Giustizia Tributaria 2009 n. 3

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comitato scientifico Fabrizio Amatucci

ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Massimo Basilavecchia

ordinario di diritto tributario Università di Teramo Silvia Cipollina

ordinario di diritto tributario Università di Pavia Angelo Contrino

associato di diritto tributario italiano ed europeo Università di Modena e Reggio Emilia Daria Coppa

straordinario di diritto tributario Università di Palermo Roberto Cordeiro Guerra

straordinario di diritto tributario Università di Firenze Francesco Fichera

ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Suor Orsola Benincasa Stefano Fiorentino

associato di diritto tributario Università di Salerno Maria Cecilia Fregni [coordinamento]

ordinario di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Gianfranco Gaffuri

ordinario di diritto tributario Università di Milano Carlo Garbarino

associato di diritto tributario Università Bocconi Alessandro Giovannini

ordinario di diritto tributario Università di Siena Manlio Ingrosso

ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Agostino Ennio La Scala

associato di diritto tributario Università di Palermo Maurizio Logozzo

straordinario di diritto tributario Università Cattolica del Sacro Cuore

comitato direttivo Claudio Consolo ordinario di diritto processuale civile Università di Padova

Lorenzo del Federico ordinario di diritto tributario Università di Chieti e Pescara

Antonio Lovisolo

Salvatore Sammartino

associato di diritto tributario Università di Genova

ordinario di diritto tributario Università di Palermo

Alberto Marcheselli

Giuliano Tabet

associato di diritto tributario Università di Torino Enrico Marello

associato di diritto tributario Università di Torino Sebastiano Maurizio Messina

ordinario di diritto tributario Università di Verona

ordinario di diritto tributario Università di Roma - La Sapienza

Francesco Tesauro ordinario di diritto tributario Università degli Studi di Milano - Bicocca

Salvatore Muleo

straordinario di diritto tributario Università della Calabria Mario Nussi

associato di diritto tributario Università di Udine Raffaele Perrone Capano

ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Federico II Maria Cristina Pierro

associato di diritto tributario Università dell’Insubria Francesco Pistolesi

straordinario di diritto tributario Università di Siena Roberto Schiavolin

ordinario di diritto tributario Università di Padova Loris Tosi

ordinario di diritto tributario Università di Venezia - Ca’ Foscari Alessandro Turchi

associato di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Giuseppe Zizzo

straordinario di diritto tributario Università LIUC - Castellanza comitato di redazione Christian Califano Filippo Cicognani Alessandra Magliaro Annalisa Pace Alessandra Villecco [coordinamento]

www.giustiziatributaria.it


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hanno collaborato a questo numero Vito Achilli

dottorando di ricerca in diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Davide Borgni

dottorando di ricerca in diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Pier Paolo Cairo

dottorando di ricerca in diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Giovanni Caliceti

avvocato in Bologna Riccarda Castiglione

dottore di ricerca in diritto tributario europeo Filippo Cicognani

ricercatore di diritto tributario, Università di Bologna - sede di Forlì Angelo Contrino

professore associato di diritto tributario italiano ed europeo, Università di Modena e Reggio Emilia Luca De Rosa

dottore commercialista in Salerno Chiara Di Cola

dottoranda di ricerca in diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Ambra Fabri

dottoressa in giurisprudenza Maria Cecilia Fregni

professore ordinario di diritto tributario, Università di Modena e Reggio Emilia Marco Galdi

professore associato di diritto costituzionale avanzato, Università di Salerno Silvia Giorgi

dottoressa in giurisprudenza Alessandra Magliaro

ricercatrice di diritto tributario, Università di Trento Gabriele Marini

dottore di ricerca in diritto tributario Michele Mauro

dottore di ricerca in diritto tributario; professore a contratto di diritto tributario dell’impresa e diritto tributario internazionale, Università della Calabria Diana Muraro

dottoranda di ricerca in diritto tributario, Università di Padova Mario Nussi

professore associato di diritto tributario, Università di Udine

direttore responsabile Daniela Artioli redazione Maria Pia Petrei stampa Logo (Borgoricco PD) progetto grafico Avenida (Modena) © Gedit edizioni, gennaio 2010 via Irnerio 12/5, 40126 Bologna tel. 051 4218740, fax 051 4210565, mail@gedit.com, www.gedit.com ISSN 1590-5381 Abbonamento 12 mesi: 7 160,00 Singolo fascicolo 7 50,00 I materiali per la pubblicazione vanno inviati per posta elettronica a redazione@giustiziatributaria.it oppure via fax al n. 051 4210565. Gli autori devono uniformarsi ai criteri redazionali che possono essere richiesti via e-mail all’indirizzo sopra indicato.


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DOTTRINA SAGGI Riflessioni in tema di cartelle esattoriali e responsabile del procedimento di Marco Galdi

253

Cooperazione fra autorità fiscali, accertamento tributario e garanzie del contribuente di Riccarda Castiglione

258

Note relative al silenzio dell’amministrazione finanziaria e alle forme di tutela del contribuente di Pier Paolo Cairo

270

NOTE A SENTENZA La disciplina degli studi di settore, tra automatismi accertativi dell’amministrazione finanziaria e ricerca di punti fermi da parte della giurisprudenza di merito di Diana Muraro

284

Il mancato perfezionamento dell’accertamento con adesione per omissione del versamento di Davide Borgni

289

Abuso del diritto: profili sostanziali, procedimental-processuali e sanzionatori di Mario Nussi

320

Sul “vincolo di destinazione” quale nuovo presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni di Angelo Contrino

338

Note in tema di decadenza dall’agevolazione fiscale per l’acquisto della prima casa di Vito Achilli

346

In tema di frodi Iva nel commercio di automobili: riflessioni sugli oneri di prova di Chiara Di Cola

356

Operazioni soggettivamente inesistenti, reverse charge e indeducibilità dei costi di Gabriele Marini

366

Impugnabilità della cartella di pagamento, emessa a seguito di liquidazione ex art. 36-bis, D.P.R. 600/1973, per insussistenza del presupposto d’imposta di Luca De Rosa

371

L’inapplicabilità delle sanzioni amministrative tributarie per difetto di imputabilità di Silvia Giorgi

377

Non applicabilità di sanzioni all’omesso versamento di ritenute alla fonte per titolo anteriore all’inizio delle procedure concorsuali di Michele Mauro

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GIURISPRUDENZA ACCERTAMENTO Commissione tributaria provinciale di Gorizia, sez. I, 20 febbraio 2008, n. 193 Accertamento - Studi di settore - Rettifica incentrata sulle sole risultanze dello studio - Mancata dimostrazione della coincidenza con la situazione di normalità economica - Illegittimità dell’accertamento

280

Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. VIII, 5 novembre 2008, n. 226 Accertamento - Studi di settore - Rettifica incentrata sulle sole risultanze dello studio - Necessità di indizi comprovanti lo scostamento tra ricavi dichiarati e ricavi accertamenti e l’esistenza delle “gravi incongruenze” di cui all’art. 62-sexies, comma 3, D.L. 331/1993 - Accertamento fondato solo sugli studi di settore - Illegittimità

281

Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. XV, 14 gennaio 2009, n. 4 Accertamento - Studi di settore - Rettifica incentrata sulle sole risultanze dello studio - Carenza di un’indagine volta ad individuare la concreta situazione nella quale versa il soggetto - Illegittimità dell’accertamento per difetto di motivazione

282

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XXII, 3 marzo 2009, n. 71 Accertamento - Studi di settore - Rettifica incentrata sulle sole risultanze dello studio - Assenza di argomentazioni in ordine agli elementi addotti dal contribuente in sede di contraddittorio anticipato - Illegittimità dell’accertamento per difetto di motivazione nota di Diana Muraro

283

Commissione tributaria provinciale di Vercelli, sez. I, 9 marzo 2009, n. 14 Accertamento - Accertamento con adesione - Mancato versamento del dovuto o della prima rata - Mancato perfezionamento dell’accertamento con adesione - Conseguenze - Avviso di accertamento avente per oggetto il maggior imponibile concordato - Legittimità nota di Davide Borgni

288

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. VIII, 19 maggio 2009, n. 149 Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Svalutazione di una partecipazione conseguente ad una diminuzione del patrimonio netto della controllata che non derivi da una variazione di valore dell’avviamento iscritto in bilancio - Assenza dell’effettiva necessità di adeguare i valori alla situazione oggettiva - Applicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Inopponibilità al fisco

296

Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. LIII, 8 maggio 2009, n. 207 Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Donazione di immobile ai figli - Ricomprensione nell’art. 37-bis, comma 3, D.P.R. 600/1973 - Insussistenza

299

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VII, 22 aprile 2009, n. 41 Accertamento - Elusione - Imposta di registro - Riqualificazione della costituzione di società a responsabilità limitata con conferimento di ramo d’azienda e successiva cessione della partecipazione come cessione d’azienda - Valenza antielusiva dell’art. 20, D.P.R. 131/1986 - Insussistenza - Applicabilità della regola generale antiabuso al caso di specie - Irrilevanza

300

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XX, 7 aprile 2009, n. 118 Accertamento - Elusione - Imposta di registro - Liquidazione dell’imposta - Agevolazioni “prima casa” - Previa compravendita di quote di altri immobili ai propri figli - Inapplicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Irrilevanza - Applicabilità della regola generale antiabuso - Inopponibilità al fisco

302

Accertamento - Elusione - Operazione da considerare elusiva ai sensi della clausola antielusiva generale - Operazione anteriore al consolidarsi della giurisprudenza su tale clausola - Sanzioni - Inapplicabilità Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXVI, 1 aprile 2009, n. 26 Accertamento - Elusione - Imposte in genere - Contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo stipulato in luogo della mascherata compravendita tra soggetti dello stesso gruppo - Assenza di valide ragioni economiche - Simulazione - Inapplicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Irrilevanza - Applicabilità della regola generale antiabuso

304

Accertamento - Elusione - Clausola generale antielusiva - Applicazione ad operazioni anteriori alla recente giurisprudenza Sanzioni - Inapplicabilità Commissione tributaria regionale della Liguria, sez. I, 18 marzo 2009, n. 25 Accertamento - Elusione - Imposte doganali e diritti di confine - Società collegata che agisca nella solo apparente autonomia rispetto alla controllante - Abuso del diritto - Rilevanza - Inopponibilità all’amministrazione finanziaria - Configurabilità della soggettività passiva in capo alla controllante - Sussistenza

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Commissione tributaria di I grado di Trento, sez. V, 2 febbraio 2009, n. 8 Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Donazione di immobile alla moglie - Successiva compravendita ad un prezzo analogo al valore di donazione - Effettività doppio trasferimento - Abuso del diritto - Insussistenza

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Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sez. III, 28 gennaio 2009, n. 6 Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Operazioni straordinarie di fusione e scissione, in alternativa ad operazioni di altro genere (cessione di quote sociali) - Diritto dell’imprenditore di scegliere la forma di conduzione dei propri affari - Lecito risparmio d’imposta - Inapplicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Mero aggiramento di norme - Sanzioni Inapplicabilità

310

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XXXVII, 29 aprile 2008, n. 35 Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Cessioni di crediti realizzate in collegamento negoziale - Applicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Sussistenza di valide ragioni economiche - Prova - Onere a carico del contribuente

312

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XVII, 25 febbraio 2008, n. 2 Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Acquisto e cessione di azioni alla società controllante ad un prezzo decisamente inferiore al prezzo di acquisto - Aggiramento della norma sulle valutazioni dei titoli immobilizzati - Insussistenza valide ragioni economiche - Applicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Mero aggiramento di norme - Sanzioni - Inapplicabilità

314

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XXXIV, 14 febbraio 2008, n. 9 Accertamento - Elusione - Imposte in genere - Plusvalenze generate da un contratto di sale and lease back e da un conferimento d’azienda - Utilizzo di perdite pregresse - Inapplicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973

317

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 8 febbraio 2008, n. 10 Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Plurimi trasferimenti di immobile che ritorna al primitivo proprietario rivalutato in totale esenzione d’imposta - Applicabilità della regola generale antiabuso derivante dall’ordinamento comunitario

318

Commissione tributaria regionale della Lombardia, Brescia, sez. LXIII, 7 febbraio 2008, n. 290 Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Utilizzo del disavanzo di fusione dopo l’affrancamento mediante pagamento di imposta sostitutiva - Aggiramento di norme tributarie - Insussistenza - Inapplicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 nota di Mario Nussi

319

ACCERTAMENTO E PROCESSO TRIBUTARIO Commissione tributaria di II grado di Trento , sez. I, 14 novembre 2008, n. 91 Accertamento - Avviso di accertamento - Mancanza di sottoscrizione - Nullità

326

Processo tributario - Azione di nullità - Assenza di limiti temporali - Domanda di dichiarazione della nullità di un atto non impugnato, in occasione dell’impugnazione di un atto successivo - Ammissibilità

ICI Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. XII, 1 luglio 2009, n. 76 Ici - Agevolazioni ed esenzioni - Abitazione principale - Estensione dell’esenzione dell’abitazione alle pertinenze - Autorimesse accatastate in modo distinto, ma utilizzate unitariamente - Rilevanza della nozione civilistica di pertinenza - Irrilevanza delle norme regolamentari comunali

329

IMPOSTA DI REGISTRO Commissione tributaria regionale del Veneto, Verona, sez. XXV, 9 giugno 2008, n. 20 Imposta di registro - Atti e contratti - Negozio di trust - Natura di prestazione a contenuto patrimoniale - Sussistenza - Imposta di registro in misura proporzionale - Applicabilità - Anticipazione da detrarre da quanto dovuto sull’assegnazione dei beni al beneficiario dopo la cessazione del trust

331

IMPOSTA SULLE SUCCESSIONI E DONAZIONI Commissione tributaria provinciale di Lodi, sez. I, 12 gennaio 2009, n. 12 Imposta sulle successioni e donazioni - Trasferimento in trust di beni d’impresa - Finalità liquidatoria del trust - Vincolo di destinazione - Insussistenza - Imposta sulle donazioni - Inapplicabilità

335

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. VIII, 12 febbraio 2009, n. 30 Imposta sulle successioni e donazioni - Costituzione di patrimonio in trust - Beneficiari finali non individuati - Imposta sulle donazioni - Inapplicabilità - Imposta di registro in misura fissa - Applicabilità nota di Angelo Contrino

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IRPEF Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 28 gennaio 2009, n. 33 Irpef - Redditi diversi - Plusvalenze da lottizzazione - Terreni acquisiti per successione ereditaria - Cessione di poco successiva all’inizio delle opere di urbanizzazione - Determinazione del valore - Valore corrispondente alla differenza tra corrispettivo e costo delle opere - Fattispecie - Plusvalenza - Esclusione

343

IVA Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. IX, 3 marzo 2008, n. 62 Iva - Agevolazioni prima casa - Requisito del trasferimento entro diciotto mesi - Dies a quo - Data dell’acquisto - Mancato trasferimento anagrafico nei diciotto mesi dall’acquisto - Decadenza - Concessione di abitabilità - Irrilevanza - Ritardi nella consegna dell’immobile per lavori di ristrutturazione - Irrilevanza - Trasferimento di fatto - Irrilevanza nota di Vito Achilli

345

Commissione tributaria provinciale di Pesaro, sez. IV, 28 maggio 2009, n. 68 Iva - Detrazioni - Acquisto di autovetture usate in ambito comunitario - Applicazione del regime del margine ex art. 36, D.L. 41/1995 - Presupposti - Titolarità originaria risultante dal libretto di circolazione - Prova insufficiente - Onere della prova gravante sull’ufficio finanziario

349

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. III, 29 aprile 2008, n. 25 Iva - Detrazioni - Acquisto di autovetture usate in ambito comunitario - Applicazione del regime del margine ex art. 36, D.L. 41/1995 - Prova della insussistenza dei presupposti - Onere gravante sull’ufficio finanziario

352

Commissione tributaria provinciale di Campobasso, sez. I, 29 aprile 2009, n. 131 Iva - Detrazioni - Fatture relative ad acquisti soggettivamente inesistenti - Partecipazione del contribuente all’accordo simulatorio o consapevolezza, o possibilità di consapevolezza, della frode - Onere di prova a carico dell’ufficio

353

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. X, 18 ottobre 2008, n. 199 Iva - Detrazioni - Fatture relative ad acquisti soggettivamente inesistenti - Partecipazione del contribuente all’accordo simulatorio o consapevolezza, o possibilità di consapevolezza, della frode - Onere di prova a carico dell’ufficio nota di Chiara Di Cola

355

IVA E IRPEF Commissione tributaria provinciale dell’Aquila, sez. III, 30 dicembre 2008, n. 237 Iva - Operazioni soggettivamente inesistenti - Prova presuntiva dell’ufficio - Omessa controprova del contribuente - Detrazione dell’Iva ex art. 19, D.P.R. 633/1972 - Esclusione

363

Iva - Acquisto intracomunitario - Omessa integrazione ex art. 46, D.L. 331/1993 - Riconoscimento della detrazione dell’Iva non autofatturata - Sussistenza Irpef - Art. 14, comma 4-bis, L. 537/1993 - Indeducibilità dei costi sostenuti per conseguire proventi illeciti - Operazioni inesistenti solo dal punto di vista soggettivo - Costi effettivamente sostenuti - Deducibilità nota di Gabriele Marini

PROCESSO TRIBUTARIO Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. IV, 29 settembre 2008, n. 365 Processo tributario - Atti impugnabili - Cartella di pagamento - Somme liquidate ex art. 36-bis, D.P.R. 600/1973 - Irap iscritta a ruolo per effetto della compilazione del quadro IQ - Impugnabilità della cartella per insussistenza del presupposto dell’imposta nota di Luca De Rosa

370

RISCOSSIONE Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. IV, 9 giugno 2008, n. 59 Riscossione - Cartella di pagamento - Omessa indicazione del responsabile del procedimento Conseguenze - Art. 7, comma 2, lett. a, L. 212/2000 - Nullità

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SANZIONI AMMINISTRATIVE Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXI, 24 ottobre 2008, n. 313 Sanzioni amministrative - Grave malattia del contribuente - Inapplicabilità - Imputabilità - Insussistenza nota di Silvia Giorgi

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Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 22 gennaio 2009, n. 20 Sanzioni amministrative - Procedura concorsuale di amministrazione controllata - Ritenute sul reddito di lavoro dipendente con titolo anteriore ma termine successivo all’ inizio della procedura - Omesso versamento - Sanzione - Illegittimità - Imprenditore tornato in bonis - Mancato versamento spontaneo delle ritenute - Punibilità - Esclusione nota di Michele Mauro

380

ATTI E INTERVENTI La compensazione delle spese di lite alla luce del novellato art. 92 c.p.c: riflessi sul processo tributario di Giovanni Caliceti

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Rassegna delle prassi degli uffici nella gestione delle controversie tributarie (gennaio 2008 - giugno 2009) di Alessandra Magliaro

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Indice cronologico delle sentenze

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RIFLESSIONI IN TEMA DI CARTELLE ESATTORIALI E RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO di Marco Galdi cazione del responsabile del procedimento anche per gli atti degli agenti della riscossione. A suo giudizio, infatti, questa previsione è funzionale ad assicurare «la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino e la garanzia del diritto di difesa»1. L’ordinanza ha, di fatto, determinato la giurisprudenza del giudice tributario ad essa successiva, nel senso di indurlo a considerare nulla la cartella priva dell’indicazione del responsabile del procedimento2. Non ha però vincolato la Corte, che con la successiva sentenza n. 58 del 27 febbraio 2009 opera un “aggiustamento di tiro” forse poco coerente, idoneo però ad evitare un grave pregiudizio per il servizio di riscossione. Nella citata decisione, infatti, la Corte afferma che l’art. 7, comma 2, lett. a della legge n. 212/2000 nulla statuisce circa le conseguenze della omessa indicazione e fa salvo così l’art. 36, comma 4-ter, del D.L. 31 dicembre 2007, n. 2483, frattanto intervenuto, 1. I termini della vicenda: dalla conferma della “tassati- «nella parte in cui dispone che non è causa di nullità la mancata vità” dell’indicazione del responsabile del procedimen- indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pato per le cartelle di pagamento, nell’ordinanza della gamento relative a ruoli consegnati prima del 1 giugno 2008»4. Corte costituzionale n. 377/2007, alla esclusione della nullità in caso di omissione, nella sentenza n. 58/2009 2. All’origine dell’ordinanza n. 377/2007: l’ordinanza La vicenda induce a riflettere sull’influenza che anche una ordi- di rinvio della Commissione tributaria regionale di nanza succintamente motivata della Corte costituzionale può Venezia e la asserita nullità della cartella di pagamenprodurre sui giudizi di merito e sull’ordinamento giuridico nel to priva dell’indicazione del responsabile del procedisuo complesso, pur senza vincolare le successive statuizioni della mento Corte. Meglio procedere con ordine. La Commissione tributaria regioCon l’ordinanza n. 377 del 9 novembre 2007, la Corte dichiara- nale di Venezia proponeva questione di legittimità costituzionava manifestamente infondata la questione di legittimità costitu- le dell’art. 7, comma 2, lett. a della legge 27 luglio 2000, n. 2125, zionale dell’art. 7, comma 2, lett. a della legge n. 212/2000 (il cd. in base al seguente ragionamento: disposizioni come quella che “Statuto del contribuente”), che richiede “tassativamente” l’indi- prevede l’obbligatoria (rectius: “tassativa”) indicazione del respon1. I termini della vicenda: dalla conferma della “tassatività” dell’indicazione del responsabile del procedimento per le cartelle di pagamento, nell’ordinanza della Corte costituzionale n. 377/2007, alla esclusione della nullità in caso di omissione, nella sentenza n. 58/2009 2. All’origine dell’ordinanza n. 377/2007: l’ordinanza di rinvio della Commissione tributaria regionale di Venezia e la asserita nullità della cartella di pagamento priva dell’indicazione del responsabile del procedimento 3. Critica dell’ordinanza n. 377/2007: meglio una sentenza interpretativa di rigetto o un’ordinanza di inammissibilità per difetto di rilevanza - 4. L’ incidenza dell’ordinanza della Corte sui giudizi di merito e l’intervento di urgenza del Governo (D.L. 248/2007) - 5. La Corte aggiusta il tiro con la sentenza n. 58/2009, ma oramai le conseguenze si sono prodotte

1 L’ordinanza è pubblicata, fra l’altro, in Boll. Trib., 2007, 1831 ed in Riv. Giur. Trib., 2008, 203. 2 Nella giurisprudenza di merito richiama l’indiscussa influenza dell’ordinanza in commento Comm. trib. prov. Pescara, sez. II, 7 marzo 2008, n. 43, in questa rivista, 2, 2008, 337, che ritiene contenga «chiare affermazioni, certamente motivazionali, e in certo qual modo “interpretative” se pure non cogenti, stante l’indiscussa autorevolezza della Corte costituzionale». In dottrina v. BASILAVECCHIA, Nota alla rassegna giurisprudenziale in tema di “cartelle mute”, in questa rivista, 2008, 2, 342, il quale ritiene «curioso notare come un’ordinanza di rigetto, che lascia la normativa invariata, abbia prodotto effetti innovativi sul diritto vivente del tutto assimilabili a quelli di una modifica legislativa». Per ulteriori riferimenti giurisprudenziali v., infra, nota 20. 3 Recante Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria, convertito nella legge 28 febbraio 2008, n. 31. 4 Sul tema dell’omessa indicazione del responsabile del procedimento nella cartella di pagamento, a cavallo fra l’ordinanza del-

la Corte costituzionale n. 377 del 2007 e il D.L. 248/2007 (cd. decreto “milleproroghe”) si rinviene una vasta produzione dottrinale: BASILAVECCHIA, Le indicazioni obbligatorie sulle cartelle di pagamento, in Riv. Giur. Trib., 2008, 373 ss.; BUSCEMA, Profili di nullità della cartella esattoriale priva degli elementi essenziali, in Fisco, 2008, 3282 ss.; BUSCIO, Nullità della cartella di pagamento per omessa indicazione del responsabile del procedimento, in Corr. Trib., 2008, 631 ss.; CAZZATO, Indicazione del responsabile del procedimento e regime degli atti “viziati”: riflessioni a margine delle pronunce dei giudici di merito e spunti per una nuova ricostruzione del tema alla luce dell’evoluzione della teoria della invalidità degli atti amministrativi, in Riv. Dir. Trib., 2008, 147 ss.; CERIONI, Contributo sul tema dell’invalidità delle cartelle di pagamento prive dell’indicazione del responsabile del procedimento, in Boll. Trib., 2008, 1061 ss.; CISSELLO, L’indicazione del responsabile del procedimento negli atti tributari, in Fisco, 2008, 2019 ss.; FORTUNA, La valenza giuridica della cartella di pagamento priva di sottoscrizione e senza l’indicazione del responsabile del procedimento , in Fisco ,

2007, 6363 ss.; FRACCASTORO, Indicazione del responsabile del procedimento nella cartella di pagamento alla luce dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 337 del 2007, in Giur. Amm., 2008, 221 ss.; GLENDI, Cartelle di pagamento tra Statuto, Corte costituzionale e decreto “milleproroghe”, in Corr. Trib., 2008, 1150 ss.; MENTI, L’indicazione del responsabile del procedimento nella cartella di pagamento e la nullità per omessa indicazione, in Dir. e Prat. Trib., 2008, 1007 ss.; ORSI, Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di (il)legittimità delle cartelle di pagamento, in Fisco, 2007, 4101 ss.; PERRUCCI, Cartelle esattoriali senza responsabile, in Boll. Trib., 2008, 474 ss.; SCALINCI, Il responsabile del procedimento nelle comunicazioni di iscrizione ipotecaria e la legge di sanatoria 208 per le sole cartelle di pagamento, di dubbia legittimità costituzionale, in Giur. di Merito, 2008, 1180 ss.; SCANDIUZZI, Cartella di pagamento e omessa indicazione del responsabile del procedimento: la crescente rilevanza dello Statuto del contribuente, in Riv. Giur. Trib., 2008, 205 ss. 5 Cfr. ord. 11 gennaio 2006, pubblicata in G.U., prima serie speciale, n. 20 del 2007.


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sabile del procedimento «si attagliano bene all’attività procedimentale che gli uffici della pubblica amministrazione in senso proprio sono tenuti a svolgere al fine di emettere un provvedimento destinato ad incidere nella sfera giuridica del destinatario, mentre, al contrario, l’attività svolta dai concessionari della riscossione al fine di formare la cartella non pare configurabile come un vero e proprio procedimento»6. Così argomentando, il giudice remittente denunciava l’irragionevolezza della disposizione censurata, nella misura in cui si assumeva trattasse in modo simile situazioni diverse, quali quelle ascrivibili all’amministrazione finanziaria ed al concessionario, nonché contrastasse con i principi di efficienza, economicità ed efficacia, espressi dalla clausola costituzionale del buon andamento (art. 97, Cost.). È chiara la preoccupazione sottesa al ragionamento del remittente: se l’indicazione del responsabile del procedimento deve “tassativamente” prevedersi nella cartella di pagamento, ne discendeva una conseguenza assolutamente sproporzionata, data la natura della cartella, quella cioè della nullità. Questione mal posta, evidentemente: il giudice a quo avrebbe dovuto interpretare l’art. 7, comma 2, lett. a dello Statuto del contribuente alla luce dell’art. 5, comma 2, della legge

6 L’esemplificazione compiuta dal giudice remittente rende ancora più chiaro il suo ragionamento: «tali attività, in vero, non sono aperte alla partecipazione, non si mettono a confronto interessi pubblici fra loro, e con quelli privati di cui sono portatori i contribuenti; non vi è alcun margine di apprezzamento da parte degli uffici, ecc.». 7 Propende per l’irregolarità non invalidante della cartella di pagamento priva dell’indicazione del responsabile del procedimento BUSCIO, Nullità della cartella di pagamento per omessa indicazione del responsabile del procedimento, in Corr. Trib., 2008, 631 ss. 8 Cfr. Comm. trib. prov. Torino 1/2008, cit., in cui si contesta che l’indicazione di cui all’art. 7, comma 2, lett. a , della legge 212/2000 del responsabile del procedimento costituisca un elemento essenziale dell’atto ai sensi dell’art. 21-septies della legge 241/1990: «gli elementi essenziali perché possa venire ad esistenza un atto amministrativo sono, notoriamente, il soggetto, l’oggetto, il contenuto, la forma e la finalità del medesimo: l’indicazione del responsabile non attiene certamente né al soggetto, né all’oggetto, né alla finalità dell’atto, per cui non resta che esaminare in quale relazione essa si ponga con gli altri due elementi. La forma dell’atto amministrativo è, per sua natura, libera, e assume valore essenziale solo quando è prescritta dalla legge: nella specie, è evidente che l’atto deve rivestire la forma scritta e, una volta cha a ciò si ottemperi, come nel nostro caso, sotto tale profilo esso è perfetto, e la mancata indicazione del responsabile non assume rilievo alcuno. Il contenuto, dal canto suo, si sostanzia nella statuizione o enunciazione in cui l’atto consiste, e cioè nel suo dispositivo, che può essere, a seconda dei casi, un ordine, un’autorizzazione, una certificazione, un parere e così via: il requisito del quale si discute non appartiene, quindi , al contenuto dell’atto». La Commissione argomenta, inoltre, che se è vero che l’art. 7 richiede l’indicazione del responsabile del procedimento «tassativamente», non lo fa «a pena di nullità». E aggiunge: «ciò non to-

241/1990, con conseguente individuazione del responsabile del procedimento, in caso di sua omessa indicazione nella cartella, nel funzionario preposto all’ufficio7; ovvero, tutt’al più, avrebbe dovuto considerare “annullabile” la cartella stessa, non integrando la omessa indicazione del responsabile del procedimento l’ipotesi di mancanza di elemento essenziale dell’atto (e non rientrando, quindi, in uno dei casi generali di nullità previsti dall’art. 21-septies dalla legge 241/19908), né costituendo un’ulteriore causa di nullità, espressamente comminata dalla legge9. E, conseguentemente, il remittente si sarebbe dovuto interrogare, quantomeno, circa l’applicabilità dell’art. 21-octies della legge generale sul procedimento che, al secondo comma, dispone non essere annullabile il provvedimento amministrativo «adottato in violazione di norme sul procedimento e sulla forma degli atti, qualora per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»10. Questione, tuttavia, di certo esistente, se in giurisprudenza non poche erano le pronunce in cui si concludeva senz’altro per la nullità della cartella priva dell’indicazione del responsabile del procedimento11.

glie, però, che nella specie si sia indubbiamente verificata una violazione di legge, in quanto l’individuazione in oggetto è prescritta “tassativamente”, cioè inderogabilmente, per cui l’atto in questione sarebbe annullabile a norma del primo comma dell’art. 21-octies della L. n. 241/1990». Sempre che, si deve però aggiungere, non soccorra il riferimento al secondo comma del citato art. 21-octies. 9 Cfr. Comm. trib. reg. Veneto, sez. XIV, 17 gennaio 2008, n. 49, in questa rivista, 2008, 2, 325 ss., la quale richiama il principio generale secondo cui «la nullità dell’atto è sanzione così grave che deve essere prevista espressamente dal legislatore». Cfr. Comm. trib. prov. Lecce, sez. XI, 4 marzo 2008, n. 56, in questa rivista, 2008, 2, 325 ss. Evidenzia l’assenza nell’ordinamento di disposizioni comminanti la nullità delle cartelle prive dell’indicazione del responsabile del procedimento LA MEDICA, Riscossione: illegittimità della cartella di pagamento, in Corr. Trib., 2008, 6, 463. Contra FORTUNA, La valenza giuridica della cartella di pagamento priva di sottoscrizione e senza l’indicazione del responsabile del procedimento, in Fisco, 2007, 6363 ss., per il quale «la previsione espressa della nullità per l’eventualità dell’omissione appare certamente equipollente alla formale prescrizione di tassatività dell’obbligo, se e quando questo rimanga inosservato». Anche la giurisprudenza amministrativa è costante nel ritenere che le cause di nullità del provvedimento amministrativo debbano oggi intendersi quale numero chiuso. Cfr. Cons. di Stato, sez. V, 28 febbraio 2006, n. 891. V., anche, Cons. di Stato, sez. IV, 27 ottobre 2005, n. 6023, per il quale «il provvedimento amministrativo può considerarsi assolutamente nullo o inesistente solo nelle ipotesi in cui esso sia espressamente qualificato tale dalla legge oppure manchi dei connotati essenziali dell’atto amministrativo, necessario ex lege a costituirlo, quali possono essere la radicale carenza di potere da parte dell’autorità procedente, ovvero il difetto della forma, della volontà, dell’oggetto o del destinatario». In dottrina si rinvia, fra glia altri, a LACAVA, L’invalidità del prov-

vedimento amministrativo dopo la legge 15/2005: nullità e annullabilità, in Amministrazione in cammino e, prima della legge 15/2005, VIPIANA PERPETUA, Gli atti amministrativi: vizi di legittimità e di merito, cause di nullità ed irregolarità, Padova, 2003. 10 Sul tema v. Comm. trib. prov. Torino, sez. VII, 12 febbraio 2008, n. 1, in questa rivista, 2008, 2, 327 ss., per la quale «ancorché difforme dallo schema normativo, la cartella di pagamento priva dell’indicazione del responsabile del procedimento non è nulla, non ricorrendo i requisiti previsti dall’art. 21septies della legge n. 241/1990, né annullabile, dato che l’art. 21-octies della stessa legge preclude l’annullamento dell’atto vincolato quando il contenuto dell’atto non subirebbe modifiche dall’eliminazione del vizio formale». Nel caso di specie, non par dubbio, infatti, che la cartella di pagamento costituisca un atto a contenuto vincolato, in quanto, per espressa previsione normativa, riproduce integralmente il ruolo formato e consegnato dall’ente creditore. Cfr. art. 25, comma 23, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 e art. 6 del D.M. n. 321 del 1999. 11 Cfr., anche di recente, Comm. trib. prov. Piacenza, sez. II, 13 dicembre 2007, n. 103, in questa rivista, 2008, 2, 317 ss., per la quale «l’applicazione dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, la cartella di pagamento priva dell’indicazione del responsabile dl procedimento deve essere considerata insanabilmente nulla», in quanto «il tenore del disposto non lascia spazio ad interpretazione alcuna». Non sono mancate, però, pronunce nelle quali il giudice tributario ha ritenuto necessaria una valutazione di merito, circa la lesione o meno del diritto di difesa del debitore. Cfr. Comm. trib. prov. Milano, sez. XLI, 6 dicembre 2007, n. 510, in questa rivista, 2, 2008, 316 ss., per la quale «l’invalidità della cartella di pagamento per mancata indicazione del responsabile del procedimento non può essere assunta apoditticamente, ma va considerata collegata e funzionale al diritto di difesa; ove tale diritto non risulti leso, né risulti privo di informazione il debitore, la cartella non è invalida».


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3. Critica dell’ordinanza n. 377/2007: meglio una sentenza interpretativa di rigetto o un’ordinanza di inammissibilità per difetto di rilevanza Fatto sta che alla questione mal posta ha seguito una decisione non proprio condivisibile. La Corte, infatti, con l’ordinanza n. 377/2007, dichiarava la questione manifestamente infondata, sull’assunto che «ogni provvedimento amministrativo è il risultato di un procedimento, sia pure il più scarno ed elementare, richiedendo, quanto meno, atti di notificazione e di pubblicità». E concludeva: «l’obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, comma 1, Cost.». Le argomentazioni della Corte meritano una verifica. In primis: non pare del tutto accettabile la ricostruzione, che equipara la cartella di pagamento al provvedimento amministrativo. La cartella, in buona sostanza, è un estratto del ruolo, frutto cioè di una attività meramente esecutiva, che ha poco a che fare con il procedimento amministrativo, nel quale invece si compie la funzione decisoria dell’amministrazione12. Ma soprattutto: una volta qualificata la cartella di pagamento quale «provvedimento amministrativo», in coerenza con l’asserita applicabilità anche ai procedimenti tributari della legge generale sul procedimento13, la Corte doveva pervenire nell’ordinanza n. 377/2007 a conclusioni ben diverse dalla manifesta infondatezza. Essa avrebbe dovuto dichiarare la questione proposta «infondata nei sensi di cui alla motivazione», con una sentenza interpretativa di rigetto, nella cui motivazione si evidenziasse come l’omissione dell’indicazione del responsabile del procedimento non potesse comunque dar luogo a vizio, dovendosi applicare la nor-

12 In questo senso, l’idea di fondo del giudice remittente non pare poi così peregrina. 13 Cfr. ord. 377/2007, ultimo considerando, in cui si richiama anche la precedente ordinanza n. 117 del 2000, relativa all’obbligo di motivazione della cartella di pagamento. 14 Sulla figura del responsabile del procedimento nella legge 241/1990 v., fra glia altri, RENNA, Il responsabile del procedimento nell’organizzazione amministrativa, in Dir. Amm., 1994, 13 ss.; NAVARRA, Il responsabile del procedimento amministrativo nella pubblica amministrazione, Rimini 1998 e, più di recente, LIPARI, Primo piano. Il responsabile del procedimento: i problemi aperti, in Corriere del merito, 2008, 533 ss.; RAMPULLA, I principi generali della L. 241/1990 e s.m. e il responsabile del procedimento, in Foro Amm., 2008, 641 ss. 15 Conferma la legittimità dei provvedimenti privi dell’indicazione del responsabile del procedimento copiosa giurisprudenza del giudice amministrativo. Cfr. Cons. di Stato, 21 maggio 2007, n. 2545; Id., 7 settembre 2006, n. 5186; Id., 21 ottobre 2005, n. 5935; Id., sez. VI, 25 giugno 2002, n. 3459; Id., sez. VI, 14 aprile 1999, n. 433 e, fra le pronunce di primo grado, cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 3 luglio 2007, n. 5900; Id., 3 ottobre 2006, n. 9876. La stessa giurisprudenza ha anche ritenuto che l’omessa indicazione dell’ufficio e del responsabile del procedimento «non è causa dell’illegittimità del provvedimento formale perché non

ma suppletiva di cui all’art. 5, comma 2, della stessa legge n. 241 del 1990, a tenore della quale, in carenza della prevista indicazione del responsabile del procedimento, deve considerarsi tale il funzionario preposto all’unità organizzativa competente14. Assunto questo, peraltro, condiviso da costante giurisprudenza amministrativa15 ed anche, talora, dal giudice tributario16. Ma pure a voler ritenere, per tornare al nodo irrisolto del rapporto fra il diritto amministrativo e quello tributario, che la previsione di cui all’art. 7, comma 2, della legge 212/2000, nell’imporre “tassativamente” gli obblighi ivi sanciti, costituisca una disciplina speciale e derogatoria, che come tale preveda obbligatoriamente l’indicazione del responsabile del procedimento (non potendosi quindi ricorrere alla norma suppletiva di cui all’art. 5, comma 2, della legge 241/1990), la Corte avrebbe dovuto pronunciarsi sulla irrilevanza della questione proposta, nella misura in cui l’omessa indicazione del responsabile del procedimento si sarebbe comunque configurata quale vizio determinante l’annullabilità della cartella di natura “formale”, richiedente una valutazione specifica da parte del rimettente (che non vi è stata circa la sussistenza dei presupposti di cui al citato art. 21-octies, comma 2, della stessa legge 241/199017. 4. L’incidenza dell’ordinanza della Corte sui giudizi di merito e l’intervento di urgenza del Governo (D.L. 248/2007) Nulla di tutto ciò: una ordinanza di manifesta infondatezza, in cui si ribadisce che l’indicazione del responsabile del procedimento nella cartella di pagamento costituisce un “obbligo” direttamente discendente dall’art. 7 dello Statuto del contribuente. Cosa poteva significare una tale asserzione? Francamente, null’altro se non l’opzione, appena celata, della Consulta a favore della nullità della cartella18. Se, infatti, la Corte non aveva espressamente considerato “nulla” la cartella priva dell’indicazione del responsabile del procedi-

determina un vuoto procedimentale, ma se mai, una irregolarità rilevante agli effetti dell’imputazione della responsabilità». Cfr. T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 29 giugno 2007, n. 795; T.A.R. Toscana, Firenze, sez. I, 1 settembre 2005, n. 4287; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. II, 30 novembre 1996, 1730. 16 Cfr. Comm. trib. reg. Veneto, sez. XIV, 17 gennaio 2008, n. 49, cit., per la quale «l’obbligatoria indicazione del responsabile del procedimento non comporta, in caso di omissione, la nullità dell’atto, che l’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente non prevede, ma la responsabilità disciplinare del funzionario e la possibilità di individuare il responsabile non indicato nella persona del titolare dell’ufficio». Per una rassegna aggiornata della giurisprudenza tributaria v., anche, GLENDI, Rassegna di giurisprudenza tributaria, in Corr. Trib., 2008, 485 ss. 17 Sulla natura vincolata della cartella di pagamento v. quanto già detto, retro, alla nota 10. A meno che non si ritenga che la specialità del regime tributario sia tale da escludere anche l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge 241/1990. In termini: Comm. trib. prov. Cosenza, sez. I, 6 maggio 2008, n. 188, in questa rivista, 2, 2008, 341, la quale, appunto, non ritiene applicabile agli atti dell’agente della riscossione l’art. 21-octies, comma 2, «attesa la natura della norma generale del secondo comma dell’art. 21-octies e la natura di norma particolare al set-

tore tributario della norma di cui all’art. 7 della legge 212/2000». Giudica questa ricostruzione coerente con l’impostazione generale della sentenza, seppure propende per una tendenziale applicazione del 21-octies alla materia tributaria BASILAVECCHIA, Nota alla rassegna giurisprudenziale, cit., 343. 18 La qualificazione della sanzione apprestata dall’ordinamento in questo caso non è affatto irrilevante. Cfr. Comm. trib. prov. Cosenza, sez. I, 6 maggio 2008, n. 188, in questa rivista, 2008, 2, 338 ss., per la quale le conseguenze della diversa qualificazione sono evidentemente diverse: «l’annullabilità dell’atto comporta la sua piena efficacia ed esecutività fino alla pronuncia, costitutiva, di annullamento; implica ancora che detto vizio vada tempestivamente eccepito, e cioè vada allegato con l’atto introduttivo del giudizio, tranne i casi eccezionali nei quali, sussistendone i presupposti, possa essere introdotto nel processo come motivo aggiunto (ex art. 24 del D.Lgs. n. 546/1992). La nullità comporta, invece, l’inefficacia dell’atto, la rilevabilità d’ufficio del vizio relativo e il semplice accertamento, con sentenza dichiarativa, della stessa da parte del giudice». A ciò bisognerebbe aggiungere che la qualificazione dell’atto come annullabile ai sensi dell’art. 21-octies, comma 1, della legge 241/1990 apre la strada alla valutazione circa l’applicazione del comma 2 dello stesso articolo, che dispone la possibile sanatoria dei vizi formali.


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mento, l’aver ricondotto l’obbligo ad esigenze fondamentali quali «la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino e la garanzia del diritto di difesa», deponeva indubbiamente in quel senso19. La Corte ha così fondato la sua decisione su un’interpretazione sistematica della disciplina di settore non del tutto condivisibile, che tuttavia, data l’autorevolezza dell’organo, si è dimostrata dotata di peculiare efficacia conformativa. E, infatti, l’interpretazione della Corte, influenzando le successive decisioni dei giudici di merito, rischiava di travolgere, per nullità, migliaia di cartelle già emesse senza la “obbligatoria” indicazione del responsabile del procedimento20. Cosicché, per correre ai ripari, il governo era costretto ad intervenire con il decreto “milleproroghe”, prevedendo la nullità delle cartelle prive dell’indicazione del responsabile del procedimento solo per i ruoli consegnati successivamente al 1 giugno 200821. 5. La Corte aggiusta il tiro con la sentenza n. 58/2009, ma oramai le conseguenze si sono prodotte Ma la Corte “torna sul luogo del delitto”. E, chiamata a giudicare della legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 4-ter, introdotto dal decreto “milleproroghe”, abbandona il precedente indirizzo (implicitamente comportante la nullità della cartella di pagamento) e “salva” tale articolo, con la sentenza n. 58/2009. Questa volta il ragionamento è ineccepibile (anche se sostanzialmente in contrasto con l’ordinanza n. 377/2007): «la legge n.

19 In questo senso v. Cass., sez. trib., 30 gennaio 2004, n. 1771, in Boll. Trib., 2005, 380, per la quale ogni qual volta una norma ponga dei termini o degli adempimenti a tutela del diritto di difesa del contribuente non sarebbe necessario che contenga l’espressa previsione di nullità in caso di sua violazione. Ma v., anche, BASILAVECCHIA, Commento a Cass., 3 dicembre 2007, n. 25158, in Corr. Trib., 2008, 7, 553, nota 6. 20 Che l’ordinanza della Corte costituzionale abbia aperto un filone giurisprudenziale di annullamento delle cartelle cd. “mute”, in quanto prive dell’indicazione del responsabile del procedimento, è ricordato, fra gli altri, da v. D’AGOSTINO, Sono nulle anche le cartelle di pagamento prive dell’indicazione del responsabile del procedimento emesse prima del 1 giugno 2008, in Boll. Trib., 2009, 2, 136. Ma v., anche, MANCUSO, Le cartelle cd. “mute” dopo la novella di cui alla L. n. 31/2008, di conversione del D.L. n. 248/2007, in Fisco, 2008, 7177. Richiamano testualmente nella propria motivazione l’ord. 377/2007, per giustificare l’annullamento della cartella “muta”: Comm. trib. prov. Vicenza, sez. II, 19 dicembre 2007, n. 114, in questa rivista, 2008, 2, 320 ss., per la quale «dopo l’intervento della Corte costituzionale di cui all’ordinanza 377/2007, la cartella di pagamento priva dell’indicazione del responsabile del procedimento deve essere considerata illegittima»; Comm. trib. reg. Lazio, sez. XXXVIII, 25 febbraio 2008, n. 20, ivi, 331; Comm. trib. prov. Lucca, sez. II, 18 dicembre 2007, n. 163, ivi, 319 ss., la quale configura l’indicazione del responsabile del procedimento come elemento essenziale della cartella di pagamento, la cui mancanza inficia tutto il procedimento; Comm. trib. prov. Lecce, sez. II, 20 febbraio 2008, n. 118, ivi, 329 ss.; Comm. trib.

212 del 2000 non precisa gli effetti della violazione dell’obbligo indicato: essa, in particolare, a differenza di quanto fa con riferimento ad altre disposizioni, non commina la nullità per la violazione della disposizione indicata. Né la nullità, in mancanza di un’espressa previsione normativa, può dedursi dai principi di cui all’art. 97 Cost. o da quelli del diritto tributario e dell’azione amministrativa. Deve pertanto escludersi che, anteriormente all’emanazione della disposizione impugnata, alla mancata indicazione del responsabile del procedimento conseguisse la nullità della cartella di pagamento [...]»22. Dunque, se la comminatoria della nullità per le cartelle di pagamento prive dell’indicazione del responsabile del procedimento opera, ex all’art. 36, comma 4-ter della legge 31/2008, solo per quelle emesse in base ai ruoli successivi al 1 giugno 2008, non risulta violato né l’art. 323, né l’art. 2324, né gli artt. 24 e 11125, né, infine, l’art. 97 della Costituzione26. Insomma, una marcia indietro da parte della Corte, che sostanzialmente smentisce il suo recente precedente, ma almeno ha il pregio di limitare i danni dallo stesso, forse inconsapevolmente, generati. Sta di fatto, però, che oggi sarà dichiarata nulla la cartella di pagamento, priva dell’indicazione del responsabile del procedimento, emessa sulla base dei ruoli consegnati successivamente al 1 giugno 200827: non così il provvedimento amministrativo che presenti la stessa lacuna e che sarà, tutt’al più, considerato irregolare, operando la disposizione suppletiva di cui all’art. 5, comma 2, del-

prov. Ferrara, sez. VI, 3 marzo 2008, n. 8, ivi, 332 ss.; Comm. trib. prov. Bari, sez. IV, 14 gennaio 2008, n. 445, ivi, 323 ss.; Comm. trib. prov. Lecce, sez. II, 14 gennaio 2008, n. 517, ivi, 324 ss.; Comm. trib. prov. Treviso, sez. I, 4 febbraio 2008, n. 6, ivi, 326 ss.; Comm. trib. prov. Torino, sez. XXVI, 3 marzo 2008, n. 23, ivi, 334 ss., la quale dichiara espressamente di superare la sua precedente interpretazione sulla base di quella data dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 377/2007, nonostante ne riconosca la natura «non vincolante per il giudice di merito» come per le sentenze della Corte stessa. Dichiarazioni simili si rinvengono anche in Comm. trib. prov. Pescara, sez. II, 7 marzo 2008, n. 43, ivi, 336 ss. 21 Cfr. art. 36, comma 4-ter, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31. Sull’intervento legislativo v., anche, ALEMANNO, Risolti i dubbi sull’indicazione del responsabile del procedimento nella cartella di pagamento, in Corr. Trib., 2008, 1091 ss. 22 Cfr. Corte cost. n. 58/2009, 6 delle considerazioni in diritto. In dottrina, aveva ritenuto che l’art. 36, comma 3-ter del D.L. n. 248/2007 sarebbe uscito indenne dal vaglio della Corte, «perché l’effetto invalidante dell’omessa indicazione del responsabile del procedimento era in effetti assai dubbio, e a ben vedere non è stato neppure affermato dalla Corte costituzionale, la quale ha motivato sulla rilevanza in termini esattamente capovolti», BASILAVECCHIA, Le indicazioni obbligatorie sulle cartelle di pagamento, in Riv. Giur. Trib., 2008, 373 ss. 23 Cfr. Corte cost., n. 58/2009, 6: «perché non è manifestamente irragionevole prevedere, a partire da un certo momento, un effetto più grave, rispetto alla disciplina previgente,

per la violazione di una norma». 24 Ibidem: «perché non viene imposta una nuova prestazione». 25 Ibidem: «in quanto la disposizione impugnata non incide sulla posizione di chi abbia ricevuto una cartella di pagamento anteriormente al termine da essa indicato». 26 Ibidem: «il quale non impone la scelta di un particolare regime di invalidità per gli atti privi dell’indicazione del responsabile del procedimento». 27 Per la verità, non è mancato il caso di una Commissione tributaria che ha ritenuto vano richiamare il contenuto del D.L. 31 dicembre 2007, n. 248 (convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31), per il quale la nullità per la mancata indicazione nella cartella del responsabile del procedimento opera solo a partire dal 1 giugno 2008, perché, «se in base alle predette disposizioni l’ordinamento già prevedeva la nullità delle cartelle prive della suddetta indicazione, il legislatore non può intervenire per spostarne nel tempo la validità». Cfr. Comm. trib. prov. Bari, 14 maggio 2008, n. 101, in Boll. Trib., 2, 2009, 134 ss. Viene spontaneo chiedersi, riflettendo su questa pronuncia, dove sia finito il principio di legalità e il sistema accentrato di legittimità costituzionale. Mentre sembra ancora più sorprendente che vi siano annotazioni adesive: D’AGOSTINO, Sono nulle anche le cartelle di pagamento prive dell’indicazione del responsabile del procedimento, cit., 135 ss., che giudica l’affermazione della Commissione tributaria provinciale di Bari «assolutamente limpida nella sua semplicità». Fra le pronunce, invece, che applicano fedelmente la legge n. 31/2008 v. Comm. trib. prov. Massa Carrara, 7 ottobre 2008, n. 215, in Fisco, 2008, 7394.


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la legge 241/199028; non così gli atti posti in essere dall’amministrazione finanziaria, che pure ai sensi dell’art. 7 della legge n. 212/2000 devono contenere “tassativamente” l’indicazione del responsabile del procedimento, ma che, stando al ragionamento della Corte, non sono nulli nel caso di omessa indicazione, essendo

28 È, in qualche modo, paradossale: per l’emanazione di veri atti amministrativi, non certo delle cartelle di pagamento, si svolge un’attività procedimentale il cui esito è destinato ad incidere nella sfera giuridica del destinatario ed alla quale si ha effettivo interesse a partecipare, rapportandosi con il responsabile del procedimento. 29 Propende, invece, per la nullità tout court degli atti dell’amministrazione finanziaria privi dell’indicazione del responsabile del procedimento SCALINCI, Il responsabile del procedimento nelle comunicazioni di iscrizione ipotecaria e la legge di sanatoria 2008 per le sole cartelle di pagamento, di dubbia legittimità costituzionale, in Giur. di Merito, 2008, 1180 ss., il quale, in particolare, fa il caso dell’iscrizione d’ipoteca effettuata in base ad un titolo fiscale. 30 È, parimenti, paradossale: se le cartelle di

tutt’al più annullabili (sempre che non trovi per essi applicazione il disposto dell’art. 21-octies, comma 2, della legge 241/1990)29; non così, infine, gli altri atti del concessionario (cartella di pagamento esclusa), che parimenti non potranno considerarsi nulli30. Strani effetti di un’ordinanza della Corte costituzionale [...].

pagamento sono atti del concessionario che riproducono atti non suoi, l’invalidità dovrebbe riguardare a maggior ragione gli atti propri del concessionario, come i provvedimenti di fermo, di iscrizione ipotecaria, l’intimazione di pagamento di cui all’art. 50, comma 2, del D.Lgs. 602/1973, ecc. Cfr. Comm. trib. prov. Cosenza, sez. I, 6 maggio 2008, n. 188, in questa rivista, 2008, 2, 338 ss., per la quale «a tutti gli atti del concessionario della riscossione si applica l’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, che rende obbligatoria l’indicazione sugli atti stessi del responsabile del procedimento; ma mentre per le cartelle di pagamento, l’omessa indicazione rende nullo l’atto, ai sensi del comma 4-ter dell’art. 36 della legge n. 31/2008, per tutti gli altri atti del concessionario (e, in particolare, per le intimazioni di pagamento) le conseguenze dell’o-

missione vanno ricondotte all’annullabilità, tenuto anche conto degli artt. 21-septies e 21-octies della legge n. 241 del 1990». Si segnala il mutamento di orientamento di questa Commissione tributaria, rispetto alla precedente decisione: Comm. trib. prov. Cosenza, sez. I, 31 dicembre 2007, n. 570, in questa rivista, 1, 2008, 179 ss., per la quale «l’obbligo di indicare il responsabile del procedimento che l’art. 7, comma 2, lett. a, della legge 212/2000 impone all’agente della riscossione [...] è da intendersi riferito a tutti gli atti da esso promananti e, quindi, anche alla comunicazione concernente l’avvenuta iscrizione di ipoteca». In senso conforme v., invece, Comm. trib. prov. Torino, 3 marzo 2008, n. 2742, che ha ritenuto applicabile l’art. 36 della legge 31/2008 alle sole cartelle e non anche al fermo amministrativo.


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COOPERAZIONE FRA AUTORITÀ FISCALI, ACCERTAMENTO TRIBUTARIO E GARANZIE DEL CONTRIBUENTE di Riccarda Castiglione 1. Considerazioni introduttive - 2. La cooperazione fiscale e l’accertamento tributario - 3. Le violazioni relative al procedimento di acquisizione delle informazioni - 4. La rilevanza dei vizi - 5. Il rilievo probatorio ed i limiti all’acquisizione delle informazioni - 6. Il principio di proporzionalità come limite generale alla cooperazione - 7. Il diritto del contribuente ad essere informato ed il problema del contraddittorio - 8. L’applicabilità delle norme sull’azione amministrativa - 9. Conclusioni 1. Considerazioni introduttive L’esistenza di un mercato unico europeo, nonché, in generale l’economia globalizzata, pongono le autorità fiscali di fronte alla necessità di applicare in modo efficiente gli strumenti di cooperazione. In tale contesto, uno degli aspetti di maggiore interesse è senz’altro quello relativo allo scambio di informazioni ed in particolare alle modalità con le quali esso si realizza. Occorre verificare se le informazioni che passano attraverso il canale dell’assistenza amministrativa in materia fiscale, siano adeguate rispetto ai diversi interessi in gioco: da una parte, quello degli Stati ad esercitare il proprio potere impositivo e a contrastare l’ evasione fiscale e le frodi; dall’altra quello del contribuente al corretto utilizzo di tale strumento a salvaguardia delle proprie libertà, secondo la consueta dialettica tra interesse fiscale degli Stati e diritti dei contribuenti. Si rende quindi necessario chiarire quali effetti provochi sull’azione impositiva l’utilizzo dello scambio di informazioni ed in particolar modo se e come eventuali violazioni di legge nel procedimento di cooperazione siano in grado di riverberarsi sugli atti impositivi che su di esse si fondano. L’analisi critica dei fondamentali profili della cooperazione fra autorità fiscali, è pertanto premessa necessaria per verificare come l’applicazione di tali norme e principi possa riflettersi sull’or-

1 Relazione della Commissione europea sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla cooperazione amministrativa in materia d’imposta sul valore aggiunto e sulla proposta di direttiva del Consiglio e del Parlamento europeo che modifica la direttiva 77/799/CEE relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette e indirette di Bruxelles, 18 giugno 2001 COM(2001), 294 definitivo 2001/0133 (COD), 2001/0134 (COD). Si ricorda che in materia d’imposta sul valore aggiunto la cooperazione amministrativa tra Stati membri poggiava su due basi giuridiche, ossia la direttiva 77/799/CEE e il regolamento (CEE) n. 218/1992 concernente la cooperazione amministrativa nel settore delle imposte indirette (Iva). Tra le modifiche più significative che hanno interessato il settore della cooperazione in materia fiscale vi è stata l’adozione del

dinamento interno, sia in termini di utilizzabilità delle informazioni, sia in termini di validità dell’accertamento tributario. 2. La cooperazione fiscale e l’accertamento tributario In occasione della presentazione della proposta di modifica alla direttiva 77/799/CEE e al regolamento 218/92/CEE, la Commissione europea ha ribadito1 che, ai sensi delle disposizioni contenute in tali fonti, gli scambi di informazioni devono aver luogo tramite le autorità competenti, indicate rispettivamente all’art. 1 della direttiva 77/799 e all’art. 2 del regolamento 218/92. «Se questa procedura non viene seguita, l’informazione fornita viene considerata non valida e non può essere utilizzata»2. L’indirizzo comunitario, pertanto, è nel senso di qualificare vizio invalidante, sanzionato con l’inutilizzabilità, la sola violazione delle disposizioni sulla competenza. Evidentemente il criterio è quello dell’esigenza di rispettare il più possibile il principio di sovranità: la trasmissione di informazioni attraverso soggetti diversi da quelli individuati dalle norme comunitarie, infatti, non garantirebbe la certezza del consenso degli Stati. La conseguenza di tale violazione non è tuttavia la nullità dell’atto conclusivo del procedimento di cooperazione, per carenza o mancanza assoluta di potere, ma la sola invalidità degli atti di trasmissione e, per l’effetto, la inutilizzabilità delle informazioni. È evidente che le norme comunitarie in materia di cooperazione fiscale, facendo in più parti rinvio agli ordinamenti interni, ed essendo indirizzate agli Stati membri, non si sono occupate di affrontare altre questioni. Ciò, tuttavia, induce ugualmente a formulare alcun osservazioni critiche. Qualora, infatti, lo scambio di informazioni avvenga direttamente tra i funzionari addetti ai controlli, anziché attraverso i canali richiesti dalle norme comunitarie (e cioè sezioni particolari all’interno degli uffici centrali delle amministrazioni finanziarie), non si può certo affermare che l’atto sia stato emanato da un organo privo in modo assoluto di potestà, trattandosi piuttosto di un atto emanato da un soggetto semplicemente incompetente3.

regolamento 1798/2003 cui è demandata la disciplina esclusiva della cooperazione in materia di Iva con la conseguente abrogazione del regolamento 218/1992. 2 Occorre tuttavia precisare che tale disposizione non è stata trasfusa né nella direttiva 799/1977, né nel regolamento 218/1992, né nel regolamento 1798/2003. 3 MANZONI, Potere di accertamento e tutela del contribuente, Milano 1993, 75 ss., il quale distinguendo fra carenza di potere e semplice incompetenza, osserva come l’attribuzione della potestà di imposizione in capo all’amministrazione finanziaria esclude che nel caso in cui l’atto di accertamento provenga comunque da un ufficio dell’amministrazione finanziaria possa aversi carenza di potere, ma soltanto incompetenza, che darebbe luogo non all’inesistenza dell’atto, ma alla semplice annullabilità. Di contrario avviso è invece la giurisprudenza, che dalla incompeten-

za sia funzionale che territoriale, fa derivare un’ipotesi di carenza di potere per cui l’atto sarebbe affetto da nullità assoluta. Così, secondo un orientamento consolidato: Cass., 24 maggio 1984, n. 3191, in Comm. Trib. Centr., 1984, II, 961; Cass., 7 marzo 1986, n. 1056, in Giur. Imposte, 1986, 746; Cass., 15 luglio 1986, n. 4562, in Comm. Trib. Centr., 1986, II, 1092; Cass., 27 marzo 1987, n. 2998, in Boll. Trib. 1987, 1076; Cass., 26 giugno 1992, n. 1017, in Mass. Foro It. Il vizio di competenza deve essere comunque rivisitato alla luce dell’approccio “sostanzialistico” del nuovo art. 21-octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, come novellata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, dal decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80. La dottrina amministrativista è infatti orientata nel ritenere che il vizio di competenza non sia idoneo a determinare l’annullamento dell’atto quando il provvedi-


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Quanto al fatto che la formulazione della norma apparentemente non faccia distinzione tra autorità richiedente ed autorità richiesta, sembra ragionevole ritenere che la sanzione della inutilizzabilità debba colpire solamente quei casi in cui l’incompetenza sia ravvisabile da parte dell’autorità che rilascia le informazioni, e non anche da parte del soggetto che effettua la richiesta. Questo perché, mentre potrebbe a ragione comprendersi una esigenza rigorosa di certezza circa la fonte delle informazioni, analoga esigenza non si avverte nell’ipotesi inversa. Pertanto, per quanto concerne la richiesta di informazioni formulata da un ufficio territorialmente competente dell’Agenzia delle Entrate, o anche semplicemente da un singolo funzionario, l’informazione dovrebbe ritenersi utilizzabile purché rilasciata dall’autorità straniera individuata dagli artt. 1 e 2 della direttiva comunitaria e del regolamento, pur in presenza di disposizioni comunitarie che in tal senso non fanno alcuna distinzione. Restando all’argomento specifico, se condizione indefettibile per l’utilizzabilità delle informazioni è la riconducibilità all’autorità competente, occorre tuttavia valutare non solo se tale requisito sia sufficiente, ma soprattutto come esso debba essere collegato alla presenza di ulteriori presupposti. Verrebbe infatti da domandarsi se l’invalidità dell’atto di trasmissione colpisca, con la derivata inutilizzabilità, anche quelle informazioni che siano state acquisite nel rispetto delle norme in generale sul procedimento tributario, confrontando tale situazione con quella inversa, in cui cioè, ancorché illegittimamente acquisita o raccolta, l’informazione venga tuttavia trasmessa nel rispetto delle disposizioni sulla competenza4. Tuttavia ove si ritenga che il requisito della competenza sia l’unico indefettibile, si giungerebbe ad una situazione limite, in cui il sistema creato dalle norme comunitarie in materia di cooperazione risulterebbe tale da consentire di superare qualunque limite e violazione procedurale, ammettendo l’utilizzo di informazioni, e quindi di prove illegittimamente acquisite, seppure legittimamente trasmesse. In merito si rendono necessari alcuni chiarimenti.

correttamente seguito, evitando di dar luogo a vizi propri, indipendentemente dal fatto che esso si basi su atti o comportamenti posti in essere dall’autorità estera richiesta. Il quadro è tuttavia più complesso se si considera che: - la direttiva 77/799 ed il regolamento 1798/2003 consentono un flusso di informazioni di fonte disomogenea, nel senso che può trattarsi di dati provenienti dalle dichiarazioni, documenti che contengono dati, notizie acquisite attraverso comunicazioni di organi e amministrazioni dello Stato o altri enti, dalle banche o altri istituti di credito, dati desunti o ricavati dal bilancio, dalle scritture contabili, dalle fatture, da atti e documenti relativi all’impresa, di dati notizie e documenti forniti da qualunque altro soggetto o dallo stesso contribuente, questionari, comunicazioni, processi verbali di verifica o di constatazione relativi ad ispezioni eseguite nei confronti del soggetto sottoposto a verifica o di altri contribuenti, documenti e dati relativi agli studi di settore, ai parametri, ai coefficienti o ad altri strumenti statistici eventualmente utilizzati in altri Paesi; - ove le autorità non siano già in possesso delle informazioni richieste, devono eseguire le indagini necessarie per ottenerle; - l’autorità fiscale che trasmette le informazioni non è l’autorità fiscale che emetterà l’avviso di accertamento. Si crea così una situazione per cui le risultanze di un’attività istruttoria svolta in base alle norme sul procedimento tributario di un certo Paese, sono poste a fondamento dell’accertamento tributario emesso da un altro Paese. Può accadere pertanto che l’avviso di accertamento si basi su dati, notizie, prove illegittimamente acquisite, della qual cosa l’autorità fiscale richiedente non è a conoscenza, né può esserne a conoscenza, non potendo effettuare alcun controllo in tal senso. Essa infatti si limita a recepire le informazioni che le vengono spontaneamente o automaticamente trasmesse o che essa stessa ha richiesto, senza aver alcuna indicazione sulle modalità attraverso le quali l’acquisizione o l’indagine si è svolta. Eppure, come osservato, l’indirizzo comunitario è nel senso di ritenere che laddove il transito delle informazioni avvenga attraverso le autorità fiscali a ciò designate, l’informazione si ha come validamente acquisita per lo Stato che la riceve ed è pertanto uti3. Le violazioni relative al procedimento di acquisizio- lizzabile nell’avviso di accertamento5. ne delle informazioni Tutto ciò non solo pone in ultima analisi problemi per il giudice Il procedimento in materia di assistenza fiscale dovrebbe essere tributario che è chiamato a verificare la regolarità dell’acquisi-

mento abbia natura vincolata e la determinazione amministrativa sia sostanzialmente corretta. Il provvedimento adottato dall’organo incompetente è dunque legittimo nei casi in cui l’autorità competente, non avrebbe potuto, per la natura vincolata dell’attività, raggiungere un esito diverso. In generale, sulla riforma del procedimento amministrativo, v. CERULLI-IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della L. n. 241/ 1990, in Giust. Amm., 1, 2005, 9; FRANCARIO, Dalla legge sul procedimento amministrativo alla legge sul provvedimento amministrativo (sulle modifiche ed integrazioni recate dalla legge n. 15/2005 alla legge n. 241/1990), in Giust. Amm., 1, 2005, 42; SATTA, La riforma della L. n. 241/1990: dubbi e perplessità, in Giust. Amm., 2005, 1, 39; SUSCA, L’invalidità del provvedimento amministrativo dopo le leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Milano, 2005; CIVITARESE MATTEUCCI, La forma presa sul serio. Formalismo pratico, azione amministrativa ed illegalità utile, Torino 2006. 4 Tale rigidità è stata in parte superata con l’adozione del regolamento 1798/2003/CE in

cui ad es. è previsto che l’autorità competente di ciascuno Stato membro possa designare funzionari che possano scambiare direttamente informazioni. 5 Sulla questione dell’utilizzabilità nell’accertamento di prove irregolarmente acquisite, per quanto concerne ciò che accade nel nostro ordinamento interno, la giurisprudenza di legittimità continua ad essere divisa, nonostante una pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni unite (sent. del 21 novembre 2002, n. 16424, in Rass. Trib., 2003, 2088, ss.). In particolare si deve ricordare che sulla tematica dei vizi, sono emersi tre indirizzi: il primo, elaborato sulla base del principio della “invalidità derivata”, ritiene illegittimo l’avviso di accertamento per effetto dell’illegittimità degli atti istruttori; il secondo, invece, considera inutilizzabili le prove illegittimamente acquisite, con conseguente annullabilità dell’avviso di accertamento laddove esso non si fondi su altri elementi ritualmente acquisiti; il terzo, infine, afferma l’utilizzabilità delle prove irritualmente acquisite, salvo i limiti derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico. In particolare,

per quanto concerne l’indirizzo secondo cui le difformità dal paradigma nell’acquisizione delle prove comportano una illegittimità derivata dell’avviso di accertamento che su di esse si basi (Cass., 8 novembre 1997, n. 11036 in Dir. e Prat. Trib., 1998, II, 1118 e ss.; Cass., 27 luglio 1998, n. 7368, in Rass. Trib., 1998, 1383 ss.; Cass., 27 novembre 1998, n. 12050, in Fisco, 1999, 6161; Cass., 26 febbraio 2001, n. 2775, in Foro It., 2001; Cass., 29 settembre 2001, n. 15209, in Fisco, 2002, 1165; Cass., 3 dicembre 2001, n. 15230 in Riv. Dir. Trib., 2002, XII, 282; Cass., sez. un., n. 16424, cit. e Cass., 18 luglio 2003, n. 11283, in Corr. Trib., 2003, 3245) si osserva che è stato di recente superato dalla tesi secondo cui l’irregolare svolgimento delle indagini tributarie non implica l’inutilizzabilità degli elementi in tal modo acquisiti, né determina l’invalidità dell’accertamento tributario (Cass., 6 marzo 2001, n. 3852 e Cass., 8 giugno 2001, n. 7791, in Fisco, 2001, 13847 ss.; Cass., 19 giugno 2001, n. 8344 in Riv. Giur. Trib., 2002, 351 e in Fisco, 2001, 13847 con nota di RUSSO-FRANSONI, Le conseguenze della violazione delle norme sull’acquisizione delle fonti di prova;


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zione delle prove6, ma ancora di più per il soggetto destinatario dell’avviso di accertamento, soprattutto in considerazione del fatto che egli potrebbe ignorare che è in corso una procedura di scambio di informazioni che lo riguarda. Ai nostri fini una conferma indiretta è riscontrabile nella sentenza della Cassazione n. 3254 del 20 marzo 2000, una delle poche che abbia trattato il tema della cooperazione in materia fiscale7. Secondo la Cassazione la provenienza dell’informazione o del dato da parte di un’altra amministrazione fiscale, sarebbe garanzia sufficiente ad attribuire legittimità all’acquisizione stessa. Il rapporto di collegamento che sussiste tra le autorità fiscali che collaborano tra loro e che esclude il contatto diretto tra il funzionario preposto al controllo e la fonte dell’informazione, si giustificherebbe nel senso di riconoscere all’autorità richiesta una funzione di garanzia della sussistenza dei presupposti e delle condizioni di legge. In tale ottica lo scopo di disposizioni quali quelle dell’art. 1 e dell’art. 2 della direttiva 77/799/CEE e del regolamento 1798/2003/CE sarebbe quello di realizzare un controllo successivo di legittimità (preventivo rispetto alla trasmissione delle informazioni) dell’intervento istruttorio, come a dire che se l’informazione è stata trasmessa dall’autorità fiscale preposta allo scambio di informazioni, il documento, il dato, la notizia, la prova, è stata validamente acquisita e come tale non vi sono dubbi circa la sua utilizzabilità a motivazione di un avviso di accertamento. Altra considerazione, non meno importante, riguarda l’impossibilità, da parte degli organi preposti al controllo, di poter effettuare un vaglio sulla utilizzabilità delle prove ottenute per mezzo della cooperazione. Se è vero come è vero che i requisiti di validità di un atto sono stabiliti dall’ordinamento di origine, l’interesse dell’amministrazione finanziaria è soltanto quello di ottenere l’informazione richiesta, senza preoccuparsi di sapere come l’autorità straniera ne sia entrata in possesso.

Cass., 1 aprile 2003. n. 4987, in Riv. Giur. Trib. 2003, 621). Per una rassegna critica sulle pronunce ondivaghe della giurisprudenza di legittimità v. PORCARO, Profili ricostruttivi del fenomeno della (in)utilizzabilità degli elementi probatori illegittimamente raccolti. La rilevanza anche tributaria delle (sole) prove “incostituzionali”, in Dir. e Prat. Trib., 2005, I, 15 ss. Le pronunce più recenti della Corte di Cassazione (Cass., 20 marzo 2009, n. 6836; Cass., 19 febbraio 2009, n. 4001; Cass., 4 novembre 2008, n. 26454, ritengono utilizzabili le prove illegittimamente raccolte, a meno che non si configuri la violazione di diritti costituzionalmente garantiti. La persistente lacerazione invita a riflettere circa la necessità di privilegiare un approccio di tipo casistico (in tal senso LA ROSA, Sui riflessi procedimentali e processuali delle indagini tributarie irregolari, in Riv. Dir. Trib., 2002, II, 292); nel senso, invece, che il principio di inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita non contempli eccezioni MANZONI, Potere di accertamento, cit., 213. Sul tema v. anche SCHIAVOLIN, Poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria, in Riv. Dir. Trib., 1994, I, 937; CORSO, Inutilizzabili i risultati di una verifica fiscale illegittima, in Corr. Trib., 2005, 58. 6 Secondo alcuni autori l’utilizzabilità o meno delle prove illecite riguarda più che il procedimento di accertamento, la fase processuale (LA ROSA, Sui riflessi procedimentali e processuali, cit., 292). Altri distinguono invece tra inutilizzabilità ed invalidità derivata (PORCARO, Profili ricostruttivi, cit., 23, secondo il quale

Per quanto concerne pertanto l’ordinamento italiano, dal punto di vista della disciplina dell’accertamento e dell’operato in genere degli uffici finanziari, ed in relazione alle informazioni transitate attraverso il canale dell’assistenza in materia fiscale, non sembra ragionevole discostarsi dal prevalente orientamento giurisprudenziale in materia di utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, per cui l’eventuale illegittimità dell’indagine svolta dall’autorità richiesta, ed il travaso delle relative risultanze nell’avviso di accertamento, non dovrebbe comportarne di per sé l’illegittimità8. Ad attenuazione di eventuali perplessità si può ribattere che non necessariamente i controlli sfociano in provvedimenti di accertamento, la funzione assolta dagli strumenti di assistenza in materia fiscale è anche quella della prevenzione, l’accertamento può anche essere fondato su elementi in tutto o in parte diversi da quelli acquisiti attraverso la cooperazione e l’acquisizione delle informazioni può riguardare anche un soggetto diverso da quello destinatario di un avviso di accertamento e pertanto diverso da quello che ha subito le indagini. Questi argomenti, che con i dovuti adattamenti la dottrina italiana9 ha valutato al fine di escludere l’esistenza di un nesso tra attività di indagine ed avviso di accertamento che permetta il riverberarsi di vizi della prima quali motivi di invalidità del secondo, potrebbero essere ripresi per sostenere l’irrilevanza dei vizi inerenti l’attività d’indagine, svolta dall’autorità richiesta e quindi al di fuori dei propri confini nazionali. 4. La rilevanza dei vizi Il rischio che trovino ingresso nell’attività di indagine atti che dal punto di vista dell’ordinamento interno sarebbero illegittimi, è stato preso in considerazione, per escluderne qualunque rilevanza sul piano del nesso causale, anche dal legislatore comunitario.

l’autonomia tra fase istruttoria e fase impositiva ha come necessaria conseguenza che un vizio della fase istruttoria non può riverberarsi nel provvedimento impositivo finale, potendosi allora parlare solamente di inutilizzabilità. Sull’impossibilità di riconoscere invalidità al provvedimento finale in conseguenza dell’illegittimità degli atti che lo precedono risulta fondamentale il contributo di LA ROSA, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, 75; Sui riflessi procedimentali e processuali delle indagini tributarie irregolari, in Riv. Dir. Trib., 2002, II, 292; Id., Principi di diritto tributario, Torino, 2006, 324 ss.; Id., Istruttoria e poteri dell’ente impositore, in Riv. Dir. Trib., 2009, I, 523; contra, conformemente alla teoria secondo la quale l’accertamento tributario è riconducibile all’alveo del procedimento amministrativo in senso stretto, anche per quanto attiene al meccanismo della invalidità derivata, v.: MOSCHETTI, Avviso di accertamento e garanzie del cittadino, in AA.VV., Procedimenti tributari e garanzie del cittadino, Padova 1984, 51; TESAURO, Prova (diritto tributario), in Enc. Dir., III, aggiornamento, Milano 1999, 885; FERLAZZO-NATOLI, La tutela dell’interesse legittimo nella fase procedimentale dell’accertamento tributario, in Riv. Dir. Trib., 1999, 772. 7 La sentenza trae origine da un avviso di accertamento a carico di una società italiana per redditi esteri non dichiarati, emanato sulla base di una comunicazione del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, e di cui il ricorrente contestava l’utilizzabilità e quindi l’idoneità probatoria per la mancanza della

sottoscrizione con conseguente impossibilità di attribuire la provenienza del documento ad un funzionario responsabile del Dipartimento del Tesoro U.S.A. In merito a tale eccezione il giudice di legittimità osserva che «i requisiti di validità formale» di un documento, «sono stabiliti dall’ordinamento di origine». Ma per di più, poiché oggetto della contestazione non era la provenienza dal documento dall’amministrazione finanziaria federale statunitense, quanto piuttosto la riconducibilità del documento al Dipartimento del Tesoro da cui l’amministrazione finanziaria degli Stati Uniti l’aveva ricevuto, «sussisteva il dovere del giudice di merito di prendere in esame e valutare la natura ed il contenuto del documento stesso, inviato all’amministrazione finanziaria italiana nell’ambito dei rapporti di collaborazione con gli U.S.A.». I giudici di merito avevano invece disconosciuto l’idoneità probatoria del documento in quanto privo di sottoscrizione e quindi privo di indicazione circa l’attribuzione ad un funzionario responsabile. 8 Vedi retro nota 5. 9 V. ancora LA ROSA, Irregolarità delle indagini e validità degli accertamenti tributari, in Fisco, 2002, 5713. Ma di contrario avviso RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano 1999, 269. Criticamente sulle sentenze della Cassazione in tema di utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite: MUSCARÀ, Analisi critica degli orientamenti giurisprudenziali in tema di utilizzazione delle prove nel procedimento e nel processo, in Fisco, 2002, 5717. V. altresì retro nota 5.


