia obbligatoria tra le parti contrattuali5. 2. La cedibilità dei crediti tributari del fallimento e l’efficacia della cessione nei confronti dell’amministrazione finanziaria Al di là del corretto schema contrattuale che, come s’è visto, sembra appropriato individuare nella cessione di credito futuro6, nelle sentenze in esame, in consonanza con la dottrina maggioritaria, è emersa, in maniera senz’altro condivisibile, la piena validità, anche nei confronti dell’amministrazione finanziaria, della cessione del credito Iva nell’ambito della procedura fallimentare, effettuata secondo le regole civilistiche. È bene, in primo luogo, precisare che anche i crediti futuri rientrano nel compendio dei beni oggetto del cosiddetto spossessamento previsto dall’art. 42 della legge fallimentare7, per cui deve ammettersi la loro disponibilità da parte del curatore. Peraltro, come pure evidenziato dalla società ricorrente nella controversia sfociata nella pronuncia della Comm. trib. prov. di Milano n. 34 del 2009, l’ammissibilità della cessione in argo-

quanto l’enunciato del termine (e/o condizione) non è altro che un effetto direttamente prodotto dalla cessione del credito futuro. 5 Cfr., in tal senso, TESAURO, In tema di ritenute d’acconto a carico dei fallimenti e di cessione dei crediti d’imposta, cit., 54 e spec. nota 33. Contra, si veda INGROSSO, Il credito d’imposta, cit., 49 ss., il quale, in estrema sintesi, diversamente da altra dottrina (cfr., per come citato dallo stesso autore, FALSITTA, Problemi e prospettive dell’Iva, Padova, 1975, 64) qualifica il rimborso dell’Iva quale modalità di estinzione di un diritto di credito già esistente. 6 Si vedano, in proposito, gli artt. 1260 e 1348 del codice civile. Sulla cessione dei crediti futuri nel diritto civile cfr., per tutti, PERLINGIERI, Della cessione dei crediti, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja-Branca, Bologna, Roma, 1982, 12. Tra la giurisprudenza di

legittimità si veda, oltre alla sentenza citata dalla stessa Comm. trib. prov. Milano, n. 34/2009 (Cass., 22 aprile 2003, n. 6422), Cass., 31 agosto 2005, n. 17590, in Fallimento, 2006, 477. Sull’ammissibilità della cessione di credito futuro anche con riguardo ai crediti d’imposta cfr. TESAURO, In tema di ritenute d’acconto a carico dei fallimenti e di cessione dei crediti d’imposta, cit., 53, il quale, dall’assenza di specifici divieti di cessione dei crediti d’imposta, anche futuri, nelle norme tributarie, deduce libertà di cessione secondo gli schemi civilistici. L’applicabilità del negozio di cessione di credito futuro ai crediti tributari è stata peraltro riconosciuta dalla stessa amministrazione finanziaria: cfr. ris. min. n. 441010 del 22 ottobre 1992. 7 Cfr. PAJARDI, Il codice del fallimento, Milano, 1991, 149; Id., Radici e ideologie del fallimento, a cura di Gualdi, Milano, 2002, 29.


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mento è oggi espressamente prevista dall’art. 106 della legge fallimentare così come riformato dal D.Lgs. n. 5/2006, che, al fine di garantire una maggiore speditezza della procedura fallimentare, ha disposto, tra le altre cose, la facoltà del curatore di cedere i crediti di natura fiscale o futuri. In proposito, appare corretto ritenere che la norma non abbia inteso statuire l’alternatività tra la cessione del credito fiscale e quella del credito futuro, in quanto la compatibilità con la legge tributaria della cessione del credito d’imposta futuro si presta ad essere sindacata, ed eventualmente esclusa, solamente da specifiche norme fiscali derogatorie della disciplina civilistica sulla cessione dei crediti, che, viceversa, non è dato riscontrare. Invero, come è stato sottolineato in dottrina, le norme tributarie sulla cessione dei crediti d’imposta, più che autorizzarne la cessione regolando esaustivamente la materia, hanno integrato la disciplina civilistica della fattispecie con specifico riguardo al rapporto pubblicistico8. È per questo che, già prima dell’esplicita previsione, da parte del legislatore, della cedibilità dei crediti d’imposta nel fallimento, in dottrina sono state efficacemente contestate le obiezioni mosse in proposito dall’amministrazione finanziaria9 e tale cessione si è affermata nella prassi di molti tribunali10. Anche le formalità necessarie ad assicurare l’efficacia della cessione del credito Iva verso l’erario sono state rispettate nelle fattispecie concrete11. Infatti, le circolari che hanno precisato l’oggetto di tale cessione e le modalità dei rimborsi delle somme cedute12, hanno previsto che gli atti di cessione devono essere redatti nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata e devono essere notificati sia al concessionario della riscossione che all’ufficio tributario per gli adempimenti di competenza13. È evidente, dunque, come l’erroneità della tesi dell’amministrazione finanziaria sostenuta nelle controversie esaminate sia da imputare unicamente all’equivoca interpretazione degli effetti discendenti dalla cessione di un credito d’imposta non ancora esistente (o comunque giudicato inesigibile nelle prime sentenze). Invero, come anche sottolineato dai giudici nell’ultima delle sentenze in commento (Comm. trib. prov. Milano, n. 34/2009), il

8 Cfr. TESAURO, In tema di ritenute d’acconto a carico dei fallimenti e di cessione dei crediti d’imposta, cit., 53. 9 In sintesi, l’amministrazione rilevava: a) la mancanza di definitività del saldo attivo indicato in dichiarazione, che avrebbe escluso l’esistenza di un diritto in grado di essere ceduto; b) il fatto che il contribuente che avesse ceduto il credito d’imposta non avrebbe potuto garantirne l’esistenza, come previsto dall’art. 1266 c.c.; c) l’impossibilità di dar luogo alla liberazione del cedente ed alla sua sostituzione con il cessionario, come disposto dall’art. 1408 c.c., in quanto tale circostanza avrebbe pregiudicato l’esercizio del potere di rettifica della dichiarazione d’imposta. Per la confutazione di tali rilievi si rinvia all’approfondita analisi di CANTILLO, La cessione dei crediti per imposte dirette, cit., 31, ove è possibile notare come, con riguardo al punto a), possano cedersi anche i crediti futuri e condizionali; con riguardo al punto b), la garanzia non sia elemento essenziale della fattispecie traslativa; con riguardo al punto c), un negozio privatistico non possa influire sui poteri di accertamento dei tributi. 10 Cfr. CENSONI, Chiusura del fallimento e atti-

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contratto di cessione del credito futuro si perfeziona per effetto del consenso tra le parti ma produce i suoi effetti soltanto quando il credito viene ad esistenza, per cui sino a quel momento il contratto ha efficacia meramente obbligatoria. Pertanto, anche nel caso di fallimento la cessione del credito d’imposta (Iva) futuro, resa efficace nei confronti dell’amministrazione debitrice con la notifica dell’atto, riveste, in una prima fase, unicamente effetti obbligatori, mentre produce effetti traslativi quando il credito diviene esistente, ossia, nella fattispecie concreta, al momento di presentazione della dichiarazione annuale (e della richiesta di rimborso)14. È chiaro, dunque, come l’amministrazione finanziaria abbia erroneamente dedotto dalla temporanea efficacia (meramente) obbligatoria della cessione oggetto della controversia la definitiva inopponibilità della stessa nei suoi confronti. 3. Il contemperamento della cessione dei crediti, in specie tributari, con le finalità della procedura fallimentare Premesso che, come già affermato, i crediti futuri rientrano nel compendio dei beni della massa fallimentare, sembra opportuno, in conclusione, svolgere qualche considerazione sulla necessità di contemperare la cessione dei crediti tributari (anche futuri), tesa ad evitare le lungaggini connesse al loro realizzo15, con le finalità della procedura fallimentare, consistenti, come ampiamente noto, nella tutela delle ragioni di tutti i creditori concorsuali. Invero la cessione del credito d’imposta avviene quasi sempre a condizioni economiche scarsamente vantaggiose, in primo luogo perché l’amministrazione finanziaria è legittimata ad opporre al cessionario le medesime eccezioni opponibili al cedente, il quale è e rimane a tutti gli effetti il contribuente – debitore d’imposta, acquistando il cessionario soltanto la titolarità del credito d’imposta e, di conseguenza, la facoltà di agire nei confronti dell’amministrazione per ottenere il pagamento del suddetto credito16. Inoltre, venendo meno l’applicazione delle particolari regole fallimentari sul concorso, il cessionario è esposto a tutte le eccezioni che sarebbero opponibili al fallito una volta tornato in bonis, e, in particolare, alla compensazione del credito ceduto con i crediti fiscali non soddisfatti nel durante l’esecuzione concorsuale17.

vità residue degli organi fallimentari: la sorte postfallimentare dei crediti d’imposta, in Fallimento, 2004, 1297. Per un’analisi approfondita delle modalità e dell’efficacia, verso l’erario, della cessione dei crediti d’imposta si veda TESAURO, In tema di ritenute d’acconto a carico dei fallimenti e di cessione dei crediti d’imposta, cit., 57 ss. Cfr. circ. 28 ottobre 1988, n. 223; circ. 11 agosto 1993, n. 19; circ. 12 marzo 1998, n. 84. Tali adempimenti, si riferiscono all’erogazione dei rimborsi, esecuzione dei controlli ed eventuale applicazione delle sanzioni, così come previsto dalla circolare n. 192 del 1997. Cfr. TESAURO, In tema di ritenute d’acconto a carico dei fallimenti e di cessione dei crediti d’imposta, cit., 54. L’autore, in particolare (op. cit., nota 33), ha opportunamente contestato la risoluzione 12 agosto 2002, n. 279/E, peraltro richiamata nella controversia in argomento, con la quale, come già evidenziato, l’amministrazione finanziaria sembra aver escluso la cessione del credito Iva prima della sua indicazione nella dichiarazione annuale, legittimandola soltanto quando il medesimo credito sia stato chiesto a rimborso. In realtà, ha osservato l’autore,

prima dell’indicazione nella dichiarazione annuale il credito Iva non è rimborsabile, per cui l’atto di cessione ha solo effetti obbligatori mentre con la dichiarazione annuale si verifica l’effetto traslativo che risulta efficace ed impegnativo anche per il fisco. 15 Sulle difficoltà di realizzare in costanza di fallimento taluni crediti tributari formatisi durante la liquidazione fallimentare, al fine di destinare le relative risorse ai creditori concorrenti nel rispetto della par condicio creditorum, sia consentito rinviare a MAURO, Contributo allo studio delle dinamiche tributarie nel fallimento, Roma, 2009, 127 ss., anche per ciò che attiene alle varie soluzioni, diverse dalla cessione del credito, ipotizzabili per il conseguimento del suddetto obiettivo. 16 Così TESAURO, In tema di ritenute d’acconto a carico dei fallimenti e di cessione dei crediti d’imposta, cit., 59 ss. 17 Infatti, pur in assenza di apposite norme, non sembra ci siano mai stati significativi dubbi sulla possibilità, in favore dell’amministrazione finanziaria, di eccepire la compensazione rispetto alle pretese del contribuente: cfr., sul punto, FREGNI, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, 430, nota 3.


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Peraltro, pur giustificando le ragioni che potrebbero determinare la modestia delle somme ottenibili dalla cessione del credito d’imposta, è doveroso rilevare che, ancorché il curatore abbia il compito di tramutare in denaro il patrimonio del fallito, è indubbiamente inammissibile che ne vanifichi sostanzialmente il valore. Pertanto, alla cessione dei crediti ad un prezzo vile può divenire preferibile l’assegnazione del bene al fallito tornato in bonis a tutela di tutti creditori, ancorché al di fuori delle regole del concorso18. In altri termini, l’esigenza di recuperare delle risorse proprie dell’attivo fallimentare – quali i crediti d’imposta, anche futuri – al fine di assegnarle ai creditori che hanno concorso in quel fallimento nel rispetto della par condicio creditorum, non può mai tramutarsi in un’operazione talmente svantaggiosa da risultare meno conveniente, per quegli stessi creditori, rispetto all’assegnazione delle predette risorse al fallito tornato in bonis, nonostante

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la conseguente destinazione delle stesse anche a classi di creditori che non hanno concorso nel precedente fallimento. Ciò in quanto il giudizio sull’opportunità delle operazioni del curatore, ovviamente compiute sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori ai sensi dell’art. 31 della legge fallimentare, non può mai prescindere dalla necessità di perseguire la tutela degli interessi dei creditori che, come già evidenziato, rappresenta la funzione primaria dell’istituto del fallimento. Tanto è vero, che l’art. 104-ter L. fall., così come riformato (dal D.Lgs. n. 5/2006), all’ultimo comma prevede la possibilità che il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, possa non acquisire all’attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se l’attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente, proprio al fine di evitare inutili dispendi economici che finirebbero per pregiudicare gli interessi dei creditori concorrenti.

Commissione tributaria provinciale de L’Aquila, sez. IX, 24 aprile 2009, n. 108 Presidente: Angelini - Relatore: Casablanca

Iva - Effettuazione di operazioni nel territorio dello Stato da parte di un non residente - Applicazione del reverse charge - Diritto del non residente al rimborso ex art. 38-ter, D.P.R. 633/1972 - Sussistenza - Norma nazionale non conforme alla sesta direttiva - Disapplicazione (D.P.R. 26 ottobre 1972, art. 38-ter; Dir. CEE n. 77/388, art. 17, par. 4). In base al combinato disposto dell’art. 17, par. 4 e dell’art. 21, par. 1, lett. a, b, c e f della sesta direttiva, il soggetto non residente ha diritto al rimborso dell’Iva sostenuta in Italia ogni qualvolta il cessionario o il committente provveda ad adempiere al meccanismo dell’inversione contabile; pertanto, qualora la norma interna sia in contrasto con le suddette disposizioni comunitarie, i giudici nazionali sono tenuti alla sua disapplicazione, sorgendo contestualmente in capo al soggetto non residente il diritto al rimborso. Con istanza presentata all’ufficio di Roma, la società spagnola S.R. S.p.A. chiedeva ai sensi dell’art. 38-ter del D.P.R. n. 633/1972 il rimborso dell’Iva per l’anno d’imposta 2002 pari ad euro 155.411,59. Contro il provvedimento di diniego emesso dal centro operativo di Pescara – che dal 1 luglio 2002 era divenuto competente ad esaminare la predetta istanza di rimborso – la società contribuente proponeva ricorso alla Commissione tributaria provinciale deducendo di aver diritto al rimborso in forza del principio di neutralità dell’Iva introdotto dalla VI direttiva CEE n. 77/388, art. 17 paragrafo 4 e 21 paragrafo 1, secondo cui un soggetto passivo di imposta non residente ha diritto al rimborso dell’Iva sostenuta in Italia, nel caso in cui il cessionario o il committente provveda ad assolvere l’Iva attraverso l’emissione di autofattura ex art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, né può essere di ostacolo al riconoscimento del diritto l’art. 7, paragrafo 1, comma 1, prima e seconda fase, della VIII direttiva CEE n. 79/72 in base a cui è stato introdotto l’art. 38-ter del D.P.R. n. 633/1972, giacché la normativa ivi contenuta va coordinata con quella dell’art. 17 paragrafo 4 della VI direttiva, secondo il quale tra i soggetti comunitari non residenti che possono beneficiare

18 Cfr., fra gli altri, GUGLIELMUCCI, Parere sui crediti d’imposta non riscuotibili durante il fallimento, in Dir. Fall., 2005, I, 163, il quale ha evidenziato come la liquidazione di determi-

del regime di cui alla VIII direttiva vanno inclusi color che all’interno del paese hanno concluso cessioni di beni o prestazioni di servizi per i quali il destinatario è stato designato come debitore di imposta ai sensi dell’art. 21, paragrafo 21, lett. a, della VI direttiva CEE. La Commissione Tributaria Provinciale respingeva il ricorso, motivando che la soc. S.R. aveva posto in essere sul territorio italiano operazioni attive – acquisto e rivendita di caravan – e negando l’esistenza di un indebito arricchimento da parte dello Stato. Con atto di appello, la società contribuente impugna la sentenza di primo grado deducendo che, in ordine al compimento di operazioni attive, la decisione di primo grado si pone in contrasto con la risoluzione ministeriale del 1 marzo 2005 n. 31/E; per quanto riguarda l’indebito arricchimento, l’appellante illustra il meccanismo che comporta dapprima il riporto a debito dell’imposta da parte del fornitore italiano e poi da parte degli acquirenti della S.R. in quanto ricevono da quest’ultima la fattura senza l’Iva. Deduce inoltre l’appellante che la normativa italiana è in contrasto con la normativa comunitaria e segnatamente con l’art. 17, paragrafo 4, e art. 21, paragrafo 1, della VI direttiva CEE n. 77/388 secondo i quali il soggetto non residente ha diritto al rimborso dell’Iva sostenuta in Italia nel caso in cui il cessionario provveda ad assolvere l’Iva attraverso la emissione di autofattura. Tale principio, aggiunge parte appellante, è stato ripreso anche dalla VIII direttiva poi recepita nell’art. 38-ter. Conclude chiedendo in via preliminare che, ove non si ritenga risolvibile il contrasto tra l’art. 38-ter del D.P.R. n. 633/1972 e l’art. 17, paragrafo 4, della VI direttiva, si disponga domanda pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea per la interpretazione del citato art. 17, paragrafo 4, della VI direttiva, si disponga domanda pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea per la interpretazione del citato art. 17, paragrafo 4; nel merito, disporre il rimborso Iva ed in via subordinata nella denegata ipotesi di diniego di rimborso, accettare l’indebito arricchimento dell’erario e disporre un indennizzo per la perdita patrimoniale. Si costituisce in giudizio il centro operativo di Pescara e con proprie controdeduzioni respinge le argomentazioni di parte appellante. L’ufficio afferma che la disciplina di rimborsi Iva a soggetti non residenti contenuta nell’art. 38-ter del D.P.R. n. 633/1972

nati beni compresi nel fallimento può talvolta non essere possibile o conveniente, per cui in tali casi è possibile addirittura chiedere al giudice delegato l’esclusione di tali be-

ni dal patrimonio separato fallimentare, con la conseguenza che essi entrano a far parte del patrimonio personale del fallito prima della chiusura del fallimento.


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di ricezione della VIII direttiva CEE n. 79/1072 esclude il rimborso dell’Iva nel caso in cui il soggetto estero abbia compiuto operazioni attive soggette ad Iva, per cui, al fine di ottenere il rimborso del credito Iva maturato nei confronti dell’erario, egli deve procedere alla identificazione diretta, art. 35 D.P.R. n. 633/1972, o nominare un rappresentante legale, art. 17, comma 2, del citato D.P.R.; nel caso di specie – afferma l’ufficio – non si è verificata una operazione intracomunitaria giacché la S.R. non ha trasferito in Spagna i caravan acquistati dalla Sea S.p.A. ma li ha ceduti a società italiane né è applicabile il meccanismo delle inversioni contabili che non è previsto per le cessioni di beni avvenute nel territorio dello stato. Contesta altresì l’eccepito indebito arricchimento da parte dell’erario che – secondo l’appellante – incasserebbe l’Iva due volte. Conclude per il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza di primo grado. Con memoria aggiuntiva, la società contribuente replica alle deduzioni dell’ufficio osservando che l’art. 38-ter si pone in contrasto con l’art. 17 paragrafo 4 della VI direttiva a seguito delle modifiche introdotte dalla direttiva CEE n. 91/680 e n. 92/111; aggiunge che in assenza del rappresentante fiscale o della identificazione diretta, gli obblighi Iva vengono traslati in capo al destinatario della cessione che emetterà fattura in unico esemplare consentendo al soggetto non residente che ha acquistato beni in Italia e li ha poi ceduti nel medesimo paese di ottenere il rimborso dell’Iva pagata non detraibile nel paese di origine, evitando così un costo aggiuntivo non altrimenti assorbibile. Annota poi parte appellante che tale soluzione è confermata dalla direttiva UE n. 2006/112/CE ed ancora che la stessa Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 17/E del 24 gennaio 2008 ha avvallato la tesi sostenuta nella difesa. Ribadisce infine le richieste conclusive dedotte con l’atto di appello. All’esito della odierna discussione svoltasi in pubblica udienza, la causa è stata decisa come da dispositivo. Osserva il collegio che per dipanare la complessa vicenda processuale caratterizzata da un intreccio di norme comunitarie e nazionali e da una evoluzione legislativa comunitaria particolarmente rilevante, occorre necessariamente esaminare da vicino le singole norme che disciplinano la questione dei rimborsi Iva a soggetti passivi con residenti nel territorio dello stato italiano. In proposito, va osservato che il primo intervento del legislatore comunitario fu indirizzato a stabilire meccanismi il più possibile omogenei con lo scopo di armonizzare la legislazione degli stati membri in materia di rimborsi Iva, dettando con la VI direttiva CEE n. 77/388 una normativa che stabiliva all’art. 17, paragrafi 3 e 4, il principio secondo cui ai soggetti passivi dell’Iva appartenenti ad uno stato membro spettava il rimborso dell’imposta per operazioni imponibili effettuate nel territorio di un altro stato membro per le quali la legislazione tributaria dello stato di appartenenza del soggetto non residente ne prevedesse la deduzione o il rimborso, precisando altresì che i predetti soggetti non residenti ai fini del rimborso dovevano essere privi di stabile organizzazione. Sulla prospettata questione, interveniva nuovamente il legislatore comunitario – e non sarebbe stata l’ultima – che con la VIII direttiva CEE n. 79/1072 aveva modo di ampliare e completare le definizioni apportate con la citata VI direttiva, premurandosi di interpretare la nozione di stabile organizzazione come la sede della propria attività economica ovvero un centro di attività stabile, aggiungendo altresì che in ogni caso il soggetto passivo non residente non doveva fissare nell’altro stato membro il proprio domicilio o la residenza abituale ovvero effettuare cessioni di beni o prestazioni di servizi considerate localizzate in tale paese. A seguito delle disposizioni comunitarie, il legislatore nazionale, prendendo buona nota degli indirizzi ivi contenuti, con l’art. 16 del D.P.R. n. 793/1981 introduceva nel D.P.R. n. 633/1972 l’art. 38-ter per disciplinare il rimborso da effettuare nei confronti dei soggetti non residenti, stabilendo che la restituzione della imposta spet-

tava ai predetti che non si fossero identificati direttamente ai sensi dell’art. 35-ter, che non avessero nominato un rappresentante ai sensi del secondo comma dell’art. 17 e che non avessero effettuato operazioni in Italia ad eccezioni delle prestazioni di trasporto e relative prestazioni accessorie. Ma il legislatore comunitario non esauriva i suoi interventi sulla complessa materia e sempre con riferimento alla disciplina tributaria in materia di Iva, aveva modo di intervenire con la direttiva CEE n. 92/111 che, nel modificare l’art. 28-septies con il quale a sua volta la direttiva CEE n. 77/388, aggiungeva al predetto art. 17 un comma che individuava quale soggetto passivo non residente avente diritto al rimborso coloro che all’interno del paese avessero effettuato unicamente cessioni di beni per le quali il destinatario è stato designato come debitore dell’imposta ai sensi dell’art. 21, punti 1, lett. a, della citata direttiva n. 77/388, laddove viene affermato che «se la cessione dei beni o la prestazione di servizi imponibile è effettuata da un soggetto passivo non residente nel territorio del paese, gli stati membri possono alle condizioni da esse stabilite precedere che il debitore del dell’imposta è il destinatario della cessione di beni o della prestazione di servizi imponibili». In altri termini, con le disposizioni contenute nella direttiva n. 92/111 veniva superata la preclusione indicata nella direttiva n. 79/1072 e recepita dal legislatore nazionale e cioè che, tra le altre condizioni cui soggiaceva il diritto del soggetto non residente al rimborso dell’Iva sugli acquisti, doveva annoverarsi la circostanza che il soggetto non residente non avesse effettuato cessioni di beni sul territorio dello stato membro. Questa impostazione della problematica in materia di rimborsi Iva, veniva confermata dalla direttiva CEE n. 112/2006 che – emanata con l’obiettivo dichiarato di raggruppare, per esigenze di chiarezza e di razionalizzazione, le diverse e sostanziali modificazioni apportate alla direttiva originaria n. 77/388 – si proponeva di raccogliere in una sorta di testo unico un corpus consistente di norme volto a costruire un sistema comune a tutti gli stati membri dell’imposta sul valore aggiunto. In tale ambito, per tornare alla prospettata questione del rimborso Iva a soggetti non residenti, l’art. 171 della direttiva non faceva che confermare quanto introdotto dalla direttiva n. 92/111 ed il successivo art. 194 si premurava di precisare che, nei casi in cui il committente o il cessionario abbia adempiuto agli obblighi relativi al pagamento dell’Iva tramite la emissione di autofattura in luogo del soggetto non residente, era sufficiente applicare il meccanismo della inversione contabile senza più la necessità di identificarsi direttamente. In altri termini, l’evoluzione legislativa comunitaria portava ad estendere il diritto al rimborso dell’Iva non limitandolo alla ipotesi di soggetti non residenti che non avessero effettuato cessioni sul territorio dello stato membro o non avessero sede ovvero residenza e stabile organizzazione in quello stesso territorio e che in ogni caso non si fossero identificati ex art. 35-ter o non avessero nominato un rappresentante legale, ma estendendo il beneficio del rimborso Iva anche a favore di soggetti non residenti che avessero effettuato cessioni nel territorio dello stato membro anche senza identificarsi o nominare un rappresentante legale, purché gli obblighi in materia di Iva fossero assolti dal cessionario con il meccanismo del reverse change. Alla luce delle numerose prese di posizione del legislatore comunitario ed in relazione alle norme di ricezione nell’ordinamento nazionale delle direttive CEE emanate sulla materia dell’imposta sul valore aggiunto, deve annotarsi che l’art. 38-ter del D.P.R. n. 633/1972 non ha recepito le disposizioni che hanno esteso la facoltà del soggetto non residente di richiedere il rimborso anche nel caso in cui egli compia nel territorio dello stato ove ha effettuato acquisti anche operazioni attive, purché il cessionario venisse individuato come titolare degli obblighi in materia di Iva, sicché, nel caso di specie, si impone la necessità di valutare se la prescrizione comunitaria possa essere applicata in contrasto con


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la norma dell’ordinamento interno. La risposta al quesito è positiva. In primo luogo, va osservato che la Corte costituzionale a più riprese – pronunce n. 170 del 1984, n. 113 del 1985, n. 389 del 1989, n. 64 del 1990 e n. 168 del 1991 – affrontando la questione della incompatibilità tra norma interna e norma comunitaria aveva modo di enunciare un principio fondamentale secondo cui «i due ordinamenti comunitario e statale sono distinti ed al tempo stesso coordinati e le norme del primo vengono, in forza dell’art. 11 della Costituzione, a ricevere diretta applicazione in quest’ultimo, pur rimanendo estranee al sistema delle fonti statali. L’effetto di tale diretta applicazione non è quindi la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest’ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie oggetto della sua cognizione». L’orientamento del Giudice delle Leggi ha trovato conferme sempre più puntuali praticamente moltiplicando gli interventi volti ad individuare la casistica della diretta applicabilità della norma comunitaria ed in tale contesto ha investito anche le direttive comunitarie la cui possibilità di immediata applicazione aveva trovato peraltro conforto negli indirizzi giurisprudenziali della Corte di Giustizia europea che, anche in applicazione dell’ art. 189 del Trattato di Roma sul carattere vincolante delle direttive per gli stati membri, aveva modo di statuire che «in tutti i casi in cui alcune disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello stato, sia che questo non abbia tempestivamente recepito al direttiva nel diritto nazionale sia che l’abbia recepita in modo inadeguato». Prendendo buona nota dell’orientamento comunitario in materia di applicazione delle direttive nell’ambito degli stati membri, non v’è dubbio che le condizioni ivi previste per la cennata operatività – vale a dire che la disposizione sia incondizionata e sufficientemente precisa – devono considerarsi ricorrenti nella presente fattispecie, giacché, per ciò che riguarda il grado di precisione della direttiva, da un lato l’intervento del legislatore comunitario ha esteso il diritto al rimborso nel caso di soggetto non residente che effettua sul territorio di un altro stato operazioni attive, mentre nella stesura dell’art. 38-ter modellata sulla base di una direttiva che prevedeva il rimborso dell’Iva unicamente nel caso che il soggetto passivo non residente effettuasse acquisti, veniva posta la preclusione al rimborso per i soggetti non residenti che avessero effettuato operazioni attive in Italia; dall’altro in relazione al requisito dell’incondizionato dettato normativo, non si ravvisa alcuna condizione, neppure quella formulata dalla direttiva CEE n. 91/680 che, estendendo il beneficio del rimborso a favore dei soggetti non residenti che avessero effettuato sul territorio dello stato italiano cessioni di beni, ne subordinava il riconoscimento alla designazione del cessionario quale debitore di imposta, secondo il dettato dell’art. 21, punto 1, lettera a, della direttiva CEE n. 77/388 che attribuiva agli stati membri la facoltà, alle condizioni da esse stabilite, di prevedere che il debitore dell’imposta è il destinatario della cessione di beni o della prestazione di servizi imponibile, perché in deroga alla regola generale in forza del-

la quale gli obblighi Iva incombono sul cedente o prestatore, l’art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972 stabilisce che gli obblighi relativi alle operazioni effettuate nel territorio dello stato da soggetti non residenti, non identificati direttamente né fiscalmente rappresentati, sono adempiuti dai cessionari o committenti residenti che acquistano i beni o utilizzano i servizi. Da ultimo, la stessa Agenzia delle Entrate interveniva per rispondere ad una istanza di appello ex art. 11 della legge n. 212/2000 riguardante un caso similare – società tedesca che aveva effettuato acquisti in Italia e operazioni attive di cessioni ed aveva presentato istanza di rimborso ex art. 38-ter citato – ed in sede di interpretazione della normativa nazionale alla luce degli artt. 171 e 194 della direttiva CEE n. 112/2006 – che, come innanzi precisato, aveva confermato la direttiva CEE n. 92/111 introduttiva del diritto al rimborso dell’Iva anche per i soggetti non residenti che avessero effettuato anche cessioni di beni sul territorio di un altro stato membro – aveva modo di concludere che le disposizioni comunitarie siano sufficientemente precise e dettagliate per poter essere immediatamente applicabili nell’ordinamento interno limitato alla fattispecie ed alle relative condizioni indicate nell’art. 38-ter del D.P.R. n. 633/1972, come invece prospetta l’ufficio, ma deve essere riconosciuto anche nei casi in cui il soggetto non residente abbia operato cessioni di beni con applicazione dell’art. 17 del citato D.P.R. Nel caso di specie, con l’acquisto dei caravan, la soc. S.R. ha dovuto versare l’Iva e rivendendo successivamente i caravan non ha potuto ricevere l’Iva dalla concessionaria in quanto soggetto non residente; in tal modo è stata inibita la rivalsa dell’imposta pagata sull’acquisto. Orbene, tenendo conto delle disposizioni dettate dal legislatore comunitario e dalla legislazione tributaria nazionale, la società contribuente non aveva l’obbligo – come sostiene l’ufficio – di doversi identificare o di nominare un rappresentante fiscale per recuperare l’Iva a debito annotando la fattura di acquisto e di vendita e provvedendo poi con il saldo a versare la differenza ovvero a richiedere il rimborso dell’Iva a credito, ben potendo invece effettuare la cessione ai sensi del richiamato art. 17, comma 3, vale a dire trasferendo sul cessionario gli obblighi formali e sostanziali previsti dalla normativa sull’Iva, assumendo la figura del debitore di imposta in luogo della soc. S.R. cedente e quindi provvedendo a registrare la fattura nel registro Iva delle fatture emesse e nel registro Iva degli acquisti, di modo che il tributo divenisse neutrale mediante azzeramento dello stesso. Per quanto riguarda la dimostrazione che il cessionario abbia in concreto adempiuto agli obblighi Iva in luogo della cedente società appellante, è lo stesso ufficio che nelle controdeduzioni ne afferma l’effettività laddove precisa che «quanto alle società italiane destinatarie dei caravan a loro volta emettevano autofattura ponendo in essere, pur non ricorrendone i presupposti, l’operazione di reverse charge (inversione contabile) ai sensi dell’art. 17 comma 3 del D.P.R. n. 633/1972». In conclusione, e per tutte le ragioni quivi descritte, la società appellante ha il diritto di ottenere il rimborso di quanto versato a titolo di imposta in sede di acquisto dei caravan. La indubbia complessità della vertenza induce il Collegio a compensare le spese di giudizio.

Nota

obblighi documentali, contabili e di versamento, devono essere adempiuti dai cessionari o committenti soggetti passivi attraverso la cd. autofattura. I giudici hanno rilevato come la modifica dell’art. 17, par. 4, della sesta direttiva ad opera della direttiva del 16 dicembre 1991 n. 91/680/CEE e della direttiva del 14 dicembre 1992 n. 92/111/CEE (che, modificando l’art. 28-septies, ha aggiunto all’art. 17, par. 4, che individua, quali soggetti passivi non residenti aventi diritto al rimborso, coloro che abbiano effettuato all’interno del paese unicamente cessioni di beni o prestazioni di ser-

La Commissione tributaria regionale Abruzzo, in riforma della pronuncia della Comm. trib. prov. di Pescara (in questa rivista, 2007, 1, 119 ss., con nota di MARINI, Rimborso Iva ai non residenti. L’art. 38-ter, D.P.R. 633/1972 e il difficile coordinamento tra VI e VIII direttiva), ha affermato che il soggetto non stabilito può ottenere il rimborso dell’Iva versata se ha effettuato soltanto operazione (cessione di beni o prestazioni di servizi) imponibile nello Stato per la quale, ai sensi degli artt. 17 del decreto n. 633/1972, gli


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vizi per le quali il destinatario è stato designato come debitore dell’imposta ai sensi dell’articolo 21, punto 1, lettera a e c), avesse, di fatto, eliminato la condizione prevista dall’art. 1 dell’ottava direttiva, che subordinava il rimborso all’assenza di cessioni di beni o prestazioni di servizi territorialmente imponibili nello Stato del rimborso. Pertanto, in virtù dell’assetto normativo comunitario formatosi a seguito delle modifiche, si evince, secondo la Comm. trib. reg., che il soggetto non residente ha diritto al rimborso dell’Iva sostenuta nello Stato ogniqualvolta il cessionario o il committente provveda ad adempiere agli obblighi strumentali attraverso il meccanismo dell’inversione contabile. Simili considerazioni sono ulteriormente avvalorate dalla direttiva n. 2006/112/CE del 28 novembre 2006 (direttiva cd. di “rifusione”) la quale ha previsto, all’art. 171, che «i soggetti passivi di cui all’articolo 1 della direttiva 79/1072/CEE che hanno effettuato nello Stato membro in cui effettuano acquisti di beni e servizi o importazioni di beni gravati da imposta unicamente cessioni di beni o prestazioni di servizi per le quali il destinatario di

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tali operazioni è stato designato come debitore dell’imposta a norma degli articoli da 194 a 197 e dell’articolo 199, sono anch’essi considerati, ai fini dell’applicazione di detta direttiva, soggetti passivi non stabiliti in tale Stato membro». Tale interpretazione è condivisa anche dall’amministrazione finanziaria che si è espressa per il diritto al rimborso del soggetto estero, nell’ipotesi in cui l’imposta relativa alle operazioni attive poste in essere nel territorio dello Stato sia stata assolta dal cessionario o committente attraverso il meccanismo del reverse charge (Ris. 24 gennaio 2008, n. 17/E in Corr. Trib., 2008, 989 e circ. 16 febbraio 2007, n. 11/E, punto 5.1). Non pare, invece, condivisibile l’interpretazione che ritiene detta facoltà il frutto di una modifica normativa avvenuta con la direttiva 2006/112/CE in quanto, come evidenziato nel terzo considerando della suddetta direttiva, quest’ultima non comporta, in linea di principio, modifiche sostanziali della legislazione esistente. Tra le modifiche sostanziali resesi necessarie a seguito del processo di rifusione non è annoverato, infatti, l’art. 171.

