Giustizia Tributaria 2009 n. 4

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comitato scientifico Fabrizio Amatucci

ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Massimo Basilavecchia

ordinario di diritto tributario Università di Teramo Silvia Cipollina

ordinario di diritto tributario Università di Pavia Angelo Contrino

associato di diritto tributario italiano ed europeo Università di Modena e Reggio Emilia Daria Coppa

straordinario di diritto tributario Università di Palermo Roberto Cordeiro Guerra

straordinario di diritto tributario Università di Firenze Francesco Fichera

ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Suor Orsola Benincasa Stefano Fiorentino

associato di diritto tributario Università di Salerno Maria Cecilia Fregni [coordinamento]

ordinario di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Gianfranco Gaffuri

ordinario di diritto tributario Università di Milano Carlo Garbarino

associato di diritto tributario Università Bocconi Alessandro Giovannini

ordinario di diritto tributario Università di Siena Manlio Ingrosso

ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Agostino Ennio La Scala

associato di diritto tributario Università di Palermo Maurizio Logozzo

straordinario di diritto tributario Università Cattolica del Sacro Cuore

comitato direttivo Claudio Consolo ordinario di diritto processuale civile Università di Padova

Lorenzo del Federico ordinario di diritto tributario Università di Chieti e Pescara

Antonio Lovisolo

Salvatore Sammartino

associato di diritto tributario Università di Genova

ordinario di diritto tributario Università di Palermo

Alberto Marcheselli

Giuliano Tabet

associato di diritto tributario Università di Torino Enrico Marello

associato di diritto tributario Università di Torino Sebastiano Maurizio Messina

ordinario di diritto tributario Università di Verona

ordinario di diritto tributario Università di Roma - La Sapienza

Francesco Tesauro ordinario di diritto tributario Università degli Studi di Milano - Bicocca

Salvatore Muleo

straordinario di diritto tributario Università della Calabria Mario Nussi

associato di diritto tributario Università di Udine Raffaele Perrone Capano

ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Federico II Maria Cristina Pierro

associato di diritto tributario Università dell’Insubria Francesco Pistolesi

straordinario di diritto tributario Università di Siena Roberto Schiavolin

ordinario di diritto tributario Università di Padova Loris Tosi

ordinario di diritto tributario Università di Venezia - Ca’ Foscari Alessandro Turchi

associato di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Giuseppe Zizzo

straordinario di diritto tributario Università LIUC - Castellanza comitato di redazione Christian Califano Filippo Cicognani Alessandra Magliaro Annalisa Pace Alessandra Villecco [coordinamento]

www.giustiziatributaria.it


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hanno collaborato a questo numero Francesco V. Albertini ricercatore di diritto tributario, Università di Milano Filippo Cicognani ricercatore di diritto tributario, Università di Bologna - sede di Forlì Angela Cipriani dottoressa in giurisprudenza Alessandro De Marco dottore in giurisprudenza Pasquale Fimiani giudice presso la Corte di Cassazione Martina Fiocchi dottoressa in giurisprudenza Maria Cecilia Fregni professore ordinario di diritto tributario, Università di Modena e Reggio Emilia Silvia Giorgi dottoranda di ricerca in diritto europeo e comparato dell’impresa e del mercato - sezione diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Cristina Marcolongo avvocato in Siena Marino Marinelli professore straordinario di diritto processuale civile, Università di Trento Alessandro Meloncelli dottore commercialista in Roma Margherita Nuzzo dottoranda di ricerca in diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Annalisa Pace ricercatrice di diritto tributario, Università di Teramo Maria Pierro professore associato di diritto tributario, Università dell’Insubria Giuseppe Pizzonia ricercatore di diritto tributario, Università Mediterranea di Reggio Calabria Concetta Ricci ricercatrice di diritto tributario, Università LUM - Bari Alessandro Turchi professore associato di diritto tributario, Università di Modena e Reggio Emilia Maurizio Villani avvocato tributarista in Lecce

direttore responsabile Daniela Artioli redazione Ilaria Pasquali stampa Logo (Borgoricco PD) progetto grafico Avenida (Modena) © Gedit edizioni, aprile 2010 via Irnerio 12/5, 40126 Bologna tel. 051 4218740, fax 051 4210565, mail@gedit.com, www.gedit.com ISSN 1590-5381 Abbonamento 12 mesi: 7 160,00 Singolo fascicolo 7 50,00 I materiali per la pubblicazione vanno inviati per posta elettronica a redazione@giustiziatributaria.it oppure via fax al n. 051 4210565. Gli autori devono uniformarsi ai criteri redazionali che possono essere richiesti via e-mail all’indirizzo sopra indicato.


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Sommario

DOTTRINA SAGGI La recente riforma del giudizio di cassazione e i suoi riflessi sul terzo grado del processo tributario di Marino Marinelli

403

Abuso del diritto: profili procedimentali di Maria Pierro

410

Spese di spedizione della fattura: è legittimo l’addebito? di Giuseppe Pizzonia

418

NOTE A SENTENZA Abuso del diritto: la giurisprudenza di merito si confronta con i principi elaborati dalla Corte Suprema di Francesco V. Albertini

423

Natura e soggetti passivi dell’imposta di registro su atti sottoposti a condizione sospensiva di Angela Cipriani

433

La rilevanza della causa di forza maggiore quale circostanza idonea a impedire la decadenza dalle cd. agevolazioni fiscali “prima casa” di Margherita Nuzzo

438

L’organizzazione nell’attività dei medici convenzionati con il Servizio sanitario nazionale: la mancanza del requisito dell’autonomia ai fini dell’Irap di Alessandro Meloncelli

452

Libertà di scelta nei gruppi circa le modalità di utilizzo del credito Iva di Concetta Ricci

467

Prove impossibili e repressione delle frodi Iva nella prospettiva del giudizio di merito di Enrico Marello

471

Omessa notifica della cartella di pagamento e giurisdizione in materia di ordine di versamento ex art. 72-bis, D.P.R. n. 602/1973 di Martina Fiocchi

477

Inesistenza della notifica dell’avviso di accertamento effettuata da soggetto non autorizzato di Cristina Marcolongo

484

Le obiettive condizioni d’incertezza in materia doganale di Silvia Giorgi

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GIURISPRUDENZA ACCERTAMENTO Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXVI, 1 aprile 2009, n. 26 Accertamento - Elusione - Imposte in genere - Contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo stipulato in luogo della mascherata compravendita tra soggetti dello stesso gruppo - Assenza di valide ragioni economiche - Simulazione - Inapplicabilità dell’art. 37bis, D.P.R. 600/1973 - Irrilevanza - Applicabilità della regola generale antiabuso

423

Accertamento - Elusione - Clausola generale antielusiva - Applicazione ad operazioni anteriori alla recente giurisprudenza - Sanzioni - Inapplicabilità nota di Francesco V. Albertini

DICHIARAZIONE TRIBUTARIA Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 9 aprile 2009, n. 81 Dichiarazione tributaria - Ritenute d’acconto subite - Omessa indicazione - Correzione dell’errore - Dichiarazione integrativa Necessità - Insussistenza

429

ESENZIONI E AGEVOLAZIONI Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 7 gennaio 2009, n. 6 Esenzioni e agevolazioni - Agevolazioni per l’acquisto della prima casa - Unità immobiliare con superficie superiore a 240 mq Abitazione di lusso - Agevolazione - Esclusione

431

IMPOSTA DI REGISTRO Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. II, 9 giugno 2008 n. 114 Imposta di registro - Atti soggetti a condizione sospensiva - Imposta dovuta a seguito dell’avverarsi della condizione - Natura di imposta complementare - Responsabilità del notaio - Esclusione nota di Angela Cipriani

433

Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. II, 26 gennaio 2009, n. 5 Imposta di registro - Agevolazioni “prima casa” - Requisiti - Mancato trasferimento della residenza entro i 18 mesi - Fattispecie Causa di forza maggiore - Sussistenza - Decadenza dal regime di agevolazioni fiscali - Esclusione nota di Margherita Nuzzo

438

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XX, 10 luglio 2009, n. 104 Imposta di registro - Contratto sottoposto a condizione sospensiva - Imposta proporzionale pagata dopo l’avveramento della condizione - Natura di imposta principale - Termine di notifica dell’avviso di rettifica e liquidazione - Decorrenza dal pagamento dell’imposta principale proporzionale

444

Imposta di registro - Dichiarazione di avveramento della condizione sospensiva apposta ad un contratto - Avviso di rettifica e liquidazione dell’imposta di maggior valore - Termine di notifica - Proroga biennale ex art. 11 della legge n. 289 del 2002 - Operatività Imposta di registro - Atti e contratti - Atto di cessione con costituzione di rendita vitalizia - Base imponibile - Valore dei beni ceduti e valore della rendita - Rilevanza del maggiore dei due

IRAP Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XVIII, 21 febbraio 2008, n. 5 Irap - Presupposto - Medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale - Rapporto di collaborazione coordinata e continuativa - Esclusione del presupposto Irap

452

Commissione tributaria provinciale di Caserta, sez. V, 9 gennaio 2009, n. 9 Irap - Presupposto - Medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale - Rapporto di parasubordinazione - Organizzazione autonoma - Esclusione

454

Commissione tributaria provinciale di Torino, sez. XIII, 7 luglio 2009, n. 74 Irap - Presupposto - Medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale - Organizzazione autonoma irrilevante - Esclusione del presupposto Irap

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Commissione tributaria provinciale di Torino, sez. IX, 1 ottobre 2009, n. 106 Irap - Presupposto - Medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale - Organizzazione autonoma irrilevante - Esclusione del presupposto Irap

455

Commissione tributaria provinciale di Cuneo, sez. III, 27 ottobre 2009, n. 163 Irap - Presupposto - Medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale - Organizzazione autonoma irrilevante - Esclusione del presupposto Irap nota di Alessandro Meloncelli

456

Commissione tributaria provinciale di Cagliari, sez. II, 2 luglio 2009, n. 233 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Agente di commercio - Insussistenza

461

IRPEF Commissione tributaria provinciale di Cagliari, sez. II, 4 giugno 2009, n. 200 Irpef - Redditi diversi - Cessione di terreni edificabili - Calcolo della plusvalenza - Rivalutazione del costo ex art. 7, L. 28 dicembre 2001, n. 448 - Perizia giurata e versamento dell’imposta sostitutiva successivi alla cessione - Inefficacia ai fini del calcolo della plusvalenza

464

IVA Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XVI, 21 ottobre 2008, n. 239 Iva - Iva di gruppo - Eccedenza detraibile relativa all’anno precedente all’opzione - Compensazione orizzontale - Ammissibilità nota di Concetta Ricci

467

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 10 giugno 2009, n. 117 Iva - Accertamento - Disconoscimento del diritto di detrazione - Frode carosello - Conoscenza o conoscibilità della frode - Onere della prova a carico dell’amministrazione finanziaria nota di Enrico Marello

471

PROCESSO TRIBUTARIO Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VII, 28 gennaio 2009, n. 23 Processo tributario - Pignoramenti presso terzi - Ordine ex art. 72-bis, D.P.R. n. 602/1973 - Omissione di previa - Notifica della cartella di pagamento - Impugnabilità dinanzi alle Commissioni tributarie nota di Martina Fiocchi

477

Commissione tributaria provinciale di Torino, sez. XVII, 20 aprile 2009, n. 58 Processo tributario - Accertamento con adesione - Istanza di accertamento con adesione limitata alle sanzioni - Inammissibilità Conseguenza - Sospensione dei termini per l’impugnazione - Esclusione

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Commissione tributaria provinciale di Messina, sez. XI, 25 giugno 2009, n. 664 Processo tributario - Notifica - Avviso di accertamento - Soggetto non autorizzato - Inesistenza della notifica - Sanatoria - Esclusione nota di Cristina Marcolongo

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SANZIONI AMMINISTRATIVE Commissione tributaria provinciale di La Spezia, sez. I, 26 febbraio 2009, n. 32 Sanzioni amministrative - Tariffa doganale - Incerta individuazione - Obiettiva incertezza della norma tributaria - Configurabilità nota di Silvia Giorgi

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ATTI E INTERVENTI Gli strumenti presuntivi di accertamento del reddito introdotti dal 1989: natura e conseguenze sul piano probatorio di Pasquale Fimiani

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Omessa certificazione di ritenute d’acconto e determinazione dell’imposta sul reddito della Fondazione Centro Studi U.N.G.D.C.

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Principio dell’affidamento: tra normativa tributaria e normativa comunitaria di Maurizio Villani

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Indice cronologico delle sentenze

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LA RECENTE RIFORMA DEL GIUDIZIO DI CASSAZIONE E I SUOI RIFLESSI SUL TERZO GRADO DEL PROCESSO TRIBUTARIO* di Marino Marinelli 1. La Cassazione tributaria e il preventivo vaglio di “ammissibilità” del ricorso di cui ai novellati artt. 360-bis, 375, 376 e 380-bis c.p.c. - 2. Le due peculiari fattispecie di “inammissibilità del ricorso” contemplate dall’art. 360-bis c.p.c. - 3. Segue: il n. 1 dell’art. 360-bis - 4. Segue: il n. 2 dell’art. 360-bis. 1. La Cassazione tributaria e il preventivo vaglio di “ammissibilità” del ricorso di cui ai novellati artt. 360-bis, 375, 376 e 380-bis c.p.c. La disciplina del giudizio di cassazione contenuta nel c.p.c. opera nel rito tributario attraverso la disposizione di raccordo costituita dall’art. 62 D.Lgs n. 546/19921. Ed è proprio questa disposizione che impone di tenere ben presenti le rilevanti modificazioni apportate al giudizio di cassazione dalla novella n. 69/2009 che – appunto in virtù dell’art. 62 – incidono pure sull’ultima istanza del processo tributario2. L’intento perseguito dalla novella, mediante l’introduzione di un preventivo vaglio di “ammissibilità” del ricorso, è portare ausilio alla Suprema Corte, i cui carichi di lavoro, negli ultimi lustri, sono stati aggravati dal moltiplicarsi dei ricorsi in misura tale da incidere profondamente sulla stessa funzione nomofilattica della Cassazione3. Invero, la deflazione del carico della Suprema Corte mediante la predisposizione di filtri di accesso è tema da tempo ampiamente studiato in dottrina, anche alla luce dei due modelli alternativi offerti dall’esperienza comparata ed europea4. Si tratta, precisamente, del paradigma delle cd. formations restreintes francesi, basato su una selezione “interna” dei ricorsi che s’incentra sul requisito della non manifesta infondatezza del gravame proposto e del

* Questo scritto è dedicato con vivo affetto al Professor Cesare Glendi. 1 Sulla portata dell’art. 62 e sulla sua pregnante rilevanza ai fini della ricostruzione del giudizio di cassazione nel processo tributario, v. soprattutto GLENDI, Rapporti tra nuova disciplina del processo tributario e codice di procedura civile, in Dir. Prat. Trib., 2000, I, 1760; Id., «Ordinarizzazione» del processo tributario e «specialità» della sezione tributaria della Corte di Cassazione, in Rass. Trib., 2001, 1028 ss., spec. 1033. V., inoltre – MARINELLI, Art. 62 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo e Glendi, Padova, 2008, 654 ss. 2 V., se vuoi, MARINELLI, Introduzione del “filtro di ammissibilità” e abolizione del quesito di diritto, in Corr. Trib., 33, 2009, 2702 ss. ed ivi una prima, snella analisi della nuova disposizione e dei suoi riflessi sul terzo grado del giudizio tributario. 3 È interessante osservare che la dizione “nomofilachia” – con cui, nel nostro sistema giuspositivo, ci si riferisce all’uniforme e unitaria interpretazione della legge che la Cassazione, come organo giudiziario di vertice, è

leave inglese che, invece, si appunta su un’autorizzazione discrezionale dell’organo giudicante fondata sulla rilevanza di principio della questione. Peraltro, nel nostro attuale sistema normativo, il tentativo di dotare la Cassazione, per via di legge ordinaria, di uno strumento con cui limitare l’accesso al grado di legittimità si rivela un compito assai arduo, quasi una “quadratura del circolo”. E ciò, in ragione della necessità di conciliare uno strumento siffatto con l’art. 111 Cost., in particolare con il magniloquente (e, nell’attuale contesto, forse ormai storicamente antiquato e anacronistico5) comma 7 della disposizione costituzionale6. È questa una norma priva di eguali in altri ordinamenti statuali, che prevede la garanzia generalizzata del ricorso in cassazione per violazione di legge e che una interpretazione attenta e sensibile anche alla topografia dei valori costituzionali impone di considerare (in una con il principio del contraddittorio, l’imparzialità del giudice, la durata ragionevole del giudizio e l’obbligo di motivazione) pure come un canone essenziale del giusto processo parimenti contemplato dallo stesso art. 111 della Carta fondamentale. Di qui la fatale e inevitabile illegittimità costituzionale di una disciplina legislativa che, in apicibus, faccia dipendere l’ammissibilità dell’impugnazione – e, così, la stessa formazione del giudicato – da una preventiva valutazione puramente discrezionale dell’organo giudicante. L’art. 47 della novella – norma della riforma che ha avuto una gestazione alquanto sofferta7 – ha soppresso il quesito di diritto di cui all’art. 366-bis c.p.c., ormai percepito come del tutto insoddisfacente anche e purtroppo in ragione della interpretazione compiuta dalla Suprema Corte, ivi compresa la sua sezione tributaria, in seno alla quale si sono formati orientamenti caratte-

deputata ad assicurare – risulta sconosciuta alle altre legislazioni contemporanee, ivi compresa quella greca dalla cui tradizione giuridica scaturisce. Nell’antica Grecia, infatti, i nomofilàci (letteralmente: custodi della legge) erano i magistrati depositari del testo ufficiale della norma giuridica chiamati ad assicurarne la stabilità e l’osservanza (v. amplius a tal proposito, BISCARDI, Nomophylakes, in Nov. Dig. It., XI, Torino, 1965, 312 ss., ed ivi ulteriori riferimenti di fonti e letteratura, nonché Id., Diritto greco antico, Milano, 1982, 72 ss.). 4 V. soprattutto gli scritti di DENTI, A proposito di Corte di cassazione e di nomofilachia, in Foro It., 1986, V, 419 ss.; Id., L’art. 111 della Costituzione e la riforma della Cassazione, ibidem, 1987, V, 232 ss.; Id., Le riforme della cassazione civile: qualche ipotesi di lavoro, ibidem, 1988, V, 23 ss.; v. anche SILVESTRI, L’accesso alle corti di ultima istanza: rilievi comparatistici, in Foro It., 1987, V, 284 ss.; Id., Recenti riforme della Cassazione francese, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1980, 573 ss.; SONELLI, L’accesso alla Corte Suprema e l’ambito del suo sindacato, Torino, 2001, passim, spec. 13 ss. e 147 ss.

5 V. per tutti, CONSOLO, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze (dopo la legge n. 69 del 2009), Padova, 2009, 515. 6 Sul rilievo determinante che, in quest’ambito, gioca l’art. 111, comma 7, Cost., v., ex multis, CARRATTA, Le nuove modifiche al giudizio in Cassazione ed il “filtro” di ammissibilità del ricorso, disponibile su www.judicium.it, spec. 1, BOVE, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel riaperto cantiere della giustizia civile, ibidem, 14, nonché CONSOLO, Una buona novella al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360-bis e 614-bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr. Giur., 2009, spec. 739. 7 Sulla elaborazione della nuova disciplina e, in particolare, sull’evoluzione dei lavori preparatori, v. amplius RAITI, Note esegetiche a prima lettura sul “filtro” in Cassazione secondo la legge di riforma al codice di rito civile n. 69 del 18 giugno 2009, consultabile su www.judicium.it, spec. 1; COSTANTINO, La riforma del giudizio di legittimità: la Cassazione con filtro, in Giur. It, 2009, 1561, nonché l’approfondita ricostruzione svolta da DE CRISTOFARO, Artt. 360bis ss., in C.p.c. commentato: la riforma del 2009, a cura di Consolo e De Cristofaro, Milano, 2009, 236 ss.


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rizzati da un rigore formalistico senz’altro eccessivo8. In vece del quesito di diritto, è introdotto un articolato vaglio preventivo del ricorso che fa leva sul meccanismo procedurale di cui ai novellati artt. 360-bis, 375, 376 e 380-bis c.p.c. Si tratta di un meccanismo incentrato sull’istituzione, ai sensi dell’art 376 c.p.c., di una “apposita sezione”, della quale fanno parte, perciò, cinque magistrati che – a mente dell’art. 67-bis aggiunto dalla novella al R.D. n. 12/1941 ord. giud. – appartengono a ciascuna delle sezioni della Cassazione. Si crea, così, una nuova sezione della Corte Suprema, dando crisma normativo a quella compagine informale, fino ad oggi chiamata la “struttura unificata” o “struttura centrale civile”, istituita praeter legem dal Primo Presidente della Cassazione nel maggio 2005 in vista dell’esame preliminare di tutti i ricorsi, al fine di individuare eventuali cause di inammissibilità o improcedibilità – o comunque ipotesi che consentissero l’adozione del rito camerale –, nonché al fine di verificare la presenza di eventuali ricorsi a carattere “seriale” 9. In sintesi, questa sezione-filtro – con esclusione dei casi in cui il ricorso debba essere assegnato alle sezioni unite – esamina, ai sensi dell’art. 375, n. 1 e 5 c.p.c., se sia possibile la pronuncia in camera di consiglio, statuendo a tal fine con decreto (e la relativa relazione che lo giustifica) l’eventuale possibilità che sia dichiarata “l’inammissibilità” del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, nonché l’eventuale possibilità che sia accolto o rigettato il ricorso principale (e quello incidentale) per «manifesta fondatezza o infondatezza». Pertanto, diversamente dall’art. 610 c.p.p., che affida a una delle sezioni della Cassazione penale (predeterminata con rotazione biennale dal provvedimento tabellare riguardante la Corte: v. l’art. 169-bis disp. att. c.p.p.) unicamente un vaglio circa l’ammissibilità dei ricorsi10, la sezione-filtro – così come concepita dall’art. 376 c.p.c. – è chiamata a farsi carico di un esame integrale dell’impugnazione, non solo in vista di una declaratoria di inammissibilità in rito, ma altresì ai fini della sua definizione nel merito. In altri termini, essa non ha soltanto la mera funzione di individuare i ricorsi inammissibili, ma è a pieno titolo sezione ordinaria11. Di conseguenza, essa ha la facoltà di definire anche nel merito le impugnazioni: sì da “interferire” in tal caso con le attribuzioni delle altre sezioni12, in particolare – anche e soprattutto – con quelle speciali della cd. “sez. tributaria” della Corte13.

8 V., a tal proposito, DE CRISTOFARO, Del quesito di diritto: ovvero di come formalismi incongrui possano soffocare la garanzia del giusto processo, in Resp. Civ. e Prev., 2008, 2296 ss.; quanto alle decisioni della Sezione tributaria, v. MARINELLI, Una breve chiosa sull’esasperato formalismo della Sezione Tributaria della Suprema Corte in tema di quesito di diritto ex art. 366-bis c.p.c., in Giur. Trib., 2009, 692 ss., e, ivi, ulteriori riferimenti. Per una rassegna delle pronunce della Cassazione sul quesito di diritto, v. CAPONI, Formulazione del quesito di diritto e indicazione del fatto controverso nel ricorso per cassazione (art. 366-bis c.p.c.): aggiornamenti giurisprudenziali, in Foro It., 2008, I, 520 ss.; FABIANI, Riflessioni inattuali su formalismo giudiziario e quesito di diritto, ibidem, 2008, V, 226 ss.; DIDONE, Note minime sul quesito di diritto ex art. 366-bis c.p.c. e sul nuovo “filtro” in Cassazione, in Corr. Giur., 2009, 847 ss. 9 V. decreto 9 maggio 2005, in Foro It., 2005, I, 2323. 10 V. amplius, CANZIO, L’istituzione della settima

Se la sezione-filtro, ex art. 376, comma 1, «non definisce il giudizio» – cioè se questa verifica è negativa e, così, se il ricorso principale e quello incidentale sono ritenuti ammissibili (o non manifestamente fondati o infondati) – gli atti sono rimessi al Primo Presidente, che procede all’assegnazione della causa alle sezioni semplici14. Invece, se la suddetta verifica è positiva, l’art. 380-bis, comma 2, c.p.c. dispone la fissazione con decreto dell’udienza (davanti alla stessa sezione-filtro) in vista di una definizione camerale della causa. Vari sono i problemi procedurali suscitati dal combinato disposto degli artt. 376 e 380-bis. A mio avviso, la questione più delicata è la seguente: se la sezione-filtro vaglia positivamente l’ammissibilità del ricorso, rimettendo gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione della causa alla sezione semplice, quest’ultima sarà o no vincolata e, così, potrà o no ritornare sulle condizioni di ammissibilità del ricorso stesso, magari scorgendo ipotesi di inammissibilità sfuggite al preventivo esame della sezione-filtro? A tal specifico riguardo, la novella non prende espressa posizione. Peraltro, ai sensi dell’art. 380-bis comma 3, c.p.c., il relatore della sezione semplice – assegnataria del ricorso preventivamente ritenuto ammissibile dalla sezione-filtro – è chiamato a esaminare l’eventuale possibilità di una pronuncia in camera di consiglio soltanto nelle seguenti ipotesi: al fine di disporre l’integrazione del contraddittorio o di dichiarare l’estinzione del processo e non già anche per le questioni di cui allo stesso 375, n. 1 e 5 c.p.c. (inammissibilità del ricorso, nonché accoglimento o rigetto dello stesso per manifesta fondatezza o infondatezza). Di conseguenza, si potrebbe essere indotti a ritenere che, quantomeno per le ipotesi di ritenuta ammissibilità del ricorso, la valutazione della sezione-filtro esaurisca qualsiasi ulteriore spazio decisorio in capo alla sezione semplice15. Invero, pur essendo compito primario della nuova Sezione quello d’individuare e sanzionare in via immediata i casi d’inammissibilità, la pura e semplice “rimessione” degli atti al Primo Presidente, da parte della sezione-filtro, non pare poter assurgere al rango di una pronuncia «non definitiva di inammissibilità», tale da precludere alla sezione “ordinaria” di chiudere il giudizio con una declinatoria in rito per difetto di una condizione di ricevibilità del ricorso. Perciò, in difetto di un’espressa pronuncia nel senso dell’ammissibilità da parte della sezione-filtro, deve ritenersi che la sezione ordinaria sia pur sempre integralmente investita della decisione sul ricorso, potendo così legittimamente rilevare il difetto di una condizione di ammissibilità del gravame16.

sezione penale per l’esame dell’inammissibilità dei ricorsi per cassazione, in Foro It., 2001, V, 162 ss. 11 V. in tal senso, per tutti, DE CRISTOFARO, Artt. 360-bis ss., cit., 243. 12 V., con specifico riguardo alle attribuzioni della Sezione lavoro della Suprema Corte, CARRATTA, Il “filtro” al ricorso in Cassazione fra dubbi di costituzionalità e salvaguardia del controllo di legittimità, in Giur. It., 2009, 1563 ss., spec. 1566 ss., ad opinione del quale potrebbe addirittura porsi una questione di legittimità costituzionale per violazione della garanzia del “giudice naturale”. 13 Sulla “specialità” della sezione tributaria della Cassazione, quale massima espressione – oggi costituzionalmente consentita – di una giurisdizione fiscale autonoma anche al vertice istituzionale, che si differenzia profondamente dalle altre sezioni della stessa Corte e da puri assetti organizzativi interni, ponendosi,, così, quale organo di vertice predestinato al controllo esclusivo di tutta la giurisdizione tributaria, v. GLENDI, Dalla quinta sezione civile della Suprema Corte all’unità del-

l’ordinamento tributario, in Giur. Trib., 2000, 5 ss.; Id., «Ordinarizzazione» del processo tributario, cit. 1028 ss., nonché Verso l’unità della giurisdizione tributaria, in L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, Padova, 2000, 627 ss., spec. 633 e note 88 ss., e ivi un confronto con il diverso caso della “sezione lavoro” della Cassazione e il riferimento all’incompatibilità con l’attuale assetto costituzionale di organi di vertice dotati di maggiore autonomia, ad instar di quanto invece previsto nell’ordinamento tedesco. 14 L’inciso «se la sezione non definisce il giudizio» di cui all’art. 376, comma 1, sottintende evidentemente che, nel caso di verifica positiva, sia la stessa sezione-filtro a provvedere alla pronuncia in camera di consiglio (v. in tal senso, anche MANDRIOLI, in MANDRIOLI-CARRATTA, Come cambia il processo cit., 72). 15 Così come, in un primo tempo, avevo ritenuto nel commentare “a caldo” queste nuove disposizioni (v. MARINELLI, Introduzione cit., 2703, nota 8). 16 V. in tal senso, anche BALENA, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile, in Il giu-


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2. Le due peculiari fattispecie di “inammissibilità del ricorso” contemplate dall’art. 360-bis c.p.c. Il punto più controverso del meccanismo introdotto dalla L. n. 69/2009 è senz’altro costituito dalla nuova norma collocata all’esordio della disciplina del giudizio di cassazione. Ci si riferisce, precisamente, all’art. 360-bis c.p.c. – rubricato «inammissibilità del ricorso» –, ai sensi del quale «il ricorso è inammissibile: 1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa; 2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo»17. Anzitutto, conviene osservare che, a dispetto di quanto letteralmente previsto dalla rubrica e dall’incipit della nuova disposizione, l’inammissibilità sancita dall’art. 360-bis si riferisce non già all’impugnazione complessivamente considerata, bensì ai singoli motivi della stessa18. E ciò, dal momento che le due previste fattispecie di inammissibilità si appuntano, rispettivamente, sull’analisi dei “motivi” del ricorso e delle “censure” fatte valere con il gravame. Inoltre, malgrado la rubrica della norma sia goffamente intitolata tout court “inammissibilità del ricorso”, è indubbio che tale disposizione introduce due nuove (e peculiari) specie di inammissibilità dell’impugnazione in cassazione che si affiancano alle altre già previste. Peraltro, si tratta di due nuove figure di inammissibilità sui generis e sistematicamente sfuggenti19. Queste, infatti, non si riannodano – come, invece, avviene per le ipotesi di inammissibilità del gravame sino ad oggi previste dalla legge processuale – a controlli di natura squisitamente rituale relativi alla regolarità dei requisiti di contenuto-forma del ricorso, bensì s’incentrano su una valutazione (che talvolta potrebbe essere fortemente discrezionale20) della “meritevolezza” delle censure articolate con l’impugnazione quanto alla loro “potenzialità nomofilattica”21.

sto processo civile, 2009, § 18; RAITI, Note esegetiche cit., 7, nonché DE CRISTOFARO, Artt. 360-bis ss., cit., 244 ss. 17 Come si osserverà più diffusamente infra (v. amplius sub. 4), la nuova disposizione è – nel suo complesso – molto simile al 502 della ZPO austriaca e al 543 Abs. 2 della ZPO tedesca (disposizioni dettate in tema di accesso alla Revision, che, nei sistemi austriaco e tedesco, è l’impugnazione di ultima istanza). 18 V. in tal senso, CARRATTA, Le nuove modifiche cit., 3, nonché RAITI, Note esegetiche cit., 3. 19 V. amplius CARRATTA, Le nuove modifiche cit., 4, RAITI, Note esegetiche cit., 3, secondo il quale tali specie di inammissibilità si collocano su «un terreno indubbiamente inedito alla categoria della inammissibilità»; v. anche GLENDI, Processo tributario e nuova riforma del processo civile, in Codice del processo tributario, a cura di Glendi e Chizzini, Milano, 2009, 10 ss., e ivi il caustico rilievo che «l’aver ancorato la rigida e inflessibile sanzione dell’inammissibilità a fattispecie così labili ed incerte [...] costituisce, in termini assoluti, un esercizio veramente pessimo del potere legislativo». 20 La notevole discrezionalità conferita alla Suprema Corte dalla nuova disposizione è fonte di preoccupazioni per una cospicua parte degli interpreti: v., ex pluribus, D’ASCOLA, La riforma e le riforme del processo civile: appunti sul giudizio di Cassazione, in www.judicium.it, 4; BOVE, Brevi riflessioni cit., 14;

In altri e più precisi termini, la sezione-filtro è chiamata a decidere se i motivi dedotti nell’impugnazione possano preludere a un ipotetico mutamento (o anche a una più salda conferma) della giurisprudenza dominante della Suprema Corte sulla questione di diritto posta dal caso di specie oppure se le censure avanzate nel ricorso per violazione dei principi regolatori del giusto processo non siano manifestamente infondate. Pertanto, in virtù del meccanismo introdotto dalla novella si selezioneranno i motivi dei ricorsi per cassazione che, avendo superato il preventivo vaglio di “meritevolezza” svolto dalla sezione-filtro, siano stati ritenuti degni di essere esaminati dalle altre sezioni della Suprema Corte, facendo sì che per gli altri – valutati, invece, di scarsa “potenzialità nomofilattica” ai sensi dell’art. 360-bis – la decisione dell’anteriore grado di giudizio definisca la causa22. 3. Segue: il n. 1 dell’art. 360-bis Quanto alle due specifiche fattispecie di “inammissibilità”, relativamente agevole si presenta l’interpretazione di quella contemplata dal n.1, ai sensi del quale il ricorso supererà il preventivo vaglio di “meritevolezza” quantomeno nelle seguenti ipotesi. Ci si riferisce, precisamente, al caso in cui la decisione gravata sia difforme da espressioni giurisprudenziali presenti nella produzione della Suprema Corte23, specialmente delle sue sezioni unite, oppure sia resa in assenza di precedenti di legittimità (o, a mio avviso, sia resa sì in presenza di precedenti che, tuttavia, sono sparuti o alquanto remoti nel tempo) ovvero, ancora, sia censurata con motivi idonei a stimolare una qualsivoglia forma di ripensamento (e non necessariamente un ribaltamento) della giurisprudenza consolidata, anche soltanto al fine di rendere più saldo e fermo l’iter logico-argomentativo che caratterizza la tesi accolta24. In tal senso deve intendersi la (prima facie non immediatamente intelligibile) ulteriore ipotesi di non inammissibilità del ricorso proposto contro una decisione conforme alla giurisprudenza della Supre-

COSTANTINO, La riforma cit., 1561; CARRATTA, Il “filtro”, cit., 1565 ss. 21 Nel senso che la prima logica nella quale è stato concepito il meccanismo in esame risponde all’intento di rafforzare la funzione nomofilattica della Suprema Corte, v. per tutti, CONSOLO, Una buona “novella”, cit., 739. 22 Qualora la Cassazione ritenga, ex art. 360bis, che i motivi articolati con il ricorso non siano meritevoli di essere esaminati nel merito – dichiarando inammissibile il gravame proposto –, la pronuncia (in rito) di inammissibilità comporta fatalmente l’applicazione della disciplina prevista per le impugnazioni inammissibili, ivi compreso l’art. 334, comma 2, c.p.c. (che si applica pure al processo tributario in virtù del richiamo svolto dall’art. 49 D. Lgs. n. 546/1992). Di conseguenza, se ai sensi dell’art. 360-bis è dichiarato inammissibile il ricorso principale, le eventuali impugnazioni incidentali tardive perdono efficacia (v. amplius, su tale profilo, DE CRISTOFARO, Artt. 360-bis ss., cit., 253). 23 Nella materia tributaria la presenza in seno alla Cassazione di una sezione ad hoc (sulla cui “specialità”, v. quanto osservato supra, sub nota 13) dovrebbe ridimensionare alquanto uno dei problemi più delicati posti dalla nuova norma, che consiste, precisamente, nel determinare quando sussista un “orientamento consolidato” della giurisprudenza che costituisca il referente per valutare se la decisione impugnata ha deciso le questioni di diritto in modo conforme rispetto allo stesso. Ciò, in un

contesto in cui sono frequenti contrasti anche sincronici di giurisprudenza tra le sezioni della Suprema Corte (v., su tale profilo, DE CRISTOFARO, Artt. 360-bis ss., cit., 253 ss. che – soprattutto nell’immediato – auspica sensatamente un atteggiamento elastico, nonché RAITI, Note esegetiche cit., 4, che invece privilegia un approccio – forse eccessivamente meccanicistico – imperniato sui rapporti percentuali di pronunce di un dato segno rispetto alle altre, tale da rendere irrilevanti le ipotesi di “labili contrasti”). 24 V., per tutti, CONSOLO, Una buona “novella” cit., 740, nonché MANDRIOLI, in MANDRIOLI-CARRATTA, Come cambia il processo cit., 70. Si pensi, a tal riguardo, non solo a motivi connessi a uno ius superveniens – ad es., dopo la decisione del giudice d’appello è approvata una norma interpretativa che chiarisce quale sia la disciplina da dare al rapporto controverso, in contrasto (anche apparente) con l’orientamento consolidato della Suprema Corte –, ma altresì a mutamenti della realtà socioeconomica (oppure anche a evoluzioni dottrinali). In particolare, i mutamenti della realtà socioeconomica potrebbero giocare un ruolo rilevante in vista del ripensamento – sub specie di “modifica o conferma” – di orientamenti giurisprudenziali consolidati in punto di norme cd. “elastiche” perché incentrate su concetti giuridici indeterminati, di adattamento continuo del diritto al variabile sentire sociale (la cui specificazione compiuta dal giudice di merito – se


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ma Corte che si evince dall’art. 360-bis n.1, cioè il caso in cui l’esame dei motivi dell’impugnazione offra elementi non già per un révirement dell’orientamento accolto, bensì per una sua “conferma” 25. Si è, a tal proposito, osservato in dottrina che il parametro prescelto dal legislatore appare perfettamente plausibile in un sistema che assegna alla Cassazione una funzione uniformatrice e nomofilattica, anch’essa da esplicarsi, oggi più che mai, alla luce del principio di ragionevole durata del processo sicché a quella Corte è opportunamente riferibile il potere-dovere di non ripetersi inutilmente26. È questa un’affermazione con cui si può concordare a patto, però, che il potere discrezionale che tale meccanismo fatalmente lascia alla Suprema Corte – nello “scegliere” i ricorsi di cui intende occuparsi (perché ritenuti degni di una decisione nel merito che, a priori, potrebbe essere sia di conferma che di modifica dei propri orientamenti) – sia esercitato con prudenza e senza quei rigorismi eccessivi che l’esperienza applicativa del quesito di diritto ha evidenziato. 4. Segue: il n. 2 dell’art. 360-bis Tra le ipotesi contemplate dall’art. 360-bis la più problematica – come i primi commentatori dell’art. 360-bis hanno puntualmente evidenziato27 – è la fattispecie di cui al n. 2 della nuova disposizione, giusta il quale il ricorso è inammissibile «quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo». È questa una formula dai contorni assai labili e incerti, che – se si eccettuano le enunciazioni generali dell’art. 111, comma 1 e 2, Cost. e dell’art. 6 CEDU – è totalmente priva di riscontro normativo dentro e fuori del codice di rito e dello stesso D.Lgs. n. 546/1992. Né del resto, se si ragiona empiricamente e si ha così riguardo alla concreta e attuale prassi dei ricorsi in cassazione nel processo civile e tributario, può dirsi che, nella articolazione dei motivi di ricorso, sia generalizzata o comunque frequente l’invocazione dei principi regolatori del giusto processo28. Nasce quindi il problema di indagare gli eventuali antecedenti di questa disposizione e, poi, anche e soprattutto – trattandosi di un precetto che introduce un vaglio preventivo –, quello di determinarne la portata effettiva.

oggetto di doglianza in cassazione – concreta, secondo l’opinione prevalente, un’ipotesi di censura per error in iudicando ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.: v. amplius, FABIANI, Clausole generali e sindacato della Cassazione, Torino, 2003, spec. 20 ss. e, si vis. MARINELLI, Art. 62 cit., 675). Si ponga mente, nel campo tributario, alle disposizioni che fanno uso di concetti elastici quali il “valore normale”, il “valore di mercato” o “il valore venale” di un bene oppure – ancora – ad alcune norme antielusive come, ad es., l’art. 37bis, comma 1, D.P.R. n. 600/1973 il quale statuisce che non sono opponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi «privi di valide ragioni economiche», diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e a ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti. 25 V. amplius, con ricca analisi, DE CRISTOFARO, Artt. 360-bis ss., cit., 248 ss. e ivi anche il rilievo che il modello operazionale avuto in mente dal legislatore della novella – nell’impiego della formula dei motivi idonei a sollecitare un ripensamento, con modifica o conferma – pare coincidere con l’approccio utilizzato dalla Corte costituzionale quanto alle declaratorie con ordinanza di manifesta fondatezza.

Ebbene, se si svolge lo sguardo extra moenia, a me pare – come già si è anticipato29 – che il modello ispiratore della norma sia quello austro-tedesco30. A tal riguardo, occorre anzitutto tenere presente il paragrafo 502 della ZPO austriaca, il quale stabilisce che la Revision (cioè, l’impugnazione di ultima istanza) «contro le sentenze d’appello è ammissibile soltanto se la decisione dipende dalla risoluzione di una questione di diritto sostanziale o processuale che ha una rilevante importanza per l’uniformità, la certezza o l’evoluzione del diritto, ad esempio perché il giudice d’appello ha deciso in modo difforme rispetto alla giurisprudenza della Corte suprema o in mancanza di precedenti sul punto o ancora perché sulla questione, in seno alla stessa giurisprudenza della Corte Suprema, non c’è un orientamento uniforme». Quanto all’ordinamento tedesco, viene in gioco il paragrafo 543, Abs. 2, della ZPO – novellato nel 2001 – giusta il quale l’impugnazione in ultimo grado è ammissibile se «la questione giuridica ha importanza di principio o la decisione della Corte Suprema è richiesta per promuovere un’interpretazione evolutiva delle norme vigenti o al fine di assicurare l’uniformità della giurisprudenza». Nella dottrina di lingua tedesca ci si è chiesti quando in concreto, ai sensi delle citate disposizioni, la repressione di un errore di diritto sostanziale o processuale – che infici la sentenza d’appello – contribuisca allo scopo di interesse generale costituito dall’uniforme interpretazione della legge e dall’unità della giurisprudenza, facendo sì che l’impugnazione di ultima istanza sia da considerarsi ammissibile31. Ebbene, con particolare riferimento ai vizi in procedendo – sia in Austria sia in Germania – la giurisprudenza si è ormai assestata su una posizione alquanto restrittiva. Infatti, la giurisprudenza austriaca è consolidata nel ritenere che i vizi di procedura capaci di superare il vaglio di “meritevolezza” imposto dal paragrafo 502 ZPO – e, per l’effetto, ammissibilmente deducibili con la Revision – sono, in buona sostanza, solo quelli derivanti dalla violazione dei «principi cardine del diritto processuale» (cd. trägende Grundsätze des Verfahrensrechts)32. In tal senso si è orientata, in Germania, anche la giurisprudenza del Bundesgerichtshof 33, soprattutto dopo che la Corte costituzionale ha precisato che il gravame in ultimo grado deve sempre ri-

26 In questi termini, quasi letteralmente, v. BRIGUGLIO, Ecco il “filtro”, (l’ultima riforma del giudizio di Cassazione), in www.judicium.it, 4. 27 V., per tutti, CONSOLO, Una buona “novella” cit., 740, nonché RAITI, Note esegetiche cit., 5. 28 V. per tutti, incisivamente, GLENDI, Processo tributario cit., 10 ss., che – a tal specifico riguardo – ragiona di un tecnicismo del tutto astratto e insignificante. 29 V. supra, sub nota 17. 30 V. a tal riguardo anche DE CRISTOFARO, Artt. 360-bis ss., cit., 292 ss., secondo il quale la formula in esame parrebbe mutuata – seppur del tutto impropriamente – dall’esperienza tedesca. 31 Vedi – anche per una sintesi del dibattito – BALL, Die Zulassung der Revision wegen offensichtlicher Unrichtigkeit des Berufungsurteils und wegen Verletzung von Verfahrensgrundrechten, in Festschrift für Musielak, München, 2004, 27 ss., nonché WENZEL, in Münchener Kommentar zur ZPO, München, 2007, sub 543, spec. n. 17 ss. V. anche DE CRISTOFARO, Artt. 360-bis ss., cit., 263. 32 V., amplius, la giurisprudenza citata in KLAUSER-KODEK, ZPO (2006-2008), Wien, 2008, sub 502, lett. e, 111 ss. Ad es., si sono ritenute meritevoli di una decisione sul merito – per-

ché concernenti questioni in procedendo riconducibili all’alveo dei «principi cardine del diritto processuale» e, così, di rilevante importanza ai sensi del 502 ZPO –, le istanze di Revision della sentenza d’appello con cui si deduca la violazione di un precedente giudicato da parte del giudice o una nullità processuale insanabile – sul tipo di quelle previste dal 477 ZPO (ad. es., nullità derivanti da vizi di costituzione del giudice, difetto di giurisdizione, gravi violazioni del contraddittorio o del diritto di difesa della parte) – oppure ancora l’errata applicazione delle norme sulla rimessione della causa dal giudice d’appello a quello di primo grado. Viceversa, si è ritenuto che, in linea di principio, non sussista una questione processuale d’interesse generale quando – con l’impugnazione di ultimo grado – si censuri l’interpretazione da parte del giudice d’appello del contenuto di un atto processuale (ad es., di quello introduttivo del giudizio) o di un provvedimento giudiziale oppure si deducano delle anomalie nella formula del giuramento utilizzata per la deposizione del testimone o per il conferimento dell’incarico al consulente tecnico d’ufficio. 33 V., in particolare, le decisioni riportate da WENZEL, op. cit., 17 ss.


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tenersi ammissibile allorquando l’errore procedurale censurato concreti una violazione di quei fondamentali diritti e garanzie processuali (che noi, oggi, chiameremmo “i principi regolatori del giusto processo” e) che, nella tradizione giuridica tedesca, sono espressi dalla dizione Anspruch auf rechtliches Gehör 34. Più precisamente, in tal caso il Bundesverfassungsgericht ritiene che si debba sempre ammettere la Revision anche e soprattutto al fine di preservare la Corte costituzionale dall’eventualità di un ricorso diretto del singolo (cd. Verfassungsbeschwerde), leso nei propri diritti costituzionali da atti del “pubblico potere” – ivi comprese le sentenze passate in giudicato –, che diversamente dalla Costituzione italiana, l’art. 93 del Grundgesetz tedesco contempla35. Infatti, poiché il rapporto tra la Verfassungsbeschwerde e la tutela giurisdizionale davanti ai giudici ordinari è impostato ex lege in termini di sussidiarietà e straordinarietà della prima rispetto alla seconda36, la Corte costituzionale ha ritenuto che, qualora con l’impugnazione di ultima istanza si deduca la violazione da parte del giudice d’appello di garanzie processuali fondamentali, sia il giudice comune – cioè, in tal caso, la Corte Suprema – che, in prima battuta, deve intervenire e, se l’error in procedendo denunciato sussiste, togliere di mezzo la sentenza viziata37. Peraltro – giova subito precisare –, è questa una giurisprudenza che, a mio avviso, si è potuta orientare in tal senso proprio perché, nel sistema costituzionale austriaco e tedesco, non è presente una disposizione dal tenore fortemente preclusivo come quella prevista dall’art. 111, comma 7, della nostra Carta fondamentale. Pertanto, se è vero che il legislatore italiano sembra aver concepito il “filtro” ispirandosi al modello austro-tedesco, occorre anche evidenziare come l’applicazione che dello stesso fa la consolidata giurisprudenza d’oltralpe non si presta ad essere trapiantata sic et simpliciter nel contesto normativo nostrano che, invece, si presenta irriducibilmente diverso. Quanto si è appena osservato conduce alla delicata questione posta dalla novella: quale è, in concreto, la portata limitatrice dell’art. 360-bis n. 2. Muovendo da un’interpretazione della norma aderente alla littera e all’intentio legis (deflazionare il carico di ricorsi in cassazione in vista del rafforzamento della funzione nomofilattica della Suprema Corte), se ne potrebbe ricavare che, nel valutare questo requisito di ammissibilità del (motivo di) ricorso, la sezione-filtro sia chiamata a verificare, anzitutto, se la censura concerna effet-

34 V. in tal senso, di recente, Bundesverfassungsgericht, in NJW, 2005, 3345; v. anche DE CRISTOFARO, Artt. 360-bis ss., cit., 263. 35 Nel sistema tedesco il principio dell’intangibilità del giudicato conosce un importante temperamento, quando esso lede un diritto fondamentale dell’individuo e la violazione è fatta valere impugnando la pronuncia definitiva, entro il breve termine di un mese dalla comunicazione o notificazione della decisione, davanti al Bundesverfassungsgericht con il ricorso individuale di costituzionalità (il cd. Verfassungsbeschwerde) previsto dall’art. 93, Abs. 1, n. 4a della Costituzione, giusta il quale «chiunque affermi la lesione di un proprio diritto fondamentale ad opera del pubblico potere, può proporre ricorso alla Corte costituzionale» (sulla Verfassungsbeschwerde v., nella nostra dottrina, lo studio – ormai classico – di CAPPELLETTI, La giurisdizione costituzionale delle libertà, Milano, 1955, passim, nonché, più di recente, HÄBERLE, La Verfassungsbeschwerde nel sistema della giustizia costituzionale tedesca, Milano, 2000). La Verfassungsbeschwerde, ai

tivamente la violazione di quelli che sono da considerarsi come i principi regolatori del giusto processo e, poi, se la stessa è svolta con argomenti non manifestamente infondati38. Si tratta di un’esegesi che parrebbe trovare pure conforto, sul piano comparatistico, nell’applicazione che, quanto alle doglianze in procedendo svolte in sede apicale, la giurisprudenza austriaca e tedesca fa (peraltro – ripetesi – in un contesto ordinamentale assai diverso dal nostro) del filtro di accesso alla Corte Suprema. Inoltre – e soprattutto –, questa tesi ricostruttiva assegna alla disposizione in esame una portata dirompente. Infatti, così intesa, la nuova norma inciderebbe fortemente (e surrettiziamente) sullo stesso catalogo dei motivi di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c. che ne risulterebbe, così, tramutato. E ciò, poiché – in ragione dell’operare dell’art. 360-bis n. 2 – gli unici errores in procedendo ammissibilmente censurabili in cassazione sarebbero quelli concernenti la violazione dei precetti (che sarebbero da considerarsi) attuativi dei principi regolatori del giusto processo e non già, invece, di tutte le norme processuali complessivamente evocate dai nn. 1, 2 e 4 dell’art. 360. E ancora: in quest’ottica – come si è autorevolmente osservato39 – pure la sorte del motivo di cui all’art. 360 n. 5, là dove prevede la nullità della sentenza non solo per l’omissione o la contraddittorietà della motivazione ma anche per la sua insufficienza, rischia seriamente di essere messa a repentaglio, dal momento che potrebbe essere spesso difficile ricondurre ogni insufficienza motivazionale sulle questioni di fatto alla violazione dei sommi principi del giusto processo40. Si tratta, tuttavia, di una ricostruzione che non sembra condivisibile. Essa, infatti, impone una selezione contenutistica – tra violazioni che attentano o no alla “giustizia del processo” – assai difficile e, all’atto pratico, pure arbitraria. Anzitutto, individuare quali siano, in concreto, i «principi regolatori del giusto processo» e, in particolare, i principi regolatori del giusto processo tributario è operazione ermeneutica alquanto ardua: ci si dovrebbe principalmente affidare ai generali canoni degli artt. 24 e 111 Cost. e a quelli che – su questa base – si ritengono essere i valori fondamentali della giurisdizione (il principio della domanda, il contraddittorio, la legittimazione, il giudicato ecc.). Si tratta, tuttavia, di principi e valori che diventano evanescenti quando si tratta di ancorare agli stessi il giudizio circa l’ammissibilità/inammissibilità dell’impugnazione di ultimo grado (che, inve-

sensi del dell’art. 93 della legge che disciplina la Corte costituzionale (Gesetz über das Bundesverfassungsgericht: BVerfGG), si deve proporre entro il termine di un mese dalla notificazione o comunicazione della sentenza definitiva e – in caso di accoglimento del ricorso – conduce all’annullamento con rinvio della decisione impugnata (v. amplius, SCHLAICH-KORIOTH, Das Bundesverfassungsgericht, München, 2004, 141 ss.). Pertanto – rapportato al sistema tedesco –, l’ordinamento italiano rivela un notevole difetto: la mancanza del ricorso individuale di costituzionalità determina, infatti, un vuoto di tutela contro le violazioni dei diritti fondamentali da parte di sentenze passate in giudicato (in questi termini, quasi letteralmente, v., nella dottrina processualistica, CAPONI, Corti europee e giudicati nazionali, Relazione al XXVII Congresso nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Corti europee e giudici nazionali, Verona, 25-26 settembre 2009, in corso di pubblicazione, 42 ss., spec. 52 del dattiloscritto). 36 Stabilisce, precisamente, 90, Abs. 2 del

BVerfGG che «se contro la violazione è ammissibile la via giudiziaria, il ricorso individuale di costituzionalità può essere proposto soltanto dopo l’esaurimento della via giudiziaria ordinaria» (v., a tal riguardo, SCHLAICH-KORIOTH, Das Bundesverfassungsgericht, cit., 145, nonché CAPONI, Corti europee cit., 43 del dattiloscritto). 37 V. Bundesverfassungsgericht, Plenum, 30 aprile 2003, 1, PBvU 1, 2002; Id., 7 ottobre 2003, 1, BvR 10, 1999. 38 V., a tal proposito, seppur in termini problematici, CONSOLO, Una buona “novella” cit., 740; Id., Il processo di primo grado e le impugnazioni cit., 516; v. anche BOVE, Brevi riflessioni cit., § 14; D’ASCOLA, La riforma cit., 4 e CARRATTA, Il “filtro” cit., 1566. 39 V. CONSOLO, op. loc. cit. 40Di qui, un onere aggiuntivo (o, quantomeno, una preoccupazione ulteriore) per il ricorrente che, nella redazione dei motivi di cui all’art. 360, n. 1, 2 e soprattutto 4 dovrebbe pure illustrare perché ritiene che le censure dedotte impingano nei principi regolatori del giusto processo.


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ce, dovrebbe ispirarsi a criteri rigidi e inflessibili). E ancora: non sembra che, a tal fine, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sull’art. 6, paragrafo 1 CEDU offra un ausilio decisivo, non fosse altro perché l’alta Corte ha più volte escluso – anche se in maniera non assoluta – che le controversie fiscali (e, così, i giudizi tributari) possano ricondursi nell’ambito di applicazione dello stesso art. 641. Inoltre, siffatta distinzione (tra violazioni della legge processuale attinenti o meno ai ritenuti principi regolatori del giusto processo) è, all’atto pratico, talmente venata di discrezionalità da risultare financo arbitraria. Infatti, si potrebbe ritenere che non attengano ai principi regolatori del giusto processo regole procedurali discrezionalmente derogabili dalle parti – indipendentemente dalla circostanza che siano state concretamente derogate – né ogni altra regola la cui violazione non possa essere rilevata anche d’ufficio; ma ci si potrebbe spingere più in là e opinare che non rientrino tra i principi del giusto processo anche quelle norme per le quali, pur essendo prevista la rilevabilità officiosa della loro violazione, essa non lo sia però per l’intera estensione del processo in tutti i suoi gradi. E ancora: lo stesso giudizio potrebbe formularsi per quei vincoli di ordine formale frutto di una scelta discrezionale del legislatore, che avrebbe potuto in ipotesi non prevederli senza che il giusto processo ne risenta come, ad esempio, certe nullità – ancorché non relative – degli atti o dei provvedimenti42. Infine, l’impervio distinguo che la disposizione così interpretata imporrebbe di compiere (assegnando all’organo giudicante una discrezionalità eccessivamente ampia e, in buona sostanza, non

41 V., per tutti, TESAURO, Giusto processo e processo tributario, in Rass. Trib., 2006, 11 ss., spec. 22 ss., e ivi ulteriori e ampi riferimenti. Del resto, pure il contributo della Corte costituzionale alla concretizzazione dei principi del giusto processo tributario si è rivelato modesto (quantomeno sino a oggi). Infatti, la Consulta ha spesso valutato la conformità a Costituzione delle norme processuali tributarie non già in base ai principi costituzionali del processo, bensì piuttosto ponendosi nell’ottica del cd. “interesse fiscale” e, così, verificando su questa base, se, nel campo tributario, possa o no giustificarsi una disciplina diversa da quella comune ad altri processi (v. TESAURO, op. loc. cit., spec. 17 ss., nonché, con ricchi richiami, GLENDI, Rapporti, cit., 1749 ss.). 42 Peraltro, se ci si ponesse in un’ottica siffatta potrebbero darsi situazioni paradossali. Ad esempio, si pensi – quanto al processo tributario – alle norme che prevedono fattispecie di estinzione del processo per inattività delle parti la quale, ai sensi dell’art. 45, comma 3, D.Lgs n. 546/1992, è rilevabile anche d’ufficio solo nel grado di giudizio in cui si verifica. Si tratta di disposizioni che, nel loro complesso, pongono questioni in procedendo di per sé non facilmente riconducibili all’empireo dei valori del giusto processo. Pertanto, un motivo di ricorso in cassazione che censurasse l’applicazione delle stesse ad opera del giudice di primo grado e/o del giudice d’appello rischierebbe di risultare (sempre o quasi) inammissibile. E ciò, ancorché nel campo fiscale l’estinzione del processo sia ben lungi dal consentire la riproposizione della domanda (v. GLENDI, Rapporti, cit., 1731, nota 79), ma vanifichi l’effetto impeditivo temporaneamente prodotto dalla proposizione del ricorso iniziale, determinando, co-

adeguatamente sindacabile) urterebbe senz’altro contro l’art. 111 (e forse pure contro l’art. 24) Cost. Ci si riferisce, in particolare, non solo al comma 7 dell’art. 111 (e all’ivi prevista garanzia del ricorso in cassazione per violazione di legge), ma anche e più in generale al valore costituzionale del giusto processo di cui alla stessa disposizione della Carta fondamentale. Occorre tenere presente, infatti, che la giurisdizione è attività d’imperio dello Stato capace d’incidere in misura profondissima sulla sfera giuridica del singolo43. Di conseguenza, le norme che disciplinano il suo esercizio nel processo impingono nella fondamentale pretesa a un giusto processo che il cittadino ha nei confronti dello Stato allorquando la sua sfera giuridica (personale o patrimoniale) possa essere pregiudicata o comunque influenzata dall’intervento del giudice. Se quanto appena osservato è corretto, ne deriva che le norme processuali concorrono sempre e intrinsecamente ad “attuare”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 111 Cost., il «giusto processo regolato dalla legge», nel cui alveo – arg. ex art. 111, comma 8, della Carta fondamentale – rifluisce pure la garanzia di una motivazione della sentenza esauriente e completa (e, così, non insufficiente)44. Quindi, tutte le dedotte violazioni della legge processuale – a prescindere da un loro collegamento (più o meno) intenso con i principi regolatori del giusto processo – meritano l’esame da parte della Cassazione45. Ciò, purché non si tratti di censure in procedendo che non meritino alcun approfondimento perché, già prima facie, del tutto implausibili o perché concernenti vizi procedurali privi in concreto di qualsiasi efficienza causale e, così, incapaci di tramutarsi in una causa di nullità della pronuncia gravata46.

sì, l’inoppugnabilità dell’atto impositivo. Del pari, si ponga mente al requisito della sottoscrizione della sentenza – previsto per il giudizio tributario dall’art. 36, comma 3, D.Lgs n. 546/1992 – il cui difetto concreta un vizio formale che, di per sé considerato, parrebbe difficilmente riconducibile all’alveo dei canoni regolatori del giusto processo. Di conseguenza, la deduzione in apicibus di un vizio siffatto potrebbe ritenersi non meritevole di un giudizio di fondatezza/infondatezza, quantunque, secondo i principi, la sentenza d’appello non sottoscritta sia da considerarsi giuridicamente inesistente e sebbene – nella materia tributaria – al passaggio in giudicato della sentenza di primo grado priva di sottoscrizione (quand’anche la stessa abbia formalmente accolto il ricorso del contribuente: v. GLENDI, Sull’omessa sottoscrizione della sentenza nel processo tributario, in Giur. Trib., 2000, 710 ss.) consegua l’intangibilità dell’atto impositivo. 43 V., a tal proposito, la mirabile ricostruzione offerta dal saggio di CERINO CANOVA, La garanzia costituzionale del giudicato civile, in Riv. Dir. Civ., 1977, I, 425 ss., spec. 427 ss., sulla cui scia si pongono – nell’interpretazione dell’art. 360-bis – anche RAITI, Note esegetiche cit., § 5 e De Cristofaro, Artt. 360bis ss., cit., 262; quanto alla giurisdizione tributaria, sostanzialmente intesa come “comando” e allo strettissimo legame che sussiste, a tal riguardo, tra giurisdizione, processo e norma processuale, v. le penetranti considerazioni di GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, 150 ss. e 209 ss. 44V. per tutti, DE CRISTOFARO, Artt. 360-bis ss., cit., 264. 45 V. RAITI, Note esegetiche cit., 5, che – in tale ottica – denuncia la «intrinseca superfluità»

della norma; DE CRISTOFARO, op. loc. cit., ed ivi pure il rilievo che una norma, nata con un intento restrittivo, paradossalmente determina – a causa di una sua improvvida formulazione – la sostanziale costituzionalizzazione di tutte le norme processuali. 46L’art. 360-bis, n. 2 codifica quindi quel principio giurisprudenziale (sino ad oggi, peraltro, non ancora del tutto consolidato) per cui l’art. 360, n. 4 – nel prevedere la denuncia di errores in procedendo – non tutela l’astratta regolarità del procedimento, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte a causa del vizio denunciato. Di conseguenza, l’impugnante in cassazione ha l’onere di illustrare le specifiche attività processuali che non ha potuto compiere per effetto del vizio medesimo, a pena di inammissibilità del corrispondente motivo di ricorso per difetto d’interesse. Ad es., quanto al processo tributario, con riguardo all’erronea trattazione della causa in via camerale anziché in pubblica udienza ai sensi dell’art. 33 D.Lgs n. 546/1992, v. Cass., 28 maggio 2008, n. 13900, secondo cui il mancato accoglimento dell’istanza della parte che richieda la trattazione della controversia innanzi alla commissione tributaria in pubblica udienza può determinare una violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., con conseguente nullità dell’udienza camerale e della sentenza emessa all’esito della stessa, solo quando il ricorrente evidenzi gli specifici aspetti che la discussione avrebbe potuto approfondire, colmando lacune ed integrando gli argomenti ed i rilievi già contenuti nei precedenti atti difensivi (in senso conforme v. Cass., 17 marzo 2008 n. 7108, Cass., 21 gennaio 2008 n. 1139, Cass., 10 febbraio 2006 n. 2948; contra, nel senso che l’erronea adozio-


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Queste sono le sole censure che, a ben vedere, il filtro di cui all’art. 360-bis n. 2 consente di espungere e, così, di scremare in via preventiva47. La soluzione prospettata mi pare, de iure condito, la sola rispettosa dei valori e precetti costituzionali coinvolti. Non c’è dubbio che, così, si ridimensioni sensibilmente la finalità deflativa che sta al fondo del-

ne del rito camerale in vece di quello ordinario determini, ex se, la nullità della sentenza finale, v. Cass., 11 maggio 2009 n. 10678, in Fisco, 25, 2009, 4102 ss., con commento di BECCALLI, La richiesta di discussione in pubblica udienza, nonché Cass., 15 marzo 2006 n. 5658 e Cass., 26 ottobre 2005 n. 20852). Con riferimento alla invalidità della notifica dell’avviso di trattazione ex art. 31 D.Lgs. n. 546/1992, v. Cass., 5 dicembre 2005, n. 26402, secondo cui non può essere cassata in sede di legittimità la sentenza della commissione tributaria regionale che abbia ritenuto sufficiente – ai fini della regolarità della

l’introduzione di questa norma (peraltro infelicemente formulata perché incentrata su una nozione extra-codicem naturalmente vaga e generica) e alla quale – in ultima analisi – si deve assegnare un valore sostanzialmente simbolico e programmatico, che è quello di far da preludio a un’operazione per cui i tempi sono forse ormai maturi: la riforma dell’art. 111, comma 7 della Carta fondamentale.

notificazione dell’avviso in parola – la semplice spedizione del plico raccomandato privo di busta, senza la verifica dell’avvenuta consegna del plico stesso, qualora la circostanza non abbia inciso concretamente sull’esercizio della difesa del contribuente nel giudizio d’appello, non avendo questi prospettato di essere stato impedito o ostacolato in tale esercizio; quanto alle prescrizioni di cui all’art. 36 D.Lgs. V. n. 546/1992, relativo al contenuto della sentenza tributaria, v. Cass., 12 novembre 2003, n. 16989, secondo cui tale disposizione non può dirsi violata ogniqualvolta l’omissione di qualche dato (quale, ad

es., l’indicazione di alcune parti o delle loro conclusioni, dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti ai fini della causa) comporti solo difficoltà nell’eseguibilità, nell’interpretazione o nell’esattezza formale della sentenza, e non anche violazioni del principio del contraddittorio o del diritto di difesa. 47 V. in tal senso, all’atto pratico, anche BRIGUGLIO, Chi ha paura del “filtro” (ovvero: se lo si dipinge fin d’ora come orribile qualcuno ci crederà e lo applicherà come tale: meglio dunque essere cautamente ottimisti e sterilizzare il “filtro” nei limiti del possibile), in www.judicium.it.


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ABUSO DEL DIRITTO: PROFILI PROCEDIMENTALI di Maria Pierro 1. Premessa 2. Elusione e abuso del diritto: identità concettuale e ambito di applicazione 3. Accertamento dei comportamenti elusivi/abusivi 4. Applicabilità degli istituti dell’adesione al processo verbale di constatazione e dell’adesione all’invito (al contraddittorio) alle operazioni elusive/abusive. 1. Premessa La recente affermazione giurisprudenziale1 di un generale principio antielusivo, non scritto, ritenuto immanente nel sistema tributario, impone alcune riflessioni sulle modalità di accertamento delle fattispecie riconducibili a tale fenomeno, e, in particolare, una verifica sull’applicabilità alle stesse dei modelli di definizione dell’accertamento quali, l’«adesione ai verbali di constatazione»2 e l’«adesione all’invito»3. Questi istituti, introdotti dal legislatore fiscale nell’ambito del D.Lgs. n. 218/1997, attribuiscono al contribuente la possibilità di definire le pendenze fiscali, prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, con una riduzione delle sanzioni irrogabili ad un ottavo del minimo, in assenza di qualunque forma di partecipazione alla quantificazione dell’imponibile e del tributo, già definiti negli atti ai quali si aderisce (elisione del contraddittorio)4. La verifica è necessaria perché la Cassazione, individuati gli elementi costitutivi del generale divieto di abuso del diritto in sede fiscale, non ha fatto alcun cenno alle modalità di accertamento applicabili alle attività censurabili come abusive, determinando una lacuna che, in assenza di un intervento legislativo (da auspicare), deve essere colmata. 2. Elusione e abuso del diritto: identità concettuale e ambito di applicazione L’indagine che ci si è proposti richiede preliminarmente di enunciare, seppur molto brevemente, il contenuto della clausola generale antiabuso, per poi dare conto degli effetti discendenti dal suo riconoscimento nel nostro ordinamento tributario. Il suo fon-

1 Cfr. Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30055, n. 30056, n. 30057, in Corr. Trib., 2009, 403 ss. 2 La definizione dei verbali di constatazione è disciplinata dall’art. 5-bis, D.Lgs. n. 218/1997, rubricato Adesione ai verbali di constatazione. 3 L’art. 5, D.Lgs. n. 218/1997 è stato modificato e ampliato – ex D.L. 29 novembre 2008, n. 185 convertito in L. 28 gennaio 2009, n. 2 – tramite l’introduzione dei commi da 1-bis a 1quinquies . 4 Ci si permette di rinviare a PIERRO, I nuovi modelli di definizione anticipata del rapporto tributario (l’adesione al verbale e l’adesione all’invito), in Rass. Trib., 4, 2009, 965 ss. per l’illustrazione degli istituti e per alcune valutazioni critiche in ordine alla presunta convenienza fiscale che il ricorso a queste modalità di definizione dell’accertamento dovrebbe garantire al contribuente. 5 Contesta questa ricostruzione TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, 1, Torino, 2010, 257 il quale afferma che «le norme costituzionali sono norme-parametro; esprimono principi, ai quali il legislatore deve confor-

damento è stato individuato, dalla Suprema Corte di Cassazione, nel principio di capacità contributiva (art. 53, comma 1, Cost.) e nel principio di progressività dell’imposizione (art. 53, comma 2, Cost.) i quali “costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualunque genere, essendo anche tali ultime norme finalizzate alla più piena attuazione di quei principi. Con la conseguenza che (il principio di divieto di abuso del diritto, n.d.a.) non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali”5. Le sezioni unite6 hanno ritenuto che l’abuso delle forme giuridiche realizzabile tramite un «uso distorto di strumenti giuridici, pur se non contrastante con specifiche disposizioni», qualora sia finalizzato al conseguimento di un indebito vantaggio fiscale – scopo esclusivo o principale dell’operazione giuridica posta in essere – in assenza di apprezzabili ragioni economiche, debba essere sanzionato dall’ordinamento, in quanto idoneo ad alterare il giusto riparto delle spese pubbliche. Tuttavia l’individuazione del carico fiscale dei contribuenti, in ossequio al principio di legalità, deve essere operata dal legislatore, unico legittimato ad individuare le fattispecie imponibili e i soggetti tenuti all’onere fiscale. Questa esigenza, seppure avvertita7, non è stata efficacemente soddisfatta dalla Corte la quale, nel tentativo di salvaguardare il rispetto della riserva di legge in materia tributaria, ha ritenuto che il principio antielusivo non possa in alcun modo ritenersi contrastante con l’art. 23 della Costituzione «in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nell’imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali». La posizione della Corte non è condivisibile: la qualificazione di una operazione come elusiva comporta infatti l’imposizione di fattispecie diverse e ulteriori rispetto a quelle indicate dalla norma fiscale, ritenuta elusa8; fattispecie che, in assenza di espresse

marsi. Esse non possono essere perciò considerate il fondamento diretto di concreti rapporti fiscali, ma possono soltanto far ritenere che la mancanza di una clausola generale antielusiva costituisca, nel nostro ordinamento, una lacuna alla quale il legislatore dovrebbe porre rimedio. Maggior fondamento ha l’opinione che il divieto di porre in essere comportamenti elusivi, o abusivi, è un principio generale insito in qualsiasi legislazione, fiscale e non fiscale». Sul tema si veda CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, Padova, 1992, in particolare 153; Id., Elusione fiscale, in Dig. Comm., Torino, 371; CONTRINO, Elusione fiscale, evasione e strumenti di contrasto, Bologna 1996, in particolare 31 ss. A favore dell’interpretazione proposta dalla Corte si veda FALSITTA, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola immanente nel sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Corr. Giur., 2009, 293 il quale individua nell’art. 53 Cost., non una norma immediatamente precettiva, ma un canone interpretativo che consente di ripartire in

modo giusto il carico tributario tra i consociati. 6 Cfr. nota 1. 7 Sul punto cfr. ZIZZO, Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. Trib., 2, 2009, II, 490 il quale afferma: «questa mediazione della legge mi pare affiori nella sentenza in commento laddove il tema della capacità contributiva è filtrato dal riferimento alle norme impositive e a quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere». 8 Come è stato efficacemente rilevato da TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, I, Torino, 2010, 265, «l’aggiramento (di obblighi e divieti previsti dall’ordinamento giuridico, n.d.a.) è da riferire ad una specifica disposizione, non all’ordinamento tributario in generale o ai principi generali dell’ordinamento tributario». «L’amministrazione infatti reagisce all’elusione applicando una specifica norma impositiva, non generici principi» (nota 26). Infatti, continua l’autore, «l’abuso degli strumenti civilistici può essere sintomo di elusione fiscale, ma non è, di per sé, elemento costitutivo dell’elusione fiscale».


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indicazioni legislative, il contribuente non potrebbe considerare imponibili. La mediazione della legge nell’individuazione delle operazioni tassabili è dunque essenziale9, come garanzia non solo della certezza dei rapporti giuridici, in particolare di quelli con l’amministrazione finanziaria, ma anche del principio del legittimo affidamento che i contribuenti ripongono sulla stabilità del sistema giuridico. D’altra parte il costante richiamo alla correttezza10 comportamentale dei consociati11, nell’adempimento del proprio dovere fiscale, deve essere controbilanciato da una pari “onestà” dello Stato il quale, nell’esercizio delle sue funzioni, deve indurre il contribuente a fare affidamento “nella certezza dell’ordinamento giuridico, elemento essenziale dello Stato di diritto che costituisce un preciso limite all’esercizio sia dell’attività legislativa, sia dell’attività amministrativa e tributaria”, sia – si aggiunge – dell’attività giurisdizionale. In realtà la Suprema Corte, in luogo della funzione nomofilattica, ha svolto una vera e propria attività creatrice del diritto12, tipica dei sistemi di common law, surrogandosi di fatto al legislatore nell’individuazione della clausola generale antiabuso. L’atteggiamento della Corte, invero, non pare riconducibile ad un’episodica attività di supplenza normativa, che in casi di particolare gravità e urgenza, e sempre se prodromica a un successivo e tempestivo intervento regolatore del legislatore, potrebbe

9 Cfr. sul punto CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. e Prat. Trib., 2009, I, 473 ss., il quale, nel contestare l’apparato argomentativo svolto dalla Cassazione a sostegno del generale principio del divieto di abuso del diritto tributario, ritiene che «solo con la mediazione della legge ex art. 23 Cost., fonte diretta della disciplina tributaria, [...] il dovere di contribuzione scolpito dall’art. 53 può trovare concreta attuazione e non direttamente come pretendono le sezioni unite: non ogni manifestazioni di capacità contributiva è assoggettata a prelievo, ma solo quelle che (nei limiti in cui) sono elevate a presupposto della legge». Cfr. inoltre BEGHIN, L’abuso del diritto tra capacità contributiva e certezza dei rapporti fisco-contribuente, in Corr. Trib., 2009, 823 ss., in particolare 827 ss. Sul tema cfr. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2006, 138, il quale, dopo aver osservato che il principio generale antielusivo deve essere previsto dalla legge o da altra fonte primaria, con esaurienti indicazioni per la sua operatività, afferma che, vigendo il principio di riserva di legge ex art. 23, Costituzione, «sarebbe [...] dubbia la legittimità di una clausola generale “elastica”, che rimettesse all’amministrazione e/o al giudice l’individuazione dei presupposti per ritenere “inopponibile” il comportamento del contribuente e dei suoi effetti». 10 La correttezza del comportamento è espressione del più ampio principio di buona fede che, «se riferito al contribuente, presenta un’analoga, parziale coincidenza con quello di “collaborazione” ed allude ad un generale dovere di correttezza, volto ad evitare, ad esempio, comportamenti del contribuente capziosi, dilatori, sostanzialmente connotati da “abuso” di diritti e/o tesi ad “eludere” una “giusta” pretesa tributaria» (così Cass., 10

trovare parziale giustificazione. Essa appare piuttosto l’espressione di una precisa volontà, già manifestata in altre e diverse occasioni13, di risolvere questioni “politiche” sostituendosi al legislatore. Speriamo che questa sia solo una sensazione avvertita temporaneamente dagli interpreti, e non una deriva favorita da una effettiva latitanza o “disattenzione” del Parlamento. Ebbene, nell’ambito del nostro sistema, seppure limitatamente all’imposizione diretta, l’art. 37-bis D.P.R. n. 600/1973 ha da tempo introdotto una definizione di elusione che, sotto il profilo concettuale, risulta oggi sovrapponibile a quella indicata dalla giurisprudenza delle sezioni unite, «pur nella diversità della terminologia utilizzata»14, e nella differente portata applicativa, oggi di carattere generale. Inizialmente introdotta come disposizione volta ad individuare specifiche ipotesi elusive, è divenuta poi col tempo norma a struttura generale applicabile, nell’ambito dell’imposizione diretta, solo alle fattispecie espressamente considerate abusive, tassativamente indicate dalla legge (norma elusiva con tipizzazione). L’intervento “normativo” della Corte di Cassazione, confermandone sostanzialmente il contenuto, ed elevandolo a principio generale, ha esteso l’applicazione del divieto di abuso del diritto all’intera materia fiscale, ossia sia ai tributi indiretti (ai quale già risultava applicabile in ossequio alle indicazioni formulate dalla Corte di Giustizia)15, sia a quelli diretti16. Con la conseguenza

dicembre 2002, n. 17576, in banca dati fisconline. 11 L’intervento della Cassazione è stato apprezzato per la sua portata etica da OCCHETTA-URBANI NERI, L’elusione fiscale. L’abuso del diritto nel campo tributario, in La Civiltà cattolica, Quaderno 3810, 21 marzo 2009. Gli autori osservano che l’elusione realizzata tramite l’abuso di norme è da condannare al pari dell’evasione. Essa costituisce «una tassa per la democrazia». 12 Cfr. MARONGIU, Abuso del diritto, poteri di accertamento e principio di legalità, in Corr. Trib., 2009, 3633 per il quale, in relazione al principio antiabuso, «nessuno, neppure ai fini di un supposto buon fine, può esercitare un ruolo di supplenza del legislatore, neppure la Corte di Cassazione»; MOSCHETTI, Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo, nelle sentenze delle sezioni unite in tema di “utilizzo abuso di norme fiscali di favore”, in Riv. Giur. Trib., 2009, 200 ss.; nonché BEGHIN, L’abuso del diritto tra rilevanza del fatto economico e poteri del magistrato, in Corr. Trib., 2009, 3290 ss. In senso conforme CARPENTIERI L’ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto, in Riv. Dir Trib., 2008, 1057, in particolare 1067; MANZITTI, L’abuso del diritto: la creazione “pretoria” di una norma antielusiva, in Dialoghi Dir. Trib., 2009, 33. 13 Si vedano, a titolo esemplificativo, le numerosissime sentenze della Cassazione pronunciate sulla natura commerciale delle fondazioni bancarie. A seguito di un intervento della Corte di Giustizia europea (10 gennaio 2006, causa C-222/2004, in banca dati fisconline) che, il base alla normativa comunitaria, ha previsto la possibilità, da valutare caso per caso, di qualificare le fondazioni bancarie quali enti commerciali, le sezioni unite, 22 gennaio 2009, n. 1593, in banca dati fisconline, sono giunte ad affermare la na-

tura commerciale delle fondazioni, almeno sino al periodo d’imposta 1998. Da 1999 è in vigore la nuova normativa che qualifica ex lege le fondazioni bancarie enti commerciali. 14 Dà per scontata l’identità concettuale di abuso del diritto ed elusione fiscale TESAURO, La motivazione degli atti di accertamento antielusivi ed i suoi riflessi processuali, in Corr. Trib., 2009, 3634 allorché afferma che «I commi 1 e 2 di tale disposizione (art. 37-bis D.P.R. n. 600/1973 n.d.a.) esplicitano il principio antiabuso e le relative conseguenze. L’orientamento giurisprudenziale costituisce, in sostanza, interpretazione abrogratrice del comma 3, che limita l’applicazione del principio antiabuso alle operazioni ivi tassativamente indicate». Sembra della stessa opinione anche SALVINI, La cooperazione del contribuente e il contraddittorio nell’accertamento, in Corr. Trib., 2009, 3570 ss. e, in particolare, 3573; BASILAVECCHIA, Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile, in Riv. Giur. Trib., 2008, ss. 782, il quale, in relazione all’abuso e all’elusione fiscale, segnala che si tratta di due diversi modi di definire lo stesso disvalore, nonché CONTRINO, op. cit., 480 e BEGHIN, L’abuso del diritto tra rilevanza del fatto economico e poteri del magistrato, cit., 3290 nota 3. 15 Cfr. per tutti Corte di Giustizia CE, 21 febbraio 2006, causa C-255/2002, Halifax, in Riv. Dir. Trib., 2007, IV, 3, con nota di PISTONE, L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche della Corte di Giustizia europea in tema di Iva. 16 Cfr. Cass., 21 gennaio 2009, n. 1465, in Corr. Trib., 2009, 829 ss. ove si rileva che la Corte stessa «ha rifiutato un concetto di rilevanza dell’elusione circoscritta a settori legislativamente predeterminati od ad ipotesi tassative (come quelle richiamate dall’at. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973), riconoscendo ope-


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che l’elenco delle fattispecie di cui al comma 3, dell’art. 37-bis del D.P.R. n 600 del 1973, originariamente le sole che potessero dare luogo ad operazioni elusive, ha assunto carattere meramente esemplificativo17. Oggi qualunque condotta posta in essere dal contribuente, allo scopo principale di conseguire un vantaggio fiscale in assenza di valide motivazioni economiche, potrebbe essere considerata elusiva o abusiva, che dir si voglia, ed essere censurata come tale dall’amministrazione finanziaria18. Questa evenienza impone un immediato intervento del Parlamento che determini in modo chiaro, preciso e tassativo le condizioni e gli elementi in presenza dei quali vi è elusione tramite abuso delle forme giuridiche. In mancanza, il rischio è quello di un arbitrario utilizzo del principio antiabuso da parte dell’amministrazione finanziaria la quale, in presenza di una norma ritenuta solo esemplificativa, potrebbe travalicare i limiti imposti dalla natura vincolata della sua attività19. Questa situazione è stata in parte arginata da un intervento della Cassazione, successivo a quello delle sezioni unite, il quale ha posto espressamente a carico dell’amministrazione finanziaria, che intende procedere alle conseguenti rettifiche, l’onere non solo di provare che l’operazione posta in essere dal contribuente è elusiva – in quanto realizzata tramite un uso distorto di forme o regolamenti negoziali, allo scopo essenziale, anche se non esclusivo, di realizzare un risparmio d’imposta –, ma anche di segnalare quale sarebbe stata per l’amministrazione l’operazione valutata come fiscalmente corretta. Tuttavia, in assenza di una norma positiva che indichi esattamente gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto tributario/elusione fiscale, che delimiti, ristabilendo la certezza giuridica, l’ambito di applicazione del principio e che, soprattutto, fissi le modalità di esercizio del potere di accertamento del fisco, nonché le tutele riservate al contribuente in questa fase, si deve assumere violato il principio di legalità e di conseguenza minati i principi di certezza del diritto e di affidamento. Con buona pace della libertà di iniziativa economica (art. 41, Cost.) e del principio di autonomia negoziale (art. 1322, c.c.), che dovrebbero consentire al contribuente di scegliere, tra i vari strumenti negoziali o modelli organizzativi messi a disposizione dall’ordinamento, i più convenienti sotto il profilo fiscale – obbiettivo che pare (almeno per il momento) ancora lecito nel nostro sistema20 – e più idonei all’esercizio della sua attività. L’iniziativa economica, nonostante le più ampie e “rassicuranti”

rante a tutto campo una clausola generale antiabuso». Si deve ricordare che la Corte di Cassazione, con sent. n. 21222 del 29 settembre 2006, in Giur. It., 2008, 5, 1297 ss., con nota di GIANONCELLI, Contrasto all’elusione fiscale in materia di imposte dirette e divieto comunitario di abuso del diritto, recependo le indicazione della Corte di Giustizia europea, ha esteso il principio antielusivo di matrice comunitaria, come tale applicabile nell’ambito delle sole imposte armonizzate, anche al settore dell’imposizione diretta ritenendo che gli Stati, anche in materia di imposte dirette, devono esercitare la loro competenza «nel rispetto dei principi e delle libertà fondamentali del Trattato CE». In senso conforme Cass., 4 aprile 2008, n. 8772, in Giur. It., 2008, 2084 ; Cass., 17 ottobre 2008, n. 25374, in Giur. It., 2009, 503 (causa Part Service). 17 Cfr. TESAURO, La motivazione degli atti d’accertamento antielusivi ed i suoi riflessi processuali, cit., 3637 il quale, dopo aver evidenziato che i commi 1 e 2 dell’art. 37-bis,

affermazioni della stessa Suprema Corte di Cassazione, pur nel rispetto delle forme giuridiche ammesse dal nostro ordinamento, trova un suo limite proprio nella clausola generale antiabuso, che potrebbe indurre il contribuente ad adottare le soluzioni fiscali più onerose per mettersi al riparo da probabili accertamenti fiscali21. La pianificazione dell’attività economica volta a minimizzare l’onere fiscale non appare più percorribile; e l’incertezza (giuridica) sulle conseguenze che potrebbero derivare dall’applicazione delle norme idonee a favorire un lecito risparmio fiscale è infatti aggravato dall’amplissima discrezionalità attribuita, dalla clausola generale antiabuso, agli uffici finanziari. 3. Accertamento dei comportamenti elusivi/abusivi. Le considerazioni appena svolte e l’attuale quadro di riferimento impongono una precisa individuazione sia dei poteri esercitabili dall’amministrazione in sede di accertamento delle operazioni elusive, sia delle garanzie procedimentali attribuite al contribuente. Le sentenze pronunciate dalle sezioni unite della Cassazione22 non ne fanno cenno. Esse si sono “limitate” ad affermare, definendola, la portata generale della clausola antiabuso. Tuttavia, come accennato, la sezione tributaria della Cassazione, con una successiva sentenza23, si è soffermata sulla ripartizione dell’onere della prova e precisamente sull’onere, a carico dell’amministrazione finanziaria, di provare «la ricorrenza dei presupposti di una pratica elusiva – avvalendosi anche di meccanismi presuntivi di cui la legislazione tributaria fa largo uso». L’amministrazione finanziaria, per disconoscere i vantaggi tributari conseguiti dall’abuso di forme giuridiche, deve infatti dimostrare, motivando adeguatamente l’avviso di accertamento, che l’operazione realizzata dal contribuente, pur perseguendo diversi e validi obbiettivi economici (di natura commerciale, finanziaria, ecc.), presenta tutti gli estremi del comportamento abusivo poiché «lo scopo di ottenere vantaggi fiscali si pone come elemento predominante ed assorbente» del negozio. E ciò, tenuto conto sia della volontà delle parti implicate, sia del contesto fattuale e giuridico in cui la transazione stessa sia stata posta in essere, «con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove quelle operazioni possono spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta». In sostanza gli uffici finanziari sono chiamati a dimostrare che l’operazione economica che assumono abusiva è stata realizzata per pianificare «essenzialmente, anche se non esclusivamente un van-

D.P.R. n. 600/1973 esplicitano il principio antiabuso e le relative conseguenze, giunge ad affermare, riferendosi alla pronuncia delle sezioni unite della Corte di fine 2008, che «l’orientamento giurisprudenziale costituisce, in sostanza, interpretazione abrogatrice del comma 3, che limita l’applicazione del principio antiabuso alle operazioni ivi tassativamente indicate», di modo che l’accertamento, quando assume come sua ragione giuridica la clausola generale antiabuso, può essere applicato a tutto il settore delle imposte dirette. Si veda al riguardo ZIZZO, Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. Trib., 2009, II, 487 ss., in particolare 494 ss., il quale afferma che, per le imposte dirette, «l’applicazione della clausola antielusiva sia da escludere [...]. Si dovrebbe ritenere pertanto che, dall’entrata in vigore dell’art. 37bis, la clausola elaborata dalla giurisprudenza operi unicamente con riferimento alle imposte diverse dalle imposte sui redditi (e dalle altre imposte il cui accertamento è rego-

lato mediante rinvio alla normativa in materia di imposte sui redditi). Questa conclusione non contrasta [...] con le numerose sentenze [...] che affermano l’applicabilità del principio anche nel settore delle imposte sui redditi. Si tratta infatti di sentenze che riguardano situazioni verificatesi anteriormente all’entrata in vigore della disposizione». L’autore pertanto ritiene che per l’imposizione diretta rimane valida l’indicazione del comma 3 dell’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973. 18 Cfr. Cass., 8 aprile 2009, n. 8481, in banca dati fisconline. 19 Cfr. Cass., sez. trib., 21 gennaio 2009, n. 1465, cit., 829 ss. 20 Cfr. CARPENTIERI, L’ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto, in Riv. Dir Trib., 2008, 1057; nonché VACCA, Abuso ed elusione fiscale, ivi, 2008, 1075. 21 Cfr. CARPENTIERI, op. cit., 1057. 22 Cfr. nota 1. 23 Cfr. Cass., 21 gennaio 2009, n. 1465, cit., 829 ss.


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taggio fiscale» tramite l’impiego distorto di una forma giuridica la cui individuazione, in ogni caso, «incombe all’amministrazione finanziaria, la quale non potrà certamente limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che le fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio di imposta»24. L’amministrazione deve necessariamente «esplicitare tale conclusione (nella motivazione dell’atto di accertamento n.d.a.) mettendo a confronto l’asserito comportamento abusato con il comportamento fisiologico aggirato, onde far emergere quella anomala differenza, incompatibile con una normale logica economica se non per pervenire a quel risultato elusivo». Per questa ragione «occorre che venga indicata con precisione la norma aggirata, essendo l’elusione da riferire ad una norma impositiva, non ai principi generali dell’ordinamento»25. Secondo la Suprema Corte, il contribuente ha l’onere di dimostrare che l’operazione è stata realizzata tramite un uso corretto degli strumenti giuridici e che è stata supportata da «ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico» – quindi effettive e reali – che risultano prevalenti sul conseguimento di un risparmio di imposta. Ebbene, oltre a queste indicazioni, come detto, nulla viene aggiunto dalla Suprema Corte in merito alle modalità del procedimento da applicare per l’accertamento delle operazioni ritenute abusive/elusive e ai diritti del contribuente durante la verifica. Ciononostante l’intervento del giudice di legittimità ha suscitato nuova attenzione sul tema delle garanzie riconosciute al contribuente in sede procedimentale, rendendo improcrastinabile, in assenza di un espressa disciplina, l’individuazione di una soluzione idonea a colmare questa lacuna, che facilmente il nostro legislatore potrebbe sanare con un suo intervento26. Ma, a distan-

24 Si deve dare atto che appena prima della pronuncia a sezioni unite, la Cassazione (sent. 17 ottobre 2008, n. 25374, causa Part Service, in Giur. It., 2009, 503) aveva stabilito che «lo strumento dell’abuso del diritto deve essere utilizzato dall’amministrazione finanziaria con particolare cautela, dovendosi sempre tener presente che l’impiego di forme contrattuali e/o organizzative, che consentano un minore carico fiscale, costituisce esercizio della libertà d’impresa e di iniziativa economica, nel quadro delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario. L’approccio dell’amministrazione in materia deve essere, quindi, oltremodo pragmatico, dovendosi rilevare che l’evoluzione degli strumenti giuridici è necessariamente collegata alle rapide mutazioni della realtà economico-finanziaria, nella quale possono trovare spazio forme nuove, non strettamente legate ad una angusta logica di profitto della singola impresa». A carico del contribuente è invece posto l’onere di fornire la prova che «l’uso della forma giuridica corrisponde ad un reale scopo economico, diverso da quello di un risparmio fiscale» (cfr. Cass., 21 aprile 2008, n. 10257, in Riv. Dir. Trib., 2008, II, 448) e quindi, e quindi di dimostrare l’esistenza di valide ragioni economiche alternative o concorrenti rispetto al risparmio fiscale, che pertanto assume carattere non meramente marginale o teorico. 25 Così TESAURO, La motivazione degli atti di accertamento antielusivi ed i suoi riflessi pro-

za di più di un anno dal pronunciamento della Corte, nessuna delle proposte di legge27 è stata approvata. Le soluzioni avanzate, seppure con motivazioni diverse, hanno condotto alla medesima conclusione, ossia all’applicazione estensiva28 dell’ art. 37-bis, D.P.R. n. 600/197329, il quale, definita l’elusione nell’ambito delle sole imposte dirette ed in relazione a fattispecie tassative, prevede, ai commi 4 e 5, uno speciale procedimento impositivo30 tramite il quale l’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi fiscali derivanti da operazioni elusive. Come si è avuto modo di evidenziare nel paragrafo precedente, è innegabile che le fattispecie abusive individuate dalla giurisprudenza sono del tutto assimilabili a quelle definite elusive. La Cassazione, infatti, indica quali elementi costitutivi dell’abuso sia l’impiego distorto di strumenti giuridici, sia il conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, requisiti identici a quelli che qualificano la clausola a struttura generale, contenuta nell’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973. Questo dato porta a ritenere che elusione e abuso possono essere considerati concetti sovrapponibili e, conseguentemente, che omogenee (o, meglio, identiche) devono essere anche le regole e le garanzie che presiedono alla loro applicazione, non avendo alcuna ragione d’essere una loro differenziazione se non quella di discriminare, sotto il profilo del loro accertamento, fattispecie censurate dall’amministrazione come abusive31. Pertanto il procedimento disciplinato dall’art. 37-bis non può che ritenersi applicabile anche alle operazioni riconducibili al fenomeno elusivo (abusivo) di origine giurisprudenziale. Configurandosi una lacuna tecnica32 in materia di accertamento delle attività abusive, il procedimento speciale previsto dall’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973 può dunque trovare applicazione analogica, con conseguente estensione dei diritti e obblighi, ivi previsti a tutela del contribuente, all’accertamento di operazioni

cessuali, cit., 3635, ove, con la solita chiarezza espositiva, enuncia il contenuto necessario della motivazione degli avvisi di accertamento antielusivi. 26 L’intervento è stato invocato da più parti. Cfr. MARONGIU, op. cit., 3633; BEGHIN, ult. op. cit., 3291; CONTRINO, op. cit., 479 ss. 27 Diverse sono le proposte di legge finalizzate a codificare, riformulando l’art. 37-bis, il principio antiabuso. Esse ne specificano l’ambito applicativo, individuano le garanzie procedimentali da rispettare nel caso in cui venga emesso un atto di accertamento che contesti una fattispecie di abuso del diritto, tengono conto delle indicazioni della Cassazione (sent. n. 1465/2009 cit.), che ha escluso che l’elusione possa essere circoscritta ad ipotesi tassative, considerando «operante a tutto campo una clausola generale antiabuso (nucleo fondamentale dell’elusione ricavato dall’elaborazione della Corte di Giustizia)». Al momento risultano depositate proposte ad iniziativa dei deputati Leo (18 giugno 2008 n. 2521), Strizzolo, Ceccuzzi, Fogliardi (2 luglio 2009 n. 2578), Jannone (23 settembre 2009 n. 2709) e della senatrice Bonfrisco (1 agosto n. 1572). 28 Cfr. SALVINI, La cooperazione del contribuente e il contraddittorio nell’accertamento, cit., 3573 la quale auspica che in ossequio al principio del giusto procedimento enunciato dalla stessa giurisprudenza di legittimità (Cass., 7 febbraio 2008, n. 2816) sia applicabile «in via interpretativa la medesima disciplina (prevista dall’art. 37-bis,

commi 4 e 5, D.P.R. n. 600/1973) anche agli accertamenti fondati sull’applicazione del discusso principio generale che consentirebbe di reprimere l’abuso del diritto in materia tributaria»; conforme CONTRINO, op. cit., 477, che individua le ragioni dell’estensione delle garanzie procedimentali previste dall’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973 a tutti gli accertamenti fondati sull’abuso del diritto sia nel canone generale di collaborazione e buona fede di cui all’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, sia nell’omogeneità strutturale dei concetti di elusione e abuso. 29 L’art. 37-bis è stato inserito nel D.P.R. n. 600/1973 dall’art.7 D.Lgs. n. 358/1997. 30 Così lo definisce TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2010, 254 ss. 31 Sul punto cfr. MARONGIU, Abuso del diritto, poteri di accertamento e principi di legalità, cit., 3633, il quale afferma che «logica, quindi, vorrebbe che se il contrasto all’elusione è generalmente applicabile proprio perché di natura costituzionale, identica fosse la procedimentalizzazione per tutti i tributi, diretti e indiretti, comunitari e nazionali, a pena di avere un “abuso” di prima serie e un “abuso” di serie minore, uno disciplinato e tutelato, a forma obbligatoria, e uno libero [...] se il principio invocato è unico e unificato, unica deve essere la procedura di contestazione». 32 Cfr. BOBBIO, Lacune del diritto, in Nov. Dig. It., IX, Torino, 1963, 423, per la distinzione tra lacuna ideologica e lacuna tecnica.