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Ad esempio, nella direttiva 77/799/CEE, non è stata contemplata una rigida applicazione dei principi di reciprocità e/o di equivalenza, ma ci si è limitati a prevedere, all’art. 8. che non vi è l’obbligo (non dice che «non è consentito» o che «è vietato») di trasmettere le informazioni che lo Stato richiedente, in base alla legislazione o alla prassi interne non sarebbe in grado comunque di ottenere o procurarsi legittimamente. Nulla esclude, anche se si tratta di una ipotesi remota, che lo Stato richiesto acquisisca dati e notizie secondo modalità che per l’ordinamento tributario dello Stato ricevente non sarebbero legittime10, oppure, secondo un diverso scenario ipotizzabile, durante l’attività di indagine ed acquisizione delle informazioni potrebbero essere poste in essere delle illegittimità-irregolarità idonee a ripercuotersi sul successivo atto di accertamento se questo fosse emesso in quello Stato, ma che tuttavia non lo sarebbero per l’ordinamento dello Stato richiedente. Non esistono nel nostro sistema tributario disposizioni che prevedano un esplicito principio di inutilizzabilità delle prove illegittimamente raccolte, né tantomeno sussistono norme che disciplinano le conseguenze delle illegittimità-irregolarità che riguardano una procedura di assistenza fiscale. A tal fine è utile riprendere quanto già osservato dalla Suprema Corte11, secondo la quale la validità degli atti concerne esclusivamente l’ordinamento nel quale questi ultimi vengono posti in essere con l’impossibilità di effettuare una valutazione rispetto a norme appartenente ad ordinamenti diversi. Si ritiene pertanto di accogliere la soluzione in base alla quale i due procedimenti, quello volto alla acquisizione della informazione e quello tributario dello Stato richiesto, sono da considerarsi autonomi: non rileva, di conseguenza, l’illegittimità dell’acquisizione dei dati posta in essere dall’autorità straniera per dare seguito ad una richiesta di assistenza. Nel contesto della cooperazione fiscale sembra sia pertanto plausibile ritenere che tra i due procedimenti, quello conclusivo delle indagini tributarie nello Stato estero, e quello delle indagini fiscali e dell’avviso di accertamento nel territorio italiano, sussista un nesso meramente eventuale, inidoneo a realizzare lo schema della “invalidità derivata”12: poiché è il rispetto delle norme interne a determinare la validità degli atti istruttori, non si potrebbe rilevare una illegittimità che si riverberi sull’avviso di accertamento, inficiandolo, laddove ad essere viziato sia l’atto di acquisizione straniero.

10 La Commissione fa riferimento all’esistenza di un divieto, in capo agli Stati membri, di chiedere informazioni che la propria legislazione o la propria prassi amministrativa non consente loro di ottenere (Relazione della Commissione sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 77/799/CEE relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette e indirette- Bruxelles, 31 luglio 2003 COM(2003) 446 definitivo/2; 2003/0170 (COD)): tuttavia nessuna modifica alla direttiva 77/799/CEE si occupa di esplicitare e chiarire l’esistenza di tale divieto (2003/0170 (COD) Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 77/799/CEE relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette e indirette). 11 Cass., 20 marzo 2000, n. 3254, cit. 12 L’inesistenza di un nesso procedimentale tra gli atti delle indagini tributarie e l’avviso di accertamento (in tal senso LA ROSA, Irrego-

Se infine, stando alla lettera del disposto normativo, l’amministrazione finanziaria italiana che riceve l’atto conclusivo delle indagini tributarie svoltesi all’estero, ha rispettato tutte le norme sul procedimento tributario, che nel caso di specie sono quelle relative alle modalità attraverso le quali deve aver luogo la richiesta di assistenza, si può affermare che non si configura alcuna violazione invalidante. Si vuole quindi sottolineare che se per le illegittimità occorse durante l’attività investigativa all’estero, è l’ordinamento in cui tali atti si sono formati a stabilire se ed in che termini si siano verificate è solamente in quella sede che andrebbe riconosciuta l’esperibilità di azioni volte a far valere tali vizi. I vizi che derivano dall’inosservanza delle regole sulle indagini tributarie, potranno così essere oggetto di contestazione da parte del contribuente solamente all’interno dell’ordinamento nel quale si sono prodotti, poiché una volta che le informazioni transitano attraverso i canali della cooperazione, diventano, per l’amministrazione fiscale italiana utilizzabili, purché quest’ultima abbia osservato le specifiche disposizioni sullo scambio di informazioni13. Così come afferma autorevole dottrina «è acquisita illegittimamente quella prova che sia ottenuta facendo ricorso ad atti o procedimenti istruttori effettuati in violazione delle disposizioni dettate in materia dalle singole leggi d’imposta; oppure in violazione delle disposizioni che regolano l’esercizio dell’attività amministrativa in generale (e che non siano derogate, esplicitamente o implicitamente, dalla specifica normativa tributaria); o, più in generale ancora, in violazione delle disposizioni che definiscono i limiti d’esercizio dei pubblici poteri. In breve, illegittima, sarà quella prova che sia stata acquisita nell’ambito di un’attività istruttoria (o di una attività a monte dell’attività istruttoria) esercitata in violazione delle norme di legge»14. Se questi sono i casi in cui una prova può dirsi illegittimamente acquisita secondo il nostro ordinamento, si nota subito che nessuna di queste circostanze ricorre nella cooperazione fiscale, in quanto nessuna norma che disciplina l’attività istruttoria può dirsi violata Ne risulta che eventuali vizi di acquisizione non daranno luogo all’impugnabilità dell’avviso di accertamento emesso in Italia: gli elementi acquisiti, ancorché illegittimi, non sono tali in base alle leggi italiane, ma alla luce solamente delle disposizioni in vigore in un altro ordinamento.

larità delle indagini, cit., 5712) è ancora più evidente laddove le indagini tributarie siano eseguite da un’autorità fiscale straniera sul suo territorio. Si concorda in tal senso con l’orientamento (LA ROSA, Principi di diritto tributario, cit., 324), che non ricomprende nel procedimento tributario l’attività di controllo e di indagine, con la conseguenza che le violazioni delle norme che disciplinano tale fase non sono idonee ad incidere sulla validità del provvedimento finale, ma possono rilevare solo in termini di inutilizzabilità degli elementi illegittimamente acquisiti. 13 Secondo le ultime pronunce della Cassazione solo violazioni che ledono interessi di rilevanza costituzionale comportano l’inutilizzabilità degli elementi illegittimamente acquisiti; v. ad es. Cass., 10 giugno 2004, n. 19689, in Corr. Trib., 2005, 53, con commento di CORSO, Inutilizzabili i risultati di una verifica fiscale illegittima e in Riv. Giur. Trib., 2005, 371 con nota di COMELLI, Autorizzazione agli accessi domiciliari, inviolabilità del domicilio e vizi degli atti istruttori; Cass., 19 ottobre 2005, n. 20253, in Corr. Trib., 2006,

47, con commento di CORSO, Non sono utilizzabili i fini dell’accertamento le prove illegittimamente acquisite, Cass., 16 maggio 2005 n. 10269, in Fisco, 2005, 4758. Di recente con la pronuncia n. 26454 del 4 novembre 2008, la Cassazione ha ribadito l’inviolabilità dei diritti costituzionalmente garantiti come presupposto per la legittimità dell’atto conclusivo del procedimento tributario. Sul tema, in dottrina, v. LUPI, Inutilizzabilità di elementi probatori irritualmente acquisiti, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 160, nonché, per una trattazione sistematica sulle problematiche relative ai poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria e la tutela dei diritti costituzionalmente protetti del contribuente: CIMINO, L’esercizio del potere di accesso presso il contribuente: tra tutela delle garanzie del cittadino ed interesse fiscale, in Dir. e Prat. Trib., 2007, VI; 1029, ss. 14 MANZONI, Potere di accertamento, cit., 215. Per una trattazione sistematica sul concetto di invalidità nel diritto tributario v. MARELLO, Per una teoria unitaria dell’invalidità nel diritto tributario, in Riv. Dir. Trib., 2001, III, 379.


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Seppure nel diverso ambito della riscossione dei tributi15, anche se pur sempre sul tema dell’assistenza amministrativa, le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno riconosciuto l’autonomia dei procedimenti nei diversi ordinamenti16. In particolare è stato chiarito che spetta all’autorità del luogo in cui si è formato il presupposto impositivo il compito di accertare la sussistenza o meno del debito tributario, secondo le leggi vigenti in quell’ordinamento, mentre compete all’autorità del luogo in cui si chiede la riscossione la gestione degli atti riferiti a tale fase, compresa l’impugnazione dei vizi che in tale fase si sono prodotti. La Suprema Corte, infatti, ritiene inconcepibile l’impugnazione davanti ad un giudice diverso da quello dell’ordinamento in base al quale l’atto è stato emesso. Per quanto fin qui evidenziato, si giunge alla conclusione secondo la quale il procedimento di acquisizione delle prove volto a soddisfare una richiesta di informazioni non termina con l’emissione dell’avviso di accertamento che su tali informazioni si basi, ma con l’atto dell’amministrazione finanziaria straniera con il quale essa viene trasmessa ad un’altra autorità fiscale ed è pertanto in quella sede e fino a quel momento che devono e possono essere fatti valere eventuali vizi di acquisizione. Se però si ritiene che vi siano ragioni per riconoscere validità ad un avviso di accertamento fondato su prove raccolte illegittimamente da parte di un’altra amministrazione fiscale ed al compimento delle cui indagini gli uffici dell’amministrazione finanziaria italiana sono rimasti estranei, è allo stesso tempo necessario valutare se ciò comporti delle ripercussioni eccessive nella sfera del contribuente, che potrebbe subire gravi menomazioni del proprio diritto di difesa. Questi, infatti, si troverebbe nell’impossibilità di impugnare l’avviso di accertamento facendone valere l’invalidità17: per scongiurare tale pericolo al contribuente dovrebbe essere comunque data la facoltà di opporsi ed impedire la trasmissione delle informazioni. Ciò dovrebbe implicare che egli sia messo in grado di poter conoscere che è in corso una richiesta di informazioni, cosicché possa, nella sede opportuna, e cioè prima che le informazioni vengano trasmesse, far valere eventuali illegittimità. Occorrerebbe quindi valorizzare il suo diritto ad essere informato, nonché ampliare il principio del contraddittorio nella fase antecedente

15 Sul tema è interessante il richiamo fatto da MULA, Nuovi spunti di riflessione sul problema all’estero del credito tributario dello Stato, in Riv. Dir. Trib., 2003, XI, 1011, ad una sentenza risalente al lontano 1775. Il caso poneva l’interrogativo sul se la finalità, illecita per l’ordinamento inglese, che aveva spinto le parti alla conclusione del contratto, poteva avere effetto invalidante anche rispetto all’ordinamento francese. In tale occasione il giudice aveva affermato che l’effetto invalidante poteva ben determinarsi in base a norme vigenti in un altro ordinamento, purché le norme applicabili non fossero di natura tributaria. 16 Cass., sez. un., 17 gennaio 2006 n. 760, in Riv. Dir. Trib., 2006, II, 847, con nota di MULA, A proposito di una recente pronuncia in tema di assistenza internazionale nella riscossione dei crediti tributari. Sul punto v. anche CARINCI; La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, Pisa, 2009, 88, ss. Meno recente ma sempre sul problema della riscossione all’estero dei crediti tributari v. anche POGGIOLI, Applicabilità della disciplina comunitaria di assistenza alla ri-

all’emissione dell’avviso di accertamento. 5. Il rilievo probatorio ed i limiti all’acquisizione delle informazioni Il problema dei vizi assume importanza anche in merito al rilievo probatorio delle informazioni e degli atti in cui esse vengono trasfuse. A tal proposito può essere utile un richiamo ad un altro Modello per la cooperazione fiscale, che è quello appunto elaborato dal Ciat18. Il fatto che il paragrafo 10 dell’art. 4 del progetto Ciat dedicato allo scambio di informazioni statuisce che fatta salva la prova contraria esibita dalla persona interessata, il semplice fatto che lo Stato richiedente riceva informazioni che siano state ottenute in base a tale accordo fa sì che tali informazioni costituiscano “prova legale”, induce con sollievo a constatare che nessuna disposizione analoga sia rinvenibile nell’art. 26 del modello Ocse contro le doppie imposizioni, né nel modello Ocse sullo scambio di informazioni, né tantomeno nelle norme di fonte comunitaria. Pare pertanto che le informazioni acquisite attraverso gli strumenti di cooperazione fiscale abbiano valore probatorio uguale a quello delle corrispondenti informazioni ottenute in base al proprio ordinamento interno19. Attribuire validità di “prova legale” alle prove documentali provenienti dagli altri Stati nell’ambito dell’attività di scambio di informazioni, indipendentemente dalla loro natura, porterebbe alla conclusione per cui tutti i dati e le notizie così acquisiti diventano tautologicamente atti pubblici, scritture private autenticate o riconosciute, copie di atti pubblici o privati anche laddove non lo siano ab origine. Si ricordi, infatti, che anche nell’accertamento e nel processo tributario sussistono una serie di regole probatorie che stabiliscono non solo quali prove possano essere utilizzate, ma anche con che grado di intensità esse incidono sul convincimento dell’amministrazione finanziaria e del giudice tributario20. Nelle prove legali, in particolare, l’efficacia probatoria non è stabilita da una norma tributaria, ma dalla regola generale di cui all’art. 2699 c.c. che attribuisce a tali atti una forza massima, quella appunto di piena prova (fino a querela di falso) circa la rispondenza al vero dei fatti che l’organo verificatore attesta essere avvenuti alla sua presenza o da lui compiuti21, nonché la data e la provenienza da un pubblico ufficiale.

scossione ai crediti tributari sorti antecedentemente all’entrata in vigore della direttiva 76/308/CEE, nota a Corte di Giustizia CE, cause riunite C-361/2002 e C-362/2002, in Rass. Trib., 2005, 30. 17 Se si concorda con l’impostazione dottrinale che sostiene il principio dell’invalidità derivata, si deve concludere che l’atto finale di accertamento è suscettibile di essere impugnato per essere annullato. Se invece si segue la strada che vuole la piena autonomia dell’attività istruttoria rispetto a quella di accertamento, si deve invece ritenere irrilevante la patologia della fase conoscitiva. Sui mezzi di tutela esperibili contro l’illegittimo esercizio dei poteri istruttori cfr SANTAMARIA, Attività ispettiva e tutela del contribuente, in Dir. e Prat. Trib., 1981, II, 968; MOSCHETTI, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. e Prat. Trib., 1983, I, 1918; GALLO, Accertamento e garanzie del contribuente: prospettive di riforma, in Dir. e Prat. Trib., 1989, I, 50 ss.; LA ROSA, Caratteri e funzioni dell’accertamento tributario, in Dir. e Prat. Trib., 1990, I, 974; SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento

(nelle imposte sui redditi e nell’Iva), Padova 1990, 329; VANZ, Indagini fiscali irrituali e caratteri della spontanea collaborazione del contribuente o di terzi ai fini dell’utilizzabilità del materiale probatorio acquisito, in Rass. Trib, 1998, 1394. 18 Nel quadro della cooperazione fiscale va segnalata anche l’iniziativa avviata in senso ad un’altra organizzazione internazionale, vale a dire appunto il Centro interamericano delle amministrazioni tributarie (Ciat). Tale organizzazione, tra i cui membri si annoverano anche l’Italia, i Paesi Bassi, il Portogallo e la Spagna, ha intrapreso una serie di iniziative volte a promuovere l’assistenza reciproca tra i Paesi membri e i Paesi associati, tra le quali lo studio e l’elaborazione di un modello di accordo per lo scambio di informazioni di natura fiscale. 19 DEL GIUIDICE, Lo scambio di informazioni, in Fisco, 2002, 1712. 20 Così CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova 2005, 330. 21 Sul tema delle prove legali nel diritto tributario v. in generale CIPOLLA, La prova tra procedimento, cit., 331 ss.


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In ambito tributario, tuttavia, si verifica spesso che atti non finalizzati ad acquisire pubblica fede, ma aventi semplicemente funzione conoscitiva, provengano da pubblici ufficiali. Quindi, ad esempio, i verbali redatti dalla Guardia di Finanza o dai verificatori hanno solo lo scopo di raccogliere le risultanze dell’attività istruttoria22. Pertanto, così come si rende necessaria una distinzione sulla valenza probatoria degli atti formati da pubblici ufficiali, è difficile poter affermare che attraverso la procedura di scambio di informazioni tutti i documenti acquisiscano efficacia equipollente a quella di prova legale, in special modo nei casi in cui tali atti non provengano nemmeno da chi la potestà di attribuirgli pubblica fede. È così ancora più evidente la compressione del diritto di difesa del contribuente in presenza di disposizioni che attribuiscono fede privilegiata a quelle informazioni che transitano attraverso l’assistenza fiscale, potendo in tale ambito rientrare anche prove precostituite dall’ufficio e acquisite senza contraddittorio23. Il valore di atto pubblico, tuttavia, non rende indiscutibile la verità di quanto riportato o contenuto nel documento. Ciò che assume rilevanza è l’esistenza dei fatti, delle dichiarazioni, delle operazioni, ma non la prova che essi siano realmente avvenuti o che siano assolutamente accaduti come riportato nella prova documentale24. Si ricordi infatti che per l’art. 2699 c.c. l’atto pubblico fa fede fino a querela di falso limitatamente alla provenienza dell’atto dal pubblico ufficiale, alle dichiarazioni delle parti ed agli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti essere avvenuti in sua presenza. Per le informazioni provenienti da un’autorità fiscale estera e che si traducono in documenti, si dovrebbero perciò sempre distinguere quelli per i quali è da ammettersi la prova contraria senza necessità di proposizione di querela di falso, liberamente valutabili dal giudice tributario, e quelli che invece, avendo natura di hanno atto pubblico, hanno efficacia di piena prova. Sul diverso tema, poi, della “violazione” dei principi che regolano la cooperazione o la violazione di limiti all’obbligo di prestare assistenza, non si può parlare di violazioni vere e proprie. Tra le norme tributarie italiane, al contrario di quanto accade in altri Paesi25, in cui la direttiva ha trovato attuazione attraverso l’introduzione di limiti ostativi alla cooperazione, non vi sono infatti disposizioni che vietino all’autorità fiscale italiana di trasmettere le informazioni. A parte la traduzione del principio di equivalenza nell’art. 31-bis del D.P.R. 600/1973 e nell’art. 65 del D.P.R. 633/1972, che equipara le modalità ed i limiti dell’attività investigativa svolta per adempiere ad una richiesta di cooperazione, a quelli previsti per l’accertamento delle imposte sui redditi e dell’Iva, non esistono né norme che traducono gli

22 Così MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino 2000, 133. 23 Sul problema del contraddittorio nel procedimento tributario v. per tutti MICELI, Il diritto del contribuente al contraddittorio nella fase istruttoria, in Riv. Dir. Trib., 2001, V, 371 ss. 24 Così osserva MANZONI, Potere di accertamento, cit., 262. 25 In Olanda, ad esempio (capo III della Wet op de internazionale bijstandsverlening bij de heffing van belastinge) la rivelazione di un segreto che contrasta con l’ordine pubblico, il fatto che l’autorità richiedente non abbia esaurito le possibilità di ottenere informazioni in base alle procedure nazionali (principio di equivalenza), il fatto che l’autorità richiedente non sia in grado di fornire lo stesso grado di assistenza (principio di recipro-

altri principi in divieti di cooperazione, né norme che qualificano i limiti alla cooperazione previsti nella direttiva 77/799/CEE o nel regolamento 1798/2003 in divieti all’obbligo di fornire assistenza. L’art. 31-bis del D.P.R. 600/1972 statuisce semplicemente che «le informazioni non sono trasmesse quando possono rivelare un segreto commerciale, industriale o professionale, un processo commerciale o un’informazione la cui divulgazione contrasti con l’ordine pubblico. La trasmissione delle informazioni può essere, inoltre, rifiutata quando l’autorità competente dello Stato membro richiedente, per motivi di fatto o di diritto, non è in grado di fornire lo stesso tipo di informazioni». La mancanza di una disciplina ostativa nella legislazione esistente rispetto all’assistenza in materia fiscale, così come di altre disposizioni che regolino le modalità attraverso le quali essa si svolge, porta a ritenere che l’attuazione della direttiva 77/799/CEE in Italia sia avvenuta attraverso un rinvio al contenuto della direttiva stessa, nel senso che essa è stata evidentemente recepita nel suo contenuto integrale attraverso la generica formulazione «l’amministrazione finanziaria provvede allo scambio con le altre autorità competenti degli Stati membri della comunità economica europea delle informazioni necessarie per assicurare il corretto accertamento delle imposte sul reddito e sul patrimonio». È pertanto al contenuto della direttiva stessa che occorre far riferimento per individuare l’esistenza di eventuali obblighi, diritti e violazioni da cui possano derivare vizi della procedura. L’analisi del contenuto della direttiva porta ad osservare che i principi che regolano la cooperazione sono individuati come limiti potestativi, pertanto nulla esclude che siano trasmesse anche informazioni che portino a divulgare un segreto commerciale, industriale, professionale, un processo commerciale, o informazioni che prescindano dal principio di reciprocità. L’art. 8, della direttiva 77/799/CEE è pertanto ritenuta erroneamente dalla dottrina italiana una norma garantista26, perché più che sul fatto che essa consente agli Stati di rifiutare di fornire assistenza in presenza di determinate circostanze, l’attenzione deve essere posta sul fatto che essa non impone obblighi di astensione dal cooperare. Il che significa, per il contribuente residente in Italia nei confronti del quale si mette in moto una richiesta di cooperazione, che laddove lo scambio di informazioni porti alla trasmissione di informazioni lesive del suo interesse alla tutela di un segreto commerciale, industriale ecc. non è ravvisabile alcun comportamento illegittimo dell’amministrazione finanziaria. Il discorso non varia in riferimento ad ipotesi di richieste di assistenza verso l’Italia, in quanto vi sono altri Stati membri che, seppur diversamente dal caso italiano, hanno previsto che nessun

cità), costituiscono tutte ipotesi in cui lo scambio di informazioni è vietato in maniera assoluta. L’art. 2, decreto n. 82-661 del 28 luglio 1982, Concernant l’assistance mutuelle en materia d’assiette et de recouvrement des impost au sein de la Communaute Economique Europeenne stabilisce che l’amministrazione francese non può fornire informazioni che rivelino un segreto commerciale, industriale, professionale o un’informazione la cui rivelazione contrasti con l’ordine pubblico. Disposizioni analoghe sono rinvenibili anche nella legislazione tributaria portoghese: l’art. 4 del Decreto-Lei 127/1990 vieta la trasmissione di informazioni in violazione dei principi di reciprocità, sussidiarietà, equivalenza o quando lo scambio di informazioni comporti la divulgazione di un segreto commerciale, industriale o profes-

sionale o un processo commerciale o di un informazione la cui divulgazione contrasti con l’ordine pubblico, aggiungendo a questi appena elencati altri divieti. Sullo stato dell’attuazione della direttiva 77/799/CEE nei Paesi dell’Unione europea, v. MARIN, Lo scambio di informazione tra i Paesi membri, in AA.VV., Lo stato della fiscalità nell’Unione europea. L’esperienza e l’efficacia dell’armonizzazione, I e II, coordinato da Di Pietro, Roma 2003, 872 ss. 26 BAVILA, Some Issues on the Exchange of Information between Revenue Authorities, in Dir. e Prat. Trib. Internaz., 2001, 277; BARASSI, Lo scambio di informazioni in materia di imposte sui redditi e sul patrimonio, in AA.VV. Materiali di diritto tributario internazionale, a cura di Sacchetto e Alemanno, Milano 2002, 377.


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obbligo, come quello del segreto, possa impedire all’amministrazione tributaria di procedere allo scambio di informazioni di cui alla direttiva 77/799/CEE27. Nulla impedisce pertanto che ai fini dell’accertamento siano utilizzate informazioni che l’amministrazione fiscale italiana non avrebbe potuto acquisire in base alle proprie leggi o prassi interna, che costituiscano la divulgazione di segreti o che vengono trasmesse in assenza di reciprocità. Pari discorso può essere fatto con riguardo al regolamento 1798/2003/CE che in tema di limiti e segretezza non si discosta in modo significativo dalla direttiva 77/799/CEE. Pertanto, come si è visto, la compressione della tutela del contribuente può avere luogo attraverso una variegata sintomatologia: utilizzo di elementi, dati, informazioni illegittimamente acquisite perché a) acquisiti in violazione di legge nello Stato richiesto; b) acquisiti in conformità alla legge e alla prassi vigenti nello Stato richiesto ma la cui acquisizione la legislazione o la prassi italiana non avrebbero consentito se si fosse trattato di svolgere l’attività istruttoria in Italia; c) trasmissione o utilizzo di informazioni che hanno comportato la divulgazione di segreti commerciali, industriali, professionali, di un processo commerciale da cui il contribuente potrebbe ricevere un danno e alla cui divulgazione non ha potuto opporsi per inesistenza di un obbligo di notifica circa la procedura di cooperazione in corso; d) trasmissione o utilizzo di informazioni in violazione di principi di diritto comunitario. A proposito delle ultime due ipotesi, l’inesistenza di un divieto previsto dalla legge ad adempiere all’obbligo di cooperazione al verificarsi di certi presupposti, e l’inesistenza di un divieto, contenuto nella direttiva, ad adempiere all’obbligo di cooperazione in violazione dei principi di reciprocità, equivalenza, ecc., escludono che il provvedimento impositivo risulti viziato per violazione di norme procedimentali e/o di principi che regolano la cooperazione. Tuttavia, come si avrà modo di illustrare nel seguente paragrafo, il provvedimento, pur se non viziato per violazione di legge in senso stretto, potrebbe risultare emanato in violazione di altri principi di diritto comunitario, quali il principio di proporzionalità ed il principio del contraddittorio.

nee ad approntare adeguate garanzie per il contribuente. Esse infatti non precludono uno scambio arbitrario di informazioni e sono costruite in modo che alcuni elementi di tali previsioni siano suscettibili di essere interpretate in modo differente dagli Stati. Si pensi al concetto di «ordine pubblico», «divulgazione di un segreto» o alla diversa valenza che le autorità fiscali possono attribuire a disposizioni che si riferiscono all’ «assistenza analoga», al «previo esaurimento delle fonti consuete di informazione», «all’utilizzazione per fini diversi da quelli per i quali le informazioni sono state rilasciate». È indubbio che la cooperazione in materia fiscale pone un problema di contemperamento tra interessi contrapposti: da una parte quelli delle autorità fiscali ad applicare le imposte in modo effettivo, dall’altra quelli del contribuente all’esercizio delle libertà personali ed economiche. Rispetto all’esigenza di effettuare tale contemperamento, il principio comunitario di proporzionalità28 è idoneo allo scopo, secondo il criterio per cui l’amministrazione pubblica non può imporre obblighi e/o restrizioni alle libertà del privato in misura superiore a quanto strettamente necessario per il soddisfacimento di quell’interesse che si intende raggiungere, in modo che il pregiudizio che il contribuente possa ricevere dall’utilizzo degli strumenti di cooperazione non superi quello sbarramento dato dallo scopo per il quale esso è congegnato29. Lo scambio di informazioni deve essere “necessario” ed affermare ciò comporta la salvaguardia di diritti del contribuente che possono essere pregiudicati dall’attivazione di tale procedimento30. Vi deve perciò essere una «relazione ragionevole, adeguata e non sproporzionata tra il fine perseguito dall’azione statale e gli strumenti impiegati per conseguirlo». Inoltre, «il rapporto tra le diverse possibili linee di condotta e le imposizioni che derivano ai singoli deve essere tale da indurre a scegliere lo strumento che, pur ubbidendo agli stessi fini, sia il meno restrittivo»31. L’autorità fiscale deve perciò farsi carico di valutare se esistano misure meno invasive che possano condurre al medesimo risultato e perciò deve aver precedentemente esaminato tutte le possibili linee domestiche di investigazione, compreso il ricorso al dovere di cooperazione del contribuente. Deve essere data priorità alle modalità operative che non com6. Il principio di proporzionalità come limite generale portino sforzi sproporzionati e che diano come risultato elementi probatori dotati di un sufficiente grado di affidabilità. Lo alla cooperazione È stato dimostrato come le restrizioni contenute nelle norme co- scambio di informazioni deve essere altresì adeguato allo scopo munitarie e anche nell’art. 26 del modello Ocse, non sono ido- che l’amministrazione vuole raggiungere e cioè deve consentire

27 Si fa in particolare riferimento alla Gran Bretagna (Finance Act 1978 e Finance Act 1990) e all’Irlanda (European Community Regulations, S.I. n. 334/1978 e S.I. n. 407/1980). 28 Nato per consentire il giudizio di congruità sugli strumenti adottati dagli Stati per il raggiungimento degli obiettivi comunitari, il principio di proporzionalità è stato esteso all’identificazione dell’equilibrio tra esigenze nazionali e restrizioni imposte agli individui rispetto alle libertà garantite dal Trattato. Sull’argomento v. GALETTA, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano 1998; ELLIS, The principle of proportionality in the laws of Europe, Oxford, 1999; CICIRIELLO, Il principio di proporzionalità nel diritto comunitario, Napoli, 1999; CANNIZZARO, Il principio di proporzionalità nell’ordinamento internazionale, Milano, 2000. 29 Sulla proporzionalità dell’agire amministrativo quale criterio che deve guidare il contemperamento tra libertà garantite dalla Costituzione e soddisfacimento di interessi con

esse confliggenti v. VIOTTO, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, Milano 2002, 90. Sulla valorizzazione del principio di proporzionalità nello Statuto del contribuente DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Pescara, 2003, 273. 30 Riferimenti espliciti al principio di proporzionalità si trovano nel regolamento 1798/2003/CE (art. 40, comma 1, «l’autorità interpellata di uno Stato membro fornisce l’autorità richiedente di un altro Stato membro le informazioni [...] alle seguenti condizioni: che il numero e il tipo delle richieste di informazioni presentate in un determinato periodo di tempo dall’autorità richiedente non impongano all’autorità interpellata un onere amministrativo eccessivo) e nella Convenzione di Napoli II (art. 28 «La presente convenzione non obbliga le autorità competenti degli Stati membri alla mutua assistenza quando questa potrebbe arrecare danno all’ordine pubblico o ledere altri interessi essenziali dello Stato membro, [...], o

quando la portata dell’azione richiesta, [...], sia manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità della presunta violazione». Tuttavia in tale contesto il principio non è utilizzato in riferimento al rapporto tra esercizio di pubblici poteri e sacrificio di diritti soggettivi, quanto piuttosto come criterio di bilanciamento tra gli interessi degli Stati di fronte alla cooperazione fiscale, in quanto affinché la richiesta di collaborazione non sia rifiutata occorre che essa non comporti un onere amministrativo eccessivo, non deve cioè esserci sproporzione tra benefici conseguiti dallo Stato richiedente ed impiego di risorse dello Stato adito per soddisfare la richiesta. Il principio di proporzionalità viene quindi usato come parametro di valutazione tra costi e benefici dell’assistenza nei rapporti tra gli Stati, al fine di responsabilizzarli nella scelta dei casi rispetto ai quali si rende effettivamente necessario il ricorso a tale strumento. 31 HAIBRONNER, Il principio di proporzionalità, in Impresa Ambiente, 1979, 557.


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allo Stato che ne fa richiesta di determinare correttamente le imposte. La richiesta di assistenza non dovrebbe perciò essere formulata se essa non è in grado di contribuire in alcun modo a chiarire la posizione fiscale del contribuente o se i fatti che a ciò si riferiscono sono stati già tutti chiariti e l’informazione servirebbe solamente a verificare fatti già acclarati. Alla richiesta di cooperazione gli Stati dovrebbero far ricorso quando non sono in grado di determinare autonomamente gli elementi necessari per una corretta determinazione della base imponibile se non attraverso informazioni nella disponibilità di un’altra autorità fiscale o quando la corretta ricostruzione dei fatti è possibile solamente a costi elevati32. 7. Il diritto del contribuente ad essere informato ed il problema del contraddittorio Quanto al principio del contraddittorio , le violazioni possono risultare ancora più evidenti alla luce delle disposizioni che regolano l’agire della pubblica amministrazione. L’art. 13 della legge n. 241/1990 secondo cui le disposizioni contenute nel capo III della legge «partecipazione al procedimento amministrativo»; non si applicano ai procedimenti tributari33, fa propendere la dottrina per l’esclusione dell’esistenza dell’obbligo di notifica al contribuente circa l’avvio di una procedura di cooperazione fiscale. Su tale punto si potrebbe anche concordare, se non

32 Sull’individuazione di interessi meritevoli di tutela e sul ruolo del principio di proporzionalità con particolare riguardo all’art. 26 del modello Ocse v. SCHAUMBURG-SCHLOSSMACHER, Article 26 of the Oecd Model in Light of the Right to Informational Self-Determination, in International Bureau of Fiscal Documentation, ottobre 2000, 522. 33 Sul tema v. GRASSI-DE BRACO La trasparenza amministrativa nel procedimento di accertamento tributario, Padova 1999, 57 ss. 34 Il disegno di legge Senato XIV, 1281, di modifica alle legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo, prevedeva un contenuto più esplicito circa i principi cui dovrebbe essere improntato l’agire della pubblica amministrazione, che non è stato poi ripreso nella versione definitiva. Infatti l’art. 1, comma 1 stabiliva che «l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta dai principi di imparzialità, proporzionalità, legittimo affidamento, efficacia, efficienza, economicità e pubblicità, e dai principi dell’ordinamento comunitario». È pacifico che regole e principi dell’ordinamento comunitario hanno da tempo trovato ingresso anche nelle regole che disciplinano l’azione amministrativa grazie al consolidarsi di orientamenti giurisprudenziali condivisi ed alla successiva codificazione nei trattati. Oltre al principio del contraddittorio, pertanto, tra i principi generali rientrano il principio di proporzionalità, della motivazione, del legittimo affidamento, della precauzione ed hanno trovato puntuale codificazione nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e sono poi confluiti nel Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, non entrato in vigore. Sul tema v. SCOCA, Diritto Amministrativo, Torino, 2008, 192. Per un commento di tali principi comunitari cfr., ZITO, Il “diritto ad una buona amministrazione” nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nell’ordinamento interno, in Dir. Pubbl. Com., 2002, 425 ss.; TRI-

fosse che il rinnovato art. 1, comma 1, della legge n. 241/1990, individua espressamente tra i principi cui deve essere improntata l’azione amministrativa i principi dell’ordinamento comunitario34. È indubbio che con il richiamo ai principi dell’ordinamento comunitario, trovi ingresso nel nostro ordinamento anche il principio del contraddittorio. Pur senza voler entrare nel merito delle critiche che i limiti applicativi stabiliti nell’art. 13 della legge 241/1990 hanno sollevato tra gli studiosi35, ci si sofferma sugli spunti evolutivi prospettati da parte della dottrina36: la non applicazione ai procedimenti tributari delle disposizioni del capo III della legge sul procedimento amministrativo, non ha escluso completamente la partecipazione dei cittadini alla formazione di tale categoria di atti37. I procedimenti tributari, infatti, sono dotati di regole procedimentali speciali in cui la partecipazione dell’interessato38 avviene, anche se non in modo generalizzato e sistematico. La convocazione negli uffici per esibire documenti o fornire dati, notizie, chiarimenti, la risposta ai questionari, il diritto a presentare osservazioni ecc. sono tutte modalità attraverso le quali si realizza la partecipazione del contribuente al procedimento tributario e che escludono che il procedimento di concluda con un atto inaudita altera parte39. La disciplina dell’accertamento contempla una serie di aperture verso il contribuente e che lo mettono in grado di far valere le proprie ragioni prima dell’emanazione dell’atto conclusivo del procedimento40.

MARCHI-BANFI, Il diritto ad una buona amministrazione, in Trattato di diritto amministrativo europeo, a cura di Chiti e Greco, I, Milano, 2007, 49 ss. Sui profili dell’integrazione tra principi dell’ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali v. anche CALIFANO, La motivazione degli atti tributari, Bologna, 2008, 79 ss. 35 Per un esame su alcuni orientamenti CIMELLARO, Le garanzie del procedimento amministrativo nella L. 241/1990, Padova 1997, 13; DEL FEDERICO Tutela del contribuente, cit, 256 ss., con particolare attenzione agli effetti del richiamo ai principi comunitari nel progetto di revisione della legge 241/1990. 36 GRASSI-DE BRACO La trasparenza amministrativa, cit., 62; MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio, cit., 253, il quale formula la condivisibile osservazione secondo la quale la partecipazione del privato al procedimento amministrativo è un genus in cui rientra come species il contraddittorio, dalle spiccate connotazioni difensive e come tale diretto a consentire una protezione anticipata degli interessi del singolo rispetto all’emanazione del provvedimento finale. Questo porta ad escludere che «la previsione di non applicazione degli istituti rientranti del novero della “partecipazione”, contemplata dall’art. 13 (della legge 241/1990) stia ad indicare la volontà del legislatore di escludere l’istituto del contraddittorio dai procedimenti tributari». 37 Occorre qui precisare che la vecchia formulazione dell’art. 24 della legge 241/1990 aveva lasciato aperto l’interrogativo sul se il richiamo all’art. 13 compreso nel capo sulla partecipazione dovesse riguardare tutto l’articolo oppure solamente il primo comma. La nuova formulazione dell’art. 24 ha in tal senso fugato ogni dubbio in quanto è espressamente escluso dall’esercizio del diritto di accesso l’ambito del procedimento tributario. Come correttamente osservato, tuttavia, nel procedimento tributario il prin-

cipio di collaborazione sancito nello Statuto nonché quello della correttezza dell’accertamento tributario comportano l’esistenza di tutta una serie di forme di partecipazione e di richieste documentali rivolte al contribuente che hanno una specifica disciplina. Sul punto COGLIANI, in AA.VV., Commentario alla legge sul procedimento amministrativo, a cura di Cogliani, Padova 2007, 928. 38 Sulla partecipazione del contribuente ai procedimenti tributari come strumento di legalità dell’imposizione v. RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, 29 ss. 39 Per un approfondimento sulle disposizioni volte a garantire la partecipazione-contraddittorio del contribuente, v. CIPOLLA, La prova, cit., 187 ss. 40LA ROSA, Il giusto procedimento tributario, in Giur. Imposte, 2006, ricorda, tra queste disposizioni quelle che riconoscono al contribuente il diritto a partecipare alle operazioni delle verifiche fiscali ed a far verbalizzare i propri rilievi (art. 12, comma 4, L. 212/2000), o sanciscono la necessità, in taluni casi, del preliminare invio di una «richiesta di chiarimenti» o di un «invito a comparire» (art. 37-bis, comma 4, D.P.R. 600/1973, art. 5, D.Lgs 218/1997, comma 4, L. 212/2000), o di una «comunicazione» del risultato della liquidazione e del controllo formale della dichiarazione (art. 36-bis e 36-ter, D.P.R. 600/1973), o di una segnalazione di fatti e circostanze che possono impedire il riconoscimento di un credito, con invito ad integrare o correggere i documenti prodotti (art. 6, comma 2, L. 212/2000), o gli assegnano, al termine delle verifiche fiscali, un termine di 60 giorni per la presentazione di deduzioni difensive, anteriormente alla notifica dell’avviso di accertamento (art. 12, comma 7, L. 212/2000). Sul tema v. anche MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino 2008, 155, ss.


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Il principio del contraddittorio41 trova riconoscimento nel procedimento tributario42: ciò che viene limitato, in ragione della necessità di salvaguardare il segreto istruttorio e l’integrità delle prove, è il diritto del contribuente ad essere informato dell’avvio del procedimento43. Nell’ambito della cooperazione in materia fiscale il diritto del contribuente ad essere informato44 in relazione al fatto che determinati dati o notizie stanno per essere trasmessi ad un’altra autorità fiscale, è strettamente funzionale al principio del contraddittorio. Se infatti al contribuente non è data comunicazione circa l’avvio di tale procedura, questi non sarà in grado di poter efficacemente opporre le sue ragioni all’amministrazione finanziaria in un momento successivo perché avrà già subito irrimediabilmente un pregiudizio45. L’importanza che il principio del diritto al contraddittorio assume nell’ambito della cooperazione fiscale, può essere facilmente dimostrata proprio riguardo alla divulgazione di segreti: indipendentemente da una definizione dei termini, molto generici, di segreto commerciale, industriale, professionale ecc., è pacifico che un segreto è un qualcosa noto solo ad una cerchia ristretta di persone e che se rivelato provoca un danno al contribuente. Anche la semplice possibilità che ciò si verifichi dovrebbe essere sufficiente a spingere le autorità fiscali coinvolte nello scambio di informazioni ad effettuare una valutazione attenta delle conseguenze dannose che potrebbero emergere dalla divulgazione di un segreto, oppure a tentare di eliminarle o, dove questo non sia possibile, a mitigarne il più possibile gli effetti negativi46. La co-

41 Sulla valorizzazione del principio del contraddittorio SALVINI, La nuova partecipazione del contribuente, dalla richiesta di chiarimenti allo statuto del contribuente ed oltre, in Riv. Dir. Trib., I, 2000, 13; FERLAZZO-NATOLI, La rilevanza del principio del contraddittorio nel procedimento di accertamento tributario, in AA.VV., L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, Padova 2000, 551; ID., La tutela del contribuente nel procedimento istruttorio (tra conventio ad excludendum ed uguaglianza costituzionale), in Dir. e Prat. Trib., 2006, III, 577, il quale evidenzia come il principio del contraddittorio deve essere rispettato anche nel procedimento tributario e quindi anche nella fase degli atti istruttori o di controllo, ma anzi l’obbligatorietà del contraddittorio difensivo è orami espressamente sancito dall’art. 12 dello Statuto del contribuente, «nella parte in cui stabilisce che l’ufficio deve attendere il decorso del termine di sessanta giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica prima della notifica dell’avviso di accertamento, per consentirgli la produzione di osservazioni e richieste che devono essere valutate»; DI PIETRO, Il contribuente nell’accertamento delle imposte sui redditi: dalla collaborazione al contraddittorio, in AA.VV., L’evoluzione dell’ord. trib., cit., 536. 42 CIPOLLA, La prova, cit., 273, evidenzia come con lo Statuto del contribuente rappresenti il segnale verso la generalizzazione del contraddittorio procedimentale. 43 Si ricordi tuttavia che la circolare n. 64/E del 27 giugno 2001 della direzione delle Entrate ha espressamente previsto la possibilità, sulla scia di quanto avviene in altri Paesi europei (ad esempio. è quanto accade in Francia: v. LIZZUL, Il problema dei controlli fiscali e l’esperienza francese, in Fisco, 1988, 7403) per le imprese di grandi dimensioni, che il con-

noscenza tali circostanze, a partire dal se una determinata notizia sia o meno coperta dal segreto commerciale, industriale ecc. potrebbe essere possibile solamente con una consultazione del contribuente47. Si comprende quindi come assuma notevole rilievo la valorizzazione di un contraddittorio preventivo con il contribuente, il quale sarà così in grado di far valere le sue ragioni e di opporsi validamente alla trasmissione di notizie che possano danneggiarlo48. Analoghe considerazioni valgono in relazione a ciò che può essere inquadrato nell’area dell’“ordine pubblico”; le cui violazioni che rilevano per il contribuente sono state limitate a quelle che comportano un conflitto intollerabile tra al cooperazione fiscale ed i principi fondamentali degli ordinamenti in materia di giustizia49. Il riconoscimento a favore del contribuente del diritto di contestare (previa conoscenza) la trasmissione delle informazioni è l’unico modo per evitare l’utilizzo, da parte di un’altra autorità fiscale, di informazioni illegittimamente acquisite che, in caso contrario, non sarebbero più tali una volta transitate ed emesso l’avviso di accertamento da parte dell’autorità fiscale che si è avvalsa dell’assistenza. 8. L’applicabilità delle norme sull’azione amministrativa L’approvazione delle modifiche alla legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, avvenute con l’introduzione del capo IVbis, che all’art. 21-octies, comma 2, ritenuto applicabile anche al procedimento tributario50, assume notevole rilievo.

tribuente venga avvisato prima che il controllo abbia inizio. 44Nella circolare citata nella nota precedente l’Agenzia delle Entrate ha affermato che il preavviso è finalizzato in primo luogo ad instaurare un rapporto collaborativo con il contribuente e contribuisce a limitare le turbative all’attività d’impresa, in attuazione con le disposizioni contenute nello Statuto. Identico orientamento è stato espresso nella circolare n. 72/E del 14 agosto 2002 e nella circolare n. 42/E del 24 luglio 2003. 45Sull’importanza delle garanzie difensive per gli atti istruttori compiuti fuori dal processo v. CIPOLLA, La prova, cit., 240 ss. 46In tale ambito si sana la scollatura tra procedimento amministrativo e procedimento tributario, in quanto, si palesa anche per il procedimento tributario, più che la necessità di salvaguardare l’attività istruttoria da inquinamenti, l’esigenza di ponderare i diversi interessi in gioco. 47 Dello stesso avviso ma in relazione all’art. 26 del modello Ocse è il rapporto pubblicato dall’Ocse dal titolo Tax Information Exchange between Oecd Member Countries: a survey of current practices, Parigi 1994; sul punto v. OLIVER, Exchange of information and the Oecd Model Treaty, in Intertax 1995, 3, 116. Concorde sul riconoscimento al diritto ad essere informato del contribuente e alla valorizzazione del contraddittorio nella fase del procedimento sullo scambio di informazioni anche negli Stati in cui non è riconosciuto l’obbligo di notifica anche BETTEN, An Analysis of the 1995 Update of the Oecd Model Convention, in European Taxation, February 1996, 59. 48Come evidenziato dall’Ocse (vedi nota precedente), l’interesse dell’amministrazione fiscale per un processo commerciale o indu-

striale è alquanto scarso, ad eccezione probabilmente in materia di royalties. Più probabile è invece la rilevanza fiscale della politica dei prezzi adottata dall’impresa in relazione a determinati clienti o determinati beni, oppure il ricorso a determinate spese, come quelle per la pubblicità. 49 Così SCHAUMBURG-SCHLOSSMACHER, Article 26 of the Oecd Model, cit., 256. 50Propendono per l’applicabilità del capo IV-bis della legge n. 241/1990 anche al procedimento tributario TESAURO, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 2005, 1445, secondo il quale tale disciplina, completamente nuova, riguarda tutti gli atti amministrativi, e quindi anche gli atti tributari, pur con la necessità che vada coordinata con le disposizioni particolari presenti nel diritto tributario, Id; Istituzioni di diritto tributario, cit., 216; DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, cit., 265 e CALIFANO, in AA.VV., Dal procedimento amministrativo all’azione amministrativa, a cura di Civitarese Matteucci e Gardini, Bologna 2004. Tale condivisibile orientamento desume la propria posizione non solo dalla immutata formulazione dell’art. 13 della L. 241/1990 e dall’inesistenza di una disciplina ad hoc per la materia tributaria, ma anche dalla codificazione dei vizi del provvedimento amministrativo, inclusa la categoria delle nullità, che dovrebbe essere contenuto nella nuova formulazione della L. 241/1990, secondo uno schema già sperimentato nella legislazione tributaria. Per alcuni spunti critici sull’applicabilità delle nuove disposizioni della L. 241/1990 ai procedimenti tributari, v. anche DEL FEDERICO, Procedimento amministrativo e procedimento tributario: le prospettive di revisione della legge n. 241/1990, in AA.VV., Dal procedimento amministrativo,


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L’art. 21-octies dispone che non sia annullabile il provvedimento emesso in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato51. Il chiaro indirizzo adottato dal nostro legislatore, in linea con le tendenze emerse in sede comunitaria e con esperienze già maturate in altri Paesi dell’Unione europea52, è quello del depotenziamento dei vizi formali degli atti amministrativi53: sono irrilevanti e degradano a mere irregolarità quei vizi procedurali o formali che non hanno influito sulla correttezza sostanziale del provvedimento, venendosi così ad «accentuare l’importanza e la prevalenza della correttezza sostanziale dell’azione amministrativa»54. Indipendentemente, pertanto, dalle argomentazioni svolte fino a questo punto a sostegno della autonomia dell’avviso di accertamento emesso a seguito dell’attività investigativa compiuta da un’altra autorità fiscale, è lo stesso legislatore a propendere per un affievolimento dei meccanismi di tutela del contribuente ancorati ai parametri formali55: si apre la strada all’irrilevanza dei

cit., 875; MULEO, Motivazione degli atti impositivi e (ipotetici) riflessi tributari delle modifiche alla legge n. 241/1990, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 535 ss.; BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi; considerazioni sul principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. Dir. Fin., 2006, I, 356 ss.; RAGUCCI, Il contraddittorio, cit., 222, ss. 51 Sull’applicazione del regime di invalidità contenuto nella rinnovata L. 241/1990 agli atti tributari, v. CALIFANO, La motivazione degli atti tributari, cit., 303 ss., nonché, in generale sulla correlazione tra invalidità nel diritto tributario ed invalidità nel diritto amministrativo, MARELLO, L’invalidità nell’accertamento con adesione, in questa rivista, 2008, 3. 52 Per un’indagine sul panorama europeo GALETTA, Violazione di norme sul procedimento amministrativo e annullabilità del provvedimento, Milano 2003, 17. 53 Di contrario avviso una parte della dottrina che invece ritiene che l’intervento legislativo più che incidere sul diritto sostanziale, degradando le violazioni meramente formali a semplici irregolarità, abbia creato una norma con valenza processuale per cui l’atto emesso resterebbe comunque invalido ma tale invalidità non dovrebbe essere pronunciata dal giudice in quanto assolutamente inidonea ad incidere sulla correttezza del dispositivo: così ad es. BUTTUS, Implicazioni tributarie del nuovo regime dei vizi del provvedimento amministrativo, in Dir. e Prat. Trib., 2007, III, 473, cui si rimanda per ulteriori approfondimenti bibliografici sul tema. 54 DEL FEDERICO, Tutela del contribuente, cit., 267. 55 L’applicabilità delle disposizioni sul procedimento amministrativo al procedimento tributario, anche per quanto concerne l’art. 21-octies deve essere coordinata con le disposizioni contenute nello Statuto del contribuente, per cui non potrebbe trovare applicazione laddove dovesse vanificare una delle garanzia previste dallo Statuto: così BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi, cit., 356. 56Il problema del venir meno della tutela giurisdizionale dell’annullamento con conseguente difficoltà a rinvenire, dell’ordinamento interno, idonee tutele alternative, è affrontato anche dalla dottrina amministrativista. Sul

vizi relativi alle norme strumentali; non è annullabile l’atto di accertamento adottato in violazione di nome sul procedimento, ovvero formali, che sia però sostanzialmente fondato. Tali considerazioni spingono a tentare di individuare forme di tutela alternative56, rispetto all’assistenza in materia fiscale, che possono originarsi dalla valorizzazione, appunto, dei principi del contraddittorio e di proporzionalità57. Non sembrano sussistere ostacoli al riconoscimento, anche nella fase istruttoria del procedimento tributario, del principio comunitario del contraddittorio58, valorizzato anche nello Statuto dei diritti del contribuente59 e che consente di concretizzare il dovere di collaborazione di quest’ultimo con l’amministrazione finanziaria60. Gli esempi riportati hanno dimostrato, infatti, che anche nella fase investigativa si formano posizioni ed interessi tutelabili poi in sede processuale, ma soprattutto nella fase istruttoria si possono intaccare situazioni che per la loro delicatezza esigono l’immediatezza della tutela61, senza poter attendere la fase processuale62. Suscita, pertanto, qualche perplessità, l’indirizzo emerso in sede comunitaria63di voler sopprimere la notifica preliminare dello

tema GALETTA, Violazione di norme sul procedimento amministrativo, cit.. Hanno invece individuato ipotesi di tutele alternative quali la possibilità di agire per ottenere una condanna ex art. 2043 del c.c. SCOCA, Risarcibilità ed interesse legittimo, in Dir. Pubbl., 2000, 13; MANGANARO, Principio di legalità e semplificazione dell’azione amministrativa, Napoli 2000, 192. Per soluzioni ulteriori al problema qui esaminato anche DURET, Partecipazione procedimentale e legittimazione processuale, Torino 1996, 275; CERULLI IRELLILUCIANI, La semplificazione dell’azione amministrativa, in Dir. Amm., 2000, 656; OCCHIENA, Situazioni giuridiche soggettive e procedimento amministrativo, Milano 2002. 57 Questi principi sono peraltro indissolubilmente legati in quanto è la dialettica con il contribuente che consente alle Amministrazioni fiscali di poter effettuare più agevolmente quella ponderazione tra i vari interessi in gioco ed il pubblico interesse, attraverso una più obiettivo confronto tra vantaggi e pregiudizi che gli interessati sono destinati a ricevere e mezzo utilizzato dall’amministrazione fiscale per raggiungere il proprio scopo. Ciò agevola l’attività dell’amministrazione finanziaria e realizza al di fuori di un’ottica puramente processuale, quello che la dottrina rimarca come dialettica tra le parti che, attraverso un reciproco apporto collaborativo, consente una migliore definizione del quadro cognitivo. Per un’ampia disamina della dottrina processualistica sul ruolo del contraddittorio come forma di collaborazione ai fini di un adeguato accertamento dei fatti v. MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio, cit., 217. 58Sul diritto alla difesa e al contraddittorio nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: C322/1981 del 9 novembre 1983, Michelin contro Commissione (racc. 1983, 3461); cause riunite C-97/1987, C-98/1987 e C-99/1987 del 17 ottobre 1989, Dow Chemical Iberica e altri, cit.; cause riunite C-48/1990 e C-66/1990 del 12 febbraio 1992, Netherlands and PTT Nederland/Commissione (racc. 1992, 1 ss.); C-395/2000 del 12 dicembre 2002, Distillerie Fratelli Cipriani S.p.A./Ministero delle Finanze (racc. 2002, 1 ss.). Sul rapporto fra norme comunitarie e principi procedimenta-

li nazionali in tema di modalità istruttorie CALIFANO, Principi comuni e procedimento tributario: dalle tradizioni giuridiche nazionali alle garanzie del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2004, I, 993. 59 Sulla valorizzazione di principi a tutela del contribuente nello Statuto, così come nella L. 241/1990 ancora CALIFANO, Principi comuni e procedimento tributario, cit., nonché RAGUCCI, Il contraddittorio, cit., che pur sottolineando l’assenza di un diritto generale di partecipazione all’interno dello Statuto, riconosce nei riferimenti ai concetti di “collaborazione” e “cooperazione” in esso contenuti forme attraverso le quali l’amministrazione provoca la partecipazione del contribuente. 60In particolare sul rapporto tra disciplina della invalidità L. n. 15/2005 e le norme dello Statuto del contribuente, RAGUCCI, Il contraddittorio, cit., 224 ss. 61 Escludono l’estensione del principio del contraddittorio anche al procedimento amministrativo di accertamento fiscale Cass., 6 ottobre 1999, n. 11094, in Riv. Dir. Trib., 2000, I, 601; Cass., 22 dicembre 1999, n. 14427, in Boll. Trib., 2000, 624; Cass., 18 aprile 2003, n. 6232 in Riv. Giur. Trib., 2003, 819; tuttavia va emergendo un contrario orientamento favorevole alla necessarietà del contraddittorio anche nell’ambito dei procedimenti tributari, in quanto espressione di un principio generale dell’azione amministrativa e del giusto procedimento, v. Cass., sez. trib., 7 febbraio 2008, n. 2816. Sul tema v. RAGUCCI, Il contraddittorio, cit., il quale sottolinea l’importanza del contraddittorio alla luce del collegamento tra quest’ultimo ed il contenuto dispositivo dell’accertamento, 232, ss. 62 Si vedano i riferimenti richiamati da MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio, cit., 232 ss., sull’utilizzo dello strumento del contraddittorio nel procedimento amministrativo come elemento indefettibile al fine di realizzare la comparazione tra gli interessi coinvolti dall’azione amministrativa e l’attuazione dei precetti costituzionali. 63 In occasione dei lavori per la presentazione della proposta di modifica alla direttiva 77/799/CEE sono emersi orientamenti miranti a limitare notevolmente l’obbligo di


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scambio di informazioni al contribuente. La condivisibile preoccupazione che la notifica al contribuente circa una richiesta di assistenza vada a discapito della proficuità del controllo, deve infatti essere controbilanciata dall’interesse per le amministrazioni fiscali a che il contribuente non subisca un danno irreparabile visto che le indagini condotte per rispondere ad una richiesta di informazioni non sono assimilabili a quelle normalmente svolte dagli uffici. Questo che appare come l’indirizzo comunitario in senso opposto alla valorizzazione della tutela del contribuente non deve comunque essere sopravvalutato. La compressione del diritto di notifica non necessariamente esclude la possibilità di un esercizio preventivo del contraddittorio. È infatti comprensibile la preoccupazione dell’Unione europea per le ripercussioni che alcune disposizioni interne agli Stati provocano sulla cooperazione fiscale in termini di inefficacia. Si fa riferimento soprattutto a quelle norme che prevedono il consenso preventivo del contribuente o l’obbligo di notifica. Si ritiene tuttavia che non compromettano la proficuità delle indagini quelle norme interne che prevedono un obbligo di notifica quando l’attività istruttoria è già stata espletata64. La tendenza emersa in sede comunitaria è finalizzata ad evitare che l’obbligo di notifica intervenga in un momento “inopportuno”, piuttosto che volto ad una sua totale eliminazione e pertanto non si pone nel senso di affievolire la tutela del contribuente65. 9. Conclusioni Le questioni affrontate sono per ora ristrette ad un ambito puramente teorico, stante la carenza di prassi amministrativa e di casistica giurisprudenziale. Si ritiene, tuttavia, che l’utilizzo dello scambio di informazioni, con particolare riguardo al nostro ordinamento, non dovrebbe porre problemi di utilizzabilità quanto al materiale informativo acquisito per il tramite delle autorità fiscali estere. Quanto invece alle incongruenze insite nel sistema ed ai conflitti che potrebbero sorgere tra l’interesse degli Stati e le garanzie dei privati, occorre aggiungere alcune considerazioni: i contribuenti, devono essere posti in condizione di avvalersi delle garanzie già riconosciute a livello comunitario, che non possono più essere respinte o intralciate dalla prassi e dalla giurisprudenza dei singoli Stati. L’applicazione di tali principi è tuttavia in parte subordinata alla conoscibilità, da parte del soggetto interessato, dell’attività amministrativa di cooperazione in atto. È questo l’elemento che costituisce la garanzia fondamentale su

notifica al contribuente circa il ricevimento di una richiesta di informazioni al fine di arginare quelle disposizioni nazionali che impongono all’autorità competente di comunicare al contribuente il ricevimento di una richiesta di assistenza proveniente da un altro Stato membro (mentre un simile obbligo di notifica non sussiste quando detti Stati svolgono indagini per conto proprio). Tali preoccupazioni, emerse sia in seno alla Commissione europea, sia nel gruppo di lavoro ad hoc sulle frodi fiscali, sono state trasfuse nella Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 77/799/CEE , (2003/0170/COD), con l’aggiunta, nell’art. 2, dopo il paragrafo 2, di un nuovo comma: «per procurarsi le informazioni richieste, l’autorità interpellata, o l’autorità amministrativa cui essa si rivolge, procede come se agisse per conto proprio o su richiesta di

cui basare la facoltà che il soggetto leso possa agire davanti al suo giudice naturale per far valere l’illegittimità degli atti. Tale argomento assume decisivo rilievo soprattutto in presenza della debole connessione tra attività istruttoria diretta all’acquisizione delle informazioni, ed attività di accertamento che su di essa si fonda, in quanto una volta accantonata la teoria recessiva della invalidità derivata, entro certi limiti si giunge anche al superamento dell’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite (rilevando in termini di legittimità-illegittimità soltanto l’attività svolta dall’autorità fiscale nazionale che fa uso delle informazioni ed emana l’atto di accertamento). Comunque, sempre nel quadro dei possibili ambiti di tutela, proprio per la costante esigenza di stemperare le contrapposizioni che emergono in materia di assistenza fiscale, è possibile inserire anche l’intervento del garante del contribuente, nel ruolo di “tutore” del rapporto di fiducia e leale cooperazione tra contribuente ed amministrazione finanziaria. Anche per le attività poste in essere in adempimento delle norme internazionali e comunitarie in materia di cooperazione fiscale, potrebbe essere configurabile quell’intervento del garante che l’art. 13, comma 6 della legge 212/2000 qualifica come rivolto a contenere scorrettezze, disfunzioni, irregolarità, irragionevolezze dell’agire amministrativo. Al garante potrebbe essere richiesto di valutare se esistano misure meno invasive in grado di condurre a risultati analoghi o se, in osservanza del principio di proporzionalità, il sacrificio degli interessi del contribuente sia necessario ed idoneo allo scopo, in una fase in cui è importante prevenire il sorgere di un conflitto attraverso la sollecitazione di efficienza dell’amministrazione, a prescindere da una tutela giurisdizionale successiva e/o ipotetica. Ampi margini di rivalutazione della posizione del contribuente rispetto all’agire amministrativo, sono peraltro già emersi con forza sia sul fronte interno, sia in ambito europeo. È opportuno infatti ricordare come negli ultimi tempi siano stati registrati orientamenti fortemente garantisti (sia pure con decisioni talvolta opinabili)66, sul fronte delle tutele procedimentali. Questa linea evolutiva potrebbe avere ricadute importanti sul tema della cooperazione fiscale, laddove risulta marcata la tendenza degli Stati e dell’Unione a valorizzare l’utilizzo dello scambio di informazioni continuando a trascurare la sfera delle garanzie del contribuente. Del resto anche per quanto concerne l’effettività del diritto di difesa rispetto all’esercizio del potere impositivo, il Consiglio di Stato67, ha ammesso l’accesso68 agli atti preparatori del procedi-

un’altra autorità del proprio Stato membro», in modo che all’istituto della cooperazione in materia fiscale si applicasse un unico insieme di norme, indipendentemente dal luogo in cui si trova il contribuente interessato. Questa proposta è stata poi trasfusa nei considerando alla direttiva 2004/56/CE (che ha modificato la direttiva 77/799/CEE), nel cui nuovo testo, all’art. 2, è stato aggiunto: «per procurarsi le informazioni richieste, l’autorità interpellata, o l’autorità amministrativa cui essa si rivolge, procede come se agisse per conto proprio o su richiesta di un’altra autorità del proprio Stato membro». 64 Come accade nei Paesi Bassi. 65 Si rafforza, al contrario, sul piano comunitario l’indirizzo della Corte di giustizia sulla natura di principio generale del diritto di difesa che deve trovare applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare

un atto limitativo nei confronti di un soggetto: v. C -349/2007, con nota di RAGUCCI, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, in Rass. Trib., 2009, II, 580. 66 V. ad es. Comm. trib. prov. Treviso, del 10 luglio 2007, n. 67, in questa rivista, 2008, I, 47, con nota di CALIFANO, Ragioni a fondamento della verifica e riflessi sulla legittimità dell’atto impositivo, cui si rimanda per una rassegna sul tema dei vizi degli atti istruttori e l’illegittimità derivata dell’atto impositivo. 67 Sentenza 21 ottobre 2008, n. 5144. 68 Prima della modifica introdotta dall’art. 16, L. n. 15/2005, il Consiglio di Stato era arrivato a riconoscere il diritto di accesso al termine delle verifiche: v. ad es. Cons. Stato 5 dicembre 1995, n. 982, in Riv. Dir. Trib., 1996, II, 1109, con nota di LA ROSA, Accesso agli atti dispositivi di verifiche fiscali e tutela del diritto di riservatezza.


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mento tributario, con l’unica preclusione del requisito temporale della fase di pendenza ed escludendo pertanto qualunque esigenza di segretezza rispetto al diritto del contribuente di conoscere «il perché della imposizione e della relativa quantificazione», ritenendo inammissibile «nell’ordinamento l’esercizio di un potere ad libitum». Al di là della evidente tendenza giurisprudenziale ad ampliare la portata applicativa della legge sull’azione amministrativa anche al procedimento tributario – in particolare dopo le modifiche di cui alla L. n. 15/2005 – emergono istanze di trasparenza e partecipazione per tutti quegli atti la cui conoscenza risponde alle esigenze di tutela del contribuente. Le aperture della giurisprudenza amministrativa sul fronte della trasparenza, denotano la permeabilità dell’ordinamento interno rispetto ai principi dell’ordinamento comunitario, non solo in termini giuridico-formali, ma anche sul piano dell’irraggiamento dei valori garantistici. D’altro canto quelle lacune emerse nell’ambito della cooperazione fra autorità fiscali, per quanto riguarda le garanzie e la tutela del contribuente, non possono più ritenersi compatibili con il fondamentale principio della effettività della tutela giurisdizionale,

69 Così DEL FEDERICO, The issue of taxpayer’s legal protection, in Riv. Dir. Trib. Internaz., in AA.VV, Instant Issue for the International Eatlp Congress, Santiago de Compostela 4-

posto dagli artt. 6 e 13 della Cedu. Ed è appena il caso di evidenziare che per un verso i principi della Cedu debbono ritenersi ormai ricompresi nell’ordinamento comunitario in virtù di quanto inequivocabilmente previsto dall’art. 6 del Trattato UE69, e per altro verso che la stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è giunta a ritenere applicabile il principio di effettività della tutela giurisdizionale ex artt. 6 e 13 Cedu anche al settore delle verifiche fiscali70, a prescindere dalla possibilità offerta al contribuente di agire in via differita per contestare l’illegittimità degli atti o domandare il risarcimento del danno. Tutt’al più, in considerazione dei peculiari profili transnazionali della cooperazione tra autorità fiscali, andrebbe riaffermata la necessità di far valere le illegittimità occorse durante l’attività investigativa all’estero, direttamente ed immediatamente, dinanzi alle autorità giurisdizionali del Paese in cui viene posta in essere la violazione. In tale contesto, in tutti i sistemi nazionali degli Stati membri dell’unione europea, i pregnanti poteri istruttori e di controllo delle autorità fiscali dovrebbero poi essere contemperati alla luce dei fondamentali principi di proporzionalità e di tutela del contraddittorio.

6 giugno 2009. 70 Si fa in particolare riferimento alla decisione Corte europea 21 febbraio 2008, Ravon contro Francia, in Riv. Dir. Trib., 2008, 181, con

nota adesiva di MULEO. Su tale questione si veda ampliamente anche DEL FEDERICO, The issue, cit.