Commissione tributaria provinciale di Varese, sez. XI, 14 settembre 2009, n. 51 Presidente e relatore: Petrucci

Si costituiva l’Agenzia resistente, contestando quanto dedotto da Iva - Esportatore abituale - Acquisti in sospensione controparte e concludendo per il rigetto della domanda. d’imposta oltre i limiti del plafond - Detraibilità del- Osservava in particolare che, proprio in base all’art. 7 del D.Lgs. l’imposta accertata dall’ufficio 18 dicembre 1997, n. 471 (pure citato dall’istante), nel caso di effettuazione di acquisti in sospensione d’imposta oltre i limiti conNel caso di effettuazione di acquisti in sospensione d’imposta oltre i limiti del sentiti, l’operatore era soggetto alla sanzione amministrativa (dal plafond, l’operatore con qualifica di “esportatore abituale” è soggetto alla cento al duecento per cento dell’imposta), fermo, comunque, sanzione amministrativa (dal cento al duecento per cento dell’imposta), ma, «l’obbligo del pagamento del tributo». in base al principio di neutralità, l’imposta sugli acquisti accertata dall’uffi- Instauratosi il contraddittorio, ad esito della pubblica udienza, cio deve essere sempre ammessa in detrazione, anche quando il contribuente, la causa, sulle conclusioni come in atti precisate, è passata in deper il decorso dei termini, sia ormai decaduto dal relativo diritto di detrazio- cisione. ne. Osserva la Commissione che il ricorso è fondato e va quindi accolto per quanto di ragione. [Omissis] Ciò per l’assorbente considerazione che, come puntualmente eccepito dalla difesa dell’istante, l’art. 7 del D.Lgs. 18 dicembre Con ricorso ritualmente notificato la parte impugnava l’avviso 1997, n. 471 – nella parte in cui assoggetta il trasgressore alla sand’accertamento notificatole il 9 ottobre 2008 su istanza della zione amministrativa dal cento al duecento per cento dell’imposta, competente Agenzia delle Entrate per il recupero della maggio- fermo l’obbligo del «pagamento del tributo» – va letto, secondo i re imposta sul valore aggiunto dovuta per l’anno 2003. canoni dell’interpretazione logica e sistematica, nel senso che, per Premesso che con l’anzidetto provvedimento l’ufficio aveva pro- le operazioni che eccedono il plafond disponibile deve, in ogni caso, ceduto al recupero dell’Iva relativa agli acquisti effettuati in so- trovare applicazione il regime ordinario dell’Iva basato, come di spensione d’imposta eccedendo il plafond disponibile, esponeva consueto, sul meccanismo della rivalsa e della detrazione, in modo che: a causa di un errore nel calcolo di detto plafond (erronea- da fare, comunque, salvo il principio della neutralità dell’imposta mente quantificato in seguito all’acquisizione dell’azienda dalla medesima (nel senso che, per il soggetto passivo del tributo, questo propria dante causa), l’esponente aveva indebitamente effettuato è tendenzialmente neutro, nel senso che non costituisce un eleacquisti ed importazioni in sospensione d’imposta per complessi- mento di costo, ma una semplice partita di giro). vi euro 4.067.866,52; avvedutasi del problema, aveva richiesto la Tale criterio vale anche nel caso in cui, come nella presente fatformulazione di una proposta di accertamento con adesione che tispecie, la parte, per il decorso dei termini di legge, sia ormai detenesse conto solo delle sanzioni, ma non del recupero dell’im- caduta dal diritto di detrarre l’imposta assolta sugli acquisti. posta relativa agli acquisti in sospensione d’imposta eccedenti il D’altro canto, la mancata corresponsione dell’Iva non arreca alplafond disponibile; non appena ricevuto l’atto impugnato, aveva cun danno all’erario, posto che, se le fatture di acquisto non fosprontamente definito le sole sanzioni, ritenendo di non essere, in- sero state emesse in sospensione d’imposta, la società ricorrente vece, obbligata al pagamento dell’imposta. avrebbe, comunque, avuto il diritto di detrarre dalla propria Iva Eccepiva in diritto, con ampiezza di argomentazioni difensive: a) a debito (o di chiedere a rimborso) l’Iva a credito di pari amla violazione e la falsa applicazione delle «norme Iva in tema di montare. plafond e di diritto di detrazione» e, segnatamente, degli art. 8 e Correlativamente, il cosiddetto splafonamento non ha determi19 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e dell’art. 7 del D.Lgs. 18 nato alcun risparmio d’imposta a vantaggio della contribuente, dicembre 1997, n. 471; b) la violazione e la falsa applicazione dei dal momento che l’addebito dell’imposta nelle fatture originarie principi nazionali e comunitari in tema di tutela dell’affidamen- sarebbe stato assolutamente neutrale. to e della buona fede. Va perciò dichiarato l’annullamento dell’atto impugnato. Concludeva chiedendo di dichiarare al nullità o di annullare l’at- Sussistono giustificati motivi per dichiarare interamente comto impugnato. pensate le spese di lite.


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Nota 1. L’art. 7, comma 3, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, punisce «con la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento dell’imposta, fermo l’obbligo del pagamento del tributo», chi effettua operazioni senza addebito d’imposta (cioè chi cede beni ad un “esportatore abituale”), in assenza della cd. dichiarazione d’intento, di cui all’art. 1, comma 1, lettera c, del decretolegge 29 dicembre 1983, n. 746, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17. Il comma 4 dello stesso articolo punisce con la stessa sanzione il cd. esportatore abituale, che, acquistando dei beni, e «in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge, dichiara all’altro contraente o in dogana di volersi avvalere della facoltà di acquistare o di importare merci e servizi senza pagamento dell’imposta, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge 18 febbraio 1997, n. 28, ovvero ne beneficia oltre il limite consentito». La sentenza si occupa di un “esportatore abituale” che, per errore, aveva effettuato acquisti ed importazioni in sospensione d’imposta superando il plafond. Non era in discussione l’applicazione della sanzione amministrativa, prevista dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, perché la società, ricevuto l’avviso di accertamento, aveva definito le sanzioni, ai sensi dell’art. 17, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, ma aveva impugnato l’avviso sostenendo che il recupero dell’Iva, senza riconoscimento del diritto di detrazione, viola il principio di neutralità, cui è informato il sistema dell’imposta sul valore aggiunto. L’ufficio, infatti, aveva accertato l’imposta (ossia l’imposta che l’esportatore abituale avrebbe dovuto pagare in via di rivalsa ai suoi fornitori), ma non gli aveva riconosciuto il diritto di detrazione, che avrebbe neutralizzato il pagamento dell’Iva di rivalsa. In tal modo, però, l’imposta incide in modo definitivo sul soggetto passivo, in contrasto con il principio di neutralità dell’Iva. La sentenza annotata afferma un principio fondamentale, e cioè che il recupero dell’Iva, nei confronti di un soggetto passivo che ha indebitamente acquistato beni senza applicazione dell’imposta, comporta il contemporaneo riconoscimento del diritto di detrazione; senza di ciò, l’accertamento è illegittimo, perché viola il fondamentale principio di neutralità, cui è informata l’imposta sul valore aggiunto. Che, in simili casi, debba essere rispettato il principio di neutra-

lità dell’Iva, riconoscendo il diritto di detrazione, è una tesi in linea con pronunce recenti della giurisprudenza comunitaria e nazionale. In tema di inversione contabile, la Corte di Giustizia delle comunità europee, nel caso Ecotrade (sentenza 8 maggio 2008, cause riunite C-95/2007 e C-96/2007, in Giur. It., 2008, 2627, con nota di GIANONCELLI, Il diritto alla detrazione dell’Iva negli acquisti intracomunitari: termine per l’esercizio ed irrilevanza degli inadempimenti formali), ha affermato che, l’art. 18, n. 1, lett. d, della sesta direttiva del Consiglio (Dir. 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE) consentendo agli Stati membri di introdurre specifiche formalità per l’esercizio del diritto a detrazione nel caso di inversione contabile, non ammette che l’inadempimento di quelle formalità possa comportare la soppressione del diritto di detrazione, con pregiudizio della neutralità dell’imposta. Per la Corte, la prassi amministrativa di rettifica e accertamento, in cui il diniego del diritto a detrazione viene riconnesso all’inadempimento di obblighi contabili e di dichiarazione, eccede quanto necessario a conseguire il corretto adempimento degli obblighi comunitari di dichiarazione e versamento, anche in considerazione del fatto che il diritto comunitario consente agli Stati membri di prevedere sanzioni adeguate e proporzionate. Inoltre, in un caso di omessa autofatturazione, anche la Cassazione si è pronunciata nel senso della necessità di garantire la neutralità dell’imposta, riconoscendo il diritto di detrazione, insieme con l’accertamento di un debito Iva, in quanto «appare evidente come ad un’Iva a debito scaturente dall’autofatturazione debba corrispondere una equivalente Iva a credito. Ne deriva che la violazione commessa non è idonea a comportare variazioni nelle risultanze delle liquidazioni (art. 41 comma 5 del D.P.R. n. 633/1972 nel testo aggiunto dall’art. 7 comma 4-bis del D.L. n. 357.94) e pertanto, ferme le sanzioni di cui all’art. 47 comma 1 n. 3, non è dovuto il pagamento dell’imposta» (Cass., sez. trib., 11 agosto 2004, n. 15509, in Corr. Trib., 2004, 3389, con nota di FANELLI, L’imposta dovuta per l’omessa autofatturazione ha natura di sanzione). In sintesi, dai casi esaminati, si estrae un principio generale, che si può formulare nel modo seguente: l’amministrazione finanziaria, quando accerta che un contribuente ha omesso di applicare l’Iva sugli acquisti, nell’accertare il tributo deve contemporaneamente riconoscere il diritto di detrazione, ferma restando l’irrogazione della sanzione.


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PROCESSO TRIBUTARIO IL “DEFINITIVO” ORIENTAMENTO IN TEMA DI GIURISDIZIONE TRIBUTARIA SUL FERMO AMMINISTRATIVO 15

Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 13 febbraio 2009, n. 44 Presidente: Cigarini - Relatore: Mottola

Processo tributario - Ricorso contro fermo amministrativo di veicoli e natanti - Questioni di natura tributaria - Giurisdizione delle Commissioni tributarie Violazione di disposizioni non tributarie - Contravvenzioni codice della strada - Giurisdizione ordinaria (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 86; D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 1, lett. e-ter) La giurisdizione tributaria ha per oggetto le sole questioni attinenti alla materia tributaria, ossia alle prestazioni patrimoniali imposte, da un lato correlate a un’esigenza di concorso alle pubbliche spese ex art. 53 Cost. e dall’altro contrassegnate dai requisiti della autoritatività e della coattività ex art. 23 Cost.; pertanto, il giudice tributario non ha giurisdizione sulle impugnazioni di una cartella di pagamento e di un fermo amministrativo relativi a contravvenzioni al codice della strada, che appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario. Con rituale ricorso, in data 7 luglio 2008, il signor [...] adiva questa Commissione tributaria per l’annullamento: - del provvedimento di fermo amministrativo iscritto il 22 marzo 2007 ad istanza di U. S.p.A. ora E. S.p.A., ex art. 86, D.P.R. 602/1973, sugli autoveicoli targati [...] e [...] di proprietà del ricorrente e del coniuge signora [...]; - della cartella esattoriale 070/2000/00614294/68/000 avente ad oggetto tasse di registro anno 1995; - della cartella esattoriale 070/2000/00601574/89/000 avente ad oggetto contravvenzioni al codice della strada anno 1995; - della cartella esattoriale 070/2001/00711819/19/000 avente ad oggetto Irpef e contributo sanitario nazionale anno 1993; - della cartella esattoriale 070/2003/10009654/52/000 avente ad oggetto Iva, Irpef e contributo sanitario anno 1997; - della cartella esattoriale 070/2003/00025934/68/000 avente ad oggetto tasse di registro anno 1993; - della cartella esattoriale 070/200500042902/76/000 avente ad oggetto contravvenzioni al codice della strada anno 2001; - della cartella esattoriale 070/2005/00953550/68/000 avente ad oggetto contravvenzioni al codice della strada anno 2001. Precisava che in data 6 giugno 2008 recandosi all’agenzia Aci per pagare il bollo dell’autovettura targata [...] apprendeva della trascrizione del provvedimento di fermo auto ad istanza di E. S.p.A. Si portava presso i locali, uffici di E. e veniva a conoscenza dell’esistenza delle suddette cartelle emesse nei suoi confronti ma mai ricevute. Su sua richiesta venivano prontamente rilasciati gli estratti di ruolo e dall’analisi dei dati in essi riportati riscontrava irregolarità nella procedura esattiva e più specificatamente nella formazione dei ruoli e delle notifiche. Eccepiva, pertanto, la mancata notifica del fermo e delle cartelle chiedendo la cancellazione del fermo e l’annullamento delle cartelle per inesistenza della notifica o per irritualità della stessa essendo avvenuta in luogo diverso dal domicilio fiscale del contribuente, in aperta violazione dell’art. 60, D.P.R. 600/1973, l’annullamento delle cartelle per palesi irregolarità nella proce-

dura esattiva e nella notifica e dichiarare l’intervenuta prescrizione del credito illegittimamente azionato da E., con rifusione delle spese di giudizio. Si costituiva in giudizio l’E. S.p.A. che chiedeva, in via preliminare, di accertare la tardività con cui sono state proposte le doglianze attinenti le cartelle di pagamento e dichiarare l’inammissibilità del ricorso; di dichiarare, ancora in via preliminare, il difetto di legittimazione passiva dell’agente della riscossione e, conseguentemente, l’improcedibilità e/o inammissibilità di qualsivoglia domanda svolta nei riguardi dello stesso attinente il merito della pretesa a carico del signor [...] e , dichiarare la correttezza del proprio operato con conseguente rigetto del ricorso e, in ogni caso, respingere qualsiasi domanda formulata nei confronti di E. S.p.A., in quanto infondata in fatto ed in diritto. Il ricorso merita parziale accoglimento. La Commissione osserva che l’evoluzione della giustizia tributaria è stata segnata, a partire dal riconoscimento delle Commissioni tributarie quali organi sicuramente giurisdizionali, da due linee di fondo: la prima, costituita dal progressivo adeguamento del processo tributario al processo civile; la seconda dal continuo ampliamento della cognizione della giurisdizione tributaria. La Corte costituzionale posta di fronte al problema della estensione della giurisdizione delle Commissioni tributarie a seguito della riforma del 1992 circa una possibile violazione dell’art. 102 della Costituzione, con ordinanza n. 144 del 1998, dichiarò manifestamente infondata la questione e ribadì, tra l’altro, che le Commissioni tributarie sono il risultato di quel processo di revisione previsto dalla VI disposizione transitoria per i giudici speciali preesistenti alla Costituzione, ritenendo, quindi, che fosse legittimo l’ampliamento della giurisdizione purché si rimanesse nell’ambito della materia tributaria, sì da non snaturare l’oggetto della cognizione. Ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 (come modificato dall’art. 12, legge 448 del 2001 e dall’art. 3-bis della legge 2 dicembre 2005, n. 248 di conversione del D.L. 30 settembre 2005, n. 203) «appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie [...] comunque denominati». La delimitazione della giurisdizione tributaria deriva, dunque, dall’appartenenza della prestazione non ad un elenco nominativamente prefissato di tributi, ma alla materia genericamente indicata dei «tributi di ogni genere e specie». L’espressione riprende quella sostanzialmente equivalente, di «imposte e tasse», anch’essa generica, contenuta nel comma 2, dell’art. 9, c.p.c. L’ampliamento della giurisdizione si è sempre mal raccordata con la previsione delle parti del processo (art. 10) e degli atti impugnabili (art. 19). Ai problemi di raccordo dell’art. 2 con gli artt. 10 e 19 del D.Lgs. 546/1992 ha dato risposta la Corte di Cassazione sin dal 2000. La Cassazione a sezioni unite con la sentenza n. 16776 del 9 giugno 2005 ha dichiarato che va sempre riconosciuta la giurisdizione del giudice tributario in presenza di una controversia che riguardi uno specifico rapporto tributario o sanzioni inflitte da


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uffici tributari. Con la sentenza n. 11082 del 15 maggio 2007 le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno ribadito che il giudice tributario ha competenza esclusiva e generale, non circoscritta ad alcuni aspetti, per tributi e tasse di ogni tipo e tale competenza è indipendente dalla denominazione del tributo o dal contenuto della domanda presentata dai ricorrenti. Con la sentenza n. 13902 del 14 giugno 2007 le medesime sezioni unite hanno stabilito che l’art. 12, comma 2, della legge 448/2001 ha attribuito ai giudici tributari la cognizione su tutte le liti aventi ad «oggetto le sanzioni amministrative comunque irrogate da uffici finanziari», individuando così la giurisdizione tributaria non con riferimento alla materia della controversia ma in relazione all’organo competente ad irrogare la sanzione. Principio ribadito da altra sentenza delle sezioni unite n. 24398 del 23 novembre 2007 «in quanto il novellato art. 2 del citato D.Lgs. 546/1992 con l’impiego dell’avverbio comunque prevede che tale giurisdizione sussiste, in via residuale, anche con riferimento all’organo – Agenzia delle Entrate – che applica una sanzione amministrativa in ordine ad infrazioni commesse in violazione di norme di svariato contenuto, non necessariamente attinenti a tributi». In altre parole il Supremo Organo, cui la legge (art. 41, c.p.c.) demanda la risoluzione delle questioni sulla giurisdizione, ribadisce la legittimità costituzionale di quelle disposizioni che estendono la giurisdizione tributaria a controversie legate da una connessione stretta ad organi fiscali. La funzione nomofilattica attribuita alla Cassazione avrebbe comportato e comporterebbe che debba essere considerata come diritto vivente l’interpretazione della norma esonerando la Commissione tributaria dall’obbligo di ricercare divergenti interpretazioni. Ma poiché varie Commissioni, di tanto in tanto, ritengono di sollevare questioni di legittimità costituzionale, la Corte costituzionale, con varie ordinanze, continua, ancora ultimamente, (sentenze n. 64 e 130 del 2008) a ribadire che non appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie che conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria. Niente rapporto tributario, niente giurisdizione tributaria. Diversamente, saremmo di fronte ad un giudice speciale. La Commissione rileva che il comma 26-quinquies dell’art. 35 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 convertito, con modificazioni nella legge 4 agosto 2006, n. 248 ha aggiunto all’articolo 19 del D.Lgs. 546/1992 due ulteriori ipotesi di atti impugnabili di fronte alle Commissioni tributarie. In particolare è stata introdotta la possibilità d’impugnazione degli atti anche nei casi in cui, decorso il termine per il pagamento della cartella notificata, agli effetti della riscossione dei tributi, sulla base del ruolo si procede a iscrizione di ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati, di cui all’art. 77 del D.P.R. 602/1973 e successive modificazioni (e-bis) ovvero si esegue il fermo dei beni mobili registrati appartenenti ai medesimi soggetti, di cui all’art. 86 del D.P.R. 602/1973 (e-ter). Appare opportuno rilevare che la sopraindicata modifica normativa è entrata in vigore a partire dal 12 agosto 2006. In assenza di norme transitorie, l’articolo 19 così come novellato, si applica a tutti i ricorsi presentati a partire da tale data. Infatti, ai sensi dell’art. 5 del Codice di procedura civile, applicabile al giudizio tributario in base al richiamo di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 546 del 1992, la giurisdizione si determina avuto riguardo alla legge vigente al momento della proposizione della domanda. Con riferimento al suddetto art. 19, stante la connotazione impugnatoria (quantomeno formalmente) del processo tributario, si è sempre ritenuto che fosse condizione indispensabile per adire il giudice tributario la impugnazione di uno degli atti in esso indicati, quale tramite per procedere all’esame del rapporto tributario. La disputa circa la natura della giurisdizione tributaria, vale a dire se sia giurisdizione sull’atto o sul rapporto è stata da tempo

composta dalla Corte di Cassazione con l’affermazione che la giurisdizione è sull’atto allorquando si limita a valutare la legittimità del provvedimento, mentre è sul rapporto quando scende ad esaminare l’an e il quantum della pretesa tributaria. La disposizione della legge n. 248/2006 pareva assumere un significato razionale in quanto con tale norma il legislatore intendeva intervenire risolutivamente e definitivamente in una materia fonte di insanabili contrasti, attuando un intervento chiarificatore ai fini dell’attribuzione della giurisdizione e che, con lo scopo di rendere effettiva la tutela del cittadino di fronte ad un atto autoritativo, consentito al creditore nei confronti del debitore, voleva eliminare tali contrasti attribuendo la giurisdizione alle Commissioni tributarie in ogni caso di fermo amministrativo, azionato sia per crediti di natura tributaria sia per crediti di natura non tributaria, così come consentito dall’assenza di una definizione legislativa di tributo e dalla constatata ampiezza della nozione di tributo quale emerge in relazione a diverse norme anche di rango costituzionale. L’intervento così attuato pareva rispondere ai principi dello Statuto dei diritti del contribuente. Ma in data 5 giugno 2008 con ordinanza n. 14831 la Corte di Cassazione a sezioni unite, tenendo ben presente quanto precisato, da sempre, dalla Corte costituzionale, ha affermato il seguente principio di diritto: «il giudice tributario innanzi al quale sia stato impugnato un provvedimento di fermo di beni mobili registrati ai sensi del D.P.R. 602/1973, art. 86, deve accertare quale sia la natura – tributaria o non tributaria – dei crediti posti a fondamento del provvedimento in questione, trattenendo, nel primo caso, la causa presso di sé, interamente o parzialmente (se il provvedimento faccia riferimento a crediti in parte di natura tributaria e in parte di natura non tributaria), per la decisione di merito e rimettendo, nel secondo caso, interamente o parzialmente, la causa innanzi al giudice ordinario, in applicazione del principio della translatio iudicii». Questo giudice ritiene che l’iscrizione ipotecaria ed il fermo amministrativo che sono «mezzi preordinati all’esecuzione forzata» (Cass., sez. un., n. 2053 e n. 14701 del 2006) quand’anche azionati per crediti ritenuti di natura non strettamente tributaria presentano quei caratteri di inerenza e di connessione con la materia tributaria sufficienti ed idonei a giustificarne l’attrazione nella giurisdizione tributaria. Infatti, in ordine alla riscossione delle entrate di natura non strettamente tributaria da parte di enti diversi dello Stato riscuotibili per legge mediante ruoli, nelle forme e con la procedura stabilita per le imposte dirette e in relazione alle quali si procede con il fermo amministrativo, è proprio l’adozione di tale procedura di cui al D.P.R. 602/1973 a consentire di ravvisare quei caratteri. In virtù della novità introdotta con “il decreto Bersani” il ricorrente ha chiamato a conoscere delle questioni concernenti il fermo amministrativo disposto sulle due autovetture di cui è comproprietario, questo giudice tributario, che, però, non potendo non adeguarsi al suddetto principio enunciato dalle sezioni unite, deve limitare il suo giudizio alle sole questioni attinenti alla materia tributaria che, tradizionalmente, coincide con la categoria dei “tributi”. Per l’individuazione di tale categoria, bisogna fare riferimento all’elaborazione della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione che, ancora oggi, dopo un dibattito secolare, non riescono a definire compiutamente l’esatto confine. A parere di questo Collegio, volendo cercare un comune denominatore della categoria, si può trovarlo in tutte le prestazioni patrimoniali imposte, da un lato correlate a un’esigenza di concorso alle pubbliche spese ex art. 53 Cost. e dall’altro contrassegnate dai requisiti della autoritatività e della coattività ex art. 23 Cost. Venendo al caso in esame, la Commissione, esaminata la documentazione prodotta, osserva che in data 12 giugno e 11 luglio


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2008 E. S.p.A. ha disposto la revoca del provvedimento di fermo amministrativo iscritto in data 22 marzo 2007 sulle due autovetture di cui il ricorrente è comproprietario. Pertanto non può che dichiarare cessata la materia del contendere relativamente al fermo. Per quanto riguarda le cartelle, la Commissione, in primis, osserva che non sono state regolarmente notificate al sig.[...]. Infatti sin dal 2 agosto 1997 il ricorrente ha avuto residenza nel comune di [...] alla via [...] e non ha mai variato abitazione. E. S.p.A., pur apparendo sul frontespizio dell’estratto di ruolo via [...] 30/1 ha notificato, invece, le cartelle in via [...] 30/3 dove non esiste abitazione, anche se è stata tratta in inganno dalle risultanze anagrafiche del Comune di [...] che in un certificato di residenza rilasciato il 17 ottobre 2001 aveva indicato che il signor [...] «è residente in questo Comune dal 2 agosto 1997 con provenienza da Torino in via [...]». Il Comune di [...] con attestazione rilasciata in data 25 giugno 2008 dal dirigente responsabile della toponomastica ha precisato che «negli ultimi sette anni la numerazione civica dell’edificio in cui abita il sig. [...] è stata oggetto di alcune modifiche e ripristini della numerazione di prima assegnazione». Inoltre, con altra attestazione rilasciata dal medesimo responsabile della toponomastica in data 22 settembre 2008 ha precisato che dalla data del 5 luglio 2000 all’ingresso condominiale ove risiede il signor [...] risulta installato il civico 30/1. Comunque, non riuscendo E. a notificare gli atti tramite posta ha proceduto alla notifica ai sensi dell’art. 140, c.p.c. La Commissione osserva che in materia tributaria gli atti devono essere notificati con le modalità prescritte dall’art. 60 del D.P.R. 600/1973 che al comma 1 dispone che la notificazione deve essere eseguita «secondo le norme stabilite dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile con le seguenti modifiche: a) la notificazione è eseguita dai messi comunali ovvero dai messi speciali autorizzati dall’ufficio delle imposte; b) il messo deve far sottoscrivere dal consegnatario l’atto o l’avviso ovvero indicare i motivi per i quali il consegnatario non ha sottoscritto; c) salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario; d) è in facoltà del contribuente di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti o degli avvisi che lo riguardano; e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del Codice di procedura civile si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione. f) le disposizioni contenute negli articoli 142, 143, 146, 150, e 151 del Codice di procedura civile non si applicano». La procedura di cui all’art. 140, c.p.c., effettuata da E. S.p.A. per la notifica delle cartelle non è assolutamente corretta ed allora questo Collegio deve valutare se è inesistente, come richiesto dal ricorrente, o nulla. In tema di notificazione la violazione delle prescrizioni sulla persona e sul luogo della consegna del plico da notificare è causa di nullità e non di inesistenza. La notificazione è giuridicamente inesistente solo nell’ipotesi in cui l’atto esorbiti completamente dallo schema legale degli atti di notificazione; nel caso in cui sussistano violazione di tassative prescrizioni del procedimento di notificazione (come nella specie, per invio delle cartelle ad un numero civico erroneo della stessa strada e successivamente utilizzando la procedura di cui all’art. 140, c.p.c) la notificazione deve considerarsi nulla (sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28507).

Questo principio generale trova la sua indiscussa applicazione in tutti i campi del diritto. In linea generale, inoltre, è comune affermare che la nullità della notifica viene sanata per il raggiungimento dello scopo. Per il passato la giurisprudenza era divisa sull’argomento, infatti, mentre quella prevalente riteneva che la nullità della notifica poteva essere sanata con effetto ex tunc sul duplice presupposto che il contribuente ha regolarmente esercitato il potere d’impugnazione che l’ordinamento gli riconosce, e, che l’art. 60, 1 comma, D.P.R. 600/1973, relativo alla notificazione richiama espressamente l’art. 137 e seguenti del Codice di procedura civile, così rendendo applicabile l’art. 160, c.p.c. (Cass., n. 11746/2005) quella minoritaria riteneva che gli artt. 156, comma 3 e 160, c.p.c., hanno valenza esclusivamente processuale e quindi non applicabili alla notifica degli atti dell’amministrazione finanziaria come la cartella di pagamento perché atto amministrativo di natura sostanziale e pertanto lo scopo della notifica viene raggiunto con la materiale e regolare notifica dell’atto (Cass., 15 maggio 2003, n. 7558). A dirimere il contrasto è intervenuta la Corte di Cassazione a sezioni unite con la sentenza 19854 del 5 ottobre 2004 precisando che la proposizione del ricorso da parte del contribuente sana il vizio di notificazione dell’atto. Una recente pronuncia della Cassazione (n. 10447 del 23 aprile 2008) pare discostarsi dal suddetto principio, ma questo Collegio intende adeguarsi a quanto stabilito dalle sezioni unite , perché la costituzione della parte, in presenza di un vizio di notificazione dell’atto è l’ipotesi più emblematica e rappresentativa del raggiungimento dello scopo e della sanatoria del relativo vizio. Parte ricorrente non si è limitata ad impugnare il fermo amministrativo per vizio procedurale per la mancata notifica del preavviso e delle cartelle esattoriali presupposte, altrimenti questa Commissione avrebbe applicato il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione a sezioni unite con la sentenza 16412 del 25 luglio 2007 e cioè: «la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile per questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa». Nella predetta sequenza, l’omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale. Con il ricorso in esame il signor [...], utilizzando la disposizione di cui all’art. 19 comma 3, ultimo periodo, D.Lgs. 546/1992, ha impugnato congiuntamente l’atto consequenziale (fermo amministrativo) e gli atti presupposti (cartelle esattoriali) irritualmente notificati ed ha eccepito vizi che inficiano la maggior parte delle cartelle di pagamento. Ebbene il Collegio, da subito, non può che dichiarare il proprio difetto di giurisdizione relativamente alle cartelle non aventi ad oggetto tributi e cioè quelle relative a contravvenzioni al codice della strada in quanto materia di competenza del Giudice di Pace. Pertanto limita il proprio operato alla valutazione degli eventuali vizi attinenti alle cartelle: n. 070/2001/00711819/19/000 avente ad oggetto Irpef e contributo sanitario nazionale, anno d’imposta 1993; n. 070/2003/10009654/52/000 avente ad oggetto Iva-Irpef, contributo sanitario nazionale imposta patrimoniale persone fisiche per l’anno d’imposta 1997; n. 070/2003/0025934/68/000 avente ad oggetto tasse registro anno 1993 e n. 070/2000/ 00614294/68/000 avente ad oggetto tasse registro anno 1995. Premesso che il ricorso è tempestivo in quanto gli atti sono stati impugnati appena avuta conoscenza degli estratti di ruolo consegnati dal Concessionario nel giugno 2008, il Collegio osserva che il contribuente non effettua alcuna contestazione specifica relativamente alla cartella n. 070/2003/00025934/68/000,


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mentre contesta le cartelle n. 070/2000/00614294/68/000 e n. 070/2001/00711819/000 per violazione dell’art. 25 del D.P.R. 602/1973 e l’ultima anche per violazione della legge 156/2005 unitamente alla cartella n. 070/2003/10009654/52/00. Dell’art. 25 del D.P.R. 602/1973 si sono succedute nel tempo tre versioni prima della legge 156 del 31 luglio 2005: una prima versione , in vigore sino al 30 giugno 1999 prevedeva che la notifica della cartella a cura del concessionario dovesse avvenire entro e non oltre il giorno cinque del mese successivo a quello nel corso del quale il ruolo gli era stato consegnato; una seconda versione in vigore dal 1 luglio 1999 prevedeva la notifica entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo alla consegna del ruolo; la terza versione in vigore dal 9 giugno 2001 introdotta dal D.Lgs. 193/2001 non prevedeva più alcun termine per la notifica della cartella. La Corte costituzionale con la sentenza n. 280 del 2005 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 del D.P.R. 602/1973, come modificato dal D.Lgs. 193 del 2001 nella parte in cui non prevede un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento. Ebbene la ratio sottesa alla suddetta pronuncia della Corte costituzionale e dell’intervento legislativo effettuato con il decreto legge 106 del 17 giugno 2005 convertito nella legge 156 del 31 luglio 2005 è senza alcun dubbio quella di fissare un termine massimo all’amministrazione entro il quale portare a conoscenza la pretesa tributaria e decorso inutilmente il quale l’ente impositore decade dalla medesima. Di conseguenza poiché il procedimento della notifica delle cartelle è sempre stato legato ad un atto precedente (consegna dei ruoli all’esattore) a sua volta legati ad atti preesistenti e poiché questa concatenazione di atti è scandita da termini, a partire da ciascuno dei quali decorre il successivo, ne deriva la perentorietà degli stessi.

Quindi poiché la consegna dei ruoli della cartella n. 070/2000/00614294/00 è avvenuta in data 10 agosto 2000 e la notifica risulta effettuata il 14 dicembre 2001, la consegna dei ruoli della cartella n. 070/2001/00711819/19/000 è avvenuta il 25 aprile 2000 e la notifica risulta effettuata il 7 marzo 2002 mentre, ai sensi dell’art. 25 vigente ratione temporis il concessionario le avrebbe dovuto notificare entro il 31 dicembre 2000 la prima ed entro il 31 agosto 2000 la seconda e poiché sia l’anzidetta cartella sia la n. 070/2003/10009654/52/000 risultano notificate oltre il quinto anno successivo a quello di presentazione della relativa dichiarazione non può che disporne l’annullamento. Infine relativamente all’eccezione di prescrizione delle cartelle esattoriali, la Commissione ritiene, al di là del non appropriato richiamo alla legge 335/1995 che all’art. 3 comma 9 regolamenta la prescrizione dei contributi previdenziali, che non sussiste la prescrizione del credito perché le cartelle di pagamento hanno costituito in mora il debitore ex art. 2943 del Codice civile ed hanno interrotto il termine decennale ex art. 2946 c.c. per l’inizio della procedura di riscossione coattiva . In considerazione della reciproca soccombenza sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese di lite. Dichiara cessata la materia del contendere relativamente al provvedimento di fermo. Dichiara il difetto di giurisdizione relativamente alle cartelle aventi ad oggetto contravvenzioni al codice della strada. Annulla le cartelle esattoriali n. 070/2000/00614294/00, n. 070/2001/ 00711819/19/00 e n. 070/2003/10009654/52/000. Conferma l’operato di E. relativamente alla cartella n. 070/2003/ 0025934/68/000. Compensa le spese di giudizio.

Nota di Vito Achilli

del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, che ha sostituto con l’intero titolo II del richiamato D.P.R. n. 602 del 1973 anche il capo III, recante «disposizioni particolari in materia di espropriazione di beni mobili registrati». L’art. 86, al comma 1 è stato poi così sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera q, del D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193: «decorso inutilmente il termine di cui all’articolo 50, comma 1, il concessionario può disporre il fermo dei beni mobili del debitore o dei coobbligati iscritti in pubblici registri, dandone notizia alla direzione regionale delle entrate ad alla regione di residenza». Con questo intervento il legislatore ha attribuito il potere dell’adozione del provvedimento di fermo direttamente allo stesso concessionario, sulla base del semplice mancato pagamento delle somme iscritte a ruolo nei termini di cui all’art. 50, comma 1, del D.P.R. n. 602 del 19733.