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abusive configurabili sia nell’ambito dell’imposizione diretta, sia in quella indiretta33. Il legislatore, non solo per garantire l’efficienza dell’azione amministrativa ed evitare che gli uffici applichino indiscriminatamente la normativa nei confronti di tutti i contribuenti, ma anche per prevenire l’emissione di atti impositivi infondati, ha infatti previsto una serie di garanzie procedimentali che consentono al contribuente di difendersi, prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, indicando fatti e circostanze non conosciuti, o non considerati e valutati correttamente dall’autorità amministrativa. L’accertamento dell’elusione implica infatti l’esercizio di un’ampia e complessa attività valutativa, soprattutto in relazione alle valide ragioni economiche, la quale viene sempre più frequentemente effettuata tramite il ricorso a presunzioni semplici (o semplicissime), che, in quanto tali, comportano spesso margini di errore nella determinazione dell’imponibile da sottoporre a tassazione. Per questa ragione, ma anche a garanzia dell’efficienza e dell’imparzialità dell’agire amministrativo, il legislatore ha ritenuto opportuno prevedere a carico dell’autorità procedente, come giusto contrappeso alla sua attività valutativa, l’obbligo di interpellare il contribuente, ponendolo in condizione di produrre gli elementi e i dati utili per una corretta ricostruzione della fattispecie. Il procedimento di accertamento dell’elusione si differenzia, dunque, da quello ordinario, sia per la previsione di «un contraddittorio anticipato», da attivare mediante l’inoltro, anche per lettera rac-

33 Sul punto espressamente contra ZIZZO, Clausola antielusione e capacità contributiva, cit., 487 ss., in particolare 496, il quale, distinguendo nettamente le imposte dirette, disciplinate ancora oggi dall’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973 «nel quale operano le garanzie presenti in questa disposizione (ai commi da 4 a 6)», dalle imposte indirette «coperte dal principio giurisprudenziale nel quale dette garanzie non sembrano operare», ritiene impraticabile il ricorso all’analogia: «benché difetti una disciplina specifica [...] l’accertamento delle imposte appartenenti al secondo gruppo (quelle indirette n.d.a.) è, infatti compiutamente regolato dalla normativa che le riguarda, sia da quella particolare, sia da quella generale (come, ad esempio, quella racchiusa nello Statuto dei diritti del contribuente o quella per principi enucleata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia CE), e a questa normativa è perfettamente possibile informare l’azione amministrativa anche nel caso di pretese avanzate in ragione del principio considerato. Non si ravvisa dunque una lacuna da colmare utilizzando l’analogia». Anche TESAURO, La motivazione degli atti d’accertamento antielusivi, cit., 3637, probabilmente in aderenza al dato normativo, e con implicite ma differenti motivazioni da quelle avanzate da ZIZZO, sembra ritenere applicabile il procedimento speciale solo all’intero settore delle imposte dirette (si veda nota 19). A favore dell’estensione delle garanzie procedimentali «ad ogni tipo di ipotesi elusiva, pena l’irragionevole disparità di trattamento», NUSSI, Abuso del diritto: profili sostanziali, procedimental-processuali e sostanziali, in questa rivista, 3, 2009, 320 ss. in particolare 323. 34 Sul necessario impiego della forma scritta da parte dell’amministrazione finanziaria per la richiesta di chiarimenti al contribuente, si rinvia a TUNDO, Richiesta di chiarimenti ex art. 37bis, commi 4 e 5, del D.P.R. 29 settembre 1973,

comandata, di richiesta di chiarimenti34 al contribuente in ordine alla ragioni economiche per le quali è stata realizzata una determinata operazione, sia per «l’obbligo specifico» imposto all’amministrazione di «motivare l’atto impositivo anche sulle deduzioni presentate dal contribuente»35, entro i successivi sessanta giorni36. Pertanto, il provvedimento impositivo emanato dall’amministrazione, che ritenga di dover operare una differente valutazione del presupposto d’imposta – in senso più aderente all’effettiva capacità contributiva del contribuente –, riqualifica l’operazione a seguito dell’applicazione della norma elusa o aggirata, e impone il pagamento di un tributo ulteriore rispetto a quello già corrisposto allo Stato in relazione alla fattispecie effettivamente realizzata, «al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione»37. Di modo che l’atto di accertamento deve contenere gli elementi costitutivi della fattispecie ritenuta elusiva/abusiva (da provare poi in sede di giudizio), e l’esame delle ragioni e degli argomenti addotti dal contribuente (che al pari dovranno essere poi provati dallo stesso in un eventuale giudizio), con i motivi del loro mancato accoglimento, pena l’invalidità-nullità dell’atto38. Qualora non si ritenesse possibile applicare analogicamente il procedimento previsto dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, si dovrebbe comunque considerare indispensabile, ai fini di una corretta e imparziale applicazione delle legge tributaria, la partecipazione attiva del contribuente39 all’accertamento delle fattispecie elusi-

n. 600: inscindibilità di ratio e forma, in Rass. Trib., 2009, 1190 ss. a commento di Cass., sez. trib., 12 gennaio 2009 n. 351, ivi, 1187, il quale ritiene che, a seguito dell’inosservanza del requisito formale, l’atto impositivo successivamente emesso è da considerarsi nullo. 35 Cfr. BASILAVECCHIA, Per l’effettività del contraddittorio, in Corr. Trib., 2009, 2369, in particolare 2371 ss., per il quale è un obbligo di motivazione rinforzata quello a cui è tenuta l’amministrazione finanziaria in sede di contestazione dell’operazione elusiva, in relazione in particolare alle specifiche giustificazioni addotte dal contribuente in risposta alla richiesta di chiarimenti. «Nel caso dei chiarimenti pretermessi, si ha qualcosa di più grave di una pura e semplice omissione della motivazione, che pure già di per sé rappresenta un vizio non meramente di carattere formale. Se l’ufficio non spiega la sua valutazione delle circostanze acquisite mediante la partecipazione del contribuente al procedimento, commette un’arbitraria discriminazione fra i dati acquisiti in istruttoria: ne considera alcuni – quelli funzionali alla propria ipotesi di accertamento – ne scarta altri, quelli forniti dal contribuente sottoposto a controllo. Vengono così elusi [...] sia l’obbligo di cooperazione, collaborazione e affidamento, sia il dovere di imparzialità, che impone di ponderare tutte le circostanze acquisite; ma soprattutto si notifica un provvedimento palesemente squilibrato». 36 Un procedimento simile, in cui a pena di nullità è posto l’obbligo, a carico dell’amministrazione, di valutare i dati e le prove fornite dal contribuente e di darne conto in sede di motivazione, è previsto sia dall’art. 110, commi 10 e 11 del T.U.I.R., sia dall’art. 16 del D.Lgs. n. 472/1997 Per una ricostruzione degli istituti che prevedono una forma di partecipazione attiva del contribuente al procedimento amministrativo e sulla necessità di valorizzare le forme di contraddittorio anticipato previsto

normativamente, ancorché in forma solo abbozzata, cfr. SOZZI, Contraddittorio anticipato e motivazione dell’atto di accertamento, in Rass. Trib., 2008, 1735 ss., a commento della sentenza Comm. trib. prov. Milano, sez. XV, 30 luglio 2008, n. 146. 37 Cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, I, cit., 255, il quale definisce gli avvisi di accertamento emessi a seguito del procedimento previsto ai commi 4 e 5 del D.P.R. n. 600/1973 «speciali atti d’imposizione, che, ferme restando le imposte dovute sul comportamento effettivamente posto in essere, impongono il pagamento di un tributo supplementare, pari alla differenza tra imposte dovute in base alla norma elusa (e dunque su una fattispecie che non è stata posta in essere) e imposte dovute sul comportamento realizzato». 38 Sull’argomento TESAURO, La motivazione degli atti d’accertamento antielusivi ed i suoi riflessi processuali, cit., 3636; in tema anche TOSI, Gli aspetti procedurali nell’applicazione delle norme antielusive, in Corr. Trib., 2006, 3119 ss. 39 Sulla necessità di introduzione nell’ordinamento di disposizioni di carattere generale che garantiscano un “giusto procedimento” e che prevedano nella fase istruttoria un vero e proprio contraddittorio amministrativo, valevole per tutti i procedimenti finalizzati alla definizione della pretesa impositiva si è già detto in PIERRO, I nuovi modelli di definizione anticipata del rapporto fiscale (adesione al verbale e adesione all’invito), cit., 965, ss. e, in particolare, 996. Sul punto cfr. GALLO, L’istruttoria nel sistema tributario, in Rass. Trib., 1, 2009, 25 ss. Sul tema del contraddittorio in fase amministrativa tributaria cfr. MOSCHETTI, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. e Prat. Trib., 1983, 1935; SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990, passim; GALLO, Accertamento e garanzie del contribuente: prospettive di riforma, in AA.VV., L’accertamento tributario. Gior-


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ve/abusive la quale, consentendo l’“esercizio condiviso” della funzione tributaria, permette di raggiungere risultati più aderenti all’effettiva capacità economica del soggetto verificato. A conferma di questa posizione si segnala che la Corte di Cassazione – in relazione ad accertamenti nell’ambito dei quali l’interlocuzione con il contribuente non è sempre prevista come obbligatoria dalla normativa – ha di recente considerato il contraddittorio quale espressione del «principio generale dell’azione amministrativa del giusto procedimento» 40. Non solo. Anche la Corte di Giustizia europea ha affermato che il diritto di difesa «nella sua dimensione procedimentale» è un principio fondamentale dell’ordinamento comunitario, da applicare alle attività di accertamento dei tributi41 nell’ambito delle quali il contribuente deve avere la possibilità manifestare “utilmente” la sua posizione. Esso deve trovare sempre applicazione all’interno dei singoli Stati, anche qualora la disciplina comunitaria non preveda espressamente l’attivazione del contraddittorio42. Va da sé che il principio, essendo stato enunciato dalla Corte di Giustizia, trova applicazione certamente nei confronti dei tributi armonizzati (imposte doganali, accise e Iva). Ma si ritiene, aderendo ad un’interpretazione proposta dalla dottrina più recente, che l’obbligo da parte dell’amministrazione di interpellare il contribuente prima di emanare un atto impositivo debba valere anche per l’accertamento delle imposte dirette, e quindi di tutti i tributi: «il principio di difesa trova invero legittimazione nella Costituzione italiana, nei principi di legalità (art. 23 della Costituzione), e di imparzialità amministrativa (art. 97 della Costituzione)» i quali «concorrono a conferirgli una portata generale»; esso «ha il proprio omologo nelle varie forme di contraddittorio, inteso come garanzia dell’attuazione imparziale della legge d’imposta, regolate dalla legislazione tributaria»43. A questi interventi si deve aggiungere anche quello della Corte costituzionale44, la quale seppure con motivazioni diverse, riconosce al contraddittorio endoprocedimentale una rilevanza essenziale ai fini della validità dell’atto conclusivo del procedimento di accertamento. Il giudice di legittimità, infatti, escludendo che l’obbligo di attivare il contraddittorio in sede amministrativa tributaria trovi

nata di studi per Berliri, a cura di Di Pietro, Milano, 1994, 81; RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, passim. 40Corte di Cassazione, 7 febbraio 2008, n. 2816, in banca dati fisconline, in relazione a metodologie di accertamento che fanno ricorso all’uso di presunzioni semplici – in particolare i parametri – ex art. 3 L. n. 549/1995 ha affermato che, anche se non espressamente previsto dalla normativa, «il contraddittorio procedimentale sia (è) necessario anche in materia tributaria in forza del principio generale dell’azione amministrativa del giusto procedimento». E ancora, in tema di accertamento induttivo basato sui coefficienti, la Suprema Corte, sez. trib. 22 febbraio 2008, n. 4624, in Giur. It., 2008,, 1560 ss., con commento di MARCHESELLI, Contraddittorio con il contribuente e oneri di motivazione dell’ufficio, dai coefficienti presuntivi agli studi di settore, ha ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento fondato sulla mera applicazione dei coefficienti e parametri presuntivi di reddito derivanti dal c.d. redditometro laddove l’amministrazione finanziaria abbia omesso di dare contezza, in sede di motivazione dell’atto impositivo, delle puntuali e dettagliate deduzioni difensive presentate dal contribuente a seguito della relativa richiesta di chiarimenti formulata nei propri confronti. Contra cfr.

fondamento negli articoli 24 e 111 della Costituzione – applicabili solo in sede giurisdizionale – rileva che la motivazione degli atti amministrativi (art. 3, L. n. 241/1990) e, tra essi, di quelli dell’amministrazione finanziaria deve, a pena di nullità (anche ex art 21-septies L. n 241/1990), indicare non solo i presupposti di fatto, ma anche le ragioni giuridiche per le quali non sono stati accolti gli argomenti e le prove prodotte dal contribuente in sede di contraddittorio procedimentale. Se dunque il contraddittorio, qualunque sia la sua base di legittimazione all’interno del nostro ordinamento, è condizione indispensabile di legittimità, imparzialità e buon andamento dell’agire dell’amministrazione finanziaria, attuazione del canone generale di collaborazione e buona fede di cui all’art. 10 dello Statuto, il suo rispetto è imprescindibile e non può che essere considerato quale requisito essenziale del corretto accertamento delle operazioni abusive. E questo anche qualora si ritenesse di non poter applicare analogicamente il procedimento speciale previsto dall’art. 37-bis D.P.R. 600/1973. Ma, come osservato, pare che nulla osti all’applicazione di questa disposizione. 4. Applicabilità degli istituti dell’adesione al processo verbale di constatazione e dell’adesione (all’invito al contraddittorio) alle operazioni elusive/abusive. L’attività a cui è chiamata l’amministrazione per l’accertamento delle operazioni elusive/abusive45 è dunque particolarmente complessa e richiede che il procedimento istruttorio, preliminare a quello impositivo in senso stretto, debba essere assistito da opportune garanzie. Esse devono essere volte, da un lato, ad assicurare la possibilità per gli organi procedenti di compiere tutte le indagini necessarie ad acquisire le prove che giustifichino una ricostruzione del fenomeno in termini abusivi e, dall’altro, a garantire, tramite l’integrazione del contradditorio, un’effettiva e concreta partecipazione del contribuente alla determinazione del contenuto dell’atto. L’accertamento delle fattispecie elusive, così come indicato nei precedenti paragrafi, può essere definito tramite gli istituti del-

Cass., 25 gennaio, 2006, n. 1439, in Corr. Trib., 2006, 1033 ss. nonché Cass., 23 gennaio 2008, n. 1405, in banca dati fisconline. La recente tendenza della giurisprudenza di legittimità ad esercitare una funzione di supplenza, seppur limitatamente al settore procedimentale, nell’individuazione di principi generali «che siano in grado di colmare le lacune legislative e di indirizzare, l’applicazione di istituti partecipativi esistenti, tutelando l’interesse del contribuente all’effettività del contraddittorio» è stata evidenziata da SALVINI, La cooperazione del contribuente e il contraddittorio nell’accertamento, in Corr. Trib., 2009, 3570 e 3573. 41 Cfr. Corte di Giustizia CE, 18 dicembre 2008, causa C-349, Sopropè, in Rass. Trib., 2009, II, 580, in particolare 595, ove si afferma infatti che il principio di difesa «trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. In forza di tale principio i soggetti destinatari di tali decisioni [...] devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione» (punto 37). 42 «Tale obbligo incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogni qualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’appli-

cazione del diritto comunitario, quand’anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente siffatta formalità. Trattandosi dell’attuazione del principio in parola e, più in particolare, dei termini per esercitare i diritti della difesa, si deve precisare che, qualora non siano fissati dal diritto comunitario, come nella causa principale, essi rientrano nella sfera del diritto nazionale purché, da un lato, siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli o le imprese in situazioni di diritto nazionale comparabili, e, dall’altro, non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti della difesa conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario» (punto 38). 43 RAGUCCI, Il contraddittorio come principio generale dell’ordinamento tributario, in Rass. Trib., 2, 2009, 595; sulla stessa linea di pensiero SAMMARTINO, I diritti del contribuente nella fase delle verifiche fiscali, in Lo statuto dei diritti del contribuente, a cura di Marongiu, Torino, 2004, 132. 44Ordinanza 24 luglio 2009, n. 244, in Corr. Trib., 2009, 2920 con commento di MARCHESELLI, Nullità degli avvisi di accertamento senza contraddittorio con il contribuente, 2915 ss. 45Da questo momento, verificata l’identità concettuale di abuso ed elusione, i termini saranno usati nel testo in modo sinonimico.


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l’adesione al verbale di constatazione o dell’adesione all’invito a comparire? Sulla base delle osservazioni appena svolte, è agevole affermare che la procedura di definizione dell’accertamento del tributo tramite adesione al verbale di constatazione, disciplinato dall’art. 5bis del D.Lgs. n. 218/1997, non può trovare applicazione. E questo per una ragione fondamentale. Essa ha un ambito di operatività limitato, circoscritto ai soli verbali che contengono contestazioni di violazioni sostanziali relative alle imposte dirette e all’Iva e ai quali può conseguire solo l’emissione di un accertamento parziale46. Questa modalità di controllo, basata originariamente su segnalazioni provenienti da autorità qualificate, è da tempo applicabile anche ai casi in cui venga svolta un’attività istruttoria consistente in accessi, ispezioni e verifiche, dalla quale siano emerse prove certe e dirette dell’evasione, immediatamente utilizzabili dai verificatori. È, infatti, la natura delle prove e degli elementi che devono essere posti a fondamento della rettifica l’elemento che qualifica l’accertamento parziale, nell’ambito del quale non trovano spazio valutazioni presuntive o estimative, le quali potrebbero essere solo oggetto di «una eventuale e più approfondita e complessiva valutazione della posizione del contribuente, sulla base degli elementi istruttori autonomamente acquisibili»47, in un successivo accertamento. Da ciò consegue che l’adesione al verbale può ritenersi ammissibile solo quando i rilievi in esso contenuti siano confortati e giustificati da mezzi diretti di prova del presupposto impositivo48. L’accertamento del fenomeno elusivo richiede, come già messo in evidenza, indagini articolate e minuziose, che il più delle volte prescindono dalla contabilità e dai documenti ad essa correlati. Esso comporta l’applicazione di tecniche induttive e di criteri probabilistici per individuare sia la reale intenzione che ha condotto il contribuente ad adottare un negozio giuridico in luogo di un altro49, sia l’indebito vantaggio fiscale da esso discendente. Per questi motivi l’elusione non può essere rilevata da un avviso di accertamento parziale, come confermato dalle indicazioni interpretative divulgate50 successivamente all’entrata in vigore dell’art. 5-bis D.Lgs. n. 218/1997. Esse precisano che questa modalità non può avere ad oggetto quelle «situazioni circostanze, fatti o altri elementi, non ancora formalizzati nella constatazione di specifiche violazioni, che devono essere rimesse al vaglio del competente ufficio, che può espletare ulteriori attività istruttorie. Tale situazione ricorre tipicamente nei casi in cui il processo verbale contenga la evidenziazione di elementi che portano a considerare determinate operazioni come elusive, ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 (in tal caso, l’esistenza di eventuali violazioni può emergere solo a seguito della procedura prevista dal

46Sull’accertamento parziale si rinvia all’opera monografica di BASILAVECCHIA, L’accertamento parziale, Milano, 1988, in particolare 167. 47 Cfr. circ. n. 235/E del 1997, paragrafo 4 (in banca dati fisconline), emanata a seguito dell’entrata in vigore della disciplina dell’accertamento con adesione. 48Ci si permette di rinviare alle argomentazioni svolte in PIERRO, I nuovi modelli di definizione del rapporto tributario (adesione al verbale e adesione all’invito), cit., in particolare da 966. 49 Questo è l’invito contenuto nella circolare 9 aprile 2009, n. 13/E la quale segnala che per contestare l’abuso è necessario preventivamente individuare l’operazione dalla cui esecuzione il contribuente ha tratto un indebito vantaggio e successivamente riqualificare la

comma 4 dello stesso art. 37-bis)» 51. Qualche riflessione in più merita invece la possibilità di applicare l’adesione all’invito al contraddittorio, disciplinato dall’art. 5 del D.Lgs. n. 218/1997, all’accertamento dell’elusione. Il legislatore, al fine di consentire una soluzione rapida ed agevolata della pendenza tributaria ad una platea di soggetti più vasta rispetto a quella ai quali è applicabile l’adesione al verbale di constatazione, ha integrato le disposizioni contenute nell’art. 5 del D.Lgs. n. 218/1997, prevedendo che l’atto di attivazione della procedura di accertamento con adesione – cioè l’invito a comparire – debba contenere, oltre all’indicazione dei periodi d’imposta suscettibili di accertamento, del giorno e dell’ora della comparizione per la definizione dell’accertamento con adesione, anche le «maggiori imposte, ritenute, contributi, sanzioni ed interessi dovuti» e i «motivi che hanno dato luogo alla determinazione delle maggiori» quantificazioni. Ciò per permettere al contribuente di decidere se definire l’accertamento tramite adesione al contenuto dell’invito. Questi dati dovrebbero infatti porlo in condizione di scegliere consapevolmente se accedere a una definizione anticipata dell’accertamento, oppure, previa attivazione del contraddittorio, di dare corso all’adesione ordinaria (accertamento con adesione). L’invito, dunque, oltre alla sua originaria funzione di atto finalizzato all’attivazione del contraddittorio, ha una valenza ulteriore, prossima a quella tipica degli atti impositivi, pur non determinando, in assenza dell’adesione, alcun effetto impositivo. È un atto propulsivo, endoprocedimentale, facoltativo52, tanto che, in sua mancanza, il contribuente, che decida di prestare acquiescenza al successivo avviso di accertamento, può comunque ottenere la riduzione delle sanzioni ad un ottavo del minimo53, conseguendo gli stessi benefici che avrebbe potuto assicurarsi se gli fosse stata data la possibilità di definire l’accertamento mediante adesione all’invito. L’invito, dunque, apre la strada a due possibili e tra loro alternative modalità di definizione delle pendenze fiscali del contribuente. La prima conduce, in esito al contraddittorio tra le parti, alla ordinaria soluzione concordata, disciplinata dal D.Lgs. n. 218/1997. La seconda si conclude con la definizione immediata della rettifica, realizzata, senza alcuna intermediazione con gli uffici, tramite accettazione preventiva ed integrale delle determinazioni in esso contenute54. Questa modalità di definizione ha un ambito di operatività molto più ampio di quello previsto per l’adesione al verbale e coincide con quello dell’ accertamento con adesione. Essa tende infatti a trovare applicazione prevalentemente proprio per la definizione di accertamenti sintetici, accertamenti fondati su dati e situazioni a carattere “presuntivo predeterminato”, accertamen-

stessa in un ottica essenzialmente fiscale. 50Cfr. circ. n. 55/E del 2008. 51 Per prassi ormai consolidata, i suddetti elementi vengono indicati nel verbale come segnalazioni che in quanto tali devono essere oggetto dei necessari approfondimenti e sviluppi con l’utilizzo di ulteriori attività istruttorie (circ. 17 settembre 2008 n. 55/E.) 52 L’invito è obbligatorio nel procedimento di accertamento fondato sugli studi di settore, ex art. 10, comma 3-bis della legge 10 maggio 1998, n. 146. Il legislatore ha previsto che nel caso di adesione all’invito formulato sulla base degli studi di settore, l’ulteriore ed eventuale azione di accertamento presuntivo – ex art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. n. 600/1973 e art. 54, comma 2, ultimo periodo, D.P.R. n. 633/1972 – è preclusa all’amministrazione qualora l’am-

montare delle attività non dichiarate, con un massimo di cinquantamila euro, sia pari o inferiore al quaranta per cento dei ricavi o compensi definiti nell’invito. E sempre che non sia accertata la violazione all’obbligo di comunicazione dei dati rilevanti per gli studi ovvero vengano segnalate cause di insussistenza di esclusione o di non applicazione degli studi. 53 Cfr. art. 15, comma 2-bis, D.Lgs. n. 218/1997. 54La definizione tramite adesione all’atto di comparizione non è però attivabile qualora l’invito sia stato preceduto da un processo verbale al quale, pur essendo definibile ex art. 5-bis, non è stata prestata adesione «con riferimento alle maggiori imposte ad altre somme relative alle violazioni indicate nei processi verbali stessi che consentono l’emissione degli accertamenti» parziali.


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ti induttivi basati su presunzioni “semplicissime”, o sugli studi di settore, oppure, ancora, fondati su elementi valutativi e probabilistici, strumenti tutti utilizzati per rilevare fenomeni elusivi. Tutti casi in cui l’integrazione del contraddittorio (che consente al contribuente di contestare il merito delle scelte effettuate dall’ufficio, fondate su prove indirette e metodi presuntivi), appare non solo opportuna ma anche necessaria. Ebbene, la consapevole rinuncia a questo strumento di garanzia in situazioni in cui l’amministrazione è chiamata a disconoscere gli effetti fiscali di operazioni elusive non pare ammissibile. La censura di un’operazione come elusiva da parte degli uffici finanziari può avvenire, come detto, solo nel rispetto del procedimento speciale previsto dall’art. 37-bis, commi 4 e 5, D.P.R. n. 600/1973, che richiede – a pena di nullità dell’eventuale atto impositivo – l’obbligatoria integrazione del contradditorio. Non si può negare tuttavia che il contribuente, nella fase anteriore alla comunicazione dell’invito, e a seguito di un’attività di verifica conclusasi con la consegna di un processo verbale di constatazione, possa esercitare la facoltà di comunicare le sue osservazioni e richieste all’autorità procedente (art. 12, comma 7, Statuto), la quale a sua volta deve – anche secondo la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia – tenerne conto nella formulazione dell’invito, prima ancora che nell’avviso di accertamento che conclude il procedimento di verifica. Vero è infatti che, per espressa previsione di legge, l’amministrazio-

ne ha il dovere, dopo la consegna del verbale (che potrebbe essere predisposto dalla Guardia di Finanza e non dall’autorità amministrativa) e prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, di interpellare il contribuente chiedendo chiarimenti sulle operazioni assunte come elusive, magari proprio ed anche tramite l’“invito”. In ogni caso, in assenza di una espressa disposizione normativa che escluda dal campo di applicazione dell’adesione all’invito la definizione dell’accertamento delle fattispecie elusive/abusive, si potrebbe ipotizzare che il contribuente, qualora ne dovesse individuare la convenienza, proponga all’amministrazione di applicare l’istituto de quo, aderendo al contenuto integrale di questo atto. Adesione che, come detto, avverrebbe in assenza della garanzia del contraddittorio. Questa strada non appare percorribile. Il richiamo al rigore applicativo, e l’invocazione di particolari garanzie a favore del contribuente, in una materia dai contorni così indefiniti, sono necessarie. Per ragioni di coerenza sistematica, dalla quale si è fatto e si fa discendere l’applicazione analogica dello speciale procedimento previsto per l’accertamento dell’elusione, sarebbe preferibile e opportuno che l’amministrazione seguisse e indirizzasse il contribuente ad adottare, per la definizione dell’accertamento dell’elusione, la sola procedura prevista dall’art. 37-bis commi 4 e 5, D.P.R. n. 600/1973, che si conclude con l’emissione dell’avviso di accertamento, sempre definibile tramite adesione ordinaria.


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SPESE DI SPEDIZIONE DELLA FATTURA: È LEGITTIMO L’ADDEBITO? di Giuseppe Pizzonia 1. Premessa - 2. La prassi corrente. Il caso delle società telefoniche - 3. Emissione della fattura vs adempimenti e formalità conseguenti - 4. Il divieto di gravare di oneri l’emissione della fattura - 5. L’orientamento della Cassazione - 6. Conclusioni

merito, prevalente nel senso della legittimità dell’addebito2. Era inevitabile che – prima o poi – la questione, pur se di rilevanza economica assai scarsa dal punto di vista del singolo cliente3, sarebbe arrivata all’esame della Suprema Corte, a seguito di una sentenza del Tribunale di Paola, di conferma di una sentenza del Giudice di Pace della stessa località4. La Cassazione, con la sen1. Premessa tenza 19 novembre 2008, n. 35325 ha in specie escluso l’esistenUna questione molto “popolare” e da tempo discussa nel dibat- za di un generale divieto di addebito. tito consumeristico è quella relativa all’addebito al cliente di utenze telefoniche (ma è da ritenere che questione analoga si 2. La prassi corrente. Il caso delle società telefoniche possa porre per qualsiasi servizio pubblico di erogazione e più in Le società telefoniche inviano periodicamente alla propria cliengenerale per qualsiasi fornitura di beni e servizi) delle spese per tela un documento – denominato in genere “conto telefonico”, o la spedizione della fattura. E ciò in specie avuto riguardo al di- con simile denominazione – in cui è riportato il traffico telefonisposto normativo, in base al quale «le spese di emissione della co riferito ad un dato periodo di riferimento6. Nel riepilogo defattura e dei conseguenti adempimenti e formalità non possono gli addebiti/accrediti, in aggiunta al costo delle chiamate effetformare oggetto di addebito a qualsiasi titolo»1. tuate, viene anche addebitato al cliente un importo fisso, a titolo Questa disposizione è stata da taluno intesa come espressione di di spese per la spedizione del conto telefonico. un generale divieto di gravare di spese la fatturazione, in con- Prima stabilire se le spese per la spedizione del conto telefonico trapposizione con la prassi costante delle aziende di erogazione rientrino – o no – nell’ambito del divieto di addebito di cui alche invece hanno normalmente esposto addebiti per spese di l’art. 21, comma 8, citato, un problema preliminare che si pone spedizione e simili. è quello di analizzare la natura del conto telefonico stesso; se La questione è stata più volte esaminata dalla giurisprudenza di questo cioè possa essere qualificato come “fattura”.

1 Cfr. art. 21, comma 8, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Espressione compiuta e argomentata dell’orientamento pro consumatori si può leggere in AGNINO, Bollette telefoniche e costi aggiuntivi non dovuti. Ovvero quando Davide (il consumatore) sfida in giudizio Golia (la compagnia telefonica) per pochi spiccioli, in Giur. di Merito, 2008, 11, 2833. 2 Cfr. Trib. Bari, 11 novembre 2007, secondo cui «del tutto legittimamente la clausola contrattuale di cui all’art. 14 condizioni generali di abbonamento della Telecom dispone, sul piano del rapporto tra privati, che le spese di spedizione della fattura sono addebitabili al cliente, il quale ultimo può eventualmente dolersi non già del loro addebito, ma solo della maggiorazione dell’Iva anche su tali spese di spedizione, ove mai praticata, in quanto se il principio generale è che nella base imponibile dell’imposta sono compresi anche gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione della prestazione (v. l’art. 12, comma 2, e 13, comma 1, D.P.R. 633 del 1972), l’art. 21, D.P.R. cit., effettua, al comma 8, una puntualizzazione al suddetto principio generale stabilendo, appunto, che le spese di emissione (e correlativamente di spedizione) della fattura non possono invece formare oggetto di addebito Iva, in via di rivalsa, al committente e ciò a qualsiasi titolo. Il che non vuol dire che, escludendo tale voce (id est, spese di spedizione fattura) dalla base imponibile, i contraenti non si possano liberamente accordare per porre tale onere a carico dell’una o dell’altra parte». Secondo Trib. Catanzaro, 8 settembre 2005, «le spese di spedizione non afferisco-

no necessariamente all’emissione della fattura né agli adempimenti e formalità previste dalla norma sopra richiamata poiché dette spese sono solo eventuali non essendo prevista l’obbligatorietà della spedizione per posta della fattura una volta emessa perché potrebbe essere consegnata a mano al cliente o tramite un dipendente incaricato del recapito e per email, o via fax. Le spese postali di spedizione della fattura che sono solo eventuali, ove l’utente non si obblighi a ritirare la fattura presso gli uffici della Telecom, vengono addebitate all’utente secondo le formalità oggetto di esplicita previsione contrattuale, non rientrando detto ultimo incombente nelle formalità ed adempimenti che seguono necessariamente l’emissione della fattura quali la redazione con gli elementi contenutistici prescritti, la sua conservazione per la durata prescritta, l’annotazione sul prescritto registro e le conseguenti dichiarazioni mensili, trimestrali e annuali da fornire al competente ufficio Iva, tutti adempimenti che fanno obbligatoriamente carico all’emittente, nel mentre le formalità di consegna ed il relativo costo è chiaramente lasciata alla libera determinazione delle parti non incidendo su disciplina di carattere esclusivamente tributario che la norma richiamata intende perseguire con il solo divieto dell’addebito degli specifici oneri amministrativo-contabili derivanti al soggetto d’imposta dall’introduzione dell’Iva e del suo complesso procedimento di applicazione». Nello stesso denso, Trib. Locri, 17 luglio 2006. Contra, Giudice di Pace Bologna, 21 febbraio 2003 (commento adesivo di RUSSO, Spese di

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spedizione delle fatture: divieto di addebito, in Fisco, 2004, 1 ss.). Trib. Napoli, 11 aprile 2008, secondo cui il divieto di addebito si giustifica in funzione del rischio che il cliente «sia indotto a rinunciare alla fattura (per non accollarsi i relativi costi: che seppure in misura minima sono presenti anche per la consegna brevi manu – dovendo l’utente recarsi presso gli uffici della società – e per la trasmissione telematica – dovendo l’utente connettersi in rete per ricevere la copia elettronica del documento), con ciò rendendo più facile l’eventuale alterazione o soppressione della copia del documento in possesso dell’emittente e più difficile il controllo statale sul corretto adempimento dell’obbligo tributario». Singolare la tesi del Tribunale di Napoli, secondo cui la consegna della fattura al cliente (anche se non imprenditore) sarebbe posta a presidio della regolarità della fatturazione, e sarebbe idonea a permettere più efficaci controlli ex post, con ciò assumendo che tale tipologia di cliente conservi diligentemente le copie delle fatture ricevute (laddove appare più plausibile che conservi invece le quietanze dei pagamenti eseguiti).V. anche Trib. Napoli, 22 maggio 2009. È di tutta evidenza invece che dal punto di vista delle aziende il fenomeno avrebbe potuto assumere rilevanza notevole. Tribunale Paola, 28 maggio 2005. Giudice di Pace Paola, 17 maggio 2004. Depositata il 13 febbraio 2009 (V sez. trib., Pres. Vittoria, Rel. Frasca). Conforme Cass., 5 marzo 2009, n. 5333. Di seguito, per semplicità, verrà usata l’espressione “conto telefonico”.


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In genere, il conto telefonico si presenta come un documento composto da una pluralità di pagine, in cui sono contenute, fra gli altri: - i dati dell’intestatario del contratto di abbonamento telefonico (nome, cognome, indirizzo, codice fiscale), nonché il codice identificativo del contratto; - l’importo totale da pagare - con il riepilogo degli addebiti ed accrediti che compongono il predetto totale – nonché il trattamento Iva applicato ai singoli importi; - la scadenza e le modalità di pagamento; - il numero di fattura, la relativa data di emissione e l’indicazione del periodo di riferimento in cui la chiamate sono state effettuate. In questi termini, si può ritenere che – indipendentemente dalla denominazione formale attribuita al documento – il conto telefonico costituisce una vera e propria fattura, emessa in relazione al servizio telefonico fornito. E ciò, in particolare, avuto riguardo al contenuto del documento ove questo indichi: (i) data, (ii) numero progressivo, (iii) ditta e/o denominazione, residenza e/o domicilio dei soggetti tra cui è effettuata l’operazione, (iv) numero di partita Iva dell’emittente; (v) natura, qualità e quantità dei servizi prestati; (vi) corrispettivo; (vii) imponibile; (viii) aliquota e (ix) ammontare dell’imposta. Va considerato inoltre dall’art. 18 del D.M. 8 maggio 1997, n. 197 (Regolamento di servizio concernente le norme e le condizioni di abbonamento al servizio telefonico), in base al quale «la bolletta telefonica costituisce fattura»7. 3. Emissione della fattura vs adempimenti e formalità conseguenti Gli adempimenti necessari per la corretta applicazione dell’Iva sono regolati – in modo pressoché coincidente – tanto a livello comunitario, quanto a livello nazionale. Per quanto riguarda il diritto comunitario, gli obblighi Iva già enunciati nell’art. 22 della sesta direttiva del Consiglio n. 77/388/CE, del 17 maggio 1977, sono ora disciplinati nella direttiva del Consiglio 112/06/CE del 28 novembre 2006 (artt. 217-237). Conformi disposizioni sono contenute nel D.P.R. n. 633/1972, secondo cui alla emissione della fattura (anche sotto forma di nota, conto, parcella e simili), deve seguire la consegna, trasmissione o spedizione al destinatario, e la registrazione nei libri dell’emittente. In particolare, è previsto che «la fattura è emessa al momento di effettuazione dell’operazione determinata a norma dell’art. 6. La fattura in formato cartaceo è compilata in duplice esemplare di cui uno è consegnato o spedito all’altra parte» (art. 21, comma 4, D.P.R. n. 633/1972)8. L’art. 21, comma 4, citato, distingue quindi due adempimenti diversi e distinti fra loro, tanto sotto il profilo materiale, quanto su quello temporale: la (i) emissione vera e propria della fattura,

7 La natura di fattura non è comunque influenzata dal fatto che unitamente al “conto telefonico” può essere anche comunicato un ulteriore documento, generalmente denominato “dettaglio delle chiamate”, costituito da una analitica elencazione delle singole chiamate effettuate nel periodo di riferimento (ad esempio: data, orario, durata, numero chiamato, costo di ciascuna chiamata). il predetto dettaglio chiamate costituisce estrinsecazione di uno specifico diritto riconosciuto agli abbonati al servizio telefonico, previsto dall’art. 124 (titolato “fatturazione dettagliata”) del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di pro-

cioè la sua predisposizione/compilazione, e la successiva (ii) consegna o spedizione al committente (o cessionario). Sebbene le due attività vengano menzionate distintamente fra loro, è tuttavia specificato: «la fattura si ha per emessa all’atto della sua consegna o spedizione all’altra parte ovvero all’atto della sua trasmissione per via elettronica» (art. 21, comma 1, ultimo periodo, D.P.R. n. 633/1972 – si rileva che tale disposizione è stata inserita nel testo dell’art. 21 dal D.P.R. 23 dicembre 1974, n. 687). In questi termini, la fattura non può considerarsi emessa se – oltre ad essere stata materialmente redatta – non sia stata altresì consegnata o spedita all’altra parte. La relazione ministeriale al D.P.R. n. 687/1974, citato, conferma che «la fattura si deve intendere emessa non all’atto della sua formazione, ma a quello della sua consegna o spedizione all’altra parte». Ciò che «assume rilievo sia in relazione alla decorrenza del termine per la registrazione della fattura (art. 23, primo comma), sia in relazione alla sua eventuale rettifica (art. 26, primo comma)». In questi termini, è stato evidenziato che «in tema di fatturazioni, il D.P.R. 23 dicembre 1974 n. 687 ha introdotto due specifiche disposizioni: la prima riguarda il momento in cui la fattura è da considerare emessa [...]. Per quanto concerne la emissione della fattura si precisa che l’obbligo della emissione si intende adempiuto all’atto della sua consegna o della spedizione alla controparte. Pertanto è ininfluente il momento della materiale compilazione del detto documento sia nei confronti del termine previsto dall’art. 23 (comma 1) per la registrazione, sia nei confronti della possibilità offerta per la eventuale rettifica della fattura medesima (art. 26, comma 1)»9. Più di recente, è stato evidenziato che «per quanto concerne la data di emissione della fattura si ricorda quanto già precisato in proposito nel passato da questo Ministero (circolare n. 27 del 9 agosto 1975), e cioè che non assume rilievo il momento della compilazione della fattura ove a questa non segua la consegna o la spedizione alla controparte. Peraltro, dovendo necessariamente la data di emissione essere indicata nel documento, soprattutto ai fini dell’esatta imputazione al periodo di riferimento, si precisa che, per data di emissione deve intendersi la data indicata nella fattura, ritenendola coincidente, in assenza di altra specifica indicazione, con la data di consegna o con quella di spedizione»10 . Va notato che la previsione della consegna della fattura al cliente rappresenta una novità rispetto alla disciplina previgente. Infatti, tanto con riferimento all’Ige (“imposta generale sull’entrata”, disciplinata dal R.D.L. 9 gennaio 1940, n. 2, ed abrogata dall’art. 90, D.P.R. n. 633/1972), quanto ai fini Iva (anteriormente alla modifiche di cui al D.P.R. n. 687/1974 stesso), l’emissione della fattura era identificata con la semplice formazione del documento, ancorché rimasto agli atti dell’emittente11. Da questo punto di vista, potrebbe sembrare che la “consegna/spedizione” della fattura costituisca un’attività di perfezionamento del-

tezione dei dati personali). In base a tale disposizione, «l’abbonato ha diritto di ricevere in dettaglio, a richiesta e senza alcun aggravio di spesa, la dimostrazione degli elementi che compongono la fattura relativi, in particolare, alla data e all’ora di inizio della conversazione, al numero selezionato, al tipo di numerazione, alla località, alla durata e al numero di scatti addebitati per ciascuna conversazione». Tale servizio, se richiesto, deve essere offerto «senza alcun aggravio di spesa». In questi termini, il dettaglio delle chiamate costituisce parte (eventuale) del conto telefonico. 8 A seguito del D.Lgs. 20 febbraio 2004, n. 52

(emanato in attuazione della direttiva n. 2001/115/CE del Consiglio, del 20 dicembre 2001) – è stata espressamente introdotta nel nostro ordinamento la fatturazione elettronica, come modalità alternativa alla fatturazione cartacea. La trasmissione elettronica delle fatture è regolata dagli art. 232 ss. della citata direttiva n. 112. 9 Cfr. circ. min. 9 agosto 1975, n. 27. 10 Circ. min. 5 agosto 1994, n. 134. 11 Cfr. BELTRANI, Fatturazione, data di formazione e data di emissione, in Fisco, 1985, 611 ss.; RUSSO, Spese di spedizione delle fatture: divieto di addebito, in Fisco, 2004, 3022 ss.


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la fase di “emissione”, in sé riconducibile ad una fattispecie unitaria. Ne conseguirebbe che la fattispecie di “emissione” della fattura sarebbe costituita cumulativamente tanto dalla compilazione, quanto dalla consegna/spedizione del documento. Tuttavia, in base ad una più attenta analisi del tenore letterale della disposizione («si ha per emessa»), della relazione ministeriale («la precisazione assume rilievo sia in relazione alla decorrenza del termine per la registrazione della fattura, sia in relazione alla sua eventuale rettifica»), nonché della relativa prassi, sembra piuttosto che la precisazione in oggetto – in base alla quale, per il perfezionamento dell’obbligo di emissione, è necessario l’atto della consegna o spedizione – è stata introdotta (i) non tanto al fine di compendiare in un’unica fattispecie le due diverse attività di compilazione e consegna/spedizione (che sono e rimangono distinte), (ii) ma piuttosto al fine di individuare un momento certo e preciso, a partire dal quale è possibile computare i termini previsti per i successivi adempimenti in materia Iva. Termine, peraltro, che pur essendo connesso alla consegna o spedizione della fattura, di fatto finisce per coincidere con la data apposta sul documento (cioè con la data della sua formazione: cfr. circ. min. n. 134/1994, citata). In altri termini, poiché la “emissione” della fattura rappresenta il fatto presupposto cui sono connessi gli altri adempimenti Iva (il cui mancato rispetto può dare origine a sanzioni a carico del soggetto passivo), si è ritenuto di specificare che – al fine di individuare il momento che genera i suddetti obblighi Iva – il “fatto rilevante” è costituito non nella mera compilazione della fattura (che rappresenta una condotta “interna” del soggetto, ancora priva di rilevanza esterna, in quanto non portata a conoscenza di terzi), ma nella sua “esteriorizzazione” (appunto attraverso, la consegna, la spedizione o la trasmissione al destinatario). Ciò in quanto è possibile riscontrare la correttezza e la tempestività dei successivi adempimenti - ed, in caso di esito negativo, applicare le relative sanzioni – avuto riguardo ad elementi temporali obiettivamente verificabili. A conferma, si può infatti rilevare che gli obblighi a carico dell’emittente devono ritenersi adempiuti con la consegna e/o la spedizione della fattura. La consegna/spedizione, quindi, rappresenta il momento di decorrenza del termine per gli ulteriori adempimenti Iva e l’eventuale mancato pervenimento della fattura al destinatario non esonera l’emittente da questi ultimi12. 4. Il divieto di gravare di oneri l’emissione della fattura La normativa Iva domestica prevede espressamente che «le spese di emissione della fattura e dei conseguenti adempimenti e formalità non possono formare oggetto di addebito a qualsiasi titolo»13 . Nulla si prevede invece – a questo proposito – nella corrispondente normativa comunitaria di riferimento14. In proposito, nella relazione ministeriale al D.P.R. n. 687/1974 è stato precisato che: «gli obblighi relativi all’emissione della fattura, come quelli relativi ai successivi adempimenti, essendo imposti ai fini dell’applicazione del tributo non possono costituire titolo per addebito specifico delle relative spese».

12 Cfr. Comm. trib. centr. 26 maggio 1992, n. 3676, secondo cui «la “consegna” o “spedizione” al destinatario segnano il momento di decorrenza del termine perché la detta registrazione sia effettuata». 13 Art. 21, comma 8, D.P.R. n. 633/1972. Tale comma è stato introdotto dal D.P.R. n. 687/1974, citato. Sul carattere imperativo di tale disposizione sono stati formulati dei dubbi. È stato infatti sostenuto che si tratterebbe comunque di norma derogabile

La circ. min. n. 27/1975, citata, commentando la disposizione in esame ha precisato: «riguardo al trattamento tra le parti della spesa di fatturazione e dei conseguenti adempimenti e formalità per le quali l’articolo 21 ultimo comma preclude ogni possibilità di addebito si precisa che per adempimenti e formalità, devonsi intendere quelli specificamente previsti dalla normativa in materia d’Iva., quali ad esempio la annotazione (di cui all’art. 23), la conservazione delle fatture (di cui all’art. 39)». Su queste basi, si potrebbe ritenere che – poiché ricadono nel divieto di addebito le spese relative alla “emissione” della fattura e dei “conseguenti adempimenti” (ovvero, più in generale, le spese connesse al rispetto degli obblighi previsti dalla legge ai fini dell’applicazione dell’Iva) – anche le spese per la consegna, la spedizione o la trasmissione dovrebbero essere comprese nel suddetto divieto, in quanto attività (i) necessarie per “considerare emessa” la fattura (ai sensi dell’art. 21, comma 1, ultimo periodo, D.P.R. n. 633/1972), ovvero (ii) previste espressamente dal legislatore (art. 21, comma 4, D.P.R. n. 633/1972)15. In senso diverso si è però espressa l’amministrazione finanziaria, in più occasioni. È stato infatti nello specifico evidenziato che «il divieto posto dall’art. 21, ultimo comma, del D.P.R. n. 633, nel testo modificato dal D.P.R. 23 dicembre 1974, n. 687, non concerne le spese per l’invio a domicilio dei documenti, bensì le spese di emissione della fattura, nonché, in generale, le altre spese relative ai conseguenti adempimenti e formalità previsti dalla normativa in materia di Iva quali ad esempio l’annotazione di cui all’art. 23 e la conservazione delle fatture di cui all’art. 39 del citato D.P.R. n. 633 e successive modificazioni»16. Secondo l’amministrazione, quindi, il costo sostenuto per l’invio a domicilio della fattura non rappresenta né una spesa per la “emissione”, né una spesa relativa ai «conseguenti adempimenti e formalità» previsti per il particolare tributo. A sostegno della correttezza di questo orientamento, si possono individuare diversi argomenti. Anzi tutto, la “spedizione” della fattura al domicilio del destinatario non è meramente assimilabile alla “emissione” del documento stesso. L’attività di emissione e quella di consegna/spedizione sono distinte fra loro. In particolare, per “emissione” deve intendersi propriamente la predisposizione materiale del documento; una volta che la fattura sia stata redatta (e quindi “emessa”), la stessa può essere poi consegnata o spedita alla controparte. La distinzione fra le due diverse fasi appare con evidenza: - con riferimento al diritto interno, avuto riguardo all’art. 21, comma 4, D.P.R. n. 633/1972, già citato, in base al quale «la fattura è emessa al momento di effettuazione dell’operazione (…) è compilata in duplice esemplare di cui uno è consegnato o spedito all’altra parte»; - con riferimento al diritto comunitario, avuto riguardo all’art. 22 della sesta direttiva Iva n. 77/388 del Consiglio, del 17 maggio 1977, e ora all’art. 232, direttiva n. 112/2006/CE. In specie, ai sensi dell’art. 22, par. 3(a), della sesta direttiva «ogni soggetto

dalla volontà delle parti, non essendo la relativa violazione – a differenza di quanto previsto in altre disposizioni in materia di Iva (cfr. art. 18, comma 5, D.P.R. n. 633/1972) – prevista a pena di nullità (cfr. SALVINI, Le spese di spedizione della fattura possono essere addebitate al cliente, in Fisco, 2009, 907 ss.). 14 Direttiva n. 77/388/CE. Ora, cfr. direttiva 112/2006/CE del 28 novembre 2006, titolo XI, capo 3, sez. 3.

15 In questo senso, RUSSO, Spese di spedizione delle fatture: divieto di addebito, cit. 16 Ris. min. 7 luglio 1978, n. 362083, emessa in relazione all’addebito nelle fatture telefoniche delle spese di spedizione postale. In senso conforme, v. anche ris. min. 24 gennaio 1976, n. 360228; ris. min. 20 maggio 1975, n. 500824; nonché ris. min. 28 novembre 1975, n. 503348, anch’essa relativa all’addebito nella bolletta telefonica delle spese per l’invio a domicilio delle fatture.


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passivo assicura che sia emessa [...] una fattura». Analogamente dispone la direttiva n. 112, citata. Sulla base del dato letterale delle norme qui in esame, che disciplinano separatamente le due fattispecie – si può confermare che le suddette attività sono diverse fra loro, non solo sotto il profilo formale e sostanziale, ma anche sotto quello temporale. La loro compresenza – ex art. 21, comma 1, ultimo periodo, D.P.R. n. 633/1972, affinché la fattura si abbia “per emessa” – è stabilita soltanto al fine di individuare con certezza il momento a partire dal quale sorge l’obbligo dei successivi adempimenti, ferma restando la distinzione concettuale delle due diverse fasi. Di conseguenza, il costo sostenuto/addebitato per la spedizione della fattura non può ritenersi automaticamente compreso nelle “spese di emissione”, il cui addebito è specificamente vietato ai sensi dell’art. 21, comma 8, citato. Inoltre, all’attività di “emissione” ed a quella di “consegna/spedizione” è attribuito un diverso peso rispetto agli adempimenti posti a carico dei contribuenti. In specie, l’emissione della fattura è esplicitamente posta come obbligo a carico del soggetto passivo d’imposta. Nella direttiva n. 77/388/CE, citata, infatti, nel testo in lingua italiana è stabilito che «ogni soggetto passivo assicura che sia emessa [...] una fattura» (art. 22, par. 3.a). Allo steso modo è formulata la direttiva n. 112, citata, secondo cui «ogni soggetto passivo assicura che sia emessa, da lui stesso, dall’acquirente o dal destinatario o, in suo nome e per suo conto, da un terzo, una fattura» (cfr. art. 220). L’obbligo giuridico di “emissione” risulta ancor più evidente nel testo in lingua inglese della direttiva (Every taxable person shall ensure that, in respect of the following, an invoice is issued, either by himself or by his customer or, in his name and on his behalf, by a third party), nonché in quello in lingua francese (Tout assujetti doit s’assurer qu’une facture est émise, par lui même, par l’acquéreur ou le preneur ou, en son nom et pour son compte, par un tiers, dans les cas suivants). La successiva fase di “consegna/spedizione” al destinatario sembra invece soggetta ad un meno intenso grado di vincolatività. A tale riguardo, nel testo normativo della direttiva in lingua italiana si prevede infatti che «le fatture emesse a norma della lettera a) possono essere trasmesse su carta oppure, previo accordo del destinatario, per via elettronica» (art. 22, par. 3.c). Questa formulazione trova riscontro anche nella direttiva n. 112, oggi in vigore secondo cui: «le fatture emesse a norma della sezione 2 possono essere trasmesse su carta oppure, previo accordo del destinatario, possono essere trasmesse o messe a disposizione per via elettronica» (cfr. art. 232, dir. n. 112/2006/CE). In specie, il termine utilizzato in entrambe le direttive («possono») sembra riferirsi allo specifico adempimento di “consegna/spedizione”, e non semplicemente alla possibilità di scelta fra la consegna/spedizione del documento in forma cartacea o elettronica (se così fosse stato, infatti, il legislatore comunitario avrebbe dovuto specificare ad esempio che «le fatture emesse devono essere trasmesse su carta o per via elettronica»). La stessa “possibilità” riconosciuta al contribuente è confermata anche dal testo in lingua inglese della direttiva («invoices issued pursuant to point a) may be sent either on paper or [...] by electronic means»)

17 La medesima distinzione fra “consegna” e “spedizione” è presente anche con riferimento al momento di effettuazione della cessione di beni mobili. In tale contesto, infatti, per “consegna” si intende la materiale trasferimento della disponibilità della cosa al cessionario; la “spedizione” si concreta invece nella rimessa della cosa ceduta al vettore o allo

ed in quello in lingua francese («les factures émises en application des dispositions du point a) peuvent etre transmises sur un support papier ou [...] per voie électronique»). Si conferma quindi la distinzione fra “emissione” e “consegna/spedizione”. Inoltre, l’invio a domicilio della fattura non è assimilabile neppure alle spese relative ai «conseguenti adempimenti e formalità». Gli adempimenti e formalità cui si riferisce la norma – al fine di circoscrivere l’ambito del divieto di addebito delle relative spese – sono quelli «imposti ai fini dell’applicazione del tributo» (cfr. relazione ministeriale al D.P.R. n. 687/1974, citato), ovvero quelli «specificamente previsti dalla normativa in materia d’Iva» (cfr. circ. min. n. 27/1975, citata). Ciò premesso, l’invio a domicilio della fattura non può essere considerato come uno specifico adempimento prescritto ai fini dell’applicazione del particolare tributo. In particolare, la spedizione è soltanto un mezzo – alternativo alla diretta consegna al destinatario, ovvero alla trasmissione telematica – per far pervenire una copia della fattura alla controparte (fermo restando che, ove si ricorra alla spedizione, è irrilevante dal punto di vista dell’emittente il fatto che la fattura sia – o no – effettivamente pervenuta al committente). Nessun rilievo riveste invece ai fini degli adempimenti prescritti per la memorizzazione ed il calcolo dell’imposta (ad esempio: annotazione ex art. 23, D.P.R. n. 633/1972; conservazione ex art. 39, D.P.R. n. 633/1972). Su queste basi, il divieto di riaddebito deve piuttosto essere riferito (i) agli “adempimenti e formalità” imposti dalla legge per il corretto assolvimento del tributo da parte del cedente e/o prestatore (ad esempio: liquidazione, dichiarazione e versamento dell’imposta; conservazione dei documenti giustificativi), (ii) e non invece a quelle attività che permettono al cessionario e/o committente di procurarsi – più o meno agevolmente, a seconda che la fattura sia consegnata, spedita o trasmessa – un esemplare della fattura (cioè del documento che consente l’esercizio del diritto alla detrazione dell’imposta assolta). Per contro, il costo per la spedizione della fattura non può ritenersi compreso neppure fra le «spese [...] dei conseguenti adempimenti e formalità», di cui all’art. 21, comma 8, citato. Va notato che – nelle varie disposizioni in esame – i termini “consegna” e “spedizione” sono sempre indicati insieme ma separatamente, proprio ad evidenziare la diversità delle relative fattispecie. In particolare, al termine “consegna” va riferita la dazione del documento direttamente al destinatario, mentre al termine “spedizione” si connette la dazione del documento ad un terzo, affinché lo faccia pervenire al destinatario17. In altri termini, la spedizione rappresenta una forma di consegna “indiretta” al destinatario, attraverso la quale l’emittente della fattura utilizza un servizio reso da terzi affinché la fattura sia messa a disposizione della controparte. La spedizione può essere considerata come una sorta di prestazione “aggiuntiva”, richiesta dall’emittente a terzi (rectius, un servizio reso da terzi al soggetto emittente), al fine di rendere più agevolmente disponibile la fattura al destinatario, attraverso il recapito al suo domicilio.

spedizioniere, per l’inoltro al cessionario o a terzi (cfr. MANDÒ, Manuale dell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2004, 132). 18 Questa incidentale statuizione non pare conforme al rigoroso disposto dell’art. 15, n. 3, D.P.R. n. 633/1972, che prevede l’esclusione dalla base imponibile delle sole spese sostenute in nome e per conto della contro-

parte, e non genericamente di ogni spesa sostenuta per conto. In casi come quello oggetto della sentenza potrebbe risultare difficile dimostrare che la spesa di spedizione (che oltre tutto non pare essere normalmente determinata in via analitica, ma solo convenzionalmente) sia stata anticipata anche in nome della controparte.


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Se è così, il costo sostenuto per la spedizione va considerato come un costo diverso e distinto rispetto agli altri oneri gravanti sull’emittente per adempiere i propri obblighi Iva. Di conseguenza, poiché il costo sostenuto per tale servizio esula dalle spese per l’emissione e gli altri adempimenti connessi alla fattura, lo stesso si deve ritenere escluso dall’ambito operativo dell’art. 21, comma 8, citato. 5. L’orientamento della Cassazione Con la recente sentenza n. 3532/2009, la Corte ha cassato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Paola, in grado di appello, secondo cui il divieto ex art. 21, ultimo comma, più volte citato, si estende alle spese di spedizione della fattura. Lo sviluppo degli argomenti non sembra discostarsi, pur nella sua sinteticità, dall’analisi qui sopra svolta. Secondo il Tribunale di Paola, la disciplina della fatturazione sarebbe tesa a tutelare il corretto andamento del procedimento di esazione del tributo, anche in relazione ai controlli incrociati; per questi fini, si è voluto evitare che i relativi costi ricadano sul consumatore finale. Su queste basi – secondo il Tribunale – ammettere che la spedizione della fattura possa essere gravata di spese aggiuntive, in assenza di meccanismi alternativi di emissione, potrebbe indurre il consumatore a rinunciare alla emissione della fattura, rendendo più agevole per l’emittente la soppressione o alterazione del documento, e così menomando la capacità di controllo da parte dell’amministrazione finanziaria. Ne conseguirebbe il carattere imperativo del divieto in esame e la nullità delle relative clausole difformi, ex art. 1418, c.c. Trattando il punto, la Cassazione non ha verificato la validità della clausola in questione, contenuta nelle condizioni generali di contratto della compagnia telefonica che era parte in causa, ma si è limitata a verificare la correttezza della sentenza di appello che l’ha dichiarata nulla, avuto riguardo ai principi di diritto vigenti nella particolare materia. Secondo la Cassazione, occorre di distinguere tra operazione commerciale, soggetta al tributo (ed alla rivalsa), e fatturazione dell’operazione, che deve invece rimanere estranea al tributo. Fatta questa distinzione, la verifica circa la riferibilità delle spese di spedizione al divieto legale non appare univoca. Si pone infatti il problema di verificare se la normativa Iva abbia – o no – inteso attribuire alla spedizione della fattura carattere di essenziale connessione alla emissione, ovvero se tale operazione rivesta carattere piuttosto carattere di autonomia, così da poter essere rimesso alla libera determinazione delle parti. Secondo la Cassazione, «consegna o spedizione della fattura non costituiscono un segmento della fatturazione, ma il momento fino al quale e prima del quale non si può considerare compiuta». Addirittura, viene affermato che «se le parti come forma di consegna della fattura la sua spedizione ed il costo ne è anticipato

19 Cfr. D.P.R. 13 agosto 1984, n. 523, allegato, art. 53, citato dalla Cassazione. Va qui notato che Trib. Napoli, 22 maggio 2009, citata in nota 2, oltre a ritenere, in contrasto con la Cassazione, comunque sussistente il divieto

da che la emette, il relativo rimborso non fa parte della base imponibile»18. Queste considerazioni inducono la Corte a confermare il carattere di autonomia della spedizione rispetto alla emissione, avuto anche riguardo al disposto dell’art. 1182 c.c., secondo cui l’obbligazione pecuniaria deve essere di regola adempiuta presso il domicilio del creditore. Ogni convenzione in senso difforme, nel senso in specie dell’adempimento presso il domicilio del debitore previa spedizione della fattura, si deve ritenere lecita ed estranea agli adempimenti connessi alla emissione della fattura. Tanto in linea di principio, sulla base delle disposizioni generali in materia di obbligazioni. Tuttavia, la Corte non ha mancato di evidenziare che può formare oggetto di una indagine di merito, come tale soggetta al sindacato di legittimità, quella relativa alla conformità (e conseguente validità) della clausola contrattuale (e della prassi comune di settore), circa l’addebito delle spese di fatturazione, rispetto alla normativa particolare, secondo cui il pagamento del debito telefonico può essere eseguito a seguito di spedizione della relativa bolletta, ovvero mediante ritiro della stessa presso gli uffici della società telefonica (ovvero, anche – senza spese – mediante invio telematico)19. È questa, evidentemente, una questione di fatto che esula, non solo dall’oggetto del giudizio di cassazione, ma anche dall’ambito del presente commento. E tuttavia, si tratta di elemento da tenere in considerazione, in particolare con riferimento ai possibili casi di compagnie telefoniche di piccole dimensioni, o virtuali, prive di una articolazione territoriale e quindi non in grado di provvedere alla consegna diretta al cliente della fattura20. 6. Conclusioni Una attenta analisi dei principi civilistici regolatori della particolare materia, permette di sostenere la possibilità di riaddebitare le spese di spedizione della fattura, senza incorrere nel divieto di addebito delle spese di emissione. Tesi che trova riscontro e conferma tanto nella disciplina fiscale nazionale, quanto nella corrispondente disciplina comunitaria, e che – è da ritenere – ha portata generale, e può quindi in principio estendersi anche oltre la specifica materia delle telecomunicazioni. Tuttavia, come evidenziato di recente dalla Cassazione, l’affermazione di tale orientamento non esclude la possibilità che, avuto riguardo a normative – anche convenzionali – di settore ed alle specifiche modalità di esercizio dell’attività, possano verificarsi ipotesi in cui la consegna della fattura possa essere attuata unicamente attraverso modalità onerose. In casi del genere, più che un problema di conformità alla disciplina fiscale di riferimento, si pone piuttosto una questione di validità delle clausole contrattuali che dovessero risultare difformi rispetto alla normativa di settore.

di addebito, ha integrato la motivazione facendo più fondatamente riferimento alla asserita assenza — nel caso esaminato — della possibilità di ottenere la consegna brevi manu, oppure online, della fattura.

20 Soccorrerebbe in questo caso la possibilità di consegna telematica, anche se questa si scontra con la possibilità che il cliente non sia dotato di una attrezzatura idonea a riceverla.


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ACCERTAMENTO ABUSO DEL DIRITTO: LA GIURISPRUDENZA DI MERITO SI CONFRONTA CON I PRINCIPI ELABORATI DALLA CORTE SUPREMA 76

Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXVI, 1 aprile 2009, n. 26 Presidente e Relatore: Capurso

Accertamento - Elusione - Imposte in genere - Contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo stipulato in luogo della mascherata compravendita tra soggetti dello stesso gruppo - Assenza di valide ragioni economiche - Simulazione - Inapplicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Irrilevanza - Applicabilità della regola generale antiabuso (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10)

In caso di applicazione del divieto di abuso quale principio generale applicabile al di fuori delle previsioni di cui all’art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973 devono essere disapplicate le sanzioni, ai sensi dell’art. 10 della legge 212 del 2000, per l’incertezza della giurisprudenza sull’ambito e la portata del divieto dell’abuso del diritto, sino alle recentissime pronunce delle sezioni unite e della Corte di Giustizia europea.

Accertamento - Elusione - Clausola generale antielusiva - Applicazione ad operazioni anteriori alla recente giurisprudenza - Sanzioni - Inapplicabilità (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10) È simulato il contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo stipulato in luogo della mascherata compravendita tra soggetti facenti parte del medesimo gruppo societario multinazionale, quando appaia privo di una valida ragione economica e sia elusivamente finalizzato allo scopo essenziale di conseguire vantaggi fiscali. l’atto di accertamento con il quale vengono disconosciuti i riflessi fiscali della fattispecie asseritamente elusiva2. Al contrario, come la dottrina giustamente lamenta3, nessun contraddittorio anPremessa La sentenza in rassegna1 – con la quale la Commissione regio- teriore all’accertamento è contemplato dalla giurisprudenza che nale toscana perviene a qualificare abusiva un’operazione di lea- ha elaborato la clausola antiabuso. sing traslativo che, coinvolgendo diverse società appartenenti a un gruppo multinazionale, ha consentito alla società accertata di La mancanza di contraddittorio anteriormente all’eanticipare la deduzione del costo di acquisto di un immobile ri- missione dell’accertamento relativo alla fattispecie spetto alla deduzione delle quote di ammortamento del costo di qualificata come abusiva. acquisto – fornisce interessanti spunti per verificare come la giu- Secondo quanto si desume dal fatto e dai motivi della sentenza, la risprudenza di merito recepisce i principi elaborati dalla Corte società ricorrente ha subito una verifica da parte della Guardia di Finanza nell’ambito della quale non era stata formulata alcuna Suprema in materia di abuso del diritto fiscale. Prima di addentrarsi nella disamina delle questioni principali af- contestazione in merito alla condotta poi qualificata come abusifrontate dalla Commissione regionale toscana – quelle, appunto, va. Nel prosieguo, l’accertamento è stato notificato prima dei 60 dell’applicazione della clausola generale antiabuso e della san- giorni dalla consegna del processo verbale di constatazione – non zionabilità sul piano amministrativo, delle condotte contrarie al rispettando, quindi, il termine dilatorio previsto dall’art. 12, comdivieto – è opportuno, tuttavia, dedicare brevi cenni alle questio- ma 7, dello Statuto – a motivo dell’imminente scadenza del terni preliminari, entrambe attinenti al difetto di contraddittorio mine decadenziale per la notifica dell’accertamento. anteriormente all’emissione dell’accertamento, che la società Si è realizzato, quindi, un duplice impedimento del contradditcontribuente aveva sollevato e che la sentenza disattende con ri- torio: nella fase istruttoria e, poi, al termine della stessa. La sosolutezza senza particolare approfondimento. Il profilo del con- cietà si duole, in primo luogo, che la Guardia di Finanza non abtraddittorio non è affatto estraneo, invero, alle tematiche dell’e- bia mosso, nel corso della verifica, le contestazioni sulle quali si è lusione e dell’abuso del diritto fiscali: il legislatore, introducendo fondato, in seguito, l’accertamento, impedendo così una pronta la clausola antielusiva di cui all’art. 37-bis, D.P.R. 29.9.1973, n. replica della contribuente sottoposta a verifica: tale carenza è 600, ne ha inserito l’applicazione in un contesto di cautele pro- denunciata con riferimento alla violazione del principio dell’afficedimentali che presuppone un contraddittorio necessario fra damento di cui all’art. 10 della legge n. 212/2000. La società amministrazione e contribuente, prodromico all’emissione del- chiede, inoltre, che l’accertamento sia annullato perché emesso Nota di Francesco V. Albertini

1 È stata già pubblicata, insieme a numerose altre in materia di abuso del diritto, nel precedente numero di questa rivista, corredata dal commento di NUSSI, Abuso del diritto: profili sostanziali, procedimental-processuali e sanzionatori, 2009, 3, 304 ss. e in Corr. Trib., 2009, 2359, con commento di ZIZZO, Leasing

infragruppo e abuso del diritto, ivi, 2355. 2 Cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2009, 255; RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, e BASILAVECCHIA, Per l’effettività del contraddittorio, in Corr. Trib., 2009, 2369. 3 Si vedano CONTRINO, Il divieto di abuso del di-

ritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. e Prat. Trib., 2009, I, 477, LUPI–STEVANATO, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Corr. Trib., 2009, 406 e PIERRO, Abuso del diritto: profili procedimentali, infra, 410.


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prima dello scadere del termine per presentare osservazioni al processo verbale di constatazione, senza che l’ufficio abbia dedotto un’ipotesi «di particolare e motivata urgenza», ai sensi dell’art. 12, comma 7, II periodo, dello Statuto. Entrambe le doglianze sono rigettate dalla Commissione regionale senza particolare approfondimento. A proposito della lamentata violazione del principio dell’affidamento, la sentenza fa leva sulla titolarità (esclusiva) in capo all’ufficio del potere d’imposizione, che consente al medesimo di contestare la violazione tributaria «come frutto di una autonoma interpretazione dei fatti [...] riferiti dalla Guardia di Finanza». L’affermazione suscita perplessità nella sua assolutezza benché, in effetti, la potestà impositiva sia riservata agli uffici. La Commissione regionale reputa, inoltre, che l’imminenza del termine decadenziale per la notifica degli avvisi di accertamento costituisca, di per sé, ipotesi «di particolare e motivata urgenza» che consente agli uffici di disattendere il termine dilatorio per presentare «osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori». La tesi non è nuova - anzi si contrappone tradizionalmente all’indirizzo più rigoroso che esclude l’imminente scadenza del termine decadenziale dal novero delle ipotesi contemplate dal secondo periodo del comma 74 – e tuttavia non può essere condivisa5. Dottrina assai autorevole precisa con chiarezza che l’art. 12, comma 7, è norma attuativa dei principi di collaborazione, partecipazione e buona fede; pertanto il diritto al contraddittorio non può essere compromesso da una cattiva pianificazione dei tempi di intervento delle autorità fiscali6. Non si può omettere di ricordare che la Corte di Cassazione, in una recente ordinanza7, ha affermato che la notifica dell’accertamento prima del termine di sessanta giorni previsto dall’art. 12, comma 7, dello Statuto «non determina ipso iure la nullità stante la natura vincolata dell’atto rispetto al Pvc sul quale si fonda, in mancanza di specifica normativa in tal senso, perché resta comunque garantito al contribuente il diritto di difesa in via amministrativa (autotutela) e giudiziaria (ricorso alla Commissione tributaria)». Tale posizione, che svaluta la portata della norma statutaria, potrebbe essere, peraltro, superata a seguito di due ancor più recenti

4 Si rinvia, anche per le citazioni giurisprudenziali, a MAGLIARO, La violazione del principio del contraddittorio anticipato previsto nello statuto dei diritti del contribuente, in questa rivista, 2009, 1, 50, ss. 5 Ciò a prescindere dal fatto che probabilmente, nel caso di specie, la presentazione di osservazioni al Pvc non avrebbe potuto influire sull’emissione dell’accertamento, dato che, nell’ambito della verifica, non erano state formulate contestazioni a proposito dell’operazione poi giudicata abusiva. 6 MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, 164; inoltre, TABET, Sospensione del potere impositivo dopo la chiusura delle operazioni di verifica?, in Boll. Trib., 2006, 1056. Analogamente si esprimono RENDA, L’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente e l’auspicata cristallizzazione del principio del contraddittorio anticipato, in questa rivista, 2007, 2, 245, riservando la deroga alla «presenza di circostanze del tutto particolari, di oggettivi impedimenti imprevedibili ed eccezionali che presentino i caratteri dell’urgenza» e non ravvisando tali caratteri della imprevedibilità ed oggettività (nel senso di non dipendenza dalla volontà o dalla condotta dell’ufficio impositore) dell’ur-

pronunzie. La Corte costituzionale8, dichiarando inammissibile la questione di legittimità dell’art. 12, comma 7, dello Statuto sollevata dalla Commissione regionale di Napoli – in riferimento agli articoli 24 e 111 della Carta fondamentale – ha indicato al giudice rimettente un percorso interpretativo fondato sugli articoli 7, comma 1, dello Statuto e 3 e 21-septies, legge 17 luglio 1990, n. 241, tendente a verificare la possibilità di ritenere invalido l’avviso di accertamento emanato prima dello scadere del termine dilatorio, nel caso in cui tale avviso sia privo di adeguata motivazione sulla sua particolare urgenza. La Corte di Giustizia dell’Unione europea9, inoltre, si è espressa riconoscendo l’obbligatorietà del contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario come diritto fondamentale riconosciuto dal diritto comunitario. Più in generale, come già rammentato, la dottrina si esprime criticamente sulla circostanza che l’elaborazione giurisprudenziale del principio antielusivo trascuri completamente le norme dettate dal legislatore a tutela del contribuente nel procedimento d’imposizione. In particolare, a differenza di quanto prescritto nell’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973, dalle pronunce della Corte Suprema non emerge alcun obbligo di contraddittorio anteriore all’emanazione dell’accertamento, né tantomeno di sospensione della riscossione fino alla sentenza di primo grado10, ma solo di un’adeguata motivazione in ordine all’asserito abuso11. Il principio generale antiabuso nel più recente orientamento della Corte di Cassazione. Affrontando la questione principale oggetto del giudizio – vale a dire la qualificazione in termini di abuso dell’operazione di leasing immobiliare traslativo – la Commissione regionale richiama espressamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea e l’orientamento espresso, da ultimo, dalle sezioni unite della Cassazione in materia di abuso del diritto fiscale. Tuttavia, a tale dichiarazione programmatica non corrisponde la reale portata della decisione, discostandosi il giudice toscano da tale orientamento su un punto fondamentale, come si vedrà nel prosieguo. I più recenti approdi della Cassazione in materia di abuso del diritto fiscale sono noti: con le sentenze depositate il 23 dicembre 200812 le sezioni unite ribadiscono l’esistenza di un «gene-

genza nell’approssimarsi del termine per la notifica dell’accertamento, e D’AGOSTINO, Il contraddittorio anticipato ex art. 12 dello Statuto del contribuente, in questa rivista, 2008, 3, 484. MAGLIARO, La violazione del principio del contraddittorio anticipato, cit., 50, pur non ritenendo «che l’approssimarsi del termine di decadenza per l’amministrazione finanziaria possa essere argomento inconfutabile per la compressione del termine previsto dall’articolo 12», non nega «che talvolta ed in particolari circostanze anche l’approssimarsi di questi termini possa costituire una fattispecie derogatoria». Agli scritti citati – oltre che a SIBELJA, La violazione del principio del contraddittorio anticipato previsto nello statuto dei diritti del contribuente, in questa rivista, 2009, 1, 54, ss. – si rinvia anche per l’analisi delle conseguenze del mancato rispetto del termine dilatorio sotto il profilo dei vizi dell’atto di accertamento. 7 Cass., sez. trib., ord. 18 luglio 2008, n. 19875. 8 Con l’ordinanza 24 luglio 2009, n. 244, pubblicata in Rass. Trib., 2009, 1783, con nota (1787) di COLI, Sull’invalidità degli atti d’accertamento adottati in violazione dell’art. 12, comma 7, dello Statuto dei diritti del contribuente. 9 Sentenza 18 dicembre 2008, causa C-

349/2007, in Riv. Giur. Trib., 209, 203, con nota di MARCHESELLI, Il diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario è diritto fondamentale del diritto comunitario. 10 Art. 37-bis, commi 4, 5 e 6, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. 11 Si vedano CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. e Prat. Trib., cit., 477, e LUPI–STEVANATO, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Corr. Trib., cit., 406. 12 Si tratta delle sentenze n. 30055, 30056 e 30057. La dottrina ha commentato criticamente il nuovo orientamento: si vedano, tra i numerosi interventi, AMATUCCI, Cass., sez. un., civ., n. 30055 del 23 dicembre 2008: elusione fiscale e capacità contributiva, in Fisco, 2009, 2, 277; BEGHIN, L’abuso del diritto tra capacità contributiva e certezza dei rapporti fisco-contribuente, in Corr. Trib., 2009, 823; Id., L’abuso del diritto tra rilevanza del fatto economico e poteri del magistrato, in Corr. Trib., 2009, 3288; Id., Abuso del diritto, giustizia tributaria e certezza dei rapporti tra fisco e contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2009, II, 408; CONTRINO, Il divieto di


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rale principio antielusivo» caratterizzato da un duplice fondamento. Per quanto attiene ai tributi armonizzati, la Cassazione mutua dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia il principio secondo il quale «gli interessati non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente del diritto comunitario», nel senso che «l’applicazione della normativa comunitaria non può [...] estendersi fino a farvi rientrare i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate [...] al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario»13. In tema di tributi non armonizzati e, in particolare di imposte dirette, le sezioni unite rinvengono invece la fonte del principio generale antiabuso nelle norme costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano, in particolare negli articoli 53, comma 1 e 2, che introducono, rispettivamente, i principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione. Nella prospettiva delle sezioni unite tali principi «costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi». Ne consegue, sempre ad avviso delle sezioni unite, «che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale». Sentenze successive della sezione tributaria, hanno corroborato il radicamento costituzionale del divieto con il riferimento all’art. 41, comma 2, in base al quale, la libertà di iniziativa economica, tutelata dal primo comma dell’articolo, non può porsi in contrasto con l’utilità sociale14. La dottrina ha, tuttavia, posto in luce la scarsa persuasività del preteso fondamento costituzionale della clausola generale antiabuso relativa alle imposte non armonizzate. È stato puntualmente osservato che le norme costituzionali sono «norme parametro», che «esprimono principi ai quali il legislatore deve conformarsi». Tali norme non possono, quindi, essere «fondamento diretto di concreti rapporti fiscali, ma possono soltanto far ritenere che la mancanza di una clausola generale antiabusiva costituisca,

abuso del diritto fiscale, cit., 463; FALSITTA, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in MAISTO, Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, 3; LUPI–STEVANATO, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, cit., 403; MARONGIU, Abuso del diritto o abuso del potere?, in Corr. Trib., 2009, 1076; PIERRO, Abuso del diritto, cit., infra; ZIZZO, L’elusione tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario: definizioni a confronto e prospettive di coordinamento, in MAISTO, Elusione ed abuso del diritto tributario, cit., 57. 13 Si veda, per tutte, la sentenza della Corte di Giustizia CE, grande sezione, 21 febbraio 2006, causa n. C-255/2002, (Halifax). Sull’evoluzione comunitaria si veda per tutti, CIPOLLINA, Elusione fiscale, in Digesto comm. [Aggiornamento - 2007], Torino, 384. 14 Cfr. Cass., sez. trib., 8 aprile 2009, n. 8487, nella quale si legge che «una operazione economica realizzata al solo fine di ottenere

nel nostro ordinamento, una lacuna alla quale il legislatore dovrebbe porre rimedio»15. È stata parimenti accolta con scetticismo l’affermazione, sempre delle sezioni unite, secondo la quale non contrasterebbe con l’esistenza del generale principio antielusione la presenza nell’ordinamento di specifiche norme antielusive, che sarebbero «mero sintomo dell’esistenza di una regola generale» Al contrario, l’esistenza di numerose norme specifiche palesa proprio l’assenza di una regola generale, avendo il legislatore fiscale preferito – benché, forse, a torto – contrastare le prassi elusive (o abusive) dettando norme specifiche o clausole generali con fattispecie tipizzate16. Struttura della clausola antiabuso e riparto dell’onere probatorio in ordine alla prospettata ipotesi abusiva. Al di là dell’evanescente fondamento che le sezioni unite hanno rinvenuto per la clausola antiabuso nella versione relativa alle imposte non armonizzate, l’ultimo sviluppo giurisprudenziale ha almeno il pregio di ricondurre ad univocità le clausole generali di diritto interno e di matrice comunitaria. La Corte di Giustizia e le sezioni unite della Cassazione concordano ora nel ritenere abusive le condotte che palesino, nel contempo, un utilizzo distorto, ancorché non contrastante con alcuna specifica disposizione, di uno strumento giuridico dell’ordinamento che determina un risparmio fiscale, e l’aspettativa di tale risparmio quale scopo (esclusivo o essenziale) del ricorso a tale strumento giuridico, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili. Precisamente, con le sentenze del 23 dicembre 2008, le sezioni unite recuperano, quale elemento costitutivo della fattispecie abusiva, quella contrarietà del risparmio d’imposta rispetto all’obiettivo delle norme tributarie formalmente osservate, che benché enucleato dalla giurisprudenza comunitaria, era stato disatteso fino a quel momento dalla Cassazione. Il recupero di tale elemento consente di riaffermare la distinzione fra risparmio lecito d’imposta, da un lato, ed elusione fiscale o abuso del diritto, dall’altro, riaprendo la possibilità di realizzare risparmi d’imposta legittimi17. Inoltre, il ridefinito concetto di abuso del diritto fiscale consente, pur nella diversità della terminologia utilizzata, di riallineare la clausola generale di matrice giurisprudenziale con il concetto di elusione emergente dall’art. 37-bis18. La Corte Suprema ha chiarito, ancora, il criterio di riparto degli oneri probatori dell’amministrazione e del contribuente, assegnando alla prima l’onere di prospettare, da un lato, il disegno

un risparmio fiscale (a prescindere da connotazione di fraudolenza) è una operazione che contrasta con l’utilità sociale, sia nel senso che lede il principio di solidarietà, sia nel senso che determina una indebita riduzione del gettito fiscale». 15 TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, cit., 257. Si veda anche CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale, cit., 473, il quale richiama anche il ruolo dell’ art. 23 Cost., e della necessaria mediazione della legge, fonte diretta della disciplina tributaria. Tale autore osserva che «un giudice che, pur se a fini di giustizia sostanziale, dovesse saltare il passaggio della legge – com’è avvenuto in occasione della “creazione” del divieto in esame – non farebbe altro che sostituire la propria volontà alla legge, che è normalmente frutto di un ponderato bilanciamento di valori di giustizia ed esigenze di certezza del diritto, in aperta violazione delle regole parimenti costituzionali in tema di riparto di competenza tra potere giudiziario e potere legislativo». A quest’ultimo proposito cfr.

MOSCHETTI, Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo nelle sentenze delle sezioni unite in tema di «utilizzo abusivo di norme fiscali di favore», in Riv. Giur. Trib., 2009, 200. Inoltre BEGHIN, Abuso del diritto, cit., 408. 16 CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale, cit., 473, nota 17. 17 CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale, cit., 481. 18 CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale, cit., 480; più in generale, la dottrina ha posto in luce l’esistenza di una sostanziale sovrapponibilità fra i concetti di abuso del diritto fiscale ed elusione, «modi di definire un stesso disvalore», proponendo «una lettura integrata dei due concetti, ed una collocazione sistematica degli stessi, se non unitaria, quanto meno coordinata e, forse, complementare»: così BASILAVECCHIA, Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile , in Riv. Giur. Trib. , 2008, 742. Inoltre BEGHIN, Abuso del diritto, cit., 408, e PIERRO, Abuso del diritto, cit., infra.


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elusivo realizzato e, dall’altro, «le supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici rinvenute come irragionevoli in una normale logica di mercato se non per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale». Solo una volta che l’ufficio abbia assolto il proprio onere, spetta al privato dimostrare «la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore che giustifichino operazioni così strutturate»19. In particolare, le valide ragioni economiche – che, nella giurisprudenza di Cassazione anteriore alle pronunce delle sezioni unite, non avevano un ruolo autonomo, ma confluivano nell’apprezzamento del comportamento complessivo del privato, al fine di accertare l’essenzialità e predominanza dell’interesse al risparmio d’imposta, unica condizione per qualificare un comportamento come abusivo – divengono ora elemento di valutazione autonomo dell’abuso, benché in termini negativi20. La Commissione regionale toscana non si adegua – al di là delle affermazioni di principio – all’ultimo orientamento della Corte Suprema. Quello descritto è il più recente indirizzo della Corte Suprema21. Tuttavia, considerate le precedenti oscillazioni della stessa giurisprudenza di vertice, non può sorprendere che i giudici di merito fatichino a seguirne gli indirizzi. In effetti, nella sentenza in commento – benché la Commissione regionale mostri di essere al corrente dell’evoluzione giurisprudenziale – pare di poter ravvisare una sottovalutazione del profilo attinente all’utilizzo distorto dello strumento giuridico e della violazione della ratio della norma, che porta al risparmio fiscale. È vero, tuttavia, che la società ricorrente non aveva indicato alcuna specifica e valida ragione economica, diversa dalla convenienza fiscale, trincerandosi dietro il richiamo all’insindacabilità delle scelte economiche imprenditoriali. Venendo, dunque, alla fattispecie oggetto della sentenza commentata, la Commissione regionale di Firenze ha ritenuto sussistere l’abuso in presenza di un leasing traslativo infragruppo giudicato esclusivamente “vantaggioso” in quanto, in assenza di valide ragioni economiche, avrebbe consentito di anticipare il periodo di deduzione dei costi rispetto all’ipotesi di compravendita. La società accertata, in estrema sintesi, anziché acquistare l’immobile che conduceva in locazione, ha stipulato un contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo con altra società dello stesso gruppo che si era resa acquirente di tale immobile22. L’ufficio, rilevata la consistente differenza, in termini di risultato reddituale della società accertata, determinata dalla deduzione dei canoni di loca-

19 Cass., sez. trib., 21 gennaio 2009, n. 1465. 20 CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale, cit., 486, ss. 21 Emergente, oltre che dalle sentenze delle sezioni unite numero 30055, 30056 e 30057, depositate il 23 dicembre 2008, dalla sentenza 21 gennaio 2009, n. 1465 della sezione tributaria. 22 Più precisamente, la società accertata (A), anziché acquistare un immobile direttamente dalla controllante (B), aveva stipulato un contratto di locazione finanziaria con un’altra società del gruppo (C) la quale, grazie ad un finanziamento erogato da una quarta società (D) non residente e appartenente al medesimo gruppo, aveva acquistato l’immobile dalla capogruppo (B) al fine di concederlo in leasing alla prima (A). 23 In altri termini, la Commissione regionale «non si interroga sul rapporto tra questo risparmio e l’ordinamento tributario, non si chiede se il suo godimento sia coerente o meno con la ratio delle disposizioni che lo

zione finanziaria, invece delle quote di ammortamento spettanti in caso di acquisto “diretto”, oltre ad altri vantaggi riferibili alle società del gruppo, ha recuperato a tassazione la differenza. L’ufficio accertatore e il giudice si sono focalizzati sul risparmio d’imposta al quale l’operazione ha dato luogo e sulle valide ragioni economiche dell’operazione medesima, l’onere di provare le quali è assegnato alla contribuente, che non vi ha assolto. È mancata del tutto, invece, quell’analisi in merito alla contrarietà del risparmio d’imposta rispetto all’obiettivo delle norme tributarie formalmente osservate, che rende il risparmio anomalo23. Tuttavia, la mancanza di anomalie nell’utilizzo del leasing, invece della compravendita, ai fini dell’acquisizione di un immobile strumentale è stata messa bene in luce dalla dottrina, la quale ha osservato che, nella prospettiva indicata dal legislatore, la scelta tra l’acquisto di un bene mediante leasing e l’acquisto diretto a seguito di finanziamento si palesa quale «scelta tra schemi che, alle condizioni indicate, il legislatore pone sullo stesso piano», e che nulla impedisce possa essere ispirata anche soltanto da ragioni di convenienza fiscale»24. In particolare, la deduzione dei canoni – che, risultando più rapida rispetto a quella delle quote di ammortamento, ha determinato il risparmio fiscale, meramente finanziario peraltro25, denunciato dall’ufficio – se è, appunto, più rapida, è tale «perché lo ha voluto il legislatore, laddove non ha stabilito, come pure avrebbe potuto, quale condizione di deduzione dei canoni, l’identità tra durata del contratto e periodo di ammortamento ordinario»26. Nella sentenza – e nella prospettazione dell’ufficio – hanno molto rilievo, inoltre, l’esistenza, nel caso di specie, di una pluralità di negozi collegati funzionalmente, e le circostanze che la società accertata appartiene ad un gruppo multinazionale e che gli attori dell’operazione ritenuta abusiva erano tutti appartenenti a tale gruppo. Alla luce della considerazione che precede, tuttavia, tali elementi perdono rilievo al fine di qualificare l’operazione abusiva; anzi l’enfasi con la quale è posto l’accento sulla strategia imprenditoriale del gruppo esprime l’atteggiamento di sospetto nei riguardi dei gruppi di società che traspare talvolta nella giurisprudenza tributaria27. Un ulteriore motivo di perplessità suscitato dalla sentenza in rassegna attiene, infine, alla confusione, che la motivazione palesa, fra interposizione fittizia, simulazione ed elusione. Si legge invero, che la società avrebbe «utilizzato la locazione finanziaria di tipo traslativo [...] in maniera distorta e, cioè, simulata per mascherare una compravendita».

ammettono e del sistema di regole nel quale si inseriscono»: così ZIZZO, Leasing infragruppo e abuso del diritto, cit., 2356. 24 ZIZZO, Leasing infragruppo e abuso del diritto, cit., 2356. 25 Come rileva ZIZZO, Leasing infragruppo e abuso del diritto, cit., 2356, nota 3, precisando che «al risparmio nei primi anni di vita utile del bene oggetto dell’operazione corrisponde un aggravio negli ultimi, sicché, al termine del ciclo di ammortamento del bene, o in occasione di una sua eventuale dismissione, l’importo delle imposte assolte nei due scenari finisce per coincidere». 26 ZIZZO, Leasing infragruppo e abuso del diritto, cit., 2356, il quale sottolinea, in proposito, che la tradizionale presenza, nella disciplina fiscale del leasing, di un vincolo tra deduzione dei canoni e osservanza di una durata minima del rapporto, riflette una logica antielusiva, precludendo proprio l’aggiramento della normativa sull’ammortamento dei beni, per mezzo della stipula di contratti

di leasing di durata molto breve, e la conseguente deduzione, attraverso i canoni, del costo dei beni in un arco di tempo più breve di quello che avrebbe richiesto l’ammortamento ordinario. Secondo tale autore, «definendo la sfera dei leasing “con effetti elusivi” il legislatore definisce inequivocabilmente, per differenza, quella dei leasing “senza effetti elusivi”»: individuando «i primi, nei leasing di durata inferiore a quella minima, il legislatore individua, cioè, anche i secondi, nei leasing di durata pari o superiore a quella minima». 27 Ad esempio, in Cass., sez. trib., 8 aprile 2009, n. 8481, commentata criticamente da BASILAVECCHIA, Surrogati interpretativi in difetto di norma antielusiva?, in Riv. Giur. Trib., 2009, 601 e da LUPI-STEVANATO, Lease back infragruppo e paradosso di elusività senza vantaggio fiscale, in Corr. Trib., 2009, 1929. Si veda anche, in proposito, D’ABRUZZO, L’abuso del diritto nelle operazioni di leasing nei gruppi di società, in Boll. Trib., 2009, 1743.