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NOTE RELATIVE AL SILENZIO DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA E ALLE FORME DI TUTELA DEL CONTRIBUENTE di Pier Paolo Cairo 1. Premesse generali. Il fondamento giuridico del silenzio amministrativo - 2. Il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di rimborso del contribuente: ricostruzioni teoriche dell’istituto - 3. Segue: riflessi sul piano del contenzioso tributario e dei poteri dell’amministrazione finanziaria - 4. Il silenzio dell’ufficio a fronte della richiesta di riesame di un atto impositivo - 5. Segue: i mezzi di tutela del contribuente e il riparto di giurisdizione - 6. Cenni sul silenzio-assenso in materia di interpello del contribuente - 7. Conclusioni sul valore del silenzio quale nuovo strumento di tutela del cittadino 1. Premesse generali. Il fondamento giuridico del silenzio amministrativo Il dibattito sul silenzio della pubblica amministrazione, da sempre presente nella riflessione scientifica e soggetto a continui sviluppi sul piano legislativo e giurisprudenziale, nasce ed è tuttora influenzato dalla oggettiva difficoltà di dare un significato all’inerzia, vale a dire ad un “non fare”, ad un mero contegno passivo. Avulso da un contesto o da circostanze concrete, il silenzio non ha alcun valore, o almeno non possiede un significato chiaro e univoco; essendo privo di un sostrato “naturalistico”, si limita a lasciare inalterata la realtà esistente. Sulla questione si è lungamente soffermata la dottrina del diritto privato (nel cui ambito il fenomeno assume pure un certo rilievo)1, osservando che il silenzio è ambiguo, non è di per sé espressivo di

1 Il problema si pone, in particolare, con riferimento alla formazione del negozio giuridico, là dove, di fronte ad una proposta di contratto, l’oblato rimanga inerte non manifestando né un rifiuto né un’accettazione (neppure in modo implicito, attraverso i cd. comportamenti concludenti). E allora, se non si versa in particolari situazioni nelle quali la legge consente modalità diverse di conclusione del contratto (art. 1333 c.c.; art. 1328 c.c.), vale la regola generale per cui un contratto non può concludersi se non con un’accettazione che giunga a conoscenza del proponente (quindi non col silenzio: art. 1326, comma 1). Peraltro, se l’accettazione non perviene entro il termine dovuto, non vi è (tacito) rifiuto della proposta da parte dell’oblato, ma semplice possibilità per il proponente di ritenere efficace o meno un’eventuale accettazione tardiva (art. 1326, commi 2 e 3): in un tale contesto perciò il silenzio non assume di per sé alcun significato negoziale. Del resto, l’antica giurisprudenza romana già avvertiva che «qui tacet, non utique fatetur: sed tamen verum est eum non negare» (PAOLO, Dig., 50, 17, 142). 2 Cfr. BIANCA, Diritto civile. Il contratto, Milano, 2000, 3, 211 ss. L’autore aggiunge che, in quest’ultimo caso (cd. silenzio circostanziato), non è tanto il silenzio in sé ad avere valore nego-

una volontà negoziale positiva o negativa, ma può valere come manifestazione (tacita) di consenso nel caso che acquisti tale valore per volontà della legge o delle parti stesse, ovvero sia accompagnato da circostanze che consentano di interpretarlo in tal modo2. Ne discende che il silenzio, in quanto tale, è un fatto giuridicamente irrilevante. È questo il punto da cui partire per condurre una disamina delle ipotesi di inerzia della pubblica amministrazione in materia tributaria. Il silenzio serbato dagli uffici fiscali, fenomeno non infrequente nella prassi, non presenta un valore giuridico intrinseco, immanente, ma lo acquista in virtù di una volontà espressa o implicita dell’ordinamento. La nostra indagine sarà rivolta ad individuare, anzitutto, il “fondamento giuridico” del silenzio amministrativo in materia tributaria. Si prenderanno in esame, quindi, le conseguenze del suo formarsi, sia sul piano dei poteri (o dei doveri) dell’amministrazione finanziaria, sia su quello dei mezzi di tutela da riconoscere al cittadino-contribuente. In relazione al primo aspetto, occorre ribadire che la sottrazione del silenzio all’area del “giuridicamente irrilevante” – a cui sarebbe naturalmente destinato – può avvenire solo attraverso una “speciale” qualificazione dell’ordinamento3. La dottrina ha, come vedremo, lungamente dibattuto in ordine a tale qualificazione. Ha attribuito al silenzio i significati più disparati: provvedimento di rigetto, provvedimento di accoglimento, inadempimento, fatto di rilievo processuale, ma solo di recente sembra aver razionalizzato la materia, ancorandola ai principi generali del diritto pubblico che, ove non derogati, trovano applicazione anche sul piano tributario4.

ziale, quanto le concrete circostanze, ossia il comportamento complessivo posto in essere dal contraente, alla luce del quale la mancanza di un’espressa dichiarazione può assumere significato di consenso o di accettazione (un esempio è quello del creditore che, nell’ambito di un rapporto contrattuale, riceve la prestazione dal debitore non rilevandone l’inesattezza, anzi eseguendo a sua volta la propria, o rinnovando ripetutamente la propria acquiescenza nello svolgimento del rapporto). Sembra potersi dire, pertanto, che nell’ipotesi di silenzio circostanziato è il comportamento complessivo del privato che costituisce una “implicita e indiretta” manifestazione di volontà (diversamente dai cd. comportamenti concludenti, di cui alla nota precedente, che sono invece manifestazione “tacita ma diretta” della volontà negoziale, in quanto diretti, appunto, ad esprimerla). In questo senso si orienta la dottrina classica, che tiene distinta la nozione di comportamento concludente in senso lato dalla fattispecie del contegno inerte o puramente omissivo: cfr. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1955, 138 ss.; MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1957, I, 482; BARASSI, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1946, 109 ss. 3 In questo senso MARCHESE, Il silenzio nel diritto amministrativo, Milano, 1983, 31, il quale

osserva pure che la categoria civilistica di “fatto concludente” risulta di difficile applicazione nel diritto amministrativo, attesa la «necessità di rispettare il principio di obbligatorietà del procedimento, che è peculiare del diritto amministrativo, obbligatorietà che non può non riguardare, in prima linea, l’atto conclusivo, che attiene alla sua fase più importante, e cioè quella costitutiva» (29). Da ciò si desume che un provvedimento tacito non può normalmente formarsi “in via di fatto”, ma solo se e quando sia intervenuto il legislatore a qualificare un dato fatto o comportamento come provvedimento amministrativo. 4 In tema di silenzio della pubblica amministrazione esiste una vasta e storica letteratura: si v. in particolare MARCHESE, Il silenzio nel diritto amministrativo, cit.; FORTI, Il silenzio della pubblica amministrazione e i suoi effetti processuali, 1933, in Studi di diritto pubblico, II, 1937, 231 ss.; SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971; SANDULLI, Sul regime attuale del silenzio-inadempimento della pubblica amministrazione, in Riv. Dir. Proc., 1977, 169 ss.; LIGNANI, voce Silenzio, (Dir. Amm.), in Enc. Dir., XLII, Milano, 1990, 556 ss.; TONOLETTI, voce Silenzio della pubblica amministrazione, in Dig. Disc. Pubbl., XIV, Torino, 1999. Per una rassegna delle problematiche in tema di silen-


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Alcuni di questi principi sono ora codificati dalla legge generale sul procedimento amministrativo (L. n. 241/1990), la quale, all’art. 2, comma 1, statuisce l’obbligo per la p.a. di provvedere alla cura degli interessi pubblici attraverso lo svolgimento di un procedimento e l’adozione di un provvedimento espresso. È questo il dato di partenza che caratterizza il silenzio amministrativo: l’esistenza di un “obbligo di agire” in capo alla p.a., ove ci siano i presupposti stabiliti dall’art. 2 (l’istanza di parte o la presenza di un interesse pubblico concreto che richiede l’intervento d’ufficio dell’autorità amministrativa). È la legge stessa, quindi, che definisce l’inerzia dei pubblici poteri e la connota come “inadempimento”, qualificazione tipica del comportamento di chi non ottempera ad un obbligo legalmente previsto. Il silenzio della pubblica amministrazione, inteso quale violazione di un obbligo, configura dunque una condotta illegittima – comunemente definita “silenzio-inadempimento” o anche “silenzio-rifiuto”5, a cui l’ordinamento reagisce riconoscendo al cittadino la possibilità di difendersi in giudizio anche contro una mera omissione. Tale riconoscimento, inizialmente negato per via della natura impugnatoria del processo amministrativo, è oggi sancito dall’art. 21bis della legge n. 1034/1971, che prevede un rito speciale in materia di silenzio. In tal modo al privato è consentito adire l’autorità giurisdizionale per far accertare l’inadempimento dell’obbligo di provvedere, sollecitando così l’intervento della p.a.; nei casi di attività vincolata, inoltre, il giudice può arrivare a stabilire “come” la p.a. debba provvedere, posto che il provvedimento risulta in tal caso mera attuazione delle disposizioni di legge6. Si è osservato7 che la giurisprudenza è pervenuta gradualmente a tale riconoscimento. In un primo momento, infatti, richiamando l’art. 113 Cost. e il principio di pienezza ed effettività della difesa giurisdizionale di cui all’art. 24, aveva esteso la tutela dei diritti e degli interessi legittimi anche alle omissioni, intese inizialmente come “atti negativi”, e quindi riconducibili alla nozione di “atti della pubblica amministrazione” di cui all’art. 113 della Costituzione. Questa equiparazione fra atto e inerzia ha in effetti influenzato tutto il dibattito successivo sulla natura del silenzio. L’inerzia, come vedremo, è stata equiparata in diversi casi ad un provvedimento di tipo negativo, pur in assenza di una espressa qualifica legislativa, in modo da consentire la tutela giurisdizionale del cittadino nell’ambito di un processo fondato sulla impugnazione di provvedimenti. In realtà, come si è già detto, il silenzio è privo di un proprio significato (sul piano naturalistico prima ancora che giuridico) e richiede una particolare qualificazione per poter assumere un certo rilievo. In conclusione, la rilevanza giuridica dell’inerzia amministrativa presuppone l’esistenza di un obbligo di agire (e di provvedere) in capo alla stessa – spesso, ma non sempre, ricollegabile ad un’i-

zio-rifiuto e silenzio-assenso cfr. anche PARISIO, I silenzi della pubblica amministrazione, Milano, 1996. Con particolare riferimento alla figura del silenzio-assenso, di cui si dirà più ampiamente nel paragrafo 6, è d’obbligo il riferimento a TRAVI, Silenzio-assenso ed esercizio della funzione amministrativa, Padova, 1985. 5 Il secondo sintagma deriva – come si vedrà nel prosieguo (paragrafo 2) – dalla confusione con la figura del “silenzio-rigetto” su ricorso amministrativo, attualmente prevista dall’art. 6, D.P.R. n. 1199/1973, la cui disciplina, in passato, veniva applicata analogicamente anche all’ipotesi di inerzia su istanza di primo grado, assumendo in tal modo una portata generale. In tempi più recenti dottrina e giurisprudenza hanno preso coscienza della diversità dei due istituti; tuttavia è rimasta in uso la locuzione “silenzio-rifiuto”

6 7 8 9

stanza del privato – che dia modo di attribuire al silenzio il significato di inadempimento. In alcune ipotesi, tuttavia, è lo stesso legislatore a qualificare espressamente una specifica fattispecie di silenzio come provvedimento tacito, con valore di assenso o di diniego, sulla base di una scelta di natura discrezionale e degli interessi che la legge ritiene di volta in volta preminenti. 2. Il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di rimborso del contribuente: ricostruzioni teoriche dell’istituto Alla luce del quadro introduttivo che si è tracciato, si passeranno ora in rassegna le principali ipotesi di silenzio rilevanti in ambito tributario, provando a tenere fermi i principi sopra richiamati, e partendo dalla materia dei rimborsi richiesti dal contribuente agli uffici fiscali per somme indebitamente versate. A titolo esemplificativo, si pensi al caso in cui il contribuente abbia versato acconti che, a consuntivo, superano quanto effettivamente dovuto al fisco, ovvero abbia effettuato pagamenti per errore di fatto o di diritto, oppure per evitare di incorrere in eventuali sanzioni8. È noto che, in simili evenienze, il contribuente non può rivolgersi direttamente al giudice, ma è tenuto previamente a richiedere le somme all’amministrazione competente entro i termini previsti da ciascuna legge d’imposta. In mancanza di disposizioni specifiche, può domandare il rimborso entro due anni dal pagamento o ancora, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione (art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992). In materia di imposte sui redditi, l’istanza di rimborso è disciplinata dagli artt. 37 e 38, D.P.R. n. 602/1973, che prevedono il ricorso all’intendente di finanza (oggi la direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate) entro il termine di decadenza di quarantotto mesi, che decorre, per l’ipotesi di cui all’art. 38, dalla data del versamento indebitamente effettuato. Sebbene lo scopo di tale previsione sia quello di consentire un risparmio di energie processuali, sollecitando direttamente l’amministrazione a pronunciarsi, è in effetti piuttosto frequente che l’ufficio cui è rivolta la richiesta rimanga inerte, non adottando alcuna decisione espressa. Dottrina e giurisprudenza sono divise in ordine alla qualificazione da attribuire al silenzio che viene così a formarsi. In passato, era prevalente l’orientamento che equiparava tale silenzio ad un provvedimento di diniego del rimborso (cd. silenzio-rigetto), cosicché il successivo ricorso esperito dal contribuente si configurava come azione di annullamento del diniego, proponibile entro l’ordinario termine decadenziale di sessanta giorni. Una simile ricostruzione, sostenuta in passato da una parte della dottrina e della giurisprudenza9, qualificando il silenzio come ri-

con riferimento al silenzio-inadempimento. Invero, la stessa ambiguità semantica del termine “silenzio-rifiuto” riflette la difficoltà di stabilire se, in presenza di inerzia amministrativa, si debba parlare di silenzio provvedimentale (rifiuto di accoglimento dell’istanza, quindi provvedimento di diniego) o piuttosto di silenzio-inadempimento (rifiuto di emanare un provvedimento, qualunque esso sia, pur in presenza di un obbligo di provvedere). Cfr. art. 2, comma 5, L. 241/1990. MARCHESE, Il silenzio nel diritto amministrativo, cit., 97. Cfr. LUPI, Diritto tributario, Milano, 2005, 206. L’orientamento in parola si ricollegava alla disposizione di cui all’art. 16, comma 3, dell’ormai abrogato D.P.R. n. 636/1972, che equiparava il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di rimborso ad un provvedimen-

to confermativo dell’imposizione, e lo qualificava, in sostanza, come diniego tacito di rimborso. Nell’attuale disciplina (citata poco più avanti nel testo) la norma non è più presente, anche se gli artt. 19 e 21 parlano di “rifiuto tacito” del rimborso, quale atto impugnabile dinnanzi alle Commissioni tributarie. Con riferimento all’orientamento tradizionale cfr. in dottrina BAFILE, Introduzione al diritto tributario, Padova, 1978, 238, il quale concepisce l’istanza per il rimborso come «un ricorso amministrativo a carattere contenzioso diretto a provocare una decisione amministrativa», che spetta allo stesso organo impositore, ovvero ad un organo gerarchicamente sovraordinato all’ufficio che ha accertato il tributo. In tal modo si avrebbe, rispettivamente, un ricorso in opposizione ovvero un ricorso di tipo gerarchico, e in caso di inerzia dell’ufficio adito troverebbe


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getto o diniego, potrebbe oggi trovare fondamento nel tenore letterale della disposizione di cui all’art. 19, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, che include, tra gli atti impugnabili davanti alle Commissioni tributarie, anche «il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi». La locuzione “rifiuto tacito”, ripresa dal successivo art. 21, comma 2, potrebbe alludere ad un provvedimento di rigetto, che si forma tacitamente allo spirare del termine di novanta giorni previsto dall’art. 21, nonché dagli artt. 37, comma 2 e 38, comma 4, D.P.R. n. 602/1973. Il legislatore avrebbe così istituito un parallelismo tra atto espresso e silenzio, attribuendo all’inerzia valore provvedimentale ed equiparandola ad un diniego. D’altra parte – sempre secondo la ricostruzione in commento – ammettere che il contribuente possa adire il giudice tributario impugnando non un atto, ma un mero comportamento (come potrebbe essere il silenzio-inadempimento) significherebbe contraddire la norma di cui all’art. 19, che struttura il processo tributario come processo d’impugnazione, avente ad oggetto gli atti indicati dalla legge (o quelli con effetti analoghi)10. L’orientamento in parola, che ha perduto consenso nella dottrina più recente11, trovava fondamento nella più generale concezione del silenzio che, almeno fino agli anni Ottanta del secolo scorso, risultava predominante12. Esso è stato, infatti, per lungo tempo assoggettato alla disciplina dettata in tema di silenzio su ricorso gerarchico dall’art. 5 del R.D. 3 marzo 1934, n. 383. La norma prescriveva che, decorsi centoventi giorni dalla presentazione del ricorso senza che fosse stata emanata una decisione espressa, il ricorrente notificasse alla p.a. una diffida a provvedere entro sessanta giorni. Decorso infruttuosamente tale termine, il ricorso s’intendeva respinto e si formava così un provvedimento negativo tacito, definito come “silenzio-rigetto” o “silenzio-rifiuto” (espressioni originariamente considerate equivalenti)13.

applicazione l’art. 6, D.P.R. n. 1199/1971, che regola l’ipotesi di silenzio su ricorso amministrativo. Secondo l’opinione tradizionale, tale silenzio si configura come atto tacito di rigetto del ricorso, impugnabile in sede giurisdizionale entro l’ordinario termine di decadenza. Cfr. anche TREMONTI, Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977, 138, che però si limita a parlare di “silenzio-rigetto” sull’istanza di rimborso, senza qualificare tale istanza come ricorso amministrativo. Sempre con riferimento a tale indirizzo, si v. MAFFEZZONI, La giurisdizione tributaria nell’ambito della giurisdizione amministrativa, in Boll. Trib., 1982, 585. In giurisprudenza v. Cass., 16 gennaio 1986, 210, in Rass. Dir. Fin., 1986, II, 47, con nota di POLANO, Silenzio dell’amministrazione finanziaria e processo tributario nell’evoluzione giurisprudenziale. 10 Così PALUMBO, Sull’impugnabilità del provvedimento di diniego di rimborso, emanato dopo la formazione del silenzio (nota a Comm. centr., sez. XX, 8 maggio 1985, n. 4416), in Dir. e Prat. Trib., 1986, II, 692 ss. L’autore ritiene poi che il silenzio dell’ufficio finanziario debba intendersi come «fattispecie d’inadempimento a valore tipico di diniego di rimborso», definizione che ci pare contraddittoria posto che, se si intende il silenzio come diniego, esso non costituisce inadempimento, bensì adempimento (dell’obbligo di provvedere) per mezzo di un atto tacito di diniego. 11 Pare invece resistere in larga misura nella giurisprudenza, specie di legittimità: v. Cass., sez. trib., 1 dicembre 2004, n. 22564, su banca dati fisconline, dove continua a trovar spazio la

Le più recenti elaborazioni dell’istituto hanno, tuttavia, evidenziato il carattere profondamente diverso del silenzio formatosi su un’istanza volta al rilascio di un provvedimento di primo grado, dal silenzio relativo ad un ricorso con cui si chiede un provvedimento di secondo grado, consistente nel riesame dell’atto-base. In quest’ultima ipotesi, infatti, l’amministrazione si è già pronunciata una prima volta. La diversità delle situazioni, perciò, rende inapplicabile in via analogica la previsione di cui all’ art. 5 citato (oggi sostituito dall’art. 6, D.P.R. n. 1199/197114). L’espressione “silenzio-rifiuto” assume, in quest’ottica, un significato differente atteso che, come si è spiegato nel precedente paragrafo, non è possibile attribuire valore provvedimentale all’inerzia in mancanza di una qualificazione legislativa. Il mero silenzio mantenuto dalla p.a. acquista invece la diversa valenza di “inadempimento di un obbligo”, sempre che ricorrano le condizioni per il sorgere dell’obbligo medesimo. Con riferimento all’inerzia dell’amministrazione finanziaria sulla richiesta di rimborso, un obbligo sembra potersi desumere, a nostro avviso, dal tenore dell’art. 38, comma 3, D.P.R. n. 602/1973, che non attribuisce al fisco una facoltà o un potere discrezionale di pronunciarsi in ordine alla restituzione15. Non vi sono infatti interessi che l’amministrazione debba discrezionalmente ponderare. L’ufficio è invece obbligato a verificare se vi siano i presupposti per la restituzione del tributo indebitamente versato, ossia se sussiste il diritto al rimborso del contribuente. Tale diritto, come sostiene autorevole dottrina16, preesiste al provvedimento dell’amministrazione (che ha, in questo caso, natura dichiarativa e non costitutiva) cosicché, se l’amministrazione non dovesse provvedere entro il termine stabilito dalla legge17, il contribuente potrebbe far valere il credito in sede giurisdizionale.

concezione del silenzio come diniego tacito equipollente ad un provvedimento espresso, quale presupposto processuale per l’ammissibilità del ricorso, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio; Cass., sez. un., 22 luglio 2004, n. 13793, su banca dati fisconline. In tempi meno recenti, v. Cass., sez. un., 6 novembre 1993, n. 10999, su banca dati fisconline; Cass., sez. un., 25 maggio 1993, n. 5841, su banca dati fisconline. Dalle succitate pronunce emerge che l’azione di accertamento negativo del debito d’imposta, esperita in via preventiva ed in assenza di alcun atto di imposizione, è da considerarsi assolutamente improponibile nel processo tributario. 12 Cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2006, I, 308, nota 29, che osserva come l’equiparazione del silenzio ad un atto di diniego espresso sia dovuta storicamente proprio all’esigenza di rispettare il tradizionale modello di processo tributario (e, più in generale, di processo amministrativo), come giudizio “sull’atto”, attivabile solo mediante l’impugnazione di un provvedimento amministrativo. Si creava così una fictio iuris per consentire al privato di adire il giudice in caso di inerzia dell’amministrazione. 13 Cfr. sul punto CAPACCIOLI, Manuale di diritto amministrativo, I, Padova, 1983, 364 ss., il quale osservava che la ratio della disciplina legislativa era quella di attribuire in qualche modo un valore provvedimentale all’inerzia dei pubblici uffici, posto che senza un provvedimento definitivo (cioè non ulteriormente impugnabile in via amministrativa) non era possibile, in passato, adire l’autorità giu-

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risdizionale. Ricostruendo, invece, il silenzio come provvedimento tacito, «si superava l’inerzia dell’amministrazione» e si consentiva «l’ulteriore corso di giustizia». Peraltro, anche l’istituto del silenzio su ricorso amministrativo, soggetto alla disciplina contenuta nell’art. 6, non è più interpretato ormai come silenzio-rigetto con valore provvedimentale, bensì come fatto di rilevanza processuale che legittima il privato a ricorrere in via giurisdizionale, una volta scaduto il termine di novanta giorni previsto dall’art. 6. Ciò implica che, non essendosi formato alcun provvedimento tacito, l’amministrazione non perde il potere di decidere ed è ammessa quindi una decisione amministrativa tardiva, che, se fondata su censure di merito, è preferibile per il ricorrente rispetto a quella giurisdizionale. La norma prescrive che, a fronte dell’istanza, «l’intendente di finanza [...] provvede al rimborso mediante ordinativo di pagamento»: l’indicativo lascia intendere che si è in presenza di un atto dovuto (rectius: di un potere che si ha il dovere di esercitare). Del medesimo avviso sembra essere autorevole dottrina: v. TESAURO, Istituzioni, cit., 307.; INGROSSO, Il credito d’imposta, Milano, 1984, 51; GALLO, Il silenzio nel diritto tributario, in Riv. Dir. Fin., 1983, I, 94; STEVANATO, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria, Padova, 1996, 91 ss. TESAURO, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, 107. Il termine – ricordiamo – è quello di novanta giorni previsto dall’art. 37, comma 2, D.P.R. n. 602/1973 e dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992.


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Per tali ragioni, larga parte della dottrina respinge la ricostruzione del silenzio sull’istanza di rimborso quale atto tacito di reiezione, e lo qualifica invece come spatium deliberandi o limite temporale accordato all’amministrazione per assumere una decisione, decorso il quale il privato è legittimato a ricorrere in giudizio18. In tal modo, il silenzio consisterebbe in un mero fatto processuale che rimuove un ostacolo legale «frapposto, nell’interesse dell’amministrazione finanziaria, all’esercizio della tutela giurisdizionale del contribuente»19. In definitiva, il silenzio in tema di rimborsi assume la configurazione di “inadempimento” a cui la legge ricollega determinate conseguenze, che nel nostro caso sono quelle previste dall’art. 21, D.Lgs. cit., consistenti nella possibilità per il contribuente di rivolgersi finalmente al giudice tributario e domandare a questi la tutela delle proprie ragioni20. 3. Segue: riflessi sul piano del contenzioso tributario e dei poteri dell’amministrazione finanziaria Occorre a questo punto evidenziare alcune fondamentali implicazioni della suddetta ricostruzione. Innanzitutto, se non si considera il silenzio come un provvedimento, il contribuente non dovrà agire in giudizio entro il termine di decadenza di sessanta giorni, bensì entro il più ampio termine di prescrizione previsto per i diritti soggettivi dall’art. 2946 c.c. (come sembra peraltro evincersi dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992)21. In secondo luogo, il giudizio avanti alle Commissioni tributarie assume il carattere di “accertamento-condanna”, preordinato quindi ad accertare l’esistenza del credito di rimborso ed eventualmente a condannare la p.a. alla restituzione22. Una simile impostazione si pone in armonia con le più recenti elaborazioni in tema di processo amministrativo, che ammettono in tale processo (così come in quello tributario) l’esercizio di azioni diverse dall’azione costitutiva di annullamento23. Inoltre, laddove il giudizio sia promosso dal contribuente prima della scadenza del termine accordato alla p.a. per pronunciarsi,

18 Cfr. TESAURO, Lineamenti del processo tributario, cit., 108; Id., La natura del giudizio dinanzi alle commissioni alla luce delle nuove norme sul contenzioso, in Boll. Trib., 1982, 5. Nega la natura provvedimentale del silenzio anche TABET, Le azioni di rimborso nella nuova disciplina del processo tributario, in Riv. Dir. Trib., 1993, I, 767, il quale sostiene che «una provvedimentalizzazione del silenzio sarebbe un’autentica sovrastruttura», posto che non vi è, almeno in questa materia, alcun dato normativo né motivo logico per ritenere che un comportamento inerte abbia lo stesso valore di un atto esplicito. 19 RUSSO, Rilevanza del “silenzio” della p.a. nell’ambito del contenzioso tributario (nota a Comm. trib. centr., 11 febbraio 1984, n. 1427), in Rass. Trib., 1984, II, 487. L’autore ritiene che non si possa in tal caso parlare né di silenzio-atto (di diniego), né di silenzio-rifiuto quale contegno illegittimo della p.a., ma di silenzio-fatto che consente al privato di agire per la ripetizione dell’indebito. 20 È noto invece che, nell’ambito del diritto amministrativo, le conseguenze del silenzio-rifiuto della p.a. sono quelle scolpite dall’art. 21-bis della legge T.A.R. (cd. rito del silenzio) nonché dal nuovo comma 5 dell’art. 2, L. n. 241/1990. 21 In questo senso TESAURO, voce Rimborso delle imposte, in Nov. Dig. It., Appendice, VI, Torino, 1986, 831; Id., Lineamenti del processo tributario, cit., 107. La norma di cui all’art. 21

il ricorso deve essere considerato solo temporaneamente improcedibile, e non improponibile (o inammissibile) come vorrebbe quell’orientamento che considera il silenzio quale determinazione tacita. L’improponibilità, secondo quest’ultima tesi, discende dal fatto che il ricorso avrebbe ad oggetto un atto inesistente, in quanto non ancora emanato dall’amministrazione. La tesi dell’improcedibilità si ricollega invece alla concezione fattuale del silenzio quale spatium deliberandi che, una volta decorso nella sua interezza, consentirà al giudizio prematuramente avviato di procedere regolarmente24. Va infine sottolineato un ultimo aspetto, relativo ai poteri susseguenti dell’amministrazione. Il manifestarsi dell’inerzia, non dando luogo ad un provvedimento ma a un mero fatto, non implica la consumazione del potere di decidere in capo all’ufficio competente, il quale avrà così la possibilità di pronunciarsi sul rimborso anche dopo lo scadere del termine di novanta giorni. L’orientamento prevalente della giurisprudenza è sempre stato favorevole alla conservazione del potere di provvedere, anche in senso reiettivo. Del medesimo avviso sembra essere la dottrina, compresa quella che abbraccia la tesi della natura provvedimentale del silenzio (che dovrebbe invece avere quale logico corollario la consumazione del potere amministrativo). Ne deriva che, se l’amministrazione dovesse usare il potere ed emanare l’atto tardivamente, l’eventuale ricorso proposto dal contribuente avverso il silenzio sarebbe improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse (con conseguente estinzione della materia del contendere), in quanto il privato avrebbe ottenuto il risultato a cui è diretto il giudizio, ossia l’intervento di un provvedimento. Ove, tuttavia, l’atto tardivo fosse un diniego, l’orientamento della giurisprudenza non pare univoco. In ambito amministrativo, il Consiglio di Stato ha più volte precisato che, nel caso di provvedimento negativo tardivo, il privato avrebbe l’onere di proporre contro di esso una nuova impugnazione (per motivi evidentemente diversi dalla mera tardività)25.

(già presente nel vecchio art. 16, ultimo comma, D.P.R. n. 636/1972) rappresenta, per l’autore, una ulteriore conferma della natura non provvedimentale del silenzio. A tale argomento peraltro obietta PALUMBO, Sull’impugnabilità del provvedimento di diniego di rimborso, cit., 692, sostenendo che la norma non parla di prescrizione, bensì di un termine che resta di natura decadenziale pur essendo commisurato a quello di prescrizione. Sennonché ci sembra fondata la controbiezione del TESAURO il quale aggiunge che un improbabile termine decadenziale di dieci anni è «un argomento che si confuta da sé». 22 Cfr. TESAURO, Lineamenti del processo tributario, cit., 108 ss., nonché, di recente, Id., Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 114. Contra v. GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, 340 ss., dove si obietta che la disposizione processuale sul ricorso avverso il silenzio (oggi l’art. 21, D.Lgs. 546/1992) non sembra riferirsi ad un’azione di accertamento, che dovrebbe essere esperibile direttamente davanti al giudice e prescindere completamente dall’esercizio della funzione amministrativa. Al contrario, il ricorso di cui all’art. 21 «presuppone in ogni caso un’istanza di rimborso entro termini di decadenza e il decorso di novanta giorni senza che sia stato notificato il provvedimento dell’ufficio. Tutto questo ha ben poco a che vedere con un’azione di accertamento o di condanna».

23 Si pensi all’azione di nullità, che ha natura dichiarativa, e che risulta implicitamente introdotta nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità, a seguito della devoluzione a tale giurisdizione di controversie aventi ad oggetto la nullità del provvedimento (cfr. art. 21-septies in relazione alla nullità per violazione o elusione del giudicato). 24 Cfr. RUSSO, voce Processo tributario, in Enc. Dir., Milano, 1987, XXXVI, 64; TESAURO, Lineamenti, cit., 108. Sul punto la giurisprudenza tributaria non sembra esprimersi in maniera univoca. Cfr. Comm. trib. centr., sez. XVI, 6 novembre 2001, n. 7422, in Tributi, 2002, 3, 133, in base alla quale «è ammissibile il ricorso al giudice tributario di I grado, presentato prima che sia maturato il termine di 90 giorni dalla presentazione dell’istanza di rimborso, da ciò derivando soltanto la temporanea improcedibilità del ricorso medesimo». Di conseguenza «la condizione di improcedibilità viene meno per lo scadere, in corso di giudizio, del termine suddetto senza che l’amministrazione abbia provveduto in merito all’istanza del contribuente, dimostrando con il silenzio di non voler rimuovere l’atto impositivo asseritamente illegittimo». 25 In questo senso, di recente, v. Cons. di Stato, sez. V, 15 dicembre 2005, n. 7127, in banca dati di giustizia-amministrativa.it; Cons. di Stato, sez. VI, 3 dicembre 2003, n. 7969, in banca dati di giustizia-amministrativa.it.


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Tuttavia, in sede tributaria, la giurisprudenza della Corte di Cassazione26, avallata da una parte della dottrina27, sembra orientata nel senso di lasciare impregiudicata l’azione recuperatoria intrapresa dal contribuente in sede giurisdizionale, anche nel caso in cui l’amministrazione abbia emesso un atto tardivo di rimborso solo parziale, rigettando così in parte la richiesta del contribuente. Quest’ultimo, perciò, non sarebbe gravato dall’onere di impugnare il successivo provvedimento, potendo direttamente chiedere al giudice la verifica (parziale o totale) della sua pretesa attraverso l’azione di rimborso già avviata. 4. Il silenzio dell’ufficio a fronte della richiesta di riesame di un atto impositivo L’inerzia degli uffici tributari è piuttosto frequente nella prassi anche quando venga proposta dal contribuente un’istanza di riesame di un atto impositivo asseritamente viziato. In tal caso, il privato chiede alla p.a. di attivare un procedimento tradizionalmente inquadrato tra i cd. poteri di autotutela delle pubbliche amministrazioni28. In passato, si discuteva sull’esistenza nel nostro ordinamento di una potestà generale di autotutela – con particolare riferimento, per quel che qui interessa, alla cd. autotutela spontanea – data la mancanza di una normativa in materia. Se ne rinveniva il fondamento ora nella posizione di supremazia delle pubbliche amministrazioni, quali autorità cui spettano speciali prerogative, ora nello stesso potere di provvedere in primo grado, che implicherebbe la possibilità per l’amministrazione, così come di porre in essere un atto, anche di rivederlo ed eventualmente ritirarlo, laddove lo ritenga invalido ovvero inopportuno, alla luce di una riconsiderazione dell’interesse pubblico29. In ogni caso, l’autotutela così configurata assurge a manifestazione della discrezionalità amministrativa, in quanto espressione del ruolo dell’autorità quale garante dell’interesse pubblico – valutato alla luce di tutti gli interessi in concreto esistenti – anche nei confronti dei suoi stessi provvedimenti. La questione è oggi pacificamente superata dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies, L. n. 241/1990, introdotti dalla L. n. 15/2005, che codificano per la prima volta in via generale gli istituti dell’annullamento d’ufficio, della revoca e della convalida, quali possibili sbocchi del procedimento di riesame dell’atto amministrativo.

26 V. Cass., sez. trib., 7 dicembre 2004, n. 22943, in banca dati fisconline; Cass., sez. trib., 17 dicembre 2003, n. 19372, in banca dati fisconline. 27 Cfr. SCALINCI, Silenzio e inazione nel procedimento e nel processo dei tributi, in Giur. di Merito, 2008, 7 ss., 188. 28 Sull’istituto dell’autotutela amministrativa si v. il prezioso contributo di BENVENUTI, voce Autotutela (Dir. Amm.) in Enc. Dir., Milano, 1959. 29 Per una sommaria ricostruzione delle diverse teorie v. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2008, II, 2104 ss. 30 V. Cons. di Stato, sez. VI, 19 ottobre 2004, n. 6758, in banca dati di giustizia-amministrativa.it. Osserva inoltre il Collegio che l’amministrazione può ritenersi libera di verificare se l’inoppugnabilità dell’atto in via giurisdizionale meriti di essere superata da successive valutazioni discrezionali, che tengano conto dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, del decorso del tempo, nonché delle disponibilità finanziarie della p.a. Cfr. anche Cons. di Stato, sez. V, 9 marzo 1995, n. 307, in Foro Amm., 1995, 594; Cons. di Stato,

Ciò che invece non appare ancora pacifico è se l’amministrazione sia vincolata nell’esercizio del potere di riesame o se, al contrario, la sua azione debba considerarsi discrezionale, non solo nel quomodo ma anche nell’an e nel quando. In altri termini non è chiaro se, a fronte di una richiesta di riesame di un provvedimento, la p.a. sia obbligata ad attivarsi e a pronunciarsi in maniera espressa, a norma dell’art. 2, comma 1, L. n. 241/1990. Nell’ambito della giurisprudenza amministrativa, può dirsi prevalente l’indirizzo che nega la sussistenza di un obbligo per l’autorità di pronunciarsi sulla richiesta, almeno quando questa abbia ad oggetto provvedimenti divenuti inoppugnabili per scadenza dei relativi termini. Ragionando diversamente, l’istanza di riesame in via amministrativa rischierebbe di tradursi in una elusione del termine stabilito per l’impugnazione giurisdizionale. Di conseguenza, verrebbe compromessa l’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, particolarmente avvertita nell’ambito dell’attività amministrativa, rivolta alla cura di interessi che trascendono il singolo individuo30. In ogni caso, anche laddove il provvedimento di cui si chiede il riesame fosse ancora suscettibile di impugnazione, i giudici amministrativi sembrano pervenire a conclusioni analoghe. La natura ampiamente discrezionale dell’attività di riesame implica comunque l’assoluta libertà dell’amministrazione di decidere se riesaminare o meno i propri atti, senza essere vincolata da un’eventuale istanza del cittadino31. Del resto, il potere di autotutela viene ricostruito dalla giurisprudenza come una prerogativa riconosciuta alla p.a. per la migliore cura dell’interesse pubblico, non come ulteriore rimedio in favore del privato, in aggiunta al ricorso giurisdizionale e ai ricorsi amministrativi contenziosi. Pertanto l’inerzia dell’autorità non potrebbe dar luogo a silenzioinadempimento, né tantomeno a silenzio-diniego, non essendovi i presupposti per nessuna delle due fattispecie, ma costituirebbe un fenomeno irrilevante che non determina conseguenze sul piano giuridico32. È questa infatti – come si diceva all’inizio del lavoro – la dimensione generale del silenzio quando rimane privo di una specifica qualificazione. A tale orientamento non ne corrisponde uno altrettanto omogeneo in materia tributaria, dove può trovarsi un riferimento espresso all’autotutela nell’art. 2-quater, D.L. n. 564/199433 (articolo inserito, in sede di conversione, dalla legge n. 656/1994 e quindi

sez. V, 8 luglio 1995, n. 1034, in Foro Amm., 1995, 1516; Cons. di Stato, sez. IV, 1 aprile 1992, n. 201, in Cons. Stato, 1992, I, 573; Cons. di Stato, sez. V, 3 ottobre 1984, n. 691, in Cons. Stato, 1984, 1177; Cons. di Stato, sez. IV, 1 luglio 1980, n. 718, in Cons. Stato, 1980, I, 90; Cons. di Stato, sez. VI, 6 marzo 1973, n. 89, in Cons. Stato, 1973, 475. Del resto, l’orientamento riferito è supportato dalla tradizionale impostazione della dottrina per la quale l’esercizio della potere di autotutela è sempre «in funzione dell’interesse dell’amministrazione» e non dell’interesse (di mero fatto) del cittadino: cfr. BENVENUTI, voce Autotutela, cit., 544. 31 La presentazione dell’istanza da parte del privato non sarebbe, perciò, idonea a far sorgere in capo alla p.a. l’obbligo di esercitare l’autotutela e provvedere sull’istanza medesima. In questo modo, tuttavia, sembrerebbe che la discrezionalità nella determinazione del contenuto del provvedimento (discrezionalità nel quomodo), implichi necessariamente libertà di decidere se emanare o meno un provvedimento (discrezionalità nell’an). “Discrezionalità” finisce così per

confondersi con “facoltatività”. Nel senso dell’insussistenza di un obbligo di provvedere si orienta larga parte della giurisprudenza amministrativa: cfr., fra le tante, Cons. di Stato, sez. V, 21 gennaio 1997, n. 74, in Cons. Stato, 1997, I, 62; Cons. di Stato, sez. V, 9 marzo 1995, n. 307, in Foro Amm., 1995, 594; Cons. di Stato, sez. IV, 7 novembre 1978, n. 963, in Cons. Stato, 1978, I, 1601; Cons. di Stato, sez. VI, 1 marzo 1977, n. 165, in Cons. Stato, 1977, I, 361; Cons. di Stato, sez. VI, 8 novembre 1974, n. 351, in Cons. Stato, 1974, I, 1498. Dello stesso avviso Cass., sez. trib., 5 febbraio 2002, n. 1547, in Fisco, 2002, 28, 1, 4552. 32 Diverso è il caso, s’intende, in cui la p.a. adotta un provvedimento espresso, in presenza o meno di un’istanza privata, avverso il quale l’interessato potrà senz’altro ricorrere, laddove l’amministrazione non abbia fatto un corretto uso della discrezionalità in ordine alla comparazione fra l’interesse al ritiro dell’atto e quello alla sua conservazione. 33 L’originaria fonte normativa dell’autotutela tributaria era l’art. 68 del D.P.R. n. 287/1992, ora soppresso dall’art. 23 del D.P.R. n. 107/2001.


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modificato dall’art. 27, L. n. 28/1999), il quale dispone che vengano indicati dal Ministero delle Finanze «gli organi dell’amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati». La norma viene ribadita dal più recente D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, il cui art. 2, comma 1, prevede la possibilità per l’amministrazione di procedere, «in tutto o in parte, all’annullamento o alla rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, nei casi in cui sussista illegittimità dell’atto o dell’imposizione». Lo stesso comma aggiunge che l’ufficio non può annullare il provvedimento d’imposizione «per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione finanziaria». L’art. 5, inoltre, contempla l’ipotesi in cui sia lo stesso contribuente ad avanzare una richiesta di annullamento del provvedimento impositivo, e dètta norme in tema di competenza degli uffici. Non da ultimo, deve rilevarsi che l’art. 7, comma 2, della L. n. 212/2000, recante lo Statuto dei diritti del contribuente, stabilisce che negli atti dell’amministrazione finanziaria debbono essere indicati l’organo e l’autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame dell’atto in sede di autotutela. Da questo quadro normativo emerge, anzitutto, che la potestà di autotutela è riconosciuta non solamente nell’interesse dell’amministrazione finanziaria, ma anche in funzione della tutela dei diritti del contribuente, attesa la sua previsione nell’ambito della legge n. 212/2000. Non avrebbe infatti, a nostro avviso, alcuna giustificazione la richiesta ex art. 7 di indicare l’autorità competente ad effettuare il riesame, se tale riesame non fosse finalizzato a tutelare (anche) l’interesse del contribuente, e se quest’ultimo non avesse la possibilità di far valere in giudizio l’illegittimità dell’azione amministrativa. Il contribuente vanta, pertanto, un vero e proprio “interesse legittimo” a che la p.a. si comporti in maniera conforme alla legge ed eserciti correttamente la potestà di autotutela34. Da una simile impostazione discende che il provvedimento emesso in sede di autotutela è impugnabile dal contribuente alla stessa stregua dei provvedimenti di primo grado35. Si tratta ora

34 Su questa posizione STEVANATO, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria, cit., 115 ss. 35 Cfr. GIANONCELLI, Giurisdizione tributaria e diniego di autotutela, in Dir. e Prat. Trib., 2008, 6, 1, 1180, dove si ammette la possibilità di un’impugnazione in via differita del diniego di annullamento del provvedimento di primo grado, in virtù di quanto disposto dall’art. 19, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992. Tuttavia, l’orientamento che ammette l’impugnabilità del diniego espresso di autotutela non è pacificamente condiviso dalla giurisprudenza, come si dirà più avanti (v. nota 44). 36 Cfr. sul punto STEVANATO, cit., 77, il quale sottolinea come «l’esame dei principi del procedimento amministrativo porta ad escludere che l’obbligo di pronuncia sia rigorosamente condizionato all’esistenza di un procedimento ad istanza di parte. In quest’ottica dovrà in particolare essere approfondita l’effettiva portata della regola generale contenuta nell’art. 2 della legge sul procedimento amministrativo [...]; tale disposizione sembrerebbe confermare l’operatività dell’obbligo di pronuncia, e quindi la possibile formazione del silenzio-rifiuto, non solo nei procedimenti ad istanza di parte, ma altresì in quelli ad impulso d’ufficio». 37 Sotto questo profilo, ci sentiamo di aderire

di stabilire se il privato possa dolersi anche della mancata adozione di un provvedimento di riesame da parte dell’amministrazione, a seguito della richiesta avanzata dal privato stesso. Occorre, cioè, ancora una volta verificare se l’inerzia della p.a. abbia giuridica rilevanza, e se viene riconosciuto al contribuente un «interesse all’avvio del procedimento di autotutela». Ora, in assenza di norme positive che conferiscano al silenzio, in quest’ambito, una speciale valenza provvedimentale, si tratta di verificare se sussista o meno, sulla base dei principi evidenziati, un dovere amministrativo di agire. E tale dovere si manifesta nell’ipotesi in cui «il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio» (art. 2, L. 241/1990). L’obbligo, pertanto, può essere previsto dalla legge come conseguenza della proposizione di un’istanza, ovvero discendere dalla oggettiva esistenza di una situazione concreta tale da rendere necessario l’intervento pubblico, alla luce dell’interesse che la p.a. è tenuta a perseguire36. Deve dunque ritenersi non indispensabile un’istanza di parte perché l’amministrazione sia tenuta ad intervenire. Ci si può limitare ad accertare l’obbligatorietà dell’iniziativa d’ufficio, laddove la p.a. debba quanto meno verificare che vi siano elementi sufficienti per avviare un procedimento (elementi forniti, eventualmente, proprio dall’istanza del privato, che si pone in tal caso come una mera denuncia informale)37. Ciò induce a ritenere che all’amministrazione incomba un obbligo minimo, consistente nel dovere di non trascurare irragionevolmente o immotivatamente le denunce dei privati, ma di prenderle in considerazione38 e, se del caso, avviare un procedimento amministrativo. In tale prospettiva perde rilievo, a nostro avviso, la distinzione tra procedimenti ad istanza di parte e ad iniziativa d’ufficio: ciò che conta è l’obbligo dell’amministrazione di agire, in ogni caso, secondo criteri di ragionevolezza. Se, a seguito di una prima sommaria delibazione, la domanda del privato non appare del tutto infondata, sorge l’obbligo di avviare il procedimento, e ciò implica il dovere di esaminare le domande presentate, di acquisire i fatti e gli interessi rilevanti per la decisione, nonché di “fornire una risposta” al cittadino39 (in base alla legge n. 241/1990 che impone una conclu-

a quell’autorevole tesi dottrinale che pone come oggetto dell’obbligo gravante sulla p.a. ex art. 2 non l’atto finale, bensì l’attività, in modo tale che l’autorità amministrativa, di fronte ad un’istanza o ad una denuncia informale afferente il suo settore di attività, non potrebbe mai rimanere inerte, dovendo quanto meno stabilire se ricorrano in concreto le condizioni per lo svolgimento di un procedimento amministrativo. Cfr. MELONCELLI, L’iniziativa amministrativa, Milano, 1976, 46 ss.; LEDDA, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964, 99; LEVI, L’attività conoscitiva della pubblica amministrazione, Torino, 1967, 363 ss.; SERRA, Contributo ad uno studio sull’istruttoria del procedimento amministrativo, Milano, 1991, 165 ss. e passim. V. anche DE ROBERTO, voce Denuncia, in Enc. Dir., Milano, 1964, XIV, 149 ss., secondo cui l’obbligo della p.a. si limiterebbe al mero esame dell’istanza (là dove ci sia) o comunque della situazione concreta, senza dover aprire un procedimento, che verrà iniziato solo qualora si renda necessario acquisire ulteriori elementi e compiere ulteriori valutazioni. 38 S’intende che non meritano considerazione quelle istanze o domande che appaiano fin da subito manifestamente infondate o addi-

rittura prive di senso. In tali casi, è ovvio che va escluso un dovere di attivare un procedimento e di emanare un provvedimento, sulla base di un elementare criterio di ragionevolezza e alla luce delle esigenze di celerità ed economicità dell’azione amministrativa. 39 Di quest’avviso STEVANATO, cit., 95. Una posizione analoga si ritrova in SCALINCI, Silenzio e inazione nel procedimento e nel processo dei tributi, cit., 190. La tesi sposata nel testo incontra autorevoli obiezioni nella dottrina del diritto tributario, da parte di coloro che negano la rilevanza giuridica dell’interesse del contribuente all’esercizio dell’autotutela e il carattere vincolante dell’istanza volta a sollecitarla. Cfr. RUSSO, Riflessioni e spunti in tema di autotutela nel diritto tributario, in Rass. Trib., 1997, 552 ss.; TREMONTI, Contributo allo studio dell’atto di accertamento integrativo o modificativo, in Riv. Dir. Fin., 1971, I, 30; LA ROSA, Autotutela e annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari, in Riv. Dir. Trib., 1998, I, 9 ss.; BASILAVECCHIA, In tema di autotutela su atti inoppugnabili: su una richiesta di chiarimenti avanzata dal contribuente, in Riv. Giur. Trib., 2000, 1032. BATTI, L’esercizio del potere di autotutela da parte dell’amministrazione finanziaria tra diritto amministrativo e diritto costituzionale, in Fisco,


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sione del procedimento in forma espressa). Il cittadino, di conseguenza, è titolare di un interesse alla legittimità e ragionevolezza del riesame, e può tanto impugnare un provvedimento espresso, quanto dolersi di un eventuale silenzio-inadempimento. Quest’ultima ipotesi ricorre allorquando l’amministrazione finanziaria viene meno al dovere di esaminare la domanda, e di avviare un procedimento (portandolo a termine) nel caso in cui la domanda stessa non sia palesemente infondata. A conferma della tesi fin qui sostenuta, favorevole ad ammettere un obbligo della p.a. di non rimanere inerte di fronte a un’istanza di parte, sembra opportuna un’ulteriore notazione. La giurisprudenza amministrativa tende a riconoscere l’obbligo di pronunciarsi sull’istanza non solo quando ciò sia esplicitamente previsto dalla legge, ma anche quando “peculiari esigenze di giustizia” lo impongano in applicazione dei principi di buon andamento ed imparzialità40. Tra le situazioni ritenute “peculiari” dalla giurisprudenza – tali cioè da far sorgere un dovere di provvedere – vi sarebbero quelle nelle quali il cittadino vanta un interesse legittimo, ossia una situazione giuridica meritevole di tutela che impone all’amministrazione di prendere in esame la pretesa sostanziale del privato per verificarne la fondatezza41. È dunque da ritenersi che la natura discrezionale del potere di autotutela – condivisa in ambito amministrativo e sostenuta da taluni anche nel diritto tributario – non può comportare comunque l’assoluta libertà di decidere se avviare o meno una pratica amministrativa, in presenza di un’istanza che appare meritevole di considerazione. Ciò va affermato senza trascurare, peraltro, che autorevole dottrina nega il carattere discrezionale dell’autotutela in ambito tributario, posto che non vi sarebbero interessi – pubblici e privati – da valutare comparativamente. L’amministrazione finanziaria, di fronte ad un atto illegittimo, sarebbe semplicemente astretta all’obbligo di ripristinare la legalità42. La funzione di autotutela

1994, 9640. Sulle stesse posizioni della dottrina appena citata è anche una parte della giurisprudenza tributaria: v., fra le altre, Cass., sez. trib., 9 ottobre 2000, n. 13412, in Riv. Dir. Trib., 2001, II, 464; Cass., sez. trib., 5 febbraio 2002, n. 1547, in Finanza loc., 2002, 1369; Comm. trib. II grado Lecce, ordinanza 20 marzo 1991, in Boll. Trib., 1992, 234. 40 Così Cons. di Stato, sez. VI, 5 marzo 1986, n. 237, in Cons. Stato, 1986, I, 359; Cons. di Stato, sez. V, 15 marzo 1991, n. 250, in Cons. Stato, 1991, I, 422; Cons. di Stato, sez. V, 22 novembre 1991, n. 1337, in Cons. Stato, 1991, I, 1712; Cons. di Stato, sez. V, 20 dicembre 1993, n. 1342, in Giur. It., 1994, III, 284; T.A.R. Piemonte, sez. I, 28 dicembre 1993, n. 590, in T.A.R., 1994, I, 555. 41 Cfr. TASSANI, L’annullamento d’ufficio dell’amministrazione finanziaria tra teoria ed applicazione pratica, in Rass. Trib., 2000, 4, 1189. 42 Cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, cit. 166, dove si afferma che nel diritto tributario manca la discrezionalità, anche in sede di riesame di un provvedimento illegittimo, e «la correzione presuppone dunque il vizio e null’altro; ossia è giustificata soltanto dal dovere di ogni pubblica amministrazione di ripristinare la legalità». Osserva inoltre FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2008, 336 ss., che l’assenza di interessi diversi da quello al ripristino della legalità è giustificata dal fatto che, in presenza di imposizione illegittima, non può esservi un interesse dello Stato a massimizzare il gettito a scapito dei criteri di

avrebbe quindi carattere vincolato sia nell’an che nel quomodo, almeno quando vi sia un’istanza di parte, atteso che l’interesse del contribuente ad una legittima imposizione assumerebbe in tal caso rilievo preminente. Sembra potersi così argomentare alla luce dell’art. 7 dello Statuto del contribuente e dell’art. 5, D.M. 37/1997, che prevedono la possibilità per il contribuente di promuovere egli stesso il procedimento di autotutela con la presentazione di un’istanza all’ufficio competente43. Sicché, l’istanza del contribuente vincolerebbe senz’altro la p.a. ad accertare la ricorrenza dei presupposti previsti dalla legge per il ritiro del provvedimento d’imposizione. 5. Segue: i mezzi di tutela del contribuente e il riparto di giurisdizione Le superiori considerazioni aprono un varco alla tutela del contribuente nei confronti del silenzio sull’istanza di riesame, ma non risolvono ancora la questione della giurisdizione competente a fornire tale tutela, nonché del tipo di azione e di giudizio che il contribuente può promuovere. Nel precedente paragrafo, si è visto come in sede di autotutela l’interesse del privato venga trattato in maniera diversa, passando dalla totale irrilevanza che ha per larga parte della giurisprudenza amministrativa, alla coesistenza con l’interesse dell’amministrazione affermata dalla dottrina tributaria, alla rilevanza esclusiva che, infine, attribuiscono ad esso i sostenitori della natura vincolata della funzione di riesame. Ove si dia rilevanza alla posizione del contribuente, si pone innanzitutto il problema di stabilire quale plesso giurisdizionale possa sindacare l’esercizio del potere di autotutela. Nel caso, poi, di inerzia dell’amministrazione, occorre individuare la giurisdizione competente in ordine al mancato esercizio del predetto potere. Quanto al primo punto, parte della dottrina osserva che il diniego espresso di autotutela44 - laddove si manifesti come provvedimento di conferma e non come atto meramente confermativo45

ripartizione degli oneri tributari fissati dalla legge. L’autotutela tende, in quest’ottica, a garantire il giusto riparto di tali oneri, imponendo alla p.a. il dovere di rimuovere i provvedimenti impositivi contrari alla legge, di modo che al contribuente non sia richiesto più di quanto da lui effettivamente dovuto. 43 Sarebbe infatti incoerente un sistema che garantisse tale possibilità in favore del contribuente e, nonostante ciò, consentisse all’amministrazione di astenersi, a suo insindacabile giudizio, dal prendere in considerazione l’istanza. Cfr. TESAURO, Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente, in questa rivista, 2008, 1, 20. 44 Sul diniego di autotutela in materia tributaria e sulla sua impugnabilità giurisdizionale si rinvia a: FICARI, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria: riflessioni a margine dei recenti “itinerari” della giurisprudenza tributaria, in Rass. Trib., 2007, 6, 1715; TURCHI, La problematica impugnabilità del diniego di autotutela, in materia tributaria, nuovamente all’esame delle sezioni unite, in Giur. It., 2007, 12, 2885; LUPI-PIRELLO-STEVANATO, Il diniego di autotutela e la giurisdizione tributaria, in Dialoghi Dir. Trib., 2006, 2, 161; PORCARO, Il diniego di autotutela è impugnabile davanti le Commissioni tributarie? Una tesi che non convince, nota a T.A.R. Trentino Alto Adige, 14 luglio 2003, n. 273, in Dialoghi. Dir. Trib., 2004, 673; LUPI, L’autotutela tra giurisdizione ratione materiae e per situazione soggettiva, in Dialoghi Dir. Trib., 2004, 681; BASILAVECCHIA, Il diniego di autotute-

la è impugnabile nel processo tributario, in Riv. Giur. Trib., 2002, 10, 979. In giurisprudenza, v. di recente Cass., sez. trib., 6 febbraio 2009, n. 2870, in banca dati di ricercagiuridica.com, dove si esclude l’autonoma impugnabilità del rifiuto di annullamento del provvedimento impositivo, ove quest’ultimo sia divenuto definitivo, e quindi non più impugnabile: «diversamente opinando», sostiene la Corte, «si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo». Cfr. inoltre Cass., sez. un., 27 marzo 2007, n. 7388, in Fisco, 2007, 14, 1, 2058, che limitano la tutela giurisdizionale alle ipotesi di diniego espresso, escludendo l’impugnabilità del silenzio; Cass., sez. trib., 26 gennaio 2007, n. 1710, in Fisco, 2007, 8, 1, 1183; Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, in Giur. Trib., 2005, 11, 1005; Cass., sez. trib., 5 febbraio 2002, n. 1547, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov., Reggio Emilia, sez. I, 18 dicembre 2008, n. 223, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov. Milano, sez. XXXVI, 28 marzo 2003, n. 31, in banca dati fisconline. 45 Quest’ultimo è un atto con cui la p.a. si limita a rispondere al privato confermando il provvedimento di primo grado, senza alcuna attività di riesame. In altre parole, si tratta di un vero e proprio “rifiuto di riesame” del provvedimento, in quanto la p.a. ritiene non vi siano valide ragioni per tornare sulla propria decisione. Diversamente, nel caso del provvedimento di conferma, la p.a. riesamina la decisione e ne ripercorre l’iter formati-


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– potrà essere impugnato davanti al giudice amministrativo, quale giudice ordinariamente competente a conoscere delle controversie concernenti situazioni di interesse legittimo. Anche nell’ipotesi di silenzio sull’istanza di autotutela, varrebbe il criterio ordinario di riparto fondato sulla consistenza della posizione soggettiva, e la giurisdizione spetterebbe al T.A.R., poiché il contribuente può dirsi titolare di un interesse legittimo all’avvio del procedimento di autotutela e al suo compimento46. La tesi sembra giustificata dalla circostanza che non sussiste, nell’ordinamento del processo tributario, un rito apposito per i ricorsi contro il silenzio sulla richiesta di riesame, né è prevista l’impugnazione avanti alle Commissioni del “rifiuto tacito di autotutela”, come accade invece per il rifiuto tacito di rimborso previsto dagli artt. 19 e 21 del D.Lgs. 546/1992. L’esclusione del silenzio dalla giurisdizione tributaria comporterebbe, perciò, la riespansione della giurisdizione generale e residuale del giudice amministrativo. Ci pare preferibile, tuttavia, quell’orientamento che imposta il problema del riparto di giurisdizione partendo dal dato normativo dell’art. 2, D.Lgs. 546/92. Come noto, la disposizione devolve alle Commissioni tributarie «tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati», ponendo così un criterio di riparto ratione materiae, che determina una giurisdizione esclusiva delle Commissioni in materia di tributi47. Pertanto, deve ritenersi sussistente tale giurisdizione anche sulle controversie relative all’esercizio (o al mancato esercizio) del potere di autotutela tributaria, indipendentemente dalla natura della situazione soggettiva che si assume lesa48. Il criterio ordinario di ripartizione (cd. criterio della causa petendi) non trova quindi applicazione, in quanto il sistema giurisdizionale tributario è soggetto alla deroga di cui al citato art. 2. D’altra parte, l’art. 19 non circoscrive l’ambito della giurisdizione tributaria segnato dall’art. 2, ma si limita ad elencare i provvedimenti che sono direttamente impugnabili dinnanzi alle Commissioni. Perciò il silenzio in materia di autotutela, non es-

vo, anche se la nuova valutazione conduce allo stesso risultato. Il provvedimento di conferma costituisce perciò una determinazione autonomamente impugnabile. Cfr. STEVANATO, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria, cit., 106. Sul tema in questione cfr. anche TESAURO, Manuale del processo tributario, cit., 93, che ritiene non impugnabili gli atti di pura conferma, al pari degli atti di esecuzione, cosicché il diniego espresso di annullamento potrà essere impugnato solo se ed in quanto si configuri come «rinnovazione dell’atto precedente, conseguente ad una nuova istruttoria». L’impugnazione può fondarsi solo su «motivi diversi da quelli che erano proponibili contro l’atto confermato. Deve trattarsi insomma di un caso in cui con il ricorso si alleghino vizi “propri” del diniego. Ciò che si impugna, infatti, non è l’atto originario, ma il nuovo atto, frutto di un nuovo procedimento». 46 Ritiene questa «una soluzione per più versi obbligata», STEVANATO, cit., 117 ss., posto che l’alternativa «è la negazione assoluta di tutela giurisdizionale alla posizione giuridica soggettiva del privato». In giurisprudenza cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 9 novembre 2005, n. 6269, in Boll. Trib., 2005, 1829; T.A.R. Toscana, sez. I, 22 ottobre 1999, n. 767, in Foro It., 2001, III, 27. 47 Così TESAURO, Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente, cit., 17. L’autore osserva inoltre che tale giurisdizione sui tribu-

sendo espressamente incluso nell’elenco, potrà essere fatto valere soltanto in via differita, contestualmente all’impugnazione di un atto successivamente emanato (ad esempio, un ruolo emanato a seguito del silenzio sull’istanza di riesame di un avviso di accertamento)49. A ciò si aggiunga, peraltro, che il silenzio in tale materia non assume, come è stato detto, valore di provvedimento, bensì di mero fatto (inadempimento), talché la mancata inclusione nell’ambito degli atti impugnabili ex art. 19 non può considerarsi argomento tecnicamente corretto per escludere la giurisdizione delle Commissioni. Il silenzio sarà, al contrario, ricompreso in tale giurisdizione proprio sulla base della generale previsione dell’art. 2 (pur nei limiti di una impugnazione differita e congiunta). La soluzione dell’impugnabilità congiunta sembra plausibile anche alla luce della mancanza, nel sistema processuale tributario, di un rito speciale sul silenzio-rifiuto analogo a quello previsto dall’art. 21-bis della legge T.A.R.. Ciò implica che non possa chiedersi direttamente al giudice tributario l’accertamento dell’inadempimento della p.a. all’obbligo di provvedere e la condanna all’emanazione del provvedimento50. Il ricorso avrà, invece, ad oggetto i vizi dell’atto espresso insieme al quale viene impugnato il silenzio-inadempimento precedentemente formatosi. 6. Cenni sul silenzio-assenso in materia di interpello del contribuente La riconduzione del silenzio della pubblica amministrazione nell’alveo dei principi generali ha portato la dottrina più recente a negare che esso possa avere, come si è più volte detto, un significato intrinseco e immanente, e a verificarne invece il fondamento alla luce di quelle norme che ne danno una specifica definizione. In particolare, si è visto come l’idea del silenzio quale atto negativo (silenzio-diniego) sia tramontata nell’interpretazione giuridica moderna51, per lasciare spazio alla figura del silenzio-inadempimento ovvero, in altre ipotesi, a quella del silenzio-assenso, di gran lunga preferita dal recente legislatore52.

ti non appare derogata da norme che sottraggano le controversie tributarie alle Commissioni in ragione della situazione soggettiva da tutelare. 48 In questo senso v. di recente Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, in Finanza loc., 2005, 116, secondo la quale «l’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi, comporta infatti la possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta l’amministrazione manifesti (anche attraverso la procedura del silenzio-rigetto) la convinzione che il rapporto tributario (o relativo a sanzioni tributarie) debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare». 49 Questa la tesi sostenuta da TESAURO, Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente, cit., 19; si v. anche ID., Manuale del processo tributario, cit., 94. D’altra parte, la giurisprudenza ha sovente affermato che la norma di cui all’art. 19 contiene un’elencazione non tassativa, bensì puramente esemplificativa. Si consideri, ad esempio, che la nozione di “avviso di accertamento” è stata interpretata estensivamente, come comprensiva di tutti gli atti terminali di una fase del procedimento d’imposizione, che definiscono un elemento dell’obbligazione tributaria. Cfr. Cass., sez. un., 6 dicembre 1994, 10463, in Riv. Giur. Trib., 1996, 226; Corte cost., 3 dicembre 1985, n. 313, in Corr. Trib., 1986, 177.

50Peraltro, come osserva TESAURO, Manuale del processo tributario, cit., 94, il contribuente non può in ogni caso ottenere dal giudice tributario un provvedimento pienamente satisfattivo della propria pretesa, in quanto il giudice «può annullare il diniego di autotutela, o dichiarare illegittimo il silenzio, ma non può annullare l’atto originario, perché non può emettere, sostituendosi all’amministrazione, il provvedimento di autotutela». Tuttavia il giudice ha il potere di statuire l’obbligo per l’amministrazione di annullare il provvedimento originario, cosicché, in caso di inosservanza del disposto della sentenza, può essere attivato il rimedio del giudizio di ottemperanza. 51 L’istituto permane oggi in casi sporadici, nei quali il legislatore ha ritenuto preferibile attribuire all’inerzia valore di diniego: si v. l’art. 25, comma 4, L. n. 241/1990, in materia di accesso ai documenti amministrativi. 52 Cfr. AA.VV., Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli, Pericu, Romano, Roversi Monaco, Scoca, Bologna, 2005, 717 ss., dove si osserva peraltro che talune fattispecie di silenzio-diniego (v. art. 55, comma 3, c.n.; art. 33, L. n. 426/1971 in tema di autorizzazioni commerciali) hanno subito una “conversione” legislativa in fattispecie di silenzio-assenso. La tendenza verso una valorizzazione della figura del silenzio-assenso è già in atto da qualche decennio: cfr. CAPACCIOLI, Manuale di diritto amministrativo, cit., 367


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Tale preferenza si spiega col fatto che la qualifica dell’inerzia come atto di assenso appare più idonea a soddisfare l’esigenza di speditezza dell’azione amministrativa – diretta a fornire specifiche utilità ai cittadini – e a garantire fin da subito lo svolgimento di quelle attività private (spesso di rilevanza economico-commerciale) sottoposte per legge alla preventiva autorizzazione della pubblica amministrazione53. La fattispecie del silenzio-assenso è stata infatti estesa dal legislatore amministrativo54 a tutte le ipotesi di procedimenti ad istanza di parte volti al rilascio di provvedimenti cd. ampliativi, consentendo il formarsi di un atto tacito di accoglimento dell’istanza, nel caso che l’amministrazione non provveda entro il termine dovuto. È interessante rilevare, ai nostri fini, che il ricorso all’istituto trova spazio anche nella legislazione tributaria, ed in particolare nell’ambito della disciplina dell’interpello generale, introdotto dall’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente55. Al silenzioassenso fa pure riferimento l’art. 21 della legge n. 413/1991 in materia di interpello antielusivo (cd. interpello speciale), la cui disciplina ha peraltro subito recenti modifiche ad opera del decreto legge n. 185/2008. In questa sede56 pare opportuno soffermarsi sui caratteri della fattispecie di silenzio-assenso prevista dalle norme sull’interpello, per verificare se si ponga in linea di continuità con l’evoluzione legislativa che ha interessato l’istituto del silenzio amministrativo. Con riferimento all’interpello generale57, è stato osservato anzitutto che, rispetto alla previgente normativa, l’amministrazione finanziaria è destinataria di specifici obblighi e non è più libera

ss. A proposito dell’importanza “storica” del silenzio-assenso, quale nuovo volto giuridico dell’inerzia amministrativa, cfr. SANDULLI, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e processuali, in Dir. e Società, 1982, 710 ss., il quale avverte che «in una società democratica e legalitaria il silenzio-assenso non può non essere assunto con più largo respiro in quei settori nei quali si tratta di dare la materiale espansione a posizioni soggettive considerate e garantite dalla Costituzione. Ciò allo scopo di evitare che le posizioni stesse rimangano sacrificate dal ritardo della risposta dell’amministrazione, il quale troppo spesso produce, in materia, ferite non meno gravi delle risposte negative». 53 Osserva MARCHESE, Il silenzio nel diritto amministrativo, cit., 135, che «attraverso le singole disposizioni legislative, che hanno introdotto nel nostro ordinamento giuridico le forme del “silenzio-accoglimento” (o “silenzio-assenso”), le esigenze del traffico giuridico hanno così trovato uno specifico riconoscimento legale, che si traduce in una garanzia di speditezza e di correntezza negli “affari”, esigenza che, riconosciuta dapprima solo nell’ambito del diritto privato (civile e commerciale), ha finito col “comparire” anche nel campo del diritto amministrativo». 54Vedi art. 20, L. n. 241/1990, come modificato dall’art. 3, D.L. n. 35/2005, convertito in L. n. 80/2005. Peraltro, si deve sottolineare il contestuale ampliamento del campo di applicazione della denuncia di inizio attività ex art. 19, con conseguente riduzione della sfera del silenzio-assenso (in quanto fattispecie di carattere generale), sempre nell’ottica di una maggiore tutela degli interessi dei privati che intendano iniziare a svolgere un’attività. 55 La disciplina legislativa è integrata dal rego-

di trascurare le richieste dei contribuenti lasciandoli privi di qualsiasi orientamento58. In base all’art. 11, comma 2, dello Statuto, la p.a. deve, infatti, fornire una risposta scritta e motivata, che vincola il contribuente con riferimento alla specifica questione oggetto dell’istanza. L’amministrazione, inoltre, non può emanare provvedimenti d’imposizione o sanzionatori che contraddicano la risposta data. La norma aggiunge che, qualora la risposta non pervenga all’interessato entro il termine dovuto, si determina una fictio iuris per cui l’inerzia viene equiparata ad un atto di accoglimento dell’interpretazione prospettata dal contribuente. Ciò implica, evidentemente, che siffatta forma di silenzio-assenso può aver luogo solo in presenza di determinati presupposti, quale l’indicazione da parte del contribuente di una proposta di interpretazione della norma. In mancanza di tale indicazione, non può formarsi alcun provvedimento tacito59. La fattispecie, sotto questo profilo, presenta evidenti analogie con quella del silenzio-assenso in ambito amministrativo di cui all’art. 20, L. n. 241/1990, che viene ad esistenza solo se la domanda del privato è completa di tutti gli elementi prescritti dalla legge60. Ciononostante, la fattispecie tributaria è caratterizzata da note di atipicità, posto che il silenzio formatosi sull’istanza di interpello non è assimilabile in toto ad un provvedimento di accoglimento dell’istanza stessa. Si consideri, a tal proposito, l’art. 5, comma 3, del D.M. n. 209/2001, recante il regolamento di attuazione dell’art. 11 dello Statuto, il quale recita che «in caso [...] di risposta fornita oltre il termine [...], l’ufficio recupera le imposte even-

lamento di attuazione di cui al D.M. 26 aprile 2001, n. 209. 56 Esula dal presente lavoro una disamina degli interpelli tributari, per la quale si rinvia, anzitutto, al recente lavoro di PISTOLESI, Gli interpelli tributari, Milano, 2007. Si v. anche, a livello di manualistica, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, cit., 163 ss; FALSITTA, Manuale di diritto tributario, cit., 372 ss.; LUPI, Diritto tributario, cit., 99 ss.; RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2007, 221 ss. Inoltre, fra gli altri contributi, si v. GLENDI, Lo Statuto dei diritti del contribuente, in Corr. Trib., 2000, 33, 2416; GIORGIANNI, L’evoluzione dei rapporti di collaborazione tra amministrazione e contribuente: l’interpello alla luce dello Statuto del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2004, 2, 217; BALDASSARRE, L’interpello tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2008, 5, 2, 1027 ss.; PETRILLO, L’interpello nello Statuto dei diritti del contribuente in parallelo con la corrispondente esperienza spagnola, in Riv. Dir. Trib. int., 2001, 3, 202; COMELLI, La disciplina dell’interpello: dall’art. 21 della L. n. 413/1991 allo statuto dei diritti del contribuente, in Dir. e Prat. Trib., 2001, I, 624; LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002, 258. Nel senso dell’inammissibilità di una estensione della figura del silenzio-assenso dall’ambito degli atti autorizzativi a quello dell’attività consultiva dell’amministrazione, si veda LA ROSA, Prime considerazioni sul diritto di interpello, in Fisco, 32, 1992, 7950; ZIZZO, Diritto d’interpello e ruling, in Riv. Dir. Trib., 1992, I, 142 ss. 57 Le osservazioni che si svolgeranno sul silenzio in tema di interpello generale possono essere estese, in larga parte, all’istituto dell’interpello cd. “speciale” o “antielusivo”. L’art. 21, comma 9, della L. n. 413/1991 dispone infatti che «il contribuente, anche prima della conclusione di un contratto, di una convenzione o di un atto

che possa dar luogo all’applicazione» di disposizioni con finalità antielusiva (quali, ad esempio, gli artt. 37, comma 3, e 37-bis, D.P.R. n. 600/1973), «può richiedere il preventivo parere» all’amministrazione circa il carattere elusivo del comportamento prospettato. Il comma seguente aggiunge che, qualora non pervenga al contribuente alcuna risposta dalle amministrazioni indicate entro i termini stabiliti dalla legge, «la mancata risposta [...] equivale a silenzio-assenso». La dottrina reputa necessaria in tale ipotesi (così come in ogni ipotesi di interpello) l’indicazione da parte del contribuente di una propria soluzione al quesito posto all’amministrazione, in modo che possa formarsi, in caso di inerzia, un accoglimento tacito della soluzione proposta. Tale assenso avrà valore vincolante per la p.a. allo stesso modo di un parere espresso. Cfr. sul punto PISTOLESI, Gli interpelli tributari, cit., 32. 58 Cfr. GIORGIANNI, L’evoluzione dei rapporti di collaborazione tra amministrazione finanziaria e contribuente, cit., 252. 59 La norma di cui all’art. 11, comma 2, secondo periodo, non può quindi dispiegare i suoi effetti. Cfr. FRATINI, Il diritto d’interpello, su banca dati fisconline, 7. 60 Cfr., per tutti, AA.VV., Diritto amministrativo, cit., I, 720. È evidente, infatti, che la formazione di un atto amministrativo tacito richiede che sia in qualche modo individuabile il contenuto precettivo dell’atto stesso, e che esso possa evincersi dalla domanda del privato. È per questo motivo che il silenzio-assenso si ritiene applicabile solo alle ipotesi di atti amministrativi dal contenuto e dal destinatario individuabili, non essendo invece concepibile per atti di pianificazione urbanistica o provvedimenti terminali di procedure di gara. Cfr. sul punto LIGNANI, voce Silenzio (Dir. Amm.), cit., 574.


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tualmente dovute e i relativi interessi, senza la irrogazione di sanzioni, a condizione che il contribuente non abbia ancora posto in essere il comportamento specifico prospettato o dato attuazione alla norma oggetto d’interpello». L’amministrazione conserva quindi il potere di pronunciarsi anche dopo la scadenza del termine, almeno nel caso in cui il contribuente non abbia ancora dato attuazione alla norma oggetto di interpello. Può dunque esigere da questi il pagamento del debito tributario anche discostandosi dall’interpretazione che è stata prospettata nell’istanza e che avrebbe dovuto consolidarsi dopo la scadenza del termine. A ben vedere, non si è in presenza di un’ipotesi di silenzio-assenso propriamente detto61, perché, col formarsi di tale fattispecie, la p.a. dovrebbe perdere il potere di provvedere, e potrebbe solo limitarsi ad agire in autotutela per ritirare, ove illegittimo, il provvedimento tacitamente formatosi. In definitiva, la tutela delle ragioni del cittadino – che giustifica, come si è visto, l’istituto del silenzio-assenso – viene attenuata, nell’ipotesi in esame, dalla necessità di tutelare l’interesse dell’amministrazione ad assicurarsi il gettito fiscale che le spetta in base ad una corretta interpretazione delle norme tributarie. 7. Conclusioni sul valore del silenzio quale nuovo strumento di tutela del cittadino Le fattispecie di silenzio amministrativo trovano giustificazione, in ultima analisi, nell’esigenza di garantire una tutela più ampia del cittadino, consentendogli di promuovere un controllo giudiziale di legittimità non solo sull’azione della p.a., ma anche sulle sue omissioni. Il concetto di “omissione”, tuttavia, non va confu-

61 Locuzione, peraltro, non impiegata in questa sede dal legislatore, proprio per scongiurare dubbi o riserve sull’istituto: v. GIORGIANNI, cit., 252. 62 Si pensi al diritto penale dove, oltre ai reati omissivi esplicitamente previsti dal legislatore (ad esempio, l’omissione di soccorso), si presenta una serie di fattispecie (cd. reati omissivi impropri) che consistono nella produzione di un evento criminoso quale conseguenza della violazione di obblighi di agire incombenti sui consociati, discendenti da norme di legge o dalla particolare relazione che lega un soggetto ad uno o più beni giuridici (si pensi alla persona che, di fatto, si trova ad accudire un bambino o un malato e diviene responsabile della sua vita ed incolumità fisica).

so con quello di “inerzia”: nel primo caso infatti non basta la mera inazione di un soggetto, ma occorre un quid pluris, ossia la presenza di un dovere giuridico di agire, in base al quale l’inerzia, di per sé irrilevante, assume una connotazione antigiuridica. Pertanto, la tendenza ad estendere alle omissioni la tutela giurisdizionale del cittadino corre parallela alla progressiva individuazione di obblighi positivi di condotta in capo a soggetti pubblici o privati, anche in settori diversi dal diritto amministrativo e tributario62, in attuazione del principio solidaristico che informa l’intero ordinamento giuridico (v. art. 2, seconda parte, della Costituzione). Nel presente lavoro si è cercato di individuare, nei diversi ambiti del diritto tributario presi in esame63, l’esistenza di doveri positivi in capo all’amministrazione finanziaria, che giustificassero la rilevanza di un comportamento inerte, il quale, di per sé, è mera espressione della sua libertà di scelta. In talune ipotesi, si è visto inoltre come lo stesso legislatore possa rafforzare la tutela del cittadino, qualificando l’inerzia dell’amministrazione non come semplice inadempimento, ma come provvedimento positivo che attribuisce direttamente al privato il bene cui aspira64. Pertanto, non sarà il cittadino a dover chiedere tutela al giudice, ma l’amministrazione a dover usare i propri poteri autoritativi per rimediare ad una situazione determinata dalla sua stessa inefficienza. Si tratta, a nostro avviso, di una tendenza ad una maggiore “responsabilizzazione” dei pubblici poteri, che incentivi l’osservanza dei principi di celerità, efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione, oltre che il rispetto del canone di buona fede che, secondo l’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, informa i rapporti tra cittadino e amministrazione finanziaria.

63 Oltre alle ipotesi riportate ed esaminate nel testo, è da ricordare che la legislazione fiscale prevede un’ulteriore fattispecie di “silenzio” all’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997, in tema di cessione d’azienda, ove si stabilisce la corresponsabilità del cessionario (entro dati limiti) per le imposte e le sanzioni a carico del cedente. In particolare, il comma 3 del suddetto articolo dispone che gli uffici e gli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza «sono tenuti a rilasciare, su richiesta dell’interessato, un certificato sull’esistenza di contestazioni in corso o di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti». Il cessionario è liberato dai suoi obblighi «ove il certificato non sia rilasciato entro quaranta giorni dalla richiesta». Si tratta, a ben vedere, di un’altra ipo-

tesi di silenzio cd. significativo, dato che la legge riqualifica l’inadempimento dell’amministrazione attribuendo ad esso un significato peculiare e rendendolo equivalente ad un atto con effetti liberatori per il cessionario. 64 Il favor legislativo nei confronti del silenzioassenso è, infatti, limitato ai casi in cui tale fattispecie arrechi un’utilità al privato; diverso è invece l’atteggiamento del legislatore quando l’istituto, ove adottato, risulterebbe pregiudizievole per il privato stesso. Si veda al riguardo la disposizione di cui all’art. 57, comma 2, del codice del consumo (D.Lgs. n. 206 del 2005) che tutela il consumatore che abbia ricevuto una fornitura di beni o servizi da lui non richiesta. In tal caso, il suo silenzio non potrà essere inteso come consenso alla prestazione o alla conclusione del contratto.


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ACCERTAMENTO LA DISCIPLINA DEGLI STUDI DI SETTORE, TRA AUTOMATISMI ACCERTATIVI DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA E RICERCA DI PUNTI FERMI DA PARTE DELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO I Commissione tributaria provinciale di Gorizia, sez. I, 20 febbraio 2008, n. 193 42 Presidente: Loricchio - Relatore: Miseri Accertamento - Studi di settore - Rettifica incentrata sulle sole risultanze dello studio - Mancata dimostrazione della coincidenza con la situazione di normalità economica - Illegittimità dell’accertamento (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-sexies) Le stime operate dagli studi di settore possono essere utilizzate per procedere ad accertamento solo in quanto da esse sia fondatamente desumibile l’ammontare dei ricavi, compensi o corrispettivi, effettivamente conseguiti nel periodo d’imposta, sulla base della dimostrazione della effettiva coincidenza della situazione del singolo contribuente con quella di normalità economica posta a base dello studio di settore. Con avviso di accertamento n. [...] notificato il 22 dicembre 2005 l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Monfalcone ha rettificato, in applicazione della normativa sugli studi di settore ex art. 62-sexies, comma 3, D.L. 331/1993, il reddito dichiarato da G.O. per l’esercizio dell’attività commerciale di vendita di abbigliamento dell’anno 1998, determinando i ricavi in lire 159.675.000 a fronte di quelli dichiarati per lire 140.764.000. Conseguentemente, aumentato il reddito imponibile, sono state accertate a carico della contribuente le maggiori imposte dovute ai fini Irpef, addizionale regionale all’Irpef, Irap e Iva, oltre le sanzioni di legge. Contro l’avviso di accertamento presenta tempestivo ricorso G.O. esponendo i seguenti motivi: errata applicazione dell’art. 62-sexies, comma 3, D.L. 331/1993, poiché l’ufficio ha identificato le “gravi incongruenze” volute dalla norma con i meri risultati contabili forniti dalla studio di settore applicato, senza esprimere alcuna motivazione; insufficienza dello studio di settore a fondare la prova del maggiore ricavo, se non in presenza di altri elementi indiziari idonei a suffragare il risultato contabile; mancata considerazione della situazione specifica dell’impresa oggetto di controllo, che versava in situazione di crisi, tanto avere venduto gran parte della merce ad un prezzo notevolmente inferiore a quello di acquisto. Conclude per l’annullamento dell’atto impugnato. Si è costituita in giudizio l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Monfalcone chiedendo la reiezione del ricorso poiché: l’accertamento costituisce diretta applicazione della normativa di cui all’art. 62-sexies, comma 3, D.L. 331/1993, recepito dall’art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. 600/1973, e trova nella stessa la propria motivazione; i ricavi dichiarati sono inferiori anche al ricavo minimo ammissibile secondo lo studio utilizzato; nel merito, le difficoltà economiche dell’impresa sono già state considerate in sede di preventivo contraddittorio con la contribuente e hanno portato ad una diminuzione dei ricavi accertati, per un importo di lire 6.000.000, con conseguente riduzione dello scostamento, rideterminato in lire 12.911.000. La difesa della ricorrente ha depositato memoria illustrativa con giurisprudenza.