1. La Commissione tributaria di Modena ricostruisce l’istituto del fermo amministrativo previsto dall’art. 86 del D.P.R. n. 602 del 1973 che prevede la facoltà del concessionario della riscossione di procedere, decorso il termine di 60 giorni dalla notifica della cartella, alla sottoposizione a fermo amministrativo dei beni mobili registrati del debitore e dei coobbligati1. L’introduzione dell’istituto del fermo amministrativo a fini fiscali per i mobili registrati è da ricondurre all’art. 5, comma 4, lett. e, del D.L. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito nella L. 28 febbraio 1997, n. 30, che ha aggiunto l’art. 91-bis al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 6022. La disciplina dell’articolo appena citato è stata poi trasfusa nell’art. 86 dello stesso D.P.R. n. 602 del 1973 per effetto dell’art. 16

1 Per un approfondimento dell’istituto si veda: GLENDI, Dubbi d’incostituzionalità sui mezzi di tutela nelle liti sui fermi fiscali di veicoli, in Corr. Trib., 2006, 2369 ss.; SERRANÒ, Fermo amministrativo: quale giurisdizione?, in Dir. e Prat. Trib., 2006, II, 521 ss.; BASILAVECCHIA-LUPI, Fermo di beni mobili e giurisdizione tributaria, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 175 ss.; BOLETTO-STEVANATO-LUPI, Il fermo dei beni mobili registrati, tra garanzia della pretesa creditoria e mezzo di pressione in vista dell’adempimento “spontaneo”, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 1307 ss.; STEVANATO, Il fermo degli autoveicoli: semplice strumento dell’esecuzione o eccezionale misura afflittiva per indurre all’adempimento “spontaneo”?, in Dialoghi Dir.

[Omissis]

Trib., 2005, 1143 ss.; FANTOZZI, Nuove forme di tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali: la prospettiva tributaria, in Riv. Dir. Trib., 2004, I, 34 ss. 2 In ambito tributario oltre al fermo oggi previsto dall’art. 86 del D.P.R. n. 602 del 1973 abbiamo altresì il fermo disciplinato dall’art. 23 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 rubricato: «sospensione dei rimborsi e compensazione». Il relativo provvedimento è impugnabile avanti al giudice tributario che può disporne la sospensione ex art. 47 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Altra forma di fermo di natura fiscale, è il fermo previsto dall’art. 38-bis, comma 3, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 in materia di Iva, misura di na-

tura cautelare, limitata alla sola ipotesi di contestazione di specifici reati nei confronti del contribuente. Si ricorda che l’istituto del fermo amministrativo è stato configurato per la prima volta dall’art. 69 del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440 in materia di contabilità di Stato, con natura cautelare, adottato dalla pubblica amministrazione in via di autotutela. Un’altra ipotesi di fermo amministrativo è quella prevista dal codice della strada, approvato con D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 e successive modifiche, il quale all’art. 214 stabilisce che il fermo è applicabile per alcune violazioni per le quali, in sede di constatazione, l’organo di polizia competente prov-


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2. Sin dalla sua introduzione la lacunosa disciplina del fermo amministrativo dei beni mobili registrati ha reso molto complesso individuare con certezza il giudice avente giurisdizione per l’impugnazione dei relativi provvedimenti, in quanto la natura giuridica stessa dell’istituto era controversa4. Un primo orientamento sostenuto dalla Corte di Cassazione a sezioni unite, espresso nella sentenza n. 2053 del 31 gennaio 20065 e confermato anche nella sentenza n. 875 del 17 gennaio 20076, riteneva il fermo un atto del processo di esecuzione in quanto preordinato all’espropriazione forzata e quindi la tutela giurisdizionale nei confronti dello stesso si doveva realizzare dinanzi al giudice ordinario con le forme dell’opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi (art. 57 del D.P.R. n. 602 del 1973). Questo orientamento fu inizialmente condiviso anche dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 4689 del 13 settembre 20057, dove la disciplina del fermo prevista dall’art. 86 del D.P.R. n. 602 del 1973 veniva inquadrata come una funzione cautelare ed anticipatoria degli effetti espropriativi dell’esecuzione, ritenendo la non sussistenza di alcun potere amministrativo, bensì di un diritto potestativo del creditore, appartenente al diritto dell’esecuzione. Successivamente, nel 2006, il Consiglio di Stato ha mutato profondamente orientamento con la decisione n. 4581 del 18 luglio 20068, dove ha ritenuto sussistere fondati argomenti per affermare che il fermo di cui all’art. 86, D.P.R. n. 602 del 1973, è da qualificare come provvedimento amministrativo di autotutela conservativa del patrimonio del debitore tributario e non come strumento di autotutela civilistica in un ordinario rapporto di credito-debito. Il Consiglio di Stato arriva a queste conclusioni motivando che dal quadro normativo di riferimento si evince chiaramente che l’espropriazione forzata prevista dal D.P.R. n. 602 dal 1973 ha connotati peculiari, che l’avvicinano ai procedimenti amministrativi ablatori e dunque a strumenti di autotutela pubblicistica. Il fermo di cui all’art. 86, D.P.R. n. 602 del 1973, viene, quindi, nella pronuncia richiamata considerato dal Consiglio di Stato un provvedimento amministrativo e conseguentemente si afferma la giurisdizione del giudice amministrativo e non quella del giudice tributario, né quella del giudice ordinario. Un terzo orientamento, sostenuto soprattutto da alcune Commissioni di merito, affermava invece la giurisdizione del giudice tributario rilevando che la cognizione dello stesso giudice si estende ra-

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vede direttamente a far cessare la circolazione del veicolo. Avverso tale provvedimento è ammesso il ricorso al Prefetto ai sensi dell’art. 203, Codice della strada e contro l’ordinanza del Prefetto è possibile proporre opposizione dinanzi al giudice ordinario ai sensi degli artt. 22, 22-bis e 23 della L. 24 novembre 1981, n. 689. La Corte costituzionale con la sent. n. 364 del 7 novembre 2008, ha ribadito la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 86 del D.P.R. n. 602 del 1973 in relazione al provvedimento di fermo di beni mobili registrati. Già con l’ord. n. 161 del 18 aprile 2007, aveva dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 86 del D.P.R. n. 602 del 1973, sollevata in riferimento agli artt. 103 e 113 della Costituzione. Sul tema cfr. Comm. trib. prov. di Treviso, sez VIII, 30 giugno 2008, n. 68, in questa rivista, 2009, 2, 224 ss.; Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. I, 25 giugno 2007, n. 399, in questa rivista, 2007, 4, 804 ss. In banca dati fisconline. In banca dati fisconline.

gionevolmente anche agli accessori che si riferiscono al tributo ritenendo le questioni relative al fermo questioni appunto accessorie alla pretesa tributaria9. L’indirizzo era coerente con alcune pronunce della Corte di Cassazione, richiamate anche dalla sentenza della Commissione di Modena qui in annotazione, che avevano ritenuto sussistere la giurisdizione tributaria nelle controversie legate da una connessione stretta ad istituti fiscali. La Cassazione, infatti, a sezioni unite con la sentenza n. 16776 del 9 giugno 200510 aveva dichiarato che va sempre riconosciuta la giurisdizione del giudice tributario in presenza di una controversia che riguardi uno specifico rapporto tributario o sanzioni inflitte da uffici tributari e aveva ulteriormente precisato con la sentenza n. 11082 del 15 maggio 200711 che il giudice tributario ha competenza esclusiva e generale, non circoscritta ad alcuni aspetti, per tributi e tasse di ogni tipo e tale competenza è indipendente dalla denominazione del tributo o dal contenuto della domanda presentata dai ricorrenti12. Il legislatore, preso atto del contrasto giurisprudenziale, è intervenuto con il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, all’art. 35, comma 26quinquies, con il quale ha inserito nell’elenco degli atti autonomamente impugnabili avanti le Commissioni tributarie, contenuto nel comma 1, dell’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il «fermo dei beni mobili registrati», di cui all’art. 86 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 e «l’iscrizione di ipoteca sugli immobili», prevista dall’art. 77 dello stesso decreto. Un corretto inquadramento dell’intervento legislativo, come sostenuto in dottrina13, non può portare a ritenere la sussistenza della giurisdizione delle Commissioni tributarie su tutte le controversie riguardanti il fermo amministrativo dei beni mobili registrati e l’iscrizione ipotecaria sugli immobili, in quanto l’impugnazione del fermo dei beni mobili registrati davanti al giudice tributario è possibile solo a condizione che i crediti garantiti dalla misura del fermo rientrino nella giurisdizione delle Commissioni tributarie come delimitata dall’art. 2 del D.Lgs. n. 546 del 1992 a seguito della modifica apportata dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 dicembre 2005, n. 24814. Infatti, una lettura organica e logica delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 546 del 1992 porta a ritenere che la disposizione introdotta con

7 In banca dati fisconline. 8 In banca dati fisconline. 9 Cfr. Commissione tributaria provinciale di Cosenza, sez. I, 28 maggio 2003, n. 397, in banca dati fisconline. 10 In banca dati fisconline. 11 In banca dati fisconline. 12 L’orientamento era però contestato da altra pronuncia dalle stesse sez. un. della Corte della Cassazione (Cass., sez. un., ord. n. 14701 del 26 giugno 2006) sulla base del fatto che l’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 546 del 1992 esclude dalla giurisdizione tributaria le controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e quindi la linea del confine cronologico-processuale oltre la quale il giudice tributario non può spingersi deve essere segnata dalla scadenza del termine per impugnare la cartella. 13 Cfr. DE MITA, Sulle ganasce fiscali il legislatore ha troppa fretta, in Dir. e Prat. Trib., 2006, I, 1321 ss. 14 Sull’interpretazione della novella legislativa del 2006 in tema di fermo cfr. GALLO, La giurisdizione in tema di fermo amministrativo, in

Fisco, 26, 2009, 4253 ss.; MESSINA, L’iscrizione di ipoteca sugli immobili ed il fermo dei beni mobili registrati nella procedura esattoriale e nel processo tributario, in Riv. Dir. Trib., 2008, I, 335 ss.; VOGLINO, La giurisdizione sulle controversie sul fermo amministrativo e sull’iscrizione a ruolo dopo lo scontato ma necessario verdetto della Suprema Corte, in Boll. Trib., 20, 2008, 1559 ss.; RANDAZZO, La perpetuatio iurisdictionis in caso di fermo amministrativo di auto, in Riv. Giur. Trib., 2007, 603 ss.; GIORGI-LUPI, Azioni cautelari del concessionario della riscossione (fermo/ipoteca) e tutela del contribuente, in Dialoghi Dir. Trib., 2007, 1493 ss.; DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in questa rivista, 2007, 427 ss.; CICALA, Riscossione coattiva, fermo amministrativo e ipoteca. Competenza esclusiva del giudice tributario, in Fisco, 2007, 5660 ss.; D’AYALA VALVA, Le ganasce fiscali ed il giudice tributario. Un porto sicuro, un attracco difficoltoso, in Riv. Dir. Trib., 2006, I, 621 ss.; LUPI-INGRAO-DE LORENZI-BUSICO, Novità normative sull’impugnazione del “fermo amministrativo” o dell’iscrizione di ipoteca, e persistenti


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la L. 4 agosto 2006, n. 248 non ha modificato il riparto di giu- del 19 gennaio 201019 ribadisce che il “definitivo” orientamento risdizione in materia di fermo amministrativo. in materia di fermo è che la giurisdizione si ripartisce fra giudice ordinario e tributario a seconda della natura del credito azionato. 3. Successivamente la Corte di Cassazione a sezioni unite, con Questo orientamento è stato confermato in modo ancor più liml’ordinanza n. 14831 del 5 giugno 200815, ritorna sulla questio- pido dal Consiglio di Stato, con la successiva sentenza n. 1620 del ne della giurisdizione in tema di fermo alla luce delle precisa- 12 marzo 201020 ove si afferma che lo stretto collegamento fra la zioni formulate dalla Corte costituzionale con le sentenze 14 misura cautelare costituita dal fermo amministrativo e il diritto, marzo 2008, n. 6416 e del 14 maggio 2008, n. 13017, nelle qua- per la cui provvisoria tutela essa è concessa, comporta che la coli viene ribadito che la giurisdizione del giudice tributario, in ba- gnizione delle controversie ad esso relative deve intendersi attrise all’art. 102, comma 2, Cost., risulta imprescindibilmente col- buita al giudice, cui spetta la cognizione delle controversie sul dilegata alla natura tributaria del rapporto, cosicché l’attribuzio- ritto con esso cautelato e, quindi, al giudice tributario od al giune alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natu- dice ordinario a seconda della natura tributaria o meno dei crera tributaria, comporta la violazione del divieto costituzionale di diti, ovvero ad entrambi se il provvedimento di fermo si riferisce istituire giudici speciali. La Consulta precisa che non apparten- in parte a crediti tributari ed in parte a crediti non tributari. gono alla giurisdizione tributaria le controversie che conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria. 4. Tanto premesso, la sentenza della Commissione provinciale di Niente rapporto tributario, come ricordano i giudici della sen- Modena non si discosta dall’orientamento giurisprudenziale ortenza qui in annotazione, niente giurisdizione tributaria. Diver- mai da ritenersi “definitivo”, che ritiene che la giurisdizione in samente, saremmo di fronte ad un giudice speciale. materia di fermo amministrativo vada attribuita alle CommissioLa Cassazione nella ordinanza supra citata18, afferma che il giu- ni tributarie solo nel caso in cui il predetto provvedimento sia dice tributario innanzi al quale sia stato impugnato un provvedi- correlato all’iscrizione a ruolo di crediti di natura tributaria, comento di fermo di beni mobili registrati ai sensi dell’art. 86 del sì dovendosi interpretare l’art. 19, comma 1, lett. e-ter del D.Lgs. D.P.R. n. 602 del 1973 deve accertare quale sia la natura, tribu- 546 del 1992, introdotto dal D.L. n. 223 del 2006. taria o non tributaria, dei crediti posti a fondamento del provve- Inoltre, è ormai pacifico in giurisprudenza, quanto in dottrina, che dimento in questione, trattenendo la causa presso di sé intera- se in un unico atto impositivo sono incluse più pretese di varia namente o parzialmente solamente per i provvedimenti di fermo tura, tributaria e non, ciascuna di queste pretese conserva una piedisposti in relazione a crediti tributari. Allo stesso modo deve na autonomia e il regime delle impugnazioni è identico a quello comportarsi il giudice ordinario eventualmente adito. Inoltre, che troverebbe applicazione ove fossero notificati più atti. Un provprecisa la Cassazione che il debitore, in caso di provvedimento di vedimento di questo genere (atto contenente più pretese), in diritto fermo che trovi riferimento in una pluralità di crediti di natura amministrativo deve essere ricondotto alla categoria degli atti pludiversa, può proporre originariamente separati ricorsi innanzi ai rimi, caratterizzati dall’essere manifestati verso l’esterno con un giudici aventi diversa giurisdizione. unico provvedimento, ma che conservano una loro identità. La Cassazione ritiene quindi sussistere la necessità di una lettura La Commissione tributaria Provinciale di Modena riafferma inolintegrata degli artt. 2 e 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992 e la per- tre in modo chiaro e inequivocabile il principio secondo il quale le durante correlazione della giurisdizione tributaria alle sole con- Commissioni tributarie sono organi speciali di giurisdizione e la troversie concernenti tributi, sia pure di ogni genere e specie, co- giurisdizione esclusiva delle stesse è limitata alle controversie nelle munque denominati. Le controversie relative al fermo dei beni quali venga in considerazione un tributo di ogni genere e specie mobili registrati possono essere conosciute quindi dal giudice tri- non potendosi estendere a materie diverse da quella tributaria. butario solo se concernenti crediti da tributi, secondo quella che Quindi nel caso in cui un ricorso sia azionato a fronte di cartelle appare l’unica lettura costituzionalmente orientata della norma. esattoriali, relative a sanzioni amministrative pecuniarie per violaIl giudice tributario deve infatti essere giudice «di tutti i tributi» zione del codice della strada, il giudice tributario deve rilevare il die non giudice «di tutti gli atti» della pubblica amministrazione. fetto di giurisdizione in quanto ciò che rileva al fine di individuare Da ultimo, la Cassazione a sezioni unite con la sentenza n. 679 il giudice competente è il rapporto sottostante21.

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criticità nella difesa del contribuente, in Dialoghi Dir. Trib., 2006, 1267 ss.; SERRANÒ, Ancora sulla giurisdizione in materia di “fermo fiscale” sugli autoveicoli, in Dir. e Prat. Trib., 2006, II, 1330 ss.; BRANDOLINI, Il fermo amministrativo, Padova, 2009, 108 ss. In banca dati fisconline. Cfr. TESAURO, In tema di limiti della giurisdizione tributaria, nota a Corte cost. 14 marzo 2008, n. 64, in Giur. It., 2008, 10, 2349 ss. In banca dati fisconline. Sempre in tema di fermo di beni mobili registrati, bisogna ricordare che la Corte di Cassazione a sezioni unite, con una pronuncia molto controversa (ord. n. 3171, del 11 febbraio 2008), ha sostenuto che possono essere attribuite ai giudici tributari tutte le controversie che rientrano nella materia tributaria latamente intesa, ivi comprese quelle che derivino dall’applicazione di sanzioni conseguenti a violazioni di carattere tributario, nonché quelle che riguardino atti “neutri”, cioè utilizzabili a sostegno di qualsiasi

pretesa patrimoniale, anche non tributaria, della pubblica Amministrazione. Già precedentemente, con la sentenza n. 13902 del 14 giugno 2007 le medesime sez. un.. avevano aderito a questo discutibile orientamento affermando che l’art. 12, comma 2, della legge 448 del 2001 ha attribuito ai giudici tributari la cognizione su tutte le liti aventi ad oggetto le sanzioni amministrative comunque irrogate da uffici finanziari, individuando così la giurisdizione tributaria non con riferimento alla materia della controversia ma in relazione all’organo competente ad irrogare la sanzione. Il principio è stato ribadito anche da altra sentenza delle sez. un. la n. 24398 del 23 novembre 2007 ove si afferma che il novellato art. 2 del D.Lgs. n. 546 del 1992 con l’impiego dell’avverbio “comunque” prevede che la giurisdizione tributaria sussiste, in via residuale, anche con riferimento all’organo della pubblica amministrazione che applica una sanzione amministrativa in ordine ad infrazioni commesse in vio-

lazione di norme di svariato contenuto, non necessariamente attinenti a tributi. 19 In banca dati fisconline. 20 In banca dati fisconline. 21 Il principio è da ritenersi ormai generale e applicabile anche alla giurisdizione contabile, come affermato dalle sez. un. della Corte di Cassazione nella sent. n. 555 del 14 gennaio 2009, ove in riferimento alla giurisdizione su controversie relative al fermo amministrativo di cui all’art. 69, comma 6, R.D. 18 novembre 1923 n. 2440 si rileva che la stessa spetta al giudice al quale è attribuita la cognizione della controversia sul diritto che da detto fermo è cautelato, giacché sussiste uno stretto collegamento tra siffatta misura cautelare ed il diritto per la cui provvisoria tutela essa è concessa. Ne consegue che la controversia relativa al fermo amministrativo posto in riferimento a un contenzioso pensionistico di un pubblico dipendente, spetta alla cognizione della Corte dei Conti quale giudice delle controversia in materia di danno erariale.


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Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. I, 10 settembre 2009, n. 429 Presidente: Varrone - Estensore: Panzini

Processo tributario - Revocazione - Erroneo convincimento del giudice circa il mancato deposito in giudizio di documentazione relativa alla pendenza di causa pregiudiziale - Errore di fatto - Sussistenza (C.p.c., art. 395; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 64) È viziata da errore di fatto, e va revocata, la sentenza che respinga il ricorso proposto dal contribuente contro il ruolo, senza avvedersi del fatto che lo stesso contribuente aveva depositato agli atti documentazione idonea a dimostrare la pendenza di una causa pregiudiziale, che avrebbe imposto la sospensione del processo Fatto La [...] S.p.A. si opponeva alla iscrizione a ruolo e conseguente cartella esattoriale n. [...] notificata il 10 maggio 2006, per il recupero da parte dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di Roma 4, del carico fiscale complessivo di euro 923.795, 266, relativo ad Irap, Irpeg e Irap per gli anni 2000 e 2001. La società sollevava varie eccezioni, tra le quali quella relativa al condono ex lege 289 del 2002, per il quale era pendente il giudizio avverso il diniego della relativa domanda. La Commissione tributaria provinciale di Roma con sentenza n. 15/4/2007 del 26 gennaio 2007, ha accolto il ricorso per l’anno 2000, mentre lo ha respinto per il carico fiscale del 2001. Quindi adiva questa Commissione presentando la documentazione atta, a suo dire, a dimostrare la illegittimità delle iscrizioni a ruolo (tra gli altri, stralcio mod. unico 2002, dichiarazione di condono ex art. 9-bis della legge 289 del 2002, atto di diniego di condono e ricorso avverso tale atto, copia dei versamenti effettuati). La sezione 12 di questa Commissione con sentenza n. 76/12/2008 depositata in data 5 settembre 2008 ha respinto il gravame. Secondo la società, i giudici di seconde cure non avrebbero tenuto conto dei documenti presentati, per cui ha proposto ricorso per revocazione ex art. 395, n. 4 c.p.c., applicabile nel processo tributario alla luce dell’art. 65, comma 2, del D.Lgs. 546 del 1992. Afferma, infatti, che l’esame della citata documentazione avrebbe portato a suo avviso all’annullamento del carico fiscale in trattazione. Sollecita, pertanto, l’accoglimento del ricorso, con vittoria di spese e competenze. L’ufficio non si è costituito. Diritto Nel merito del problema contenzioso a quo, ossia la revoca della sentenza n. 76/12/2008 depositata in data 5 settembre 2008, l’articolo 395 c.p.c. punto 4 invocato, prevede che le sentenze pronunciate in grado di appello possono essere impugnate per revocazione «se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quan-

Nota Fra i vizi revocatori previsti dall’art. 395 c.p.c. e richiamati nel processo tributario dall’art. 64 del D.Lgs. n. 546 del 1992, l’errore di fatto costituisce senza dubbio quello di più frequente applicazione giurisprudenziale. Esso consiste, come la sentenza in esame puntualmente ricorda, in una falsa percezione della realtà da parte del giudice, in una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile che porti ad affermare o a supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e dai do-

do la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare». Assume la parte ricorrente che i giudici di seconde cure non avrebbero tenuto nella giusta considerazione i documenti depositati in atti, con particolare riferimento alla dichiarazione di condono ex art. 9-bis della legge 289 del 2002, all’atto di diniego manifestato al riguardo dall’ufficio finanziario e al contenzioso che ne è seguito. Invero dall’esame del fascicolo il Collegio ha potuto verificare, diversamente da quanto emerge dalla sentenza per la quale è stata chiesta la revoca, che la parte contribuente ha depositato agli atti sin dal ricorso introduttivo, la domanda prodotta, tra l’altro, a sanare la definizione dei ritardati od omessi versamenti ai sensi dell’art. 9-bis della legge n. 289 del 2002, il conseguente diniego espresso dall’Agenzia delle Entrate, ufficio di Roma 4 (prot. n. [...] del 14 marzo 2006), nonché il ricorso proposto contro tale diniego dalla società [...] prodotto alla competente Commissione tributaria provinciale di Roma in data 5 luglio 2006. Invece, dalla sentenza oggetto di ricorso per revoca, si rileva, tra l’altro, che «non vi è certezza che sia stata effettivamente presentata la domanda di condono» e che «né è certo, per mancata documentazione, che il contenzioso avviato riguardi proprio il diniego del condono». È evidente che, nel caso di specie, la sentenza deriva da un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa, così come previsto dall’art. 395, n. 4, c.p.c., per cui va accolto sul punto il ricorso della società, in ciò confortati dall’orientamento del Consiglio di Stato (IV, sentenza n. 4833 del 12 settembre 2007), secondo il quale «l’errore di fatto previsto dall’art. 395, n. 4, c.p.c., applicabile al processo amministrativo, deve consistere nell’affermazione o supposizione dell’esistenza o inesistenza di un fatto la cui verità risulti invece in modo indiscutibile esclusa o accertata in base al tenore degli atti e documenti di causa; deve essere decisivo; non deve cadere su di un punto controverso sul quale si sia pronunciato; deve, infine, presentare i caratteri della evidenza e della obiettività». Tanto considerato, la Commissione ritiene necessario, onde poter definire la questione tributaria a qua, che verte sulla legittimità o meno della cartella esattoriale n. [...], di sospendere il presente giudizio, in attesa di conoscere l’esito di quello instaurato contro il diniego della domanda di condono, ex art. 9-bis, della legge 289 del 2002. Pertanto, sarà cura della parte più diligente di darsi carico di documentare a questa Commissione il pronunciamento, da parte della competente Commissione tributaria provinciale, sull’avvenuto contenzioso. Accoglie il ricorso e per l’effetto sospende il giudizio in attesa dell’esito di quello pendente sulla domanda di condono. cumenti di causa, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti risulti positivamente accertato, e si traduce dunque in un errore meramente percettivo che non coinvolge l’attività valutativa del giudice (Cass., 3 aprile 2009, n. 8180, in Mass., 2009; Id., 19 giugno 2007, n. 14267, ivi, 2007; Id., 9 maggio 2007, n. 10637, ivi, 2007). L’errore di fatto postula l’esistenza di un contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti rispettivamente l’una dalla sentenza impugnata, l’altra dagli atti processuali; deve avere «i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti o documenti di causa, senza ne-


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cessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche»; deve essere «essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l’errore la pronuncia sarebbe stata diversa» (Cass., 26 febbraio 2008, n. 5076, in Nuova Giur. Comm., 2008, I, 1113). Il nesso causale tra errore di fatto e decisione, nel cui accertamento si sostanzia la valutazione di essenzialità e decisività dell’errore revocatorio, non è un nesso di causalità storica, ma di carattere logico-giuridico, nel senso che non si tratta di stabilire se il giudice autore del provvedimento da revocare si sarebbe, in concreto, determinato in maniera diversa ove non avesse commesso l’errore di fatto, bensì di stabilire se, per necessità logicogiuridica, la decisione della causa sarebbe stata diversa, in mancanza dell’errore (Cass., 18 febbraio 2009, n. 3935, in Mass., 2009). Su questi aspetti cfr., nella più recente dottrina tributaristica, TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 274; PISTOLESI, Commento all’art. 64 del D.Lgs. n. 546/1992, in BAGLIONE-MENCHINI-MICCINESI, Il nuovo processo tributario, Milano, 2004, 750; CHIZZINI, Note in tema di errore di fatto e revocazione nel processo tributario, in Riv. Giur. Trib., 1999, 991. Con specifico riguardo al nostro processo, si è ravvisato errore di fatto nella dichiarazione di inammissibilità dell’appello per ritenuto omesso deposito di copia dell’atto presso la segreteria del giudice a quo (Cass., sez. un., 30 giugno 2009, n. 15227, in Riv. Giur. Trib., 2009, 962); nella ritenuta insussistenza di incompletezze, falsità o inesattezze delle scritture contabili, risultanti invece dagli atti di causa (Cass., 2 ottobre 2008, n. 24441, in banca dati fisconline); nella circostanza che la sentenza o l’ordinanza impugnata si fondino su un fatto (l’avvenuta regolare comunicazione della fissazione dell’udienza a tutte le parti costituite) incontestabilmente mai avvenuto (Cass., 23 gennaio 2008, n. 1395, in banca dati fisconline); nel mancato esame di un documento decisivo che il giudice ritenga erroneamente non prodotto (Cass., 18 marzo 2004, n. 5475, in Gius., 2004, 2994).

L’errore può cadere anche sul fatto processuale, ma non deve trattarsi dell’erroneo apprezzamento, implicito o esplicito, di risultanze processuali ben note al giudice. Pertanto, non sussiste errore revocatorio nel caso in cui il giudice ritenga, sulla base della lettura degli atti acquisiti al processo, che l’atto di appello sia stato notificato alla parte personalmente invece che al difensore (Cass., 25 marzo 2005, n. 6511, in Mass., 2005). La legge richiede inoltre che l’errore cada su un fatto che non abbia rappresentato un punto controverso in causa. Non è quindi motivo di revocazione l’errore che coinvolge l’attività valutativa del giudice avente ad oggetto situazioni esattamente percepite nella loro oggettività e già sottoposte al contraddittorio processuale, quale ad esempio la valutazione dell’idoneità del timbro, recante una data ritenuta scarsamente leggibile, ai fini della dimostrazione della tempestiva consegna del ricorso all’ufficiale giudiziario, già oggetto di rilievo in sede di pubblica udienza (Cass., 7 giugno 2006, n. 13303, ivi, 2006). Il caso esaminato dalla sentenza in commento rientra a pieno titolo fra le ipotesi di revocazione per errore di fatto. Una società aveva impugnato un’iscrizione a ruolo deducendone l’illegittimità per diversi motivi, fra cui l’avvenuto condono delle imposte iscritte; il ricorso era stato parzialmente accolto in primo grado, con sentenza confermata in appello; la pronuncia d’appello era stata impugnata per revocazione dalla società sul rilievo che, proprio a causa di un errore nella lettura dei documenti prodotti agli atti, i giudici del gravame avrebbero ritenuto incerto il fatto – risultante invece in modo incontrovertibile dagli stessi documenti – dell’avvenuta presentazione dell’istanza di condono e della successiva impugnazione giurisdizionale del diniego espresso dall’ufficio. La sentenza in esame riconosce l’errore e pronuncia la revocazione della sentenza d’appello. Non pronuncia invece sul merito della controversia, proprio perché la ravvisata sussistenza del vizio revocatorio impone alla Commissione tributaria regionale di sospendere il processo in attesa della definizione della causa pregiudiziale avente ad oggetto il diniego di condono.


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RISCOSSIONE IL PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ LIMITA LA DISCREZIONALITÀ DELL’AGENTE PER LA RISCOSSIONE NELLE ISCRIZIONI IPOTECARIE 17

Commissione tributaria provinciale di Massa Carrara, sez. I, 30 luglio 2009, n. 250 Presidente e Relatore: Pedroni Menconi

Motivi della decisione Riscossione - Iscrizione ipotecaria - Principio di proporzionalità - Applicabilità - Eccesso di tutela Per il ricorrente: previa sospensione dei ruoli, dichiarare la nul(D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77) lità dell’iscrizione ipotecaria e conseguentemente disporne la cancellazione; in subordine ordinare la cancellazione dell’ipoteL’ipoteca iscritta dall’agente per la riscossione a garanzia di un credito era- ca stante la capienza della garanzia già esistente; in ulteriore suriale per il quale siano già stati disposti dei fermi amministrativi su autovei- bordine ridurre l’importo dell’ipoteca fino all’importo ritenuto, coli è da considerarsi sproporzionata rispetto alle effettive esigenze cautelari e di giustizia. Con vittoria di spese ed onorari di.giudizio. tale eccesso di tutela comporta l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria. Per E. S.p.A.: respingere il ricorso perché infondato in fatto ed in diritto. Con vittoria di spese. Svolgimento del processo Nelle more del giudizio la Commissione ha concesso la sospensione dell’atto impugnato ed ha ordinato alle parti di produrre docuIl contribuente ha proposto ricorso avverso iscrizione di ipoteca mentazione attestante le somme ancora effettivamente dovute dal effettuata per l’importo di euro 311.300,88 da E. S.p.A. quale ricorrente. In data 16 dicembre 2008 E. ha depositato memoria atconcessionaria del servizio di riscossione tributi per la provincia testante che l’importo ancora dovuto dal ricorrente ammontava, a di Massa-Carrara. Il ricorrente contesta detta iscrizione facendo tale data, ad euro 177.451,22, comprensivo delle spese di cancelrilevare come essa sia stata richiesta per il doppio dell’importo lazione di ipoteca e ha comunicato che il ricorrente aveva presencomplessivo del credito vantato da diversi enti impositivi allor- tato istanza di rateizzazione del dovuto. All’udienza il ricorrente ché, per gli stessi ruoli, erano già stati effettuati due fermi ammi- ha depositato documentazione attestante che la prima rata delnistrativi su quattro veicoli della sua impresa individuale per eu- l’importo rateizzato è stata pagata per un totale di euro 3.002,66. ro 127.837,00 e per euro 45.722,53, per un totale di euro L’iscrizione ipotecaria, stante la sua funzione di mezzo di conser173.559,71; fa presente che, in conseguenza di detti fermi, parte vazione della garanzia patrimoniale, può essere accomunata al sedel suo debito era stata pagata; contesta che non vi sia stata al- questro conservativo, che viene concesso proprio in funzione della cuna costituzione in mora prima dell’iscrizione ipotecaria, pur fruttuosità dell’esecuzione per espropriazione. Così come un eccesessendo state notificate da oltre un anno la maggior parte delle so nella attuazione della garanzia da parte del creditore sequecartelle. Chiede quindi che sia dichiarata la nullità dell’iscrizione strante legittima la richiesta del debitore di un provvedimento di riipotecaria in quanto l’art. 50 D.P.R. 602/1933, al comma 2, sta- duzione in applicazione del disposto dell’art. 496 c.p.c., così un ectuisce che l’espropriazione iniziata dopo un anno dalla notifica, cesso nella attuazione della garanzia data all’amministrazione della cartella di pagamento deve essere proceduta dalla notifica (iscrizione di ipoteca o fermo) legittima la richiesta di cancellazione di un avviso contenente l’intimazione ad adempiere, avviso che di un’iscrizione ipotecaria effettuata su beni immobili ad ulteriore nel caso di specie non è stato dato. Lamenta inoltre il ricorrente garanzia di un credito già assistito dalla garanzia del fermo di beni un eccesso di tutela rispetto al valore del debito. mobili registrati, allorché il debito del contribuente trovi già ampia Si è costituita E. S.p.A. contestando tutti gli assunti del ricorrente, garanzia in detto provvedimento di fermo, infatti la tutela del diritin particolare sostenendo che l’intimazione ad adempiere debba es- to dell’amministrazione finanziaria non può giungere al punto di sere fatta solamente prima di procedere all’espropriazione mentre ledere l’integrità patrimoniale del contribuente. l’iscrizione ipotecaria avviene nella fase cautelare, anteriore all’ini- La particolarità della controversia giustifica la compensazione zio dell’esecuzione. delle spese di lite. Nota di Domenico Ardolino 1. Premessa Nella concreta fattispecie il contribuente impugnava un’iscrizione ipotecaria, eccependo la sua illegittimità per «eccesso di tutela rispetto al valore del debito», perché l’agente per la riscossione aveva disposto, a garanzia dei medesimi crediti tributari iscritti a ruolo, anche due fermi amministrativi su quattro autoveicoli di proprietà del ricorrente. La Commissione giudicante accoglie la richiesta, affermando che l’apposizione di più vincoli a garanzia del medesimo credito si traduce in un eccesso di autotutela conservativa e comporta un’ingiustificata lesione dell’integrità patrimoniale del contribuente. La sentenza è condivisibile e sollecita delle riflessioni in ordine

alla natura dell’iscrizione ipotecaria, disposta ai sensi dell’art. 77, D.P.R. n. 602/1973, e ai limiti che incontra l’agente per la riscossione nel suo utilizzo. 2. La natura non esecutiva dell’iscrizione ipotecaria La Commissione giudicante afferma che «l’iscrizione ipotecaria, stante la sua funzione di mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale, può essere accomunata al sequestro conservativo, che viene concesso proprio in funzione della fruttuosità dell’esecuzione per espropriazione». Il parallelismo con l’istituto cautelare di diritto comune (artt. 2905 e 2906 c.c. e art. 671 c.p.c.), recepito anche dalla normativa tributaria (art. 22, D.Lgs. n. 472/1997), merita opportune riflessioni, non prima, però, di sottolineare la condivisibile precisazione in ordine alla funzione conservativa della iscrizione ipotecaria.