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In realtà, quando tra due strumenti giuridici che consentono di ottenere lo stesso risultato economico-giuridico il contribuente sceglie quello connotato dal regime tributario più conveniente, vuole proprio quello strumento, poiché – a differenza dell’altro – gli assicura il beneficio del minore onere tributario. Il rapporto fra i due strumenti messi a disposizione dall’ordinamento è riconducibile, dunque, allo «schema dell’alternativa e non a quello, tipico della simulazione, della dichiarazione accompagnata dalla controdichiarazione»28. Nel caso di specie, il leasing non è utilizzato in modo distorto, bensì secondo la sua funzione tipica, per determinare gli effetti economico-giuridici che gli sono propri. L’inapplicabilità delle sanzioni amministrative per infedele dichiarazione. Da ultimo, la Commissione regionale fiorentina disapplica le sanzioni amministrative irrogate nell’accertamento, in considerazione delle «obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria» (in realtà, sulla stessa esistenza del principio antiabuso), ai sensi dell’art. 10, comma 3, dello Statuto29. L’«incertezza» sarebbe dovuta alle oscillazioni giurisprudenziali e sarebbe venuta meno (soltanto) grazie all’intervento delle sezioni unite. L’applicazione dell’esimente, che si connette ad una mancanza di colpevolezza ricollegabile alle trascorse e discontinue vicende giurisprudenziali, si palesa, quindi, del tutto contingente30 e non più ravvisabile con riguardo alle condotte successive alle note pronunce delle sezioni unite. All’esclusione delle sanzioni amministrative per infedele dichiarazione31 con riguardo alle condotte che ricadono nel generale divieto di abuso di fonte giurisprudenziale, pare possibile, tuttavia, assegnare un diverso e più sicuro fondamento, non ancorato, soprattutto, ad un dato cronologico. La questione si pone in termini analoghi, ma non identici, rispetto ai casi di violazione di clausole antielusive espresse. Secondo l’opinione di recente prevalsa32, i casi di elusione «codificata»33 consistenti in clausole aperte (totalmente o parzialmente)34 e, in particolare, le fattispecie che ricadono nell’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973, non sono sanzionabili: le sanzioni amministrative per infedele dichiarazione puniscono la «violazione» di norme tributarie e non possono, quindi, trovare applicazione in caso di (semplice) aggiramento delle norme relative alla dichiarazione35. L’argomento si attaglia parimenti alle violazioni del principio ge-

28 ZIZZO, Leasing infragruppo e abuso del diritto, cit., 2357. 29 In effetti, come puntualmente rileva MARONGIU, Abuso del diritto o abuso del potere?, cit., 1077, «non è [...] tollerabile che un soggetto che si era conformato ieri alla legge, alla giurisprudenza e alla prassi amministrativa allora esistente, debba oggi difendersi da eccezioni (del tutto) nuove, fatte valere (neanche dall’amministrazione finanziaria, ma) dai giudici e fondate su principi che allora non erano neanche prevedibili e che si sono formati successivamente nel tempo». 30 Come osserva CASTALDI, Punibilità del comportamento elusivo, in Corr. Trib., 2009, 2393. 31 Previste in materia di imposte dirette, dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, e, in materia di iva, dall’art. 5, comma 4, dello stesso D.Lgs. n. 471/1997. 32 In dottrina si vedano, ad esempio, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte genera-

nerale antiabuso, il quale – come si è avuto modo di osservare – ha, nella sua attuale versione, una struttura analoga alla clausola antielusiva di cui all’art. 37-bis. Il discorso potrebbe, dunque, concludersi qui. Tuttavia, la sanzionabilità amministrativa delle condotte abusive non potrebbe essere ammessa neppure nella prospettiva di chi reputa punibili le fattispecie elusive. L’art. 37-bis – del quale si sono interessate, per lo più, dottrina e giurisprudenza – è una disposizione avente forza di legge, entrata in vigore in un preciso momento, che descrive, ancorché mediante «formule connotate da una certa elasticità ed indeterminatezza» una fattispecie impositiva ulteriore rispetto a quelle già vigenti36. Diversamente, allorché viene ravvisato un abuso di disposizioni tributarie, l’amministrazione e il giudice non applicano una norma che codifichi la fattispecie abusiva, definendone gli elementi costitutivi essenziali37. Gli articoli 1, comma 2, e 5 comma 4, D.Lgs. n. 471/1997, presentano un precetto formulato in modo generico, il quale rinvia, evidentemente, alle prescrizioni in materia di obblighi dichiarativi e di accertamento. La stessa prassi qualifica le fattispecie sanzionatorie previste da tali norme come dichiarazione infedele, presupponendo l’obbligo del contribuente di dichiarare fedelmente, vale a dire applicando le norme sostanziali e formali vigenti. Quand’anche, dunque, si ritenesse – con una dottrina minoritaria, ma autorevole38 – che l’elusione codificata estenda i confini dell’illecito tributario, il precetto degli articoli 1, comma 2, e 5, comma 4, D.Lgs. n. 471/1997, non potrebbe considerarsi validamente integrato da una clausola generale priva di una reale fonte normativa, elaborato dalla giurisprudenza muovendo da norme costituzionali e principi generali. L’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 472/1997 stabilisce invero – similmente a quanto previsto in campo penale dall’art. 2, c.p., e nel campo delle sanzioni amministrative dall’art. 1, legge 26 novembre 1981, n. 689 – che «nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione». Tale norma, che costituisce la trascrizione quasi letterale del secondo comma dell’art. 25, Cost., secondo la migliore dottrina «fa giustizia della tesi, maggioritaria per decenni, secondo la quale le sanzioni pecuniarie amministrative sarebbero state riconducibili alla disciplina di cui all’art. 23 Cost., e non a quella di cui all’art. 25 Cost.»39. Non possono, pertanto, non avere cittadinanza anche nella materia delle sanzioni amministrative tributarie i corollari tipici del principio

le, cit., 257; LUPI–STEVANATO, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, cit., 407; in giurisprudenza, Comm. trib. prov. Milano, sez. XIV, 13 dicembre 2006, n. 278, in questa rivista. 2007 (2), 271, con nota di DEL FEDERICO, Elusione tributaria “codificata” e sanzioni amministrative (280) e, implicitamente, Cass., sez. trib., 8 aprile 2009, n. 8487, nella cui motivazione si legge che «la norma di contrasto all’elusione non ha come finalità quella di penalizzare il contribuente che non ha commesso nessuna violazione, bensì quella di garantire l’uguaglianza del trattamento fiscale». 33 L’espressione è di DEL FEDERICO, Elusione e illecito tributario, in Corr. Trib., 2006, 3110. 34 La terminologia è di MARCHESELLI, Elusione, buona fede e principi del diritto punitivo, in Rass. Trib., 2009, 402. 35 TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, cit., 257. La giurisprudenza ha

considerato che «il contribuente non è tenuto ad autodisconoscere gli effetti fiscali di operazioni dichiarate elusive, e neppure è passibile di sanzioni atteso che la disciplina di cui all’art. 37-bis D.P.R. n. 600/1973, non ne contempla, né potrebbe, in considerazione del fatto che l’elusione costituisce aggiramento e non violazione di disposizioni»: così Comm. trib. prov. Milano, sez. XIV, 13 dicembre 2006, n. 278, cit., 271. 36 CORDEIRO GUERRA, Non applicabilità delle sanzioni amministrative per la violazione del divieto di abuso del diritto, in Corr. Trib., 2009, 772. 37 CORDEIRO GUERRA, Non applicabilità delle sanzioni amministrative per la violazione del divieto di abuso del diritto, cit., 772. 38 DEL FEDERICO, Elusione e illecito tributario, in Corr. Trib., cit., 3110. 39 MARONGIU, La nuova disciplina delle sanzioni amministrative tributarie, in Dir. e Prat. Trib., 1998, I, 271. Analogamente si esprime TABET, Considerazioni introduttive, in la


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di legalità quali la determinatezza delle fattispecie e i divieti di analogia e retroattività40. Del resto, la stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea, proprio nella sentenza in cui, per la prima volta, sono compiutamente tracciati il fondamento e la struttura della clausola generale antiabuso di origine comunitaria41, osserva che «la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro ed univoco, bensì e semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’Iva assolta a monte». Nel primo pronunciamento in materia la Corte di Cassazione è pervenuta ad escludere la punibilità amministrativa delle condotte abusive applicando anch’essa l’esimente di cui agli articoli 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, 10, comma 3, legge 27 lu-

riforma delle sanzioni amministrative tributarie, a cura di Tabet, Torino, 2000, 5, ss. 40 In questo senso anche CORDEIRO GUERRA, Non applicabilità delle sanzioni amministrative per la violazione del divieto di abuso del di-

glio 2000, n. 212, e 6, comma 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. La Cassazione pare, tuttavia, assegnare all’esimente un fondamento diverso da quello individuato dalla Commissione regionale toscana, ravvisando le obiettive condizioni d’incertezza sulla portata della norma sanzionatoria per il fatto che, nell’ambito di applicazione della norma medesima, «è riconducibile la violazione di un principio di ordine generale, come l’abuso del diritto». Sia pure con diversità di accenti e di conseguenze in termini di giustificazione normativa della non punibilità, anche la Corte di Cassazione, dunque, non si pone un problema di mera conoscibilità della clausola antiabuso, ma fa riferimento alla struttura della norma sanzionatoria. In entrambe le prospettive, indicate dalla Corte di Giustizia e dalla Cassazione, l’esclusione della punibilità non si rivela, dunque, contingente, ma fisiologica.

ritto, cit., 773, il quale avverte che «anche la dottrina che [...] nega la riferibilità dell’art. 25, secondo comma, Cost. all’illecito amministrativo, propugna l’esigenza che i corollari tipici della legalità informino di sé pure que-

sto settore del diritto punitivo», e CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale, cit., 489. 41 Corte di Giustizia CE, grande sezione, sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/2002 (Halifax), 93.


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Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 9 aprile 2009, n. 81 Presidente: Cigarini - Relatore: Mottola

Dichiarazione tributaria - Ritenute d’acconto subite Omessa indicazione - Correzione dell’errore - Dichiarazione integrativa - Necessità - Insussistenza (D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, comma 8-bis) Il contribuente, che dimostra di aver erroneamente indicato, nella dichiarazione dei redditi, ritenute d’acconto in misura inferiore di quelle effettivamente subite e di non averle indicate successivamente, ha il diritto di emendare l’errore, anche con modalità diverse dalla presentazione della dichiarazione integrativa ex art. 2, comma 8-bis, del D.P.R. n. 322/1998, in quanto, diversamente, si verificherebbe una duplicazione d’imposta, in contrasto con l’art. 67 del D.P.R. n. 600/1973 e con l’art. 163 del T.U.I.R. Con tempestivo ricorso il signor F.M. adiva questa Commissione contro l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Sassuolo in opposizione alla cartella di pagamento avanti indicata, chiedendone l’annullamento. L’ufficio in fase di liquidazione automatizzata della dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2005 presentata dal ricorrente, riscontrava che il rigo RN25 del modello unico 2006 (eccedenza d’imposta risultante dalla precedente dichiarazione) riportava l’importo di euro 2.840,00 che veniva utilizzato in compensazione nel mod. F24. Poiché sul modello unico 2005 presentato per l’anno 2004 l’importo indicato al rigo RN 32 (imposta a credito) era di euro 345,00, l’Agenzia, ex art. 36-bis D.P.R. 600/1973, correggeva l’importo e recuperava la differenza di euro 2.495,00 con la cartella impugnata. Parte ricorrente precisava che aveva erroneamente indicato un Nota Il tema della emendabilità della dichiarazione a favore del contribuente presenta indubbi aspetti di interesse teorico-pratico, concernenti i termini e le modalità attraverso cui è possibile rimediare ad un errore, sfavorevole per il contribuente, commesso in sede di redazione della dichiarazione. La questione, più volte trattata in sede giurisprudenziale e dottrinale, e in più occasioni oggetto di contrastanti e confuse interpretazioni ministeriali, non ha ancora trovato soluzione univoca, nonostante l’intervento in materia delle sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione (Cass., sez. un., 25 ottobre 2002, n. 15063, in Corr. Trib., 1, 2003, 44 ss., con nota di MAGNANI, La posizione delle sezioni unite sull’emendabilità della dichiarazione tributaria; LOGOZZO, Le sez. un. della Cassazione riconoscono la ritrattabilità della dichiarazione tributaria, in Corr. Trib., 1, 2003, 51 ss.; Cass., sez. un., 6 dicembre 2002, n. 17394, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big) che sembrava aver definitivamente fatto chiarezza sul punto. Il caso deciso dai giudici di merito si origina dall’impugnativa di un ruolo, emesso ex art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973, allo scopo di correggere l’errore commesso dal contribuente nell’indicazione degli importi della ritenute d’acconto subite. Infatti, a causa dell’indicazione, nella dichiarazione relativa all’anno 2004, di minori ritenute d’acconto, emergeva un’imposta a credito inferiore a quella riportata nella dichiarazione successiva. Pertanto, in sede di liquidazione automatizzata della dichiarazione dei red-

importo di ritenute d’acconto subite pari ad euro 8.766,00 anziché – come avrebbe dovuto essere – pari ad euro 11.261,00, come peraltro risulta dalle certificazioni allegate afferenti ai ricavi dichiarati nell’anno. Aggiungeva di non aver indicato la suddetta differenza nei periodi d’imposta successivi e di aver presentato all’ufficio, unitamente alla documentazione, istanza di autotutela con cui aveva chiesto il riconoscimento del credito. Si costituiva in giudizio l’Agenzia che, precisando di non aver potuto accogliere la suddetta istanza, chiedeva il rigetto del ricorso per la modalità attraverso cui il ricorrente aveva proceduto alla correzione della dichiarazione, non attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa, come richiesta dall’art. 2 comma 8-bis del D.P.R. 322/1998. La Commissione, esaminati gli atti, osserva che, pur non essendo stata utilizzata dal contribuente la procedura corretta per l’emendabilità dell’errore commesso in dichiarazione, il ricorso è fondato. Infatti il signor F. ha documentato quanto sostenuto e cioè di aver erroneamente indicato nella dichiarazione dei redditi dell’anno 2004 ritenute d’acconto in misura inferiore di quelle effettivamente subite e di non averle indicate successivamente, anche perché l’anno seguente ha provveduto a correggere autonomamente l’importo a credito con la dichiarazione dei redditi dell’anno 2005. Di conseguenza tenuto conto che, in caso di mancato riconoscimento di dette ritenute, si verificherebbe una duplicazione d’imposta, in contrasto con l’art. 67 del D.P.R. 600/1973 e dell’art.163 del T.U. 917/1986, il Collegio ritiene di annullare la cartella esattoriale impugnata. Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese. diti per l’anno 2005, l’Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione l’eccedenza d’imposta risultante dalla precedente dichiarazione e utilizzata in compensazione. Il contribuente aveva presentato apposita istanza di autotutela con cui aveva chiesto il riconoscimento del credito, mentre, secondo l’Agenzia, avrebbe dovuto presentare una dichiarazione integrativa, ex comma 8-bis dell’art. 2, D.P.R. n. 322/1998. I giudici della Commissione tributaria provinciale di Modena hanno, invece, annullato il ruolo impugnato, ritenendo che «pur non essendo stata utilizzata dal contribuente la procedura corretta per l’emendabilità dell’errore commesso in dichiarazione», la presentazione di un’idonea documentazione, attestante l’erronea indicazione delle ritenute d’acconto subite e l’automatica correzione dell’importo a credito con la dichiarazione relativa al successivo periodo d’imposta, fossero sufficienti per accogliere le istante del contribuente. Una diversa soluzione avrebbe causato una duplicazione impositiva, contraria al divieto espresso contenuto nell’art. 67 del D.P.R. n. 600/1973 e nell’art. 163 del T.U.I.R. Com’è noto, il tradizionale riconoscimento della natura di dichiarazione di scienza della dichiarazione tributaria ha indotto la dottrina (NUSSI, La dichiarazione tributaria, Torino, 2008, 261 ss.; COPPOLA, La dichiarazione tributaria e la sua rettificabilità, Padova, 2005, cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici).e parte della giurisprudenza (v., ex multis, Cass., 13 febbraio 1992, n. 9554, in Boll. Trib., 1992, 1777; Cass., 2 maggio 1994, n. 4239. in Fisco, 1994, 8213) ad ammettere, sin da epoca risalente, la pos-


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sibilità di rettificare i dati in essa contenuti per «errori di fatto» e, progressivamente, anche per «errori di diritto»; salve le ipotesi di scelte dispositive modificabili, in via di principio, solo in presenza di vizi della volontà. Nonostante la previsione di una specifica disciplina in punto di rettificabilità della dichiarazione (art. 2, comma 8 e 8-bis., D.P.R. n. 322/1998), tra i rimedi normativi volti a correggere il risultato della stessa si ritiene comunemente sussistano anche le impugnative giudiziali degli atti impositivi, in specie iscrizioni a ruolo ex artt. 36-bis e 36-ter, D.P.R. n. 600/1973. Secondo autorevole dottrina, non essendo il ruolo atto costitutivo dell’obbligazione tributaria, ma mero strumento di riscossione, la sua mancata impugnazione «non consolida altro che gli effetti del ruolo (azione esecutiva), e quindi non impedisce il rimborso delle somme indebitamente riscosse» (TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, I, Milano, 2008, 310). In chiave diametralmente opposta, si pone altra parte della dottrina, secondo cui il ruolo sarebbe sempre atto con effetti sostanziali normativi, con la conseguente irripetibilità del richiesto in assenza di relativa impugnazione (FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 548). Accogliendo parzialmente entrambe le posizioni, si potrebbe considerare preclusiva del rimborso solo la mancata impugnazione di un ruolo che innovi rispetto alle situazioni sostanziali di riferimento, qualificandosi in termini di normatività (NUSSI, La dichiarazione tributaria, cit., 260 ss.). Secondo quest’ultimo orienta-

mento, i vizi della dichiarazione non possono essere eccepiti nell’ambito di una impugnativa del ruolo emesso ex art. 36-bis, D.P.R. n. 600/1973, ma correlativamente, la definitività di questo non preclude il rimborso sui vizi estranei all’errore della liquidazione. Negare o limitare la rettificabilità del dichiarato varrebbe, infatti, a determinare, secondo la Suprema Corte, «un sistema legislativo incompatibile con i principi costituzionali della capacità contributiva (art. 53, comma 1) e dell’oggettiva correttezza amministrativa (art. 97, comma 1)» (Cass., sez. un., 25 ottobre 2002, n. 15063, cit., 44 ss., con nota di MAGNANI, La posizione delle sezioni unite sull’emendabilità della dichiarazione tributaria) in cui il dichiarante finirebbe per essere sottoposto ad un prelievo fiscale sostanzialmente indebito. La ricerca del giusto riparto dell’imposizione tributaria, implicante una corretta determinazione dell’imposta e finalizzato ad evitare doppie imposizioni, legittimerebbe .anche il ricorso all’autotutela, sulla base del presupposto che «l’ufficio, prima di iscrivere a ruolo, debba controllare che la dichiarazione sia corretta e che ne sia scaturita realmente l’obbligazione che viene iscritta a ruolo» (TESAURO, Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975, 251). La decisione dei giudici di merito, quindi, può essere condivisa in quanto l’amministrazione finanziaria, su specifica istanza del contribuente, è chiamata ad esercitare una funzione diretta a far corrispondere l’imposta al presupposto effettivo.


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ESENZIONI E AGEVOLAZIONI 78

Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 7 gennaio 2009, n. 6 Presidente: Iadecola - Relatore: Papa

Esenzioni e agevolazioni - Agevolazioni per l’acquisto della prima casa - Unità immobiliare con superficie superiore a 240 mq - Abitazione di lusso - Agevolazione - Esclusione (Tariffa, art. 1, nota II-bis; D.P.R. n. 131 del 1986; D.M. 2 agosto 1969) Non spetta l’agevolazione cd. “prima casa” al contribuente che acquista un’unità abitativa con superficie complessiva superiore a 240 mq, in quanto, ai sensi del decreto del Ministero dei Lavori Pubblici 2 agosto 1969 che fissa i criteri per considerare non di lusso le abitazioni che possono essere oggetto del beneficio, le singole unità abitative non devono avere una superficie utile complessiva superiore a detta misura. Svolgimento del processo Il sig. M.A. [...] impugna l’avviso di liquidazione dell’imposta e irrogazione delle sanzioni dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di Giulianova, notificato il 14 settembre 2007. Il ricorrente sostiene che, da quanto si evince dai dati di fatto, la liquidazione impugnata scaturisce dalla perdita dei benefici della prima casa perché l’immobile, acquistato con il rogito notaio D.G. il 7 settembre 2004, è stato classificato di lusso e pertanto manca del requisito essenziale. Le caratteristiche dell’immobile di lusso, così come segnalato dall’ufficio del territorio, e in sequenza diretta dall’ufficio dell’Agenzia delle Entrate di Giulianova, sono ancorate al semplice dato quantitativo della superficie. Si afferma testualmente «poiché l’immobile oggetto dell’acquisto agevolato ha una superficie utile di mq 265, giusta nota dell’Agenzia del territorio di Teramo [...] del 14 settembre 2007 che si allega in copia al presente atto e, pertanto, in base ai parametri enunciati dall’art. 6 del D.M. 2 agosto 1969, presenta le caratteristiche delle abitazioni di lusso». Il ricorrente sostiene che la semplice entità della superficie non è sufficiente a classificare un immobile come di lusso, perché sono soprattutto le caratteristiche tipologiche, tecnologiche, urbanistiche e edilizie ben specifiche, che unitamente alla superficie totale dell’immobile rendono lo stesso di lusso o meno. A conferma cita la sentenza n. 66 della Commissione tributaria provinciale di Vicenza dalla quale si evince che non basta la metratura di un immobile, ancorché asseverata da apposita certificazione dell’Agenzia del Territorio, perché si possa parlare di abitazione di lusso, ma bisogna avere riguardo a tutti gli altri connotati tipologici, tecnologici ed urbanistici. Il ricorrente chiede l’annullamento dell’avviso impugnato. L’Agenzia delle Entrate, ufficio di Giulianova, si è costituita in giudizio per sostenere la legittimità dell’avviso di liquidazione perché l’art. 6 del decreto ministeriale del 2 agosto 1969 dispone che le singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a mq 240 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchina) sono esclusi dall’agevolazione di prima casa, per ciò chiede il rigetto del ricorso. L’Agenzia sottolinea come il conteggio, effettuato sulla dichiarazione del tecnico incaricato della ditta proprietaria nella denun-

cia di accatastamento, evidenzi i seguenti dati numerici: vani principali n. 6 mq 203,59; accessori diretti (bagni WC) n. 4 mq 24,22; ingresso, corridoi, ecc. mq 36,85 oltre alla superficie dei balconi di mq 54,14 e mq 54,36 di soffitta. All’udienza, fissata per la discussione pubblica del merito della controversia, interviene, per il ricorrente, l’avv. A.B. per sostenere che, secondo le condizioni previste nel D.M. 2 agosto 1969, un immobile non può essere considerato di lusso per la semplice entità della superficie, ma sono soprattutto le caratteristiche tipologiche, tecnologiche, urbanistiche ed edilizie specifiche che, unitamente alla superficie totale lo rendono di lusso o meno. Il rappresentante dell’Agenzia, invece, fa osservare che l’art. 6 del decreto ministeriale 2 agosto 1969, dispone l’esclusione dall’agevolazione cd. “prima casa” per le singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a mq 240 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine). Il Collegio, sentito il relatore e le parti intervenute Motivi della decisione Il ricorso non è fondato perché il D.M. 2 agosto 1969 decreta «[...] sono considerate abitazioni di lusso: [...] art. 6 le singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a mq 240 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine)». Le argomentazioni della parte ricorrente, evidentemente, traggono origine dall’art. 8 che recita, «Le case e le singole unità immobiliari che abbiano oltre 4 caratteristiche tra quelle della tabella allegata al presente decreto [...] a) superficie utile complessiva superiore a mq 160, esclusi dal computo terrazze e balconi, cantine, soffitte, scale e posto macchine; b) terrazze a livello della superficie utile superiore a 65, a servizio della singola unità; c) ascensori; d) scala di servizio; e) montacarichi o ascensori di servizio, ecc.». Il Collegio non condivide le argomentazioni della parte ricorrente perché il beneficio fiscale che intende mantenere si riferisce ad una unità immobiliare, di complessivi mq 265, che rientra nella fattispecie di cui all’art. 6 del D.M., sopra richiamato, ed è da includere tra quelli di lusso perché la superficie, complessiva, supera i mq 240, se così non fosse, la previsione, di cui al successivo art. 8, avanti richiamata, non sarebbe stata inserita. Il Collegio, pertanto, ritiene legittimo l’avviso di liquidazione dell’imposta e irrogazione delle sanzioni, emesso a carico del ricorrente, dall’Agenzia delle Entrate; ufficio di Giulianova che, dichiarata la decadenza dalle agevolazioni fiscali per l’acquisto della prima casa, previste dall’art. 1 della tariffa parte prima, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, perché l’unità immobiliare , acquistata con atto per notar D.G., stipulato in data 7 settembre 2004 e registrato in data 15 settembre 2004 al n. [...], fruendo delle agevolazioni “prima casa”, ha una superficie utile di mq 265, certificata dall’Agenzia del territorio di Teramo con la nota n. [...] del 14 settembre 2007, pertanto, in conformità al disposto dell’art. 6 del D.M. 2 agosto 1969, presenta le caratteristiche delle abitazioni di lusso. La sezione rigetta il ricorso perché privo di fondamento e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano in complessive euro 1000,00.


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Nota Come noto, le agevolazioni cd. prima casa si sostanziano in un’aliquota agevolata del 3% per l’imposta di registro (e del 4% per l’Iva) cui si aggiungono le imposte ipotecarie e catastali in misura fissa. La normativa del registro (espressamente richiamata in ambito Iva dal n. 21 della tabella A, parte II, allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633) richiede la contemporanea sussistenza di alcuni requisiti di carattere oggettivo e soggettivo (sui quali da ultimo si v. la circ. 12 agosto 2005, n. 38/E, in Boll. Trib., 2005, 1224). In particolare, deve trattarsi dell’acquisto di una casa di abitazione e cioè di un’unità immobiliare classificata o classificabile nella categoria catastale A (con esclusione della categoria A/10) o di una costruzione rurale destinata ad abitazione, abbia o meno il requisito della ruralità, “non di lusso”. Per la determinazione della caratteristica di lusso dell’abitazione si fa ancora riferimento ai criteri di cui al decreto del Ministero dei Lavori Pubblici 2 agosto 1969 a prescindere dalla categoria catastale di appartenenza (cfr. Cass., 26 marzo 1988, n. 2595, in banca dati Boll. Trib.). Il citato decreto si compone di 11 articoli e di una tabella: i primi 7 articoli contengono autonome previsioni che individuano singole caratteristiche ricorrendo le quali l’abitazione va sicuramente qualificata di lusso. Volendo esemplificare si considerano di lusso le abitazioni realizzate su aree destinate dagli strumenti urbanistici a “ville”, “parco privato” ovvero le costruzioni qualificate dagli stessi strumenti urbanistici come “di lusso”; la presenza di piscine di almeno 80 mq, o di campi da tennis con un’estensione di almeno 650 mq; le unità immobiliari con una superficie utile complessiva superiore a mq 200 e dotate di aree pertinenziali scoperte con un’estensione pari ad almeno sei volte l’area coperta, ecc. L’art. 8, invece, con disposizione residuale, richiede la ricorrenza di almeno 4 delle caratteristiche individuate nella tabella allegata al decreto che, per l’appunto, individua una pluralità di caratteristiche tipologiche e di superficie. La norma, però, trova applicazione solo quando l’immobile non presenta alcuno dei caratteri “assorbenti” previsti dalle disposizioni precedenti. Ora, nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici teramani, l’immobile oggetto dell’acquisto effettuato dal contribuente aveva una superficie utile complessiva (esclusi i balconi, le terrazze, i

soffitti, le scale i posti macchine) pari a 265 metri quadri. L’ufficio, considerato che il requisito della superficie è preso in considerazione in maniera espressa dall’articolo 6 del citato decreto che lo eleva ad autonomo criterio idoneo ad individuare il carattere di lusso di una abitazione quando l’unità immobiliare presenta una superficie utile complessiva superiore a mq 240 al netto dei balconi, delle terrazze delle cantine, delle soffitte, delle scale e dei posti macchina, ha provveduto alla revoca dell’agevolazione fruita. Dal canto loro i giudici teramani, confrontando la situazione di fatto con quella regolamentata dal decreto, non hanno potuto che riconoscere all’abitazione oggetto del trasferimento il carattere di lusso e considerare infondate le ragioni opposte dal contribuente che non ha messo in discussione il dato fattuale (l’estensione cioè di mq 265 dell’unità abitativa), ma si è limitato a contestare che la semplice entità della superficie non può essere idonea a rendere di lusso l’immobile. A parere del ricorrente, infatti, il carattere di lusso deriverebbe dalla compresenza di una pluralità di caratteristiche tipologiche, tecnologiche, urbanistiche ed edilizie ben specifiche, mentre la semplice metratura, anche se di notevole importanza, di per sé sola non potrebbe mai giustificare la qualificazione di lusso dell’abitazione. In verità la ricostruzione di parte ricorrente, come rilevato dai giudici, non trova alcun fondamento nella disposizioni normative che qualificano alcune caratteristiche (come, ad esempio, proprio la metratura superiore a 240 mq) di tale rilievo da essere sufficienti da sole a connotare come di lusso l’abitazione. Viceversa, solo ove l’unità abitativa non presenti alcuno dei requisiti elencati nei primi sette articoli del decreto, con disposizione residuale (cfr. art. 8) è richiesta la compresenza di una pluralità di caratteristiche (almeno quattro) tra quelle individuate nella tabella allegata al decreto. In definitiva, il legislatore ha predisposto (per così dire) due diversi strumenti volti a definire la natura dell’abitazione: 1) il primo è individuato dagli artt. da 1 a 7 del D.M. 2 agosto 1969 e consiste nell’individuare le singole caratteristiche al ricorrere di ciascuna delle quali l’immobile può definirsi di lusso; 2) il secondo, di stampo residuale, è previsto dall’art. 8 che richiede almeno quattro delle caratteristiche individuate nella apposita tabella allegata al decreto.


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IMPOSTA DI REGISTRO NATURA E SOGGETTI PASSIVI DELL’IMPOSTA DI REGISTRO SU ATTI SOTTOPOSTI A CONDIZIONE SOSPENSIVA 79

Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. II, 9 giugno 2008 n. 114 Presidente Nannipieri - Relatore: Mamone

Imposta di registro - Atti soggetti a condizione sospensiva - Imposta dovuta a seguito dell’avverarsi della condizione - Natura di imposta complementare - Responsabilità del notaio - Esclusione (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 19, 27, 42 e 57) L’imposta di registro per atti atti sottoposti a condizione sospensiva, quando la condizione si avvera, ha natura di imposta complementare, per cui di essa non risponde il notaio che ha rogato l’atto. Fatto Avverso l’avviso di liquidazione del 2 luglio 2007 n. 33, per complessivi euro 160.059,00 , di cui euro 160.000,00 a titolo di imposta ipotecaria e euro 59,00 a titolo di imposta di bollo, emesso dall’Agenzia del territorio, ufficio di Pisa, ricorre il sig. nonché dott. G.G., rappresentato e difeso dagli avv. A.G. e L.T., depositato in data 19 novembre 2007, R.G.R. n. 12/2007, a questa Commissione. Nei motivi il ricorrente eccepisce: - l’illegittimità dell’avviso di liquidazione per difetto di legittimazione passiva e per carenza di qualsivoglia responsabilità per il notaio rogante, poiché a seguito dell’avveramento della condizione sospensiva apposta dalle parti all’atto ricevuto dal pubblico ufficiale in data 28 settembre 2006, le somme richieste rivestono la qualità di imposte complementari e non di imposte principali; - in subordine viene chiesta l’applicazione della tassa ipotecaria anziché della richiesta imposta ipotecaria; - in estremo subordine viene chiesta la riduzione della somma da euro 160.000,00 ad euro 116.000,00. L’ufficio Agenzia del territorio di Pisa si costituiva in giudizio in data [...] e con controdeduzioni eccepisce: - di dichiarare la legittimazione passiva del notaio rogante in ordine ai fatti di causa nonché la sua responsabilità rivestendo esso stesso la qualità di soggetto coobbligato con le parti contraenti; - di dichiarare l’illegittimità dell’applicazione alla fattispecie dedotta in giudizio del trattamento fiscale agevolativo di cui agli artt. 15 e 18 del D.P.R. n. 601/1973; - conclude l’ufficio con la richiesta di rigetto del ricorso. Diritto Il ricorso risulta essere meritevole di accoglimento. In riferimento alla prima doglianza eccepita dal ricorrente : l’illegittimità del-

Nota di Angela Cipriani Una interessantissima pronuncia della Comm. trib. prov. di Pisa, la n. 114/02/2008 del 9 giugno 2008 in tema di imposta ipotecaria e di bollo, affronta la questione della responsabilità del notaio in ordine alla registrazione degli atti sottoposti a condizione sospensiva. La tematica si intreccia indissolubilmente con quella relativa alla

l’avviso di liquidazione per difetto di legittimazione passiva e per carenza di qualsivoglia responsabilità per il notaio rogante, poiché le somme richieste rivestono la qualità di imposte complementari e non di imposte principali. Constatato che nel caso in esame la natura dell’imposta di registro e della tassa ipotecaria è complementare e che il notaio rogante non è responsabile del loro assolvimento. Ritenuto : - che ai sensi del combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 57 del D.P.R 131/1986 sono si obbligati solidalmente al pagamento dell’imposta oltre ai pubblici ufficiali che hanno redatto, ricevuto od autenticato l’atto ed ai soggetti nel cui interesse fu richiesta la registrazione, le parti contraenti ma si precisa che la suddetta responsabilità non si estende all’assolvimento delle imposte quando esse possono essere qualificate come complementari e come suppletive. - che ai sensi dell’art. 42, D.P.R. 131/1986 è «principale l’imposta applicata al momento della registrazione e quella richiesta dall’ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione delle richiesta di registrazione in via telematica;è suppletiva l’imposta applicata successivamente se diretta a correggere errori od omissioni dell’ufficio;è complementare l’imposta applicata in tutti gli altri casi». Dal quadro normativo delineato emerge che la fattispecie in esame non rientra tra i casi in cui l’imposta può essere qualificata come principale ma come complementare e conseguentemente deve escludersi la responsabilità fiscale del pubblico ufficiale che ha ricevuto l’atto; - che la previsione nel caso in esame del dispiegarsi dell’efficacia dell’atto all’avveramento della condizione sospensiva apposta dalle parti comporta che al suo verificarsi si rende necessaria una ulteriore liquidazione dell’imposta. Conferma di questo è l’art. 19 da leggersi in combinato disposto on l’art. 27 del D.P.R. n. 131/1986 in base ai quali gli atti condizionati sono registrati con il pagamento dell’imposta in misura fissa ed al momento in cui si verifica la condicio si riscuote la differenza tra l’imposta dovuta al momento della formazione dell’atto e quella pagata in sede di registrazione. Accolto il gravame sul primo punto con cui la parte privata eccepiva il difetto di legittimazione passiva rimane assorbita ogni indagine sui successivi motivi. Sussistono peraltro giusti motivi data la particolare complessità della questione per la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

natura dell’imposta riscossa in sede di registrazione, a seguito dell’avveramento della condicio facti, natura che da dottrina e giurisprudenza prevalenti viene pacificamente ritenuta come complementare. Dalla riconosciuta qualificazione dell’imposta come complementare viene automaticamente risolto il problema dell’individuazione dei soggetti obbligati all’assolvimento dell’obbligazione tributaria successivamente al verificarsi dell’evento condizionante.


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La vicenda processuale La fattispecie concreta portata all’esame dei giudici tributati pisani può essere riassunta così come segue. In data 28 settembre 2006 il dott. G. G. riceve in qualità di notaio rogante un contratto di apertura di credito fondiario con il quale Unicredit banca d’impresa S.p.A. concedeva alla società M. S.p.A. un finanziamento sotto forma di apertura di credito fondiario per il complessivo importo di euro 7.100.000,00; a garanzia di tale finanziamento era stata concessa alla società A.T. S.r.l. una garanzia ipotecaria su di un capannone ad uso industriale nel Comune di Pontedera. Le parti contraenti avevano espressamente subordinato l’efficacia del contratto stesso, compresa la costituzione d’ipoteca ai sensi dell’art. 1353, c.c., alla condizione sospensiva dell’approvazione da parte del Tribunale di Pisa della proposta di concordato presentata dalla società M. S.p.A. nella procedura di amministrazione straordinaria avente ad oggetto la società T.I. S.p.A. ed altre società dalla stessa controllate. Le parti successivamente con atto di accertamento dell’avveramento della condizione e con atto di consenso alla cancellazione di detta condizione, avevano riconosciuto il verificarsi della condizione prevista e conseguentemente le parti stesse confermavano la volontà di annotare la cancellazione della condizione a margine dell’ipoteca e di procedere all’erogazione del finanziamento. Consolidatosi il negozio giuridico e realizzatosi il momento impositivo in data 27 luglio 2007 venne notificato al notaio rogante l’avviso di liquidazione n. 33 del 2 luglio 2007 per complessivi euro 160.059,00 di cui euro 160.000,00 a titolo di imposta ipotecaria ed euro 59,00 a titolo di imposta di bollo. Ricorre allora il notaio rogante avverso l’avviso di liquidazione che si era visto notificare chiedendo l’annullamento dell’atto per difetto di legittimazione passiva e carenza di ogni responsabilità poiché le somme richieste rivestono la qualità di imposte complementari in forza delle quali al pubblico ufficiale che riceve, redige od autentica un atto non si estende la responsabilità del loro assolvimento. Il Collegio ha ritenuto fondato e pertanto meritevole di accoglimento il ricorso poiché la natura dell’imposta dovuta a seguito dell’avveramento della condizione sospensiva apposta è complementare essendo chiaro il dettato normativo dell’art. 42, D.P.R. 131/1986. Motiva ancora il Collegio che la condizione sospensiva da un lato deve essere equiparata a tutti quei fatti che danno luogo ad ulteriore liquidazione dell’imposta e dall’altro rende necessaria la riscossione della differenza tra l’imposta dovuta al momento della registrazione (che deve essere versata in misura fissa) e quella dovuta al momento della formazione dell’atto e del dispiegarsi quindi dei suoi effetti.

spinto i giudici pisani ad accogliere le tesi avanzate dalla parte istante è opportuno analizzare la natura dell’imposta riscossa a seguito dell’avveramento della condicio facti. Il quadro normativo di riferimento è sicuramente l’art. 42 del Testo unico delle disposizioni sull’imposta di registro (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131) in base al quale «è principale l’imposta applicata al momento della registrazione e quella richiesta dall’ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione in via telematica; è suppletiva l’imposta applicata successivamente se diretta a correggere errori od omissioni dell’ufficio; è complementare l’imposta applicata in ogni altro caso». Ma ciò che più conta ai fini fiscali è che dalla diversa natura e dal diverso carattere dell’imposta di registro dipende la possibilità o meno di riconoscere o di escludere la responsabilità del pubblico ufficiale che ha redatto, ricevuto od autenticato l’atto soggetto a registrazione. Infatti l’art. 57, D.P.R. n. 131/1986 dopo aver affermato al comma 1 che i pubblici ufficiali che hanno redatto, ricevuto od autenticato l’atto sono solidalmente obbligati al pagamento dell’imposta, al comma 2 prevede che la responsabilità degli stessi non si estende al pagamento delle imposte complementari e suppletive1. Al fine dunque di individuare il carattere principale dell’imposta occorre accertare come avviene l’applicazione della stessa al momento della registrazione. Normalmente accade che al momento della presentazione dell’atto per la registrazione, l’ufficio liquida l’importo dovuto che viene versato dal contribuente. A titolo esemplificativo è opportuno sottolineare e ricordare che, a seguito del D.Lgs. n. 9/2000 che ha introdotto l’art. 3-bis al D.Lgs. n. 463/1997, è stata prevista la procedura unificata telematica per gli adempimenti in materia di registrazione, trascrizione, iscrizione, annotazione e voltura di atti relativi a diritti su immobili. Infatti le richieste di registrazione, le note di trascrizione e di iscrizione nonché le domande di annotazione e di voltura catastale, relative agli atti per i quali è attivata la procedura telematica, sono presentate su un modello unico informatico da trasmettere per via telematica unitamente a tutta la documentazione necessaria. La previsione di pagamento dei tributi dovuti per gli atti registrati con il modello unico ha comportato quindi l’abbandono delle ordinarie modalità di registrazione degli atti per introdurre il criterio dell’autoliquidazione delle imposte. Si qualifica come autoliquidazione quella fatta dal pubblico ufficiale che presenta il modello unico informatico2. Successivamente all’invio telematico l’ufficio provvede a controllare la regolarità dell’autoliquidazione e del versamento dell’imposta e, qualora in base agli elementi desumibili dall’atto, risulti dovuta una maggiore imposta, notifica, anche per via telematica entro trenta giorni dalla presentazione del modello unico, appoNatura dell’imposta Ai fini di una corretta valutazione delle motivazioni che hanno sito avviso di liquidazione per l’integrazione dell’imposta versa-

1 L’art. 57, D.P.R. 131/1986 dispone al comma 1 che «oltre ai pubblici ufficiali che hanno redatto, ricevuto od autenticato l’atto ed ai soggetti nel cui interesse fu richiesta la registrazione sono solidalmente obbligati al pagamento dell’imposta le parti contraenti, le parti in causa e coloro che hanno sottoscritto o avrebbero dovuto sottoscrivere le denunce di cui agli articoli 12 e 19 e coloro che hanno richiesto i provvedimenti di cui gli articoli 633, 796, 800 e 825 del codice di procedura civile». Al successivo comma 2 si sottolinea che «la responsabilità dei pubblici ufficiali non si estende al pagamento del-

le imposte complementari e suppletive». 2 Tale sistema trova numerosi precedenti similari tra i quali l’autoliquidazione per i tributi “minori” dovuti per le successioni mortis causa (art. 11, D.L. 28 marzo 1997, n. 79 convertito dalla legge 28 maggio 1997, n.140) e quella riguardante i contratti di locazione (art. 17, D.P.R. n. 131/1986), tutti casi di liquidazione fatta dal contribuente. In ambito Iva ed imposte dirette la procedura di autoliquidazione è la norma. Solo nella materia degli adempimenti telematici la liquidazione è opera del pubblico ufficiale ma in verità ad essa mal si adegua il con-

cetto di “autoliquidazione”dal momento che l’ufficiale liquidante è solo il responsabile d’imposta ed entra con il modello unico nel procedimento di applicazione dell’imposta come parte nuova (con notevoli possibilità di incidere sulla dinamica tributaria ove non si interpreti in termini riduttivi il ruolo relegandolo al solo momento della riscossione/versamento). Per la questione si rinvia a C.N.N., studio n. 87/2002/T, Adempimenti telematici per atti relativi ad immobili. Aspetti tributari, approvato dalla Commissione studi tributari il 28 novembre 2002.


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ta. Il pagamento integrativo deve essere effettuato dal pubblico ufficiale entro quindici giorni dalla richiesta. In tale contesto il riferimento all’art. 42 del Testo unico in materia di imposta di registro è obbligato poiché esso dispone che è principale l’imposta applicata al momento della registrazione e quella richiesta dall’ufficio diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione delle richiesta di registrazione per via telematica. Il pubblico ufficiale responsabile del pagamento della sola imposta principale ex art. 57 è tenuto anche al pagamento della maggiore imposta accertata solo se essa sia dovuta a causa dei suddetti errori od omissioni. Le ipotesi appena delineate però non sono le uniche che si possono verificare essendo possibile che in determinate circostanze la liquidazione ed il successivo versamento delle imposte avvengano in via differita. Il primo esempio è costituito dalla registrazione delle cessioni, delle risoluzioni e delle proroghe dei contratti di locazione e di affitto di cui all’art. 17, D.P.R. 131/1986, la cui imposta è auto liquidata dal contribuente il quale provvede a versarla entro 20 giorni tramite conto corrente3. La seconda ipotesi riguarda la registrazione degli atti degli organi giurisdizionali, il cui pagamento non sia a carico del segretario o del cancelliere, per i quali l’imposta liquidata viene richiesta al contribuente, ma solo in un secondo momento. La terza ipotesi concerne da un lato l’imposta principale per gli atti sottoposti ad omologazione ed approvazione giudiziaria e/o amministrativa, e dall’altro l’imposta principale per gli atti sottoposti a condizione sospensiva, ex art. 27, D.P.R. 131/1986. Al riguardo l’art. 14 del T.U. dispone che, per gli atti sottoposti ad approvazione od omologazione da parte della pubblica amministrazione o dell’autorità giudiziaria e quelli che non possono avere esecuzione senza che sia trascorso un intervallo di tempo fissato dalla legge, il termine per la richiesta di registrazione decorre dal giorno in cui il soggetto obbligato a richiederla ha avuto notizia del provvedimento di omologazione od approvazione o dal giorno in cui l’atto è divenuto eseguibile. Ma l’art. 27, comma 5, del T.U. dispone che il soggetto obbligato può di sua sponte richiedere la registrazione degli atti in questione anche prima dei termini fissati dall’art. 14, pagando l’imposta di registro in misura fissa, salva l’applicazione, nel momento in cui interverranno l’omologazione, l’approvazione o l’atto diverrà esigibile, dell’imposta principale (dalla quale deve essere stata detratta l’imposta fissa già assolta).

3 Secondo l’art. 17, comma 1 e 2 del D.P.R. n. 131/1986 «l’imposta dovuta per la registrazione dei contratti di locazione ed affitto di beni immobili esistenti nel territorio dello Stato nonché per le cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite degli stessi, è liquidata dalle parti contraenti ed assolta entro 30 venti giorni mediante versamento del relativo importo presso uno dei soggetti incaricati della riscossione ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 9 luglio 1997 n. 237. L’attestato di versamento relativo alle cessioni, risoluzioni e proroghe deve essere presentato all’ufficio del registro presso cui è stato registrato il contratto entro venti giorni dal pagamento». La prassi considera che la natura dell’imposta dovuta per la registrazione di questi atti giuridici è principale poiché essi stessi hanno natura autonoma ed innovano rispetto agli atti negoziali precedenti facendo infatti sorgere diritti in capo a persone diverse, e risolvono o prolungano nel tempo i passati rapporti contrattuali (si rinvia a ris. 18 giugno 1990, n. 260193).

L’art. 27 al comma 1, relativamente agli atti sottoposti a condizione sospensiva, statuisce che gli stessi sono registrati nel termine ordinario con il pagamento dell’imposta in misura fissa ed al comma 2 prevede la liquidazione dell’imposta proporzionale – calcolata secondo le norme vigenti all’atto della registrazione e al netto di quella fissa già pagata – quando la condizione verrà a verificarsi4. È evidente allora il diverso trattamento che il legislatore ha riservato agli atti sottoposti ad approvazione od omologazione rispetto agli atti sospensivamente condizionati. Infatti per i primi la registrazione è unica e si effettua al momento della conoscenza dell’omologa o dell’approvazione, a meno che sia l’obbligato stesso a scegliere volontariamente di anticiparla e di pagare l’imposta in misura fissa, ma in questo caso l’imposta finale che deve essere corrisposta al verificarsi degli eventi (approvazione o omologazione) conserva la sua natura di imposta principale e non complementare. Invece per gli atti “condizionati” la registrazione è duplice così com’è duplice l’assolvimento dell’imposta e la natura dell’imposta stessa a seguito del verificarsi della condicio è complementare. Le ipotesi appena delineate dimostrano allora che per applicazione dell’imposta al momento della registrazione non deve intendersi esclusivamente la determinazione dell’ammontare dovuto con il relativo pagamento, ma anche la mera individuazione dei presupposti di fatto e di diritto su cui basare la successiva quantificazione del tributo5. Tributo che come già anticipato viene determinato sulla base della differenza tra l’imposta effettivamente dovuta a seguito del verificarsi della condicio e quella originariamente pagata in sede di registrazione, la cui natura è da dottrina e giurisprudenza prevalenti pacificamente riconosciuta come complementare6. Infatti al riguardo il legislatore tributario nel formulare l’art. 42 del T.U. non ha lasciato spazio a dubbi o incertezze laddove si afferma esplicitamente che è principale solo l’imposta applicata al momento della registrazione, suppletiva quella applicata in seguito (se diretta a correggere errori od omissioni dell’ufficio) e complementare quella applicata in tutti gli altri casi. Nella fattispecie presentatasi ai giudici pisani l’imposta di registro e la tassa ipotecaria richieste al momento della registrazione avrebbero sì natura e carattere di imposte principali ai sensi della prima parte dell’art. 42, ma la previsione dell’evento sospensivo comporta automaticamente una duplice liquidazione dell’imposta, la

4 In dottrina così come in giurisprudenza si ritiene opinione consolidata nonché pacifica la circostanza di applicare agli atti sospensivamente condizionati l’imposta di registro in misura fissa. Si rinvia a titolo esemplificativo a NASTRI, L’imposta di registro e le relative agevolazioni, Milano,1993, 90 ss.; MONTESANO-IANNIELLO, Imposta di registro e imposte ipotecaria e catastale, Milano,1998, 132 ss.; JAMMARINO, Commento alla legge sulle imposte di registro, I , Torino, 1959; BERLIRI, Le leggi di registro, Milano, 1961 e infine RASTELLO, Il tributo di registro, Roma, 1955. Per la giurisprudenza si rinvia a Cass., 11 Maggio 1999, n. 4657, in Foro It., 1999, voce Registro (imposta), n. 10; Comm. trib. centr. 11 Aprile 1997, n. 1556, in Comm. trib., 1997, I, 274. Contrariamente non viene applicata l’imposta di registro in misura fissa allorquando gli effetti giuridici vengano fatti dipendere dalla mera volontà dell’acquirente o del creditore ed in presenza di atti di compravendita con riserva di proprietà in cui l’efficacia giu-

ridica dell’atto negoziale si considera manifesta ab origine(comma 3 art. 27). 5 Sul punto vedasi in giurisprudenza Cass., 13 giugno 2002 n. 8418, in banca dati fiscovideo. Per citazioni di dottrina si rinvia a PETRELLI, Atti soggetti ad approvazione, atti soggetti a condizione sospensiva ed imposta di registro, pubblicato in Studi e Materiali, a cura del consiglio nazionale del notariato, 2003, 1, 157. 6 La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie concordano sulla natura complementare dell’imposta di registro applicabile ad un atto sospensivamente condizionato(si rinvia per la dottrina a PETRELLI, Società di capitali:aumento di capitale e conferimento con atti separati, imposta principale di registro, in Riv. Not.,1996, 1367; C.N.N. (estensore PETRELLI), Ritardo nella registrazione e liquidazione dell’imposta principale di registro, 13 gennaio 1995 in C.N.N., Strumenti, voce 9010, 9.1 ss.). In giurisprudenza cfr. Cass., 8 Marzo 2001, n. 3415, in banca dati fiscovideo; Cass., 13 giugno 2002, n. 8418, in banca dati fiscovideo.


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prima al momento della registrazione dell’atto “condizionato” e la seconda e definitiva quando la stessa condizione apposta viene a verificarsi. Per cui è lo stesso elemento condizionante che “condiziona” la natura dell’imposta di registro e che la qualifica in tal modo come complementare. Si ha inoltre conferma di ciò dalla lettura dell’art. 19, D.P.R. 131/1986 il quale pone sul medesimo piano l’avveramento della condizione sospensiva agli eventi che danno luogo ad una liquidazione duplice del tributo7. Infatti le parti contraenti o i loro aventi causa e coloro nel cui interesse è stata richiesta la registrazione devono denunciare entro venti giorni all’ufficio che ha registrato l’atto l’avveramento della condizione ed ogni altro evento che dia luogo ad «ulteriore liquidazione dell’imposta». La natura complementare dell’imposta di registro perciò attiene a tutte quelle ipotesi nelle quali l’amministrazione finanziaria nella fase di determinazione dell’imponibile non ha a disposizione tutti gli elementi di fatto che sono necessari per la definitiva quantificazione del tributo o perchè questi stessi elementi non ancora si sono verificati o perchè non sono ancora conosciuti. E sicuramente un atto sospensivamente condizionato rientra in questa categoria essendo la condizione un elemento che sospende l’efficacia dell’atto e la subordina al suo avveramento. Un’imposta è quindi da ritenersi complementare quando, così come accade nel caso di specie, si aggiunge a quella liquidata ed assolta in sede di registrazione. Il termine “complementare”dal punto di vista fiscale individua proprio una forma di integrazione di una tassazione già avvenuta ma che non è però quella definitiva. In altri termini il quantum da pagare non è altro che il risultato della sommatoria tra l’imposta pagata all’atto della registrazione e quella assolta nel momento in cui è venuto in essere l’elemento condizionante. Le considerazioni suesposte relativamente alla disciplina dell’imposta di registro attengono anche alle imposte ipotecarie (e catastali) essendo anch’esse forme di imposizione legate a tutto ciò che riguarda la pubblicità immobiliare e a tutto ciò che concerne le formalità legate alle trascrizioni, alle annotazioni ed alle iscrizioni eseguite nei pubblici registri dello Stato a fronte di atti di compravendita, di donazioni, di successioni, iscrizioni ipotecarie e costituzione di usufrutto e di altri diritti. Infatti le imposte ipotecarie sono soggette, se non è diversamente disposto, alle stesse regole previste per l’imposta di registro e la relativa normativa di riferimento è dettata nel D.Lgs. 31 ottobre 1990 n. 347. Nell’art. 2 del citato decreto si stabilisce che l’imposta ipotecaria dovuta sulle formalità relative alle trascrizioni è commisurata alla base imponibile determinata ai fini dell’imposta di registro o dell’imposta sulle successioni e donazioni8. Nell’art. 11 si dispone ancora che sono obbligati al pagamento dell’imposta ipotecaria coloro che richiedono le formalità di cui

7 Un esempio concreto di evento riconducibile nell’ambito dell’art. 19 e che sia in grado di dare spazio ad una ulteriore liquidazione d’imposta è sicuramente quello relativo alle ipotesi di maggiore imposizione derivante dalla conoscenza differita delle rendite catastali. Infatti sono svariati i casi in cui, in riferimento ad atti aventi ad oggetto immobili privi di rendita catastale, sia il contribuente stesso a chiedere l’applicazione del procedimento di valutazione automatica. L’amministrazione finanziaria può chiedere l’eventuale maggiore imposta di registro (liquidata in base alle rendite catastali attribuite all’Ute successivamente alla registrazione dell’atto) nel termine di tre anni. In questo caso il maggior importo accertato dall’ufficio ha natura complementare (in giurisprudenza

all’art. 1 e le volture di cui all’art 10 ed i pubblici ufficiali obbligati al pagamento dell’imposta di registro o dell’imposta sulle successioni e donazioni. La disposizione procede asserendo inoltre che sono solidalmente obbligati all’assolvimento dell’imposta tutti coloro nel cui interesse è stata richiesta la formalità o la voltura. Anche per l’attività di accertamento e per il procedimento di liquidazione dell’imposta ipotecaria, per l’irrogazione delle sanzioni, per le modalità ed i termini della riscossione, e per la prescrizione si applicano ex art. 13 le disposizioni relative all’imposta di registro e a quella delle successioni e donazioni. A fronte allora di un atto giuridico sospensivamente condizionato dalle parti si prenderà in condizione il disposto normativo dell’art. 27, comma 1, D.P.R. 131/1986 anche in riferimento alle imposte ipotecarie essendo applicabile alle imposte ipotecarie come già sottolineato la disciplina legislativa dell’imposta di registro9. Differenze tra condizione sospensiva ed eventi successivi Abbiamo già anticipato che il legislatore tributario prevede nell’art. 19 del T.U. l’obbligo di denunciare all’ufficio del registro competente l’avveramento della condizione sospensiva eventualmente apposta ad un atto e la sopravvenienza di tutti quei fatti successivi alla registrazione che diano luogo ad un’ulteriore liquidazione d’imposta. L’obbligo di denuncia contemplato si riferisce quindi a tutta una serie di eventi successivi alla registrazione dell’atto in sé considerato i quali sono in grado di modificarne gli effetti giuridici rispetto a quelli enucleabili in un primo momento ovverosia rispetto agli effetti che l’atto aveva al momento della registrazione. La modifica di questi effetti fa scattare l’ulteriore liquidazione d’imposta. Se da questo punto di vista il dettato normativo non lascia spazio a dubbi interpretativi lo stesso non può dirsi invece per la genericità e l’indeterminatezza in cui il legislatore tributario è caduto nel riferirsi indistintamente ad una serie di “eventi” sopravvenuti idonei a modificare le originarie condizioni di tassazione di un atto. Per cui spetta all’operatore giuridico individuare quelle vicende che siano capaci di creare effetti del tutto nuovi rispetto a quelli verificatesi in sede di registrazione. Possiamo all’uopo fare riferimento a tutti gli atti che pur collegati a rapporti precedenti, costituiscono, pongono in essere o addirittura modificano effetti giuridici prodotti da negozi precedenti (transazioni, rettifiche, cessioni del contratto). Ma stante la genericità di questa previsione, differentemente da ciò che accade nell’ipotesi della condizione sospensiva, in cui la tassazione proporzionale fa seguito ad un’originaria applicazione dell’imposta in misura fissa, nel caso degli “eventi” sopravvenuti la tassazione originaria dell’atto potrebbe essere avvenuta con

cfr. Comm. trib. prov., Salerno, sez. XIV, sent. 16 aprile 1998, n. 296). L’attività di accertamento quindi si configura come una fattispecie a formazione progressiva della quale il relativo procedimento prevede un primo pagamento sulla base del valore dichiarato ed un altro ma eventuale di maggiore imposta e quindi di ulteriore liquidazione che implica la conoscenza successiva della rendita. 8 In materia di imposte ipotecarie e catastali la Cassazione ha avuto modo di affermare più volte che ove venga trasferito un complesso aziendale comprendente più beni immobili il fatto che a tali beni debba essere attribuito un identico valore sia ai fini dell’imposta di registro che di quella ipotecaria non fa venir meno la diversità propria di ciascuna imposta avente ad oggetto il

trasferimento di ricchezza per la prima e le formalità connesse alla circolazione dei singoli beni immobili per l’altra. Da tale diversità strutturale si è tratta la conseguenza che la base imponibile delle imposte ipotecarie va calcolata tenuto conto del valore del singolo bene immobile in se stesso considerato, e non anche delle passività dell’azienda in cui l’immobile è compreso (cfr. Cass. civ., sent. 9 settembre 2004, n. 18148; sent. 4 febbraio 2004, n. 2074; sent. 9 luglio 2003, n. 10751). 9 Anche la prassi dell’uffici finanziari si è concorde sull’armonizzazione della normativa dell’imposta di registro a quella ipotecaria (cfr. ris. Ministero delle Finanze, Dir. Gen. Tasse e Imposte dirette sugli affari, 28 gennaio 1993, n. 260032).


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qualunque criterio e dunque anche in misura proporzionale10. Tale genericità potrebbe comunque in qualche modo essere colmata facendo riferimento al fatto che in talune ipotesi sia stato il medesimo legislatore a prevedere il ricorso all’obbligo di denuncia ex art. 19, così come accade infatti per i contratti a tempo e a prezzo indeterminato, a fronte dei quali l’imposta è commisurata per i primi alla durata dichiarata dalle parti e per i secondi al prezzo pattuito, salvo poi per l’appunto denunciare l’eventuale maggiore durata o il conguaglio o rimborso del prezzo nel momento della determinazione effettiva del corrispettivo11. Altra fattispecie che può essere fatta rientrare all’interno della categoria degli eventi che possono dar vita ad «un’ulteriore liquidazione dell’imposta» è quella che concerne l’insieme dei fatti che comportano il venir meno della possibilità di fruire di determinate agevolazioni fiscali e quindi di poter godere di determinati benefici. L’amministrazione finanziaria al riguardo nonostante l’orientamento contrario della Suprema Corte sostiene l’obbligo di denuncia a fronte di fatti che non rendano più praticabile l’applicazione della normativa di favore12. Sembrerebbe comunque opportuno appoggiare l’orientamento della Cassazione in base alla quale l’obbligo di denuncia non sussiste soprattutto quando il trattamento di favore viene applicato in sede di liquidazione dell’imposta principale, poiché in questa ipotesi si è consapevoli che se alcune condizioni ed alcuni eventi previsti dalla stessa legge venissero a verificarsi entro un arco temporale definito, essi stessi avrebbero l’effetto di modificare la tassazione originaria. L’ufficio è infatti fin dall’inizio a conoscenza della circostanza che possono sopraggiungere dei fatti in grado di condizionare la sussistenza del trattamento di favore. In queste casi il sopravvenire di eventi modificativi della normativa di favore è già prevista nella legge o nel contratto e quindi l’ufficio già al momento della registrazione e dell’applicazione dell’imposta principale è consapevole della esistenza della possibilità che i benefici fiscali possono venire a cadere. In questo caso allora l’obbligatorietà della denuncia ex art. 19 non ha ragion d’essere. Viene a cadere infatti lo scopo informativo e conoscitivo a cui la denuncia tende poiché non ha senso comunicare all’ufficio un qualcosa che quest’ultimo già conosce o era in grado di prevedere ab origine. Laddove invece una determinata situazione o uno specifico fatto modificativi della tassazione originaria non possono essere presi in considerazione dall’ufficio fin dal momento della registrazione dell’atto e quindi a fronte di fatti non prevedibili, è necessario denunciare l’evento sopravvenuto, poiché esso non può essere conosciuto dall’ufficio in altro modo se non con l’atto di denuncia medesimo. Si pensi ad esempio al caso della tassazione agevolativa relativa all’acquisto di terreni edificabili inclusi in piani particolareggiati che viene a cadere laddove l’edificazione non venga completata e portata a termine entro un determinato periodo temporale. In questa ipotesi l’ufficio non può da solo venire a conoscenza dell’evento impeditivo né può prevedere fin dall’inizio la possibilità del mancato completamento edilizio. L’unico mezzo è proprio la denuncia che il soggetto obbligato è tenuto a presentare.

10 BASILAVECCHIA, La denunzia di eventi successivi alla registrazione, in C.N.N., studio n. 102-2008/T. 11 BASILAVECCHIA, La denunzia di eventi successivi alla registrazione, op. cit. 12 L’amministrazione finanziaria è intervenuta varie volte sulla questione ribadendo la sua posizione tesa a ritenere sussistente l’obbligo di denuncia(si rinvia a titolo esemplificativo, circ. 14 agosto 2002 n. 69/E). Per la giu-

L’imposta liquidata in seguito alla denuncia non può definirsi quindi né come imposta principale né come imposta suppletiva ma come imposta complementare a prescindere dalla possibilità che l’ufficio possa o meno conoscere fin dall’inizio la possibilità del sopraggiungere dell’evento modificativo della tassazione originaria. A seguito della denuncia infatti deve essere assolta e pagata un’imposta aggiuntiva ed integrativa a quella già adempiuta. La natura complementare dell’imposta esclude inoltre la responsabilità del pubblico ufficiale anche nel caso in cui sopravvenga un fatto che produca effetti nuovi rispetto a quelli che l’atto produceva originariamente. A riprova di ciò è emblematico il disposto dell’art. 19 il quale prevede l’obbligo di denuncia a carico delle parti contraenti o dei loro aventi causa e di coloro nel cui interesse è intervenuta la registrazione. Sempre a carico delle parti che hanno sottoscritto o avrebbero dovuto sottoscrivere la denunzia nonché in via solidale alle parti interessate al verificarsi della condizione sospensiva, è previsto l’obbligo di pagare l’imposta. Nessuna responsabilità è prevista quindi a carico del notaio, differentemente da quanto accade per l’ipotesi prevista nell’art. 14, T.U. disciplinante gli atti sottoposti ad approvazione od omologazione amministrativa o giudiziaria per i quali infatti spetta solo ed esclusivamente al pubblico ufficiale, a seguito del ricevimento della comunicazione dell’intervenuto provvedimento autorizzativo, a richiedere la registrazione, in conformità alla disposizione generale dell’art. 10, T.U. È il notaio rogante che ha l’obbligo di richiedere la registrazione e di assolvere l’imposta essendo la natura dell’imposta stessa principale. La medesima responsabilità sussiste anche se il notaio stesso decida di procedere alla registrazione volontaria dell’atto, secondo quanto dispone l’art. 27, comma 5, del T.U., prima che l’approvazione o l’omologazione intervengano, pagando l’imposta in misura fissa. Infatti a seguito del ricevimento della lettera raccomandata con cui il notaio viene avvisato dell’avvenuta approvazione o omologazione spetta a quest’ultimo presentare apposita denuncia all’ufficio e pagare l’imposta. Se invece il pubblico ufficiale non riceve la comunicazione in questione e quindi non effettua il pagamento o la denuncia, non può prospettarsi a suo carico alcuna forma di responsabilità per ritardo nella richiesta di registrazione o per ritardo nella effettuazione della denuncia. Di conseguenza il termine di venti giorni per richiedere la registrazione o effettuare la denuncia non inizia a decorrere. Da quanto appena enucleato è evidente il diverso trattamento normativo-fiscale che il legislatore tributario ha previsto per gli atti sospensivamente condizionati e per gli atti condizionati al venir in essere di una approvazione o omologazione amministrativa o giudiziaria. Tale affermazione va precisata nel senso che in relazione ai primi la disciplina fiscale non distingue tra condizione volontaria e legale mentre la dottrina e la giurisprudenza prevalenti considerano i secondi subordinati solo a condicio iuris13. Elemento comune agli atti condizionati ad un provvedimento di omologazione o approvazione è proprio l’esistenza di un atto la cui emanazione condiziona l’efficacia dell’atto. A differenza degli atti sottoposti a condizione sospensiva, nella condizione legale l’evento condizionante è un elemento esterno ed estrinseco al-

risprudenza della Cassazione che è di opinione contraria si rinvia a Cass., sez. trib., sent. 5 settembre 2003, n. 12988, nella quale i giudici sostengono che la denuncia scatta solo a fronte di specifici eventi quali l’avveramento di condizioni sospensive e simili ma non a fronte di perdite di benefici fiscali. 13 Si pensi ai contratti della pubblica amministrazione sottoposti ad approvazione tutoria, o alla configurabilità come condicio iuris

della figura dell’omologazione del concordato nella procedura fallimentare (si rinvia a SCIALOJA, Condizione volontaria e condizione legale, in Saggi di vario diritto, I, roma, 1927, 15 e 16). Per la giurisprudenza si rinvia a Cass., 8 luglio 1991, n. 7529, in Rass. Avv. Stato, 1991, I, 490 e Cass., 12 novembre 1992, n. 12182, in Foro It., 1992, voce Comune, n. 472.


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la fattispecie per cui ad essere sospesa non è la perfezione del negozio ma solo la sua efficacia secondo quanto disposto dall’art. 1353 c.c.14. Essendo le condizioni elementi la cui esistenza non pregiudica la perfezione del negozio, il loro mancato avveramento non tocca in alcun modo lo schema negoziale al quale erano state apposte. Inoltre gli effetti dell’approvazione o omologazione non retroagiscono alla data dell’atto, differentemente da quanto accade ex art. 1360, c.c. per le condizioni in base al quale «gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto, salvo che per espressa volontà della parti o per la natura del rapporto, gli effetti del contratto o della risoluzione debbano essere riportati ad un momento diverso». E quest’ultimo è sicuramente il motivo principale per il quale è stata prevista una disciplina fiscale diversificata degli atti soggetti ad approvazione od omologazione rispetto a quelli sottoposti a condizione sospensiva. Differenze tra l’atto di denunzia di evento ed atto ricognitivo dell’avveramento della condizione o di fatti sopravvenuti È possibile che le parti invece di denunciare all’ufficio del registro competente l’evento sopravvenuto idoneo a dar luogo ad «un’ulteriore liquidazione d’imposta» diano vita ad un atto giuridico vero e proprio nel quale si afferma la sussistenza dell’evento modificativo della tassazione originaria o l’avveramento della condizione sospensiva. In questi casi le parti pongono in essere un atto ricognitivo nel quale vengono dichiarati e specificati i diversi e nuovi effetti giuridici-fiscali collegati al fatto sopraggiunto o alla condizione avverata. Non c’è all’uopo nessuna disposizione che vieti alle parti di poter dare vita ad un simile atto. Ma è doveroso chiedersi se un atto di tal specie possa in qualche modo dirsi compatibile o meno con l’obbligo di denuncia. Innanzitutto occorre da subito chiarire che presentandosi l’atto ricognitivo del fatto o della condizione come un nuovo e secondo atto, esso in quanto tale ed in quanto dotato di specifica autonomia,

deve essere assoggettato alla registrazione dell’imposta in misura fissa e ad una procedura di registrazione e liquidazione specifica, differentemente da quanto accade per il semplice atto di denuncia, a fronte del quale si opera solo una seconda liquidazione d’imposta integrativa della prima già effettuata. C’è da dire inoltre che, come già ampiamente detto, a seguito della denuncia la natura dell’imposta da assolvere è sicuramente complementare mentre la costituzione ad opera delle parti dell’atto giuridico (ricognitivo) comportando una liquidazione distinta ed una applicazione dell’imposta in misura fissa avrà come conseguenza quella di considerare come principale la natura dell’imposta dovuta. Questo automaticamente andrà ad incidere e a modificare il regime di responsabilità delle parti in causa e del pubblico ufficiale che ha redatto l’atto in questione. Ma in linea generale nonostante queste differenze strutturali e di regime non si individua una incompatibilità tra denuncia e atto, essendo entrambi rivolti ad esplicare quella finalità informativa e conoscitiva a cui in materia tributaria e specificatamente nell’imposta di registro le dichiarazioni o le denunzie delle parti vengono ad assolvere15. Per cui ciò che veramente conta non è la forma degli atti con i quali le parti interessate portano a conoscenza l’ufficio dell’evento modificativo o della condizione sospensiva, ma la sostanza dei medesimi, a nulla influendo la circostanza che il mezzo informativo utilizzato sia una mera denuncia o un vero e proprio atto giuridico. Affinchè l’atto sostitutivo della denuncia assolva alla sua funzione informativa è necessario che le parti dichiarino che esso stesso sostituisce in toto la denuncia e il collegamento con il primo atto che è stato registrato ovverosia all’atto originario. In questo modo si procederà comunque alla ulteriore liquidazione dell’imposta complementare-integrativa dovuta in base all’atto originario e si procederà a tassare in misura fissa il secondo atto sostitutivo della denuncia. Di tal guisa non si verificherebbe né alcuna elusione del tributo dovuto, né alcuna duplicazione di prelievo né alcun rischio di doppia tassazione. Lo stesso interesse dell’erario ad un corretto esercizio del potere pubblico ed impositivo viene garantito esaurientemente.

LA RILEVANZA DELLA CAUSA DI FORZA MAGGIORE QUALE CIRCOSTANZA IDONEA A IMPEDIRE LA DECADENZA DALLE CD. AGEVOLAZIONI FISCALI “PRIMA CASA” 80

Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. II, 26 gennaio 2009, n. 5 Presidente: Nannipieri - Relatore: Mamone

Comune ove è ubicato l’immobile da adibire ad abitazione principale, non può pronunciarsi se non in assenza di cause di forza maggiore, ovvero di impedimenti oggettivi ed imprevedibili tali da costituire ostacolo alla realizzazione della fattispecie normativa; conseguentemente, laddove il contribuente sia venuto a conoscenza, successivamente all’acquisto, di cause impeditive del regolare svolgimento di lavori di ristrutturazione dell’immobile (nella specie, trattavasi di problemi concernenti l’impianto fognario) per i quali si sia regolarmente attivato presso gli uffici comunali per ottenerne In tema di acquisto della prima casa, la decadenza dal regime delle age- l’abitabilità, deve essere riconosciuta la causa di forza maggiore non circovolazioni fiscali, previste dalla disciplina dell’imposta di registro, a causa scritta all’esclusione dalle sanzioni, ma diretta a garantire il regime fiscadell’inosservanza del termine di diciotto mesi per trasferire la residenza nel le di favore.

Imposta di registro - Agevolazioni “prima casa” - Requisiti - Mancato trasferimento della residenza entro i 18 mesi - Fattispecie - Causa di forza maggiore - Sussistenza - Decadenza dal regime di agevolazioni fiscali - Esclusione (Tariffa, parte I, art. 1, nota II-bis; D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131)

14 L’articolo in questione così recita:«le parti possono subordinare l’efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto ad un evento futuro ed incerto». Emblematiche sul punto le

considerazioni di SCIALOJA, Condizione volontaria e condizione legale, op.cit., 13 che definisce le condizioni come circostanze future ed incerte che non riguardano l’essenza del ne-

gozio e che quindi sono estranee alla natura del rapporto giuridico. 15 BASILAVECCHIA, La denunzia di eventi successivi alle registrazione, op. cit.


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Con il ricorso oggetto del presente giudizio il sig. [...] si opponeva avverso avviso di liquidazione e irrogazione delle sanzioni notificato il 17 febbraio 2007 e relativo ai beni oggetto dell’atto registrato il 13 luglio 2005. Con tale atto il contribuente acquistava un fabbricato per civile abitazione nel comune di Portoferraio, chiedendo di usufruire dell’agevolazione “prima casa” di cui al Testo unico dell’imposta di registro (D.P.R. 131/1986). A tal fine, si impegnava a trasferire entro 18 mesi la residenza nel comune di Portoferraio. Trascorsi i 18 mesi senza il trasferimento della residenza, in data 17 febbraio 2007 l’ufficio revocava l’agevolazione. Il ricorrente chiedeva l’annullamento dell’atto impugnato, sostenendo che il mancato trasferimento della residenza era dipeso da causa di forza maggiore e che, comunque; il termine di 18 mesi doveva intendersi prorogabile nelle ipotesi di acquisto di immobile in costruzione o ristrutturazione. L’Agenzia delle Entrate, ufficio di San Miniato, confermava la legittimità del proprio atto e chiedeva il rigetto del ricorso, ritenendo che dalla dichiarazione d’intento relativa al trasferimento della residenza resa dal contribuente nell’atto di acquisto, conseguiva l’onere di trasferire effettivamente la residenza entro il termine, da considerarsi perentorio, di 18 mesi e che ciò non doveva, avvenire necessariamente nell’immobile acquistato. Il Collegio ritiene il ricorso fondato e, pertanto, meritevole di accoglimento. Per poter usufruire delle agevolazioni prima casa è necessario che l’abitazione oggetto dell’atto si trovi nel comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro 18 mesi dall’acquisto, la propria residenza. Decade dal beneficio il contribuente che non trasferisce entro detto termine la residenza. È opinione di questa Commissione che l’attenzione debba essere posta verso l’attività del contribuente, risultando determinante l’accertamento dell’imputabilità allo stesso del mancato rispetto del termine di 18 mesi. Occorre, quindi, accertare nel caso concreto, l’esistenza di situazioni che incidono sul ritardo, della effettiva iscrizione all’anagrafe e su cui lo stesso contribuente non abbia, possibilità di intervento. A parere del Collegio, l’esistenza di una causa di forza maggiore, non giustifica la sola inapplicabilità delle sanzioni (Agenzia delle Entrate, risoluzione 1 febbraio 2002), ma, deve portare al riconoscimento delle agevolazioni se detta circostanza sia stata causa del trasferimento della residenza oltre il termine di 18 mesi. In questo senso si è precisato che fa fede la data della dichiarazione di trasferimento resa dall’interessato al comune e non il successivo momento in cui risulterà accolta la richiesta di iscrizione all’anagrafe (Ministero delle Finanze, risoluzione 19 gennaio 2005, n. 20). La giurisprudenza, poi, si è più volte espressa nel senso di attribuire importanza alla imputabilità al contribuente del mancato, tempestivo trasferimento della residenza. Si è, quindi, ritenuto sufficiente richiedere la residenza entro il termine di legge, anche se la relativa concessione sia avvenuta una volta scaduto detto termine (Comm. trib. reg. Piemonte, 25.10.2006, n. 47). In altro caso è stata considerata causa di forza maggiore il ritardo burocratico del Comune nel rilascio del permesso di abitabilità (Comm. trib. Toscana, 8 novembre 2007, n. 46). Ancora, si è stabilito che il diritto ai benefici non si perdono quando il contribuente non trasferisca la residenza entro i 18 mesi dall’acquisto per causa di forza maggiore che, nella specie, era stata individuata nella infiltrazione dì acque dall’appartamento soprastante, che aveva fatto venire meno le condizioni igieniche di abitabilità (Comm. trib. reg. Lazio, 16 dicembre 2007, n. 168). La stessa amministrazione finanziaria ha ritenuto che non dia luogo a decadenza dall’agevolazione “prima casa” il mancato rispetto del termine di legge per il trasferimento della residenza

qualora ciò sia dipeso da un evento che, verificatosi successivamente all’acquisto dell’immobile, si concretizza in causa di forza maggiore per la sua imprevedibilità e inevitabilità. Nel caso in questione; l’immobile era stato dichiarato inagibile ed inabitabile con ordinanza del sindaco che aveva, quindi, revocato l’originario certificato di agibilità (risoluzione, 10 aprile 2008). Sempre l’amministrazione finanziaria ha precisato che «ricorre il caso di forza maggiore – come peraltro evidenziato dalla Corte di Cassazione, sez. 1 con sentenza n. 1616 del 19 marzo 1981 – quando si verifica e sopravviene un impedimento oggettivo non prevedibile e tale da non poter essere evitato, vale a dire un ostacolo all’impedimento dell’obbligazione, caratterizzato da non imputabilità alla parte obbligata, inevitabilità e imprevedibilità dell’evento» (risoluzione 1 febbraio 2002, n. 35E). Pertanto, il Collegio ritiene che il mancato stabilimento nel termine di legge della residenza nel comune ove è ubicato l’immobile acquistato con l’agevolazione “prima casa” non comporti decadenza, dall’agevolazione stessa qualora tale evento sia dovuto ad una causa di forza maggiore, sopraggiunta o conosciuta in un momento successivo rispetto a quello di stipula dell’atto. Occorre ora ricordare le varie tappe relative alla fattispecie oggetto del presente giudizio. In data 29 giugno 2005, veniva acquistato l’immobile sito nel Comune di Portoferraio che, per poter essere adattato ad uso di civile abitazione necessitava di lavori di ristrutturazione sia interni che esterni. Il 28 novembre 2005 veniva presentata al Comune la Dia per l’inizio delle opere di ristrutturazione. Il Comune, con nota del 24 marzo 2006, impediva al [...] di eseguire i lavori in quanto l’impianto fognario risultava non a norma. Specifica il ricorrente che, al momento dell’acquisto dell’immobile, non era a conoscenza di tale ultima circostanza. Ne è conferma il fatto che nella Dia era indicato che l’immobile era regolarmente allacciato alla fognatura. A seguito del parere negativo del Comune, veniva predisposto, un, progetto (presentato con istanza del 14 aprile 2006) che comportava, necessaria attesa dei pareri della sovraintendenza e dell’ente Parco. Sulla base di quanto ricostruito, la Commissione ritiene, che, il ritardo nella conclusione dei lavori è conseguentemente nel trasferimento della residenza entro 18 mesi, non sia imputabile al ricorrente per i seguenti motivi. Era inevitabile: infatti, senza la realizzazione del nuovo impianto relativo agli scarichi, il Comune non poteva rilasciare la certificazione di abitabilità. Era imprevedibile in quanto i problemi concernenti, l’impianto fognario sono emersi solo successivamente al contratto di acquisto dell’immobile, come si evince anche dal provvedimento con cui il Comune ordinava di sospendere i lavori fino alla messa a norma dell’impianto fognario. Si osserva, inoltre, che la residenza è stata rilasciata il 7 dicembre 2007, entro il termine di decadenza del potere di accertamento dell’ufficio (3 anni dalla stipula del contratto di acquisto). Pertanto, si deve ritenere che nel caso in esame, ricorra la forza maggiore caratterizzata da un impedimento oggettivo, imprevedibile, tale da non poter essere evitato, non imputabile al contribuente. Secondo l’ufficio la norma prevede che il trasferimento della residenza non deve avvenire necessariamente nell’immobile acquistato, potendo adempiersi ugualmente all’obbligo di trasferire la residenza attraverso l’affitto di un altro appartamento o stanza. Tale tesi non può essere condivisa. Appare infatti illogico e in contrasto con la ratio della legge diretta ad agevolare l’acquisto della prima casa di abitazione, in presenza di motivi in nessun caso imputabili al ricorrente, pre-


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tendere che lo stesso, per poter usufruire di un beneficio fiscale, La Commissione ritiene infine che, in considerazione della natudebba sopportare un onere economico che potrebbe annullare o ra della controversia, sussistono sufficienti motivi per compensaessere anche maggiore del risparmio di imposta. re tra le parti le spese di giudizio. Nota di Margherita Nuzzo Premessa La sentenza in rassegna offre lo spunto per riflettere sulla natura delle agevolazioni fiscali1 previste dall’ordinamento tributario, in specie di quelle connesse all’acquisto della cd. “prima casa”2, e sulla discussa ammissibilità della causa di forza maggiore quale circostanza idonea a impedire la decadenza dai benefici concessi. La questione sottoposta al vaglio dei giudici pisani trae origine dall’acquisto, da parte di un contribuente, di un immobile necessitante di lavori di ristrutturazione, interni ed esterni, per poter essere adibito ad abitazione principale, nel quale l’acquirente, al fine di usufruire delle agevolazioni fiscali «prima casa», dichiarava di trasferire la propria residenza entro i successivi 18 mesi dalla stipula dell’atto di compravendita. Trascorso tale periodo senza che il contribuente provvedesse al trasferimento di residenza, l’amministrazione finanziaria gli notificava un avviso di liquidazione con contestuale atto di irrogazione delle sanzioni, a mezzo dei quali revocava le agevolazioni fiscali concesse, così recuperando i maggiori importi dovuti per le imposte di registro, ipotecarie e catastali applicate nella misura ordinaria e comminava la sanzione pari al 30 per cento dei maggiori tributi accertati. Il contribuente impugnava tempestivamente l’atto impositivo e quello sanzionatorio eccependo che il mancato trasferimento di residenza non avrebbe dovuto, nel caso di specie, comportare la decadenza dalle agevolazioni fiscali, essendo dipeso da causa di forza maggiore a lui non imputabile, consistente nel ritardo nella conclusione dei lavori di ristrutturazione dovuto alla (inaspettata) scoperta che l’impianto fognario dell’immobile acquistato non fosse a norma. La Commissione tributaria adita, valorizzando l’incidenza di possibili situazioni estranee e non imputabili alla condotta del contribuente, accoglieva il ricorso da questi proposto ritenendo sussistere, nel caso concreto, una causa di forza maggiore, caratterizzata da un impedimento oggettivo, imprevedibile e tale da non poter essere evitato, sopraggiunto o cono-

1 La nozione di agevolazione fiscale non conosce, a tutt’oggi, una definizione univoca in dottrina. Alla concezione tradizionale (cfr. BERLIRI, Principi di diritto tributario, II, I, Milano, 1957, 207 ss. e GIANNINI, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 174 ss.) che – focalizzando l’attenzione sull’aspetto strutturale della norma agevolativa e distinguendo le esenzioni (esse ricorrono quando la norma sottrae all’applicazione del tributo una persona o un fatto che normalmente configurerebbero un presupposto impositivo) dalle esclusioni (queste si verificano quando la norma, nel delineare meglio i confini del presupposto del tributo, esclude dall’area impositiva fattispecie che già di per sé non vi rientrerebbero) – farebbe rientrare nel novero delle agevolazioni soltanto le esenzioni, si contrappone una tesi più moderna (si veda LA ROSA, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, diretto da AMATUCCI, Padova, 1994, 401 ss. e FICHERA, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, 26 ss.) che, ponendo in risalto i profili funzionali e finalistici dell’istituto, estende l’analisi del fenomeno agevolativo

sciuto dal contribuente in un momento successivo alla stipula dell’atto di acquisto dell’immobile che, in quanto tale, pur avendo comportato il ritardo nel trasferimento di residenza, configurava una circostanza esimente dalla decadenza dai benefici fiscali «prima casa». Ora, la decisione assunta dal Collegio pisano, pur apprezzabile, appare a nostro avviso discutibile sotto un duplice profilo. In primo luogo perché, trascurando di dar rilievo alle contrastanti opinioni registrate in materia in seno alla giurisprudenza di legittimità e di merito, ha ammesso, de plano, l’ingresso della causa di forza maggiore quale condizione comportante l’esclusione dalla decadenza delle agevolazioni fiscali correlate all’acquisto della «prima casa». Secondariamente, per aver considerato l’insorgenza di problemi legati all’impianto fognario dell’immobile un evento imprevedibile al momento del rogito e tale da non poter essere evitato dal contribuente pur se avesse adottato la diligenza del buon padre di famiglia. Il dibattito giurisprudenziale sull’(in)ammissibilità della causa di forza maggiore volta a preservare i benefici fiscali «prima casa» La giurisprudenza si è più volte interrogata sulle conseguenze derivanti dall’inottemperanza, da parte del contribuente, alla dichiarazione di intento resa in occasione della stipula del contratto di compravendita, dichiarazione con la quale l’acquirente, come detto, si impegna a stabilire la residenza, nei successivi 18 mesi, nel Comune ove l’immobile acquistato è ubicato. Precipuamente i dubbi sorti, in assenza di un’espressa disposizione normativa in tal senso, attenevano alla possibilità per il contribuente di continuare a godere delle agevolazioni fiscali «prima casa» nell’ipotesi in cui il mancato o intempestivo trasferimento di residenza fosse dipeso da causa di forza maggiore, vale a dire da una situazione determinante l’impossibilità della prestazione pattuita, causalmente riconducibile a fattori di cui il debitore non può essere chiamato a rispondere e operante, quindi, come limite alla sua responsabilità3.

anche a forme diverse dalle esenzioni e dalle esclusioni. Per una ricostruzione delle diverse concezioni elaborate dalla dottrina sulla nozione di agevolazione fiscale si rimanda a DAGNINO, Agevolazioni fiscali e potestà normativa, Padova, 2008, 15 ss. 2 La disciplina agevolativa in materia è stata introdotta, per la prima volta, dall’art. 1, comma 6, della L. 22 aprile 1982, n. 168, ma ha poi subito numerosi interventi legislativi culminati, alfine, nella L. n. 549 del 1995 che, introducendo la nota II-bis, all’art. 1 della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, ha sistematizzato l’assetto normativo oggi vigente. Tale regime di favore prevede, per gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà, della nuda proprietà, dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione di immobili non di lusso, l’applicazione dell’imposta di registro con aliquota del 3% in luogo di quella ordinaria del 7%, e il pagamento delle imposte ipotecarie e catastali nella misura fissa di euro 168 per ciascun tributo. L’agevolazione fiscale è concessa a condizione che: oggetto del trasferimento sia una casa di abitazione non di lusso; l’im-

mobile sia ubicato nel territorio del comune ove l’acquirente ha o stabilisca entro 18 mesi dall’acquisto la propria residenza o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria attività, ovvero, se trasferito all’estero per ragioni di lavoro, in quello in cui ha sede o esercita l’attività il soggetto da cui dipende; l’acquirente non sia titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, uso, usufrutto e abitazione di altro immobile ubicato nel Comune ove è situato quello da acquistare; l’acquirente non deve possedere altra abitazione per la quale abbia già usufruito delle agevolazioni fiscali «prima casa». Per un completo excursus normativo della disciplina agevolativa in esame, si legga IANNIELLO, Agevolazioni per l’acquisto della «prima casa», in inserto redazionale di Dir. e Prat. Trib., 2, 2006, 385 ss. 3 È singolare osservare che la formula «causa di forza maggiore», operante in materia di responsabilità civile da inadempimento e da illecito aquiliano, in quanto tradizionalmente accomunata al caso fortuito e considerata di esso una mera variante terminologica non


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Nel fornire una risposta a tale quesito i giudici di legittimità e di merito si sono assestati su due opposte posizioni: la prima volta ad ammettere la rilevanza della causa di forza maggiore quale elemento che impedisce la revoca dei benefici fiscali ottenuti; la seconda restia a concedere l’ingresso di tale esimente in materia di agevolazioni fiscali, ritenendo che la decadenza dai benefici «prima casa» non configuri una vera e propria sanzione, per la quale potrebbe assumere significato esimente la causa di forza maggiore, bensì una mera conseguenza della sopravvenuta mancanza di un elemento costitutivo del particolare regime agevolativo. Il primo orientamento enunciato, maggiormente favorevole alla posizione del contribuente, trova fondamento nella pronuncia n. 1616 del 19 marzo 1981 con la quale la Suprema Corte di Cassazione, pur se incidenter tantum e pur se in materia di agevolazioni fiscali relative ad appalti per la costruzione di abitazioni non di lusso ex art. 14 L. n. 408 del 1949, ha riconosciuto l’operatività del «caso della forza maggiore» quale circostanza idonea ad impedire la decadenza dalle agevolazioni fiscali godute, siccome caratterizzata dalla «non imputabilità alla parte obbligata, dalla inevitabilità, nonché dalla imprevedibilità»4. In tale pronuncia, tuttavia, la Cassazione ha considerato la rilevanza della causa di forza maggiore un pacifico presupposto del decisum, senza preoccuparsi di esplicitarne le ragioni che, verosimilmente, possano individuarsi sia nell’espressa previsione normativa che attribuiva rilievo a tale circostanza5, sia in considerazioni di carattere equitativo e di uguaglianza tra i contribuenti6. Nel solco di tale decisione, ed in ragione dell’assenza di una norma positiva che disciplini tale situazione, si sono incanalate una serie di successive pronunce giurisprudenziali che hanno dato

compare in nessuna delle norme contenute nel codice civile del 1942, rinvenendosi, al contrario, in numerose norme del codice della navigazione. Sulla identità di significato tra causa di forza maggiore e caso fortuito e sui tratti peculiari dell’esimente in esame si legga REALMONTE, voce enciclopedica Caso fortuito e forza maggiore, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., Torino, 1991, 248 ss. 4 Nella citata decisione, edita in Giust. Civ., 1981, I, 2034 ss., la Corte di Cassazione era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità o meno del provvedimento di revoca dei benefici fiscali accordati alla ricorrente dalla L. n. 408 del 1949, art. 14, che disponeva agevolazioni in favore di coloro che intendevano edificare abitazioni non di lusso. Nel caso di specie la ricorrente eccepiva che la mancata costruzione dell’immobile nel termine prescritto era dipesa da causa di forza maggiore, consistente nella revoca della licenza edilizia la cui motivazione era viziata da «travisamento dei fatti». Il giudice di legittimità, pur premettendo che la causa di forza maggiore possa, in astratto, impedire la decadenza dalle agevolazioni fiscali, ha ritenuto che in concreto essa non ricorresse in quanto la revoca della licenza edilizia era stata causata da un comportamento imputabile alla contribuente stessa. In detta circostanza la Corte di Cassazione ha ammesso, peraltro, la possibilità di dedurre, innanzi alla Commissione tributaria, l’illegittimità, per travisamento dei fatti, della revoca della concessione edilizia, potendosene, così, domandare la sua disapplicazione, ricollegandosi tale istanza non al generico interesse legittimo alla irrevocabilità della licenza edilizia, bensì allo specifico diritto soggettivo del contribuente,

per scontata l’ammissibilità dell’esimente della causa di forza maggiore in fattispecie aventi ad oggetto la pretesa decadenza dai benefici «prima casa». Procedendo con una concisa ricognizione di quelle più significative, richiamate secondo un ordine temporale, si segnala la pronuncia emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Salerno, n. 48 del 12 marzo 1998, la quale ha ritenuto non decaduto un militare dai benefici fiscali goduti per l’acquisto della prima casa, in virtù del fatto che il tardivo trasferimento della residenza nell’immobile acquistato non fosse dipeso dalla negligenza di questi, bensì dalle peculiari disposizioni contenute nell’ordinamento dell’Arma dei Carabinieri che rendevano definitivo il trasferimento richiesto non al momento della presentazione dell’istanza, questa tempestiva, ma a quello di «sostituzione avvenuta del personale»7. La Suprema Corte di Cassazione, poi, con sentenza n. 797 del 25 gennaio 20008, è ritornata sul tema statuendo che l’assenza di una norma che fissi un termine per il perseguimento degli scopi ai quali è subordinata la concessione dei benefici fiscali «prima casa» non esclude che il ritardo nella loro realizzazione possa essere giustificato quando rappresenti la conseguenza dell’ostacolo frapposto da circostanze obiettive sopraggiunte, fra le quali la Corte annoverava l’eventuale natura particolare del diritto reale acquistato (ad esempio, la mera nuda proprietà del bene)9, o la morte dello stesso acquirente. Sulla medesima lunghezza d’onda si è posto, in seguito, il giudice di legittimità il quale, con la sentenza n. 18756, emessa il 30 agosto 2006, ha ribadito la rilevanza della causa di forza maggiore quale fatto impeditivo della pretesa tributaria di revoca del beneficio «prima casa» avanzata dall’amministrazione finanzia-

nascente dal rapporto tributario, del quale sono giudici le Commissioni tributarie. 5 L’art. 20 della richiamata L. n. 408/1949 così recitava: «salvo il caso di forza maggiore, si decade dai benefici previsti nei precedenti articoli, qualora le nuove costruzioni, le ricostruzioni o gli ampliamenti non siano stati compiuti ai sensi ed entro i termini fissati dall’art. 13 e dall’art. 19. E nella stessa decadenza si incorre, salvo, sempre, il caso di forza maggiore, se i mutui preveduti nell’art. 18 non siano stati effettivamente adibiti alla costruzione delle case di cui all’art. 13 od al pagamento del prezzo di trasferimento». 6 Nello stesso senso IANNIELLO, Esclusa la decadenza dai benefici prima casa se l’inadempimento dipende da causa di forza maggiore, in Riv. Giur. Trib., 3, 2001, 268, la quale ritiene che negare rilievo al caso di forza maggiore rischierebbe di porre sullo stesso piano contribuenti in malafede ed acquirenti incolpevoli, oltre che significherebbe punire il contribuente per la mendacità di una dichiarazione che, in realtà, ha reso in assoluta buona fede. 7 La sentenza è reperibile in banca dati fisconline. Nel caso concreto, il contribuente, nel mentre prestava servizio in Sardegna, acquistava un immobile nel Comune di San Cipriano Piacentino usufruendo delle agevolazioni fiscali «prima casa». Egli, pur presentando nei termini la domanda di trasferimento, aveva ricevuto il provvedimento definitivo quando ormai era decorso il tempo massimo stabilito dalla norma fiscale per trasferire la residenza, circostanza che, a giudizio della Commissione tributaria provinciale di Salerno, configurava l’esimente della causa di forza maggiore. La questione, peraltro, è stata successivamente oggetto di previsione normativa (l’art. 66, com-

ma 1, della L. n. 342/2000) che ha ammesso, eccezionalmente, per il personale delle Forze Armate e di Polizia il diritto di usufruire della agevolazioni «prima casa» senza che sia richiesta la condizione della residenza nel Comune in cui è situato l’immobile acquistato. 8 In banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 9 La richiamata pronuncia – alla quale fanno eco le sentenze della Corte di Cassazione n. 7283 del 29 maggio 2001 e n. 4714 del 28 marzo 2003 (entrambe reperibili in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big), nonché la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Pescara n. 65 del 16 maggio 2002 (in banca dati fisconline) – fa riferimento alla disciplina delle agevolazioni fiscali per l’edilizia abitativa ante modifiche introdotte dalla L. n. 549/1995, le cui innovazioni sono state analizzate sub nota 2, normativa che non prevedeva un termine entro il quale destinare il bene a propria abitazione principale, limitandosi la norma a richiedere la sussistenza della dichiarazione d’intento resa dal contribuente e volta a manifestare il suo impegno a trasferire successivamente, sine die, la residenza nell’immobile acquistato. Nelle citate decisioni, aventi tutte ad oggetto fattispecie analoghe, i giudici aditi hanno ritenuto che non ricorrevano impedimenti oggettivi giustificanti il ritardo nel trasferimento di residenza, siccome gli acquirenti gli immobili, successivamente alla compravendita, avevano tenuto una posizione assolutamente passiva di fronte alla presenza di inquilini che occupavano illegittimamente le abitazioni acquistate, la cui circostanza, attesa l’inerzia dei proprietari, non poteva costituire un evento inevitabile.