Il ricorso è stato posto in discussione nella pubblica udienza del 9 maggio 2007. Osserva la Commissione che il ricorso è fondato e pertanto deve essere accolto. I motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente, vista la loro comune attinenza alla questione della sufficienza o meno degli studi di settore a motivare ed a provare l’accertamento di maggiore reddito in capo al contribuente. In materia il dato normativo è posto dall’art. 62-sexies, comma 3, D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427) per effetto del quale «gli accertamenti di cui all’art. 39, comma 1, lett. d, del D.P.R. 600/1973 (e 54 del D.P.R. 633/1972) possono essere fondati anche sulla esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore». In proposito, il dibattito verte soprattutto sulla risposta da dare al quesito se lo scostamento dei ricavi/compensi/corrispettivi determinato in base agli studi di settore integri di per sé le “gravi incongruenze” richieste dalla norma oppure se tale scostamento debba essere accompagnato da ulteriori elementi probatori che facciano ritenere inattendibili i risultati dell’attività economica dichiarati dal contribuente. Invero, da una parte, si afferma che l’accertamento per studi di settore, non possedendo i requisiti richiesti dall’art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. 600/1973 (presunzioni gravi, precise e concordanti), spiegherebbe i suoi effetti solo per individuare i contribuenti da accertare nelle forme ordinarie, ovvero rappresenterebbero un semplice indizio che deve trovare riscontro in ulteriori elementi probatori a conforto dei ricavi calcolati dallo studio. Dall’altra parte, si ritiene del tutto sufficiente il risultato fornito dagli studi di settore, poiché tale accertamento si basa su una collaborazione fra contribuente e fisco, che porta a riconoscere il reddito degli studi come un reddito generalmente ragionevole, salvo il diritto del contribuente di dimostrare l’esistenza di raggiungimento dei risultati stabiliti dagli studi di settore. Ritiene la Commissione, discostandosi consapevolmente da precedenti decisioni, che l’ufficio non può fondatamente procedere ad un accertamento solo sulla scorta degli studi di settore, senza addurre ulteriori elementi a comprova dei risultati contabili in tal modo raggiunti. Invero, l’espressione “fondatamente desumibili”, utilizzata dall’art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. 600/1973 per integrare il presupposto delle “gravi incongruenze”, sta a significare che le stime operate dagli studi di settore sono utilizzabili in quanto da esse sia appunto fondatamente desumibile l’ammontare dei ricavi, compensi e corrispettivi effettivamente conseguiti nel periodo d’imposta considerato. Ciò porta ad escludere che l’utilizzo del dato contabile possa avvenire in modo automatico, a meno che non si dimostri l’effettiva coincidenza della situazione del singolo contribuente con quella di normalità economica presa a base dello studio. Nel caso in esame, in sede di contraddittorio prima della notifica dell’avviso di accertamento la G. ha


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fornito dati e notizie idonei a contrastare i risultati stabiliti dallo studio di settore applicato, in particolare sostenendo di avere dovuto vendere una certa quantità di merce in stock, circostanza questa riconosciuta veritiera dall’ufficio. Difetta pertanto la “normalità economica” sulla quale si basa la costruzione contabile degli studi di settore. In definitiva, oltre all’intrinseca insufficienza degli studi di settore a fornire, di per sé soli, la prova dei maggiori ricavi, nella

fattispecie sussistono elementi probatori in favore del contribuente che si contrappongono alle presunzioni semplici offerte dal meccanismo contabile dello studio di settore applicato. Quindi la pretesa tributaria di cui all’avviso di accertamento impugnato risulta infondata. Per i motivi esposti il ricorso deve essere accolto. I contrasti giurisprudenziali esistenti in materia giustificano la compensazione integrale delle spese di lite.

II Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. VIII, 5 novembre 2008, n. 226 43 Presidente: Ebner - Relatore: Palomba Accertamento - Studi di settore - Rettifica incentrata sulle sole risultanze dello studio - Necessità di indizi comprovanti lo scostamento tra ricavi dichiarati e ricavi accertamenti e l’esistenza delle “gravi incongruenze” di cui all’art. 62-sexies, comma 3, D.L. 331/1993 - Accertamento fondato solo sugli studi di settore - Illegittimità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-sexies) In tema di accertamento del maggior reddito, il riferimento ai dati che scaturiscono dagli studi di settore non è da solo sufficiente a motivare l’accertamento, ma occorre che sussistano indizi capaci di giustificare lo scostamento tra ricavi dichiarati e ricavi accertati, con riferimento ad ogni singola realtà; è, pertanto, illegittimo l’avviso di accertamento fondato sul solo risultato offerto dallo studio di settore, senza la dimostrazione delle “gravi incongruenze”di cui all’art. 62-sexies del D.L. n. 331/1993. Il sig. A.M., rappresentato e difeso dal dott. A.S., presenta ricorso avverso avviso di accertamento [...] emesso dall’Agenzia delle Entrate di Salerno e notificato in data 21 dicembre 2005. L’ufficio determina, con la metodologia degli studi di settore, per l’anno d’imposta 2003, maggiori ricavi e di conseguenza rettifica il reddito dichiarato, la base imponibile Irap ed il volume d’affari Iva. Il ricorrente, con il ricorso presentato, chiede l’annullamento dell’atto impugnato ritenuto illegittimo in quanto emesso in violazione degli articoli 39 e 42 del D.P.R. 600/1973, dell’art. 62-sexies del D.L. 331/1993 nonché dell’art. 3 della legge 241/1990. L’ufficio, con proprie controdeduzioni, chiede il rigetto del ricorso con condanna alle spese di giudizio in quanto l’accertamento è stato redatto nel rispetto delle disposizioni vigenti e sono stati utilizzati gli elementi di presunzione, scaturenti dall’applicazione del procedimento dello studio di settore, in conformità alle norme di legge che consentono di procedere alla rettifica del reddito d’impresa sulla base di presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti. Il Collegio letti gli atti, osserva: il contenuto dell’articolo 62-sexies comma 3 del D.L. 331/1993 che dispone «gli accertamenti di cui all’art. 39 del D.P.R. 600/1973 possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze [...] e quelli fondamentalmente

desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis del presente decreto»; gli articoli 39 e 42 del D.P.R. 600/1973 che disciplinano il ricorso al metodo induttivo o sintetico con richiesta di specifica indicazione dei fatti e delle circostanze che lo giustificano. Si ritiene quindi, in tale contesto, che non è sufficiente il solo riferimento ai dati che scaturiscono dagli studi di settore, per rendere sussistenti presunzioni gravi, precise e concordanti. La cassazione tributaria, intervenendo in merito, ha chiaramente affermato che per poter applicare il disposto dell’art. 39, comma 1, lett. d, del D.P.R. 600/1973 non è sufficiente il ricorso all’applicazione automatica delle risultanze dello studio di settore ma occorre che tali elementi siano confortati da altri indizi che supportano lo scostamento. Ancora, sempre la cassazione tributaria ha affermato che, pur volendo utilizzare gli studi di settore come strumento per la ricostruzione del reddito, occorre che l’ufficio dimostri come sia stato preventivamente accertato che esistano gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta. Solo ricorrendo tali condizioni è legittimo l’accertamento induttivo dei ricavi e quindi dei redditi ai sensi dell’art. 39. In sostanza la dimostrazione dello scostamento tra redditi dichiarati e redditi accertati non può trovare fondamento in dati presuntivi ma deve essere riferita ad ogni singola realtà ed ancora che si rilevino, in modo certo, le evidenze di grave incongruenza. Fermo il principio che la normativa tributaria deve essere applicata in conformità ai principi costituzionali, non vi è dubbio che spetta all’ufficio l’onere della prova della capacità contributiva anche in forza dello stesso Statuto del contribuente. Pertanto, lo studio di settore costituisce un utile parametro per l’accertamento del maggior reddito ma solo in concorso con la dimostrazione di grave incongruenza che rappresenta la ragione per cui si ricorre allo studio stesso. Di tale ulteriore dimostrazione rispetto al puro dato aritmetico desunto dall’applicazione dello studio di settore non vi è traccia nel presente giudizio e nell’accertamento. In presenza di tali risultanze istruttorie la commissione ritiene il ricorso fondato e da accogliere; dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio sussistendone i motivi.


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III Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. XV, 14 gennaio 2009, n. 4 44 Presidente: Di Popolo - Relatore: Granese

Accertamento - Studi di settore - Rettifica incentrata sulle sole risultanze dello studio - Carenza di un’indagine volta ad individuare la concreta situazione nella quale versa il soggetto - Illegittimità dell’accertamento per difetto di motivazione (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-sexies) È illegittimo per difetto di motivazione l’avviso di accertamento fondato sul mero scarto tra ricavi dichiarati e ricavi desumibili dallo studio di settore, giacché l’ufficio fiscale non può esimersi dal confrontare i risultati espressi dallo studio con la concreta situazione nella quale versa il contribuente. Con ricorso presentato in data 13 dicembre 2006 il sig. C.D.[...] impugnava l’avviso n. [...] notificato il 27 ottobre 2006, con il quale l’Ufficio delle Entrate di [...], relativamente all’anno d’imposta 2002, aveva – a fronte di ricavi dichiarati pari ad euro 89.984,00 – accertato maggiori ricavi per euro 96.224,00 scaturiti dalla elaborazione dello studio di settore SM28U, determinato attraverso lo strumento informatico Gerico. Al riguardo – premesso che non era andato a buon fine il tentativo di definizione per adesione non avendo l’ufficio riconosciuto la marginalità economica dell’attività svolta in ragione della obsolescenza della struttura, delle difficoltà di accesso ai locali, della esiguità degli spazi di vendita e del fatto che l’esercizio era condotto senza l’ausilio di dipendenti – evidenziato che la comprensione della metodologia degli studi di settore trascende le conoscenze del contribuente e del consulente medio e richiede per un’esatta e puntuale applicazione dello studio delle conoscenze matematiche e statistiche che rendono, di fatto, impossibile comprendere ed eventualmente contestare lo studio ai soggetti che non siano in possesso o non possano accedere a tali conoscenze – eccepiva che l’obbligo di motivazione e l’onere della prova non potevano ritenersi soddisfatti con il mero rinvio agli studi ma occorreva che gli uffici dessero conto della valutazione della riferibilità della realtà fattuale a quella fotografata e che in sede probatoria fornissero gli elementi sulla base dei quali avevano effettuato la valutazione, posto che le possibili cause di scostamento potrebbero non essere state colte ab origine dallo studio, per cui non avendo l’ufficio esternato neanche in forma contratta e semplificata le ragioni del provvedimento, evidenziandone elementi ricognitivi e logico deduttivi in modo da consentire un’efficace difesa, erano stati violati l’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente e l’art. 2697 c.c. Riteneva, inoltre, violato l’art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. n. 600/1973 poiché con l’art. 62-bis, del D.L. n. 331/1993 il legislatore aveva inteso solo aggiungere a tale disposizione la possibilità di desumere che il contribuente avesse dichiarato passività inesistenti o non avesse dichiarato attività esistenti anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, per cui alla luce degli artt. 2727 e 2729 c.c. era evidente che le «risultanze degli studi di settore» non potevano esimere l’ufficio dal provare l’infedeltà della dichiarazione del contribuente contestandogli elementi gravi, precisi e concordanti, dovendogli contestare principalmente elementi documentali. Non potevano, perciò stesso, assurgere al rango di motivazione e prova, ma tutt’al più potevano intervenire successivamente come rafforzativo e come strumento di quantificazione del reddito. Soggiungeva, peraltro, che per tutti i margini di approssimazione che connotano tale tipo di procedura non potevano essere allegati processualmente come prova dell’avvenuta evasione. Essi, ribadiva, operando limitatamente ed esclusivamente alla di-

mostrazione della esistenza di poste attive o passive e, perciò, come già detto, quale mero strumento di calcolo e, come tali, da intervenire solo dopo aver rappresentato al contribuente prove ed elementi atti a considerare la sua dichiarazione infedele, l’ufficio era tenuto a provare: 1) che i campioni utilizzati per creare gli studi di settore fossero statisticamente rappresentativi, per trarne risultati attendibili; 2) a chiarire tutti i passaggi aritmetici che portino da determinati costi a determinati ricavi; 3) a chiarire in che modo operano gli studi di settore; 4) a provare che i risultati raggiunti siano verosimili e logici; 5) a comprovare che il programma informatico Gerico funzioni effettivamente, sia affidabile e che i risultati raggiunti siano corretti, sia in generale che nel caso specifico. Altrimenti, indicando solo il risultato e non tutti i passaggi si lede il diritto di difesa e si pone il giudice in una posizione impossibile: «decidere se il calcolo sia giusto basandosi solo sui risultati». Riteneva, inoltre, illegittima la sanzione irrogata posto che l’ufficio aveva ignorato non solo che per irrogare la sanzione occorrono che il soggetto inciso sia l’autore della violazione e che lo stesso abbia agito se non con dolo almeno per colpa ma anche che l’art. 19, del D.Lgs. n. 74/2000 aveva stabilito il principio dell’alternatività tra la sanzione penale-tributaria e la sanzione amministrativa-tributaria, fondata sul principio di specialità e che nella situazione all’esame risultava evidente non potesse essere applicata la sanzione amministrativa-tributaria sulla base di «una semplice praesumptio hominis, qual è lo studio di settore in quanto basandosi su medie statistiche», anche se di elevato grado probabilistico, non è assolutamente idoneo a legittimare l’applicazione di una sanzione che, al pari di quella penale, postula oltre il principio della personalità quello della colpevolezza. Chiedeva, pertanto l’annullamento dell’atto de quo e, in subordine, della sola sanzione. In data 12 febbraio 2007 si costituiva in giudizio l’ufficio il quale – premesso a differenza dei precedenti strumenti ravvisati nei parametri e nei coefficienti presuntivi, gli studi di settore in quanto elaborati con gli osservatori provinciali del territorio e con gli esperti di categoria e venivano annualmente revisionati allo scopo di essere rappresentativi della realtà economica di riferimento – controdeduceva che pur presentando un margine di imprecisione, gli accertamenti eseguiti con tale metodo non potevano non ritenersi corretti in quanto seppur facenti leva su una presunzione l’ufficio si avvaleva unicamente di indicatori e dati oggettivi ed incontestabili poiché forniti dallo stesso contribuente e, quindi «rappresentativi di specifiche condizioni d’esercizio». Considerato, altresì che la presunzione utilizzata dall’ufficio era una presunzione legale relativa, che a differenza delle mere presunzioni semplici, comportava a carico del contribuente l’inversione dell’onere della prova, le eccezioni di parte ricorrente erano infondate, anche perché in questa sede il ricorrente aveva addotto solo ragioni generiche ed elementi già considerati, quali l’esiguità degli spazi, le difficoltà di accesso, la mancanza di dipendenti. Chiedeva, pertanto, il rigetto del ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese, secondo l’allegata notula. In diritto. A fianco dei sistemi di accertamento tradizionali analitico, induttivo, sintetico – è noto – il legislatore ha previsto anche criteri di valutazione ancorati ad entità oggettive predefinite basati su situazioni statistiche emerse dalla suddivisione del territorio e per categorie professionali, riconoscendo nel contempo al contribuente il diritto di provare il contrario. Detto criterio è di per sé legittimo in quanto manifestazione di quel margine di discrezionalità del Legislatore di disciplinare nel


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modo più conveniente certe situazioni, fatti salvi i criteri di logicità e di razionalità, come ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale per la quale le presunzioni spiegano tutta la loro liceità essendo volte a proteggere l’interesse generale alla riscossione contro ogni tentativo di evasione. Pertanto, non può mettersi in dubbio – come affermato dalla giurisprudenza di legittimità – la oggettiva attendibilità di tale fonte normativa stante il sufficiente grado di certezza e valenza probatoria insito nella medesima in quanto gli elementi posti alla base della stima dei ricavi e dei compensi desunti da dette fonti sono il frutto di una specifica attività di analisi che prevede la fattiva collaborazione delle associazioni di categoria, le quali forniscono elementi di valutazione e conoscenza alla Commissione di esperti che esprime il parere previsto dall’art. 10 della legge n. 146/1998, prima del decreto di approvazione ministeriale, per cui è onere del contribuente provare il contrario. È, d’altro canto, innegabile che in ogni presunzione è insito un certo grado di arbitrio. È questo, pertanto, il punto focale che l’ufficio deve tener presente in tutti i casi di accertamento della specie, altrimenti non sarebbe stata avvertita la necessità di procedere ad un accertamento nella sua accezione lessicale. In quest’ottica l’ufficio – ad avviso di questo Collegio – in caso di scostamento dei ricavi dichiarati rispetto a quelli scaturiti dall’applicazione dallo studio di settore di riferimento ha l’obbligo, in sede di accertamento di evidenziare le anomalie riscontrate e non di affermare sic et simpliciter lo scostamento, altrimenti ne risulta conculcato il diritto di difesa dell’accertato. In assenza di questa analisi l’accertamento deve ritenersi carente di motivazione in quanto il semplice richiamo dello studio di settore non comportando decriptazione alcuna riduce lo stesso a motivazione puramente apparente. Pertanto, pur tenendo presente l’importantissimo ausilio che può derivare dagli strumenti presuntivi, proprio in ragione della flessibilità di questi e del ruolo che gli stessi hanno sia sul piano della deterrenza che sotto il profilo strettamente repressivo, questo Collegio giudicante ritiene che l’ufficio non possa, in ogni caso, esimersi dal compiere ogni sforzo per individuare la reale capacità contributiva del soggetto, nel senso che non possa e non debba prescindere dal confronto dello studio di settore con la situazione concreta oggetto di accertamento così come il contribuente deve attivarsi per dimostrare l’eventuale inapplicabilità alla propria situazione dello strumento medesimo. Con ciò si viene a significare che i parametri presuntivi – si ri-

badisce – pur costituendo un valido strumento per calcolare i ricavi e/o i compensi di un operatore economico, non possono essere applicati automaticamente in quanto ogni impresa ha una sua specifica realtà, per cui può conseguire ricavi superiori o inferiori a quelli della media del settore in base alle caratteristiche peculiari che vanno attentamente ricercate controllando le scritture contabili, verificando le fatture, le relazioni bancarie ed intersoggettive, oltre gli altri documenti ritenuti pertinenti all’attività. Poiché nel caso di specie, l’ufficio né in sede di accertamento né in sede di controdeduzioni ha speso parola né sul genus né sulle peculiarità dell’attività svolta dal ricorrente, omettendo, perciò stesso ogni correlazione e comparazione, per un verso, al risultato offerto dallo studio di settore utilizzato e, per l’altro, alle ragioni del ricorrente medesimo, la Commissione ritiene che si sia sottratto alla sua funzione accertatrice. Questa, infatti, non può relegarsi a meri automatismi per le corrette modalità applicative dello studio di settore di riferimento, tanto più ove si consideri che a nessun dettaglio è stato dato il proprio peso, nessuna analisi delle condizioni intrinseche, estrinseche e strutturali dell’attività ha fatto un accenno così come non ha considerato nessun rapporto attrezzature-prodotto, attrezzature-clientela qualitativa e/o quantitativa. In ultima analisi, la Commissione ritiene che l’ufficio abbia fatto una vera e propria operazione di omomorfia essendosi limitato ad applicare lo studio di settore in tutto il suo rigido automatismo, prescindendo dalla realtà aziendale, compromettendo in buona sostanza lo spirito di lealtà e di collaborazione cui deve essere improntato il rapporto giuridico d’imposta, un prelievo calibrato su effettivi indici di capacità contributiva e un’adeguata tutela degli stessi interessi erariali. Per contro, le circostanze indicate dal ricorrente – spazi limitati, accesso angusto, carenza di personale – che l’ufficio asserisce di aver preso in considerazione senza, tuttavia specificarne l’incidenza, sono oggettivamente indici condizionanti dell’attività che finisce per risultare circoscritta e limitata e quindi un minus rispetto a quello previsto dallo studio di settore astrattamente considerato. Mancando l’avviso in oggetto di motivazione va dichiarato nullo per carenza di un requisito richiesto dalla legge ad substantiam. Resta assorbita ogni altra eccezione. Stante l’evoluzione interpretativa a livello giurisprudenziale e dottrinario della materia degli studi di settore, ricorrono giustificati motivi per la compensazione delle spese di giudizio.

IV Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XXII, 3 marzo 2009, n. 71 45 Presidente: Lamorgese - Relatore: Schilardi

Accertamento - Studi di settore - Rettifica incentrata sulle sole risultanze dello studio - Assenza di argomentazioni in ordine agli elementi addotti dal contribuente in sede di contraddittorio anticipato - Illegittimità dell’accertamento per difetto di motivazione (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-sexies) In presenza di accertamenti fondati sugli studi di settore, l’ufficio finanziario è tenuto ad argomentare in ordine alle circostanze addotte dalla contribuente in sede di contraddittorio anticipato; è pertanto illegittimo, per vizio di motivazione, l’avviso di accertamento che non tenga conto delle predette circostanze, ma derivi dall’impiego automatico dei dati desumibili dagli studi di settore.

L’Agenzia delle Entrate di [...] in data 24 gennaio 2005 ha notificato alla ricorrente un avviso d’accertamento n. [...] relativo al periodo d’imposta 2001 con il quale determinava maggiori ricavi a seguito dell’applicazione degli studi di settore di cui all’art. 62-bis del D.L. n. 331 del 30 agosto 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 427 del 29 ottobre 1993. I maggiori ricavi determinati presuntivamente hanno determinato una maggiore imposta Irpef e Iva più Inps e addizionali regionali, comunali e la sanzione. Venivano eccepiti: la carenza di motivazione ex art. 42, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973. L’Agenzia delle Entrate avrebbe proceduto alla rettifica del reddito dichiarato con unico 2002, usando direttamente per l’accertamento, i risultati derivanti dall’applicazione del software Gerico, senza l’utilizzo di alcuna ulteriore metodologia di controllo e senza tener conto delle oggettive condizioni di esercizio dell’atti-


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vità svolta. Inoltre avrebbe irrogato le sanzioni per infedele dichiarazione senza l’utilizzo di alcuna ulteriore metodologia di controllo e senza motivazione. Chiedeva l’annullamento dell’accertamento per difetto di motivazione e in subordine la riduzione degli importi, oltre alla soccombenza delle spese di giudizio. L’ufficio si costituiva deducendo l’infondatezza delle eccezioni della parte ricorrente insistendo sulla legittimità del proprio operato. I primi giudici accoglievano parzialmente il ricorso, fissando in lire 25.000.000 il maggiore reddito imponibile, con applicazione delle sanzioni e compensando le spese. L’appello viene proposto poiché non sono state esposte le ragioni di fatto e di diritto che giustificano la decisione adottata, al fine di garantire la trasparenza e la conoscibilità del procedimento logico giuridico attraverso cui il giudice è giunto alla statuizione della volontà concreta della legge, nel caso singolo portato al suo esame. I giudici pur rettificando il maggior reddito accertato dall’ufficio non hanno assolutamente preso in considerazione le motivazioni ampiamente documentate addotte dal contribuente con il ricorso introduttivo. La motivazione sarebbe priva di un vero contenuto decisorio considerato che non è dato conoscere il procedimento logico giuridico attraverso cui sono giunti ad emettere la sentenza impugnata, ma non sono noti i presupposti di fatto della stessa, né quelli di diritto che la giustificano. L’appellante osserva che per l’esercizio 2001 l’attività era stata esercitata solo giorni 60 relativi a luglio e agosto 73 per gli altri periodi, per un totale complessivo di n. 133 giornate lavorative. Tutto documentato, con allegati. Tutto ciò che risulta riportato nell’avviso d’accertamento doveva essere debitamente provato al fine di permettere al giudice tributario di fondare il proprio convincimento nel senso richiesto. Inoltre viene invocata la illegittimità della sentenza impugnata per omessa pronuncia su punti decisivi della controversia (violazione dell’art. 112 c.p.c.). Il giudice deve pronunciarsi su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Nel caso in questione i giudici hanno omesso di pronunciarsi sulle censure mosse dalla ricorrente. Chiede di annullare l’illegittimo avviso d’accertamento, in subordine ridurre le somme dovute. Condannare l’Agenzia al rimborso di quanto già eventualmente pagato, oltre gli interessi. Condannare l’ufficio alle spese di lite. L’ufficio si costituisce in giudizio e osserva che la sentenza impugnata è fondata e motivata. Che i giudici correttamente hanno ritenuto la sussistenza

dei requisiti per l’applicabilità del tributo al caso di specie. E che generiche ed incongruenti e prive di fondamento sono le argomentazioni addotte dalla parte ricorrente. Chiede il rigetto del ricorso. Con vittoria di spese, competenze e onorari. Alla discussione, il difensore della contribuente si riporta integralmente all’appello e ne chiede l’accoglimento, chiede inoltre la condanna dell’ufficio alle spese con distrazione, allo stesso e produce nota spese. La rappresentante dell’ufficio si riporta agli scritti difensivi in atti e chiede la conferma della sentenza di primo grado. La Commissione osserva. Le doglianze dell’appellante sono fondate e conseguentemente accolte. Questo Collegio dopo un attento esame del ricorso e dei documenti prodotti e dalle deduzioni fatte dall’ufficio ritiene che l’accertamento di un maggior reddito così come effettuato non può ritenersi legittimo se non supportato da altri elementi giustificativi, quali ad esempio, dell’inattendibilità delle scritture contabili. L’art. 39, comma 1, lett. d, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 non impedisce, pure in presenza di contabilità formalmente regolare, l’accertamento in rettifica, che presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e tuttavia contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni, gravi, precise e concordanti, che possono essere costituite da studi di settore, collegabili, ai sensi dell’art. 62-sexies del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito con mod. dalla legge 427/1993), a gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati, le dimensioni ed il giro d’affari dell’azienda, di modo che, in base ad un processo logico analitico induttivo, possa fondatamente dubitarsi della completezza e della fedeltà della contabilità esaminata. Nel caso di specie la contribuente è stata invitata dall’ufficio a fornire le proprie giustificazioni cosa che ha fatto. L’ufficio non le ha condivise ma avrebbe dovuto spiegare puntualmente le ragioni. L’ufficio, in sostanza, avrebbe dovuto argomentare sulle circostanze addotte dalla contribuente. Ciò non è stato fatto e quindi l’atto è nullo per difetto di motivazione ex art. 42 del D.P.R. n. 600/1973. Si ritiene sussista l’illegittimità del contraddittorio anticipato tra contribuente ed ente impositore. Ciò comporta la nullità dell’accertamento, in quanto gli studi di settore hanno mero valore indiziario: la loro funzione è infatti quella di individuare quei contribuenti che dichiarando ricavi sottodimensionati rispetto al cluster di appartenenza, possono essere plausibilmente sospettati di condotte evasive e/o elusive. L’appellata sentenza è riformata. Gli altri motivi assorbiti. Ricorrono giusti motivi per compensare le spese.

I - IV Nota di Diana Muraro

pare – di tutelare l’interesse fiscale alla semplificazione dei procedimenti di accertamento. Dalla lettura delle sentenze si evince, infatti, che, nei casi esaminati, l’ufficio si è mosso con una certa disinvoltura, sostituendo all’ammontare dei ricavi scaturente dalla dichiarazione la cifra desumibile attraverso la predeterminazione. È evidente che codesto schema operativo consente all’Agenzia delle Entrate di evitare le lungaggini ed i fastidi provocati dall’impiego di metodologie accertative di stampo – per così dire – tradizionale, nell’ambito delle quali è importante riflettere, ragionare sugli elementi che si hanno a disposizione, argomentare in modo incisivo il recupero, senza dare troppo peso ai dati ma-

Il filo conduttore delle sentenze annotate: studi di settore e automatismi accertativi Le sentenze che qui di seguito annotiamo investono, sia pure nella loro eterogeneità, un aspetto che potremmo reputare strutturale della disciplina degli studi di settore1. Nei casi sottoposti all’esame dei giudici di merito, infatti, emerge, quale filo conduttore dell’agire amministrativo, l’idea della diretta, automatica applicazione del risultato dello studio in funzione della rettifica della dichiarazione2, nella prospettiva – a noi

1 Sul punto, peraltro, si veda la recentissima giurisprudenza delle sezioni unite (cfr. Cass. civ., sez. un., sent. n. 26635, 26636, 26637 e 26638 del 18 dicembre 2009, tutte disponibili in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big), la quale, nel ripudiare gli automatismi accertativi, valorizza il contraddittorio con il contribuente quale momento indefettibile nella prospettiva della personalizzazione della elaborazione statistica offerta dagli studi di settore e dell’adattamento della stessa alla

realtà economica concreta nella quale il contribuente opera. Nel procedere in questa direzione, la giurisprudenza de qua pone, altresì, l’accento sulla necessità che la motivazione dell’avviso di accertamento sia integrata «con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio». 2 Accanto alle sentenze qui esaminate, esiste un nutrito filone giurisprudenziale il quale, ancor prima delle citate pronunce emesse a

sezioni unite (cfr. nota 1), ha assunto una posizione critica rispetto agli accertamenti improntati a logiche di automatismo. Segnaliamo, per tutte, Comm. trib. prov. Lecce, sez. VIII, 26 febbraio 2008, n. 25, in Riv. Dir. Trib., 2008, II, 316 ss., con nota di BEGHIN, Il dualismo tra studi di settore evoluti e studi di settore non evoluti: una battaglia di retroguardia; Comm. trib. II grado Trento, sez. I, 28 febbraio 2007, n. 16, in questa rivista, 2007, 455 ss., con nota di SCIARRA, La perso-


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tematico-statistici sui quali poggiano gli studi. Le stime non guidate dalla rassicurante mano del legislatore sono scomode, difficili e, oltretutto, comportano l’assunzione di una qualche responsabilità in sede di motivazione dell’atto3. È pertanto comprensibile che il funzionario, trovandosi al cospetto di strumentazione capace di offrire un primo indice di grandezza del fatturato, tenti di adagiarsi su codesto risultato, affidandosi allo studio senza troppo considerare che quest’ultimo, per le sue caratteristiche, non consente di procedere per automatismi. Non è questa la sede per soffermarsi sui percorsi adottati da Sose S.p.A. per la costruzione degli studi di settore e sulle modalità applicative di codesti strumenti4. Basti rilevare che siamo al cospetto di una metodologia la quale trova il proprio punto di forza nella elaborazione, in chiave matematico-statistica, di dati acquisiti presso gli imprenditori e presso i liberi professionisti5. Dati, questi, che, dopo attenta scrematura da parte della citata Sose, sono posti a base di formule di regressione multipla, le quali dovrebbero esprimere, con riferimento al singolo operatore, un risultato di “normalità economica”. Su questo risultato di “normalità” le idee non sono, peraltro, sufficientemente chiare. Infatti, la documentazione utilizzata per la predisposizione delle suddette formule non è accessibile ai contribuenti, dimodoché anche il percorso argomentativo che conduce dai dati contabili ed extracontabili ai ricavi puntuali è, allo stato attuale, privo di tracciabilità6. La conclusione è, quindi, scontata: la normalità economica, enunciata attraverso l’applicazione della formula nella quale s’innerva lo studio di settore, ri-

nalizzazione della rettifica presuntiva fondata sugli studi di settore e il loro valore probatorio in sede processuale; Comm. trib. prov. Milano, sez. VIII, 18 aprile 2005, n. 60, in Riv. Dir. Trib., 2005, II, 449 ss., con nota di BEGHIN, L’illegittimità dell’avviso di accertamento carente di specifica motivazione quanto alle “gravi incongruenze” previste dall’art. 62-sexies, comma 3, del D.L. n. 331/1993: un’adeguata reazione alla connotazione “statistico-probabilistica” degli studi di settore. 3 In merito all’effetto di deresponsabilizzazione che consegue all’impiego degli studi di settore in luogo delle (più impegnative) stime personali, cfr. BEGHIN, Studi di settore, automatismi accertativi e motivazione della rettifica, in Riv. Giur. Trib., 2009, 452 ss.; LUPI, voce Studi di settore, in Enc. Giur., Milano, 2008, 457. 4 Per un approfondimento in ordine alle modalità di elaborazione, validazione, approvazione ed applicazione degli studi di settore, rinviamo a BEGHIN, I soggetti sottoposti all’applicazione degli studi di settore, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2009, 682 ss.; VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano, 2007, 184 ss.; GARBARINO, Imposizione ed effettività nel diritto tributario, Padova, 2003, 311 ss.; GIORGI, L’accertamento basato su studi di settore: obbligo di motivazione ed onere della prova, in Rass. Trib., 2001, 659 ss. 5 Sulle carenze del modello degli studi di settore ascrivibili al fatto che i dati in esso contenuti possono essere manipolati e “pilotati” dai contribuenti, cfr. SALVINI, Vecchi e nuovi strumenti giuridici per il contrasto all’evasione, in AA.VV., L’evasione fiscale: una guerra ancora da vincere (Atti del Convegno svoltosi il giorno 20 gennaio 2006 presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma), Milano, 2007, 41 ss. e spec. 45; LUPI, Evasione fi-

mane apodittica e su di essa, lo si voglia o meno, è richiesto un atto di fede al contribuente. Non si tratta di affermazione di poco conto. Anche le disposizioni sull’accertamento, infatti, non possono prescindere dai principi costituzionali e, segnatamente, non possono ignorare: a) che ciascuno è tenuto a contribuire alla spesa pubblica in ragione della “propria” capacità contributiva, non già in ragione di una capacità economica standardizzata, frutto di medie, statistiche, stime e, conseguentemente, riferibile alla “massa” dei contribuenti (arg. ex art. 53 Cost.7); b) che al contribuente deve essere assicurato il diritto di difesa nei confronti di tutti gli atti impositivi dell’amministrazione finanziaria (arg. ex art. 24 Cost.); con riferimento a quest’ultimo profilo, è chiaro, però, che fino a quando gli studi di settore rimarranno inaccessibili agli imprenditori ed ai professionisti, tale diritto non potrà che rimanere precluso, o quanto meno fortemente circoscritto, soprattutto se si considera che, stando ad alcune circolari dell’Agenzia, graverebbe sul citato contribuente l’onere di dimostrare di non trovarsi in stato di normalità economica8; c) che potrebbero sorgere problemi anche dal punto di vista del principio della riserva (arg. ex art. 23 Cost.), in quanto la sostituzione dei ricavi puntuali ai ricavi effettivi potrebbe modificare la funzione degli studi, trasformando gli stessi da “mezzi” per l’accertamento in “risultati” sui quali far inesorabilmente gravare il tributo; così facendo, però, il carico fiscale delle piccole imprese e dei professionisti verrebbe determinato, secondo criteri – lo si capisce – insondabili, da Sose S.p.A.9

scale, paradiso e inferno, Milano, 2008, 284. 6 Il dato di normalità economica rimane — ce lo ricordano i giudici della Comm. trib. prov. Roma — criptico, in quanto determinato attraverso formule che, piaccia o non piaccia, non sono accessibili alla platea dei soggetti interessati. Desta, pertanto, talune perplessità l’orientamento dai giudici della Comm. trib. prov. Gorizia, laddove essi affermano che «ciò porta ad escludere che l’utilizzo del dato contabile possa avvenire in modo automatico, a meno che non si dimostri l’effettiva coincidenza della situazione del singolo contribuente con quella di normalità economica presa a base dello studio». Non si comprende, infatti, come possa essere dimostrata l’effettiva coincidenza della situazione nella quale versa il singolo rispetto ad un elemento di comparazione — la situazione di normalità, per l’appunto — il quale rimane sconosciuto. Sulla segretezza della formula matematico-statistica che sorregge lo strumento forfetario, cfr. BEGHIN, I soggetti, in FALSITTA, Manuale, cit.; MANZONI, Gli studi di settore e gli indicatori di normalità economica come strumenti di lotta all’evasione, in Rass. Trib., 2008, 1263; GAFFURI, Studi di settore e normalità economica, in Boll. Trib., 2008, 1402 ss.; MAURO, L’accertamento senza prova effettuato mediante gli studi di settore, in questa rivista, 2008, 54 ss. e spec. 61. Sul punto, si è altresì pronunciata la Commissione presieduta dal professor Rey, istituita con il D.M. 5 marzo 2007 e incaricata di esaminare le «problematiche di tipo giuridico ed economico inerenti alla materia degli studi di settore», la quale ha censurato la scarsa apertura informativa del procedimento di formazione del singolo studio, auspicando, per lo stesso, una rivisitazione che garantisca maggiore trasparenza quanto ai

criteri ed alle formule matematico-statistiche impiegati per il raggiungimento dei dati di sintesi esprimenti i ricavi ed i compensi “normali”. 7 Benché rappresenti, nelle intenzioni di chi l’ha creato, il risultato di uno sforzo di personalizzazione (come si evince dalle note metodologiche che descrivono l’iter di formazione dello strumento), lo studio di settore rimane ciò nondimeno uno strumento improntato sull’applicazione di dati medi, di massa, come viene sottolineato da BEGHIN, Utilizzo sistematico degli studi di settore e rispetto del principio di capacità contributiva, in Corr. Trib., 2007, 1973 ss. Tale strumento, peraltro, si limita a fotografare una situazione di mera potenzialità, come lo stesso autore evidenzia nello scritto Osservazioni in tema di revisione “congiunturale e speciale” degli studi di settore e di acquiescenza all’invito al contraddittorio nella disciplina di cui al D.L. n. 185/2008, in Riv. Dir. Trib., 2009, I, 545 ss. 8 Cfr. la circolare n. 5/E del 23 gennaio 2008 (disponibile nel sito www.finanze.it). A tale riguardo, possiamo prospettare due diversi scenari: nel caso (a) del contribuente “non congruo”, il quale versi in particolari situazioni di non normalità economica (malattia dell’imprenditore, furto, inagibilità dei locali, e così via), la dimostrazione di cui si è detto non pone particolari problemi; essa risulta, invece, assai più complessa nell’ipotesi (b) del contribuente il quale, pur trovandosi in una situazione di normalità economica, risulti, cionondimeno, “non congruo”. 9 Alcune perplessità in ordine alla legittimità costituzionale della normativa sugli studi di settore, con particolare riferimento al principio di legalità di cui all’art. 23 Cost., vengono sollevate da MANZONI, Gli studi, cit., 1255 ss.


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La necessità di ravvisare negli studi di settore un mero punto di partenza dell’attività di accertamento, non un punto di arrivo della stessa Se, dunque, è da escludere l’automatico impiego degli studi di settore in sede di accertamento, non si può impedire che questi strumenti vengano ciò nondimeno proficuamente impiegati nell’ambito delle attività di controllo, in funzione della selezione delle posizioni da esaminare e come primo orientamento circa l’ammontare del fatturato che ci si potrebbe attendere da un determinato soggetto. È necessario riconoscere che, laddove l’imprenditore si sia attenuto agli schemi comportamentali sui quali il citato studio è incentrato, esso può offrire un primo livello di informazioni circa le caratteristiche dimensionali del soggetto. In presenza di determinati elementi contabili e di alcune situazioni extracontabili, lo studio dovrebbe aiutare il funzionario ad intercettare lo schema della catena argomentativa della rettifica che il citato funzionario potrebbe, comunque, comporre anche a prescindere dalla predeterminazione. Attraverso l’art. 62-sexies del D.L. n. 331/1993, il legislatore ha posto sullo stesso piano gli accertamenti presuntivi basati su indici esteriori e quelli fondati su presunzioni semplici, consapevole del fatto che i risultati ottenibili attraverso l’impiego della seconda metodologia si potrebbero conseguire, forse con maggiore dispendio di energie, anche attraverso la prima. In questa prospettiva, gli studi di settore rappresentano nulla più che opinabili predeterminazioni di un oscuro dato di normalità e necessitano, in ragione della loro consistenza, di un adattamento alla situazione concreta nella quale il contribuente versa10. È evidente che, proprio in considerazione della loro natura di strumenti matematico-statistici, gli studi potrebbero non essere nella condizione di segnalare specifici ricavi non fatturati, laddove essi vengano riferiti a soggetti che, per una serie di ragioni, non possano reputarsi economicamente “normali”. Detto altrimenti,

10 Di tale necessità viene detto nell’ambito della circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 13/E del 9 aprile 2009 (consultabile nel sito www.finanze.it). Quest’ultima, nel pronunciarsi in merito all’attività di controllo diretto nei confronti dei soggetti “non congrui”, ha espresso l’esigenza di corroborare il risultato offerto dagli studi di settore attraverso gli indicatori di spesa o di forza economica che, tipicamente, assumono rilevanza nell’ambito della metodologia di accertamento sintetica o sintetico-redditometrica. Al di là delle problematiche giuridiche che a tale impostazione s’accompagnano (delle quali ci occuperemo in altra sede), le indicazioni che promanano dalla circolare suddetta testimoniano come vi sia una certa consapevolezza, da parte dell’Agenzia, delle carenze strutturali delle quali lo studio di settore soffre. 11 In senso conforme a tale impostazione, cfr., in dottrina, FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2008, 504, il quale assegna agli studi di settore la funzione di strumento segnaletico e di filtro «per individuare aree e posizioni soggettive (di sospetta evasione) da sottoporre a controllo e non già ad automatica “rettifica”»; BEGHIN, Autorità e consenso nella disciplina degli studi di settore: dalla validazione dello strumento alle interferenze sul versante della motivazione e della prova dell’atto amministrativo, in LA ROSA, Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 175 ss. e spec. 184; Id., Utilizzo sistematico, cit., 1973 ss., laddove l’autore definisce lo studio di settore quale «stru-

possono esistere variabili di carattere strettamente soggettivo che lo studio, per le modalità con le quali è stato predisposto, non è capace di cogliere. Ma questo limite non può risolversi a danno del contribuente e va, invece, rimosso attraverso lo svolgimento di un’attività istruttoria “mirata” ad approfondire le cause di non congruità e/o di non coerenza. Se si accetta questo schema argomentativo, è chiaro che lo studio di settore non potrà esaurire, da solo, la funzione di accertamento, ma ne costituirà nulla più che un supporto, da collocare in un contesto conoscitivo necessariamente più ampio. Tali argomentazioni emergono, con differenti sfumature, attraverso le sentenze in rassegna, le quali, nel soffermarsi sul ruolo di questa strumentazione, ne esprimono anche il limite e richiedono, appunto, l’approfondimento del fatto mediante attività istruttoria adeguata11. In questo senso muove, per esempio, la Commissione salentina, per la quale: «[...] non è sufficiente il ricorso all’applicazione automatica delle risultanze dello studio di settore ma occorre che tali elementi siano confortati da altri indizi che supportano lo scostamento». E ancora: «[...] la dimostrazione dello scostamento tra redditi dichiarati e redditi accertati non può trovare fondamento in dati presuntivi ma deve essere riferita ad ogni singola realtà ed ancora che si rilevino, in modo certo, le evidenze di grave incongruenza»12. Il passo qui sopra riportato tocca un punto nevralgico della disciplina. L’art. 62-sexies del D.L. n. 331/1993 richiede infatti, ai fini della rettifica della dichiarazione, che lo scarto tra ricavi dichiarati e ricavi desumibili dallo studio di settore configuri quelle “gravi incongruenze”13 che, per l’appunto, consentono lo scardinamento del dato contabile. Questa “gravità” non può essere quantificata a tavolino e richiede, al contrario, una valutazione da effettuarsi sul campo, indagando sulla specifica situazione nella quale versano i contribuenti sottoposti a controllo14.

mento di organizzazione dell’attività degli uffici finanziari»; MOSCHETTI, Evoluzione e prospettive dell’accertamento dei redditi determinati su base contabile, in PREZIOSI, Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo, Roma, 1996, 121 ss., il quale rileva come gli studi di settore fungano da “campanello di allarme”, da impiegare al fine di selezionare i soggetti da sottoporre a controllo. In senso conforme a tale impostazione, si veda anche TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, 149 ss.; VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, cit., 233 ss. In senso favorevole all’utilizzo dello studio di settore quale strumento di “persuasione” e “selezione dei contribuenti” e contrario all’impiego di tale strumentazione in un’ottica paracatastale, cfr. GALLO, Gli studi di settore al bivio tra la tassazione del reddito normale e di quello effettivo, in Rass. Trib., 2000, 1495 ss. In giurispudenza, sulla funzione dello studio di settore quale strumento di accertamento (non già di automatica determinazione del reddito) il quale opera al fine di rendere più agile ed efficace l’azione del fisco, si vedano le recentissime sentenze dele sezioni unite citate in nota 1. 12 Si tratta di un orientamento che viene, in qualche misura, recuperato nella sentenza pronunciata dalla Comm. trib., reg. Puglia, sez. XXII, 3 marzo 2009, n. 70, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, laddove si afferma che «[...] lo studio di settore dà luogo a presunzioni gravi, precise e concordanti solo se sussistono negli atti utilizzati dall’ufficio oppure nei documenti di

causa, altri elementi sia pure indiziari che confermano le risultanze dello studio di settore, e cioè attestino la normalità dell’attività della ditta in ordinarie condizioni nella realtà economica del proprio settore». 13 Sulle “gravi incongruenze”, inteso quale concetto volto a valorizzare differenze “rilevanti” tra i ricavi desumibili dagli studi di settore e quelli risultanti dalla contabilità, cfr. le recenti sentenze della Comm. trib. prov. Lecce, sez. IX, 30 settembre 2008, n. 474, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big e della Comm. trib. prov. Padova, sez. II, 21 febbraio 2009, n. 26 (in Riv. Giur. Trib., con nota di BEGHIN, Studi di settore, automatismi, cit.). L’attributo “gravi” esprime, a nostro giudizio, la volontà del legislatore di concedere all’ufficio un certo margine di discrezionalità, consentendo allo stesso di apprezzare, caso per caso, l’entità dell’incongruenza. Non sono, pertanto, condivisibili quegli orientamenti giurisprudenziali i quali, attingendo probabilmente a schemi propri delle metodologie accertative di matrice sintetica, hanno cercato di individuare soglie minime predeterminate di “gravità” (cfr. Comm. trib. prov. Milano, sez. VIII, 13 aprile 2005, pubblicata in Riv. Dir. Trib., 2008, II, 409 ss., con nota di BEGHIN, L’illegittimità, cit.). Sul punto, MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008, 306 ss. 14 In ordine a tale profilo, si condivide la posizione assunta da BEGHIN, I soggetti, in FALSITTA, Manuale, cit. Sulla stessa linea, si veda altresì


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Da qui, l’idea secondo la quale, lungi dall’esonerare i funzionari dai controlli presso il contribuente, gli studi si collocano – come del resto riconoscono i giudici di merito – in una fase meramente interlocutoria del procedimento accertativo, essendo incapaci di esaurirlo in virtù del solo ricavo puntuale. Ne discende che, in tale prospettiva, studi di settore, contraddittorio e indagini sul campo denotano una stretta interconnessione funzionale alla quale dedichiamo il successivo paragrafo. La funzione e l’oggetto del contraddittorio nella prospettiva della motivazione dell’atto autoritativo basato sugli studi di settore Benché costantemente criticata dalla giurisprudenza, quella all’impiego degli accertamenti automatici rappresenta una tendenza assai difficile da scardinare15. La soluzione a tale problema non può che passare – come detto – attraverso quel peculiare momento di confronto tra contribuente e amministrazione finanziaria che prende il nome di “contraddittorio”16. Si tratta di un tassello indefettibile ai fini dell’adeguamento dell’accertamento alla concreta situazione nella quale versa il sin-

quanto affermato da TOSI, Profili di costituzionalità della parametrizzazione del reddito, in PREZIOSI, Il nuovo, cit., 37 ss. e spec. 38, laddove l’autore osserva come la tassazione in base ad una “capacità media” possa tradursi, a seconda dei casi, nell’attribuzione di un determinato reddito a chi non lo ha (con la conseguente tassazione di redditi fittizi), ovvero nella negazione del possesso di un certo reddito in capo a chi effettivamente lo possiede (con il conseguente effetto di legalizzazione delle forme di evasione). Il problema del reddito “fittizio” viene affrontato anche nello scritto di SCHIAVOLIN, Reddito effettivo e reddito fittizio, in Corr. Trib., 2007, 1981 ss. 15 Come è testimoniato dal massiccio impiego dell’antieconomicità, oltre che dall’improprio utilizzo di valori definiti come “normali” al fine di determinare il carico impositivo ascrivibile al singolo. Improprio – si è detto – giacché l’individuazione di un “reddito normale” svaluta il profilo della riferibilità soggettiva della capacità contributiva, come evidenziato da MOSCHETTI, La proposta di tassazione del reddito normale: valutazioni critiche e profili di illegittimità costituzionale, in Rass. Trib., 1990, I, 57 ss. Sul punto, si veda altresì BEGHIN, Agevolazioni tributarie, componenti reddituali fuori mercato ed evasione fiscale, in Corr. Trib., 2009, 203 ss. e spec. 208; TOSI, Su un’ipotesi di tassazione del reddito normale: problematiche applicative e costituzionali, in Riv. Dir. Fin., 1990, I. 97 ss. 16 Sul tema, per tutti, SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento (delle imposte sul reddito e dell’Iva), Padova, 1990, passim. In generale, sull’esigenza di prevedere adeguate forme di contraddittorio in sede amministrativa in presenza di fenomeni di “parametrazione” dei redditi imponibili, al fine di «ridurre la possibilità che gli “automatismi” normativi determinino risultati sostanzialmente iniqui», cfr. FEDELE, L’accertamento tributario ed i principi costituzionali, in L’accertamento tributario. Principi, metodi, funzioni, a cura di Di Pietro, Milano, 1994, 29. Sulla peculiare funzione assegnata al contraddittorio preventivo nell’ambito degli accertamenti basati sugli studi di settore, cfr., senza pretese di esaustività,

golo17, laddove si consideri che: a) per il contribuente sottoposto al controllo, esso, entrando in gioco in una fase preliminare rispetto alla formazione dell’atto autoritativo, è capace di influenzarne il contenuto e, talvolta, la stessa genesi; b) per il funzionario addetto alla verifica, esso rappresenta l’occasione per scavare nella concreta realtà nella quale opera il singolo18, per modellare il risultato medio-statistico facendo leva sulle peculiari caratteristiche del soggetto19, per cogliere le (eventuali) situazioni, personali20 od oggettive21, che abbiano determinato lo scostamento rispetto al risultato dello studio. In questa prospettiva, duplice è la funzione assolta dal contraddittorio: per i contribuenti rientranti nei canoni di normalità economica, esso offre una chance per apprezzare le ragioni in forza delle quali non v’è sovrapposizione tra il risultato offerto dallo studio ed il ricavo dichiarato; viceversa, per i contribuenti “atipici”, ovvero non riconducibili ad un cluster, esso pone l’ufficio nella condizione di apprezzare i motivi per cui il risultato offerto dallo studio deve, nel caso concreto, essere ignorato22. Su questo aspetto bisogna, peraltro, intendersi. Non basta che il contraddittorio venga formalmente attivato23. È necessario che, in tale fase, per davvero le parti si orientino nel

MARONGIU, Coefficienti presuntivi, parametri e studi di settore, in Dir. e Prat. Trib., 2002, I, 707 ss. e spec. 726 ss.; FAZZINI, L’accertamento per presunzioni: dai coefficienti agli studi di settore, in Rass. Trib., 1996, 339 ss.; MARCHESELLI, Studi di settore e difesa del contribuente, in Dir. e Prat. Trib., 2008, I, 897 ss. e spec. 914 ss.; SCIARRA, Senza contraddittorio anticipato è illegittimo l’accertamento fondato sugli studi di settore, in Corr. Trib., 2006, 3051 ss.; CORRADO, Il contraddittorio endoprocedimentale quale garanzia di attendibilità dell’accertamento fondato sugli studi di settore, in Dir. e Prat. Trib., 2007, II, 314 ss.; D’AGOSTINO, L’insufficienza degli studi di settore a realizzare l’accertamento di un rapporto giuridico tributario e l’importanza del contraddittorio anticipato ex art. 12, comma 7, L. n. 212 del 2000, in Dir. e Prat. Trib., 2007, 796 ss. 17 Come risulta anche dalle circolari dell’Agenzia delle Entrate contraddistinte dai n. 5/E del 23 gennaio 2008 e 44/E del 29 maggio 2008 (entrambe disponibili nel sito www.finanze.it). 18 Il legislatore non chiarisce quali siano gli elementi che, di volta in volta, l’amministrazione finanziaria è chiamata a valutare, trattandosi di un aspetto rimesso al discrezionale apprezzamento del funzionario. Alcune indicazioni in tal senso ci vengono offerte dalla Commissione romana, la quale ipotizza, a titolo esemplificativo, il controllo delle «scritture contabili», la verifica delle «fatture», delle «relazioni bancarie ed intersoggettive», degli «ulteriori documenti i quali siano pertinenti all’attività» e, più in generale, l’analisi delle «condizioni intrinseche, estrinseche e strutturali dell’attività». Indicazioni un po’ astratte – ce ne rendiamo conto – le quali, tuttavia, aiutano a dare un’idea dello sforzo investigativo e finanche argomentativo che viene richiesto al funzionario. 19 In giurisprudenza, la funzione di adattamento alla concreta situazione del contribuente assegnata al contraddittorio viene esaltata, da ultimo, dalla sentenza della Comm. trib. prov. Lecce, sez. IX, 30 settembre 2008, n. 483, disponibile in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. In dottrina,

sulla necessità che l’amministrazione finanziaria si dia carico di adattare il risultato di normalità economica desumibile dallo studio di settore alla fattispecie concreta, cfr. BEGHIN, Gli studi di settore, le “gravi incongruenze” ex art. 62-sexies del D.L. n. 331/1993 e l’insostituibile opera di adattamento del risultato di normalità economica alla fattispecie concreta, in Riv. Dir. Trib., 2007, II, 749 ss. e spec. 752. Sulla stessa linea, si veda anche MARONGIU, Coefficienti presuntivi, cit., 732; CORASANITI, La natura giuridica degli studi di settore ed il problema dell’onere della prova, in Dir. e Prat. Trib., 2008, I, 13 ss. e spec. 51 ss. 20 Nonostante lo studio di settore sia formato a partire anche da dati extracontabili, esso trascura talune caratteristiche dell’attività (si pensi a fattori quali la cortesia del gestore di un negozio, la pulizia di un locale preposto all’erogazione di pasti e, ancora, la cattiva frequentazione di un bar, pur collocato in una zona centralissima della città). Si tratta di elementi che, proprio in ragione dei margini di astrattezza e di soggettività che li connotano, sfuggono al rigido meccanismo di elaborazione posto a presidio del funzionamento dello studio di settore e che solo un’indagine sul campo è in grado di cogliere. 21 Ci riferiamo, in questi termini, alle repentine metamorfosi che possono subire attività le quali, più di altre, siano esposte alle leggi del marketing, alle mutevoli inclinazioni dei consumatori e così via. Sul punto, per tutti, BEGHIN, Il dualismo, cit., 326. Si tratta di elementi i quali sfuggono assai spesso alla revisione periodica dello strumento, che pure mira a preservarne la rappresentatività. 22 Lo studio di settore, operando sulla base di ciò che statisticamente è più probabile, male si adatta alla misurazione della ricchezza di chi – come i contribuenti “atipici” o “anomali” – da tale situazione di normalità economica si discosti. Sul punto, per tutti, FICARI, Sulla metamorfosi degli studi di settore: profili sostanziali, in Rass. Trib., 2008, 1558 ss. e spec. 1565. 23 È emblematico, a tale riguardo, il passaggio della sentenza della Commissione pugliese laddove si sottolinea che «[...] la contribuen-


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senso della ricerca della concreta situazione nella quale si è trovato il contribuente. Insomma, il contraddittorio dovrà svolgersi seriamente, con impegno, evitando di trincerarsi dietro posizioni “di comodo” che non aiutano ad individuare i fatti.

Ricordiamo che è il fisco24 ad avanzare la pretesa e che, conseguentemente, spetta al fisco individuare le “gravi incongruenze” che costituiscono il presupposto per l’accertamento basato sugli studi di settore25.

IL MANCATO PERFEZIONAMENTO DELL’ACCERTAMENTO CON ADESIONE PER OMISSIONE DEL VERSAMENTO 46

Commissione tributaria provinciale di Vercelli, sez. I, 9 marzo 2009, n. 14 Presidente: Anadone - Relatore: Casini

Accertamento - Accertamento con adesione - Mancato versamento del dovuto o della prima rata - Mancato perfezionamento dell’accertamento con adesione Conseguenze - Avviso di accertamento avente per oggetto il maggior imponibile concordato - Legittimità (D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, artt. 7, 8 e 9) Qualora l’accertamento con adesione non si perfezioni a causa del mancato versamento, entro venti giorni dalla redazione dell’atto, delle somme concordate o, in caso di pagamento rateale, della prima rata unitamente alla prestazione di idonea garanzia, l’ufficio ha titolo per l’adozione di un avviso di accertamento che riprenda a tassazione il maggiore imponibile concordato. La A.G. S.r.l. ha proposto, in data 22 ottobre 2007, ricorso avverso l’avviso di accertamento n. [...], notificato il 12 luglio 2007, con il quale l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Vercelli, determinava per l’anno 2004 un maggior reddito di euro 27.408,00, determinando delle imposte: Ires per euro 9.045,00, Irap per euro 1.164,00 e Iva per euro 5.482,00 e irrogando sanzioni per euro 13.567,50. L’accertamento in questione, basato sugli studi di settore, era stato preceduto da invito a comparire n. [...], notificato il 7 aprile 2007, con il quale si comunicava la rilevata non congruità dei ricavi dichiarati per l’attività svolta dalla società A.G. S.r.l. con quelli derivanti dall’applicazione del relativo studio di settore, comunicando un maggior reddito accertabile di euro 60.889,00 e la data del 10 maggio 2007 per l’instaurazione del contraddittorio. In data 10 maggio 2007 veniva redatto un primo verbale di contraddittorio con il dott. A.C., delegato dall’amministratore della ditta A.G. S.r.l., a cui seguiva altro verbale in data 29 maggio 2007 e successivamente l’ufficio proponeva accertamento con adesione con adeguamento dei maggiori ricavi accertati ai minimi ammissibili previsti dallo studio di settore pari a euro 309.957,00 (con riduzione dei componenti positivi di reddito di euro 27.409,00) ed una rettifica del reddito d’impresa dall’accertato di euro 64.074,00 al definibile di euro 37.665,00. Il delegato della parte dichiarava di accettare tale proposta, pertanto l’ufficio emetteva atto di adesione n. [...] che veniva sottoscritto in data 14 giugno 2007.

te è stata invitata dall’ufficio a fornire le proprie giustificazioni cosa che ha fatto. L’ufficio non le ha condivise ma avrebbe dovuto spiegare puntualmente le ragioni. L’ufficio, in sostanza, avrebbe dovuto argomentare sulle circostanze addotte dalla contribuente. Ciò non è stato fatto e quindi l’atto è nullo

Il contribuente non definiva l’atto di adesione con il pagamento delle somme indicate e l’ufficio provvedeva all’emissione dell’avviso di accertamento qui impugnato, che riporta come maggiori ricavi quelli definiti nella proposta a cui la parte aveva aderito. Nel ricorso in esame parte ricorrente fa presente che l’accordo che il dott. C. ha sottoscritto non risponde alla volontà dell’amministratore unico signora G., e che il delegato ha sottoscritto l’accordo senza ottenere alcun consenso informato da parte del rappresentato. Contestando la mancanza di elementi a sostegno delle risultanze raggiunte con l’applicazione degli studi di settore e nel merito, a sostegno della veridicità dei ricavi dichiarati, richiamando la crisi generale del settore “antichità” e problemi importanti di salute della signora G., amministratore unico della società, la ricorrente chiede: 1. in via preliminare di ritenere inficiata da errore della mandante la delega data al dott. A.C.; 2. in ogni caso di ritenere non vincolante l’adesione, eventualmente ritenuta valida, data dal delegato; 3. in via principale l’annullamento dell’atto impugnato in quanto privo di motivazione in diritto, per insufficienza probatoria e per mancata allegazione degli atti citati; 4. in via subordinata di dichiarare infondata la pretesa del fisco e la congruità della dichiarazione presentata. L’ufficio, costituitosi in data 19 dicembre 2007 si oppone all’accoglimento del ricorso, sostenendo la piena efficacia dell’atto di adesione sottoscritto dal delegato della A.G. S.r.l., l’improcedibilità del ricorso per violazione dell’art. 1453 c.c. e nel merito affermando che parte ricorrente non ha fornito alcuna prova contraria atta a superare la presunzione iuris tantum posta alla base dell’accertamento attraverso gli studi di settore. Parte ricorrente ha depositato in data 24 aprile 2008 istanza di sospensione degli effetti esecutivi dell’atto impugnato, sospensione concessa subordinatamente a prestazione di cauzione con ordinanza n. 38 gennaio 2008 del 19 maggio 2008. Con memorie illustrative depositate il 21 novembre 2008 l’ufficio ribadisce la validità della procura conferita al rappresentante dott. C. da parte ricorrente e il carattere di atto negoziale del concordato che impedisce la reviviscenza della questione di diritto.

per difetto di motivazione ex art. 42 del D.P.R. n. 600/1973». 24 Su fisco quale “attore” in senso sostanziale, si veda, per tutti, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2006, 155. Sull’utilizzo del termine “fisco” quale sinonimo di “amministrazione finanziaria”,

cfr. FREGNI, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, 117. 25 Sulla diversa articolazione della motivazione in funzione della natura giuridica attribuibile agli studi di settore, cfr. GIOÈ, Studi di settore e obbligo di motivazione, in Rass. Trib., 2007, 1726 ss.


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Parte ricorrente con memoria del 25 novembre 2008 risponde che l’accertamento con adesione si perfeziona solo con il versamento delle somme dovute e sottolinea come la delega conferita al dott. C. non avesse le forme previste dall’art. 63 D.P.R. 600/1973, vale a dire con firma autenticata; nel contempo comunica lo scioglimento della società e la nascita della ditta individuale A.G. di S.G. Alla udienza del 15 dicembre 2008, pubblica su richiesta di parte ricorrente, i rappresentanti delle parti ribadiscono le argomentazioni in atti. Osserva il Collegio. La prima questione da verificare è la validità o meno della delega conferita al dott. C. Vero che l’art. 63 D.P.R. 600/1973 recita «la procura speciale deve essere conferita per iscritto con firma autenticata» e che nel caso in questione la firma del delegante non è stata autenticata dal delegato, ma è pur vero che la autentica della sottoscrizione ha la funzione di garanzia della identità del delegante. Nel caso in questione la parte delegante non nega di aver sottoscritto la delega, ma ne contesta soltanto l’ampiezza, sostenendo che era nelle intenzioni del delegante solo conferire delega limitata alla discussione e non anche alla conclusione del contraddittorio, e afferma che la volontà espressa dal delegato non corrisponde a quella della società. Tali motivazioni non possono essere opposte: il delegato si è presentato, a seguito dell’invito a comparire «al fine di definire, mediante accertamento con adesione, il reddito d’impresa», munito di delega, (pur con firma non autenticata, ma che lo stesso delegato avrebbe potuto autenticare) e ha esibito la documentazione contabile della società. L’ufficio non poteva sapere che nelle intenzioni del delegante la delega era da limitare alla discussione né che il delegato esprimeva una volontà difforme da quella del delegante. Il rappresentato risulta pertanto vincolato alla decisione espressa dal rappresentante. La seconda questione riguarda la possibilità o meno di impugnare l’avviso di accertamento che l’ufficio ha emesso dopo che la parte non ha provveduto alla definizione dell’accertamento con adesione mediante il pagamento. Parte ricorrente sostiene che il mancato perfezionamento dell’accertamento con adesione comporta l’inesistenza dell’atto di adesione, rendendo quindi impugnabile l’avviso di accertamento emesso.

Da parte sua l’ufficio, richiamando la natura contrattuale dell’atto di adesione, sottolinea come alla parte inadempiente di un contratto sia preclusa la domanda di risoluzione e come «ad una domanda di esame della pretesa originaria sottace in pratica una domanda di risoluzione dell’atto di adesione che è preclusa alla parte inadempiente ex art. 1453 c.c.». Mentre la notifica da parte dell’ufficio dell’atto impositivo contenente la pretesa circoscritta alla sola somma concordata con adesione della parte contribuente rappresenta la formale richiesta di adempimento. La affermazione di parte ricorrente non è condivisibile: vero che il perfezionamento della definizione avviene con il pagamento della somma concordata, (o della prima rata con prestazione di garanzia in caso di pagamento rateale), ma è pur vero che sostenere la inesistenza dell’atto di adesione in mancanza di pagamento significa svuotare di ogni contenuto un accordo intercorso tra due parti, dando ad una di esse una posizione di maggiore forza, permettendo al contribuente di decidere unilateralmente di cancellare un atto posto in essere come manifestazione della comune volontà delle due parti, liberamente espressa. Senza dimenticare che anche la redazione dell’avviso di accertamento notificato non può non risentire dell’intervenuto accordo. Nell’esposizione della motivazione dell’atto l’ufficio richiama l’accordo intervenuto, in quanto tutte le ragioni fornite dalla parte e le valutazioni date alle stesse dall’ufficio sono state esaminate nel corso del contraddittorio, conclusosi appunto con un accordo, per cui la asserita carenza di motivazione lamentata dalla ricorrente, anche qualora si volesse prendere in esame il ricorso contro l’avviso di accertamento, non potrebbe portare ad un annullamento dell’atto. Ugualmente non accoglibile risulterebbe la doglianza della mancata allegazione all’avviso di accertamento degli atti nello stesso richiamati (invito a comparire, 2 verbali di contraddittorio e l’atto di adesione n. [...]): trattasi di atti perfettamente noti alla parte, tre dei quali formati addirittura con l’intervento suo (o del suo delegato). Ed anche ogni altra motivazione di opposizione, comprese le ragioni di merito, deve considerarsi già rappresentata in fase di contraddittorio ed assorbita dalla adesione alla proposta dell’ufficio. Il ricorso risulta pertanto da respingere. Si ritiene tuttavia di compensare integralmente le spese di giudizio.

Nota di Davide Borgni

guente produzione degli effetti che ne derivano1 hanno luogo con il versamento delle somme concordate, ovvero con il pagamento della prima rata e con la prestazione di idonea garanzia2, entro venti giorni dalla redazione dell’atto, mediante delega ad una banca autorizzata o tramite il concessionario del servizio di riscossione competente in base all’ultimo domicilio fiscale del contribuente. Nondimeno, la disciplina legislativa nulla dispone in ordine alle conseguenze del mancato perfezionamento derivante dall’inadempimento a tali obblighi, dando così la stura ad un acceso dibattito dottrinale.

Le questioni affrontate dalla Commissione Con la pronuncia in epigrafe, la Commissione tributaria provinciale di Vercelli riporta all’attenzione dell’interprete il tema delle conseguenze del mancato adempimento da parte del contribuente agli obblighi derivanti dall’atto di accertamento con adesione. A tal riguardo, occorre richiamare il combinato disposto degli artt. 8 e 9, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, dal quale discende che il perfezionamento dell’accertamento con adesione e la conse-

1 Gli effetti tipici dell’accertamento con adesione, com’è noto, consistono nella riduzione ad un quarto del minimo edittale delle sanzioni per le violazioni concernenti i tributi oggetto dell’adesione e le relative dichiarazioni, ai sensi dell’art. art. 2, comma 5, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218; nella stabilizzazione della pretesa, in termini di definitività, nei limiti di cui all’art. 2, commi 3 e 4, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218; nonché nella caduca-

zione dell’eventuale avviso di accertamento già notificato, come disposto all’art. 6, comma 4, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218. 2 In seguito alla novella introdotta dall’art. 1, comma 418, L. 30 dicembre 2004, n. 311, successivamente modificato dall’art. 1, comma 125, L. 24 dicembre 2007, n. 244, il richiamo alle forme di garanzia di cui all’art. 38-bis, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, è stato sostituito dalla previsione della prestazione di

«idonea garanzia mediante polizza fideiussoria o fideiussione bancaria ovvero rilasciata dai consorzi di garanzia collettiva dei fidi (confidi) iscritti negli elenchi previsti dagli articoli 106 e 107 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per il periodo di rateazione del detto importo, aumentato di un anno».


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Nel caso di specie, a seguito del mancato versamento da parte del soggetto passivo delle somme concordate, l’amministrazione finanziaria emanava un atto impositivo dell’ammontare risultante dall’accertamento con adesione, determinato sulla scorta dell’apparato conoscitivo acquisito nel corso del contraddittorio con il contribuente. La Commissione vercellese, sul punto, riconosce che l’accordo tra fisco e contribuente non si sia perfezionato, pur tuttavia ritiene che non si possano, per ciò solo, disconoscere le informazioni raccolte durante la fase istruttoria del procedimento volto all’accertamento concordato, dal momento che, altrimenti, si finirebbe per conferire al contribuente il potere di porre nel nulla l’accertamento con adesione, mediante il semplice inadempimento agli obblighi assunti. Per queste ragioni, il giudice rigetta il ricorso proposto avverso il successivo atto impositivo. A fronte della principale questione esposta, nella sentenza in rassegna viene in considerazione un ulteriore dubbio interpretativo relativo ai requisiti della procura speciale rilasciata al professionista, ex art. 7, comma 1-bis3, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, ai fini della rappresentanza presso gli uffici finanziari. In proposito, nel caso in esame, parte ricorrente lamentava che il rappresentante avesse valicato i limiti dei poteri procuratori accordatigli e che, pertanto, la volontà da questi manifestata non potesse essere ritenuta vincolante. Il Collegio, anche a tal proposito, ritiene infondate le doglianze del contribuente, in quanto all’ufficio non possono essere opposte le limitazioni dei poteri di rappresentanza che ignorava in buona fede, siccome non emergevano dal tenore letterale della procura. Inoltre, sebbene il contribuente non ne contestasse la legittimità, il giudice rimarca l’irrilevanza della mancata autenticazione della sottoscrizione della procura, requisito richiesto, per contro, a norma dell’art. 63, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in considerazione del fatto che lo stesso procuratore, in quanto soggetto a ciò abilitato, aveva facoltà di autenticarla. Un ultimo capo della sentenza degno di nota pare quello in cui la Commissione vercellese respinge la censura di parte ricorrente relativa alla mancata allegazione, in uno all’avviso di accertamento, degli atti in esso richiamati. In merito a tale questione, il Collegio, poiché gli atti citati nel provvedimento de quo erano noti al contribuente o, addirittura, formatisi in sua presenza, sostie-

3 Comma aggiunto dall’art. 10, comma 1, L. 18 ottobre 2001, n. 383, il quale rinvia, quanto ai requisiti formali della procura speciale in questione, all’art. 63, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. 4 D’ora innanzi, breviter, «Stat. contr.». 5 Soltanto in una fase molto risalente si possono rinvenire precedenti disposizioni che subordinavano l’efficacia del concordato al pagamento dell’imposta. Sul punto, si veda CLEMENTINI, Leggi sulle tasse di registro, Torino, 1907, I, 379, in merito all’art. 30, R.D. 20 maggio 1987, n. 217, recante il testo unico delle leggi sulle tasse di registro. Si legga anche la conforme posizione espressa nella circ. del Ministero delle Finanze n. 124147 del 20 ottobre 1887, in Bollettino ufficiale della direzione generale del demanio e delle tasse, 1887, 992. Pone l’accento sul carattere di novità della disposizione citata MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000, 198, ove l’autore riconosce come la previsione della subordinazione del perfezionamento dell’accordo all’effettivo pagamento sia stata mutuata dalla disciplina propria di alcune forme di condono, così richiamando, a titolo esempli-

ne la facoltà per il fisco di derogare al disposto dell’art. 7, comma 1, L. 27 luglio 2000, n. 2124, il quale prevede che se nella motivazione di un provvedimento dell’amministrazione finanziaria «si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama». Il mancato perfezionamento dell’atto di accertamento con adesione e la necessità di colmare una lacuna legis L’aspetto di maggior interesse proprio della decisione in rassegna si incentra attorno all’elemento dell’adempimento degli obblighi nascenti dall’atto di accertamento con adesione all’interno dell’iter perfezionativo del concordato. In proposito, si rende necessario, in primo luogo, constatare come la disposizione di cui all’art. 9, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, costituisca una previsione quasi inedita rispetto alla tradizione concordataria italiana5. Era, infatti, in passato, pacifico che il perfezionamento dell’accertamento con adesione si producesse con il semplice raggiungimento dell’accordo. Pertanto, in caso di mancato adempimento da parte del contribuente agli obblighi nascenti dal concordato, la risposta dell’ordinamento tributario indubitabilmente consisteva nell’attivazione della procedura di riscossione coattiva. Ciò nondimeno, l’amministrazione in più occasioni aveva posto l’accento sull’opportunità di acquisire le somme convenute sin dal momento della stipulazione dell’atto, malgrado tale contestualità non fosse richiesta da alcuna norma6. Per contro, con l’art. 2-bis, comma 4, D.L. 30 settembre 1994, n. 5647, introdotto in sede di conversione, con modificazioni, in L. 30 novembre 1994, n. 656, relativo all’accertamento con adesione ai fini delle imposte reddituali e dell’Iva8, era stato previsto che la definizione si perfezionasse «con il pagamento delle maggiori somme dovute per effetto dell’adesione, [...] versate in base alle norme sull’autoliquidazione». Tale disposizione veniva successivamente abrogata, ad opera dell’art. 17, comma 1, lett. b, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, tuttavia, la previsione della subordinazione del perfezionamento dell’atto all’effettivo versamento delle somme concordate è confluita nell’art. 9, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218. Ad un’analoga sorte è andato incontro l’istituto della conciliazione giudiziale tributaria, in ordine alla quale si sono posti in correlazione il perfezionamento ed il tempestivo pagamento del-

ficativo, l’art. 32, comma 4, L. 30 dicembre 1991, n. 41. Alla stessa stregua, si vedano anche gli artt. 7, comma 1, e 8, comma 3, L. 27 dicembre 2002, n. 289. Presenta il medesimo tenore, altresì, l’art. 13-bis, comma 4, L. 3 agosto 2009, n. 102, di recente introduzione, relativo al cd. “scudo fiscale”, il quale sancisce che «l’effettivo pagamento dell’imposta produce gli effetti di cui agli artt. 14 e 15 e rende applicabili gli effetti di cui all’art. 17 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 350, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 409, e successive modificazioni», ossia gli effetti premiali preclusivi dell’accertamento tributario, estintivi delle sanzioni amministrative e di esclusione della punibilità per determinate categorie di reati. 6 Si guardi, in tal senso, già la nota della direzione generale delle tasse e delle imposte indirette sugli affari, divisione IV, del 25 settembre 1952, n. 170543, in Riv. Dir. Fisc., 1954, 1581, ove si legge che «se il Ministero, per ovvie ragioni, ha sempre raccomandato agli uffici di ottenere il pagamento contestuale al momento della stipula del concordato, non può negare tuttavia la possibilità,

riconosciuta dall’articolo 103 della vigente legge di registro, del pagamento dell’imposta complementare senza penalità successivamente alla stipula del concordato e non oltre i venti giorni da quello in cui sia stata notificata la relativa liquidazione». Analogamente si esprimeva l’Avvocatura generale dello Stato, con il foglio n. 380 dell’8 gennaio 1952, in Riv. Dir. Fisc., 1952, 852. 7 Con riferimento a tale norma la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che solo con il versamento delle somme dovute si perfezioni l’accertamento con adesione tra contribuente e fisco e che, in seguito, quest’ultimo non possa più intervenire a modificare la propria pretesa. Si vedano, in tal senso, Cass. civ., sez. trib., 21 maggio 2008, n. 12885, in Dir. e Giust. del 24 luglio 2008; nonché Cass. civ., sez. trib., 3 settembre 2008, n. 22180, in Dir. e Giust. del 6 settembre 2008. 8 L’ambito di applicazione della disposizione richiamata, tuttavia, era esteso ex art. 2-ter, D.L. 30 settembre 1994, n. 564, anche alle imposte sulle successioni e donazioni, di registro, ipotecaria, catastale e comunale sull’incremento di valore degli immobili.