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Prima dell’aggiunta delle lettere e-bis ed e-ter all’elenco contenuto nell’art. 19 D.Lgs. n. 546/19921, le impugnazioni di fermi dei beni mobili e di iscrizioni ipotecarie2, proposte (nel silenzio legislativo) dinanzi tutti i giudici dell’ordinamento, avevano ingenerato una proliferazione di sentenze contraddittorie3, fino all’intervento delle sezioni unite della Cassazione che avevano affermato la giurisdizione dell’a.g.o., in funzione di giudice dell’esecuzione4. Secondo il giudice del riparto, dalla collocazione delle norme coinvolte deve ricavarsi che il fermo dei beni mobili è preordinato all’espropriazione forzata e quindi la tutela giudiziaria va realizzata davanti al giudice ordinario con le forme dell’opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi; incidentalmente, tali considerazioni sono estese anche all’iscrizione ipotecaria5. Le sezioni unite ricostruiscono fermo ed ipoteca come atti propri della procedura esecutiva esattoriale: ciò è determinante, infatti, per escludere la giurisdizione speciale delle Commissioni tributarie6 ed affermare quella del giudice ordinario, in virtù del riparto delineato dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 546/19927, in base al quale sono sottratte alla giurisdizione tributaria «le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento». Ci si chiede se tale tesi, brevemente riassunta, sia sostenibile dopo la menzionata novella del 2006, che ha modificato l’art. 19 e non anche l’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992: il legislatore, da un lato, aggiunge fermo ed iscrizione tra gli atti impugnabili dinanzi alle Commissioni tributarie, dall’altro conferma che il limite esterno a tale giurisdizione è rappresentato dall’esecuzione esattoriale. Perciò, una coerente interpretazione sistematica dei vigenti articoli 2 e 19 D.Lgs. n. 546/1992 indurrebbe a concludere che gli istituti in parola non possano essere considerati propriamente atti dell’esecuzione, che inizia solo con il pignoramento: in effetti, si tratta di una tesi affermata sia in dottrina8, sia dalla VI sezio-

1 Avvenuta con legge 4 agosto 2006, n. 248, di conversione del D.L. 4 luglio 2006, n. 223; sui nuovi confini della giurisdizione tributaria, si vedano TESAURO, Gli atti impugnabili ed i limiti della giurisdizione tributaria, in questa rivista, 2007, 1, 9 ss.; FIORENTINO, I nuovi limiti interni della giurisdizione tributaria alla stregua dei recenti orientamenti della Corte di Cassazione, in questa rivista, 2008, 2, 223 ss.; AMATUCCI, Le prestazioni patrimoniali locali ed ampliamento della giurisdizione tributaria, in Rass. Trib., 2007, 2, 365 ss.; MUSCARÀ, La giurisdizione (quasi) esclusiva delle commissioni tributarie nella ricostruzione sistematica delle sez. un. della Cassazione, in Riv. Dir. Trib., 2006, II, 33 ss. 2 Si veda DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in questa rivista, 2007, 3, 427 ss. 3 Infatti, tutti i giudici aditi (ordinari, amministrativi e tributari) avevano, con sentenze pronunciate in un arco temporale molto ristretto, sia affermato sia negato la loro giurisdizione in materia; per una rassegna completa si rimanda a MESSINA, L’iscrizione di ipoteca sugli immobili ed il fermo dei beni mobili registrati nella procedura esattoriale e nel processo tributario, in Riv. Dir. Trib., 2008, I, 335 ss. e VOGLINO, Nuove competenze e vecchie questioni sul fermo amministrativo e sull’iscrizione d’ipoteca a tutela della riscossione, in Boll. Trib., 2006, 1361. 4 Cass., sez. un., 31 gennaio 2006, n. 2053; 23

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ne del Consiglio di Stato, che aveva ricostruito fermo di beni mobili ed iscrizione ipotecaria come provvedimenti amministrativi di autotutela conservativa del patrimonio del debitore tributario, espressivi di un potere autoritativo e discrezionale in vista degli interessi pubblici specifici affidati all’agente per la riscossione9. Una molteplicità di circostanze concomitanti e univoche – quali: la necessaria contestualizzazione degli istituti nella peculiare riscossione esattoriale10; la titolarità degli stessi in capo ad un soggetto di diritto privato che però esercita una funzione pubblica; l’attitudine ad incidere direttamente, senza l’intermediazione di un giudice, su situazioni soggettive patrimoniali dei contribuenti – confermano le tesi della dottrina che sottolinea la natura provvedimentale di fermo ed ipoteca11, che non sono meri atti esecutivi, espressione di diritti potestativi del creditore ma, al contrario, riconducibili al potere di autotutela conservativa di cui è titolare l’amministrazione12. 3. Il parallelismo con il sequestro conservativo (artt. 2905 e 2906 c.c. e art. 671 c.p.c.): analogie e divergenze Ai sensi dell’art. 2905 c.c. e dell’art 671 c.p.c. «il creditore può chiedere il sequestro conservativo dei beni del debitore» e «il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore» che comporta l’inopponibilità (nei confronti del procedente) degli eventuali successivi atti di disposizione. Perciò il sequestro conservativo rappresenta un vincolo giuridico sui beni del debitore, e così assolve una funzione di garanzia conservativa, al pari dell’iscrizione ipotecaria. Tuttavia le analogie sembrano fermasi qui: differentemente dall’iscrizione ipotecaria, il sequestro conservativo è, infatti, un istituto cautelare13, previsto per ovviare al pericolo da infruttuosità pratica della sentenza a cognizione piena.

giugno 2006, n. 14701; 17 gennaio 2007, n. 876. In senso conforme si vedano anche Consiglio di Stato, IV sez., 3 febbraio 2006, n. 418 e 431 e V sez., 13 settembre 2005, n. 4689 (annotata da STEVANATO, Il fermo degli autoveicoli: semplice strumento dell’esecuzione o eccezionale misura afflittiva per indurre all’adempimento “spontaneo”? in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 1143 ss.) secondo cui fermo di autoveicolo ed iscrizione ipotecaria rientrerebbero nei diritti potestativi riconosciuti al creditore in una logica di diritto comune; infine, si veda anche Consiglio di Stato, V sez., 24 settembre 2004, n. 7181 (commentata da GLENDI in Corr. Trib., 41, 2004, 3232 ss.) che ha negato la sua giurisdizione sul presupposto della natura tributaria della controversia. «Il fermo amministrativo è atto funzionale all’espropriazione forzata e, quindi, mezzo di realizzazione del credito allo stesso modo con il quale la realizzazione del credito è agevolata dall’iscrizione ipotecaria ex art. 77 del citato D.P.R. n. 602/1973», Cass., sez. un., ordinanza n. 2053/2006 cit., punto 8.2. Dopo aver negato anche quella della giustizia amministrativa, attraverso la riconduzione degli istituti in parola nel quadro dei diritti potestativi privatistici del creditore. Si veda il punto 2.5 della citata Cass., sez. un., n. 14701/2006. GLENDI, commento a Consiglio di Stato, V sez., n. 7181/2007 cit., 3234 Si vedano Consiglio di Stato, VI sez., 18 luglio

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2006, n. 4581 e 13 aprile 2006, n. 2032, quest’ultima annotata da SERRANÒ, Ancora sulla giurisdizione in materia di fermo fiscale sugli autoveicoli, in Dir. e Prat. Trib., 2006, II, 1330 ss. e da GLENDI, Dubbi di incostituzionalità sui mezzi di tutela nelle liti sui fermi fiscali di veicoli, in Corr. Trib., 2006, 2367 ss. Si veda GLENDI, Natura giuridica dell’esecuzione forzata tributaria, in Dir. e Prat. Trib., 1992, I, 2246 ss. In tal senso, si veda DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione, cit., 437, secondo cui «la fase valutativa dell’iscrizione dell’ipoteca, e del fermo si connota per sua natura come specifica articolazione, nell’ambito della riscossione, dell’azione impositiva, per sempre riconducibile allo statuto generale dell’azione amministrativa, dando luogo ad un procedimento in cui l’esattore esercita un potere autoritativo e discrezionale». In effetti, in dottrina è chiara la differenza tra autotutela esecutiva ed autotutela decisoria; quest’ultima, oltre al diritto/dovere di rettifica dei propri provvedimenti (cd. autotutela sugli atti), si esplicita anche in azioni, negatorie o a contenuto positivo, nell’ipotesi in cui il cittadino adotti un comportamento difforme dalla pretesa dell’amministrazione (cd. autotutela sui rapporti); si veda, amplius, BENVENUTI, Autotutela (Dir. Amm.), voce in Enciclopedia del diritto, 1959, 549 ss. Si veda PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, 1999, 655 ss.


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A questo punto è necessaria una precisazione terminologica; infatti, la dottrina prevalente qualifica come cautelari le misure previste dagli artt. 77 ed 86 D.P.R. n. 602/1973. Invero, il dibattito sembrerebbe essersi incentrato soprattutto sul fermo di beni mobili registrati, la cui applicazione ha posto molteplici problemi14 ed ha sollecitato risposte che finanche la giurisprudenza di legittimità ha solo incidentalmente esteso anche all’iscrizione ipotecaria15. Ci si chiede, allora, se sia opportuna la usuale trattazione congiunta dei due istituti, considerando che il fermo ha subito nel corso del tempo rilevanti modifiche ed ha natura molto più incerta16 dell’iscrizione ipotecaria che, viceversa, ha una consolidata tradizione nel diritto comune. Ad ogni modo, la migliore dottrina precisa che tale qualificazione non può avere la stessa accezione propria del diritto processuale comune17; si condivide tale specificazione segnalando che, nella concreta applicazione delle norme, complici anche casi di omonimia18, si corre il rischio di confondere i presupposti e le caratteristiche di tali istituti, cautelari “sui generis”19, con quelli delle misure cautelari in senso stretto, come allorquando si richiede di dimostrare un fumus come condizione di legittimità dell’ipotecaria ex art. 77 D.P.R. n. 602/1973: cioè si pretenderebbe che l’agente per la riscossione motivi in ordine alla non manifesta infondatezza del diritto garantito in un’ipotesi che presuppone un’iscrizione a ruolo, cioè il ricorrere di una fattispecie in cui «(salvo patologie pur sempre possibili) il fisco è certamente creditore ed il contribuente è certamente debitore»20. Al fine di eliminare simili inconvenienti potrebbe risultare utile, allora, applicare sic et sempliciter la tassonomia propria del diritto comune che distingue, in rapporto di specie a genere, tra misure cautelari e mezzi a salvaguardia della responsabilità patrimonia-

14 A partire, come visto, dall’individuazione della giurisdizione competente; in materia si vedano, oltre alla dottrina già citata nelle note precedenti, BASILAVECCHIA, Ancora qualche spunto sul fermo di beni mobili, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 175 ss; FRANZONI, Il fermo di beni mobili registrati, in Dir. e Prat. Trib., 2004, I, 885 ss. ; D’AYALA VALVA, Le ganasce fiscali ed il giudice tributario. Un porto scuro un attracco difficoltoso, in Riv. Dir. Trib., 2006, I, 621 ss.; INGRAO, Le prospettive di tutela del contribuente nelle procedure di fermo e di ipoteca, in Rass. Trib., 2007, 781 ss.; LUPI-INGRAO-DE LORENZI-BUSICO, Novità normative sull’impugnazione del fermo amministrativo o dell’iscrizione di ipoteca e persistenti criticità nella difesa del contribuente, in Dialoghi Dir. Trib., 2006, 1217 ss. 15 Si veda Cass., sez. un., ordinanza n. 2053/2006, citata sub nota 5. 16 Infatti, nella sua disciplina originaria (contenuta nell’art. 91-bis D.P.R. n. 602/1973, introdotto dall’art. 5 D.L. n. 669/1996, e poi trasfusa dal D.Lgs. 26 febbraio 1999 n. 46 nell’art. 86 D.P.R. n. 602/1973) il fermo era indubbiamente strettamente funzionale all’espropriazione forzata, essendo consentito nell’ipotesi in cui fosse impossibile eseguire il pignoramento per mancato reperimento del bene; tale strumentalità è stata attenuata nettamente dal D.Lgs. 27 aprile 2001 n. 193 che ha modificato nuovamente l’art. 86, cit., consentendo l’apposizione del vincolo decorsi solo i sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento. 17 Cfr. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fi-

le21. Mutuando tali categorie, l’iscrizione ipotecaria ex art. 77 D.P.R. n. 602/1973 sarebbe certamente collocabile nell’ambito delle misure conservative, pur non avendo natura cautelare. La dottrina processual-civilistica individua unanimemente la caratteristica essenziale delle misure cautelari nella loro strutturale preordinazione alla tutela giurisdizionale, per garantirne l’effettività. Esse sono infatti indissolubilmente legate ad una richiesta di tutela giudiziale, previste per eliminare gli inconvenienti legati alla sua fisiologica durata, cioè allo scarto temporale tra domanda ed esecuzione del provvedimento di accoglimento, affinché, secondo i notori brocardi chiovendiani22, la durata del processo non torni a danno dell’attore che ha ragione il quale deve ottenere, per quanto possibile, tutto quello e proprio quello che avrebbe diritto di conseguire a livello di diritto sostanziale. Si tratta, quindi, di strumenti inseriti a monte o durante un procedimento giurisdizionale, la cui unica ragione di esistenza è evitare che la richiesta di tutela giudiziale sia compromessa dalla durata necessaria per ottenere un titolo esecutivo e metterlo in esecuzione23. Ciò si traduce, analizzando il diritto positivo, in due distinte funzioni: quella conservativa, per ovviare al pericolo da infruttuosità24 e quella anticipatoria degli effetti della sentenza, per rimediare invece al danno da tardività25. In questo quadro si inserisce il sequestro conservativo: in un contesto di divieto di autotutela privata, il creditore deve chiedere ad un giudice di accertare il suo diritto nei confronti del debitore inadempiente; nel frattempo, ed al fine di neutralizzare eventuali atti fraudolenti di disposizione, posti in essere nello scarto temporale tra domanda e sentenza, chiede al medesimo giudice ordinario l’apposizione di un vincolo sui beni del (presunto) debitore26. La presenza di un rapporto giuridico ancora controverso nel meri-

scale e tutela del contribuente, cit., 431: «È ovvio che le suesposte considerazioni comportano un evidente scostamento rispetto alla teoria tradizionale della tutela cautelare nei rapporti obbligatori, laddove la ratio della misura cautelare è quella di garantire il creditore quando egli ancora non è munito di un titolo esecutivo mediante il quale poter procedere ad esecuzione forzata. Viceversa, come si avrà modo di vedere, l’ipoteca ed il fermo di che trattasi si collocano in una fase in cui il concessionario-esattore dispone già del titolo esecutivo e quindi può procedere immediatamente all’esecuzione forzata». 18 Si pensi all’iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 22, D.Lgs. n. 472/1997, certamente misura cautelare in senso stretto e nettamente diversa dall’omonimo istituto regolato dall’art. 77, D.P.R. n. 602/1973. 19 DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, cit., 431. 20 Così e in termini, DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, cit., ibidem. 21 Intendendo con tale definizione tutti gli strumenti, anche di diritto sostanziale, previsti a salvaguardia dell’art. 2740 c.c., secondo cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. 22 Cfr. PROTO PISANI, Chiovenda e la tutela cautelare, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1988, 16 ss.; Id. Procedimenti cautelari, voce in Enc. Giur., 1991, 12; TOMMASEO, I provvedimenti d’urgenza, struttura e limiti della tutela anticipatoria, Padova, 1983, 135 ss.

23 La tutela cautelare non si esaurisce con l’ottenimento di un comando giudiziale ma può essere funzionale anche alla successiva fase dell’esecuzione; certamente, nell’ambito di un’espropriazione forzata non hanno motivo di esistere strumenti di tipo conservativo perché il creditore, munito di un titolo esecutivo, può compiere direttamente atti di disposizione sul patrimonio del debitore, attraverso il pignoramento, ma hanno natura cautelare, in funzione anticipatoria ovvero acceleratoria, quelle norme che consentono di abbreviare i già celeri termini che scandiscono l’esecuzione giudiziale (si vedano, ad es., l’art. 482 c.p.c., in base al quale il giudice può autorizzare l’esecuzione immediata, senza rispettare il termine dilatorio di 10 giorni dalla notifica del precetto, e l’art. 501 c.p.c. sull’assegnazione e vendita immediata delle cose deteriorabili). 24 Per prevenire il danno derivante dal verificarsi, durante il processo, di fatti lesivi del diritto controverso, preservandolo nella situazione di fatto o di diritto in cui si trova al momento della domanda giudiziale. 25 Cioè il pregiudizio derivante dal perdurare della situazione antigiuridica. 26 Osserva PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 656 ss. che «la norma che meglio di ogni altra consente di individuare il nesso di strumentalità che sussiste tra la misura cautelare in esame e la sentenza a cognizione pine è quella dell’art. 686 c.p.c.: in base a tale disposizione una volta che il creditore sequestrante abbia ottenuto una sentenza di condanna esecutiva, il sequestro si converte automaticamente in pignoramento; quindi il sequestro assolve la


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to, impone al giudice di vagliare, al fine della concessione del provvedimento cautelare (chiesta da un presunto creditore che, all’esito del giudizio di merito, potrebbe anche non risultare tale) la ricorrenza di alcuni requisiti tipizzati, generalmente la non manifesta infondatezza del diritto vantato ed il fondato timore di un danno27. Tutto ciò non ricorre nell’ipotesi prevista dall’art. 77 D.P.R. n. 602/1973 che si inserisce in una sequenza procedimentale in cui l’agente per la riscossione non ha bisogno di un giudice, né per far accertare il suo diritto di credito né per porlo in esecuzione; l’ipoteca28 presuppone, infatti, l’esistenza di un’iscrizione a ruolo che non solo ha natura provvedimentale (ed è sindacata giudizialmente solo in via meramente eventuale) ma è espressamente ed in via speciale titolo esecutivo, ai sensi dell’art. 49 D.P.R. n. 602/1973. E infatti, decorsi sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, l’agente per la riscossione può direttamente pignorare i beni del debitore, così dando inizio all’esecuzione forzata. Nella fase della riscossione a mezzo ruolo sembrerebbe allora mancare ciò che nel diritto comune rende necessaria la previsione di strumenti cautelari: il doversi rivolgere ad un giudice per ottenere l’adempimento coattivo. Perciò, si concorda con chi sottolinea che, sebbene taluni istituti di diritto sostanziale (quali il pegno, l’ipoteca, l’azione revocatoria) siano idonei ad assicurare anche l’effettività della tutela giurisdizionale contro ostacoli che potrebbero derivare dalla durata del processo, tale circostanza non giustifica la confusione con gli strumenti cautelari che, viceversa, sono predisposti proprio e solo a quest’ultimo scopo29. In conclusione, e sempre se si accetti di utilizzare in materia tributaria le medesime categorie elaborate nel diritto comune, bisogna constatare che l’iscrizione ipotecaria ex art. 77, D.P.R. n. 602/1973 ha una chiara funzione di garanzia patrimoniale, ma non può avere natura cautelare30 non essendo funzionalmente strutturale né alla fase costitutiva (procedimentale ed eventualmente giudiziale) del diritto di credito31 né alla fase dell’esecuzione forzata.

ipotecaria, ex art. 77 D.P.R. n. 602/1973, con gli istituti previsti dall’art. 22 D.Lgs. n. 472/1997, recentemente32 resi strumenti cautelari generali, a garanzia di tutti gli importi accertati dall’amministrazione finanziaria33. L’art. 22, D.Lgs. n. 472/1997, appare una trasposizione in materia tributaria34 del sequestro conservativo di diritto comune, prevedendo che l’ufficio accertatore, sulla base di contestazioni formulate in un accertamento o, ancora prima, in un processo verbale di constatazione notificato, possa chiedere al giudice competente35 in caso di «fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito», il sequestro conservativo dei beni del contribuente accertato, nonché l’iscrizione ipotecaria sui suoi beni immobili. Emerge subito un elemento di forte divergenza, rispetto all’art. 77 D.P.R. n. 602/1973: in mancanza di un titolo esecutivo, il legislatore opportunamente attribuisce la titolarità della misura ad un giudice, che valuti in posizione di terzietà gli opposti interessi; inoltre, analogamente al sequestro di diritto comune, la normativa àncora la sorte del vincolo al sopravvivere della pretesa36 e garantisce la continuità tra la fase anteriore all’iscrizione a ruolo e la riscossione coattiva. L’iscrizione ipotecaria ex art. 22 D.Lgs. n. 472/1997 è dunque chiaramente uno strumento cautelare di tipo conservativo, previsto per ovviare al pericolo da infruttuosità, affinché non vada a danno dell’amministrazione finanziaria il lasso di tempo che intercorre tra la formulazione dei rilievi accertati e l’iscrizione a ruolo della conseguente pretesa. Al contrario, l’iscrizione ipotecaria ex art. 77 D.P.R. n. 602/1973 non serve ad ovviare al pericolo da infruttuosità – l’agente per la riscossione è già munito di un titolo esecutivo e può direttamente pignorare i beni del debitore, così sottraendoli alla sua disponibilità – né tantomeno può assolvere una funzione anticipatoria rispetto all’esecuzione e neutralizzare il tempo necessario per espropriare l’immobile, ovviando al danno da tardività:37 non è direttamente strumentale né ad una fase che, seppure impropriamente, si potrebbe definire di “merito”38 né tantomeno all’e4. Raffronto con ipoteca e sequestro conservativo ex secuzione forzata in senso stretto39. art. 22 D.Lgs. n. 472/1997 La comparazione con l’omonima misura prevista dall’art. 22 Tale conclusione sembra confermata dal raffronto dell’iscrizione D.Lgs. n. 462/1997 sembrerebbe allora confermare che l’art. 77

funzione di conservazione del bene solo fino all’emanazione della sentenza, dopo questo momento sarà la sentenza di condanna a produrre gli effetti giuridici ulteriori ed in primo luogo a consentire la messa in moto e la prosecuzione del processo di espropriazione forzata». 27 In taluni casi il giudice è esentato dall’accertare l’esistenza del periculum, presunto dal legislatore al verificarsi della fattispecie prevista dalla norma che regola lo specifico istituto cautelare. 28 A differenza di quella ex art. 22 D.Lgs. n. 472/1997 che sarà esaminata nel prossimo paragrafo. 29 Così ed in termini PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 1999, 630631; cfr. Id., Procedimenti cautelari, cit., 3, «poiché l’esigenza di evitare che la durata del processo torni a danno dell’attore che ha ragione non è altro che una species del più vasto genus costituito dalla esigenza di effettività della tutela giurisdizionale, è possibile che di fatto in concreto la prima esigenza possa essere realizzata da istituti (quali il pegno, l’ipoteca ecc.) genericamente posti a tutela della seconda esigenza».

30 In tal senso si vedano PORCARO, Problemi (e ipotesi di soluzione) in tema di giurisdizione nell’impugnazione del fermo degli autoveicoli, anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004, in Rass. Trib., 2004, 2073 ss. e MESSINA, L’iscrizione di ipoteca sugli immobili ed il fermo dei beni mobili registrati nella procedura esattoriale e nel processo tributario, cit., 342 ss. 31 Ci si riferisce, in estrema sintesi, all’insieme dei procedimenti di accertamento e riscossione, a partire dalla formulazione di rilievi, che sfociano in un avviso di accertamento, la cui pretesa economica è, infine, iscritta a ruolo. 32 Con l’art. 27, commi 5-7, D.L. n. 185/2008, ulteriormente modificato dal D.L. n. 78/2009. 33 Si veda BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, 2009, 296 ss. 34 Nella ratio della riforma del 1997, solo in materia di sanzioni tributarie. 35 Oggi, nei rapporti amministrazione/contribuente solo alle Commissioni tributarie, a seguito della generalizzazione della loro giurisdizione in materia tributaria. 36 Prevedendo che il vincolo perda efficacia se l’ufficio non notifichi la contestazione (evidentemente in caso di ipoteca o sequestro

concesso sulla base del solo Pvc) ed a seguito della sentenza di primo grado di annullamento del provvedimento garantito. 37 Infatti l’agente per la riscossione, ai sensi degli artt. 50 e 77 D.P.R. n. 602/1973, può sia pignorare, (mediante trascrizione e successiva notificazione dell’avviso di vendita, ai sensi dell’art. 78 D.P.R. n. 602/1973 e dell’art. 555, c.p.c.) sia iscrivere ipoteca solo decorsi i sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento; perciò non si condivide la tesi di chi sottolinea il carattere strumentale dell’ipoteca rispetto all’azione esecutiva CANTILLO, Iscrizione di ipoteca e tutela del contribuente, su Rass. Trib., 2007,15: pignoramento ed iscrizione ipotecaria restano su due piani paralleli, autonomi, così come avviene nel diritto civile. 38 Ci si riferisce a tutta la fase procedimentale antecedente all’iscrizione a ruolo; ad essa sono invece strumentali e serventi, come visto, l’iscrizione ipotecaria ed il sequestro conservativo ex art. 22 D.Lgs. n. 472/1997. 39 Irrilevante sotto questo aspetto è il vincolo previsto dal comma 2 dell’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973 secondo cui, nell’ipotesi in cui il credito per cui si precede è inferiore al 5% del valore dell’immobile, l’agente per la riscossione


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D.P.R. n. 602/1973 disciplini uno strumento conservativo che, al pari di altri istituti rinvenibili nel diritto comune (primo fra tutti, l’iscrizione ipotecaria ex artt. 2808 ss., c.c.) è funzionalmente connesso al diritto garantito e solo di riflesso, ed eventualmente, anche al procedimento esecutivo. 5. Raffronto con la tutela reale prevista dagli artt. 2808 ss., c.c. A ben vedere, l’art. 77 D.P.R. n. 602/1973 regola una fattispecie sovrapponibile all’iscrizione ipotecaria giudiziale di diritto comune, estendendo in via eccezionale all’agente per la riscossione, cioè ad un creditore non munito di un titolo esecutivo di provenienza giudiziale, la tutela reale prevista dagli artt. 2808 ss., c.c.40 Si tratta di una norma coerente ad un quadro di autotutela esecutiva esercitata da un soggetto di diritto privato che esercita funzioni pubbliche e può procedere ad espropriazione forzata sulla base di un titolo formato in via amministrativa e solo eventualmente confermato giudizialmente: così come l’art. 49 D.P.R. n. 602/1973 prevede che l’iscrizione a ruolo è titolo esecutivo per procedere ad esecuzione forzata, l’art. 77, D.P.R. n. 602/1973 stabilisce che è anche titolo per iscrivere ipoteca. Sotto questo aspetto, si concorda con chi afferma che le prerogative previste dal citato art. 77 sono espressione dello ius eligendi riconosciuto al creditore, il quale può discrezionalmente decidere di anticipare l’ipoteca al pignoramento ed individuare il bene da vincolare erga omnes ancora prima di aggredirlo41. Tale assunto non sembra affatto incompatibile con la tesi, che qui si afferma, della natura provvedimentale dell’iscrizione ipotecaria accordata all’agente per la riscossione. Va, infatti, semplicemente constatato che si tratta di un concreto esercizio di una potestà attribuita ad un soggetto nell’ambito di una funzione pubblica e con attitudine a ledere direttamente la sfera patrimoniale dei cittadini:42 deve quindi essere ricondotto nell’agire della pubblica amministrazione e regolato dai principi generali dell’azione amministrativa.

deve obbligatoriamente iscrivere ipoteca e può procedere con la vendita forzata solo dopo un termine dilatorio di sei mesi. La strumentalità dell’ipoteca all’esecuzione in questo caso è chiaramente in funzione di garanzia per il debitore, cui viene concesso un ulteriore termine per adempiere prima di subire l’espropriazione. 40Osservando i presupposti e le caratteristiche delle tre ipotesi (legale, consensuale e giudiziale) delineate dall’art. 2808, comma 2, c.c., sembrerebbe che l’ipoteca consentita all’agente per la riscossione sia più simile alla giudiziale e che l’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973 sia una norma di deroga (dell’art. 2808, c.c.) in sintonia con l’eccezionalità dell’esecuzione tributaria rispetto a quella civile: la prima fondata su un provvedimento amministrativo unilaterale (l’iscrizione a ruolo), la seconda incentrata sul titolo esecutivo di natura giudiziale (si veda RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano 2005, 239, secondo cui il citato art. 77 introduce una deroga alle regole in materia di diritti di prelazione attribuendo rilievo alla sola volontà del creditore). Un giudice di merito (Tribunale di Vicenza, sentenza del 5 luglio 2007, riportata da CANNIZZARO, Sull’iscrizione di ipoteca nella fase di riscossione, in Riv. Dir. Trib., 2008, II, 262 sub nota 28) ha condivisibilmente osservato che l’ipoteca in questione trova fondamento nella legge solo ai fini del-

6. Il controllo di legittimità sui provvedimenti di iscrizione di ipoteca L’agente per la riscossione dispone di ampi margini di apprezzamento in ordine all’an, al quid ed al quantum43 ma tale discrezionalità è sottoposta al controllo giudiziale. La scelta di iscrivere o meno ipoteca non è direttamente sindacabile perché, come precisato, rientra nello ius eligendi dell’agente per la riscossione, che non è tenuto a dimostrare né una prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato alla libera disponibilità del bene (già decisa dal legislatore che con l’art. 77, D.P.R. n. 602/1973 equipara l’iscrizione a ruolo alla sentenza esecutiva di condanna), né tantomeno un periculum in mora44. Tuttavia, è accertabile giudizialmente l’esistenza o il persistere dell’interesse pubblico alla riscossione45, attraverso una verifica dei presupposti esterni, qualora il ricorrente contesti l’esistenza del titolo che legittima l’iscrizione dell’ipoteca, eccependo fatti satisfattori o estintivi successivi all’iscrizione a ruolo46. Si ritiene, inoltre, certamente sindacabile il concreto esercizio di tale ius eligendi. La verifica sul quid e sul quantum esalta infatti le caratteristiche del giudice speciale tributario il quale non soltanto può accertare il vizio di eccesso di potere, secondo il canone di proporzionalità e del dovere di graduazione della coazione, ma può anche sostituirsi all’agente per la riscossione e modificare il provvedimento impugnato, ad esempio riducendo il numero degli immobili ipotecati, qualora accerti una sproporzione tra il credito iscritto a ruolo ed il valore dei cespiti aggrediti47. Sotto questo profilo risulta paradigmatica la sentenza annotata che annulla, per eccesso di tutela, un’iscrizione ipotecaria disposta sulla base di un’iscrizione a ruolo già garantita da due precedenti fermi amministrativi su quattro autoveicoli di proprietà del contribuente. È evidente, allora, come la verifica dei tre requisiti tipici, che consentono di accertare la proporzionalità della misura (idoneità, necessarietà e adeguatezza)48, possa condurre anche ad un giudizio sull’an: in presenza di diversi provvedimenti adottati a garanzia del medesimo credito, il giudice può constatare la non necessità di tale tutela plurima, che si traduce in un’ingiustifica-

la piena equiparazione del titolo amministrativo (il ruolo) al titolo giudiziale, mentre è sempre in base ad un atto volontario del concessionario che viene iscritta e non direttamente in forza della norma di legge; perciò conclude nel senso di un’equiparazione all’ipoteca giudiziale. Secondo altra parte della dottrina (CANTILLO, Iscrizione di ipoteca e tutela del contribuente, cit., 13) si tratterebbe invece di un’ipoteca legale perché prevista dalla legge sulla base di un provvedimento amministrativo; però, seguendo tale ragionamento, bisognerebbe qualificare come legali tutte le iscrizioni ipotecarie perchè anche quelle consensuali e giudiziali sono previste dalla legge sulla base, rispettivamente, di un atto di autonomia privata o di un titolo esecutivo giudiziale: in altri termini, è sempre la fonte normativa che seleziona il fatto o atto previsto come presupposto legittimante l’iscrizione. 41 CANTILLO, Iscrizione di ipoteca e tutela del contribuente, cit., 15 ss. 42 Cfr. GIANNINI, Diritto amministrativo, II, Milano 1993, 236. 43 Si veda PORCARO, Problemi (e ipotesi di soluzione) in tema di giurisdizione nell’impugnazione del fermo degli autoveicoli, cit., 2085, seppure con riferimento al provvedimento di beni mobili registrati. 44Pur non volendo considerare le considera-

zioni esposte nei paragrafi precedenti in merito alla natura cautelare, invero sembrerebbe strano che l’agente per la riscossione, al sessantunesimo giorno dalla notifica della cartella di pagamento, possa liberamente pignorare l’immobile del debitore (artt. 50 e 78 D.P.R. n. 602/1973) ma debba invece dimostrare un fondato pericolo per la riscossione per apporre, sul medesimo immobile, un vincolo meno invasivo quale l’iscrizione ipotecaria. 45L’iscrizione ipotecaria resta sempre, infatti, specifica articolazione, nell’ambito della riscossione, della potestà impositiva; cfr. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo della riscossione, cit., 438. 46Si pensi allo sgravio dell’iscrizione a ruolo, disposto dall’ente impositore in autotutela o a seguito di sentenza di annullamento, ma ancora non comunicato all’agente per la riscossione. 47 Cfr. CANTILLO, Iscrizione di ipoteca e tutela del contribuente, cit., 18 ss. e VOGLINO, Nuove competenze e vecchie questioni sul fermo amministrativo e sull’iscrizione d’ipoteca a tutela della riscossione, cit., 1363. 48Si vedano, in particolare, MALINCONICO, Il principio di proporzionalità, in AA.VV., Autorità e consenso nell’attività amministrativa, 2002, 54 e SANDULLI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, 1998.


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ta lesione dell’integrità patrimoniale del contribuente49 e annul- collocare quantomeno l’iscrizione ipotecaria50 nel collaudato pelare il provvedimento per eccesso di potere, sub specie di viola- rimetro delle misure di garanzia.51 zione del principio di gradualità e di ingiustizia manifesta. Infatti, l’art. 77 D.P.R. n. 602/1973 sembrerebbe estendere nell’ambito della riscossione esattoriale il tradizionale ius eligendi, 7. Conclusioni nel diritto comune riconosciuto al creditore munito di titolo esePer qualificare l’iscrizione ipotecaria si ritiene non trascurabile la cutivo, di vincolare con ipoteca un bene immobile del debitore, legislazione vigente, seppure processuale (in particolare gli articoli indipendentemente dalla scelta di procedere o meno ad esecu2 e 19 D.Lgs. n. 546/1992), che consente una sola interpretazione zione forzata e proprio su quel bene. La norma è coerente con sistematica, che colloca le misure previste dagli articoli 77 e 86, il contesto complessivo della riscossione a mezzo ruolo, che coD.P.R. n. 602/1973 su un piano distinto dall’esecuzione forzata. stituisce a favore del fisco una rilevante deroga al comune divieSi concorda, allora, con la dottrina che ha dubitato dell’assimila- to di autotutela esecutiva, e non può essere estrapolata da tale zione agli atti propri dell’esecuzione, operata dalla giurispruden- quadro. za di legittimità, ed ha viceversa sottolineato la loro funzione di L’iscrizione ipotecaria ex art. 77 D.P.R. n. 602/1973 è, allora, garanzia. In tale “scelta di campo” si ritiene condivisibile qualifi- uno strumento di garanzia, funzionalmente connesso alla pretecare le misure in commento come cautelari, ma solo se si utilizzi sa erariale iscritta a ruolo ed espressione di un potere di autotutale termine in un’accezione diversa, cioè a condizione che con- tela concesso a tutela della riscossione. sapevolmente si considerino sui generis, da non confondere con le Tale potere si concretizza in provvedimenti che soggiacciono a misure cautelari, come sono unanimemente intese nel diritto pro- tutti i requisiti di forma e contenuto previsti dalle leggi n. cessuale comune, e che pure sono previste (talvolta anche con no- 241/1990 e n. 212/2000; in particolare, poiché anche per l’ami omonimi) nei procedimenti e nel processo tributari. gente per la riscossione – in quanto titolare di una funzione pubAl fine di evitare problemi in sede applicativa, si potrebbe supe- blica – vale il principio per cui non si può sparare ai passeri con rare la rigida polarizzazione tra atti esecutivi e misure cautelari e i cannoni52, essi devono essere necessari, idonei ed adeguati.