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ria, ed ha delegato al giudice di merito l’accertamento e la valutazione giuridica se l’evento impeditivo dedotto dal contribuente (nel caso di specie trattavasi dell’annullamento del contratto di compravendita) potesse risultare idoneo a configurare una causa di forza maggiore estintiva dell’obbligo di trasferimento della residenza nell’immobile acquistato10. Da ultimo, nel 2007, la Cassazione ha nuovamente avallato la tesi della rilevanza della sopravvenuta causa di forza maggiore determinante l’illegittimità della revoca delle agevolazioni tributarie concesse, giustificando tale deduzione sulla base dei principi di trasparenza e conoscibilità degli oneri fiscali, nonché del principio secondo cui non possono essere poste a carico dei contribuenti conseguenze economico giuridiche per fatti ad essi non riconducibili né imputabili11. A contrastanti, meglio articolate e più restrittive conclusioni, viceversa, è giunta la Suprema Corte di Cassazione, anche a sezioni unite, che, facendo perno su una interpretazione puntuale della normativa fiscale in materia di agevolazioni, ha statuito che l’applicazione dell’ordinario regime impositivo nell’ipotesi del venir meno della finalità abitativa che abbia giustificato il godimento delle agevolazioni «prima casa», diversamente dalla sopratassa a questa connessa, non ha natura sanzionatoria di una condotta dell’acquirente dell’immobile, solo rispetto alla quale potrebbe assumere significato esimente la forza maggiore, ma consegue alla sopravvenuta mancanza di causa del beneficio invocato all’atto della registrazione dell’acquisto12. Di conseguenza il giudice di legittimità – anteponendo a ragioni di giustizia equitativa la necessità di realizzare, in ogni caso, gli obiettivi sottesi alla concessione dei benefici fiscali per l’acquisto della «prima casa», volti, mediante l’alleggerimento del carico fiscale, al concreto soddisfacimento abitativo dei contribuenti sprovvisti di un immobile – in molteplici situazioni ha precluso il richiesto riconoscimento delle circostanze che, in concreto, avevano impedito, per cause indipendenti dalla volontà del contribuente, il concretizzarsi degli obiettivi prefissati13. In buona sostanza, da tale orientamento giurisprudenziale sembrerebbe desumersi che la disciplina positiva e cogente del beneficio fiscale non può es-

10 In tale pronuncia, reperibile in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, la Corte di Cassazione risolveva la questione relativa alla legittimità della revoca dalle agevolazioni fiscali concesse ad alcuni contribuenti i quali, dopo aver acquistato una serie di fabbricati usufruendo dei benefici «prima casa», li avevano rivenduti immediatamente senza mai adibirli a propria abitazione principale. Nella detta controversia i ricorrenti eccepivano che la successiva (ri)vendita degli stessi beni immobili era stata determinata da una sopravvenuta causa di forza maggiore, concretizzata in un atto di citazione loro notificato da parte dei precedenti cedenti gli immobili i quali domandavano l’annullamento dell’atto di compravendita essendo stato violato il diritto di prelazione agraria in danno dei conduttori dei fabbricati stessi. L’amministrazione finanziaria, dal canto suo, deduceva che gli immobili oggetto della compravendita in questione non erano stati rivenduti dai contribuenti ai soggetti che vantavano il diritto di prelazione (vale a dire ai conduttori degli stessi), bensì a terzi, così smentendo la sussistenza di una causa di forza maggiore determinante l’impossibilità di trasferire la residenza negli immobili acquistati. 11 Ci si riferisce alla sentenza n. 18848, emes-

sere vinta dal sopraggiungere di eventi imprevedibili che ostacolano l’avveramento delle condizioni necessarie per usufruire dei vantaggi tributari, ragion per cui la loro revoca consegue alla sopravvenuta mancanza di causa del beneficio invocato dal contribuente all’atto della registrazione dell’acquisto, con la consapevolezza e la scienza che esso fosse subordinato al realizzarsi della condizione sospensiva, consistente nell’effettivo trasferimento di residenza. La posizione dell’amministrazione finanziaria Meno oscillante e più netta risulta la posizione assunta dal fisco in materia, avendo questi riconosciuto rilevanza alla causa di forza maggiore purché l’impossibilità di dare attuazione alle dichiarazioni rese in sede di rogito fosse dipesa da circostanze esterne ed oggettive rispetto alla volontà del contribuente e sopravvenute all’acquisto dell’immobile. Con riferimento a tali ipotesi l’amministrazione finanziaria ha ritenuto che la parte che acquisti un immobile già locato può conservare le agevolazioni fiscali godute se dimostri di essersi adoperata nei termini e con ogni mezzo per ottenere il rilascio dell’immobile14. In tale risoluzione il Ministero delle Finanze ha dichiarato l’inapplicabilità della sopratassa del 30 per cento, mancando l’elemento della mendacità della dichiarazione con la quale l’acquirente manifesta(va) la propria volontà di adibire l’immobile ad abitazione principale, ed ha, parimenti, escluso l’applicazione delle aliquote ordinarie per le imposte di registro, ipotecarie e catastali, visto il disposto degli artt. 1256 e 1354 del cod. civ. che estinguono l’obbligazione del debitore quando la prestazione è divenuta impossibile per cause ad esso non imputabili. Alle medesime conclusioni è, poi, pervenuto il fisco allorquando ha escluso la perdita dei benefici fiscali nell’ipotesi in cui il mancato trasferimento della residenza sia stato conseguenza di un evento sismico, occorso in pendenza del termine entro cui adempiere a tale obbligo15. Nella medesima circostanza, tuttavia, l’amministrazione finanziaria ha puntualizzato che, per poter beneficiare dell’esimente della causa di forza maggiore, il danneg-

sa dalla Corte di Cassazione il 7 settembre 2007 (in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big) avente, in realtà, ad oggetto le agevolazioni tributarie relative all’acquisto della piccola proprietà contadina. Nella fattispecie in esame, il contribuente ricorreva avverso l’avviso di liquidazione, notificatogli dall’ufficio di Cremona con il quale gli venivano revocati i benefici previsti per l’acquisto di un terreno agricolo sul quale egli non aveva assunto la diretta conduzione dei fondi lasciata, invece, in affitto a terzi. Al riguardo, il contribuente deduceva di aver inviato la disdetta agli affittuari ma che, in epoca successiva all’acquisto del terreno, era entrata in vigore la L. n. 203/1982 che prevedeva la proroga di 15 anni dei contratti di affitto e che, pertanto, legittimava gli affittuari a condurre il podere oggetto della compravendita per ulteriori 15 anni. La Cassazione, «decidendo in armonia con gli indirizzi in materia di acquisto della prima casa», ha dato rilievo a tale evento oggettivo e non imputabile all’acquirente che aveva impedito la coltivazione diretta del fondo, così annullando il provvedimento di revoca dei benefici fiscali. 12 È questo il principio cardine affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 2552 del 20 febbraio 2003 (in banca dati I quattro

codici della riforma tributaria Big), sul quale si adagiano tutte le decisioni contrarie alla rilevanza della causa di forza maggiore in materia di agevolazioni fiscali per l’acquisto della prima casa. 13 Si richiamano, a tal proposito, le sentenze emesse dalla Corte di Cassazione, a sezioni unite e semplici, n. 1196 del 21 novembre 2000, n. 1335 del 1 febbraio 2002, n. 2558 del 20 febbraio 2003, n. 12023 del 22 maggio 2006, nonché la decisione n. 23 del 6 marzo 2008 emessa dalla Commissione tributaria regionale di Bari. 14 Tanto si afferma nella risoluzione Ministero delle Finanze, Direzione generale tasse e imposte indirette sugli affari, n. 260369 del 30 agosto 1991, con la quale si è esaminata la situazione di un contribuente che, acquistato un immobile già occupato da terzi, si era prontamente ed efficacemente attivato per ottenere la celere disponibilità dell’appartamento, mediante invio di formale disdetta del contratto di locazione e, successivamente, mediante citazione in giudizio dei conduttori per sentirli condannare al rilascio dell’immobile. 15 Risoluzione Ag. Entrate, Dir. Norm. e Cont., n. 35/E del 1 febbraio 2002. Nel caso di specie si trattava del sisma avvenuto in Umbria nel 1997.


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giamento cagionato dal terremoto non deve aver riguardato il solo immobile acquistato dal contribuente, bensì tutti quelli situati nel medesimo Comune di appartenenza, posto che soltanto tale situazione avrebbe impedito la possibilità di trasferire la residenza “nel Comune” ove l’immobile è ubicato. Soltanto nel 2008 l’amministrazione finanziaria ha mitigato tale orientamento eccessivamente restrittivo, ammettendo che la causa di forza maggiore possa essere invocata anche quando l’evento sopravvenuto imprevedibile e inevitabile riguardi un singolo caso concreto e non già l’intero Comune ove è situato l’immobile acquistato16. Di converso, il fisco ha escluso che circostanze che attengono alla sfera soggettiva del contribuente, e da questi conoscibili o già conosciute al momento della compravendita, possano incidere sul provvedimento che revoca i benefici fiscali concessi che, quindi, conserva la sua validità. L’amministrazione finanziaria, difatti – chiamata a valutare se un medico decada dai benefici «prima casa» allorquando, pur obbligato in forza di accordo collettivo nazionale a risiedere nel Comune in cui svolge la professione, acquisti un immobile nel comune limitrofo alla sede di lavoro e in esso non potrà, tuttavia, trasferire la residenza a causa della richiamata normativa – ha deciso che la cogente norma che impedisca la fissazione della residenza nel Comune ove è ubicato l’immobile non possa costituire causa di forza maggiore, siccome già nota al contribuente al momento dell’acquisto dell’appartamento17. L’astrattezza del concetto di causa di forza maggiore e la difficoltà di riconoscere, volta per volta, la sussistenza di tale esimente Ora, dalla rassegna giurisprudenziale e della prassi sinora esposte si è notato che quando è stato attribuito rilievo alla sopravvenuta causa di forza maggiore, essa, per assumere significato concreto, doveva presentare i tratti della non prevedibilità, inevitabilità e non imputabilità al contribuente, e ciò benché la dottrina civilistica sostenga che la regola di responsabilità della forza maggiore non possa essere racchiusa in tali termini “soggettivi”, dovendosi necessariamente connotare dei caratteri dell’“oggettività”18. In altre parole, non sarebbe sufficiente sostenere che la forza maggiore inizia là dove finisce la diligenza del contribuente, potendo imputare al debitore anche la responsabilità per fattori causali non ascrivibili a colpa, in quanto caratterizzati da inevitabilità e imprevedibilità e, quindi, da assolutezza e oggettività. La difficoltà dei giudici, allora, qualora si consentisse l’automatico ingresso dell’esimente della forza maggiore nelle ipotesi di concessione dei benefici fiscali per l’acquisto «prima casa», consisterebbe nel distinguere, caso per caso, tra fattori causali oggettivi tout court, che determinano l’impossibilità della prestazione ma dei quali il debitore è tenuto comunque a rispondere, e fattori causali oggettivi che integrano gli estremi della forza maggiore, individuati dalla dottrina in tutti quegli eventi che risultano estranei al «rischio tipico» connesso all’attività svolta dal debitore ed al suo concreto svolgimento, e che, viceversa, escludono la responsabilità del contribuente/debitore.

16 Ci riferiamo alla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate, n. 140/E del 10 aprile 2008, edita in banca dati fisconline con nota di MONTESANO, Agevolazioni “prima casa”: gli effetti del mancato stabilimento della residenza per causa di forza maggiore, in Fisco, 22, 2008, 375, che esamina il caso di un contribuente impossibilitato a stabilire la propria residenza nell’immobile acquistato a causa di abbondanti infiltrazioni d’acqua provenienti

Volendo contestualizzare i principi appena illustrati alla fattispecie sottoposta al sindacato dei giudici Pisani, occorre verificare se il mancato o tardivo trasferimento di residenza da parte del contribuente nell’immobile acquistato possa rappresentare la conseguenza di una causa di forza maggiore. La Commissione tributaria provinciale di Pisa ha risposto in termini affermativi a tale quesito, ritenendo non imputabile al contribuente il descritto ritardo, determinato dall’emersione di problemi dell’impianto fognario dell’immobile che avevano impedito, a seguito di ordinanza notificata dal Comune, la prosecuzione dei lavori di ristrutturazione dell’abitazione sino alla messa a norma del medesimo impianto. A giudizio della Commissione, difatti, il tardivo trasferimento di residenza era inevitabile, in quanto senza la realizzazione del nuovo impianto relativo agli scarichi il Comune non poteva rilasciare la certificazione di abitabilità, ed imprevedibile, posto che i problemi concernenti l’impianto fognario sono emersi solo successivamente al contratto di acquisto dell’immobile. Qualche perplessità, a nostro avviso, suscitano le conclusioni alle quali sono giunti i giudici nella sentenza in rassegna, e ciò sia che si intenda aderire alla tesi che esclude la responsabilità del contribuente quando questi abbia utilizzato la diligenza del buon padre di famiglia, sia che si sposi la posizione ancor più rigorosa per cui la causa di forza maggiore deve riconoscersi al sopraggiungere di eventi oggettivi estranei al «rischio tipico» connesso all’attività svolta dal soggetto agente. Invero, nel caso di specie si reputa che il comportamento adottato dal contribuente in fase di acquisto dell’immobile sia stato per certi versi imprudente e comunque non del tutto improntato all’agire diligente, non avendo egli domandato, come solitamente avviene nella prassi, le certificazioni relative alla regolarità dell’impianto fognario dell’immobile da acquistare e ciò soprattutto in considerazione dei lavori che avrebbe dovuto eseguire per rendere il fabbricato idoneo a svolgere la funzione di civile abitazione, il cui certificato di abitabilità presuppone necessariamente la regolarità dell’impianto fognante19. Qualora il contribuente avesse adottato un simile comportamento che, del resto, non può dirsi travalicare il normale dovere di diligenza richiesto all’acquirente di un immobile, avrebbe potuto forse rilevare per tempo la non conformità a legge dell’impianto e, quindi, avrebbe probabilmente potuto rimandare l’acquisto dell’immobile, e con esso la relativa assunzione dell’obbligo di trasferirvi la residenza, ad un momento successivo alla messa a norma dell’impianto. Nel caso di specie, peraltro, ulteriore spia di un comportamento “superficiale” adottato dal contribuente, che esclude, a nostro avviso, l’inquadramento tra le cause di forza maggiore a giustificazione dell’inadempimento dell’obbligazione assunta, si individua nella circostanza che questi ha presentato al Comune di Portoferraio la Dia (Dichiarazione di inizio attività), con la quale domandava l’autorizzazione ad intraprendere i lavori di ristrutturazione dell’immobile acquistato, ben cinque mesi dopo la compravendita dell’immobile, pur consapevole che tutti i gravosi lavori di ristrutturazione interna ed esterna avrebbero dovuto ultimarsi entro i 18 mesi dal suo acquisto.

dal tetto, a seguito delle quali, con ordinanza del sindaco, la casa era stata dichiarata inagibile e inabitabile. 17 Risoluzione Ag. Entrate, Dir. Gen. Tasse e Imposte, n. 76/E del 26 maggio 2000. 18 Per una completa ricognizione dei presupposti e dei caratteri richiesti dalla dottrina e dalla giurisprudenza per integrare la causa di forza maggiore si veda GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 635 ss.

19 È pacifico, del resto, che fra i documenti che il venditore è tenuto a consegnare all’acquirente del bene rientra, nel caso di cessione di un appartamento, il certificato di abitabilità che costituisce requisito indispensabile ai fini della realizzazione della funzione economico-sociale dell’oggetto del contratto (così, ex multis, Cass. civ., n. 8880 del 2000 in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big).


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Osservazioni conclusive Le difficoltà incontrate, anche dai giudici pisani, nell’individuare se, in concreto, ricorrono gli estremi per evocare la sussistenza della causa di forza maggiore e la natura delle agevolazioni fiscali concesse per l’acquisto della «prima casa» permettono di trarre alcune considerazioni sul tema. Innegabilmente, il pregio da attribuire alle decisioni che escludono rilevanza alla causa di forza maggiore è da individuarsi nel rigore ermeneutico adottato dai giudici i quali preferiscono ancorarsi saldamente al dettato legislativo, senza travalicarne i limiti, in guisa da evitare che un’interpretazione estensiva del testo normativo, che dispone agevolazioni fiscali, possa consentire l’ingresso, mirante ad escludere la decadenza dai benefici stessi, anche a fattispecie analoghe alla causa di forza maggiore, quali, ad esempio, ai “giustificati motivi”. La scelta contraria, difatti, comporterebbe l’usuale violazione della ratio connaturata ai benefici fiscali concessi per l’acquisto dell’abitazione principale, nonché una gravosa attività ermeneutica affidata ai giudici di merito chiamati, di volta in volta, a tipizzare il significato, altrimenti

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sfuggente, dell’istituto della causa di forza maggiore e di quelli affini, con conseguente proliferare del contenzioso in materia. Per contro, ragioni di equità e di giustizia contributiva indurrebbero a favorire le pronunce che accordano peso alla causa di forza maggiore quale circostanza che, operando come limite alla responsabilità del contribuente, impedirebbe a questi di decadere dalle agevolazioni fiscali «prima casa» e di subire un irragionevole trattamento discriminatorio rispetto a quei contribuenti che, per sorte, non sono stati colpiti dall’alea e dalla scure di un evento oggettivo, imprevedibile e inevitabile. Tale soluzione, del resto, sotto il profilo squisitamente giuridico, sarebbe giustificata dalla circostanza che la decadenza dalle agevolazioni fiscali, con conseguente applicazione della sopratassa pari al 30 per cento dei maggiori tributi accertati, contrariamente a quanto ritenuto dalla Suprema Corte di Cassazione nel 200320, difficilmente potrebbe non integrare un’ipotesi sanzionatoria, dovendosi e potendosi, di conseguenza, ritenere invocabile la causa di forza maggiore quale circostanza esimente dalla decadenza dai benefici fiscali «prima casa»21.

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XX, 10 luglio 2009, n. 104 Presidente e Relatore: Meloncelli

Imposta di registro - Contratto sottoposto a condizione sospensiva - Imposta proporzionale pagata dopo l’avveramento della condizione - Natura di imposta principale - Termine di notifica dell’avviso di rettifica e liquidazione - Decorrenza dal pagamento dell’imposta principale proporzionale (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 27, 42 e 76)

so di rettifica e liquidazione doveva essere notificato entro due anni dal pagamento dell’imposta proporzionale, successivo all’avveramento della condizione. La proroga biennale del termine di notifica dell’avviso di rettifica e liquidazione della maggiore imposta di registro, di cui all’art. 11 della legge n. 289 del 2002, opera anche nel caso in cui l’accertamento abbia ad oggetto il valore dichiarato dalle parti a seguito dell’avveramento della condizione sospensiva apposta al contratto da registrare

Imposta di registro - Dichiarazione di avveramento della condizione sospensiva apposta ad un contratto - In materia di imposta di registro da applicare ad un atto di cessione con coAvviso di rettifica e liquidazione dell’imposta di mag- stituzione di rendita vitalizia, la base imponibile è costituita dal maggiore fra gior valore - Termine di notifica - Proroga biennale ex il valore dei beni ceduti ed il valore della rendita. art. 11 della legge n. 289 del 2002 - Operatività (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 76; L. 27 dicembre 2002, n. Svolgimento del processo 289, art. 11) 1. L’incoazione del giudizio d’appello e la costituzione delle parImposta di registro - Atti e contratti - Atto di cessione ti. con costituzione di rendita vitalizia - Base imponibile 1.1. Il 1 ottobre 2004 è notificato all’ufficio di Roma 4 dell’A- Valore dei beni ceduti e valore della rendita - Rile- genzia delle Entrate, di seguito anche “ufficio” o “appellato”, vanza del maggiore dei due l’appello del signor B.B., di seguito anche “contribuente” o “ap(D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 46) pellante” contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale (Comm. trib. prov.) di Roma 18 gennaio 2007, La registrazione dei contratti sottoposti a condizione sospensiva avviene me- n.120/56/2007, depositata il 6 luglio 2007, che ha respinto il ridiante il pagamento di un’imposta principale ad applicazione duplice, in mi- corso del contribuente contro l’avviso di rettifica e di liquidaziosura fissa all’atto della richiesta di registrazione ed in misura proporzionale ne dell’imposta di registro n. 1997 serie 1 V, n. 41549 sull’atto di dopo la dichiarazione di avveramento della condizione. Pertanto, anche pri- cessione con costituzione di rendita vitalizia registrato il 27 ottoma della modifica apportata all’art. 76, comma 1-bis, del D.P.R. n. 131 bre 1997. del 1986 dalla legge n. 28 del 1999 – che, nel fissare la decorrenza del ter- 1.2. Copia dell’atto d’appello è depositata presso la Comm. trib. mine biennale per la notifica dell’avviso di rettifica e liquidazione dell’impo- prov. il 14 ottobre 2008. sta di maggior valore ha sostituito il riferimento al pagamento dell’imposta 1.3. L’ufficio appellato si costituisce in giudizio, presentando le “principale” con quello al pagamento dell’imposta “proporzionale” – l’avvi- proprie controdeduzioni.

20 Si rimanda alla nota 12. 21 Nulla quaestio sulla rilevanza degli istituti del caso fortuito e della causa di forza maggiore anche nel sistema sanzionatorio tributario posto che, pur mancando nella Legge di modifica al sistema penale, n. 689 del

24 novembre 1981, l’espressa previsione di tali esimenti, non può dubitarsi dell’applicabilità delle stesse in quanto desumibili o dall’art. 3, comma 1, della citata legge, secondo cui «[...] ciascuno è responsabile della propria azione o omissione, cosciente e volon-

taria, sia essa dolosa o colposa», o in quanto mutuabili direttamente dal codice penale. Sul tema si veda amplius, DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 313.


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2. I fatti di causa. 2.1. Il provvedimento impugnato. a) con atto di «cessione con costituzione di rendita vitalizia» del 15 ottobre 1997, registrato il 27 ottobre 1997, serie IV, numero 41459, il signor B.B. cede alla società farmacia B. dei dott. B. e L. B. S.n.c. l’azienda di farmacia sita in Roma, Ostia antica, viale dei Romagnoli 753, dichiarando nell’atto di cessione un valore di lire 567.00.000, di cui lire 540.000.000 per avviamento commerciale e lire 27.000.000 per attrezzature, stigliature ed arredi; in forza degli art. 5 e 11 dell’atto di cessione, esso è sottoposto alla condizione sospensiva del riconoscimento del trasferimento, da parte del sindaco del Comune di Roma, della proprietà della farmacia; b) il 16 giugno 1998 il contribuente presenta la denuncia di avveramento della condizione sospensiva, che è registrata il 3 luglio 1998 (dato desunto dall’avviso di rettifica e di liquidazione impugnato); c) il 19 luglio 2001 il contribuente paga l’imposta di registro conseguente alla verificazione della condizione sospensiva cui è sottoposto l’atto registrato il 27 ottobre 1997; d) il 7 maggio 2005 è notificato al signor B.B. l’avviso di rettifica e di liquidazione dell’imposta di registro, con il quale il valore venale del bene oggetto della cessione è determinato in lire 2.613.496.000, pari ad euro 1.349.758,25, ripartito in lire2.586.496.400 (euro 1.335.813,91) per avviamento commerciale e in lire 27.000.000 (euro 13.944,34) per arredi e stigliature; si pretendono, di conseguenza, euro 41.378,70 a titolo di maggior imposta complementare di registro (euro 31.707,81 e interessi per euro 9.670,89); 2.2. Il ricorso introduttivo del contribuente. 2.2.1. I motivi di ricorso. Il ricorso alla Comm. trib. prov. del signor B.B. è sostenuto con quattro motivi: 1) decadenza dell’ufficio per tardività della notificazione dell’avviso di accertamento e di liquidazione; 2) violazione della tabella del diritto di usufrutto a vita ex D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; 3) carenza di motivazione; 4) erronea determinazione quantitativa dell’imponibile. 2.2.2. Le conclusioni del ricorso introduttivo Il contribuente conclude il suo ricorso introduttivo, chiedendo l’annullamento dell’avviso di rettifica e di liquidazione e il rimborso di tutte le somme non dovute, e il riconoscimento della vittoria delle spese processuali. 2.3. La sentenza della Comm. trib. prov. 2.3.1. La motivazione della sentenza di primo grado. La sentenza della Comm. trib. prov., oggetto del ricorso in appello, è così motivata: a) «in ordine all’eccezione di prescrizione va sottolineato che tale termine, decorrente dalla data di pagamento dell’imposta proporzionale, avvenuta il 19 luglio 2001, è stato prorogato di altri due anni dalla legge 289/2002, per cui il termine definitivo è fissato, per il caso di specie al 19 luglio 2005 (due anni e 2 ex lege 289)»; b) «nel merito si osserva che la circostanza di trovarsi di fronte ad un atto di trasferimento d’azienda con costituzione di rendita vitalizia, non giustifica il suo accertamento secondo i criteri previsti dal legislatore per le donazioni ma può solo essere valutato con minore rigore dall’ufficio e dal giudice. Nel caso di specie appare del tutto evidente che l’eccezione posta dal ricorrente è quella dell’assoluta intassabilità e non della sua proporzionalità che, comunque, l’ufficio ha eseguito, a prescindere dall’esame del parere depositato dall’ufficio, in quanto ha tenuto nel debito conto sia la circostanza che vi era, comunque, una rendita vitalizia e che il passaggio avveniva a favore di un parente già titolare di una parte di azienda. Occorre preliminarmente eseguire l’indagine sulla natura dell’atto di rendita vitalizia, [...] al fine di accertare se esso non è, invece, inquadrabile nella figura del negotium mixtum cum donatione. Nel contratto in esame pare del tutto

mancante il principio dell’esistenza dell’aleatorietà proprio di esso (in mancanza del quale non si può parlare di una rendita vitalizia). Infatti detto elemento, in caso di trasferimento di azienda con costituzione di rendita, non è richiesto e non è influente solo nel caso in culla volontà delle parti [abbia] previsto che la rendita sia inferiore alla rendita effettiva desunta dalla redditività dell’azienda. Poiché tale volontà non è stata espressa anche in relazione alla circostanza che non è stata indicata la redditività dell’azienda, deve rilevarsi che esso è un negotium mixtum cum donatione nel quale non può più tenersi conto dell’aleatorietà del contratto di rendita vitalizia in quanto le parti io hanno espressamente escluso». 2.3.2. Il dispositivo della sentenza di primo grado. La sentenza della Comm. trib. prov. di Roma 18 gennaio 2007, n. 120/56/1997, depositata il 6 luglio 2007, «rigetta il ricorso» e compensa fra le parti le spese processuali. 2.4. L’appello del contribuente. 2.4.1. I motivi d’appello. L’appello del contribuente è sostenuto con cinque motivi d’impugnazione. 2.4.2. Le conclusioni dell’appello. L’appello si conclude con la richiesta che sia riformata la sentenza di primo grado e che sia annullato l’avviso di accertamento e che sia disposto il rimborso di tutte le somme non dovute pagate in pendenza di giudizio, maggiorate di interessi c) resiste l’ufficio appellato, costituendosi in giudizio. 2.5. La costituzione dell’appellato. L’ufficio appellato si costituisce in giudizio, presentando le proprie controdeduzioni. Motivi della decisione 3. Il primo motivo d’appello. 3.1. La rubrica del primo motivo d’appello. Il primo motivo d’appello è fornito della seguente rubrica: Tardività dell’accertamento. 3.2. La motivazione del primo motivo d’appello. Il contribuente appellante sostiene che sarebbe «tardivo l’accertamento perché notificato in data 7 luglio 2005 (dopo sette anni dalla registrazione dell’atto) e quindi ben oltre i termini di decadenza previsti dalla norma (due anni e 2 ex lege 289), decorrenti dalla data di registrazione dell’atto e di contestuale pagamento dell’imposta principale fissa di registro (27 ottobre 1997 [...]) e non, come erroneamente ritenuto dall’ufficio e dai giudici di primo grado, dalla data di pagamento dell’imposta complementare di registro successivamente liquidata dall’ufficio (19 luglio 2001)». 3.3. La valutazione del primo motivo d’appello da parte della Comm. trib. reg. Il motivo è infondato per le ragioni qui di seguito esposte. 3.3.1. La fattispecie controversa. Anzitutto, dev’essere precisata la struttura della fattispecie controversa. I fatti elementari costituenti la fattispecie sono costituiti: a) dalla sottoposizione a registrazione, il 27 ottobre 1997, di un atto di «cessione di farmacia con costituzione di rendita vitalizia», sottoposto alla condizione sospensiva del riconoscimento dei trasferimento, da parte del Sindaco del Comune di Roma, della proprietà della farmacia; b) il 27 ottobre 1997 il contribuente paga l’imposta principale fissa di registro, secondo la qualificazione fornita dallo stesso appellante nei suo atto d’impugnazione, alla pagina 3, righe 17-18; c) dopo l’avveramento della condizione sospensiva, portato a conoscenza dell’ufficio con denuncia del contribuente del 16 giugno 1998, il contribuente paga, il 19 luglio 2001, una somma che la Comm. trib. prov. qualifica con il solo aggettivo “proporzionale” e che l’appellante qualifica, inve-


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ce, come «imposta complementare di registro», secondo la tesi esposta anche in sede di pubblica udienza; d) infine, il 7 maggio 2005 è notificato al signor B.B. l’avviso di rettifica e di liquidazione dell’imposta di registro. 3.3.2. La qualificazione giuridica dei fatti componenti della fattispecie controversa Per la qualificazione giuridica dei fatti componenti la fattispecie controversa si deve tener conto delle seguenti disposizioni normative: a) l’art. 27.1, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, prevede che «gli atti sottoposti a condizione sospensiva sono registrati con il pagamento dell’imposta [di registro] in misura fissa»; b) l’art. 19.1, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, dedicato alla «denuncia di eventi successivi alla registrazione», stabilisce che «l’avveramento della condizione sospensiva apposta ad un atto ... che, a norma del presente testo unico, [dia] luogo ad ulteriore liquidazione dell’imposta [deve] essere denunciat[o] entro venti giorni, a cura delle parti contraenti [...] all’ufficio che ha registrato l’atto al quale si riferisc[e]»; c) l’art. 27.2, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, prevede che «quando la condizione si verifica si riscuote la differenza tra l’imposta [di registro] dovuta secondo le norme vigenti al momento della formazione dell’atto e quella pagata in sede di registrazione». In base a tali disposizioni normative si può con sicurezza affermare: a) che il pagamento effettuato dal contribuente il 27 ottobre 1997 è quello dell’imposta di registro in misura fissa, perché l’atto da registrare era sottoposto a condizione sospensiva (art. 27.1, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131); b) che la denuncia del contribuente del 16 giugno 1998 è adempitiva dell’obbligo ex art. 19.1, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; c) che il pagamento effettuato dal contribuente il 19 luglio 2001 è quello della differenza d’imposta corrente tra l’imposta di registro dovuta in misura proporzionale, in quanto imposta indiretta sul valore dell’affare oggetto dell’atto registrato, e l’imposta di registro dovuta, e già pagata, in misura fissa, in quanto tassa sul servizio della registrazione di un atto privo temporaneamente di quegli effetti, dimostrativi di capacità contributiva, che si sono prodotti solo dopo l’avveramento della condizione sospensiva. 3.3.3. La qualificazione dell’imposta pagata il 19 luglio 2001. Sull’imposta di registro pagata il 19 luglio 2001 si fronteggiano due posizioni: da un lato, la Comm. trib. prov. ritiene che essa sia “imposta proporzionale” (pagina 2, riga 17, della sentenza appellata, qui riprodotta nel paragrafo 2.3.1.a); dall’altro, il contribuente sostiene in sede di appello che essa sarebbe un’imposta complementare di registro. La tesi del contribuente non può essere condivisa e quella della Comm. trib. prov. è esatta, ma dev’essere integrata. 3.3.3.1. Infondatezza della tesi del contribuente. La tesi del contribuente non può essere condivisa per le ragioni qui di seguito esposte. L’appellante non ha addotto nell’atto d’impugnazione, a sostegno della sua tesi, alcuna specifica argomentazione, ma il suo difensore ha sostenuto, in sede di udienza pubblica di trattazione della causa, che la qualificazione del pagamento del 19 luglio 2001 come imputabile a titolo d’imposta complementare discenderebbe dall’alt. 42.1 D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, secondo il quale «è principale l’imposta applicata al momento della registrazione; è suppletiva l’imposta applicata successivamente, se diretta a correggere errori od omissioni dell’ufficio; è complementare la imposta applicata in ogni altro caso». Poiché il pagamento del 19 luglio 2001 – è la tesi dell’appellante – è successiva al momento della registrazione e non sarebbe, quindi, un’imposta principale, e poiché, d’altra parte, si dovrebbe escludere, per ragioni di per sé evidenti, che si tratti di imposta suppletiva, non resterebbe che ascriverlo al titolo dell’imposta complementare. Per verificare se il ragionamento sia esatto, occorre verificare, co-

me sempre si deve fare quando il legislatore espone in un elenco i risultati delle sue classificazioni per generi e per specie, quali siano i criteri differenziali adottati per l’individuazione delle specie e se le specie individuate siano dello stesso ramo di classificazione e se esse appartengano allo stesso genere. Solo al termine di questo delicato lavoro di esplicitazione del ragionamento di classificazione si può operare l’inserimento del caso controverso in una delle categorie di genere/specie impiegate dal legislatore. Applicando a tal fine il metodo e il lessico porfiriani, si rileva che il legislatore assume come genere sommo l’imposta di registro e che egli dichiara espressamente di adottare tre criteri differenziali per determinarne le specie: 1) «l’applicazione dell’imposta al momento della registrazione» in contrapposizione ai «momenti successivi a quello dell’applicazione dell’imposta al momento della registrazione»; 2) la «correzione di un errore o di un’omissione dell’ufficio» in contrasto, implicito, con la «non correzione di un errore o di un’omissione dell’ufficio»; 3) «l’applicazione dell’imposta in ogni altro caso» in contrapposizione ad un secondo criterio della coppia concettuale di contrasto, che si può indicare solo con il simbolo X, perché esso non viene specificamente indicato e non si lascia nemmeno determinare per implicito. Contestualmente a tali enunciati e in applicazione di essi il legislatore elenca quelle tre specie di imposta di registro che trovano ospitalità nell’art. 42, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131: imposta principale, imposta suppletiva e imposta complementare. Questi dati devono, ora, essere esaminati secondo la logica comune e secondo il significato proprio delle parole impiegate e della loro connessione, in conformità alle regole del codice linguistico impiegato e secondo la logica che ispira il sistema della legge d’imposta di registro e il sistema tributario. Secondo la logica comune e secondo il codice della lingua italiana, affermare che l’imposta principale è quella che è «applicata al momento della registrazione», vuol dire che, se si vuole attribuire rilevanza a due specie contrapposte d’imposta di registro secondo il criterio dell’«applicazione dell’imposta al momento della registrazione» e se quella determinata in positivo la si denomina espressamente come «imposta di registro principale», allora quella risultante in negativo dev’essere denominata dall’interprete, anche nel silenzio del legislatore ma su sua autorizzazione implicita, imposta di registro secondaria. Il discorso dev’essere, poi, approfondito al fine di chiarire in che cosa consista l’applicazione al momento della registrazione. A tal fine non bastano più la logica comune e il codice linguistico naturale, perché il risultato dipende dall’attribuzione del significato tecnico giuridico che spetta, secondo la legge tributaria, alle parole «applicazione dell’imposta» connesse con quelle dell’espressione «momento della registrazione». Al riguardo occorre tener conto che la registrazione per la quale è dovuta l’imposta di registro è la complessa operazione che è descritta dall’art. 16, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, e che, in particolare, ai sensi dell’art. 16.3.1, «consiste nell’annotazione in apposito registro dell’atto o della denuncia e, in mancanza, della richiesta di registrazione con la indicazione del numero progressivo annuale, della data della registrazione, del nome del richiedente, della natura dell’atto, delle parti e delle somme riscosse». Orbene, affinché sia compiuta siffatta operazione, al di fuori delle ipotesi di registrazione d’ufficio che non interessano questa controversia, il contribuente deve chiedere la registrazione e, a seconda della struttura della sua domanda, la specie dell’imposta principale di registro da applicare determinata in base al criterio, in misura fissa o proporzionale, della fissazione della quantità del suo contenuto determina il momento della sua applicazione. Più brevemente, l’applicazione dell’imposta principale, fissa o proporzionale, ossia il suo pagamento, determina anche il momento della sua applicazione. È la stessa legge che distingue, al riguardo, due specie/genere di livello inferiore: 1) nella prima la domanda di registrazione ha per ogget-


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to un atto non sottoposto a condizione sospensiva; 2) nella seconda ipotesi la domanda di registrazione ha per oggetto un atto sottoposto a condizione sospensiva. Il primo genere/specie (atto non sottoposto a condizione sospensiva) il momento dell’applicazione dell’imposta coincide con quello in cui l’ufficio accoglie la domanda di registrazione e si divide in due specie di livello ulteriormente intériore a seconda che, in base alla natura dell’atto, si applichi un’imposta principale di registro fissa o un’imposta principale di registro proporzionale. Il secondo caso di genere/specie (atto sottoposto a condizione sospensiva) si ripartisce, secondo il criterio del non avveramento/avveramento della condizione, nelle due specie dell’imposta principale di registro in misura fissa (art. 27.1, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131) e dell’imposta principale di registro dovuta in base alla natura dell’atto, cioè l’imposta proporzionale (art. 27.2, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131). In sostanza, nella specie dell’atto sottoposto a condizione sospensiva, il momento di applicazione dell’imposta si duplice in un primo momento in cui l’ufficio accoglie la domanda di registrazione del contribuente e in un secondo momento in cui, verificatasi la condizione sospensiva, l’imposta viene applicata attraverso un conseguente pagamento. In conclusione, se il criterio per l’individuazione dell’imposta di registro principale, indicato dal legislatore. è l’applicazione dell’imposta al momento della registrazione, quel che conta non è solo il momento della registrazione, come suggerisce il contribuente, ma la combinazione di “applicazione” e di “tempo della registrazione”, cosicché se i tempi della registrazione si frazionano e, come nell’atto sottoposto a condizione sospensiva, si duplicano: 1) in tempo della domanda di registrazione e accoglimento di essa con registrazione dell’atto ad efficacia sospesa e una prima applicazione dell’imposta di registro e 2) in tempo di verificazione della condizione sospensiva e seconda ed integrativa applicazione dell’imposta di registro con registrazione dell’atto finalmente efficace, è principale sia l’imposta di registro pagata nel primo momento di applicazione sia quella pagata nel secondo momento di applicazione, perché tutti e due sono momenti della registrazione. Nel caso di specie ultima, oggetto della presente controversia, infatti, la registrazione dell’atto sottoposto a condizione sospensiva è stata effettuata il 27 ottobre 1997, mentre la registrazione della denuncia del 16 giugno 1998 di avveramento della condizione sospensiva è stata registrata il 3 luglio 1998. 3.3.3.2. La posizione della Comm. trib. prov. e la necessità della sua integrazione S’è già riferito nel paragrafo 2.3.1 che la sentenza della Comm. trib. prov. è così motivata: «in ordine all’eccezione di prescrizione va sottolineato che tale termine, decorrente dalla data di pagamento dell’imposta proporzionale, avvenuta il 19 luglio 2001, è stato prorogato di altri due anni dalla legge 289/2002, per cui il termine definitivo è fissato, per il caso di specie al 19 luglio 2005 (due anni e 2 ex lege 289)». La Comm. trib. prov. ha, dunque identificato, nel pagamento effettuato dal contribuente il 19 luglio 2001, il «pagamento dell’imposta proporzionale» di registro, senza nulla dire intorno al titolo di specie e, quindi, senza specificare se, a suo giudizio, si sia trattato di imposta di registro principale o di imposta di registro complementare. Ora, alla luce di quel che s’è poc’anzi sostenuto nel paragrafo 3.3.3.1, si può senz’altro affermare che l’unico modo d’interpretare l’enunciato della sentenza di primo grado in modo conforme alla legge è quello di leggervi che il pagamento del 19 luglio 2001 è stato effettuato a titolo d’imposta principale di registro per la sua parte proporzionale conseguente all’avveramento della condizione sospensiva dell’efficacia dell’atto registrato il 27 ottobre 1997. Infatti, da un lato, dire che un’imposta di registro è proporzionale significa solo far riferimento ad uno dei criteri – l’altro è la misura fissa – secondo i quali la legge d’imposta vuole che si determini la quantità del contenuto del-

l’imposta di registro, non solo principale, ma anche suppletiva e complementare, cosicché non si può dedurne alcunché per la scelta tra una di esse; dall’altro lato, l’imposta pagata il 19 luglio 2001, in conseguenza dell’avveramento della condizione sospensiva, non è un’imposta di registro complementare. Questa seconda affermazione esige un’ulteriore chiarificazione sulla classificazione operata dal legislatore nell’alt. 42, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131. Si potrebbe pensare che la ricostruzione della volontà del legislatore di definire le specie d’imposta di registro e di classificarle possa essere fatta seguendo un percorso interpretativo che muova dalla constatazione che il legislatore abbia adottato la prima ripartizione del genere sommo secondo un criterio cronologico, contrapponendo alla specie dell’imposta di registro applicata al momento della registrazione all’imposta di registro applicata in un momento successivo. Indivisa la prima specie, chiamata imposta principale, il legislatore avrebbe, poi, ripartito la seconda specie/genere in due ulteriori specie in base al criterio differenziale costituito da errore (omissione)/non errore (non omissione dell’ufficio), le quali sarebbero costituite rispettivamente dall’imposta suppletiva (imposta pretesa sul presupposto di un errore o di un’omissione compiuto dall’ufficio in sede di applicazione dell’imposta principale) e dall’imposta complementare (imposta pretesa su base diversa dall’errore o dall’omissione dell’ufficio in sede di applicazione dell’imposta principale). A questa prima lettura si affida il contribuente appellante, perché – egli sostiene – che ogni pagamento successivo che non sia conseguente ad una pretesa fondata su un errore (o su un’omissione) dell’ufficio, sarebbe un’imposta complementare. Ma il contribuente cade in errore, perché il suo ragionamento è basato sulla sola lettera del solo art. 42, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, senza tener conto né delle disposizioni normative appena esaminate ad altro scopo nel paragrafo 3.3.2. né della logica, che è un canone d’interpretazione normativa fondamentale per garantirsi contro i pericoli derivanti dalla vaghezza, dall’ambiguità e dall’equivocità del codice linguistico naturale impiegato dalla formazione e dalle classificazioni enunciate senza specificare il metodo seguito per elaborarle. Nel caso in esame, infatti, si deve osservare che il risultato della ripartizione del genere “imposta di registro” operata dal legislatore nell’art. 42, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, non è esposto in modo corretto nella formula adottata in quella disposizione normativa, dando luogo ad un caso, non raro peraltro, di equivocità normativa. Per la corretta ricostruzione della volontà del legislatore si deve tener conto, non solo della lettera dell’alt. 42, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, e dell’elenco delle specie ivi contenuto, ma del sistema della legge d’imposta di registro. In questa più ampia prospettiva èagevole constatare che il legislatore distingue, anzitutto, nel genere sommo dell’imposta di registro applicata su richiesta del contribuente, quella che risulta dall’applicazione della coppia concettuale di contrasto derivante dalla contrapposizione tra «applicazione dell’imposta al momento della registrazione» e «applicazione dell’imposta in un momento successivo alla registrazione» (art. 42). La prima è chiamata dal legislatore «imposta principale», onde la seconda, dato il silenzio mantenuto dal legislatore sul suo nome, può ben essere chiamata «imposta secondaria». La prima specie d’imposta, l’imposta principale, è applicata al momento della registrazione e, per la ragioni precedentemente illustrate, non solo è fondata sulla richiesta del contribuente, ma, tenendo conto proprio delle dichiarazioni cui è tenuto il contribuente quando l’atto registrato sia sottoposto a condizione sospensiva (richiesta iniziale di registrazione e successiva dichiarazione di avveramento della condizione sospensiva ex art. 19.1), essa si duplice in ragione del doppio momento in cui si dichiara


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e, quindi, dei due momenti in cui rispettivamente si registra e, poi, si integra la registrazione, cosicché si ha corrispondentemente un’imposta principale ad applicazione unica, se l’atto registrato non è sottoposto a condizione sospensiva, e un’imposta principale ad applicazione duplice, se l’atto registrato è sottoposto a condizione sospensiva. La seconda specie di pari livello dell’imposta principale è l’imposta secondaria, di cui si danno due specie in base al criterio della rettifica imputabile allo stesso contribuente o voluta dall’ufficio. Se si applica il primo criterio, si ha l’imposta suppletiva, che si applica quando l’ufficio constati, dopo la registrazione, che si è verificato un errore, del contribuente o dello stesso ufficio, all’atto della ricezione della richiesta o che l’ufficio è incorso in un’omissione. L’imposta suppletiva è determinata sulla base di un accertamento analogo a quello che le imposte dirette è l’accertamento formale automatizzato, previsto dall’art. 36-bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che è condotto dall’ufficio attenendosi ai dati forniti dal contribuente, con la conseguenza che si applica il principio dell’imputazione diretta degli effetti dell’atto impositivo allo stesso contribuente. L’altra specie dello stesso livello dell’imposta suppletiva è l’imposta complementare, la quale si disarticola in due specie di livello inferiore: la prima è quella che si applica solo a seguito della rettifica, da parte dell’ufficio, dei dati forniti dal richiedente la registrazione, cioè a seguito, non di un accertamento meramente formale, ma di un accertamento sostanziale, i cui effetti sono voluti solo dall’ufficio; la seconda è quella che si adotta “in ogni altro caso”, e che può esser chiamata “imposta complementare residuale”: la prima è definibile in positivo (imposta complementare positiva), mentre la seconda è definibile solo in negativo (imposta complementare negativa). Quest’ultima, poi, viene specificata dal legislatore nelle due ipotesi dell’imposta complementare applicata su accertamento d’ufficio, che, in mancanza della richiesta del contribuente, è a rettifica totale, e nell’imposta connessa alla registrazione a debito (art. 59.1). Se ne deduce, anche per questa via, che la riconduzione, che il contribuente vorrebbe che si operasse, dell’applicazione dell’imposta di registro su atto sottoposto a condizione sospensiva non può essere effettuata nei confronti del genere dell’imposta complementare, ma nella categoria dell’imposta principale duplice. 3.3.3.4. In conclusione, l’imposta pagata dal contribuente il 19 luglio 2001 è un’imposta principale di registro, e precisamente un caso di specie ultima della specie dell’imposta proporzionale duplice che si applica dopo l’avveramento della condizione sospensiva cui è sottoposto l’atto registrato. 3.3.4. La questione della tardività dell’accertamento. Si tratta ora di verificare se l’avviso di rettifica e di liquidazione, notificato al contribuente il 7 luglio 2005, sia tempestivo. Il contribuente appellante, come s’è già veduto, sostiene che sarebbe l’avviso di accertamento sarebbe tardivo, perché il termine decadenziale di quattro anni avrebbe iniziato a decorrere dal 27 ottobre 1997, data della registrazione dell’atto su sua richiesta e del pagamento dell’imposta principale in misura fissa, e non dal 19 luglio 2001, data di pagamento di un’imposta, che il contribuente qualifica come complementare, ma che, come s’è poc’anzi dimostrato, ha anch’essa natura di imposta principale di registro proporzionale. La formazione che ha disciplinato i profili temporali della fattispecie in esame si compone delle seguenti disposizioni normative: a) l’art. 76.2.a) D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, era, nel suo testo originario, così formulato: «L’imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza entro il termine di tre anni decorrenti, per gli atti presentati per la registrazione: a) dalla richiesta di registrazione se si tratta di imposta principale [...]»; b) l’art. 76.1-bis, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, introdotto con l’art. 3.135.e) L. 28 dicembre 1995, n. 549, prevede che «l’avvi-

so di rettifica e di liquidazione della maggiore imposta di cui all’articolo 52, comma 1, deve essere notificato entro il termine di decadenza di due anni dal pagamento dell’imposta principale»; c) l’art. 24, L 18 febbraio 1999, n. 28, ha sostituito la parola “principale” con la parola “proporzionale” nel testo dell’art. 76.1-bis D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, la cui formula è, perciò divenuta la seguente: «l’avviso di rettifica e di liquidazione della maggiore imposta di cui all’articolo 52, comma 1, deve essere notificato entro il termine di decadenza di due anni dal pagamento dell’imposta proporzionale»; d) l’art. 10, L. 27 dicembre 2002, n. 289, nel testo modificato dall’art. 5-bis, D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, conv. in L. 21 febbraio 2003, n. 27, prevede che «per i contribuenti che non si avvalgono delle disposizioni recate dagli articoli da 7 a 9 della presente legge, in deroga alle disposizioni dell’articolo 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, i termini di cui all’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e all’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, sono prorogati di due anni». Nel caso di specie ultima, qui oggetto di controversia, il pagamento dell’imposta principale di registro proporzionale è avvenuto il 19 luglio 2001. Da questa data decorre il termine decadenziale di due anni ex art. 76.1-bis D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, prorogato fino a quattro anni ex art. 10 L 27 dicembre 2002, n. 289, nel testo modificato dall’alt. 5-bis D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, conv. in L. 21febbraio 2003, n. 27, per l’esercizio del potere di accertamento. li termine sarebbe scaduto, pertanto, il 19 luglio 2005. Ne consegue che l’avviso di accertamento, notificato il 7 luglio 2005 è tempestivo. 3.5. Conclusione. Il primo motivo d’appello è infondato. 4. Il secondo motivo d’appello. 4.1. La rubrica del secondo motivo d’appello. Il secondo motivo d’appello è presentato sotto la seguente rubrica: «applicabilità della tabella del diritto di usufrutto a vita, di cui al D.P.R. 131/1986, per la determinazione del valore e conseguente congruità del valore dichiarato in atto perché superiore a quello determinabile applicando la suddetta tabella». 4.2. La motivazione del secondo motivo d’appello. Il contribuente osserva che egli non avrebbe «mai eccepito la mancata applicazione, nella fattispecie, dei criteri di tassazione delle donazioni», ma che avrebbe «posto in essere un contratto oneroso» ed avrebbe «regolarmente corrisposto l’imposta proporzionale di registro sul valore dichiarato in atto». Egli avrebbe, invece, sempre sostenuto che «per la tassazione e per la valutazione degli atti sia onerosi sia gratuiti comunque correlati ad un fattore incerto quale la durata della vita del beneficiario [...], debba necessariamente trovare applicazione lo strumento di determinazione del valore fornito dal legislatore, consistente nella [...] tabella di determinazione del diritto di usufrutto a vita allegata al D.P.R. 131/1986 e che tale applicazione, nella fattispecie, conduce ad un valore dell’azienda, addirittura inferiore al valore dichiarato in atto». 4.3. La valutazione del secondo motivo d’appello. Il motivo è infondato, perché la cessione con costituzione di rendita è regolata dall’art. 46 D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, il cui primo comma, primo periodo, dispone che «per la costituzione di rendite la base imponibile è costituita dalla somma pagata o dal valore dei beni ceduti dal beneficiano ovvero, se maggiore, dal valore della rendita». Se ne deduce che la quantità dell’oggetto dell’imposta, o base imponibile, è, in via primaria, il valore dei beni ceduti e, in via secondaria e subordinata, il valore della rendita. Poiché nel caso di specie ultima oggetto della presente controversia, lo stesso contribuente riconosce che il valore della rendita, che ai sensi dell’alt. 46.2.c), D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, è costituito dall’ammontare ottenuto moltiplicando l’an-


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nualità per il coefficiente indicato nel prospetto dei coefficienti per la determinazione dei valori attuali delle rendite allegato al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, è inferiore al valore dichiarato in atto, la quantità dell’oggetto dell’imposta di registro è determinata secondo il criterio primario del valore dei beni ceduti. 4.4. Conclusione. Il secondo motivo d’appello è infondato. 5. Il terzo motivo d’appello. 5.1. La rubrica del terzo motivo d’appello. Il terzo motivo d’appello è introdotto dalla seguente rubrica: «Errata applicazione dell’art. 2 del D.P.R. 460/90». 5.2. La motivazione del terzo motivo d’appello. Il contribuente si esprime testualmente così: «l’ufficio, sia nell’accertamento che nelle proprie controdeduzioni, afferma che per la determinazione del valore dell’azienda ceduta è stato applicato l’articolo 2 del D.P.R. 460/1996 [...]. Qui di seguito si fornisce prova che valore di avviamento dichiarato in atto dal ricorrente, è addirittura superiore al valore di avviamento determinabile in base al citato art. 2 D.P.R. 460/96 [...]. Ad ulteriore comprova della congruità del valore dichiarato in atto, si fa rilevare [...] che in una simile fattispecie di passaggio di azienda [...] addirittura si potrebbe sostenere che nessun trasferimento di avviamento si è verificato, essendo lo stesso già imputabile per una parte preponderante al figlio compartecipe della società acquirente e per la restante parte allo stesso cedente, anch’egli compartecipe della società cessionaria». 5.3. La valutazione del terzo motivo d’appello. Come si desume agevolmente dalla riproduzione testuale delle parti più significative della motivazione addotta dal contribuente a sostegno del suo terzo motivo d’appello, non una sola censura è da lui rivolta contro la sentenza impugnata, che è l’oggetto dell’atto d’impugnazione, mentre tutte le sue considerazioni hanno per oggetto esclusivo l’avviso di accertamento, come se l’atto d’appello avesse la struttura e la funzione del ricorso introduttivo del processo tributario. Poiché l’art. 53.1.1, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, prevede che «il ricorso in appello contiene [...] i motivi specifici dell’impugnazione» e poiché l’art. 53.1.2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dispone che «il ricorso in appello è inammissibile se manca o è assolutamente incerto uno degli elementi sopra indicati», e poiché il terzo motivo è privo di quella specificità che sola potrebbe derivargli dalla sua direzione contro la sentenza impugnata, esso è inammissibile. 6. Il quarto motivo d’appello. 6.1. La rubrica del quarto motivo d’appello. Il quarto motivo d’appello è annunciato dalla seguente rubrica: Palese carenza di motivazione dell’atto impugnato. 6.2. La motivazione del quarto motivo d’appello. Secondo il contribuente «la commissione di I grado ha illegittimamente omesso di pronunciarsi in merito carenza di motivazione dell’atto impugnato. Leggendo l’avviso di rettifica e liquidazione, infatti, non è dato rilevare alcun riferimento al fatto che il corrispettivo del trasferimento era costituito da una rendita vitalizia né che sussisteva una partecipazione pluriennale di un familiare all’impresa ma si accenna unicamente ad un presunto criterio di valutazione applicato, che vorrebbe l’avviamento delle farmacie determinabile in un generico importo pari ad 1,1-1,5 volte il volume di affari medio dei tre anni precedenti, e la redditività di una farmacia addirittura pari ad un assurdo 40% del fatturato medio degli ultimi tre anni. Quanto sopra esposto, dà la certezza che nessuno studio della fattispecie oggetto di accertamento è stato effettuato dall’ufficio che si è limitato a riproporre “l’accertamento tipo” utilizzato per rettificare i valori di aziende cedute». 6.3. La valutazione del quarto motivo d’appello. 6.3.1. Il contribuente ha ragione di lamentare che la Comm. trib. prov. abbia omesso di pronunciarsi sul motivo, proposto in via subordinata nel suo ricorso introduttivo, con cui egli ipotizzava la carenza di motivazione dell’avviso di accertamento e di liqui-

dazione impugnato. All’omessa pronuncia del giudice di primo grado deve, dunque, porsi rimedio, provvedendo in questa sede. 6.3.2. L’avviso di rettifica e di liquidazione è così testualmente motivato: «cessione dell’azienda farmacia [...] come meglio descritto nell’atto su indicato [atto registrato] che qui s’intende integralmente riportato. Dal controllo effettuato a norma degli articoli 51 e 52 del D.P.R. n. 131 del 26/04/1986 è risultato che il valore venale del bene, alla data del trasferimento, determinato dall’amministrazione finanziaria è di lire 2.613.496.400 (euro 1.349.758,25) e quindi superiore a quello dichiarato di lire 567.000.000 (euro 292.831,06). Il valore venale su indicato è costituito dal valore complessivo dei singoli beni che compongono l’azienda ceduta, ivi compreso l’avviamento commerciale e precisamente: avviamento commerciale lire 2.586.496.000 (euro 1.335.813.91); arredi e stigliature lire 27.000.000 (euro 13.944, 34). L’avviamento commerciale è stato calcolato in lire 2.586.496.400 mediante capitalizzazione per tre della potenziale redditività dell’azienda, ricavata dall’applicazione del coefficiente di reciditività del 40% alla media dei ricavi del triennio precedente la cessione, quali risultano dalle dichiarazioni presentate. Tale valore è conforme a quanto riscontrato nel settore della cessione di farmacie, per le quali viene riconosciuto, a titolo di avviamento, un importo pari ad 1,1-1,5 volte il volume d’affari medio dei tre anni precedenti. È confermato il valore delle stigliature e degli arredi». 6.3.3. Il contribuente segnala, anzitutto, che nell’avviso di accertamento non si farebbe alcun riferimento al fatto che il corrispettivo del trasferimento era costituito da una rendita vitalizia. Questa censura è priva di fondamento, perché, come si legge nella motivazione dell’avviso di accertamento, in esso s’intende integralmente riportato l’atto registrato e, se, poi, l’ufficio ha determinato la quantità dell’oggetto dell’imposta in base al valore venale, ciò si deve al fatto che s’è fatta corretta applicazione dell’art. 46, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, per le ragioni che si sono illustrate nel pargrafo 4.3, a proposito del secondo motivo d’appello. 6.3.4. Il contribuente, in secondo luogo lamenta che nell’avviso di accertamento non si sia dato alcun rilievo al fatto che sussisteva una partecipazione pluriennale di un familiare all’impresa. Anche questa censura è priva di fondamento, perché dall’atto di cessione registrato emerge il fatto che il cedente è il signor B.B. e che la cessionaria è la società farmacia B. dei dott. B.B. e L.B. S.n.c. (pagina 2, righe 16-20, dell’atto di cessione) e che in nessuna delle sue disposizioni si attribuisce la benché minima rilevanza al fatto della «partecipazione pluriennale di un familiare all’impresa», al quale, conseguentemente e correttamente, l’ufficio non ha attribuito alcuna rilevanza. 6.3.5. Il contribuente, infine, non condivide i criteri secondo i quali l’ufficio ha determinato il valore venale dell’avviamento dell’azienda ceduta. Questo terzo submotivo d’appello che, data l’omessa pronuncia della Comm. trib. prov., investe direttamente la motivazione dell’avviso di accertamento è privo di specificità, perché la doglianza è priva di motivazione, in quanto non è suffragata da alcuna ragione diretta a contraddire la posizione dell’ufficio. Esso è, quindi, inammissibile. 7. Il quinto motivo d’impugnazione. 7.1. La rubrica del quinto motivo d’impugnazione. Il quinto motivo d’appello è presentato sotto la seguente rubrica: Eccessività del valore accertato e sua non conformità alla realtà del settore farmacie. 7.2. La motivazione del quinto motivo d’impugnazione Secondo l’appellante «il valore accertato è palesemente eccessivo perché fondato su irreali percentuali di redditività. Il coefficiente di redditività determinato dall’ufficio nel 40%, infatti, non corrisponde assolutamente alla realtà economica del settore, caratterizzata dalla vendita di prodotti farmaceutici a prezzo imposto con


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margini lordi di vendita fissati per legge al 26,7% (vedasi allegato estratto pubblicazione normativa). Ora, se tale utile lordo lo depuriamo dei costi di gestione, perveniamo ad un utile netto e quindi ad una redditività quattro volte inferiore a quella determinata dall’ufficio. Anche tale ultima considerazione dimostra inconfutabilmente l’irrealtà del coefficiente di redditività utilizzato per l’accertamento (l’utile lordo di vendita – 26,7% è addirittura inferiore all’utile netto determinato dall’ufficio – 40%) e la conseguente erroneità del valore di avviamento determinato». 7.3. La valutazione del quinto motivo. Dall’esame della documentazione allegata dal contribuente a sostegno delle argomentazioni addotte si rileva che essa consiste di due pagine, la prima delle quali è il frontespizio di una pubblicazione avente per autori Pammolli, Papa e Salerno, intitolata Margini di ricavo della distribuzione sui farmaci rimborsabili. Confronto della normativa in Italia, Francia, Germania e Spagna, e la seconda delle quali è la pagina 5 di tale pubblicazione. Orbene, già dal titolo si desume che l’oggetto del libro sono solo i farmaci rimborsabili, dei quali si dice, nella seconda pagina, che la remunerazione

spettante al farmacista è del 26,7%. Ma i farmaci rimborsabili sono solo una parte dei prodotti, farmaceutici e no, commercializzati dalle farmacie. Inoltre, non pare che il dato, per sé insufficiente a causa della sua parzialità, sia riferito al tempo rilevante per l’applicazione dell’imposta oggetto della controversia, cioè al 1997, perché la pubblicazione è presumibilmente del 2005 (nella pagina-frontespizio si legge, in alto a destra nota 5/2005) e nella seconda pagina (pagina 5 del libro) si fa riferimento alla normativa valevole nel 2002 e a quella in vigore dal 1 gennaio 2005. In ogni caso, il valore di prova di una pubblicazione privata e così lacunosa è sostanzialmente nullo. Se ne deduce che le argomentazioni addotte dal contribuente sono prive di qualsiasi riscontro di fatto. 7.4. Conclusioni. Il quinto motivo è infondato. 8. Conclusioni sull’appello. Le precedenti considerazioni comportano il rigetto dell’appello. Data la natura delle questioni sollevate con il primo motivo d’impugnazione, si ritiene che le spese processuali relative al secondo grado di giudizio meritino di essere compensate tra le parti.

Nota

Invero, secondo la sentenza in commento, in presenza di atti sottoposti a condizione sospensiva, per i quali la legge prevede un iter particolare di registrazione (iniziale registrazione in misura fissa e successivo pagamento integrativo), l’imposta principale «si duplica in ragione del doppio momento in cui si dichiara e, quindi, dei due momenti in cui rispettivamente si registra e, poi, si integra la registrazione»: la legge configurerebbe in sostanza «un’imposta principale ad applicazione duplice», il cui pagamento dovrebbe considerarsi avvenire, ai fini della decorrenza del termine biennale di rettifica, solo al momento dell’integrazione della registrazione, e dunque del versamento dell’imposta proporzionale (avvenuto, nella specie, nel 2001). A sostegno di questa ricostruzione può in effetti rilevarsi che, in caso contrario, l’ufficio sarebbe stato costretto ad anticipare l’accertamento di valore ad un momento antecedente al verificarsi della condizione e ad intervenire su un’operazione negoziale ancora in itinere, i cui effetti traslativi avrebbero potuto anche non prodursi. La sentenza osserva altresì che, a seguito della modifica introdotta dalla legge n. 28 del 1999, il riferimento dell’art. 76, comma 1-bis, del D.P.R. n. 131 del 1986 all’imposta “principale” è stato sostituito con quello all’imposta “proporzionale” di registro. In questo modo, il legislatore ha risolto d’autorità il problema dell’individuazione del termine di decadenza dell’ufficio in presenza di contratti sospensivamente condizionati, rendendo sterile ogni distinzione fra imposta principale, complementare o suppletiva di registro e dando esclusivo rilievo al fatto che il pagamento abbia ad oggetto l’imposta proporzionale dovuta a seguito del verificarsi della condizione. I giudici laziali hanno poi esaminato la questione della proroga biennale del termine de quo per effetto delle disposizioni introdotte dalla legge n. 289 del 2002. L’avviso di rettifica era stato notificato il 7 maggio (o 7 luglio) 2005, mentre il pagamento dell’imposta proporzionale era avvenuto il 19 luglio 2001: solo in caso di applicazione della proroga biennale prevista dall’art. 11 della legge n. 289 del 2002 la notifica si sarebbe quindi potuta ritenere tempestiva. La sentenza richiama erroneamente l’art. 10 di detta legge, che prevedeva, per i contribuenti che non avessero aderito alle sanatorie di cui ai precedenti artt. 7, 8 e 9, la proroga biennale dei termini stabiliti in tema di accertamento delle imposte sui redditi e dell’Iva; la proroga biennale del termine per la rettifica e la liquidazione dell’imposta di registro era invece disposta dal successivo art. 11, nei riguardi dei contribuenti che non avessero chiesto (o avessero chiesto con istanza priva di effetti) la definizione dei valori dichiarati. In ogni caso, la proroga poteva operare nella fattispecie, sussistendo le condizioni richie-

Con un’ampia ed articolata motivazione, la Commissione tributaria regionale del Lazio risolve alcune questioni sorte in tema di applicazione dell’imposta di registro ad un atto di cessione d’azienda farmaceutica con costituzione di rendita vitalizia, stipulato sotto la condizione sospensiva del riconoscimento del trasferimento della proprietà dell’azienda da parte del Comune territorialmente interessato. Il primo problema riguarda la determinazione della natura (principale o complementare) dell’imposta pagata a seguito della dichiarazione di avveramento della condizione. La cessione d’azienda era stata conclusa e registrata in misura fissa nel 1997, mentre la denuncia di avveramento della condizione era stata presentata e registrata l’anno successivo; nel 2001 la parte cedente aveva pagato l’imposta proporzionale di registro sul valore dichiarato. Mentre era (ed è) pacifica la natura principale dell’imposta pagata in misura fissa all’atto della registrazione del contratto, era sorto contrasto fra le parti in merito alla qualificazione del tributo versato ex art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 131 del 1986 in misura proporzionale dopo l’avveramento della condizione e la produzione dell’effetto traslativo della proprietà dell’azienda. Il contribuente sosteneva infatti che, trattandosi di imposta versata in un momento successivo alla registrazione, se ne sarebbe dovuta escludere la natura principale e (non potendo nemmeno parlarsi di imposta suppletiva) riconoscere la natura complementare, ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. n. 131 del 1986. Ad opinione dell’ufficio, il tributo avrebbe invece mantenuto natura principale, analoga a quella dell’imposta pagata in misura fissa all’atto della registrazione. La questione aveva un importante risvolto applicativo perché, all’epoca del pagamento dell’imposta in misura fissa (1997), l’art. 76, comma 1-bis, del D.P.R. n. 131 del 1986 stabiliva che l’avviso di rettifica e liquidazione dell’imposta di registro sul maggior valore accertato dovesse essere notificato entro due anni dal pagamento dell’imposta “principale”: dal che appunto – secondo il contribuente – la decadenza dell’ufficio, che nel biennio successivo al pagamento dell’imposta in misura fissa non aveva emanato alcun provvedimento d’imposizione. Proprio su questo profilo si pronunciano i giudizi laziali, disattendendo la tesi del contribuente ed ancorando il termine di decadenza dell’ufficio non alla data della registrazione del contratto sospensivamente condizionato ma a quella, successiva, del pagamento dell’imposta proporzionale dovuta – ai sensi del richiamato art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 131 del 1986 – dopo l’avveramento della condizione.


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ste dal citato art. 11: l’avviso di rettifica riguardava infatti un accertamento di maggior valore senz’altro ricompreso nello spettro applicativo della norma (non il disconoscimento di un’agevolazione, per il quale il problema è – come noto – molto più dibattuto), e non risultava che il contribuente avesse inteso avvalersi della sanatoria fiscale del 2002. Infine, la sentenza ribadisce che, per gli atti di cessione con costituzione di rendita vitalizia (come quello oggetto di rettifica), l’imposta di registro si applica sul maggiore fra il valore dei beni ceduti ed il valore della rendita, secondo quanto disposto dall’art.

46, comma 1, del D.P.R. n. 131 del 1986 («per la costituzione di rendite la base imponibile è costituita dalla somma pagata o dal valore dei beni ceduti dal beneficiario ovvero, se maggiore, dal valore della rendita»). È stata quindi respinta la tesi del contribuente, il quale sosteneva che, in caso di tassazione di atti correlati ad un evento incerto come la durata della vita del beneficiario, la base imponibile del tributo di registro avrebbe dovuto coincidere con il valore del diritto di usufrutto a vita desumibile dalla tabella allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 (valore, nella specie, addirittura inferiore a quello dichiarato).


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IRAP L’ORGANIZZAZIONE NELL’ATTIVITÀ DEI MEDICI CONVENZIONATI CON IL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE: LA MANCANZA DEL REQUISITO DELL’AUTONOMIA AI FINI DELL’IRAP I Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XVIII, 21 febbraio 2008, n. 5 82 Presidente: Vallini - Relatore: Calvori Irap - Presupposto - Medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale - Rapporto di collaborazione coordinata e continuativa - Esclusione del presupposto Irap (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) La natura del rapporto tra il medico di medicina generale e il Servizio sanitario nazionale, in conseguenza dei vincoli e limitazioni previsti dalla convenzione che regola lo svolgimento dell’attività, è riqualificato ai fini dell’Irap come rapporto di collaborazione coordinata e continuativa; di conseguenza, sono irrilevanti i beni strumentali utilizzati nell’attività e manca il presupposto d’imposta ex. art. 2, D.Lgs. n. 446/1997. Svolgimento del processo Il sig. S.V., di professione medico generico di base convenzionato con l’Asl, presentò ricorso avverso il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle Entrate di Lucca, sulle istanze di rimborso dell’imposta Irap, versata per gli anni dal 1998 al 2001 per complessivi euro 8509,15. Esso sosteneva, richiamando la sentenza n. 156/2001 della Corte costituzionale, di svolgere la propria attività senza ricorrere ad alcuna organizzazione, né di avvalersi di alcun dipendente o collaboratore ed i mezzi utilizzati sono costituiti dalla semplice attrezzatura medica e di una autovettura. Si costituiva l’ufficio contrastando le tesi del ricorrente. La Comm. trib. prov. Lucca, con sentenza n. 7/7/06 del 25 gennaio 2006 respinse il ricorso compensando le spese. Ritennero che, secondo l’interpretazione congiunta degli artt. 2 e 3 della legge 446/1997, nella fattispecie era presente oltre alla funzione organizzativa anche una componente di beni organizzati. Parte soccombente presenta appello impugnando la decisione dei primi giudici per i motivi di diritto e di merito. In diritto, osserva che l’interpretazione dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 446/1997 ove recita «il presupposto dell’imposta è l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi» non intende sottoporre a tassazione qualunque attività economica generatrice di ricavi e compensi. Infatti, restano escluse, così come interpretato dalla sentenza della Suprema Corte, quelle attività non riconducibili ad un’organizzazione intesa in senso lato, ovvero, quelle attività dove non si rinvengano impiegati addetti e capitali in forza dei quali la struttura è in grado di autoprodurre materia imponibile. A sostegno della propria tesi richiama una serie di sentenze della Comm. trib. reg. Toscana e la n. 3674 del 16 febbraio 2007 della Corte di Cassazione. Nel merito, l’appellante riproduce i motivi già esposti nel ricorso principale. Chiede la riforma della sentenza impugnata per carenza di motivazione, e l’accoglimento della domanda di rimborso dell’Irap

con gli interessi di legge. Chiede la condanna dell’ufficio alle spese di giudizio. Inoltre, chiede la trattazione in pubblica udienza. L’ufficio presenta le proprie controdeduzioni insistendo sull’assoggettamento all’imposta Irap dell’attività svolta dal ricorrente. A proprio sostegno, tenuto conto anche quanto stabilito dalla recente sentenza n. 3678/2007 della Suprema Corte, allega i quadri E dei modelli delle dichiarazioni presentate dall’appellante dai quali viene evidenziato che per 3 anni risultano compensi erogati a terzi per prestazioni direttamente afferenti l’attività professionale e per collaborazioni, spese relative ad immobili e spese per consumi che indicano l’esistenza di una attività ben strutturata. Per il 2001 ci sono canoni di locazione di beni mobili e gli interessi passivi per un importo consistente che denotano investimenti a lungo termine. Chiede di confermare la sentenza della Comm. trib. prov. Lucca. Con vittoria di spese di giudizio. Questa Commissione, dopo aver ascoltato il giudice relatore, udito le parti e vista la documentazione in atti; è pervenuta alla decisione di accogliere l’appello per le motivazioni che seguono. Motivi della decisione Sulla questione de qua, le recentissime sentenze della Cassazione, impongono qualche considerazione aggiuntiva. Sul presupposto dell’imposta Irap previsto dall’art. 2 del D.Lgs. 446/1997, nel testo in vigore dal 26 maggio 1998, si è pronunciata, a seguito della promozione di numerose questioni di legittimità costituzionale, la Corte costituzionale, con sentenza n. 156 del 21 maggio 2001. La Corte, al punto 9.2 della citata sentenza, e successivamente nella sentenza n. 286/2001, nel rigettare le questioni preposte, ha sancito che solo determinate attività professionali richiedono una autonoma organizzazione, mentre altre prescindono dall’esistenza della stessa. Scrivono i giudici costituzionali: va innanzitutto ribadito che l’Irap non è un’imposta sul reddito, bensì un’imposta di carattere reale che colpisce il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate. E che il valore aggiunto altro non è che la nuova ricchezza creata dalla singola unità produttiva, che viene, mediante l’Irap, assoggettata ad imposizione ancora prima che sia distribuita ai fini di remunerare i diversi fattori della produzione, trasformandosi in reddito per l’organizzatore dell’attività. L’imposta colpisce perciò, con carattere di realità, un fatto economico, diverso dal reddito, comunque espressivo di capacità di contribuzione in capo a chi, «in quanto organizzatore dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza [...] (punto 6.2 della sentenza)». Ne consegue che occorrerà, di volta in volta, verificare la presenza o meno di una struttura autonomamente organizzativa. Come sappiamo l’attività libero professionale è caratterizzata: dall’impiego dell’intelligenza e cultura in misura prevalente rispetto al lavoro eventuale manuale; dalla discrezionalità della prestazione nell’esercizio dell’attività; dall’attività oggetto della


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prestazione che si compie indipendentemente dal risultato; dalla natura dell’obbligazione che è un’obbligazione di risultato. Ciò vuol dire che l’autonoma organizzazione si realizza solo se sono presenti i requisiti tipici così come rilevati. L’attività professionale può essere anche esercitata senza l’apporto della prestazione di collaboratori o di capitali investiti e per questo non viene meno il requisito della richiesta autonoma organizzazione. Ben diversa, invece, è l’attività libero professionale svolta con le caratteristiche della prestazione assimilabile a quella di contratto di lavoro in forma coordinata e continuativa, che non è soggetta a Irap. Perciò la ricerca dell’autonoma organizzazione dell’attività, come affermato dalla Corte costituzionale, deve essere fatta caso per caso per verificare i modi di svolgimento dell’esercizio della libera professione al fine di escludere o confermare le prestazioni oggetto d’imposta. È evidente che nel caso di una attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione, il cui accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto, risulterà mancante il presupposto stesso dell’imposta sulle attività produttive, per l’appunto rappresentato, secondo l’art. 2 del D.Lgs. 446/1997. La chiosa che la Consulta fa nella parte motiva, e che è stata oggetto di interpretazioni improprie, è riferita a tutte quelle attività residuali e/o marginali del lavoro autonomo, non inquadrabili nella fattispecie dell’art. 49, del T.U.I.R. Di fatto, il legislatore del Testo unico delle imposte dirette ha individuato particolari attività in cui ha rilevato un’assenza di organizzazione tale che dette attività sono state esentate da particolari obblighi contabili e/o dichiarativi. Ci si riferisce alle attività previste dall’art. 49, comma 2, del D.P.R. 917/1986, che sono esentate dall’imposta Irap in quanto non rientrano nelle soggettività passive dell’art. 2 e 3 del D.Lgs. 446/1997 – nel caso autonomo, perché non rientrano nella previsione di cui all’art. 49, comma 1, del T.U.I.R. Tanto è vero questo che, in un successivo punto di incostituzionalità (punto 11 sentenza 156/2001) del diverso trattamento tra i lavoratori autonomi, art. 49, comma 1, e lavoratori autonomi indicati ai commi 2 e 3 della stessa norma, la Consulta rigettando, scrive: «anche in tal caso la censura è priva di fondamento, in quanto l’assoggettamento ad Irap dei soli soggetti che svolgono un’attività di lavoro autonomo per professione abituale, ancorché non esclusiva, trova fondamento in una non irragionevole presunzione circa la mancanza del requisito dell’autonoma organizzazione nelle diverse ipotesi, previste dai commi 2 e 3 del menzionato art. 49, di lavoro autonomo occasionale o comunque non abituale». È vero che in materia di rimborso Irap, con particolare riferimento alle attività libero-professionali, la giurisprudenza si è divisa in alcune principali correnti di pensiero, ma quella più condivisibile, che valuta caso per caso le condizioni specifiche del contribuente, ed in particolare se la combinazione dei fattori organizzativi e produttivi utilizzati nell’esercizio dell’attività possa definirsi capace di produrre il risultato atteso (servizio) in via autonoma dal titolare, trova d’accordo questo Collegio. Tale orientamento trova conforto nell’interpretazione della stessa amministrazione finanziaria la quale ha affermato che «l’abitualità e l’esistenza di una autonoma organizzazione costituiscono entrambe elementi caratterizzanti di detto presupposto,

cosicché rimarrebbero al di fuori dell’ambito di applicazione dell’imposta non solo le attività meramente occasionali ma anche quelle che, pur potendosi astrattamente ricondurre all’esercizio dell’impresa (individuale), di arte o professioni, non sono tuttavia esercitate mediante una organizzazione autonoma da parte del soggetto interessato» (circolare 141/E del 4 giugno 1998). In altri termini una attività libero professionale è autonomamente organizzata se la stessa è svolta senza il coordinamento e il controllo da parte di altri soggetti; è invece attività libero professionale non autonomamente organizzata, quando, anche se esercitata da professionista regolarmente iscritto ad albo professionale, è indirizzata e controllata da altri, il rapporto professionale si sviluppa con il soggetto che coordina l’attività e non con il committente che ha chiesto la prestazione (vedi Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XV, sentenza 120/2002). Inoltre, anche il ragionamento a valle dell’organizzazione dell’attività è esercizio di pura accademia, perché è passata indenne a monte la legittimità costituzionale delle leggi, ex art. 134 della Costituzione, ne consegue che i giudici di merito rimettenti devono uniformarsi all’interpretazione, avendo l’interpretazione efficacia erga omnes. Per tali motivi il Collegio ritiene che nel caso prospettato dall’istante, allorché l’attività professionale sia esercitata come medico convenzionato con il Ssn, venga posta in essere di fatto una attività professionale regolata da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, senza vincolo di subordinazione che la stessa amministrazione finanziaria riconosce non assoggettabile a Irap. Infatti, detto medico deve soggiacere a precise norme contrattuali sottoscritte con la Asl, è altresì obbligato ad assistere un certo numero di persone, indipendentemente dall’impiego di beni strumentali (lettino, auto, ecc.) di non rilevante valore, indispensabili allo svolgimento dell’attività, tali comunque da non essere significativi, è assente un qualsiasi elemento di autonoma organizzazione, la cui mancanza fa venire meno il presupposto per l’applicazione dell’Irap. In ragione di quanto sopra detto, i rilievi fatti dall’ufficio relativi alle quote di ammortamento, spese per immobili e compensi a terzi sono, pertanto, da respingere. Infatti, come emerge dalla documentazione in atti prodotta dal ricorrente, le quote di ammortamento si riferiscono a beni non particolarmente significativi e indispensabili allo svolgimento dell’attività e i costi per gli immobili si riferiscono a canoni mensili per l’affitto dell’ambulatorio per le visite ai pazienti. Infine, per quanto riguarda il costo sostenuto per compensi a terzi relativo a prestazioni direttamente afferenti l’attività professionale, così come risulta nel quadro RE della dichiarazione dei redditi, la Commissione ritiene che l’ufficio, in mancanza di valide prove sulla specificità del tipo di compenso e sul soggetto terzo a cui è stato corrisposto, non può considerarlo automaticamente quale elemento dimostrativo dell’autonoma organizzazione. Quindi, come già spiegato sopra, e contrariamente alla tesi dell’ufficio, detti costi sono ininfluenti per determinare la sussistenza della minima organizzazione e l’applicazione dell’imposta Irap. Sussistono gravi motivi, costituiti essenzialmente dall’oscillazione giurisprudenziale nella materia, per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese di giudizio.


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II Commissione tributaria provinciale di Caserta, sez. V, 9 gennaio 2009, n. 9 83 Presidente e Relatore: Iannitti Irap - Presupposto - Medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale - Rapporto di parasubordinazione - Organizzazione autonoma - Esclusione (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) L’attività del medico di medicina generale nell’ambito del rapporto con il Servizio sanitario nazionale è caratterizzata da un regime di vincoli organizzativi quali: l’orario, le attrezzature, il numero massimo di assistiti, la struttura del compenso; il rapporto si qualifica di “parasubordinazione” e le caratteristiche dell’attività esercitata escludono di per sé l’esistenza dell’autonomia dell’organizzazione utilizzata, per cui non sussiste il presupposto dell’Irap. Svolgimento del processo Con ricorso contro l’Agenzia delle Entrate di Caserta il contribuente in epigrafe, medico convenzionato con la Asl CE 2, come in atti rappresentato e difeso, ha impugnato il provvedimento prot. [...] del 20 maggio 2008 con il quale è stata rigettata l’istanza consegnata il 15 maggio 2008, contenente la richiesta di rimborso dell’Irap pagata negli anni dal 2004 al 2007 per complessivi euro 13.346,84 (euro 3083,53 per il 2004, euro 3305,40 per il 2005, euro 4984,25 per il 2006 e euro 1973,66 per il 2007) oltre interessi maturati e maturandi. Ha eccepito l’illegittimità del provvedimento sostenendo che: - per l’esercizio dell’attività di lavoratore parasubordinato non dispone dell’organizzazione ex art. 2 del D.Lgs. 446/1997, rilevante ai fini dell’applicabilità dell’Irap; - l’intero reddito gli deriva dal rapporto con l’Asl CE 2, come si desume dalla documentazione versata in atti. Ha concluso chiedendo, previa discussione del ricorso in pubblica udienza, di dichiarare non dovuta l’Irap per gli anni oggetto dell’istanza e di condannare l’ufficio al rimborso della somma di euro 13.346,84 o della somma maggiore o minore, accertata nel corso della causa, oltre gli interessi di legge dovuti dalle date di versamento e alle spese di giudizio. L’Agenzia delle Entrate di Caserta ufficio di Caserta, come in atti rappresentata e difesa, si è costituita in giudizio depositando in data 12 settembre 2008 le proprie controdeduzioni al ricorso di cui ha chiesto il rigetto con vittoria di spese. Ha sostenuto che il professionista disponeva di uno studio autonomo, dotato di elementi di organizzazione professionali, e quindi aveva un’autonoma organizzazione rilevante ai fini dell’assoggettamento all’Irap. A supporto della propria tesi difensiva ha citato varie sentenze della Corte di Cassazione. Motivi della decisione Il ricorso è fondato. Preliminarmente il Collegio ritiene che tutti gli elementi caratterizzanti il rapporto intercorrente tra il medico convenzionato e il servizio sanitario nazionale escludono di per sé l’esistenza di un’organizzazione autonoma, e non renderebbero necessarie le prove per la verifica dell’esistenza o meno della organizzazione rilevante ai fini dell’assoggettabilità all’Irap. Il medico convenzionato, infatti, svolge il proprio incarico «che ha ottenuto a seguito di concorso per titoli e l’iscrizione in speciali elenchi» sotto il potere di sorveglianza della Asl, deve aprire un ambulatorio nella località che gli viene assegnata, non può superare un certo numero massimo di assistiti, è tenuto ad osservare un orario settimanale di apertura e di esecuzione di visite domiciliari, ha un obbligo di preventiva comunicazione del periodo di ferie e infine gode di un trattamento economico prestabilito.

A parte le caratteristiche peculiari del detto rapporto di lavoro parasubordinato intercorso tra il contribuente e la Asl il Collegio rileva che dalla documentazione allegata al ricorso «copia delle dichiarazioni dei redditi e del registro dei beni ammortizzabili», non risulta che il medico ricorrente abbia avuto per gli anni dal 2004 al 2007 un’attività autonomamente organizzata rilevante ai fini dell’assoggettabilità all’Irap. Infatti a fronte dei compensi ricevuti dall’Asl di euro 92.600,00 per l’anno 2004, euro 96,210,00 per l’anno 2005, euro 99.966 per l’anno 2006 e di euro 119.564,00 per l’anno 2007 ha dichiarato effettivamente quote di ammortamento di euro 8325,00, di euro 9107,00, di euro 3067,00 e di euro 3680,00, assolutamente inidonee a qualificare come autonomamente organizzato il lavoro professionale svolto. Né risulta che negli anni in questione il professionista si sia avvalso di lavoro altrui neppure in modo occasionale. A tali considerazioni va aggiunto che con sentenza 9 settembre 2009, n. 23068 la Corte di Cassazione, decidendo un caso perfettamente identico, ha stabilito il principio che il medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, in assenza di un’autonoma organizzazione, non è soggetto all’Irap. Con la sentenza de qua la Corte ha stabilito che si è esclusi «dall’applicazione dell’imposta soltanto qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata e che il requisito della “autonoma organizzazione”, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (ex plurimis, Cass., n. 3673, n. 3678, n. 3680 del 2007)». Dalle motivazioni della sentenza si desume che l’esenzione deriva in primis dal fatto, del resto già acquisito in molte altre decisioni della Cassazione, che in capo ai medici convenzionati non si ravvisa l’autonoma organizzazione richiesta dalla normativa Irap in quanto inseriti in strutture organizzative con responsabilità ed interessi altrui e cioè del Ssn. In alternativa o in aggiunta a tale criterio, la Cassazione ha indicato anche i criteri di non disporre stabilmente di personale dipendente e di non aver effettuato un certo volume di acquisti di beni strumentali per l’attività esercitata. In sostanza il requisito dell’autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente è il responsabile dell’organizzazione, ha una dotazione di rilevanti beni strumentali o si avvale di dipendenti e solo in questo caso si configura un’attività soggetta ad Irap, con capacità contributiva ed entità produttiva di ricchezza autonomamente funzionante fino a quasi prescindere dall’opera del professionista. Nel caso in esame in uno alle caratteristiche peculiari del rapporto di lavoro intercorso con l’Asl è del tutto assente la presenza sia di personale dipendente che di rilevanti beni strumentali, che avrebbero in qualche modo potuto far ritenere il contribuente responsabile di una autonoma organizzazione e quindi assoggettabile all’Irap. Sulla base delle considerazioni esposte il Collegio dichiara la non assoggettabilità del contribuente all’Irap per gli anni dal 2004 al 2007 e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato. Inoltre, visto l’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, condanna l’ufficio a rimborsare al contribuente l’importo complessivo versato a titolo di Irap dal 15 maggio 2004 in poi, oltre gli interessi maturati e maturandi sulle somme corrisposte fino alla data del soddisfo. Considerata infine la particolarità della questione trattata dal Collegio ritiene giusto compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio.


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III Commissione tributaria provinciale di Torino, sez. XIII, 7 luglio 2009, n. 74 84 Presidente: Cocilovo - Relatore: Fugiglando Irap - Presupposto - Medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale - Organizzazione autonoma irrilevante - Esclusione del presupposto Irap (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) Il rapporto convenzionale con il Servizio sanitario nazionale che regola l’attività del medico di medicina generale esclude l’esistenza dell’ autonoma organizzazione ai fini della configurazione del presupposto ex art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997, in quanto l’organizzazione utilizzata non possiede quel quid pluris capace di accrescere l’arricchimento del professionista ulteriormente rispetto alle potenzialità individuali; è esclusa pertanto l’esistenza del presupposto impositivo ai fini dell’Irap. Svolgimento del processo Trattasi di ricorso avverso silenzio-rifiuto dell’Agenzia delle Entrate di Pinerolo a seguito di istanza di rimborso dell’Irap relativa agli anni 2004-2005-2006-2007 spedita in data 18 giugno 2008. La ricorrente fa presente di essere un medico che esercita l’attività prevalentemente in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale (Ssn) e, marginalmente, in forma privata. La ricorrente ritiene che l’attività esercitata nell’ambito della convenzione con il Ssn sia esclusa dall’ambito di applicazione dell’Irap in quanto deve adottare un modello organizzativo imposto da altri, e che la struttura non è idonea a sviluppare capacità aggiuntiva (quid pluris) alle risorse individuali del professionista. La ricorrente conclude chiedendo «in diritto ed in via principale: - riconoscere la non imponibilità ai fini Irap di tutti i proventi percepiti dal ricorrente negli anni dal 2004 al 2007 quale medico di medicina generale nell’esercizio dell’attività in convenzione con il Ssn, e, conseguentemente, - ordinare all’Agenzia delle Entrate, ufficio di Pinerolo, il rimborso dell’Irap liquidata e versata dal ricorrente con riferimento ai periodi di imposta dal 2004 al 2007, quantificabile in euro 11.592,86. Con rifusione di spese, diritti e onorari di causa». L’Agenzia delle Entrate di Pinerolo, costituitasi in giudizio, in primo luogo ritiene che la ricorrente non abbia fornito alcuna prova di non possedere i requisiti per la disapplicazione dell’imposta. Ritiene invece che la ricorrente sia assoggettabile all’Irap in fun-

zione dell’entità degli incassi, della presenza di beni ammortizzabili e di rilevanti spese relative agli immobili. Conclude chiedendo di voler respingere il ricorso, con vittoria delle spese. Motivi della decisione Riguardo alla questione preliminare sollevata dall’ufficio relativamente alla mancanza di prove fornite dalla ricorrente per non essere assoggettata all’Irap, essa deve essere respinta. Risulta infatti che all’istanza di rimborso sono state allegate le copie delle dichiarazioni dei redditi relative agli anni in questione, quindi dall’esame di dette dichiarazioni si possono trarre elementi per valutare la sussistenza dei presupposti per l’assoggettamento all’Irap. La Commissione ritiene che, nel caso di specie, risulta mancante il requisito della «autonoma organizzazione» in quanto l’attività di medico di base è rigorosamente regolata dalla convenzione con il Servizio sanitario nazionale. Del resto, i proventi riconosciuti al medico di base sono in funzione del numero dei mutuati, e quindi sfuggono a qualsiasi valutazione discrezionale di tipo economico o gestionale. In sintesi, qualunque sia l’organizzazione che il medico intende darsi, non ha alcuna rilevanza economica, in quanto non produce vantaggi economici maggiori rispetto a quelli prodotti con le proprie capacità individuali. Manca quindi quel quid pluris che l’organizzazione può dare in termini di arricchimento del medico, in sovrappiù rispetto a quanto da lui prodotto con le proprie capacità individuali. Nel merito, si ritiene che le quote di ammortamento indicate nelle dichiarazioni dei redditi degli anni in questione (euro 1174,00 per l’anno 2004; niente per l’anno 2005; euro 200,00 per l’anno 2006; euro 385,00 per l’anno 2007) siano tali da non ipotizzare un elevato valore dei beni strumentali. Le spese relative agli immobili (mediamente euro 12.000,00 per ognuno degli anni in questione) presuppone l’esistenza di uno studio, che del resto è richiesto dalla convenzione con il Ssn. Non sono esposti costi per dipendenti. Il ricorso è dunque da accogliere. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in euro 800,00 oltre Iva e Cp.