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le maggiori imposte, in tal modo generando uniformità di disciplina tra i due istituti deflattivi de quibus9. Il nuovo indirizzo inaugurato dal legislatore si ispira chiaramente alle esigenze della pronta e rapida riscossione10, richiedendo al contribuente una manifestazione di serio intento collaborativo, in tal modo scongiurando il ricorso all’istanza di accertamento con adesione a soli fini dilatori e strumentali11. D’altro canto, tale previsione ha fornito alla dottrina lo spunto tanto per rinfocolare i dibattiti, mai sopiti, intorno alle diverse teorie sulla natura del concordato12, quanto per originare una nuova querelle in ordine alle conseguenze del suo mancato perfezionamento. A tal proposito, al fine di discernere le sorti cui può andare incontro l’accertamento con adesione non perfezionato, si rende, ancora, necessario distinguere le differenti ipotesi di avvio del procedimento volto alla sua adozione. Da un lato, l’art. 5, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, prevede l’impulso dell’amministrazione finanziaria, nel corso della fase istruttoria del procedimento tributario, mediante l’invio al contribuente dell’invito a comparire per la definizione concordata dell’imposta13. Per altro verso, l’art. 6, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, regola l’iniziativa del contribuente, la quale può aver luogo a seguito di accessi, ispezioni o verifiche, ai sensi del comma 1, ovvero dopo la notifica dell’avviso di accertamento o di rettifica, anteriormente all’impugnazione dell’atto dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, come disposto dal comma 2. Senza dubbio, tanto nell’ipotesi di concordato precedente all’emissione dell’atto impositivo, quanto nell’evenienza opposta, la mancanza del tempestivo versamento pone nel nulla l’atto di accertamento con adesione, rendendolo tamquam non esset. Peraltro, come la letteratura giuridica ha evidenziato, in entram-

9 La disciplina relativa al perfezionamento della conciliazione giudiziale tributaria è contenuta nell’art. 48, comma 3, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ove si legge che «la conciliazione si perfeziona con il versamento, entro il termine di venti giorni dalla data di redazione del processo verbale, dell’intero importo dovuto ovvero della prima rata e con la prestazione della predetta garanzia sull’importo delle rate successive, comprensivo degli interessi al saggio legale». Riguardo alle conseguenze di ritardi od omissioni in ordine alle obbligazioni nascenti dall’atto di conciliazione, si veda Comm. trib. reg. Molise, sez. II, 21 maggio 2008, n. 39, in questa rivista, 2009, 115 ss., che ha sancito, per tale evenienza, la legittimazione dell’amministrazione finanziaria al recupero coattivo delle somme concordate. 10 Si vedano, in proposito, AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria. I decreti legislativi di attuazione delle deleghe contenute nell’art. 3 della legge 26 dicembre 1996 n. 662, Padova, 1999, a cura di Miccinesi, 15; nonché SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 540 ss., ove si pone in luce come il dichiarato intento del legislatore, con l’introduzione dell’istituto dell’accertamento con adesione mirasse ad una maggiore efficienza dell’accertamento tributario, nonché alla trasparenza dell’azione amministrativa. Si confronti, ancora, la circ. del Ministero delle Finanze n. 235/E dell’8 agosto 1997, in Riv. Dir. Trib., 1997, III, 804 ss. 11 Si evidenzia la possibile strumentalizzazione dell’istanza di accertamento con adesione in

bi i casi apparirebbe inefficiente ed incoerente disperdere i dati raccolti mediante la dialettica concordataria con il contribuente: «inefficiente perché si avallerebbe un aumento di costi dati dall’inutilizzabilità assoluta della parte procedimentale che ha comportato gli incontri e la formazione dell’accordo, incoerente perché si chiederebbe all’amministrazione di rimuovere conoscenze lecitamente acquisite ed elaborate secondo buona fede»14. Le tesi ricostruttive sulle conseguenze del mancato perfezionamento del concordato non preceduto dalla notificazione di un avviso di accertamento Con riferimento alle conseguenze del mancato perfezionamento del concordato non preceduto dalla notificazione di un avviso di accertamento, la dottrina ha prospettato differenti soluzioni interpretative. In primo luogo, alcuni autori reputano irrilevanti gli eventi successivi alla sottoscrizione dell’atto di accertamento con adesione, atteso che il concordato mira all’esatta determinazione dell’imposta in attuazione del principio di capacità contributiva, dovendosi, pertanto, in tale evenienza, dar corso all’attivazione della procedura riscossiva15. Infatti, non essendo riconosciuta all’amministrazione finanziaria la facoltà di addivenire ad accordi dispositivi dell’obbligazione tributaria, la pretesa formalizzata nel concordato all’esito del contraddittorio con il contribuente, non può che rappresentare quella ritenuta più aderente all’attitudine contributiva espressa nel presupposto realizzato dal soggetto passivo. Sulla scorta di tale teoria, pertanto, si giungerebbe a rendere un’interpraetatio abrogans della disposizione di cui all’art. 9, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, deprivandola di qualsivoglia portata innovativa16.

AA.VV., op. cit., 15, ove si paventa, come adombrato dalla stessa Commissione vercellese, che la previsione dell’inefficacia del concordato non perfezionato possa «innescare tattiche puramente dilatorie del contribuente al cui unilaterale (potestativo) comportamento viene irrazionalmente rimesso se far scattare o no l’efficacia di un accertamento già esauritosi». 12 Com’è noto, sin da tempo risalente, la dottrina si è divisa tra i sostenitori di una concezione unilaterale autoritativa del concordato e gli assertori della visione dell’accertamento con adesione quale atto negoziale di carattere transattivo. A tal riguardo, si vedano, in chiave storica, GAFFURI, voce Concordato tributario, in Dig. Disc. Priv., III, Torino, 1988, 289 ss.; PUOTI-SELICATO, voce Concordato tributario, in Enc. Giur., Roma, 2001, 1 ss.; COCIVERA, voce Concordato tributario, in Enc. Dir., VIII, Milano, 1961, 525 ss.; Id., Il concordato tributario, Milano, 1948, 112 ss.; nonché ALLORIO-PAGLIARO, voce Concordato tributario, in Nov. Dig. It., III, Torino, 1959, 988 ss. Proprio sulla scorta dell’art. 9, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, i sostenitori della tesi della natura negoziale del concordato hanno trovato nuovi argomenti a sostegno delle proprie posizioni, ritenendo che la previsione del mancato perfezionamento, con conseguente reviviscenza di un precedente accertamento unilaterale portante una pretesa tendenzialmente maggiore, si possa conciliare esclusivamente con la tesi della natura transattiva del concordato. A tal proposito, si leggano VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001, 285

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ss.; nonché BATISTONI FERRARA, voce Accertamento con adesione, in Enc. Dir., II, Milano, 1998, 22 ss. Per questa ragione, in AA.VV., op. cit., 15, si sottolinea l’incoerenza della soluzione prescelta rispetto alla natura non negoziale dell’istituto. La specifica ipotesi, che ricorre nel caso affrontato dalla Commissione vercellese, è quella disciplinata dall’art. 10, comma 3-bis, L. 8 maggio 1998, n. 146, introdotto dall’art. 1, comma 409, lett. b, L. 30 dicembre 2004, n. 311, il quale prevede che nei confronti dei contribuenti in regime di contabilità ordinaria «l’ufficio, prima della notifica dell’avviso di accertamento, invita il contribuente a comparire, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218». Così, MARELLO, voce Concordato tributario, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da Cassese, Milano, 2006, 1138. Si confronti LA ROSA, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, 180 ss., ove si sostiene che il mancato pagamento non implichi l’inesistenza dell’atto, ma la mera produzione degli effetti definitori. Sul punto, si guardi, ancora, AA.VV., op. cit., 15, in cui si esprime l’avviso che il concordato non perfezionato costituisca valido titolo per la riscossione, sebbene non produttivo di effetti premiali. In tal senso, Comm. trib. prov. Milano, sez. XXXIV, 28 aprile 1997, n. 30, in questa rivista, 1998, 853. Si legga, LA ROSA, op. cit., 180 ss. Non sono mancate pronunce in giurisprudenza in tal senso. Si veda, per quanto attiene al regime ante lege 30 dicembre 2004, n. 311, Comm.


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L’atto consensuale risulterebbe, dunque, completo nei suoi elementi costitutivi già a seguito dell’adesione da parte del soggetto passivo e del rappresentante dell’ufficio17. Nondimeno, la previsione di successivi ed ulteriori adempimenti richiesti al contribuente, ai fini del perfezionamento dell’accertamento con adesione, è stata da taluni ricondotta entro l’ipotesi in cui l’amministrazione subordina l’efficacia di un provvedimento alla realizzazione di un dato comportamento del soggetto amministrato, volto al perseguimento dell’interesse pubblico tutelato18. Ponendosi in tale ordine di idee, parte della dottrina ha corroborato la tesi in analisi, proponendo, più specificamente, una teoria ricostruttiva che guarda all’adempimento degli obblighi derivanti dal concordato quale condizione di perfezionamento di una fattispecie complessa a formazione progressiva19, requisito di efficacia di un accordo già concluso20, ovvero, ancora, quale condizione sospensiva21. Occorre, inoltre, riflettere sul fatto che il recupero coattivo delle somme portate dal concordato non perfezionato paia esser stato escluso dal legislatore, allorquando, con l’emanazione dell’art. 1, comma 418, L. 30 dicembre 2004, n. 311, ha introdotto all’interno dell’art. 8, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, un nuovo comma 3-bis, il quale sancisce che «in caso di mancato pagamento anche di una sola delle rate successive, se il garante non versa l’importo garantito entro trenta giorni dalla notificazione di apposito invito, contenente l’indicazione delle somme dovute e dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa, il competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate provvede all’iscrizione a ruolo delle predette somme a carico del contribuente e dello stesso garante»22. A ben vedere, tale disposizione conferma un differente trattamento, in caso di pagamento rateale, del mancato versamento della prima rata, rispetto al mancato versamento delle ra-

trib. prov. Milano, 28 aprile 1997, n. 30, in questa rivista, 1998, 853, con nota di STESURI, Adesione al concordato di massa e pagamento rateale dell’obbligazione tributaria. 17 Conduce ad una tale considerazione anche l’analisi di un recente arresto giurisprudenziale, Cass. civ., sez. trib., 30 aprile 2009, n. 10086, in Dir. e Giust. del 21 maggio 2009, con nota di CORRADO, Accertamento con adesione: l’atto impositivo non è impugnabile qualora sia intervenuto l’accordo con il fisco. In tale pronuncia si è dato risalto alla differenza intercorrente tra la «definizione», la quale si ha con il raggiungimento dell’accordo tra fisco e contribuente, ed il «perfezionamento» dell’accertamento con adesione, il quale avviene con il successivo pagamento delle somme concordate. Sulla scorta di ciò la Suprema Corte ha sostenuto che il contribuente, una volta definita la pretesa tributaria, ancorché non sia intervenuto il perfezionamento, perda la facoltà di impugnare tanto il concordato, quanto l’avviso di accertamento originario, «il quale conserva efficacia, ma solo a garanzia del fisco, finché non sia stata “perfezionata” la procedura, ossia non sia stata interamente eseguita l’obbligazione scaturente dal concordato». 18 In proposito, si veda PERICU-GOLA, L’attività consensuale dell’amministrazione pubblica, in AA.VV., Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli, Pericu, Romano, Roversi, Scoca, Bologna, 2005, 283 ss.; GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano, 1993, 343 ss. 19 Vi è stato addirittura che si è spinto sino a parlare, a tal proposito, di contratto reale. Si veda, in questo senso, FEDELE, Appunti dalle

te successive alla prima, e pare negare la possibilità che anche quest’ultima sia assoggettabile allo stesso regime riscossivo, mediante semplice iscrizione al ruolo delle somme portate dal concordato. Sull’opposto versante, si colloca la tesi fatta propria da quanti ritengono che, nell’evenienza del mancato perfezionamento del concordato non preceduto dalla notificazione di un avviso di accertamento, qualora il potere impositivo non sia frattanto spirato per la sopravvenuta decadenza, il fisco abbia titolo per riprendere l’istruttoria ed eventualmente giungere all’adozione di un atto impositivo. Tale teoria, seguita dall’ente impositore ed avallata dalla sentenza in commento, appare condivisibile, dal momento che si mostra maggiormente fedele ad una ricostruzione dell’istituto dell’accertamento con adesione in chiave pubblicistica, nel pieno rispetto del principio di capacità contributiva, pur senza interpolare il disposto dell’art. 9, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218. Peraltro, nell’ipotesi della ripresa dell’istruttoria procedimentale, l’amministrazione è tenuta a valorizzare le risultanze del contraddittorio, non potendo disconoscere l’intervenuta dialettica con il contribuente. Per conseguenza, allorché l’ufficio intenda discostarsi dalla ricostruzione concordata, risulta gravato da uno specifico obbligo di motivazione dell’atto impositivo, in merito alle nuove acquisizioni informative che lo hanno determinato in tal senso23. Del pari, anche al contribuente deve ritenersi preclusa la possibilità di ritirare le dichiarazioni rese in sede di contraddittorio, il cui contenuto si proietta sul successivo procedimento tributario, quanto sull’eventuale fase processuale, in considerazione della natura confessoria delle stesse. Fa propendere per tale soluzione una lettura del fenomeno im-

lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 335, il quale riconosce nella dazione delle somme concordate un elemento strutturale della fattispecie piuttosto che un requisito di efficacia della stessa. Si leggano, in argomento, le critiche mosse da MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 192, ove si pone in risalto il fatto che nei contratti reali «la datio rappresenta allora il solo momento al quale il legislatore attribuisce rilievo nella fase di formazione del contratto, risultando indifferenti modalità e forme di raggiungimento dell’accordo ed essendo quest’ultimo un prius giuridicamente irrilevante rispetto alla consegna per la produzione dell’effetto del negozio», all’opposto di quanto avviene nell’accertamento con adesione. 20 In tal senso, MOSCATELLI, op. cit., 196. 21 Così, BATISTONI FERRARA, op. cit., 27. Si confronti AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria, cit., 15, laddove si rimarca l’impossibilità, in un quadro non negoziale, che l’inadempimento all’obbligo di versamento possa eliminare ogni profilo di rilevanza dello stesso atto di accertamento con adesione. Differente la ricostruzione offerta da STIPO, Ancora sulla natura giuridica dell’accertamento con adesione del contribuente (ex D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218) nella prospettiva del nuovo cittadino e della nuova pubblica amministrazione nell’ordinamento democratico, in Rass. Trib., 2000, 1740, il quale analizza la tesi che guarda in termini di condicio iuris all’adesione del contribuente,

rilevando che, in tal modo, come affermato anche dal Collegio vercellese, solo il contribuente sarebbe in condizione di attribuire piena efficacia all’atto de quo, ovvero di rendere inefficace l’intero procedimento omettendo il versamento, cosicché l’atto di accertamento con adesione, una volta sottoscritto, sarebbe vincolante solo per la pubblica amministrazione. 22 Del pari, l’art. 1, comma 419, L. 30 dicembre 2004, n. 311, ha inserito una speculare disposizione in materia di conciliazione giudiziale tributaria all’interno dell’art. 48, comma 3-bis, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ove è ora sancito che «in caso di mancato pagamento anche di una sola delle rate successive, se il garante non versa l’importo garantito entro trenta giorni dalla notificazione di apposito invito, contenente l’indicazione delle somme dovute e dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa, il competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate provvede all’iscrizione a ruolo delle predette somme a carico del contribuente e dello stesso garante». 23 Si veda, in proposito, GALLO, La natura giuridica dell’accertamento con adesione, in Riv. Dir. Trib., 2002, 434, il quale, muovendo dalla considerazione della natura pubblicistica del concordato, argomenta il venir meno della definizione in assenza del versamento. Si confrontino, MARELLO, L’accertamento con adesione, cit., 201; Id., voce Concordato tributario, cit., ibidem; nonché AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria, cit., 16.


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prontata al principio di correttezza e buona fede, il quale informa la Costituzione fiscale ed è consacrato all’art. 10 Stat. contr., in quanto impone all’amministrazione finanziaria ed al contribuente un obbligo di collaborazione al fine della determinazione del quantum debeatur nella misura maggiormente rispondente alla concreta attitudine contributiva espressa dal presupposto realizzato. Alla luce delle considerazioni esposte, avuto riguardo al caso di specie affrontato dalla Commissione vercellese, a seguito del mancato perfezionamento dell’accertamento con adesione, l’adozione da parte dell’ufficio di un atto impositivo portante le somme concordate, a ben vedere, configura l’iter procedimentale più consono per la ripresa a tassazione del maggior imponibile consensualmente definito. Le tesi ricostruttive sulle conseguenze del mancato perfezionamento del concordato successivo alla notificazione di un avviso di accertamento Specularmente, benché non venga in rilievo in relazione alla sentenza in commento, appare opportuno, per completezza espositiva, riportare le discordanti elaborazioni formulate dalla dottrina in ordine alle conseguenze del mancato perfezionamento del concordato successivo alla notificazione di un accertamento unilaterale. Di tutta prima, similmente a quanto riferito nel precedente paragrafo in relazione all’accertamento con adesione non preceduto da un atto impositivo, anche con riferimento all’ipotesi inversa, alcuni autori, rendendo un’interpretazione nullificante del disposto dell’art. 9, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, ritengono che l’amministrazione finanziaria debba procedere alla riscossione coattiva delle somme concordate, dal momento che la norma citata subordina al pagamento i soli effetti definitori e non anche l’esistenza dell’atto24. Tale soluzione, seppur contrastante con la lettera dell’art. 9, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, tuttavia avrebbe il pregio di impedire al soggetto passivo che intendesse far valere vizi dell’atto originario, di cui si fosse avveduto solo a seguito del concordato, di omettere il versamento, ponendo, in tal modo, nel nulla gli effetti dell’accertamento con adesione, al fine di impugnare il precedente atto unilaterale, in spregio al principio di capacità contributiva, il quale imporrebbe, invece, di dar seguito alla pretesa concordata che più si dovrebbe attagliare al presupposto realizzato. Per converso, vi è chi ha rimarcato che, a mente dell’art. 6, comma 4, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, «all’atto del perfezionamento della definizione, l’avviso» originario «perde efficacia», dando vita ad un fenomeno di sostituzione, sicché, a contrario, il

24 Si confrontino, LA ROSA, op. cit., 180 ss.; nonché AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria, cit., 15. 25 In tal senso, si veda BATISTONI FERRARA, op. cit., 22. 26 In tal senso, MARELLO, L’accertamento con adesione, cit., 199, nota 96, rileva che «solo ove si consideri un principio dell’accertamento la valutazione discrezionale del presupposto, si può ammettere la legittimità di un meccanismo in cui l’amministrazione raggiunge una determinazione del presupposto in via unilaterale, quindi la muta nel concordato e in seguito – solo per la mancanza del versamento – ritorna alla sua precedente rappresentazione». Si confronti la conforme opinione di MOSCATELLI, op. cit., 191.

mancato perfezionamento del concordato determinerebbe non solo l’assenza di ogni rilevanza dell’atto consensuale, ma anche la reviviscenza del precedente avviso di accertamento emanato in via unilaterale25. Tale ordine di idee è andato soggetto ad aspre critiche, in quanto sottende l’assunto che il fisco goda di piena discrezionalità nella determinazione dell’imposta26. Sulla scorta di tale considerazione, infatti, si giungerebbe a ritenere che, in nome del valore della celerità della riscossione, l’amministrazione finanziaria possa raggiungere accordi di natura transattiva, quindi, in difetto dell’immediato incasso, sia legittimata a pretendere le maggiori somme portate dall’originario accertamento unilaterale. Infine, un ulteriore orientamento dottrinale ha proposto un paradigma ricostruttivo del fenomeno in esame, teso a renderne un’interpretazione adeguatrice a Costituzione, pur nel rispetto del tenore letterale della disposizione di cui all’art. 9, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218. Non potendo trascurare le informazioni acquisite nel corso del contraddittorio con il contribuente, nel caso di mancato perfezionamento del concordato, è parso opportuno che l’ufficio proceda in via di autotutela parziale27, attraverso una rideterminazione dell’imposta portata dall’originario accertamento unilaterale, in misura corrispondente alle risultanze della dialettica concordataria28. Dal momento che l’originario atto impositivo non può divenire definitivo a causa dell’avvio del procedimento volto all’adozione del concordato, esso resta, senza dubbio, soggetto al potere di riesame dell’amministrazione finanziaria, la quale dovrà appurare, alla luce dei nuovi elementi acquisiti, la rispondenza della precedente pretesa alla reale attitudine contributiva espressa dalla fattispecie imponibile, come ricostruita attraverso la partecipazione al contraddittorio del contribuente. All’esito di tale verifica, il fisco avrà la facoltà di emettere un provvedimento di secondo grado, mediante il quale ridurre, confermare, od, eventualmente, aumentare la pretesa portata dall’atto originario. In proposito, è d’uopo porre in evidenza come il provvedimento di autotutela parziale possa essere emesso d’ufficio, così come essere sollecitato a mezzo di un’istanza del contribuente, alla quale consegue il dovere del fisco di attivare un procedimento di riesame, secondo il disposto dell’art. 2, comma 1, L. 7 agosto 1990, n. 24129. La soluzione in commento si uniforma, altresì, al principio di collaborazione, la cui operatività è vieppiù riconosciuta all’interno dell’ordinamento fiscale, il quale impone che non vengano disattese le risultanze della partecipazione del contribuente al procedimento amministrativo tributario30.

27 Sull’esercizio dei poteri di autotutela in materia fiscale, si vedano STEVANATO, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria. L’annullamento d’ufficio a favore del contribuente, Padova, 1996, 60 ss.; FICARI, Autotutela e riesame nell’accertamento del tributo, Milano, 1999, 211 ss.; nonché MAGISTRO, Accertamento con adesione: natura e rapporti con autotutela ed acquiescenza, in Corr. Trib., 2002, 1558 ss. 28 In tal senso, si esprime MARELLO, L’accertamento con adesione, cit., 201. Ivi, 265, si pone in luce un ulteriore ambito di ultrattività che il concordato non perfezionato dispiega in fase processuale. Esso, infatti, può costituire mezzo di prova per entrambe le parti, dal momento che «la mancanza del perfe-

zionamento non cancella [...] la dialettica concordataria formalizzata nell’atto, da cui traspare la ricerca di una ricostruzione verisimile del presupposto», che ovviamente il giudice può disattendere in virtù del principio del libero apprezzamento, sancito all’art. 116 c.p.c. Si confronti anche Id., voce Concordato tributario, cit., ibidem. 29 D’ora innanzi, breviter «L. proc. amm.». 30 In materia di partecipazione del contribuente al procedimento amministrativo tributario, si veda PIANTAVIGNA, Osservazioni sul “procedimento tributario” dopo la riforma della legge sul procedimento amministrativo, in Riv. Dir. Fin., 2007, 44 ss.


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Il superamento dei limiti ai poteri di rappresentanza e l’autenticazione della sottoscrizione della procura conferita ex art. 7, comma 1-bis, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 1. Altra questione di rilevo a venire in considerazione nel corpo della sentenza riguarda l’asserito superamento dei limiti ai poteri di rappresentanza attribuiti dal contribuente al professionista che lo rappresenta nel contraddittorio con l’amministrazione finanziaria, ai fini della definizione dell’accertamento con adesione, ai sensi dell’art. 7, comma 1-bis, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218. A tal riguardo, è opportuno ricordare che costituisce principio di diritto comune, il cui riscontro positivo si rinviene agli artt. 1398 e 1399, c.c., quello per cui, qualora un soggetto agisca spendendo il nome altrui senza essere investito del relativo potere od, ancora, travalicando i limiti previsti dalla procura per l’esercizio del medesimo, ha luogo un fenomeno di rappresentanza apparente. Tale istituto trova nel nostro ordinamento una disciplina rivolta al contemperamento di due contrapposti interessi: da un lato, quello del falso rappresentato a non essere vincolato ad un rapporto disvoluto, dall’altro, quello del terzo che ha fatto affidamento sulla legittimazione del soggetto con cui ha raggiunto l’accordo, ignorandone la carenza di potere procuratorio31. Invero, la rappresentanza apparente, ipotesi particolare di rappresentanza senza potere, costituisce applicazione del principio dell’apparenza32 alla disciplina della rappresentanza, la cui applicabilità è subordinata alla sussistenza di un incolpevole affidamento del terzo, di un comportamento colposo del rappresentato ed, infine, di circostanze obiettive dalle quali possa desumersi l’esistenza di un potere rappresentativo33. Tali circostanze, senza dubbio, ricorrono nel caso di specie, in quanto il contribuente sosteneva di non aver inteso attribuire al rappresentante il potere di sottoscrivere l’atto di accertamento con adesione, sebbene la limitazione in questione non risultasse dal contesto documentale della procura, di talché l’Agenzia non poteva esserne a conoscenza, come rilevato dalla stessa Commissione che correttamente ha disatteso la relativa doglianza. 2. Inoltre, sebbene non costituisse oggetto delle censure di parte ricorrente, il Collegio si sofferma anche sulla problematica relativa all’autenticazione della sottoscrizione della procura. Merita, in proposito, approfondire il tema relativo alla natura di tale autenticazione ed, attesa l’identità della ratio sottostante, nonché della struttura dell’istituto, appare opportuno richiamare gli orientamenti giurisprudenziali formatisi con riferimento alla

31 In proposito, si vedano PAROLA, La rappresentanza apparente, in Obbligazioni e contratti, 2005, 246 ss.; nonché DORE, Il punto su: la rappresentanza senza potere, in Riv. Giur. Sarda, 2004, II, 102 ss. 32 Con riferimento al principio di apparenza non si può non richiamare D’AMELIO, Apparenza del diritto, in Nov. Dig. It., I, Torino, 1968, 715 ss.; nonché BESSONE-DI PAOLO, voce Apparenza, in Enc. Giur., II, Roma, 1988, 1 ss. 33 Questi gli elementi richiesti dalla giurisprudenza per l’operatività dell’istituto della rappresentanza apparente. A tal riguardo si veda DI GREGORIO, La rappresentanza apparente, Padova, 1996, 171 ss. In tal senso, ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 10 marzo 2009, n. 5763, in Giust. Civ. Mass., 2009, n. 424. 34 Il riferimento è ai due pronunciamenti Cass. civ., sez. un., 28 novembre 2005, n. 25032, in Dir. e Giust. dell’1 dicembre 2005, in materia di mancanza dell’autenticazione, e Cass. civ., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4810, in Giust. Civ. Mass., 2005, 157, relativa all’illeg-

problematica della mancante, od illeggibile, autenticazione della procura ad litem, conferita ai sensi dell’art. 83, comma 3, c.p.c. In relazione alla citata disposizione processualistica, le sezioni unite del Supremo Collegio hanno recentemente reso una lettura dell’autenticazione della sottoscrizione del rappresentato in giudizio, in chiave sostanzialistica, anche alla luce del principio di funzionalità delle forme, sancito all’art. 156, comma 2, c.p.c.34. Sul punto, il giudice di legittimità ha concluso affermando che «la certificazione della sottoscrizione del conferente la procura non è autenticazione in senso proprio, quale quella effettuata secondo le previsioni dell’articolo 2703 c.c. dal notaio od altro pubblico ufficiale all’uopo autorizzato, ed usualmente viene definita come autenticazione minore, avendo soltanto la funzione di attestare l’appartenenza della sottoscrizione ad una determinata persona, previamente identificata o personalmente conosciuta, a prescindere da ogni accertamento circa la legittimazione, i poteri, la capacità e la volontà manifestata dal sottoscrittore»35. Pertanto, qualora dal contesto documentale della procura, ovvero dalla circostanza dell’effettivo esercizio dell’ufficio difensivo, emerga con chiarezza la provenienza della sottoscrizione, la cui autenticazione è carente delle forme richieste dalla legge, si deve ritenere tuttavia raggiunto lo scopo che la previsione dell’autenticazione si prefigge. Infatti, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che la mancata certificazione, da parte del difensore, dell’autografia della firma apposta sulla procura speciale conferitagli costituisce mera irregolarità che non comporta la nullità della procura ad litem, poiché tale nullità non è comminata dalla legge, né, tantomeno, la formalità in questione può incidere sui requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell’atto, individuabile nella formazione del rapporto processuale36. Tant’è vero che la dottrina sostiene che il mandato alle liti realizzi un vero e proprio fenomeno di rappresentanza, il quale, tuttavia, dà luogo ad una forma di tale istituto sui generis, per svariati ordini di ragioni37, non ultima la circostanza che il contenuto della procura sia tipico ed i conseguenti poteri definiti e regolati expressis verbis dalla legge. Anche con riferimento al rito tributario, la Suprema Corte ha sancito che la mancata autenticazione, da parte del difensore, dell’autografia della firma della ricorrente apposta sulla procura in calce o a margine del ricorso introduttivo costituisca una mera irregolarità che non ne comporta la nullità38, la quale, per contro, ricorre qualora a venire in contestazione sia espressamente l’autenticità della sottoscrizione, la cui inattendibilità deve essere pro-

gibilità della sottoscrizione. In proposito, si veda LATINO, La certificazione della firma del conferente da parte del difensore: la cosiddetta autenticazione minore, in www.nuovofiscooggi.it. In materia di autenticazione della procura ad litem, si veda, ancora, CARDILLO, L’autenticazione del mandato alle liti vale anche come sottoscrizione del ricorso, in Dir. e Prat. Trib., 2004, 1603 ss. 35 Così, testualmente, Cass. civ., 28 novembre 2005, n. 25032, cit. 36 In tal senso, si vedano Cass. civ., sez. III, 25 novembre 2005, n. 24894, in Giust. Civ. Mass., 2005, 11, e Cass. civ., sez. II, 27 dicembre 2004, n. 23994, in Giust. Civ. Mass., 2004, 12. 37 Si confronti BALENA, Elementi di diritto processuale civile, I, Bari, 2008, 195, ove si legge che la rappresentanza tecnica in giudizio costituisce una forma di rappresentanza sui generis «per un duplice profilo: anzitutto in considerazione del suo peculiare oggetto, consistente nel compimento di tutti gli atti

processuali occorrenti in relazione ad una determinata azione oppure per resistere ad essa; in secondo luogo perché il contenuto della procura è tipico, mentre i poteri concretamente spettanti al difensore sono in questo caso definiti – ancorché con formula generica – direttamente dalla legge (art. 84). A tal proposito, inoltre, deve ritenersi che il difensore goda di una notevole discrezionalità (tecnica) nella scelta degli strumenti processuali e delle strategie difensive più consone agli interessi del suo rappresentato, la cui volontà non potrebbe per quest’aspetto vincolarlo (salvo, sul piano deontologico, l’obbligo di una corretta e puntuale informazione), né tantomeno determinare, sul piano processuale, altra conseguenza (laddove il difensore non si adegui alle istruzioni della parte) che non sia la revoca del mandato». 38 A tal riguardo, si guardi Cass. civ., sez. trib., 3 settembre 2004, n. 17845, in Giust. Civ. Mass., 2004, 9.


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vata mediante querela di falso, in quanto il difensore, nell’autenticazione della sottoscrizione della procura compie un negozio di diritto pubblico e riveste la qualità di pubblico ufficiale39. Le considerazioni svolte in relazione all’autenticazione della procura rilasciata al difensore tecnico, ai fini della celebrazione del giudizio civile, possono essere riproposte, altresì, con riferimento all’autenticazione della procura conferita ex art. 63, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Anch’essa, infatti, assume la veste di autenticazione minore, effettuata da un soggetto, iscritto in determinati albi professionali, dunque con particolari qualifiche che, da un lato, ne garantiscono la legittimazione tecnica e, dall’altro, limitano e regolano l’esercizio dei poteri spettantigli. La pronuncia del giudice vercellese, in proposito, si colloca lungo il solco tracciato dalla richiamata giurisprudenza, attribuendo valore sostanziale all’istituto dell’autenticazione della sottoscrizione della procura rilasciata, nel caso de quo, dal contribuente al suo rappresentante, in tal modo introducendo, anche all’interno dell’iter procedimentale tributario, una forma larvata del principio, di matrice processuale, di funzionalità delle forme. L’allegazione all’avviso di accertamento degli atti in esso richiamati Merita un appunto a parte il capo della sentenza in cui il giudice vercellese afferma l’irrilevanza della mancata allegazione, in uno all’avviso di accertamento, degli atti in esso richiamati, in quanto noti al contribuente o formatisi in sua presenza. Se alcuni dubbi sono sorti circa l’applicabilità del disposto dell’art. 7, comma 1, Stat. contr., nelle cause relative ad atti impositivi notificati prima dell’entrata in vigore dello Statuto40, non si può, invece, dubitare della sua operatività nel caso di specie. A tal riguardo, una prima profonda innovazione della disciplina si

39 Tale consolidato orientamento è stato recentemente riaffermato nelle sentenze Cass. civ., sez. I, 2 novembre 2004, n. 21054, in Giust. Civ. Mass., 2004, 11; Cass. civ., sez. lav., 16 aprile 2003, n. 6047, in Giust. Civ. Mass., 2003, 4; Cass. civ., sez. sez. lav., 15 febbraio 2000, n. 1705, in Giust. Civ. Mass., 2000, 347. 40In proposito, pare aver chiarito ogni dubbio, in senso negativo, Cass. civ., sez. trib. 23 gennaio 2008, n. 1418, in Corr. Trib., 2008, 807, con nota di BEGHIN, Motivazione “per relationem”, statuto del contribuente e “conoscibilità” degli atti esterni. Contra, si veda Comm. trib. reg. Trento, sez. I, 19 settembre 2006, n. 55, in questa rivista, 2007, 54, che ha applicato retroattivamente l’art. 7, Stat. contr., poiché «le norme dello Statuto hanno una rilevanza particolare e una sostanziale permanenza rispetto a tutte le altre norme vigenti in materia tributaria onde prevalgono anche sulle norme speciali successive e si applicano anche ai rapporti tributari sorti anteriormente alla sua entrata in vigore». Sono, per contro, in ogni caso, esclusi dall’obbligo di allegazione solamente gli atti a carattere normativo o regolamentare, oggetto di conoscenza legale da parte del contribuente, giusta Cass. civ., sez. trib., 24 novembre 2004, n. 22197, in Giust. Civ. Mass., 2005, 1. 41 Ai sensi di tale disposizione, «se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di que-

era prodotta con l’art. 3, comma 341, L. proc. amm., il quale, tuttavia, pur disponendo uno specifico obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, non aveva affermato recisamente l’illegittimità della tecnica aliunde nella motivazione degli atti impositivi. Sotto la vigenza di tale disciplina si era, infatti, formata una giurisprudenza, improntata agli assunti del giudice amministrativo, secondo la quale la motivazione per relationem era legittima quando vi fosse, o la formale consegna al contribuente dell’atto richiamato, ovvero l’indicazione degli estremi dello stesso, con possibilità per il contribuente di acquisirne una copia42. La Suprema Corte, peraltro, aveva affermato che la motivazione dell’atto assolvesse, ad ogni modo, alla funzione informativa del contribuente, sebbene si riferisse ad elementi di fatto contenuti in documenti richiamati, qualora tali documenti fossero «allegati o comunicati al contribuente, ovvero per altro verso da lui conosciuti»43. Soltanto in seguito, con l’emanazione dell’art. 7, Stat. contr., il legislatore ha inteso rendere più penetrante la tutela del contribuente44, prevedendo che l’allegazione degli atti richiamati all’interno della parte motiva dell’avviso di accertamento assurgesse a requisito essenziale dell’atto impositivo stesso45, ai fini della concreta attuazione del principio di effettività del contraddittorio e di inviolabilità del diritto di difesa46, in attuazione dell’art. 24 Cost. Peraltro, a seguito dell’emanazione dello Statuto, nel tentativo di dare attuazione allo stesso, il legislatore con l’art. 1, lett. c, n. 1, D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, ha introdotto all’interno dell’art. 42, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la previsione per cui, «se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale»47. Appare evidente come la previsione della sufficiente riproduzione del contenuto essenziale dell’atto richiamato non concordi

st’ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l’atto cui essa si richiama». 42 Pone l’accento sull’insufficienza della mera conoscibilità dell’atto richiamato al fine di preservare le esigenze di tutela del contribuente BEGHIN, La motivazione per relationem dell’avviso di accertamento tra “conoscibilità” degli atti generali e “conoscenza” delle ragioni della pretesa fiscale: note critiche a proposito di una recente soluzione giurisprudenziale, in nota a Cass. civ., sez. trib., 16 marzo 2005, n. 5755, in Riv. Dir. Trib., 2005, 330 ss. Si veda, in proposito, SALVINI, La motivazione per relationem nelle più recenti pronunce della sezione tributaria della Corte di Cassazione, in Rass. Trib., 2002, 847, ad avviso della quale, con l’entrata in vigore della L. proc. amm. si sarebbe legittimato anche in diritto tributario il rinvio ad atti nemmeno conosciuti dal contribuente ma solamente resi disponibili alla consultazione dell’interessato dall’amministrazione finanziaria. 43 Così Cass. civ., sez. trib., 3 dicembre 2001, n. 15234, in Rass. Trib., 2002, 1085 ss. 44In proposito, si veda MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, 168 ss. 45Si vedano, sul punto, MICELI, Motivazione “per relationem”: dalle prime elaborazioni giurisprudenziali allo Statuto del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2001, I, 1145 ss.; nonché MODOLO, Procedimenti attuativi dei tributi e Statuto dei diritti del contribuente. Questioni attuali in tema di motivazione degli atti

impositivi, in Riv. Dir. Trib., 2007, 304 ss. In merito si guardino Cass. civ., sez. trib., 22 marzo 2005, n. 6201, nonché Comm. trib. reg. Lazio, sez. XXIX, 16 luglio 2008, n. 103, in dt.finanze.it ove si è sancita la nullità dell’avviso di accertamento motivato per relationem. Invita, inoltre, gli uffici ad allegare ogni atto richiamato nella motivazione del provvedimento, ancorché noto, o notificato al contribuente la circ. del Ministero delle Finanze, 1 agosto 2000, n. 150. 46In proposito, si leggano MAZZAGRECO, Questioni attuali in tema di motivazione degli atti, in Riv. Dir. Trib., 2008, 361 ss.; nonché FRANZONI, Obbligo di motivazione degli avvisi di accertamento e omessa allegazione degli atti ivi richiamati, in Boll. Trib., 2007, 1579 ss. 47 Analoghe disposizioni sono state introdotte dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, all’art. 56, comma 5, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di Iva; all’art. 52, comma 2-bis, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in tema di imposta di registro; agli artt. 34, comma 2-bis, e 35, comma 2-bis, D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, con riferimento all’imposta sulle successioni e donazioni; all’art. 11, comma 2-bis, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, in merito all’Ici; agli artt. 10, comma 1, 51, comma 2-bis, e 71, comma 2-bis, D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, recante revisione ed armonizzazione di tributi locali; all’art. 16, comma 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, relativo alle sanzioni amministrative tributarie; nonché all’art. 11, comma 5-bis, D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, in ordine alla normativa doganale.


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con la norma dell’art. 7, Stat. contr., il quale, per contro, richiede l’allegazione dell’atto richiamato, a pena della nullità dell’atto motivato per relationem, con i conseguenti problemi di coordinamento tra le due disposizioni che ne sono scaturiti48. A tutt’oggi, ad ogni modo, ne risulta un principio per cui l’atto cui si rinvia debba sempre essere allegato all’avviso di accertamento notificato, «a meno che l’amministrazione finanziaria non attesti e non provi che l’atto richiamato è già stato consegnato o notificato al contribuente»49. In proposito, inoltre, la giurisprudenza ha, in più occasioni, posto in luce la necessità di una valutazione, da riportare espressamente nella parte motiva dell’atto, del materiale probatorio acquisito per il tramite di un rinvio ab extra. La acritica trasposizione del contenuto degli atti richiamati all’interno degli avvisi di accertamento comporterebbe, per converso, l’abdicazione degli uffici alla loro funzione accertativa, valutativa ed estimativa. La decisione della Commissione vercellese, sul punto, conferma le considerazioni testé riportate, rigettando le censure di parte ricorrente, dal momento che gli atti richiamati all’interno della motivazione dell’avviso di accertamento impugnato erano effettivamente conosciuti dal contribuente, in quanto notificatigli o formatisi alla sua presenza.

Conclusioni Sulla scorta delle osservazioni esposte, si deve convenire, ad ogni buon conto, con gli orientamenti espressi dalla Commissione tributaria vercellese, in relazione alle varie questioni affrontate. Con specifico riferimento al tema delle conseguenze del mancato perfezionamento dell’accertamento con adesione, occorre riconoscere che la soluzione adottata dall’Agenzia e confermata dal Collegio pare condivisibile, in quanto pienamente conforme al principio di capacità contributiva, collimando con un inquadramento in chiave pubblicistica del concordato, pur senza privare di portata normativa il disposto dell’art. 9, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218. Si rende necessario, tuttavia, rilevare come l’indirizzo in esame diverga dalle elaborazioni di giurisprudenza e dottrina in materia di conciliazione giudiziale tributaria, il cui mancato perfezionamento comporta l’attivazione della procedura di riscossione coattiva. In conclusione, pertanto, non si può che auspicare un intervento legislativo che permetta di superare tale disomogeneità, uniformando la disciplina relativa alle conseguenze del mancato perfezionamento dei due istituti deflattivi in questione.

ABUSO DEL DIRITTO: PROFILI SOSTANZIALI, PROCEDIMENTAL-PROCESSUALI E SANZIONATORI I Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. VIII, 19 maggio 2009, n. 149 47 Presidente e Relatore: Chiarolla Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Svalutazione di una partecipazione conseguente ad una diminuzione del patrimonio netto della controllata che non derivi da una variazione di valore dell’avviamento iscritto in bilancio - Assenza dell’effettiva necessità di adeguare i valori alla situazione oggettiva - Applicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Inopponibilità al fisco (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 61 e 66) La svalutazione di una partecipazione conseguente ad una diminuzione del patrimonio netto della controllata che non derivi da una variazione di valore del bene iscritto in bilancio (nel caso di specie, avviamento), è da considerare elusiva e, quindi, inopponibile al fisco ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, per carenza di valide ragioni economiche, posto che la svalutazione delle partecipazioni richiede una effettiva diminuzione di valore del bene registrato in bilancio.

48Se, da un lato, il generale principio di risoluzione delle antinomie per cui lex posterior derogat priori imporrebbe di applicare la norma successiva, d’altro canto, non manca chi propenda per la prevalenza della disposizione statutaria, sebbene precedente, in quanto normativa di attuazione costituzionale e qualificata come principio generale dell’ordinamento tributario. Si confronti, in proposito, Comm. trib. II grado di Trento, sez. I, 19 settembre 2006, n. 55, in questa rivista,

Svolgimento del processo Con il ricorso [...] la società C.A. S.p.A. ha impugnato l’accertamento con il quale si determina ai fini dell’Irpeg, per il periodo d’imposta 2002, una maggiore imposta di euro 139.113.428,00. [Omissis] La ricorrente veniva costituita in data 10 aprile 2000 al fine di rappresentare (come è prassi nelle operazioni di acquisizione di entità italiane da parte di gruppi esteri ma anche nazionali) lo strumento societario (cd. veicolo) destinato ad acquisire il controllo di G. [Omissis] «Immediatamente dopo l’importante acquisizione (e, quindi, sempre nel 2000), il gruppo C.A. incominciava la completa ristrutturazione del modulo aziendale in essere presso G., con particolare riferimento alla gestione dell’attività degli ipermercati, tale per cui la residua posta iscritta da quest’ultima a titolo di avviamento (e non di marchio, come distrattamente ribadito in plurime occasioni in sede accertativa) in occasione dell’acquisizione a suo tempo

1, 2007. Tale assunto è, altresì, posto a fondamento delle note pronunce Cass. civ., sez. trib., 6 maggio 2005, n. 9407, in Dir. e Prat. Trib., 2005, 988, con nota di DE MITA, Lo Statuto diventa la bussola dei giudici; Cass. civ., sez. trib., 14 aprile 2004, n. 7080, in Foro It., 2004, I, 3112; nonché Cass. civ., sez. trib., 10 febbraio 2002, n. 17576, in Rass. Trib., 2003, 795 ss. 49 Questa la ricostruzione della deroga al portato dell’art. 7, Stat. contr., offerta da MARON-

GIU, op. cit., 172. 50 In questo senso, si veda MICELI, Art. 7: chiarezza e motivazione degli atti, in Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Fantozzi e Fedele, Milano, 2005, 326 ss. Si confronti anche LA ROSA, voce Accertamento tributario, in Dig. Disc. Priv., I, Torino, 1987, 292 ss. Si veda, ancora, ex plurimis, Cass. civ., sez. trib., 26 febbraio 2001, n. 2780, in Boll. Trib., 2001, 778.


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condotta (nel 1995) del cd. ramo d’azienda EU, veniva integralmente elisa non rivestendo più alcuna utilità prospettica». «Avendo G. realizzato nel 2000 un risultato economico negativo, la controllante C.I. nella medesima annualità (ossia nel 2000) recepiva nel proprio patrimonio (in coerenza con le allora vigenti regole contabili e fiscali) gli effetti di tale accadimento, svalutando in maniera proporzionale il costo della partecipazione detenuta nella controllata G. ed evidenziando in tal modo una perdita fiscale con riguardo alla specifica annualità». [Omissis] Ad avviso del difensore, non è possibile ravvisare nella condotta di C.I. un qualsiasi aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario. [Omissis] La correttezza sistematica di registrare una svalutazione fiscalmente deducibile, da parte della controllante C.I., a fronte della diminuzione del patrimonio netto della controllata O., è ammessa dalla risoluzione n. 146/E del 2002 dell’Agenzia delle Entrate, dove si riconosce che il soggetto partecipante ha facoltà di svalutare fiscalmente il costo della partecipazione detenuta, allorquando il patrimonio netto della partecipata abbia subito una contrazione quantitativa rispetto alle risultanze dell’annualità precedente. [Omissis] La ricostruzione della vicenda, elaborata dall’ufficio, sarebbe «viziata da forzature ed equivoci, a partire dalla pretesa contraddizione tra il prezzo corrisposto da C.I. per l’acquisto della partecipazione in G., e la successiva svalutazione del cosiddetto avviamento di EU da parte della stessa G. Come se il write off ditale goldwill, effettuato da G. nel 2000 (e asseritamente non giustificato in termini economico-aziendali) potesse smentire, in qualche modo, il prezzo pagato da C.I.». Tale affermazione – ad avviso della ricorrente – non è vera e neppure verosimile: «la svalutazione dell’avviamento EU da G. nel proprio bilancio; dell’esercizio 2000 (da cui sarebbe scaturita la perdita di C.I.) è stata dettata da motivazioni aziendali inoppugnabili che la parte pubblica, pur conoscendo bene, ha scientemente ignorato». L’ufficio nell’accertamento aveva scritto che la svalutazione della predetta posta patrimoniale non era in linea con la sequenza anche temporale delle operazioni effettuate, perché la predetta svalutazione era già presente nella situazione patrimoniale precedente all’acquisizione della partecipazione nella società G. e tale valore negativo latente avrebbe dovuto già trovare manifestazione nel prezzo di acquisizione della partecipazione; viceversa, ove il prezzo di acquisizione fosse stato quello reale, non si potrebbe comprendere il motivo di operare la svalutazione immediatamente dopo l’acquisizione. Da queste considerazioni l’ufficio aveva desunto la mancanza dì valide ragioni economiche a fondamento delle operazioni prima descritte. «Queste affermazioni – scrive il difensore nel ricorso – devono considerarsi completamente infondate in quanto non solo la svalutazione operata dagli amministratori di G. rispose ad una precisa motivazione economica indotta dalla perdita di qualsivoglia utilità residua dell’avviamento EU, una volta terminata l’acquisizione di G. da parte di C.A.». [Omissis] «La ragionevolezza economica di tale svalutazione (rectius, doverosa elisione civilistica della posta iscritta a titolo di avviamento EU) si basava sul venire meno di ogni prospettica utilità di tale immobilizzazione immateriale; ciò in ragione della sua precisa riferibilità ad un compendio aziendale acquisito nel 1995 dalla precedente proprietà di G. che andava (come è poi avvenuto nella realtà) riorganizzato ex novo una volta conclusa l’acquisizione di G. da parte di C.A.» (Cfr. pagina 39 del ricorso). «Infatti C.A., gruppo dotato di leadership mondiale nel settore

della grande distribuzione [...], aveva introdotto un nuovo modello d’impresa, rendendo superati e comunque inutilizzabili, vista la necessità oggettiva di gestione integrata e unitaria delle attività, i moduli organizzativi sino a quel momento adottati». «Con l’acquisizione da parte di C.A., i mutamenti subiti da G., con riferimento al settore degli ipermercati, sono stati assolutamente radicali e hanno interessato sia i profili operativi (ad esempio, le uniformi degli addetti agli ipermercati, la gestione dei magazzini, le procedure di controllo interno, la selezione dei fornitori ecc.) che quelli di carattere maggiormente strategico (come l’individuazione delle politiche commerciali o quelle di posizionamento aziendale rispetto al mercato), di talché la stessa insegna EU (che contraddistingueva un determinato modulo imprenditoriale ormai del tutto inadeguato rispetto agli obbiettivi ed alle modalità operative introdotte da C.A.) ha finito per non essere mai utilizzata nell’ambito del gruppo né in Italia né altrove». La presunta contraddizione, fra prezzo corrisposto da C.I. per l’acquisizione della partecipazione in G. e la successiva svalutazione, operata da G., della immobilizzazione immateriale rappresentata dall’avviamento EU sarebbe smentita dal fatto che in G. esistevano alla data di acquisizione da parte di C.I. (nel 2000) numerose attività totalmente estranee all’azienda EU «Alla data di acquisizione, infatti, G. svolgeva una molteplicità di attività e comprendeva una pluralità di aziende: i supermercati, i negozi di prossimità, gli iperstores, il franchising, l’ingrosso, le gallerie commerciali, le attività immobiliari e gli ipermercati; nell’ambito di questi ultimi, quelli riconducibili al compendio EU erano solo 7 su 24». [Omissis] «Altrettanto superficiale – scrive il difensore nel ricorso – è l’ulteriore considerazione» dell’ente accertatore volta a sostenere la tesi della irragionevolezza economica dell’elisione dell’avviamento EU, operato da G. nel 2000: ovvero la considerazione circa «la presunta incongruenza fra tale evento (l’elisione dell’avviamento) ed il conferimento, dopo poco più di un anno, del ramo di azienda ipermercati a beneficio di S.C., con l’emersione di una cospicua plusvalenza». Anche in questo caso – replica la ricorrente – la presunta contraddizione semplicemente non esiste. «Infatti il provvedimento impugnato, in maniera scientemente colpevole, trascura di considerare una circostanza già evidenziata: cioè il fatto che G. all’epoca era una realtà imprenditoriale assolutamente composita, contraddistinta da una rilevante molteplicità di cespiti che eccedevano sensibilmente – sia in termini quantitativi che qualitativi il ristretto compendio di EU. Ciò vale soprattutto per il settore ipermercati la cui consistenza numerica e qualitativa, all’atto del conferimento a beneficio di S.S., era assai differente da quello riferibile al solo complesso aziendale EU». «Basti pensare che il numero degli ipermercati costituenti il ramo d’azienda apportato da G., a S.S. nel 2001 era pari a 24 punti vendita, laddove quelli acquistati (nel 1996) nel contesto della transazione EU erano soltanto sette». [Omissis] Si è costituita in giudizio l’Agenzia delle Entrate, ufficio di M., e dopo aver ricostruito il complesso della serie di operazioni societarie, effettuate – a suo dire – «nell’ambito di una vera e propria pianificazione fiscale su vasta scala», mette in evidenza i vantaggi tributari conseguiti, spiegando come l’utilizzo nell’anno 2002 di parte della perdita subita da C.A. S.p.A., derivante dalla svalutazione della partecipazione detenuta in G., era servito ad abbattere il reddito imponibile determinato dai dividendi erogati dalla stessa G. S.p.A.; il concomitante credito di imposta aveva determinato una eccedenza di imposta di euro 139.113,428, poi ceduto ad altre società del gruppo e in particolare a G. S.p.A. per vanificare l’imposta sostitutiva versata sulla plusvalenza derivata dalla cessione dell’insegna EU. [Omissis]


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Motivi della decisione [Omissis] 6) Secondo il difensore, il sistema tributario non disapprova in alcun modo le svalutazioni delle partecipazioni, anzi le considera un elemento indispensabile per coordinare la tassazione delle società con quelle dei soci. Perciò le operazioni di cui trattasi erano pienamente conformi ai meccanismi espressi dal combinato disposto degli artt. 61 e 66 del T.U.I.R. dei quali vi è stata una classica applicazione e non certo un presunto aggiramento. Anzitutto giova precisare che, se il sistema tributario ammette le svalutazioni delle partecipazioni, ciò non significa affatto che la svalutazione possa essere eseguita per mero capriccio degli amministratori, ma si richiede che essa sia conseguenza di una effettiva variazione di valore del bene registrato in bilancio. Peraltro nel caso in esame si trascura un dato di fondo, ovvero che la svalutazione dalla partecipazione di C.A. in G. S.p.A. è solo l’effetto amplificato della svalutazione della posta di bilancio relativa all’avviamento di EU, compiuta da G. S.p.A. nel 2000. Ora, tenuto conto che è a questa operazione che occorre fare riferimento per valutare la correttezza della condotta complessiva sospetta di elusione, si deve puntualizzare che non è ipotizzabile che una società possa annullare una posta suscettibile di ammortamento senza l’effettiva necessità di adeguare i valori alla situazione oggettiva. A questo punto si deve far rilevare che, per sostenere la correttezza delle operazioni e dei comportamenti, complessivamente valutati nell’accertamento, la difesa fa ricorso allo stratagemma di frantumare la condotta elusiva e prendere separatamente in considerazione le singole operazioni, che essa poi giudica pienamente conformi al dettato normativo. E su questo percorso trova facile procedere perché è scontato che nessuna delle operazioni, degli atti di gestione o dei negozi sia formalmente contrario alla legge tributaria; Infatti «aggirare» significa appunto che le norme sono formalmente rispettate ma che il congegno escogitato (costituito da varie operazioni formalmente corrette ma tra loro connesse) implica, nel suo insieme, un aggiramento del sistema tributario e un indebito vantaggio. Dunque sarebbe vano cercare di dimostrare che la svalutazione fiscalmente deducibile, «da parte della controllante C.I., a fronte della diminuzione del patrimonio netto della controllata G.», fosse formalmente scorretto. Il punto semmai dovrebbe riguardare la correttezza, sotto il profilo contabile e commerciale, della svalutazione dell’avviamento del ramo d’azienda EU, operata da G. S.p.A., che costituisce il presupposto della svalutazione della partecipazione, operata da C.I. Si noti che la svalutazione dell’avviamento del ramo d’azienda EU, presa isolatamente, è fiscalmente dannosa per il contribuente (nel caso, la stessa G. S.p.A.) perché elimina le quote d’ammortamento del bene immateriale, e dunque giammai potrebbe essere oggetto di una correzione in sede di liquidazione della dichiarazione dei redditi. Ma a questo riguardo (cioè in relazione alla svalutazione operata da G. S.p.A.) il discorso svolto dalla difesa sorvola sulla questione, focalizzando la discussione soltanto sulla svalutazione della partecipazione in G., operata da C.I., operazione apparentemente necessitata, perché mero riflesso della perdita rilevata nella partecipata G. S.p.A. Quando poi la difesa affronta direttamente questo argomento, come vedremo in prosieguo, accampa circostanze non provate e spiegazioni del tutto inattendibili. [Omissis] 7) Nel paragrafo ottavo la difesa affronta il tema dell’assenza di valide ragioni economiche, requisito che a suo avviso manca nel caso di specie. A questo riguardo afferma che la «pretesa contraddizione» tra il prezzo corrisposto da C.I. per l’acquisto della partecipazione in

G., e la successiva svalutazione del cd. avviamento di EU da parte della stessa G., costituisce, nella ricostruzione dell’ufficio, una «forzatura». E aggiunge la seguente considerazione: «Come se il write of di tale goldwill, effettuato da G. nel 2000 (e asseritamente non giustificato in termini economico-aziendali) potesse smentire, in qualche modo, il prezzo pagato da C.I.». Tale considerazione è del tutto fuori luogo, e perciò fuorviante, perché la contraddizione rimarcata dall’ufficio non tende affatto ad affermare che il prezzo pagato da C.I. non fosse vero e adeguato al valore di G. S.p.A. ma, viceversa, a sostenere, come ha ben compreso la ricorrente, che non è giustificata in termini economico-aziendali la svalutazione (operata nell’esercizio 2000 da G. S.p.A. subito dopo la sua acquisizione da parte di C.A.) della posta di bilancio corrispondente all’avviamento della insegna EU. Infatti – si legge nell’avviso di accertamento – è da presumere che la C.I. «nell’acquisire la partecipazione di G. S.p.A. abbia definito un prezzo corrispondente alla situazione patrimoniale della stessa G. prima dell’acquisto. Per tale motivo non appare lineare che, immediatamente dopo, la società acquisita operi una svalutazione dei propri valori patrimoniali e che la società acquirente, per tale ragione consegua una perdita di esercizio [...]. Nella fattispecie una posta patrimoniale di G. S.p.A., già presente nella determinazione del prezzo di acquisizione da parte di C.A., trova, momentaneamente, un diverso e più basso apprezzamento nel bilancio d’esercizio della stessa G., salvo poi a rivalutarsi nell’esercizio successivo». [Omissis] Infatti, venendo poi al nocciolo della questione, la difesa afferma che «la svalutazione dell’avviamento EU operata da G. nel bilancio dell’esercizio 2000 è stata dettata da motivazioni aziendali inoppugnabili» [...] «in quanto la svalutazione operata dagli amministratori di G. rispose ad una precisa motivazione economica indotta dalla perdita di qualsivoglia utilità residua dell’avviamento EU, una volta terminata l’acquisizione di G. da parte di C.A.». La ragionevolezza economica di tale svalutazione derivava – secondo la tesi della ricorrente – dal «venir meno di ogni prospettica utilità ditale immobilizzazione industriale». Ciò, perché questa immobilizzazione si riferiva ad un compendio aziendale acquisito nel 1995 dalla precedente proprietà di G., compendio che andava riorganizzato ex novo, una volta conclusa l’acquisizione di G. da parte di C.A.». Dunque gli argomenti prospettati dalla ricorrente per giustificare la svalutazione sono: la «perdita di qualsivoglia utilità residua dell’avviamento EU ovvero il «venir meno di ogni prospettica utilità di tale immobilizzazione industriale»; ed ancora, il «nuovo modello d’impresa» introdotto da C.A. aveva reso «superati e comunque inutilizzabili [...] i moduli organizzativi sino a quel momento adottati», come conseguenza della «necessità oggettiva di gestione integrata e unitaria delle attività». Se si cerca di capire che cosa ci sia in concreto sotto l’enfasi tecnico-commerciale delle espressioni sopra riportate si deve convenire che in definitiva si tratta di luoghi comuni privi di significato concreto e di oggettiva corrispondenza con dati di fatto. Si dice che l’insegna EU aveva perduto ogni utilità residua e che «in prospettiva» quella immobilizzazione non aveva più alcuna possibilità di sfruttamento, ma si tratta di una mera affermazione astratta senza alcun riferimento concreto alla situazione dell’azienda e senza addurre alcuna prova della effettiva perdita di valore dei punti di vendita contraddistinti da quella insegna. Peraltro l’esperienza comune (che qui assume il i valore di un fatto notorio) basta a smentire quell’affermazione perché, chiunque avesse frequentato il punto vendita EU sito alle porte di M., ha dovuto constare con stupore la scomparsa, imprevedibile e incomprensibile, di quel grande ipermercato, solitamente affollatissimo e riccamente fornito di merci di ogni genere, dai casalin-


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ghi alle telerie, dal giardinaggio all’arredamento, dai sanitari agli attrezzi di lavoro per l’edilizia, la meccanica e la falegnameria, dagli utensili ai prodotti per il bricolage, dall’idraulica agli impianti elettrici e ad ogni genere di elettrodomestici. Un esercizio accorsatissimo e molto funzionale che sicuramente era dotato di un elevato valore di avviamento. Subito dopo l’inopinata chiusura il suo ruolo a commerciale è stato malamente ripreso nelle immediate vicinanze da un negozio analogo ma di gran lunga meno dotato, meno efficiente, meno frequentato, tuttora presente sotto il marchio «Le», che verosimilmente è da ricondurre in via indiretta alla stessa C.A. Se questa è la riorganizzazione a cui allude la difesa, si è trattato di una trasformazione decisamente deleteria sotto il profilo commerciale, e, presa a sé stante, nient’affatto vantaggiosa per la capogruppo e per la società S.S. che ha assunto la «gestione dell’azienda già contraddistinta dall’insegna EU. Quel che rafforza il convincimento, che l’annullamento del valore di avviamento di EU sia stato dettato da ragioni del tutto estranee alla riorganizzazione aziendale del settore degli ipermercati rientranti nella sfera di controllo di C.A., è la constatazione che «la necessità di gestione integrata e unitaria delle attività» poteva certo comportare nuovi «moduli organizzativi» ma questa trasformazione non implicava affatto che si cancellasse l’insegna EU o che si sopprimesse addirittura il punto vendita di M. e che si annullasse l’avviamento legato a quel ramo d’azienda. Infatti, quando la difesa afferma che «con l’acquisizione da parte di C.A., i mutamenti subiti da G., con riferimento al settore degli ipermercati, sono stati assolutamente radicali ed hanno interessato i profili operativi», incontra poi evidenti difficoltà a spiegare dette trasformazioni, tanto che menziona, come esempi, «le uniformi degli addetti agli ipermercati, la gestione dei magazzini, le procedure di controllo interno, la selezione dei fornitori», cioè modifiche organizzative interne e adattamenti gestionali che non incidono certamente sulla identificazione dell’ipermercato con il nome commerciale già conosciuto sul mercato e notevolmente apprezzato dalla vasta clientela. Quando, poi, per i «mutamenti di carattere maggiormente strategico» si invoca «l’individuazione delle politiche commerciali o quelle di posizionamento aziendale rispetto al mercato», si torna all’uso di termini altisonanti e vaghi che lasciano del tutto inespresso e misterioso il significato concreto di quelle trasformazioni o modifiche organizzative. In definitiva, nessuna delle ragioni addotte dalla ricorrente per giustificare la svalutazione della immobilizzazione in argomento è convincente e tanto meno dimostrata con prove verificabili. Come rileva l’ufficio nell’avviso di accertamento, l’operazione risulta ancora più irragionevole quando si consideri che, dopo la svalutazione operata nell’esercizio 2000, quel valore riemerse come plusvalenza derivante dal conferimento del settore ipermercati da G. S.p.A. alla controllata S.S. S.r.l. Contro questo argomento la ricorrente osserva che non vi è con-

traddizione tra la svalutazione e la successiva emersione della plusvalenza, perché G. S.p.A. all’epoca era una realtà imprenditoriale assolutamente composita, contraddistinta da una rilevante molteplicità di cespiti che eccedevano sensibilmente – sia in termini quantitativi che qualitativi – il ristretto compendio di EU. Ciò vale soprattutto per il settore ipermercati la cui consistenza numerica e qualitativa, all’atto del conferimento a beneficio di S.S., era assai differente da quello riferibile al solo complesso aziendale EU. La prima obiezione a questo argomento sta nel fatto che dal conferimento del ramo di azienda relativo agli ipermercati furono esclusi gli immobili che rimasero di proprietà di G.; dunque, se per un verso la plusvalenza poteva derivare dalla molteplicità dei beni ceduti, per altro verso quella eccedenza veniva controbilanciata dalla esclusione di beni strumentali di notevole incidenza patrimoniale. In secondo luogo, anche in questo caso l’argomento resta nel vago a causa della sua genericità e non dimostra in concreto quale era il valore degli altri ipermercati ceduti oltre quelli distinti dall’insegna EU, e quale fosse stata la loro incidenza sul prezzo complessivo corrisposto da S.S. S.r.l. Sta di fatto che, come chiaramente spiegato nell’atto di accertamento, G. S.p.A., dopo avere registrato nel 2000 una riduzione patrimoniale di lire 173.559.225.327, dovuta essenzialmente alla svalutazione dell’avviamento relativo all’insegna EU (riduzione che aveva legittimato a sua volta C.A. S.p.A. a svalutare, per la maggiore somma di lire 748.227.370.000, la partecipazione totalitaria in G. S.p.A.), nell’anno 2001 la stessa G. S.p.A. aveva chiuso l’esercizio con un utile civilistico di euro 638.773.167, quasi interamente distribuito alla società controllante C.A. S.p.A. Il pagamento dell’imposta sostitutiva sulla plusvalenza aveva consentito a G. S.p.A. di ribaltare sulla società controllante dei cospicui dividendi assistiti da credito d’imposta che era servito quasi integralmente a costituire in capo a C.A. una eccedenza d’imposta, posto che la base imponibile, costituita dai dividendi percepiti e dal relativo credito d’imposta, veniva azzerata dalle perdite riportabili rivenienti a C.A. dalla pregressa svalutazione della partecipazione totalitaria in G. S.p.A. Il meccanismo elusivo descritto nell’avviso di accertamento è di immediata e chiara comprensione e, comunque, è provato che quella serie di operazioni non erano giustificate da valide ragioni economiche. [Omissis] Per tanto il ricorso è completamente privo di fondamento e l’avviso di accertamento deve essere considerato perfettamente legittimo e corretto sia sotto il profilo formale che sostanziale. Per il principio di soccombenza la ricorrente è tenuta a rimborsare le spese processuali a favore dell’Agenzia delle Entrate, spese che, tenuto conto del valore della lite, sono liquidate in complessivi euro 159.282,00, di cui euro 1.584,00 per diritti, euro 140.000,00 per onorari ed euro 17.698,00 per spese vive.

II Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. LIII, 8 maggio 2009, n. 207 48 Presidente: Massera - Relatore: Roberti Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Donazione di immobile ai figli - Ricomprensione nell’art. 37-bis, comma 3 del D.P.R. n. 600 del 1973 - Insussistenza (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 67)

donazione di un immobile ai propri figli, di cui tra l’altro non sia stata nemmeno provata la simulazione, sia inopponibile all’amministrazione finanziaria.

Con ricorso depositato in data 23 gennaio 2006 la ricorrente indicata in epigrafe rappresentava di aver ricevuto notifica, in data 27 ottobre 2005 dall’Agenzia delle Entrate, ufficio di Roma 5, dell’avviso di accertamento n. [...] per Irpef-tassazione separata La donazione non rientra tra gli atti previsti nel terzo comma dell’art. 37- relativamente all’anno 2000 con il quale l’ufficio determinava bis del D.P.R. n. 600 del 1973, per cui l’ufficio non può pretendere che la maggiori imposte soggette a tassazione separata per euro


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8037,25 oltre sanzioni ed interessi ai sensi degli artt. 37-bis e 38, D.P.R. 600/1973 a seguito di una mancata dichiarazione di plusvalenza circa una cessione, quale comproprietaria, di due terreni edificabili siti nel Comune di Città di S.Angelo (PE) rispettivamente 1) ai signori B.D. e D.R.D. e 2) alla E. S.r.l. con atti registrati in data 9 gennaio 2001 e 15 dicembre 2000, così come indicati nell’accertamento impugnato. Riferiva, altresì, che l’atto impugnato era da ritenere illegittimo per infondatezza della pretesa erariale e per violazione dell’art. 37-bis, comma 4, D.P.R. 600/1973 per aver ritenuto l’ufficio, quanto al terreno n. 1 ceduto, esservi una simulazione della donazione effettivamente avvenuta in data 15 dicembre 2000 nei confronti dei figli O.L., P. e G. per la quota di 165/800, non provando quanto asserito nell’accertamento. Chiedeva, dunque, l’annullamento dell’avviso impugnato. L’ufficio si costituiva in giudizio, in data 11 dicembre 2008, chiedendo il rigetto del ricorso, previa verifica della sua ritualità e tempestività. All’udienza pubblica del 24 aprile 2009, presenti i rappresentanti delle parti, esposti i fatti e questioni oggetto di controversia, il Collegio si ritirava in camera di consiglio ed emanava la seguente decisione. Motivi della decisione In via preliminare si rileva la ritualità e tempestività del ricorso (accertamento notificato il 27 ottobre 2005, ricorso notificato all’ufficio il 23 dicembre 2005 e depositato in Commissione il 23 gennaio 2006, dunque entro i termini di legge). Il ricorso è parzialmente fondato. Osserva la Commissione che l’ufficio ha provveduto a specificare nell’atto impugnato le ragioni alla base delle pretesa erariale, le quali risultano confutate dalle argomentazioni della ricorren-

te, peraltro sprovviste del tutto di documentazione probatoria, relativamente al solo primo cespite, non essendo invece risultate idonee a dimostrare l’infondatezza dell’accertamento impugnato quanto al terreno ceduto alla E. S.r.l. L’atto impugnato è sufficientemente motivato in quanto indica l’iter logico-giuridico alla base della pretesa erariale, sottolineando in particolare che risulta del tutto omessa, a prescindere dalla congruità del valore dichiarato, la dichiarazione da parte della ricorrente della plusvalenza comunque realizzata in virtù della vendita del terreno all’E. S.r.l., per cui il recupero della somma così come accertata dall’ufficio appare legittima, avendo correttamente applicato la normativa prevista dall’art. 38, D.P.R. 600/1973 rettificando la dichiarazione dei redditi dell’anno di imposta 2000 per violazione degli artt. 67 e 68, D.P.R. 917/1986, così come aggiornato con D.Lgs. 344/2003, trattandosi di reddito non dichiarato relativamente a cessione a titolo oneroso di terreno edificabile. L’ufficio, in sostanza, in assenza di dichiarazione della ricorrente, ha determinato il reddito da plusvalenza omesso attraverso un accertamento presuntivo dettagliatamente specificato nell’accertamento impugnato, senza che l’opponente abbia prodotto prova contraria alla ricostruzione operata da parte resistente. Alla luce di quanto esposto l’accertamento va confermato quanto al cespite n. 2 ceduto all’E. S.r.l. Le argomentazioni della ricorrente sono, invece, fondate quanto al cespite n. 1 oggetto del ricorso sia per violazione dell’art. 37-bis, comma 3, D.P.R. 600/1973, non rientrando le donazioni tra gli atti previsti dalla normativa applicata, sia per mancata prova della simulazione asserita, non avendo peraltro l’ufficio chiesto chiarimenti alla ricorrente così come previsto dal successivo comma 4: deriva la nullità dell’accertamento relativamente a tale cespite. Sussistono giustificati motivi, stante l’accoglimento solo parziale del ricorso, per compensare le spese di lite.

III Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VII, 22 aprile 2009, n. 41 49 Presidente: La Valle - Relatore: Fadel Accertamento - Elusione - Imposta di registro - Riqualificazione della costituzione di società a responsabilità limitata con conferimento di ramo d’azienda e successiva cessione della partecipazione come cessione d’azienda - Valenza antielusiva dell’art. 20 del D.P.R. 131/1986 - Insussistenza - Applicabilità della regola generale antiabuso al caso di specie - Irrilevanza (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 20 e 53-bis; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 87 e 176, comma 3) Non è legittimo il comportamento dell’ufficio teso a riqualificare, ai fini dell’imposta di registro, un contratto di costituzione di società a responsabilità limitata con conferimento di ramo d’azienda e successiva cessione della partecipazione, in contratto di cessione d’azienda, sia perché non può riconoscersi valenza antielusiva all’art. 20 del D.P.R. n. 131 del 1986, sia perché la elusività di tale operazione nell’ambito delle imposte dirette è espressamente negata dall’art. 176, comma 3 del T.U.I.R. Svolgimento del processo [Omissis] La ricorrente, a seguito di decisione del consiglio di amministrazione di data 28 giungo 2005, deliberava la realizzazione di un’operazione di riorganizzazione aziendale con l’obiettivo di scorporare il ramo di azienda [...] di sua proprietà. La riorganizza-

zione veniva posta in essere attraverso le seguenti operazioni straordinarie: 1) costituzione di una società a responsabilità limitata [...] cui veniva conferito il complesso produttivo [...]; 2) cessione della partecipazione detenuta dalla ricorrente nella società [...]. L’operazione veniva effettuata nel rispetto di quanto previsto dall’art. 176, comma 1, del T.U.I.R. in continuità dei valori contabili e fiscali (cd. neutralità dell’operazione di conferimento). [Omissis] Successivamente alla costituzione della società [...], la ricorrente ha provveduto alla cessione delle partecipazioni [...]. La partecipazione fiscalmente veniva ceduta realizzando una plusvalenza fiscalmente esente ai sensi e per gli effetti di quanto disposto dall’art. 87 del T.U.I.R. L’ufficio, con l’atto impugnato mira a riqualificare la predetta operazione di riorganizzazione effettuata dalla ricorrente nell’anno di imposta 2005 come una cessione di azienda ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro e delle imposte ipotecaria e catastale. Parte ricorrente formula quindi i seguenti motivi di ricorso. 1) Violazione della corretta interpretazione da attribuirsi all’art. 20 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro). [Omissis] Ritiene [...] la ricorrente che l’ufficio ha il potere, qualora riscontri una divergenza tra la forma giuridica dell’atto di cui il contribuente chiede la registrazione e la sostanza economica del-


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l’operazione conseguente a quel determinato atto, di applicare l’imposta di registro basandosi sulla sostanza economica dell’operazione. [Omissis] 2) Sulla portata antielusiva dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986. La parte ricorrente fa presente che, nel sistema di applicazione dell’imposta di registro delineato dal legislatore, non esiste una norma antielusiva generale che consenta all’amministrazione finanziaria di disconoscere i negozi giuridici posti in essere dal contribuente. Ed anzi, l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 fornisce un mero criterio di interpretazione con il quale si indica all’ufficio quelli che possono essere gli elementi cui può dare rilevanza nella registrazione dell’atto. [Omissis] nel D.P.R. n. 131/1986 vi sono specifiche disposizioni tassative che portano ad indicare alcuni determinati atti senza tener conto della loro esatta qualificazione ed efficacia giuridica. [Omissis] Al di fuori delle ipotesi espressamente previste [...] non è pertanto consentito all’ufficio disconoscere gli effetti del comportamento delle parti che pongono in essere uno o più negozi giuridici per raggiungere, oltre agli effetti tipici di essi, altri effetti indiretti. 3) Imposta di registro come «imposta atto». [Omissis] L’imposta colpisce il singolo atto e non il trasferimento. [Omissis] Dalla qualificazione giuridica dell’imposta di registro come («imposta d’atto» ne deriva, secondo parte ricorrente, la preclusione all’ufficio dell’utilizzo di elementi extra testuali nell’attività di interpretazione ex art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 in riferimento all’atto assoggettato a registrazione. 4) Interpretazione degli atti. Secondo la parte, l’ufficio non può avvalersi di elementi estrinseci che non trovano riscontro nell’atto di cui il contribuente chiede la registrazione. [Omissis] La parte richiama lo studio n. 95/2003/T del Consiglio nazionale del notariato con il quale si afferma come sia da ritenersi illegittimo l’operato dell’amministrazione finanziaria che, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, pretenda di interpretare unitariamente, attraverso la configurazione di un’unica causa negoziale, quelli che sono a pieno titolo atti giuridici distinti, da assoggettare autonomamente ad imposta di registro secondo la disciplina propria di ciascuno. Vi sarebbe quindi una irrilevanza del collegamento negoziale tra più atti distinti ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro. [Omissis] Si costituiva in giudizio con proprie controdeduzioni l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Treviso. L’Agenzia delle Entrate ripercorre l’operazione compiuta dal ricorrente attraverso non solo l’atto registrato, ma attraverso l’analisi delle delibere del consiglio di amministrazione e l’ulteriore documentazione reperita arrivando alla conclusione che le operazioni poste in essere sono state concepite dalla società ricorrente come una operazione unitaria di «cessione ramo d’azienda». Fa presente come nel consiglio di amministrazione del 28 giugno 2005 si è contemporaneamente deliberata la costituzione della newco con contestuale conferimento del sito produttivo [...] e la successiva cessione della partecipazione ricevuta. L’ufficio evidenzia come nella nota integrativa al bilancio di esercizio relativo all’anno 2005 è riportato testualmente che: «[...] nelle parti in cui verranno commentati gli effetti della costituzione e cessione del ramo di azienda relativo allo stabilimento di [...], si riporteranno come unico riferimento le parole “cessione ramo d’azienda”». Inoltre nel consiglio di amministrazione del 29 marzo 2006, durante il quale viene approvata la bozza di bilancio relativa all’anno 2005, viene testualmente evidenziato che: «si è realizzata l’operazione di cessione del sito produttivo» e

«l’operazione è stata attuata come meglio descritto nella nota integrativa al bilancio mediante costituzione di una nuova società, conferimento del compendio produttivo [...] e successiva cessione della società neo costituita ad imprenditori terzi». Secondo l’ufficio le tempistiche e l’effettiva volontà delle parti in relazione agli atti posti in essere (conferimento e successiva cessione della partecipazione) evidenziano in realtà un unica fattispecie, ancorché a formazione progressiva, produttiva di un unico effetto giuridico finale identificato nella cessione d’azienda. [Omissis] Motivi della decisione Il ricorso è fondato e andrà accolto. [Omissis] Passando all’esame del merito si osserva come la questione oggetto di decisione da parte di questa Commissione tributaria verta sulla esistenza o meno di una norma di portata antielusiva ai fini delle imposte indirette e nella fattispecie dell’imposta di registro tale da consentire all’ufficio, anche a seguito della introduzione dell’art. 53-bis del D.P.R. n. 131/1986, di andare oltre il singolo atto portato alla registrazione per ricostruire la reale operazione posta in essere e, qualora vi sia stata elusione di imposta, provvedere al conseguente recupero. È infatti pacifico che nel caso di specie l’operazione posta in essere dalla ricorrente ha portato, attraverso varie operazioni, come risultato finale alla cessione di un ramo d’azienda. Tale cessione poteva ben essere effettuata direttamente e avrebbe comportato una tassazione di livello sensibilmente superiore. Si osserva che ai fini delle imposte dirette, ex art. 176 del T.U.I.R. (che richiama l’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), l’operazione non è censurabile e non costituisce elusione. Occorre allora porsi il problema della valenza antielusiva dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986. Quest’ultimo articolo non consente all’amministrazione finanziaria di disconoscere i negozi giuridici posti in essere dal contribuente, ma fornisce un criterio di interpretazione che indica all’ufficio gli elementi da prendere in considerazione nella registrazione dell’atto. Ritiene questa Commissione tributaria che attraverso l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 non sia possibile ricostruire in modo organico e complessivo le operazioni poste in essere dal contribuente al fine di valutarle successivamente sotto il profilo elusivo o meno. Non è pertanto consentito avvalersi di elementi estrinseci, ma l’interpretazione dell’atto deve necessariamente far riferimento invece esclusivamente a quegli elementi che risultino dall’atto sottoposto a tassazione. Resta ancora da valutare l’operazione sotto il profilo dell’«abuso del diritto» sollevato dall’ufficio, cioè se la stessa sia stata posta in essere al fine di ottenere vantaggi fiscali. L’ufficio indica a tal fine delle sentenze della Corte di Cassazione (n. 20398 del 2005 e n. 22932 del 2005) che riguardano il conseguimento di indebiti vantaggi fiscali ai fini delle imposte dirette conseguenti a comportamenti elusivi tenuti dai contribuenti. C’è da porsi il problema se tali valutazioni possano esser esportate tout court nell’ambito dell’imposta di registro. Impedisce tale trasposizione l’oggettiva sussistenza di un elemento invalicabile e cioè che tali operazioni non sono antielusive ai fini delle imposte dirette (l’art. 176, comma 3, del T.U.1.R. dispone infatti che «non rileva ai fini dell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, il conferimento dell’azienda secondo i regimi di continuità dei valori fiscali riconosciuti o di imposizione sostitutiva di cui al presente articolo e la successiva cessione della partecipazione ricevuta per usufruire dell’esenzione di cui all’art. 87, o di quella di cui agli artt. 58 e 68, comma 3») e pertanto appare difficilmente sostenibile che vi sia un abuso del diritto ai fini dell’imposta di registro quando neppure ai fini delle imposte dirette tale comportamento è considerato elusivo e quindi fiscalmente illegittimo. Oltre a ciò, si osserva che perché il comportamento possa essere considerato elu-


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sivo, in ogni caso, bisognerebbe valutare se l’obiettivo che viene raggiunto, con risparmio di imposta, sia esattamente lo stesso oppure se invece l’operazione posta in essere abbia dei vantaggi o una rilevanza giuridica, anche ad altri fini. Non è infatti dimostrato che cedere le quote di una società che comprende un determinato immobile o vendere direttamente l’immobile stesso sia esattamente la stessa cosa e produca, anche rispetto ai terzi, esattamente gli stessi effetti giuridici. Certo, il risultato pratico è il passaggio a terzi della proprietà dell’azienda (o in altri casi del-

l’immobile). In conclusione questa Commissione ritiene che, tenuto conto che non vi è una espressa previsione normativa, non sia consentito all’ufficio disconoscere quegli atti e negozi giuridici che sono stati posti in essere dalle parti nell’ambito dell’autonomia negoziale che alle medesime è riconosciuta. E ciò, si ripete, anche in base alla considerazione che manca una clausola antielusiva generale nel sistema della imposta di registro. Il ricorso pertanto va accolto e l’atto impugnato annullato. [Omissis]

IV 50 Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XX, 7 aprile 2009, n. 118 Presidente e Relatore: Golia Accertamento - Elusione - Imposta di registro - Liquidazione dell’imposta - Agevolazioni “prima casa” Previa compravendita di quote di altri immobili ai propri figli - Inapplicabilità dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 - Irrilevanza - Applicabilità della regola generale antiabuso - Inopponibilità al fisco (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis; tabella allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, nota II-bis, lett. b; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8) Accertamento - Elusione - Operazione da considerare elusiva ai sensi della clausola antielusiva generale Operazione anteriore al consolidarsi della giurisprudenza su tale clausola - Sanzioni - Inapplicabilità (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8) La previa vendita ai propri figli di quote di altri immobili da parte dei pretesi beneficiari delle agevolazioni fiscali “prima casa”, pur regolare ed effettivamente effettuata, è inopponibile al fisco, in quanto elusiva, in base alla regola generale non scritta antiabuso, che vieta comunque le operazioni ideate per aggirare il fisco. Devono essere disapplicate le sanzioni, ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. n. 546 del 1992, nella ipotesi di una operazione elusiva posta in essere nel 2003, ovverosia prima del consolidarsi di un’interpretazione giurisprudenziale chiara sul tema dell’elusione fiscale. Oggetto della domanda Annullamento di avviso di liquidazione e irrogazione di sanzioni relative alle imposte di registro, ipotecarie, e catastali anno 2003. Motivi della decisione Con l’avviso di liquidazione di cui all’oggetto l’Agenzia delle Entrate negava al ricorrente sig. [...] il diritto alle agevolazioni fiscali “prima casa” utilizzato in occasione dell’acquisto dell’immobile [...] registrato il 3 giugno 2003 in quanto per poterne beneficiare aveva venduto insieme alla moglie il 10% di due altre abitazioni nello stesso Comune di [...] ai propri figli. Ciò al solo scopo di non apparire proprietari “esclusivi” delle stesse, e di non perdere l’opportunità di godere dell’agevolazione fiscale per «l’acquisto della prima casa» di [...] (nota II-bis, lettera b, della tariffa allegata al D.P.R. 131/1986 imposta di registro). L’Agenzia, quindi, con l’atto impugnato ha ritenuto il comportamento dei coniugi una manovra elusiva per poter illegittimamente risparmiare sulle imposte dovute. Con l’avviso di liquidazione impugnato le ha recuperate, irrogando le conseguenti sanzioni. Nel ricorso la parte ricorrente sostiene che la vendita del 10%

delle due abitazioni non fu fatta per lo scopo di risparmiare sulle imposte di registro, ipotecarie e catastali ma per recuperare liquidità per l’acquisto di [...]. Comunque a tale vendita, alla luce della normativa vigente, non sono applicabili le regole dell’“elusione fiscale” e, quindi, l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria in quanto non è ricompresa tra le operazioni indicate puntualmente nel comma 3 dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, la norma in vigore che più precipuamente tratta del fenomeno dell’elusione fiscale. Richiede, perciò, in via principale l’annullamento dell’avviso di liquidazione; in via subordinata che non vengano applicate le sanzioni avendo comunque agito nel rispetto della legge. La richiesta principale del ricorso non può trovare accoglimento. Questo Collegio non ha dubbi: i coniugi vendettero il 10% dei due appartamenti in [...] per una somma poco superiore a 19.000 euro per l’obiettivo principale di risparmiare imposte per oltre 30.000,00 euro. La vendita non fu simulata, non fu fittizia, ma rappresentò il necessario strumento per beneficiare di un’agevolazione fiscale che altrimenti non sarebbe spettata. Induce a tale convinzione in primis la quasi contestualità tra la vendita “elusiva” e l’acquisto della “prima casa”, ma sopratutto l’irragionevole rinunzia alla piena proprietà di due case per soli 19.000 euro. Per fare liquidità bastava vendere una quota di una sola proprietà senza necessità di frazionarne due. Ma è evidente che essi intesero adeguarsi formalmente e pedissequamente ai requisiti richiesti per ottenere l’agevolazione fiscale: tra questi vi era quello di non essere proprietari “esclusivi” di altri immobili nello stesso Comune della nuova casa da acquistare. Bisognava liberarsi, quindi, ad ogni costo di una quota seppure minima delle due case di [...] e nella maniera meno costosa. Così fu fatto. C’è ora da stabilire se la vendita, regolarmente e realmente effettuata, possa ritenersi elusione fiscale non opponibile al fisco ai sensi dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, o comunque elusione fiscale non consentita. Si osserva: l’operazione dei signori [...] non può essere ritenuta elusiva ai sensi dell’art. 3-bis, D.P.R 600/1973 in quanto non rientra tra quelle elencate nel terzo comma dello stesso articolo, come giustamente ha eccepito parte ricorrente. Si può anche serenamente affermare che nessuna norma scritta del nostro ordinamento essi hanno violato. Non si può e non si deve negare, però, che essi hanno utilizzato un negozio giuridico astrattamente lecito per il principale obiettivo di ottenere una agevolazione fiscale che altrimenti non avrebbero ottenuto. Essi hanno usato il diritto forzandone le regole, abusandone. Questo Collegio è convinto che dai principi generali del nostro ordinamento, emerga chiaramente la generale regola non scritta


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che non si possano utilizzare gli strumenti giuridici leciti offerti dall’ordinamento per una causa diversa da quella per la quale lo strumento era stato concepito e per ottenere dei vantaggi che l’ordinamento non intendeva offrire o addirittura vietare. La regola parte dalla Costituzione che impone ad ogni cittadino il dovere di solidarietà economica e sociale, l’iniziativa economica improntata all’utilità comune, il dovere di ciascuno di contribuire ai costi della spesa pubblica (artt. 2, 41, 53, Cost.); passa attraverso i principi della buona fede, della tutela dell’affidamento e il contratto in frode alla legge previsti dal Codice civile; si riconsolida nell’art. 10 dello Statuto del contribuente che impone comportamenti tra cittadini e fisco – «improntati al principio della collaborazione e della buona fede». In ogni suo campo il diritto va quindi usato attenendosi ai principi della buona fede e della tutela dell’affidamento. Un uso diverso di esso costituisce abuso che va contrastato dal legislatore con norme specifiche nei campi in cui è facile prevedere dove possa nascondersi, ma anche da parte di chi istituzionalmente è tenuto a far rispettare le regole scritte e non scritte dal nostro ordinamento nei vuoti lasciati dal legislatore. È stato autorevolmente detto che il contrasto all’abuso del diritto è una vera e propria espressione di civiltà giuridica. Le convinzioni di questo Collegio non sono certo innovative: trovano la loro origine, traggono la loro forza e conferma in numerose decisioni della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia europea. Dalle sentenze 20398 e 22932 del 2005 fino a recentissime decisioni dalla nostra Corte di Cassazione è stato affermato e ripetuto con sempre maggiore convinzione il seguente principio: è immanente nell’ordinamento comunitario e in quello nostro interno una regola generale non scritta che vieta “l’abuso del diritto” in ogni suo campo, nonché l’elusione fiscale che ne è una applicazione in campo tributario. La Corte di Giustizia europea con sentenza del 21 febbraio 2006 (Halifax) ha affermato a chiare lettere che rappresentano abuso del diritto tutte le operazioni che hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Quindi per esservi abuso non è necessario che l’operazione abbia lo scopo esclusivo del vantaggio fiscale, potendo coesistere tale scopo con altri di minore peso. Il diritto comunitario e le sentenze della Corte di Giustizia europea, per la loro sovranazionalità, si impongono agli ordinamenti ed ai giudici degli Stati membri della CE (art. 117, Cost.). Il nostro Supremo Collegio – sentenza 21221/2006 – non è rimasto insensibile alla interpretazione e al monito della sovraordinata Corte europea, sottolineando che con tale decisione per la prima volta è stata affermata con chiarezza l’esistenza di una clausola generale anti abuso che deve essere intesa come un canone interpretativo del sistema fiscale in generale (imposte dirette e imposte indirette), e che la nozione di abuso prescinde da qualsiasi riferimento alla natura fittizia o fraudolenta delle operazioni: la caratteristica del comportamento abusivo, a differenza delle ipotesi di frode, è quello del compiere operazioni reali, assolutamente conformi ai modelli legali. Quindi il giudice nei procedimenti in cui si discuta se al contribuente spettino i richiesti vantaggi fiscali deve valutare se le operazioni siano state compiute per valide ragioni economiche proprie o prevalentemente per lo scopo di ricavarne un vantaggio fiscale. Tali principi sono stati riaffermati e consolidati in altre sentenze del Supremo Collegio. Tra esse si segnalano la n. 10257/2008, la n. 25374/2008. Da ultimo per eliminare qualsiasi dubbio sull’esistenza di un generale divieto non scritto dell’abuso di diritto/elusione fiscale, le sezioni unite – sentenza 30055/2008 – hanno affermato che il divieto dell’abuso del diritto è regola generale dettata non solo

dal diritto comunitario ma, per le imposte dirette, anche da principi della nostra Costituzione (in particolare dal primo e secondo comma dell’art. 53) che impongono a tutti i cittadini di partecipare alla spesa pubblica in base alla propria capacità contributiva in un sistema tributario «informato a criteri di progressività». Quindi è fin dall’entrata in vigore della nostra Costituzione che esiste un generale divieto di utilizzare strumenti giuridici anche leciti allo scopo di evadere o anche solo di aggirare l’obbligo di concorrere alla spesa pubblica secondo la propria capacità contributiva. Sommariamente esaminata la giurisprudenza interna e comunitaria, in conclusione si osserva: nel diritto comunitario come negli ordinamenti interni si è pervenuti al convincimento che l’elusione fiscale possa essere combattuta efficacemente solo con una regola generale che vieti comunque le operazioni ideate per aggirare il fisco. Questo per la constatazione che per la rapida evoluzione dei rapporti economici, per il continuo evolversi degli strumenti giuridici il legislatore non può prevedere e anticipare tutti i casi in cui si può nascondere l’abuso del diritto. La regola astratta non preclude al legislatore di coprire con regole specifiche quei settori –trasformazioni societarie, compravendite azionarie sospette, ecc. – dove c’è maggior pericolo di elusione fiscale, ma il criterio casistico non può e non deve essere adottato come criterio esclusivo di lotta all’elusione fiscale. Va respinta la richiesta di chi, in base ad un invocato e spesso abusato principio di certezza del diritto, voglia vedere affermata la regola che non vi è elusione fiscale se non vi è la norma specifica che la preveda. Allo stato attuale nel nostro sistema fiscale il metodo casistico e la regola generale non scritta convivono: le leggi specifiche antielusive che pure esistono nel nostro ordinamento altro non sono che l’articolazione della regola generale. Questa Commissione condivide la diffusa preoccupazione che un ricorso eccessivo e meccanico al contrasto dell’abuso di diritto possa frustrare l’iniziativa economica privata o che possa menomare 1’incomprimibile diritto dei contribuenti di poter scegliere tra i negozi giuridici quello che porta al minor carico fiscale. Né si nasconde la difficoltà di applicare ai casi concreti la generale regola di contrasto all’elusione. Chi è chiamato a farla rispettare si deve muovere sullo stretto confine tra lecito e illecito, tra consentito e non consentito. Ma tutto questo non può portare alla resa nei confronti di chi usa il diritto al solo scopo di aggirano. Si rendono, perciò, indispensabili legislatori vigili che, per la globalizzazione dell’economia, siano pronti a regolamentare anche a livello internazionale tutti i nuovi casi e settori in cui compare l’elusione. Servono funzionari del fisco e giudici tributari preparati e di buon senso capaci di stabilire correttamente se una determinata operazione non prevista specificamente dal legislatore rappresenti o meno elusione fiscale. Servono soprattutto contribuenti che si comportino col fisco con spirito di collaborazione e buona fede (art. 10, Statuto del contribuente) e che facciano un oculato uso dell’istituto dell’interpello nei casi dubbi (art. 11 dello Statuto del contribuente). Respinta per tutte le ragioni dette la richiesta principale del contribuente, si ritiene di poter accogliere la sua richiesta subordinata relativa alle sanzioni. L’operazione elusiva fu posta in essere nel 2003, prima del consolidarsi di un’interpretazione giurisprudenziale chiara sul tema dell’elusione fiscale. Ai sensi dell’articolo 8 del D.Lgs. 546/1992 «per le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni» si possono dichiarare non applicabili le sanzioni irrogate. Per gli stessi motivi si compensano le spese di causa.


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V 51 Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXVI, 1 aprile 2009, n. 26 Presidente e Relatore: Capurso Accertamento - Elusione - Imposte in genere - Contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo stipulato in luogo della mascherata compravendita tra soggetti dello stesso gruppo - Assenza di valide ragioni economiche - Simulazione - Inapplicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Irrilevanza - Applicabilità della regola generale antiabuso (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10) Accertamento - Elusione - Clausola generale antielusiva - Applicazione ad operazioni anteriori alla recente giurisprudenza - Sanzioni - Inapplicabilità (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10) È simulato il contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo stipulato in luogo della mascherata compravendita tra soggetti facenti parte del medesimo gruppo societario multinazionale, quando appaia privo di una valida ragione economica e sia elusivamente finalizzato allo scopo essenziale di conseguire vantaggi fiscali. In caso di applicazione del divieto di abuso quale principio generale applicabile al di fuori delle previsioni di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 devono essere disapplicate le sanzioni, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 212 del 2000, per l’incertezza della giurisprudenza sull’ambito e la portata del divieto dell’abuso del diritto, sino alle recentissime pronunce delle sezioni unite e della Corte di giustizia europea. Svolgimento del processo A seguito di accertamenti della Guardia di Finanza, l’A.G.E., ufficio di F. (ufficio) notificò in data 19 dicembre 2006 alla G.F. S.p.A. avviso di accertamento [...] per Irpeg, Irap, Iva e mancato versamento di ritenute alla fonte per l’anno 2001. [...]. Le contestazioni in oggetto erano state originate, in particolare, da un rilievo concernente un contratto di locazione finanziaria relativo ad un complesso immobiliare situato in C., sede della società accertata G.F., che era stato ritenuto simulato a scopo essenzialmente elusivo perché ricollegabile ad una ipotesi di abuso di diritto, come tale non opponibile all’amministrazione finanziaria. L’ufficio basò l’avviso di accertamento sui seguenti rilievi in fatto: a) il complesso immobiliare in questione, di proprietà della G.B. era condotto in locazione ordinaria dalla società accertata G.F., appartenente ad un gruppo multinazionale capeggiato dall’inglese G.P. controllante la finanziaria G.F.L. (100%) e la società capogruppo italiana, la predetta G.B. (100%), che a sua volta controllava la stessa G.F. (99,8%) e la S.r.l. T. (100%); b) in data 17 dicembre 1999, la G.F. manifestò l’intenzione di acquistare il complesso immobiliare dalla proprietaria G.B.; e) in data 5 gennaio 2000 il complesso in questione fu, invece, venduto dalla G.B. alla T. e, con contratto stipulato nello stesso giorno, da parte di quest’ultima fu concesso in locazione finanziaria di tipo traslativo alla società G.F.; d) il 14 febbraio 2000, la T. ricevette un finanziamento da parte della società inglese G.F.L. su disposizione della società inglese G.P. d’importo che, sommato al proprio capitale, coincideva con il prezzo del complesso immobiliare acquistato; e le seguenti considerazioni in diritto: 1) la scelta della locazione finanziaria di tipo traslativo del complesso immobiliare fatta dalla G.F. in luogo del suo acquisto im-

mediato, che pure essa aveva preventivato, dava adito presumere ragionevolmente che tale mutata operazione non avesse altra motivazione economica se non quella di lucrare il risparmio fiscale conseguibile grazie alla deduzione dei canoni della locazione finanziaria per i 9 anni della sua durata, con maggior convenienza rispetto ad altre imposizioni cui sarebbe stata assoggettata in caso di compravendita; 2) conseguentemente, nel comportamento della G.F. era configurabile un’ipotesi di abuso del diritto, nel senso elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di giustizia dell’Unione europea come ipotesi di ricorso a figure giuridiche di per sé lecite ma senza alcun altro motivo economico al di fuori di quello di conseguire un risparmio fiscale; 3) l’abuso di diritto era stato realizzato mediante il contratto di locazione finanziaria tra la G.F. e la T., soltanto simulato, con interposizione fittizia di quest’ultima nella reale compravendita avvenuta tra G.F. e la G.B. [Omissis] Motivi della decisione [Omissis] La Commissione osserva che la questione di fondo è costituita dalle contestazioni mosse, sotto vari profili, dall’appellante nei confronti dell’ufficio, che ha ritenuto di configurare l’operazione descritta in precedenza come un’ipotesi elusiva di abuso di diritto perché posta in essere mediante il ricorso ad un contratto di locazione finanziaria di tipo traslativo di per sé lecito ma che, confrontato con la maniera più diretta di acquistare mediante una compravendita, cosi come del resto la G.F. aveva deciso di fare, appariva privo di una valida ragione economica ed elusivamente finalizzato allo scopo essenziale di conseguire vantaggi fiscali. [Omissis] A questo riguardo, la Commissione rileva che secondo la giurisprudenza, sia nazionale che comunitaria, anche al di fuori di tali ipotesi normative è possibile configurare fattispecie in sé del tutto lecite che, però, contengono una valenza elusiva se utilizzate per un fine diverso da quello per il quale sono state previste, dando così luogo ad un abuso di diritto con riferimento ad un principio generale antielusione presente nell’ordinamento giuridico sia nazionale che comunitario. Su questa tematica, infatti, si sono pronunciate sia la Corte di Giustizia dell’Unione europea, da ultimo con le sentenze 21 febbraio 2006, causa C-255/2002 e 21 febbraio 2008, causa C-425/2006 concernenti questioni pregiudiziali in materia di Iva, e la Corte di Cassazione italiana a partire dalla sentenza Cass., n. 20398/2005, 10257/2008, 25374/2008, 30055/2008, 30057/2008 a sezioni unite, e da ultimo alla sentenza n. 1465/2009 che si rifà ad una delle due citate sentenze a sezioni unite (la n. 30057/2008) recependone i principi in materia di abuso di diritto. [Omissis] Dalle autorevoli e convincenti argomentazioni della Corte a sezioni unite si desume, inoltre, che tale principio, data la sua immanenza nell’ordinamento costituzionale, è applicabile in via immediata e diretta a prescindere da specifiche previsioni normative della legge ordinaria e, per i relativi aspetti, è ad esse indifferente sia nella sostanza, data la sua portata generale, sia nel tempo, dato che è da considerarsi esistente come coevo della norma costituzionale di riferimento, sia nella forma, in quanto rilevabile di ufficio nel corso del giudizio. A questo punto, la Commissione rileva l’infondatezza delle doglianze con le quali l’appellante ha suffragato il motivo di appel-


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lo in esame, in particolare quelle concernenti sia la mancanza dell’operazione in questione tra le fattispecie considerate elusive per legge sia l’erroneità del richiamo fatto dall’ufficio alla giurisprudenza della Corte di giustizia europea in quanto inapplicabile al passato e riferibile alla sola Iva. Infatti, queste argomentazioni dell’appellante non reggono al vaglio critico di questa Commissione perché, alla luce delle considerazioni che precedono in punto di valenza temporale e sostanziale del divieto di abuso di diritto nell’ordinamento giuridico tributario, fanno legittimamente ritenere che ben può essere applicato tale divieto all’operazione in questione anche al di fuori delle previsioni di cui all’art. 37bis del D.P.R. n. 600/1973 in materia di imposte dirette (introdotto dall’art. 7 del D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358) e comma 7-bis dell’art. 14 del D.P.R. n. 917/1986, invocate dall’appellante come limite tassativo alla configurabilità di ipotesi elusive. Inoltre, tale principio oltre che all’Iva, tributo armonizzato in area comunitaria, può essere applicato anche ai tributi non armonizzati, quali sono le imposte dirette. Nell’ambito dell’esame del sesto motivo, la Commissione rileva che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha anche fissato le condizioni in base alle quali è legittimo configurare una violazione del divieto di abuso di diritto e, in proposito, ha affermato che «il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale». [Omissis] A tale proposito, la Commissione considera che l’uso distorto di strumenti giuridici leciti viene maggiormente in evidenza allorquando il risparmio fiscale sia conseguito mediante una operazione posta in essere in modalità parallela e coordinata con una pluralità di negozi funzionalmente rilevanti in un contesto di collegamento societario di gruppo in modo, cioè, che ciascuno di essi apporti un elemento concausale al risultato cercato (in tal senso, per l’imposta di registro: Cass., sez. V, sent. 12 maggio 2008, n 11769 e Cass., sent. n. 2713 del 2002: «l’interprete deve privilegiare il dato giuridico reale rispetto ai dati formalmente enunciati – anche frazionatamente – in uno o più atti, e perciò il risultato di un comportamento sostanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, onde, nell’ipotesi di una pluralità di negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto giuridico finale, vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva»). Ciò è maggiormente percepibile nel caso, spesso frequente in regime di economia sopranazionale, della esistenza di gruppi di società multinazionali, coordinate economicamente e finanziariamente e, perciò, in grado di porre in essere strumenti giuridici che, pur se distinti tra loro per far capo a singoli componenti del gruppo, tuttavia possono contribuire nel loro insieme al conseguimento di risparmio fiscale con vantaggio della strategia economica del gruppo nel suo insieme. Alla luce di tali considerazioni, la Commissione ritiene infondata l’argomentazione difensiva dell’appellante secondo la quale sarebbe sufficiente a negare la sussistenza dell’abuso di diritto il richiamo alla insindacabilità delle scelte economiche nell’attività d’impresa che, data anche la maggiore complessità di una strategia di gruppo, sarebbero sempre e di per sé insindacabili in quanto espressione di libero esercizio di scelte nell’attività economica imprenditoriale. In contrario, infatti, si può affermare che il carattere abusivo dell’operazione si rivela proprio nel frazionamento dell’operazione finanziaria in più figure giuridiche, poste in essere da imprese appartenenti al medesimo gruppo e coordinate da una strategia complessiva di gruppo.

Infatti, nel caso in esame l’appartenenza delle varie società in questione ad un unico gruppo si caratterizza per una situazione di intenso controllo da parte della capofila e tesoriera del gruppo G.P. (U.K.) al 100% rispetto alla G.F.L. finanziaria del gruppo, e alla G.B., capogruppo italiana, e da parte di quest’ultima nei confronti della T., e, al 99,8%, della G.F., che come tale è innegabilmente indicativa di una stretta interdipendenza delle varie società, ulteriormente sottolineata dalla contemporanea presenza, nella persona del sig. N.J.T., della triplice qualità. di rappresentante legale della società accertata nonché di amministratore unico sia della G.B. che della T. Tutto ciò ne fa un complesso di soggetti giuridici i quali, anche se distinti, sono tuttavia partecipi di una medesima strategia imprenditoriale economicamente connotato e condizionata dalle coordinate funzioni di ciascuna di esse sotto l’assoluto e determinante potere del controllo della capogruppo. Quindi, tenuto conto della assoluta previdenza della G.P. nel gruppo, è fortemente presumibile che la società T., rimasta per lungo tempo inattiva e con capitale largamente insufficiente, sia stata opportunamente e tempestivamente rigenerata mediante un modesto aumento di capitale (fino a 1 miliardo di euro) ed un cambiamento di oggetto (da immobiliare a finanziaria) e sia stata appositamente finanziata dalla G.F.L., in misura corrispondente al costo dell’affare (51 miliardi di euro) su disposizione della capogruppo G.P. (UK) e che il contratto di locazione finanziaria tra l’appellante G.F. e T. sia stato stipulato soltanto grazie al fatto che quest’ultima avrebbe lucrato il risparmio fiscale della deduzione dei canoni della locazione finanziaria di tipo traslativo. [Omissis] La Commissione ritiene, perciò, fondata la tesi dell’ufficio secondo la quale la G.F. ha utilizzato la locazione finanziaria di tipo traslativo in questione in maniera distorta e, cioè, simulata per mascherare una compravendita conseguendo un vantaggio fiscale soltanto grazie alle condizioni poste in essere da altre società del gruppo multinazionale G.P. che, per le modalità e le disposizioni finanziarie attuate, consentono legittimamente di presumere che fossero preordinate soltanto a permettere il conseguimento di un risparmio fiscale in assenza di valide ragioni economiche proprie. Di contro, l’appellante non ha adempiuto al proprio onere probatorio di dimostrare l’asserita sussistenza delle valide ragioni economiche contestate dall’ufficio che, invece, ne ha dimostrato l’inesistenza, sia pure con presunzioni le quali costituiscono fonte probatoria d’eccellenza date le particolari caratteristiche delle pratiche elusive proprie della loro natura dissimulatoria. [Omissis] La Commissione ritiene, infine, fondato il nono motivo d’appello concernente la richiesta di non applicare le sanzioni comminate nell’avviso di accertamento impugnato in considerazione di «obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria» ai sensi dell’art. 10 della legge n. 212/2000. Infatti, la Commissione riconosce esservi stata incertezza della giurisprudenza sull’ambito e la portata del divieto dell’abuso di diritto, protrattasi per qualche anno fino alle recentissime affermazioni della Corte di Cassazione a sezioni unite, susseguenti ai fatti in esame, per di più avvertita maggiormente con riguardo all’estensione ai tributi non armonizzati del principio già affermato dalla Corte di giustizia europea per l’ordinamento comunitario riguardo all’Iva. Di conseguenza, la Commissione annulla l’avviso di accertamento impugnato nella parte concernente le sanzioni perché non irrogabili in quanto sussistono le condizioni richieste dall’art. 10, comma 3, della legge n. 212/2000. La complessità delle questioni dedotte in giudizio e la parziale reciproca soccombenza consentono alla Commissione di dichiarare la integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio.


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VI 52 Commissione tributaria regionale della Liguria, sez. I, 18 marzo 2009, n. 25 Presidente: Soave - Relatore: Zanoni Accertamento - Elusione - Imposte doganali e diritti di confine - Società collegata che agisca nella solo apparente autonomia rispetto alla controllante - Abuso del diritto - Rilevanza - Inopponibilità all’amministrazione finanziaria - Configurabilità della soggettività passiva in capo alla controllante - Sussistenza (Reg. CEE n. 2913/1992, art. 201; c.c., art. 2729; D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 38) Nonostante la configurazione formalmente regolare dei rapporti tra società operanti sul medesimo mercato, è da ritenere che vi sia abuso di diritto e, quindi, inopponibilità al fisco, di importazioni effettuate dalla collegata che, utilizzando certificati d’importazione falsi, abbia agito nella solo apparente autonomia operativa rispetto alla controllante, la quale ultima non avrebbe potuto commercializzare il volume di merce trattato dalle due società insieme considerate e quindi conseguire il contestato vantaggio fiscale. Svolgimento del processo Alla società C. S.p.A. il 10 novembre 2005 vengono notificati gli avvisi di rettifica [...], emessi dall’Agenzia delle Dogane, per operazioni svolte sul mercato delle banane da altra società, la S. S.r.l., la quale aveva effettuato diverse importazioni, presentando in dogana certificati Agrim rilasciati dal governo spagnolo, di cui era licenziataria per girata delle società spagnole che ne risultavano titolari. L’accertamento doganale nei confronti di S. risale al 14 marzo 2002 e trae lo spunto dalla dichiarazione delle autorità spagnole che riconoscono come mai emessi i certificati di importazione de quo. Successivamente (a distanza di sette anni dall’importazione e a tre anni dall’accertamento) la dogana emette a carico di C. gli avvisi oggi opposti, ritenendola responsabile solidale ex art. 38 del T.U.L.D. (D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43) e art. 201 del regolamento CE n. 2913/1992 in base al fatto che in realtà S. sarebbe società controllata da C. e – conseguentemente – il vero acquirente delle partite di banane sarebbe C. stessa, ancorché attraverso la controllata S.C. in ricorso eccepisce: [Omissis] 5) assoluta carenza dei presupposti dell’obbligazione doganale nei confronti di C. e violazione dell’art. 201 del c.d.c. [Codice doganale comunitario, n.d.r.] non essendo stata essa società la dichiarante doganale, ma la S., e non essendo C. consociata di S. stessa; 6) falsa prospettazione dei rapporti tra S. e C., essendo falso che S. non costituisse realtà operativa indipendente, ma solo una società costituita da C., affidata operativamente al management di C. allo scopo di eludere la normativa doganale senza farne ricadere la responsabilità su quest’ultima società; [Omissis] Dopo diverse udienze di trattazione, la Comm. trib. prov. Genova accoglie il ricorso. [Omissis] Motivi della decisione [Omissis] Con l’unico motivo di appello, la dogana lamenta come i primi giudici non abbiano tenuto conto dei reali rapporti tra C. e S., alla luce del disposto di cui agli artt. 38 del T.U.L.D. e 201 c.d.c. I primi giudici non avrebbero cioè attribuito il giusto peso agli elementi indiziali dedotti dalla dogana, che potrebbero assume-

re il carattere di presunzioni gravi, precise e concordanti le quali ai sensi dell’art. 2729 c.c. possono costituire prova dell’atto che le partite di banane sono state importate da S. per conto di C. e come tale fanno assumere anche a C. la veste di soggetto passivo dell’obbligazione tributaria ex artt. 38 e 221 citati. Il motivo di appello è fondato nei termini che seguono. [Omissis] Un complesso sistema di quote di importazioni e di licenze tutela i piccoli produttori, ma può presentare – effettivamente – aspetti discriminatori verso le grandi società, quali la U.B. (C.), D. e D., che da sole controllano più della metà del mercato europeo. Successivamente vengono emessi i certificati Agrim di cui si discute, che consentono l’acquisizione di quantitativi di banane a dazio agevolato; possono essere commercializzati, ma a precise condizioni. In tale contesto storico/economico, va considerato come tra gli obiettivi delle grandi società sia da inserire non solo la realizzazione di utili derivanti dalla compravendita, ma anche il perseguire l’incremento delle quote di mercato, a danno della concorrenza. Per perseguire tale obiettivo si innesca un meccanismo particolare per cui occorre disporre di quantità sempre maggiori di prodotto, peraltro difficili da ottenere in conseguenza del sistema delle licenze che prevedono limiti predefiniti per l’importazione via terra o via mare. In tale contesto – secondo la tesi dell’amministrazione doganale – laddove la grande società percepisce la possibilità di utilizzo di licenze che non potrebbero essere altrimenti essere acquisite, l’unica soluzione è la costituzione di una o più società di comodo – perfettamente regolari dal punto di vista giuridico/fiscale, formalmente dotate di autonomia decisionale e patrimoniale – in grado di acquisire licenze per rastrellare prodotto (da sottrarre alla disponibilità della concorrenza) da rivendere poi alla società di riferimento ovvero direttamente ai di lei clienti. In tal guisa, la grande società per acquisire prodotto utilizza – di fatto – le proprie licenze e quelle in disponibilità della società satellite. Dal punto di vista giuridico/formale tale impostazione, come correttamente argomentato dai primi giudici, non presenta criticità alcuna: nella fattispecie, S. è società indipendente, dotata di autonomia patrimoniale, di propri organismi societari, quindi in grado di rispondere in via esclusiva delle proprie azioni/omissioni nei confronti del fisco. L’inopponibilità al fisco della configurazione formalmente regolare dei rapporti tra società operanti sul medesimo mercato è stata a suo tempo oggetto di rivisitazione da parte della Corte di Giustizia europea con la nota sentenza Halifax 21 febbraio 2006, causa C-255/2002 (1), ove si affronta la tematica dell’abuso del diritto e si afferma che, perché possa parlarsi di comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della VI direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni. Deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale; ove si constati un comportamento abusivo, le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato. La problematica è stata ampiamente discussa in dottrina (tra gli scritti più attenti LIVERANI, Abuso del diritto, in www.diritto.it; VILLANI, L’abuso del diritto parità tra fisco e contribuente, in www.diritto.it; La Corte di Giustizia caso Halifax; sentenza C-255/2002, in www.fisconelmondo.it; MARVULLI, L’abuso del diritto come strumento antielusivo e il ruolo dell’amministra-


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zione finanziaria, in www.ilpadirigentiministeriali.com; VILLANI, Abuso del diritto secondo la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, in www.mondoavvocati.it). Nel nostro ordinamento non esiste una norma che sanzioni in via generale l’abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni 30 riteneva che l’abuso del diritto, più che essere una nozione giuridica, fosse un concetto di natura etico-morale, con la conseguenza che colui che ne abusava veniva considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. In questo modo il Codice italiano si poneva in contrasto con la legislazione di altri ordinamenti, in particolare tedesco e svizzero, contenenti, per contro, una norma repressiva dell’abuso del diritto. Il modello tedesco reca, infatti, la regola, frutto di generalizzazione dell’antico divieto di atti di emulazione, secondo la quale «l’esercizio del diritto è inammissibile se può avere il solo scopo di provocare danno ad altri»; l’art. 2 del Codice civile svizzero ha adottato la più ampia formulazione secondo la quale «il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge». Il legislatore del 1942 ha preferito ad una norma di carattere generale norme specifiche che consentissero di sanzionare l’abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Nella trama del Codice civile può, infatti, rinvenirsi sia l’espressa indicazione di fattispecie abusive negli artt. 330, 1015, 2793; sia disposizioni sanzionatrici di alcuni atti, la cui ratio è ravvisabile nella esigenza di repressione di un abuso del diritto (art. 1059, comma 2, art. 1993, comma 2, c.c.) sia disposizioni di maggiore ampiezza, considerate valide per intere categorie di diritti (art. 833). Successivamente la Suprema Corte italiana si è allineata con la Corte di Giustizia attraverso diverse sentenze (le più significative sono recentissime; n. 25374 del 2008, n. 30055, 30056 e 30057 del 2008) ed ha recepito come possibile la sussistenza del comportamento elusivo per abuso del diritto, formulando il principio in base al quale il contribuente non deve mai trarre vantaggi fiscali indebiti dall’utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, anche se questi strumenti non contrastano con alcuna specifica disposizione. In sostanza, viene ribadito il principio del divieto assoluto dell’abuso del diritto evidenziato in sede comunitaria, a meno che il contribuente non dimostri che sussistono valide ragioni economiche, alternative o concorrenti, di carattere non meramente marginale o teorico, il comportamento abusivo consiste proprio nel fatto che, a differenza delle ipotesi di frode e di evasione vera e propria, il soggetto ha posto in essere operazioni reali, assolutamente conformi a modelli legali, senza stravolgimenti del vero o rappresentazioni infedeli ed incomplete della realtà. Il generale principio antielusivo trova dunque la sua fonte nella giurisprudenza comunitaria (in particolare per quanto riguarda i tributi quali l’Iva, le accise ed i diritti doganali) e nei principi costituzionali (art. 53 Cost.) per i tributi quali le imposte dirette. L’intervento legislativo in Italia, nel corso degli anni, si è sviluppato attraverso l’art. 10, comma 1, della legge 29 dicembre 1990, n. 408 e successive modifiche (in tema di partecipazioni sociali) e l’art. 37-bis, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973, inserito dall’art. 7 del D.Lgs. n. 358/1997 (inopponibilità all’amministrazione finanziaria di atti, fatti e negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti). Con riguardo alla fattispecie, l’ufficio appellante si duole, in sostanza, del fatto che i primi giudici si sono limitati alla valutazione dell’aspetto formale della situazione delle società S. e C., senza considerare le possibili connotazioni elusive per abuso del diritto in conseguenza del collegamento esistente tra le società stesse; la vera acquirente delle partite di banane in questione sarebbe sempre e soltanto C., che avrebbe operato in proprio ovvero attraverso la collegata S. Secondo la dogana, se tale assunto fosse dimostrato si attiverebbe il vincolo di solidarietà nell’evasione

conseguente all’utilizzo da parte di S. di certificati Agrim riconosciuti come mai emessi dall’autorità spagnola. Tale eccezione è fondata, relativamente al mancato approfondimento (da parte dei primi giudici) della possibile sussistenza di comportamento elusivo attraverso l’abuso del diritto, ma resta da valutare se questo sussista effettivamente nel caso in esame, e – in particolare – se il preteso collegamento tra le due società possa essere considerato provato dall’amministrazione, la quale fonda le proprie tesi sui diversi elementi probatori desunti parte dai Pvc e parte dagli atti del procedimento penale, il cui utilizzo risulta regolarmente richiesto e ottenuto. [Omissis] [La sentenza riporta alcune intercettazioni sui collegamenti tra le due società, n.d.r.]. Gli elementi probatori offerti dalla società, per contro, sono tutti tesi a dimostrare la completa autonomia di S. rispetto a C., e viceversa; peraltro, regolare costituzione e funzionamento di S. dal punto di vista giuridico/fiscale non sembrano da contestare, e la Commissione concorda con i primi giudici laddove essi affermano la formale indipendenza di S. I pronunciamenti giurisprudenziali di cui è prodotta copia danno atto dell’orientamento fluttuante rispetto alla introduzione del, concetto di abuso del diritto nelle valutazioni operate dai giudici tributari, ma sono tutti antecedenti gli ultimi, significativi, pronunciamenti della Corte di Cassazione. Quanto sopra considerato, la Commissione è dell’avviso che i primi giudici non abbiano adeguatamente considerato nel loro insieme gli elementi che portano a ritenere come verosimile la tesi dell’amministrazione, laddove essa afferma che S. è da considerare società collegata di C., le cui scelte commerciali solo apparentemente rispondevano a scelte di mercato, ma in realtà rispondevano alle esigenze di C., la quale non avrebbe potuto formalmente commercializzare il volume di merce trattato dalle due società considerate insieme. Tale circostanza, ancorché non si voglia attribuire valore di testimonianza alle dichiarazioni rese nell’ambito del procedimento penale, emerge chiaramente ove si consideri l’insieme delle circostanze: - i soci e gli organismi societari delle due società sono per la maggior parte costituiti dalle stesse persone e loro parenti, ancorché con incarichi diversi; l’assunzione condivisa delle scelte giunge al punto che le decisioni da assumere in conseguenza dell’avvio delle indagini degli inquirenti vedono coinvolte indifferentemente figure societarie di entrambe le società; - la società che curava la logistica delle importazioni (T. S.r.l.) riceveva istruzioni direttamente da rappresentanti di C.; - C. provvedeva direttamente al pagamento di dette operazioni; - i motivi della stessa esistenza di S. S.r.l. trovano giustificazione nella necessità di C. di acquisire fette di mercato cui da sola non avrebbe potuto accedere, e nella preoccupazione di tutelare la società stessa per l’uso di certificati che potenzialmente potevano anche essere forieri di contestazioni; diversamente, appare difficile pensare che una multinazionale come C. si avvalesse di una piccola S.r.l. che, nonostante le ridottissime dimensioni aziendali, movimentava merce per milioni di euro; - il fatto che solo una parte delle vendite di S. S.r.l. fosse destinata a C. (circostanza che costituisce uno dei punti di forza delle tesi difensive per dimostrare l’autonomia di S.) è verosimilmente spiegato dal fatto che praticamente tutto il restante veniva venduto direttamente a clienti di C. stessa, al fine di mantenere la quota di mercato e la clientela stessa. [Omissis] La Commissione ritiene che sia compito del giudice tributario valutare – in questo caso – la sussistenza di un unico disegno tendente ad ottenere vantaggi fiscali al di là della struttura societaria e negoziale posta in essere: nella fattispecie tale compito è indubitabilmente facilitato dall’esistenza di un procedimento pe-


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nale parallelo, tanto che da un lato rende il caso in discussione peculiare rispetto ad altri oggetto di pronunciamenti giurisprudenziali, dall’altro limita quella funzione di supplenza che viene di fatto richiesta al giudice tributario nei confronti delle censurabili carenze normative che consentono lo svilupparsi dei comportamenti elusivi attraverso operazioni formalmente regolari; carenze delle quali è auspicabile che il legislatore si occupi al più presto. Nella fattispecie, tale analisi, compiuta attraverso la valutazione del contesto, nonché l’esame, la ricerca e l’interconnessione di indizi rivelatori di una pratica abusiva, porta ad acco-

gliere la tesi dell’ufficio, giacché è da ritenere che il complesso delle operazioni posto in essere dalle società S. e C. configuri una forma di abuso del diritto (i cui effetti sono inopponibili all’amministrazione fiscale) che va individuato – in estrema sintesi – nella solo apparente formale autonomia operativa di S., in realtà operante secondo le direttive della controllante C. Tanto considerato, va accolto l’appello della dogana, e respinto quello incidentale di C. Quanto alle spese, la complessità della materia e le oscillazioni giurisprudenziali solo recentemente evolute giustificano la compensazione.

VII 53 Commissione tributaria di I grado di Trento, sez. V, 2 febbraio 2009, n. 8 Presidente: Di Francia - Relatore: Alberti Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Donazione di immobile alla moglie - Successiva compravendita ad un prezzo analogo al valore di donazione Effettività doppio trasferimento - Abuso del diritto Insussistenza (C.c., artt. 177 e 179; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 37, comma 3 e 37-bis; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 67) La donazione di un immobile alla moglie, la quale poco dopo lo rivenda ad un prezzo pari al valore indicato nell’atto di donazione, non costituisce abuso del diritto, ove l’ufficio non dimostri la presenza di un diverso interesse del donante rispetto a quello di beneficiare la propria consorte. Svolgimento del processo Con il ricorso in oggetto, il ricorrente sig. C.R. impugnava l’avviso di accertamento per Irpef 2001, emesso dall’Agenzia delle Entrate, ufficio di [...] l’8 luglio 2008, a fronte di un atto di donazione, intervenuto tra il ricorrente e la di lui moglie, nonché della vendita, da parte di quest’ultima ad un terzo, del bene donato, a breve distanza di tempo ed al prezzo corrispondente al valore della donazione. Il ricorrente assumeva la illegittimità dell’avviso impugnato per violazione dell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, atteso che, fra le operazioni tassativamente richieste ai fini della disciplina antielusiva, non erano ricomprese le donazioni; che l’art. 37 del medesimo decreto presidenziale concerneva non già una norma antielusiva, bensì l’interposizione fittizia di persona, di matrice civilistica, utilizzata per evadere le imposte; che, non rientrando le donazioni tra le operazioni antielusive, la donazione in questione si rendeva opponibile all’amministrazione finanziaria convenuta, la quale, peraltro, non aveva convocato il donante nell’ambito dell’istruttoria; che la donazione riceveva fondamento in una convenzione matrimoniale in atti. [Omissis] Si costituiva in giudizio l’amministrazione convenuta, contestando l’assunto del ricorrente e precisando che le operazioni da queste poste in essere e dalla di lui moglie, in regime di comunione legale, costituivano strumenti per ottenere un risparmio di imposta; che, esse, conseguentemente, integravano gli estremi dell’abuso del diritto, con conseguente inopponibilità ad essa amministrazione del contratto di donazione. [Omissis] Motivi della decisione Il ricorso appare fondato e meritevole di accoglimento. Giova premettere che l’abuso del diritto ha formato oggetto di

ampio dibattito dottrinale (risalente al 1922) e giurisprudenziale (risalente al 1952). [Omissis] In sede europea, la categoria dell’abuso del diritto è stata elaborata, sin dal 1995, dalla Corte di giustizia della Comunità europea, per la quale sono abusive e come tali vietate le pratiche consistenti nell’impiego di forme giuridiche o di regolamenti contrattuali finalizzati allo scopo esclusivo o anche soltanto principale di conseguire un risparmio di imposta (cfr., da ultimo, sentenza 21 febbraio 2008, causa C-425/2006) (1). A questo indirizzo si è allineata la Corte di Cassazione (cfr. Cass., 4 aprile 2008, n. 8772; Cass., 17 ottobre 2008, n. 25374 che ha applicato d’ufficio il principio dell’abuso di diritto, avvertendo, però, che tale strumento «deve essere utilizzato dall’amministrazione finanziaria con particolare cautela, dovendosi sempre tener presente che l’impiego di forme contrattuali e/o organizzative che consentano un minor carico fiscale costituisce esercizio della libertà d’impresa e di iniziativa economica nel quadro delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario»; Cass., sez. un., sentenze n. 30055, 30056 e 30057 del 2 dicembre 2008, depositate il 23 dicembre 2008, con le quali le sezioni unite della S.C. statuiscono l’esistenza di un principio generale non scritto volto a contrastare le pratiche consistenti in un abuso del diritto e ciò non soltanto nel settore fiscale ma anche in campi diversi dal settore tributario) (2). [Omissis] Si rende necessario individuare oggettivi parametri di riferimento che possano orientare l’amministrazione finanziaria, prima, ed il giudice tributario, poi, nell’accertamento di attività ritenuta abusiva, onde evitare l’insopportabile rischio di incorrere in abusi. Il che si dice in ordine a quei settori per i quali già non esista, in ambito tributario, una specifica normativa, come accade, ad esempio, nel caso di partecipazioni sociali o operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale. [Omissis] Nel caso di atti, fatti, negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti (art. 37-bis, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600). Occorrerà, poi, stabilire in che modo, in una così delicata materia, venga ripartito, tra le parti, l’onere probatorio. Per la individuazione di un parametro di riferimento, soccorre la Corte di giustizia CE, la quale, investita dalla Corte di Cassazione sulla interpretazione della VI direttiva del Consiglio 77/388/CEE del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, ed in particolare sulla richiesta se tale direttiva «debba essere interpretata nel senso che l’esistenza di una pratica abu-


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siva può essere riconosciuta allorché lo scopo essenziale dell’operazione o delle operazioni in questione è costituito dal perseguimento di un vantaggio fiscale, oppure se essa può essere riconosciuta solo qualora il perseguimento di tale vantaggio fiscale costituisca l’unico scopo perseguito, ad esclusione di altri obiettivi economici», ha statuito, con la sentenza 21 febbraio 2008 (causa C425/2006), che la suddetta direttiva «deve essere interpretata nel senso che l’esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale dell’operazione o delle operazioni controverse. È compito del giudice del rinvio determinare, alla luce degli elementi interpretativi forniti dalla presente sentenza, se (nella specie, ai fini dell’applicazione dell’Iva) operazioni come quelle controverse nella causa principale possano essere considerate rientranti in una pratica abusiva ai sensi della VI direttiva 77/388/CEE». Quel che, dunque, ai fini che ne occupano, rileva è che l’accertamento deve essere rivolto a considerare non lo scopo esclusivo, ma la causa principale dell’operazione ritenuta abusiva. Quanto all’onere della prova, il recente insegnamento della Suprema Corte (Cass., 21 gennaio 2009, n. 1465) (3), pone tale onere a carico dell’amministrazione finanziaria, ritenendo non sufficiente, ai fini di considerare l’elusività di un’operazione, l’assenza di motivi economici e che è onere dell’ amministrazione indicare le supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici, ritenute come irragionevoli in una normale logica di mercato se non per pervenire al risultato di vantaggio fiscale. Incombe, invece, al contribuente allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti. Nella specie, era accaduto che, nel corso del 2001, il ricorrente sig. R.C. aveva donato la [...] (terreno edificabile), sita in [...] alla propria moglie, signora M.B., la quale, dopo pochi mesi, l’aveva venduta ad un soggetto terzo, per un prezzo pari a quello del valore della donazione. Attraverso questa operazione, non erano state dichiarate plusvalenze imponibili ai fini delle imposte dirette. Ritenendo che il doppio trasferimento del bene non fosse stato assistito da idonee ragioni, l’ufficio, in applicazione dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 (per il quale «in sede di rettifica o d’accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona»), ha emesso l’avviso di accertamento impugnato, ritenendo che «le operazioni poste in essere sono state costruite artificialmente, esclusivamente al fine di azzerare completamente la plusvalenza imponibile ai fini delle II.DD. in capo al signor C.R. generatasi dalla cessione della [...] sita in [...] di complessivi mq 899,00 interponendo fittiziamente la moglie di quest’ultimo». A pagina 10 della memoria di costituzione, l’ufficio rileva, però, che «il diritto di proprietà sul fondo è stato effettivamente trasferito prima dal marito alla moglie e poi da questa ad un soggetto terzo». Il che equivale a ritenere che i trasferimenti siano stati effettivamente voluti dalle parti e che, quindi, non sia possibile ri-

ferirsi alla simulazione relativa, posto che questa postula una manifestazione divergente dalle volontà delle parti, ma, come meglio si precisa nella suddetta memoria, all’abuso del diritto. Nel senso che, i due negozi (quello della donazione e quello, successivo, della compravendita) sarebbero stati finalizzati, nell’ottica dell’ufficio, ad ottenere esclusivamente un risparmio di imposta (pari a circa euro 100.000). In particolare, la donazione avrebbe avuto lo scopo non già di beneficiare la signora B., ma di recuperare, attraverso la successiva vendita, eseguita distanza di pochissimo tempo (appena due mesi) al prezzo pari al valore della donazione, l’imposta prima scontata. Il che – sempre a parere dell’ufficio – non sarebbe stato possibile ove la vendita fosse avvenuta direttamente tra il ricorrente e il terzo. In siffatta ottica, l’effetto della doppia alienazione del terreno sarebbe stato duplice: da un lato avrebbe monetizzato l’immobile in danaro; dall’altro, avrebbe consentito di ottenere il recupero dell’imposta. Atteso, però, che l’ufficio, per un verso, ritiene che il ricavato della vendita sarebbe entrato nel patrimonio esclusivo del ricorrente e, per l’altro verso, ammette che la proprietà dell’immobile ebbe effettivamente a trasferirsi in capo alla donataria (tant’è che invoca non la simulazione relativa, ma l’abuso del diritto), deve escludersi, per la contraddizione che non lo consente, in verificarsi del primo supposto evento e cioè l’acquisizione al ricorrente del ricavato della vendita. Con la donazione, infatti, il terreno era entrato nel patrimonio personale della donataria (art. 179, comma 1, lett. b, c.c.) e così anche il conseguente ricavato della vendita (oggetto soltanto di comunione de residuo: art, 177, comma l, lett. b, c.c.). A parte tale assorbente rilievo, la costruzione operata dall’ufficio, se anche fosse ipotizzabile in astratto, non appare sorretta dal necessario supporto probatorio, quale, ad es., la necessità di acquisire danaro liquido in presenza di debiti da estinguere o in vista di spese da effettuare da parte del ricorrente. Solo in presenza di un diverso interesse del ricorrente, rispetto a quello di beneficiare la propria consorte, sarebbe stato possibile rendere non opponile all’amministrazione finanziaria il negozio di donazione, atteso che, in siffatta evenienza, sarebbe risultato stravolto lo scopo tipico della donazione per conseguire un vantaggio fiscale e sarebbe stato, conseguentemente, dimostrato l’abuso del diritto. Ma, di una tale dimostrazione – il cui onere era a carico dell’ufficio – non vi è traccia in atti. Tale non è il patto matrimoniale secondo cui una parte del ricavato compreso tra lo 0 ed il 20% sarebbe dovuta rientrare nella disponibilità della famiglia per spese riguardanti la casa, viaggi comuni e spese per la salute, trattandosi di una obbligazione assuntasi dalla donataria. Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso deve essere ritenuto meritevole di accoglimento. La complessità della materia costituisce, ad avviso di questo giudice tributario, giusto motivo per ritenere le spese di lite integralmente compensate tra le parti.


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VIII 54 Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sez. III, 28 gennaio 2009, n. 6 Presidente e Relatore: Tomaselli Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Operazioni straordinarie di fusione e scissione, in alternativa ad operazioni di altro genere (cessione di quote sociali) - Diritto dell’imprenditore di scegliere la forma di conduzione dei propri affari - Lecito risparmio d’imposta - Inapplicabilità dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 - Mero aggiramento di norme - Sanzioni - Inapplicabilità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 123, comma 4) Quando operazioni straordinarie di fusione e di scissione, in alternativa ad operazioni di altro genere (ad esempio, cessione di quote sociali) siano state poste in essere per conseguire un’effettiva riorganizzazione societaria, il risparmio di imposta non risulta indebito, avendo l’imprenditore o il contribuente il diritto di scegliere la forma di conduzione dei propri affari che gli permette di limitare, per quanto possibile, la contribuzione fiscale, principio ribadito anche dalla giurisprudenza comunitaria; non è, quindi, applicabile da parte dell’ufficio l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, né potrebbero essere applicate sanzioni in presenza di un mero aggiramento di norme. Svolgimento del processo Con ricorso ritualmente notificato e depositato B.G. S.p.A. (incorporante delle C.M. S.p.A.) impugnava l’avviso di accertamento in materia Irpeg e Irap emesso per l’anno d’imposta 2003 dall’Agenzia delle Entrate. L’ufficio, a seguito di processo verbale del 21 ottobre 2005 della Guardia di Finanza e previa richiesta di chiarimenti ai sensi dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, ha emesso l’avviso impugnato, evidenziando il carattere elusivo dell’operazione di fusione nelle C.M. e di successiva scissione della società P. S.p.A. In particolare, le riprese operate dall’amministrazione finanziaria riguardavano l’omessa ricostituzione delle riserve in sospensione d’imposta, con recupero ad imposizione dei vantaggi conseguiti per euro 5.829.232,00, nonché 1’indebita deduzione di componenti negativi di reddito per euro 1.426.177,00. A sostegno del gravame la ricorrente formulava una serie di osservazioni giuridiche, dalle quali si desume che gli atti in parola non risulterebbero conformi alla vigente disciplina normativa, sostenendo di essere del tutto estranea rispetto ai comportamenti elusivi asseritamente addebitati. L’Agenzia delle Entrate si costituiva in giudizio, controdeducendo alle eccezioni di parte ricorrente e, conclusivamente, chiedendo il rigetto del ricorso. All’udienza del 15 luglio 2008 la causa veniva trattenuta in decisione. Motivi della decisione Il ricorso appare parzialmente fondato. 1. Anzitutto, occorre rilevare, in fatto, che il G.M. nel corso del 2003 è stato interessato da alcune operazioni straordinarie di fusione e scissione che ne hanno modificato la struttura finanziaria ed operativa. Dette operazioni si sono concretizzate attraverso una fusione per incorporazione in C.S.V. S.p.A. (poi C.M. S.p.A.) di alcune società controllate da quest’ultima (C. di T. S.p.A., C. di V. S.p.A., P.I.G. e C. S.p.A. e M.G.I. S.r.l.) ed una contestuale scissione dei rami di azienda legati all’attività t. e immobiliare (P.I.G. e C. S.p.A., L.M.E. e I.B.). I1 disegno organizzativo del G.M. era

quello di concentrare in un unico polo le società del gruppo operanti nel settore c. ed effettuare successivamente l’integrazione con il G.B. La scissione dei rami d’azienda c.t. e immobiliare sarebbe stata effettuata perché non erano interessati all’acquisizione da parte della B. S.p.A. Con l’avviso di accertamento in contestazione, basato sul processo verbale di constatazione del 21 ottobre 2005 redatto dalla Guardia di Finanza, nucleo regionale del Veneto, sono stati operati due rilievi: l’omessa ricostruzione di riserve in sospensione di imposta per euro 5.929.232,00 e l’indebita deduzione di componenti negativi di reddito per euro 1.426.177,00. In particolare, l’ufficio ha riscontrato il carattere elusivo dell’operazione di fusione per incorporazione in C.S.V. S.p.A. (poi C.M. S.p.A.) della P.I.G. e C. e contestuale scissione della stessa P., in quanto, ai sensi dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, risulterebbe effettuata senza validi fini economici ed allo scopo di ottenere riduzioni o rimborsi di imposte, aggirando obblighi o divieti posti dall’ordinamento tributario. 2. Con un primo ordine di censure viene contestata la pretesa dell’ufficio, sulla omessa ricostituzione delle riserve in sospensione d’imposta, volta ad affermare la sussistenza e correttezza della fattispecie impositiva gravata. 2.1. Aspetti elusivi, secondo l’ufficio, potrebbero rilevare nelle seguenti circostanze: - nella stessa data 1 maggio 2003 sono state effettuate due operazioni straordinarie (fusione e scissione), operazioni che, seppur coincidenti nella data, hanno effetti esattamente contrari; - con tali operazioni comunque è rimasta invariata la posizione dell’incorporata-beneficiaria (P.I.G.), la quale, come unica società del gruppo operante nel settore g e c, nella previsione dello stesso piano di ristrutturazione, doveva rimanere indipendente dalle altre società del gruppo c; - la fusione di P. S.p.A. e contestuale scissione si è concretizzata di fatto in un semplice passaggio di quote da C.M. S.p.A. alla holding G.M. S.p.A. Ad avviso dell’ufficio, le descritte operazioni non sarebbero sorrette da valide ragioni economiche, tali, in particolare, da giustificare il ricorso a due attività complesse quali la fusione e la scissione, posto che lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere attraverso istituti tipici più lineari, quali il conferimento, lo scambio di partecipazioni con la controllante o la cessione di quote. Inoltre, il vantaggio economico realizzato attraverso dette operazioni si sarebbe concretizzato nell’utilizzo dell’avanzo da annullamento che la fusione ha generato; avanzo, poi, interamente utilizzato per ricostituire le riserve indisponibili delle società incorporate, stabilendo, infatti, l’art. 123, comma 4, del T.U.I.R., l’obbligo per la società incorporante di ricostituire le riserve in sospensione di imposta delle società fuse. Secondo i verificatori detta ricostituzione poteva anche avvenire attraverso l’utilizzo di strumenti alternativi (ad esempio, con l’uso di riserve disponibili dell’incorporante, oppure mediante versamenti in conto capitale dell’incorporante stessa, oppure vincolando parte del capitale sociale). In sostanza – ad avviso dell’ufficio – il ricorso a tali metodi alternativi avrebbe reso indisponibili le poste del patrimonio netto utilizzate e/o avrebbe costretto l’incorporante, in ottemperanza a quanto stabilito dal comma 4 dello stesso art. 123, a tassare le riserve non ricostituite nel bilancio post-fusione. 2.2. L’assunto dell’ufficio non appare condivisibile. Osserva, anzitutto, il Collegio che la motivazione per cui le operazioni di fusione e di scissione, in alternativa ad altro genere (co-


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me per es. la cessione di quote sociali), sono state poste in essere rimane nell’ambito di quell’autonomia negoziale riconosciuta dall’ordinamento, per quanto la vicenda meriti approfondimento. Ora, sulla base degli interventi operati in materia della Corte di giustizia comunitaria ed, in particolare, secondo la sentenza Halifax, l’esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta, allorché le operazioni controverse abbiano il risultato di procurare un vantaggio fiscale contrario all’obiettivo perseguito dalle disposizioni richiamate, e allorché, dall’insieme degli elementi oggettivi emersi, risulti che lo scopo. sia essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale, precluso, di norma, dalla realtà economica dei negozi, se conclusi in modo ortodosso, e senza secondi fini. Nell’ordinamento nazionale, affinché un’operazione possa dirsi elusiva ai sensi dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, si devono verificare puntualmente i presupposti richiesti dalla vista disposizione (assenza di valide ragioni economiche, indebito risparmio d’imposta, aggiramento di una norma). Sul requisito dell’esistenza o meno di valide ragioni economiche si osserva che l’operazione di fusione-scissione è stata effettuata per escludere dal piano organizzativo del G.M. le attività della P., che non erano oggetto di integrazione con il G.B. In particolare, si è proceduto ad incorporare la società P., in quanto la fusione è stata comunque effettuata al chiaro scopo di riunire nella c. M. tutte le società c. del G. Ragionevolmente, inoltre, in virtù delle partecipazioni incrociate tra le varie società del G.M. interessate alla fusione (e questo è anche un coerente motivo per cui, con riferimento alla P., non è stata effettuata un’operazione identica a quella svolta per altre società immobiliari, non oggetto di integrazione con il G.B.) ed al fine di non procedere ad ulteriori atti rispetto a quelli essenziali all’operazione in parola (quali, la cessione delle quote o un atto di conferimento con costituzione di una nuova società, come ipotizzato dall’ufficio), che avrebbero comportato un aggravio di costi e di tempi (la perizia di stima del ramo aziendale poteva in effetti richiedere tempi lunghi), si è ritenuto più semplice, ed opportuno procedere con l’incorporazione della P. Poi, come per le società immobiliari, si è scorporato il ramo d’azienda della P. dal perimetro oggetto di integrazione, per attribuirlo alla holding gruppo M. S.p.A. Lo scambio di partecipazioni con la società controllante – adombrato dall’ufficio – non sarebbe, dunque, stato possibile, in quanto, oltre a richiedere da parte della holding gruppo M. S.p.A. l’acquisto di azioni proprie, avrebbe comportato che la cartiera M. sarebbe divenuta socio della stessa holding, circostanza chiaramente non desiderata dalla ricorrente. Quanto al risparmio d’imposta, non sembra significativamente rinvenibile una connotazione indebita dell’operazione contestata, anche in relazione alla insufficiente valenza probatoria della documentazione in atti. Va premessa anzitutto un’osservazione fondamentale, ancora una volta ricavata dalla sentenza Halifax, secondo cui l’imprenditore o il contribuente ha il diritto di scegliere la forma di conduzione dei propri affari che gli permette di limitare, per quanto possibile, la sua contribuzione fiscale. Al riguardo, si osserva che le riserve in sospensione d’imposta ricostituite, non solo sono state affrancate ai fini Irpeg pagando un’imposta sostitutiva del 19%, come consentito dalla legge, ma sono state anche distribuite nel 2003 e 2004, con il relativo pagamento dell’Irap. È, di conseguenza, palese che la società non aveva alcun interesse a fare emergere un avanzo per ottenere un importo maggiore di riserve disponibili. In ipotesi, al contrario, che la ricorrente avesse vincolato il capitale sociale, come richiesto dall’ufficio, la società avrebbe avuto addirittura maggiori riserve libere da distribuire, senza, tra l’altro, subire alcuna imposizione, concretandosi il capitale in una

posta indisponibile dal punto di vista civilistico. La società, pertanto, si è limitata a ricostituire nel proprio bilancio post-fusione le riserve in sospensione, utilizzando le poste di patrimonio a sua disposizione, come richiesto dal legislatore, senza eludere alcuna norma. Di qui l’infondatezza della ripresa a tassazione. 3. Con un secondo ordine di censure viene contestata la pretesa dell’ufficio sull’asserita indebita deduzione di componenti negativi di reddito per euro 1.426.177,00. Al riguardo, l’ufficio ritiene che siano stati indebitamente dedotti i costi sostenuti con soggetti residenti in Paesi a fiscalità privilegiata, in quanto, in sede di verifica ed in risposta all’apposita richiesta dell’ufficio, formulata al sensi dell’art. 76, comma 7-ter, del T.U.I,R., la ricorrente non avrebbe fornito le esimenti di cui al precitato art. 76 (ora 110) del T.U.I.R.: di qui il recupero a tassazione e l’irrogazione della sanzione di infedele dichiarazione. Osserva il Collegio che, in relazione ai rapporti economici con Paesi a fiscalità privilegiata, sui componenti negativi portati in deduzione grava l’onere documentale a carico del: contribuente di fornire la prova delle esimenti. Se la parte non dimostra tali esimenti, la ripresa operata risulta corretta. Infatti, ai sensi dell’art. 76, comma 7-bis, del D.P.R. n. 917/1986 (dal 1 gennaio 2004: art. 110) «non sono ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse. tra imprese residenti ed imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati». Viene stabilito un principio generale di indeducibilità delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese domiciliate in Stati aventi regimi fiscali privilegiati. A tale principio si può derogare solo allorquando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva e che le operazioni rispondano ad un effettivo interesse economico e abbiano avuto concreta esecuzione. 3.1. La C.M. S.p.A. ha dedotto l’importo di euro 251.613 relativo ad asserite prestazioni di consulenza ricevute da B., residente a Montecarlo (Principato di Monaco). La ricorrente sostiene che B. ha prestato servizi di consulenza e, pertanto, i relativi costi non rientrerebbero nella disciplina di deducibilità di cui all’art. 76, comma 7-bis, del T.U.I.R. Il Collegio è, invece, portato a ritenere che le prestazioni rese da B. siano qualificabili come prestazioni di servizi rese nell’esercizio di impresa e non da un professionista. Sul punto, si ritiene che il criterio per interpretare la volontà negoziale racchiusa negli atti, ed il suo inquadramento in uno schema negoziale piuttosto che in un altro, non possa che rifarsi ai criteri stabiliti dagli artt. 1362 ss., c.c. Tanto si rileva, infatti, sia dall’analisi di talune clausole contrattuali (allegato 12 di parte ricorrente), sia dal tenore di alcune comunicazioni di B. alla M.G., laddove emerge come l’attività del B. non sia stata astrattamente di consulenza, ma sostanzialmente di intermediazione e di fatto assimilabile ad un rapporto di agenzia, così come definito dalle norme del Codice civile. In proposito, se l’incarico conferito al B. era quello di divulgare e pubblicizzare i prodotti della C. di S. S.p.A. e della C. di T. S.p.A. (poi C.M. S.p.A.) presso alcuni grandi gruppi f (G.H.L. e G.H.F.),occorre sottolineare che nello svolgimento dell’incarico il B. doveva individuare il personale in grado di determinare la politica di acquisto delle ridette aziende, organizzare incontri diretti ad illustrare le caratteristiche del. prodotto M., redigere relazioni periodiche sulla propria attività, illustrando le necessità dei clienti; nonché comunicare eventuali contestazioni sulla qualità del prodotto fornito. E sebbene al punto 2.2 del contratto stipulato tra il B. e la C. di S. in data 1 gennaio 1999 (allegato 10 di parte ricorrente) si esclude che l’incarico sia comprensivo della facoltà della tratta-


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zione del prezzo e conseguentemente dell’acquisizione degli ordini, nelle comunicazioni prodotte, appare evidente come l’attività del B. fosse rivolta alla conclusione di contratti di vendita. Invero, B. viene definito nella contabilità della società come «procacciatore» e il corrispettivo riconosciutogli (art. 3 del contratto sopra citato) viene calcolato quale provvigione sull’importo fatturato. Si sottolinea, altresì, che – se gli elementi probatori di cui al Pvc redatto dalla Guardia di Finanza godono di pubblica fede per i fatti e gli eventi rilevati in presenza dei verbalizzanti – gli ulteriori elementi in esso contenuti, privi di rilevanza probatoria con pubblica fede, possono, comunque, avere rilevanza probatoria di natura documentale o indiziaria. In definitiva, per quanto concerne B., non pare trattarsi di un rapporto di consulenza (come vorrebbe la ricorrente, atteso che nel 2003 i relativi costi non rientravano nella disciplina di deducibilità di cui all’art. 76, comma 7-bis, del T.U.I.R.), bensì di intermediazione e di fatto assimilabile ad un rapporto di agenzia (come sostiene fondatamente l’ufficio e quindi indeducibili, trattandosi di imprese domiciliate in Stati della cd. black list). Quindi, del tutto corretto appare il recupero ad imposizione del costo sostenuto di euro 251.613,00. 3.2. La C.M. S.p.A., ha acquistato dalla società S.P.H. (Hong Kong) C. per la produzione di C. per l’importo complessivo di euro 1.174.564,00. L’ufficio ritiene che la documentazione fornita dalla parte al fine di richiedere la disapplicazione dell’art. 76, comma 7-bis, del T.U.I.R. permetta solo di dimostrare la mera esistenza formale di una società estera: essa non sarebbe tuttavia sufficiente a dimostrare anche lo svolgimento di un’attività commerciale effettiva, ai sensi dell’art. 2195 c.c., tramite una struttura organizzativa idonea. La documentazione prodotta sarebbe dunque insufficiente sia ai fini della dimostrazione della concreta esecuzione delle operazioni, sia dell’effettivo interesse economico perseguito. Ai sensi dell’art. 76, comma 7-ter, del T.U.I.R. n. 917/1986 per la deducibilità dei costi in esame è comunque richiesto che il contribuente fornisca la prova che le imprese estere svolgano prevalentemente un’attività commerciale effettiva e che le operazioni rispondano ad un effettivo interesse economico e abbiano avuto concreta esecuzione. Osserva il Collegio che, sul caso S.P.H. di Hong Kong la ricorrente ha provato entrambe le esimenti di cui all’art. 76, comma 7-ter, al fine di richiedere la disapplicazione dell’art. 76, comma 7-bis, del T.U.I.R. Infatti, sono stati esibiti i certificati di iscrizione presso il registro

locale delle società (allegato 21 di parte ricorrente) ed è stato documentato che S. svolge prevalentemente un’attività commerciale effettiva e che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico ed hanno avuto concreta esecuzione. In particolare, sul secondo requisito sostanziale recato dall’art. 110 del T.U.I.R., ovvero il fatto che le «operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione», è stato osservato che le medesime operazioni rispondevano ad un preciso interesse delle C.M., in quanto si tratta di merce reperibile in quei mercati a prezzi particolarmente convenienti: e sul punto, l’ufficio nel proprio avviso di accertamento aveva sostenuto l’assenza di vari pagamenti, che risultano, invece, prodotti nell’allegato 24 al ricorso introduttivo. E nella specie le operazioni di compravendita hanno avuto concreta esecuzione, attesa anche la inerente documentazione doganale esibita (allegato 24 di parte ricorrente). Pertanto, nel caso in esame può ritenersi soddisfatta la vista esimente. 4. Sulla presunta violazione dell’art. 10 dello Statuto (legge n.212/2000) e degli artt. 5, 6 e 17 del D.Lgs. n. 472/1997, la ricorrente sostiene che l’applicazione della norma antielusiva ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 non può essere causa di sanzioni vista la liceità della condotta posta in essere, asserendo inoltre che il disconoscimento di vantaggi tributari sarebbe già di per sé una sanzione. Osserva il Collegio che nella norma ex art. 37-bis non è comminata alcuna sanzione, salvo il sussistere di un riferimento nel sesto comma, ma trattasi di un automatismo derivante dal richiamo all’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992. Del resto, la figura della sanzione non sarebbe coerente con la fattispecie elusiva ove, in sostanza, si realizza un aggiramento delle norme, ma non la loro violazione, mentre il D.Lgs. n. 472/1997, applicato dall’ufficio, attiene peculiarmente alle sanzioni connesse alle violazioni della normativa fiscale. Dunque, il disconoscimento dei vantaggi tributari conseguiti rappresenta già in sé una sanzione sufficiente per un comportamento che, per aspetti diversi da quelli riferibili all’art. 37-bis, appare lecito. 5. Per le suesposte considerazioni, il ricorso va quindi parzialmente accolto, restando salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione. Quanto al carico delle spese di giudizio, è avviso del Collegio che la particolarità della vicenda ben giustifichi la loro integrale compensazione fra le parti in causa.

IX 55 Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XXXVII, 29 aprile 2008, n. 35 Presidente: Sacchi - Relatore: Strati Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Cessioni di crediti realizzate in collegamento negoziale Applicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Sussistenza di valide ragioni economiche - Prova - Onere a carico del contribuente (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 previgente, art. 61, comma 5) È priva di valide ragioni economiche, la cui prova grava sul contribuente, una operazione di cessioni di crediti, previste dal terzo comma dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, quando venga posta in essere una complessa operazione di ingegneria finanziaria e societaria nell’ambito di un gruppo multinazionale, al solo scopo di conseguire un risparmio indebito d’imposta, derivante dall’aumento delle perdite deducibili.