49 In senso conforme, si veda Comm. trib. prov. di Pisa, sentenza n. 49/02/2008 (riportata su Il Sole 24Ore del 30 giugno 2008). 50La qualificazione del fermo amministrativo necessita di specifiche riflessioni, essendo un istituto del tutto peculiare, sia per la sua storia (infatti, era certamente misura cautelare in senso stretto nella sua disciplina originaria, oggi stravolta) sia per la finalità latamente esecutiva, in forma di coercizione indiretta, attribuitagli da attenta dottrina

(STEVANATO, Il fermo degli autoveicoli: semplice strumento dell’esecuzione o eccezionale misura afflittiva per indurre all’adempimento “spontaneo”?, cit., 1143 ss.). 51 Tra l’altro, anche il diritto amministrativo conosce una distinzione tra provvedimenti cautelari e provvedimenti conservativi (evidentemente con cautelari) nell’ambito dell’autotutela decisoria; si veda BENVENUTI, Autotutela (Dir. Amm.), cit., 549: «vi è un’altra categoria di decisioni che, pur incidendo sui

rapporti, non soddisfano come risultato immediato, la pretesta dell’amministrazione, ma sono invece soltanto ordinate a spingere il cittadino sulla via dell’osservanza dei suoi obblighi [...] tipici provvedimenti decisori su conflitti potenziali, sono le decisioni cautelari e quelle conservative». 52 FLEINER, Institutionen der Deutschen Verwaltungsrecht, Tubingen, 1928, 404; si veda amplius, MALINCONICO, Il principio di proporzionalità, cit., 52 ss.


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SANZIONI AMMINISTRATIVE LA SANZIONE ACCESSORIA PER MANCATA EMISSIONE DEGLI SCONTRINI FISCALI, TRA ABOLITIO VIOLATIONIS E FAVOR LIBERTATIS. 18

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. I, 19 gennaio 2009, n. 2 Presidente: Ferrari - Relatore: Marinelli

Sanzioni amministrative - Mancata emissione dello scontrino fiscale - Modifica dell’art. 12, D.Lgs. n. 471 del 1999 - Favor rei - Applicabilità. (D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 12; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3; C.p., art. 2). Il principio del favor rei si applica nell’ipotesi in cui mutino gli elementi costitutivi dell’illecito; conseguentemente, a seguito della modifica apportata dall’art. 1, comma 269, L. 24 dicembre 2007, n. 244, che ha novellato l’art. 12 D.Lgs. n. 471 del 1999 prevedendo l’applicabilità della sanzione nel caso di quattro distinte violazioni commesse nel quinquennio, non costituisce più una violazione punibile l’omessa emissione, per tre volte, dello scontrino fiscale. Fatto Con ricorso senza data, ma notificato il 12 settembre 2007, la P.T. di T.N. e C. S.n.c. chiedeva l’annullamento del provvedimento dell’Agenzia delle Entrate di [...] con il quale si contestava la mancata emissione di tre scontrini fiscali, e si irrogava la conseguente sanzione consistente nella sospensione dell’esercizio commerciale. La società T. nel sottolineare come, nel frattempo, fosse stata modificata la normativa e come ad essa andasse conseguentemente applicata la normativa più favorevole, chiedeva anche la sospensione del provvedimento. Si costituiva l’ufficio con memoria del 1 ottobre 2007 rilevando come nel caso in esame non si vertesse in una fattispecie cui poteva applicarsi il principio del cd. favor rei. L’esecutività della sanzione veniva sospesa con provvedimento presidenziale del 17 settembre 2007, confermato dal Collegio il successivo 26 novembre. Quindi la Commissione tributaria provinciale dell’Aquila, IV sezione, con decisione n. 8 del 14 gennaio - 11 febbraio 2008, accoglieva il ricorso rilevando come «la presente controversia deve essere decisa in senso comunque favorevole per il ricorrente, alla luce della modifica legislativa apportata dall’art. 1, comma 269, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria) che, innovando il sistema sanzionatorio in questione, ha previsto l’applicabilità della sanzione nel caso di quattro distinte violazioni commesse nel quinquennio, e non più tre violazioni come nella fattispecie contestato». «Si tratta, in sostanza,» continua la Commissione provinciale «di una riformulazione della norma sanzionatoria in senso sicuramente più favorevole per il ricorrente per cui, non essendo attualmente possibile applicare la sanzione nel caso di sole tre violazioni, e dovendo trovare applicazione il principio dell’immediata applicazione della normativa più favorevole per il contribuente di cui all’art. 3 del D.Lgs. n. 472/1997, occorre giungere alla conclusione che, sia pur per un fatto sopravvenuto, la fattispecie contestata alla società ricorrente non costituisce più illecito amministrativo sanzionabile ai fini tributari». La Commissione di primo grado compensava inoltre le spese di lite. Avverso tale decisione ha proposto appello l’ufficio impositore con atto del 18 aprile 2008, rilevando in primo luogo l’omissione di una pronuncia sull’eccezione preliminare di inammissibi-

lità del ricorso in quanto i singoli provvedimenti sanzionatori non sarebbero stati impugnati per i vizi propri, e nel merito la non applicabilità al caso di specie del principio del cd. favor rei in quanto la modifica legislativa non avrebbe abrogato il fatto illecito dell’irrogazione della sanzione accessoria ma solo «modificato il presupposto al verificarsi del quale scatta la sospensione della licenza commerciale». Resiste la società contribuente con controdeduzioni del 9 maggio 2009, ribadendo le proprie ragioni e chiedendo la conferma della decisione di primo grado. Nella pubblica udienza del 4 novembre 2008 sono stati ascoltati il rappresentante dell’ufficio appellante, dott.ssa G.C., che ha insistito per l’accoglimento dell’appello, nonché il legale della società contribuente, avv. M.D.S., il quale ha insistito nelle proprie conclusioni. Quindi, la questione è stata decisa come da dispositivo. Diritto Questa Commissione regionale ritiene che l’appello dell’ufficio non abbia pregio. Infatti l’eccezione sollevata in via preliminare circa l’inammissibilità dell’appello, oltre a non essere formulata in termini del tutto chiari, appare informata a mero formalismo, perché il comportamento della società contribuente – che ha impugnato l’atto finale del procedimento sanzionatorio – presuppone l’impugnazione indiretta anche dei vizi degli atti presupposti. La Commissione di primo grado, sia pur sinteticamente ed implicitamente, ha inteso ribadire l’unicità del procedimento «demolitorio» e dunque l’ammissibilità del ricorso introduttivo. Venendo al merito della vicenda, lo stesso verte sulla possibilità o meno di applicare al contribuente la sanzione più favorevole sulla base di una norma sopravvenuta. Sostiene al riguardo l’ufficio impositore che nel caso di specie si tratterebbe non già di una sopravvenuta pena più favorevole, bensì di una diversa fattispecie, essendo stata non già modificata la pena quanto gli elementi costitutivi dell’illecito, con la conseguenza che l’illecito stesso – una volta formatosi sulla base dei presupposti in vigore al momento del suo concretizzarsi – non sarebbe più modificabile. Sebbene la tesi prospettata appaia ben costruita, la stessa non è però convincente. Il principio del favor rei, infatti non si applica soltanto al caso in cui sia la pena ad essere mutata, ma anche quando siano i presupposti della fattispecie che giustifica la pena stessa a mutare. Se i presupposti divengono più favorevoli al reo, ci si trova di fronte ad una fattispecie che non è più illecita al momento della decisione, ed è di questo favor rei che il contribuente si giova. Una difforme interpretazione sarebbe infatti evidentemente contraria ai principi di giustizia sostanziale che devono comunque ispirare il processo tributario. Conseguentemente, questa Commissione regionale non può che confermare la decisione di primo grado, la cui motivazione pur sintetica, appare conforme alle considerazioni ed ai principi espressi nella presente motivazione. Tutte le ulteriori questioni possono pertanto ritenersi assorbite. Sussistono tuttavia giustificati motivi, in relazione alla non sempre lineare evoluzione della legislazione in materia, per compensare integralmente le spese di lite.


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Nota di Andrea Conz Premessa Con la sentenza in commento, la Commissione tributaria regionale abruzzese, con riferimento all’applicazione del disposto di cui al comma 2 dell’art. 12 D.Lgs. n. 471 del 1997, novellato dall’art. 1 comma 269 L. 24 febbraio 2007 n. 244, confermando il provvedimento di primo grado impugnato, ha ritenuto applicarsi, anche in ambito di violazioni di norme tributarie, il principio (anche) espresso nel comma 4 dell’art. 2 c.p. e contenuto nel D.Lgs. n. 472 del 1997. Tale principio riguarda la successione di leggi nel tempo, statuendo che in caso di mutamento dei presupposti applicativi di una sanzione amministrativa si applica, nei confronti del contribuente, la disposizione a lui più favorevole. L’attuale comma 2 dell’art. 12 D.Lgs. n. 471 del 1997, prevede la comminazione della sospensione della licenza (o della autorizzazione all’esercizio) per l’attività di impresa, per un periodo compreso da tre giorni ad un mese, nei confronti di colui che, entro cinque anni, per quattro volte non emette regolare ricevuta o lo scontrino fiscale ai sensi del comma 3 dell’art. 6 D.Lgs. 471/1997. In precedenza, quindi prima delle modifiche apportate con il comma 269 dell’art. 1 della legge finanziaria del 2007, la sanzione della sospensione di cui al comma 2 dell’art. 12 D.Lgs. 471 del 1997, era applicata a chi ometteva lo scontrino, o la ricevuta fiscale, per tre volte in cinque anni, quale violazione commessa anche in uno stesso giorno. La questione di diritto affrontata dalla Commissione tributaria abruzzese consente di formulare alcune brevi riflessioni sul rapporto intercorrente tra talune norme del diritto penale e disposizioni tributarie. Il comma 3 dell’art. 3 del D.Lgs. n. 472 del 1997, disciplinante il “principio di legalità” in ambito tributario, testualmente dispone: «se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di diversa entità, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto esecutivo». Analoga disposizione è contenuta nel comma 4 dell’art. 2 c.p. È opinione largamente condivisa quella secondo cui il principio inerente la successione di leggi nel tempo assuma rilevanza costituzionale con riferimento a distinte disposizioni; in particolare, la retroattività della legge successiva più favorevole al reo ha fondamento nell’art. 3 Cost., poiché risponde alle innegabili esigenze di parità di trattamento; la irretroattività della legge successiva sfavorevole al reo, può invece dirsi costituzionalizzata attraverso l’art. 25 comma 2 Cost.. Occorre però formulare talune precisazioni. Con riferimento all’argomento in interesse, norma di assoluto rilievo è l’art. 1 della legge n. 689 del 24 novembre 1981. Al comma 1 della norma in ultimo richiamata è testualmente disposto: «nessuno può essere assoggetto a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione»; nel comma 2 è invece sancito che «le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati». È dunque evidente che il formulatore, in tema di illeciti amministrativi, abbia voluto adottare i principi di legalità, irretroattività e divieto di analogia, così prevedendo l’assoggettamento del comportamento considerato alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole senza

1 Cass., sez. lav., 24 febbraio 2004, n. 3676, in Foro Amm., 2004, 373. 2 Cass., civ, sez. I, 12 gennaio 2005, n. 414, in Giust. Civ. Mass., 2005, 1.

che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2 commi 2 e 4 c.p.1. Pertanto, in tema di illecito amministrativo vige il principio del tempus regit factum, onde sono irrilevanti tutte le modifiche della disciplina successive alla consumazione dell’illecito2, salvo che sia diversamente stabilito3. Tale assunto esclude quindi qualsiasi ipotesi di colleganza tra l’art. 3 del D.Lgs. n. 472 del 1997 e l’art. 2 c.p. Si tratta infatti di disposizioni simili operanti in contesti differenti. Tuttavia, gli analoghi meccanismi applicativi previsti in entrambe le distinte norme consentono talune comuni riflessioni in tema di successioni di leggi nel tempo. Il principio di stretta legalità in materia di sanzioni amministrative pecuniarie La Corte costituzionale ha statuito che l’irretroattività costituisce un principio generale del nostro ordinamento (richiamato peraltro dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale) e, seppure non elevato, fuori della materia penale, a dignità costituzionale dal comma II dell’art. 25 Cost., rappresenta pur sempre una regola essenziale del sistema a cui, salva un’effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini4. Il sancito principio di stretta legalità che sorregge la materia delle sanzioni amministrative pecuniarie, è stato oggetto di talune pronunce della consulta che, sul dedotto contrasto tra l’art. 1 della L. n. 689 del 1981 e l’art. 3 della Costituzione, dichiarando manifestamente infondata la relativa questione di costituzionalità, si è pronunciata stabilendo che, in caso di successioni di leggi nel tempo, per quanto riguarda la disciplina generale e di principio delle sanzioni amministrative pecuniarie, non è dato rinvenire alcun vincolo imposto al legislatore. A costui è riconosciuto – nel rispetto del limite della ragionevolezza – una ampia discrezionalità nel predisporre l’applicazione della legge posteriore più favorevole, secondo criteri di maggiore o minore rigore in funzione delle materie oggetto di disciplina. Quindi, sotto tale profilo non può ritenersi irragionevole che, in riferimento a particolari tipologie di illeciti amministrativi, interessate da ampi interventi di riforma e caratterizzate da peculiarità sostanziali che ne giustificano uno specifico trattamento sanzionatorio, quale è il caso del D.Lgs. n. 472 del 1997, il legislatore abbia optato per l’introduzione di una disciplina di maggiore favore per l’autore della trasgressione senza che dette scelte debbano essere generalizzate e poste come disposizioni di dogma5, così trasformando l’eccezione in regola. In altre parole, in virtù del principio di stretta legalità in materia di sanzioni amministrative pecuniarie, con l’assoggettamento della violazione alla disciplina in vigore al tempo della sua commissione e con la conseguente inapplicabilità della eventuale legge posteriore più favorevole, e quindi in mancanza di un vincolo costituzionale per il legislatore, appartiene alla discrezionalità di quest’ultimo la valutazione circa l’adozione di criteri di maggiore o minore rigore a seconda dell’oggetto. Ciò comporta l’inesistenza, alla stregua dell’art. 3 della Costituzione, di un obbligo di estensione delle scelte legislative effettuate in determinate materie ad altre e diverse materie6. Dunque, la scelta del legislatore di prevedere la retroattività della norma più favorevole in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, prevista dal comma 3 del-

3 Cass., civ., sez. I, 5 gennaio 1995, n. 181, in Giust. Civ. Mass., 1995, 30. 4 Corte cost., sent. 4 aprile 1990, n. 155, in Rass. Giur., 1991, 446.

5 Corte cost., ord. 24 aprile 2002, n. 140, in Giur. Cost., 2002, I, 2082. 6 Corte cost., ord. 28 novembre 2002, n. 501, in Foro It., 2003, I, 1338


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l’art. 3 D.Lgs. 472 del 1997, è circostanza che conferisce alla indicata disposizione una connotazione diversa rispetto a quella caratterizzante l’art. 2 c.p., la cui previsione, secondo taluna dottrina7, anche per il comma 4, è sancita dall’art. 25 comma II della Costituzione8. Invero, la retroattività della legge penale più favorevole è stata imposta anche dalla sottoscrizione, nel 16 dicembre 1966 a New York (entrato in vigore nel 23 marzo 1976) da parte dell’Italia, del «Patto internazionale sui diritti civili e politici» che, all’art. 15 comma 1 prevede l’introduzione nelle legislazioni degli Stati firmatari, del principio espresso nell’art. 2 comma 4 c.p., quale ipotesi estranea all’art. 25 Cost., la cui rilevanza costituzionale è rinvenibile, come già detto, nel principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.9. Pertanto, l’art. 3 comma 3 D.Lgs. n. 472 del 1997, è norma di opportunità introdotta per libera scelta del legislatore; l’art. 2 comma 4 c.p., è disposizione imposta da inderogabili precetti contenuti nella Costituzione ed in accordi internazionali. Sulla premessa che la legge “modificativa” è sempre abrogativa10, autorevole e condivisa dottrina ha indicato che la scelta legislativa adottata in ambito penale è stata quella del riconoscimento di una “ultrattività” della legge precedente alla modifica nell’ipotesi in cui sia più favorevole la vecchia norma, quale costrutto interpretativo del «tutto coerente con le regole generali in tema di successioni di leggi e di efficacia della legge di abrogazione implicita»11. Modus applicandi del principio di retroattività della norma più favorevole L’art. 3 comma 3 D.Lgs. n. 472 del 1997, così come l’art. 2 comma 4 c.p., prevede l’individuazione della lex mitior nella disposizione la cui applicazione (in concreto) sia più favorevole a colui al quale la sanzione dovrà essere inflitta. Nell’ambito del diritto penale, conforme giurisprudenza e maggioritaria dottrina ritengono che legge più favorevole, agli effetti della disposizione in esame, è quella dalla cui applicazione derivano conseguenze giuridiche meno gravose, quale comparazione fatta “in concreto”12 tra i risultati che discenderebbero dall’impiego di ciascuna delle norme succedutesi e quale attività svolta in “modo oggettivo”, ossia prescindendo da ciò che l’imputato può ritenere a lui più favorevole13. Quindi, a mero titolo semplificativo, si consideri il caso di Tizio, responsabile del fatto-reato X, quale condotta accaduta nel tempo T1 e soggetta alla legge L1 oltre che alla successiva disciplina prevista nella legge di modifica L2 entrata in vigore nel periodo T2. Orbene, il giudice, nel decidere quale delle due norme succedutesi nel tempo L1 ed L2 sia da applicare alla

7 Si veda PODO, Successioni di leggi penali, in NsD, XVIII, 1971, 667. 8 Cfr. Corte cost., sent. 25 giugno 1957, n. 102, con cui la Consulta ha escluso l’ipotesi di un contrasto tra l’art. 25comma 2 Cost., ed il principio della irretroattività della norma più favorevole. Secondo SPASARI, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, 44, la retroattività della lex mitior discende dalla regola fissata nell’art. 73, comma 3, Cost. 9 In tal senso, si veda PADOVANI, Diritto penale, Milano, 2004, 38. 10 Nel senso che, sostituendo una diversa regolamentazione della stessa materia, a quella precedentemente in vigore, dovrebbe, secondo i principi generali (art. 11 delle preleggi), comportarne l’abrogazione per incompatibilità. 11 CONTENTO, Corso di diritto penale, Bari, 1989, 94.

condotta X, ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p., dovrà mettere a confronto i rispettivi risultati dell’applicazione di ciascuna di esse alla situazione concreta oggetto del giudizio14 quali, ad esempio, X1 (in applicazione della legge L1) ed X2 (relativo alla legge L2). Dalla comparazione tra X1 ed X215 si individuerà il risultato tra i due “in concreto” più favorevole (es.: X2) e, per conseguenza, la lex mitior (cioè L2). L’art. 12 comma 2 della D.Lgs. n. 471/1997 L’illustrato meccanismo trova pacifica applicazione anche in materia di successione di norme tributarie ai sensi dell’art. 3 comma 3 D.Lgs. n. 472/199716. Si prenda in considerazione, a titolo esemplificativo, un caso analogo a quello oggetto della pronuncia in commento e riguardante l’applicazione della sospensione della licenza, o dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività, nei confronti di colui che per più volte non emetta lo scontrino fiscale ai sensi dell’art. 6 comma 3 D.Lgs. n. 471/1997. Pertanto, utilizzando l’esempio di Tizio, titolare di un’attività commerciale, il quale, prima della entrata in vigore della legge finanziaria del 2007, non abbia emesso, per tre volte nello stesso giorno, lo scontrino fiscale (fatto rilevante ai sensi della norma L1) e che tale condotta (che indichiamo con X) gli sia stata contestata dalla competente Autorità. Con l’entrata in vigore della legge n. 244/2007, modificativa del comma 2 dell’art. 12 D.Lgs. n. 471/1997 (L2), la mancata emissione dello scontrino (nel nostro esempio X) assume rilievo sanzionatorio solo se è azione commessa per quattro volte in giorni diversi nel corso di un quinquennio. Dunque, richiamando il precedente ragionamento, per individuare quale dei due disposti dell’art. 12 D.Lgs. n. 471/1997 sia da applicare (e cioè L1 o L2), ai sensi dell’art. 3 D.Lgs. n. 472/1992, si dovrà operare una comparazione tra i risultati frutto della loro applicazione in concreto, e cioè X1 e X2. Nel caso de quo, la condotta X di Tizio, “punibile” come X1 ai sensi del comma 2 dell’art. 12 D.Lgs. n. 472/1997 (L1) ante riforma, per il successivo disposto dell’art. 12 non assumerà alcun rilievo sanzionatorio mancandone i necessari presupposti normativi (quattro violazioni commesse in giorni diversi). In tale ipotesi, quindi, non vi sarà alcun raffronto tra X1 ed X2 poiché quest’ultimo “valore”, non trovando applicazione il novellato comma 2 dell’art. 12 D.Lgs. n. 472/1997, non potrà in nessun caso essere quantificato. Avremo quindi che con le modifiche introdotte nella nuova legge, vi è stata l’eliminazione del giudizio astratto di disvalore della violazione tributaria contenuta nel precedente testo del comma 2 dell’art. 12 D.Lgs. n. 471 del 199717.

12 Ex pluribus, in dottrina si veda ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, 110; in giurisprudenza, Cass. pen., sez. un., 6 ottobre 1979, Maggi, in Cass. Pen., 1980, 651. 13 In dottrina, PANNAIN, Manuale di diritto penale, Torino, 1962, 134; in giurisprudenza, Cass. pen., sez. III, 10 giugno 1996, Guardavalle, in Cass. Pen., 1997, 2094, e sez. III, 4 luglio 1995, n. 9234, Sartorio, ibidem, 1372. 14 In tal senso, si veda FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2009, 93, e MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2009, 89, il quale sostiene che, nella valutazione della pena in concreto, «si debbano tenere in conto tutti gli elementi influenti, in qualsiasi modo, sul trattamento del reo (durata e specie della pena, pene accessorie e altri effetti penali, misure di sicurezza, circostanze, qualifi-

ca delittuosa o contravvenzionale del fatto, scriminanti, scusanti o esimenti, condizioni obiettive di punibilità ecc.). Come pure le condizioni processuali (es.: querela, istanza, autorizzazione a procedere), che influiscono sul carattere favorevole o sfavorevole delle leggi in questione». 15 Sui criteri di determinazione della sanzione, si veda DEL FEDERICO, voce Violazioni e sanzioni in materia tributaria, in Enc. Giur., Roma, 2002, 16. 16 In tema di violazioni tributarie si veda l’autorevole opinione espressa da DEL FEDERICO, voce Violazioni, cit., 6. 17 Così BRICOLA, Legalità e crisi: l’art. 25, commi 2 e 3, della Costituzione rivisitato alla fine degli anni 70, in La questione criminale, 1980, 240, e CONTENTO, Corso di diritto penale, I, Bari, 2005, 89.


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Conclusioni Pertanto è evidente che il caso oggetto della pronuncia in commento riguarderebbe una ipotesi della cd. abolitio criminis che, con riferimento a violazioni tributarie, dovrebbe assumere la più corretta dizione di abolitio violationis. La norma che disciplina tale particolare situazione non è il comma 3 dell’art. 3 D.Lgs. n. 472 del 1997, bensì il precedente comma 2, nel quale è testualmente sancito che «salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato». In tale ipotesi l’effetto retroattivo che la disposizione in esame attribuisce alla legge abolitrice, cioè il novellato comma 2 dell’art. 12 D.Lgs. n. 471/1997, più che frutto di un generico favor rei, risponde alle esigenze di parità di trattamento, rilevanti ai sensi dell’art. 3 Cost., dal momento che per quello stesso fatto l’ordinamento non ricollega più alcuna sanzione amministrativa. Alla luce delle precedenti argomentazioni, non appaiono condi-

visibili le considerazioni illustrate dalla Commissione tributaria regionale abruzzese nella pronuncia in commento, non trovando applicazione, nel caso di specie, il principio del favor libertatis previsto dal comma 3 dell’art. 3 D.Lgs. 472/1997, ma dovendosi ricondurre la vicenda al precedente disposto di cui al comma 2 del citato articolo. In ultimo, anche le doglianze espresse dall’ufficio impositore nel proprio atto di appello appaiono prive di fondamento. Infatti, seppure l’amministrazione ha correttamente individuato nel novellato art. 12 comma 2 D.Lgs. n. 471 del 1997 «una diversa fattispecie, essendo stata non già modificata la pena quanto gli elementi costitutivi dell’illecito», la stessa ha comunque ritenuto di non applicare il disposto di cui al comma 2 dell’art. 3 D.Lgs. n. 472/1997, così comminando la sanzione della sospensione all’autore della violazione tributaria. Invero, si sarebbe dovuto riconoscere effetto retroattivo alla norma abolitrice, rilevando che la condotta posta in essere dal titolare dell’esercizio commerciale, per effetto dell’avvenuta abolitio violationis, non è più prevista come violazione sanzionabile ai sensi dell’attuale art. 12 comma 2 D.Lgs. n. 471/1997.


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ATTI E INTERVENTI LA RESIDENZA FISCALE DELLE SOCIETÀ NELL’IRES E IL FENOMENO DELL’ESTEROVESTIZIONE SOCIETARIA Fondazione Centro Studi U.N.G.D.C., circolare 20 maggio 2009, n. 7 1. Premessa - 2. La residenza fiscale: riflessioni introduttive - 3. Il place of effective management - 4. L’oggetto principale - 5. L’inadeguatezza dei criteri della «sede dell’amministrazione» e dell’«oggetto principale» per le società di mera gestione patrimoniale - 6. Il problema delle notifiche degli atti tributari ai soggetti esterovestiti - 7. Conclusioni 1. Premessa La presente circolare analizza il fenomeno dell’esterovestizione societaria, cercando di mettere in luce i diversi profili e le numerose variabili che rivestono un ruolo fondamentale nell’accertamento della residenza delle società. Il documento cercherà, inoltre, di fornire delle linee guida per poter correttamente interpretare i criteri di collegamento sostanziale previsti dall’art. 73 comma 3 del T.U.I.R., e dall’art. 4 comma 3 del modello Ocse (sulla cui base sono redatte le convenzioni bilaterali stipulate dall’Italia), con particolare attenzione all’evoluzione interpretativa dei concetti in esame, desumibile dalle più recenti pronunce giurisprudenziali sul tema. 2. La residenza fiscale: riflessioni introduttive L’esterovestizione di un soggetto può essere definita, in una accezione generale, come un fenomeno dissociativo fra residenza formale e residenza sostanziale, posta in essere al fine di beneficiare di un regime fiscale più vantaggioso rispetto a quello del Paese di effettiva appartenenza. Il punto di partenza, nell’analisi del fenomeno in esame, è perciò il concetto stesso di residenza fiscale, disciplinato nel nostro ordinamento dall’art. 2 comma 2 del T.U.I.R. per quanto riguarda le persone fisiche – e soprattutto, per quel che qui interessa, dall’art. 73 comma 3 per le persone giuridiche – per il quale «ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato». Come si desume facilmente dalla lettura delle disposizioni testé citate (nonché da quelle che regolano la residenza in tutti i principali ordinamenti tributari esteri), le norme interne sulla residenza fiscale prevedono generalmente la compresenza di un criterio formale (la sede legale nell’art. 73, comma 3) con almeno

1 I criteri formali previsti dalle norme sulla residenza dell’ordinamento italiano (art. 2, comma 2 e art. 73, comma 3 del T.U.I.R.) sono stati interpretati da una parte della dottrina (MARINO, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999, 23) quali presunzioni legali relative, e non assolute, come invece sembrerebbe da un’interpretazione letterale della norma (che non fa salva la prova contraria). Stante questa interpretazione, il contribuente potrà allora dimostrare, dandone concreta prova, che, benché formalmente risulti ancora residente nel territorio italiano (per effetto ad esempio dell’iscrizione nell’anagrafe dei residenti), la sua

un criterio sostanziale (sede dell’amministrazione e oggetto principale). Tali criteri operano in modo disgiunto, nel senso che, per essere considerati residenti, basterà che anche uno solo tra criterio formale e criterio sostanziale sia verificato: ciò evidentemente perché, altrimenti, ogni soggetto potrebbe trasferire all’estero la propria residenza fiscale con una semplice modifica statutaria, ovvero con la fissazione di una nuova sede legale. D’altra parte, l’opportunità del criterio formale risulta evidente: limitarsi ad una attribuzione di residenza solo su criteri sostanziali, significherebbe rinunciare ad uno strumento di facile applicazione e di immediata controllabilità, che benché non garantisca l’effettività del collegamento con lo Stato, può ragionevolmente rappresentare una presunzione molto forte – anche assoluta1 – di residenza. Nella stragrande maggioranza dei casi si ha in effetti coincidenza tra il luogo di residenza anagrafica o della sede legale, e quello determinato dalla verifica dei criteri sostanziali (sede dell’amministrazione, oggetto principale). Peraltro, se l’operatività contemporanea e disgiunta tra criterio formale e criterio sostanziale rappresenta una necessità al fine di evitare abusi, non altrettanto necessaria ed appropriata pare la presenza di più criteri sostanziali che operino in maniera disgiunta uno dall’altro e con uguale rilevanza, come avviene nel nostro ordinamento interno. La presenza di una pluralità di criteri di collegamento, senza regole per stabilire la prevalenza di uno sull’altro , comporta la possibilità che un soggetto possa essere considerato sostanzialmente residente in più Stati, anche quando vi è un’evidente prevalenza di un criterio su tutti gli altri, che magari conferma l’evidenza formale. E ciò avviene in particolare quando i criteri sostanziali alternativi sono fra loro molto diversi, e tali che possono essere verificati contemporaneamente in relazione a luoghi differenti. Tale situazione potrebbe portare, interpretando letteralmente la norma, a conclusioni paradossali, che violano la ratio stessa delle disposizioni sulla residenza: un soggetto, infatti, potrebbe qualificarsi come residente in un certo Paese, in ragione di un criterio (ad esempio il place of effective management) che esprime un nesso di collegamento territoriale evidentemente meno significativo di un altro criterio sostanziale (ad esempio l’oggetto sociale), solo perché la norma non determina un ordine di prevalenza di un criterio sull’altro, ma li pone indistintamente sullo stesso piano2.

residenza effettiva è invece localizzata all’estero. La giurisprudenza tributaria, contrariamente a quella civilistica, non ha invece accolto tale interpretazione, ritenendo l’iscrizione nell’anagrafe quale presunzione legale assoluta di residenza (Cass., n. 1215 del 6 febbraio 1998): è stata tuttavia adombrata dalla stessa Suprema Corte (e dalla dottrina) una possibile incostituzionalità della norma, laddove non faccia salva la prova contraria fornita dal contribuente, relativizzando con ciò la presunzione stabilita dall’art. 2 comma 2 del T.U.I.R. 2 Si pensi ad esempio, ad una società svizzera, che gestisca una pizzeria a Zurigo, il cui unico

socio amministratore sia un napoletano residente a Posillipo, il quale quotidianamente impartisce le direttive e svolge le principali operazioni di amministrazione dalla propria dimora in Italia (l’esempio è tratto da LUPI, Il radicamento al territorio tra strutture operative e holding, in Dialoghi Dir. Trib., 6, 2005, 934 ss.). In un siffatto caso, posto che l’art. 73 del T.U.I.R. prevede, quali criteri sostanziali alternativi, l’ubicazione nel territorio nazionale di uno tra la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale, si potrebbe considerare la società svizzera quale soggetto residente in Italia, sconfessando perciò l’evidenza formale, in


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A tal proposito, ed in particolare sulle distorsioni che si potrebbero generare, data la concorrenza del criterio della sede dell’amministrazione con quello dell’oggetto sociale, è significativo quanto affermato dall’amministrazione finanziaria, nelle osservazioni apposte all’art. 4 del Commentario Ocse: quest’ultima ritiene, infatti, che nell’individuazione della «sede dell’amministrazione» si debba dare rilievo, tra l’altro, al luogo in cui è esercitata l’attività principale, e non solo a quello in cui vengono a materializzarsi gli impulsi volitivi dell’ente, di fatto rendendo connessi i due criteri sostanziali previsti dall’art. 73, comma 33 4. È appena il caso di ricordare che, oltre che dalle norme di diritto interno, la residenza viene regolamentata dalle norme previste nelle convenzioni bilaterali contro la doppia tassazione internazionale. La norma di fonte pattizia serve, in particolare, a risolvere i conflitti di residenza tra due diversi Stati che considerano, entrambi, il medesimo soggetto residente nel proprio territorio nazionale. La disposizione convenzionale stabilisce, perciò, un criterio univoco per determinare la residenza di un soggetto, oppu-

quanto la sede dell’amministrazione è localizzabile nell’abitazione del socio-amministratore napoletano. Una tale interpretazione, benché letteralmente sostenibile, risulta tuttavia non appagante sotto il profilo della ragionevolezza: infatti, in questo caso, è evidente che l’attività sociale è radicata nel territorio svizzero (la pizzeria si trova a Zurigo) ed è quindi impensabile poter valorizzare un diverso criterio di collegamento per determinare la residenza di un soggetto come quello dell’esempio. Nell’interpretare le norme sulla residenza, si dovrebbe necessariamente andare oltre ad una mera interpretazione letterale, cercando, in ogni singola fattispecie concreta, di determinare quale sia il criterio di collegamento sostanziale che meglio colga il reale significato del concetto di residenza, anche qualora la norma stabilisca, letteralmente, una pluralità di criteri con operatività disgiunta. Nel caso dell’esempio sarà allora irrilevante il luogo da dove provengono le direttive del vertice societario, proprio per la assoluta ed inequivocabile prevalenza del luogo di radicamento dell’attività (oggetto principale) rispetto ogni altro criterio. 3 Nell’opinione espressa dall’amministrazione fiscale italiana si legge che: «the place where the main and substantial activity of the entity is carried on is also to be taken into account when determining the place of effective management». 4 Anche la dottrina, al fine di evitare che la presenza di più criteri sostanziali porti alla identificazione di più Stati di residenza, come avverrebbe valorizzando nell’esempio della pizzeria svizzera il criterio della sede dell’amministrazione, ha elaborato un’interpretazione del criterio della sede dell’amministrazione tale da limitare le distorsioni sopra evidenziate: è stato sostenuto, a tal proposito, che «in questi casi oggetto dell’amministrazione (rectius sede dell’amministrazione), nel senso di “gestione” e oggetto principale coincidono, sia ai sensi della legge interna sia ai sensi di quella convenzionale» (LUPI, Il radicamento al territorio tra strutture operative e holding, in in Dialoghi Dir. Trib., 6, 2005, 934 ss). Analogamente COVINO (nello stesso articolo) sostiene che: «si può affermare che la sede dell’amministrazione è un concetto per mol-

re un sistema di graduazione dei diversi criteri di collegamento5: nelle convenzioni stipulate in conformità del modello Ocse6, la prima metodologia viene utilizzata per le persone giuridiche, prevedendo, quale criterio unico per la risoluzione dei conflitti di residenza, il criterio del place of effective management, mentre la seconda metodologia viene utilizzata per le persone fisiche, dove la residenza viene stabilita avendo riguardo, in linea gerarchica, al luogo dell’abitazione principale, al centro degli interessi vitali, al luogo in cui soggiorna abitualmente ed infine alla nazionalità del soggetto7. Per capire la portata concreta della norma convenzionale in relazione al fenomeno delle esterovestizioni, si deve sottolineare che, quando vi sia un effettivo conflitto di residenza tra i due Paesi contraenti, e nei limiti delle disposizioni contenute nella convenzione, l’unico criterio valorizzabile per stabilire la residenza del contribuente è quello previsto dalla norma pattizia, in quanto quest’ultima, per il principio di specialità, deve ritenersi prevalente rispetto alle norme dell’ordinamento interno8.

ti versi connesso con quello di oggetto principale». A parere di chi scrive, sostenere in via interpretativa che i diversi criteri previsti dalla norma siano in buona parte equivalenti, vorrebbe dire sostenere che la norma è, almeno in parte, ripetitiva e tautologica, ed allo stesso tempo incompleta, in quanto non individuerebbe un idoneo criterio di collegamento per quelle entità non caratterizzate da un radicamento dell’oggetto principale con il territorio. Oppure, in relazione a quest’ultimo aspetto, la soluzione proposta dagli autori citati, significherebbe ammettere una diversa interpretazione del criterio della sede dell’amministrazione in relazione ai singoli casi concreti, interpretando tale criterio come un criterio sovrapponibile al criterio dell’oggetto principale per quelle attività evidentemente radicate nel territorio, ed invece interpretarlo come luogo da cui promanano le direttive strategiche dell’ente in quelle attività che non hanno un evidente collegamento territoriale. Tale soluzione, certamente sostenibile, comporta tuttavia una complicazione nella non già chiara interpretazione del criterio della sede dell’amministrazione, complicazione evitabile se, in via interpretativa, si affermasse che la pluralità di criteri sostanziali previsti dalla norma non avesse in realtà valenza disgiunta (come sembra invece dalla formulazione letterale quantomeno dell’art. 73 del T.U.I.R.), ma la loro valenza fosse alternativa, nel senso che un criterio sarebbe valorizzabile solo quando l’altro non debba essere ritenuto ragionevolmente “prevalente”. 5 Tali norme vengono denominate tie-breaker rules. 6 L’art. 4 comma 1 del modello elaborato dall’Ocse, dispone che «ai fini della presente Convenzione, l’espressione “residente di uno Stato” designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato, a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga. Tuttavia, tale espressione non comprende le persone che sono assoggettate ad imposta in questo Stato soltanto per il reddito che esse ricavano da fonti situate in detto Stato o per il patrimonio ivi

situato». I commi 2 e 3 invece stabiliscono i criteri per dirimere i conflitti di competenza come indicato nel testo. 7 È in atto un ripensamento sulla adeguatezza del criterio del place of effective management quale unico criterio previsto, per le persone giuridiche, dal par. 3 dell’art. 4 del Modello Ocse per dirimere i conflitti di residenza tra due Stati contraenti: il T.A.G. (Technical Advisor Group), istituito in sede Ocse, ha avanzato, tra le alternative possibili, il suggerimento di riformulare il testo del paragrafo 3 dell’art. 4, prevedendo, analogamente a quanto già previsto per le persone fisiche, una pluralità di criteri gerarchici alternativi. I test proposti per determinare lo Stato di residenza sarebbero tre: il primo rimarrebbe il luogo di direzione effettiva, il secondo dovrebbe essere scelto tra lo Stato in cui le relazioni economiche sono più strette, quello in cui è principalmente svolta l’attività d’impresa, o lo Stato in cui sono prese principalmente le decisioni aziendali (anche se tale criterio sembra essere in buona sostanza equivalente all’interpretazione del criterio del place of effective management e risulterebbe quindi un doppione). Il terzo test proposto è invece quello dello Stato in cui è stata costituita la società. Se la modifica del par. 3 dell’art. 4 del modello Ocse attraverso l’introduzione di una pluralità gerarchica di criteri pare essere sicuramente una soluzione migliore rispetto a quella attuale, i test proposti non convincono, in quanto in buona parte ripetizione di criteri che venivano comunque valorizzati in sede interpretativa, all’interno del generale criterio della sede di direzione effettiva, come si avrà modo di vedere nel prosieguo: l’unico criterio proposto che potrebbe avere una certa rilevanza pratica pare essere quello dello Stato in cui le relazioni economiche sono più strette, che rappresenta criterio diverso sia dall’oggetto principale, sia dal criterio della sede di amministrazione. 8 Sulla prevalenza delle norme di ratifica dei trattati internazionali rispetto alle norme interne, anche successive, per effetto del principio di specialità si veda CARPENTIERI-LUPISTEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, 68 ss.; MARINO, op. cit., 191 ss.