IV Commissione tributaria provinciale di Torino, sez. IX, 1 ottobre 2009, n. 106 85 Presidente: Denaro - Relatore: Arnone Irap - Presupposto - Medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale - Organizzazione autonoma irrilevante - Esclusione del presupposto Irap (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) L’organizzazione del medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale non assume alcuna rilevanza di natura economica ai fini della qualificazione dell’autonomia per mancanza del quid pluris di arricchimento per il professionista; è esclusa pertanto l’esistenza del presupposto impositivo ai fini dell’Irap. Svolgimento del processo La signora C.M., di professione medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, in data 2 settembre 2008 presenta istanza di rimborso di quanto versato a titolo di imposta regio-

nale sulle attività produttive (Irap) indebitamente versata, relativamente agli anni 2004-2005-2006. Contro il silenzio rifiuto dell’ufficio, la contribuente presentava in data 3 marzo 2009 ricorso. In particolare, eccepisce la carenza di legittimità passiva, quale medico di medicina generale nell’esercizio dell’attività in convenzione con il Servizio sanitario nazionale. Infatti, conferma la ricorrente, i medici di medicina generale non possiedono una struttura “autonomamente organizzata”, sottolinea la parte, come ampiamente definita dalla Corte di Cassazione, sono esclusi dall’ambito di applicazione dell’Irap, applicando il presupposto impositivo di cui all’art. 2 del D.L. n. 446/1997 e di conseguenza interpretando la Corte costituzionale. La struttura di tali medici, evidenzia la controparte, possiedono caratteristiche peculiari che le distinguono da quelle tipicamente utilizzate dai lavoratori autonomi e sono:


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- obbligatorietà di presenza; - prescrizioni e controlli dei locali; - presenza di personale infermieristico; - verifiche continue dell’attività convenzionata; - controllo con obbligo di adesione alle delibere. Continua: la peculiarità della figura del medico di medicina generale, non possiede tutte le caratteristiche tipiche del lavoro dipendente né del lavoro autonomo. L’organizzazione di cui dispone tale medico non possiede in nessuna circostanza l’indefettibile requisito “dell’autonomia”. Ciò in quanto, essa non può mai incidere in termini economicamente rilevanti sul processo di arricchimento del soggetto. Per quanto concerne la “clientela” conclude il ricorrente, dipende più che altro dalla vicinanza logistica piuttosto che il personale impiegato nello studio. Chiede: in via principale, riconoscere la non imponibilità ai fini Irap di tutti i proventi percepiti del ricorrente dal 2004 al 2007, quale medico di medicina generale nell’esercizio dell’attività in convenzione con il Ssn. Ordinare il rimborso Irap per un totale di euro 12.320,19. L’Agenzia delle Entrate di Torino 2 costituitasi in giudizio, preliminarmente ritiene che il ricorrente non abbia affermato alcuna prova di non possedere i requisiti di non applicazione dell’imposta in discussione. E ancora: l’ente fiscale conferma che la ricorrente sia soggetto passivo di Irap in relazione diretta alla quantità degli introiti e della utilizzazione di beni ammortizzabili e le relative spese agli immobili. Conclude, chiedendo di voler respingere il ricorso con vittoria delle spese.

Motivi della decisione Per quanto concerne la questione preliminare sostenuta dall’Agenzia delle Entrate di Torino 2, relativamente alla mancanza di prove fornite dalla ricorrente per non essere assoggettata all’imposta Irap deve essere respinta. La Commissione, ritiene nel caso specifico, mancante il requisito della “autonoma organizzazione” in quanto l’attività di medico di base è rigorosamente regolata dalle convenzioni con il Servizio sanitario nazionale. Conseguentemente gli introiti attribuiti al medico convenzionato sono direttamente proporzionali al numero dei mutuati e quindi incontrollabili a qualsiasi valutazione discrezionale di tipo economico o della gestione. In conclusione, qualsiasi sia l’organizzazione che il medico assume, non ha alcun riflesso di rilevanza economica, in quanto non produce vantaggi economici maggiori rispetto a quelli prodotti con la propria capacità individuale. Manca quindi, quel così detto quid pluris che l’organizzazione può dare in termini di arricchimento del medico, in sovrappiù rispetto a quanto prodotto con le proprie capacità individuali. Nel merito, si ritiene che le spese di ammortamento indicate nelle dichiarazioni dei redditi negli anni dal 2004 al 2007 siano tali da non ipotizzare un elevato valore dei beni strumentali. Le spese relative agli immobili, per ognuno degli anni in questione, presuppongono l’esistenza di uno studio che del resto è richiesto dalla convenzione con il Servizio sanitario nazionale. La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate.

V Commissione tributaria provinciale di Cuneo, sez. III, 27 ottobre 2009, n. 163 86 Presidente e Relatore: Lanza Irap - Presupposto - Medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale - Organizzazione autonoma irrilevante - Esclusione del presupposto Irap (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) L’organizzazione del medico di medicina generale utilizzata per lo svolgimento dell’attività prevista dalla convenzione con il Servizio sanitario nazionale non può mai essere “autonoma”, in considerazione del particolare regime di vincoli cui il soggetto deve sottostare, nonché delle caratteristiche della struttura del compenso; è pertanto irrilevante la prova relativa all’esistenza di beni strumentali utilizzati ed è inesistente il presupposto impositivo ai fini dell’Irap. Svolgimento del processo Con ricorso dell’11 febbraio 2009 il dott. F.M. ha chiesto il rimborso dell’Irap versata per gli anni 2004/2005 e 2006 per il quale aveva formulato il 14 giugno 2008 istanza di rimborso alla quale l’ufficio di Cuneo dell’Agenzia delle Entrate non ha dato risposta. Ha sostenuto il ricorrente di svolgere l’attività di medico di medicina generale convenzionato con il Ssn, attività analoga a quella svolta dal libero professionista, ma in realtà dalla stessa ben diversa per cui egli è privo, per usare un’espressione della Comm. trib. reg. Piemonte (sent. 19 marzo), di «un’organizzazione autonoma foriera di determinare un valore aggiunto tassabile». Il ricorrente ha prodotto copia di alcuni quadri del suo mod. unico 2005/2006 e 2007 tra cui i quadri RE dai quali risultano delle limitate spese. L’ufficio di Cuneo dell’Agenzia delle Entrate si è costituito in causa chiedendo la reiezione del ricorso esponendo quale è la ra-

tio dell’imposta in questione ed i principali precedenti giurisprudenziali (sentenza 156/2001 Corte costituzionale, decisioni di Comm. trib. prov. e di Comm. trib. reg. di questa stessa Commissione nonché una sentenza della Corte di Cassazione e quella dell’ottobre 2006 della Corte di Giustizia Europea). Più volte dal febbraio 2007 la Corte di Cassazione ha però affermato che per la sussistenza dell’autonoma organizzazione che costituisce il presupposto per l’assoggettamento ad Irap dei soggetti esercenti arti e professioni indicati dall’art 49, comma 10, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 non è necessaria un’auto-organizzazione creata e gestita dal professionista senza vincoli di subordinazione. ma deve sussistere un apparato esterno alla persona del professionista e distinto da lui, frutto dell’organizzazione di beni strumentali e di lavoro altrui. In particolare la Suprema Corte ha ritenuto (Cass., 16 febbraio 2007, n. 3674) non assoggettabile ad Irap proprio l’esercizio di attività di medico in convenzione con un’azienda sanitaria locale, svolta dal contribuente senza l’ausilio di dipendenti e con l’impiego di beni strumentali limitati, come è indubbiamente il caso del dott. M. È inoltre noto che i cd. medici di famiglia, convenzionati con il Ssn percepiscono un compenso che è stabilito unicamente in relazione al numero di “mutuati” che li hanno scelti per cui non può in alcun modo affermarsi che una maggiore o minore loro organizzazione possa comportare un quid pluris nelle loro entrate e cioè, come si è detto, «un’organizzazione autonoma foriera di determinare un valore aggiunto tassabile». Può addirittura affermarsi che nei casi dei medici convenzionati con il Ssn non debba neppure essere loro richiesta la prova (che negli altri casi la Corte di Cassazione precisa incombere al ricorrente e che normalmente viene fornita con la produzione in causa di copia del quadro RE dal quale risultano le spese sostenute,


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e quindi anche quelle per l’attrezzatura e per l’eventuale personale) in quanto, come si è detto, la retribuzione dei medici in questione dipende unicamente dal numero di “mutuati” che li hanno scelti e non è in alcun modo influenzata da una minore o maggiore organizzazione della quale i medici stessi possono disporre. Le richieste del ricorrente devono quindi essere accolte e le spese, seguendo la soccombenza, devono essere poste a carico dell’ufficio.

Quanto alle spese di causa, va infatti ricordato che l’obbligo del rimborso delle spese processuali si fonda essenzialmente sul principio di causalità, di cui la soccombenza costituisce il principale elemento rivelatore. Il detto principio risponde alla necessità di ristorare la parte vittoriosa degli oneri inerenti al dispendio di attività processuale legata con nesso causale con l’iniziativa dell’avversario, ovvero del soggetto che, con le proprie domande o con il suo atteggiamento omissivo abbia causato la lite.

I-V Nota di Alessandro Meloncelli

Il più recente orientamento dei giudici di merito qui segnalato invece, ha segnato il superamento del metodo di accertamento della singola fattispecie relativa al contesto organizzativo con cui abbia operato individualmente il lavoratore autonomo. Piuttosto, la ricostruzione del fenomeno impositivo e la fattispecie concreta hanno indotto alla conclusione dell’inesistenza del presupposto per l’applicazione del tributo ai redditi, ancorché qualificati come redditi di lavoro autonomo, ritratti dall’esercizio dell’attività esercitata dei Mmg nell’ambito della convenzione con il Ssn. La verifica del presupposto quindi è passata dalla valutazione della condizione soggettiva del singolo contribuente a quella dell’attività esercitata. Come meglio si evidenzierà nelle conclusioni, nel caso della categoria dei Mmg indipendentemente dalle caratteristiche che ne possano misura l’ampiezza e l’articolazione, l’organizzazione non imprime mai quel quid pluris all’attività del libero professionista in misura economicamente apprezzabile, riconoscendo la mancanza della connessione tra l’importanza e la consistenza dell’organizzazione da un lato, e l’attività esercitata dall’altro, nei termini che fiscalmente possano rilevare. Qualora questo orientamento interpretativo fosse in futuro confermato dalla Corte di Cassazione si sarebbe configurata l’ipotesi, probabilmente non frequente, di un ruolo significativamente anticipatore da parte delle corti di merito. Prima di esaminare nello specifico il contenuto delle decisioni dei giudici è opportuno premettere brevemente le caratteristiche più tipiche dell’attività esercitata dai Mmg, nonché richiamare la definizione di “autonomia” dell’organizzazione che secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione integra il presupposto per l’applicazione del tributo. Nella conclusione si verificherà l’ipotesi di inesistenza del presupposto impositivo applicando la configurazione dei requisiti al modello organizzativo dei Mmg.

Premessa Alcune recentissime decisioni delle corti di merito hanno evidenziato aspetti peculiari della definizione di “autonomia” dell’organizzazione utilizzata nell’esercizio dell’attività di assistenza primaria da parte dei medici di medicina generale (Mmg) nell’ambito della convenzione con il Servizio sanitario nazionale (Ssn). L’orientamento interpretativo assume un notevole interesse in quanto, pur facendo riferimento ad un profilo definitorio del presupposto in relazione alla specifica categoria soggettiva, poggia comunque sui solidi presupposti elaborati dalla Corte di cassazione e per questo possiede una rilevanza tale da contribuire alla definizione generale di “autonomia” dell’organizzazione ai fini dell’applicazione dell’Irap. Secondo la ricostruzione dei giudici non sarebbe possibile configurare il presupposto per l’applicazione dell’Irap ai redditi ritratti dai Mmg, in quanto l’organizzazione utilizzata per l’esercizio dell’attività non integra il requisito dell’autonomia come richiesto dalla Corte costituzionale e come definito dalla Corte di cassazione. La mancanza del presupposto è una condizione verificata in misura strutturale e quindi insita nelle caratteristiche dell’organizzazione normalmente utilizzata per l’esercizio dell’attività convenzionata con il Ssn. Di talché, l’accertamento dei requisiti per l’applicabilità dell’Irap alla categoria dei Mmg si sottrae alla tipica impostazione solitamente sperimentata per i lavoratori autonomi. Tale metodo come noto, ormai consolidato nelle numerosissime pronunce sulla tassazione del lavoro autonomo, consiste nella misurazione, relativamente alle singole circostanze, dei fattori produttivi che, accertati essere superiori ad una significativa consistenza, assicurerebbero all’organizzazione quell’ “autonomia” dallo stesso titolare che ne configura il presupposto d’imposta1. Dalla pronuncia n.156/2001 della Corte costituzionale in più occasioni si è tentato di configurare legislativamente una tipica organizzazione autonoma del professionista, ma proprio la convinzione della difficoltà dell’individuazione di uno standard quantitativo rispetto alla varietà delle circostanze possibili, ha definitivamente convinto della necessità di lasciare al giudice la valutazione caso per caso2.

1 Per la prima decisione in materia di lavoro autonomo v. Cass. n. 21203/2004, in Riv. Giur. Trib., 2005, 21 con nota di BOTRITO, La prima pronuncia della Corte di Cassazione “Irap professionisti”; per la ricostruzione complessiva v. SCHIAVOLIN, L’imposta regionale sulle attività produttive, Milano, 2007; per i più recenti riferimenti v. Id., L’autonomia organizzativa nell’Irap: il faticoso sviluppo del “diritto vivente” nella giurisprudenza di merito, in questa rivista n.4/2008; la sent. Cass., n. 8971/2007, è la prima decisione con cui si è descritto precisamente in cosa consista l’organizzazione di cui dispone il medico convenzionato con il Ssn. L’attività è eser-

L’attività di lavoro autonomo del medico e le limitazioni del regime convenzionale I soggetti appartenenti alla categoria dei Mmg ritraggono il loro reddito principalmente dall’attività esercitata in regime convenzionale con il Ssn in base all’Accordo collettivo nazionale (Acn) previsto dall’art.8 D.Lgs n. 502/1992 e marginalmente dalla propria attività specialistica esercitata privatamente. Nella modello unico tali

citata «in via esclusivamente personale, senza avvalersi della collaborazione di dipendenti e con l’ausilio di una sola autovettura ad uso promiscuo» nonché «di beni strumentali consistenti in tavolino, lettino, sfigmomanometro e fonendoscopio». Tale configurazione è stata ritenuta dai giudici non sufficiente ad attribuire all’organizzazione il carattere dell’autonomia e perciò ad integrare per il medico il presupposto imponibile; da ultimo v. Comm. trib. reg. Torino, sez. 32 n. 19, dep. 23 giugno 2008, con la quale si è stabilito che «[...] beni strumentali come mobili di studio, telefono, computer e stampante, autovettura, sterilizzatore, sfigmomano-

metro, elettrocardiografo, oftalmoscopio (valore complessivo lire 50.253.000) [...] costituiscono il minimo indispensabile per uno svolgimento corretto e consapevole dell’attività professionale». 2 È da evidenziare che i giudici della Cassazione hanno ritenuto l’accertamento dell’esistenza dei requisiti di un’autonoma organizzazione, come una mera questione di fatto. Questo orientamento è stato confermato dal frequente rinvio al giudice di merito, cfr le prime pronunce con un dispositivo di rinvio alla Commissione tributaria regionale, Cass. n. 6726/2008, n. 1414/2008, n. 19860/2008, n. 21421/2008.


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redditi sono dichiarati nel quadro E, quindi disciplinati dalle disposizioni contenute negli articoli 53 e 54 del T.U.I.R. n. 917/1986. I proventi convenzionali percepiti dalla Asl sono certificati dal rilascio di un’ attestazione, nonché dalla ritenuta alla fonte a titolo d’acconto del 20% e dalle ritenute previdenziali a favore dell’Enpam. I compensi percepiti per l’attività professionale privata sono certificati dall’emissione della fattura secondo l’ordinaria disciplina prevista per i lavoratori autonomi, senza applicazione dell’Iva ai sensi dell’articolo 10 del D.P.R. n.633/1972, intestata direttamente al paziente che ne paga il corrispettivo. La struttura organizzativa con cui i Mmg esercitano la propria attività possiede caratteristiche che la distinguono da quella tipicamente utilizzata dai lavoratori autonomi. Le peculiarità nascono dalla obbligatorietà di rispettare quanto previsto dalla Convenzione nazionale con il Ssn, che ne implica un vero e proprio regime di vincoli e limitazioni cui i Mmg devono sottostare nell’esercizio della loro attività. Si pensi: a) alla obbligatorietà di presenza settimanale e quindi alla individuazione di un numero di ore minime giornaliere di attività nel proprio studio medico; b) alle prescrizione e ai controlli circa i requisiti dei locali in cui si esercita l’attività e della strumentazione di dotazione; c) alla obbligatorietà, in alcune Regioni, della presenza di personale di studio di tipo infermieristico per poter esercitare l’attività nelle forme di aggregazione professionale previste dalla convenzione ; d) ai limiti di anzianità imposti oltre i quali è vietato l’esercizio dell’attività; e) al monitoraggio e alle continue verifiche dell’attività, come ad esempio l’obbligo di trasmissione informatizzata quotidiana alla azienda sanitarie di appartenenza del numero degli accessi ambulatoriali e delle visite domiciliari effettuate; f) all’obbligatorietà del rispetto di quanto previsto dalle delibere regionali e delle Asl circa l’indirizzo generale dell’attività; g) alla previsione di un numero minimo e massimo di assistiti; h) alle limitazione dell’attività libero professionale, eventualmente svolta dal professionista, fino alla decurtazione del numero di assistiti in relazione al tempo dedicato a tale attività. A ciò si aggiunga la particolare struttura del compenso prevista dalla convenzione, secondo la quale i Mmg per l’esercizio della loro attività sono remunerati con un compenso prestabilito attribuito in base al criterio capitario per ogni assistito. Cosicché la retribuzione complessiva dei Mmg oltre ad essere predeterminata è anche prevedibile nella sua quantificazione, essendo legata a criteri parametrati. Nell’esercizio della propria attività dunque il medico è da un lato, sottoposto a vincoli che limitano la libertà di impiego delle proprie risorse fisiche, intellettuali e patrimoniali; dall’altro, dispone di un’organizzazione di mezzi, di personale e di risorse economiche funzionale alla realizzazione di obiettivi legati a standard qualitativi, predefiniti nell’ambito del rapporto convenzionale, piuttosto che volti al potenziamento della capacità espansive dell’attività esercitata dal professionista. È bene inoltre, precisare che le conclusioni sin qui svolte non cam-

3 L’art.4 delle norme finali dell’Acn prevede che, sulla base di accordi regionali, le Asl possono corrispondere una quota dei compensi destinati ai singoli Mmg alle strutture associate di cui questi facciano parte. Con ciò alla struttura sono fornite le risorse finanziarie per fronteggiare i costi per l’esercizio dell’attività dei Mmg, ma titolari del reddito complessivo continuano ad essere solo questi ultimi. Le somme attribuite all’ente associativo sono quindi redditualmente imputate al singolo medico, ma destinate a titolo di finanziamento all’ente di cui faccia parte.

biano sostanzialmente neanche nella circostanza in cui i Mmg svolgano la loro attività organizzati in forma associata. Infatti, per espressa previsione convenzionale, legittimati all’esercizio dell’attività possono essere solo i Mmg. La titolarità del rapporto regolato dalla convenzione e i vincoli che ne derivano, sono individuali e specifici. Pertanto, i titolari del reddito ritratto dall’ attività convenzionale sono solo i singoli soggetti che sono anche i percettori dei proventi direttamente dall’azienda sanitaria. L’associazione professionale, o qualsiasi altro ente associativo anche con scopo di lucro, non può essere titolare di questi redditi, ma soltanto di quelli ottenuti dall’attività di tipo specialistico esercitata dagli associati e remunerata direttamente dai pazienti destinatari della prestazione. 3 Tale attività rientra tra quelle tipiche della libera professione, per le quali non può escludersi l’applicazione dell’Irap. Quindi, anche nel caso di esercizio in forma associata dell’attività, la struttura associativa è soggetto passivo dell’Irap, ma solo limitatamente ai proventi di cui sia essa titolare che sono quelli libero professionali relativi alla privata attività specialistica esercitata dai singoli associati. Di quelli relativi alle prestazioni la cui erogazione è regolata dalla convenzione invece, continuano ad essere titolari solo ed esclusivamente i singoli Mmg4. L’organizzazione è «autonoma se è in grado di ampliare i risultati profittevoli» del libero professionista La sentenza n. 156 del 2001 la Corte costituzionale, pur dichiarando legittima l’Irap, con la tecnica dell’obiter dictum ha evidenziato l’imprescindibile requisito dell’“autonomia” dell’organizzazione utilizzata dal lavoratore autonomo perché possa essere assoggettato all’Irap.5 La Corte ha rinviato al legislatore ordinario l’onere di intervenire per definire i criteri di individuazione di un’organizzazione qualificabile come “autonoma”. Il Parlamento, come è noto, a tale proposito non si è mai pronunciato, cosicché ad oggi è possibile affidarsi solo allo sforzo interpretativo della giurisprudenza che per approssimazioni successive ha fornito una definizione di autonoma organizzazione secondo un’ampia declinazione, ma comunque riconducibile a singole fattispecie. Gli orientamenti della giurisprudenza di merito sono stati distinti dalla dottrina secondo alcuni indirizzi fondamentali. È stata definita “autonoma” l’organizzazione di un professionista anche solo per il fatto di non essere inserito nella struttura di un altro professionista, quindi una sorta di “auto-organizzazione” che di per sé possiede il carattere della completezza e quindi della funzionalità. In altre circostanze è stata rilevata nell’organizzazione l’ imprescindibilità della presenza del professionista, quindi del ruolo svolto di coordinatore. Secondo altri indirizzi invece è stato evidenziato l’aspetto quantitativo dell’organizzazione, quindi la rilevanza e la consistenza di quanto utilizzato dal professionista. La preponderanza della struttura rispetto al lavoro del professionista, l’utilizzo di lavoro altrui, la cospicuità degli investimenti impiegati, palesano una capacità contributiva misurata dal potenziamento dell’attività professionale6.

4 La distinzione dei compensi individuali relativi all’attività convenzionata da quelli relativi all’attività specialistica di cui può essere titolare anche la struttura associativa pone in astratto un problema di inerenza di costi per l’acquisizione di beni e servizi certamente della medesima natura ma di differente destinazione nell’impiego e quindi nella formazione dei redditi, nel caso in cui questi fossero sostenuti ed imputati per intero alla struttura associativa. 5 Per i primi interventi, cfr BATISTONI FERRARA, Prime impressioni sul salvataggio dell’Irap, in Rass. Trib., 2001, 833; MARONGIU, La Con-

sulta «salva» l’Irap dalle censure di incostituzionalità, in Riv. Giur. Trib., 2001, 985; Id., Irap, lavoro autonomo e Corte costituzionale: le possibili conseguenze pratiche, in Dir e Prat. Trib., 2001, II, 659; SCHIAVOLIN, Prime osservazioni sulla affermata legittimità sull’imposta regionale sulle attività produttive, in Giur.It., 2001, 1979. 6 Cfr per i più ampi e specifici riferimenti sia alla giurisprudenza che ai commenti SCHIAVOLIN, L’autonomia organizzativa nell’Irap: il faticoso sviluppo del “diritto vivente” nella giurisprudenza di merito, in questa rivista, 4, 2008.


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Dal panorama interpretativo fornito dalle corti di merito la Corte di cassazione, nella sua funzione nomofilattica, ha ritratto definizioni interpolate tra aspetti dell’organizzazione di tipo quantitativo, ovvero aspetti attinenti alla riferibilità degli elementi dell’organizzazione al soggetto titolare. È stata evidenziata la straordinarietà dell’assenza dell’organizzazione che esclude dall’assoggettamento il lavoratore autonomo, rispetto all’ordinaria imponibilità del soggetto normalmente dotato nell’esercizio della sua attività di un’organizzazione sufficientemente articolata ed ampia da integrare il presupposto dell’ “autonomia”. Il requisito dell’“autonoma organizzazione”, così come più frequentemente i giudici lo hanno individuato, «ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui» Tali formulazioni insieme ad altre, quali «prevalenza dell’intuitus personae sulla potenzialità produttiva», ovvero «combinazione di mezzi e persone tale da poter operare, e quindi produrre reddito, indipendentemente dall’attività personale del titolare» denotano l’orientamento dei giudici ad assoggettare al tributo quei professionisti la cui attività supera il limite di una dimensione in cui il valore aggiunto sia prodotto unicamente dalla mera presenza e partecipazione del professionista. Da qui anche l’indefettibilità soggettiva del contribuente, come qualche giudice ha ipotizzato, nonché, a proposito della strumentazione in dotazione del professionista, la definizione di “indispensabile” come limite ammesso dai giudici, indipendentemente dal valore o dalla consistenza. Al contrario, vale l’esclusione dall’imposta, nei contesti in cui il lavoratore autonomo «operi con un minimo di mezzi materiali ma senza l’ausilio di dipendenti, collaboratori e procuratori di ogni tipo, esterni od interni e consistenti beni strumentali»7. Particolarmente significative sono le conclusioni della sent. n.3678/2007: «il tributo colpisce una capacità produttiva impersonale ed aggiuntiva rispetto a quella propria del professionista perché, se è innegabile che l’esercente una professione intellettuale concepisce il proprio lavoro con il contributo determinante della

7 Cfr Cass., sent. n. 3673, n. 3676, n. 3677, n. 3678, n. 3680, n. 5020, n. 6502, n. 7895, n. 7897, n. 8170, n. 8174, n. 8971, n. 9211/2007. Cfr Cass., n. 9214/2007, con cui i giudici si sono espressi a favore delle ragioni sostenute da un ragioniere commercialista che non essendo proprietario di alcuna attrezzatura non era dotato di un’autonoma organizzazione, a nulla rilevando il fatto che avesse stipulato un contratto con una società di servizi che gli metteva a disposizione tutta l’attrezzatura necessaria all’esercizio della sua attività. Con ciò i giudici hanno escluso l’applicazione dell’irap al professionista non proprietario di mezzi sufficienti a configurare un’organizzazione autonoma; v. Cass., n. 8971/2007, che rappresenta la prima decisione con cui si descrive precisamente in cosa consista l’organizzazione di cui dispone il medico convenzionato con il Ssn: l’attività è stata descritta «in via esclusivamente personale, senza avvalersi della collaborazione di dipendenti e con l’ausilio di una sola autovettura ad uso promiscuo» nonché «di beni strumentali consistenti in tavolino, lettino, sfigmomanometro e fonendoscopio». Tale

propria cultura e preparazione professionale, producendo in tal modo la maggior parte del reddito di lavoro autonomo, è altresì vero che quel reddito complessivo spesso scaturisce anche dalla parte aggiuntiva di profitto che deriva dal lavoro dei collaboratori e dipendenti, dal numero e grado di sofisticazione dei supporti tecnici e logistici, dalle prestazioni di terzi, da forme di finanziamento diretto e indiretto [...]». A parere dei giudici della suprema Corte, è la presenza di questo “differenziale” di arricchimento prodotto dalla struttura organizzativa, rispetto a quanto riconducibile all’impiego di risorse individuali, a determinare l’assoggettabilità all’Irap. Dunque la Corte di cassazione ha stabilmente fatto ricorso a formule apparentemente volte ad evidenziare l’impatto quantitativo dei fattori impiegati dal professionista. La qualifica di “autonoma” è attribuita all’organizzazione nel momento in cui, in base alle valutazioni del giudice, la dimensione e la consistenza della strumentazione utilizzata e delle risorse umane impiegate abbia raggiunto un importanza tale da produrre quel quid pluris all’attività esercitata dal professionista economicamente apprezzabile. Conclusioni e ricostruzione dei fenomeni Gli argomenti sostenuti dai giudici nelle decisioni delle corti di merito cui ci si riferisce in questa sede, sono basati sulla ricostruzione del presupposto di applicabilità del tributo, interpretando il collegamento tra le specificità dell’attività di lavoro esercitata dal medico convenzionato e la definizione di autonomia dell’organizzazione fornita dalla Corte di Cassazione. L’interesse delle decisioni è evidenziato dalla novità di un profilo della rilevanza dell’organizzazione ai fini dell’integrazione del presupposto impositivo che, seppure desumibile dalla trama delle definizioni fornite dalla Cassazione, possiede una configurazione propria dovuta alla specificità della fattispecie dell’esercizio di un’attività sottoposta alle limitazioni di una convenzione. L’indirizzo interpretativo può essere fatto risalire a due decisioni di Comm. trib. prov. che, pur distanti geograficamente e non coincidenti cronologicamente, introducono elementi significativi verso la necessaria ponderazione di aspetti peculiari dell’organizzazione dei Mmg. Nella prima, Commissione tributaria provinciale di Torino n. 101/10/2008 del 20 novembre 2008, tra i motivi della decisione

configurazione è stata ritenuta dai giudici non sufficiente ad attribuire all’organizzazione il carattere dell’autonomia e perciò ad integrare per il medico il presupposto imponibile; v. la successiva Cass., n. 23309/2008, che pur nelle sue scarne motivazioni, afferma alcune ragioni che è importante evidenziare e sintetizzare: a) Il presupposto economicamente rilevante coinvolto dalla imposizione dell’Irap è rappresentato da «capacità produttiva impersonale ed aggiuntiva rispetto a quella propria del professionista, determinata dalla sua cultura e preparazione professionale»; b) la parte di reddito imputabile al professionista colpita dal tributo è «quella derivante da una struttura organizzativa esterna, [...] cioè suscettibile di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al know-how del professionista»; c) «è il surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa che coadiuva ed integra il professionista nelle incombenze ordinarie ad essere interessato dall’imposizione che colpisce l’incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispet-

to alla produttività auto organizzata dal solo lavoro personale», i giudici, evidenziando che a supporto del medico non esiste alcuna struttura così amplia da concretizzare il presupposto, concludono a favore del contribuente la non applicabilità del tributo. In sostanza, pur affrontando il caso specifico di un medico nell’esercizio della sua attività convenzionata, il caso è stato risolto con il tradizionale approccio sull’individuazione del presupposto: l’inapplicabilità dell’Irap è dovuta alla assenza di un’organizzazione ampia e articolata tanto da escludere che questa si configuri come “autonoma” e quindi incapace di attribuire al professionista una quota aggiuntiva di ricchezza. Il che implica che, qualora tale organizzazione avesse superato i limiti di quanto minimamente necessario all’esercizio dell’attività, si sarebbe configurato il presupposto impositivo. Tuttavia, sono state utilizzate proprio quelle argomentazioni in base alle quali nell’evoluzione interpretativa delle più recenti decisioni delle corti di merito è stata esclusa la presenza del presupposto impositivo nell’organizzazione di tutti i Mmg.


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si ribadiscono gli argomenti tipici, oramai cristallizzati dalla Corte di cassazione circa la mancanza dell’autonomia dell’organizzazione che, come abbiamo detto sono ricorrenti nella fattispecie dei contribuenti lavoratori autonomi. Tuttavia, in un inciso conclusivo si legge: «a tanto aggiungasi che l’attività del medico generico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, è rigorosamente regolata dall’apposita convenzione per cui, anche sotto questo profilo, si ritiene che manchi il requisito dell’autonoma organizzazione». Nella sentenza della Commissione tributaria provinciale di Caserta pubblicata in data 8 gennaio 2009, n. 9/05/2009 invece, i motivi a sostegno della decisione favorevole al medico ricorrente sono invertiti. Quello principale è così rappresentato: «preliminarmente, il Collegio ritiene che tutti gli elementi caratterizzanti il rapporto intercorrente tra il medico convenzionato e il Servizio sanitario nazionale escludono di per sé l’esistenza di un’organizzazione autonoma, e non renderebbero necessarie le prove per la verifica dell’esistenza o meno della organizzazione rilevante ai fini dell’assoggettabilità all’Irap». Ad ulteriore sostegno i giudici evidenziano che nel caso specifico non esiste neanche un’ampiezza dell’organizzazione tale da poterla qualificare come “autonoma”. In questo ultimo caso quindi, l’argomentazione della specificità del Mmg è rappresentata dal fatto che come libero professionista non può mai essere dotato di un’organizzazione autonoma, e rispetto alla decisione della Comm. trib. prov. di Torino, è diventato il motivo principale nella convinzione dei giudici a sostegno della non assoggettabilità al tributo. Tanto è decisiva questa interpretazione, sostengono inoltre i giudici, che per questo motivo «non si renderebbero necessarie le prove dell’esistenza o meno dell’organizzazione rilevante ai fini dell’assoggettabilità all’Irap». In altri termini, l’esercizio dell’attività da parte del Mmg in convenzione con il Ssn per le sue precipue caratteristiche strutturali non può configurare mai «un’organizzazione autonoma». Ciò è sufficiente per escludere dalla tassazione il relativo reddito. Le conclusioni circa la mancanza del presupposto impositivo all’attività del Mmg, è stata anticipata da un tentativo intermedio di riqualificazione fiscale del soggetto passivo e della attività esercitata8. Il regime dei vincoli e della predeterminazione delle modalità di esercizio dell’attività hanno fatto supporre l’esistenza in realtà di un rapporto di “parasubordinazione”, ovvero di un rapporto di coordinazione continuativa del Mmg rispetto al Ssn: «il Collegio ritiene che [...] allorché l’attività professionale sia esercitata come medico convenzionato con il Ssn, venga posta in essere di fatto come una attività professionale regolata da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, senza vincolo di subordinazione, che la stessa amministrazione finanziaria riconosce non assoggettabile ad Irap» ovvero «l’attività di medico convenzionato con il Ssn pur conservando come nel caso di specie notevoli guadagni (ma non è il maggior o minor reddito il presupposto impositivo) è comunque soggetta a numerosi vincoli, a prescrizioni e controlli circa i requisiti dei locali in cui viene esercitata ed altri ancora, così come evidenziati dal ricorrente

8 A tale proposito si ricordi l’orientamento della giurisprudenza tendente a riqualificare l’attività dell’agente di commercio come professionale in dipendenza del tipo di organizzazione utilizzata, v. Cass., sez trib., ord. n. 2702/2008, in Boll. Trib., 2008, 526, con nota di COLLI VIGNARELLI, Irap: una possibile «apertura» per gli imprenditori non organizzati?»; Corte cost., ord. n. 227/2007; Cass., n. 7734/2008. 9 V. nello specifico Comm. trib. prov. Torino, sez. 11, reg. gen. n. 472, 16 luglio 2009; Comm. trib.

nelle proprie difese, il che la assimilano ad un’attività simil parasubordinata, che mal si concilia con l’applicazione dell’imposta in questione»9 Tale qualificazione ha origine già nella giurisprudenza della Cassazione, fatta propria poi dalla stessa Agenzia delle Entrate10. La categoria della “parasubordinazione”, pur non trovando alcuna classificazione nella disciplina fiscale, tuttavia è significativa della peculiarità della figura del Mg che non possiede tutte le caratteristiche tipiche né del lavoro dipendente né del lavoro autonomo. Con ciò si spiega vieppiù, l’irrilevanza di un’organizzazione che se non sempre è significativa per i tipici lavoratori autonomi non lo sarebbe mai per i Mmg. Una definitiva nettezza circa la mancanza del presupposto invece si è mostrata allorquando si è affermato che: «manca quel quid pluris che l’organizzazione può dare in termini di arricchimento del medico, in sovrappiù rispetto a quanto da lui prodotto con le proprie capacità individuali», ovvero «è noto che i cd. medici di famiglia, convenzionati con il Ssn percepiscono un compenso che è stabilito unicamente in relazione al numero di mutuati che li hanno scelti, per cui non può in alcun modo affermarsi che una maggiore o minore loro organizzazione possa comportare un quid pluris nelle loro entrate e cioè, come si è detto,un’organizzazione autonoma foriera di determinare un valore aggiunto tassabile. Può addirittura affermarsi che nei casi dei medici convenzionati con il Ssn non debba neppure essere loro richiesta la prova (che negli altri casi la Corte di Cassazione precisa incombere al ricorrente e che normalmente viene fornita con la produzione in causa di copia del quadro RE dal quale risultano le spese sostenute, e quindi anche quelle per l’attrezzatura e per l’eventuale personale) in quanto, come si è detto, la retribuzione dei medici in questione dipende unicamente dal numero di mutuati che li hanno scelti e non è in alcun modo influenzata da una minore o maggiore organizzazione della quale i medici stessi possano disporre»11. Quindi, è la presenza di questo “differenziale” di arricchimento prodotto dalla struttura organizzativa, rispetto a quanto riconducibile all’impiego di risorse individuali, a determinare l’assoggettabilità all’Irap, così come tradizionalmente affermato dalla Corte di Cassazione. Tuttavia, si è ritenuto di attribuire alla struttura autonomamente organizzata utilizzata per l’esercizio dell’attività del libero professionista, non un valore in sé dovuto esclusivamente alla mera esistenza, bensì una importanza legata alla attitudine di questa ad imprimere all’attività del lavoratore autonomo un quid pluris economicamente rilevante in termini di maggiore capacità di arricchimento che altrimenti il soggetto passivo, confidando solo sulle proprie risorse intellettuali, non avrebbe ottenuto. Che il sintomo di questa attitudine sia generalmente rappresentato dal dato quantitativo delle dimensioni della struttura e delle attrezzature, ciò non deve far dimenticare che il fattore decisivo rimanga la capacità dell’organizzazione di imprimere un arricchimento del professionista. Soltanto al verificarsi dell’esistenza di questa peculiare forza e capacità, il fattore organizzazione si qualifica di quella “autonomia” che sancisce la capacità di integrare il presupposto del tri-

reg. Campania, sez. 44, n. 25, dep. 9 febbraio 2009, Comm. trib. reg. Toscana, sez. 18, n. 5, dep. 21 febbraio 2008. 10 Ris. n. 304 del 21 luglio 2008 nella quale così si qualifica l’attività: «le prestazioni rese dal medico di famiglia verso i cittadini-utenti del Servizio sanitario nazionale trovano fondamento nel rapporto cd. convenzionale esistente tra il professionista e il Servizio sanitario nazionale, che in base alle disposizioni della legge 23 dicembre 1978 n. 833 (isti-

tutiva del Servizio sanitario nazionale), ha natura privatistica di prestazione d’opera professionale, svolta con caratteristiche di parasubordinazione (Cfr. Cass., sez. lavoro, 8 aprile 2008, n. 9142; in senso conforme Cass., sez. un., 21 ottobre 2005, n. 20344). 11 V. nello specifico Comm. trib. prov. Cuneo, sez. 3, n. 163, dep. 27 ottobre 2009; Comm. trib. prov. Torino, sez. 13, n. 73 e 74, dep. 7 luglio 2009; Comm. trib. prov. Torino, sez. 9, n. 106, dep. 1 ottobre 2009.


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buto. Al contrario, un’organizzazione, per quanto ampia e articolata nella sua struttura e che possegga esclusivamente la capacità di incidere in termini qualitativi sulle modalità di erogazione del servizio, senza per questo sviluppare alcun potenziale economicamente rilevante, non soddisfa i requisiti definitivamente indicati dalla giurisprudenza della Suprema Corte e non si qualifica quindi come presupposto d’imposta. Nel caso dei Mmg, per le caratteristiche della struttura del rapporto convenzionale con il Ssn, le attrezzature, le collaborazioni e comunque l’organizzazione di tutti i fattori produttivi, per quanto ampia e articolata non sarà mai in grado di contribuire economicamente in misura significativa ed ulteriore rispetto a quanto già il professionista non sia in grado di ottenere con la propria attività personale. Stabiliti i criteri in base ai quali individuare in astratto un’organizzazione configurabile come presupposto impositivo per l’Irap, si renderebbe allora evidente l’inesistenza delle caratteristiche e dei requisiti fiscalmente rilevanti, così come definiti dalla giurisprudenza, della tipica struttura organizzativa con cui il Mmg esercita la propria attività. Infatti, sarebbe arduo rintracciare l’attitudine di un’organizzazione così strutturata a «potenziare la produzione di ricchezza [...]» (ord. Cass., n. 2715/2008) a vantaggio del professionista, ovvero l’esistenza di «un quid pluris [...] in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista» (Cass., n. 3676/2007), quanto piuttosto è inevitabile concludere che «non si possa affermare la sussistenza di un organizzazione

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autonoma foriera di determinare un valore aggiunto tassabile» (Comm. trib. reg. Piemonte n. 19/32/2008). Ciò in quanto l’organizzazione del Mmg non può mai incidere in termini economicamente rilevanti sul processo di arricchimento del soggetto. Piuttosto, la consistenza e l’ampiezza dei mezzi e delle risorse impiegate dal medico incidono solo ed esclusivamente sugli aspetti qualitativi del servizio sanitario erogato a beneficio dei pazienti, nonché nell’ambito della responsabilità di una prestazione coscienziosa di rilevanza sociale. Ciò che di economicamente rileva è piuttosto la sensibile decurtazione di una retribuzione già predeterminata. Né può essere sostenuta l’obiezione secondo la quale una migliore e più efficiente organizzazione nello studio medico attragga una più larga “clientela”, aumentando così il volume dei compensi per il medico, in quanto tale argomento non possiede alcun fondamento verosimile. Infatti, è noto quanto decisivi nel determinare la scelta del proprio medico curante siano fattori come l’affidamento personale, l’esistenza di vincoli di amicizia e parentali, la praticità della vicinanza geografica, piuttosto che il personale impiegato nello studio, i confort di questo, ovvero la sofisticazione dei mezzi impiegati. Circa gli eventuali compensi percepiti dal Mmg relativamente alle prestazioni di tipo specialistico, non comprese nell’attività convenzionata e remunerati direttamente dai pazienti, permane invece il regime impositivo previsto per i redditi di lavoro autonomo, per i quali è necessario verificare l’esistenza dell’autonoma organizzazione affinché possano essere assoggettati ad Irap.

Commissione tributaria provinciale di Cagliari, sez. II, 2 luglio 2009, n. 233 Presidente: Corradini - Relatore: Lorenzo

dovute a seguito dell’autoliquidazione del tributo operata in diIrap - Presupposto - Attività autonomamente organizza- chiarazione dalla contribuente, quest’ultima avrebbe dovuto prota - Caso di specie - Agente di commercio - Insussistenza porre istanza di rimborso per recuperare l’imposta, non potendo dunque contestare in radice la pretesa tributaria in sede conten(D. Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) ziosa. Nel merito deduceva l’assoggettabilità all’Irap dei redditi Nel caso degli agenti di commercio, l’attività autonomamente organizzata ri- della ricorrente sussistendo nei suoi confronti i presupposti per chiesta dall’art. 2, D.Lgs. n. 446 ai fini del presupposto Irap sussiste quan- l’applicazione del tributo. do il contribuente sia sotto qualsiasi forma il responsabile dell’organizzazio- Si costituiva in giudizio l’E. Sardegna S.p.A contestando l’assunne e impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque ac- to della ricorrente e chiedendo il rigetto del ricorso. cidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di or- Il ricorso è fondato e merita pertanto di essere accolto. ganizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (nel Preliminarmente occorre rilevare che non appare condivisibile la caso di specie, il presupposto è stato escluso in quanto sono stati dimostrati tesi dell’ufficio secondo il quale il contribuente, una volta compicosti esigui per ammortamento per acquisto di beni strumentali, nonché as- lato l’apposito quadro RE della dichiarazione, sarebbe stato obsenza di spese relative ad immobili ed a prestazioni di lavoro dipendente o bligato a versare l’imposta e quindi a ripeterne eventualmente l’ammontare, poiché il privilegio del solve et repete è stato da decollaborazioni e compensi comunque elargiti a terzi). cenni espunto dall’ordinamento tributario e non può essere reintrodotto fittiziamente attraverso la predisposizione di un modelFatto e diritto lo di dichiarazione dei redditi che non consente di escludere la Con ricorso proposto ritualmente dinanzi all’adita commissione, dichiarazione dell’Irap per i professionisti, pur in mancanza di [...] impugnava la cartella esattoriale n. [...] per Irap per l’anno organizzazione autonoma. 2005 non versata, notificata il 14 novembre 2008, sostenendo È vero che, stante la predisposizione di un software dell’ufficio che non era dovuta l’imposta pagata in virtù della sentenza n. che non consentiva di non dichiarare l’Irap e conseguentemente 156/2001 della Corte costituzionale, nonché delle recentissime imponeva il controllo automatizzato della dichiarazione ai sensi sentenze della Corte di Cassazione a sezioni unite in quanto la dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, l’Irap non versata non professione dalla stessa esercitata, attività di agente di commer- poteva non essere iscritta a ruolo, ma ciò non imponeva alla concio monomandatario con obbligo di esclusiva, era priva di auto- tribuente di versare l’Irap al fine di potere presentare istanza di restituzione. D’altronde la spettanza di un’agevolazione o di una noma organizzazione. Eccepiva dunque la ricorrente l’insussistenza in capo alla mede- esenzione – cui è assimilabile l’esclusione dell’Irap per mancansima del presupposto impositivo Irap, nella totale assenza di or- za di autonoma organizzazione – può essere fatta valere, in base ad una giurisprudenza ormai consolidata, anche in giudizio ed in ganizzazione nonché di un’autonoma organizzazione. L’Agenzia delle Entrate di Cagliari 2 si costituiva in giudizio de- particolare in sede di impugnazione della iscrizione a ruolo con ducendo in primo luogo l’inammissibilità del ricorso, in quanto, cui viene preteso il pagamento dell’imposta che il contribuente trattandosi di cartella scaturita a seguito di un controllo ex art. assume non dovuta. 36-bis del D.P.R. 600/1973 e cioè omissione di somme risultanti Passando ad esaminare il merito, la ricorrente ritiene che nei suoi


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riguardi non si rinvenga il presupposto impositivo per l’applicazione dell’Irap, in quanto svolgerebbe la propria attività professionale senza l’ausilio di personale dipendente e con beni strumentali di ridottissima entità, potendo inquadrarsi tale attività in quella degli «intermediari del commercio ed altri prodotti farmaceutici e di cosmesi», trattandosi di attività professionale in ambito commerciale, riconducibile alle attività degli agenti e rappresentanti di commercio, ma nella realtà caratterizzata da una forte attività “intellettuale”. La ricorrente rappresenta che l’oggetto del contratto che la lega all’unica azienda per cui svolge l’attività lavorativa (la M.) è visitare con frequenza la clientela nell’ambito del territorio, nonché propagandare, se richiesto, i prodotti presso gli studi medici interessati al settore dei medicinali da banco e specialità cosmetiche. Al riguardo si osserva che con la pronuncia n. 156/2001 il giudice delle leggi ha respinto tutte le eccezioni di legittimità costituzionale della normativa istitutiva dell’Irap, lasciando però aperta una breccia alla possibilità di sfuggire al prelievo dell’Irap per quei soggetti che esercitano l’attività senza autonoma organizzazione. Non esiste nella norma istitutiva dell’Irap la definizione di “autonoma organizzazione” e la Corte costituzionale ha posto il problema quale questione di mero fatto che il giudice tributario è chiamato a risolvere caso per caso valutando tutti gli elementi offerti dal ricorrente, cui spetta l’onere della prova relativa alle modalità di svolgimento dell’attività, se, in buona sostanza, si possa configurare il presupposto impositivo consistente, quindi, nell’autonoma organizzazione dell’attività. Ora, è necessario chiarire il concetto di autonoma organizzazione in modo tale da poter poi nei singoli casi verificare se siano o meno presenti i requisiti che la connotano. Per organizzazione si intende la predisposizione e l’opportuna combinazione dell’elemento personale e patrimoniale per l’effettuazione delle operazioni con le modalità ritenute più vantaggiose e più adatte per il raggiungimento del risultato il più possibile positivo. Non è dunque sufficiente disporre di beni e persone ma questi devono essere coordinati adeguatamente. Appare ovvia l’importanza dell’elemento personale in uno studio professionale che condiziona tutti gli altri elementi, in considerazione della composizione, grado di preparazione e numero delle persone che collaborano. Qualora sussista un numero elevato di persone che nello svolgimento del lavoro siano interdipendenti e interagenti, in collegamento dinamico tra loro ed interconnesse in termini tali che gli effetti globali del sistema siano superiori alla somma dei singoli elementi e tale sistema sopravviva anche se i singoli elementi che lo compongono cessino individualmente di esistere oppure vengano sostituiti, siamo, di certo, in presenza di un’attività organizzata. L’attività, però, spesso viene svolta con l’ausilio di qualche collaboratore, quasi sempre di una segretaria ed è evidente che in tale contesto il professionista provvede direttamente a predisporre i mezzi necessari al soddisfacimento delle proprie necessità, impiega prevalentemente il suo tempo e con maggiori difficoltà rispetto al professionista che opera con l’ausilio di diversi collaboratori. Esiste poi una terza figura professionale che è quella del lavoratore autonomo, iscritto o meno ad un albo professionale, che presta solo attività di consulenza o di revisione, che effettua personalmente tutte le operazioni interne ed esterne dello studio, che svolge l’attività prevalentemente sulla base di convenzioni stipulate con enti, società o altri professionisti, stipulate prevalentemente sui

presupposti della conoscenza personale e sulla fiducia, che spesso non dispone di un locale da adibire esclusivamente all’attività ma ha trovato una sistemazione nell’abitazione del proprio nucleo familiare, utilizzando promiscuamente i beni personali, oppure svolge l’attività presso l’ufficio dei clienti. Appare evidente che soltanto nei primi due casi possa parlarsi di un’attività svolta con un’autonoma organizzazione professionale e quindi si deve ritenere esistente il presupposto impositivo dell’Irap, proprio perché, anche se con valenza diversa, il professionista ha una capacità produttiva diversa dalla figura prevista nel terzo caso. Ed invero, possiede uno studio che il cliente potenziale può individuare in qualsiasi momento per ricevere un servizio; ha gli strumenti idonei per l’esercizio dell’attività in maniera continuativa, rivestendo l’immagine del professionista e non del pensionato o lavoratore dipendente che arrotonda i propri redditi rendendo prestazioni saltuariamente presso terzi o nell’abitazione familiare. Sulla questione, recentemente si è pronunciata la Suprema Corte anche a sezioni unite, relativamente ai rappresentanti di commercio e promotori finanziari (v. Cass., sez. un., n. 12110 del 26 maggio 2009; Cass., sez. un., n. 12111 del 26 maggio 2009; Cass. n. 7734/2008; n. 3678/2007; n. 3674/2007) sostenendo che l’attività di lavoro autonomo, diversa dall’impresa commerciale, integra il presupposto impositivo per l’Irap ove si svolga per mezzo di una attività autonomamente organizzata. In particolare, il requisito organizzativo rilevante, il cui accertamento spetta al giudice di merito, sussiste quando il contribuente, che sia responsabile dell’organizzazione e non sia inserito in strutture riferibili alla responsabilità altrui, eserciti l’attività di lavoro autonomo con l’impiego di beni strumentali, eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività auto organizzata per il solo lavoro personale, oppure si avvalga, in modo non occasionale, del lavoro altrui. Hanno puntualizzato le sezioni unite della Suprema Corte che il requisito dell’autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. La Suprema Corte ha poi stabilito che è onere del contribuente, che lo chieda, allegare la prova dell’assenza delle condizioni costituenti il presupposto impositivo; che l’Irap è imposta di natura reale e non personale, che non colpisce il reddito in sé considerato bensì il reddito in quanto frutto di un’organizzazione, di una struttura. Esaminando il caso di specie al quale debbono applicarsi i principi stabiliti dalla Corte, ritiene la Commissione che dalla dichiarazione modello unico presentata per l’anno d’imposta 2005 non emerga quella situazione ipotizzata dalla Suprema Corte dalla quale poter ricavare l’eventuale sussistenza dei dati di riscontro del presupposto impositivo, risultando costi per quote di ammortamento per acquisto di beni strumentali per euro 908,00 ed altre spese documentate per circa euro 8.000,00, non risultando, invece, spese relative a immobili, spese per prestazioni di lavoro dipendente, per le collaborazioni e compensi comunque elargiti a terzi. Alla luce delle osservazioni esposte il ricorso deve essere accolto. Le spese di lite, tenendo presente la peculiarità della questione nonché il contrasto giurisprudenziale sulla materia, possono essere compensate fra le parti.

tema di assoggettabilità ad Irap da parte di agenti e rappresentanti di commercio. In specie, i giudici della Suprema Corte hanLa sentenza in rassegna si uniforma opportunamente ai dettami no statuito che il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui recentemente formulati dalla Corte di Cassazione, la quale a se- accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sezioni unite ha emesso nello stesso giorno una serie di pronunce in de di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il Nota


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contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. È onere, ovviamente, del contribuente che richieda il rimborso dell’imposta provare l’assenza di dette condizioni. Cfr. Cass., sez. un., 26 maggio 2009, n. 12108, n. 12109, n. 12110 e n. 12111, in Fisco, 2009, 2 ss., con nota di CINIERI, Rilevanza dell’“autonoma organizzazione” ai fini Irap per gli agenti di commercio e i promotori. Nella giurisprudenza di legittimità si veda già, nel senso di verificare volta per volta la sussistenza dei requisiti per la tassazione degli agenti di commercio, Cass., 2 aprile 2007, n. 8177, in Dir. e Prat. Trib., 2007, 2, 934. V. anche Cass. (ord.), 4 febbraio 2008, n. 2582; Id., 5 febbraio 2008, n. 2698; Id., 5 febbraio 2008, n. 2702, in banca dati fisconline. Sul tema cfr. anche GAVELLI-VERSARI, Esclusione dall’Irap per agenti di commercio e promotori finanziari: parallelismi con l’Ilor e posizione della giurisprudenza di legittimità, in Fisco, 2008, 1 ss. Nelle giurisprudenza di merito si era assistito finora ad una divaricazione tra coloro che ritenevano che gli agenti di commercio, in quanto imprenditori tout court, dovessero sempre e comunque essere inquadrati tra i soggetti passivi che pongono in essere il presup-

posto dell’Irap, ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 446 del 1997, e coloro che invece ritenevano che la fattispecie dovesse essere parificata, per gli imprenditori individuali, a quella dei lavoratori autonomi, dovendosi dunque ricercare caso per caso l’assenza del requisito dell’autonoma organizzazione (per es. determinata da assenza di lavoratori alle dipendenze dell’agente o dalla modestia dei beni strumentali). Per il primo orientamento v. Comm. trib. reg. Liguria, 1 agosto 2008, n. 96 e Comm. trib. reg. Lazio, 15 febbraio 2008, n. 3, in banca dati fisconline; Comm. trib. reg. Piemonte, 29 settembre 2005, n. 34, in Dir. e Prat. Trib., 2006, 2, 714 (ma relativamente ad attività esercitata in forma di S.n.c.). Contra Comm. trib. prov. Sassari, 10 maggio 2003, n. 39, in Boll. Trib., 2004, 546 (con nota di DACREMA, Irap e qualificazione del reddito d’impresa commerciale. Il caso del rappresentante di commercio); Comm. trib. reg. Toscana, 12 giugno 2008, n. 113 e Comm. trib. reg. Emilia-Romagna, 15 maggio 2008, n. 25, entrambe in banca dati fisconline. Sulla tassazione degli agenti di commercio v., in generale, FREGNI, Questioni in tema di tassazione degli agenti di commercio, in Riv. Dir. Trib., 2004, I, spec. 428 ss.; TABET, Problemi vecchi e nuovi in tema d’imposizione del reddito degli agenti di commercio, in Rass. Trib., 1989, I, 181. Sull’Irap e sui principali, molteplici problemi applicativi cfr. diffusamente, SCHAVOLIN, L’imposta regionale sulle attività produttive. Profili sistematici, Milano, 2007.


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Commissione tributaria provinciale di Cagliari, sez. II, 4 giugno 2009, n. 200 Presidente e Relatore: Corradini

Irpef - Redditi diversi - Cessione di terreni edificabili - Calcolo della plusvalenza - Rivalutazione del costo ex art. 7, L. 28 dicembre 2001, n. 448 - Perizia giurata e versamento dell’imposta sostitutiva successivi alla cessione - Inefficacia ai fini del calcolo della plusvalenza (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 67 e 68 (ex 81); L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 7). Ai fini del calcolo della plusvalenza da cessione di area edificabile tassabile a norma dell’art. 81, comma 1, lett. b, del D.P.R. n. 917 del 1986, il valore determinato ai sensi dell’art. 7 della legge n. 448 del 1981 (secondo cui, per i terreni fabbricabili posseduti alla data del 1 gennaio 2002, in luogo del costo o del valore di acquisto poteva essere assunto il valore, a tale data, determinato dalla perizia di stima ed assoggettato ad una imposta sostitutiva pari al 4% del valore) non può essere utilizzato se la perizia giurata di stima ed il pagamento almeno della prima rata della imposta sostitutiva sono successivi all’atto di cessione. Svolgimento del processo Con due separati ricorsi notificati in data 27 giugno 2008 e depositati nella segreteria di questa Commissione il 4 luglio successivo i coniugi quali comproprietari di un’area edificabile di complessivi mq. 2369 in agro di Selargius, ricadente nel piano di risanamento urbanistico Su Planu, venduta con atto pubblico in data 14 ottobre 2002 per il corrispettivo dichiarato di euro 273.660, hanno impugnato gli avvisi di accertamento della Agenzia delle Entrate, ufficio di Cagliari 1, notificati il 18 febbraio 2008, con cui era stata accertata, ai sensi dell’art. 41-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, la omessa dichiarazione per l’anno 2002 di una plusvalenza pari ad euro 128.266 per ciascuno (determinata, ai sensi dell’art. 82, ora art. 68, comma 2, del D.P.R. n. 917 del 1986, come differenza fra il corrispettivo ricevuto per la cessione, al netto dell’Invim, ed il prezzo di acquisto del bene ceduto aumentato dei costi inerenti, rivalutato in base alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati), che era stata assoggettata a tassazione separata, ai sensi degli artt. 16 (ora art. 17), comma 1, lett. g-bis e 18 (ora art. 21) del D.P.R. n. 917 del 1986, su cui era stata applicata la aliquota del 35,57% calcolata sulla base della media dei redditi imponibili del biennio anteriore all’anno in cui erano stati conseguiti. I ricorrenti, premesso di avere presentato in data 19 marzo 2008 istanza di accertamento con adesione da cui scaturiva la proroga di 90. giorni del termine per ricorrere, hanno dedotto in via graduata: l’accertamento non era consentito poiché avevano provveduto in data 30 novembre 2002 e cioè entro il termine perentorio del 16 dicembre 2002, a predisporre relazione tecnica di stima, asseverata con giuramento, ai sensi dell’art. 2 del D.L. n. 289 del 2002, relativa alla rivalutazione dell’area in oggetto, oltre che a versare la prima rata dell’imposta sostitutiva di cui al comma 1 dell’art. 7 della legge n. 448 del 2001, pari al 4% del valore, il che impediva l’accertamento della plusvalenza, non rilevando la circostanza che l’asseveramento della perizia fosse intervenuto successivamente alla stipulazione dell’atto pubblico di vendita, essendo comunque avvenuto nel termine previsto dalla legge; gli accertamenti erano nulli per violazione dello statuto dei diritti del contribuente e della legge sulla trasparenza ammini-

strativa poiché agli stessi non erano stati allegati il prospetto di liquidazione delle imposte ed il conteggio degli interessi (indicati nella somma globale di euro 6.029,87), il che impediva di ricostruire la pretesa tributaria; le sanzioni non erano comunque applicabili in considerazione delle obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni di riferimento. In via incidentale i ricorrenti hanno poi chiesto la sospensione degli atti impugnati che è stata respinta da questa Commissione con ordinanza in data 12 febbraio 2009. L’Agenzia delle Entrate, nel costituirsi in giudizio e presentare le proprie controdeduzioni, ha ribattuto: la relazione tecnica di stima, relativa alla rivalutazione dell’area venduta per un valore di euro 260.590, prevista dall’art. 7 della legge finanziaria per il 2002, era stata asseverata con giuramento successivamente alla data in cui era stata realizzata la plusvalenza, per cui la rivalutazione non era valida ai fini della determinazione del valore del pregresso atto di cessione, il che consentiva all’ufficio la determinazione della plusvalenza ai sensi dell’art. 82, comma 2, del D.P.R. n. 917 del 1986 come differenza fra il valore di cessione e quello di acquisto, avvenuto in forza di due atti di compravendita del 1982 e del 1983; la azione accertatrice era avvenuta nei termini di decadenza previsti dalla legge poiché il rapporto in questione – che riguardava un reddito imponibile nell’ambito dei redditi diversi che dovevano essere obbligatoriamente dichiarati nel quadro RM sezione II della dichiarazione dei redditi sia nel caso di plusvalenze realizzate attraverso la differenza fra valore di cessione e prezzo di acquisto sia qualora fosse stato già rivalutato ai sensi dell’art. 7 della legge n. 448 del 2001, considerato anche che la plusvalenza si sarebbe verificata pure volendo seguire interamente la tesi dei ricorrenti, poiché il prezzo di vendita superava la rideterminazione del valore di acquisto stabilita con la perizia giurata – rientrava nell’art. 8 della legge n. 289 del 2002 ed era cioè definibile in virtù del condono tributario, con conseguente proroga biennale dei termini ordinari di decadenza per l’accertamento che portava il termine relativo alla dichiarazione dei redditi per il 2002 al 31 dicembre 2009, mentre invece gli accertamenti erano stati notificati il 18 febbraio 2008; la aliquota per la tassazione separata del maggior reddito era quella dichiarata dai contribuenti che avevano presentato la dichiarazione dei redditi ed auto liquidato la imposta ed inoltre era indicata specificamente negli accertamenti; anche ai fini del calcolo degli interessi a pagina 6 degli accertamenti erano indicati gli elementi normativi, il capitale e la data finale del calcolo, oltre al tasso annuale successivo alla data dell’accertamento; in ogni caso l’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973, come novellato dallo statuto dei diritti del contribuente, riguardava le imposte e non gli interessi, il cui conteggio specifico non era previsto a pena di nullità; non sussistevano i presupposti per escludere le sanzioni in quanto l’art. 7 della legge n. 448 del 2001 dettava precise istruzioni per il calcolo della plusvalenza. Il contribuente ha presentato in data 6 febbraio 2009 successive memorie con allegati documenti (denominate “brevi repliche”) con cui ha ulteriormente rilevato che la plusvalenza, per i soggetti non imprenditori, si realizzava al momento in cui avveniva l’incasso del corrispettivo e quindi nella specie al momento del versamento della prima rata dell’imposta sostitutiva. Su istanza dei ricorrenti le cause sono state trattate in udienza pubblica nel corso della quale sono comparsi i rappresentanti di


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entrambe le parti che hanno insistito per l’accoglimento delle tesi già esposte nei rispettivi scritti difensivi. Sull’accordo delle parti i due ricorsi sono stati assegnati in considerazione della evidente connessione oggettiva e quindi sono stati assegnati a decisione sulle conclusioni sopra trascritte. Motivi della decisione I ricorsi sono infondati. Si deve preliminarmente escludere che sia intervenuta la decadenza dell’ufficio dalla azione accertatrice poiché ai termini ordinari dell’accertamento doveva nella specie sommarsi il termine biennale di proroga previsto dalla legge di condono n. 289 del 2002, considerato che i contribuenti, trattandosi di redditi che avrebbero dovuto essere comunque dichiarati – anche seguendo integralmente la loro tesi – avrebbero potuto avvalersi della sanatoria della dichiarazione infedele a norma dell’art. 8 della legge citata. D’altronde a tale argomento i ricorrenti nulla hanno replicato, evidentemente perché non avevano ragione alcuna da opporre. Quanto alla richiesta principale dei ricorrenti, si tratta di verificare se, ai fini del calcolo della plusvalenza da cessione di area edificabile ai sensi dell’art. 81, comma 1, lett. b, del D.P.R. n. 917 del 1986, potesse essere utilizzato il valore determinato ai sensi dell’art. 7 della legge n. 448 del 1981 (per cui, agli effetti della determinazione delle plusvalenze ai sensi dell’artt. 81 comma 1 lett. a b, per i terreni fabbricabili posseduti alla data del 1.1.2002, in luogo del costo o del valore di acquisto poteva essere assunto il valore, a tale data, determinato sulla perizia giurata di stima, a condizione che il predetto valore fosse assoggettato ad una imposta sostitutiva delle imposte sui redditi pari al 4% del valore determinato e versata entro il 30 novembre 2002 ovvero in tre rate annuali di pari importo decorrenti dalla predetta data) anche nel caso in cui la stima non si fosse ancora perfezionata al momento del conseguimento della plusvalenza e cioè della cessione del bene con contestuale o precedente versamento del prezzo. Il ricorrente sostiene che, poiché il termine finale previsto dalla legge per la rideterminazione del valore di acquisto del terreno non era ancora scaduto al momento della vendita, sarebbe stato possibile escludere ugualmente la plusvalenza procedendo alla rivalutazione anche successivamente alla stipulazione dell’atto di cessione ma prima del termine finale previsto dalla legge. Tale tesi non appare però condivisibile alla stregua della lettera e della ratio della norma che è quella di consentire al fisco di incassare subito la imposta sostitutiva (o almeno la prima rata) anche nei casa in cui la vendita non venga poi eseguita o venga eseguita più tardi, ma non certo di sanare situazioni in cui la vendita e quindi la plusvalenza si siano già realizzate prima ancora della perizia giurata e del versamento della imposta sostitutiva. Il caso in esame è addirittura peculiare sotto tale profilo, poiché nell’atto di cessione non si fa alcun riferimento alla rivalutazione, mentre i ricorrenti si sono avvalsi della stessa dopo tale atto pretendendo in tal modo di escludere la plusvalenza poiché il termine di legge non era ancora scaduto, ma la plusvalenza si era già realizzata. Occorre infatti precisare sul punto che la valutazione del bene deve essere eseguita necessariamente in riferimento al momento del suo trasferimento, che costituisce il fatto imponibile avente carattere istantaneo (v. Cass., sez. un., n. 25505 del 30 novembre 2006, rv. 593374), per cui gli eventi successivi restano irrilevanti ed in particolare, come correttamente rilevato dall’ufficio, resta irrilevante la rivalutazione successiva. La fallacia della tesi dei ricorrenti è confortata dall’argomento portato dagli stessi con la cd. brevi repliche, laddove, pur riconoscendosi che la plusvalenza si realizza con il pagamento del cor-

rispettivo, si afferma poi, contraddittoriamente ed inspiegabilmente, che tale momento coinciderebbe con il versamento della imposta sostitutiva, come se la imposta sostitutiva integrasse il prezzo dell’area edificabile ceduta. Nel corso della dichiarazione orale il ricorrente ha sostenuto poi, altrettanto inspiegabilmente, che la plusvalenza si sarebbe realizzata al momento della dichiarazione dei redditi, evidentemente confondendo altre ipotesi di riconoscimento fiscale di voci di bilancio altrimenti irrilevanti, attraverso il pagamento di imposte sostitutive, con quella in esame in cui viene in considerazione una cessione a titolo oneroso di una certa area in un certo momento, per cui la plusvalenza, come già rilevato, si realizza in quel momento e cioè nel momento della cessione con contestuale o precedente pagamento del prezzo. Anche tutti i rilievi dei ricorrenti concernenti le pretese analogie con il mancato versamento delle rate successive alla prima della imposta sostitutiva da riallineamento sono fuorvianti poiché nel caso in esame non viene in discussione il mancato pagamento della imposta sostitutiva, bensì la diversa circostanza che al momento della realizzazione della plusvalenza non esisteva neppure la perizia giurata e cioè il presupposto del pagamento della imposta sostitutiva, di cui quindi non era stata versata neppure la prima rata, proprio perché non poteva essere versata prima ancora che venisse asseverata con giuramento e quindi depositata la stima del valore. Anche la osservazione per cui la mancata rivalutazione preventiva sarebbe irrilevante per mancanza di danno all’erario non appare condivisibile, poiché non si è in presenza di una questione di forma, bensì di sostanza con riferimento al momento in cui si realizza la plusvalenza ed all’interesse per il fisco di incassare la imposta sostitutiva immediatamente, anche se poi, in ipotesi, il bene non venisse ceduto. Gli altri motivi di ricorso sono pretestuosi. La aliquota dell’imposta è specificamente indicata nell’accertamento e corrisponde a quella dichiarata dal contribuente per cui non si vede che altro avrebbe dovuto indicare l’ufficio. Anche per gli interessi sono indicate le norme applicate, il capitale, la data finale di conteggio e, per gli interessi successivi, la data di decorrenza ed il saggio: manca lo sviluppo del calcolo, ma non pare proprio che tale sviluppo debba essere contenuto nell’accertamento quando gli attuali sistemi informatici non lo esplicitano e non ne consentono quindi neppure la stampa. In ogni caso, come ha rilevato L’ufficio, ciò non è previsto dallo statuto dei diritti del contribuente a pena di nullità, il che rende irrilevante la questione, come già ritenuto dalla Corte costituzionale nella recentissima sentenza relativa alla mancata indicazione nella cartella esattoriale del responsabile del procedimento che, non essendo prevista a pena di nullità, non poteva inficiare la validità dell’atto. Infine, con riguardo alla richiesta di esclusione delle sanzioni, non si versa in una ipotesi di obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della disposizione poiché fin dal 2002 l’ufficio ha emesso numerose circolari e risoluzioni che non consentivano la interpretazione che è stata data dal contribuente. D’altronde i ricorrenti non hanno dichiarato in alcun modo la plusvalenza che sarebbe esistita – sia pure in misura più ridotta rispetto a quella accertata dall’ufficio – anche se fosse stata corretta la loro interpretazione della normativa. I ricorsi devono essere in definitiva respinti perché infondati sotto tutti i profili addotti. Sussistono giusti motivi per compensare fra le parti le spese del giudizio a norma dell’art. 92, c.p.c., in considerazione della esistenza di un contrasto giurisprudenziale che peraltro non pare integrare, come già rilevato, obiettiva incertezza sulla interpretazione della norma.


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Nota Il profilo principale della decisione riguarda una situazione di fatto che, diversamente da quanto giudicato nella sentenza in rassegna, non appare a nostro avviso esclusa dall’agevolazione prevista dall’art. 7, L. 28 dicembre 2001, n. 448. Tale disposizione concedeva ai contribuenti la facoltà di determinare eventuali plusvalenze da cessione di aree edificabili sottraendo dal corrispettivo – in luogo del costo d’acquisto – il valore alla data del 1 gennaio 2002, determinato sulla base di una perizia giurata di stima. Per avvalersi di tale facoltà, la legge n. 448/2001 poneva come condizione il versamento dell’imposta sostitutiva del 4 per cento (o della prima rata, come nel caso di specie) entro il 16 dicembre 2002. Come evidenzia la sentenza dei giudici cagliaritani, nel caso di specie tali formalità erano state eseguite entro il suddetto termine, seppure successivamente alla cessione del terreno, avvenuta il 14 ottobre 2002. Invero, l’art. 7, L. n. 448/2001 non condiziona espressamente

la sua applicazione all’anteriorità della perizia e del versamento rispetto alla cessione. A ben vedere, infatti, la legge del 2001 non solo non prevede altre condizioni, ma ha per oggetto la “rivalutazione” del costo alla data del 1°gennaio 2002. Trattandosi di data anteriore alla cessione, la singolarità della tempistica sviluppatasi tra ottobre e dicembre del 2002 non potrebbe influire – a stretto rigore – sul dato di fatto costituito dal valore del terreno all’inizio dell’anno. Valore che quindi, ove siano rispettate le condizioni dell’agevolazione, ben potrebbe essere assunto per la determinazione dell’eventuale plusvalenza da dichiarare nell’anno successivo, il cui presupposto si realizza con la percezione del corrispettivo in misura superiore al costo, e quindi, in questo caso, al valore al 1 gennaio 2002 risultante dalla perizia giurata ed assoggettato all’imposta sostitutiva. Del resto, gli stessi giudici hanno riconosciuto che il caso si pone ai limiti della ratio normativa, disconoscendo comunque l’applicazione di una agevolazione sfruttata a loro avviso indebitamente, ultratardivamente. Non constano precedenti giurisprudenziali su casi analoghi.


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IVA LIBERTÀ DI SCELTA NEI GRUPPI CIRCA LE MODALITÀ DI UTILIZZO DEL CREDITO IVA I Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XVI, 21 ottobre 2008, n. 239 89 Presidente: De Vincenzo - Relatore: Castellari Iva - Iva di gruppo - Eccedenza detraibile relativa all’anno precedente all’opzione - Compensazione orizzontale - Ammissibilità (D.P.R. 26 ottobre 1972, art. 73, comma 3, n. 633 e D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 17) La società che ha esercitato l’opzione per la liquidazione dell’Iva di gruppo può utilizzare l’eccedenza d’imposta detraibile, risultante dalla dichiarazione Iva relativa all’anno precedente, in compensazione “orizzontale”, ex art. 17 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241. A seguito del controllo automatizzato ai sensi dell’art. 54-bis del D.P.R. 633/1972 e della formazione del ruolo da parte dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di Milano 1, E. S.p.A. notifica alla società ricorrente per l’anno 2004 la cartella con la richiesta di pagamento di euro 2111.037,58 di cui euro 201.660,08 a titolo di Iva ed accessori ed euro 9.377,20 a titolo di compenso di riscossione. L’importo di Iva ed accessori è dettagliato come segue: importo Iva euro 146.385,00; interessi euro 11.359,88; sanzione euro 43.915,20. L’importo di Iva chiesto in pagamento origina dalla liquidazione del quadro VL della dichiarazione per l’anno 2004, tenuto conto che la società ricorrente ha optato per la procedura dell’Iva di gruppo di cui all’art. 8 del D.P.R. 14 ottobre 1999, n. 542. L’Agenzia ritiene che per detta disposizione la società ricorrente abbia perduto la disponibilità del proprio credito Iva di euro 146.385,00 alla data del 31 dicembre 2003 ed avrebbe dovuto trasferire l’intero importo alla dichiarazione di gruppo resa dalla società controllante restando così l’ammontare del credito soggetto alle regole di utilizzo previste dalla norma. Da qui l’irregolarità e il conseguente addebito avvenuto con la cartella di pagamento in quanto la ricorrente ha utilizzato l’importo del saldo del credito Iva dell’anno 2003 per compensare con mod. F24 i tributi propri di natura diversa dall’Iva. Avverso la richiesta di pagamento la società ricorrente fa presente che il disposto all’art. 73, comma 3, del D.P.R. 633/1972, prima della integrazione della norma apportata dall’art. 1, comma 63, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (con effetto a partire dalla liquidazione Iva di gruppo relativa all’anno 2008) non disponeva per le società partecipanti al gruppo l’obbligo di trasferire alla dichiarazione redatta dalla capogruppo le eccedenze di Iva maturate a credito fino all’anno precedente a quello di inizio della procedura di liquidazione di gruppo. Pertanto – riferisce la ricorrente – il credito Iva alla data del 31 dicembre 2003 non è stato trasferito alla dichiarazione di gruppo bensì, restando l’importo nella sfera patrimoniale della ricorrente, è stato utilizzato per compensare il debito sorto per altri tributi diversi dall’Iva. La ricorrente riferisce che il comportamento tenuto non ha arrecato alcun danno all’erario in quanto il debito di Iva di grup-

po dell’anno 2004 è stato interamente pagato dalla società capogruppo. L’Agenzia delle Entrate si costituisce nel giudizio confermando la correttezza della richiesta di pagamento e ribadisce la correttezza della propria interpretazione dell’art. 73, comma 3, del D.P.R. 633/1972 e dell’art. 8 del D.P.R. 14 ottobre 1999, n. 542 (in tema di rimborsi e compensazioni di eccedenze di crediti Iva) nel testo vigente prima della modifica apportata dalla legge 244/2007. In questa connessione l’Agenzia avvalora la propria tesi riferendo il contenuto della risoluzione n. 151 dell’11 aprile 2008 e della risoluzione 221/2002 che mettono a confronto le disposizioni risultanti prima e successivamente alla modifica apportata al testo dell’art. 73, comma 3, del D.P.R. 633/1972. Pertanto l’Agenzia conferma che la dichiarazione di opzione esercitata dalla ricorrente per l’anno 2004 per la liquidazione di gruppo dell’Iva comporta per la controllante ricorrente l’effetto automatico ed inderogabile della cessione alla dichiarazione di gruppo del credito Iva dell’anno 2003 non richiesto a rimborso. Esaminata la questione, verificato il disposto all’art. 73, comma 3, del D.P.R. 633/1972 e all’art. 8 del D.P.R. 14 ottobre 1999, n. 542, la Commissione ritiene corretta la tesi esposta dalla società ricorrente e pertanto meritevole di accoglimento. In tema di operazioni Iva di gruppo economico, l’art. 73, comma 3, del D.P.R. 633/1972 dispone che mediante decreti successivi del Ministero delle Finanze ne vengano stabilite le modalità: ovvero vengano stabilite le procedure per realizzare la cd. Iva di gruppo. Alla luce del riferito enunciato della norma, appare a questa Commissione che la tesi dell’Agenzia, che esige il trasferimento obbligatorio alla dichiarazione di gruppo, risulti molto di più della mera procedura voluta dal legislatore all’art. 73, comma 3, del D.P.R. 633/1972. Infatti, il testo della norma, nella semplicità espositiva con cui è stato redatto, esprime solo l’intenzione di organizzare talune operazioni Iva per renderle, senza pregiudizio per gli interessi dell’erario e delle società appartenenti al gruppo, funzionali alla direzione della controllante. Pertanto, sulla base del disposto dell’art. 30 del D.P.R. 633/1972, la Commissione ritiene che la tesi dell’Agenzia arrechi una illegittima compressione del diritto della ricorrente di disporre dell’eccedenza dell’imposta del 2003. Qualora l’intenzione del legislatore fosse stata quella di trasferire alla dichiarazione Iva di gruppo tutti i crediti Iva delle partecipanti comprendendo i crediti sorti prima dell’esercizio dell’opzione di gruppo e avesse inteso realizzare l’obiettivo enunciato dall’Agenzia, certamente lo avrebbe in qualche modo esplicitato nella norma senza ricorrere a nasconderne gli effetti tra le pieghe di una semplice procedura. L’esegesi della norma sopra riportata condiziona quindi lo sviluppo ulteriore della tesi dell’Agenzia che argomenta citando l’art. 8, commi 2 e 3, del D.P.R. 542/1999 e il D.M. 13 dicembre 1979 che non possono non essere solidali con la norma esaminata da cui traggono origine. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio.


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Nota di Concetta Ricci Premessa Il trattamento tributario dell’eccedenza detraibile emersa dalla dichiarazione Iva solleva questioni di notevole rilevanza teorica e pratica1. In particolare, la tendenza a ridurre le procedure di rimborso e a semplificare le modalità estintive del credito, attraverso la compensazione “orizzontale” e “verticale”, pone problemi di individuazione della disciplina giuridica del credito nel periodo che intercorre tra la sua emersione, la sua dichiarazione e il suo concreto utilizzo. In tale contesto, si pone la problematica della compensazione delle eccedenze Iva nell’ambito della liquidazione di gruppo2. La disciplina dell’Iva di gruppo (ex art. 73, comma 3 del D.P.R. n. 633/1972) prevede, al verificarsi di talune condizioni3, un regime opzionale di liquidazione dell’imposta che consente alle società facenti parte di un gruppo, di compensare i rispettivi debiti e crediti Iva, ottenendo evidenti benefici di natura squisitamente finanziaria: con la liquidazione unitaria si evita, infatti, che all’interno dello stesso gruppo talune società debbano versare l’imposta a debito ed altre, invece, siano costrette ad attendere i tempi, non celeri, del rimborso. La disciplina Iva, dunque, introduce un regime facoltativo, applicabile solamente in presenza di un rapporto di controllo societario definito in modo più ristretto rispetto alle nozione civilistica; un regime che non comporta affatto il superamento della soggettività tributaria delle società controllate e controllanti4, che conservano la loro autonomia e indipendenza, ma si limita ad offrire un mezzo semplificato di recupero delle eccedenze di credito, mediante la compensazione fra i debiti e i crediti d’imposta emergenti dalle liquidazioni e dichiarazioni delle società legate da particolari vincoli di controllo.

1 Per un’analisi delle situazione giuridiche connesse all’esercizio del diritto al recupero dell’eccedenza detraibile Iva, v. BASILAVECCHIA, Situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo. Dalla detrazione al rimborso nell’imposta sul valore aggiunto, 2000, 17 ss., il quale acutamente distingue tra credito funzionale alla detrazione, che rimane sul piano della determinazione dell’imposta, e credito emergente in sede di conguaglio, che si proietta, in chiave estintiva, sia sulla disciplina della riscossione, sia su quella specifica del rimborso, quale fattispecie procedurale autonoma. 2 La liquidazione Iva di gruppo costituisce «il primo esempio di utilizzazione “orizzontale” del credito Iva» (BASILAVECCHIA, Situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo. Dalla detrazione al rimborso nell’imposta sul valore aggiunto, cit., 97). Sul tema, v. LOVISOLO, Gruppo di imprese ed imposizione tributaria, Padova, 1985; TABELLINI, Gruppi di società, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., VI, Torino, 1991, 442 ss.; FICARI, Liquidazione congiunta dell’Iva ex art. 73 D.P.R. 633 e rilevanza tributaria del gruppo di società, in Riv. Dir. Trib., 1992, I, 151 ss.; FAVA, Liquidazione Iva di gruppo e società neo costituite, in Rass. Trib., 1997, 85 ss.; COMELLI, Iva comunitaria e Iva nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, 501 ss. 3 Possono esercitare l’opzione «soltanto le società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata le cui azioni o quote sono possedute per una percentuale superio-

Se per i crediti maturati in pendenza di liquidazione unitaria, dunque, non sorgono problemi circa le modalità di utilizzo, dovendo essere trasferiti alla controllante per la compensazione con i debiti delle altre società del gruppo, non altrettanto chiara è la sorte delle eccedenze emerse prima dell’esercizio dell’opzione e risultanti ancora a credito. In mancanza di una esplicita previsione nell’art. 73, comma 3 del D.P.R. n. 633/1972, nella versione precedente alle modifiche ex art. 63, comma 1 della L. 24 dicembre 2007, n. 244, l’Agenzia delle Entrate aveva interpretato l’art. 4 del D.M. 13 dicembre 1979 in senso restrittivo, ritenendo che con l’adesione alla procedura dell’Iva di gruppo, la società perde totalmente la disponibilità del proprio credito, anche risultante dall’anno precedente5. La Commissione tributaria provinciale di Milano, con una decisione in linea con le nuove previsioni contenute nell’art. 73, comma 3, sconfessa l’interpretazione dell’Agenzia e, nel caso concreto, accoglie il ricorso della società, riconoscendo il diritto di disporre dell’eccedenza annuale Iva. I limiti all’utilizzo del credito Iva da parte delle società aderenti alla liquidazione unitaria I giudici di merito si sono pronunciati in ordine alla possibilità di utilizzo in compensazione “orizzontale” (ex art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997) di un credito Iva da parte di una società che, nel periodo d’imposta successivo a quello di emersione dell’eccedenza, ha optato per il regime dell’Iva di gruppo. In particolare, la fattispecie riguarda il caso di un soggetto che, avendo maturato un’eccedenza di Iva detraibile, non ha trasferito il credito nella dichiarazione di gruppo al momento dell’ingresso nel regime di liquidazione unitaria, utilizzandolo in compensazione per il pagamento di altri tributi. Le argomentazioni addotte dalle parti a sostegno del proprio operato sono tutte incentrate sulla corretta interpretazione dell’art. 73, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, nella versione pre-

re al cinquanta per cento del loro capitale, fin dall’inizio dell’anno solare precedente [...]» (art. 2 del D.M., 13 dicembre 1979, n. 11065). 4 La disciplina italiana (art. 73, comma 3 del D.P.R. n. 633/1972 e il D.M. 13 dicembre 1979) non riconosce autonoma soggettività passiva al gruppo di società, ma prevede una procedura semplificata di liquidazione dell’imposta che rappresenta cosa ben diversa rispetto al regime comunitario (art. 4, par. 4, comma 2 della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE). Sulla questione se il regime italiano costituisce o meno corretta trasposizione della normativa comunitaria sull’Iva di gruppo, si è espressa, di recente, la Corte di Giustizia (CGCE, 22 maggio 2008, causa C-162/2007), chiamata a valutare la legittimità, rispetto alla normativa comunitaria, delle limitazioni imposte dal regime interno dell’Iva di gruppo. Secondo la Corte di Giustizia, il regime nazionale non viola i principi comunitari, a condizione che non sia stato introdotto in attuazione delle disposizioni contenute nell’art. 4, par. 4, comma 2 (ora art. 11 della direttiva 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE) della VI direttiva, che consentono agli Stati membri di considerare come unico soggetto passivo il gruppo di società. E a tal proposito, la Corte precisa che «l’art. 4, n. 4, comma 2, della VI direttiva presuppone [...] necessariamente, qualora uno Stato membro ne faccia applicazione, che, per effetto della normativa nazionale di trasposizione, il soggetto passivo sia unico e cha al gruppo sia assegnato un unico numero di partita Iva». Secondo la Corte di Giustizia,

quindi, le cui conclusioni sono state recepite dalla Suprema Corte (Cass., 13 marzo 2009, n. 6105), si tratterebbe di un mancato recepimento delle disposizioni comunitarie da parte del legislatore nazionale. Al contrario, l’idea che si tratti di un’ipotesi di non corretta attuazione della norma comunitaria è stata avanzata in dottrina da GIORGI, I limiti della normativa nazionale sull’Iva i gruppo sono compatibili con i principi comunitari, in Corr. Trib., n. 28, 2008, 2280, secondo cui «la totale diversità (tra la disciplina nazionale e quella comunitaria) potrebbe, infatti, essere indice di un pessimo recepimento piuttosto che un indice del non recepimento». Nello stesso senso, v. RICCI, Iva di gruppo: la mancanza di soggettività salva la normativa italiana dalla censura comunitaria, in Dir. Prat. Trib., n. 5, 2009, 989 ss., secondo cui «l’esame dei documenti normativi e amministrativi farebbe presumere che, invece, si tratti di una misura di attuazione delle disposizioni comunitarie, ancorché non corretta, perché non conforme agli scopi della direttiva». In sostanza, «contrariamente a quanto adombrato dalla Corte di Giustizia, il regime nazionale dell’Iva di gruppo è stato introdotto per dare attuazione alla corrispondente disciplina comunitaria, pur non rappresentando una trasposizione corretta e puntuale dell’art. 4, par. 4, della sesta direttiva». 5 In tal senso, v. ris. 9 luglio 2002, n. 221/E e, più recentemente, ris. 14 giugno 2007, n. 132/E, entrambe in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big.


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cedente alle novità introdotte dall’art. 63 della L. n. 244/2007: secondo la ricorrente, dalla norma non si desume alcun obbligo, per le società partecipanti al gruppo, di trasferire alla dichiarazione redatta dalla controllante, le eccedenze maturate fino all’anno precedente a quello di inizio della procedura di liquidazione unitaria; al contrario, dal combinato disposto degli artt. 73, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972 e 8 del D.P.R. 14 ottobre 1999, n. 542, l’Agenzia deduce che l’esercizio dell’opzione produce «l’effetto automatico e inderogabile» della cessione alla dichiarazione di gruppo del credito Iva dell’anno precedente, «non richiesto a rimborso». Queste contrapposte posizioni sintetizzano perfettamente i termini della questione e rappresentano la base dalla quale partire per una breve analisi dell’evoluzione della disciplina. Fino al periodo d’imposta 2007, non era chiaro come potesse essere utilizzata l’eccedenza Iva detraibile maturata prima dell’adesione al gruppo6. Nulla in proposito era previsto dall’ultimo comma dell’art. 73, che rinviava a successivi decreti ministeriali, la definizione delle modalità di compensazione dei debiti e dei crediti emergenti dalle dichiarazioni Iva delle società del gruppo. Il decreto emanato in applicazione del disposto dell’ultimo comma dell’art. 73 (D.M. 13 dicembre 1979) prevede che, le eccedenze emerse in sede di liquidazioni periodiche delle società del gruppo, siano trasferite, in via definitiva, alla società controllante7. In costanza di liquidazione unitaria, dunque, l’obbligatorietà del trasferimento al “gruppo” delle eccedenze detraibili discende dall’interpretazione letterale della norma, che, con riguardo alle «risultanze delle liquidazioni periodiche dell’ente o società controllante e delle società controllate» precisa «devono essere riportate dall’ente o società controllante», cui compete, poi, la decisione circa le modalità di utilizzo dell’unica eccedenza detraibile risultante dalla dichiarazione di gruppo, con facoltà di scelta tra il riporto in avanti o la richiesta di rimborso (art. 5, comma 3, D.M. 13 dicembre 1979). Non è data, invece, ai membri del gruppo, facoltà di optare per la «compensazione orizzontale» dei crediti e dei debiti emersi dalle liquidazioni periodiche durante la vigenza del regime Iva di gruppo (art. 8, comma 1, del D.Lgs. 14 ottobre 1999, n. 542). Il quadro delineato definisce, in modo inequivoco, il trattamento tributario delle eccedenze detraibili emerse in sede di liquidazione unitaria di gruppo. Il punto è se sia consentita un’interpretazione estensiva di queste norme, sì da rendere applicabile tale regime anche ai crediti Iva emersi nell’anno precedente a quello di ingresso della società nel perimetro di gruppo. L’Agenzia delle Entrate, in più occasioni, dopo aver sottolineato

6 Il “gruppo” qui deve essere inteso nella definizione data dall’art. 73, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972 e dall’art. 2 del D.M., 13 dicembre 1979. 7 A tal fine, l’art. 4, comma 3, del D.M. 13 dicembre 1979, dispone che la società controllata annoti, a margine della propria liquidazione, il trasferimento del saldo alla società controllante, la quale è tenuta ad effettuare una liquidazione “cumulativa”, ad annotarla in un registro riepilogativo, divenendo l’unica responsabile del credito Iva di gruppo. 8 V. ris. 9 luglio 2002, n. 221/E, cit. Nello stesso senso, più recentemente, v. ris. 14 giugno 2007, n. 132/E, cit. 9 Ris. 9 luglio 2002, n. 221/E, cit. 10 La finalità antielusiva della novella legislativa è ben evidenziata nella relazione governativa al disegno di legge finanziaria 2008, che espressamente pone, quale obiettivo del provvedimento, la necessità di evitare il cd.

la facoltatività del regime dell’Iva di gruppo, ha ritenuto non ammissibile l’utilizzo, in compensazione “orizzontale”, del credito Iva da parte di una società che abbia, successivamente, aderito alla liquidazione unitaria dell’imposta. A tale conclusione giunge sulla scorta delle previsioni dell’art. 4 del D.M. 13 dicembre 1979, che deve essere interpretato nel senso che la società «dal momento in cui aderisce alla procedura di liquidazione dell’Iva di gruppo, perde totalmente la disponibilità del proprio saldo attivo dovendo trasferire l’intero credito Iva alla società controllante; ne consegue l’impossibilità, per la stessa società, di compensare tale credito con gli altri tributi o contributi dalla stessa dovuti»8. Inoltre, ad escludere la possibilità del ricorso all’istituto della compensazione sarebbe l’art. 8 del D.P.R. n. 542/1999, che espressamente vieta la compensazione, ex art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997, dei debiti e dei crediti emergenti dalle liquidazioni delle singole società partecipanti alla procedura di liquidazione unitaria dell’Iva9. Tale interpretazione si prestava, tuttavia, a strumentalizzazioni per finalità elusive, specie se la società da includere nel perimetro di gruppo vantava un ingente credito nella propria dichiarazione. Proprio per arginare il ricorso a pratiche elusive10, l’art. 63, comma 1, della L. 24 dicembre 2007, n. 244, ha modificato l’ultimo comma dell’art. 73 del D.P:R. n. 633/1972, disponendo che, agli effetti della procedura dell’Iva di gruppo, non si tiene conto «delle eccedenze detraibili, risultanti dalle dichiarazioni annuali relative al periodo d’imposta precedente, degli enti e società diversi da quelli per i quali anche in tale periodo d’imposta, l’ente o società controllante si è avvalso della facoltà» di procedere alla liquidazione di gruppo. In sostanza, l’eccedenza detraibile maturata prima dell’adesione al regime dell’Iva di gruppo, resta nella disponibilità delle società aderenti e potrà essere richiesta a rimborso, compensata o computata in detrazione, soltanto al di fuori della liquidazione di gruppo11. Un’analoga limitazione è prevista, in caso di adesione alla tassazione consolidata, per la riportabilità delle perdite maturate prima dell’adesione al regime. È, infatti, disposto che le perdite relative ad esercizi precedenti all’ingresso nel perimetro di consolidamento possono essere riportate in avanti esclusivamente dalla società che le ha generate, senza possibilità di compensazione con l’imponibile delle altre società partecipanti12. L’adesione alla tassazione consolidata, pertanto, non consente di superare, con riguardo alle perdite pregresse, il limite generale alla compensazione “intersoggettiva”. Un diverso regime è invece previsto per le perdite maturate durante il periodo di vigenza del consolidato, che sono immediatamente spendibili all’interno del gruppo e quindi utilizzabili

«commercio di “bare fiscali” anche in ambito Iva», ovvero società la cui acquisizione è funzione non di scelte economiche ma del solo o prevalente scopo di recuperare il credito Iva maturato, conseguendo, così, un evidente beneficio finanziario. 11 In tal senso, v. ris. DPF 14 febbraio 2008, n. 4, secondo cui i soggetti in capo ai quali si siano formate tali eccedenze potranno, alternativamente, chiederne il rimborso, ricorrendone i presupposti di cui all’art. 30 del decreto Iva, ovvero, “rinviare” le eccedenze creditorie al periodo d’imposta successivo per «farne oggetto di richiesta di rimborso in anni successivi; computarle in detrazione in anni successivi, una volta venuta meno la partecipazione alla liquidazione di gruppo; utilizzarle nella compensazione orizzontale di cui all’art. 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, nei limiti previsti dalla normativa in materia». Nello stesso senso, l’Agenzia delle Entrate si è pro-

nunciata, in data 11 maggio 2009, in risposta ad un quesito concernente proprio il trattamento del credito antecedente alla liquidazione Iva di gruppo. 12 Le eccedenze d’imposta relative agli esercizi anteriori alla tassazione di gruppo possono invece essere utilizzate sia dalla controllante che dalla controllata cui competono. La differenza tra i due regime è stata lucidamente spiegata da ZIZZO, Osservazioni in tema di consolidato nazionale, cit., 625 ss., secondo cui «questa previsione non avrebbe alcun senso se riferita alla possibilità per la controllata di utilizzare le eccedenze Ires pregresse in compensazione di debiti Ires relativi ai periodi d’imposta in cui è in vigore l’opzione per il consolidato. Poiché in tale fase spetta solo alla controllante liquidare l’Ires, lo scomputo delle eccedenze da parte della controllata è configurabile solo nell’ambito del modello F24, mediante compensazione con debiti relativi ad altre imposte».