Svolgimento del processo Con ricorso prodotto alla Commissione tributaria provinciale di Milano, la C.A. S.r.l. ha impugnato l’avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate aveva determinato per il periodo 10 luglio 1999-30 giugno 2000 un’imposta di lire 2.769.655.000 pari ad euro 1.430.407,43. oltre la sanzione al minimo, il tutto tenuto conto della quota integrata d’imposta ex art 8 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, in quanto aveva rettificato per lo stesso periodo il reddito d’impresa, imponibile Irpeg, di lire 7.485.553.000 ottenuto per differenza fra la perdita dichiarata in lire 2.397.709.000 e la perdita non riconosciuta di lire 9.884.355.774 transitata nel bilancio della ricorrente come provenienti; quale perdita dichiarata da I.C. S.r.l. interamente partecipata dalla prima. L’atto impositivo trae fondamento dalla


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inopponibilità ex art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 dei vantaggi fiscali, corrispondenti alla perdita non riconosciuta, conseguiti attraverso gli atti posti in essere dalla ricorrente sulla base di taluni fatti la cui ricognizione parte da una segnalazione dell’ufficio di Trento dell’Agenzia delle Entrate in data 22 giugno 2004 di alcune operazioni ritenute sospette e a loro volta scaturite da un processo verbale di constatazione redatto in sede di verifica della I. S.r.l. Tali fatti ed operazioni, possono essere rappresentati come segue. 1) A fine esercizio 1998 la I. S.p.A., con sede legale in Trento, esercente attività di commercio di materiale di cancelleria, totalmente detenuta dalla società di diritto lussemburghese S.I.C., registrava debiti verso vari istituti di credito per complessive lire 33.852.093.687. Il maggior creditore era il C.L. per un ammontare di lire 16.283.253.25 (poi ridotto a lire 13.283.253.025 mediante un rimborso di I. di lire 3.000.000.000 effettuato in virtù del versamento di pari importo a fondo perduto da parte della società lussemburghese socio uscente), mentre una serie di altre banche vantava crediti per complessive lire 17.568.840.662. 2) Il C.L. acquista i crediti delle altre banche con un esborso di lire 8.179.394.254 per effetto di svalutazione da parte delle diverse banche di tali crediti al 36% quelli a medio termine e al 60% quelli a breve termine. Il C.L. rimane unico creditore di I. non di complessive lire 21.462.647.279, come erroneamente affermato dal primo giudice, ma di complessive lire 30.852.093.687 (17.568.840.662 e 13.283.253.025) a nulla rilevando che i crediti vantati dalle altre banche siano stati acquistati con l’esborso del minor importo su indicato. 3) La ricorrente costituisce una N.C., la I.C. S.r.l., da essa partecipata interamente, la quale I.C. acquista dalla società lussemburghese l’intero pacchetto azionario di I. per il prezzo simbolico di lire 1.000 (mille) in quanto si assume l’onere dei debiti della società medesima. 4) Il C.L. cede alla I.C. l’intero credito vantato nei confronti di I. per il prezzo dichiarato di lire 21.462.647.279 (che corrisponde alla somma del proprio originario credito di lire 13.283.253.025 più l’esborso di lire 8.179.394.254 per l’acquisto dei crediti delle altre banche) pattuendone il pagamento in due rate come segue: la prima di lire 11.052.194.343 estinguibile entro la data del 31 luglio 2000, la seconda di lire 10.410.452.936 estinguibile entro la data del 31 luglio 2004. Il pagamento della prima rata da parte di I.C. viene concordato mediante un’apertura di credito, concessa dallo stesso istituto, fruttifera di interessi. Con scrittura del 22 marzo 1999 I.C. dà in pegno al C.L. le azioni I. a garanzia del pagamento del credito derivante dalla sua cessione. 5) Al contempo, fra il C.L. e la ricorrente si conclude un accordo mediante il quale: a) alla ricorrente viene concessa un’opzione dell’acquisto del credito vantato dall’istituto verso I.C., da esercitarsi tra il 1 ed il 31 luglio 2000, mediante il pagamento di un corrispettivo di lire 11.052.194.343 più un importo pari alla differenza tra il 50% del prezzo pattuito per la vendita di I. o di I.C. e lire 5.000.000.000; b) la ricorrente si impegna a fornire mezzi propri a I.C. per 21 miliardi di lire e a far sì che questa ricapitalizzi I. con immissione di liquidità per 4 miliardi di lire, ed inoltre si impegna a cedere la partecipazione I.C. o a far sì che questa ceda la partecipazione in I. alle stesse condizioni entro il 31 luglio 2004, riconoscendo all’istituto di credito il diritto di prelazione sulla cessione. 6) In esecuzione di tali patti del marzo 1999, la I.C. ripiana il debito di I., emergente nell’esercizio 1998 pari a lire 24.962.022.207, mediante una serie di operazioni descritte in dettaglio nell’atto impositivo, e per effetto della rinuncia ai crediti acquisiti per lire 21.462.647.279 e dei versamenti a copertura delle perdite e del capitale, il costo della partecipazione I. diventa pari a lire 24.028.723.365.

7) Nel marzo del 2000, la I.C. riceve un’offerta di acquisto della partecipazione I. per lire 11.052.194.343 da parte della D.H., società di diritto lussemburghese e quindi la ricorrente chiede al C.L., che acconsente, di esercitare anticipatamente l’opzione di acquisto dei crediti verso I.C. Entro la fine dello stesso mese viene perfezionata (a) tra I.C. e D. la cessione della partecipazione I. e (b) tra C.L. e la ricorrente la cessione dei crediti dell’istituto verso I.C. e la ricorrente versa l’importo complessivo di lire 11. 578.291.515, che corrisponde alla prima rata di lire 11.052.194.343 più lire 526.097.172 per la seconda rata corrispondente alla differenza fra il 50% del prezzo di cessione di I. e cinque miliardi di lire, come convenuto. 8) Con delibera 3 aprile 2000 I. ripiana il debito dell’esercizio 1999 di lire 4.671.555.530, da un lato mediante azzeramento del capitale di lire 1.400.000.000 e rinunzia a finanziamenti di lire 2.200.000.000 con versamenti di lire 471.555.530, e dall’altro lato ricostituisce il capitale a lire 2.000.000.000 ma versandone solo lire 600.000.000, di talché il costo della partecipazione I. si attesta, nell’arco di un anno, in lire 27.300.278.895. 9) I.C. realizza una minusvalenza di lire 16.248.074.552, pari alla differenza dei costi di lire 27.300.278.895 per la partecipazione di I. ed il prezzo di cessione della stessa di lire 11.052.194.343, minusvalenza che viene imputata i al fondo svalutazione già costituito nel bilancio al 31 dicembre 1999 e dedotta con variazione in diminuzione nella dichiarazione dei redditi 2000, concorrendo alla realizzazione di una perdita di lire 16.647.646.508. Ma tali effetti in realtà si manifestano in favore della ricorrente nel cui bilancio transita la perdita medesima per effetto dell’operazione di acquisto dei crediti di cui al precedente punto 7. 10) La ricorrente nel maggio 2000 copre la perdita di I.C. mediante rinunzia ai crediti di lire 16.740.612.794 e ai finanziamenti erogati di lire 6.371.555.530 e con azzeramento del capitale. Le remissioni di debito a copertura di perdite, nel limite del costo di acquisto dei correlativi crediti e per l’intero importo dei finanziamenti, vengono dedotte dalla ricorrente secondo le disposizioni dell’art. 61, comma 5, del T.U.I.R. mediante la deducibilità di lire 16.740.612.794. Sennonché, sostiene l’Agenzia delle Entrate, mentre i flussi di cassa indicano un incasso della cessione della partecipazione I. di lire 11.052.194.343 a fronte dell’acquisto di crediti per lire 11.578.291.515, con una differenza negativa di lire 526.097.172, solo in conseguenza dell’acquisto del credito da parte di I.C. per lire 21.462.647.279 anziché per lire 11.578.291.515, si è determinato un risultato negativo per quest’ultima società di lire 10.410.452.936 che, aggiunto all’ammontare dei finanziamenti, dei versamenti per ricostituzione del capitale e di quelli a copertura di perdite, ha consentito a quest’ultima società di evidenziare una minusvalenza di lire 16.248.074.552, di cui sopra si è detto al punto 9, e la conseguente perdita poi transitata nel bilancio della società ricorrente e dedotta ai sensi della norma predetta. Tuttavia, in realtà, conclude l’Agenzia, non si è verificata una perdita effettiva in quella misura ma solamente nella minor misura di lire 526.097.162 a fronte del vantaggio della deduzione fiscale di lire 10.410.452.936, per cui la ricorrente ha potuto dedurre una perdita eccedente determinabile in lire 9.884.355.764, vantaggio fiscale dell’operazione disconosciuta ai sensi dell’art. 37-bis sopra citato [del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, n.d.r.]. Occorre dare atto che in data 18 ottobre 2004 l’Agenzia aveva chiesto i chiarimenti di cui all’art. 37-bis citato che sono stati dati ma non sono stati ritenuti soddisfacenti per cui è stato emesso l’avviso di accertamento sopraindicato. Con il ricorso notificato in data 28 febbraio 2005 la società deduceva: a) la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per violazione dell’art. 60, primo comma, lett. e, del D.P.R. 600/1973, dell’art. 145, comma 3, c.p.c., e dell’art. 60, primo comma, lett. e, del D.P.R. citato e dell’art. 140 c.p.c., b) la


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nullità derivata dalla nullità della notificazione; c) la nullità per intervenuta decadenza ai sensi dell’art. 43 del D.P.R. citato; d) l’illegittimità dell’accertamento per violazione dell’art. 37-bis del D.P.R. citato. [Omissis] Con sentenza n. 282/14/2006 pronunciata il 14 novembre 2006 e depositata il 13 dicembre 2006 la Commissione adita accoglieva il ricorso annullando l’avviso di accertamento. [Omissis] Motivi della decisione [Omissis] Le ragioni poste a sostegno dell’avviso di accertamento sono fondate mentre devono essere disattese le ragioni contrarie sostenute dalla ricorrente società ora appellata. [Omissis] A conclusione di questa breve disamina della disciplina dell’elusione tributaria, si può dire che intanto sussisterà elusione d’imposta in quanto il contribuente abbia tenuto comportamenti 1) che abbiano comportato l’utilizzo di una o più delle operazioni indicate al terzo comma [dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, n.d.r.], 2) privi di valide ragioni economiche, 3) diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario, 4) tesi a perseguire un risparmio d’imposta disapprovato dal sistema. Di conseguenza, allorché manchi anche uno soltanto dei detti requisiti, l’operazione non potrà essere qualificata elusiva (come chiarisce la stessa amministrazione finanziaria con la risoluzione 28 febbraio 2002, n. 62/E). Venendo al riscontro dei detti requisiti nel caso di specie, occorre dire, per quanto riguarda il primo, che sono state utilizzate le operazioni di cessione dei crediti previste dal terzo comma dell’art. 37-bis. In ordine al secondo requisito, ricordato che la prova della sussistenza di valide ragioni economiche è a carico del contribuente, va riferito che la società appellata afferma che le trattative e le contrattazioni con il C.L. erano volte alla valorizzazione di un’impresa – la I. S.p.A. – in palese crisi economico-finanziaria e che la finalità era, per C., di poter lucrare sulla successiva cessione, a salvataggio effettuato e, per il C.L., di recuperare integralmente il proprio credito ovvero di massimizzarne il recupero.

La tesi non trova pieno riscontro nei fatti, atti e negozi compiuti. Anzitutto, non è stata provata alcuna operazione tesa alla valorizzazione dell’I. (che era gravata di debiti nei confronti di vari istituti di credito per complessive lire 33.852.093.687), nel senso che tutta la complessa ingegneria finanziaria e societaria messa in atto aveva l’obiettivo di sgravare I. dei debiti per poterla cedere ad un prezzo che consentisse al C.L. il recupero di parte del proprio credito e alla C. un risparmio indebito d’imposta. Infatti, come emerge dalla ricostruzione delle operazioni sopra indicate, in sequenza (a) il C.L. diventa unico creditore di I. avendo acquistato i crediti delle altre banche ad un prezzo di gran lunga inferiore al loro valore nominale, (b) la C. costituisce la N.C.I., di cui detiene l’intera partecipazione, la quale acquista dalla società proprietaria lussemburghese l’intera partecipazione I. per il prezzo simbolico di mille lire, c) I.C. acquista l’intero credito del C.L. pattuendone il pagamento in due rate e nell’accordo interviene la C. che ottiene un opzione di acquisto del credito, (d) la I.C. cede alla società lussemburghese D.H., l’intera partecipazione I., (e) la C. chiede ed ottiene dal C.L., di anticipare l’esercizio di opzione di acquisto dei crediti, costo coperto quasi per intero dal prezzo della cessione di I. Per quanto concerne il terzo ed il quarto requisito, occorre rilevare che, a conclusione della intera complessa operazione che si esaurisce nel breve tempo di circa un anno, il C.L. raggiunge l’obiettivo del recupero di parte del proprio credito nella stessa misura percentuale degli altri istituti di credito e la C. riesce nell’obiettivo di un risparmio d’imposta che è indebito in quanto costituito dalla sovravalutazione del prezzo di acquisto dei crediti pattuito fra C.L. e I.C. rispetto all’effettivo prezzo corrisposto all’istituto di credito, e ciò all’evidente fine perseguito da C. di «gonfiare» le perdite di I.C. da far transitare nel proprio bilancio con sostanziale aggiramento del disposto di cui all’art. 61, comma 5, del T.U.I.R., in quanto la perdita effettiva era molto inferiore, con il conseguimento dell’indebito vantaggio della deduzione fiscale in misura maggiore di quella effettivamente dovuta in base al predetto disposto. Pertanto, il recupero d’imposta operato con l’avviso di accertamento impugnato si appalesa del tutto legittimo ed il ricorso della contribuente deve essere respinto. [Omissis]

X 56 Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XVII, 25 febbraio 2008, n. 2 Presidente: Brignoli - Relatore: Subani Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Acquisto e cessione di azioni alla società controllante ad un prezzo decisamente inferiore al prezzo di acquisto - Aggiramento della norma sulle valutazioni dei titoli immobilizzati - Insussistenza valide ragioni economiche Applicabilità dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 - Mero aggiramento di norme - Sanzioni - Inapplicabilità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 previgente, artt. 54, 61 e 66) Deve ritenersi elusiva e, dunque, inopponibile al fisco ai sensi dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, l’ipotesi di realizzo di una minusvalenza, a seguito dell’applicazione del criterio Lifo, da parte di una società controllata che abbia acquistato azioni e le abbia successivamente rivendute alla società controllante ad un prezzo decisamente inferiore al prezzo di acquisto, senza che sia emersa una valida ragione economica; non sono peraltro applicabili sanzioni, in quanto tale complessiva operazione ha comportato l’aggiramento della norma sulle valutazioni dei titoli immobilizzati, ma non la violazione di norme di legge.

Svolgimento del processo La W.L.G., società di diritto germanico, si obbligava ad acquistare dalla società controllata W.I.F. S.p.A., che a sua volta si obbligava a cederle n. 50.639.000 azioni della B.C. S.p.A. che la W.I.F. S.p.A. stava per acquisire mediante sottoscrizione di una quota di aumento del capitale sociale deliberato dalla B.C. I rispettivi obblighi venivano formalizzati mediante lettera-accordo di data 5 luglio 1999 indirizzata alla W.I.F. S.p.A.; all’art. 5 degli accordi, in particolare, era prevista una speciale formula per la determinazione del prezzo di cessione; era anche stato concordato che la cessione dovesse avvenire il 30 settembre 2002, ovvero, anticipatamente, alle date del 30 settembre 2000 o del 30 settembre 2001. Il consiglio di amministrazione della W.I. in data 2 luglio 1999 aveva deliberato la sottoscrizione delle 50.639.000 e aveva anche deciso di attribuire all’acquisto, sotto il profilo della modalità di iscrizione in bilancio, la funzione di portafoglio «non immobilizzato». L’acquisto veniva poi eseguito nell’agosto 1999, al prezzo di euro 1,5952 per azione. Va anche aggiunto che in data 15 luglio 1999 la stessa società aveva stipulato con la B.C.


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S.p.A. un accordo di collaborazione in determinati settori dell’attività bancaria. Successivamente, nell’ambito di una ristrutturazione del gruppo in cui si prevedeva, tra l’altro, 1’intensificazione del rapporto di collaborazione con la B.C., il consiglio di amministrazione della W.L in data 21 marzo 2002, deliberava di acquistare dalla fondazione C.R.G.I. ulteriori n. 17.598.000 azioni della stessa B.C., previo ottenimento dell’autorizzazione della Banca d’Italia, resasi necessaria in conseguenza del superamento, per effetto del secondo acquisto, della quota del 5% del capitale C. (infatti, il primo acquisto rappresentava il 4,96% del capitale C., costituito da azioni quotate al mercato Mta della Borsa italiana). L’autorizzazione venne rilasciata in data 13 maggio 2002. Nel verbale della predetta riunione del consiglio di amministrazione veniva inoltre evidenziato che nel bilancio chiuso al 31 dicembre 2001 la partecipazione C. era stata collocata tra le immobilizzazioni e non più nel circolante, stante la mutata strategia dell’investimento, ora ritenuto durevole. L’acquisto della seconda tranche veniva perfezionato in data 25 settembre 2002 al prezzo corrente di mercato di euro 1,9651 per azione. In data 30 settembre la W.I. cedeva alla controllante W.L.G. le 50.639.000 azioni al prezzo di euro 1,6192, prezzo determinato con l’applicazione della formula prevista nell’accordo del 5 luglio 1999. La verifica, l’accertamento e la fase processuale. A seguito di una verifica fiscale, ordinata dalla Direzione regionale delle Entrate Lombardia, nei confronti della società appellante, veniva redatto processo verbale di constatazione nel quale si rilevava che la società verificata aveva imputato a conto economico nell’esercizio 2002 una minusvalenza di euro 5.296.925, determinatasi in conseguenza dell’applicazione del criterio Lifo (last in first out) alla cessione di n. 50.639.000 azioni, considerando nel raffronto anche il pacchetto acquistato per ultimo (n. 17.598.000). [Omissis]. I verbalizzanti ritenevano infatti non applicabile anche alle immobilizzazioni finanziarie il criterio specificamente previsto per la valutazione dell’attivo circolante (art. 61 del vecchio T.U.I.R. che regola la valutazione delle rimanenze di magazzino) ed ipotizzavano l’esistenza di una operazione elusiva, ricorrendo le condizioni previste dall’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. L’ufficio faceva propria l’ipotesi elusiva dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 sollevata in sede di processo verbale di constatazione, riteneva la minusvalenza indebitamente dedotta ed includeva nel reddito la plusvalenza come sopra determinata. [Omissis] L’ufficio, ritenuto che le ragioni addotte dalla società non sciogliessero i dubbi sull’operazione, emetteva avviso di accertamento affermando: - che le operazioni del 25 e del 30 settembre 2002 di acquisto e, rispettivamente, vendita, le quali avevano generato la minusvalenza, erano prive di una valida ragione economica; - che l’insieme degli atti (1. spostamento della partecipazione dell’attivo circolante alle immobilizzazioni; 2. acquisto del secondo pacchetto azionario; 3. valutazione secondo il criterio Lifo a scatti; 4. iscrizione della minusvalenza nel bilancio al 31 dicembre 2002) erano stati posti in essere al solo scopo di ottenere una riduzione d’imposta; - che le suddette operazioni tendevano ad aggirare l’obbligo previsto dell’ordinamento tributario di dichiarare la plusvalenza; - che dette operazioni erano perciò «inopponibili» all’amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 37-bis, commi 1,2 e 3, lett. f, del D.P.R. n. 600/1973. [Omissis] La W.I. presentava ricorso nel quale chiedeva in via principale

l’annullamento dell’avviso di accertamento e, in subordine, la non applicazione delle sanzioni. [Omissis] La Commissione tributaria provinciale con la sentenza impugnata rigettava la domanda principale mentre accoglieva la subordinata. [Omissis] La W.I. impugna la sentenza con appello nel quale puntualmente contraddice tutti gli specifici aspetti esposti in sentenza a sostegno della decisione. [Omissis] In particolare l’appellante, a sostegno della propria tesi tendente a dimostrare la sostanziale assenza di risparmio d’imposta, ripropone l’argomento secondo cui le operazioni poste in essere hanno, in definitiva, determinato l’iscrizione della partecipazione residua ad un minor costo, cosa che ha poi fatto emergere plusvalenze negli esercizi successivi; e di ciò dà contezza allegando un prospetto. [Omissis] Motivi della decisione [Omissis] Occorre in primo luogo avere ben presente che la cessione del 30 settembre 2002 e l’accordo di vendita a termine sono avvenuti tra soggetti appartenenti allo stesso gruppo economico, circostanza, questa, particolarmente importante. Con riferimento alla cronistoria degli atti posti in essere, si deve peraltro riconoscere che la deliberazione del consiglio di amministrazione di spostare la prima tranche di partecipazione dell’attivo circolante all’attivo immobilizzato non sembra rientrare nel disegno inteso a conseguire un risparmio d’imposta. [Omissis] Vi osta, oltre che l’obiettiva necessità di prestare ossequio alle direttive cogenti in ambito bancario, il dichiarato intento strategico del gruppo societario di iniziare e poi intensificare rapporti di collaborazione con la B.C. intento che ha poi condotto alla stipula di accordi di collaborazione. Ciò di per sé è più che sufficiente a giustificare il carattere duraturo dell’investimento e la iscrizione nell’attivo immobilizzato. Ma è proprio in tale ottica che appare fuori luogo l’argomento introdotto dalla ricorrente secondo la quale, qualora la partecipazione fosse rimasta nel circolante, l’effetto economico conclusivo sull’esercizio 2002 sarebbe stato sostanzialmente identico. O meglio, ciò è vero ed è pacificamente dimostrato dai dati presenti in atti, ed è vero che il conto economico, in tale ipotesi, sarebbe stato influenzato da un componente negativo di uguale entità. [Omissis] Ma un simile ragionamento è del tutto fuori causa perché la controversia riguarda partecipazioni iscritte nell’attivo immobilizzato, da cui la legge fa conseguire taluni effetti fiscali; essendo questa la situazione di fatto, certamente non vale discutere degli effetti che sarebbero eventualmente scaturiti da un diverso comportamento contabile. Allo stesso modo non ha pregio il motivo d’appello costituito dalla considerazione che le imposte sulla plusvalenza sono state implicitamente applicate all’atto delle cessioni fatte in esercizi successivi. Non può porsi sullo stesso piano il vantaggio d’imposta effettivo ed immediato conseguito nell’esercizio 2002 con un gravame d’imposta che, nel 2002, era soltanto potenziale o, meglio, eventuale. Tutto ciò premesso, a giudizio di questo Collegio il punto focale va ricercato nelle modalità con cui sono state effettuate le seguenti tre operazioni: 1) acquisto della prima tronche ed accordo con la seconda controllante per la vendita a termine a prezzo predeterminato, 2) acquisto del secondo pacchetto azionario, 3) cessione alla controllante del primo pacchetto.


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Se l’obbiettivo del gruppo (insindacabile al fini fiscali, ma che va considerato al solo fine di valutare le modalità con cui ciascuna operazione è stata posta in essere) era quello di conseguire la proprietà di n. 50.639.000 azioni C. in capo alla capogruppo e di n. 17.598.000 in capo alla W.I., tale intento, in linea generale, poteva essere raggiunto mediante uno dei seguenti percorsi: a) acquisto di n. 17.589.000 azioni da parte della società controllante direttamente dalla F.C. (modalità suggerita dall’ufficio) ed acquisto dalla W.I. di n. 33.041.000 e non di tutto il pacchetto di n. 50.639.000, cosa, questa, possibile dato che l’accordo di acquisto a termine è infragruppo e quindi ben poteva essere modificato con una espressione di volontà proveniente, sostanzialmente, dallo stesso soggetto, b) acquisto dalla W.I. alla data (termine) del 30 settembre 2002 e, dopo tale data, acquisto da parte di W.I. delle n. 17.589.000, c) acquisto da parte di W.I. del pacchetto di n. 17.589.000 in data antecedente al termine del 30 settembre 2002. Anche trascurando l’ipotesi sub a) e limitandosi ad esaminare le due opzioni sub b) e c) appare evidente che nel caso b) l’effetto contabile sarebbe stato esattamente uguale a quello indicato dall’ufficio. Invece la società W.I. ha scelto il percorso sub c) ed ha deciso di acquistare prima, al maggior prezzo di mercato, la tranche di n. 17.598.000, prima cioè di dare esecuzione alla vendita a termine pattuita con la propria controllante, raggiungendo in tal modo l’obiettivo strategico prefissato, ma anche rilevando in conto economico la perdita e conseguendo un vantaggio fiscale per effetto dell’imputazione della minusvalenza e della non rilevazione della plusvalenza. Non è trascurabile, infatti, la circostanza che il prezzo di vendita delle azioni alla controllante fosse ormai ben noto alla data di acquisto della seconda tranche, in base ai termini prefissati dall’accordo. Al riguardo il Collegio osserva che: a) la scelta operativa di acquistare prima azioni al prezzo di euro 1,9651 per eseguire poi la vendita alla controllante al prezzo di euro 1,61017 appare del tutto priva di alcuna valida ragione economica, b) la scelta operativa adottata appare invece diretta ad «aggirare» l’obbligo di corretta valutazione delle immobilizzazioni finanziarie previsto dall’art. 66 del vecchio T.U.I.R. e di rilevazione delle plusvalenze previsto dall’art. 54 del vecchio T.U.I.R., c) tale scelta era evidentemente diretta ad ottenere una riduzione dell’imposta dovuta per l’esercizio 2002. Risultano in tal modo verificate tutte le condizioni richieste dall’art, 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. L’assenza di valide ragioni economiche risiede di per sé nel fatto che la cessione è avvenuta ad un prezzo considerevolmente inferiore a quello dell’acquisto fatto appena cinque giorni prima; ma è soprattutto la scelta della data di acquisto della seconda tranche, possibile già a partire dal 13 maggio 2002, data dell’autorizzazione concessa dalla Banca d’Italia, che non è coerente con le affermazioni dell’appellante. È evidente che, non trattandosi di operazione eseguita nell’ambito di una attività di trading, soggetta, questa, alle sollecitazioni di un tempestivo adeguamento agli sbalzi di borsa, bensì di un acquisto fatto nell’ottica di un investimento durevole, l’acquisto del secondo pacchetto ben poteva essere eseguito anche dopo il 30 settembre. In tale ipotesi non sarebbe emersa la minusvalenza di euro 5.296.925 e sarebbe stata invece rilevata la plusvalenza di euro 1.211.634. È così che l’unico motivo della scelta di percorso appare essere quello di conseguire un risparmio d’imposta. L’aggiramento della norma sulle valutazioni dei titoli immobilizzati è stato compiuto, a parere del Collegio, dalla società in quanto ha ritenuto «fungibile» il secondo pacchetto azionario con quello acquistato per primo. E vero che il criterio di valutazione Lifo delle rimanenze è, in linea generale, applicabile a titoli del-

la stessa categoria (nel caso in esame azioni della B.C.), ma nel caso di specie la «sostituzione» tra i due acquisti (prevista dal metodo Lifo) è avvenuta tra una parte della prima tronche (n. 17.598.000 azioni), vincolata dal contratto di vendita a termine, e la seconda tranche acquistata al prezzo di mercato pochi giorni prima della cessione. In altri termini, le azioni acquistate a prezzo corrente di mercato non appartengono alla stessa categoria di quelle, pur della stessa specie, ma vincolate dall’obbligo di cessione ad un prezzo predeterminato. Confidando invece sulla indiscriminata applicabilità del criterio Lifo la società W. ha acquistato la seconda tranche in data di poco antecedente quella stabilita per la cessione, cessione avvenuta al prezzo noto, inferiore a quello di acquisto del secondo pacchetto. A tale proposito appare opportuno richiamare la sentenza 17 luglio 1997 della Corte di giustizia CE (causa C-28/1995) (1) secondo la quale gli indizi di elusività assumono netta rilevanza in presenza di scelte che siano determinate nell’ambito di gruppo e possa fondatamente ipotizzarsi contiguità temporale e interdipendenza logica delle operazioni. Infatti, soltanto ragionando in un’ottica di gruppo societario l’appellante può affermare che l’acquisto al prezzo unitario di euro 1,9651 e la vendita pochi giorni dopo al prezzo di euro 1,61017 siano operazioni assistite da una valida ragione economica. Inoltre non può sfuggire che anche il principio contabile n. 20 (invocato dalla ricorrente) nel trattare della valutazione di titoli «a pronti contro termine» mette in guardia dal porre in essere comportamenti elusivi in presenza di tali operazioni. [Omissis] Per tutto quanto precede questo Collegio ritiene di dover condividere, anche se con motivazioni diversamente articolate, le conclusioni cui è pervenuto il Collegio di primo grado circa la sussistenza dell’intento elusivo nelle operazioni poste in essere dalla W.I. Ne consegue la «inopponibilità» dei relativi negozi giuridici agli effetti fiscali. Allo stesso modo il Collegio ritiene di condividere le conclusioni del primo giudice circa l’inapplicabilità delle sanzioni. Infatti l’elusione consiste in un risparmio fiscale conseguito «abusando» di uno strumento giuridico, essa presuppone quindi il compimento di atti effettivamente voluti dalle parti, ma realizzati mediante un «percorso» anomalo, nell’intento di aggirare norme fiscali e così conseguire un risparmio d’imposta. L’elusione è quindi fenomeno ben diverso dall’evasione, con la quale si persegue sempre un risparmio d’imposta, ma realizzato con la diretta violazione di specifiche norme fiscali. Queste considerazioni, a parere di questo Collegio, sono in linea con l’intento del legislatore allorquando ha tolto dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 l’avverbio «fraudolentemente», presente nella previgente formulazione della norma, il che conduceva ad una lettura marcatamente «penalistica» della norma stessa. Da tutto ciò consegue che il rinvio, contenuto nel sesto comma dell’art, 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 all’art. 68 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 circa il pagamento di tributi e sanzioni costituisce un mero riferimento all’automatica e generale applicazione di sanzioni in presenza di un maggior reddito accertato, ma non per questo è stata introdotta alcuna specifica norma che sanziona il comportamento elusivo. Pertanto va ribadito che nel caso in esame l’art. 66 del vecchio T.U.I.R. e gli altri articoli correlati (art. 61 e art. 54, nonché gli articoli ai quali dette norme fanno rinvio) non sono stati violati, bensì è stato fatto un uso abnorme del criterio di valuta-rione Lifo, adottando una tempistica delle opera-doni di acquisto/cessione tale da conseguire un risparmio d’imposta che poteva anche apparire lecito. Assodato che nel caso in questione non è stata specificamente violata (ma soltanto aggirata) alcuna norma di legge, non può essere irrogata alcuna sanzione. [Omissis]


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XI 57 Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XXXIV, 14 febbraio 2008, n. 9 Presidente e Relatore: Targetti Accertamento - Elusione - Imposte in genere - Plusvalenze generate da un contratto di sale and lease back e da un conferimento d’azienda - Utilizzo di perdite pregresse - Inapplicabilità dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis) È inapplicabile l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, ad operazioni (nel caso di specie, distintamente, un contratto di sale and lease back e un conferimento d’azienda) quando queste non abbiano quale finalità primaria il recupero a tassazione di perdite pregresse, ancorché le plusvalenze realizzate vengano nel concreto utilizzate per recuperare perdite pregresse in scadenza. Svolgimento del procedimento L’accertamento traeva origine da una verifica della Guardia di Finanza, che evidenziava le seguenti situazioni: 1) nel 1999 la società stipulava un s&lb su immobile strumentale (comprato nel 1993 a 20 miliardi e sul quale era stato speso 1 miliardo di costi vari) valutato, in base a stima di parte, in 43 miliardi. La plusvalenza era stata utilizzata per coprire perdite per 50 miliardi, la cui deducibilità scadeva nell’anno; 2) nell’anno in discorso era stato effettuato un conferimento d’azienda nella S.S.A., consociata polacca, per un valore di 2,5 miliardi; anche in tal caso, v’era stata finalità di utilizzo di tali perdite pregresse e «in scadenza»; 3) il canone di affitto del s&lb era considerato eccessivo, posto che l’Ute (ufficio tecnico erariale, n.d.r.) aveva valutato l’immobile a valori inferiori di quelli da contratto; dal che conseguiva l’indeducibilità del «delta» relativo a tale maggior canone; 4) alcune spese esposte in dichiarazione erano contestate; 5) la indeducibilità della parte eccedente del canone di cui sopra comportava una variazione dell’Iva a debito. Col ricorso la società eccepiva: - l’insufficiente motivazione, dell’accertamento; - l’omessa instaurazione del contraddittorio, previsto ex art. 37bis, comma 4, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in caso di operazioni in ritenuta elusione di imposta; - la legittimità di entrambe le operazioni (il s&lb sull’immobile e il conferimento d’azienda), data la loro perfetta congruità con le finalità aziendali; - l’errata e comunque inefficace diversa valutazione dell’Ute dell’immobile strumentale di cui sopra; - la deducibilità, voce per voce, dei costi contestati. [Omissis] Motivi della decisione La Commissione osserva preliminarmente che, ai sensi della norma citata, le operazioni ritenute elusive e contestate negli effetti fiscali dal fisco devono essere oggetto di un esame in contraddittorio con la parte. La ratio legis è evidente: si tratta di operazioni in sé legittime, che possono non essere prese in considerazione dall’amministrazione solo in virtù della loro strumentalità e fittizietà. Ciò posto, è evidente che tale giudizio del fisco dovrà essere verificato nel contraddittorio con la parte, che è ammessa a provare invece la loro realtà e la ragionevolezza aziendale. Tale contraddittorio è mancato. Volendo in ogni caso valutare ora se tali operazioni avessero o meno una loro intrinseca razionalità, la Commissione osserva quanto segue.

Il contratto di s&lb è da tempo pienamente accettato dall’ordinamento. Con esso il contribuente vende un bene strumentale (nel caso, si tratta di uno stabilimento industriale di produzione di tessuti, che è l’oggetto sociale della N.) ad un istituto finanziario che lo affitta in leasing alla controparte, previo pagamento di un canone di locazione. Con tale contratto, nel bilancio della società si sostituisce un bene (l’immobile) con una somma di denaro, alla quale si aggiunge un debito, rappresentato dai canoni di locazione. In sostanza si tratta di un finanziamento a lungo termine, che può essere utilizzato per fronteggiare debiti a breve termine, al costo di privarsi della proprietà, ma non della disponibilità, di un bene (lo stabilimento). Questo effetto di ristrutturazione dell’indebitamento era la finalità dell’operazione, secondo quanto sostenuto dalla controparte; una finalità reale, che non è stata smentita dall’amministrazione, la quale si è limitata a osservare come la società sia riuscita ad utilizzare la plusvalenza emergente dalla differenza tra i valori di carico e di realizzo, per non sprecare perdite pregresse in scadenza. Si tratta però di una finalità secondaria, ancorché effettiva e che, in ogni caso, non è in sé illegittima. In fondo nessuno contesta che le perdite pregresse fossero effettive e sfruttabili prima della scadenza. [Omissis] Venendo ora a esaminare l’altra operazione, il conferimento d’azienda, si osserva come i programmi di sviluppo della N. prevedessero all’epoca l’acquisto di un ramo d’azienda in Polonia. La società ha spiegato come all’epoca fosse apparso più conveniente effettuare un conferimento in un’azienda già in essere (la S.), piuttosto che un acquisto puro e semplice. Quanto alla finalità aziendale globale di espansione nell’est, N. osserva che la tecnologia polacca fosse obsoleta e che, per ammodernare gli impianti, che producevano tessuto di bassa qualità, fossero necessari investimenti, effettuati col citato conferimento di tecnologia, di know how e di capitali. Non si vede come tali ragioni debbano essere considerate apparenti e meramente strumentali ad una finalità (l’utilizzo di perdite pregresse in scadenza), pur presenti, ma certo non in sé illegittime. In fondo l’argomento forte utilizzato dall’ufficio a sostegno del suo appello è solo quello che il gruppo di cui N. faceva parte s’era già espanso nell’est Europa. Avendo in sostanza già uno stabilimento in Slovacchia, non avrebbero dovuto acquistare una branch anche in Polonia. Un argomento di indiscutibile povertà, che nega in sostanza la libera scelta di un’impresa di decidere dove e come dirigere i propri obbiettivi. Dunque, l’unico argomento a sostegno dell’appello riguardo alla fittizietà delle due operazioni sopra viste, resta l’obbiettivo utilizzo delle plusvalenze, conseguenza inevitabile e non necessariamente voluta delle stesse, per recuperare le perdite pregresse. Argomento in sé debolissimo, che comunque contrasta con la storia successiva di N. La società era già in difficoltà nel 1999 e infatti nel 2007 sarebbe tracollata (in giudizio la società è infatti rappresentata dal curatore fallimentare). Il recupero delle perdite pregresse, se infatti v’è stato per la limitata parte relativa alla quota di anno in contestazione (si ricordi che il contratto di s&lb è del dicembre 1999 e che i canoni di locazione di cui si discute sono limitati ad una sola mensilità). Successivamente N. ha chiuso gli esercizi sempre in perdita e il monte perdite pregresse di 50 miliardi è stato solo in minima parte intaccato/utilizzato. Si discute dunque di legittimità di operazioni, nella chiave di lettura di un utilizzo elusivo quantitativamente assai limitato; il che conferma il giudizio della Commissione sull’infondatezza del gravame. [Omissis]


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XII 58 Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 8 febbraio 2008, n. 10 Presidente e Relatore: Montanari Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Plurimi trasferimenti di immobile che ritorna al primitivo proprietario rivalutato in totale esenzione d’imposta Applicabilità della regola generale antiabuso derivante dall’ordinamento comunitario (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 67) È applicabile la clausola generale antiabuso derivante dall’ordinamento comunitario ad un’ipotesi in cui un terreno venga fatto oggetto di diversi trasferimenti, per poi tornare agli originari proprietari, debitamente rivalutato in totale esenzione d’imposta, non essendo enucleabile alcuno scopo economico chiaro e preciso, eccetto quello di ottenere un vantaggio fiscale. Svolgimento del processo [Omissis] Motivi della decisione A questa Commissione non è ignota l’evoluzione che ha avuto l’ampio dibattito giurisprudenziale sviluppatosi in ordine all’esistenza o meno, nell’ordinamento fiscale italiano, di una norma generale antielusiva e le conclusioni a cui è pervenuta, sul punto, da ultimo, la Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 21221 del 2006: conclusioni che questa Commissione non può che condividere; «in questo importante arresto la Suprema Corte, dopo aver affermato la possibilità per il giudice, in base al suo autonomo potere qualificatorio o all’esercizio, nei casi previsti dalla legge, dei poteri cognitori ex officio, di discostarsi dalla causa petendi prospettata dalle parti e, dunque, di giungere all’accoglimento o al rigetto del ricorso, per motivi, anche, diversi da quelli prospettati dalle stesse, completa il revirement, già iniziato in alcuni suoi precedenti» (cfr. Cass., n. 20398 del 2005 e n. 22932 del 2005), del proprio orientamento in ordine al problema dell’esistenza nell’ordinamento fiscale italiano, prima e, nonostante, l’introduzione dell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, vista l’inapplicabilità retroattiva di questa norma e considerando che la stessa non enuncia un principio, veramente, di portata generale, di una clausola generale antielusiva, fino ad allora negata (cfr. in questo senso, anche, la sentenza n. 11351 del 2001, correttamente, richiamata dai ricorrenti); clausola generale che, invece, la Suprema Corte dichiara esistere e deriva dalla nozione di abuso del diritto, così come elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, richiamando, inter alios, il noto leading case Halifax, abuso che si concretizza quando «le operazioni, pur realmente volute ed immuni da rilievi di validità», hanno «essenzialmente, lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale»; afferma la Corte che «i principi di effettività e non discriminazione comportano l’obbligo per le Autorità nazionali di applicare, anche d’ufficio, le norme di diritto comunitario, se necessario attraverso la disapplicazione del diritto nazionale che sia in contrasto con tali norme, senza che possano ostarvi preclusioni, anche di natura processuale, non operanti in casi analoghi». Ed, ancora, che il diritto comunitario deve essere applicato «nella sua interezza indipendentemente da specifiche domande proposte nel giudizio di merito o introdotte coi motivi del ricorso» trovandosi il giudice «di fronte ad un vero e proprio jus superveniens, derivante dallo specifico obbligo derivante dalla intervenuta sentenza della Corte di giustizia» così che «l’esame delle operazioni compiute dalla società, da considerarsi nel loro complesso [...] deve essere compiu-

to anche alla stregua del principio dell’abuso del diritto, come enunciato dalla giurisprudenza comunitaria»: in altre parole l’abuso del diritto «deve essere inteso come un vero e proprio canone interpretativo del sistema»; la prima conseguenza dell’applicazione di questi principi alla fattispecie in esame è che perde d’interesse processuale l’eccezione, sollevata dai ricorrenti, in ordine alla ritenuta inapplicabilità al caso di specie, ratione temporis, dell’art. 37-bis cit. posto che, se anche lo stesso risultasse inapplicabile, o, anche, applicabile, comunque, il ricorso dovrebbe essere deciso alla luce dell’affermata esistenza, nell’ordinamento fiscale italiano, di una clausola generale antielusiva concretizzantesi nel richiamato principio di abuso del diritto; sempre in via pregiudiziale va esaminata l’altra eccezione sollevata dai ricorrenti in ordine all’intervenuta decadenza del potere accertativo da parte dell’Agenzia per gli anni d’imposta anteriori al 1998 e, conseguentemente, all’intangibilità, fiscale, degli atti posti in essere dai ricorrenti in quei periodi; l’eccezione è infondata: va, invero, condivisa la tesi, avanzata dall’Agenzia, secondo cui, ipotizzando di trovarsi di fronte ad un «unitario» procedimento elusivo, i singoli atti e fatti che lo compongono non assumono rilevanza individualmente, per così dire «atomisticamente», nel momento in cui sono posti in essere ma, solo, nel momento di conclusione del procedimento stesso, procedimento che essendo, appunto, «unitario», va considerato nel suo insieme e che, correttamente, l’Agenzia assume essersi concluso con l’atto di assegnazione del terreno ai soci, avvenuto nell’anno d’imposta accertato. Passando ora al merito del ricorso, va ricordato che lo stesso andrà giudicato non sulla base dell’art. 37-bis cit. ma alla luce dell’affermata esistenza, nell’ordinamento fiscale italiano, di una clausola generale antielusiva concretizzatesi nel divieto di abuso del diritto secondo la nozione vista prima, per cui gli atti posti in essere non debbono avere lo scopo essenziale di ottenere un vantaggio fiscale: «parafrasando un’autorevole dottrina le parti di un contratto non possono trasferire beni solo per trasferirli e cioè senza perseguire uno scopo economico, che, invece, deve dare l’impronta giuridica alla volontà contrattuale»; ora, se si esamina oggettivamente la sequenza e la tempistica degli atti posti in essere dai ricorrenti, non è agevole riconnettere al loro insieme, al di là delle affermazioni dei ricorrenti, uno scopo economico chiaro e preciso: invero il terreno, nel periodo di circa due anni, ritorna, formalmente, anche se sostanzialmente non se ne è mai allontanato, nelle mani dei proprietari iniziali senza che sia stato oggetto di alcuna operazione commerciale, quasi un «giro dell’oca», solo che essendo partito come terreno agricolo vi torna col valore moltiplicato di terreno edificabile in totale esenzione d’imposta (gli stessi ricorrenti, nel ricorso introduttivo, come ricordato in narrativa, esplicitamente affermano che con l’operazione di conferimento il terreno viene legittimamente rivalutato in totale esenzione d’imposta, poiché si trattava di terreno non edificabile); sul punto va aggiunto che non appare condivisibile, in quanto totalmente illogica, la tesi, sostenuta dagli stessi in sede di memoria aggiunta, secondo cui l’art. 36 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, e la sentenza n. 25506 del 2006 delle sezioni unite della Suprema Corte avrebbero «reso», ai fini fiscali, edificabile il suddetto terreno ex tunc, dal momento, cioè, del suo inserimento nello strumento urbanistico approvato anche solo dall’ente locale, indipendentemente, cioè, dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo, facendo venir meno, pertanto, il supposto scopo elusivo: la tesi appare infondata in quanto il comportamento dei ricorrenti va, logicamente, valutato nella prospettiva di quella che era allora la situazione giuridica del terreno,


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così come percepito dagli stessi, al momento, cioè, del suo conferimento, alla luce di quello che era allora il diritto “vivente” che, come richiamato anche dalla sentenza da ultimo citata, vedeva ancora pacificamente “vincente”, nella giurisprudenza della Suprema Corte, l’indirizzo formale-legalistico, secondo cui la qualifica di area fabbricabile, anche ai fini fiscali, presupponeva l’approvazione dello strumento urbanistico da parte della Regione (cfr. inter alias Cass., n. 10406 del 1994, n. 15320 del 2000, n. 13296 del 2001) posto che i primi pronunciamenti di tipo sostanzialistico, che cioè valorizzavano le immediate ricadute economiche di qualunque variazione che facesse sorgere o consolidasse un’aspettativa di diritto, risalgono solo al 2002 (cfr. Cass., n. 4120 del 2002, n. 4381 del 2002, n. 17513 del 2002); né può darsi valenza probante esplicativa dello scopo dei ricorrenti alla loro affermazione secondo cui la società sarebbe stata costituita per perseguire l’oggetto sociale, ma poi sarebbe stata posta in liquidazione per contrasti tra i soci, sia perché non provata, sia perché in contrasto con quanto affermato in altro contenzioso (cfr. Comm. trib. reg, Emilia Romagna n. 57/22/2005) secondo cui la causa della liquidazione sarebbe stata da ricercare nel ritardo del rila-

scio delle necessarie autorizzazioni e comunque, in definitiva, poco credibile per il rapporto di conoscenza, che si presume approfondito tra i soci, stante il loro rapporto di parentela; né, infine, può essere valorizzata, ai fini difensivi, la considerazione che l’assegnazione ai soci del terreno sia avvenuta sulla base di una norma agevolatrice: invero l’imprevedibilità dell’emanazione della suddetta norma agevolatrice nulla prova, diciamo sintomaticamente, che lo scopo dei ricorrenti non fosse, essenzialmente, quello fiscale sia perché non prova un altro scopo sia perché rende, anzi, ancora più essenzialmente fiscale lo scopo dei ricorrenti posto che ne ha aumentato, se mai, la valenza fiscale; può, dunque, affermarsi che non risulti provato, oggettivamente, un chiaro e preciso scopo che possa aver spinto i ricorrenti a porre in essere gli atti ed i fatti di cui al procedimento contestato mentre l’unico scopo che, oggettivamente, gli stessi appaiono aver raggiunto è quello di aver rivalutato, in totale esenzione d’imposta, il valore del terreno agricolo con abuso del diritto nel senso visto prima. Le doglianze dei ricorrenti appaiono, pertanto, infondate ed il ricorso va, conseguentemente, respinto. [Omissis]

XIII 59 Commissione tributaria regionale della Lombardia, Brescia, sez. LXIII, 7 febbraio 2008, n. 290 Presidente: Fondrieschi - Relatore: Vicini Accertamento - Elusione - Imposte sui redditi - Utilizzo del disavanzo di fusione dopo l’affrancamento mediante pagamento di imposta sostitutiva - Aggiramento di norme tributarie - Insussistenza - Inapplicabilità dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis; D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 6) Non è ravvisabile alcuna condotta elusiva ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, ma costituisce mero risparmio fiscale, l’utilizzo del disavanzo di fusione dopo l’affrancamento mediante pagamento di imposta sostitutiva, quando non sia possibile individuare alcun aggiramento di norme tributarie. Svolgimento del processo La C. S.p.A. ha presentato due distinti ricorsi alla Commissione tributaria provinciale di Brescia avverso altrettanti avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate relativi a Irpeg e Irap rispettivamente per gli anni 1998 e 1999. Oggetto del contendere era la rideterminazione del reddito di impresa dichiarato, ritenendosi elusiva l’operazione che aveva portato al trasferimento della proprietà della “vecchia” C. S.p.A. alla “nuova” C. S.p.A., con la formazione di costi non necessari quali spese per perizie, interessi passivi, disavanzo di fusione, ecc. nonché la realizzazione di vantaggi fiscali indebiti. Venivano inoltre contestate ulteriori riprese per costi ritenuti non deducibili. In sede di ricorso la parte eccepiva l’illegittimità degli atti impugnati; nel merito, sosteneva di non aver posto in essere operazioni elusive e ribadiva la correttezza dei costi contabilizzati. La Commissione adita, in parziale accoglimento dei ricorsi riuniti ha annullato integralmente l’accertamento relativo all’anno 1998, mentre per il 1999 annullava le riprese riguardanti plusvalenze, minusvalenze e ammortamenti indeducibili, confermando le altre riprese per l’importo di lire 1.361.545.122. Il primo giudice riteneva di non individuare i presupposti di una condotta antielusiva ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e, per l’effetto, accoglieva i ricorsi quanto agli ammortamenti, alle plusvalenze e le minusvalenze correlate all’operazione “C.”. Per il 1999, la Commissione provinciale – previa riduzione dell’accertamento

per lire 249.009.451, importi che non risulterebbero motivati – evidenziava che numerose riprese non erano state contestate, altre erano state rinunciate dall’Agenzia delle Entrate, mentre le rimanenti andavano confermate perché supportate da valide motivazioni e riscontri. Contro tale sentenza appella l’Agenzia delle Entrate - Direzione regionale della Lombardia. In primo luogo, l’ufficio rileva che l’ammontare di lire 249.009.451 trova ragion d’essere nelle riprese espressamente dettagliate alle pagine 61 e 62 del processo verbale di constatazione, detratte cinque riprese minori già rinunciate in primo grado per lire 241.113.000. Ribadisce poi la natura elusiva dell’operazione di passaggio della proprietà della C. S.p.A. che avrebbe potuto essere realizzata semplicemente con una singola operazione di acquisizione di U. e successiva fusione nella C. S.p.A. Rileva pertanto che l’operazione sarebbe priva di utilità economica, con vantaggi di sola natura fiscale, tra l’altro mediante una rivalutazione dei cespiti aziendali con relativi ammortamenti che hanno comportato un risparmio d’imposta. Chiede pertanto la conferma del proprio operato, con la sola eccezione riguardante le riprese già espressamente rinunciate. Contestualmente avanza di discussione in pubblica udienza. Si costituisce in giudizio con controdeduzioni e appello incidentale parte contribuente, che preliminarmente eccepisce l’inammissibilità dell’appello proposto dalla Direzione regionale della Lombardia, cui il D.Lgs. n. 546/1992 non riconoscerebbe il potere di rappresentare in giudizio l’Agenzia delle Entrate. Inoltre, l’appello dell’amministrazione non conterrebbe motivi specifici di impugnazione. Nel merito, ribadisce la legittimità dell’operazione societaria effettuata, che non conterrebbe i requisiti richiesti ai fini elusivi dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. Rileva infatti che il disavanzo di fusione è stato correttamente utilizzato e ha portato al versamento dell’imposta sostitutiva prevista dall’art. 6 del D.Lgs. n. 358/1997 ed inoltre che l’operazione era sorretta da valide ragioni economiche, da individuarsi nella realizzazione di una sub-holding necessaria sotto il profilo operativo. Circa la ripresa di lire 249.009.451, sostiene che in sede di appello l’ufficio si è limitato a un mero richiamo al Pvc. Quanto alle altre riprese confermate dal giudice dì primo grado, la C. S.p.A. propone appello incidentale, Per alcune di esse, rileva che in realtà si trattava di riprese rinunciate dall’amministrazione finanziaria già in pri-


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mo grado, come dalla stessa ribadito in atto di appello. Quanto alle rimanenti riprese 1, 13, 29 e 30, contesta l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata e ribadisce la loro illegittimità nel merito. In subordine, l’avviso di accertamento relativo al 1998 sarebbe intempestivo e comunque per entrambe le annualità gli avvisi di accertamento sarebbero illegittimi per non avere motivato sulle deduzioni proposte dalla parte in sede di contraddittorio. [Omissis] Motivi della decisione La Commissione deve preliminarmente rigettare l’eccezione proposta da parte contribuente circa l’inammissibilità dell’appello della Direzione regionale della Lombardia a seguito di avocazione. [Omissis] Nel merito delle riprese di cui agli avvisi di accertamento in questione, la Commissione osserva in primo luogo che la sentenza deve essere confermata per quanto concerne l’operazione di acquisizione societaria, non essendo ravvisabile da parte della società contribuente una condotta elusiva. Ai sensi dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 devono ritenersi antielusive le operazioni prive «di valide ragioni economiche, dirette ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti». Si tratta di tre condizioni che, come si evince dal tenore letterale della norma, si devono verificare contemporaneamente affinché si possa configurare un’operazione antielusiva. Nel caso di specie, peraltro, manca quanto meno l’aggiramento di norme tributarie. Sul punto l’amministrazione finanziaria fa espresso richiamo esclusivamente all’art. 6 del D.Lgs. n.

I - XIII Nota di Mario Nussi La necessità di demarcare i limiti applicativi del divieto di abuso È ormai trascorso tempo dai pronunciamenti delle sezioni unite della Cassazione in ordine alla configurabilità del principio del divieto di abuso del diritto, rappresentato come immanente al sistema tributario ai sensi dello stesso principio costituzionale insito nell’art. 53 Cost., a guisa di una clausola generale antielusiva, piuttosto che come applicazione in ambito fiscale della nota figura di teoria generale1.

1 Sull’abuso del diritto, cfr. per tutti RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. Dir. Civ., 1965, I, 205 ss.; PATTI, Abuso del diritto, in Dig. Disc. Priv., Torino, 1987, I, 1; SALVI, Abuso del diritto, in Enc. Giur., I, Roma, 1988. Non mi pare, peraltro, che il concetto di abuso del diritto, id est di una posizione soggettiva attiva, così come tradizionalmente inteso nella teoria generale, coincida con quello utilizzato in ambito tributario dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, se non altro in quanto la norma fiscale è di secondo grado e regolamenta solo le conseguenze impositive delle situazioni civilistiche (che restano liberamente scelte e in sé intangibili), disciplinando un dovere, quello di concorso alle spese pubbliche. La questione meriterebbe ben altra trattazione, ma in questa sede sembra comunque doversi rimarcare come la norma di diritto tributario solo talvolta statuisca in

358/1997 secondo il quale l’utilizzo del disavanzo di fusione sarebbe consentito «purché l’operazione non si fosse sostanziata in un’attività di mero carattere elusivo». Ma una tale indicazione non è contenuta nella suddetta norma che, anzi, pare dare dignità al disavanzo da fusione a condizione che lo stesso sia assoggettato «all’imposta sostitutiva indicata nell’articolo 1». Ciò che è accaduto nel caso di specie, con la conseguenza che la società appellata risulta avere correttamente applicato tale disciplina e non averne effettuato un aggiramento sanzionabile. Non ravvisandosi quali obblighi o divieti sarebbero stati aggirati o quali norme tributarie sarebbero state violate, viene a mancare una delle condizioni necessarie per classificare l’operazione come antielusiva. Si tratta di un’omissione assorbente di ogni altra questione sul punto, fermo restando che non si potrebbe disconoscere la validità economica di un’operazione che comporta un vantaggio che si concretizza in un mero risparmio fiscale, se ciò avviene in ossequio alle disposizioni di legge. [Omissis] La sentenza di primo grado va infine riformata con riguardo al recupero di lire 249.009.451, che deve essere confermato. Le voci riguardanti tale ripresa sono espressamente indicate nel prospetto contenuto alle pagine 61 e 62 del processo verbale di contestazione della Guardia di Finanza e nei relativi allegati al Pvc, documentazione tutta già a conoscenza della parte. Tali voci risultano dunque motivate – sia pure per relationem mediante riferimento ad un atto in possesso della parte – ed altresì idoneamente documentate. Va aggiunto che in proposito parte contribuente non ha formulato nel ricorso introduttivo specifici motivi di contestazione, di fatto non proponendo alcuna opposizione a tali voci dell’accertamento. [Omissis]

Pur aderendo alle motivate e coerenti reazioni critiche, derivanti dal radicale ribaltamento delle convinzioni da tempo radicate nella dottrina2, è ora opportuno affrontare con il dovuto distacco emotivo le problematiche conseguenti all’orientamento della Suprema Corte, in particolare con riguardo da un lato alla determinazione dell’effettiva portata del divieto di abuso, d’altro lato alle conseguenze procedimentali e sanzionatorie. Sotto il primo profilo, dall’analisi delle sentenze annotate emerge come i giudici di merito abbiano in taluni casi addirittura preceduto le pronunce della Cassazione, successivamente recepite anche con una malcelata disinvoltura, applicando il principio del divieto di abuso del diritto a situazioni in cui si sarebbero potute

ordine a “diritti” o posizioni soggettive attive del contribuente: cfr. LA ROSA, Accertamento tributario e situazioni soggettive del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2006, I, 743 ss. La giurisprudenza della Suprema Corte, piuttosto, utilizza un concetto di abuso “evoluto”, in quanto, riferendosi espressamente all’uso “distorto” di strumenti giuridici, fornisce rilievo all’abuso della “forma giuridica”: cfr. GENTILI, Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, in Ianus, 2009, 16 ss. 2 Come sottolinea TESAURO, La rilevabilità d’ufficio della nullità dei contratti elusivi nel processo tributario, in Corr. Trib., 2006, 3129, «nel milieu dei tributaristi, ha radici profonde l’idea che l’elusione equivalga a lecito risparmio d’imposta». Anche la giurisprudenza seguiva simile ottica, seppur a volte lasciando affiorare il latente orienta-

mento volto a valorizzare l’interpretazione antielusiva: cfr. ZOPPINI, Prospettiva critica della giurisprudenza “antielusiva” della Corte di Cassazione (1969-1999), in Riv. Dir. Trib., 1999, I, 919 ss.; FALSITTA, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Corr. Giur., 2009, 293 ss. Per puntuali critiche all’orientamento della Cassazione, senza pretesa di completezza, e oltre ai lavori citati nelle note successive, si veda BEGHIN, Abuso del diritto, giustizia tributaria e certezza dei rapporti tra fisco e contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2009, II, 408 ss.; LUPI-STEVANATO, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Corr. Trib., 2009, 403 ss.


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rinvenire soluzioni interpretative ben più consolidate. Del resto, neppure le ormai molteplici pronunce della Cassazione si caratterizzano per un maggior rigore qualificatorio. Ne consegue il sospetto di un’applicazione poco meditata del divieto di abuso, forse una “moda” o comunque una scorciatoia, quasi fosse un passe par tout idoneo a risolvere qualsiasi questione tecnica di una qualche complessità ricostruttiva che si presenti al giudice delle commissioni tributarie3. In realtà, è la stessa derivazione “direttamente” costituzionale del divieto di abuso, o se si preferisce la sua sopravvalutazione, che ne consente una massiva applicazione e, a mio avviso, simile deriva giurisprudenziale si perpetuerà sino a quando non vi sarà consapevolezza circa l’effettiva incidenza del divieto in relazione ai singoli presupposti d’imposta4. Ciò in quanto le fattispecie abusivamente utilizzate, o quelle corrispondentemente eluse, non possono essere interpretate al di fuori delle rationes dei singoli tributi, non essendo sufficiente il mero riferimento al dato costituzionale5. La clausola antiabuso, insomma, diviene argomento volto a superare ogni tecnicismo connesso al tributo, troppo ingombrante per chi viene dalla pratica di altri settori dell’ordinamento, come i magistrati ordinari, o addirittura non ha una formazione giuridica6. Non è certo questa la sede per affrontare funditus il tema dei rapporti tra presupposto d’imposta e clausola antiabuso, ma ritengo che solo un serio dibattito scientifico possa superare l’attuale fase di transizione e di incertezza, forse inevitabile in presenza del nuovo indirizzo giurisprudenziale. Segue: il principio antiabuso quale regola di interpretazione (qualificazione) Vero è che l’affermarsi della clausola antiabuso comporta il ribaltamento delle tradizionali categorie di interpretazione delle norme tributarie: come già accennato, infatti, anteriormente al-

3 Ad es. Comm. trib. reg. Lombardia, sez. XXXVII, 29 aprile 2008 (15 aprile 2008), n. 35; si veda FRANSONI, Cessione del credito e rinunzia a copertura perdite fra elusione ed evasione, in Corr. Trib., 2009, 2310. 4 Secondo KRUSE, Il risparmio d’imposta, l’elusione fiscale e l’evasione, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, Annuario, diretto da Amatucci, Padova, 2001, 1120, il problema dell’elusione, «della violazione indiretta della norma tributaria si identifica dunque in una questione di realizzazione del presupposto». 5 Circa l’inidoneità dell’art. 53 Cost. ad essere inteso come precetto immediatamente applicabile, cfr. RUSSO, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass. Trib., 1999, 71; MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 271; in seguito alle sentenze delle sezioni unite sul divieto di abuso del diritto, si veda MOSCHETTI, Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo, nelle sentenze delle sezioni unite in tema di «utilizzo abusivo di norme fiscali di favore», in Riv. Giur. Trib, 2009, 200; BEGHIN, Abuso del diritto, giustizia tributaria e certezza dei rapporti tra fisco e contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2009, II, 415 ss.; CONTRINO, Il divieto dell’abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. e Prat. Trib., 2009, I, 471 ss. Lo stesso FALSITTA, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria, cit., 293 ss., distingue tra derivazione del principio inter-

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l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione, la dottrina era orientata, quasi monoliticamente, a reputare irrilevanti i fenomeni elusivi. La tecnica legislativa di ricostruzione analitica delle fattispecie imponibili, la presenza di clausole quale l’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, la valorizzazione del principio di certezza del diritto e della riserva di legge ex art. 23 Cost., conducevano a rafforzare il quadro ideologico volto a confinare l’interpretazione antielusiva7. In simile contesto, l’elusione, che sorgeva proprio allorquando le regole interpretative impedivano l’applicazione delle norme impositive, era contrastabile solo tramite apposite norme speciali ovvero tramite clausole più generali come appunto in materia di imposizione sui redditi, il cui disposto, comunque, si considerava in chiave derogatoria rispetto ai tradizioni criteri di qualificazione dei fatti civilistici idonei a manifestare il presupposto8. Simile impianto ricostruttivo ha iniziato a incrinarsi in seguito all’orientamento della Corte di Giustizia che ha valorizzato il divieto di abuso del diritto in materia di Iva9, seguita da alcuni pronunciamenti della Cassazione la quale, già in piena evoluzione ideologica10 in chiave antielusiva, aveva criticabilmente esteso il principio anche a settori non armonizzati11. Con l’intervento delle sezioni unite di fine 2008, il percorso giurisprudenziale appare compiuto, almeno nei termini generali, e conduce ad un radicale ribaltamento ideologico: violando il divieto di abuso del diritto, immanente al sistema ex art. 53 Cost., l’elusione è sempre contrastabile. Le sezioni unite, peraltro, si limitano ad affermare il principio in modo descrittivo, quasi sbrigativo: in assenza di maggiori approfondimenti giurisprudenziali, compito della dottrina è ora quello di ricostruire la struttura e inquadramento nel sistema positivo del divieto di abuso. Sotto il profilo metodologico, e pur ribadendo ab imis le critiche di merito, al fine di meglio comprenderne le conseguenze appli-

pretativo dalla norma costituzionale e la sua concreta applicazione e delimitazione. Per una diversa ottica, LOVISOLO, Spetta al contribuente provare le ragioni economiche che escludono l’abuso del diritto, in Riv. Giur. Trib., 2009, 232 ss. Per il problema della composizione delle Commissioni tributarie, cfr. TESAURO, Giusto processo e processo tributario, in Rass. Trib., 2006, 36; RUSSO, Il giusto processo tributario, in Rass. Trib., 2004, 19. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2009, 250, evidenzia come i metodi interpretativi delle norme tributarie possano essere più o meno formalistici, a seconda del valore da perseguire con priorità, la certezza del diritto ovvero altri valori costituzionali come il principio di capacità contributiva, l’eguaglianza, la «giusta imposta»: in questo senso, la scelta del metodo interpretativo «non è tecnica ma ideologica». Sulla valenza derogatoria della disposizione antielusiva de qua, mi permetto rinviare a NUSSI, Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi, in Riv. Dir. Trib., 1998, I, 505 ss.; comunque, cfr. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 138. A partire da Corte di Giustizia, sent. 21 febbraio 2006, causa C-255/2002, Halifax, in Corr. Trib., 2006, 1466, con nota di BASILAVECCHIA, Norme antielusione e “relatività”

delle operazioni imponibili; cfr. anche SALVINI, L’elusione Iva nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. Trib., 2006, 3097 ss.; PISTONE, L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche, in Riv. Dir. Trib., 2007, IV, 17 ss.; POGGIOLI, La Corte di Giustizia elabora il concetto di “comportamento abusivo” in materia di Iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?, in Riv. Dir. Trib., 2006, III, 122 ss. Per l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione, cfr. per tutti CONTRINO, Il divieto dell’abuso del diritto, cit., 467 ss. 10 Nel senso inteso da TESAURO, di cui supra, nota 7; il riferimento giurisprudenziale è alle note sentenze della Suprema Corte del 2005 circa la rilevanza della nullità civilistica: su tali sentenze cfr. STEVANATO, Le ragioni economiche del dividend washing e l’indagine sulla causa concreta del negozio, in Rass. Trib., 2006, 295. 11 Le critiche a tale orientamento sono state assai diffuse: per tutti, cfr. TESAURO, Divieto comunitario di abuso del diritto (fiscale) e vincolo da giudicato esterno incompatibile con il diritto comunitario, in Giur. It., 2008, 1029 ss.; GIANONCELLI, Abuso del diritto nelle imposte dirette e divieto comunitario di abuso del diritto, in Giur. It., 2008, 1297 ss., cui si rinvia anche per la giurisprudenza di riferimento.


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cative e sistematiche, mi pare ineludibile porsi all’interno della nuova ottica ideologica delineata dalla Cassazione: ciò implica che il punto di avvio di ogni indagine si ritrova nella constatazione della sostanziale eliminazione della rilevanza giuridica dell’elusione, ormai equiparata, in punto effetti impositivi, alla violazione della norma (pur senza contrasto con enunciati legislativi specifici)12. A mio avviso, nel nuovo contesto, la clausola antiabuso non si pone in chiave integrativa della fattispecie, come da molti ritenuto necessario in base alla ricostruzione tradizionale, ma va invece collocata tra le regole interpretative, se si preferisce di interpretazione “adeguatrice”13: l’elusione non è più collocabile oltre i confini dell’interpretazione, ma l’esito del risparmio d’imposta è evitato tramite un’interpretazione, costituzionalmente orientata, della normativa, e in particolare della norma elusa14, se si preferisce di qualificazione dei fatti che concorrono all’imponibile. Simile conclusione implica il rispetto, almeno da un punto di vista formale, della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost.: le regole interpretative di qualificazione dei fatti, una volta individuate come tali15, ne sono certamente rispettose. Segue: la rilevanza del presupposto delle singole imposte Il nuovo orientamento giurisprudenziale, peraltro, non può condurre alla totale discrezionalità dell’interpretazione16: anche le regole interpretative connesse all’utilizzo di principi generali devono essere oggetto di rigorosa delimitazione sulla base del sistema in cui si affermano. Se l’abuso consiste nell’utilizzo “distorto”, ai soli (o prevalenti17) fini di vantaggio fiscale, di forme giuridiche cui non corrisponde la relativa sostanza economica, nel caso concreto è necessario riscontrare l’effettiva esistenza di uno strappo alla ratio legis. Il legislatore, infatti, presceglie una certa situazione civilistica proprio per l’ordinaria meritevolezza dell’operazione a manifestare il presupposto del tributo18: appare necessario rapportare proprio a questo ultimo il divieto di abuso. Ogni sindacato amministrativo e giudiziale, quindi, dovrà vertere sulla sussistenza dell’abuso sulla base del presupposto delle singole imposte19: il principio di capacità contributiva può essere fonte della regola interpretativa, ma poi questa va applicata con

12 CIPOLLINA, Elusione fiscale, in Dig. Disc. Priv., Torino, 2007, 372, sottolinea come l’elusione sia una «categoria di transito» e come ormai emerga una «evanescenza del confine» tra elusione ed evasione. 13 In tal senso anche ZIZZO, Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. Trib., 2009, 491; anteriormente, per taluni spunti sull’interpretazione antielusiva in chiave adeguatrice, cfr. FEDELE, Appunti dalle lezioni, cit., 134. Si veda altresì FIORENTINO, Riflessioni sui rapporti tra qualificazione delle attività private e accertamento tributario, in Rass. Trib., 1999, 1055 ss. 14 Nel senso che l’elusione vada sempre riferita ad una specifica norma, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, cit., 259. 15 E qui giova richiamare la netta contrarietà della dottrina sulla possibilità di individuare una regola interpretativa generale antielusiva o antiabuso: cfr. per tutti MELIS, L’interpretazione, cit., 274 ss.; ma, in senso contrario, FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2008, 203 ss., 212 in particolare; Id., L’interpretazione antielusiva della norma tributaria, cit., 293 ss., al

la necessaria “mediazione” della legge ordinaria20, in particolare tramite un’attenta analisi della norma “elusa”. Mi pare che nelle sentenze annotate manchi ancora proprio il richiamo alle rationes dei singoli tributi, con la conseguente aleatorietà della correttezza dell’esito dei singoli giudizi. Il problema, allora, si concentra sulla ricostruzione del presupposto dei tributi e delle sue interrelazioni con i fatti civilistici, questione che non sempre conduce a soluzioni univoche neppure in dottrina. Nell’ambito dell’imposizione sui redditi, in particolare, coloro che ritengono che il presupposto sia costituito dagli effetti giuridici propri dei fatti e dei negozi civilistici, hanno maggiori difficoltà a giustificare una qualificazione in chiave antiabuso, in quanto questa attuerebbe una vera e propria modificazione della fattispecie21. Se si vuole, la giurisprudenza delle sezione unite sarebbe del tutto incompatibile con una simile ricostruzione del tributo sui redditi, ponendosi in palese contrasto con l’art. 23 Cost.: la fuoriuscita dal presupposto, infatti, oscura la logica stessa dell’abuso ed implica la difficoltà di porre limiti all’orientamento giurisprudenziale. Qualora si ritenesse, invece, che le situazioni civilistiche ed i loro effetti giuridici non siano direttamente costitutivi della fattispecie del presupposto, ma si collochino esternamente alla stessa, a guisa di meri fatti generatori strumentalmente utilizzati per la loro ordinaria idoneità a manifestare lo specifico indice di capacità contributiva prescelto, la clausola antielusiva opererebbe una qualificazione servente solo a meglio realizzare il presupposto, senza intaccarlo22. La violazione della riserva di legge è certamente meno significativa, nel senso che l’interprete è meno vincolato dall’enunciato testuale, solo strumentale rispetto al presupposto. Analogamente, se l’elusione concerne non già direttamente il presupposto, ma una norma di favore o che comunque dispone una posizione soggettiva, un beneficio, per il contribuente, è giocoforza sostenere come le rationes del presupposto, seppur derogato a favore di un interesse meritevole di tutela, e dell’agevolazione siano cardini insostituibili ai fini di delineare situazioni abusive. Per esemplificare, una sentenza fiorentina23 ha ritenuto sussistere l’abuso in presenza di un leasing traslativo infragruppo giudicato elusivamente “vantaggioso”, in quanto – in assenza di valide ragioni economiche – avrebbe consentito di anticipare il pe-

quale si rinvia anche per l’analisi storica del fenomeno elusivo quale problema interpretativo. Si veda anche la precedente nota 2. 16 Come correttamente temuto da molti: si veda per tutti FICARI, Clausola generale antielusiva, art. 53 della Costituzione e regole giurisprudenziali, in Rass. Trib., 2009, 395 ss. 17 Non è questa le sede per analizzare funditus la distinzione de qua. 18 Circa la rilevanza della ratio anche ai fini di ricostruire in chiave elusiva un fatto giuridico, cfr. FEDELE, Appunti dalle lezioni, cit., 134 ss.; ZIZZO, Clausola antielusione, cit., 490; NUSSI, Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto, cit., 509. 19 Per un esemplificazione circa la rilevanza del presupposto, a proposito della Comm. prov. I grado Trento, 2 febbraio 2009, n. 8, anche qui annotata, cfr. NUSSI, Donazione immobiliare tra lecito risparmio d’imposta, evasione e abuso del diritto, in Corr. Trib., 2009, 2334. 20 ZIZZO, Clausola antielusiva, cit., 490; in tal senso mi pare anche FALSITTA, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria, cit., 298 ss.

21 Si veda MELIS, L’interpretazione, cit., 276 ss.; CARINCI, L’invalidità del contratto nelle imposte sui redditi. Profili sostanziali, Padova, 2003, 170 ss.; inoltre, FEDELE, Appunti dalle lezioni, cit., 138; in seguito ai pronunciamenti delle sezioni unite sul divieto d’abuso, cfr. FICARI, Clausola generale antielusiva, cit., 397; CONTRINO, Il divieto dell’abuso del diritto, cit., 474; BASILAVECCHIA, Surrogati interpretativi in difetto di norma antielusiva?, in Riv. Giur. Trib., 2009, 601 ss. 22 In questo senso GAFFURI, La rilevanza della nullità contrattuale in diritto tributario, in Boll. Trib., 2006, 455; NUSSI, L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, 71; Id., La dichiarazione, cit., 114, ove si rileva che il contribuente dichiarante non espone il presupposto, ma solo fatti che concorrono alla determinazione dell’imponibile. 23 Comm. trib. reg. Toscana, sez. XXVI, 1 aprile 2009, n. 26, qui annotata, le cui argomentazioni lasciano comunque molto perplessi, qualunque sia la ricostruzione prescelta in ordine al presupposto dell’imposizione sui redditi.


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riodo di deduzione dei costi rispetto a quello della disciplina della compravendita. Ove rilevassero gli effetti giuridici del contratto, la qualificazione in termini di compravendita apparirebbe di per sé derogatoria della norma che disciplina con compiutezza la deducibilità dei relativi costi. Invece, qualora il contratto possa essere interpretato quale mero fatto generatore del presupposto, ma esterno alla sua fattispecie, il giudice avrebbe dovuto valutare se la singola operazione, nonostante la forma civilistica prescelta, non fosse idonea a rappresentare (secondo gli schemi ordinari) il concorso alla determinazione del reddito d’impresa, ma a questi fini fosse più congrua una diversa qualificazione “sostanziale”, comportante l’applicabilità della disciplina degli acquisti in proprietà. Del resto, delicati problemi si pongono a livello di imposizione di registro, tradizionalmente ancorata al singolo atto sottoposto alla registrazione: delineare ipotesi di qualificazione “antielusiva” in base ad fatti esterni all’atto registrato pare assai arduo. Assai discutibili, pertanto, sono talune recenti sentenze dei giudici di merito, che delineano l’abuso con riferimento all’inopponibilità al fisco di negozi giuridici diversi da quello oggetto di registrazione24. Analoghe considerazioni potrebbero essere effettuate anche ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, il cui presupposto appare assai più radicato intorno alla singola operazione rispetto all’imposizione sui redditi: non a caso, in tale ambito, la giurisprudenza ha recepito la clausola antiabuso sussistente a livello europeo25, alla quale è più difficile assegnare una connotazione in termini di mera interpretazione del presupposto, tant’è che, in considerazione della forza dell’ordinamento comunitario, può superare anche lo sbarramento della riserva di legge. Le implicazioni procedimental-processuali Sotto altro angolo di visuale, l’affermazione della clausola antiabuso implica ripercussioni anche sul versante procedimentale, in particolare in relazione all’applicazione delle “cautele” previste a favore del contribuente ai sensi dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 anche alle attività accertatrici estranee all’ambito della norma antielusiva espressa26, almeno nell’ambito dell’imposizione sui redditi. Non a caso, è opinione diffusa che la clausola antiabuso, così co-

24 Tra le sentenze qui annotate, cfr. Comm. trib. prov. Milano, sez. XX, 7 aprile 2009, n. 118, delineante l’inopponibilità di precedenti vendite con riferimento ad un successivo acquisto con richiesta agevolazione “prima casa”; si veda, invece, Comm. trib. prov. Treviso, sez. VII, 22 aprile 2009, n. 41, ove, in ipotesi di conferimento di ramo d’azienda e successiva cessione delle partecipazioni, l’ufficio aveva riqualificato il fatto quale cessione d’azienda, ma il giudice, pur tra argomentazioni non sempre coerenti, nega valenza antielusiva all’art. 20, D.P.R. 131/1986. Sulla rilevanza dell’elusione nell’imposta di registro, cfr. ZIZZO, Sull’elusività del conferimento d’azienda seguito dalla cessione della partecipazione, in questa rivista, 2008, 277 ss.; MARONGIU, Elusioni o forzature nell’applicazione dell’imposta di registro, in NeΩtepa, 2009, 31 ss.; DELLA VALLE, L’elusione nella circolazione indiretta del complesso aziendale, in Rass. Trib., 2009, 383 ss.; BEGHIN, L’abuso del diritto nell’indefettibile prospettiva del “vantaggio fiscale”, in Corr. Trib., 2009, 2328 ss. Si badi che, secondo una tesi, l’art. 53-bis, D.P.R. 131/1986 richiamerebbe anche l’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973: cfr. TABELLINI, L’elu-

me elaborata dalla Cassazione, coincida sostanzialmente con quella, di portata oggettiva più limitata, espressa nel citato art. 37-bis: la sovrapponibilità concettuale consente assai più agevolmente di intraprendere percorsi ermeneutici volti ad estendere le garanzie ad ogni situazione elusiva27. A mio avviso, la presenza di una clausola generale, sia pure di origine pretoria, elimina ora ogni valenza normativa autonoma alla disposizione “speciale” espressa: sorto in chiave di eccezionale equiparazione/integrazione di fattispecie, ora l’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, si “depotenzia”, non essendo più giustificabile come una deroga al sistema, anche se pur sempre in chiave di qualificazione. Conseguentemente, i primi due commi, ossia la parte di regolamentazione sostanziale, diviene disposizione mera, che prevede ciò che già deriva dai principi28. E, in questo quadro, le garanzie procedimentali previste nei commi successivi dovrebbero poter essere estese ad ogni ipotesi elusiva, pena l’irragionevole disparità di trattamento: ove ciò non fosse possibile in sede di interpretazione, l’intervento della Corte costituzionale si imporrebbe. Infatti, se in origine il contraddittorio anticipato e necessario tra contribuente e amministrazione finanziaria29, attuato tramite la richiesta di chiarimenti, e il successivo obbligo di motivare l’accertamento in relazione alla risposta fornita (art. 37-bis, commi 4 e 5, D.P.R. 600/1973), svolgevano una funzione correlata alla deroga che allora si riteneva sussistente, oggi, caduta la deroga, la ratio muta ed è direttamente connessa al canone generale di interpretazione antielusiva: le garanzie procedimentali, quindi, esprimono il bilanciamento tra il principio del corretto riparto del concorso alle spese pubbliche e quello della certezza del diritto, certezza comunque vulnerata nonostante il rispetto della riserva di legge. In sostanza o si leggono le disposizioni del citato art. 37-bis in base alla nuova ottica generale, ovvero si sancisce l’incostituzionalità della limitazione applicativa delle norme procedimentali alle sole situazioni previste nel comma 330, il cui elenco è ormai solo esemplificativo. Ovviamente, stante il divieto di annullare l’atto impugnato per vizi non dedotti31, l’eventuale violazione del percorso procedimentale dovrà essere opportunamente rilevata in sede di ricorso da parte del contribuente.

sione della norma tributaria, Milano, 2007, 200 ss.; ne fa richiamo anche TABET, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in Boll. Trib., 2009, 86, pur senza prendere espressa posizione. 25 Per un confronto tra l’abuso di fonte comunitaria e quello di fonte costituzionale, cfr. per tutti, AMATUCCI, L’abuso del diritto nell’ordinamento tributario nazionale, in Corr. Giur., 2009, 553 ss.; ZIZZO, L’elusione tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario: definizioni a confronto e prospettive di coordinamento, AA.VV., Elusione ed abuso del diritto tributario, a cura di Maisto, Milano, 2009, 57 ss. 26 Per tutti, si vedano i timori di CONTRINO, Il divieto dell’abuso del diritto, cit., 477. 27 Per un cenno all’applicabilità delle garanzie procedimentali previste dall’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, anche ad ipotesi estranee al comma 3, si veda Comm. trib. prov. Roma, sez. 53, 8 maggio 2009, n. 207. Per l’equivalenza dei concetti di elusione ed abuso del diritto, cfr. in particolare BEGHIN, Abuso del diritto, giustizia tributaria, cit., 410. 28 Lo stesso MELIS, L’interpretazione, cit., 415 ss., ritiene che se «si ammettesse che l’in-

terpretazione non trovi alcun confine» di ordine testuale, l’art. 37-bis assumerebbe «una funzione meramente dichiarativa». Cfr. anche CONTRINO, Il divieto dell’abuso del diritto, cit., 481. ZIZZO, Clausola antielusione, cit., 494, ritiene l’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, norma ancora pienamente operante, in funzione di delimitazione dell’interpretazione antielusiva solo alle situazioni ivi previste. 29 Sul contraddittorio cfr. RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, passim. Per la notevole valorizzazione del contraddittorio nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, MARCHESELLI, Il diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo tributario è diritto fondamentale del diritto comunitario, in Riv. Giur. Trib., 2009, 210 ss.; RAGUCCI, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, in Rass. Trib., 2009, 580 ss. 30 Simili considerazioni, peraltro, sono difficilmente estensibili ad altre imposte: cfr. ZIZZO, Clausola antielusione, cit., 496. 31 Nel senso della non rilevabilità d’ufficio dei vizi dell’atto impugnato, cfr. da ultimo TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 199.