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Ciò comporta che l’amministrazione finanziaria, al fine di fissare, ad esempio, la residenza di una società con sede legale in uno Stato con cui è stata stipulata una convenzione bilaterale (e quindi ivi residente in applicazione della normativa interna di quest’ultimo), non potrà fare leva sulla localizzazione dell’oggetto dell’attività, ma potrà unicamente valorizzare il criterio previsto dalla norma convenzionale (il place of effective management, appunto). 3. Il place of effective management Per il fine che ci si è prefissati, è bene iniziare dall’analisi del concetto di «sede di direzione effettiva», che rappresenta, come detto, il criterio fondamentale per la determinazione della residenza sostanziale degli enti, soprattutto in virtù della sua valenza come criterio convenzionale per dirimere i conflitti di residenza. Inoltre, come sottolineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, il criterio del place of effective management può ben essere tradotto con il concetto di «sede dell’amministrazione», previsto dall’art. 73 del T.U.I.R., sicché i due concetti possono ritenersi equivalenti. In sede di commentario Ocse, vengono fornite alcune linee guida interpretative: secondo tale documento, la «sede di direzione effettiva» deve essere individuata nel luogo di assunzione delle decisioni chiave (di natura gestionale e commerciale) necessarie per la conduzione dell’attività della persona giuridica, nel luogo dove la persona o il gruppo di persone che esercitano le funzioni di maggior rilievo assumono ufficialmente le loro decisioni, o ancora nel luogo di determinazione delle strategie che dovranno essere adottate dall’ente nel suo insieme. La valutazione di tali elementi deve essere sempre fatta in un’ottica di prevalenza della sostanza sulla forma, come ricorda esplicitamente lo stesso commentario per cui «la determinazione del luogo della direzione effettiva è una questione di fatto, nella quale occorre far prevalere la sostanza sulla forma». L’individuazione della sede di direzione effettiva con il luogo da cui promanano le direttive del vertice societario è condivisa anche dalla giurisprudenza interna sia in ambito propriamente tributario, sia in ambito più prettamente civilistico9, posto che il concetto di «sede dell’amministrazione» si ritrova anche nella definizione civilistica di residenza per le persone giuridiche, ai sensi dell’art. 25, L. n. 218/1995. In prima battuta, perciò, la sede dell’amministrazione può essere concretamente individuata nell’effettivo luogo dove il consiglio di amministrazione (o comunque l’organo gestorio) si riunisce e delibera, o, nei casi di delega (amministratore delegato o comitato esecutivo), il luogo dove la delega viene materialmente adempiuta, sempreché essa non si rilevi una pura “ripetizione non autonoma” delle decisioni già prese in sede di C.d.A.10. Sempre in una visione sostanzialistica del criterio del place of effective management, potrà essere valorizzato anche il luogo in cui venga convocata l’assemblea dei soci, quando sia dimostrabile che il potere gestorio dell’ente sia detenuto nella sostanza da uno o più soci di riferimento, o, addirittura, il luogo di residenza di un socio, qualora il suo grado di ingerenza nell’amministrazione dell’ente risulti molto evidente, tale da ritenere l’ente stesso una sua mera “appendice”. Sotto quest’ultimo profilo, l’interpretazione del criterio della «se-

9 Si veda ad esempio Cass., 16 giugno 1984, n. 3604; Cass., 9 giugno 1988, n. 3910. 10 Pietra miliare nell’interpretazione del concetto di place of effective management è sicuramente la sentenza di inizio secolo sul caso De Beers, De Beers Consolidated Mines Ltd., Howe, 1906, 198.

de dell’amministrazione» pone alcuni rilevanti problematiche, in particolare con riguardo alle società appartenenti a gruppi societari. All’interno dei gruppi, infatti, il potere gestorio di ciascuna società è sempre condizionato, secondo gradi di intensità diversi, dall’attività di «direzione e coordinamento» svolta dalla società capogruppo, che stabilisce le linee strategiche, definisce l’assetto organizzativo e decide sulle operazioni di maggior rilevanza per l’intero gruppo, anche qualora esse vengano poi poste in essere in capo ad una società partecipata. In tale contesto, la sede di direzione effettiva non potrà essere intesa come il luogo in cui vengono prese le decisioni strategiche, in quanto tali decisioni vengono assunte a livello della capogruppo (o comunque, a livello di altre società sopraordinate), ma dovrà essere interpretato come il luogo in cui vengono assunte le decisioni relative all’amministrazione propria dell’ente, che in una società appartenente ad un gruppo societario, si limitano tendenzialmente alla «gestione e direzione quotidiana». Diversamente, si assisterebbe all’inaccettabile conclusione che il place of effective management di tutte (o quantomeno gran parte) delle società appartenenti ad un gruppo debba essere ricondotto presso le strutture di comando della capogruppo, con la conseguenza che, qualora non sia evidente il radicamento delle società nel territorio degli Stati esteri in cui sono situate le loro sedi legali, esse potrebbero essere considerate fiscalmente residenti nello Stato della capogruppo, con buona pace della libertà di stabilimento garantita in sede comunitaria11. Per stabilire, perciò, quando l’ingerenza del socio rientri nell’attività di direzione e controllo e quando invece ne ecceda, sostituendosi alla stessa attività di amministrazione dell’ente controllato, si dovrà avere riguardo all’attività che si è definita di «gestione e direzione quotidiana dell’ente»: essa si concretizza, in sostanza, in tutte le attività “ordinarie” e caratterizzate da una certa continuità, come, ad esempio, l’attività di organizzazione e di controllo dei processi e dei fattori produttivi, la gestione del personale, le attività di relazione con i terzi, la stipula di contratti inerenti alla gestione ordinaria, gli incassi e i pagamenti (significativo è ad esempio stabilire chi ha l’effettiva titolarità dei conti correnti intestati all’ente e chi di fatto ne dispone), gli adempimenti fiscali. Si dovrà però avere attenzione a non confondere questa tipologia di attività con una mera attività di back office: la gestione e direzione ordinaria deve comunque esprimere un’attività di direzione, in cui la componente decisionale e di responsabilità deve essere preminente. Se, perciò, tutte, o quantomeno la maggior parte, di queste attività di ordinaria amministrazione possono essere ricondotte direttamente al socio, ben si potrebbe sostenere che l’ente viene di fatto amministrato direttamente dal socio di riferimento, e quindi la sede dell’amministrazione potrà essere ragionevolmente individuata nella sede stessa della capogruppo. Contrariamente, invece, se nella società partecipata si riscontra l’autonomo svolgimento delle attività di «gestione quotidiana», ancorché ridotte ai minimi termini per effetto della penetrante ingerenza della capogruppo, non potrà essere legittimamente affermato che la sede dell’amministrazione dell’ente debba essere individuata presso la sede della capogruppo, ma andrà individuata nel luogo in cui concretamente le attività di gestione ordinaria vengono svolte12.

11 Sull’inadeguatezza, per le società appartenenti ad un gruppo societario, ed in particolare per le subholding, dell’interpretazione del criterio della «sede dell’amministrazione» in relazione al luogo da cui promanano gli impulsi volitivi, si rinvia a GAFFURI-COVINO, Ancora su residenza fiscale, sede ammini-

strativa e società holding, in Dialoghi Dir. Trib., 1, 2006, 77 ss. 12 Sul tema del controllo societario e sulla localizzazione della sede di direzione effettiva in tali situazioni, anche con riferimento ad un orientamento interpretativo a livello comunitario, è interessante la lettura di un recentis-


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Ma anche al di là di quanto finora precisato, la localizzazione della sede di direzione effettiva per le società appartenenti a gruppi societari dovrebbe avvenire avendo ben presente la tendenza a concentrare, in capo alla capogruppo, le decisioni strategiche per tutte le società controllate. Per le società appartenenti a gruppi societari, perciò, l’individuazione della sede di direzione presso i locali di comando della controllante, potrà essere legittimamente sostenuta solo se lo svuotamento decisionale della controllata risulti tale da eccedere il “tradizionale” accentramento delle «funzioni decisorie» in seno alla capogruppo. Il confronto non dovrà però essere fatto solamente in relazione ad un fantomatico «grado di accentramento» medio, riscontrabile negli altri gruppi societari, ma dovrà sopratutto essere svolto in relazione a quanto succede nei confronti delle altre società del medesimo gruppo. Così, se per tutte le società consociate si riscontra l’accentramento delle funzioni di pianificazione strategica, finanza e coordinamento amministrativo e contabile, in capo alla controllante, queste attività non potranno essere valorizzate per determinare il luogo in cui deve essere localizzato il place of effective management della singola controllata. Su tale problematica si è di recente pronunciata la Commissione tributaria regionale della Toscana13, che, in un caso di asserita esterovestizione di una sub-holding estera di un gruppo italiano, ha precisato che altro è l’attività di controllo strategico che promana dalla capogruppo, ed altro ancora è l’attività amministrativa “quotidiana” ed “ordinaria” svolta dalla controllata. I giudici toscani affermano infatti che: «l’esistenza di un penetrante controllo di una società nei confronti di altra e perciò l’assoggettamento della società controllata costituisce fenomeno ben diverso dallo svolgimento delle attività di gestione amministrativa della società controllata. Le due fattispecie non possono essere né sommate né confuse, perché, altrimenti, situazioni giuridicamente rilevanti, fra loro nettamente differenziate, verrebbero rese coincidenti con effetti aberranti sul piano giuridico». Alla luce di quanto sin qui rappresentato, va ribadito, quindi, che nel configurare l’esterovestizione non rilevano elementi strutturali quali l’attività di direzione e coordinamento strategico, o l’attività accentrata di “gestione” di taluni servizi finalizzata al risparmio di costi, elementi questi che sono del tutto connaturati ed ordinari nel fenomeno che possiamo definire «di gruppo», e che nulla c’entrano, a ben vedere, con la residenza fiscale della singola società che lo compone.

simo contributo apparso su Dialoghi Dir. Trib., 3, 2008, 91 ss., MARINO-MARZANO-LUPI, La residenza della società e controllo tra schemi Ocse e episodi giurisprudenziali esterni. Sottolineano gli autori che in sede internazionale l’interpretazione del criterio del place of effective management è totalmente disgiunta da quello dell’oggetto principale, in quanto è utilizzabile anche per la localizzazione della residenza di società largamente operative, diversamente perciò dalla posizione prevalente in Italia che tende, come sottolineato, ad interpretare il criterio della sede dell’amministrazione in connessione all’oggetto dell’attività per le società operative, dove è evidente il collegamento con il territorio della stessa struttura produttiva (il negozio, la fabbrica, ecc.), e solo per le società tipicamente non operative (holding su tutte) come criterio completamente autonomo. Sulla tematica del controllo, molto interessanti sono le precisazioni svolte dagli autori in relazione alla differenza tra il potere di influenza esercitabile dai soci di riferi-

Un altro profilo da considerare per una corretta interpretazione del criterio del place of effetcitve management è il seguente. L’attività di amministrazione – sia se intesa come attività di determinazione delle scelte strategiche, sia, nel caso dei gruppi societari, come «gestione ordinaria» dell’ente – risulta essere un’attività tendenzialmente priva di un chiaro collegamento territoriale, essendo essenzialmente basata su processi cognitivi e relazionali, che, grazie anche alle moderne tecnologie, possono essere comunicati e resi esecutivi in tempi brevissimi anche in luoghi molto distanti uno dall’altro. Se si vuole garantire la sostanzialità del criterio della «sede di direzione effettiva», non si potrà ritenere sufficiente, al fine della verifica dello stesso, l’individuazione del luogo in cui si sono svolte le riunioni dei soggetti che amministrano l’ente, in quanto la sola valorizzazione di questi elementi comporterebbe, data la facilità di trasferimento dei soggetti e la possibilità di utilizzare forme di riunione a distanza (ad esempio la videoconferenza)14, la possibilità per il contribuente di localizzare il place of effective management a proprio piacimento, sganciandolo perciò dallo Stato di effettiva residenza. Inoltre, la valorizzazione del solo luogo in cui gli amministratori si riuniscono per deliberare, non garantisce che l’attività di amministrazione si sia lì effettivamente svolta con la continuità temporale15 prevista dalle norme sulla residenza, in quanto le riunioni dell’organo gestorio sono solamente momenti “istantanei”, la cui frequenza nell’anno è solitamente limitata. Per determinare in modo sostanziale il luogo di localizzazione del place of effective management, diviene allora maggiormente significativa la figura stessa delle persone fisiche che amministrano l’ente, ed in particolare la loro residenza. Si deve infatti tener conto che, in sede processuale, l’accertamento della localizzazione della sede di gestione effettiva avverrà inevitabilmente sulla base di elementi indiziari, proprio per effetto della «alta volatilità territoriale» dell’attività di amministrazione e dell’interpretazione “aperta” del criterio in esame: nell’influenzare il libero convincimento del giudice, sarà allora fondamentale apportare presunzioni (ancorché semplici) che risultino ragionevoli ed in linea con comportamenti “comuni” e tendenzialmente non anti-economici16. Così, ad esempio, qualora l’organo gestorio fosse costituito prevalentemente dai medesimi soggetti che costituiscono il board della capogruppo (tra cui, magari, anche quelli delegati all’amministrazione ordinaria), è ovvio che la presunzione che vi sia

mento e i poteri e le responsabilità che comunque rimangono, in via autonoma, in capo agli amministratori: le implicazioni giuridico-economiche del modello di governance che regola la società controllata, e le implicazioni dovute al rapporto di mandato tra soci ed amministratori non permettono, a ben guardare, di attribuire al socio il potere di gestione dell’ente controllato, nemmeno nel caso di controllo totalitario. 13 Comm. trib. reg. Toscana, sentenza n. 61/25/07 del 3 dicembre 2007, in Riv. Giur. Trib., 5, 2008, 429, con commento di STEVANATO. 14 Le riunioni in videoconferenza si considerano giuridicamente svolte nel luogo in cui si trovano fisicamente il presidente ed il segretario dell’organo collegiale. Perciò, per poter legittimamente affermare che una riunione si è svolta in un determinato luogo, basterà che in tale luogo si trovino fisicamente, non già tutte le persone che compongono l’organo deliberante, ma solamente il presidente ed il segretario. 15 Sia l’art. 2 che l’art. 73 del T.U.I.R. prevedono che la verifica dei criteri per determinare la

residenza debba permanere «per la maggior parte del periodo di imposta». 16 L’onere della prova, in una asserita ipotesi di esterovestizione, è naturalmente a carico della amministrazione finanziaria, che dovrà provare la dissociazione fra residenza formale e residenza sostanziale. Tuttavia, essendo l’accertamento della residenza effettiva, come detto nel testo, basato su elementi indiziari che devono convincere il giudice, l’esito del processo sarà legato alla capacità delle parti di addurre motivazioni convincenti sulla tesi sostenuta, facendo sì che il principio dell’onere probatorio perda in parte la propria rigidità. Nell’indicare gli elementi indiziari che, in concreto, possono avere (e storicamente hanno avuto) maggiore influenza sulle dinamiche decisionali, si indicheranno, quindi, indifferentemente, elementi che potranno essere valorizzati dall’amministrazione finanziaria per provare l’esterovestizione, o viceversa dal contribuente per provare che la residenza effettiva è la medesima che emerge formalmente.


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“commistione” tra socio di riferimento ed ente partecipato sarà particolarmente forte, e quindi, l’asserzione che il place of effective management debba essere individuato nei luoghi di comando della stessa capogruppo sarà più difficile da superare, anche al di là del fatto che il consiglio di amministrazione si fosse effettivamente riunito presso la sede legale della partecipata17. Altrettanto forte risulterà la presunzione che l’attività di amministrazione sia effettivamente svolta nel paese di residenza degli amministratori18, quando la maggior parte di essi sia residente in uno stesso Stato diverso da quello in cui ha sede l’ente amministrato: in una siffatta situazione, risulterà poco credibile, perché particolarmente anti-economico, poter pensare che gli amministratori svolgano effettivamente la propria attività decisionale nel paese in cui ha sede la società, ivi trasferendosi “quotidianamente” (o quantomeno con quella continuità prevista dalla norma); risulterà, invece, più logico pensare che i processi decisionali si siano effettivamente formati nel paese di residenza della maggior parte degli amministratori (sia in un primo step come processo decisionale individuale, sia in un secondo step, come processo collettivo dovuto al confronto tra i diversi soggetti). Come già detto in precedenza, qualora vi siano delle deleghe per l’ordinaria amministrazione a favore di uno o più amministratori, per localizzare la sede di gestione effettiva si dovrà preferire il luogo dove la delega è adempiuta, proprio perché i compiti delegati hanno tendenzialmente una ripetitività temporale che risulta più idonea a stabilire l’esistenza del collegamento territoriale, rispetto alle mansioni che rimangono di competenza dell’organo gestorio nella sua interezza (la straordinaria amministrazione), che sono invece caratterizzate da una frequenza episodica. In questi casi, perciò, la presunzione di residenza dell’ente si baserà più verosimilmente sulla residenza dei soli amministratori delegati, quando si riesca a corroborare ciò con evidenze fattuali che confermino che le deleghe sono effettivamente adempiute da tali soggetti e, quindi, non puramente formali19.

17 In questo caso, infatti, la dimostrazione che effettivamente vi siano state le riunioni degli amministratori presso la sede legale della società per adottare le decisioni relative all’amministrazione dell’ente, mediante, ad esempio, la presentazione dei biglietti aerei, o altra documentazione idonea a provare l’effettiva tenuta del C.d.A. presso la sede della holding, potrebbe essere vinta dalla considerazione che tale spostamento non era necessitato, posto che il board, essendo prevalentemente lo stesso di quello della capogruppo, avrebbe ben potuto deliberare dai luoghi utilizzati per la prima, e che quindi lo spostamento era solamente preordinato ad evitare la riqualificazione della residenza nello Stato della capogruppo. Tale contestazione, avanzata dall’amministrazione finanziaria, prenderebbe forza dalle evidenze empiriche che il costo di una siffatta «costruzione probatoria» sarebbe contenuto dati i veloci mezzi di trasporto di cui oggi si dispone, o degli altri strumenti di trasferimento di dati ed immagini messi a disposizione dalla moderna tecnologia. 18 L’art. 35 comma 13 del D.L. 223/2006, aggiungendo il comma 5-bis all’art. 73 del T.U.I.R. ha elevato a presunzione legale la presunzione di residenza in Italia di una società basata sulla residenza della maggior parte dei componenti dell’organo gestorio dell’ente stesso, limitatamente però alle società o enti che detengano partecipazioni di controllo in

È in questi termini che va inquadrato il non infrequente caso in cui, in una struttura di gruppo, il presidente del Consiglio di amministrazione della controllante rivesta la medesima carica anche nelle controllate. In questi casi, infatti, spesso il Presidente del C.d.A. delle controllate si limita a svolgere una funzione di mero indirizzo, senza ingerirsi nell’operatività amministrativa e gestionale della società stessa, che in concreto viene affidata agli amministratori delegati o comunque a dirigenti muniti di ampie procure. Ebbene, in siffatti casi è evidente come la particolarità e limitatezza della funzione in questione sia inidonea a far assumere rilevanza, per determinare la residenza fiscale delle controllate, all’attività svolta dal presidente del board. La stessa identificazione dei soggetti che amministrano l’ente può comportare accertamenti di fatto volti a verificare se l’attività di amministrazione sia effettivamente svolta dai soggetti formalmente investiti del ruolo di amministratori, o se, invece, il potere gestorio dell’ente debba essere ricondotto a soggetti diversi: ciò può succedere, sia con riferimento al socio di riferimento, che spesso risulta essere, come già detto, l’effettivo amministratore dell’ente partecipato, sia in riferimento ad altre figure, che spesso non rivestono nessun ruolo interno alla società, ma l’amministrano per mezzo di rapporti contrattuali di vario genere. Si ricorda, a tal riguardo, il caso deciso dalla Commissione tributaria centrale20, che ritenne fiscalmente residente in Italia una società panamense che aveva dato formale procura quale “agente generale” ad una persona fisica residente a Napoli, la quale eseguiva di fatto la generalità degli interessi della società. L’ampiezza della procura e gli elementi di fatto riscontrati dall’amministrazione finanziaria (l’estrema libertà di manovra e la commistione tra il patrimonio sociale e i conti correnti del procuratore), avevano indotto i giudici a confermare la ricostruzione dell’ufficio accertatore, che aveva ritenuto residente in Italia la società stessa per avere in Italia (presso il domicilio del procuratore) l’effettiva sede dell’amministrazione.

società italiane. Stabilisce infatti la norma che: «salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti che detengano partecipazioni di controllo, ai sensi dell’art. 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a e b del comma 1 se, in alternativa: a) sono controllati anche indirettamente ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato; b) sono amministrate da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato». Sulla novella introdotta dal D.L. 223/2006 relativa alle presunzioni di residenza delle società estere che detengono partecipazioni in società italiane si permetta di rinviare alla circolare n. 1 Fondazione centro studi U.N.G.D.C. anno 2007. 19 In una recentissima sentenza della Comm. trib. prov.. di Belluno (sent. 173/01/2007, in Corr. Trib., 12, 2008 con commento di STEVANATO, Holdings statiche e accertamento della residenza fiscale italiana dell’ente estero) è stata affermata la residenza in Italia di una società di diritto tedesco controllata da una società italiana, facendo principalmente leva sul fatto che, in presenza di due amministratori con poteri disgiunti, tutte le principali decisioni ed operazioni poste in essere dalla controllata tedesca erano ascrivibili all’amministratore residente in Italia, che era anche

amministratore e socio della società controllante, mentre nel processo non erano state concretamente provate le mansioni adempiute dall’altro amministratore, residente in Germania. Molto probabilmente, se si fosse concretamente dato prova che l’amministratore tedesco adempieva a tutte le mansioni riguardanti l’ordinaria amministrazione, il giudizio della Commissione avrebbe potuto essere diverso, in quanto, come sottolineato nel testo, l’intervento dell’amministratore-socio della controllante – nelle principali operazioni della società, sarebbe stato giustificato come ingerenza rientrante nell’attività di «direzione e coordinamento», che, come visto, in presenza di altri elementi, non dovrebbe essere valorizzata nella localizzazione della sede dell’amministrazione. Dalla sentenza emerge quindi con chiarezza come, per scongiurare la riqualificazione della residenza di un ente, non sia sufficiente la presenza di amministratori residenti nello Stato in cui è situata la sede dell’ente, e neppure che formalmente ad essi siano attribuiti i poteri di amministrazione ordinaria (mediante deleghe o prevedendo, come nel caso sentenziato, l’amministrazione disgiunta) ma in sede processuale andrà data prova che i poteri attribuiti a tali soggetti erano concreti e realmente esercitati da questi ultimi. 20 20 Comm. trib. centr., sez. VII, 10 ottobre 1996, n. 4992, in Dir. e Prat. Trib., 1999, II, 87 ss., con nota di ARAGNO.


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4. L’oggetto principale Oltre alla sede dell’amministrazione, l’altro criterio sostanziale previsto dall’art. 73 comma 3 del T.U.I.R. è l’oggetto principale. A prima vista, tale criterio sembra essere puntualmente definito dalla stessa norma, che ai successivi commi 4 e 5 stabilisce che «l’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata. Per oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto. In mancanza dell’atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l’oggetto principale dell’ente residente è determinato in base all’attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato; tale disposizione si applica in ogni caso agli enti non residenti». Se le disposizioni sopra riportate fossero realmente riferibili al concetto di «oggetto principale» quale criterio per determinare la residenza di un soggetto, sarebbe negata la sua natura di criterio sostanziale, in quanto la sua verifica sarebbe legata a quanto formalmente previsto nell’atto costitutivo o nello statuto dell’ente e, solo in mancanza di questo, all’attività effettivamente esercitata. Queste due disposizioni, invece, devono essere ricollegate direttamente al comma 1 (e non quindi al comma 3 che le precede), che individua, tra i soggetti passivi dell’Ires, gli enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che hanno o meno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali: i commi 4 e 5 interpretano, perciò, il concetto di «oggetto principale» in tale ambito e servono quindi esclusivamente per determinare la commercialità o meno dell’ente. La localizzazione dell’oggetto principale risulta essere di immediata accertabilità per quelle attività caratterizzate da un evidente ed univoco radicamento in un determinato territorio (come ad esempio un negozio, una fabbrica, un’attività di servizi il cui mercato si esaurisce all’interno di un unico Stato), mentre è foriero di mille difficoltà quando oggetto dell’accertamento siano enti con rilevanza transnazionale, caratterizzati da una pluralità di aggregazioni produttive (punti vendita dislocati in più Paesi, fasi del processo produttivo geograficamente delocalizzate), o da una pluralità di beni gestiti. Per accertare il luogo dell’oggetto principale si deve fare principalmente riferimento ai rapporti economici che l’ente pone in essere coi terzi, distinguendoli da quelli che rientrano nell’attività di amministrazione, in quanto, altrimenti, i due criteri previsti dall’art. 73 comma 3 tenderebbero a sovrapporsi. Per determinare il Paese di residenza mediante la localizzazione dell’oggetto principale, potrà allora essere valorizzato il principale mercato di destinazione, dove ad esempio sono localizzati la maggior parte dei punti vendita o in cui è realizzata la maggior parte del fatturato; può anche accadere, viceversa, che, per alcuni settori economici, rilevi maggiormente il mercato di approvvigionamento piuttosto che quello di sbocco: in tali casi, l’oggetto principale andrà localizzato nel paese in cui si realizzano la maggior parte delle forniture; ancora potranno essere valorizzati criteri quali il Paese in cui viene impiegato il maggior numero di dipendenti, o in cui maggiore è l’ammontare degli investimenti. Per le società che gestiscono beni patrimoniali (soprattutto immobili e partecipazioni), si potrebbe ritenere, secondo una certa opinione, che la localizzazione dell’oggetto sociale debba farsi coincidere con il luogo in cui sono localizzati i beni gestiti: così se una società con sede legale all’estero è proprietaria esclusiva-

21 Su analoga posizione MANZITTI, Considerazioni in tema di residenza fiscale delle società, in Riv. Dir. Trib., 1998, IV, 181 ss.

mente di immobili siti in Italia, si potrebbe ritenere che l’oggetto principale della società si trova in Italia. Meno immediato è il caso di una società con sede legale all’estero che detenga partecipazioni in società di residenza (e nazionalità) italiana. In questo caso i beni detenuti dalla società sono i pacchetti azionari o le quote delle società partecipate, e non già direttamente le aziende di queste ultime: applicando la regola vista per gli immobili, si dovrebbe affermare che la localizzazione dell’oggetto principale coincide con il luogo in cui sono materialmente custoditi i beni cartolari. Tale affermazione risulta tuttavia priva di un effettivo significato, dato che, proprio per la cartolarità (o immaterialità) di detti beni, il collegamento territoriale di questi è assolutamente privo di significatività, in quanto sarebbe semplicissimo per il contribuente detenere tali beni nel Paese in cui si vuole localizzare la residenza. Si potrebbe allora dare rilevanza alla localizzazione dei beni di primo grado (le aziende) posseduti dalla società partecipata: se la società italiana partecipata ha il proprio oggetto principale in Italia, allora anche l’oggetto principale della partecipante andrà localizzato in Italia, qualora la partecipazione costituisca il principale bene di quest’ultima. Questa interpretazione è tuttavia criticabile in quanto scavalca tout court lo schermo societario: a ben vedere, infatti, l’istituto giuridico della società si risolve sempre in una fictio legittimata dall’ordinamento, il quale però deve accettarne le derivazioni logiche, e quindi, nel caso di specie, l’autonomia del bene di secondo grado rispetto alle aziende sottostanti21. Per le società holding, come si vedrà specificamente nel prossimo paragrafo, è quindi preferibile ricercare altre soluzioni interpretative o, de iure condendo, autonomi criteri per la determinazione della residenza. Una conferma di quanto appena affermato viene data – seppur con riferimento all’imposta di successione – dalla Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, sent. 11 giugno 2007, n. 13579, che riprende Cass., sent. 6 aprile 2004, n. 6799)22. Secondo la Suprema Corte, non è assoggettabile ad imposta in Italia il trasferimento mortis causa delle azioni o quote di una società estera che abbia, come unico o principale asset, la titolarità della partecipazione di controllo in una società residente in Italia. Ciò, in quanto la semplice relazione di controllo non costituisce di per sé motivo sufficiente per far considerare la società controllata come stabile organizzazione in Italia della controllante estera, e nemmeno per affermare che la controllante abbia il proprio oggetto principale dell’attività in Italia, e debba quindi considerarsi ivi residente. Tale relazione di controllo costituisce tutt’al più un elemento indiziario, sfornito comunque di autonoma valenza probatoria, necessitando il riscontro di ulteriori circostanze gravi, precise e concordanti. 5. L’inadeguatezza dei criteri della «sede dell’amministrazione» e dell’«oggetto principale» per le società di mera gestione patrimoniale Anche alla luce delle considerazioni finora svolte, è intuitivo che i contribuenti che hanno la maggiore possibilità, volendolo, di localizzare all’estero gli elementi strumentali alla propria attività, sono certamente le società di godimento di cespiti patrimoniali cartolari, quali attività finanziarie, partecipazioni, marchi e brevetti o altri beni immateriali. Tali soggetti riescono, infatti, a ridurre al minimo i collegamenti con il territorio, in quanto non abbisognano di nessuna struttura concreta per lo svolgimento della loro attività (ed infatti la loro se-

22 Per un commento a tale decisione si veda STEVANATO, Oggetto principale della holding e territorialità dell’imposta sulle successioni e

donazioni, in Corr. Trib., 2007, 2353 ss.