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in compensazione con i redditi prodotti dalle altre società partecipanti (art. 118, comma 2, del T.U.I.R.). In definitiva, a partire dalla liquidazione Iva di gruppo relativa all’anno 2008, periodo di entrata in vigore della nuova disciplina (ex art. 64 della L. 244/2007), non è possibile includere nella liquidazione unitaria, i crediti maturati prima dell’ingresso della società nel perimetro di gruppo, sussistendo un esplicito divieto in tal senso nell’art. 73, comma 3. Perplessità, invece, permangono circa il corretto trattamento tributario di questi crediti per le operazioni effettuate nel periodo precedente a quello di applicazione della novella legislativa. In proposito, l’Agenzia delle Entrate, confermando la sua precedente posizione, ritiene non legittimo «il comportamento di chi, anche antecedentemente al 1 gennaio 2008, abbia evitato di trasferire il proprio credito al momento dell’ingresso nella liquidazione di gruppo e l’abbia utilizzato in compensazione per il pagamento altri tributi»13. Più in particolare, rispondendo ad un’istanza di interpello, la stessa Agenzia, ribadisce che con riferimento alle procedure di liquidazione Iva di gruppo effettuate fino al 31 dicembre 2007, «l’eccedenza di credito emergente dalle dichiarazioni relative all’anno 2006 di società che hanno partecipato per la prima volta, nel 2007, alla liquidazione di gruppo doveva essere trasferita al gruppo e gestita dall’ente o società controllante»14. Nel caso di specie, conformandosi ai suoi precedenti interpretativi, l’Agenzia rettifica la dichiarazione della società ricorrente avendo, quest’ultima, utilizzato il credito Iva per compensare altri tributi, contravvenendo, così, all’obbligo, ritenuto vigente per l’anno al quale il controllo si riferisce, di trasferire la suddetta eccedenza alla dichiarazione di gruppo. La società ricorrente contesta la rettifica, non ravvisandosi, nella disciplina precedente alle modifiche introdotte dalla finanziaria 2008, alcun obbligo di trasferire alla dichiarazione redatta dalla controllante, le eccedenze di Iva maturate a credito fino all’anno precedente a quello di inizio della procedura di liquidazione di gruppo. Detrazione, compensazione o rimborso In linea generale, un soggetto residente che abbia maturato un’eccedenza Iva risultante dalla dichiarazione annuale, può liberamente scegliere tra il rimborso del credito, ricorrendo i presupposti previsti dall’art. 30, secondo e terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972, o il riporto all’anno successivo di tutto o parte del credito, per la detrazione o la compensazione esterna. La scelta deve essere effettuata direttamente nella dichiarazione dalla quale emerge il credito, e riguarda la compensazione, da un lato, e il rimborso, dall’altro. Tale impostazione comporta che il credito non richiesto a rimborso, debba essere riportato in avanti e possa, a scelta del contribuente, essere utilizzato in compensazione “orizzontale” e, in alternativa o anche solo parzialmente, in detrazione con l’Iva dovuta nelle successive liquidazioni, periodiche o annuali. Ne deriva che il credito chiesto in compensazione diventa disponibile per il contribuente, il quale può, di volta in volta, decidere

13 V. circ. 19 febbraio 2008, n. 12/E, punto 10.8, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 14 V. ris. 11 aprile 2008, n. 151, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 15 Per effetto delle modifiche apportate all’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997, dall’art. 10 del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, la compensazione dei crediti Iva, annuali e infrannuali, superiori a 10.000,00 euro annui, sarà consentita solo dal giorno 16 del mese successivo a quello in cui la dichiarazione o l’istanza, dalle quali il credito deriva, siano effettivamente presentate (punto 1, lett. a, del comma 1).

se utilizzarlo in compensazione con altri tributi, attraverso il modello F24, ovvero farlo confluire nelle liquidazioni Iva successive. Prima delle recenti modifiche, che hanno previsto la necessaria priorità della presentazione della dichiarazione rispetto all’utilizzo del credito in essa rappresentato15, l’impostazione prevalente tendeva a rendere disponibile il credito per la compensazione sin dal primo giorno successivo alla chiusura del periodo d’imposta cui il credito stesso si riferisce. Pertanto, nella liquidazione del 16 febbraio il contribuente avrebbe potuto utilizzare il credito Iva annuale per compensare eventuali altri tributi dallo stesso dovuti. Se invece avesse optato per il regime Iva di gruppo, tale compensazione, secondo l’interpretazione dell’Agenzia, gli sarebbe stata preclusa; in questo caso, il credito riportato in avanti, avrebbe dovuto confluire nella liquidazione di gruppo. Non più, dunque, facoltà di scelta tra compensazione orizzontale o verticale, ma la decisione circa l’utilizzo del credito avrebbe dovuto ricadere o sul rimborso, oppure, in alternativa sulla compensazione verticale, cioè sul riporto in avanti del credito, che sarebbe poi confluito nella dichiarazione di gruppo. Se così fosse, innanzitutto, nella dichiarazione relativa al periodo d’imposta precedente all’ingresso nel gruppo, dovrebbe potersi evidenziare che il credito non chiesto a rimborso, non può essere compensato con altri tributi perché viene trasferito nella dichiarazione di gruppo; una sorta di annotazione simile a quella che l’art. 4 del D.M. 13 dicembre 1979 prevede a margine della liquidazione fatta dalle società aderenti al regime di liquidazione unitaria: «il saldo è trasferito alla società controllante [...] partita Iva n. [...]». Ma nulla in tal senso è previsto nel modello di dichiarazione Iva. Il fatto, poi, che il termine per esercitare l’opzione per la liquidazione unitaria16 coincideva con il primo giorno utile per la compensazione del credito Iva annuale conferma che il contribuente che non ha optato per il rimborso, è libero di scegliere se utilizzare l’eccedenza in compensazione orizzontale ovvero in detrazione (compensazione verticale), facendola confluire, nel caso di opzione per il regime di gruppo, nella liquidazione unitaria. Inoltre, non si capisce perché, con riferimento ad un diritto di credito maturato al di fuori del regime Iva di gruppo, si debbano discriminare due meccanismi estintivi del credito, il rimborso e la compensazione “orizzontale”, tra loro sostanzialmente assimilabili, ammettendo il primo ed escludendo, invece, l’altro. È vero che i crediti compensati nell’ambito della liquidazione di gruppo rappresentano il primo esempio di utilizzazione “orizzontale” del credito Iva, dovendosi considerare in maniera analoga ad un rimborso l’utilizzo del credito in compensazione di un’imposta dovuta da altri soggetti17; questo vale, però, per i soli crediti emersi durante la vigenza del regime Iva di gruppo e già spendibili con i debiti delle altre società del gruppo stesso. Diversa è, invece, l’ipotesi di eccedenze maturate prima dell’ingresso nella liquidazione unitaria e per le quali la decisione di trasferimento al gruppo deve essere solo una facoltà e non un obbligo, come lo è, nel regime ordinario, la scelta

16 L’art. 3 del D.M. 13 dicembre 1979, in proposito, stabilisce che l’opzione deve essere esercitata dall’ente o società controllante «entro il termine di liquidazione e versamento dell’imposta sul valore aggiunto relativa al mese di gennaio». 17 Infatti, l’art. 6 del D.M. 13 dicembre 1979 prevede, all’ultimo comma, che i crediti compensati nell’ambito della liquidazione di gruppo ed in sede di dichiarazione annuale siano coperti dalla società che li manifesta e li rende disponibili al gruppo, mediante le garanzie di cui all’art. 38-bis del D.P.R. n. 633/1972. Sul punto, v. BASILAVECCHIA, Situa-

zioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo. Dalla detrazione al rimborso nell’imposta sul valore aggiunto, cit., 98, secondo cui la disposizione qualifica letteralmente come estinzione il credito “conferito” al gruppo e ciò è dovuto alla necessità di considerare in maniera analoga ad un rimborso l’utilizzo del credito a compensazione di imposta dovuta da altri soggetti, con l’effetto che per la società controllata l’eccedenza di credito assume valenza di credito rimborsato quando ne viene garantita la spendita sia pur attraverso una equivalente diminuzione del debito di gruppo.


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di utilizzare la suddetta eccedenza in detrazione dall’Iva risultante dalle liquidazioni successive, ovvero in compensazione orizzontale. Passando, poi, da un’interpretazione sistematica del dato normativo ad una letterale, a dover essere trasferite al gruppo sono, ai sensi dell’art. 4 del D.M. 13 dicembre 1979, «le risultanze delle liquidazioni periodiche dell’ente o società controllante e delle società controllate» e non il credito Iva annuale. Pertanto, la società che aderisce alla liquidazione unitaria dovrebbe essere obbligata a trasferire al gruppo solamente la parte di credito annuale che eventualmente decidesse di inserire nelle liquidazioni periodiche, utilizzandolo in detrazione e non in compensazione “orizzontale” con altri tributi. Né a diverse conclusioni si giungerebbe attraverso il richiamo all’art. 6 del citato decreto, in quanto questo prevede l’obbligo di presentazione delle garanzie per le eccedenze di credito compensate, risultanti dalle dichiarazioni annuali relative all’anno nel quale è stata applicata la procedura Iva di gruppo. Nell’ipotesi esaminata, invece, il credito risulta maturato nell’anno antecedente a quello di applicazione della liquidazione unitaria. Conclusioni Alla luce delle considerazioni svolte, possono senza dubbio condividersi le conclusioni raggiunte dai giudici di merito circa l’infondatezza della rettifica operata dall’ufficio. Infatti, né l’art. 30 del D.P.R. n. 633/1972, che disciplina, in generale, il trattamento tributario dell’eccedenza a credito risultante dalla dichiarazione annuale Iva, né, peraltro, l’art. 73, comma 3, nella versione ante L. 244/2007, che disciplina le modalità di liquidazione nel peculiare regime dell’Iva di gruppo, contemplano alcuna forma di limitazione nelle scelte del soggetto Iva riguardanti l’utilizzo del credito maturato al di fuori del regime di gruppo. Inoltre, il rinvio ad uno o più decreti, contenuto nell’art. 73 citato, riguarda le modalità di liquidazione unitaria dell’Iva a debito e a credito maturata in seguito all’opzione per il regime di gruppo e non anche la destinazione dei crediti emersi al di fuori di tale regime. Infine, un’ultima considerazione merita la circostanza, rilevata dalla società ricorrente, ma non valorizzata dalla Commissione tributaria, che «il comportamento tenuto non ha arrecato alcun

danno all’erario, in quanto il debito Iva di gruppo [...] è stato interamente pagato dalla società capogruppo». Il fatto che il comportamento del contribuente non determini una perdita di gettito per l’erario, avrebbe dovuto rilevare anche nelle successive scelte legislative e nelle relative interpretazioni della prassi, eccessivamente penalizzanti per il contribuente, anche in mancanza di uno specifico scopo elusivo. Infatti, a fronte del dichiarato intento di contrastare operazioni elusive anche in materia di Iva, il legislatore della finanziaria 2008 ha vietato, ex art. 73, comma 3, l’utilizzo, nella liquidazione Iva di gruppo, delle eccedenze detraibili che si formano negli anni precedenti all’ingresso nel regime, senza far alcun cenno alla possibilità di disapplicare la norma nelle ipotesi in cui tale situazione patologica non si verifica. Tuttavia, avendo riguardo alla ratio legis, chiaramente desumibile dalla relazione di accompagnamento al provvedimento, se ne dovrebbe ammettere, in via interpretativa, la disapplicazione, ex art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973, in assenza dell’intento elusivo perseguito. Così l’operatività del divieto dovrebbe essere limitata al solo caso in cui l’inclusione nel perimetro di gruppo e la conseguente opzione per la liquidazione unitaria dell’Iva riguardi società con un rilevante credito annuale, salvo che, anche in questo caso, esistano valide ragioni economiche che giustifichino la scelta. Al contrario, la norma dovrebbe essere disapplicata allorché la società che opta per la liquidazione unitaria, sia controllata dalla capogruppo già prima del formarsi del credito Iva. Sul punto è intervenuta l’Assonime, rilevando come la norma «non dovrebbe trovare applicazione per le eccedenze di credito annuali delle società che già da tempo fanno parte del gruppo societario e prendono parte alla procedura compensativa nel corso di un periodo d’imposta, senza avervi preso parte nell’anno precedente»18. Queste conclusioni non trovano, tuttavia, spazio nell’interpretazione ministeriale19, che, andando ben oltre le esigenze antielusive perseguite dal legislatore, prevede che l’eccedenza di credito esistente all’atto dell’ingresso di una società nella liquidazione di gruppo resta nella disponibilità della stessa e può, quindi, essere utilizzata negli anni successivi soltanto al di fuori della liquidazione dell’Iva di gruppo, oppure, in alternativa, essere richiesta a rimborso ex art. 30 del D.P.R. n. 633/1972.

PROVE IMPOSSIBILI E REPRESSIONE DELLE FRODI IVA NELLA PROSPETTIVA DEL GIUDIZIO DI MERITO 90

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 10 giugno 2009, n. 117 Presidente e Relatore: Montanari

Iva - Accertamento - Disconoscimento del diritto di detrazione - Frode carosello - Conoscenza o conoscibilità della frode - Onere della prova a carico dell’amministrazione finanziaria (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 19 e 21)

Svolgimento del processo

La C. S.r.l., esercente l’attività di commercio di materiale informatico, ricorre contro l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Reggio Emilia, avverso avviso di accertamento emesso per l’anno d’imposta 2005,ai fini Ires, Irap, Iva e relative sanzioni e cosi per un totale richiesto di euro 2.033.265,00; assume l’Agenzia che la ricorIn caso di disconoscimento della detrazione Iva nei confronti di un soggetto rente, come sarebbe comprovato da una serie di intercettazioni teche si considera partecipe di una “frode carosello”, l’Agenzia delle Entrate lefoniche (cfr. atto [...] della Procura della Repubblica presso il deve dimostrare che il contribuente sapeva, o avrebbe dovuto sapere, impie- Tribunale di Torino), in cui risultano coinvolti l’amministratore gando l’ordinaria diligenza, di partecipare alla frode. della ricorrente ed esponenti commerciali di altre società, definite

18 V. Assonime, circ. 13 febbraio 2008, n. 13.

19 V. ris., 14 febbraio 2008, n. 4/DPF, in Corr. Trib., n. 10, 2008, 827 ss. con commento di RICCA.


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“promotori”, avrebbe operato, consapevolmente, quale società “filtro”, all’interno di un articolato meccanismo di frode coinvolgente più imprese, anche comunitarie, avente come fine ultimo quello di far ottenere ai “promotori” una serie di illegittimi vantaggi fiscali tra cui, segnatamente, un maggior credito Iva da chiedere a rimborso; secondo l’Agenzia la ricorrente si sarebbe, cioè, prestata ad acquistare materiale informatico da uno dei “promotori” per poi rivenderlo ad un altro “promotore” con un leggero ricarico che sarebbe da considerare il compenso per l’attività di “filtro”; le fatture emesse, e ricevute, nell’ambito di questa attività sarebbero da considerare emesse, e ricevute, per operazioni “soggettivamente inesistenti” “cioè di quelle operazioni che hanno luogo solo per creare indebiti crediti d’imposta” a ciò conseguirebbe l’indeducibilità dell’Iva assolta a monte per rivalsa sugli acquisti e l’indeducibilità ai fini dell’Ires e dell’Irap dei relativi costi; la ricorrente, in ricorso ed in memorie aggiunte, eccepisce, in via pregiudiziale, l’inutilizzabilità ai fini del presente giudizio delle richiamate intercettazioni telefoniche, stante la considerazione che la stessa non avrebbe potuto verificare né la legittimità dell’autorizzazione per la loro esecuzione, né la legalità della loro effettuazione, né l’integralità della loro trascrizione, e deduce, nel merito, che proprio il contenuto delle suddette telefonate, se lette nel loro complesso e, dunque, logicamente comproverebbe la normalità dei rapporti commerciali, attivi e passivi, intrattenuti con le società “promotori” cosa, questa, che sarebbe, d’altronde, ulteriormente confermata anche, dalla “normalità”, rispetto agli altri fornitori/clienti, delle abitudini commerciali intrattenute con le stesse (acquisizione di informative precontrattuali, modalità di pagamento, margini di guadagno); conclude chiedendo che venga dichiarata la nullità dell’impugnato avviso; l’Agenzia si costituisce in giudizio con memorie in cui ribadisce la legittimità del proprio operato e segnatamente, evidenzia come l’utilizzazione delle suddette intercettazioni risulti legittima in quanto autorizzata dalla competente Procura della Repubblica; conclude chiedendo che venga respinto il ricorso; la ricorrente presenta istanza di sospensione dell’atto impugnato che viene concessa come da ordinanza in atti; all’udienza dibattimentale le parti si riportano alle proprie deduzioni scritte. Motivi della decisione Le doglianze della ricorrente appaiono fondate e, pertanto, il ricorso va accolto. La Commissione ricorda, riprendendo le argomentazioni di cui all’ordinanza di sospensione, come la Corte di Giustizia UE, cause C-439/2004, C-440/2004, C-354/2003 e C-355/2003, abbia statuito che, per negare al soggetto acquirente il beneficio della deduzione dell’Iva assolta a monte per rivalsa sugli acquisti, occorra che risulti acclarato, da parte del giudice nazionale «che la cessione sia stata effettuata nei confronti di un soggetto passivo che sapesse o avrebbe dovuto sapere di partecipare, con

Nota di Enrico Marello 1. La decisione riportata sopra contribuisce alla formazione dell’ormai fitto ordito di sentenze dedicate alle frodi Iva. I fatti di causa appaiono lineari: la società contribuente, operante nel commercio di prodotti elettronici, si vedeva notificare un avviso di accertamento fondato su alcune intercettazioni telefoniche – trasmesse dalla Procura all’Agenzia delle Entrate – da

1 È ormai nota la configurazione che normalmente viene ravvisata nelle frodi carosello: una terna di soggetti e di operazioni, dove la

il proprio acquisto, ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’imposta sul valore aggiunto»; ed ancora che: «il diritto di un soggetto passivo che effettua simili operazioni di detrarre Iva pagata a monte non è pregiudicato dal fatto che, nella catena di cessioni in cui si iscrivono tali operazioni senza che il medesimo soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un’altra operazione, precedente o successiva a quella realizzata da quest’ultimo, sia viziata da frode all’Iva». Venendo ora al caso di specie, per farvi applicazione dei suddetti principi di diritto, va affermato che l’Agenzia non ha dimostrato, come era suo onere, che la ricorrente fosse consapevole di partecipare ad una frode fiscale: a ciò consegue la legittimità della detrazione dell’Iva assolta a monte per rivalsa sugli acquisti; la consapevolezza di ciò risulterebbe dimostrata, secondo l’Agenzia, dalle richiamate intercettazioni telefoniche; in ordine a queste va, preliminarmente, respinta l’eccezione, dedotta in via pregiudiziale dalla ricorrente, di inutilizzabilità nel presente giudizio delle stesse, essendo stato autorizzato il loro utilizzo ai fini fiscali dalla competente Procura della Repubblica; nel merito della valutazione della loro “forza” probatoria va affermato che le stesse non provano che l’amministratore delle ricorrente fosse consapevole del fatto di partecipare ad un frode fiscale: invero una loro lettura complessiva e logica e, pertanto, non “maliziosa”, comprova solo come tra le società, di cui i soggetti intercettati erano esponenti, intervenissero frequenti rapporti commerciali; anzi, al contrario, la chiamata n. 6934 del 17 maggio 2005 induce a credere che i due esponenti delle società “promotori”, quella a monte e quella a valle della ricorrente, supposto “filtro”, stessero “macchinando” ai danni di quest’ultima, con ciò confermando il suo ruolo più di partecipe inconsapevole, di vittima che di connivente; ruolo confermato anche dalla considerazione che la società “promotore” a valle, cioè l’acquirente, dopo varie vicende è stata dichiarata fallita e risulta comprovato (cfr. documento n. 12 allegato al ricorso) l’inserimento della ricorrente allo stato passivo della stessa per l’ammontare di euro 169.964,61; la consapevolezza della partecipazione alla frode risulta comunque, “positivamente”, esclusa dalla “normalità”, in termini di comportamenti commerciali, (acquisizione di informative precontrattuali, modalità di pagamento, margini di guadagno) rispetto agli altri fornitori/clienti, dei rapporti commerciali intrattenuti con le società “promotori” così come comprovato da una serie di documenti (statistiche, tabelle comparative, documenti contabili di vario genere) allegati al ricorso introduttivo (cfr. in particolare documento n. 5, 7, 9, 10, 11); le considerazioni sopra svolte valgono anche al fine di considerare deducibili ai fini Ires ed Irap i costi relativi agli acquisti considerati dall’Agenzia resistente “soggettivamente inesistenti” e la cui Iva assolta per rivalsa è stata considerata indeducibile; l’avviso impugnato va, pertanto, totalmente annullato; le spese di giudizio quantificate in euro 20.000,00 (ventimila) seguono la soccombenza. cui all’Agenzia sembrava possibile desumere una collusione tra la contribuente e i suoi danti causa. L’amministrazione riteneva, in particolare, che il contribuente svolgesse la funzione di buffer 1 e si prestasse alla formalizzazione di cessioni soggettivamente inesistenti: se ne faceva discendere l’illegittimità delle detrazioni Iva effettuate e l’indeducibilità dei costi ai fini delle imposte sui redditi. La vicenda processuale si chiude con una sentenza favorevole al

cessione effettiva tra broker e missing trader viene interposta da due cessioni (broker-buffer e buffer-missing trader), materialmente

ineseguite ed aventi come soggetto nodale il buffer .


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contribuente. Questa decisione può essere utilizzata come una sor- ditore (o dell’acquirente): (a) la mancanza di una partita Iva attita di barometro, utile ad indicare stato attuale e – forse – evolu- va; (b) la insufficiente organizzazione imprenditoriale o profeszioni future del percorso giurisprudenziale dedicato alle frodi Iva. sionale; (c) la mancanza di mezzi patrimoniali e di sufficienti garanzie patrimoniali; (d) il frequente cambio di forma commer2. Nel caso di specie, la presenza di intercettazioni telefoniche ciale dell’attività. Poi, possono essere ritenute anomale alcune viene ritenuta irrilevante dal giudice tributario che afferma che caratteristiche oggettive dell’operazione: (e) un prezzo di molto dal tenore delle stesse non si può desumere il coinvolgimento di- inferiore al prezzo ordinario di mercato; (f) modalità anomale di retto del contribuente nella frode. Il che è valutazione stretta- spedizione e consegna. mente meritale che non consente alcuna chiosa. In presenza di taluni di questi elementi, si può credere che il conCon l’affermazione di tale irrilevanza, il giudice di merito non ter- tribuente – nella prospettiva assunta dalla Corte di Giustizia – mina però la propria analisi, rendendo conto delle modalità di abbia il dovere di dubitare della effettività dell’attività posta in essvolgimento delle operazioni, per analizzarne la normalità e veri- sere dal proprio dante (o avente) causa e quindi sorga un dovere ficare se in esse sia possibile ravvisare indici – se non del coinvol- di astensione dall’operazione. gimento – almeno della conoscenza dell’esistenza della frode Iva. A fronte di una apparente solidità, tale ricostruzione giurispruLa decisione adottata nel caso concreto discende in larga parte denziale si dimostra di difficile applicazione concreta: quali sono dall’applicazione delle regole di diritto elaborate dalla Corte di gli obblighi che possono essere richiesti al contribuente perché Giustizia. questi dia prova della propria buona fede? Quale è l’estensione L’incipit della parte motiva richiama infatti un principio enu- di tale dovere di informazione? cleato in alcune fondamentali sentenze degli ultimi anni della Intanto, occorrerebbe distinguere tra operazioni di scarso valore, Corte: il soggetto passivo conserva il proprio diritto alla detra- ripetute con frequenza (come nel caso dei commercianti al detzione se non conosce (e non poteva conoscere) di essere inserito taglio) e operazioni di rilevante valore. Poi ancora, andrebbe diin una catena fraudolenta. stinta la contrattazione continuativa con una controparte usuale Tale principio è stato affermato con le sentenze Optigen2 e Axel da quella avvenuta sporadicamente e occasionalmente. In relaKittel 3. Con queste decisioni, il diritto di detrazione del soggetto zione a queste diversità, l’obbligo di informazione imposto al passivo non viene più esclusivamente ricollegato al verificarsi de- contribuente cambia di intensità: per le operazioni ripetute, di gli elementi oggettivi, ma anche alla assenza di conoscenza o co- scarso valore e con controparti variabili, non mi pare che si posnoscibilità dell’esistenza di una frode a monte o a valle della ope- sa richiedere nulla di più di una diligenza minimale, mentre si razione posta in essere dal contribuente. Pur ribadendo il princi- può richiedere una maggiore diligenza per le operazioni di rilepio del carattere obiettivo delle operazioni Iva e della contrarietà vante valore, con qualche aggiustamento per quelle ripetute8. al sistema dell’Iva dell’indagine intorno alla volontà delle parti (e Questi distinguo mostrano le prime crepe dell’apparentemente a maggior ragione l’inutilità dell’indagine sulla volontà di altri solida costruzione. Volendo poi compiere un ragionamento un soggetti facenti parte della catena delle operazioni)4, la Corte in- poco più dettagliato, nella prospettiva della concreta istruttoria troduce la rilevanza della conoscenza o conoscibilità della frode5. amministrativa e processuale, emerge come quell’insieme di inQuesta linea interpretativa è stata poi ulteriormente affinata dal- dici presuntivi dell’esistenza di una frode ponga altri e rilevanti la Corte di Giustizia con le sentenze Collée, Teleos e Twoh6. In tali problemi di applicazione pratica. decisioni, si è delimitato il quadro degli obblighi che gravano sul soggetto passivo Iva che voglia fruire del diritto di detrazione: 3. Le informazioni indicate sopra sub (b) e (c) sono ambigue e per utilizzare le espressioni dell’Avvocato generale, il soggetto controvertibili. passivo deve accertarsi che la propria controparte non sia parte Si consideri la sufficienza della organizzazione: una attività imdi una frode e quindi verificare la “affidabilità” e la “serietà” del prenditoriale effettiva richiede una struttura congruente rispetto proprio partner commerciale7: solo ove possa offrirsi una risposta all’oggetto dell’attività, mentre per contro tipicamente il buffer (o positiva, la posizione del contribuente viene salvaguardata, indi- “filtro”9) non ha una struttura adeguata, proprio perché non dependentemente dalla condotta fraudolenta del cedente o del ces- ve materialmente effettuare le cessioni, ma solo creare realtà carsionario. tolari. Ci si può domandare quali siano in concreto gli indici dell’esi- Ora, a tacere dell’elemento già di per sé problematico della non stenza di una frode. Provando a stendere un approssimativo ca- necessità dell’organizzazione come elemento costitutivo della fitalogo, possono venire in considerazione alcuni caratteri del ven- gura dell’imprenditore in diritto tributario10, è evidente come la

2 Corte di Giustizia delle Comunità europee, 12 gennaio 2006, Cause riunite C-354/2003, C355/2003 e C-484/2003, Optigen. Tutte le decisioni della Corte di Giustizia sono reperibili nel loro testo integrale in http://curia.europa.eu. 3 Corte di Giustizia delle Comunità europee, 6 luglio 2006, Cause riunite C-439/2004, C440/2004, Axel Kittel. 4 Sentenza Optigen, punti 44 ss.; Axel Kittel, punti 41 ss. 5 Per tali osservazioni e per una più articolata disamina dell’evoluzione nel percorso argomentativo della Corte di Giustizia ci si permette di rinviare a MARELLO, Oggettività dell’operazione Iva e buona fede del soggetto passivo: note su un recente orientamento della Corte di Giustizia, in Riv. Dir. Fin.,

2008, II, 26 ss. 6 Corte di Giustizia delle Comunità europee, 27 settembre 2007, causa C-146/2005, Collée; Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione terza, 27 settembre 2007, causa C-409/2004, Teleos; Corte di Giustizia delle Comunità europee, sezione terza, 27 settembre 2007, causa C-184/2005, Twoh International. 7 L’invito a vagliare la “serietà” della controparte si ritrova nelle conclusioni dell’avvocato generale Kokott per il caso Teleos, punto 76: «il venditore si deve sincerare della serietà della propria controparte»; la “affidabilità” ricorre al punto 15 delle medesime conclusioni. 8 Per le operazioni di rilevante valore ripetute con la medesima controparte si può supporre

che una maggiore diligenza sia richiesta nelle prime transazioni, non essendo possibile immaginare che permanga un continuo e immobilizzante dovere di verifica, una volta che il contribuente si sia dato una prima risposta positiva sulla “serietà” della controparte; una reviviscenza dell’obbligo di informazione si può piuttosto immaginare quando emergano nuove condizioni (oggettive e soggettive) che facciano apparire la specifica transazione in corso differente dalle altre già perfezionate con l’ordinario partner commerciale. 9 V. supra, nota 1. 10 Il che non ha un valore esclusivamente formalistico-categoriale, ma esprime una sostanziale svalutazione della funzione dell’organizzazione come elemento caratterizzante la figura dell’imprenditore.


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valutazione in concreto della adeguatezza della struttura imprenditoriale sia giudizio di enorme complessità. Infatti, l’approntamento della struttura organizzativa rappresenta proprio l’«impronta» imprenditoriale, costituendo l’oggetto di esplicazione primario del progetto imprenditoriale e delle sue specificità. È noto come ogni specifica organizzazione discenda dalla formazione, dall’esperienza e dalla sensibilità dell’imprenditore: è la differenza nell’organizzazione dei mezzi che conduce alla peculiarità del prodotto e quindi alla sua appetibilità (in termini di prezzo, qualità ecc.) sul mercato. Vi sono imprenditori che credono nella automazione e altri che puntano sulla lavorazione “artigianale”, imprenditori che razionalizzano i costi per prodotti con prezzi competitivi e altri che invece investono sugli strumenti che elevano la qualità (reale o percepita) per raggiungere i premium prices, e così via, con innumerevoli altre possibili esplicazioni. Esclusi quindi i casi limite in cui l’organizzazione manca del tutto, una valutazione di adeguatezza presuppone la possibilità di individuare uno standard di adeguatezza organizzativa, assai difficile da provare nel caso concreto. Supponiamo che due contribuenti che operano nel medesimo settore e con dimensioni comparabili avviino una trattativa: se l’acquirente nota che il venditore adopera un personale assai più ridotto del proprio e mezzi strumentali esigui, è solo per questo autorizzato a credere che il venditore sia un frodatore? O piuttosto si trova dinanzi ad un soggetto che ha dato alla propria attività una «impronta» differente da quella per cui l’acquirente ha optato?11 Gli stessi problemi sono posti dalla valutazione della garanzia patrimoniale dimostrata dalla controparte commerciale. In genere, nelle operazioni simulate – e quindi anche in talune frodi Iva – non è necessario che le parti siano finanziariamente solide: non essendovi la necessità di disporre effettivamente del denaro (che non viene movimentato, se non nominalmente), l’acquirente può non avere a disposizione la provvista necessaria (o questa gli può essere messa a disposizione dal venditore). Inoltre, nelle frodi Iva, alcuni soggetti possono essere preordinati al fallimento: può darsi in particolare che broker o missing trader, dopo aver ripartito il frutto dell’illecito siano artatamente privi di garanzie patrimoniali dinanzi alle successive richieste del fisco. Si può quindi ragionevolmente credere che un tratto frequente nei meccanismi frodatori sia proprio dato dall’insufficiente dotazione finanziaria dei partecipanti. Quale peso dare però in concreto a tale indice? Come si era già notato in altro scritto, l’indagine sulla solvibilità ha una dimensione quasi tautologica: ordinariamente il soggetto passivo formula un giudizio sulla solvibilità della controparte, poiché evidentemente ha un interesse immediato al buon esito della transazione (e non ha alcun interesse a cedere a soggetti che egli reputa insolvibili). Quindi, se si tralascia l’ipotesi in cui il contribuente sia parte attiva della frode fiscale, si deve ritenere che l’e-

11 Una insufficienza nell’organizzazione per come appare dall’esterno potrebbe per esempio essere supplita dal ricorso all’appalto esterno di alcune attività (si pensi alle attività di trasporto, alle attività di segreteria ecc.: vi sono innumerevoli tratti dell’organizzazione di un’impresa che possono essere gestiti direttamente o tramite soggetti esterni). 12 MARELLO, Oggettività dell’operazione Iva e buona fede del soggetto passivo: note su un recente orientamento della Corte di Giustizia, cit., 31. 13 Perché la frode, oltre al vantaggio fiscale, potrebbe essere diretta ad immettere sul

lemento oggettivo dato dalla effettuazione dell’operazione costituisce indice dell’avvenuto giudizio prognostico di solvibilità. Il fatto stesso che l’operazione si sia perfezionata significa che il contribuente credeva nella solvibilità del cessionario12. L’ambiguità di questa specifica valutazione si desume anche dal caso in commento. Mentre la Corte di Giustizia annovera l’indagine sulla solvibilità della controparte come uno degli adempimenti imposti al contribuente fedele, la Commissione tributaria di Reggio Emilia ritiene che il fallimento dell’avente causa e l’insinuazione al passivo del contribuente (il preteso buffer) siano indici della buona fede del soggetto passivo. La Corte di Giustizia avrebbe considerato il seguente fallimento del missing trader come un indice da cui desumere (almeno in parte) la pericolosità dell’operazione, mentre il giudice di merito vede nell’insinuazione al passivo l’indice contrario di una perfetta buona fede del contribuente. L’elemento consente una perfetta specularità valutativa: è vero che i contribuenti fedeli, dinanzi al fallimento di un debitore, ordinariamente partecipano alla procedura concorsuale (sempre che il costo di giustizia non sia superiore al vantaggio ritraibile), ma non si può certo escludere che la stessa insinuazione costituisca una parte dell’operazione fraudolenta (in cui si cerca di trarre il massimo profitto possibile dalla attività illecita, anche a detrimento di altri creditori in buona fede). Lo stesso indice elencato sub (e), il prezzo “sospetto”, ed assunto ad elemento rilevante anche dal discusso art. 60-bis, D.P.R. 633/1972, non consente interpretazioni univoche. Se da una parte è vero che un prezzo inferiore al “valore normale” si ravvisa in alcune frodi Iva13, d’altra parte è altrettanto noto che non tutte le frodi Iva presentino prezzi “sospetti”. È poi assai complesso determinare concretamente -nel giudizio di merito- quale sia il prezzo medio di mercato: neppure una consulenza tecnica può offrire garanzie di una corretta ricostruzione, per la notevole mutevolezza di prezzi di molti beni e per la diversità profonda che talvolta intercorre tra mercati diversi14. Lo stesso concetto – apparentemente rassicurante – di valore normale può essere analizzato criticamente con esiti tra loro assai lontani15. Inoltre, in relazione a tutti gli elementi considerati sopra, può darsi che il contribuente non riesca ad assumere una informazione sufficiente, perché sprovvisto di poteri autoritativi e per la mancanza di un obbligo di collaborazione della controparte16. Provando ad applicare i principi elaborati alla Corte di Giustizia nel giudizio di merito, sembra di trovarsi dinanzi a tessere di un mosaico di cui si è smarrito il disegno. La Corte ha enunciato un principio (la necessità di ravvisare la buona fede del soggetto passivo); questo principio necessita, per una concreta applicazione, di essere scisso in elementi analiticamente valutabili e producibili nell’istruttoria processuale; nessuno di questi elementi consente una valutazione univoca, rendendo oltremodo difficile il giudizio complessivo.

mercato beni ad un prezzo vantaggioso: i frodatori, così, avrebbero l’ulteriore vantaggio dato dalla facile conquista di quote di mercato a danno dei concorrenti leali. 14 Si può pensare, ad esempio, alla componentistica elettronica, che ha prezzi assai diversi a seconda del mercato geografico di riferimento. O ancora, a taluni tipi di beni di lusso, quali gli orologi, che presentano prezzi (e sconti) differenti a seconda che si rivolgano a mercati ormai maturi o a mercati in espansione. 15 Nel considerare lo scostamento rispetto ai prezzi praticati nel settore, dovrebbe distinguersi un prezzo inferiore alla media, ma pur

sempre appartenente al range preso in esame, da quello che costituisce il prezzo più basso preso in considerazione (il “pavimento” dell’intervallo): MARELLO, Oggettività dell’operazione Iva e buona fede del soggetto passivo: note su un recente orientamento della Corte di Giustizia, cit., 32. 16 Come ribadito nella decisione Twoh (Corte di Giustizia, 27 settembre 2007, C-184/2005), punto 31, si tratta di informazioni che il contribuente deve ottenere iure privatorum, senza l’ausilio dei poteri istruttori fortemente autoritativi di cui gode sia l’amministrazione che il giudice.


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Emerge la difficoltà di provare, in un processo scritto e docu- bilità ai dicta delle Corti Supreme, soprattutto quando si avverte mentale, un elemento psicologico dalle forme assai labili. che la regola probatoria è elaborata in giudizi in cui il fatto è ormai evanescente. Tanta draconiana durezza conduce quindi so4. Le difficoltà probatorie in cui rischia di perdersi il giudizio di lo ad uno scollamento tra le regole del giudizio di merito e quelmerito nell’applicazione delle regole elaborate dalla Corte di lo di Cassazione: non aiuta di sicuro nello svolgimento della funGiustizia non si dissolvono neppure cambiando Corte di riferi- zione nomofilattica, incentivando la diffidenza delle Commissiomento e volgendosi alla Corte di Cassazione. ni nei confronti di un Giudice che si percepisce lontano dalla La Corte di Cassazione ha assunto da alcuni anni un’imposta- concreta applicazione della norma. zione assai rigida in merito alla distribuzione dell’onere probato- Per vero, la durezza interpretativa della Corte è in parte mitigario in materia di frodi Iva. Si è infatti teorizzato un potere di ta da quanto sostenuto dalla medesima Cassazione in relazione “contestazione” della detrazione effettuata, per cui l’onere della alle imposte sui redditi. prova della effettività dell’operazione viene addossato al contri- Il disconoscimento dell’operazione soggettivamente inesistente ai buente17. Contribuente che, peraltro, non sembra adempiere al fini Iva ha infatti, nell’interpretazione amministrativa, anche un efproprio onere probatorio neppure provando effettività di paga- fetto diretto ai fini delle imposte sui redditi: le operazioni disconomento e consegna del bene (e quindi la perfetta realizzazione sciute, non essendo state effettivamente realizzate, non possono esmateriale dell’operazione)18. sere ammesse come componenti negativi del reddito di impresa. Vi è quindi uno iato notevole: da una parte l’amministrazione Il che è logicamente ineccepibile: più dubbia la prassi invalsa di può adempiere al proprio onere della prova sulla base di presun- non disconoscere neppure le componenti positive connesse alle zioni semplici (a volte di una labilità disarmante), dall’altra si operazioni inesistenti22, con l’effetto di assoggettare ad imposizioconfigura in capo al contribuente una prova dal contenuto inde- ne una ricchezza al lordo delle spese. La giustificazione di tale terminato e forse impossibile (cosa provare più dell’effettività del- pretesa viene normalmente condotta invocando l’art. 14, comma l’operazione tramite le modalità della stessa?), con esiti giudizia- 4-bis, L. n. 537/1993, norma che non ammette in deduzione «i li largamente imprevedibili19. costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili coDa una parte gli indizi20, dall’altra una prova pienissima, tanto me reato», ma vi assoggetta, con i noti limiti, i proventi illeciti23. piena da non raggiungere mai l’attendibilità. Tralasciando qui la palese incoerenza di tale tesi, va notato come di Con l’esito finale per cui la buona fede del contribuente viene recente la Corte di Cassazione abbia ribadito il differente onere portata nell’irrilevanza: «qualora l’amministrazione contesti al probatorio da applicarsi per l’estensione degli effetti del disconoscicontribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad mento ai fini reddituali. La decisione 21317/200924 ha infatti preoperazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sul- cisato la necessità che l’amministrazione (attore in senso sostanziala inesistenza delle operazioni fatturate, è onere del contribuente le nel processo tributario) articoli compiutamente la prova della indimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altri- sussistenza dell’operazione, secondo il sistema ordinariamente vimenti indebiti, non assumendo rilievo la propria buona fede»21. gente per le imposte sui redditi e analiticamente disciplinato dal Lo sbilanciamento tra l’onere probatorio delle parti e una simile D.P.R. 600/1973 a seconda del tipo di accertamento25. irrilevanza offerta alla buona fede finiscono per essere inascoltati nel giudizio di merito. Il giudice tributario è un giudice specia- 5. È possibile provare a tratteggiare qualche riflessione di sintesi. le, non togato, che in alcuni ambiti ha una rilevante impermea- Larga parte della giurisprudenza di merito aveva già affermato

17 Cfr. Cass., 26 ottobre 2007, n. 22555; Cass., 21 agosto 2007, n. 17799; Cass., 17 febbraio 2006, n. 3518; Cass., 16 settembre 2003, n. 13605 18 Cfr. Cass., 30 gennaio 2007 n. 1950, ove: «[...] gli indicati riscontri non possono, d’altro canto, esaurirsi nell’accertamento dell’avvenuta consegna della merce e di quello del pagamento della merce medesima e dell’Iva riportata sulla fattura emessa dal terzo, trattandosi di circostanze non decisive, rispetto al tema della prova, in rapporto alle peculiarità del meccanismo dell’Iva e dei relativi abusi» 19 Critiche a tale impostazione della Cassazione si possono leggere, ex multis, in FICARI, Indetraibilità dell’imposta ed operazioni oggettivamente inesistenti tra dimostrazione della fattispecie e sanzione “impropria” in capo all’intestatario, in Rass. Trib., 2001, 222 ss.; Id., La Cassazione aumenta le perplessità sull’indetraibilità dell’Iva per l’intestatario di fatture per operazioni inesistenti, ivi, 2002, 1776; DI SIENA, Operazioni soggettivamente inesistenti e detraibilità dell’Iva, in Rass. Trib., 2007, 201 ss. Inoltre è da dubitare che tale regola processuale (distribuzione dell’onere probatorio) rispetti il principio di proporzionalità in relazione alla neutralità dell’Iva (Cfr. le conclusioni

dell’avvocato generale del 26 febbraio 2008, in causa C-25/2007, poi riprese nella decisione: Corte di Giustizia delle Comunità europee, 10 luglio 2008, causa C-25/2007, Sosnowska, punti 22 ss. «[...] gli Stati membri hanno un legittimo interesse ad intraprendere azioni volte a proteggere i loro interessi finanziari e che la lotta contro ogni possibile frode, evasione e abuso è un obiettivo riconosciuto e promosso dalla sesta direttiva Iva [...]. Ciò non di meno, [...] gli Stati membri devono, conformemente al principio di proporzionalità, far ricorso a mezzi che, pur consentendo di raggiungere efficacemente detto obiettivo, portino il minor pregiudizio possibile agli obiettivi e ai principi stabiliti dalla normativa comunitaria, quale il principio fondamentale del diritto alla detrazione dell’Iva». 20 Cfr. Cass., 7 febbraio 2008, n. 2847 e Cass., 19 marzo 2009, n. 6620. 21 Così Cass., n. 6620/2009, cit., in aperto contrasto con il rilievo offerto alla buona fede dalla Corte di Giustizia (supra, paragrafo 3). 22 Se l’amministrazione ritiene che le cessioni broker-buffer e buffer-missing trader non sussistano (mentre potrebbe sussistere una effettiva cessione broker-missing trader), ragione vorrebbe che – nella prospettiva del buffer – il disconoscimento dell’operazione negativa (broker-buffer) fosse seguito dalla

irrilevanza della operazione positiva (buffermissing trader): se le operazioni non avvengono, non possono essere rilevanti. Il che vale tanto ai fini Iva (pur nel fraintendimento ormai sistemico dell’art. 21, comma 7, D.P.R. 633/1972) quanto ai fini delle imposte sui redditi (dove inoltre manca una norma simile all’art. 21, comma 7). 23 Per una applicazione cfr. Comm. trib. prov. Ravenna, 10 dicembre 2008, n. 112, in questa rivista, 2009, 641 ss. con nota critica di MARCHESELLI, Indeducibilità dei costi illeciti: una norma incostituzionale dagli esiti paradossali. 24 Cass. civ., sez. V, 6 ottobre 2009, n. 21317. 25 Questo il testo della parte rilevante della non lunga ordinanza: «come affermato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., sez. 5a, n. 18710 del 23 settembre 2005 e n. 1023 del 18 gennaio 2008): in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nella ipotesi di costi documentati da fatture che l’amministrazione finanziarla ritenga relative ad operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’amministrazione che adduce la falsità del documento e, quindi, l’esistenza di un maggiore imponibile, provare che l’operazione commerciale, documentata dalla fattura, in realtà non e’ stata mai posta in essere».


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che l’onere della prova della partecipazione alla frode da parte del contribuente spetta all’amministrazione26; la decisione in epigrafe si inserisce in tale filone. Il punto decisivo è però, nella dinamica del giudizio di merito, il contenuto di tale onere probatorio. Come si è indicato sopra, cosa debbono (possono) provare le parti, in una ripartizione dell’onere probatorio che non frustri la repressione delle frodi Iva e che consente di lasciare indenni i contribuenti in buona fede? Applicando il modello elaborato dalla Corte di Giustizia, si giunge a frantumare la prova in una pluralità di argomenti non verificabili; per contro, se nel giudizio di merito si applica quanto teorizzato dalla Corte di Cassazione, abbiamo la creazione di una presunzione materialmente assoluta, poiché non è dato comprendere quale prova contraria possa offrire il contribuente. Volendo semplificare il quadro, si può ritenere che le frodi Iva siano divenute il campo di esplicazione perfetto delle prove impossibili: la Corte di Giustizia sembra addossare all’amministrazione la prova impossibile del coinvolgimento diretto, mentre la Corte di Cassazione scarica sul contribuente la prova impossibile della effettuazione dell’operazione “al di là dell’adempimento”. Le Corti hanno elaborato schemi inefficienti nella prospettiva del giudizio meritale, senza riuscire a raggiungere gli obiettivi fondamentali ricercati (repressione e tutela). Sembra che siano almeno due le cause di questo insuccesso. In primo luogo, vi è una certa rigidità nel disegno del modello frodatorio. Le Corti hanno voluto ravvisare un “tipo” fondamentale di frode, da cui hanno desunto alcuni elementi indicatori della frode (ad es.: la mancanza della consegna del bene, la struttura dei pagamenti, la prevalenza delle operazioni svolte nei confronti di alcuni fornitori o cessionari ecc.). Si è quindi all’interno di un ragionamento di tipo presuntivo, la cui efficacia di-

26 Cfr. Comm. trib. II grado di Bolzano, sezione II, 7 maggio 2007, n. 9, in questa rivista, 2007; Comm. trib. prov. Rimini, 31 gennaio

pende dal nesso probabilistico che lega fatto noto (l’indice della frode) e fatto ignoto (l’esistenza della frode stessa). I punti critici, in tale prospettiva, sono i seguenti: (1) nessuno degli elementi presi in considerazione, da solo, comporta univocamente l’esistenza di una frode: l’utilizzazione di singoli elementi non è quindi conducente; (2) la composizione degli elementi è a risultato incerto: non è possibile dire che la somma di taluni di questi indizi comporti, con un sufficiente grado di certezza, l’esistenza della frode; (3) esistono modelli di frode che non presentano nessuno degli elementi rilevati dalla giurisprudenza. In secondo luogo, manca in giurisprudenza la percezione della stretta correlazione tra distribuzione dell’onere probatorio, ampiezza dei poteri istruttori delle parti, limitazioni processuali. L’impossibilità della prova non discende, nel caso delle frodi Iva, solo dal thema probandum, ma anche dalla relazione tra la limitata istruttoria documentale del nostro processo e l’oggetto della prova. Da una parte sembra assai difficile offrire rilevanza ad un elemento prettamente soggettivo (conoscenza della frode), per il tramite di prove rigorosamente oggettivate. Dall’altra, non è possibile svalutare del tutto le risultanze formalizzate nel procedimento di auto-adempimento (sotto forma documentale), richiedendo un quid pluris che non può essere documentato. Una prova è possibile anche e soprattutto in relazione ai mezzi probatori di cui dispongono le parti: tanto più questi sono ridotti, tanto più il thema probandum deve essere calibrato con attenzione. È questo uno scoglio dinanzi al quale le Supreme corti, lontane dal concreto farsi processuale della prova, rischiano di vedere inabissarsi le algide teorie da loro proposte. Fintantoché non verranno corretti questi due difetti congeniti nell’argomentazione delle Corti, l’esito del giudizio di merito risulterà incerto e inefficiente rispetto alle finalità di repressione e tutela.

2001, n. 265, in Riv. Dir. Fin., 2002, II, 27 ss., con nota di GREGGI; Comm. trib. prov. Forlì, 9 febbraio 2000, n. 12, ivi; Comm. trib. prov.

Forlì, 10 aprile 2000, n. 24, ivi; Comm. trib. prov. Benevento, 10 novembre 2006, n. 171, in dt.finanze.it, solo massima.


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PROCESSO TRIBUTARIO OMESSA NOTIFICA DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO E GIURISDIZIONE IN MATERIA DI ORDINE DI VERSAMENTO EX ART. 72-BIS, D.P.R. N. 602/1973 91

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VII, 28 gennaio 2009, n. 23 Presidente: La Valle - Relatore: Fadel

Processo tributario - Pignoramenti presso terzi - Ordine ex art. 72-bis, D.P.R. n. 602/1973 - Omissione di previa - Notifica della cartella di pagamento - Impugnabilità dinanzi alle Commissioni tributarie (C.p.c., art. 140; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 26 e 72-bis) È impugnabile innanzi alla Commissione tributaria l’atto di pignoramento presso terzi, ex art. 72-bis, D.P.R. 602/1973, in caso di omessa notificazione della cartella di pagamento. Svolgimento del processo Il sig. [...] proponeva tempestivo ricorso nei confronti della E.N. S.p.A. e dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di Treviso, avverso l’atto di pignoramento presso terzi notificatogli dalla predetta E.N. S.p.A e relativo ad Iva e Irap per gli anni di imposta 2003 e 2004, accertate a carico della società di cui il ricorrente era socio accomandante nelle predette annualità. Il ricorrente espone di aver ricevuto in data 8 luglio 2008, tramite raccomandata, l’atto di pignoramento in questione con il quale E.N. S.p.A. ordinava alla Unicredit Banca S.p.A. di pagare direttamente ad esso agente della riscossione le somme dovute e debende al ricorrente fino a concorrenza del credito asseritamente vantato da E. nei confronti del ricorrente medesimo e riferito al mancato pagamento di due cartelle di cui una asseritamente notificata in data 28 febbraio 2008 e l’altra notificata in data 24 ottobre 2007. Si tratta di cartelle contenenti l’iscrizione a ruolo di maggiori imposte accertate per gli anni 2003 e 2004 a carico della predetta società [...] di cui il ricorrente era socio accomandante nel periodo in questione. Quanto alla seconda delle cartelle sopra indicate il ricorrente fa presente di aver già proposto tempestivo ricorso avanti a codesta Commissione la quale con sentenza n. 88/07/2008 depositata il 24 settembre 2008 lo accoglieva in gran parte limitando la responsabilità del ricorrente alla quota conferita nella S.a.s. pari ad euro 500,00, somma che quantunque già corrisposta all’atto della costituzione della società, il ricorrente dichiara di aver già provveduto a versare nuovamente al concessionario. Il ricorrente contesta la legittimità del pignoramento in questione e ne chiede l’annullamento per i seguenti motivi. 1) Inesistenza del debito contestato. Il ricorrente rappresenta che il debito, oggetto di contestazione fa. carico alla società della quale il ricorrente medesimo era stato socio accomandante nel periodo a cui si riferiscono le cartelle sopra indicate. Si tratta però di debito della società e non del socio. Né egli ritiene di dover rispondere solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali in quanto. socio accomandante per cui la sua eventuale sussidiaria, ma mai solidale, responsabilità per i debiti della società può essere fatta valere solo previa escussione del patrimonio sociale ex art. 2304 c.c. e solo nei limiti della quota del capitale conferito ex art. 2313 c.c. Eccepisce comunque che nel caso di specie nessuna prova è stata data circa l’infruttuosa escussione della società e, di conseguenza, nessun di-

ritto aveva il concessionario di rivolgersi al socio per il soddisfacimento delle obbligazioni sociali. 2) Esistenza di una sentenza che limita il credito dell’amministrazione finanziaria alla somma di euro 500,00. Il ricorrente come esposto in linea di fatto rappresenta come la cartella contenente il più consistente importo è stata impugnata con ricorso depositato il 19 gennaio 2007 e in relazione alla quale la Commissione tributaria provinciale di Treviso si è già così pronunciata: «il ricorso va pertanto accolto parzialmente, affermando che la responsabilità del socio accomandante [...] va limitata all’importo di euro 500,00 che costituisce la sua partecipazione al capitale sociale della [...] dall’accertamento nei confronti della quale deriva la pretesa erariale» (sentenza n. 88/07/2008 depositata il 24 settembre 2008). Di conseguenza la parte sostiene che, pur essendo la decisione riferita a una sola delle due cartelle, non possa che valere anche per l’altro debito contèstato con l’altra cartella trattandosi pur sempre di obbligazioni della medesima società della quale il ricorrente era socio accomandatario. 3) Inesistenza/nullità della notifica dell’atto presupposto. Il ricorrente eccepisce altresì per una delle due cartelle che la stessa non è mai stata ritualmente notificata al ricorrente e quindi non poteva costituire titolo valido per gli ulteriori successivi provvedimenti. 4) Esistenza di una sentenza che accoglie il ricorso di altro contribuente contro la medesima cartella. Il ricorrente rappresenta come una delle due cartelle è stata impugnata da altro socio accomandante in quanto anche questo ritenuto coobbligato e in merito si. è già pronunciata la Commissione tributaria provinciale di Treviso che con sentenza 43/05/2008 depositata il 9 giugno 2008 ha accolto il relativo ricorso statuendo la nullità delle cartelle emesse in quanto in violazione di legge poiché il ricorrente «alla stregua di quanto disposto dall’art. 2313 c. c., non risponde dei debiti sociali avendo già conferito la propria quota e comunque, ove ciò non fosse avvenuto, in ogni caso, solo per il valore di essa quota potrebbe essere oggetto di esecuzione, peraltro solo dopo l’escussione negativa del patrimonio sociale». 5) Violazione dell’art. 46 del D.P.R. n. 602/1973. Il ricorrente. eccepisce che il terzo debitore pignorato ha sede in Bologna mentre il concessionario che ha proceduto all’iscrizione, E.N. S.p.A., è competente in Emilia Romagna, per la sola provincia di Modena, e noti era quindi legittimato a procedere al pignoramento medesimo che quindi va annullato in base all’art. 46, comma 1, del D.P.R. 602/1973 il quale stabilisce che:«il concessionario cui è stato consegnato il ruolo, se l’attività di riscossione deve essere svolta fuori dal proprio ambito territoriale, delega in via telematica per la stessa il concessionario nel cui ambito territoriale si deve procedere». 6) Violazione dell’art. 7 della legge 212/2000. La parte contesta la violazione della norma in questione per cui dovevano essere tassativamente indicati il responsabile del procedimento e l’organo o l’autorità presso le quali è possibile promuovere un riesame anche nel merito dell’atto in sede di autotutela. come pure le modalità e i termini nei quali è possibile ricorrere contro l’atto stesso.


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7) Violazione degli artt. 12 e 49 del D.P.R. 600/1973. La parte rileva che l’art. 49, comma 1, prevede che «il concessionario procede ad espropriazione forzata sulla base del ruolo, che costituisce titolo esecutivo», mentre l’art. 12, ultimo comma, stabilisce che il ruolo diviene esecutivo con la sottoscrizione. Eccepisce di conseguenza che nel caso manca la sottoscrizione del ruolo in assenza della quale lo stesso non è divenuto esecutivo e, dunque, non poteva costituire titolo valido al fine di procedere nei confronti del ricorrente. In subordine contesta che la somma per la quale si è proceduto al pignoramento deve essere quella risultante dal ruolo mentre nella fattispecie gli importi complessivamente indicati nell’atto impugnato sono superiori a quelli indicati nel ruolo. Conclude pertanto richiedendo l’annullamento dell’atto impugnato con ogni consequenziale statuizione. con condanna alla restituzione delle somme pignorate e di quant’altro nel frattempo la parte abbia dovuto versare nonché alla rifusione delle spese di lite. Si costituiva in giudizio con memoria di costituzione e risposta E.N. quale agente della riscossione. Lo stesso ha così dedotto sui motivi di ricorso. 1) Inammissibilità dell’opposizione per incompetenza del giudice tributario a decidere in ordine al pignoramento presso terzi. Ritiene infatti E.N. che l’opposizione sia inammissibile in quanto proposta avverso il pignoramento presso terzi notificato in data 30 giugno 2008 avanti a giudice non competente a decidere. Ciò in quanto in base all’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 «restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento [...]». Nel caso di specie parte ricorrente lamenta essenzialmente l’illegittimità della esecuzione. Oltre a ciò vi è l’art. 19 del D.Lgs. 546/1992 il quale fornisce un’elencazione degli atti impugnabili oggetto di ricorso tra i quali non figura l’atto di pignoramento presso terzi. Ritiene pertanto che le censure mosse siano di esclusiva competenza del giudice ordinario in veste di giudice dell’esecuzione. 2) Sulla fondatezza della pretesa: difetto di legittimazione passiva. Si evidenzia come le censure attengano alla fondatezza della pretesa tributaria per le quali può contraddire unicamente l’Agenzia delle Entrate e non il concessionario. 3) Sulla notifica della cartella di pagamento. Sul punto il concessionario fa presente che la cartella di pagamento per la quale il ricorrente ha eccepito la mancata notifica è stata invece notificata presso l’allora indirizzo di residenza sito in [...] in data 21 febbraio 2008 a mezzo di deposito in Comune e affissione all’albo del relativo avviso, attesa la temporanea assenza del contribuente. Ritiene pertanto la censura del tutto infondata. 4) Sulla competenza territoriale dell’agente della riscossione di Treviso. E.N. fa presente come l’Agenzia delle Entrate abbia provveduto a predisporre il ruolo in capo, oltre che ai soci coobbligati, anche alla società. Debitore principale, che avendo sede a Casier, e dunque in provincia di Treviso, correttamente pertanto il ruolo è stato consegnato all’agente della riscossione territorialmente competente che nel caso di specie è E.N. S.p.A., agente della riscossione per la Provincia di Treviso. Pertanto il fatto che sia stata poi predisposta e notificata la cartella di pagamento nei confronti del ricorrente che ha residenza in provincia di Pordenone. a nulla rileva posto che, ai fini dell’applicazione dell’art. 12 del D.P.R. n.602/1973, è necessario fare riferimento esclusivo al domicilio fiscale del debitore principale, come è stato fatto nel caso di specie. Ne deriva che la competenza a procedere esecutivamente rimane comunque in capo all’agente della riscossione legittimato ad agire nei confronti del debitore principale con conseguente rigetto della censura sollevata da parte ricorrente sul punto. 5) Sulla violazione dell’art. 7 legge 212/2000. L’agente della riscossione ribadisce che non. vi è nessuna nonna che gli prescriva di indicare, all’interno dell’atto di pignoramen-

to, il nominativo del responsabile del procedimento. Fa presente peraltro che, circa le modalità di ricorso, nell’ultima pagina del patto è precisato che «contro il presente atto sono ammesse le opposizioni di cui agli artt. 615, 617 e 619, c.p.c., fatte salve le limitazioni e le modalità previste dagli arti: 57 e 53 del D.P.R. 602/1973 e dall’art. 29 del .D.Lgs. 26 febbraio 1999 n. 46». 6) Sul contenuto del ruolo. Su tale punto l’agente della riscossione ritiene di non dilungarsi ritenendo lapalissiana l’inammissibilità e l’infondatezza della censura e che qualsiasi doglianza deve ritenersi del tutto tardiva. Conclude pertanto in tale modo: in via pregiudiziale accertarsi e dichiararsi inammissibilità dell’opposizione svolta dal sig. [...] in quanto promossa avanti ad un giudice carente di giurisdizione, per essere competente a pronunciarsi il Tribunale ordinario in veste di giudice dell’esecuzione; in via. preliminare e di rito: accertarsi e dichiararsi l’inammissibilità delle censure attinenti il ruolo, in quanto tardive; in via preliminare di merito: accertata la totale estraneità di E.N. S.p.A. ai fatti per cui è causa, ed accertato che la titolarità del rapporto oggetto di causa non fa capo ad E.N. S.p.A., dichiararsi il difetto di legittimazione passiva dell’agente della riscossione e, conseguentemente, l’improcedibilità e/o inammissibilità di qualsivoglia domanda svolta nei riguardi dello stesso attinente a questioni di merito della pretesa; nel merito: accertarsi e dichiararsi la correttezza della condotta dell’agente della riscossione, con conseguente reiezione di qualsiasi domanda azionata a carico di E.N., in quanto infondata. In ogni caso: respingersi qualsivoglia domanda formulata nei confronti di E.N., in quanto infondata. Con vittoria di spese, diritti ed onorari. Si costituiva tempestivamente in giudizio altresì l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Treviso con proprie controdeduzioni così replicando ai motivi di ricorso. 1) Difetto di giurisdizione del giudice tributario. Violazione del combinato disposto dell’art. 2 e dell’art. 19 del D.Lgs. 546/1992. 2) Difetto di legittimazione passiva dell’ufficio. In ipotesi in cui il giudice adito non dovesse rilevare il proprio difetto di giurisdizione l’ufficio eccepisce la propria:carenza di legittimazione passiva. Ciò in quanto gli artt. 49 ss. del D.P.R. 602/1973 individuano nei soli ufficiali della riscossione i soggetti competenti all’esercizio dell’attività di espropriazione forzata. A differenza della cartella di pagamento, espressione delle competenze di due soggetti giuridici – l’Agenzia delle Entrate, per la formazione del ruolo e la consegna dello stesso all’agente dalla riscossione, e il concessionario, per la formazione e notifica della cartella – l’atto impugnato è la manifestazione di un potere attribuito esclusivamente ad un soggetto, l’E.N. S.p.A. Pertanto l’ufficio ribadisce di essere stato illegittimamente individuato come parte del processo in quanto l’Agenzia delle Entrate non può essere chiamata a difendersi sui presunti vizi dell’atto di pignoramento poiché non ha avuto alcun ruolo nella formazione e notifica dello stesso. L’Agenzia dell’Entrata ha quindi formulato le seguenti conclusioni: voglia l’onorevole Commissione tributaria provinciale di Treviso: 1) in via pregiudiziale, dichiarare il proprio difetto di giurisdizione; 2) in subordine, sempre in via pregiudiziale, dichiarare il difetto di legittimazione passiva dell’Agenzia delle Entrate. Con vittoria di spese di giudizio. Il ricorrente depositava quindi ulteriori memorie difensive insistendo per l’accoglimento del ricorso. Motivi della decisione La questione preliminare sollevata dalle parti del giudizio attiene alla carenza di giurisdizione del giudice tributario a decidere sulla controversia relativa al pignoramento presso terzi eseguito dall’agente della riscossione. Nel caso di specie inoltre la parte ha eccepito che per una delle due cartelle si trattava del primo atto di cui veniva a conoscenza. L’agente della riscossione ha comunicato che


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per la cartella esattoriale in questione, come risulta dalla relata, l’avviso di deposito non è stato affisso alla porta dell’abitazione bensì all’albo del Comune, adempimento questo previsto ai sensi della lett. e dell’art. 60, D.P.R. 600/1973 (richiamato dall’art. 26, D.P.R. 602/1973) solo nel caso in cui nel Comune nel quale debba eseguirsi la notificazione non vi sia l’abitazione, ufficio o azienda del contribuente, ma non previsto nel caso di temporanea assenza dello stesso dal proprio domicilio. Dagli stessi atti depositati dall’agente della riscossione risulta che il trasferimento del sig [...] da Pordenone a Cordenons è avvenuto il 1 settembre 2008 (data in cui è stato cancellato dall’anagrafe di Pordenone pei emigrazione a Cordenons) pertanto le notifiche effettuate prima di quella data non possono che riferirsi a periodi in cui vi era la temporanea assenza del contribuente e non certo al momento in cui non vi aveva più l’abitazione. Secondo la regola juris della Cassazione (da ultimo Cass. civ., sez. trib., 17 marzo 2008, n. 7067) la notificazione deve essere effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 c.p.c. quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma, come nel caso di specie, non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo da dove tuttavia non risulta trasferito. Di conseguenza il notificatore avrebbe dovuto adempiere alle formalità prescritte dall’art. 140, c.p.c. costituite dal deposito della copia dell’atto della casa comunale dove la notificazione deve eseguirsi, affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione, notizia del deposito al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento, adempimenti tutti ritenuti anche dal giudice di legittimità conte indispensabili (Cass., sent. n. 22677/2007). La diversa disciplina di cui al D.P.R. 600/1973, art. 60, lett. e, sostitutivo, nel procedimento tributario, dell’art. 143, c.p.c., trova invece applicazione quando il messo notificatore non reperisca il contribuente che, dalle notizie acquisite all’atto della notifica, risulti trasferito in luogo sconosciuto. La Commissione osserva altresì che la non applicabilità dell’art. 140 c.p.c. non è espressamente prevista dall’art. 60 del D.P.R. 600/1973, che neppure vi è una confliggente diversa disciplina per le ipotesi contemplate dalla predetta disposizione codicistica, e che pertanto in virtù del generale richiamo dell’art. 137, c.p.c., nel caso di assenza, incapacità o rifiuto di ricevere la copia da parte delle persone indicate nell’art. 139, c.p.c., la notifica vada effettuata a norma dell’art. 140, c.p.c. Solo nell’ipotesi in cui il contribuente risulti trasferito in luogo sconosciuto, disciplinata nel codice di rito dall’art. 143, c.p.c., essendo tale norma espressamente esclusa da quelle applicabili, troverà applicazione la disciplina contenuta nel D.P.R. 600/1973, art. 60, lett. e. Nel caso in esame non è stata prodotta la ricevuta di ritorno della raccomandata con la quale l’avviso di deposito è stato inviato al contribuente. Non risultano inoltre indicate le ricerche, anche anagrafiche fatte dal notificatore e le notizie raccolte sulla reperibilità del medesimo. In conseguenza di quanto sopra la notifica di una delle due cartelle, quella asseritamente notificata il 28 febbraio 2008, non può essere considerata come avvenuta e ne andrà dichiarata la nullità. Si osserva ancora che in base all’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 «restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento». Ne consegue che se la cartella di pagamento in questione, come nel caso inesame, non è stata notificata, la parte è legittimata come previsto dall’art. 19, comma 3 del D.Lgs. 546/1992 ad impugnare l’atto in questione, cioè il pignoramento presso terzi, quale primo atto che le è stato notificato. La norma richiamata prevede infatti che: «la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo». Ed è esattamente quello che la parte ha posto in essere impugnando, unitamente al pignoramento presso terzi, la cartella e formulando quindi tutte i predetti motivi di ricorso, tra cui quello, di merito, di dover pagare dei debiti della [...] sul presupposto di essere socio accomandan-

te e, quindi, non tenuto a rispondere in tale veste in via solidale e illimitata dei debiti della società. A ciò si aggiunga, come si esaminerà in seguito, che il pignoramento presso terzi nella fattispecie in esame, rimane comunque un atto amministrativo posto in essere da un agente delta riscossione e diretto alla riscossione di tributi le cui controversie non si sottraggono alla giurisdizione del giudice tributario. Questa Commissione osserva che nel caso in esame il pignoramento presso terzi consiste in una particolare: procedura che si sostanzia nell’ordine rivolto al terzo, debitore del contribuente, di pagare ad esso agente, senza passare attraverso la citazione del terzo a comparire avanti al giudice dell’esecuzione, ed è stata introdotta con i decreti legge n. 205/2005 e n. 262/2006. Si osserva che la norma che esclude dalla competenza del giudice tributario le «controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria» contenuta nell’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 aveva come riferimento esistente all’epoca il pignoramento presso terzi (tra le altre procedure esecutive che si realizzava sotto il controllo del giudice ordinario. Bisogna a questo punto chiederci se l’ordine di pagamento di cui all’art. 72-bis (che ha inserito il punto 1-bis), articolo che è stato sostituito dall’art. 2 comma 6, decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito dalla legge 24 novembre 2006, n. 286. in vigore dal 3 ottobre 2006 possa ancora essere considerato un atto dell’esecuzione tributaria con tutte quelle garanzie che esso aveva secondo la previsione che poteva essere considerata dal D.Lgs 546/1992. Sul punto si osserva che il riferimento che poteva essere considerato all’epoca della introduzione del D.Lgs 546/1992 era solo ad una procedura. che si svolgeva sotto il controllo del giudice ordinario, mentre ora essa è stata sostituita con un atto promanante direttamente dall’agente della riscossione il quale, in virtù dei poteri conferitigli dalla norma, ordina la terzo di pagate direttamente a egli medesimo. Non esiste dunque più la nomina di un giudice dell’esecuzione e, quindi, non c’è più la previsione di un ricorso che possa essere proposto a tale giudice con tutte le garanzie che vi ineriscono. Di conseguenza di fronte a tale atto dell’agente della riscossione, è necessaria l’individuazione del giudice avente giurisdizione. Si osserva che l’espropriazione viene svolta secondo le norme previste dal codice di procedura civile ed è diretta da un giudice. Si deve ritenere allora che nell’ipotesi, come nel caso di specie, non vi sia un giudice che vi sovrintende tale procedura non può essere considerata una espropriazione e, quindi, non si ricade nella previsione dell’art. 2 del DLgs. 546/1992. Ne consegue che la procedura di cui si discute non rientra nella esclusione prevista dalla norma citata. Si osserva altresì che ex art. 72-bis del D.P.R. 602/1973 il ricorso al giudice è solo eventuale e si ha nel caso in cui il terzo pignorato non dia ottemperanza all’ordine di pagamento ricevuto. In tal caso si applicano le disposizioni di cui all’art. 72, comma 2 del D.P.R. 602/1973 per cui «si procede, previa citazione del terzo intimato e del debitore, secondo le norme del codice di procedura civile». Tutto ciò porta a ritenere che l’ordine di pagamento emesso al terzo da parte dell’agente della riscossione ex art. 72-bis del D.P.R. 602/1973 non costituisca una esecuzione forzata tributaria nel senso della previsione di cui all’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 ma che si tratti di una nuova e più snella forma di riscossione amministrativa del credito tributario legislativamente prevista e che, come tale, si tratti atto amministrativo -tributario impugnabile avanti al giudice tributario con ricorso proposto avanti alla Commissione tributaria competente. Ed inoltre questa Commissione ritiene infondata l’eccezione sollevata fondata sulla circostanza che l’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 non menzioni l’anno di pignoramento dei crediti presso terzi ex art. 72-bis D.P.R. 602/1973, tra quelli impugnabili avanti alle Commissioni tributarie. Tale elencazione va infatti considerata suscettibile di interpretazione estensiva secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione (si veda, da ultimo Cass., sent. n. 27385 del 18 novembre 2008, che ha ritenuto atto impugnabile anche la visura per consultazione di partita catastale).


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L’eccezione sollevata di carenza di giurisdizione va pertanto rigettata. Va rigettata anche l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dall’agente della riscossione considerate le eccezioni sollevate sulla nullità della notifica di una delle due cartelle di pagamento. Inoltre l’agente della riscossione, pur essendo un delegato alla riscossione, tanto più quale soggetto pubblico, per di più controllato dalla Agenzia delle Entrate, non può certo disinteressarsi del tutto della natura. dell’origine del eredito e dei soggetti nei confronti dei quali procede al recupero dei crediti erariali. Anche l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dall’Agenzia delle Entrate è infondata e andrà rigettata. Si osserva infatti che pane ricorrente contesta la illegittimità della iscrizione a ruolo effettuata dalla predetta Agenzia delle Entrate nei confronti del socio accomandante ed inoltre eccepisce per l’altra cartella l’omesso intervento, quanto meno sospensivo. dopo che il carico tributario era stato annullato lasciando invece procedere l’azione di pignoramento presso terzi. Per quanto riguarda l’eccezione di incompetenza sollevata nei confronti dell’agente che ha proceduto, questa Commissione ritiene che si tratti di una facoltà e non dl un obbligo quello dell’agente della riscossione di procedere direttamente o meno, ferma restando la competenza comunque a procedere in capo all’agente della riscossione del debitore principale. Quanto alla violazione dell’art. 7 della legge 2 dicembre questa

Commissione è dell’avviso che le mancate indicazioni costituiscano delle mere irregolarità dell’atto che nel caso di specie non hanno recato alcun pregiudizio alla parte per la tutela delle proprie ragioni. Passando alla questione relativa alle cartelle impugnate, come documentato una risulta essere stata già oggetto di annullamento, per la quasi totalità dei carico tributario richiesto, da pane di questa stessa Commissione e pertanto illegittimamente si è proceduto al pignoramento presso terzi essendo la stata la pretesa già giudicata come illegittima e pertanto annullata. Quanto all’altra cartella, per la stessa è stato tempestivamente eccepito che la notifica è nulla, e vanno ribaditi i motivi di nullità della notificazione medesima. Si osserva infine che si tratta in tutti e due i casi di pretese che hanno come debitore principale la di cui il ricorrente è stato solo socio accomandante e che pertanto la sua responsabilità non può che essere limitata ai capitale conferito e pertanto. Circoscritta entro tali ridotti limiti (euro 500,00 che parte ricorrente, senza essere stata contraddetta; ha già dichiarato di aver versato). Ne consegue che, come già giudicato in altre sentenze sopra citate, le ulteriori richieste avanzate nei confronti dell’accomandante sono già state ritenute illegittime. La Commissione ritiene quindi per tutti i motivi esposti, che l’atto di pignoramento presso terzi impugnato sia da considerarsi come assolutamente illegittimo e, in accoglimento del presente ricorso andrà annullato. Considerata la novità delle questioni trattate si ritiene giustificato disporre la compensazione delle spese del giudizio.

Nota di Martina Fiocchi

l’art. 140 c.p.c.», ossia, attraverso il deposito della copia dell’atto nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, l’affissione dell’avviso del deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario e la fornitura della notizia di tale deposito mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Nel caso di specie, pertanto, i giudici tributari hanno ritenuto irrituale – e, dunque, nulla – la notifica della cartella di pagamento effettuata dall’agente della riscossione a mezzo affissione all’albo del comune, anziché alla porta dell’abitazione del debitore. Al riguardo, dalla lettura della sentenza emerge che, nel rendere la pronuncia, il Collegio non sembra aver adeguatamente considerato il contesto normativo di riferimento in materia di notifica delle cartelle di pagamento. La disciplina delle modalità di notificazione della cartella di pagamento in caso di assenza temporanea del debitore deriva dagli artt. 26 del D.P.R. n. 602/1973, art. 60 del D.P.R. n. 600/1973 e art. 140, c.p.c. L’art. 140, c.p.c., dispone che, se non è possibile eseguire la notifica per irreperibilità del destinatario in uno dei luoghi nei quali la legge presume che egli possa essere reperito (ad es.: residenza, dimora o domicilio) ovvero per assenza, incapacità o rifiuto a ricevere l’atto da parte di uno dei soggetti legittimati dalla legge a riceverlo2, l’ufficiale giudiziario deposita la copia dell’atto nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge l’avviso del deposito, in busta chiusa e sigillata, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda e ne dà notizia al destinatario per raccomandata con avviso di ricevimento. L’art. 26, comma 3, del D.P.R. n. 602/1973, prevede che, nei casi contemplati dal suindicato art. 140, c.p.c., la notificazione della cartella di pagamento si effettua con le modalità stabilite dall’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973 e si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune.

Con la sentenza n. 23/07/2009 del 28 gennaio 20091, la Commissione tributaria provinciale di Treviso ha affrontato due rilevanti aspetti concernenti la materia della riscossione a mezzo ruolo: la determinazione delle modalità di notifica delle cartelle di pagamento in caso di temporanea assenza del debitore presso l’indirizzo in cui si tenta la notifica e l’individuazione della giurisdizione sulle controversie riguardanti gli ordini di versamento emessi dagli agenti della riscossione nella forma di cui all’art. 72bis del D.P.R. n. 602 del 1973. Modalità di notifica della cartella di pagamento in caso di temporanea assenza del debitore Relativamente alla notifica della cartella di pagamento in caso di temporanea assenza del debitore, la Commissione tributaria provinciale di Treviso ha rilevato che «la notificazione deve essere effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 c.p.c. quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma, come nel caso di specie, non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo da dove tuttavia non risulta trasferito». Inoltre, sulla base del rinvio che l’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973, lett. e, opera all’art. 140, c.p.c., la stessa Commissione tributaria ha osservato che «la non applicabilità dell’art. 140, c.p.c. non è espressamente prevista dall’art. 60 del D.P.R. 600/1973 e che neppure vi è una confliggente diversa disciplina per le ipotesi contemplate dalla predetta disposizione codicistica, e che pertanto in virtù del generale richiamo dell’art. 137 c.p.c., nel caso di assenza, incapacità o rifiuto di ricevere la copia da parte delle persone indicate nell’art. 139 c.p.c., la notifica vada effettuata a norma del-

1 In questa rivista. In ordine a tale sentenza cfr. anche Italia Oggi, 19 marzo 2009, 28. 2 Ai sensi dell’art. 139, c.p.c., sono abilitati a ricevere la copia dell’atto: una persona di

famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace; il portiere (se il notificatore non trova né familiari,

né addetti); un vicino di casa (se non vi è neanche un portiere), che accetti di riceverla.


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L’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973, a sua volta – dopo aver statuito, al comma 1, che la notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli artt. 137 ss., c.p.c. (ad esclusione degli artt. 142, 143, 146, 150 e 151, c.p.c.) – alla lett. e, dispone che l’avviso del deposito, di cui all’art. 140, c.p.c., in busta chiusa e sigillata, venga affisso nell’albo del comune. Ebbene, è proprio il combinato disposto di queste tre disposizioni che individua delle modalità di notifica delle cartelle di pagamento in caso di temporanea assenza del debitore che sono in parte derogatorie rispetto a quelle previste dall’art. 140, c.p.c. In particolare, come si è detto, ai sensi del citato art. 26, comma 3, del D.P.R. n. 602/1973, la notificazione «si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso all’albo del comune». Ne deriva, evidentemente, che tale avviso, a differenza di quanto avviene in applicazione dell’art. 140, c.p.c., deve essere affisso all’albo comunale, e non alla porta dell’abitazione del debitore. Pertanto, in caso di temporanea assenza del debitore, la notificazione delle cartelle di pagamento e – in ragione del rinvio operato dagli artt. 49, comma 2, del D.P.R. n. 602/1973 e 50, comma 2, del D.P.R. n. 602/19733, all’art. 26 del D.P.R. n. 602/1973 – degli altri atti di riscossione mediante ruolo, deve essere effettuata secondo le seguenti modalità: - deposito della cartella di pagamento nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi; - affissione dell’avviso di deposito, in busta chiusa e sigillata, nell’albo del comune; - spedizione della comunicazione dell’avvenuto deposito al debitore a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento. In effetti, dalla lettura dalla sentenza in commento, emerge che – nel ravvisare la necessità dell’affissione dell’avviso del deposito alla porta dell’abitazione (o dell’ufficio o dell’azienda) del debitore iscritto a ruolo – la Commissione tributaria provinciale di Treviso ha preso in considerazione esclusivamente gli artt. 60 del D.P.R. n. 600/1973 e art. 140, c.p.c., omettendo qualunque riferimento all’art. 26, comma 3, del D.P.R. n. 602/1973, ossia proprio alla specifica disposizione dettata per la notifica delle cartelle di pagamento. Se, invece, si tiene conto di tale disposizione, non sembrano esservi alternative alla conclusione che la notifica della cartella di pagamento e degli altri atti di riscossione, nell’ipotesi di temporanea assenza, deve avvenire secondo le modalità innanzi descritte, derogatorie rispetto a quelle di cui all’art. 140, c.p.c. Del resto, a ben vedere, l’accoglimento della tesi secondo la quale, in caso di assenza temporanea del debitore, la cartella di pagamento deve essere notificata secondo le stesse modalità indicate dall’art. 140, c.p.c., avrebbe un esito ermeneuticamente inammissibile. Tale prospettazione, infatti, condurrebbe in sostanza a ritenere che l’effetto del combinato disposto delle menzionate disposizioni sarebbe quello di individuare, quale contenuto precettivo del-

3 Il secondo comma dell’art. 49 del D.P.R. n. 602/1973 dispone che: «il procedimento di espropriazione forzata è regolato dalle norme ordinarie applicabili in rapporto al bene oggetto di esecuzione, in quanto non derogate dalle disposizioni del presente capo e con esso compatibili; gli atti relativi a tale procedimento sono notificati con le modalità previste dall’articolo 26». Il secondo comma dell’art. 50 del D.P.R. n. 602/1973, invece, stabilisce che: «se l’espropriazione non è iniziata entro un anno

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l’art. 26, comma 3, del D.P.R. n. 602/1973, la previsione – palesemente inutile – che, nei casi di cui all’art. 140, c.p.c., si applica lo stesso art. 140, c.p.c. Infine, non va trascurato che la correttezza della ricostruzione qui proposta sembra trovare riscontro nella giurisprudenza di legittimità, che si è costantemente espressa in tal senso (sez. I, 5 agosto 2005, n. 16522)4, anche con pronunce recenti (sez. II, 25 giugno 2008, n. 17420)5, nell’ultima delle quali (sez. II, 29 dicembre 2008, n. 30412)6 ha sottolineato che l’art. 140, c.p.c., è completato dall’art. 26 del D.P.R. n. 602 del 1973, ai sensi del quale la notifica della cartella «si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso di deposito è affisso all’albo del comune». Giurisdizione in materia di ordini di versamento emessi nella forma di cui all’art. 72-bis del D.P.R. n. 602 del 1973 Quanto, poi, all’individuazione della giurisdizione sulle controversie riguardanti gli ordini di versamento emessi dagli agenti della riscossione nella forma prevista dall’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973, la Commissione tributaria provinciale di Treviso ha sostenuto che tali ordini non sono atti di esecuzione forzata nel senso di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992 (che, per l’appunto, esclude dall’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie riguardanti gli atti di esecuzione forzata tributaria), ma rappresentano «una nuova e più snella forma di riscossione amministrativa del credito tributario» ed hanno natura di «atti amministrativo-tributario impugnabili avanti al giudice tributario». Ad avviso della Commissione, infatti – poiché ai sensi dell’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973, l’intervento dell’autorità giudiziaria è previsto nel solo caso di inottemperanza del terzo all’ordine di versamento rivoltogli dall’agente della riscossione – il pignoramento di cui al citato art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 deve essere considerato «comunque un atto amministrativo posto in essere da un agente della riscossione e diretto alla riscossione di tributi le cui controversie non si sottraggono alla giurisdizione del giudice tributario». L’opposta tesi della natura esecutiva del pignoramento presso terzi disciplinato dall’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 ha, tuttavia, un solido fondamento, in primo luogo, nel tenore letterale dello stesso art. 72-bis7. La formulazione di tale disposizione, infatti, esprime chiaramente la circostanza che la procedura disciplinata dall’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 rappresenta una modalità di esecuzione presso terzi alternativa rispetto a quella di cui agli artt. 543 ss., c.p.c. (e non un nuovo tipo di atto amministrativo), avverso la quale è, dunque, possibile proporre opposizione al giudice dell’esecuzione, ovviamente con le limitazioni previste nei precedenti artt. 57 e 58, che operano anche nel caso in cui l’agente della riscossione decida di attivare la procedura di cui agli artt. 543 ss., c.p.c.

dalla notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica, da effettuarsi con le modalità previste dall’articolo 26, di un avviso che contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni». In Giust. Civ. Mass., 2005, 7 ss. In banca dati Juris Data. In banca dati Juris Data. L’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 dispone che: «l’atto di pignoramento dei crediti del

debitore verso terzi può contenere, in luogo della citazione di cui all’articolo 543, comma 2, numero 4, dello stesso codice di procedura civile, l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario, fino alla concorrenza del credito per cui si procede: a) nel termine di quindici giorni dalla notifica dell’atto di pignoramento, per le somme per le quali il diritto di percezione sia maturato anteriormente alla data di tale notifica; b) alle rispettive scadenze, per le restanti somme».


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In sostanza, si tratta, dunque, di una disposizione con la quale il legislatore ha voluto attribuire all’agente della riscossione la possibilità di optare per una modalità «semplificata» di pignoramento presso terzi, allorché le caratteristiche del debitore moroso, del terzo e del rapporto tra di essi intercorrente inducano a ritenere che il ricorso a tale opzione sia più opportuno, in termini di economicità e proficuità dell’azione di recupero coattivo del credito pubblico iscritto a ruolo. La previsione, solo eventuale, dell’intervento dell’autorità giudiziaria trova la sua giustificazione nel tentativo intrapreso dal legislatore di voler implementare l’efficienza del sistema di riscossione coattiva dei crediti tributari e di diritto pubblico – in considerazione dell’incidenza negativa che l’omesso pagamento di tali crediti ha sul bilancio dello Stato e, quindi, nello scopo di garantire il rispetto del principio costituzionale (cfr. art. 53, Cost.) dell’obbligo di concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva – nonché nella necessità di evitare un effetto inflattivo del contenzioso civile. La procedura di cui all’art. 543, c.p.c., in effetti, nel prevedere l’intervento dell’autorità giudiziaria anche nell’ipotesi in cui non sia stata proposta opposizione, determina, com’è noto, un non trascurabile aggravio sia dei tempi per la conclusione dell’esecuzione, sia dei carichi di lavoro dei giudici dell’esecuzione. Ebbene, considerato che il numero di soggetti morosi contro i quali gli agenti della riscossione procedono è estremamente elevato, ove il pignoramento presso terzi a seguito di iscrizione a ruolo dovesse effettuarsi nella sola forma ex artt. 543 ss., c.p.c., si potrebbe determinare un effetto paralizzante per il sistema della giustizia civile. Questa, dunque, la ratio dell’intervento legislativo con il quale è stato introdotto l’ordine di versamento in parola e da tale ratio sembra derivare che si tratta di un atto che, pur nelle sue peculiarità, mantiene la natura giuridica di atto di pignoramento. Ciò premesso, dalla natura esecutiva dell’ordine di versamento previsto dall’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973, discende che, stante l’art. 2, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 546 del 19928, per le relative controversie è esclusa la giurisdizione del giudice tributario e si applicano le disposizioni del D.P.R. n. 602/1973, che prevedono, all’art. 57, la giurisdizione del giudice dell’esecuzione.

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In favore della spettanza al giudice dell’esecuzione della giurisdizione sulle controversie riguardanti gli atti di pignoramento presso terzi ex art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 si è, peraltro, espressa anche la recente giurisprudenza costituzionale. Con l’ordinanza n. 393 del 19 novembre 20089, la Corte costituzionale, nel riconoscere la legittimità dell’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973, ha, infatti, affermato che i debitori sottoposti ad esecuzione in base allo stesso art. 72-bis «possono in ogni caso proporre le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi di cui all’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973». La Consulta ha, così, dato per scontato che – alla luce del citato art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992 – le opposizioni contro gli atti di pignoramento di cui all’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 debbano proporsi ai sensi degli artt. 615 ss. c.p.c., con le limitazioni di cui all’art. 57 del D.P.R. n. 602/197310. Da ultimo, occorre evidenziare che, qualora si ritenesse sussistente la giurisdizione del giudice tributario sui pignoramenti presso terzi ex art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 intrapresi per la riscossione di entrate tributarie, le controversie relative agli atti di cui allo stesso art. 72-bis dovrebbero, evidentemente, essere proposte, per ciascuna tipologia di credito, dinanzi al giudice titolare della giurisdizione sul merito della singola pretesa iscritta a ruolo. Tale conclusione sarebbe, infatti, inevitabile alla luce del principio affermato, in materia di fermo amministrativo, dalle sez. unite della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14831 del 20 maggio 200811, secondo cui «la giurisdizione sulle controversie relative al fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del D.P.R. n. 602/1973 appartiene al giudice tributario ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2, commi 1 e 19, comma 1, lett. e-ter del D.Lgs. n. 546 del 1992, solo quando il provvedimento impugnato concerna la riscossione dei tributi». Siffatta conclusione sarebbe, tuttavia, inammissibile, poiché condurrebbe, in mancanza di un’espressa previsione legislativa in tal senso (sussistente, invece, nel caso del fermo amministrativo), ad attribuire la giurisdizione su un pignoramento ex art. 72bis del D.P.R. n. 602/1973 effettuato per la riscossione di crediti di diversa natura, ad una pluralità di giudici, con il rischio che questi ultimi emettano pronunce contrastanti sullo stesso pignoramento.

Commissione tributaria provinciale di Torino, sez. XVII, 20 aprile 2009, n. 58 Presidente: Cervetti - Relatore: Bolla

Processo tributario - Accertamento con adesione Istanza di accertamento con adesione limitata alle sanzioni - Inammissibilità - Conseguenza - Sospensione dei termini per l’impugnazione - Esclusione (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, comma 1; D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, art. 6, commi 2 e 3; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 16)

Fatto

Il sig. S.L., rappresentato e difeso dalla dott.ssa L.M. e dall’avv. F.D.A., ricorre in data 15 settembre 2008 contro Agenzia delle Entrate, ufficio di Torino 2, avverso atto di contestazione [...] conseguente a Pvc della Guardia di Finanza di Verbania, notificato il 7 aprile 2008, relativo ad omesso versamento di ritenute d’acconto su royalties anno di imposta 2003. Qualifica il rapporto intercorrente Non è ammissibile un’istanza di accertamento con adesione limitata alle sole come procacciamento d’affari, e comunque l’aliquota sulle royalties sanzioni, con la conseguenza che il termine per proporre ricorso non è sospeso. sarebbe del 5%, la società D. di cui il ricorrente è rappresentante le-

8 Ai sensi dell’art. 2, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 546 del 1992 restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29

settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica. 9 In Giur. Cost., 2008, 6, 4607, con nota di PICIOCCHI. 10 L’art. 57 del D.P.R. n. 602/1973 prevede che non sono ammesse le opposizioni regolate

dall’art. 615, c.p.c., fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni e le opposizioni regolate dall’art. 617, c.p.c. relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo. 11 In Guida al Diritto, 2008, 42, 76, Dir. Econ. Assicur. 2008, 955.


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gale ha avuto rapporti con la sola Svizzera. Chiede sia accolto il ricorso, previa sospensione nonché la pubblica udienza. L’Agenzia delle Entrate di Torino 2 si costituisce, preventivamente dichiara che il ricorso è inammissibile per il compiuto decorso del termine ex art. 21 D.Lgs n. 546/1992, atteso che, trattandosi di sole sanzioni, non opera la sospensione dei termini di 90 giorni ex art. 6, D.Lgs. 218/1997. Nel merito trattasi di contratto di merchandising e non di procacciamento di affari, alla luce della convenzione Italia/Svizzera è corretto l’operato dell’ufficio. Chiede il ricorso sia dichiarato inammissibile, con vittoria di spese. La sospensiva non è accolta. Alla pubblica udienza le parti ribadiscono quanto in atti e dichiarano che la Comm. trib. prov. sez. XIV di Torino sta per decidere il ricorso sull’imposta contestata. Diritto L’avviso di accertamento impugnato è relativo alle sanzioni irrogate per l’anno 2003, in merito a ritenute d’acconto anno 2003, nonché ad Iva originato da un Pvc della Guardia di Finanza di Verbania. Con atto di adesione (non allegato) sono state definite con accertamento con adesione tutte le altre contestazioni. Il ricorrente contesta all’ufficio di Torino di avere proceduto separatamente alla notifica delle sanzioni ex art. 16, D.Lgs. 472/1997, ma tale modalità prevista dalla legge non è censurabile sotto il profilo dell’evenNota Con la sentenza in epigrafe la Commissione tributaria provinciale di Torino si pronuncia sul rapporto tra procedimento di accertamento con adesione e atto di contestazione delle sanzioni, in relazione alla sospensione dei termini processuali per la proposizione del ricorso conseguente alla presentazione dell’istanza di adesione. Nella vicenda processuale il contribuente ricorreva contro l’Agenzia delle Entrate avverso un atto di contestazione conseguente ad omesso versamento delle ritenute d’acconto su royalties per l’anno 2003. Il ricorrente sosteneva che il rapporto giuridico controverso doveva configurarsi come contratto di procacciamento d’affari, con conseguente aliquota sulle royalties del 5%; contestava poi il recupero dell’Agenzia e la qualificazione del rapporto come contratto di merchandising. L’Agenzia lamentava, in via pregiudiziale, l’inammissibilità del ricorso per il decorso del termine perentorio di impugnazione, trattandosi di atto di contestazione e non di avviso di accertamento: non sarebbe stata applicabile la sospensione dei termini prevista per la definizione dell’accertamento in adesione. La Commissione Tributaria Provinciale rigetta il ricorso, accogliendo i motivi sollevati in via pregiudiziale dall’Agenzia. Il quadro normativo è lineare. L’art. 21 D.Lgs. 546/1992 fissa il termine di 60 giorni per la proposizione del ricorso: si tratta di un termine perentorio che decorre dalla data di notificazione dell’atto impugnato. D’altra parte, l’art. 6, comma 3, D.Lgs. 218/1997 dispone la sospensione del termine di l’impugnazione per 90 giorni dalla data di presentazione dell’istanza di accertamento con adesione da parte del contribuente. La lettura del combinato disposto delle norme richiede una precisazione legata al tipo di atto che può essere oggetto della procedimento di accertamento con adesione e della conseguente sospensione dei termini. Il D.Lgs. 218/1997 che disciplina l’accertamento con adesione compie un espresso riferimento all’accertamento delle imposte dirette, sul valore aggiunto e indirette, nulla dicendo sugli atti di contestazione che irrogano le sole sanzioni. Autorevole dottrina pone come condizione di proponibilità dell’accertamento con adesione l’esistenza di una rettifica. Si affer-

tuale illegittimità. L’art. 6, D.Lgs 218/1997 prevede la sospensione di 90 giorni per la proposizione del ricorso se il contribuente con apposita istanza formula proposta di accertamento ai fini dell’eventuale definizione. Sia ad un’interpretazione letterale che logica della legge la norma va letta nel senso di proposta relativamente ad imponibile, imposta accertata ecc. mentre le sanzioni, aventi carattere accessorio, quanto a debenza e/o riduzione, vanno definite alla luce del preliminare accertamento con adesione delle imposte, pertanto non è logicamente ammissibile un’autonoma istanza di accertamento limitata alle sole sanzioni prescindendo dalla decisione sulle imposte. Né il contribuente può dichiarare quale sia stata la definizione delle imposte per l’anno 2003, essendo pendente il ricorso. Senza entrare nel merito del ricorso, la questione di inammissibilità posta dall’ufficio va accolta, atteso che non è applicabile la sospensione dei termini per proporre ricorso prevista dall’art. 6, D.Lgs. 218/1997. La notifica dell’atto impugnato è del 7 aprile 2008 ed il ricorso è stato spedito il 15 settembre 2008 superando ampiamente i 60 giorni di legge, sia pure tendo conto della sospensione feriale. In palese violazione art. 21, comma 1, D.Lgs. 546/1992, è stato proposto il giorno 11 dicembre 2007, oltre i sessanta giorni dalle date di notifica dell’atto impugnato. Conseguentemente va dichiarata l’inammissibilità, già rilevata dall’ufficio, e rilevabile d’ufficio in qualunque momento. Per la particolarità della questione e l’evidente buona fede del contribuente sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese. ma, infatti, che «l’accertamento con adesione ha contenuto analogo all’accertamento normale», inoltre si dice che «il concordato può avere per oggetto il reddito o il volume d’affari soggetto ad Iva [...]. Il concordato può riguardare, inoltre, la base imponibile dell’imposta di registro e delle imposte ipotecarie e catastali» (TESAURO, Istituzioni di Diritto Tributario, parte generale, X, 2009, 232). E ancora: «l’ambito di applicazione principale del concordato dovrebbe essere quello delle questioni non risolvibili in base ad elementi certi, ma che comportano certi margini di apprezzamento valutativo, in particolare il campo degli accertamenti presuntivi e induttivi. Tuttavia – si aggiunge – a parte l’inapplicabilità per le liquidazioni formali ex art. 36-bis e le rettifiche formali ex art.36-ter, D.P.R. 600/1973, non vi sono limiti di contenuto agli accertamenti suscettibili di essere definiti mediante adesione» (FALSITTA, Manuale di Diritto Tributario, parte generale, VI, 2008, 370). In altre parole, se non c’è accertamento, non può esservi neanche accertamento con adesione. L’atto di contestazione non è un avviso di accertamento, in quanto prevede la contestazione delle sole sanzioni e non, come avviene per l’avviso di accertamento, della maggiore imposta e delle sanzioni ad essa conseguenti. Questo il motivo per cui la Commissione ha ritenuto non applicabile la sospensione dei termini nel caso di specie. Da ciò un’immediata conseguenza: perché la sospensione dei termini operi è necessaria la presentazione di un’istanza valida, cioè che – oltre agli altri requisiti – sia presentata nei confronti di un atto che può essere soggetto ad accertamento con adesione. Il che, nel caso che qui ci occupa, non è stato, trattandosi di atto di contestazione che, in quanto tale, non è soggetto a tale tipo di definizione. Il contribuente, se avesse voluto definire l’atto di contestazione, avrebbe potuto farlo entro il termine previsto per la proposizione del ricorso, con il pagamento di un importo pari ad un quarto delle sanzione indicata e, comunque, con il pagamento di un importo non inferiore ad un quarto dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo (art. 16, comma 4, D.Lgs. 472/1997). Si tratta peraltro, in tal caso, di una acquiescenza alla pretesa amministrativa e non del raggiungimento dialogico di un risultato differente (come è nell’accertamento con adesione).


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Per inciso, si ricorda che nel 2008 è stato introdotto l’art. 5-bis, D.Lgs. 218/1997, relativamente alla definizione dei processi verbali di constatazione: anche in tale frangente il presupposto è l’esistenza di una rettifica e l’acquiescenza del contribuente al quantum accertato. Relativamente all’ipotesi in cui sia presentata valida istanza di accertamento con adesione si evidenziano quattro aspetti. Il primo è che la sola presentazione dell’istanza produce l’effetto di sospendere i termini di impugnazione dell’atto nonché quelli per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni conseguenti (art. 6, comma 3, D.Lgs. 218/1997). Il secondo è che alla sospensione prevista in caso di presentazione dell’istanza di accertamento con adesione si aggiunge, eventualmente, quella della sospensione feriale dei termini, se il termine di impugnazione – a cui va aggiunto quello della sospensione dei termini per la sola presentazione della valida istanza di adesione – cade nel periodo suddetto. (Sui due punti, in termini chiari: R.M. 159/E dell’11 novembre 1999, Dipartimento entrate, direzione centrale accertamento e programmazione). Il terzo è che la negativa conclusione del procedimento di accer-

tamento con adesione non incide sul periodo di sospensione dei termini per ricorrere. La norma attribuisce alla presentazione dell’istanza di adesione l’effetto automatico e predeterminato della sospensione, non prevedendo alcuna causa di decadenza della sospensione stessa, sempre che l’istanza sia stata validamente presentata (sul punto: circolare 65/E del 27 giugno 2001, Agenzia delle Entrate, Direzione centrale normativa e contenzioso; in giurisprudenza Cass. civ., sez. V, 30 giugno 2006, n. 15171; superando così qualche decisione di merito orientata in altro senso: cfr. Comm. trib. prov. Treviso, 11 ottobre 1999, n. 308). Il quarto è che il periodo di sospensione non costituisce termine di riferimento per la conclusione del procedimento di accertamento con adesione. La sottoscrizione dell’atto, infatti, può avvenire validamente entro il termine ultimo di impugnazione che deve tener conto del termine di 60 giorni per la proposizione del ricorso, di quello di 90 giorni, conseguente alla valida presentazione dell’istanza di sospensione, e dell’eventuale termine di 46 gg., per il periodo di sospensione feriale dei termini (dall’1 agosto al 15 settembre di ogni anno).

INESISTENZA DELLA NOTIFICA DELL’AVVISO DI ACCERTAMENTO EFFETTUATA DA SOGGETTO NON AUTORIZZATO 93

Commissione tributaria provinciale di Messina, sez. XI, 25 giugno 2009, n. 664 Presidente: Lo Presti - Relatore: Adile

Processo tributario - Notifica - Avviso di accertamento - Soggetto non autorizzato - Inesistenza della notifica Sanatoria - Esclusione (C.p.c., artt. 137 ss.; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 16) Deve ritenersi inesistente la notifica di un avviso di accertamento effettuata da soggetto non autorizzato ex lege (nel caso specifico, un militare della Guardia di Finanza), senza che tale vizio possa ritenersi sanato dall’impugnazione dell’atto stesso. [Omissis] Il Collegio, letti gli atti, ritiene di dovere riconoscere la fondatezza dell’eccezione preliminare di nullità della notifica dell’avviso di accertamento, da ritenere assorbente rispetto alle altre questioni formulate dal ricorrente. È pacifico tra le parti che l’atto impugnato è stato notificato dai militari della guardia di finanza. L’art. 60 del D.P.R. 600/1973 e l’art. 56 D.P.R. 633/1972 sono le norme di collegamento tra l’ordinamento tributario e quello processuale: le rettifiche e gli accertamenti sono notificati dai messi speciali o da messi comunali, i messi autorizzati dall’ufficio o messi speciali, sono persone appartenenti in genere all’amministrazione finanziaria, scelti anche tra il personale della carriera ausiliaria designante dagli stessi uffici. Con tale autorizzazione si istituisce tra l’amministrazione ed il messo un rapporto pubblicistico che ha per contenuto il conferimento del potere di notificazione con gli attribuiti connessi (potere di certificazione, ecc.) Nell’esercizio delle proprie funzioni, agli ufficiali ed agenti della guardia di finanza (cd. polizia tributaria) oltre ai poteri e ai doveri

stabiliti dal codice di procedura penale per la polizia tributaria sono riconosciute particolari facoltà disciplinate sia dalla legge 7 gennaio 1929, n. 4, sia dalle leggi riguardanti i singoli tributi. Poteri e facoltà della guardia di finanza sono previsti per le imposte dirette dagli artt. 31 e 33, D.P.R. 600/1973 ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, mentre nel settore dell’Iva per effetto degli artt. 51 e 53 D.P.R. 633/1972 sono previsti dei poteri sostanzialmente analoghi a quelli delle imposte dirette. In nessun caso gli appartenenti al corpo della guardia di finanza nella attività di collaborazione con gli uffici finanziari possono essere considerati messi speciali per la notifica degli atti tributari emessi dagli uffici finanziari. La guardia di finanza ha il potere di notificare gli atti a rilevanza fiscale conseguenti alle verifiche fiscali da essa eseguite (verbali di verifica) e quale polizia giudiziaria può notificare gli atti a richiesta del pubblico ministero nel processo penale nella fase delle indagini preliminari. Pertanto deve ritenersi nulla in modo assoluto, o inesistente per vizio radicale, la notifica dell’avviso di accertamento effettuata da soggetto che non aveva poteri per eseguire la notifica. La suddetta nullità – non concernendo un rapporto processuale, ma invece, la costituzione del rapporto sostanziale di natura tributaria, in ordine al quale poi l’interessato ha il potere di azione innanzi alle Commissioni tributarie – non può ritenersi sanata dall’impugnazione ai sensi dell’art. 156 c.p.c. (cioè per raggiungimento dello scopo dell’atto). La Suprema Corte con sentenza del 27 settembre 2000/21 aprile 2001, n. 5924, ha statuito che «l’impugnazione da parte del contribuente non sana la notifica irregolare dell’avviso di accertamento». Il ricorso va quindi accolto, con riguardo al primo motivo enunciato, quello cioè concernente il vizio di costituzione del rapporto tributario, rimanendo, perciò, tutti gli altri motivi assorbiti. Si ravvisano giusti motivi per la compensazione delle spese del giudizio tra le parti.


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Nota di Cristina Marcolongo 1. La sentenza n. 664/2009 della Commissione tributaria di Messina si pronuncia in merito al ricorso avanzato dal contribuente avverso un avviso di accertamento, relativo all’imposta sugli intrattenimenti, del quale si fa istanza di annullamento sulla base di eccezioni di rito (inesistenza della notificazione) e di merito (la mancanza del presupposto impositivo, il difetto di legittimazione passiva e la decadenza dal potere impositivo). Queste ultime, tuttavia, restano assorbite dall’accoglimento della preliminare eccezione di inesistenza giuridica della notificazione dell’avviso, eseguita da un militare della Guardia di Finanza di Catania, il quale, a detta del ricorrente, non rivestiva né avrebbe potuto rivestire la qualifica di messo speciale di cui all’art. 60, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. La sentenza della Commissione di Messina, limitatamente alla declaratoria di invalidità del procedimento notificatorio eseguito da un soggetto non autorizzato e, quindi, in modo non conforme alle disposizioni di legge merita di essere condivisa, ma non altrettanto può dirsi per la riconduzione di tale invalidità alla categoria giuridica della “inesistenza”, con conseguente preclusione della sanatoria dell’atto impositivo impugnato dinanzi al Giudice tributario. In virtù degli artt. 60 D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 e 56 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, che rappresentano le norme di collegamento tra l’ordinamento tributario e quello processuale ordinario (al quale espressamente rinviano, per quanto non diversamente disposto), le notificazioni degli atti impositivi recettizi devono essere eseguite secondo le regole stabilite dagli artt. 137 ss. c.p.c., ossia da messi comunali, da messi speciali autorizzati dall’ufficio finanziario o dagli ufficiali giudiziari. In particolare, i messi autorizzati dall’ufficio, detti anche “messi speciali”1, appartengono, in genere, all’amministrazione finanziaria e possono essere scelti anche tra il personale della carriera

1 Già chiamati “servienti” dal R.D. 11 luglio 1907, n. 560 recante il Nuovo regolamento per l’imposta sui redditi della ricchezza mobile. 2 «Gli ufficiali giudiziari addetti agli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti degli uffici giudiziari sono ausiliari dell’ordine giudiziario. Essi procedono all’espletamento degli atti loro demandati quando tali atti siano ordinati dall’autorità giudiziaria o siano richiesti da cancelliere o dalla parte [...]». La denominazione di ufficiale giudiziario risale, in Italia, alla legge 21 dicembre 1902, n.58 che ha sostituito il vecchio termine di “usciere”, qualifica che oggi vige in quasi tutti i paesi europei di “diritto civile scritto”, ad es. in Francia Huissier de Justice. Nell’immagine: scena di un accesso dell’ufficiale giudiziario in una stampa del XIX secolo, tratta dal sito dell’Uiug, Unione italiana ufficiali giudiziari. Tali uffici, meglio conosciuti come Unep, sono l’unica altra tipologia di ufficio giudiziario italiano con compiti di “ausilio” e integrazione dell’opera dei magistrati giudicanti (Tribunali e Giudici di Pace), assieme alle cancellerie giudiziarie, le quali si distinguono ulteriormente per funzioni e materie di specializzazione (civili, penali, del lavoro, delle esecuzioni mobiliari o immobiliari ecc.). Ovviamente per quanto riguarda i magistrati requirenti del Pubblico Ministero, l’ordinamento prevede altri uffici come le segreterie giudiziarie presso le Procure della Repubblica, gli uffici del casellario giudiziale, con personale appartenente, in sostanza, agli stessi ruoli delle cancellerie.

ausiliaria; costoro vengono legittimati dagli stessi uffici a procedere alla notificazione degli atti, in forza di un rapporto pubblicistico che, con tale autorizzazione, si instaura tra l’amministrazione finanziaria e il messo stesso. Tutti i compiti propri dell’ufficiale giudiziario risultano stabiliti dal codice civile e dal codice di procedura civile e, più recentemente, da norme di leggi speciali2, in base alle quali, questi è chiamato, da un lato, ad eseguire i provvedimenti decisori del giudice, qualora questi ultimi non vengano rispettati e posti in essere spontaneamente dai soggetti destinatari, dall’altro lato, ad adempiere alla funzione fondamentale per la dinamica del processo della notificazione degli atti: il notificare (il notum facere), cioè il rendere noti gli atti processuali alle parti coinvolte nel giudizio penale, civile, amministrativo o tributario, riveste infatti, un ruolo essenziale per l’esistenza del rapporto processuale e la costituzione e svolgimento del regolare contraddittorio tra le parti3. Se tale fase, dunque, ha la finalità precipua di tutelare interessi generali così rilevanti, il legislatore non avrebbe potuto disciplinarla secondo parametri meno rigorosi o rimettendola addirittura alla discrezionalità (quanto alle forme) delle parti: così facendo, si sarebbe rischiato di compromettere il principio di certezza del diritto, nonché il diritto di difesa (si pensi alle conseguenze di una siffatta “anarchia” sul decorso e sul calcolo dei termini processuali, sulla dichiarazione di contumacia, ecc.). A conferma di quanto sopra, l’ufficiale giudiziario è considerato dal nostro ordinamento un pubblico ufficiale ex art. 357 c.p.4, il cui status, quindi, si correla ad un ruolo formale ricoperto da tale soggetto all’interno dell’amministrazione pubblica5, a garanzia della certezza del diritto e della tutela delle parti. A tal proposito, va precisato che il termine “polizia tributaria” con il quale si identifica la Guardia di Finanza6 deve essere inteso in un’accezione funzionale ed organizzativa allo stesso tempo.

3 Peraltro, nell’esercizio di tali attività gli ufficiali sono coadiuvati dagli aiutanti ufficiali giudiziari (Assistenti Unep), addetti in via primaria alla consegna della copia dell’atto da notificare e della relazione di notificazione da stendere in calce all’originale e alla copia (art. 137 ss., c.p.c.). 4 Art. 357 (nozione del pubblico ufficiale): «Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giurisdizionale o amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione e dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi e certificativi». I pubblici ufficiali sono soggetti ad una disciplina peculiare sotto il profilo penale, derivante dal loro status. Essi possono, pertanto, rendersi colpevoli di delitti tipici contro la pubblica amministrazione come il peculato (art. 314 c.p.), la concussione (art. 317 c.p.), la corruzione propria (art. 319 c.p.) o impropria (art. 318 c.p.), l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), la rivelazione di segreti d’ufficio (art. 326 c.p.), oltre che essere tenuti a denunciare all’autorità giudiziaria un reato di cui hanno avuto notizia nell’esercizio, o a causa, delle loro funzioni (art. 361 c.p.). 5 Anche se, da questo punto di vista, la figura dell’ufficiale giudiziario è assai discussa, in quanto piuttosto ibrida: questi non ha un vero e proprio orario di lavoro, nel senso che da una parte non deve timbrare nessun cartellino al-

l’inizio o alla fine della giornata di lavoro, ma, d’altra parte potrebbe essere costretto a lavorare, durante un’esecuzione forzata, ininterrottamente dalle 7 del mattino alle 21 di sera, secondo l’art. 147 c.p.c. (Tempo delle notificazioni, e i limiti ivi stabiliti sono validi anche per le esecuzioni). Anche per quanto riguarda la retribuzione, vige per l’ufficiale giudiziario un particolare regime. Essa è variabile, partendo da una base minima contrattualmente stabilita, in relazione a diritti proporzionati alla quantità e qualità di atti compiuti, a indennità di trasferta e percentuali sui crediti recuperati all’erario. 6 La Guardia di Finanza possiede poteri speciali (esclusivi) di polizia tributaria. Data la sua doppia identità quale forza di polizia e corpo militare dello Stato, il corpo ha la particolarità di essere parte integrante delle forze armate dello Stato italiano, pur non essendo inquadrato nel Ministero della Difesa. La Guardia di Finanza ha il controllo delle frontiere terrestri ed assume ruolo prevalente nella difesa di quelle marittime. Il campo d’azione è detto a 360 gradi, spazia dalla tutela degli interessi finanziari nazionali ed europei, attraverso il contrasto all’evasione impositiva, alla repressione dei reati tributari e delle frodi comunitarie, fra cui il contrabbando, dalla lotta alla criminalità organizzata, all’attività di contrasto al riciclaggio dei capitali illecitamente conseguiti, dal reimpiego dei proventi dell’attività criminale, al contrasto del traffico di sostanze stupefacenti. Il motivo per il quale il corpo della Guardia di Finanza risulta particolarmente


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Nell’esercizio delle proprie funzioni, infatti, agli ufficiali e agli agenti di polizia tributaria, oltre ai poteri e ai doveri stabiliti dal codice di procedura penale per la polizia giudiziaria, sono riconosciute anche particolari facoltà disciplinate sia dalla L. 7 gennaio 1929, n. 47 che dalle leggi riguardanti i singoli tributi: in specie dagli artt. 31 e 33, D.P.R. 600/1973 ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi e dagli artt. 51 e 63, D.P.R. 633/1972 ai fini Iva8. È opportuno ricordare la presenza nel nostro ordinamento di norme che, legittimamente, disciplinano un ampliamento della sfera degli incaricati ad effettuare le notificazioni. Si pensi alla L. 21 gennaio 1994 n. 53 con la quale si è attribuita agli avvocati la facoltà di notificazione degli atti giudiziari: il legislatore in persona ha inteso estendere la funzione notificatoria a soggetti diversi da quelli fisiologicamente preposti, avendo cura di limitare tale ampliamento solo a soggetti pubblici (vedi a questo proposito il potere di notifica dell’Agenzia delle Entrate) oppure (come nel caso degli avvocati) disciplinando in maniera estremamente dettagliata i requisiti che devono necessariamente sussistere per conseguire l’autorizzazione. Espressione del medesimo potere, pur sempre legislativamente delimitato, è anche il D.Lgs. 19 giugno 1997 n. 218, il quale prevede che la consegna degli atti conseguenti alle verifiche fiscali eseguite dalla Guardia di Finanza (ad es. il verbale di verifica, il processo verbale di constatazione) possa equivalere alla notifica degli stessi, che, altrimenti dovrebbe essere effettuata dal competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate. 2. Non solo è assente qualsivoglia riferimento normativo in merito alla potestà notificatoria dei membri della Guardia di Finanza, ma anche per via interpretativa non si riesce a giustificare l’operato del militare del comando di Catania, di cui alla sentenza in commento. Come noto, infatti, gli artt. 137 e ss. c.p.c. illustrano le diverse modalità di notificazione degli atti giudiziari, ivi compresi quelli

eclettico ed operativo, quindi unico nelle realtà dei corpi speciali di polizia d’Europa e del mondo, lo si deve ricercare nei suoi compiti principali: l’economia e la finanza. Gli anni venti segnano un periodo di profonda riorganizzazione per la Guardia di Finanza che viene ordinata secondo il modello territoriale dei reali carabinieri, con l’innovazione determinata dall’istituzione nel 1923 della polizia tributaria investigativa, quale contingente specializzato e componente di punta del corpo, che segna il progressivo spostarsi del fulcro dell’attività di servizio dagli originari compiti di polizia daziaria e doganale alla sorveglianza della totalità degli aspetti tributari nazionali. Contemporaneamente si costituisce, nell’ambito del Ministero, l’«ufficio tecnico centrale per la polizia tributaria Investigativa», retto da un generale della Guardia di Finanza. La nozione giuridica di polizia tributaria è precisata dalla L. 7 gennaio 1929, n. 4. 7 L. 7 gennaio 1929, n. 4, recante Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie, in G.U. n. 11 del 14 gennaio 1929. 8 Inoltre, in qualità di polizia giudiziaria, può notificare gli atti a richiesta del P.M. nel processo penale nella fase delle indagini preliminari. In tal senso anche Comm. trib. prov. Latina, sent. 18 luglio 2001, n. 211 in banca dati CeRDEF. 9 Per la quale più compiutamente si rinvia a MANDRIOLI, Diritto processuale civile, XIX ed.,

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tributari, in virtù dell’espresso rinvio, contenuto nell’art. 60 D.P.R. 600/1973. Non è questa la sede per un’approfondita analisi della disciplina procedimentale di consegna degli atti9, ma, in quanto procedimento volto a formalizzare la pretesa tributaria vantata nei confronti del destinatario, per potersi considerare valida, la notificazione necessita del rispetto di precisi criteri soggettivi (quanto all’incaricato di recapitare l’atto e al destinatario dello stesso) e oggettivi (la relata di notifica, la sottoscrizione, la data)10. Tralasciando, almeno per ora, la questione se la notificazione così effettuata risulti affetta da inesistenza o da nullità, nonché se la suddetta inefficacia, comunque la si voglia inquadrare, possa o meno esplicare degli effetti sull’atto (in questo caso, sull’avviso di accertamento), è indubbio che, proprio in virtù della natura di atto formale della notificazione, il mancato rispetto di alcuno dei criteri sopra indicati generi invalidità. Questo passaggio, che potrebbe apparire perfino scontato, risulta, invece, basilare per comprendere il ragionamento sotteso alla sentenza in oggetto, la quale si inserisce in un filone giurisprudenziale affatto univoco, quanto alla qualificazione dell’invalidità della notificazione (come detto, inesistenza o nullità della stessa) ma, senza dubbio, consolidato (e peraltro, in linea con la normativa) quanto alla conclusione che tale invalidità sussista11. Tale indirizzo è stato, indirettamente, confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, con riferimento alla notificazione di un ricorso per cassazione, effettuata da messi notificatori autorizzati dall’ufficio limitatamente al procedimento innanzi alle Commissioni tributarie12: è stato precisato, infatti, che la previsione del comma 4, art. 16, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 54613 non possa essere estesa anche alle notifiche del ricorso per cassazione, in quanto i messi speciali degli uffici finanziari, ove autorizzati, risultano investiti del potere di effettuare validamente le notifiche solo nel giudizio innanzi alle Commissioni tributarie, di modo che, una volta conclusosi quest’ultimo, essi risultano privi

Torino, 2007, CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, V, Padova, 2006; BALENA, Elementi di diritto processuale civile, I, I principi, IV, Bari, 2007, LUISO, Diritto processuale civile. Principi generali, IV, Milano, 2007, VERDE, Profili del processo civile, IV, Napoli, 2008. Sulla notificazione degli atti tributari, cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, I, Torino, 2006, 213, RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 95 ss. Sul punto, Trib. Napoli, sent. 20 luglio 2009, Giudice di Pace di Bari, 10 luglio 2009, n. 5509 in banca dati Juris Data; Cass., 23 giugno 2009, n. 14618 in Giust. Civ. Mass., 2009, 6, Cass., 17 giugno 2009, n. 14101, in Guida al diritto, 2009, 3173, Cass. civ., sez. trib., 9 giugno 2009, n. 13215, in Giust. Civ. Mass., 2009, 6, Cass. civ., sez. trib., 25 maggio 2009, n. 12039, in Giust. Civ. Mass., 2009, 5, Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2009, n. 11331, in Guida al diritto, 2009, 31, 74. Su tutte, Cass., 26 settembre 2003, n. 14295, in banca dati Juris Data, Cass., 7 novembre 2005, n. 21516 in Giust. Civ. Mass., 2005, 11 e Cass., 11 novembre 2005, n. 22849 in Boll. Trib., 2006, 18, 1478. Art. 16, Comunicazione e notificazioni: «le comunicazioni sono fatte mediante avviso della segreteria della commissione tributaria consegnato alle parti, che ne rilasciano immediatamente ricevuta, o spedito a mezzo del servizio postale in plico senza busta

raccomandata con avviso di ricevimento. Le comunicazioni all’ufficio del ministero delle finanze ed all’ente locale possono essere fatte mediante trasmissione di elenco in duplice esemplare, uno dei quali, immediatamente datato e sottoscritto per ricevuta, é restituito alla segreteria della commissione tributaria. La segreteria può anche richiedere la notificazione dell’avviso da parte dell’ufficio giudiziario o del messo comunale nelle forme di cui al comma seguente. Le notificazioni sono fatte secondo le norme degli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile, salvo quanto disposto dall’art. 17. Le notificazioni possono essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento ovvero all’ufficio del Ministero delle Finanze ed all’ente locale mediante consegna dell’atto all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia. L’ufficio del ministero delle finanze e l’ente locale provvedono alle notificazioni anche a mezzo del messo comunale o di messo autorizzato dall’amministrazione finanziaria, con l’osservanza delle disposizioni di cui al comma 2. Qualunque comunicazione o notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data della spedizione; i termini che hanno inizio dalla notificazione o dalla comunicazione decorrono dalla data in cui l’atto é ricevuto».


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di qualunque potere notificatorio, ritornando applicabili le norme processuali comuni. Ne è conferma l’art. 62 D.Lgs. 546/199214, il quale, prevedendo che il ricorso per cassazione e il relativo procedimento siano regolati dalle disposizioni di diritto processuale comune, in quanto compatibili con quelle del decreto 546/1992, non ribadisce il criterio della specialità della norma processuale tributaria ex art. 1, comma 2, D.Lgs. 546/199215, ma attribuisce prevalenza alle disposizioni del codice di procedura civile16. Dunque, non possono, in linea di principio, ammettersi deroghe alla disciplina ordinaria prevista in materia di notificazioni, occorrendo attenersi, pertanto, a quanto previsto all’art. 16 D.Lgs. 546/1992, letto in combinato disposto con gli artt. 137 ss., c.p.c. Tant’è vero che, confermando la medesima linea di pensiero, la Suprema Corte ha ribadito che l’espressione “messo notificatore speciale” si deve riferire alla categoria dei messi notificatori dell’amministrazione finanziaria, ex artt. 60, D.P.R. 600/1973 e 16 D.Lgs. 546/1992, che effettuino notificazioni nel corso dei procedimenti dinanzi alle Commissioni tributarie: il conferimento di poteri notificatori a questi soggetti non li abilita a effettuare notificazioni nei procedimenti dinanzi agli organi giudiziari in senso proprio, dovendo i loro poteri rimanere circoscritti ai limiti normativamente determinati in via speciale e, come tali, insuscettibili di interpretazione estensiva17. A meno che non sia la stessa legge a prevederlo espressamente, appare ragionevolmente certo, quindi, come non sia possibile pervenire in via interpretativa a una estensione della sfera di azione di tali incaricati, né tantomeno ad un ampliamento della platea dei soggetti autorizzati. 3. Fermo quanto sopra, se è vero che la notificazione eseguita da un soggetto non autorizzato (in questo caso, un militare della Guardia di Finanza) risulta invalida, occorre chiedersi se tale vizio sia in grado di ripercuotersi sull’atto oggetto della notifica. È evidente che prima di poter dare una risposta a tale interrogativo, è necessario definire se tale invalidità concreti un’ipotesi di inesistenza giuridica della notificazione oppure di nullità. Inoltre, bisogna appurare se l’invalidità di cui trattasi, non concernendo un rapporto processuale ma un rapporto sostanziale di

14 Art. 62, Norme applicabili: «Avverso la sentenza della commissione tributaria regionale può essere proposto ricorso per cassazione per i motivi di cui ai numeri da 1 a 5 dell’art. 360, comma 1, del codice di procedura civile. Al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto». 15 Art. 1, Gli organi della giurisdizione tributaria: «la giurisdizione tributaria è esercitata dalle commissioni tributarie provinciali e dalle commissioni tributarie regionali di cui all’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1992, n. 545. I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile». 16 Sul punto, v. circolare Agenzia Entrate, 11 agosto 2001, n. 201 in banca dati CeRDEF. 17 Cass., sent. 22849/2005, già citata. Cass., sent. 20 novembre 2001, n. 14571, in Corr. Trib., 7, 2002, 603 ss., con nota di BRUZZONE. Essi, infatti, devono essere assimilati ai messi comunali e non, ad esempio, ai messi del giudice di pace, che invece, dipendono dall’amministrazione giudiziaria.

natura tributaria (in ordine al quale, poi, l’interessato ha il potere di azione innanzi alle Commissioni tributarie), risulti sanata o meno dall’impugnazione dell’atto impositivo da parte del contribuente, ex art. 156, c.p.c. (per raggiungimento dello scopo dell’atto, che, appunto, è recettizio). La giurisprudenza è tutt’altro che concorde: si registrano, infatti, da un lato, pronunce che hanno sancito la giuridica inesistenza della notificazione eseguita da soggetti privi della qualifica di messo speciale autorizzato18, dall’altro lato, invece, decisioni che, pur dichiarando nulla la medesima modalità di notificazione, ne hanno ammesso la sanatoria, mediante la costituzione in giudizio dell’intimato o la rinnovazione della notifica stessa19. Le motivazioni a sostegno della prima tesi (inesistenza) si basano, essenzialmente, sulla necessità della conformità della notificazione allo schema legale, quale unica condizione affinché essa (e, per suo tramite, gli atti dell’imposizione fiscale che questa ha ad oggetto) producano effetti giuridici: una notifica illegittima, quindi, vuoi perché portata a termine da soggetto non competente, vuoi perché effettuata nei riguardi di persona non autorizzata, vuoi perché manchi la sottoscrizione della relata o sussista altro vizio di forma della notifica stessa comporterebbe, in ogni caso, che il procedimento non sia mai venuto a giuridica esistenza, proprio perché non si sarebbe perfezionata la fattispecie prevista ex lege. Secondo tale ricostruzione, dunque, nell’ipotesi in cui sia inesistente l’atto prodromico all’imposizione fiscale, quello cioè che deve rendere formalmente edotto il contribuente della pretesa enunciata dal fisco, verrà meno anche l’atto impositivo e la pretesa in esso contenuta20. Né condurrebbe a diverse conclusioni il principio di sanatoria di un atto per raggiungimento dello scopo ex art. 156 c.p.c.21: infatti, la Corte di Cassazione ha ritenuto (sebbene con riferimento ad un diverso requisito formale, la mancanza di sottoscrizione della relata), che un elemento costitutivo essenziale di un atto giuridico, come l’atto di notifica, viziato in uno dei suoi requisiti formali «ne determina la giuridica inesistenza [...] del tutto insuscettibile di sanatoria in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo, la quale è prevista solo per la sanatoria della nullità»22. Il profilo, forse, più debole di tale impostazione è costituito dalla rigidità ed astrattezza dell’approccio nonché dal mancato apprezza-

18 In tale senso, Cass., sent. 22849/2005, già citata; T.A.R. Sicilia, 8 luglio 2008, n. 1249, in Foro Amm., T.A.R., 2008, 7-8, 2235; Cass., 2 ottobre 2008, n. 24442, in Corr. Trib., 11, 2009. 833 ss. con commento di VOZZA. 19 In tale senso, Cass., sent. 10 settembre 2004, n. 18291 in banca dati Juris Data; Cass., n. 21516/2005, già citata; Cass., 23 agosto 2004, n. 16591 in Giust. Civ. Mass., 2004, 7-8; Comm. trib. centr., 1 ottobre 1987, n. 6571 in banca dati Juris Data; Cass., 17 febbraio 2009, n. 6820 in Giust. Civ. Mass., 2009, 3 494. 20 ALLORIO, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 471 secondo cui «l’avviso di accertamento non è distinguibile dalla sua notificazione al contribuente; non esiste, se non in quanto notificato». Inoltre, TESAURO, op. cit., 214, secondo cui «poiché l’atto di imposizione viene ad esistenza attraverso la notificazione, i vizi di notificazione sono vizi (formali) dell’atto; essi non sono sanati dalla proposizione del ricorso. La giurisprudenza, però, considerando che la notificazione avviene con le norme del codice di procedura civile, applica anche alla notificazione dell’avviso di accertamento le norme sulla sanatoria della notifica invalida, previste dal

codice di procedura civile per la notificazione degli atti processuali e ritiene, perciò, che il ricorso contro l’avviso di accertamento ne sana i vizi di notificazione». ALLORIO, op. cit., 120, nota 130 per il quale «a una sanatoria della nullità di notificazione dell’atto di imposizione per effetto del reclamo del contribuente non si può arrivare nemmeno volendo applicare il regime di diritto comune proprio delle notificazioni. Perché la nullità della notificazione, come d’ogni altro atto, non può essere pronunciata sol quando essa abbia raggiunto lo scopo cui era destinata (art. 156, comma 3, richiamato dall’art. 160 c.p.c.). Ora lo scopo della notificazione non era certo quello di determinare la presentazione del reclamo». 21 Art. 156, rilevanza della nullità: «non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge. Può tuttavia essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. La nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato». 22 Cass., sent. n. 24442/2008, già citata.


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mento delle molteplici esigenze sottese al vigente ordinamento tributario: in una realtà complessa, nella quale gli interessi e le tutele del contribuente si intrecciano con quelli erariali, alla repressione degli illeciti fiscali e alla sollecita e pronta riscossione delle imposte evase e delle correlate sanzioni, limitarsi ad argomentare in base alla equazione secondo cui alla giuridica inesistenza della notificazione consegue necessariamente la giuridica inesistenza dell’atto impositivo che si intendeva notificare, rischia di pregiudicare seriamente l’operato della amministrazione finanziaria, dal momento che la previsione di un termine decadenziale per l’esercizio del potere di accertamento, non sempre le consente di ripetere la notificazione eseguita illegittimamente23. Proprio facendo leva su questo genere di considerazioni, in passato una parte della giurisprudenza aveva sostenuto che il difetto di un requisito di forma, non strettamente indispensabile al raggiungimento dello scopo (già raggiunto, peraltro, con l’impugnazione dell’atto), come potrebbe essere il difetto di autorizzazione del soggetto incaricato (difetto, peraltro, nemmeno sanzionato da alcuna norma), avrebbe configurato più che una ipotesi di inesistenza, quella di mera irregolarità24; le uniche cause di invalidità della notificazione risulterebbero, quindi, quelle indicate all’art. 160 c.p.c. (di nullità)25, oltre all’ipotesi di difformità del contenuto delle due relate (di inesistenza). Tuttavia, per contrastare questa interpretazione edulcorata delle norme regolanti la notificazione (che, a dire il vero, condurrebbe a considerare superflua gran parte dei vizi formali)26 si è fatto leva su numerose pronunce giurisprudenziali che, di volta in volta, hanno sanzionato come inesistenti le notificazioni da effettuarsi nella residenza, nella dimora o nel domicilio quando sia omessa anche una delle formalità stabilite dall’art. 140 c.p.c.27, ovvero la notificazione a mezzo del servizio postale quando manchi l’avviso di ricevimento ex art. 149 c.p.c.28, quando la copia dell’atto venga consegnata ad un vicino o al portiere dello stabile non ad-

23 Sul punto, Cass., 3 novembre 2003, n. 16407, in Giust. Civ. Mass., 2003, 11 secondo cui «l’irritualità della notifica può esser fatta valere dal contribuente unicamente al fine di eccepire la decadenza dell’amministrazione dalla possibilità di esercitare la pretesa tributaria [...], il vizio della notificazione non ridonda – di per sé – in vizio dell’avviso di accertamento». 24 Cass., 5 febbraio 2002, n. 1532, in banca dati Juris Data. 25 Art. 160, Nullità della notificazione: «la notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia, o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data, salva l’applicazione degli articoli 156 e 157». 26 Cfr. anche MARTINETTO, Della nullità degli atti, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da ALLORIO, Torino, 1973, 1630. 27 Art. 140, Irreperibilità o rifiuto di ricevere la copia: «se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate nell’articolo precedente, l’ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso del deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e gliene da’ notizia per raccomandata con avviso di ricevimento». Sul punto, Cass., 11 gennaio 1994, n. 239, in Giust. Civ. Mass., 1994, 23; Cass., 8 aprile 1992, n. 4308, in Giust. Civ. Mass., 1992, 4; Cass., 27 luglio 1981, n. 4840, in Giust. Civ. Mass., 1981, 7; Comm. trib. centr., 27 marzo

detto al servizio di ricevimento degli atti29, ovvero quando al domiciliatario venga consegnato un numero di copie inferiore a quello dei destinatari30: in tali casi, infatti, il procedimento notificatorio risulterebbe tamquam non esset, poiché l’atto, in quanto estraneo allo schema legale della notificazione non sarebbe mai entrato a far parte dell’ordinamento31. Diversamente interpretando, sulla base del combinato disposto degli artt. 156 e 160 c.p.c., l’opposto orientamento di pensiero, precisa che è del tutto priva di rilievo la correttezza formale del modo in cui il contribuente sia stato reso edotto della pretesa impositiva, a condizione che lo stesso ne sia comunque venuto a conoscenza. Sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato come la validità di un avviso di accertamento dipende dall’esistenza dei requisiti stabiliti dalle singole leggi d’imposta e non dalla ritualità della sua notificazione, che integra un atto distinto e successivo, esclusivamente finalizzato a portare a conoscenza del contribuente la pretesa dell’ente impositore32. Pertanto, la notificazione dell’avviso di accertamento tributario affetta da nullità rimane sanata, con effetto ex tunc dalla tempestiva proposizione del ricorso del contribuente avverso tale avviso, atteso che, da un lato, l’avviso di accertamento ha natura di provocatio ad opponendum33, la cui notificazione è preordinata all’impugnazione, e, dall’altro, l’art. 60 D.P.R. 600/1973 richiama espressamente le «norme stabilite dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile», così rendendo applicabile l’art. 160 del codice medesimo, il quale, attraverso il rinvio al precedente art. 156, prevede appunto che la nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto il suo scopo. Tanto che il contribuente non dovrebbe avere neppure l’interesse a dedurre il mero vizio di notificazione dell’atto, a meno che esso non sia collegato ad una specifica ed ulteriore deduzione, quale la tempestività dell’impugnazione o l’eventuale decadenza di controparte dal potere impositivo.

1995, n. 1271, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. centr., 27 ottobre 1994, n. 3503, in Corr. Trib., 13, 1995, 944 ss.; Comm. trib. centr., 18 gennaio 1991, n. 414, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. centr., 19 ottobre 1990, n. 6748, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 28 Art. 149, Notificazione a mezzo del servizio postale: «se non ne è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi anche a mezzo del servizio postale. In tale caso l’ufficiale giudiziario scrive la relazione di notificazione sull’originale e sulla copia dell’atto, facendovi menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento. Quest’ultimo è allegato all’originale». Sul punto, Cass., 28 marzo 2001, n. 4559, in Giust. Civ. Mass., 2001, 617; Cass., 3 agosto 1999, n. 8403, in Giust. Civ. Mass., 1999, 1772; Cass., 4 febbraio 1999, n. 965, in Giust. Civ. Mass., 1999, 257; Cass., 2 marzo 1995, n. 2419, in Giust. Civ. Mass.,1995, 504; Cass., 2 febbraio 1995, n. 1242, in Giust. Civ. Mass., 1995, 269; Cass., 9 novembre 1994, n. 9328, in Giust. Civ. Mass., 1994, 11. 29 Cass., 4 febbraio 2000, n. 1218, in Giust. Civ. Mass., 2001, I, 513, nota MURRA. 30 Cass., 28 settembre 1996, n. 8564, in Giust. Civ. Mass., 1996, 1364; Cass., 24 aprile 1996, n. 3847, in Giust. Civ. Mass., 1996, 628; 28 giugno 1995, n. 7275, in Giust. Civ. Mass., 1995, 6; Cass., 27 giugno 1992, n. 8050 in

Giust. Civ. Mass., 1992, 6. 31 Cass., 29 maggio 1997, n. 4746 in Giust. Civ. Mass., 1997, 863; Cass., 3 agosto 1988, n. 4806, in Giust. Civ. Mass., 1988, 8 ss.; Cass., 16 maggio 1986, n. 3260, in Giust. Civ. Mass., 1986, 5. 32 Cass., 6 marzo 2008, n. 12051, in banca dati Juris Data. Inoltre, «l’avviso di accertamento tributario costituisce atto amministrativo, esplicativo della potestà impositiva degli uffici finanziari, e non atto processuale, né funzionale al processo, poiché non ad esso, ma alla presentazione del ricorso alla commissione tributaria, si correla l’instaurazione del procedimento giurisdizionale. Pertanto, alla notificazione dell’avviso di accertamento non sono applicabili i principi processuali attinenti al rilievo d’ufficio delle nullità», Cass., sent. 23 aprile 2008, n. 10477, in Dir. e Giustizia, 2008. 33 Il carattere di provocatio ad opponendum dell’avviso notificato consente di ritenere soddisfatto l’obbligo di motivazione ogniqualvolta l’ente abbia posto il contribuente nella condizione di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e di contestarne la fondatezza, sotto il profilo dell’an e del quantum. Cass., sent. 13 aprile 2005, n. 7707, in Boll. Trib., 2006, 5 432; Cass. 20 novembre 2001, n. 14566, in Giust. Civ. Mass., 2001, 1958; Cass., 22 agosto 2002, n. 12394 in Riv. Dir. Trib., 2002, II, 740, con nota di FERLAZZO NATOLI-MONTESANO; Cass., 18 aprile 2003, n. 6232, in Giust. Civ. Mass., 2003, 4.


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Questo orientamento giurisprudenziale ha chiarito che alla notificazione dell’avviso di accertamento, in quanto preordinata all’impugnazione, è applicabile l’articolo 156 c.p.c., di talché la tempestiva proposizione del ricorso dimostra che è stato raggiunto lo scopo della notificazione: l’applicazione della sanatoria del raggiungimento dello scopo, nel caso di impugnazione dell’atto, la cui notificazione sia affetta da nullità, non significa altro che il contribuente ha dimostrato di avere avuto piena conoscenza del contenuto dell’atto medesimo. Pertanto, il contribuente è stato, comunque, messo in condizione di esercitare adeguatamente il proprio diritto di difesa (che, pertanto, non risulta leso), tanto che i vizi relativi alla notificazione non potranno essere dedotti a sostegno della domanda di annullamento o di declaratoria di infondatezza della pretesa recepita nel provvedimento impositivo. Naturalmente, ben diversa è la conclusione nell’ipotesi in cui la sanatoria, costituita, appunto, dalla proposizione del ricorso alla Commissione tributaria intervenga una volta che il termine per l’esercizio del potere di accertamento risulti già scaduto34, in quanto la proposizione del ricorso avverso l’avviso di accertamento sana con effetto ex tunc la nullità della notifica dell’avviso stesso, ma non determina il venir meno della decadenza, eventualmente verificatasi medio tempore, della amministrazione finanziaria dal potere di accertamento. Non nega tale orientamento, peraltro, che la sanatoria ex art. 156 c.p.c. sia preclusa dall’inesistenza della notifica, che si verifica solo quando difettino totalmente gli elementi caratterizzanti il modello legale della notificazione. Per completezza espositiva, va precisato come sulla possibilità di sanare la nullità per i vizi della notificazione ex art. 156 c.p.c. non vi sia ancora totale concordia: basti pensare che recentemente la giurisprudenza di merito ha affermato che la notificazione della

34 Cass., sent. 11 ottobre 2007, n. 21409, in banca dati Juris Data. 35 Comm. trib. prov. Genova, 9 maggio 2008 n. 125, in Riv. Giur. Trib., 1, 2009, 83 ss. con nota di BRUZZONE: «[...] la recente giurisprudenza di legittimità, richiamando l’interpretazione già sostenuta, ha riconosciuto che costituisce atto amministrativo, esplicativo della potestà impositiva degli uffici finanziari, e non atto processuale, né funzionale al processo, poi-

cartella di pagamento spedita a mezzo posta e priva della relata debba essere dichiarata inesistente, e come tale, insuscettibile di sanatoria (con ciò, di fatto, confermando quanto asserito da entrambe le tesi sopra riportate), ma del tutto inopinatamente, ha stabilito che tale sanatoria, in considerazione della natura recettizia dell’atto stesso, dovrebbe, addirittura, escludersi anche per i vizi meno gravi, implicanti soltanto la nullità della notifica35. Alla luce di quanto sopra, pare, dunque, corretto ritenere nulla la notifica effettuata da soggetto non autorizzato, con possibilità, tuttavia, di sanatoria dell’avviso di accertamento che ne ha formato oggetto. Non sembra perciò condivisibile la riconduzione del vizio in oggetto alla fattispecie di inesistenza, con conseguente illegittimità dell’atto: il mancato perfezionamento del procedimento di notifica, che è essenziale perché un atto recettizio, come l’avviso di accertamento, possa essere esplicare i suoi effetti, può determinarne solo l’inefficacia e non l’illegittimità, riguardando l’inesistenza della notifica un procedimento e un atto distinto da quello di accertamento. Così interpretando, oltretutto, verrebbe meno il presupposto per l’insorgenza del potere dell’amministrazione finanziaria di procedere nei confronti del contribuente, rischiando di frustrare le esigenze di tutela dell’interesse pubblico alla percezione dei tributi occorrenti per il finanziamento delle pubbliche spese. L’atto espressione della pretesa impositiva dell’amministrazione finanziaria non risulta impugnabile ex art. 19 D.Lgs. 546/1992 per “vizi propri” e, dunque, non può essere dichiarato nullo; il fatto che il procedimento di notifica sia stato eseguito dalla Guardia di Finanza non comporta la difformità radicale dal modello notificatorio, per il semplice fatto che l’atto ha prodotto i suoi effetti, raggiungendo il destinatario, che lo ha addirittura impugnato.

ché non ad esso, ma alla presentazione del ricorso alla Commissione tributaria, si correla l’instaurazione del procedimento giurisdizionale, concludendo che alla notificazione dell’avviso di accertamento non sono applicabili i principi processuali attinenti al rilievo d’ufficio delle “nullità”, e giungendo ad escludere la possibilità di contestare, per la prima volta in appello, il vizio di notifica dell’atto impositivo non dedotto nel ricorso introduttivo». Sul

punto, Cass., sent. 21 aprile 2001, n. 5924, in Guida Normativa, 10 maggio 2001, n. 82, 39 ss. Con commento di GLENDI, Inaccettabile l’equiparazione agli atti processuali, e in Corr. Trib., 23, 2001, 1736 ss., con nota di BRUZZONE, L’impugnazione non sana la nullità di notifica dell’avviso di accertamento, Cass., sent. 23 aprile 2008, n. 10477, in Giust. Civ. Mass., 2008, 4, 617.


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SANZIONI AMMINISTRATIVE LE OBIETTIVE CONDIZIONI D’INCERTEZZA IN MATERIA DOGANALE 94

Commissione tributaria provinciale La Spezia, sez. I, 26 febbraio 2009, n. 32 Presidente: Panetta – Relatore: Baldini

Diritto Sanzioni amministrative - Tariffa doganale - Incerta individuazione - Obiettiva incertezza della norma tri- Va osservato, sulle prime, che l’atto di contestazione oggi impubutaria - Configurabilità gnato non è altro che l’effetto diretto di quegli atti di accertamento in narrativo citati e confermati nella loro legittimità da (D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, comma 2) questa stessa Commissione tributaria. Pertanto, resta da porre in L’esimente delle obiettive condizioni d’incertezza sulla norma tributaria, pre- esame la validità delle sanzioni amministrative irrogate oppure di vista dall’art. 6, D.Lgs. 472/1997, è applicabile anche in materia doga- verificare se per esse sussistono esimenti. Non vi è dubbio che le nale, laddove si configurino profili d’incertezza in merito all’individuazione certificazioni del laboratorio chimico delle dogane di Milano, il quale ha determinato trattarsi di «altri tessuti contenenti almeno della tariffa. l’85% in peso di filamenti di poliesteri: altri tinti» – [...], nonché le rinnovate analisi richieste dalla società ricorrente, nel loro inFatto sieme sollevano significative incertezze. D’altra parte, nella stesLa società Z.D. & C. S.r.l., con sede in Forlì, ricorre contro l’atto sa relazione del laboratorio di Milano si evidenzia che «i fili e le di contestazione n. [...] emesso dall’ufficio delle dogane di La fibre discontinue che da essi derivano non trovano menzione nelSpezia in data 2 aprile 2008 che impone a carico di parte ricor- le note esplicative della nomenclatura doganale e nemmeno nelrente la sanzione amministrativa pecuniaria in complessivi euro le note esplicative della Comunità europea, pertanto le fibre di73.059,00 relativamente alla bolletta d’importazione [...], ride- scontinue di cui si discute non sono doganalmente classificabili terminata dall’ufficio per quanto attiene ai diritti doganali, stan- come fiocco e resta quindi confermata la voce doganale assegnate l’accertata diversità della merce rispetto a quella dichiarata. ta in prima istanza»; in altre parole, collegialmente i periti osserInvero, ad avviso dell’ufficio le partite di merce importate dalla vano che «doganalmente, la definizione di fiocco debba includesocietà ricorrente, dichiarate alla voce doganale [...], intendendo re anche la tipologia delle fibre bi componenti M/F matrice-ficon essa quei colli di «altri tessuti contenenti almeno l’85% in pe- brille ormai nota da lungo tempo e ad auspicare che questa proso di filamenti sintetici tinti» di origine cinese con aliquota da- blematica venga portata all’autorità comunitaria competente». E ziaria 6,4%, dovevano, invece, essere rettificate in «altri tessuti pur pervenendo alla forzata conclusione che la classificazione contenenti almeno l’85% in peso di filamenti di poliesteri: altre della merce de qua e quella indicata dall’Agenzia delle dogane, si tinte» – [...]; donde l’applicazione del cd. dazio antidumping. In- conviene che tali fibre corte siano identificabili come fibra bifatti, questa Commissione in data 25 settembre 2008, pronun- componente M/F – matrice/fibrille –, in quanto le tecnologie atciandosi sui ricorsi, riuniti per connessione oggettiva e soggetti- tuali non consentono né la pura estrusione di filamenti così sotva, proposti avverso avvisi di rettifica dell’accertamento, affer- tili, né il loro taglio per una successiva trasformazione in filato mava la legittimità e la correttezza dell’operato posto in essere con processo di filatura meccanica (processo assimilabile al fiocdall’Agenzia delle dogane. Malgrado ciò, parte ricorrente chiede co). Ne deriva – ad avviso di una voce giurisprudenziale che qui l’annullamento delle sanzioni irrogate in virtù delle rettifiche ap- si condivide (Cass., sez. III, n. 10898/1999) – da siffatte riflessioportate alle bollette d’importazione per illegittimità degli artt. ni una nebulosa situazione soprattutto perché dettata da indeci303, T.U.I.R. e 70, D.P.R. n. 633/1972, ricorrendo una delle ipo- sione interpretativa del fatto. In considerazione pertanto di quetesi di non punibilità citate e prescritte dall’art. 6, comma 2, sta circostanza di non completa certezza, questa Commissione D.Lgs. n. 472/1997 per obiettiva incertezza sulla portata e sul- ritiene che possa essere applicato l’art. 6 del D.Lgs. 472/1997 per l’ambito applicativo della norma ovvero per indeterminatezza l’incertezza di fatto: infatti, come emerge da una attenta lettura delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione dei certificati, può essere riscontrata una situazione di possibile e per il pagamento. L’ufficio, costituitosi, insiste per la legittimità incertezza per il contribuente. Va da sé l’accoglimento del ricordella pretesa tributaria sussistendo difformità della merce dichia- so proposto da società Z. S.r.l. La peculiarità della questione non fa altro che giustificare la compensazione delle spese di giudizio. rata rispetto a quella accertata.

materia doganale, offrendo l’occasione per soffermarsi sulle problematiche che circondano tale causa di non punibilità. Invero, pur costituendo un vero e proprio “classico” nel sistema sanzioPremessa La fattispecie analizzata dai giudici di La Spezia vede l’applica- natorio tributario1, l’istituto in rassegna rivela una sorprendente zione dell’esimente delle «obiettive condizioni d’incertezza» in vitalità, contraddistinguendosi per la discussa collocazione dogNota di Silvia Giorgi

1 Per un excursus storico sull’obiettiva incertezza della norma tributaria LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002,

113 ss. Si segnala che l’incertezza obiettiva, quale causa di disapplicazione delle sanzioni amministrative tributarie è attualmente con-

templata da numerose disposizioni: l’art. 8, comma 1, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; l’art. 6, comma 2, del D.Lgs. 18 dicem-


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matica e per i critici profili applicativi. Da qui l’interesse suscitato dalla pronuncia in epigrafe in cui viene attribuito rilievo decisivo alla nebulosa situazione, soprattutto perché dettata da indecisione interpretativa del fatto. È evidente che la non punibilità del contribuente non deriva da una radicale inintelligibilità della fattispecie astratta, bensì dalla sua applicazione al caso concreto. È infatti pacifico che qualsiasi testo normativo può rivelarsi obiettivamente incerto in relazione a determinate fattispecie concrete, così come in almeno un caso una disposizione non particolarmente riuscita in termini di chiarezza sarà applicabile senza suscitare alcun dubbio2. La vicenda processuale, da cui scaturisce la pronuncia del Collegio, trae origine dalla rideterminazione dei diritti doganali all’importazione ad opera dell’ufficio delle dogane, a seguito dell’accertata diversità della merce (tessuti) rispetto a quella dichiarata, con conseguente applicazione di una diversa aliquota daziaria. In particolare, emergeva una differente opinione quanto alla possibilità che le fibre tessili fossero da considerare non contemplate dalle attuali definizioni doganali; dalla sentenza si evince, tuttavia, che gli esperti, pur tra perplessità, si erano trovati concordi nell’affermare che la definizione doganale dovesse includere anche le fibre identificate nel campione. Il perno attorno al quale ruota l’intera vicenda è dunque l’incertezza sulla voce tariffaria da applicare al tessuto oggetto di contestazione, con la conseguente operatività, o meno, della norma che prevede il dazio antidumping. Indici sintomatici dello stato d’incertezza sono individuati dalla Commissione nelle «rinnovate analisi richieste dalla società ricorrente», oltre che nelle stesse certificazioni del laboratorio chimico delle dogane, laddove si ammette che «i fili e le fibre discontinue non trovano menzione nelle note esplicative della nomenclatura doganale e nemmeno nelle corrispondenti note della Comunità europea», fino ad auspicare che «questa problematica venga portata all’autorità comunitaria competente». Il quadro fattuale ha indotto il Collegio a ritenere che è «forzata la conclusione che la classificazione della merce de qua è quella indicata dall’Agenzia delle dogane». Di conseguenza, non si poteva che riconoscere l’operatività «dell’art. 6, D.Lgs. 472/1997 per l’incertezza di fatto»3. È, quindi, un tipico problema di sussunzione: è proprio il caso concreto (ovvero la tipologia del tessuto) che, ingenerando incertezza quanto alla determinazione della voce tariffaria, “fatica” ad essere ricompreso in una ben individuata norma tributaria. È appena il caso di osservare che la stessa formulazione letterale dell’art. 6, D.Lgs. 472/1997, attraverso l’inciso «sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione», avalla la lettura suesposta, in quanto postula un’incertezza della fattispecie astratta nel suo rapporto con la fattispecie concreta. Per altro verso, il caso sottoposto all’attenzione dei giudici liguri valorizza il rapporto sussistente, nell’accertamento dei diritti doganali, tra la natura/qualità della merce ed il regime tributario applicabile: la voce tariffaria è, infatti, determinante ai fini del-

bre 1997, n. 472 e l’art. 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212. A ciò si aggiunga l’analoga causa di non punibilità prevista nel sistema sanzionatorio penale all’art. 15 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74. 2 VIGNOLI, La obiettiva incertezza nel diritto tributario: confronto tra sanzioni penali ed amministrative, in Fiscalità di’impresa e reati tributari, a cura di Lupi, Milano, 2000, 52. 3 Si segnala che, mentre l’art. 10 dello Statuto si esprime in termini di non irrogazione delle sanzioni, l’art. 6 del D.Lgs. 472/1997 parla di non punibilità dell’autore della violazione.

l’individuazione del tipo di dazio, dell’aliquota vigente, oltre che per l’applicazione delle regole sull’origine da cui possono derivare ipotesi agevolative4. Considerando che la classificazione della merce si basa sulla Tariffa doganale comune della Comunità europea, si può meglio cogliere il rischio che si annida dietro alle ipotesi d’incertezza sulla voce daziaria applicabile in concreto, ovvero una difforme applicazione del diritto doganale, con la conseguente discriminazione per gli operatori economici colpiti da un trattamento daziario penalizzante. Di fronte a tale evenienza, l’unica via percorribile ex ante è quella suggerita dagli stessi periti del caso al vaglio della Comm. trib. prov. La Spezia, ovvero sollecitare l’intervento della competente autorità comunitaria. Ad ogni buon conto, nel perdurare dell’impasse, occorre apprestare uno strumento di tutela del contribuente, quantomeno sotto il profilo sanzionatorio. Proprio nell’ordinamento comunitario, il principio di certezza del diritto assurge, secondo costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, a principio generale e, come tale, deve essere rispettato dagli Stati membri5, ovvero dalle amministrazioni e dai giudici nazionali. Tuttavia, a quanto consta, nella giurisprudenza comunitaria non si riscontrano precedenti sul tema della non punibilità del contribuente per incertezza del trattamento fiscale applicabile. In questo contesto, la causa di non punibilità prevista dell’art. 6, del D.Lgs. 472/1997, rappresenta un corredo garantistico a disposizione di chi è costretto a fronteggiare complesse ed insidiose classificazioni merceologiche, non infrequenti in materia doganale. Inquadramento sistematico dell’esimente delle obiettive condizioni d’incertezza ex art. 6 D.Lgs. 472/1997 La causa di non punibilità delle «obiettive condizioni d’incertezza» è stata definita un «meccanismo di autotutela ordinamentale: laddove l’ordinamento (o meglio il legislatore) non è in grado di offrire adeguate certezze al destinatario della norma, vi è un interesse pubblico, e non meramente individuale, a giustificare l’operato di colui che, per circostanze oggettive imputabili all’ordinamento, non è stato posto in condizione di osservare il precetto»6. In altre parole, il legislatore ha precostituito una riserva d’impunità ad hoc per tutelare chi si scontra con la patologia del sistema tributario. Lo stato d’incertezza della norma tributaria, quindi, elide l’antigiuridicità della condotta e determina l’insussistenza dell’illecito7. Nulla ha a che vedere, pertanto, con la tematica dell’errore, che è invece causa soggettiva di esclusione dell’illecito8; il riferimento alla natura “obiettiva” delle condizioni d’incertezza, emargina ogni valutazione attinente alla colpevolezza o rimproverabilità ed autorizza a prescindere dal livello di cultura fiscale e dalle deficienze personali del contribuente. Ne deriva la possibilità di tracciare un netto confine tra la causa di non punibilità delle obiettive condizioni d’incertezza, di cui all’art. 6, comma 2 del D. Lgs. 472/1997, rispetto a quella del successivo comma 4, che delinea l’ipotesi d’ignoranza inevitabile e

La previsione statutaria sembrerebbe quindi postulare che, nonostante il perfezionamento dell’illecito, lo Stato abdica alla potestà punitiva. La dottrina ritiene, tuttavia che si tratti di una semplice sfumatura letterale, priva di riflessi sostanziali. DEL FEDERICO, Statuto del contribuente, illecito tributario e violazioni formali, in Rass. Trib., 2003, 856; CALIFANO, in Sussidiarietà ed efficacia del sistema sanzionatorio fiscale, a cura di Insolera e Acquaroli, Milano, 2005, 297. 4 FORTE-CERIONI-POLACCHINO, Il diritto tributario comunitario, Milano, 2004, 58.

5 Corte di Giustizia CE, 3 dicembre 1998, causa C-381/1997, punto 26; 26 aprile 2005, C376/2002, punto 32; nonché 29 aprile 2004, procedimenti riuniti C-487/2001 e 7/2002, punto 57. 6 DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 503. 7 DEL FEDERICO, op. ult. cit., 497. 8 DEL FEDERICO, op. ult. cit., 498; analogamente, commentando la disposizione di cui all’art. 10 dello Statuto dei diritti del Contribuente; MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, 143.


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quindi scusabile della legge tributaria. L’acclarato stato d’incertezza della norma tributaria consente, infatti, di bypassare qualsivoglia indagine sull’elemento soggettivo, sulla scusabilità o meno dell’interpretazione accolta, sulla buona fede del soggetto agente. Tuttavia, non si può dire che tale ricostruzione dogmatica dell’istituto sia pacifica in dottrina9. Non manca, infatti, chi lo considera un’esemplificazione, non tassativa, d’errore incolpevole sul precetto10. Così argomentando, per invocare l’esimente di cui all’art. 6, comma 2, si richiede la convergenza del fattore positivo dell’obiettiva incertezza, con quello negativo della mancanza di un comportamento colposo. In altre parole, non dovrebbe essere possibile eccepire al contribuente alcun addebito, nemmeno per trascuratezza, sprovvedutezza o semplice leggerezza, «perché, ove ciò non fosse, l’esimente in oggetto, pur in presenza dell’obiettiva incertezza, va negata categoricamente»11. La stessa Corte di legittimità si è cimentata in un’articolata ricostruzione di teoria generale12, ritenendo che «non convince la riconduzione dell’istituto nell’ambito di operatività del principio generale della scusabilità dell’ignoranza di diritto incolpevole e, quindi, la rilevanza attribuita alla buona fede del contribuente». In conclusione, «le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da incertezza normativa oggettiva tributaria, cioè dal risultato equivoco dell’interpretazione delle norme tributarie accertato dal giudice anche di legittimità”. Quanto al significato da attribuirsi alla locuzione in commento, la Corte ha chiarito che non si tratta di ignoranza, intesa come assenza totale di conoscenza, bensì di «una conoscenza insufficiente ed insicura, o equivoca»13; tuttavia, non si deve trattare di un’incertezza assoluta in quanto, ove così fosse «si negherebbe alla formazione nel suo complesso e alle singole sue norme la loro funzione direttiva,e quindi, la loro funzione ordinante»14. Tale lettura conferma la riferibilità dello stato d’incertezza non alla disposizione considerata in sé, in quanto l’assoluta inintelligibilità del dato normativo porrebbe a monte un problema di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 23, Cost., più che di mera disapplicazione della sanzione. La sentenza della Commissione tributaria La Spezia si orienta, quindi, nella direzione tracciata dalla Corte di legittimità, alludendo ad una «situazione nebulosa» – ma non totalmente oscura – idonea a determinare uno stato di «indecisione interpretativa» assimilabile alla «conoscenza insicura ed equivoca» citata dalla Cassazione; i giudici di merito, tuttavia, individuano come soggetto destinatario dell’oggettiva incertezza il contribuente, con ciò discostandosi dall’insegnamento secondo il quale tale condizione sarebbe «rilevante giuridicamente in quanto sia riferita soggettivamente ai soli giudici»15. Il principio di diritto da ultimo menzionato ha indotto autorevo-

9 Per un completo quadro delle variegate posizioni dottrinali, LOGOZZO, op. cit., 152. 10 LANZI-ALDROVANDI, L’illecito tributario, Padova, 2005, 38; BELLAGAMBA-CARITI, Le nuove sanzioni tributarie, Milano, 1998, 39. 11 CARBONE, Le cause di non punibilità nel nuovo sistema sanzionatorio tributario non penale, in Fisco, 1998, 7613. 12 Cass., sez. trib., 28 novembre 2007, n. 24670. La Corte ha convertito la formula legislativa delle obiettive condizioni d’incertezza in quella delle «obiettive condizioni d’incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria». Si vedano i commenti di BATISTONI FERRARA, in Corr. Trib., 2008, 209; COLLI VIGNARELLI, La Suprema Corte interviene in tema di “obiettive condizioni d’incertezza” della norma tribu-

le dottrina16 ad osservare che, in tal modo, si preclude all’amministrazione finanziaria di tener conto dell’esimente, ponendosi in frizione con l’inequivocabile tenore letterale sia dell’art. 6, comma 2, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, sia dall’art. 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, ove viene sancito che «le sanzioni non sono comunque irrogate [...]» con un’evidente riferimento ad un potere/dovere riferibile alla stessa amministrazione. Invero, l’affermazione della Suprema Corte muove dall’esigenza di “oggettivare” la situazione d’incertezza normativa «con esclusione di qualsiasi rilevanza sia delle condizioni soggettive individuali, sia delle condizioni soggettive categoriali” in modo tale che l’incertezza normativa “in quanto esiste in sé, opera nei confronti di tutti»17. Tale disquisizione cela così un profilo teorico di rilievo, anche se marginalmente affrontato dalla dottrina tributaria18: si tratta del criterio alla stregua del quale selezionare l’obiettiva incertezza giuridicamente rilevante, attraverso un’adeguata opera di ponderazione tra esigenze repressive e tutela del contribuente. È, infatti, ovvio che il filtro in questione, da un lato, deve permettere all’esimente di operare in concreto e, pertanto, non può essere troppo restrittivo; al contempo, però, non deve rivelarsi eccessivamente indulgente. Simili considerazioni inducono a scartare, preliminarmente, il criterio dell’interprete – soggetto agente19, in quanto un valutazione di incertezza ritagliata a misura si contribuente collide con il dato testuale che esige il requisito dell’obiettività. Nondimeno, pare insoddisfacente anche la soluzione prospettata dalla Corte di legittimità, in quanto l’organo giudicante, incarnando l’interprete per eccellenza, rappresenta un criterio troppo restrittivo. Rimane, come discrimen idoneo a circoscrivere il campo dell’incertezza obiettiva, quello dell’interprete modello del settore specialistico tributario20, mentre non potrà dispiegarsi alcuna efficacia scusante laddove l’incertezza derivi da un difetto di percezione o personali convincimenti dovuti a qualità soggettive dell’autore della violazione. Alla luce di ciò, si può meglio apprezzare l’iter argomentativo dei giudici spezzini i quali, pur riferendo al contribuente la situazione di obiettiva incertezza, attribuiscono rilievo decisivo alle perplessità manifestate dagli stessi periti nelle loro qualificazioni: interpreti particolarmente qualificati attribuiscono, così, allo stato d’incertezza il suggello dell’obiettività. Profili applicativi La lunga permanenza nel sistema sanzionatorio tributario ha consentito di elaborare una vera e propria sintomatologia delle obiettive condizioni d’incertezza, tanto che la stessa Corte di Cassazione, a titolo esemplificativo, ha stilato un elenco di fattori indizianti l’oscurità della norma tributaria21. L’efficacia scu-

taria, in Rass. Trib., 2008, 470. 13 Cass., sez. trib., 21 marzo 2008, n. 7765, con nota di BALDASSARRE, Le obiettive condizioni d’incertezza sull’interpretazione normativa tributaria e la disapplicazione delle sanzioni amministrative, in Dir. e Prat. Trib., 2009, 339. 14 Cass., n. 7768/2008, cit. 15 Cass., n. 24670/2007, cit. 16 BATISTONI FERRARA, op. cit., 209; COLLI VIGNARELLI, op. cit., 470. 17 Si veda, per un quadro sintetico ma esaustivo dell’elaborazione della Suprema Corte la stessa Cass., sez. trib., 11 settembre 2009, n. 19638. 18 Più sensibile al tema, invece, la dottrina penalistica in riferimento all’omologa causa di non punibilità di cui all’art. 15 del D.Lgs. 74/2000, FLORA, Errore, tentativo, concorso

di persone e di reati nella nuova disciplina dei reati tributari, in Riv. Dir. Proc. Pen., 2001, 701 ss. 19 FLORA, op. cit., 702. 20 FLORA, op. cit., 702; concordano, sempre nella dottrina penalistica, SOANA, I reati tributari, Milano, 2005, 341; VALLINI, Antiche e nuove tensioni tra colpevolezza e diritto penale artificiale, 2003, 402. 21 Cass., n. 24670/2007, cit., indica, senza pretese di esaustività, la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge; la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; la mancanza d’informazioni amministrative o la loro


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sante delle obiettive condizioni d’incertezza, in questa prospettiva, finisce per rappresentare il frutto della maturità applicativa acquisita nel corso dell’esperienza giuridica e riassunta nell’art. 6, D.Lgs. 476/1997. La Suprema Corte ha, altresì, precisato che l’efficacia dimostrativa dei suddetti fatti indice si completa attraverso il loro inserimento in procedimenti interpretativi metodicamente corretti, cui conseguono, tuttavia, risultati tra loro contrastanti ed incompatibili22: l’incertezza normativa diviene oggettiva proprio in quanto determina l’impossibilità di stipulare una convenzione interpretativa delle norme, nonostante gli “sforzi ermeneutici” dispiegati in tal senso. Anche la pronuncia in commento si preoccupa di motivare in ordine agli indici rivelatori di contrasti interpretativi: la mancata menzione delle fibre controverse nella nomenclatura doganale, nonché nelle note della Comunità europea, genera perplessità negli stessi esperti del laboratorio chimico delle dogane, e rende

contraddittorietà; la mancanza di una prassi amministrativa o l’adozione di prassi amministrative contrastanti; la mancanza di precedenti giurisprudenziali; la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, magari accompagnati dalla sollecitazione,da parte dei giudici comuni, di un intervento chiarificatore della Corte costituzionale; il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; il contrasto tra opinioni dottrinali; l’adozione di norme d’interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente. Per la prassi, si veda la circolare n. 180 E del 10 luglio 1998, ove si afferma che «si deve reputare che sussista incertezza obiettiva di fronte a previsioni normative equivoche, tali da ammettere interpretazioni diverse e da non consentire, in un determinato momento, l’individuazione certa di un significato determinato. Una tale situazione, non infrequente rispetto alle norme tributarie assai spesso complesse e non univoche, si può verificare,

necessario reiterare le analisi. La conclusione dei periti, ben lontana dal responso inoppugnabile, palesa quindi l’esigenza di un’espressa presa di posizione della competente autorità comunitaria, ammettendo, implicitamente, che solo un intervento autoritativo possa dirimere il contrasto23. L’intero quadro è, pertanto, idoneo a dimostrare la sussistenza di una “nebulosa situazione”, ovverosia dell’impossibilità, abbandonato lo stato d’ignoranza, di pervenire comunque allo stato di conoscenza sicura della norma giuridica tributaria. Se, dunque, l’ordinamento non ha posto le premesse per garantire l’osservanza del precetto, si giustifica la condotta del contribuente che ha optato per la voce tariffaria più conveniente. Conclusivamente, la sentenza annotata pare condivisibile, avendo scandito in modo lineare le fasi di accertamento dell’incertezza, dal manifestarsi dei sintomi, alla constatazione della persistente opinabilità della soluzione raggiunta, fino all’“oggettivizzazione” dell’impasse ad opera di interpreti qualificati.

ad esempio in presenza di leggi di recente emanazione rispetto alle quali non si sia formato un orientamento interpretativo definito, ovvero coesistano orientamenti contraddittori». La dottrina ha, invece, individuato il possibile oggetto dell’incertezza, FICARI, La disapplicazione delle sanzioni amministrative nei procedimenti tributari, in Rass. Trib., 2002, 473. In particolare, sotto il profilo statico, l’incertezza potrebbe attenere alla soggettività attiva; alla soggettività passiva; alla misura dell’aliquota applicabile; all’efficacia territoriale della norma; all’efficacia temporale della norma; alla qualificazione fiscale di un fatto, atto od attività rispetto ad uno o più presupposti d’imposta fra loro alternativi. Sotto il profilo, invece, della dinamica, l’incertezza riguarderebbe, in senso sostanziale, l’individuazione del regime fiscale del fatto, atto o attività anche nei casi in cui esista un collegamento negoziale fra più fatti, atti o attività tale da richiedere una valuta-

zione complessiva; in senso procedimentale (attuativo/liquidativo) la disciplina degli adempimenti formali e di pagamento ovvero della liquidazione e riscossione in genere. 22 A tal fine, l’ammissibilità del ricorso per cassazione, è subordinata all’indicazione, da parte del ricorrente, dei procedimenti d’interpretazione normativa adottati e delle norme contrastanti che ne hanno costituito il risultato, Cass., n. 7765/2008, cit. Tuttavia, ove il giudice di merito abbia omesso qualsiasi motivazione (il che implica l’omessa indicazione di qualsiasi fatto indice) per giustificare la sua decisione di accertamento dello stato d’incertezza, è sufficiente indicare la norma di diritto lesa, Cass., n. 19638/2009, cit. 23 Si segnala una recente pronuncia con cui la Suprema Corte ha statuito che la necessità deferire una questione interpretativa alla Corte di Giustizia dimostra la sussistenza di un’obiettiva incertezza del regime tributario applicabile, Cass., sez. trib., 13 marzo 2009, n. 6105.


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ATTI E INTERVENTI GLI STRUMENTI PRESUNTIVI DI ACCERTAMENTO DEL REDDITO INTRODOTTI DAL 1989: NATURA E CONSEGUENZE SUL PIANO PROBATORIO* di Pasquale Fimiani 1. Premessa - 2. I coefficienti presuntivi - 3. La cd. mi- menti ulteriori – tra cui ad esempio l’abnormità e l’irragionevoleznimum tax - 4. I parametri - 5. Gli studi di settore - 6. za della difformità tra la percentuale di ricarico applicata dal conConclusioni tribuente e la media di settore – incidenti sull’attendibilità complessiva della dichiarazione, ovverosia dalla concreta ricorrenza di [Omissis] circostanze gravi, precise e concordanti, e senza peraltro che il richiamo a tale regola di esperienza comporti un’inversione dell’one5. Gli studi di settore re della prova, addossando al contribuente l’onere di dimostrare le [Omissis] ragioni specifiche della divergenza dei propri dati da quelli medi1. 5.c La giurisprudenza della sezione V sugli studi di settore In generale, quindi, si afferma che gli «studi di settore introdotti Anche riguardo agli studi di settore viene costantemente escluso dagli artt. 62-bis e 62-sexies del D.L. n. 331 del 1993, direttamenche l’accertamento possa automaticamente fondarsi sullo scosta- te derivanti dai “redditometri” o “coefficienti di reddito e di ricamento tra quanto dichiarato ed i dati forniti dagli studi stessi. vi” previsti dal D.L. 2 marzo 1989, n. 69, convertito in legge 27 Il principio è stato ripetutamente affermato in tema di «scostamen- aprile 1989, n. 154, idonei a fondare semplici presunzioni, sono to rispetto alla percentuale di ricarico» mediamente riscontrata nel da ritenere supporti razionali offerti dall’amministrazione al giusettore di appartenenza. È ormai da tempo acquisito che i valori dice, paragonabili ai bollettini di quotazioni di mercato o ai notipercentuali medi del settore non costituiscono un fatto noto, stori- ziari Istat, nei quali è possibile reperire dati medi presuntivamencamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, quel- te esatti: i dati in tal modo presunti possono, pertanto, essere utilo ignoto da provare, e che, peraltro, da solo, è insufficiente a dare lizzati dall’ufficio anche in contrasto con le risultanze di scritture fondamento alla prova presuntiva, ma il risultato di una estrapola- contabili regolarmente tenute, finché non ne sia dimostrata zione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che fissa una re- l’infondatezza mediante idonea prova contraria, il cui onere è a gola di esperienza, in base alla quale poter ritenere statisticamente carico del contribuente»2. Né, data la loro «natura di atti ammimeno frequenti i casi che si allontanano dai valori medi rispetto a nistrativi generali di organizzazione», «li si possono considerare quelli che ad essi si avvicinano. Pertanto, tali valori in nessun caso sufficienti perché l’ufficio tributario operi l’accertamento di un possono giustificare presunzioni qualificabili come gravi e precise, rapporto giuridico tributario di specie ultima, senza che l’attività indicando, diversamente dai risultati valutativi emergenti da medie istruttoria amministrativa sia completata nel rispetto del principio elaborate con riferimento all’andamento economico della specifica generale del giusto procedimento, cioè consentendo al contriimpresa interessata, solo in via ipotetica la redditività dell’attività buente, ai sensi della legge 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma dell’impresa medesima, cosicché si rivelano assolutamente inidonei 7, di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, priad integrare i presupposti di cui all’art. 39, comma 1, lett. d, del ma di essere costretto ad adire il giudice tributario, di vincere la D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, laddove non confortati da ele- mera praesumptio hominis costituita dagli studi di settore3».

* Le sezioni unite della Corte di Cassazione, con le recenti sentenze 1 dicembre 2009 - 18 dicembre 2009, n. 26635, n. 26636, n. 26637 e n. 26638 (Presidente Carbone, Relatore Botta) hanno affrontato il tema dei cd. accertamenti standardizzati, affermando il seguente principio di diritto: «la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano state disattese. Il contribuente ha, nel giudizio

relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, e il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente». Stante la grande attualità del tema la rivista pubblica una sintesi della relazione elaborata dal dott. Pasquale Fimiani, dell’ufficio del massimario presso la Corte di Cassazione (rel. n. 94, 9 luglio 2009). Si ringraziano l’autore e l’ufficio del massimario per l’autorizzazione alla pubblicazione. La relazione si compone di una lunga parte ricognitiva dell’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria relativa ai vari strumenti e di una parte conclusiva in cui essi vengono ricondotti all’interno di un sistema unitario e dinamico del quale si evidenziano i principi fondamentali. La rivista pubblica il par. 5.c. (La giurisprudenza della sezione V sugli studi di settore) e il par. 6 (Conclusioni). Il testo della relazione è integralmente consultabile sul sito www.cortedicassazione.it. 1 Ex multis, sez. V, sent. n. 2891 del 27 feb-

braio 2002, Pres. Cantillo, Est. Falcone; n. 13995 del 27 settembre 2002, Pres. Papa, Est. Tirelli (Rv. 557649); n. 5870 del 14 aprile 2003, Pres. Cristarella Orestano, Est. Ebner (Rv. 562127); n. 9946 del 23 giugno 2003, Pres. Raggio, Est. Marigliano (Rv. 564466); n. 18038 del 9 settembre 2005, Pres. Favara, Est.: Ferrara (Rv. 584596); n. 26388 del 5 dicembre 2005, Pres. Saccucci, Est. D’Alonzo (Rv. 587338); n. 641 del 13 gennaio 2006, Pres. Prestipino, Est. Genovese (Rv. 588674); n. 7914 del 30 marzo 2007, Pres. Saccucci, Est. Tirelli (Rv. 596861); n. 18857 del 7 settembre 2007, Pres. Saccucci, Est. Chiarini; n. 19556 del 21 settembre 2007, Pres. Paolini, Est. Chiarini; n. 22938 del 30 ottobre 2007, Pres. Paolini, Est. Genovese; n. 2380 del 3 febbraio 2006, Pres. Favara, Est. Ferrara; n. 15416 dell’11 giugno 2008, Pres. Saccucci, Est. Sotgiu; n. 16862 del 20 giugno 2008, Pres. Saccucci, Est. Sotgiu. 2 Sez. V, sent. n. 5977 del 14 marzo 2007, Pres. Riggio, Est. Magno (Rv. 597040). 3 Sez. V, sent. n. 17229 del 28 luglio 2006, Pres. Riggio, Est. Meloncelli, che aggiunge: «risulta, infatti, sia dalla descrizione sommaria dei fatti di causa effettuata dalla ricorrente nel suo


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L’affermazione secondo cui gli studi di settore costituiscono una mera fonte di presunzioni assimilabili alle comuni presunzioni hominis, vale a dire di supporti razionali offerti dall’amministrazione al giudice, è prevalente4, anche se non mancano pronunce che fanno riferimento al concetto di «presunzione legale». E così, in tema di rettifica delle dichiarazioni Iva, si è affermato che la previsione dell’art. 62-sexies, comma 3, del D.L. n. 331 del 1993 – secondo cui l’ufficio, allorché avvisi gravi incongruenze fra i valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta od agli studi di settore, può fondare l’accertamento di maggiore volume di affari, anche su tali gravi incongruenze – «e, quindi, anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 55 del D.P.R., n. 633, costituisce, in pratica, un ulteriore elemento presuntivo, di carattere legale, certamente ammissibile anche in presenza di contabilità formalmente regolare (come, in genere, si verifica in presenza di gravi, precise e concordanti presunzioni: Cass. civ., n. 10649/2001, n. 8494/1998, n. 4555/1998)». Identiche affermazioni sono state fatte, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, con riferimento al rapporto tra l’art. 62-sexies, comma 3, cit. e l’art. 39, comma 1, lettera d, del D.P.R. n. 600 del 19735. Nessun dubbio, invece, sussiste circa l’obbligatorietà del contraddittorio in materia di studi di settore, anche prima che la legge 30 dicembre 2004, n. 311 lo prevedesse espressamente, la cui omissione comporta la nullità dell’accertamento6. Sotto il profilo dell’inquadramento sistematico, alcune decisioni collocano gli accertamenti basati sugli studi di settore nell’ambi-

ricorso per cassazione sia dalla sentenza impugnata che, nella fase procedimentale amministrativa che va dalla dichiarazione tributaria all’avviso di accertamento, tra ufficio tributario e contribuente non s’è svolto alcun “contraddittorio”, cosicché è vano invocare uno studio di settore, che ha struttura oggettiva e soggettiva categoriale e, quindi, di genere, come strumento idoneo a regolare, di per sé, un caso di specie ultima». 4 Oltre alla sentenza indicata nella nota che precede, v. sez. V, sent. n. 9135 del 3 maggio 2005, Pres. Saccucci, Est. Cicala (Rv. 583459, n. 9216 del 18 aprile 2007, Pres. Raggio, Est. Zanichelli (Rv. 598088), n. 16702 del 27 luglio 2007, Pres. Raggio, Est. Sotgiu (Rv. 599482) e n. 20256 del 23 luglio 2008, Pres. Paolini, Est. Di Iasi, le quali, definiti gli studi di settore come, hanno loro equiparato il regolamento previsto dall’art. 59, comma 1, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, adottato a norma del precedente art. 52, con il quale i comuni hanno la facoltà, tra l’altro, di «determinare periodicamente e per zone omogenee i valori venali in comune commercio delle aree fabbricabili, al fine della limitazione del potere di accertamento del comune» (lett. g). Per l’esplicita assimilabilità degli studi di settore alle comuni presunzioni hominis, v. anche, in motivazione, sez. V, sent. n. 13995 del 27 settembre 2002, Pres. Papa, Est. Tirelli; n. 9946 del 23 giugno 2003, Pres. Raggio, Est. Marigliano; n. 17230 del 28 luglio 2006, Pres. Riggio, Meloncelli. L’affermazione è comunque implicitamente sottesa alle decisioni che escludono ogni automatismo circa la possibilità di fondare l’accertamento sullo scostamento tra quanto dichiarato ed i dati forniti dagli studi di settore (retro). 5 Si veda sez. V, sent. n. 8643 del 6 aprile 2007, Pres. Magno, Est. Magno, in motivazione: (l’art.

to delle presunzioni gravi, precise e concordanti di cui all’art. 39, comma 1, lettera d, del D.P.R. n. 600 del 1973. Emblematica appare sez. V, sent. n. 2891 del 27 febbraio 2002, Pres. Cantillo, Est. Falcone. [Omissis]7. Non mancano, però, decisioni in cui si fa riferimento agli studi di settore come collocati al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 39, comma 1, lettera d, del D.P.R. n. 600 del 19738, peraltro senza indicazioni sulla diversa collocazione (in generale per le posizioni della dottrina sull’inquadramento sistematico degli accertamenti basati sugli studi di settore, si rinvia al paragrafo 5.d.1.). Inoltre, nelle decisioni secondo le quali l’accertamento non può automaticamente fondarsi sullo scostamento tra quanto dichiarato ed i dati forniti dagli studi di settore, è ricorrente l’affermazione che essi «si rivelano assolutamente inidonei ad integrare i presupposti di cui all’art. 39, comma 1, lett. d, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, laddove non confortati da elementi ulteriori», così spostandosi al momento applicativo, cioè alla fase di “personalizzazione” sul contribuente dei dati rivenienti dagli studi, l’inquadramento nell’ipotesi delineata dalla norma generale di riferimento. Nel rapporto tra l’art. 62-sexies, comma 3, cit. e l’art. 39, comma 1, lettera d, del D.P.R. n. 600 del 1973 sembra avere rilevanza il principio, recentemente affermato dalle ordinanze n. 12956 del 4 giugno 2009 e n. 13915 del 15 giugno 2009, entrambe Pres. Lupi, Est. D’Alessandro, della «prevalenza degli studi di settore sulle presunzioni» di cui all’art. 39, comma 1, lett. d, cit., «alle quali non si può ricorrere quando il reddito del contribuente sia coerente con gli studi»9.

62-sexies, comma 3, del D.L. n. 331 del 1993) dispone fra l’altro che gli accertamenti condotti ai sensi del menzionato articolo 39 (comma 1, lett. d, «possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore», cui si riferisce il precedente articolo 62-bis. In virtù di tale norma, l’ufficio - allorché ravvisi «gravi incongruenze» fra i valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta o agli «studi di settore» - può quindi fondare, senza obbligo d’ispezione dei luoghi, se non ritenuto assolutamente necessario, l’accertamento di maggiori ricavi, rispetto a quelli dichiarati, anche su tali «gravi incongruenze» e quindi anche al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 39 citato: il che costituisce, in pratica, un «ulteriore elemento presuntivo, di carattere legale», certamente ammissibile anche in presenza di contabilità formalmente regolare (come, in genere, si verifica in presenza di gravi, precise e concordanti presunzioni: Cass., n. 10649/2001, n. 8494/1998, n. 4555/1998). Identiche affermazioni si rinvengono in sez. V, sent. n. 24436 del 2 ottobre 2008, Est. Marigliano e sez. V, sent. n. 2876 del 6 febbraio 2009, Pres. Papa, Est. Marigliano. 6 Oltre sez. V, sent. n. 17229 del 28 luglio 2006, cit., v., ex multis, sez. V, sent. n. 13995 del 27 settembre 2002, Pres. Papa, Est. Tirelli; n. 9946 del 23 giugno 2003, Pres. Raggio, Est. Marigliano; n. 9135 del 3 maggio 2005, Pres. Saccucci, Est. Cicala (in motivazione). 7 Nella stessa prospettiva si veda anche sez. V, sent. n. 26919 del 15 dicembre 2006, Pres. Saccucci, Est. Sotgiu (Rv. 595108): «l’art. 39, comma 1, lettera d, del D.P.R. 29 settembre

1973 n. 600 non impedisce, pure in presenza di contabilità formalmente regolare, l’accertamento in rettifica, che presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e tuttavia contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che possono essere costituite da studi di settore, collegabili, ai sensi dell’art. 62-sexies del D.L. 30 agosto 1993 n. 331 (conv., con modif., dalla legge n. 427 del 1993), a gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati, le dimensioni e il giro d’affari dell’azienda, di modo che, in base ad un processo logico analitico induttivo, possa fondatamente dubitarsi della completezza e fedeltà della contabilità esaminata». 8 Sez. V, sent. n. 8643 del 6 aprile 2007, Pres. Magno, Est. Magno (Rv. 598094) : «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’art. 62-sexies del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427) consente, pure in presenza di contabilità formalmente regolare e senza obbligo di ispezione dei luoghi, se non assolutamente necessaria, la rettifica induttiva del reddito d’impresa qualora emergano gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta o agli studi di settore, e quindi anche al di fuori delle ipotesi previste dell’art. 39, comma 1, lettera d, del D.P.R. n. 600 del 1973». Identiche affermazioni si rinvengono nella sentenza n. 4127 del 20 febbraio 2009, Pres. Miani Canevari, Est. Greco. 9 Entrambi i provvedimenti sono così motivati: «in punto di fatto, risulta dalla sentenza che i ricavi di impresa dichiarati dal contribuente sono coerenti con i cosiddetti studi di settore introdotti dalla legge n. 146 del 1998 e [...] in punto di diritto, questa Corte ha affermato che gli studi di settore vanno preferiti


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Va precisato che le due decisioni si riferiscono a fattispecie anteriori alla modifica del comma 4-bis dell’art. 10 della L. n. 146 cit., da parte del comma 17 dell’art. 1, L. 27 dicembre 2006, n. 296, che ha introdotto una sbarramento per gli accertamenti nei confronti dei contribuenti che dichiarino, anche per effetto dell’adeguamento, ricavi o compensi «pari o superiori al livello della congruità» (retro, paragrafo 5.a.2)10. Sempre riguardo al rapporto tra l’art. 62-sexies, comma 3, cit. e l’art. 39, comma 1, lettera d, del D.P.R. n. 600 del 1973 si è affermato che: - il singolo ufficio accertatore, nel compiere un accertamento, anche induttivo, «non è tenuto a sua volta a prendere in considerazioni tutti i dati che sarebbero richiesti per uno studio generale di settore», potendo basarsi invece, volta per volta, solo su alcuni elementi sintomatici. L’accertamento, del resto, può basarsi, alternativamente, o sui criteri indicati dagli studi di settore, oppure – come nella specie – sull’esistenza di gravi incongruenze tra i costi ed i ricavi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche dell’attività svolta11; - sussistendo nella contabilità gravi irregolarità per la presenza di false fatture, l’accertamento ex art. 39, lett. d, del D.P.R. n. 600 del 1973 è perfettamente legittimo, mentre è congruamente motivata la determinazione della percentuale di redditività applicata, conformemente a quella desunta dall’anno successivo, costituendo il riferimento agli studi di settore soltanto un «possibile, ma non cogente», parametro di calcolo di tale redditività, fondato sulla estrapolazione statistica di dati, su cui prevale, quale elemento idoneo a fondare la presunzione di reddito, il diverso risultato che può emergere dall’andamento economico della specifica impresa interessata12. Riguardo, infine, all’applicazione degli studi di settore nel tempo, ricorrente è l’affermazione che l’art. 62-sexies del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427, avendo palesemente «natura procedimentale», è certamente applicabile «anche ai periodi d’imposta anteriori alla sua entrata in vigore», analogamente ai coefficienti presuntivi di reddito, introdotti dall’art. 1 della legge 30 dicembre 1991, n. 41313.

ai parametri di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, attesa la natura più raffinata del nuovo mezzo di accertamento, desumibile dalla normativa stessa che lo ha introdotto (Cass., n. 9613/2008)». 10 La questione dell’accertamento nei confronti dei contribuenti congrui non è stata ancora analizzata a pieno dalla giurisprudenza e dalla dottrina. BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 224, afferma al riguardo: «problema diverso, ancora poco analizzato, è quello che si propone quando la dichiarazione del contribuente è già adeguata – congrua – rispetto al livello di ricavi degli studi, ed è l’ufficio ad accertare un ammontare ancora maggiore. Ovvio che l’ufficio debba provare tale maggior ammontare; ed è una prova particolarmente rigorosa, quando l’ufficio utilizza a sua volta metodi presuntivi empirici, che la normativa non preclude, ma che vanno valutati con rigore dato che una rettifica presuntiva che smentisce gli studi denota un singolare contrasto con lo strumento». 11 Sez. V, sent. n. 17038 del 2 dicembre 2002, Pres. Cristarella Orestano, Est. Monaci, in motivazione (Rv. 558884) e, da ultimo, n. 1136 del 19 gennaio 2009, Pres. Papa, Est. Giacalone, n. 2876 del 6 febbraio 2009, Pres. Papa, Est. Marigliano e n. 3585 del 13 febbraio 2009, Pres. Cicala, Est. Giacalone.