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de viene generalmente domiciliata presso studi professionali o sedi di altre società) e non necessitano nemmeno di una gestione attiva, limitandosi piuttosto a sfruttare passivamente le potenzialità reddituali dei beni detenuti23. Inoltre, l’organo amministrativo di tali società, non dovendo far altro che gestire passivamente i cespiti patrimoniali, non deve necessariamente essere composto da figure altamente specializzate, o caratterizzate da capacità imprenditoriali difficilmente ripetibili. L’organo gestorio, in questi casi, assume, perciò, un carattere di fungibilità: potrà quindi essere composto da professionisti residenti nel luogo in cui ha sede la stessa società, eliminando così in radice le possibili contestazioni sul luogo in cui effettivamente l’organo amministrativo dell’ente si sia riunito o abbia esercitato le proprie attività di gestione. Con riferimento a queste tipologie di enti, si riscontra perciò la tendenziale inadeguatezza dei criteri di collegamento territoriali sostanziali previsti dall’art. 73 comma 3 e dalle norme convenzionali, in quanto, per le circostanze appena evidenziate, questi criteri risultano facilmente strumentalizzabili da parte del contribuente, avendo nel concreto una consistenza più formale che sostanziale. La problematica in oggetto sconta evidentemente un limite normativo: i criteri utilizzati sia dal diritto interno che in ambito internazionale per stabilire la residenza fiscale di una società sono chiaramente pensati per un ente che svolge un’effettiva attività di impresa. Nel caso di società di mera intestazione di patrimoni (e tanto più se cartolari), viene a mancare del tutto l’attività “imprenditoriale”, in quanto un siffatto ente si limita a sfruttare le potenzialità reddituali dei cespiti posseduti, non diversamente da quanto farebbe un investitore privato privo della qualifica di imprenditore. Ragionare in termini di «sede dell’amministrazione», quale luogo in cui vengono assunte le decisioni strategiche dell’ente (ben distinguendo – come prima già s’è detto – tra l’altro ciò che è l’attività di amministrazione da ciò che è influenza del socio), non ha, perciò, molto senso se riferito a soggetti che non svolgono alcuna reale attività, limitandosi a detenere passivamente partecipazioni, piuttosto che marchi o capitali finanziari24 25. E lo stesso si potrebbe dire in relazione al criterio dell’oggetto principale dell’attività, che necessariamente presuppone l’esistenza di una concreta attività d’impresa. A ben guardare, la previsione di medesimi criteri di collegamento sia per le società operative che per quelle «meramente intestatarie di beni» si inserisce in una problematica di più ampio raggio che contraddistingue il nostro ordinamento tributario, ovvero la scelta di considerare le società commerciali quali «imprese in senso fiscale» in ragione di un elemento di ordine puramente formale, e cioè la scelta dello strumento societario per l’esercizio di un’attività di impresa o l’intestazione di un patrimonio. Tale scelta semplificatoria ha spesso evidenziato, in diversi ambiti della fiscalità, delle controindicazioni che hanno reso necessario degli accorgimenti correttivi specifici: si pensi, ad esempio, alla disciplina delle società di comodo. Non è evidentemente questa la sede per addentrarci nelle problematiche ora abbozzate. Qui si può solo rilevare come, in un’ottica de iure condendo, sarebbe forse il caso di riflettere con-

23 Gli amministratori di tali società vengono spesso scelti tra gli stessi professionisti nei cui studi sono domiciliate, proprio perché la gestione dell’attività sociale è embrionale e si concretizza quasi esclusivamente in adempimenti più formali che sostanziali (firmare atti, partecipare ad assemblee su indicazioni che vengono fornite dai soci e poco altro). 24 Le stesse considerazioni sono condivise da STEVANATO, Holding di partecipazioni e presunzione di residenza, in Corr. Trib., 1, 2008,

cretamente sulla opportunità di prevedere distinti criteri di collegamento per le società di «mera intestazione di beni» in virtù delle sostanziali differenze di tali enti rispetto alle società operative. Proprio per l’assenza di una effettiva attività imprenditoriale, per queste tipologie di società26 i criteri di collegamento non dovrebbero aspirare ad individuare il territorio statale entro i cui confini si svolge concretamente una certa attività direzionale (sede dell’amministrazione) o materiale (oggetto principale), ma piuttosto il luogo in cui effettivamente vengono goduti i frutti derivanti dallo sfruttamento passivo del patrimonio intestato all’ente. Oltre a quanto fin qui esposto si possono aggiungere conclusivamente alcune ulteriori considerazioni. Va innanzitutto sottolineato come sia pacificamente ricorrente nella prassi internazionale la strutturazione dei gruppi attraverso sub holding collocate in Stati diversi da quello di residenza della capogruppo. In tale ottica, ci si dovrebbe quindi interrogare sulle conseguenze che avrebbe, nella lotta al fenomeno dell’esterovestizione, un approccio eccessivamente appiattito sul concetto di controllo, quasi a voler aprioristicamente ritenere residente in Italia ogni società sub-holding di tipo “statico” controllata da un soggetto italiano. Se si ribaltasse il discorso – facendo quindi riferimento alle fattispecie nelle quali vi sono gruppi esteri aventi sub holding italiane – si dovrebbero forse considerare residenti all’estero tutte le sub holding italiane, solo perché controllate da soggetti esteri? Va comunque osservato che le presunzioni di residenza introdotte all’interno dell’art. 73 T.U.I.R. – per le quali si rimanda alla nostra circolare n. 1/2006 –, sembra a prima vista spingere proprio verso un approccio di questo tipo, teso a valorizzare, in maniera un po’ troppo semplicistica, il rapporto di controllo dell’ente estero da parte di un soggetto residente in Italia. È quindi necessario, nel fornire la prova contraria, ben evidenziare le peculiarità del singolo caso, evidenziando eventualmente anche le contraddizioni che la sola valorizzazione del rapporto di controllo comporterebbe, senza tuttavia trascurare che potrebbe risultare difficile, per le società holding, replicare alla presunzioni di cui sopra allegando una reale attività d’impresa svolta nel territorio estero. 6. Il problema delle notifiche degli atti tributari ai soggetti esterovestiti L’accertamento dei fenomeni di esterovestizione, oltre alle questioni di natura sostanziale precedentemente illustrate, pone alcune rilevanti problematiche attinenti al luogo e alle modalità di notifica degli avvisi di accertamento, intestati a soggetti che hanno la residenza formale (sede legale o luogo di costituzione) all’estero. È utile, in quest’ambito, allargare l’angolo visuale, facendo riferimento anche ai casi di esterovestizione relativa a persone fisiche. Infatti, come si avrà modo di valutare di seguito, le problematiche che si riscontrano nella notifica degli avvisi di accertamento

69 ss. e Id., Oggetto principale e interposizione ai fini della residenza fiscale, in Dialoghi Dir. Trib., 12, 2007. 25 Parzialmente diversa è la situazione di società di mera intestazione di patrimoni immobiliari: per esse il collegamento territoriale risulta più evidente per effetto della localizzazione degli immobili posseduti. 26 La distinzione dei criteri di collegamento dovrebbe investire ogni persona giuridica caratterizzata dall’assenza di un’attività con-

creta, intesa eventualmente anche come attività istituzionale e non solamente di impresa. Gli strumenti di mera intestazione di patrimoni con autonoma personalità giuridica e/o fiscale, risultano essere sempre più numerosi con la sempre maggiore internazionalizzazione del diritto: si pensi ai trust, che potrebbero riproporre le stesse problematiche sulla determinazione della residenza fiscale di quelle or ora viste per le società di mera intestazione di patrimoni.


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a soggetti formalmente residenti all’estero, hanno dei tratti in comune indipendentemente dalla qualifica del soggetto (persone fisiche o persone giuridiche): ciò consente perciò, a differenza delle tematiche sostanziali, una disamina unitaria e complessiva, che investa sia l’una che l’altra tipologia di soggetti. Per poter affrontare la tematica in oggetto, si deve innanzitutto brevemente richiamare il concetto di domicilio fiscale, che, come noto, rappresenta il luogo in cui vanno effettuate le notifiche al contribuente e in relazione al quale si determina l’ufficio territorialmente competente ad emettere l’atto impositivo. Partendo dal domicilio fiscale delle persone fisiche, l’art. 58 comma 2 del D.P.R. 600/1973 stabilisce che «le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato hanno il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte. Quelle non residenti hanno il domicilio fiscale nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito più elevato. I cittadini italiani, che risiedono all’estero in forza di un rapporto di servizio con la pubblica amministrazione nonché quelli considerati residenti ai sensi dell’art. 2, comma 2-bis, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, hanno il domicilio fiscale nel comune di ultima residenza nello Stato». La norma appena citata lega il domicilio fiscale della persona fisica alla sua residenza anagrafica, stabilendo, invece, per i non residenti (il cui collegamento con l’ordinamento fiscale italiano si limita al conseguimento di redditi prodotti all’interno del territorio dello Stato), che il domicilio fiscale debba essere individuato nel comune in cui si è prodotto il reddito più elevato tra quelli prodotti in Italia. Il comma 2 dell’art. 58, a ben vedere, non disciplina il caso in cui la persona fisica sia (asseritamente) esterovestita, con una dissociazione tra residenza formale e residenza stabilita in base a criteri sostanziali (dimora abituale, sede principale degli affari e in-

27 Un soggetto esterovestito, com’è noto, è assoggettato a tassazione in Italia sui redditi ovunque prodotti in virtù del fatto di essere fiscalmente residente nello Stato italiano (worldwide taxation), ed è quindi necessario, anche per esso, individuarne il domicilio fiscale. 28 Non aiuta a tal fine, come potrebbe sembrare ad una prima lettura, il primo comma dell’art. 59, D.P.R. 600/1973, che attribuisce all’amministrazione finanziaria la facoltà di stabilire il domicilio fiscale, in deroga alle norme cui all’art. 58 citato, nel comune dove il soggetto stesso svolge in modo continuativo l’attività principale: tale norma, infatti, sembrerebbe dare rilevanza non già alla residenza formale, ma a quella sostanziale. Tuttavia, in primis, la norma fa riferimento esclusivamente al luogo in cui il soggetto esercita la propria attività principale, circoscrivendo perciò la facoltà dell’amministrazione di stabilire il domicilio fiscale del contribuente ai soli casi in cui tale soggetto eserciti una attività economica all’interno dello Stato, e non già, quindi, quando la sua residenza fiscale in Italia sia dovuta all’esistenza nel territorio italiano della sola dimora abituale o del centro degli interessi intesi in senso affettivo e sociale, e non quindi economico. Inoltre, se il soggetto “esterovestito” esercitasse un’attività continuativa in Italia, essa comporterebbe l’emersione di un reddito ivi prodotto, e quindi in tal caso l’individuazione del domicilio fiscale di un siffatto contribuente sarebbe già possibile ai sensi del

teressi): in questo caso, infatti, il soggetto, pur ritenuto fiscalmente residente in Italia (ex art. 2, comma 2, del T.U.I.R.), non è iscritto nelle anagrafi della popolazione residente (sarà eventualmente iscritto all’Aire se soggetto italiano), e non è quindi possibile individuare il suo domicilio fiscale in relazione a tale dato formale, cui fa esclusivo riferimento l’art. 58. Se il contribuente persona fisica, fiscalmente residente in Italia per ragioni sostanziali (residenza o domicilio effettivo in Italia) conseguisse redditi prodotti nel territorio dello Stato italiano, potrebbe ritenersi applicabile, in analogia ai soggetti non residenti, il secondo periodo del comma 2 dell’art. 58 sopra citato, individuando perciò il domicilio fiscale nel comune in cui è stato prodotto il più elevato tra detti redditi. Qualora, invece, il soggetto esterovestito non conseguisse nessun reddito all’interno del territorio italiano, non vi sarebbe alcun criterio positivamente previsto dalla norma per individuare il domicilio fiscale. Conseguentemente, mancherebbe un luogo dove notificare eventuali atti di accertamento in relazione al conseguimento di redditi di fonte estera. La norma evidenzia, perciò, un “vuoto normativo”, che deve necessariamente essere colmato in via interpretativa. Non è possibile che un contribuente italiano27 non abbia un domicilio fiscale nel territorio dello Stato: diversamente, infatti, si assisterebbe all’assurda situazione in cui il contribuente non può essere controllato, posto che l’ufficio territorialmente competente a ciò è quello «distrettuale nella cui circoscrizione è il domicilio fiscale del soggetto»28. Per colmare tale vuoto (quantomeno al fine di determinare l’ufficio finanziario competente), si dovrà perciò fare necessariamente riferimento al luogo in cui si ritiene debba essere localizzata la residenza sostanziale, non essendoci altri criteri di collegamento con il territorio dello Stato: il domicilio fiscale sarà allora individuabile nel comune in cui si trovano la residenza o il domicilio civilistici del contribuente29.

comma 2 dell’art. 58, senza dover scomodare perciò la facoltà prevista dall’art. 59. In secondo luogo, la facoltà attribuita all’amministrazione ha, in realtà, il solo fine di poter modificare il domicilio fiscale di un contribuente (28), e non già quindi stabilirlo in via originaria. L’ultimo comma dell’art. 59, infatti, stabilisce che il provvedimento con cui l’amministrazione esercita la propria facoltà, deve essere motivato e notificato all’interessato ed ha effetto dal periodo successivo a quello in cui è stato notificato: queste condizioni all’efficacia del provvedimento, presuppongono, a ben vedere, l’esistenza di un domicilio fiscale del contribuente, in mancanza del quale si ripropongono, anche per il provvedimento, le medesime problematiche in tema di notifica dell’avviso di accertamento in conseguenza dell’esterovestizione del soggetto. 29 Ci si dovrebbe chiedere, a tal proposito, cosa succederebbe qualora l’accertamento della “esterovestizione” (ovvero l’asserzione della residenza fiscale in Italia della persona fisica che formalmente risiede all’estero), non possa accompagnarsi alla precisa individuazione di un luogo puntuale, come può avvenire quando la residenza fiscale del soggetto derivi dalla presenza in Italia del centro degli interessi e degli affari dello stesso. Ci si potrebbe infatti imbattere in un caso in cui è palese che il centro degli affari e degli affetti del soggetto sia in Italia, perché ad esempio ivi risiede la sua famiglia, (la moglie in un comune italiano, la fa-

miglia d’origine ed il figlio in un altro comune) ed ivi ha sede una società di cui lo stesso è socio di maggioranza (in un altro comune ancora): in una siffatta ipotesi, la residenza fiscale in Italia del soggetto può certamente ritenersi provata, ma stabilire in quale dei tre diversi comuni debba localizzarsi il suo centro degli interessi ed affari, al fine di stabilirne il domicilio fiscale, pare tutt’altro che semplice, in quanto ciò significherebbe graduare per importanza i tre diversi rapporti valorizzati. In questo ed altri casi ipotizzabili, appare assai difficile stabilire senza incertezze in quale comune italiano il privato, formalmente residente all’estero, ha il proprio domicilio fiscale: la fissazione di quest’ultimo e la conseguente individuazione della competenza di un determinato ufficio locale potrebbero perciò connotarsi per una qual certa arbitrarietà, con il rischio che, in sede processuale, l’avviso di accertamento emesso dall’ufficio venga ritenuto illegittimo in quanto emesso da un ufficio territorialmente incompetente. Per poter evitare tali problematiche, sarebbe necessario che l’art. 31 D.P.R. 600/1973 prevedesse una disposizione di chiusura residuale, che attribuisse in modo univoco e definitivo la competenza territoriale di un determinato ufficio finanziario nei casi in cui il domicilio fiscale del soggetto non fosse individuabile ai sensi dell’art. 58, o fosse comunque obiettivamente incerta la sua individuazione. La disposizione di chiusura potrebbe avere un tenore del genere: «quando l’individua-


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Per quanto attiene alla notifiche, il domicilio fiscale rileva per effetto della disposizione contenuta nell’art. 60 D.P.R. 600/1973 lett. c, per la quale «salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario». Nel caso di un soggetto asseritamente esterovestito, che non abbia conseguito redditi prodotti in Italia30, non vi è, come visto, una specifica disposizione normativa che univocamente stabilisca come individuare il domicilio fiscale del contribuente: si è appena sostenuto, che, in tal caso, il contribuente ha il domicilio fiscale nel luogo in cui viene individuata la residenza sostanziale in Italia del soggetto stesso. Se tuttavia l’amministrazione finanziaria notificasse l’avviso di accertamento, motivato appunto con l’asserita esterovestizione del soggetto (ovvero affermando la sua residenza fiscale in Italia), nel comune in cui la stessa ha accertato l’esistenza del domicilio civilistico del contribuente, si assisterebbe ad una paradossale situazione in cui il luogo dove poter validamente effettuare la notifica dell’atto di accertamento, non rappresenterebbe un elemento autonomo che si pone in via pregiudiziale rispetto alla legittimità nel merito della pretesa impositiva, ma si confonderebbe con essa. In situazioni come questa, si innescherebbe perciò un circolo vizioso: per sapere se l’atto di accertamento poteva essere notificato nel luogo in cui l’amministrazione ha individuato la residenza sostanziale del privato (ad esempio nel luogo in cui è localizzato il suo domicilio civilistico), occorre infatti prima stabilire se il soggetto formalmente residente all’estero ha effettivamente il domicilio nel luogo in cui è stato notificato l’atto, ma ciò è proprio l’oggetto del contendere. Si tratta dunque di situazioni in cui l’esame di una questione pregiudiziale non può non essere compiuto se non esaminando prima una questione principale e di merito, la cui soluzione riverbera i suoi effetti sulla questione pregiudiziale. Paradossalmente, in casi come questo, la questione pregiudiziale della legittima notifica perde ogni autonomia, divenendo irrilevante, in quanto assorbita dalla questione di merito: se il giudice accerta che il domicilio civilistico del soggetto è localizzato in Italia (e precisamente nel luogo supposto dall’amministrazione) la questione del vizio della notifica viene rigettata e il ricorso perciò respinto (per questioni attinenti al merito), mentre se il giudice esclude che il soggetto abbia il domicilio in Italia, la decisione della causa e l’accoglimento del ricorso verrà a dipendere anche stavolta per ragioni attinenti al merito, ancorché si tratti delle stesse ragioni che inficiano la notifica dell’atto impugnato31.

zione del domicilio fiscale non fosse possibile in applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 58, o essa fosse comunque obiettivamente incerta, l’ufficio competente (ad emettere l’avviso di accertamento o ad irrogare le sanzioni) è l’ufficio di X». La concentrazione in un determinato ufficio di determinati compiti non è una novità nell’ordinamento fiscale italiano: si pensi alle richieste di rimborso Iva avanzate dai non residenti che vanno presentate al Centro operativo di Pescara, oppure le richieste preventive per l’applicazione di alcune detrazioni di imposta, anch’esse da presentare al medesimo centro di Pescara indipendentemente dal domicilio fiscale del richiedente. 30 Se il soggetto di cui si asserisce l’esterovestizione ha conseguito redditi di fonte italiana, e li ha dichiarati, il suo domicilio fiscale sarà, per quanto sopra detto, il luogo in cui tali redditi sono prodotti. L’amministrazione finanziaria procederà perciò alla notifica

Tale paradosso deve far riflettere sulla opportunità di legare il luogo in cui effettuare le notifiche a concetti sostanziali che possono essere oggetto di accertamento, piuttosto che fare riferimento solo ad elementi univoci di agevole accertamento, o quantomeno tali da poter essere ricondotti a scelte fatte dallo stesso contribuente. D’altro canto non si deve trascurare che il luogo di notifica rappresenta un luogo in cui dovrebbe essere ragionevolmente assicurata la conoscenza o, meglio, la conoscibilità dell’atto nella sfera giuridica del suo destinatario, e non deve quindi essere stabilito dal legislatore in un luogo che, al contrario, non garantisca un collegamento attuale con il soggetto a cui l’atto è destinato. Il connubio di queste esigenze porterebbe a superare il divieto di notifica degli atti tributari presso il domicilio estero del contribuente, sancito dall’art. 60 comma 1 lett. f del D.P.R. 600/1973 (che dispone espressamente l’inapplicabilità dell’art. 142 c.p.c.)32, quantomeno nei casi in cui l’indirizzo del soggetto nello Stato estero è facilmente conoscibile da parte dell’amministrazione finanziaria33. Tale soluzione rappresenterebbe infatti quella ottimale in relazione alle due esigenze sopra evidenziate: l’indirizzo in cui il soggetto formalmente risiede all’estero è un dato incontrovertibile qualora dichiarato dal soggetto accertato o comunque dedotto da iscrizioni in anagrafi estere (si pensi ad esempio all’iscrizione all’AIRE), ed in ogni caso è comunque riferibile ad una manifestazione di scienza o di volontà (sia essa una dichiarazione resa dal soggetto stesso o un’iscrizione in elenchi pubblici) posta in essere dal soggetto stesso. Inoltre, tale dato non potrebbe costituire l’oggetto stesso dell’accertamento e quindi non verrebbe a crearsi quella situazione “circolare”, in tema di legittimità della notifica, sopra evidenziata. Analoghe critiche sono state mosse al luogo di notifica previsto dalla legge per i casi di cittadini italiani che hanno trasferito la propria residenza in paradisi fiscali, che vengono considerati, sino a prova contraria, fiscalmente residenti in Italia per effetto della presunzione legale cui all’art. 2, comma 2-bis, del T.U.I.R.: per tali soggetti, per il combinato disposto degli artt. 58 e 60, comma 1, lett. c, del D.P.R. 600/1973, le notifiche andavano effettuate nel comune di ultima residenza nello Stato. Le notifiche destinate a tali contribuenti venivano poi effettuate molto spesso in applicazione della lett. e dell’art. 60 D.P.R. 600/1973, mediante affissione dell’avviso del deposito previsto dall’art. 140 c.p.c., presso l’albo del comune, essendo infrequente, in tali casi, che nel comune di ultima residenza si ritrovi un’abitazione, un ufficio o un’azienda del contribuente34.

presso il comune nel quale tale luogo è localizzato, avendone conoscenza in quanto, ai sensi dell’art. 58 comma 4 D.P.R. 600/1973, «in tutti gli atti, contratti, denunzie e dichiarazioni che vengono presentati agli uffici finanziari deve essere indicato il comune di domicilio fiscale delle parti, con precisazione dell’indirizzo». Per tali contribuenti non vi è quindi nessuna problematica relativa alla notifica in quanto essa verrà effettuata nel comune comunicato dallo stesso soggetto che ha dichiarato i redditi conseguiti in Italia (si pensi ad un soggetto residente formalmente all’estero che possegga in Italia uno o più immobili). 31 Le stesse considerazioni, come vedremo, possono essere svolte in caso di esterovestizione societaria, quando il luogo di notifica venga identificato nella sede dell’amministrazione dell’ente. A tal proposito si vedano le osservazioni di STEVANATO, Prova dell’esterovestizione e luogo di effettuazione delle

notifiche: viene prima l’uovo o la gallina?, in Riv. Giur. Trib., 5, 2008, 438 ss. 32 Dispone l’art. 142 c.p.c., comma 1, che «se il destinatario non ha residenza, dimora o domicilio nello Stato e non vi ha eletto domicilio o costituito un procuratore a norma dell’art. 77, l’atto è notificato mediante spedizione al destinatario per mezzo della posta con raccomandata e mediante consegna di altra copia al Ministero degli affari esteri per la consegna alla persona alla quale è diretta». 33 La ratio del divieto delle notifiche all’estero degli atti tributari sostanziali è infatti quella di alleggerire l’amministrazione finanziaria dall’onere di dover svolgere difficili e onerose ricerche: tale interesse viene tuttavia a mancare quando è facilmente conoscibile l’indirizzo estero a quale poter notificare l’atto, a mezzo posta. 34 Dispone l’art. 60, comma 1, lett. e, D.P.R. 600/1973: «quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abi-


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In questo caso, benché non si fosse di fronte ad una situazione circolare come quelle sopra evidenziate (che si generano quando la notifica viene eseguita nel luogo in cui si accerta l’esistenza della residenza sostanziale del soggetto), le regole di notifica apparivano comunque inidonee a garantire una effettiva conoscibilità dell’atto da parte del destinatario. Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale, stabilendo, con la sentenza n. 366 del 7 novembre 2007, «l’illegittimità, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., del combinato disposto degli articoli 58, primo comma e secondo periodo del secondo comma, e 60, comma 1, lettere c, e e f, del D.P.R. n. 600/1973, nella parte in cui, in materia di notificazione degli atti tributari, non si prevede per coloro che sono iscritti nell’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) l’estensione della normativa prevista dall’art. 142 c.p.c. che assicura l’effettiva conoscenza dell’atto al destinatario senza che si aggravi l’attività procedimentale dell’amministrazione finanziaria». La rivisitazione delle regole di notificazione degli atti tributari destinati ai soggetti (quantomeno) formalmente non residenti pare perciò doverosa alla luce della presa di posizione della Consulta, al fine di evitare nuove pronunce di illegittimità costituzionale sulla falsariga di quella del novembre 2007. Quantomeno nei casi in cui l’attività dell’amministrazione finanziaria non venga aggravata da onerose ricerche del domicilio estero del soggetto, si dovrebbe perciò ritenere legittima la sola notificazione presso quest’ultimo, o attraverso la procedura prevista dall’art. 142 c.p.c. oppure mediante la notificazione a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, come già previsto dalla lettera e-bis dell’art. 60 citato: solo così infatti si garantirebbe l’effettiva conoscibilità dell’atto al suo destinatario35. Quanto al domicilio fiscale delle persone giuridiche, lo stesso viene fissato, ai sensi dell’art. 58 comma 3 D.P.R. 600/1973, «nel comune in cui si trova la loro sede legale o, in mancanza, la sede amministrativa; se anche questa manchi, essi hanno il domicilio fiscale nel comune ove è stabilita una sede secondaria o una stabile organizzazione all’estero e in mancanza nel comune in cui esercitano prevalentemente la loro attività». Nel caso di asserita esterovestizione societaria, quando l’ente estero non si sia mai rapportato con il fisco italiano (perché non

tazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affligge nell’albo del comune e la notificazione, ai fine della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello dell’affissione». 35 Non si può nemmeno obiettare che l’effettiva conoscibilità degli atti notificati è già assicurata dalla nuova lett. e-bis dell’art. 60, che prevede la facoltà per il contribuente non residente di comunicare al competente ufficio locale l’indirizzo estero presso il quale notificargli gli atti di accertamento: in primis perché si tratta di una facoltà per il contribuente e non di un obbligo posto a suo carico, ed in secondo luogo perché nelle fattispecie in cui viene asserita dall’amministrazione finanziaria italiana una esterovestizione di un soggetto, non è ragionevole ipotizzare che detto soggetto comunichi al competente ufficio locale il proprio indirizzo estero. È evidente che qualora il soggetto formalmente residenti estero si ritenga, secondo le proprie prospettazioni, fiscalmente non residente in Italia (nonché privo di red-

ha redditi di fonte italiana né un rappresentate fiscale in Italia), la fissazione del domicilio fiscale avviene per mezzo dei medesimi criteri che vengono valorizzati per determinare la residenza sostanziale dell’ente in Italia, e cioè la sede dell’amministrazione36 o l’oggetto principale dell’attività (luogo in cui l’ente esercita prevalentemente la sua attività). Si ripropongono perciò le medesime problematiche già evidenziate per le persone fisiche di cui si asserisce l’esterovestizione, che non abbiano conseguito redditi prodotti in Italia, sia in relazione alla corretta individuazione dell’ufficio finanziario territorialmente competente (nel caso in cui la determinazione puntuale della residenza sostanziale dell’ente sia problematica per la frammentazione sul territorio degli elementi di collegamento con lo Stato italiano), sia per quanto attiene al luogo in cui legittimamente notificare l’avviso di accertamento (data l’identità di tale questione preliminare con l’oggetto del contendere, cioè la prova dell’esterovestizione)37. In relazione al problema delle notifiche, si deve in ultimo sottolineare che, anche con riguardo alle persone giuridiche estere, come già visto per i privati contribuenti formalmente residenti all’estero, appare opportuna una rivisitazione delle norme sul domicilio fiscale e sul luogo di effettuazione delle notifiche (articoli 58 e 60 del D.P.R. 600/1973). Appare in particolare da ripensare il divieto di applicazione dell’art. 142 c.p.c.: quantomeno quando l’indirizzo estero della sede legale dell’ente di cui si asserisce l’esterovestizione sia facilmente conoscibile dall’amministrazione finanziaria, la notifica dell’avviso di accertamento presso tale indirizzo dovrebbe divenire la regola ordinaria, in quanto solo così si garantisce al destinatario una effettiva conoscenza dell’atto tributario, e si rispettano le previsioni dello Statuto del contribuente. Va infatti rammentato che l’art. 6 della L. 212/2000 pone in capo all’amministrazione l’obbligo di assicurare l’effettiva conoscenza al contribuente degli atti a lui destinati, imponendo che gli stessi siano comunicati nel luogo di «effettivo domicilio del contribuente, quale desumibile dalle informazioni in possesso della stessa amministrazione o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente, ovvero nel luogo in cui il contribuente ha eletto domicilio speciale ai fini dello specifico procedimento cui si riferiscono gli atti da comunicare».

diti di fonte italiana), non avrà alcun motivo per effettuare la comunicazione contemplata dalla citata lett. e-bis dell’art. 60. 36 Nel determinare il luogo in cui fissare il domicilio fiscale, il legislatore ha fatto riferimento al concetto di sede amministrativa, e non già della sede dell’amministrazione, come invece nella norma che determina i criteri per stabilire la residenza fiscale del soggetto. La differenza non è puramente lessicale: con «sede dell’amministrazione», il legislatore fa riferimento, come visto, alla sede di effettiva gestione dell’ente, ovvero il luogo in cui vengono assunte le decisioni necessarie ad amministrarlo, mentre con l’espressione «sede amministrativa» si intende ogni luogo in cui la società pone in essere una qualsiasi attività di amministrazione, ad esempio la tenuta della contabilità sociale od ogni altro servizio di back office. È ovvio che la sede dell’amministrazione è certamente anche una sede amministrativa, mentre non è assolutamente vero il contrario. Tuttavia, si può ritenere comunque che i due concetti possano essere considerati, nel caso di specie, sinonimi, in primis per l’utilizzo dell’articolo determinativo, che fa intendere l’e-

sistenza di una sola «sede amministrativa», cosa che la qualifica in modo diverso rispetto ad una qualsiasi sede secondaria in cui si svolgano servizi di tenuta della contabilità o in genere di book keeping: posto che le sedi amministrative di un ente possono essere tranquillamente più d’una, l’uso dell’articolo determinativo fa ritenere che l’espressione utilizzata dal legislatore nell’art. 58 voglia comunque indicare lo stesso concetto di sede dell’amministrazione, utilizzato nell’art. 73 del T.U.I.R.. In secondo luogo, la specificazione contenuta nel prosieguo del comma 3 dell’art. 58, dove viene stabilito che il domicilio è fissato nel comune in cui l’ente ha una sede secondaria: se la sede amministrativa fosse diversa dalla sede dell’amministrazione, essa rappresenterebbe necessariamente una sede secondaria, e quindi non vi sarebbe stato bisogno della specificazione di tale concetto, in quanto già assorbito dal più ampio concetto di sede secondaria. 37 Si segnala, perché ha affrontato tale tema con un certo approfondimento, Comm. trib. reg. di Firenze, n. 61/25/07 del 3 dicembre 2007, in Riv. Giur. Trib., 5, 2008, con commento di STEVANATO.


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In tale contesto, la salvezza delle regole di notifica degli atti tributari («restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari») va letta in modo da non vanificare il principio di «effettiva conoscenza degli atti». Ciò dovrebbe comportare che, ferma restando l’applicazione della disciplina minima delle notifiche degli atti tributari, l’amministrazione finanziaria dovrebbe darsi carico di verificare se tale disciplina, nel caso concreto, assolva all’obbligo di assicurare l’effettiva conoscenza dell’atto, ed in caso contrario dovrebbe indurla ad assumere iniziative idonee a garantire tale risultato, ad esempio attraverso l’invio di una raccomandata presso l’indirizzo estero del soggetto (naturalmente ove conosciuto o conoscibile senza soverchie difficoltà). 7. Conclusioni In conclusione, va sottolineato come il tema della residenza fiscale delle società nell’Ires, ed in particolare il fenomeno dell’esterovestizione societaria (nell’accezione qui accolta) costituisca un argomento di rilevante criticità. Alla luce di quanto esposto nella presente circolare – si può in conclusione evidenziare che: a) è del tutto condivisibile la ratio legislativa volta ad osteggiare comportamenti elusivi ed evasivi, perfezionati attraverso la collocazione all’estero di strutture in realtà effettivamente e concretamente residenti in Italia; b) tuttavia sul piano normativo, non si è ancora giunti a soluzioni che possano definirsi appaganti da un punto di vista sistematico; ciò, per una molteplicità di ragioni. Da un lato v’è senza dubbio la connaturata difficoltà ad individuare criteri di collegamento idonei ad intercettare manifestazioni di capacità economica effettivamente riconducibili al territorio italiano, specie con riguardo ad attività non radicate al territorio (attività che sono state definite ad «alta volatilità territoriale»); dall’altro, la concreta interpretazione di criteri attualmente previsti dal legislatore presenta molteplici aspetti di

problematicità e di dubbio, con particolare riguardo alla prova contraria idonea a disinnescare la valenza presuntiva di taluni strumenti normativi attualmente previsti nel nostro ordinamento (si fa riferimento alle presunzioni introdotte nel comma 5-bis dell’art. 73 del T.U.I.R.). Di talché – come s’è già rilevato sopra – emergono possibili profili di incoerenza ed irrazionalità nelle previsioni legislative attualmente presenti nell’ordinamento, sia con riferimento ai principi costituzionali (capacità contributiva, diritto di difesa, diritto ad un giusto processo, etc.) che con quelli di matrice comunitaria (libertà di stabilimento, proporzionalità, etc.); c) alcuni elementi costituiscono indefettibili punti di partenza per il pieno rispetto di codesti principi: tra essi, spicca senz’altro la necessità di non conferire rilevanza a criteri di collegamento meramente formali, dovendosi dare prevalenza, in questa materia, alla sostanza dell’attività in concreto svolta dal contribuente asseritamente esterovestito; d) con particolare riferimento, poi, al caso delle holding statiche, i profili di criticità si acuiscono in quanto queste tipologie di società non esercitano una concreta attività operativa (o più in generale di impresa); per detti soggetti, perciò, i criteri di collegamento territoriale impiegati dal legislatore si rivelano ancor più inadeguati, posto che gli stessi sono stati pensati per determinare la residenza di soggetti operativi (sede dell’amministrazione e oggetto principale dell’attività presuppongono l’esercizio di una concreta attività imprenditoriale) e non per enti che svolgono attività di mera gestione patrimoniale; e) infine, la necessità di un intervento legislativo o quantomeno di una chiara ed univoca posizione interpretativa è avvertita anche in ordine al problema della notificazione degli atti impositivi ai soggetti esterovestiti; punto fermo, in tale prospettiva, deve essere costituito senza dubbio dalla garanzia della conoscibilità dell’atto da parte del contribuente accertato, presupposto necessario per un pieno esperimento del diritto di difesa.

LE NOTIFICHE “DIRETTE” di Maurizio Villani 1. Le notifiche a mezzo posta Due recenti “sentenze-bufera”, una della Commissione tributaria provinciale di Lecce (sentenza della sez. V, n. 909/5/2009 del 23 ottobre 2009, depositata il 16 novembre 2009) e del tribunale civile di Udine (n. 1183/2009 del 4 giugno 2009, depositata il 20 agosto 2009), hanno polarizzato, all’improvviso, l’attenzione degli interpreti sulla particolare modalità della notificazione a mezzo posta. Fino ad ora, gli studiosi si sono soffermati, per lo più, ad interpretare e chiarire l’ambito oggettivo delle notificazioni, in particolare inquadrando i possibili vizi, principalmente, quali violazioni di norme sui soggetti legittimi destinatari delle stesse. Ma adesso, lo sguardo si è spinto altrove, e la nuova questione è: chiunque può effettuare le notificazioni di atti tributari? Si spinge fino a questo punto il criterio di specialità di tale disciplina? È, o non è, in coerenza con il principio di trasparenza, che esista, anche in questo ambito, un soggetto identificato, ed identificabile, a priori, come lo è, ad esempio, l’ufficiale giudiziario? E, si ritiene, sia questo il punto dal quale occorre partire per comprendere, fino in fondo, l’innovazione di tali due provvedimenti. In particolare, la Commissione tributaria di Lecce, ha stabilito che: «la possibilità di notificare la cartella mediante invio di raccoman-

1 D.P.R. 602 del 29 settembre 1973, art. 26.

data con avviso di ricevimento va riferita sempre agli ufficiali della riscossione o altri soggetti abilitati i quali possono avvalersi del servizio postale, mentre sono illegittime le notifiche eseguite direttamente dall’agente della riscossione. Il tema della notifica degli atti che incidono nella sfera patrimoniale del cittadino è stato rigorosamente disciplinato dal legislatore negli artt. 26 D.P.R. 602 del 29 settembre 1973 e 60 D.P.R. 600 del 29 settembre 1973, laddove vengono dettate tassative prescrizioni, finalizzate a garantire il risultato del ricevimento dell’atto da parte del destinatario ed attribuire certezza all’esito del procedimento notificatorio». E, quasi come se avessero voluto dare una continuità logica a tale principio, i giudici del tribunale di Udine, hanno concluso che: «non è consentito al concessionario di estendere la norma1 fino al punto da rendere anonimo ed impersonale l’invio della lettera raccomandata e di impedire qualsiasi forma di verifica sul rispetto della procedura». 2. La disciplina delle notificazioni delle cartelle di pagamento, ai sensi dell’art. 26, D.P.R. 602 del 29 settembre 1973. Evoluzione normativa In quest’ultimo periodo si sta sviluppando un’interessante diatri-


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ba ermeneutica sull’esatta interpretazione dell’art. 26 D.P.R. n. 602 del 29 settembre 1973, e successive modifiche ed integrazioni, soprattutto dopo le recenti pronunce giurisprudenziali, peraltro non isolate. È bene subito chiarire che la presente problematica si riferisce esclusivamente alle notifiche per posta degli atti amministrativi sostanziali (per esempio, cartelle esattoriali, atti della procedura esecutiva ecc.) e non riguarda assolutamente gli atti del processo tributario2, per i quali, invece, la notificazione, oltre ad ammettere spesso l’utilizzo di forme semplificate3, costituisce condizione di giuridica efficacia e, se viziata da nullità, comporta l’operatività della sanatoria, con effetto retroattivo, per raggiungimento dello scopo o per rinnovazione4. Innanzitutto, per focalizzare bene i termini giuridici del problema è importante precisare che, in tema di notificazioni delle cartelle di pagamento per posta, occorre distinguere due distinte fasi procedimentali: 1) la prima, quella di consegna materiale della cartella dal concessionario all’agente postale; 2) la seconda, quella di notifica da parte dell’agente postale al contribuente; in sostanza, l’agente postale agisce sempre come nuncius, cioè ausiliario dell’agente notificatore. I due momenti temporali sono nettamente distinti e disciplinati dall’art. 26, primo comma, cit. che – come è bene subito chiarire – è stato modificato nel corso degli anni ed ha avuto la seguente formulazione giuridica: a) dal 1 gennaio 1974 sino al 30 giugno 1999 «la notificazione della cartella al contribuente è eseguita dai messi notificatori dell’esattoria o dagli ufficiali esattoriali ovvero dagli ufficiali giudiziari e nei comuni, che non sono sede di pretura, da messi comunali e dai messi di conciliazione. Alla notificazione in comuni non compresi nella circoscrizione esattoriale provvede l’esattore territorialmente competente, previa delegazione da parte dell’esattoria che ha in carico il ruolo. La notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento. La notificazione si ha per avvenuta alla data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone previste dal comma successivo»; b) dall’1 luglio 1999 sino all’8 giugno 2001, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 12, comma 1, D.Lgs. n. 46 del 26 febbraio 1999, «la cartella è notificata dagli ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale. La notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento; in tal caso, la cartella è notificata in plico chiuso e la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone previste dal secondo comma»; c) dal 9 giugno 2001 sino ad oggi, a seguito delle ulteriori modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lett. c, D.Lgs. n. 193 del 27 aprile 2001 (G.U. n. 120 del 25 maggio 2001), «la cartella è notificata dagli ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale. La notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento; in tal caso, la cartella è notificata in plico chiuso e la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone previste dal secondo comma o dal portiere dello stabile dove

2 Cass., sez. un., sentenza n. 14294 del 20 giugno 2007. 3 Le cd. notifiche dirette. 4 Per utili approfondimenti, cfr. BRUZZONE, No-

è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda». Come può facilmente notarsi dallo sviluppo normativo di cui sopra, per la notifica a mezzo posta, il legislatore: 1) in un primo momento storico5, ha tassativamente previsto che fosse fatta direttamente «da parte dell’esattore»; 2) successivamente6, ha cancellato il suddetto inciso e, di conseguenza, ha previsto che fosse fatta soltanto dai soggetti tassativamente indicati nell’art. 26, comma 1, prima parte, cit., e cioè: dagli ufficiali della riscossione; da altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge; ovvero, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario; dai messi comunali; o dagli agenti della polizia municipale. È questa la ferma intenzione del legislatore secondo l’art. 12, comma 1, delle preleggi al codice civile: «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». Il significato proprio delle parole e l’intenzione del legislatore sono chiari nell’escludere, a far data dall’1 luglio 1999, l’esattore7 dalla notificazione mediante invio diretto della lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Questo è stato l’equivoco di fondo. Diversamente, il legislatore, nelle successive modifiche normative, avrebbe lasciato l’inciso «da parte dell’esattore» che, invece, ripeto, ha voluto totalmente cancellare a far data dall’1 luglio 1999, senza alcun ripensamento, per ben due volte. L’intermediazione necessaria di un soggetto abilitato allo svolgimento delle relative operazioni rappresenta il tratto distintivo delle notificazioni in senso stretto, differenziandole dalle altre misure di semplice conoscenza. Pertanto, devono ritenersi eccezionali le ipotesi derogatorie, rappresentate dalle notificazioni cd. dirette, previste da norme non interpretabili estensivamente né suscettibili di integrazione analogica. Infine, l’art. 26, ultimo comma, cit. testualmente dispone: «per quanto non è regolato dal presente articolo si applicano le disposizioni dell’art. 60 del predetto decreto». In sostanza, salvo alcune particolarità che in questa sede non ci interessano, per le notificazioni a mezzo del servizio postale, l’art. 60 D.P.R. n. 600/1973 richiama l’art. 149 del codice di procedura civile. La specifica normativa in tema di notificazioni degli atti amministrativi sostanziali a mezzo del servizio postale è rappresentata: dall’art. 149 c.p.c., richiamato dall’art. 60 D.P.R. n. 600/1973; dall’art. 3 della legge n. 890 del 20 novembre 19828. In sostanza, l’ufficiale giudiziario deve sinteticamente compiere le seguenti operazioni: scrivere la relazione di notificazione sull’originale e sulla copia dell’atto, facendo menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandata con avviso di ricevimento; presentare all’ufficio postale la copia dell’atto da notificare in busta chiusa, apponendo su quest’ultima le indicazioni del nome, cognome, residenza o dimora o domicilio del destinatario, con l’aggiunta di ogni particolarità idonea ad agevolare la ricerca; apporre il numero del registro cronologico, la propria sottoscrizione ed il sigillo dell’ufficio; presentare contemporaneamente l’avviso di ricevimento compilato con le indicazioni richieste dal modello predisposto dall’amministrazione postale, con l’aggiunta del numero del registro cronologico; corrispondere le tasse postali dovute, compresa quella per l’avviso di ricevimento e della raccomandazione di essa, all’ufficio postale di partenza.

tificazioni e comunicazioni degli atti tributari, Padova, 2006. 5 Lettera a) sopra citata. 6 Lettere b) e c) sopra elencate.

7 Oggi: agente della riscossione. 8 G.U. n. 334 del 4 dicembre 1982.


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Oltretutto, l’avviso di ricevimento è il solo documento idoneo a dimostrare sia l’intervenuta consegna che la data precisa di essa e l’identità e l’idoneità della persona a mani della quale è stata eseguita; di conseguenza, la mancata produzione dell’avviso di ricevimento comporta, non la mera nullità, ma l’inesistenza della notificazione9 . Tutte le suddette attività procedimentali dell’ufficiale giudiziario devono essere compiute, in sede tributaria, dai quattro tipi di soggetti abilitati di cui al citato art. 26, comma 1, prima parte, tra i quali non è assolutamente compreso il concessionario per espressa previsione legislativa10. In definitiva, per le notificazioni a mezzo del servizio postale, bisogna tassativamente rispettare la seguente procedura: 1) nella prima fase, dal concessionario all’agente postale, soltanto: gli ufficiali della riscossione; i messi notificatori abilitati; i messi comunali; gli agenti della polizia municipale possono materialmente presentare all’agente postale le cartelle esattoriali, nonché tutti gli altri atti della riscossione, ai sensi dell’art. 49, comma 2, D.P.R. n. 602 cit.11, rispettando scrupolosamente le tassative disposizioni di cui agli artt. 149 c.p.c. e 3 della legge n. 890/1992; infatti, l’art. 49, comma 2, D.P.R. n. 602 del 1973 cit., a seguito delle aggiunte apportate dall’art. 1, comma 1, lett. e, D.Lgs. n. 193 del 27 aprile 2001, testualmente dispone: «il procedimento di espropriazione forzata è regolato dalle norme ordinarie applicabili in rapporto al bene oggetto di esecuzione, in quanto non derogate dalle disposizioni del presente capo e con esso compatibili; gli atti relativi a tale procedimento sono notificati con le modalità previste dall’articolo 26»; 2) nella seconda fase, dall’agente postale al contribuente, l’agente postale deve rispettare scrupolosamente per le notifiche gli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile, con le specifiche modifiche dell’art. 60 D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 26 D.P.R. n. 602/1973 più volte citato. In ogni caso, il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento, che gli torna dall’agente postale, ed ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’amministrazione12 . 3. Inquadramento del vizio di notificazione Tutto ciò premesso, è ora possibile affrontare la problematica dei vizi di notificazione, come risultante dagli ultimi contrasti giurisprudenziali, in particolare, poi, per quanto concerne la speciale procedura di notifica degli atti a mezzo posta. Il richiamo alle norme del codice di procedura civile, rende applicabile nel processo tributario tutta la normativa concernente le ipotesi di nullità della notificazione e di sanabilità della stessa. L’art 160 codice di procedura civile, dispone che la notifica è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia, o nel caso vi sia assoluta incertezza sulla persona cui è fatta o sulla data. Comunque, in ogni caso, perché si possa parlare di nullità, e quindi di vizio sanabile, le devianze dallo schema legale devono avere pur sempre un astratto collegamento con il destinatario. Ora, per quanto attiene all’art.16 D.Lgs. 546 del 31 dicembre 1992, appare di interesse la sola ipotesi di nullità derivante dall’assoluta incertezza della persona alla quale la notifica sia fatta13. Ma, va comunque tenuto presente in ogni caso, l’art. 156 c.p.c., secondo il quale la nullità di un atto del processo non può essere fatta valere se lo stesso ha co-

9 In tal senso, Cass., sez. trib., sentenza n. 17066 del 10 marzo 2009, depositata il 22 luglio 2009. 10 Come precisato alla lett. a.

munque raggiunto lo scopo per il quale era stato formato. Tale ultimo principio, però, non può trovare applicazione e quindi superare le più gravi ipotesi di inesistenza della notificazione. Come già chiarito all’inizio di questo scritto, un atto è affetto da inesistenza, quando è stato posto in essere con procedure nemmeno astrattamente riconducibili allo schema procedurale proprio dell’atto. In tema di notificazione, saranno cause di inesistenza tutte le violazioni delle singole modalità procedurali, diverse dalle cause di nullità previste dall’art. 160 del codice di procedura civile e, cioè come già detto sopra, quelle relative alla persona alla quale deve essere consegnata la copia, all’incertezza assoluta della persona cui è stata fatta, ovvero circa la data. Ne consegue che, è ben possibile inquadrare come una delle ipotesi di inesistenza, il caso della notificazione effettuata da soggetto a ciò non abilitato, ovvero da soggetto non identificabile, e comunque, certamente incompetente. In questo senso, si è pronunciata anche la Comm. trib. prov. di Messina, nella sentenza n. 664 del 25 giugno 2009, stabilendo che: «deve ritenersi nulla in modo assoluto, o inesistente per vizio radicale, la notifica dell’avviso di accertamento effettuata da soggetto che non aveva poteri per eseguire la notifica». 4. Differente rilevanza della notificazione per gli atti di carattere sostanziale e per gli atti del processo Vi è una parte della dottrina che non concorda con l’inquadramento del vizio della notificazione effettuata da soggetto non abilitato, tra i motivi di inesistenza. In particolare, merita considerazione la nota pubblicata dall’avv. Cristina Marcolongo, la quale, tra l’altro, nell’approfondire la problematica dell’inquadramento del vizio tra i motivi di inesistenza o di nullità, si domanda come un’invalidità che inficia il procedimento notificatorio possa ripercuotersi sull’atto oggetto della notifica. A parere di chi scrive, per dare una risposta a tale problematica, occorre operare una netta distinzione tra invalidità della notificazione di un atto processuale e invalidità della notificazione di un atto sostanziale. Si riporta, in proposito, il commento fatto dall’avv. Mariagrazia Bruzzone, di Genova, alle recenti sentenze della Corte di Cassazione n. 9493 del 22 aprile 2009, e n. 9377 del 21 aprile 2009, le quali hanno considerato, in contrasto tra loro, la mancanza della relata di notifica, rispettivamente, come una mera irregolarità e un motivo di nullità della notifica stessa. Così quindi l’avvocato si esprime: «commentando favorevolmente l’orientamento espresso dai giudici di merito, sono già state esposte le ragioni a sostegno dell’essenzialità della relata ai fini della giuridica esistenza della notificazione a mezzo posta di atti tributari sostanziali in genere, e della cartella di pagamento in specie. Trattandosi di provvedimenti amministrativi recettizi, il perfezionamento del procedimento notificatorio incide sulla fattispecie costitutiva dell’atto, sicché il vizio della notificazione, sia esso qualificabile in termini di giuridica inesistenza o di nullità, ridonda in vizio dell’atto rendendolo illegittimo, e come tale, meritevole di riparatorio annullamento in sede giurisdizionale. Non così per gli atti del processo tributario, per i quali la notificazione, oltre ad ammettere l’utilizzo di forme semplificate, costituisce condizione di giuridica efficacia e, se viziata da nullità comporta l’operatività della sanatoria, con effetto retroattivo, per raggiungimento dello scopo o per rinnovazione». E inoltre: «la confusione che traspare dalla lettura delle sentenze n. 9493 del 22 aprile 2009, e n. 9377 del 21 aprile 2009 sembra essere determinata dal non tener conto del differente rapporto tra il procedimento notificatorio e il suo oggetto, va-

11 Ipoteche, avvisi di mora, fermi amministrativi, sequestri, ecc. 12 Art. 26, comma 4, cit. 13 Per esempio, l’ipotesi di notifica da effettua-

re nei confronti di soggetti diversi dalle persone fisiche, fatta a persona diversa dal legale rappresentante.


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riabile in dipendenza della natura, sostanziale o processuale, dell’atto notificando». Conclude sull’argomento affermando che «le sezioni unite, riesaminando la questione, hanno recentemente escluso che l’avviso di ricevimento sia elemento costitutivo del procedimento di notificazione, sostenendo che valga come prova dell’intervenuto perfezionamento del procedimento notificatorio. Vale a dire che la compilazione dell’avviso di ricevimento da parte dell’ufficiale postale documenta la fase di consegna, demandata al soggetto che agisce, in qualità di nuncius, come ausiliario dell’agente notificatore. E l’intervento di quest’ultimo non può essere provato che dalle risultanze della relata, elemento essenziale per la giuridica esistenza della notificazione a mezzo posta non eseguita, e non eseguibile, direttamente, ma tramite un agente notificatore all’uopo abilitato». Come già detto in premessa, una sentenza di merito molto rilevante e recentissima è stata pronunciata dalla quinta sezione della Commissione tributaria provinciale di Lecce, presieduta dal giudice Plenteda. Tale Commissione così si è pronunciata: «l’interpretazione assunta da E. Lecce S.p.A non convince il Collegio, in quanto la locuzione di cui al secondo comma dell’art 26 D.P.R. n. 602 del 29 settembre 1973, viene letta in modo estrapolato dal contesto in cui è inserita. La stessa non è che la prosecuzione del primo periodo dell’art 26 citato tenendo come riferimento il punto principale dell’articolato laddove specifica che la cartella è notificata dagli ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati e la possibilità di notificare la cartella mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento va riferita sempre agli ufficiali della riscossione o altri soggetti abilitati i quali possono avvalersi del servizio postale, mentre sono illegittime le notifiche eseguite direttamente dall’agente della riscossione. Il tema della notifica degli atti che incidono nella sfera patrimoniale del cittadino è stato rigorosamente disciplinato dal legislatore negli artt. 26 D.P.R. n. 602 del 29 settembre 1973 e 60 D.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973, laddove vengono dettate tassative prescrizioni, finalizzate a garantire il risultato del ricevimento dell’atto da parte del destinatario ed attribuire certezza all’esito del procedimento notificatorio». Infine,

14 Vedi sopra. 15 Per motivi di speditezza e quindi nell’interesse generale. 16 In tal senso la Cass., con la sentenza n. 14105

concludendo, riferendosi all’art 14 della L. 890 del 20 novembre 198214, chiarisce che «detta disposizione è chiaramente riservata agli uffici che esercitano potestà impositiva, con esclusione degli agenti della riscossione che sono preposti solo alla fase riscossiva. Pertanto la notifica dell’atto impugnato deve considerarsi giuridicamente inesistente». Altre due pronunce di merito, ancora, è opportuno citare: quella del tribunale di Udine, che pronunciandosi quale giudice di appello, promosso avverso una sentenza del Giudice di Pace di Udine, emette a sua volta sentenza n. 1183 del 20 agosto 2009, nella quale così si esprime: le figure soggettive di cui all’art 26 D.P.R. 602 del 29 settembre 1973, «sono attualmente definite negli artt. 42 e 45 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112 ed è evidente che un avviso di ricevimento nel quale non sia indicata la persona fisica che ha effettuato la notifica non consentirebbe neppure di verificare se si tratti di persona abilitata dalla legge ad attestare l’avvenuta esecuzione della procedura di legge. [...] è naturale infatti, che il legislatore, nel momento in cui consente al concessionario di effettuare direttamente le notifiche15 si preoccupi altresì di definire ed identificare le persone fisiche che vi procedono in quanto siano abilitate ad espletare questo servizio. E non è consentito al concessionario di estendere la norma fino al punto da rendere anonimo ed impersonale l’invio della lettera raccomandata e di impedire qualsiasi forma di verifica sul rispetto della procedura, come avverrebbe qualora si ritenesse sufficiente l’esibizione da parte del concessionario del solo avviso di ricevimento della lettera raccomandata16». E, infine, la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Treviso del 2 luglio 2002 n. 44: «dalla lettura dell’art 26 del D.P.R. n. 602/1973 si osserva che la notifica può essere effettuata solo da alcuni soggetti che sono stati espressamente elencati: ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge – ovvero, previa eventuale convenzione tra Comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale. [...] Quando la notifica è eseguita da un soggetto non identificabile va considerata giuridicamente inesistente con conseguente impossibilità di sanatoria»17.

del 26 aprile 2000, nell’escludere l’illegittimità costituzionale dell’art. 26 D.P.R. 602/1973, ha fatto proprio leva sulla responsabilità, anche penale, dei messi notificatori

che devono, pertanto, essere sempre identificabili. 17 Cass., n. 2635 del 20 marzo 1999.

ANCORA SULLA NOZIONE DI AREA EDIFICABILE AI FINI ICI. BREVI CONSIDERAZIONI di Annalisa Pace 1. Premessa - 2. La tassazione dei terreni ai fini Ici - ta questione della tassazione delle aree edificabili continuando 3. Il caso delle costruzioni rurali - 4. I vincoli di ine- nella meritoria opera avviata da questa rivista di “misurare il dificabilità polso” della giurisprudenza di merito su questo scottante argomento1. 1. Premessa Le due pronunce, pur essendosi occupate entrambe della tassaDue interessanti pronunce della Comm. trib. prov. di Treviso of- zione Ici di aree edificabili, hanno avuto ad oggetto distinte fatfrono l’occasione per tornare, sia pur brevemente, sulla dibattu- tispecie.

1 Va innanzi tutto segnalata la completa rassegna della giurisprudenza della Commissione tributaria provinciale Modena a cura di CIGARINI, pubblicata in questa rivista, 2, 2007,

403. Nello stesso numero si v. altresì Comm. Trib. II grado Bolzano, 8 gennaio 2007, n. 32, 287. Ancora Comm. trib. prov. Treviso, 20 agosto 2007, n. 86, ibidem, 3, 2008, 500;

Comm. trib. prov. Modena, 24 gennaio 2008, n. 247, ibidem, 4, 2008, 751.


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La prima2 ha riguardato la tassazione di un terreno per il quale parte ricorrente aveva versato l’Ici in base al valore catastale ai sensi e per gli effetti del disposto dell’art. 5, comma 7, mentre l’ufficio comunale aveva provveduto alla rideterminazione (anche se solo in parte) dell’imposta sulla base del valore venale in comune commercio. Se, da un lato, parte ricorrente sottolineava la natura agricola del terreno e l’attività agricola da lui stesso condotta, dall’altra, il Comune insisteva sulla circostanza che i terreni ricadevano, anche se solo in parte, in una zona agricola che, consentendo l’edificazione, ne determinava l’assimilazione a vere e proprie aree edificabili. Sul punto il contribuente osservava che la possibilità, consentita dalla zonizzazione di piano, di edificare tutt’al più costruzioni rurali secondo gli indici edificativi previsti per i terreni agricoli, non può modificare la natura e la qualifica agricola/rurale degli stessi che sono e restano per l’appunto terreni agricoli rientranti in zona territoriale omogenea E “zona agricola”. I giudici veneti aderiscono alla ricostruzione di parte ricorrente segnalando che la natura indiscutibilmente agricola dei terreni (sia sotto il profilo formale che sotto il profilo sostanziale) non consente di aderire alla ricostruzione del Comune che, seppure basata sulla possibilità concreta di una sia pur limitata edificabilità dell’area, non si avvede che il terreno è e rimane agricolo e che la sia pur limitata edificabilità è funzionale al miglior esercizio dell’attività agricola sul fondo, visto che consente la sola costruzione di fabbricati rurali. All’opposto, nella seconda pronuncia3, la fattispecie riguardava un terreno certamente edificabile inserito com’era in zona residenziale di completamento C/1.1. D’altro canto, per vicende intercorse in un momento successivo che ne avevano modificato la qualificazione originaria (variante generale al PRG e assoggettamento dei terreni al vincolo inedificabilità per essere destinati a verde privato), i proprietari si erano adeguati alla nuova destinazione omettendo di versare l’Ici. Di fronte alla ripresa dell’ufficio comunale, i giudici provinciali, anche in questo caso, hanno aderito alla ricostruzione di parte ricorrente ritenendo assorbente, di fronte alla qualificazione formale contenuta nel PRG, l’adozione di misure in salvaguardia che in omaggio ad una legge regionale accompagnano l’iter approvativo delle varianti, sicché la mancanza di effettiva utilizzabilità dell’area a scopo edificatorio avrebbe determinato l’esclusione dei terreni in contestazione dal presupposto impositivo Ici. 2. La tassazione dei terreni ai fini Ici Se la prima pronuncia esprime bene la rigida dicotomia tra suoli edificabili e suoli agricoli che caratterizza la tassazione Ici, la seconda manifesta la irrilevanza ai fini impositivi delle aree inedificabili che devono ritenersi escluse dal presupposto impositivo. La linea di demarcazione aree fabbricabili, aree agricole attiene, cioè, ai profili di determinazione della base imponibile, mentre la

2 Sez. VII, sentenza 5 marzo 2008, n. 10, Pres. La Valle, Rel. Fadel. 3 Sez. VII, sentenza 5 marzo 2008, n. 17, Pres. La Valle, Rel. Fadel. 4 Sul punto si rinvia all’ampio scritto di CICOGNANI, La nozione tributaria unificata di area fabbricabile, in Dir. e Prat. Trib., 2007, I, 309 e, più in generale, sulla tassazione Ici, a BASILAVECCHIA, Profili generali dell’imposta comunale sugli immobili, in Rass. Trib., 1999, V, 1367. 5 Su cui si v. DEL FEDERICO, I fabbricati rurali nell’Ici, Relazione al VII Convegno nazionale sui tributi locali, «I tributi locali nella giuri-

seconda (aree edificabili, aree inedificabili, non agricole) alla corretta individuazione del presupposto impositivo. In particolare, mentre le aree fabbricabili, sia che si tratti di una edificabilità di diritto sia che ricorra una edificabilità di fatto, devono essere tassate in base al valore venale che evidentemente sarà graduato sulla base delle possibilità effettive di edificazione, per i terreni agricoli si farà riferimento al reddito dominicale che dovrà essere moltiplicato per gli specifici coefficienti, così come disposto dall’art. 5 del D.Lgs. n. 504 del 1992. Diversamente, la presenza di vincoli urbanistici di inedificabilità non assoluta su terreni inseriti nei PRG comporta tutt’al più una graduazione nella valutazione ai fini dell’applicazione del tributo (cfr. art. 5, comma 5, D.Lgs. n. 504/1992) 4. 3. Il caso delle costruzioni rurali La prima sentenza offre lo spunto per ricordare che il fabbricato rurale5, che fiscalmente non ha mai rilevato in maniera autonoma in quanto il suo reddito è da sempre stato parte integrante di quello fondiario del terreno sui cui insiste, a seguito della previsione dell’art. 9 del D.Lgs. n. 557 del 1993 deve essere iscritto nel catasto fabbricati con l’attribuzione di un’autonoma rendita. La normativa, che ha previsto la costituzione di un catasto dei fabbricati (in sostituzione di quello edilizio urbano), di fatto non ha mai trovato compiuta attuazione con la conseguenza che molti dei fabbricati rurali risultano ancora iscritti nel catasto terreni senza rendita autonoma e solo in parte sono stati “passati” al catasto edilizio urbano (ora catasto fabbricati) con attribuzione di rendita autonoma in seguito al verificarsi di uno dei presupposti di cui al D.P.R. n. 139/1998: interventi di ampliamento o ristrutturazione. La situazione concreta è, quindi, estremamente diversificata: in alcuni casi, il fabbricato rurale, diversamente che in passato, è iscritto al catasto dei fabbricati con autonoma attribuzione di rendita, mentre in altri risulta ancora “assorbito” nell’ iscrizione al catasto terreni del terreno cui afferisce, anche se in entrambe le situazioni permane la condizione della ruralità se sono rispettati i requisiti previsti dall’art. 9, commi 3 e 3-bis del D.Lgs. n. 557/19936. L’inserimento delle costruzioni rurali nel catasto Fabbricati con attribuzione di autonoma rendita, inizialmente aveva indotto molti comuni ad avviare un’attività di accertamento per il recupero dell’Ici ad essi relativa. Alla base di una tale attività si trova una lettura estremamente formale del testo normativo. Presupposto del tributo è il possesso di fabbricati dove per fabbricati deve intendersi l’unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta in catasto; ebbene il fabbricato, anche se rurale, una volta iscritto al catasto con autonoma attribuzione di rendita realizzerebbe pienamente il presupposto dell’imposta patrimoniale; in definitiva, l’iscrizione autonoma nel catasto fabbricati è condizione necessaria e sufficiente per l’autonoma tassazione dell’unità ai fini Ici. Questo orientamento, se pure all’inizio era stato sconfessato dal Supremo Collegio7, aveva trovato il proprio suggello nella sen-

sprudenza della Corte di Cassazione», Bologna, 20-21 ottobre 2005, in Finanza loc., 2006, II, 33. In particolare sulla tassazione dei fabbricati rurali appartenenti alle cooperative agricole si v. Comm. trib. reg. Emilia Romagna 12 marzo 2008, n. 4 e Comm. trib. prov. Chieti, 27 maggio 2008, n. 277, ivi, 2009, I, 88 ss., con nota di commento DEL FEDERICO, I fabbricati rurali delle cooperative agricole: la questione di legittimità dell’art. 2, comma 4, L. n. 244/2007 è dovuta ad un equivoco?. 6 Si rammenta che la espressione “fabbricato rurale” è generale ed idonea a ricomprende-

re sia i fabbricati con uso abitativo che quelli strumentali, su cui cfr. MULEO, Distinzione tra fabbricati rurali a uso abitativo e strumentale, in Corr. Trib., 2008, VIII, 614. 7 Cass., 27 settembre 2005, n. 18853, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. La stessa amministrazione finanziaria si era espressa in senso contrario alla ricorrenza di un autonomo presupposto impositivo in testa alla costruzione rurale: cfr. circ. 20 marzo 2000, n. 50/E, in Corr. Trib., 2000, XXVI, 1921, con commento di MONTESANO, e la circ. 15 giugno 2007, n. 7/T, ibidem, 2007, 32, 2628, con commento di CATTELAN.


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tenza n. 15321 del 20088: i supremi giudici avevano cassato la sentenza della Comm. trib. reg. Veneto «perché la stessa, in violazione delle specifiche disposizioni che regolano l’Ici, ha erroneamente escluso l’assoggettabilità a tale imposta del fabbricato della cooperativa in base alla irrilevante considerazione della natura agricola dell’attività svolta dalla stessa nell’immobile e non ha considerato che l’iscrizione (quand’anche nella categoria D10) di quel fabbricato in catasto (già urbano e poi dei fabbricati), con attribuzione di autonoma rendita, costituisce presupposto (necessario ma anche) sufficiente per l’assoggettabilità detta». Le critiche alla pronuncia della Corte9 vertevano essenzialmente sull’osservazione che l’autonomo assoggettamento a tassazione del fabbricato rurale avrebbe determinato una duplicazione d’imposta considerato che la capacità contributiva espressa dal fabbricato era già compresa nel reddito dominicale del terreno su cui insisteva. La rendita dominicale del terreno agricolo, infatti, viene determinata dando conto, secondo criteri medio-ordinari, anche della redditività espressa dalle costruzioni rurali che sullo stesso insistono. È, quindi, con estremo favore che è stato salutato l’intervento del legislatore che, assai opportunamente, con norma di interpretazione autentica ha chiarito che i fabbricati rurali, anche se iscritti o iscrivibili in catasto, non si considerano fabbricati ai sensi del disposto dell’art. 2 del D.Lgs. n. 504 del 1992 10. Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici trevigiani, in verità, non riguardava il problema dell’autonoma tassazione del fabbricato rurale, ma le considerazioni che precedono aiutano a meglio comprendere l’iter che deve aver seguito il Comune per arrivare a definire fabbricabile il terreno agricolo sul quale poteva essere edificato un fabbricato rurale e a meglio apprezzare le ulteriori implicazioni che possono derivare dall’intervento interpretativo del legislatore. Considerando la costruzione rurale come fabbricato, il Comune, in applicazione della previsione di piano che, pur inserendo il terreno in zona E (zona agricola), prevedeva espressamente la possibilità di edificare una costruzione rurale, era giunto a qualificare il terreno come fabbricabile e non come agricolo, assoggettandolo ad imposizione secondo i criteri del valore corrente di mercato. La fattispecie, che riguardava le annualità dal 2001 al 2004, era antecedente all’intervento di interpretazione autentica e questo, se non conforta la tesi dell’ente impositore, certo consente di meglio comprendere le ragioni della pretesa avanzata. In un’ottica di equiparazione delle costruzioni rurali ai fabbricati, nulla di più facile che considerare il terreno agricolo, sul quale avrebbe potuto insistere la costruzione rurale, come terreno edificabile. I giudici trevigiani, invece, nonostante non avessero ancora a disposizione lo strumento normativo (la norma di interpretazione, infatti, risale alla fine del 2008, mentre la sentenza è stata pro-

8 Cass., 10 giugno 2008, n. 15321, in Giur. It., 2008, 2875. 9 CATTELAN, Soggetto ad Ici il fabbricato rurale iscritto in catasto con rendita autonoma, in Riv. Giur. Trib., 2008, 790; POGGIOLI, Fabbricati rurali e presupposto Ici, in Corr. Trib., 2683, 2008. 10 Si tratta dell’art. 23, comma 1-bis, del D.Lgs. 31 dicembre 2008, n. 207 (cd. mille-proroghe), convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2009, n. 14. 11 In senso conforme si v. ris. 17 ottobre 1997, n.

nunciata all’inizio del medesimo anno), hanno utilizzato un iter argomentativo (che è quello che è stato avallato dallo stesso legislatore) che li ha portati a non condividere la ricostruzione dell’ente impositore. Essi, infatti, correttamente hanno sottolineato la ricorrenza nel caso concreto di quei requisiti di ruralità (edificazione funzionale al fondo ed esercizio dell’attività agricola da parte del titolare, coltivatore diretto) che non possono consentire di considerare la costruzione rurale quale fabbricato e conseguentemente il terreno come edificabile con conseguente valutazione al valore normale. 4. I vincoli di inedificabilità Anche nella seconda sentenza i giudici di merito condividono la ricostruzione di parte privata e ritengono che le misure di salvaguardia, previste dalla normativa regionale a seguito dell’adozione della variante, avendo inciso in maniera assoluta sulla edificabilità dell’area seppure nelle more della formalizzazione delle prescrizioni, ancora in itinere, non possono che escludere in toto la tassazione11. La conclusione, che merita una sicura adesione, bene esemplifica i rischi connessi ad una edificabilità che, essendo solo potenziale, può mutare nel tempo, facendo emergere i problemi connessi alla tassazione di una edificabilità che è solo provvisoria12. Non va dimenticato che con l’art. 36, comma 2, del D.Lgs. n. 223 del 2006 l’unificazione della nozione di terreno edificabile è divenuta realtà ed opera per un ampio ventaglio di tributi: oltre all’Ici, che riguarda il mero possesso, la valenza del nuovo concetto opera anche per tributi che disciplinano i trasferimenti, come l’Iva, l’imposta di registro e le imposte dirette. A tal proposito, si è osservato che anticipare la tassazione ai fini Irpef può determinare la imposizione della plusvalenza di un terreno che poi si riveli inedificabile; nella stessa ipotesi esaminata dai giudici veneti, se il proprietario avesse ceduto il terreno nella vigenza dello strumento generale, ma prima che fossero scattate le misure di salvaguardia, la relativa plusvalenza sarebbe stata tassabile in forza dell’art. 36, comma 2 del D.Lgs. n. 223/2006, anche se poi, alla fine dell’iter amministrativo di approvazione della variante, l’acquirente si sarebbe trovato con un terreno privo del requisito della edificabilità 13. Ci si è chiesto se nell’ipotesi in cui l’area ritorni inedificabile il venditore possa vantare un diritto di restituzione nei confronti dell’erario per l’imposta versata sulla plusvalenza: la risposta affermativa, che pure viene suggerita14, sembra discendere dall’osservazione che la tassazione della plusvalenza è subordinata nell’ambito dell’art. 67 T.U. alla necessità che ricorra la speculatività dell’operazione che, nel caso di specie, si ricollega all’edificabilità del terreno; l’aver disposto che sia idonea ad integrare il presupposto d’imposta anche una edificabilità che è solo provvisoria dovrebbe determinare una sorta di «provvisorietà» nella stessa apprensione del tributo.

209, in banca dati Ministero delle Finanze. Deve invece ritenersi che incidano solo sulla gradazione del valore imponibile i vincoli di inedificabilità non assoluta, sul punto si rinvia a CICOGNANI, La nozione tributaria unificata di area fabbricabile, cit., 334. 12 Non va dimenticato che ai fini Ici il legislatore ha preso in considerazione questo fenomeno di inedificabilità sopravvenuta: l’art. 59, comma 1, lett. f, conferisce ai comuni la facoltà di prevedere il rimborso in caso di imposta pagata relativamente ad aree che

successivamente siano divenute inedificabili per effetto di varianti apportate allo strumento urbanistico. 13 Sul punto si v. GAVELLI, Nessuna plusvalenza tassabile se lo strumento regionale sancisce l’inedificabilità, in Corr. Trib., 2009, III, 197. 14 Cfr. GAVELLI, op. cit., secondo cui in tal caso il contribuente è certamente legittimato a proporre istanza di rimborso ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. n. 602 del 1973, decorrendo il termine quadriennale dal momento in cui il terreno è tornato non edificabile.


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Indice cronologico delle sentenze

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXIV, 28 febbraio 2008, n. 27

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Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XLII, 18 aprile 2008, n. 46

67

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. I, 17 giugno 2008, n. 369

36

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XLII, 18 settembre 2008, n. 144

68

Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 7 gennaio 2009, n. 8

64

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. I, 19 gennaio 2009, n. 2

92

Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 13 febbraio 2009, n. 44

78

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXXI, 17 febbraio 2009, n. 34

68

Commissione tributaria regionale de L’Aquila, sez. IX, 24 aprile 2009, n. 108

73

Commissione tributaria regionale delle Marche, sez. VI, 7 maggio 2009, n. 111

30

Commissione tributaria provinciale di Cagliari, sez. II, 4 giugno 2009, n. 199

52

Commissione tributaria regionale di Roma, sez. XXXVIII, 8 giugno 2009, n. 159

36

Commissione tributaria provinciale di Massa Carrara, sez. I, 30 luglio 2009, n. 250

86

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. I, 10 settembre 2009, n. 429

84

Commissione tributaria provinciale di Varese, sez. XI, 14 settembre 2009, n. 51

76

Commissione tributaria provinciale di Varese, sez. III, 6 ottobre 2009, n. 122

57

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. X, 11 dicembre 2009, n. 293

44

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. I, 22 dicembre 2009, n. 709

59




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