[Omissis] Il principio di retroattività degli studi di settore, ha poi quale corollario quello della «prevalenza degli studi di settore sui parametri» (retro, paragrafo 4.f). [Omissis] 6. Conclusioni In sede di premessa si è ipotizzata l’utilità della verifica se i vari istituti esaminati appartengano al medesimo genus degli «accertamenti standardizzati», inteso come categoria unitaria evolutasi nel tempo, in relazione alla capacità dell’amministrazione di elaborare studi statistici sempre più affidabili e puntuali. In tale ambito, la diversità di disciplina tra i vari strumenti non inciderebbe sui principi alla base del loro funzionamento, ma sulla loro diversa ampiezza ed operatività, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo; identici sarebbero, invece, l’inquadramento sistematico, l’inferenza dei parametri statistici (coefficienti, parametri in senso proprio o studi di settore) rispetto all’accertamento, l’atteggiarsi degli oneri delle parti in sede di contraddittorio e motivazione, la portata dei poteri del giudice tributario. Due sono i versanti che sembrano dettare aperture verso tale prospettiva. Da un lato, diverse decisioni in tema di contraddittorio tra amministrazione e contribuente assumono una portata di carattere trasversale, essendo espressione dei principi generali del «giusto procedimento» (art. 97 Cost.) e di «cooperazione tra amministrazione finanziaria e contribuente» (art. 12, comma 7, Statuto), in funzione dell’attuazione del principio della capacità contributiva (art. 53 Cost)14. Trattasi, in particolare, delle affermazioni secondo le quali: - l’accertamento è nullo se non sia preceduto dalla previa attivazione del contraddittorio con invito al contribuente a fornire chiarimenti sulle ragioni che hanno giustificato lo scostamento rispetto agli standard di riferimento15; - l’amministrazione finanziaria, peraltro, non ha l’obbligo di specificare nella richiesta di chiarimenti le discordanze tra i corri-

12 Sez. V, sent. n. 19209 del 6 settembre 2006, Pres. Favara, Est. Sotgiu. 13 Sez. V, sent. n. 1797 del 28 gennaio 2005, Pres. Cristarella Orestano, Est. Ferrara (Rv. 581155). Conformi, ex multis, n. 793 del 20 gennaio 2004, Pres. Saccucci, Est. Bielli; n. 21165 del 31 ottobre 2005, Pres. Paolini, Est. Monaci (Rv. 586173); n. 25684 del 4 dicembre 2006, Pres. Prestipino, Est. Scuffi (Rv. 595685); n. 1136 del 19 gennaio 2009, Pres. Papa, Est. Giacalone. 14 Per la valenza trasversale delle affermazioni in tema di contraddittorio negli accertamenti standardizzati, v. CORRADO, Accertamenti standardizzati e motivazione dell’avviso di accertamento: l’atto è illegittimo in difetto di un’adeguata replica alle deduzioni fornite dal contribuente in sede di contraddittorio endoprocedimentale, nota a Cass., 22 febbraio 2008 n. 4624, in Dir. e Prat. Trib., 2008, VI, II, 1078. 15 Principio affermato in tema di coefficienti presuntivi, in cui la richiesta di chiarimenti era espressamente prevista dall’art. 12, comma 1, del D.L. n. 69 del 1989, da sez. V, sent. n. 4387 del 27 marzo 2002, Pres. Papa, Est. Falcone (Rv. 553321); conformi: n. 11356 del 22 luglio 2003, Pres. Saccucci, Est. Amari (Rv. 565324); n. 26404 del 5 dicembre 2005, Pres. Papa, Est. D’Alonzo; n. 12612 del 26 maggio 2006, Pres. Favara, Est. Bursese (Rv. 590142); n.

4624 del 22 febbraio 2008, Pres. Saccucci, Est. Cicala (Rv. 602048). Peraltro la necessità del previo contraddittorio anche nell’accertamento tramite i parametri, nonostante la mancanza di un’espressa previsione in tal senso, è stata affermata da sez. V, sent. n. 2816 del 7 febbraio 2008, Pres. Saccucci, Est. Meloncelli, secondo cui «anche se non sia espressamente previsto, il contraddittorio procedimentale amministrativo è necessario anche in materia tributaria in forza del principio generale dell’azione amministrativa del giusto procedimento, trattandosi di applicare ad un caso di specie ultima dei criteri elaborati per categorie di soggetti e con efficacia di presunzione semplice, che comporta l’inversione dell’onere della prova e il suo caricamento sulle spalle del contribuente». Parimenti nessun dubbio sussiste circa l’obbligatorietà del contraddittorio in materia di studi di settore, anche prima che la legge 30 dicembre 2004, n. 311 lo prevedesse espressamente, la cui omissione comporta la nullità dell’accertamento; sez. V, sent. n. 13995 del 27 settembre 2002, Pres. Papa, Est. Tirelli; n. 9946 del 23 giugno 2003, Pres. Raggio, Est. Marigliano; n. 9135 del 3 maggio 2005, Pres. Saccucci, Est. Cicala (in motivazione); sez. V, sent. n. 17229 del 28 luglio 2006, Pres. Riggio, Est. Meloncelli, in Riv. Giur. Trib., 2006, 1048, con nota di MARCHESELLI, Per l’applicazione


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spettivi dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione dei predetti standard, ma incombe al contribuente l’onere di chiarire siffatta discordanza16; - qualora il contribuente, ottemperando all’invito, provveda a trasmettere all’ufficio le proprie deduzioni, la motivazione dell’eventuale avviso di accertamento deve contenere un’adeguata replica tale da superare le deduzioni della parte17. In mancanza, l’atto impositivo dovrà essere considerato nullo per difetto di motivazione18; - l’attivazione del contraddittorio, che svolge una funzione strumentale rispetto alla corretta effettuazione dell’accertamento, se presenta risvolti positivi per il contribuente qualora egli abbia fornito i chiarimenti richiesti, presenta invece effetti sfavorevoli in caso di mancata risposta, che legittima l’utilizzazione degli “standard presuntivi” da parte dell’amministrazione19; - la mancata partecipazione del contribuente al contraddittorio, non gli preclude la possibilità di presentare in giudizio le medesime eccezioni e giustificazioni che avrebbe potuto far valere in sede di contraddittorio anticipato. Pertanto la prova20che non è

delle presunzioni semplici di cui agli studi di settore è necessaria la previa attuazione del contraddittorio, che osserva: «tale sentenza opina che il previo contraddittorio sarebbe comunque strumento indefettibile di adeguamento dell’accertamento alla realtà del singolo contribuente. In effetti, tale affermazione, come spesso accade, sembra peccare di assolutezza. Potrebbero forse individuarsi degli equipollenti al contraddittorio e quindi questo non essere ritenuto necessario sempre e comunque. Ad esempio, nel caso in cui l’ufficio avesse fatto precedere alla applicazione degli studi una verifica generale, analitica e attenta della sede, della contabilità e della attività del contribuente, si potrebbe forse ritenere che uno sforzo adeguato di individualizzazione dell’accertamento sarebbe stato fatto. Sembra allora più convincente quanto espresso sopra nel testo: il fondamento dell’obbligo del contraddittorio è in realtà duplice (imparzialità e buon andamento da un lato, difesa del contribuente dall’altro). Una affermazione rigorosa della assoluta indefettibilità del contraddittorio si può fondare allora solo sul riconoscimento della sua funzione anche di strumento di difesa del contribuente. Allo stesso modo, è posta in modo del tutto sterile la questione se l’accertamento tributario possa fondarsi esclusivamente sulla applicazione degli studi di settore. A maggior ragione, esclusa la natura di presunzione legale, non è possibile formulare una regola assoluta: dipende dal contesto conoscitivo. Quel che è certo è la necessità di una attivazione diligente dell’ufficio. Quando, nonostante questa (quantomeno coincidente con l’invito al contraddittorio o iniziative equipollenti), nessun elemento concreto sia acquisito, la cosiddetta autosufficienza degli studi certamente più plausibile». 16 Sez. V, sent. n. 16771 del 27 novembre 2002, Pres. Papa, Est. Ebner, in tema di coefficienti presuntivi. 17 Ferma restando la differenza tra obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento, che attiene alla legittimità dell’atto ed onere della prova della pretesa tributaria, che riguarda il merito del processo. Sul punto si rinvia alle considerazioni di GIOÈ, Studi di settore e obbligo di motivazione, cit., 1726, paragrafo 5.e.3.

stata data in sede procedimentale amministrativa può essere fornita in sede processuale21. L’appartenenza dei vari strumenti di accertamento standardizzato ad un unico genus sembra evincersi anche dalla possibilità di applicazione, attesa la natura procedimentale, a periodi d’imposta precedenti alla loro adozione, in luogo di quelli previsti per tali periodi d’imposta, a condizione che il risultato sia favorevole al contribuente22. Tale retroattività, infatti, non è soltanto interna a ciascuno strumento, ma va oltre i rispettivi confini. È, invero, ormai acquisito il principio della «prevalenza degli studi di settore sui parametri», laddove relativi ad medesimo settore economico cui appartiene il contribuente interessato dall’accertamento, avendo i primi natura più raffinata, quale nuovo mezzo di accertamento desumibile dalla normativa che lo ha introdotto23. La prevalenza vale non soltanto con riferimento agli standard, cioè ai risultati statistici mutevoli nel tempo, ma anche per le ipotesi di inapplicabilità degli studi, estese ai parametri:

18 Sempre in tema di coefficienti, oltre a sez. V, sent. n. 4387 del 2002, n. 11356 del 2003, n. 26404 del 2005, n. 12612 del 2006 n. 4624 del 2008, citate, v. sez. V, sent. n. 14122 del 18 giugno 2009, Pres. Papa, Est. Carleo. È stato peraltro precisato da MARCHESELLI (Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 280) che l’onere di motivazione sugli elementi forniti dal contribuente in sede di contraddittorio «non equivale alla necessità di puntuale e analitico contrasto di tutte le eccezioni (financo le più fantasiose e defatigatorie) del contribuente, ma deve intendersi come necessità di una motivazione che dimostri che le ragioni e circostanze allegate dal contribuente sono state a) prese in considerazione, b) adeguatamente valutate e c) ragionevolmente superate. Nello sviluppo logico e discorsivo della motivazione può ben accadere allora che il superamento di tali obiezioni non corrisponda a una serie analitica di obiezioni, ma risulti dal complesso del ragionamento. Anche in questo caso non è possibile formulare regole rigide, se non quella della coerenza e ragionevole con divisibilità». 19 Tale principio è stato affermato, facendo salva a carico del contribuente la prova dell’inapplicabilità degli standard al caso concreto, da sez. V, sent. n. 14122 del 2009, cit., in materia di coefficienti presuntivi, con riferimento all’espressa previsione dell’art. 12, comma 1, del D.L. n. 69 del 1989, per il quale «i motivi non addotti in risposta alla richiesta di chiarimenti, non possono essere fatti valere in sede di impugnazione dell’atto di accertamento», ma è stato ribadito anche in tema di parametri da sez. V, sent. n. 2816 del 2008, cit. 20 Sulla distinzione tra “prova contraria” (nel caso di presunzione legale) e “controprova” (nel caso di presunzione semplice), si rinvia a MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 291 ss. paragrafo 5.e.2. 21 Sez. V, sent. n. 2816 del 2008, cit. e ord. n. 12630 del 28 maggio 2009, Pres. Lupi, Est. Iacobellis (entrambe in tema di parametri). Per la critica a soluzioni che rimettono ogni valutazione al processo, v. BASILAVECCHIA, Strumenti parametrici, contraddittorio, motivazione dell’accertamento: il corretto ruolo del giudice

tributario, cit., (paragrafo 4.g.). MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 307, osserva: «circa gli effetti della mancata attuazione del contraddittorio, sembra tesi corretta affermare l’illegittimità dell’accertamento. La soluzione opposta non è condivisibile. Essa trascura che lo spostamento in avanti del contraddittorio (meglio, dell’offerta di contraddittorio), non è affatto indifferente. La sua attuazione costituisce infatti uno strumento: a) di acquisizione da parte dell’ufficio di dati fondamentali per la corretta fotografia della materia imponibile; b) di articolazione delle proprie difese da parte del contribuente. Questa soluzione è, insomma, contraria sia al principio di imparzialità sia a quello di buon andamento della pubblica amministrazione. Inoltre, non è indifferente, per il contribuente e il suo diritto di difesa (inteso in senso lato), contraddire prima dell’avviso o, successivamente, pendenti i termini dell’impugnazione, pur sospesi, ovvero nel giudizio. La giurisprudenza [di merito] ha talora ritenuto sufficiente, con riferimento alla disciplina previgente, il contraddittorio in sede giudiziale. Si tratta di un orientamento diffuso generalizzato, corrispondente a quello, analogo, sostenuto a proposito di altre metodiche di accertamento (ad esempio, gli accertamenti bancari). È evidente che in tal modo, da un lato, si pretermette completamente il principio della efficienza della pubblica amministrazione e che del diritto di difesa (quantomeno, del diritto del contribuente di partecipare ai procedimenti che incidono sulle sue posizioni giuridiche) si percepisce solo la dimensione giurisdizionale (coerentemente con la dimensione espressamente prevista dall’art. 24 Cost.)». 22 Così, in materia di coefficienti, sez. V, sent. n. 13508 del 15/09/2003 Pres. Papa, Est. Meloncelli (Rv. 566856). In tema di studi di settore: sez. V, sent. n. 793 del 20 gennaio 2004, Pres. Saccucci, Est. Bielli; sent. n. 1797 del 28 gennaio 2005, Pres. Cristarella Orestano, Est. Ferrara (Rv. 581155); sent. n. 21165 del 31 ottobre 2005, Pres. Paolini, Est. Monaci (Rv. 586173); sent. n. 25684 del 4 dicembre 2006, Pres. Prestipino, Est. Scuffi (Rv. 595685); sent. n. 1136 del 19 gennaio 2009, Pres. Papa, Est. Giacalone. 23 Sez. V, sent. n. 9613 del 11 aprile 2008, Pres. Lupi, Est. Lupi (Rv. 604394).


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- nei confronti dei soggetti per i quali operano le cause di esclusione degli accertamenti basati sugli studi di settore, allorché riguardino un periodo di svolgimento anomalo dell’attività del contribuente24; - nei confronti dei contribuenti che abbiano cessato l’attività nell’anno, ipotesi espressamente prevista in tema i studi di settore dall’art. 10, comma 4, lett. b, della legge n. 146 del 1998 e «applicabile retroattivamente in quanto a sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 62-bis, istitutiva degli studi di settore, costituisce un criterio di valutazione migliore degli elementi presuntivi rispetto ai precedenti parametri»25. Si è fatta poi applicazione del principio di retroattività degli studi di settore anche nel caso di successione nel tempo di studi di settore, con prevalenza di quello più aggiornato ed evoluto rispetto al precedente26. È quindi acquisito il principio che, nel concorso tra più standard di riferimento, prevale l’ultimo, in quanto il sistema normativo è tale da farlo presumere più aggiornato ed affidabile ai fini della determinazione dell’effettivo reddito del contribuente; e tale prevalenza riguarda non soltanto il dato contabile-statistico, ma anche le cause di esenzione previste dallo strumento più evoluto27.

24 Sez. V, sent. n. 23602 del 15 settembre 2008, Pres. Papa, Est. Sotgiu (Rv. 604439) che richiama l’art. 4, comma 1 del D.P.R. 31 maggio 1999, n. 195, in riferimento all’art. 10 comma 4, della legge 8 maggio 1998, n. 146. 25 Sez. V, Ord. n. 30188 del 23 dicembre 2008, Pres. ed Est. Lupi. 26 Comm. trib. prov. di Torino, sez. XX, 19 dicembre 2007 n. 148. 27 La prevalenza degli studi di settore rispetto ai parametri pone l’ulteriore questione, se nelle ipotesi in cui questi ultimi siano ancora applicabili (retro, paragrafo 5.a.2.) e quindi a prescindere dall’applicazione retroattiva dello specifico studio, valga comunque il presupposto delle gravi incongruenze nello scostamento (previsto dall’art. 62-sexies, comma 3, del D.L. n. 331 del 1993, ma non dal comma 181 dell’art. 3 della legge n. 549 del 1995). 28 BAGAROTTO, Retroattività delle disposizioni tributarie e Statuto del contribuente: il caso dei contributi erogati alle aziende di trasporto pubblico, in Riv. Dir. Trib, 2007, I, 156, alla nota 8 ricorda la sentenza 4 maggio 1966, n. 44: «una legge tributaria retroattiva non comporta per se stessa la violazione del principio della capacità contributiva (sentenza n. 9/1959), e [...] deve essere verificato di volta in volta, in relazione alla singola legge tributaria, se questa, con l’assumere a presupposto della prestazione un fatto o una situazione passati, o con l’innovare, estendendo i suoi effetti al passato, gli elementi dai quali la prestazione trae i suoi caratteri essenziali, abbia spezzato il rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità contributiva e abbia così violato il precetto costituzionale (sentenza n. 45/1964)». Successivamente, la sentenza 8 luglio 1982, n. 143 ha evidenziato che la Corte, pur escludendo costantemente nella materia tributaria la possibilità di considerare operante il divieto di retroattività sancito dall’art. 25, comma 2, Cost., ha ritenuto che «la legge può sì incidere sulla capacità contributiva esistente in un momento anteriore alla sua emanazione e rilevata da fatti passati, ma ha posto quale limite a tale possibilità la esigenza che la capacità stessa sia ancora sussistente, e quindi permanga,

In ogni caso l’applicazione retroattiva è possibile se il risultato sia favorevole al contribuente, mentre dubbi sussistono sulla possibilità di applicazione in malam partem, avendo la Corte costituzionale in più occasioni28 riconosciuto che la disposizione tributaria retroattiva è ammessa solo se colpisce una capacità contributiva che, seppur emersa in passato, possa considerarsi ancora effettiva, attuale e concreta29. Prende allora corpo, sia pure a livello embrionale, una sorta di “unitarietà dinamica” dell’istituto degli accertamenti standardizzati, caratterizzato dalla trasversalità dei principi in tema di contraddittorio e dalla prevalenza dell’ultimo standard approvato rispetto ai precedenti, anche se inerenti a strumenti diversi. Sembra, quindi, praticabile una soluzione “di sistema”, che consenta una risposta calibrata sul genus accertamenti standardizzati, piuttosto che sui singoli strumenti succedutisi nel tempo30. In questa prospettiva, la prima questione che andrebbe affrontata è quella dell’inquadramento sistematico degli accertamenti standardizzati. Nonostante il dato testuale sembri deporre per la collocazione all’interno dell’art. 39, comma 1, lett. d, del D.P.R. n. 600 del 1973 (almeno per i parametri e gli studi di settore31), la questione non

nel momento dell’imposizione (cfr. sent. 11 aprile 1969 n. 75 e 23 maggio 1966 n. 44)». L’autore segnala, altresì, la pronuncia 20 luglio 1994, n. 315, con cui la Corte, nell’ambito del giudizio di costituzionalità dell’art. 11 . comma 9, della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (che ha esteso retroattivamente al triennio 1989-1991 il regime di tassazione delle plusvalenze derivanti da espropriazione o cessione volontaria di aree nel corso di procedimenti ablatori) ha negato l’illegittimità costituzionale di detta disposizione richiamando altresì il citato concetto di “prevedibilità” dell’imposizione retroattiva. In tale sentenza viene evidenziato che «una legge tributaria retroattiva non comporta di per sé violazione del principio della capacità contributiva, occorrendo, invece, verificare, di volta in volta, se la legge stessa, nell’assumere a presupposto della prestazione un fatto o una situazione passati, abbia spezzato il rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità stessa, violando così il precetto costituzionale sopra richiamato» e che, nella vicenda oggetto del giudizio, era dato rinvenire «un elemento di prevedibilità dell’imposta [...] altre volte [...] reputato significativo sotto il profilo della permanenza della capacità contributiva e che, pertanto, è da considerarsi rilevante per giudicare della conformità all’art. 53 Cost. della retroattività conferita dall’art. 11, comma 9, della legge n. 413/1991, alla norma sulla tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione volontaria di terreni sottoposti ad espropriazione, specie se si tiene conto del breve lasso di tempo entro il quale tale retroattività è destinata ad operare». 29 Sui limiti di costituzionalità di norme tributarie retroattive v. anche MARONGIU, Retroattività ed affidamento nell’applicazione della legge tributaria, nota a Cass., sez. V, 14 aprile 2004, n. 7080, in Corr. Trib, 2004, 2287; Id., Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, 76 ss. 30 Altra affermazione che sembra “esportabile” è quella fatta in tema di coefficienti presuntivi da sez. V, sent. n. 15124 del 30 giugno 2006, Pres. Saccucci, Est. D’Alonzo (Rv. 591772), secondo cui «il termine del 30 settembre dell’an-

no al quale tali coefficienti si riferiscono, fissato, per la pubblicazione nella G.U. dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri con i quali i medesimi coefficienti vengono individuati, dall’art. 11, comma 5, del D.L: 2 marzo 1989, n. 69, convertito nella legge n. 154 del 1989 (come sostituito dall’art. 6, comma 5, della legge 30 dicembre 1991, n. 413), non ha carattere perentorio, non sussistendo alcuna indicazione in proposito, e contrastando tale perentorietà con la funzione propria dei decreti in questione, consistente nel disciplinare il potere di accertamento, nonché con l’irrilevanza del momento dell’elaborazione». L’affermazione sembra valere anche nella materia degli studi di settore, in cui l’art. 33 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, ha modificato il comma 1 dell’articolo 1, del regolamento di cui al D.P.R. 31 maggio 1999, n. 195 disponendo che, a partire dall’anno 2009 gli studi di settore devono essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale entro il 30 settembre del periodo d’imposta nel quale entrano in vigore. 31 L’art. 62-sexies, comma 3, del D.L. n. 331 del 1993, per il quale «gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lett. d, [...] possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore [...]» viene generalmente interpretato, non solo da quanti aderiscono alla tesi della natura di presunzioni semplici degli studi di settore, come significativa della loro collocazione all’interno della lett. d, cit. La disciplina dei parametri è ancor più esplicita, prevedendo il comma 181 dell’art. 3 della legge n. 549 del 1995 che «fino alla approvazione degli studi di settore, gli accertamenti di cui all’articolo 39, comma 1, lett. d, [...] possono essere effettuati [...] utilizzando i parametri». Quanto ai coefficienti presuntivi, l’art. 12 del D.L. n. 69 del 1989 ne prevede l’utilizzo in sede di accertamento «indipendentemente dalle disposizioni recate dall’art. 39 [...]».


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è compiutamente affrontata dalla giurisprudenza: alcune decisioni hanno incluso gli accertamenti standardizzati tra quelli previsti dall’art. 39, comma 1, lett. d, cit.32; altre sembrano collocarli (almeno secondo la locuzione usata) al di fuori delle ipotesi previste dalla norma generale33, peraltro senza indicazioni sulla diversa collocazione; altre, ancora, nel ritenere che l’accertamento non può automaticamente fondarsi sullo scostamento tra quanto dichiarato ed i dati forniti dagli standard (nella specie studi di settore), affermano che essi «si rivelano assolutamente inidonei ad integrare i presupposti di cui all’art. 39, comma 1, lett. d, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, laddove non confortati da elementi ulteriori». Analoghe incertezze si registrano in dottrina (si rinvia al paragrafo 5.d.1). La spiegazione è rinvenibile nel fatto che gli strumenti presuntivi, essendo volti a superare le risultanze contabili, ma limitati alla determinazione dei ricavi (cioè di una singola categoria di componenti del reddito) «sembrano collocarsi a cavallo delle due modalità d’accertamento presuntivo tipiche del reddito d’impresa: l’accertamento presuntivo-analitico di cui al primo comma e quello presuntivo-sintetico di cui al secondo comma dell’art. 39»34. Di qui il contrapporsi tra soluzioni che privilegiano il dato letterale ed altre che fanno leva sulle caratteristiche di specificità degli accertamenti in esame. A tale seconda impostazione va ascritta la tesi che qualifica i metodi standardizzati come fondanti presunzioni legali, non essendo tale la natura delle presunzioni contemplate dall’art. 39 cit.; la conseguenza è – evidentemente – la collocazione in uno spazio autonomo e distinto. La questione dell’inquadramento sistematico si intreccia poi con quella della natura degli accertamenti standardizzati. Sotto questo profilo, sia i coefficienti presuntivi, che i parametri e gli studi di settore, fanno registrare analoghi approcci della giurisprudenza ( v., rispettivamente, i paragrafi 2.c., 4.7. e 5.c.): a decisioni in cui è presente il riferimento al concetto di presunzione semplice, se ne contrappongono altre che attribuiscono loro la qualifica di presunzione legale; inoltre, nell’ambito di quelle che propendono per la natura di presunzioni semplici, solo alcune affermano l’esistenza, ex lege, delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, mentre altre le qualificano quali comuni presunzioni hominis, vale a dire supporti razionali offerti dall’amministrazione al giudice35. Ancor più varie sono le posizioni della dottrina (si rinvia ai paragrafi 2.d., 4.g. e 5.d). Sembra evidente che la chiave di lettura del sistema risiede nelle regole fondamentali del suo funzionamento. Tra queste la prima è quella, ormai largamente condivisa, della necessità che l’accertamento non si fondi sul solo scostamento tra quanto dichiarato ed i livelli di congruità previsti in via generalizzata, ma sia confortato da elementi ulteriori. Tale affermazione ha quale implicita premessa, la distinzione tra lo standard in sé e la sua “applicazione”. A volte i due concetti appaiono parzialmente enunciati; e così si

32 Ex multis, sez. V, sent. n. 3288 del 11 febbraio 2009, Pres. D’Alonzo, Est. D’Alonzo (Rv. 606710) e sent. n. 4148 del 20 febbraio 2009, Pres. Miani Canevari, Est. Cappabianca (Rv. 606845), in materia di parametri; sent. n. 2891 del 27 febbraio 2002 Pres. Cantillo, Est. Falcone e sent. n. 26919 del 15 dicembre 2006, Pres. Saccucci, Est. Sotgiu (Rv. 595108), in materia di studi di settore. 33 Sez. V, sent. n. 8643 del 6 aprile 2007, Pres. Magno, Est. Magno (Rv. 598094) e sent. n. 4127 del 20 febbraio 2009, Pres. Miani Ca-

è affermato, in tema di parametri, che gli stessi «non costituiscono prove neppure presuntive di reddito e non possono da soli sostenere un avviso di accertamento di maggiore imponibile; in caso di discordanza tra quanto dichiarato e quanto risultante dai calcoli in forza ai c.d. parametri, non sussiste una presunzione iuris tantum a favore dell’ufficio, con conseguente inversione dell’onere della prova; al tempo stesso la loro applicazione pone una presunzione legale relativa36». In altre decisioni, invece, l’affermazione della natura di presunzione relativa è espressamente accompagnata dal riferimento al momento applicativo (frequente è la locuzione «la loro applicazione pone una presunzione di carattere legale [...]»); per converso, quelle che valorizzano l’autosufficienza degli standard a fondare l’accertamento, salva la prova contraria37, sono relative a fattispecie in cui non risulta l’apporto di particolari argomentazioni giustificative da parte del contribuente in sede di contraddittorio. D’altra parte, che i parametri statistici (coefficienti, parametri in senso proprio o studi di settore) rappresentino non già un fatto noto storicamente verificato, suscettibile di evidenziare in termini di rilevante probabilità l’entità dei ricavi del contribuente medesimo, ma, piuttosto, il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali, che fissa soltanto una regola di esperienza, è affermazione ricorrente in giurisprudenza. In questa prospettiva, deve condividersi quanto affermato recentemente in dottrina circa il fatto che la questione se le risultanze degli studi di settore (ed in genere degli altri accertamenti “standardizzati”) possano sorreggere da sole l’accertamento rappresenta, alla stregua dell’evoluzione giurisprudenziale, «un falso problema»38. Ed infatti la più avveduta dottrina che fa riferimento al concetto di presunzione legale39, ne individua la natura sui generis e si muove in una prospettiva diversa da tale automatismo. È, dunque, sul momento di “incrocio” tra i dati previsti in via generale e la realtà concreta del contribuente, che si deve concentrare l’analisi. In effetti, è proprio questa la tendenza della più recente dottrina, che evita di approfondire la questione della natura di tali strumenti, preferendo affrontare le tematiche del contraddittorio tra ufficio e contribuente. E così si afferma che «le risultanze dell’accertamento standardizzato costituiscono meri parametri di riferimento partendo dai quali l’amministrazione finanziaria sviluppa l’iter logico-giuridico necessario, da un lato, a soddisfare l’onere probatorio a suo carico e, dall’altro, a motivare adeguatamente l’avviso di accertamento. Non è sufficiente l’applicazione automatica delle risultanze dello strumento standardizzato proprio dell’attività economica esercitata dal contribuente, ma è essenziale che siano valorizzate le caratteristiche peculiari di ciascuna attività oggetto di controllo, anche mediante l’acquisizione di ulteriori elementi»40. In definitiva, il contraddittorio endoprocedimentale, avente la duplice funzione di garanzia, dell’interesse sia del contribuente, il quale ha la possibilità di prospettare all’amministrazione tutti gli elementi che possono condurre ad una

nevari, Est. Greco. 34 In tal senso con riferimento agli studi di settore FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, cit., 392. 35 Si rinvia, per citazioni di giurisprudenza, rispettivamente, ai paragrafi 2.c. (per i coefficienti presuntivi), 4.f. (per i parametri ) e 5.c. (per gli studi di settore). 36 Sez. V, sent. n. 24912 del 10 ottobre 2008, Pres. Papa, Est. D’Alonzo (Rv. 604850). 37 Da ultimo, in materia di coefficienti, sez. V sent n. 15539 del 2 luglio 2009, Pres. Cicala,

Est. Scuffi e, in materia di parametri, sent. n. 3288 del 11 febbraio 2009, Pres. D’Alonzo, Est. D’Alonzo. 38 BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 223. 39 FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, cit., 392 (paragrafo 5.d.4.). 40CORRADO, Accertamenti standardizzati e rilevanza processuale del comportamento delle parti in sede amministrativa, nota a Cass., 7 febbraio 2008 n. 2816, cit., 398.


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quantificazione del reddito più aderente alla propria capacità contributiva, sia dell’ordinamento alla corretta determinazione dei tributi, costituisce un momento con carattere di necessità e con funzione di passaggio dalla fase statica (gli standard previsti in via generale) a quella dinamica dell’accertamento (la loro applicazione al singolo contribuente). Ne consegue che «le risultanze dell’istruttoria rilevano quale parte integrante e necessaria della motivazione»41 in quanto «gli apporti collaborativi del contribuente entrano a far parte del procedimento e l’amministrazione finanziaria è, perciò, obbligata non solo a prenderli in considerazione, ma ad esprimere – dopo la dimostrazione della loro attenta valutazione – le ragioni per cui non inficiano l’iter motivazionale approntato e non sono meritevoli di accoglimento»42. La motivazione dell’avviso di accertamento, quindi, è modulata in relazione alle risposte fornite dal contribuente la cui mancanza legittima l’utilizzazione degli “standard presuntivi” da parte dell’amministrazione43. Sembra, allora, che, nell’individuare natura ed inquadramento sistematico degli accertamenti standardizzati, non si possa non tenere conto di tre caratteristiche degli stessi: 1) la natura dinamica: il (necessario) passaggio intermedio del contraddittorio interrompe l’automatismo tra i criteri inferenziali probabilistici e l’accertamento, il quale va motivato in relazione ai risultati dell’istruttoria; 2) l’applicabilità modulare: i predetti criteri, stabiliti con riferimento a situazioni di normalità, vanno adattati alla realtà del contribuente, al punto che possono essere applicati anche parzialmente44;

41 NICCOLINI, Studi di settore e motivazione: riflessioni alla luce dei più recenti interventi legislativi, cit., 1089. 42 MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, 157. 43 Sez. V, sent. n. 2816 del 2008 e n. 14122 del 2009, cit. 44In tema di studi di settore si è affermato che

3) il carattere non necessitato: l’elaborazione di standard presuntivi non preclude un accertamento ex art. 39, comma 1, lett. d, del D.P.R. n. 600 del 1973 a prescindere da essi, costituendo il riferimento a tali standard soltanto un possibile, ma non cogente, parametro di calcolo di tale redditività, fondato sulla estrapolazione statistica di dati, su cui prevale, quale elemento idoneo a fondare la presunzione di reddito, il diverso risultato che può emergere dall’andamento economico della specifica impresa interessata45. L’assenza, in ciascuno dei predetti profili, di profili automatici di imputazione, sembra portare all’esclusione della natura di presunzioni legali degli accertamenti “standardizzati”, del resto in linea con quanto previsto dal D.L. 2 luglio 2007 n. 81, che espressamente qualifica come presunzioni semplici gli indicatori di normalità economica introdotti dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296, aprendo il campo ad orientamenti ministeriali e di dottrina in linea con tale impostazione (paragrafi 5.b e 5.d.7 ). Il dato testuale (almeno per i parametri e gli studi di settore) ed il fatto che tali accertamenti (tutti) sono mirati alla determinazione dei ricavi (cioè di una singola categoria di componenti del reddito), sembrano essere decisivi ai fini dell’inquadramento nell’ambito dell’art. 39, comma 1, lett. d, del D.P.R. n. 600 del 1973. E le presunzioni gravi, precise e concordanti cui si riferisce tale norma, non sarebbero costituite dallo scostamento rispetto agli standard, in sé considerato, ma andrebbero individuate di volta in volta nel caso concreto, soltanto all’esito del contraddittorio con il contribuente, in relazione alle eventuali giustificazioni addotte ed al comportamento da lui tenuto.

il singolo ufficio accertatore, nel compiere un accertamento, anche induttivo, «non è tenuto a sua volta a prendere in considerazioni tutti i dati che sarebbero richiesti per uno studio generale di settore», potendo basarsi invece, volta per volta, solo su alcuni elementi sintomatici; sez. V, sent. n. 17038 del 2 dicembre 2002, Pres. Cristarella Orestano, Est. Monaci,

in motivazione (Rv. 558884) e, da ultimo, n. 1136 del 19 gennaio 2009, Pres. Papa, Est. Giacalone, n. 2876 del 6 febbraio 2009, Pres. Papa, Est. Marigliano e n. 3585 del 13 febbraio 2009, Pres. Cicala, Est. Giacalone. 45In tal senso, in materia di studi di settore, sez. V, sent. n. 19209 del 6 settembre 2006, Pres. Favara, Est. Sotgiu.

OMESSA CERTIFICAZIONE DI RITENUTE D’ACCONTO E DETERMINAZIONE DELL’IMPOSTA SUL REDDITO Fondazione Centro Studi U.N.G.D.C., circolare 4 maggio 2009, n. 6 1. Problemi giuridici scaturenti dall’omessa certificazione di ritenute (a titolo di acconto) effettuate ma non certificate Si è presentato negli ultimi tempi, anche attraverso taluni, non condivisibili arresti giurisprudenziali1, il problema del trattamento da riservare, in sede di determinazione dell’Irpef, alle ritenute a titolo di acconto operate dal sostituto e tuttavia da questi non certificate. La questione investe due distinti piani del percorso che conduce alla determinazione dell’imposta. Da un lato, quello sostanziale, giacché c’è da domandarsi se, nel momento in cui il contribuente procede alla quantificazione del tributo attraverso la compilazione della propria scheda dichiarativa, possa tenere in conside-

razione le trattenute concretamente subite pur in difetto della menzionata certificazione. Dall’altra, quello procedimentale, in quanto, ponendosi dal punto di vista dell’Agenzia delle Entrate, ci si interroga se, mancando la suddetta certificazione, lo scomputo della ritenuta possa o debba essere ciò nondimeno riconosciuto facendo leva su altri supporti documentali. A nostro avviso, l’art. 22 del D.P.R. 917/1986 consente, inequivocabilmente, di scomputare le ritenute operate senza condizionare tale scomputo al possesso e/o alla produzione della certificazione rilasciata dal sostituto. Infatti, il sostituito, nel momento in cui determina l’Irpef dovuta, non applica l’art. 36-ter del D.P.R. 600/1973, giacché quest’ultima disposizione regola esclusivamente il modo d’essere della suc-

1 Cass., sez. trib., 21 aprile 2006 - 16 giugno 2006, n. 14033; Cass., sez. trib., 18 marzo 2008 - 14 maggio 2008, n. 12072.


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cessiva (e necessariamente eventuale) attività amministrativa. Le cose cambiano laddove ci si collochi sul fronte del controllo della dichiarazione. L’Agenzia delle Entrate è in possesso, invero, di una dichiarazione presentata per le vie telematiche dalla quale emerge la ritenuta scomputata e non dispone – ciò è evidente – del ben che minimo supporto in ordine alla concreta effettuazione della ritenuta stessa da parte del sostituto. Questa situazione legittima il fisco a richiedere, sulla base del sorteggio che domina tale metodologia di controlli, la documentazione riguardante la suddetta ritenuta. Ed è del tutto naturale che, nel muovere in tale direzione, la prima richiesta riguardi la certificazione del sostituto. È qui che nascono i problemi, giacché sono molteplici le ragioni per le quali il sostituto potrebbe non avere certificato una ritenuta effettuata e versata al fisco. È evidente che l’azione amministrativa dovrà tendere, in questi casi, all’accertamento del fatto (avvenuta effettuazione della ritenuta), senza spingersi de plano al recupero, in capo al sostituito, delle ritenute non formalizzate mediante la certificazione. 2. La soluzione prospettata dalla giurisprudenza di merito Dall’esame della giurisprudenza di merito emerge una linea di ragionamento la quale individua nella certificazione rilasciata dal sostituto soltanto uno dei molteplici mezzi di prova documentale spendibili dal sostituito per provare d’aver subito la ritenuta. Per le commissioni tributarie2, la certificazione in parola non ha valore costitutivo del diritto allo scomputo e può essere rimpiazzata da altra documentazione idonea a dimostrare che il titolare del reddito ha sopportato, in sede di erogazione dei compensi, la ritenuta d’acconto. Al fine di agevolare il riscontro sulla giurisprudenza citata, si propongono, qui di seguito, le massime più significative estratte dalla medesima. A titolo esemplificativo, è stato osservato che «la prova [...] può ben essere fornita dalle stesse ricevute emesse dal contribuente all’atto del pagamento del compenso per le sue prestazioni di lavoro occasionale, dove sono distintamente indicati l’importo lordo spettante, quello della ritenuta operata e quello netto corrisposto» (Comm. trib. di II grado di Treviso, sez. IV, n. 299 del 7 luglio 1995 - 3 febbraio 1995); «le certificazioni del sostituto d’imposta, anche se irregolari, non fanno venir meno nel sostituito il diritto al calcolo di tali ritenute, ai fini della liquidazione dell’imposta. La ritenuta non certificata dal sostituto può essere provata con l’estratto del libro delle entrate e delle ritenute da parte del lavoratore autonomo» (Comm. trib. di II grado di Piacenza, n. 72 del 14 ottobre 1989 - 30 maggio 1989); «la lettera di accompagnamento dell’assegno relativo al compenso corrisposto al professionista, contenente gli elementi richiesti dall’art. 3 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (nome del percipiente e ammontare delle ritenute sottratte dal sostituto di imposta) equivale a tutti gli effetti a certificazione vera e propria» (Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXXI, sentenza n.

2 In tal senso Comm. trib. prov. di Ragusa, sez. II, del 23 luglio 2007, n. 116: la copia della fattura emessa dal sostituito che evidenzia la ritenuta è idonea a certificare che la ritenuta e’ stata eseguita in mancanza del documento del sostituto; è dello stesso avviso, quanto al valore della fattura, Comm. trib. prov. di Lecce, sez. IX, 12 febbraio 2009 - 4 marzo 2008, n. 60; la Comm. trib. prov. di Milano, sez. XII, 19 febbraio - 2 maggio 2007, n. 99, riconosce valore probatorio al cedolino attestante l’avvenuto prelievo della rite-

490 del 17 novembre 1998 - 9 ottobre 1998). In definitiva «la mancata allegazione alla dichiarazione dei redditi della certificazione del sostituto di imposta, relativa alla ritenuta d’acconto, non fa venir meno il diritto del contribuente a provare con idonea documentazione che le ritenute sono detraibili dal proprio reddito ai fini Irpef» (Comm. trib. centr., sez. XVIII, 18 aprile 2000, n. 2519). Dello stesso avviso è la Commissione tributaria centrale, che non ha mancato di affermare, valorizzando il divieto di doppia imposizione, che «qualora il contribuente, per il fatto omissivo dei sostituti d’imposta, non è stato posto in grado di produrre anche nel corso del giudizio la documentazione necessaria per provare di aver subito le ritenute d’acconto, limitandosi alla produzione dell’estratto del libro entrate dal quale risultano subite, le somme dovute non possono essere richieste anche allo stesso contribuente-sostituito, stante il divieto di doppia imposizione posto dagli artt. 7 e 67 del D.P.R. n. 600/1973» (Com. trib. centr., sez. XVIII, 3 aprile 1995 - 24 febbraio 1995, n. 1303). 3. La soluzione recentemente offerta dalla giurisprudenza di legittimità Diverso è l’orientamento dei giudici di legittimità, quanto meno nella giurisprudenza più recente. Infatti, la Suprema Corte così si esprime al riguardo: «il fatto che l’art. 64, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 definisca il sostituto d’imposta come colui che “in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri [...] ed anche a titolo di acconto” non toglie che anche il sostituito debba ritenersi fin dall’origine (e non già solo in fase di riscossione) obbligato solidale al pagamento dell’imposta: in tale qualità, anch’egli è pertanto soggetto al potere di accertamento ed a tutti i conseguenti oneri, fermo restando il diritto di regresso verso il sostituto che, dopo aver eseguito la ritenuta, non l’abbia versata all’Erario, in tal modo esponendolo all’azione del fisco» (Cass., sez. trib., 21 aprile 2006 - 16 giugno 2006, n. 14033)3. Recentemente, poi, la stessa Cassazione ha sancito che la certificazione rilasciata dal sostituto costituisce l’unico mezzo idoneo a dimostrare di aver subito la ritenuta. Rileva, infatti, che «la certificazione delle ritenute d’acconto non può essere sostituita da documentazione equipollente. Tale certificazione deve essere infatti rilasciata dal sostituto ed a nulla rileva il fatto che la normativa attuale non richieda più l’allegazione della medesima come adempimento del contribuente dichiarante». (Cass., sez. trib., 18 marzo 2008 - 14 maggio 2008, n. 12072)4. In sintesi, non solo la Cassazione sembra attribuire alla certificazione del sostituto valore costitutivo quanto al diritto di scomputo, ma si spinge altresì a ravvisare un vincolo di coobbligazione tra sostituto e sostituito pur in presenza di rapporti non già riconducibili alla cd sostituzione totale con rivalsa obbligatoria, bensì alla cd. “pseudo sostituzione parziale” con rivalsa obbligatoria (o ritenuta d’acconto). Più semplicemente, per il supremo collegio vi è coobbligazione tra sostituto e sostituito anche laddove la ritenuta alla fonte rappresenti un mero accon-

nuta fiscale; Comm. trib. prov. di Teramo, sez. III, 18 dicembre 2007, n. 198. 3 La corte ha dunque abbandonato il condivisibile orientamento espresso attraverso la sent. n. 3725 con la quale i giudici avevano statuito che «qualora il soggetto obbligato alla ritenuta dell’imposta di ricchezza mobile o complementare, dopo averla operata, non provveda al versamento di essa alla tesoreria provinciale, le somme non versate, le maggiori somme risultanti dall’accertamento d’ufficio e le relative soprattasse sono iscritte a ruolo a nome di

detto soggetto che si configura come sostituto d’imposta, ne il contribuente che abbia subito la ritenuta può essere assoggettato nuovamente al pagamento dell’imposta per il fatto che non possa esibire la dichiarazione attestante l’avvenuta ritenuta da parte di chi l’ha effettuata, il quale si rifiuti di rilasciarla» (Cass. civ., sez. I, 3 luglio 1979, n. 3725). 4 In senso conforme Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sez I, che, con la sentenza n. 9 del 14 gennaio 2009, ha ritenuto «che quando il sostituto d’imposta viene iscritto a ruolo,


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to dell’imposta dovuta a saldo dal sostituito sulla base della propria dichiarazione. Questa conclusione si traduce in un evidente scardinamento dell’istituto, in quanto il coinvolgimento del sostituito realizza, nei casi in cui quest’ultimo soggetto abbia già sopportato il peso economico della ritenuta, una chiara situazione di doppia imposizione, vietata non solo dal nostro assetto costituzionale ma anche, nel comparto dell’imposizione sul reddito, dall’art. 163 del T.U.I.R. A questa situazione pone parziale rimedio il recente intervento dell’Agenzia delle Entrate, del quale si dirà nel successivo paragrafo. 4. La soluzione proposta dall’Agenzia delle Entrate Con la risoluzione n. 68/E del 19 marzo 2009, l’Agenzia delle Entrate ha ufficializzato il proprio pensiero circa la possibilità di scomputare, dall’Irpef, le ritenute d’acconto sui redditi d’impresa o di lavoro autonomo subite dal sostituito, qualora quest’ultimo non sia stato in condizione di esibire detta documentazione. Afferma invero l’Agenzia che «in tale caso, si ritiene che il contribuente sia comunque legittimato allo scomputo delle ritenute subite, a condizione che sia in grado di documentare l’effettivo assoggettamento a ritenuta tramite esibizione congiunta della fattura e della relativa documentazione, proveniente da banche o altri intermediari finanziari, idonea a comprovare l’importo del compenso netto effettivamente percepito, al netto della ritenuta, così come risulta dalla predetta fattura». In sintesi, l’Agenzia ritiene di superare correttamente il dato formale incardinato nella certificazione del sostituto e di porre al centro dell’attività di accertamento il dato di effettività: lo scomputo della ritenuta non è più indissolubilmente legato alla certificazione e viene, invece, correlato alla effettiva sopportazione del peso economico della stessa ritenuta. Cerchiamo di chiarire un po’ meglio questi passaggi. La risoluzione stabilisce che il contribuente ha la possibilità di produrre, in sede di controllo ai sensi dell’art. 36-ter del D.P.R. n. 600/1973, «una dichiarazione sostitutiva di atto notorio in cui il contribuente dichiari, sotto la propria responsabilità, che la documentazione attestante il pagamento si riferisce ad una determinata fattura regolarmente contabilizzata»; inoltre, «il contribuente è tenuto a dichiarare, sotto la propria responsabilità, che la documentazione prodotta è riferita esclusivamente alla fattura e che a fronte della stessa non vi sono stati altri pagamenti da parte del sostituto». È apprezzabile lo sforzo di risolvere in via amministrativa questo problema, ancorché la richiesta di produrre la dichiarazione sostitutiva di atto notorio parrebbe, proprio nell’ottica di semplificazione dell’attività di controllo, eccessiva rispetto ai risultati che si vogliono ottenere5. Se, infatti, il problema consiste nell’accertare l’avvenuto pagamento del compenso e l’avvenuta effettuazione della ritenuta, la soluzione può essere agevolmente individuata attraverso l’innesto nel procedimento amministrativo di documentazione contabile riguardante tali fatti. Ad esempio, l’esibizione della fattura corredata dalla copia del-

come nel caso de quo, per omessa presentazione dei modelli 770, nonché per omesso versamento delle ritenute operate ai sensi dell’art. 23 del D.P.R. 600/1973, il sostituito è chiamato in solido allorché non siano state effettuate le ritenute alla fonte e/o non

la documentazione bancaria attestante il versamento in conto corrente di un determinato provento può reputarsi sufficiente ai fini della dimostrazione dell’avvenuta effettuazione della ritenuta. Rispetto a tale apparato dimostrativo, la certificazione non aggiunge nulla di nuovo, salvo la responsabilità penale che il sostituito si assume nei casi di dichiarazione falsa. In quest’ottica, la soluzione prospettata dall’Agenzia pare eccessiva rispetto alla consistenza del problema, soprattutto se si considera che, come rilevato, la citata risoluzione si esprime anche in ordine al contenuto della dichiarazione sostitutiva di atto notorio. Quest’ultima non dovrà limitarsi all’individuazione delle fatture che hanno formalizzato il rapporto tra sostituto e sostituito ma dovrà altresì attestare che, tra i due soggetti, non sono intercorsi altri pagamenti. Questa richiesta rischia di indebolire, sul piano pratico, la soluzione adottata, perché, nel procedere in questa direzione, la questione probatoria declina in un vero e proprio strumento di accertamento rispetto ad operazioni che potrebbero non essere state formalizzate, avendo le parti accettato il rischio dell’evasione. 5. Osservazioni conclusive e rapide osservazioni sul piano operativo Alla luce di quanto sopra, tenuto conto del combinato disposto dell’art 22 del D.P.R. 917/1986 e dell’art. 36-ter del D.P.R. 600/1973, il problema dello scomputo delle ritenute d’acconto non certificate non può che essere dominato dal principio di libertà dei mezzi di prova, specialmente nei casi in cui il sostituito risulti incolpevolmente sprovvisto della certificazione prevista ex lege. Tale libertà dei mezzi di prova va adattata al procedimento di controllo delle dichiarazioni nel senso che, anche nei casi nei quali non esista la certificazione e non esista la dichiarazione sostitutiva di atto notorio, il diritto allo scomputo dovrà essere riconosciuto. Appare del vero opportuno evidenziare come tale riconoscimento richieda, tuttavia, uno sforzo dimostrativo da parte del contribuente, il quale dovrà darsi carico di esibire quella documentazione da cui si desuma, anche in assetto presuntivo, il fatto consistente nella sopportazione delle ritenute d’acconto. Una diversa soluzione non farebbe altro che alimentare ingiustificatamente i problemi dell’amministrazione, che potrebbe in astratto trovarsi di fronte a soggetti i quali, accettando il rischio della responsabilità penale, abbiano dichiarato il falso. Ma – lo si ribadisce – la dichiarazione sostitutiva non può ottenere in alcun modo l’efficacia costitutiva del diritto allo scomputo. Quest’ultima, per le ragioni già messe in luce in precedenza, dipende soltanto dall’effettuazione, in concreto, della trattenuta. In conclusione, a fronte di ritenute che il sostituito dimostri di aver sopportato si ritiene che: a) il diritto allo scomputo debba essere riconosciuto; b) l’amministrazione sia legittimata a procedere nei confronti del sostituto laddove quest’ultimo, operata la ritenuta, non l’abbia poi versata all’erario.

sia data certificazione dell’avvenuto versamento». 5 Si pone un problema rispetto ai giudizi pendenti con riferimento ai quali potrebbero essere già maturate le preclusioni per la produzione dei documenti. Se la parte (il sostituito) ha

già provveduto, nei termini di legge, al deposito della documentazione indicata nella risoluzione citata, avrebbe la facoltà di rilasciare a verbale la propria dichiarazione sostitutiva di atto notorio.


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PRINCIPIO DELL’AFFIDAMENTO: TRA NORMATIVA TRIBUTARIA E NORMATIVA COMUNITARIA di Maurizio Villani Il presente articolo si pone quale approfondimento sul principio dell’affidamento, enunciato per la prima volta in maniera esplicita dall’art. 10 della L. 27 luglio 2009, n. 212. Tale principio, sul quale il giudice delle leggi e quello di legittimità hanno opinioni contrastanti, si è ormai da tempo consolidato anche nella giurisprudenza comunitaria, come affine alla rule of law del sistema giuridico inglese, secondo la quale l’amministrazione, soprattutto in sede di esercizio del potere di autotutela, deve salvaguardare le situazioni soggettive che si sono consolidate per effetto di atti o comportamenti della stessa amministrazione, idonei ad ingenerare un ragionevole affidamento nel destinatario dell’atto. L’obiettivo che s’intende perseguire è, quindi, quello di analizzare l’evoluzione del suddetto principio dai suoi albori al suo consolidamento nella giurisprudenza comunitaria. 1. Il principio dell’affidamento ai suoi albori La L. 27 luglio 2009, n. 212, all’articolo 10, comma 1, statuisce che «i rapporti tra contribuente ed amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede». Stabilendo ai successivi commi che «non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa» e «le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta. Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto». Tale norma, che fissa il binomio buona fede-affidamento, presentando i due principi in simbiosi, trova, tuttavia, fondamento ed applicazione già in epoca precedente. La buona fede, principio storicamente collegabile alla bona fides romana, ha risentito, in ambito amministrativo e quindi tributario, della diffidenza della dottrina in ordine alla sua applicazione a materie che non prevedevano nei loro rapporti tipici, una parità tra le parti, portatrici di interessi contrapposti. Prima dell’avvento dello stato pluriclasse, infatti, si sosteneva che da un lato ci fossero gli interessi dei privati, retti dal principio dell’autonomia privata; mentre, dall’altro, vi fosse l’interesse pubblico, ossia l’interesse generale collettivo, che prevaleva sui primi. A fronte, però, della nuova veste data alla P.A. dalle modifiche del procedimento amministrativo, grazie alla quale gli amministrati sembra siano mag-

1 GIARDINO, Partecipazione al procedimento amministrativo, in La nuova disciplina dell’azione amministrativa; commento alla legge n. 241 del 1990 aggiornato alle leggi n. 15 e n. 80 del 2005, 2005. 2 Per un’interessante contributo sull’argomento si rimanda a UDA, L’oggettività della buona fede nella esecuzione del contratto, in www.dirittoestoria.it. 3 MERUSI, Buona fede ed affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni trenta all’alternanza, 2001, 10 e 35 ss.

giormente tutelati1, lo scenario si è evoluto e la prevalente dottrina si è mostrata concorde nell’affermare come la buona fede sia suddivisibile in due componenti, una soggettiva ed una oggettiva2, portatrici entrambe della convinzione della bontà del proprio comportamento. Sotto quest’ultimo profilo, la buona fede ben si distingue dall’affidamento in quanto quest’ultimo prevede una forma di fiducia circa la bontà del comportamento altrui. Infatti, pur sembrando un unico concetto autorevole, la dottrina sottolinea come «l’affidamento sia una situazione soggettiva preliminare e autonoma rispetto al principio di buona fede, la cui tutela è assicurata dall’esistenza di tale principio»3. Esso trova il suo antecedente logico in una situazione di apparenza caratterizzata da elementi oggettivi (comportamenti precedenti della p.a., atti a favore del cittadino, ma anche inerzia) che creano nell’amministrato (al quale corrisponderà una diligenza più o meno elevata) delle aspettative: egli si attende che la situazione con cui ha a che fare sia reale, consolidata, in altre parole certa4, e, quindi, non più unilateralmente mutabile ad opera dell’amministrazione stessa. Egli confida in tale situazione a tal punto che spesso si determina in scelte proprio in ragione di tale affidamento, cosicché la sua violazione comporterà non solo conseguenze sanzionatorie dirette, ma anche danni derivanti dalle scelte precedentemente fatte. Un grande giurista esperto sull’argomento, Merusi, definì la buona fede quale «norma verticale, un principio di integrazione dell’intera gerarchia delle fonti. La buona fede è norma di integrazione di ogni ordine di produzione codificata del diritto, costituzionale, legislativa, regolamentare e ora anche comunitaria»5, dal carattere universale e di importanza tale da poterla qualificare principio costituzionale non scritto, travalicando il rapporto contribuente-fisco, allargandosi ad uno spettro di rapporti pressoché illimitato nell’ambito della comunità civile e abbracciando ogni branca dell’ordinamento (civile, amministrativo, tributario, comunitario e internazionale). Forme di tutela quali il principio di correttezza dell’agire amministrativo, di tutela del legittimo affidamento del contribuente, nonché l’esimente delle obiettive condizioni di incertezza della norma tributaria (introdotta nel sistema normativo già nel 19296), rappresentano tutte il tentativo di creare un clima collaborativo e di certezza dei rapporti giuridici, sinonimo di ordine e di sviluppo sociale. 2. Conflitto giurisprudenziale tra il giudice delle leggi e quello di legittimità sul principio dell’affidamento Fatta questa indispensabile premessa sul contesto da cui il principio dell’affidamento scaturisce, si rileva, altresì, che mentre in ambito amministrativo ci si è avviati in un lento ma significativo

4 ZAGREBELSKY, Manuale di Diritto costituzionale, I, 1987, 91, secondo cui per principio dell’affidamento si intende che «il singolo deve poter conoscere lo stato del diritto in base al quale opera e tale stato del diritto non deve poi essere modificato retroattivamente». 5 MERUSI, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico, cit., 7. 6 V. art. 2 R.D. n. 360 del 1929. La norma è stata poi più volte oggetto di successive novelle: art. 15, R.D. n. 1608 del 1931; art. 248, D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645; artt. 46 e 55, D.P.R. 29 set-

tembre 1973, n. 600; art. 48, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633; art. 39-bis, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Più di recente, l’esimente ha trovato cittadinanza nell’art. 8, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (recante le norme sul nuovo processo tributario), nell’art. 6, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (recante la riforma del sistema sanzionatorio tributario non penale), nell’art. 15, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (concernente la repressione dei reati fiscali) e, infine, nell’art. 10, della L. 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente).


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processo di trasformazione dell’apparato improntato in ottica privatistica e paritaria sul piano dei rapporti, in ambito tributario, invece, permangono ancora difficoltà nell’accettare il superamento dell’ottica pro fisco7. A riguardo, difatti, la Corte costituzionale nelle sue sentenze non sembra offrire una tutela decisiva per le posizioni di aspettativa dei cittadini amministrati, mentre la Corte di Cassazione8 tende ad avvalorare sia il ruolo dello Statuto del Contribuente che a sostenere le ragioni dei contribuenti in controversie in cui sia messa in dubbio la tutela del legittimo affidamento. Stando alla lettera dell’art. 10 citato, verrebbe tutelato il contribuente in buona fede, non solo nel caso in cui egli agisca in conformità di un’indicazione preferenziale dell’amministrazione finanziaria (e in tal caso non potranno essere richiesti interessi e irrogate sanzioni amministrative)9; bensì anche nel caso di affidamento prestato ad un atto dell’amministrazione dal contenuto univocabilmente interpretabile, nel cui caso nulla sarà dovuto anche dal punto di vista impositivo10. La Corte di Cassazione avalla questa posizione pro-contribuente affermando che «il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino, reso esplicito in materia tributaria dall’art. 10, comma 1, L. n. 212 del 2000, e trovando origine negli articoli 3, 23, 53 e 97 Cost., è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l’attività legislativa e amministrativa»11. Ma se quanto detto aderisce agli orientamenti della Corte di Cassazione, ciò non è parimenti vero per la posizione assunta dalla Corte Costituzionale, la quale mostra di avere una netta posizione di contrasto con la filosofia dello Statuto del Contribuente, come si può dedurre dalla permissività circa le leggi retroattive in materia tributaria. Infatti, nonostante a norma dell’art. 1, comma 2, dello Statuto del Contribuente l’adozione di norme interpretative in materia tributaria possa essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica, e nonostante ancora all’art. 3, comma 1 dello stesso Statuto venga stabilito che salvo quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo, la Corte non sembra mutare indirizzo affermando che «una legge tributaria retroattiva non comporta di per sé violazione del principio della capacità contributiva, occorrendo verificare, invece, di volta in volta, se la legge stessa, nell’assumere a presupposto della prestazione un fatto o una situazione passati, abbia spezzato il rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità stessa, violando così il precetto costituzionale sancito dall’art. 53» (Corte cost., sent. 20 luglio 1994, n. 315; nello stesso senso vedi Corte cost., sent. 10 novembre 1994 n. 385, e ancor più risalente Corte cost., sent. 16 giugno 1964, n. 45; recentemente v. anche Corte cost., sent. 6 febbraio 2002, n.16 e 4 agosto 2003, n. 291).

7 Cass., sez. un., 28 settembre 2006, n. 25506. per un’approfondita analisi in tema di tutela dell’affidamento in ambito tributario si rimanda a DELLA VALLE, Affidamento e certezza del diritto tributario, 2005. 8 Cass., sez. trib., sent. 21 aprile 2001, n. 5931, Cass., sez. V, sent. 10 dicembre 2002, n. 17576, Cass., sez. V, sent. 14 aprile 2004, n. 7080, Cass., sez. V, 6 ottobre 2006, n. 21513, Cass., sez. I., ord. 12 dicembre 2006, n. 26505. 9 Cass., sez. trib., sent. 14 febbraio 2002, n. 2133.

Ciò che spesso si ignora è che il conflitto tra le due Corti riguardo alla tutela dell’affidamento deriva dalla diversa funzione che le stesse corti sono chiamate a svolgere. La Corte di Cassazione spesso esercita le sue funzioni emancipandosi dal proprio ruolo di giudice di legittimità fino a toccare questioni che straripano nell’ambito della legittimità costituzionale. Se il principio di legalità costituzionale viene rispettato dalla norma ordinaria che non si pone in contrasto con il dettato della Costituzione, la questione di costituzionalità non si pone: si potrà proporre solo nel momento in cui non sia possibile operare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma. Diverso è il caso in cui una norma rispettosa della costituzione venga interpretata in modo non univoco dai giudici di merito. Qui rileva la funzione della Corte di Cassazione, che nell’ambito di un’esegesi non contraria a Costituzione, dovrà orientare i giudici di merito verso un’interpretazione che, seppur non vincolante, resta sempre di importanza rilevante. Il principio dell’affidamento del contribuente necessita, per ottenere degna tutela, di essere elevato formalmente a rango costituzionale, poiché per quanto possa essere considerato importante, nel giudizio di legittimità, sulla base della supremazia gerarchica della costituzione, sarà destinato a cedere il passo ai principi Costituzionali, poiché giammai potrà essere invocato quale parametro nel giudizio di legittimità operato dalla Corte. La Corte costituzionale, infatti, dopo aver affermato, in Corte cost., ord. 6 luglio 2004 n. 216, che «le disposizioni della legge n. 212 del 2000, proprio in ragione della loro qualificazione in termini di principi generali dell’ordinamento, rappresentano (non già norme interposte ma) criteri di interpretazione adeguatrice della legislazione tributaria, anche antecedente» chiarisce nella recentissima Corte cost., sent. 27 febbraio 2009, sentenza n. 58 che non hanno «rango costituzionale – neppure come norme interposte – le previsioni della legge n. 212 del 2000 (ordinanze n. 41 del 2008, n. 180 del 2007 e n. 428 del 2006)». 3. Il principio dell’affidamento nell’esperienza comunitaria Così come per l’ordinamento interno, anche per quello comunitario è molto importante la certezza del diritto: gli atti delle istituzioni europee non solo devono essere chiari ma devono anche essere portati a conoscenza del soggetto interessato con mezzi idonei, in modo tale da permettere a quest’ultimo di valutare gli effetti prodotti dall’emanazione dell’atto. Quello che si può definire principio della certezza del diritto12 è complementare a quello dell’affidamento (legitimate expectation)13. Anche a livello di amministrazione europea ci si pone il problema di dover regolare situazioni in cui le pubbliche amministrazioni, talvolta, possano14 o meno poter tornare sulle proprie precedenti decisioni, anche eventualmente su quelle per mezzo delle quali si attribuivano vantaggi o si creavano situazioni favorevoli ai loro destinatari o a terzi, sia che ciò accada in conseguen-

10 Cass., sez. trib., sent. 10 dicembre 2002, n. 17576. 11 Cass., sez. trib., sent. 6 ottobre 2006, n. 21513; Cass., sez. trib., sent. 14 aprile 2004, n. 7080, Cass., sez. V trib., sent. 10 dicembre 2002, n. 17576 e la recente Cass., sez. V trib., sent. 13 maggio 2009, n.10982. 12 BRAITHWAITE, Rules and Principles: A Theory of legal certainty, in Australian Journal of legal Philosophy, XXVII, 47 ss., 2002 . 13 CAPELLI, La tutela del legittimo affidamento nel diritto comunitario e nel diritto italiano (con particolare riferimento alla normativa CEE in materia agricola), in Dir. Com. e

Scambi Internaz., 1989, 97; vedi SCHONBERG, Legittimate Expectations, in Administrative Law, 2000, e relativa recensione di DE PRETIS, in Dir. Pubbl., 2001, 1191 ss. 14 La prima pronuncia della Corte di Giustizia in tema di revoca sembra essere la CGCE, sent. 12 luglio 1957, Algera ed altri c. Assemblea Comune, cause congiunte 7/1956 e 3-7/1957, in Racc., 81. La pronuncia sottolineò che il principio generale della revocabilità degli atti amministrativi illegittimi era riconosciuto con varianti nella sua applicazione in tutti gli ordinamenti degli allora sei Stati membri.


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za di una rivalutazione della legittimità o in virtù della modificazione dell’assetto d’interessi contemperati nell’ambito del precedente operato. Si è reso quindi necessario fissare dei criteri di risoluzione del problema di come regolare il rapporto fra le decisioni dell’amministrazione, le situazioni create in capo ai cittadini e il decorso del tempo. Occorre a tal proposito fare riferimento al principio di tutela dell’affidamento elaborato in ambito comunitario15, esigenza resa ancor più forte, relativamente all’ordinamento italiano, per via dello specifico richiamo dato ai «principi dell’ordinamento comunitario» dal nuovo art. 1 della L. 7 agosto 1990, n. 241, come modificato dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, applicabili anche in ambito tributario, e specificamente introdotti nel 2000 con lo Statuto del Contribuente. Quello di affidamento è un principio ormai da tempo consolidato nella giurisprudenza comunitaria16 un principio non scritto (in quanto nulla sarebbe esplicitamente previsto a riguardo nei Trattati), che pare sia alquanto affine alla rule of law del sistema giuridico inglese17 secondo la quale l’amministrazione, soprattutto in sede di esercizio del potere di autotutela18, deve salvaguardare le situazioni soggettive che si sono consolidate per effetto di atti o comportamenti della stessa amministrazione, idonei ad ingenerare un ragionevole affidamento nel destinatario dell’atto. La presenza di tale principio è confermata dall’affermazione esplicita sul piano sostanziale in materia doganale, contenuta nel Regolamento (CEE) n. 1967/1972 della Commissione, del 14 settembre 1972, e ribadita dal Regolamento (CEE) n. 2913/1992 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario19. Si può cercare di seguire il percorso evolutivo giurisprudenziale

15 MENGOZZI, Da un Case by Case Balance of Interest a un two Step Analysis Approach nella giurisprudenza comunitaria in materia di legittimo affidamento?, in Scritti in onore di Giuseppe Federico Mancini, 1998, II, 633. 16 Per una disamina accurata della giurisprudenza in materia di tutela dell’affidamento in ambito comunitario vedi BLANKE, Vertrauensschutz im deutschen und europäischen Verwaltungsrecht, 2000; CHITI, The Role of the European Courts of Justice in the Development of the General Principles and Their Possible Codification, in Riv. Dir. Pubbl. Com., 1995, 661 ss.; si può appurare come esso venga definito «principio fondamentale della comunità» con la pronuncia CGCE, 5 maggio 1981, Dürbeck/Hauptzollamt Frankfurt am Main-Flughafen, C112/1980. 17 In tal senso SCHWARZE, European Administrative Law, 1992, 872 ss.; MACKENZIE STUART, The European Communities and the Rule of Law, 1977; L. ANTONIOLLI, Interpretazione e rule of law nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Riv. Crit. Dir. Priv., 1997. II, 355 ss. 18 Per un’analisi dell’esercizio del potere di autotutela in ambito comunitario vedi DAMATO, Revoca di decisione illegittima e legittimo affidamento nel diritto comunitario, in Il Diritto dell’Unione europea, 2, 1999, 299; SCHWARZE, European Administrative Law, cit, 979 ss.; ARDITO, Autotutela, affidamento e concorrenza nella giurisprudenza comunitaria, in Dir. Amm., 2008, III, 631 ss.; FERRARI, Annullamento in autotutela di provvedimenti contrastan-

seguito dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee per delineare i parametri in base ai quali è possibile determinare i confini entro in quali è tutelabile l’affidamento, definito da alcune pronunce come «parte dell’ordinamento giuridico comunitario»20. Punto di partenza di tale cammino evolutivo sembra essere una sentenza del 195721. In tale pronuncia, la Corte svolge, nelle sue motivazioni, un ragionamento che permette di delineare il comportamento che la stessa considera corretto nell’ambito della revoca di atti dell’amministrazione, dinanzi al sorgere di un affidamento sia nel caso in cui esso sorga in conseguenza di un atto legittimo e sia nel caso in cui trovi fonte in un atto illegittimo22. Si ritiene, infatti, che se il provvedimento è conforme alle norme che ne disciplinano l’emanazione ed ha determinato la produzione di effetti previsti dall’ordinamento, facendo sorgere diritti in capo ad un determinato soggetto, allora non possa essere revocato, in quanto quei diritti sarebbero irrimediabilmente lesi se si procedesse all’annullamento dell’atto che li ha posti in essere, in contrasto con il principio giuridico che impone di salvaguardare l’affidamento23; diverso è, invece, il caso di un provvedimento non conforme al diritto: esso potrebbe essere revocato ex tunc, ove non fosse d’ostacolo la notevole durata del tempo trascorso tra la sua emanazione e la revoca. La Corte fissò quindi, per la prima volta, un limite al potere di autotutela della p.a.: la necessità di tener conto del lasso di tempo decorso dall’emanazione del provvedimento, la cui consistenza fosse tale da giustificare l’insorgere di un affidamento nella conservazione della situazione acquisita, talvolta precludendo persino l’esercizio della potestà amministrativa di ritiro dell’atto24. Ciò che consegue è che una situazione di vantaggio, assicurata al

ti con il diritto comunitario (con commento a T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. II, 2 ottobre 2007, n. 2049), in Giur. It., 2008, IV, 1286 ss. 19 Il principio di affidamento dell’operatore è desumibile inoltre dall’art. 5, n. 2, del regolamento CEE n. 1697/7 del Consiglio, del 24 luglio 1979, e dall’art. 220, par. 2, lett. b, del regolamento CEE n. 2913/9 del Consiglio, del 12 ottobre 1993, che preclude all’amministrazione il recupero dei diritti doganali non riscossi, purché il debitore abbia agito in buona fede ed osservato le disposizioni previste dalla regolamentazione vigente per la sua dichiarazione alla dogana. 20 CGCE, sent. 3 maggio 1978, Töpfer, C112/1977. 21 CGCE, sent. 12 luglio 1957, Algera ed altri c. Assemblea comune, cause congiunte 7/1956 e 3-7/1957, in Racc., 1957, 81. 22 CGCE, sent. 13 luglio 1965, Lemmerz-Werke c. Alta Autorità, causa 111/1963, in Racc., 1965, 972; sent. 3 marzo 1982, Alpha Steel c. Commissione, causa 14/1981, in Racc., 1982, 749; sent. 26 febbraio 1987, Consorzio Cooperative. D’Abruzzo c. Commissione, causa 15/1985, in Racc., 1987, 1005, punti 12 ss.; sent. 20 giugno 1991, Cargill c. Commissione, causa C-248/1989, in Racc. 1991, I ss., punto 20; sent. 17 aprile 1997, De Compte c. Parlamento, in causa C-90/1995, in Racc., 1997, I ss., punto 35; Trib. I grado, sent. 21 luglio 1998, Mellet c. CGCE, cause riunite T66/1996 e T-121/1997, in Racc., 1998, II ss., punti 120 ss. 23 CGCE, sent. 30 novembre 1983, Ferriere San Carlo, causa 352/1982 abbiamo invece un

esempio in cui il principio della tutela dell’affidamento è stato applicato quale eccezione del principio della certezza del diritto: tale è, ad es., il caso dell’efficacia nel tempo degli atti, che non può essere retroattiva in ossequio al principio della certezza, ma che può essere oggetto di una deroga quando «lo esiga lo scopo da conseguire e purché sia fatto salvo il legittimo affidamento degli interessati»; per una recente analisi vedi GIGANTE, Mutamenti nella regolazione dei rapporti giuridici e legittimo affidamento. Tra diritto comunitario e diritto interno, 2008, che propone una riflessione sul principio di tutela del legittimo affidamento, come delineato nel diritto comunitario e recepito nell’’ordinamento interno, analizzando, a tal scopo, la giurisprudenza comunitaria, articolandola in due diversi raggruppamenti, a seconda che l’affidamento si riconnetta ad un atto legittimo o ad un atto illegittimo. Manca una disciplina specifica che operi la distinzione tra figure di provvedimenti eliminatori di provvedimenti e atti comunitari anche se AIROLDI, Lineamenti di diritto amministrativo comunitario, 1990 cit., osserva che nel corso della sua evoluzione la giurisprudenza ha dato spesso l’impressione appoggiarsi alla distinzione, operata dell’ordinamento francese, tra retrait, cioè la rimozione ex tunc di atti illegittimi, e abrogation, ossia l’eliminazione ex nunc dell’atto anche legittimo, fatti salvi i vested rights, i cd. diritti quesiti. 24 Per CGCE, sent. 26 febbraio 1987, Consorzio Cooperative d’Abruzzo/Commissione, C15/1985, «la revoca di un atto illegittimo è


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privato per mezzo di uno specifico atto dell’amministrazione, non può essere rimossa in un momento successivo, salvo indennizzo per la lesione derivante dalla rimozione della posizione acquisita. Si tratta di quelli che vengono denominati vested rights (diritti quesiti)25, che consistono in quei diritti che vengono costituiti dalla p.a. attraverso degli atti con la parvenza del carattere della legittimità: essi non possono essere successivamente sacrificati in quanto hanno determinato la convinzione di essere diritti “acquisiti” al patrimonio del cittadino beneficiario26. Tuttavia, occorre considerare che, nella stessa giurisprudenza della Corte, l’approccio che fissa nel decorso del tempo un fattore definitivamente stabilizzante dell’affidamento e preclude, di conseguenza, l’esercizio del potere di autotutela, non presenta carattere di continuità, poiché si ritiene che seppur tale fattore sia destinato a consolidare progressivamente l’affidamento, esso non osti inevitabilmente all’esercizio del potere di ritiro dell’atto, che sarebbe subordinato di fronte all’emersione di un interesse pubblico più consistente27. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia28, la rimozione di un atto illegittimo sarebbe infatti ammissibile ma a condizione che risponda ad un interesse pubblico concreto e attuale da

consentita solo entro un termine ragionevole e se l’istituzione da cui emana ha adeguatamente tenuto conto della misura in cui il destinatario dell’atto ha potuto eventualmente fare affidamento sulla legittimità dello stesso. Se queste condizioni non sono soddisfatte, la revoca lede i principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento e deve essere annullata»; vedi anche CGCE 3 marzo 1982, Alpha Steel/Commissione, C-14/1981 e Tribunale di I grado, 26 gennaio 1995, De Compte/Parlement T90/1991 e T-62/1992 ). 25 Cfr. per la dottrina italiana CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell’azione amministrativa, un primo commento alla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, in Astrid Rassegna, IV, 2005, 25: «forti limitazioni sussistono alla rimozione (da intendersi comprensiva anche della revoca ex nunc) di precedenti provvedimenti che hanno costituito in capo a terzi situazioni di vantaggio (vested rights)»; UBERTAZZI, La tutela dei diritti quesiti e del legittimo affidamento nel diritto comunitario, in Dir. Com. e Scambi Internaz., 1978, 425 ss. 26 Cfr. reg. CE n. 17/1962, art., 8, par. 3, in materia di intese restrittive della concorrenza. 27 CGCE, sent. 22 marzo 1961, in cause 42 e 39/1959. 28 CONTALDI LA GROTTERIA, Diritti soggettivi ed interessi legittimi nella giurisprudenza della Corte di Giustizia CE: spunti di riflessione alla luce della sentenza Cass., sez. un., n. 500/1999, in Riv. Amm., 1999, I, 725 ss. 29 CGCE, sent. 18 luglio 2007, C-119/2005; sempre CGCE, sez. I, 19 settembre 2006, cause C-392/2004 e C-422/2004, ha individuato nel riesame e nell’autotutela, poteri idonei e necessari da esercitare (art. 10, trattato CE) per le ipotesi in cui vi sia un contrasto tra atto amministrativo e diritto comunitario; vedi in proposito, per le conseguenza problematiche che ne derivano, GRUNER, L’annullamento d’ufficio in bilico tra i principi di preminenza ed effettività del diritto comunitario,

bilanciare con altri interessi dei quali si richiede tutela e che confliggono con l’interesse pubblico in questione. Sono un esempio di tale ulteriore limite eventuale le pronunce con cui la Corte riconosce la legittimità dell’attività di recupero di aiuti di Stato che vengano concessi dallo Stato membro in difetto dei presupposti sostanziali e procedurali prescritti29. Si tratta di tipologie di fattispecie nelle quali la giurisprudenza comunitaria sottolinea non solo l’illegittimità del soggetto ad ottenere un aiuto percepito in violazione delle procedure previste dalla normativa europea, ma riconosce anche l’obbligo del recupero dell’aiuto concesso, anche nel caso in cui sussistano legittimate expectations30. L’interesse pubblico, quindi, emerge come secondo limite, anche se in realtà non si può sempre dire che ove l’atto venga revocato in presenza di un interesse pubblico superiore, l’affidamento non venga tutelato, poiché il soggetto danneggiato potrebbe essere ristorato adeguatamente tramite l’indennizzo o richiedere eventualmente il risarcimento del danno allo Stato se abbia in buona fede fatto affidamento nell’aiuto ripetuto31. Il potere di revoca attraverso l’autotutela dell’amministrazione viene talvolta indicato in maniera specifica nelle stesse norme co-

da un lato, ed i principi della certezza del diritto e l’autonomia procedurale degli Stati membri, dall’altro, in Dir. proc. ammin., 2007, I, 240 ss.; CONSOLO, La sentenza “Lucchini” della Corte di Giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie nel nostro?, in Riv. Dir. Proc., 2007, I, 225 ss., ipotizza, dopo la relativizzazione dell’art. 2909 c.c., ritenuto in contrasto con l’ordinamento comunitario, l’esigenza di una «revocazione straordinaria». Nello stesso senso è T.A.R. Palermo, II sez., 28 settembre 2007 n. 2049,che parla di autoannullamento doveroso per l’atto che si ponga in contrasto con la norma comunitaria o decisione di carattere vincolante della CE; SINISI, La “doverosità” dell’esercizio del potere di autotutela in presenza di un atto amministrativo contrastante con i regolamenti comunitari, in Foro Amm., T.A.R., 2007, X, 3265 ss. che pone il problema del contemperamento tra affidamento ed autotutela. 30 In particolare, secondo i giudici della Corte di Giustizia, nella categoria vi rientrerebbe non soltanto il finanziamento diretto di determinati operatori ma anche l’intervento indiretto sotto forma di sgravi fiscali o altre simili agevolazioni che abbiano comunque l’effetto di alleviare gli oneri che di norma graverebbero sul bilancio delle imprese. Tra questi, indiscutibilmente, gli oneri tributari obbligatori. A tal proposito si può notare come di recente la Corte di Giustizia, con la sentenza 15 dicembre 2005 (causa C148/2004) ha bloccato in maniera perentoria le agevolazioni fiscali concesse in occasione della privatizzazione degli istituti bancari di diritto pubblico, per effetto della L. 30 luglio 1990, n. 218 (cd. legge Amato), cammino culminato nella legge delega 23 dicembre 1998, n. 461 che con la creazione delle fondazioni bancarie private. In tal caso, infatti, non vi sarebbe, a parere della Corte di Giustizia, spazio per un legittimo affidamento da parte dei beneficiari in ordine al mantenimento dei benefici conseguiti. Sarebbe ostativo a riguardo il fatto che non è

stato rispettato l’iter procedurale ex articolo 88 del Trattato, poiché vi sarebbe in ogni caso un onere minimo di diligenza in capo ai destinatari delle agevolazioni, in quanto: «un operatore economico diligente deve normalmente essere in grado di accertarsi che tale procedura sia stata rispettata». In CGCE., VI sez., sent. 7 marzo 2002, causa C310/1999, Repubblica italiana/Commissione, «la possibilità, per il beneficiario di un aiuto illegittimamente affidamento circa la regolarità dell’aiuto e di opporsi, quindi, alla sua ripetizione non può certamente escludersi. In un caso siffatto spetta al giudice nazionale, eventualmente adito, valutare le circostanze del caso di specie, dopo aver proposto alla Corte, se necessario, questioni pregiudiziali di interpretazione (v. sentenza Commissione/Germania, già citata, punto 16)». A tali principi, stabiliti dalla Corte di Giustizia, si è uniformata anche la Corte di Cassazione (sez. I, sent. 25 marzo 2003, n. 4353) che, proprio in tema d’aiuti di Stato, ha affermato che «È principio giurisprudenziale stabilmente affermato dalla Corte del Lussemburgo che il legittimo affidamento è in realtà affidamento nella regolarità delle procedure che a loro volta sono destinate ad accertare la compatibilità della concreta concessione dell’aiuto comunitario con le norme comunitarie che lo prevedono e che ne regolano il regime. Ciò anzitutto in quanto l’obbligo di sopprimere un aiuto incompatibile con il trattato è assoluto». Vedi T.A.R. Sardegna, sent. 11 gennaio 2000, n. 424, ove viene stabilito l’obbligo di restituzione dell’aiuto, ma limitato alla somma capitale, esclusa la corresponsione ex tunc degli interessi legali. 31 GUARINO, Costituzione italiana e integrazione europea: aiuti di stato, “distrazione” amministrativa e costi impropri per le imprese, consultabile sul sito www.giurcost.org; vedi anche la recente CGCE, I sez., sent. 4 ottobre 2007 (C-217/2006) che ha condannato l’Italia per violazione della direttiva 71/305/CEE in materia di appalti pubblici.


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munitarie32; anche se, generalmente, tale potere di autotutela, nella giurisprudenza comunitaria, viene legittimato dallo stesso potere di porre in essere l’atto che poi verrà revocato33. Si aggiunga che nel bilanciamento degli interessi contrapposti viene considerato dalla Corte anche il comportamento del soggetto controinteressato alla eliminazione del provvedimento, poiché, giustamente, non merita tutela l’affidamento illegittimo di chi, cooperando con la propria condotta, ha determinato l’emanazione di un provvedimento anch’esso illegittimo fornendo, ad es., false o inesatte informazioni, tali da indurre in errore l’autorità emanante34. D’altra parte un affidamento, perché possa qualificarsi legittimo, non può consolidarsi quando il destinatario dell’atto sia ab origine consapevole dei difetti di legittimità dello stesso, per averli eventualmente prodotti con il suo comportamento di mala fede35; o quando l’illegittimità risulti in maniera evidente dal provvedimento stesso e, quindi, si presume una conoscenza dell’operatore; oppure quando l’amministrazione abbia tempestivamente informato il destinatario del provvedimento dei dubbi circa la legittimità dello stesso, producendo, attraverso tali informazioni o contestazioni, la conseguenza che l’affidamento venga «rapidamente scalzato»36; o quando l’amministrazione abbia espressamente avvisato il destinatario di volersi riservare la facoltà di revoca dell’atto, qualificando quest’ultimo come provvisorio37. La giurisprudenza comunitaria, quindi, ha dato spesso rilevanza al profilo soggettivo dell’affidamento: nelle pronunce, si è sottoli-

32 Sono previsti poteri di revoca di atti soprattutto dalla normativa in materia di concorrenza, che attribuisce alla Commissione la possibilità di revocare esenzioni dal divieto di pratiche restrittive da essa stessa in precedenza accordate. In particolare, si richiamano al Trattato CECA, l’art. 65, par. 2, e del reg. CE 17/1962, l’art. 8, par. 3, adottato in base al Trattato CE, art. 81 (ex 85), par. 3. Norme espresse in materia sono contenute, inoltre, nello Statuto del personale comunitario (cfr. gli artt. 50, 51, 86). Degna di nota è anche la previsione di cui all’articolo 4, n. 3 del reg. (CE, Euratom) n. 2988/1995, relativo alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità, il quale dispone che «gli atti per i quali si stabilisce che hanno per scopo il conseguimento di un vantaggio contrario agli obiettivi del diritto comunitario applicabile nella fattispecie, creando artificialmente le condizioni necessarie per ottenere detto vantaggio, comportano, a seconda dei casi, il mancato conseguimento oppure la revoca del vantaggio stesso». 33 Tale potere di revoca nel diritto comunitario ha caratteri particolari: per il diritto comunitario vedi SCHWARZE, European Administrative Law, cit., 979 ss.; DAMATO, Revoca di decisione illegittima e legittimo affidamento nel diritto comunitario, cit., 299. 34 Il legittimo affidamento non potrà mai essere invocato nel caso in cui l’operatore economico si rendesse autore di una violazione manifesta della normativa comunitaria, come si può leggere in Tribunale di I grado, sent. del 26 settembre 2002, causa T-199/1999, Sgaravatti Mediterranea S.r.l./Commissione, dove la Comunità si era vista costretta a sopprimere un contributo, inizialmente accordato ad un’azienda per sviluppare un progetto pilota d’ingegneria naturalistica, per accertata fro-

neata l’imprescindibile presenza dell’elemento della diligenza dell’operatore nella valutazione delle circostanze che determinerebbero l’affidamento, in quanto l’assenza di quella determinerebbe la perdita della possibilità di tutela, trattandosi di affidamento non legittimo. Il legislatore comunitario, infatti, soprattutto per via delle materie in continua evoluzione che ricadono nella competenza dell’Unione, dispone di un ampio potere discrezionale, purché venga rispettato il Trattato, e purché le scelte, che possono essere modificate nel tempo, siano proporzionate agli obiettivi. Pertanto, l’operatore economico, in qualità di soggetto che per sua definizione sopporta un rischio che caratterizza la natura stessa dell’attività economica e produttiva38, deve essere prudente ed avveduto e prevedere che la normativa potrà essere modificata anche sopprimendo posizioni a suo vantaggio39. L’evoluzione giurisprudenziale comunitaria, in definitiva, ha portato a ritenere necessaria, ai fini della tutela delle legittime aspettative, la sussistenza di una pluralità di elementi: quello oggettivo, consistente nell’esistenza di un provvedimento amministrativo (se tale provvedimento è legittimo diviene più certa la tutela della situazione d’affidamento formatasi) o di un comportamento chiaro e univoco della p.a.; quello soggettivo della buona fede del destinatario del provvedimento o del comportamento, consistente nell’assenza di dolo o colpa in ordine al determinarsi dell’illegittimità del provvedimento o alla ignoranza non colpevole circa l’illegittimità, in modo che l’aspettativa del privato

de comunitaria. 35 In CGCE, sent. 20 marzo 1997, C-24/1995, Alcan Deutschland, si statuisce che «tenuto conto del carattere imperativo della vigilanza sugli aiuti statali operata dalla Commissione ai sensi dell’art. 93 del Trattato, le imprese beneficiarie di un aiuto possono fare legittimo affidamento, in linea di principio, sulla regolarità dell’aiuto solamente qualora quest’ultimo sia stato concesso nel rispetto della procedura prevista dal menzionato articolo». Nell’impostazione della giurisprudenza comunitaria, quindi, la consapevolezza della illegittimità è idonea ad impedire la nascita di un legittimo affidamento e può essere presunta in ragione della qualità professionale del soggetto che deve operare in modo diligente. Vedi CGCE, sent. 19 settebre 2002, n. 336, Republik Osterreich/Martin Huber, in Foro Amm., 1003, 1933 ss., ove si spiega come il principio della tutela dell’affidamento e della certezza del diritto sarebbero applicabili al fine di poter escludere la restituzione di aiuti di stato cofinanziati dalla Comunità ed indebitamente erogati, a condizione di tenere conto non solo dell’interesse della stessa Comunità, ma considerando che «l’applicazione della tutela del legittimo affidamento presuppone che venga accertata la buona fede del beneficiario». 36 Tribunale I grado, sent. 26 gennaio 1995, T90/1991 e T-62/1992, De Compte/Parlamento; la pronuncia citata è stata però poi capovolta da CGCE, sent. 17 aprile 1997, causa C90/1995 P, De Compte, con nota di DAMATO, in Il Diritto dell’Unione europea, 2, 1999, 299 ss., che ha statuito che «la revoca di un atto amministrativo favorevole è generalmente soggetta a condizioni molto rigorose. Quindi, pur se è innegabile che ogni istituzione comunitaria che accerta che un atto da essa

appena emanato è viziato da illegittimità ha il diritto di revocarlo entro un termine ragionevole con effetto retroattivo, tale diritto può essere limitato dalla necessità di rispettare il legittimo affidamento del destinatario dell’atto che può aver fatto affidamento nella legittimità dello stesso. A questo proposito, il momento determinante per stabilire quando nasce il legittimo affidamento del destinatario di un atto amministrativo è la notifica dell’atto e non la data dell’adozione o della revoca dello stesso. Una volta acquisito, il legittimo affidamento nella legittimità di un atto amministrativo favorevole non può poi venir scalzato». 37 In CGCE, sez. VI, sent. 7 marzo 2002, causa C-310/1999, Repubblica italiana/Commissione si legge: «per quanto riguarda il principio del rispetto del legittimo affidamento, si deve ricordare che, con comunicazione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, la Commissione (in G.U., 1983, C318, 3) ha informato i potenziali beneficiari di aiuti statali della precarietà degli aiuti che siano stati loro illegittimamente concessi, nel senso che essi potrebbero essere tenuti a restituirli (v. sent. 20 settembre 1990, causa C-5/1989, Commissione/Germania, in Racc., I ss., punto 15)». 38 SHARPSTONE, Legittimate expectations and Economic Reality, 15, in European Law Rev., 1990, 103, parla di tale interesse pubblico alla rimozione dell’atto come una sorta di “rischio normativo” di cui l’operatore diligente deve tenere debitamente conto nell’esercizio della sua attività economica. 39 Vedi in proposito CGCE, sent. 15 dicembre 2005 (causa C-148/2004), secondo la quale«un operatore economico diligente deve normalmente essere in grado di accertarsi che tale procedura sia stata rispettata».


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venga tutelata in coerenza con il principio della buona fede oggettiva; e il fattore temporale, tale da consentire la stabilizzazione del rapporto giuridico sotteso all’atto amministrativo che la p.a. intende rimuovere in via di autotutela, al quale la giurisprudenza comunitaria dà rilievo al fine di assicurare anche la tutela del principio di certezza del diritto, e che assume particolare rilevanza quando l’affidamento in buona fede del soggetto si protrae per un lungo lasso di tempo.

Per tali caratteristiche, il principio dell’affidamento è applicabile a tutte le situazioni non espressamente disciplinate dalle regole, talvolta prescindendo dalle stesse, ed è tutelabile anche quando il privato assuma di essere stato leso da un comportamento del fisco che si è modificato rispetto alla precedente normativa, nonostante le restrittive interpretazioni della Corte Costituzionale, soprattutto in tema di credito d’imposta in materia d’investimenti40.

40 Corte cost., ord. n. 124/6 e n. 180/7; cfr. anche l’articolo di ALESSANDRO e AMEDEO SACRESTANO, in Il Sole 24Ore, 27 giugno 2009.


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Indice cronologico delle sentenze

Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XVIII, 21 febbraio 2008, n. 5

452

Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. II, 9 giugno 2008 n. 114

433

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XVI, 21 ottobre 2008, n. 239

467

Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 7 gennaio 2009, n. 6

431

Commissione tributaria provinciale di Caserta, sez. V, 9 gennaio 2009, n. 9

454

Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. II, 26 gennaio 2009, n. 5

438

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VII, 28 gennaio 2009, n. 23

477

Commissione tributaria provinciale di La Spezia, sez. I, 26 febbraio 2009, n. 32

490

Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXVI, 1 aprile 2009, n. 26

423

Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 9 aprile 2009, n. 81

429

Commissione tributaria provinciale di Torino, sez. XVII, 20 aprile 2009, n. 58

482

Commissione tributaria provinciale di Cagliari, sez. II, 4 giugno 2009, n. 200

464

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 10 giugno 2009, n. 117

471

Commissione tributaria provinciale Messina, sez. XI, 25 giugno 2009, n. 664

484

Commissione tributaria provinciale di Cagliari, sez. II, 2 luglio 2009, n. 233

461

Commissione tributaria provinciale di Torino, sez. XIII, 7 luglio 2009, n. 74

455

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XX, 10 luglio 2009, n. 104

444

Commissione tributaria provinciale di Torino, sez. IX, 1 ottobre 2009, n. 106

455

Commissione tributaria provinciale di Cuneo, sez. III, 27 ottobre 2009, n. 163

456




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