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Un problema pratico può sorgere allorquando l’amministrazione non evidenzi esplicitamente in motivazione la presenza di un abuso del diritto, come accade di solito per le controversie anteriori o estranee al citato art. 37-bis: si potrebbe sostenere che, in quanto mera interpretazione, e purché i fatti siano allegati, il giudice ben possa qualificare anche officiosamente in chiave antielusiva, con la conseguenza che il contribuente dovrebbe essere così accorto da eccepire i vizi procedimentali anche in assenza di una specifica contestazione sul punto. La questione è particolarmente delicata, in quanto si richiederebbe al contribuente una notevole attenzione. Nel processo tributario, tuttavia, la materia del contendere è delimitata dai motivi di ricorso che sono vincolati dalla motivazione dell’avviso di accertamento, la quale deve contenere i presupposti di fatto e di diritto posti a base della pretesa. Quindi, qualora la ragione giuridica dell’accertamento si incardini specificamente sull’abuso/elusione e ciò sia contestato quale motivo di ricorso, il giudice ben potrà individuare d’ufficio, in virtù del principio iura novit curia, la norma concretamente applicabile al caso concreto (art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, altre norme speciali o regola generale antiabuso che siano). Al contrario, se l’amministrazione non abbia evidenziato l’abuso/elusione quale specifica ragione giuridica dell’accertamento, il giudice non potrà sostituire la motivazione dell’atto tramite una diversa qualificazione dei fatti, al fine di reputare infondata la domanda del contribuente32. Sotto questo profilo, appare fuorviante la logica seguita dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, in base alla quale è stata sostenuta «la sicura rilevabilità d’ufficio delle eventuali cause di invalidità o di inopponibilità all’amministrazione del contratto»33 al fine di valorizzare l’abuso del diritto34. Del resto, l’inopponibilità, concetto utilizzato dallo stesso art. 37bis, D.P.R. 600/1973, va intesa in chiave meramente descrittiva del fenomeno qualificatorio: in altri termini, l’inopponibilità, equiparata dalla Cassazione alle forme di invalidità, è utile solo a esprimere la regola (di natura sostanziale tributaria) in base alla quale il contribuente, per opporsi all’interpretazione antielusiva, non può trincerarsi dietro la mera “forma” dei fatti civilistici. Conseguentemente, l’inopponibilità deve presentarsi già nel-

32 Si veda TESAURO, Manuale del processo, cit., 80 e 197 in particolare; Id., La motivazione degli atti di accertamento antielusivi ed i suoi riflessi processuali, in Corr. Trib., 2009, 3637. 33 Così Cass., sez. un., 2 dicembre 2008, n. 30055. In senso critico, RAGUCCI, Rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di abuso del diritto e difesa del contribuente, in questa rivista, 2009, 148 ss.; CANTILLO, Profili processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note sulla rilevabilità d’ufficio, in Rass. Trib., 2009, 481 ss.; CONTRINO, Il divieto dell’abuso del diritto, cit., 478; ZOPPINI, Da mihi factum dabo tibi ius: note laterali sulle recenti sentenze delle sezioni unite in tema di abuso del diritto, in Riv. Dir. Trib., 2009, I, 607 ss. 34 Il giudizio avanti alla Corte di Cassazione, inoltre, sicuramente giudizio a critica vincolata, implica viepiù che le questioni attinenti alla qualificazione debbano essere veicolate tramite apposito motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360 n. 3, c.p.c., per error in iudicando. 35 La rilevanza penale dell’elusione implica ulteriori e in parte autonome considerazioni. Comunque, cfr. MARCHESELLI, Elusione, buona fede e principi del diritto punitivo, in Rass. Trib., 2009, 401 ss.

l’ambito delle ragioni giuridiche dell’accertamento e non può essere oggetto di eccezione rilevabile d’ufficio in sede processuale. La sanzionabilità amministrativa dell’abuso del diritto tributario La rimeditazione dei principi interpretativi in chiave antielusiva non lascia indenne neppure la problematica circa la sanzionabilità amministrativa35 dei comportamenti elusivi, già dibattuta a proposito del citato art. 37-bis: l’esito della querelle è stato ritenuto risolvibile in base alla natura sostanziale o procedimentale della norma. Se ritenuta procedimentale, l’intervento di “integrazione” antielusiva derivava da un potere dell’amministrazione finanziaria, senza che a ciò corrispondesse un obbligo di dichiarare contra se da parte del contribuente: questi non violava alcuna norma, talché il suo comportamento non era sanzionabile36. Se ritenuta sostanziale, invece, l’obbligo dichiarativo del soggetto passivo riguardava anche le situazioni elusive, con la conseguente violazione della norma tributaria e la relativa sanzionabilità37. Di recente, in presenza dell’affermata immanenza del principio di divieto di abuso del diritto, le implicazioni in punto sanzionabilità amministrativa sono state affrontate soprattutto sotto il profilo della mancanza di determinatezza della fattispecie punibile, con la conseguente tesi di non applicabilità38, addirittura adombrando un “concorso di colpa” tra legislatore, carente nella tecnica normativa, e contribuente, che approfitta di tali carenze, con conseguente incompatibilità logico-giuridica tra abuso e sanzioni39. A mio avviso, questo approccio risente ancora della vecchia “ideologia” sul fenomeno elusivo, quando l’accertamento in base alla norma elusa era considerato del tutto eccezionale anche dalla stessa giurisprudenza prevalente: oggi, la sostenuta riconducibilità della clausola antiabuso ad una regola interpretativa, impone non solo di considerarla come sicuramente sostanziale40, ma anche di reputare il comportamento del contribuente come riprovevole rispetto al principio costituzionale del concorso alle spese pubbliche, ovvero dello stesso principio di collaborazione e buona fede statutariamente previsto41, non senza considerare che le carenze nella formulazione delle norme sostanziali ricadono semmai sotto l’om-

36 LUPI, Elusione, valide ragioni economiche, aggiramenti e sanzioni, in Dialoghi Dir. Trib., 2007, 388. Sulla rilevanza procedimentale della norma antielusiva in questione, cfr. COCIANI, Spunti ricostruttivi sulle tecniche di contrasto all’elusione tributaria. Dal disconoscimento dei vantaggi tributari all’inopponibilità al fisco degli atti, fatti e negozi considerati “elusivi”, in Riv. Dir. Trib., 2001, 775 ss. 37 Sulla natura sostanziale dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, si veda NUSSI, Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto, cit., 505 ss.; GALLO, Rilevanza penale dell’elusione fiscale, in Rass. Trib., 2001, 321 ss.; inoltre, cfr. DEL FEDERICO, Elusione e illecito tributario, in Corr. Trib., 2006, 3110 ss.; Id., Elusione tributaria codificata e sanzioni amministrative, in questa rivista, 2007, 284; PORCARO, Il rapporto tra elusione e sanzioni amministrative, in Corr. Trib., 1997, 2553 ss. 38 In questo senso, cfr. CORDEIRO GUERRA, Non applicabilità delle sanzioni amministrative per la violazione del divieto di abuso del diritto, in Corr. Trib., 2009, 771 ss.; COLLI VIGNARELLI, Elusione, abuso del diritto e applicabilità delle sanzioni amministrative tribu-

tarie, in Boll. Trib., 2009, 681; CONTRINO, Il divieto dell’abuso del diritto, cit., 489; più dubitativamente, CASTALDI, Punibilità del comportamento elusivo, in Corr. Trib., 2009, 2391 ss. 39 MARCHESELLI, Elusione, buona fede, cit., 418 ss. La tesi è suggestiva, ma (a parte quanto evidenziato infra, nota 46) mi pare ancorata alla giurisprudenzialmente “superata” ideologia sull’elusione, e non a caso il chiaro autore argomenta con la carenza di obblighi del contribuente volti ad «integrare contra se delle disposizioni di legge»: se si considera la clausola antiabuso in un’ottica integrativa, anziché interpretativa, della legge, le conclusioni possono essere diverse anche in punto sanzioni amministrative. 40Sulla natura delle norma interpretative cfr. MELIS, L’interpretazione, cit., 27 ss., cui si rinvia anche per l’accurata bibliografia di teoria generale. Le stesse sezioni unite hanno applicato la clausola antielusiva a situazioni di fatti verificatesi a cavallo degli anni novecentonovanta, presupponendone implicitamente la natura sostanziale. 41 Si veda l’espresso collegamento tra clausola antiabuso e principio di buona fede operato


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brellone dell’esimente42 dell’oggettiva incertezza interpretativa. Del resto, attenta dottrina ha da tempo sottolineato come «il disconoscimento della condotta elusiva comporta l’accertamento di un’imposta relativa ad un imponibile non dichiarato, per cui ricorrono i presupposti per l’applicazione delle sanzioni»43. In questo senso, proprio per evitare l’esito punitivo, è stato sottilmente evidenziato come la clausola antielusiva, pur possedendo natura sostanziale, implica una deroga all’obbligo di autoliquidazione, ed è quindi applicabile solo dall’amministrazione finanziaria44. A mio avviso, il sistema dei grandi tributi periodici è basato sull’obbligo (più che di liquidare l’imposta) di dichiarare un imponibile secondo le regole derivanti dalla norma impositiva45: conseguentemente, una deroga non solo dovrebbe essere espressa, ma – a rigore – implicherebbe quasi inevitabilmente forme di controllo obbligatorio e non meramente eventuale come attualmente disposto46. Del resto, la giurisprudenza sottolinea costantemente come, a livello di copertura costituzionale, anche le sanzioni amministrative siano soggette alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. e non a quella del successivo art. 25, di rilevanza solo penalistica47: in questo senso, e sino a che non si affermerà un diritto punitivo veramente “comune”48, non pare che l’interpretazione antiabuso implichi conseguenze diverse da altre situazioni di evasione, magari addirittura mero riprovevoli, quali un errore nell’imputazione a periodo di una componente reddituale. Infine, va ricordato che, anche (se non soprattutto) in materia elusiva, l’istituto dell’interpello è ormai conosciuto da tempo: non mi pare possano esserci dubbi circa l’astratta sanzionabilità di un comportamento che contrasti il “preventivo” parere dell’amministrazione. Segue: le esimenti Peraltro, ritenere i fatti elusivi sanzionabili, non significa che il contribuente debba sempre sopportare la punizione dell’ordinamento. Più specificamente, il sistema delle sanzioni amministrative contiene in sé una serie di norme che regolamentano situazioni non meritevoli di punizione: il riferimento cade in primo luogo alle esimenti, ed in particolare a quella dell’oggettiva incertezza interpretativa, a mio avviso da applicare a tutte i comportamenti

da Cass., sez. trib., 21 gennaio 2009, n.1465, ma già in Cass., 10 dicembre 2002, n. 17576. Cfr. COLLI VIGNARELLI, Collaborazione, buona fede ed affidamento nei rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria, in Dir. e Prat. Trib., 2005, I, 547 ss. 42 Esimente la cui sussistenza è da valutare solo una volta delineata l’applicabilità delle sanzioni. 43 Così CIPOLLINA, Elusione fiscale, cit., 383, a proposito dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1972, la quale specifica che essendo «gli illeciti [...] a condotta libera [...] le relative sanzioni sono subordinate soltanto al verificarsi del risultato illecito, indipendentemente dalla natura elusiva o evasiva della condotta». Nello stesso senso, ZIZZO, Elusione ed evasione tributaria, in AA.VV., Dizionario di diritto pubblico, a cura di Cassese, III, Milano, 2006, 2173 ss.; ZOPPINI, La condotta elusiva sotto il profilo della pena, in Riv. Dir. Trib., 2002, I, 580 ss. 44MARCHESELLI, Elusione, buona fede, cit., 414 ss., ma già LUPI, Elusione, valide ragioni economiche, cit., 388. 45 Sulla dichiarazione quale atto obbligato ad un contenuto veritiero, mi permetto rinviare a

verificatisi anteriormente l’intervento delle sezioni unite della Cassazione. Infatti, in presenza di un’ideologia interpretativa del tutto opposta a quella attuale, il contribuente elusore ha applicato la norma impositiva secondo criteri assolutamente dominanti: nulla si può rimproverargli sotto il profilo giuridico. Bene quindi hanno disposto, in punto sanzioni, alcune delle sentenze qui annotate49, anticipando una prima pronuncia della Corte di Cassazione, che ha confermato l’oggettiva incertezza interpretativa in un’ipotesi di applicazione della clausola antiabuso50. Per le situazioni verificatesi successivamente all’arresto delle sezioni unite, la questione si presenta più complessa: a mio avviso, qualora si giunga ad un’effettiva delimitazione del divieto dell’abuso del diritto, correlandolo e specificandolo puntualmente a livello di presupposto dei singoli tributi, potrebbero scemare molte delle questioni sinora sollevate in punto “indeterminatezza” delle fattispecie violate. Indeterminatezza che certo sussiste, e sussisterebbe ancora in futuro, qualora si perseveri a delineare la clausola antielusione sulla sola (evanescente) base dell’art. 53 della Costituzione. Inoltre, ulteriori delicate questioni emergono da discipline di fonte “sovra”statale, che contengono diversi elementi volti ad evitare la sanzionabilità dei comportamenti elusivi, quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo51 o la stessa normativa comunitaria, così come interpretata dalla Corte di giustizia52, dai pronunciamenti della quale in punto abuso ha certamente preso spunto la giurisprudenza interna. È auspicabile che simili stimoli “esterni” contribuiscano alla costruzione di quel diritto punitivo “comune” che solo può far rimeditare sulle conclusioni qui raggiunte sotto il profilo di un’irragionevole disparità di trattamento tra fattispecie elusive di tributi “domestici”, sanzionate, e di imposte armonizzate, non punite. A questo ultimo proposito, peraltro, il differente regime di punibilità potrebbe giustificarsi proprio in base alla diversa portata della clausola antiabuso in rapporto a quanto già osservato supra sui singoli presupposti d’imposta: clausola che assume natura “integrativa” della fattispecie in materia di Iva ove hanno diretta rilevanza le operazioni civilistiche, e solo “interpretativa” nell’ambito delle imposte dirette, ove i fatti civilistici rimangono esterni al “possesso di redditi”.

NUSSI, La dichiarazione tributaria, cit., 95 ss. 46Sui modelli di attuazione del tributo prima e dopo la riforma degli anni settanta, cfr. PERRONE, Evoluzione e prospettive dell’accertamento tributario, in Riv. Dir. Fin., 1982, I, 81; FANTOZZI, I rapporti tra fisco e contribuente nella nuova prospettiva dell’accertamento tributario, in Riv. Dir. Fin., 1984, I, 219 ss.; se si vuole NUSSI, La dichiarazione, cit., 13 ss. Del resto, il sistema già è costellato di “interpelli”, solitamente preventivi, volti proprio a stimolare il controllo dell’amministrazione finanziaria in ipotesi “a rischio” evasione o elusione: cfr. PISTOLESI, Gli interpelli tributari, Milano, 2007, passim; da ultimo, FRANSONI, Efficacia ed impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare riguardo all’interpello disapplicativo, in AA.VV., Elusione ed abuso del diritto tributario, cit., 77 ss. Certo, talune recenti normative implicano che per soggetti di rilevante dimensione imprenditoriale i controlli siano “quasi” obbligatori, ma ciò riguarda un numero limitatissimo di contribuenti, peraltro senza conseguenze sulle sanzioni amministrative. 47 Reputa invece irrilevante la norma costitu-

zionale di riferimento CORDEIRO GUERRA, Non applicabilità delle sanzioni amministrative, cit., 773. 48Esito del tutto auspicabile. 49 Comm trib. reg. Toscana, sez. XXVI, 1 aprile 2009, n. 26. 50Cass., sez. trib., 25 maggio 2009, n. 12042, in Corr. Trib., 2009, 1992, con nota di MARCHESELLI, Elusione e sanzioni: una incompatibilità logico giuridica. Peraltro, sempre recentemente e criticabilmente, la Suprema Corte non ha ritenuto applicabile d’ufficio, richiedendo l’allegazione dei fatti che la presuppongono, l’esimente de qua: cfr. Cass., sez. trib., 25 giugno 2009, n. 14987. 51 Si veda CORDEIRO GUERRA, Non applicabilità delle sanzioni amministrative, cit., 773, il quale delinea una significativa rilevanza della Convenzione de qua, sulla quale, più in generale per l’influenza sul diritto tributario, cfr. PERRONE, Diritto tributario e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Rass. Trib., 2007, 683 ss. 52 La Corte di Giustizia si è pronunciata in tal senso nella sentenza Halifax, già citata alla nota 9.


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Commissione tributaria di II grado di Trento, sez. I, 14 novembre 2008, n. 91 Presidente: Patumi - Relatore: Pontalti

gio 2008) nel quale chiedeva, in totale riforma della sentenza imAccertamento - Avviso di accertamento - Mancanza di pugnata, che venisse accertata la nullità degli avvisi di accertasottoscrizione - Nullità mento n. [...] e [...] elevati, dall’Agenzia delle Entrate, ufficio di (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42) Cles, nei confronti della medesima, che venisse conseguentemente annullata la cartella di pagamento n. [...], notificata in daProcesso tributario - Azione di nullità - Assenza di li- ta 30 maggio 2007 in una alla relativa iscrizione a ruolo, con miti temporali - Domanda di dichiarazione della nul- condanna dell’ufficio al rimborso delle somme versate dalla melità di un atto non impugnato, in occasione dell’impu- desima nelle more del giudizio e vittoria di spese in ordine ed engnazione di un atto successivo - Ammissibilità trambi i gradi di giudizio. (L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21-septies; D.Lgs. 31 dicembre Si costituiva, di poi, l’ufficio con proprio atto di controdeduzioni 1992, n. 546) del 2 maggio 2008 (depositato in data 9 maggio 2008) nel quale chiedeva, in via pregiudiziale, che venisse respinto l’appello stesL’avviso di accertamento privo di sottoscrizione è nullo ai sensi dell’art. 42, so perché avente ad oggetto atti che, autonomamente impugnaD.P.R. 600/1973. bili, sarebbero ormai definitivi in quanto non impugnati, il tutto con conseguenze condanna della contribuente al pagamento delIl contribuente può chiedere la dichiarazione di nullità di un atto senza limi- le spese di entrambi i gradi di giudizio. ti di tempo e anche in occasione dell’impugnazione di un atto ad esso succes- Il gravame della contribuente va accolto per i seguenti motivi. sivo e conseguente e anche quando l’atto nullo presupposto non sia stato im- La Commissione ritiene opportuno valutare, in via preliminare, pugnato. l’eccezione di inammissibilità dell’atto di appello sollevata dall’ufficio per l’asserita carenza di motivi specifici di impugnazioCon ricorso del 4 giugno 2007 la società V.S. S.p.A. impugnava ne. L’ufficio ritiene, infatti, che l’appellante si sia limitato a rila cartella di pagamento n. [...] che, notificatale in data 30 mag- proporre le argomentazioni già svolte in primo grado, senza ingio 2007, traeva origine dagli avvisi di accertamento n. [...] e n. dicare gli specifici motivi di censura sollevati con riferimento al[...] e le intimava il pagamento della somma di euro 907.768,00. la sentenza impugnata. La ricorrente impugnava la predetta cartella contestandone l’i- Questa Commissione ritiene, invece, che l’appellante abbia indinesistenza, o, quantomeno, la nullità degli atti impositivi, in cato espressamente, a pagina 11 del proprio atto di appello, la quanto non consistevano di individuare il soggetto emanante, censura mossa nei confronti della sentenza di primo grado. cioè il funzionario (nome e qualifica) che aveva firmato l’atto. L’obbligo di indicare i motivi specifici di impugnazione nell’atto La medesima ricorrente rilevava, di poi, l’illegittimità della firma di appello, peraltro, non impone una formulazione rigorosa e forapposta dal predetto funzionario e l’assenza delle indicazioni malistica delle ragioni poste a fondamento dell’atto medesimo. prescritte. La presente Commissione ritiene sufficienti, infatti, un’esposizioLa V.S. S.p.A., poste le succitate premesse, chiedeva la sospensio- ne chiara ed univoca delle doglianze espresse, potendosi l’enunne della cartella de qua, ritenendo la sussistenza, nella fattispecie ciazione dei motivi ricavare anche dalla lettura dell’intero atto di di cui in causa, sia del fumus boni iuris nei motivi di cui al ricorso, appello, considerato nel suo complesso; lettura, questa, che apsia del periculum in mora nel grave pregiudizio in cui la società stes- pare sufficiente ad individuare, nel caso di specie, gli specifici sa sarebbe incorsa nel caso di pagamento di detta somma. motivi di impugnazione sollevati nei confronti della decisione di La ricorrente chiedeva, pertanto, l’immediata sospensione, ai primo grado, anche indipendentemente dall’espressa enunciasensi dell’art. 47 del D.Lgs 546/1992, della succitata cartella zione che ne ha fatto l’appellante. esattoriale, e, nel merito, l’annullamento della cartella stessa, con Venendo, quindi, al merito della vicenda, la Commissione tribucondanna al rimborso delle somme versate oltre alle spese. taria di secondo grado ritiene condivisibili le argomentazioni di Si costituiva, di poi, l’ufficio con propria memoria in data 21 giu- parte appellante. gno 2007 nella quale, contestando agli assunti avversari, si ri- I fatti oggetto del processo non sono contestati dalle parti: l’Achiamava, in toto, al comma 3 dell’art. 19 del D.Lgs 546/1992, genzia delle Entrate, ufficio di Cles, ha elevato nei confronti di secondo il quale: «ognuno degli atti autonomamente impugna- V.S. S.p.A., nel dicembre del 2006, due distinti avvisi di accertabili può essere impugnato solo per vizi propri», che possono rife- mento che la ricorrente non ha impugnato. In forza di detti avrirsi sia ad aspetti sostanziali (es: attuazione del prelievo), come visi di accertamento veniva, quindi, emessa dal competente formali (es: regolarità della procedura seguita), ma non può ri- agente della riscossione la cartella di pagamento oggetto del preguardare altri atti come, nella fattispecie di cui in causa, un avvi- sente processo, impugnata da V.S. S.p.A. che ha eccepito, già nel so di accertamento originariamente non impugnato. primo grado di giudizio, la nullità degli avvisi di accertamento L’ufficio chiedeva, invece, che venisse rigettata l’istanza di so- posti a fondamento della cartella di pagamento de qua, presenspensiva perché asseritamente pretestuosa nel periculum in mora ed tando i medesimi una sottoscrizione del tutto illeggibile ed esinsussistente nel fumus e che, in punto di merito, venisse dichia- sendo, altresì, privi di qualsiasi elemento idoneo ad attestarne la rata l’inammissibilità del ricorso perché tardivo, oltre alla con- provenienza. danna alle spese. Nel caso di specie le firme degli originari avvisi di accertamento, La Commissione tributaria di primo grado respingeva il ricorso da cui trae origine la cartella di pagamento impugnata nel predella contribuente dichiarando interamente compensate le spese sente processo, risultano effettivamente illeggibili, ed, inoltre, del giudizio. analizzando nella loro interezza gli atti medesimi, non è dato rinAvverso la succitata sentenza interponeva appello la contribuen- venire alcun altro elemento (quale l’apposizione del sigillo o del te con proprio atto del 20 aprile 2008 (depositato in data 2 mag- timbro di un ufficio o l’indicazione della qualifica del funziona-


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rio competente) che consenta di individuare inequivocabilmente se gli atti impositivi in questione siano stati emessi dall’organo amministrativo titolare del relativo potere di adottarli, ossia dal direttore reggente o da un suo delegato. Questa Commissione ritiene, pertanto, che la fattispecie in esame vada inquadrata nell’ambito dell’art. 42 del D.P.R. 600/1973, il quale prevede la “nullità” dell’atto, ove non recante la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. V.S. S.p.A. non ha, però, sollevato tale censura in sede di impugnazione degli avvisi di accertamento in questione, eccependo, invece, la nullità di detti atti “prodromici” in occasione dell’impugnazione della conseguente cartella di pagamento. Posta tale premessa si deve, quindi, valutare se la ricorrente avesse la facoltà di sollevare tale eccezione non in occasione dell’impugnazione degli atti viziati da tale nullità, ma in occasione di atti successivi, anche alla luce del disposto dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, il quale prevede che ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri. Questa Commissione, in riferimento a questo specifico aspetto della presente vertenza, ritiene condivisibile l’iter logico-giuridico proposto da parte ricorrente. La giurisprudenza, infatti, a far data della decisione delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 19854/2004, ha aderito all’orientamento dottrinale che attribuiva agli atti impositivi la natura di veri e propri atti amministrativi attraverso i quali l’amministrazione afferma nei confronti del contribuente le ragioni ed il contenuto della pretesa tributaria; di talché il momento processuale (sulla cui base altra parte della dottrina intravedeva la natura processuale degli atti impositivi) è meramente eventuale e, quindi, non determinante la natura dell’atto. Attesa tale, ci si deve, quindi, oggi interrogare se agli atti impositivi sia applicabile la legge generale in materia di procedimento amministrativo di cui alla L. 241/1990, come modificata dalla L. 15/2005. Al riguardo si osserva che già la stessa L. 241/1990 prevede un’unica eccezione alla sua applicabilità agli atti impositivi, rappresentata dall’art. 24, il quale esclude il diritto di accesso nei procedimenti tributari; con il che parrebbe di doverne trattare la conseguenza che le altre norme della legge generale sul procedimento amministrativo siano applicabili anche ai procedimenti tributari. Recentemente, inoltre, la stessa Corte costituzionale ha avuto modo di affermare l’applicabilità della L. 241/1990 ai procedimenti tributari con l’ordinanza n. 337/2007 pronunciata in materia di cartelle di pagamento non indicanti il responsabile del procedimento. Alla luce, quindi, della natura degli atti impositivi, del dettato normativo e della stessa giurisprudenza della Corte costituzionale, questa Commissione ritiene che la legge generale sul procedimento amministrativo trovi applicazione anche in relazione al procedimento tributario. E l’art. 21-septies della L. 241/1990, introdotto dalla L. 15/2005 dispone oggi che «è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o esclusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge»; circostanza, questa, che ulteriormente conferma la nullità degli avvisi di accertamento posti a fondamento della cartella di pagamento oggetto del presente processo già sopra rilevata. La L. n. 15/2005, inoltre, ha introdotto nella disciplina generale del procedimento amministrativo la distinzione tra l’atto nullo ed

atto annullabile, distinzione questa che, prima presente solo nel diritto civile, rimodula i rimedi applicabili (l’atto annullabile può essere convalidato; l’atto nullo può solo essere rinnovato con effetti ex nunc) e delle misure giurisdizionali rispettivamente sollecitabili (annullamento per gli atti illegittimi e accertamento della nullità per gli atti nulli). E tale normativa, applicabile anche relativamente a procedimento tributario, impone, ad avviso della Commissione tributaria di secondo grado adita, di dare ingresso anche nel diritto tributario alla differenza (un tempo solo civilistica) tra atto nullo ed atto annullabile, di talché la nullità di un atto impositivo non può più oggi essere intesa e parificata quale annullabilità del medesimo. Come osservato dalla migliore dottrina, non si può più oggi sostenere che la nullità cui fanno riferimento le leggi tributarie corrisponde all’annullabilità, con conseguente necessaria riconduzione alle singole previsioni di nullità contenute nelle leggi tributarie alla nullità disciplinata con riferimento al procedimento amministrativo. Un atto nullo, anche se tributario, non è, in radice, un provvedimento amministrativo, ossia non ha alcuna attitudine a produrre gli effetti propri del provvedimento, non potendo modificare unilateralmente la situazione del destinatario. Ne deriva, pertanto, che la nullità è deducibile senza i rigori tipici anche relativamente ai termini decadenziali, e, quindi, anche tranducendola in un motivo di ricorso proposto avverso un atto che deriva i propri effetti da un atto prodromico affetto da nullità, quand’anche non impugnato dal destinatario. Questa Commissione ritiene, quindi, che le novellate norme sul provvedimento amministrativo nullo consentono di applicare, anche con riferimento al provvedimento amministrativo e, quindi, al provvedimento tributario, il nucleo essenziale delle norme disciplinanti la nullità nel Codice civile, ed, in particolare, la regola della imprescrittibilità dell’azione di nullità: l’assoluta inidoneità strutturale dell’atto nullo fa si che il contribuente possa, quindi, eccepire e chiedere la nullità di un atto impositivo senza alcun limite temporale, quindi anche in occasione dell’impugnazione di atti ad esso successivi e conseguenti e quand’anche l’atto nullo presupposto non sia stato impugnato. Alla luce di quanto sopra, venendo alla fattispecie in esame, V.S. S.p.A. ben poteva eccepire la nullità degli avvisi di accertamento posti a fondamento della cartella di pagamento oggetto del presente processo (solo) in occasione dell’impugnazione di detta cartella, e ciò nonostante il disposto del terzo comma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 che oggi ha da ritenersi riferibile ai soli vizi di annullabilità, e non di nullità. Le succitate premesse, complessivamente considerate, determinano che gli originari avvisi di accertamento sono viziati da nullità perché incapaci di consentire l’individuazione del soggetto che li ha emanati, e, quindi, radicalmente inidonei a produrre effetti giuridici, il tutto con la conseguente illegittimità della cartella di pagamento impugnata dalla ricorrente che, conseguentemente, va annullata. Quanto, infine, alla circostanza che V.S. S.p.A. avrebbe proposto un’istanza di accertamento con adesione relativamente a detti avvisi di accertamento, questa Commissione osserva e rileva che di detta circostanza non vi è prova nel presente giudizio, non avendo l’Agenzia delle Entrate prodotto delle istanze; e, peraltro, detta iniziativa non avrebbe, in ogni caso, potuto sanare la nullità di detti atti. La complessità della materia e la novità delle questioni trattate impongono la compensazione delle spese tra le parti.


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Nota La sentenza della Commissione tributaria di II grado di Trento affronta due profili entrambi di rilievo. In primo luogo si sofferma sulle conseguenze di avvisi di accertamento privi della firma o con firma illeggibile decretandone la nullità ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 42 del D.P.R. 600/1973. Sul punto si segnala Cass., 27 novembre 2000, n. 14195, in cui si dichiara l’illegittimità di avvisi di accertamento qualora non risultino «sottoscritti dal capo dell’ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva (addetto a detto ufficio) validamente delegato dal reggente di questo». Ancora più recentemente la Suprema Corte, con sentenza del 23 aprile 2008, n. 10513, ha precisato che l’avviso di accertamento è nullo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, «se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell’ufficio titolare ma di un funzionario, quale il direttore tributario, di nona qualifica funzionale, incombe all’amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, l’esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio». La sottoscrizione di provvedimenti a contenuto autoritativo come gli atti di accertamento – per i quali la legge detta, oltretutto, precise norme che limitano il potere di firma solo a certi soggetti – non ha come unica funzione quella di consentire l’attribuzione di paternità dell’atto, ma altresì, quella di consentire al contribuente di controllare la sussistenza della legittimazione del firmatario a sottoscrivere; e tale possibilità di controllo deve potersi esercitare sulla base degli elementi risultanti dall’atto e non aliunde. Un atto a carattere provvedimentale e a contenuto decisorio deve essere in sé completo ed autosufficiente, cioè contenere tutti gli elementi necessari ad evidenziarne la conformità ai requisiti di legge. Il fatto che l’identità del sottoscrittore possa essere accertata dal contesto dei fatti o ad esempio rivolgendosi direttamente all’amministrazione finanziaria non può pertanto rimediare all’intrinseca carenza dell’atto, più di quanto non costituisca rimedio alla mancata specificazione delle aliquote d’imposta applicate il fatto che queste possano essere facilmente conosciute richiedendole all’ufficio. Recente giurisprudenza di merito (ex multis Comm. trib. prov. Vicenza, 23 maggio 2007, n. 46; Comm. trib. prov. Torino, 29 ottobre 2007, n. 972; Comm. trib. prov. Rimini, 15 giugno 2009, n. 135; Comm. trib. reg. Lazio, 9 marzo 2009, n. 20) conferma la configurazione del vizio di mancanza di sottoscrizione del soggetto responsabile dell’ufficio o – nella controversia piemontese – della sola firma automatizzata e non autografa, come nullità assoluta dell’avviso di accertamento. L’altro interessante aspetto considerato nella sentenza è quello

relativo alla contestazione della nullità dell’avviso fatta valere per la prima volta in sede di impugnazione della successiva cartella di pagamento. La Commissione trentina in primo luogo ha analizzato le modifiche apportate dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15 alla legge sul procedimento amministrativo (L. 7 agosto 1990, n. 241). La nuova disciplina dettata in tema di vizi degli atti amministrativi dispone all’art. 21-septies (L. 241/1990) che «è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge». A sua volta l’art. 21-octies stabilisce al primo comma che «è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza». Viene meno dunque la distinzione tra inesistenza e nullità dell’atto e vengono disciplinate entrambe come ipotesi di nullità. (Sul punto si veda di Cass., 16 settembre 2005, n. 18408, che stabilisce che il difetto di sottoscrizione ha come conseguenza l’inesistenza dell’atto impositivo «o se si preferisce in adesione al lessico impiegato dall’art. 21-septies della L. 241/1990, come modificato dalla L. 15/2005, la nullità del provvedimento amministrativo per mancanza di uno degli elementi essenziali»). A contrariis si sottolinea che a sua volta l’art. 21-octies disciplina il diverso istituto dell’annullabilità dimostrando che il legislatore ha voluto tenere ben distinti i due diversi istituti. Stabilito che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento è elemento essenziale dell’atto quando si tratti di atti di natura provvedimentale a carattere singolare ed a contenuto decisorio, quali sono gli atti di accertamento tributario, è il dettato normativo stesso, poi, che indica come conseguenza della mancanza di sottoscrizione la nullità dell’avviso di accertamento. Ne deriva, pertanto, che la nullità è deducibile senza i rigori tipici anche relativamente ai termini decadenziali, e, quindi, anche tranducendola in un motivo di ricorso proposto avverso un atto che deriva i propri effetti da un atto prodromico affetto da nullità, quand’anche non impugnato dal destinatario. La Commissione di II grado di Trento ricorda, poi, che a differenza dell’annullabilità, la nullità dell’atto ha come conseguenza l’assoluta improduttività di effetti. Se dunque l’atto è affetto da vizi che comportano la sua radicale nullità, come nel caso di mancanza di sottoscrizione, è chiaro che esso resterà comunque privo di ogni effetto, impugnato o meno che sia. L’atto radicalmente nullo è per così dire un atto nato morto. Per questo la nullità dell’atto per vizio di sottoscrizione, al contrario della semplice annullabilità, secondo la Commissione trentina, potrà sempre essere fatta valere anche dopo che siano scaduti i normali termini di impugnazione, in sede di ricorso contro un atto successivo.


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Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. XII, 1 luglio 2009, n. 76 Presidente: Martone - Relatore: Giorgi

Ici - Agevolazioni ed esenzioni - Abitazione principale Estensione dell’esenzione dell’abitazione alle pertinenze - Autorimesse accatastate in modo distinto, ma utilizzate unitariamente - Rilevanza della nozione civilistica di pertinenza - Irrilevanza delle norme regolamentari comunali (C.c., art. 817; D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 2) In tema di esenzione Ici dell’abitazione principale, il vincolo di pertinenzialità rispetto all’abitazione principale di due autorimesse accatastate distintamente, ma utilizzate unitariamente, da cui consegue l’estensione ad esse dell’esenzione dell’abitazione, deve essere accertata in concreto, sulla base delle disposizioni del Codice civile, senza considerare le norme regolamentari comunali. Svolgimento del processo Con ricorso depositato in data 21 gennaio 2009, la parte ricorrente proponeva opposizione avverso l’avviso di accertamento per imposta Ici, n. 15475 emesso dal Comune di Medicina, provincia di Bologna, con riferimento all’anno d’imposta 2006, notificato in data 14 novembre 2009. [Omissis] Con l’avviso di accertamento impugnato, l’ente impositore escludeva l’agevolazione prevista per l’abitazione principale ad una delle due pertinenze che il contribuente aveva indicato. Il ricorrente impugnava la maggiore pretesa, sostenendo di essere proprietario di tre unità immobiliari: una costituita da abitazione principale e le altre due costituite da due autorimesse pertinenziali; queste ultime, ancorché oggetto di autonoma individuazione catastale, erano di fatto tra loro unite e venivano utilizzate dal ricorrente come pertinenza della propria abitazione. Si costituiva il Comune di Medicina, contestando la pretesa della ricorrente e facendo rilevare come l’art. 15-bis del regolamento Ici, adottato dal medesimo Comune, prevedesse la possibilità di estendere il beneficio dell’abitazione principale ad una sola pertinenza, contraddistinta nella categoria catastale C/6, C/7 o C/2. Replicava il contribuente con memoria, depositando riproduzioni fotografiche dell’autorimessa e facendo rilevare come l’art. 15bis del regolamento dovesse ritenersi illegittimo ed andasse, di conseguenza, disapplicato. Tale disposizione di rango inferiore, infatti, si poneva in contrasto con gli artt. 817 e 818, c.c. Nota In materia di Ici viene generalmente esclusa l’autonoma tassabilità delle aree pertinenziali, così come si ritiene che non costituisca ostacolo all’applicazione dell’esenzione o agevolazione il fatto che esse abbiano un’iscrizione catastale distinta rispetto alla costruzione principale. In tal senso v. Cass., sez. trib., 26 agosto 2004, n. 17035, in Corr. Trib., 2004, 3403 (con nota di IANNIELLO, Il concreto vincolo pertinenziale “prevale” sul formale accatastamento dell’immobile); Cass., sez. trib., 16 marzo 2005, n. 5755, in Riv. Dir. Trib., 2005, II, 327 (con nota di BEGHIN). È invece rilevante l’appartenenza del bene a due distinti proprietari; v. in tal senso Cass., 24 giugno 2004, n. 19161, in banca dati fisconline. Sulla necessaria compresenza del requisito soggettivo ed oggettivo cfr.

La causa veniva discussa alla pubblica udienza del 24 giugno 2009 e decisa con la motivazione di cui appresso. Motivi della decisione Questa Commissione ritiene che il ricorso debba essere accolto. In primo luogo, infatti, deve essere osservato che la nozione di pertinenza rilevante ai fini dell’imposta comunale sugli immobili (Ici) è quella civilistica, come delineata dall’art. 817, c.c.; in tal senso si veda Cass. civ., sez. trib., 25 marzo 2005, n. 6501; tale principio è, peraltro, espresso anche dal parere del Consiglio di Stato 24 novembre 1998, n. 1279, prodotto dal Comune resistente. Ora, se questo è il principio cui ci si deve attenere, risulta evidente come il vincolo di pertinenzialità debba essere accertato in concreto sulla base delle disposizioni del Codice civile; in tal senso, con chiarezza, ancora la Corte Suprema: «in materia di imposta comunale sugli immobili, l’esclusione dell’autonoma tassabilità delle aree pertinenziali, disposta dall’art. 2, D.Lgs. 30 dicembre 1992 n. 504, fonda l’attribuzione del rapporto pertinenziale su un criterio fattuale, rappresentato dalla destinazione effettiva e concreta di una cosa al servizio e all’ornamento di un’altra, senza che assuma rilievo la distinta iscrizione in catasto della pertinenza e del fabbricato, né il regime di edificabilità che lo strumento urbanistico eventualmente attribuisca all’area pertinenziali» (Cass. civ. sez. trib., 13 luglio 2007, n. 15739, in banca dati fisconline). Di conseguenza risulta di piena evidenza come l’esistenza o meno di un simile vincolo non possa essere regolata dalla norma regolamentare invocata dal Comune, la quale, in quanto illegittima, non può trovare applicazione. In punto di fatto, avendo il ricorrente documentato la situazione della propria autorimessa, utilizzata unitariamente ancorché assoggettata a duplice identificazione catastale e non avendo svolto il Comune resistente alcuna contestazione circa l’esistenza in concreto del vincolo pertinenziale, deve ritenersi fondata la pretesa svolta dalla medesima parte. Il ricorso merita, pertanto, di essere accolto. La particolarità del caso e la soccombenza del Comune circa l’eccezione pregiudiziale, inducono la Commissione a compensare integralmente le spese di lite. La Commissione tributaria provinciale di Bologna, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso. Compensa integralmente tra le parti le spese di lite. anche Comm. trib. prov. Roma, 10 marzo 2004, n. 75, ivi. La giurisprudenza di legittimità si è espressa a più riprese nel senso di ritenere che, ai fini dell’applicazione dell’art. 2, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, che esclude l’autonoma tassabilità delle aree pertinenziali, la nozione di pertinenza debba essere valutata in riferimento alle disposizioni di carattere generale contenute nell’art. 817 ss. c.c. Cfr. per tutte Cass., sez. trib., 16 marzo 2005, n. 5755, cit.; Cass., sez. trib., 13 luglio 2007, n. 15739, in Finanza loc., 2008, 4, 94. Per la giurisprudenza di merito, Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 10 febbraio 2005, in Fisco, 2005, 1 ss. V. anche Comm. trib. prov. Udine, 3 ottobre 2003, n. 48, ivi, ove si è ritenuto intassabile un giardino, posto a servizio di un’abitazione, facendo ricorso alla nozione civilistica, come delineata dall’art. 817 c.c. ed escludendo il richiamo alla (diversa) nozione


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edilizia o urbanistica. Sull’inquadramento dei giardini tra le pertinenze v., da ultimo, Cass., sez. trib., 11 settembre 2009, n. 19638, in banca dati fisconline. Si veda però anche Cass., sez. trib., 8 marzo 2005, n. 5015, in banca dati fiscoline, nella quale, in un caso in cui si controverteva sulla pertinenzialità di due suoli, i giudici hanno ritenuto che il vincolo della pertinenza non possa essere ricavato implicitamente, sulla base di una dichiarazione che essi costituiscono un’unica unità urbanistica, ma deve esser specificamente indicato; inoltre la richiesta di un accatastamento separato di immobili che pur si affermi legati da vincolo pertinenziale costituisce di per sé prova dell’inesistenza del vincolo stesso. Nel caso in rassegna, oggetto di contestazione era l’esistenza di un vincolo di pertinenza ad abitazione principale di due garage, assoggettati a duplice identificazione catastale, ma utilizzati unitariamente. I giudici felsinei hanno ritenuto, sulla scorta della

giurisprudenza costante della Corte di Cassazione, che la valutazione circa la pertinenza di un bene ad un altro sia da farsi in concreto, tenendo conto della nozione dettata dall’art. 817 c.c. Il dato più significativo della sentenza de qua è costituito dal fatto che, facendo leva sul necessario richiamo alla normativa civilistica, si è ritenuto di disapplicare in quanto illegittima una norma del regolamento Ici di un Comune, che limitava la possibilità di estendere il beneficio dell’esenzione da imposta dell’abitazione principale ad una sola pertinenza, contraddistinta nella categoria catastale C/6, C/7 o C/2. In dottrina sul tema cfr. GERLA, Ici: aree edificabili. Trattamento delle pertinenze, in Fisco, 2005, 1 ss.; PICCOLO, Ici. Agevolazioni per coltivatori diretti e imprenditori agricoli: intassabilità delle aree pertinenziali, in Fisco, 2004, 1 ss.; TOMBESI-PACI, Pertinenze dell’abitazione principale ai fini Ici, in Riv. Trim. Appalti, 2003, 2, 25; BUSANI, L’applicazione dell’Ici alle pertinenze dell’abitazione principale, in Finanza loc., 1999, 1075.


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Commissione tributaria regionale del Veneto, Verona, sez. XXV, 9 giugno 2008, n. 20 Presidente: Prato - Relatore: Pravisano

Imposta di registro - Atti e contratti - Negozio di trust Natura di prestazione a contenuto patrimoniale - Sussistenza - Imposta di registro in misura proporzionale - Applicabilità - Anticipazione da detrarre da quanto dovuto sull’assegnazione dei beni al beneficiario dopo la cessazione del trust (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 20 e 21; tariffa allegata, parte I, artt. 9 e 11) Il trasferimento della proprietà di beni immobili al trustee è un atto con contenuto patrimoniale, soggetto ad imposta proporzionale di registro di registro con aliquota del 3%, ai sensi dell’art. 9 della tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986; peraltro, per impedire una duplicazione d’imposta, l’importo pagato è da considerare come un’anticipazione di quanto sarà dovuto per l’assegnazione dei beni al beneficiario, al momento della cessazione del trust. Svolgimento del processo Contro le sentenze n. 76 e 77, emesse dalla Commissione tributaria provinciale di Vicenza in data 13 maggio 2006, con le quali ha accolto i ricorsi presentati da F.I., M.A., S.G., l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Vicenza 2 [...] ha presentato appello [...]. All’appello risultano allegati: autorizzazione della Direzione regionale del Veneto per la presentazione dell’appello; ricevute delle raccomandate con cui è stato inviato l’appello ai ricorrenti, ricevuta dell’avvenuta presentazione della copia dell’appello alla segreteria della Commissione tributaria provinciale di Vicenza. Unitamente all’appello l’ufficio fa anche istanza di riunione dei fascicoli processuali relativi alle n. 2 (due) sentenze in contenzioso, per connessione oggettiva. Oggetto della controversia è un atto istitutivo di trust, redatto in data 22 aprile 2005 presso il notaio dott. B.I. di Lonigo (VI) – denominato “trust P.”– con cui sono stati trasferiti beni immobili di proprietà del disponente F.E., con indicazione dei riferimenti catastali, al fine di assicurare l’indipendenza economica alla figlia F.I., a seguito della separazione del disponente con il coniuge M.A. Per la realizzazione concreta dell’affidamento dei beni sono stati nominati affidatari (“trustee”) fiduciari i signori M.A. e S.C. L’atto di trust esaurisce i suoi effetti giuridici dopo n. 50 (cinquanta) anni dalla sua sottoscrizione. Gli affidatari fiduciari debbono gestire il patrimonio immobiliare del trust per soddisfare gli interessi della beneficiaria F.I., con l’intesa che il suddetto dovrà essere trasferito – al termine del contratto – alla beneficiaria. Nell’atto è stato precisato che la beneficiaria ha diritto di abitarvi permanentemente a titolo di comodato precario, anche prima della scadenza contrattuale. Nell’atto è stato conferito al “trustee” il solo potere dell’amministrazione ordinaria e straordinaria, con obbligo di rendicontazione alla parte beneficiaria. L’Agenzia delle Entrate, ufficio di Vicenza 2 ha emesso un avviso di liquidazione dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale a: a) M.A. e S.G., quali debitori principali, come “trustee”; b) F.I., quale debitore solidale, come soggetto beneficiario del trust. In tale avviso vengono richieste le seguenti somme, determinate al valore imponibile di euro 282.000,00 (duecentottantaduemila):

- imposta di registro suppletiva euro 8.292,00 (ottomiladuecentonovantadue), - imposta di trascrizione euro 5.472,00 (cinquemilaquattrocentosettantadue), - imposta catastale euro 2.652,00 (duemilaseicentocinquantadue), - per un totale di euro 16.416.00 (sedicimilaquattrocentosedici). A motivazione della ripresa fiscale l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Vicenza 2 precisa che l’atto in esame ha comportato un trasferimento della proprietà degli immobili oggetto del trust dal disponente in favore dei “trustee” fiduciari, che riveste un oggettivo contenuto patrimoniale, anche se l’operazione di trasferimento risulta posta a titolo gratuito. Nell’appello l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Vicenza 2 contesta pregiudizialmente l’assenza di legittimazione passiva da parte della F.I., precisando che la propria azione accertativa è motivata dalla normativa contenuta nell’art. 20, D.P.R. n. 131 del 26 aprile 1986. L’imposta risulta determinata in base all’art. 9, tariffa, parte I, D.P.R. n. 131/1986. Precisa che l’atto in esame non può rientrare nella categoria dei negozi sospensivamente condizionati in quanto il “trust” produce effetti traslativi immediati dal “settlor” al “trustee” dei beni immobili oggetto del contratto stesso. Contesta altresì la sentenza dei giudici di primo grado per la parte in cui esclude la natura patrimoniale delle prestazioni oggetto dell’atto, sostenendo la mancanza dell’effetto traslativo dello stesso. Secondo i giudici di primo grado gli immobili indicati nel trust non sarebbero trasferiti ma rimangono destinati e vincolati allo scopo del trust ed il trasferimento della proprietà avverrebbe solamente al termine del contratto (cioè dopo n. 50, cinquanta, anni). Tale sentenza è da ritenersi censurabile. Dopo avere escluso che tale atto possa configurarsi una donazione, per assenza dell’animus donandi, precisa che lo stesso si compone di tre fondamentali momenti: atto istitutivo del trust, atto dispositivo o di dotazione patrimoniale, in favore del “trustee”, atto finale di trasferimento dei beni dal “trustee” al beneficiario finale degli stessi. Per quanto concerne il primo atto, essendo un atto pubblico con finalità programmatiche e privo di contenuto economico-patrimoniale, va applicata l’imposta di registro in misura fissa (art. 11, tariffa parte I, D.P.R. n. 131/1986). Il secondo atto è invece definibile come negozio fiduciario con il passaggio al “trustee” della piena proprietà dei beni oggetto del contratto. Ciò comporta che l’intestazione fiduciaria dei beni fa sorgere un vero e proprio trasferimento, limitato da obblighi da osservare inter partes, in quanto costituisce un atto di alienazione contenente una limitazione finalizzata al raggiungimento di un dato fine. Ne consegue che con tale atto avvengono due distinti e successivi passaggi di proprietà: uno dal “settlor” al “trustee” (con l’atto dispositivo), l’altro successivo dal “trustee” al “beneficiary” (con l’atto finale) che costituisce il terzo momento dell’atto. Da ciò deriva la correttezza interpretativa e applicativa dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di Vicenza 2. Richiede pertanto la conferma della legittimità accertativa ope-


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rata con la riforma totale della sentenza impugnata e con vittoria di spese di giudizio. In data 16 ottobre 2007 le parti ricorrenti presentano separati atti di costituzione in giudizio, con le relative controdeduzioni. Fanno altresì richiesta che la trattazione dell’appello avvenga per pubblica udienza. Hanno precisato che i ricorsi erano stati presentati al fine di ottenere il riconoscimento che l’atto istitutivo del “trust P.” doveva essere registrato in misura fissa, in quanto si tratta di un trust interno la cui legittimità è stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza civile. Tale istituto risulta conosciuto anche dal nostro ordinamento giuridico, con L. n. 364 del 16 ottobre 1989 (che ha ratificato la convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985) e dall’art. 2645-ter, c.c. che prevede la possibilità di trascrizione di atti di destinazione finalizzati alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela. In assenza di un’esplicita normativa, l’assoggettamento dell’atto alle imposte indirette (registro, ipotecarie e catastali) deve tenere conto dei seguenti elementi: a) trasferimento dei beni a titolo gratuito, senza alcuna attribuzione liberale del disponente; b) segregazione dei beni agli obiettivi contenuti nell’atto, senza alcun arricchimento patrimoniale in favore del “trustee”, il quale acquisisce solo l’obbligo di amministrare e gestire i beni ricevuti. Pertanto l’imposta di registro va applicata in misura fissa, come previsto dall’art. 11, tariffa, parte I, D.P.R. n. 131/1986, in quanto l’operazione è equiparabile al fondo patrimoniale (art. 167, c.c.). Fa richiesta: a) in via pregiudiziale; del riconoscimento dell’assoluta carenza di legittimazione passiva della F.I.; b) in via principale: della legittimità della sentenza di primo grado; c) in via subordinata; dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, con le franchigie ed esenzioni previste a favore del coniuge e dei discendenti. In sede di discussione per pubblica udienza la Commissione ha proceduto alla riunificazione degli Appelli contro M.A., S.G. e F.I. per connessione oggettiva, trattandosi di un unico allo di contenzioso (contratto di costituzione di un trust immobiliare). Motivazioni della decisione Il trust è un contratto istituito dalla convenzione internazionale de l’Aja del 1 luglio 1985 ratificata e resa esecutiva in Italia con L. n. 364 del 16 ottobre 1989. Oggetto di contenzioso è un contratto di trust immobiliare ai fini dell’applicazione delle Imposte Indirette. Tale contratto non è regolato nell’ordinamento giuridico nazionale in quanto il legislatore italiano si è limitato solo alla ratifica della convenzione, senza esporre anche la norma di attuazione. Il giudice è pertanto tenuto a controllare, in concreto, il programma negoziale del contratto (Tribunale di Trieste, sentenza 7 aprile 2006) al fine di verificare l’ambito applicativo rispetto alle norme oggetto di contenzioso. Ciò in quanto l’istituto deriva dall’ordinamento giuridico della “Common Law” (noto come trasferimento fiduciario dei beni le cui origini risalgono al medioevo). Il trust immobiliare in esame è definibile come un “trust interno”. La giurisprudenza, dopo un periodo iniziale di negazione giuridica (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sentenza 14 luglio 1999; Tribunale di Belluno, sentenza 25 settembre 2002; Tribunale di Velletri, ordinanza 29 giugno 2005), ha riconosciuto la validità di tale contratto (Tribunale di Milano, sentenza 6 febbraio 1998; Tribunale di Parma, sentenze del 31 ottobre 2003 e

del 3 marzo 2005; Tribunale di Napoli, decreto 14 luglio 2004; Tribunale di Trieste, sentenza 7 aprile 2005). Anche il legislatore tributario ha riconosciuto la soggettività passiva ai fini delle imposte dirette (art. 1, comma 74, lettera a, numero 1, L. n. 266 del 23 dicembre 2006) legittimandone l’esistenza giuridica. Il trust immobiliare si perfeziona con il trasferimento della proprietà immobiliare al “trustee” (Tribunale di Trieste, sentenza 23 settembre 2005). Ai fini delle imposte indirette è indispensabile procedere ad una definizione contrattuale. Infatti se avviene un trasferimento di natura patrimoniale il contratto deve assolvere l’imposta di registro. Un primo elemento da considerare è quello che il trust nasce da un rapporto contrattuale ma non possiede personalità giuridica: il relativo patrimonio costituisce una massa distinta da quello del “trustee” pur avendone quest’ultimo acquisito la proprietà immediata. Tale rapporto giuridico non è di natura obbligatoria ma reale: trasferimento di beni per un fine determinato, per un tempo stabilito e nell’interesse di un beneficiario. La dottrina ha affermato che il trust non ha alcuna analogia con istituti vigenti nell’ordinamento giuridico nazionale (MALAGUTTI, in Atlante di diritto privato comparato, 1999). Quindi qualsiasi assimilazione o comparazione con istituti definiti dall’ordinamento giuridico Italiano è da considerarsi improprio. Il diritto reale ravvisabile nel trust è quello che sorge a capo del “trustee”. Egli deve rispondere di qualunque violazione che possa generare sperpero di beni nel trust, con l’obbligo di riportarli nelle condizioni ottimali di gestione. Il suo potere discrezionale nella gestione fa si che la responsabilità sorge solo in presenza di dolo. Nell’atto vanno pertanto indicati i poteri di gestione al fine di stabilire la responsabilità personale e patrimoniale del “trustee”. Per poter trovare una ragione giuridica allo scopo di definire il contratto oggetto di contenzioso si deve precisare che il trust non da luogo in alcun modo allo sdoppiamento del diritto di proprietà: i beni in trust sono del “trustee” e sono stati trasferiti con un atto avente natura reale. Egli ha il diritto di godere e disporre dei beni in base ad un diritto soggettivo assoluto reperibile nell’art. 382, c.c., col solo onere del rispetto delle condizioni contrattuali di destinazione finale. In merito alla trascrizione del contratto la Suprema Corte l’ha definita come «trascrizione di diritti assimilabili ai diritti reali atipici» (Corte di Cassazione, sentenza n. 174/1986). Volendo ricercare l’esistenza di un trasferimento patrimoniale si può ricorrere all’art. 2068, c.c. per cui il “trustee” è considerato il pieno proprietario sui beni e diritti a lui trasferiti, a meno che non venga dimostrato che i terzi avevano conoscenza dei limiti del suo potere. Il destinatario del trust, per l’intera durata del contratto, assume solo la figura di creditore. Il contratto in esame si distingue dal mandato fiduciario, in quanto con quest’ultimo atto la proprietà dei beni appartiene solo formalmente al fiduciario, che deve osservare tutte le disposizioni del fiduciante, mentre con il trust il “trustee” è il pieno proprietario dei beni ricevuti con il solo onere di osservare le disposizioni contrattuali nell’interesse del “beneficiary”. La stessa Corte, per risolvere un problema di revoca dell’incarico ai “trustee” per violazione agli obblighi di lealtà e correttezza richiesti dal tipo di attività affidato dal contratto, ha precisato che per il trust non si seguono le regole del mandato, ma piuttosto quelle proprie dell’usufrutto legale (art. 334, c.c.) e della comunione legale (art. 183, c.c.).


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Infatti l’incarico conferito dal contratto al “trustee” non si esaurisce nel compimento di un singolo atto giuridico, ma si sostanzia in un’attività multiforme e continua nella gestione e amministrazione del patrimonio del trust (Corte di Cassazione, sentenza n. 16022 del 14 aprile 2008). Con questa precisazione giurisprudenziale si escludono tutte le ipotesi che il contratto possa definirsi come donazione per assenza assoluta dell’animus donandi; o donazione di usufrutto, o sostituzione fidocommissaria (art. 692, c.c.) data la specificità del suo ambito applicativo (Commissione tributaria regionale di Venezia, sentenza n. 104/19/2002 del 24 ottobre 2002). Né può essere assimilato all’atto di costituzione del fondo patrimoniale (art. 167, c.c.), in quanto quest’ultimo destina un determinato patrimonio per far fronte ai bisogni della famiglia. Infatti con l’atto di costituzione del fondo patrimoniale si crea un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo, ma non incide sulla proprietà dei beni stessi, né implica l’insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti il nucleo familiare, anche con riferimento alla loro alienabilità (Corte di Cassazione, sentenza n. 15297 del 29 novembre 2000). Con il contratto di trust la proprietà del patrimonio viene trasferita, sia pure in forma distinta e con obbligo di gestione, al “trustee”. Non è possibile condividere l’affermazione che il contratto di trust abbia come oggetto la «sola segregazione di beni» per tutta la sua durata (Commissione tributaria regionale di Milano, sentenza 130/63/2007), in quanto lo stesso presuppone l’esistenza di tre distinte fasi, con l’intervento di soggetti diversi, che possono in tal modo essere definite: a) costituzione dell’istituto del trust, attraverso la redazione del relativo atto (fase formale iniziale); b) creazione e destinazione del patrimonio del trust, con sua intestazione patrimoniale, attraverso il trasferimento della proprietà al “trustee”, il quale ha l’obbligo della sua gestione per tutta la durata del contratto nell’interesse del beneficiario. Con questa fase avviene il trasferimento patrimoniale dal “settlor” al “trustee”; c) trasferimento dei beni dal trust al beneficiario, al termine del contratto. Da quanto esposto si deve desumere che il contratto in contenzioso è definibile come atipico e complesso. Atipico in quanto produce un trasferimento patrimoniale mediante una fase non regolamentata esplicitamente dall’ordinamento giuridico nazionale, complesso in quanto tale trasferimento si perfeziona in due momenti distinti nel tempo: trasferimento patrimoniale iniziale (dal “settlor” al “trustee”) e trasferimento patrimoniale finale (dal “trustee” al “beneficiary”).

Definito in tal modo l’atto è ora facile stabilire le modalità da seguire per la sua registrazione ed il contestuale pagamento delle Imposte Indirette. Ai fini dell’imposta di registro non vi è alcun dubbio che tale allo debba essere registrato in termine fisso (artt. 5 e 10, D.P.R. n. 131/1986). Il trasferimento della proprietà del patrimonio immobiliare al “trustee” costituisce un atto che ha contenuto patrimoniale con un gravame finale: il suo trasferimento al beneficiario. In base alla normativa contenuta nella tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986, l’imposta di registro è dovuta ai sensi dell’art. 9 in misura proporzionale (3%). Sotto questo profilo l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di Vicenza 2 è corretto e va accolto. Il trasferimento immobiliare produce come conseguenza anche il pagamento dell’imposta ipotecaria e catastale (3%). Peraltro l’atto contiene il trasferimento del patrimonio del trust a due soggetti diversi in due momenti diversi. Al fine di eliminare una duplicazione d’imposta, all’atto del trasferimento finale del patrimonio dal trust al beneficiario l’Agenzia delle Entrate dovrà considerare l’imposta di registro corrisposta dal “trustee” come anticipazione del tributo dovuto alla scadenza e portarla in detrazione dell’ammontare che verrà determinato alla conclusione dell’anno del trust. In merito alla soggettività passiva di tini dell’imposta di registro si deve ricordare che ai sensi dell’art. 57, D.P.R. n. 131/1986 sono solidalmente obbligate al pagamento dell’imposta tutte le parti contraenti e le parti in causa. Nel contratto in esame esse sono rappresentante dal “trustee” e dal “beneficiary”. Anche sotto questo profilo l’operazione dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di Vicenza 2 va confermata. Da tutte le considerazioni esposte l’appello della suddetta Agenzia va accolto parzialmente, con l’intesa che dovrà considerare quanto incassato dal “trustee” a titolo di anticipazione rispetto ai Tributi da riscuotere all’atto del trasferimento finale del patrimonio immobiliare al beneficiario o ai suoi eredi. In assenza di una normativa specifica, e data la complessità interpretativa del problema, si ritiene equo compensare le spese di giudizio fra le parti. Accoglie parzialmente l’appello, con onere a carico dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di Vicenza 2 di considerare i tributi incassati a titolo di anticipazione dei tributi dovuti al trasferimento finale del patrimonio immobiliare del “trust” al “beneficiario”. Spese compensate.

Nota

Il ricorso a tale modello per i trust familiari, qual è quello oggetto della sentenza, porta – e in effetti ha portato – a travisare l’effettiva essenza dell’istituto e l’unitarietà dinamica delle relative vicende negoziali, conducendo inesorabilmente – come in effetti ha condotto – a un’errata individuazione del prelievo indiretto applicabile (per un commento critico, v. CONTRINO, Il trasferimento di immobili in un trust liberale è soggetto a imposizione proporzionale di registro: note critiche su un recente arresto giurisprudenziale veneto (e sull’ondivaga posizione del fisco), in Riv. Dir. Trib., 2009, II, 496). E ciò perché nella specie si è in presenza di una catena di atti negoziali che presentano una propria autonomia giuridica e individuabilità (in mancanza, si avrebbe un contratto unico complesso), ma che sono funzionalmente e teleologicamente collegati da un nesso di interdipendenza: nella prospettiva considerata, il singolo negozio – quand’anche sia una figura contrattuale tipica – è un frammento di regolamento dell’unico contratto collegato, con la conseguenza che l’individuazione della causa negoziale non può prescindere dalla considerazione del regolamento comples-

La sentenza in commento, con la quale il giudice tributario di appello ha riformato due sentenze della Commissione tributaria provinciale di Vicenza, accoglie la tesi che vorrebbe l’atto di trust (ove racchiuda contemporaneamente i negozi costitutivo e dispositivo) tassato ai sensi dell’art. 9 della tariffa, parte I, allegata al D.P.R. 131/1986 (aliquota del 3%), mostrando di aderire al cd. modello atomistico di ricostruzione giuridica della struttura complessa del trust che postula la sua scomposizione in fattispecie negoziali semplici, corrispondenti alle singole fasi di attuazione dell’istituto, e il loro apprezzamento – ai fini dell’individuazione della species di prelievo indiretto applicabile – in maniera avulsa dall’atto costitutivo da cui traggono titolo (e causa): i trasferimenti di beni effettuati dal disponente al “trustee”, prima, e dal “trustee” ai beneficiari, poi, vanno valutatati isolatamente, come autonomi presupposti d’imposta, senza considerazione alcuna dell’unitario disegno tratteggiato dallo stesso “settlor” nell’atto istitutivo.


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sivo (cfr. SACCO-DE NOVA, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, I, Torino, 2004, 87 ss.). La configurazione del trust quale ipotesi di collegamento negoziale impone di accertare il tributo indiretto applicabile mediante il ricorso al c.d. modello unitario, ossia ricollegando strumentalmente i vari negozi traslativi (iniziali e successivi) che consentono di raggiungere il fine ultimo dell’arricchimento dei beneficiari e apprezzandoli fiscalmente in modo – per l’appunto – unitario. E ciò – contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di appello – porta a concludere che nella specie non sussista un trasferimento «a perfezionamento progressivo», con un duplice momento di rilevanza ai fini dell’imposizione di registro, bensì una vera e propria «liberalità indiretta» assoggettabile all’imposta sulle donazioni (v., in ambito civilistico, per tutti, PALAZZO, Atti gratuiti e donazioni, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 2000, 431, e, in ambito tributario, seppur in vigenza della normativa tributaria anteriore a quella applicabile all’epoca dei fatti in causa, STEVANATO, donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, Padova, 2000, 186 ss.; PISTOLESI, La rilevanza impositiva delle attribuzioni liberali realizzate nel contesto dei trusts, in Riv. Dir. Fin., 2001, I, 156 ss.; GIOVANNINI, Problematiche fiscali del trust, in Boll. Trib., 2001, 1126; MONTANARI, Trusts interni disposti inter vivos e imposte indirette: considerazioni civilistiche e fiscali a margine di un rilevante dibattito dottrinale, in Dir. e Prat. Trib., 2002, I, 384; CONTRINO, Trusts liberali e imposizione indiretta sui trasferimenti dopo le modifiche (L. n. 383/2001) al tributo sulle donazioni, in Rass. Trib., 2004, 434; e, più di recente, con riferimento alla nuova disciplina, v. ancora MONTANARI, Il trust nell’ambito dell’imposizione indiretta: arresti giurisprudenziali e novella legislativa, in questa rivista, 2007, 45 ss.; CONTRINO, Riforma del tributo successorio, atti di destinazione e trusts familiari, in Riv. Dir. Trib., 2007, 529 ss.; GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, Padova, 2008, 473 ss., e, nella manualistica, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2008, 335). Nonostante ciò, l’atto di trust oggetto di

giudizio non avrebbe dovuto scontare alcun prelievo in concreto, perché, essendo indirizzata a un discendente, la liberalità indiretta si collocava al di fuori dei confini applicativi dell’imposta sulle donazioni riformata. Inoltre, l’art. 9, della tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986 – che i giudici di appello hanno ritenuto applicabile de plano, appiattendosi sulla posizione del fisco (cfr. Ag. Entrate, Dir. centr. Norm. e Cont., 26 novembre 2003; ivi, 28 settembre 2004; Dir. reg. Entrate Emilia Romagna, 2 novembre 2005) – non era in realtà applicabile alla fattispecie esaminata. Se è vero, infatti, che nella sistematica del prelievo di registro il citato art. 9 funge da clausola di chiusura (complementare a quella del successivo art. 11 della tariffa) – deputata ad accogliere tutte le fattispecie, diverse da quelle indicate nei vari articoli della tariffa, che abbiano per oggetto, appunto, «prestazioni a contenuto patrimoniale» –, ciò non significa che la citata disposizione consenta di attrarre a tassazione anche atti negoziali privi di uno o entrambi gli elementi costitutivi della fattispecie astratta (la “prestazione” e il contenuto “patrimoniale”). Nel caso di specie l’atto di trust non presentava, quanto meno, la prima connotazione: non c’è infatti una “prestazione”, perché il negozio dispositivo iniziale non realizza l’interesse finale dell’arricchimento della figlia-beneficiaria cristallizzato dal padre-disponente nell’atto istitutivo, ma persegue un interesse immediato strumentale rispetto a tale interesse finale che si realizzerà solo col trasferimento degli immobili dal “trustee” alla figlia al termine del trust. E tanto era sufficiente per escluderne la riconducibilità all’interno del citato art. 9: nella specie la clausola residuale applicabile era l’art. 11 della tariffa, parte I, con debenza del tributo di registro in misura fissa, posto che i negozi di dotazione iniziale si configurano alla stregua di atti a contenuto “neutro” non rientranti in alcuna delle altre “categorie di effetti” in cui è articolata la tariffa, parte I, allegata al T.U. del registro.


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IMPOSTA SULLE SUCCESSIONI E DONAZIONI SUL “VINCOLO DI DESTINAZIONE” QUALE NUOVO PRESUPPOSTO DELL’IMPOSTA SULLE SUCCESSIONI E DONAZIONI I Commissione tributaria provinciale di Lodi, sez. I, 12 gennaio 2009, n. 12 63 Presidente Matacchioni - Relatore Furiosi Imposta sulle successioni e donazioni - Trasferimento in trust di beni d’impresa - Finalità liquidatoria del trust - Vincolo di destinazione - Insussistenza - Imposta sulle donazioni - Inapplicabilità (D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, art. 2, commi 47, 48 e 49). Nel trust con finalità liquidatorie in cui siano stati conferiti beni d’impresa da parte di una società, ed il cui trustee sia dotato della facoltà di operare con piena autonomia decisionale, non è ravvisabile alcun “vincolo di destinazione”; pertanto non è applicabile l’imposta sulle donazioni al conferimento dei beni in trust. Svolgimento del processo Il notaio [...], rappresentato e difeso dall’avv. [...] impugnava un avviso di liquidazione n. [...] dell’Agenzia delle Entrate di Lodi, mediante il quale l’ufficio aveva applicato l’imposta di donazione (con aliquota 8%), anziché l’imposta di registro in misura fissa, ad un atto di costituzione di trust del [...], con il quale la [...] aveva conferito il proprio patrimonio al trustee [...], affinché quest’ultimo procedesse alla liquidazione della società nell’interesse dei creditori e dei soci. Deduceva il ricorrente la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2, L. 286/2006 commi da 47 a 49, rilevando che il trust in oggetto, non era espressamente previsto come atto soggetto all’imposta sulle donazioni, non costituiva vincoli di destinazione dei beni, avendo solamente scopo liquidatorio, non era di liberalità, mancando all’animus donandi e dell’arricchimento patrimoniale del beneficiario. Deduceva inoltre l’erronea determinazione della base imponibile, che non teneva conto degli obblighi del trustee e l’insufficienza, l’illogicità e l’erroneità della motivazione. Costituendosi in giudizio l’Agenzia delle Entrate eccepiva preliminarmente il difetto di legittimazione passiva del ricorrente, perché il notaio è estraneo al rapporto tributario, non è il soggetto passivo dell’imposta e, come semplice responsabile dell’imposta, non può impugnare l’atto impositivo per i motivi di merito, non avendone interesse. Ribadiva la legittimità del proprio operato, conforme alle disposizioni della circolare ministeriale n. 48 del 6 agosto 2007, che espressamente prevede l’applicazione dell’imposta proporzionale sulle donazioni agli atti di costituzione di trust, costituendo gli stessi vincoli di destinazione sui beni ed avendo effetto traslativo. Individuava i beneficiari dell’atto nei creditori sociali e terzi fi-

nanziatori, determinando l’aliquota proporzionale nell’8%. Determina la base imponibile nel valore dichiarato dei beni, secondo le regole dell’imposta di successione, non essendo state indicate passività. Concludeva chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso o, in subordine, di rigettarlo. Il ricorrente replicava con una memoria illustrativa, sottolineando che il notaio sarebbe direttamente responsabile del pagamento dell’imposta principale e, avendo il contenuto dell’atto impositivo natura di imposta complementare o suppletiva, verrebbe meno la responsabilità del notaio rogante. All’udienza odierna i procuratori delle parti ribadivano le rispettive conclusioni. Il ricorso è fondato e deve essere accolto. Motivi della decisione Preliminarmente va affermata la legittimazione ad agire nel presente giudizio del notaio ricorrente, poiché lo stesso è il soggetto tenuto a versare l’imposta principale di registro, ai sensi degli art. 10 e 57, T.U.I.R. e quindi ha interesse ad impugnare un provvedimento che riguarda l’imposta principale e che incida direttamente nella sua sfera giuridica. Identico interesse hanno anche le parti che sono tenute in rivalsa del notaio a pagare la medesima imposta, ma la circostanza che l’avviso di accertamento è stato notificato solo al notaio, a maggior ragione legittima quest’ultimo ad impugnare il provvedimento. Quanto all’applicazione dell’imposta sulle donazioni agli atti costitutivi di trust, va rilevato che la norma di cui all’art. 2, L. 286/2006 commi da 47 a 49 non menzione espressamente tale tipologia di atti, pertanto solo se gli stessi dovessero costituire dei vincoli di destinazione, rientrerebbero nella previsione normativa. L’applicabilità dell’imposta sulle donazioni va quindi valutata caso per caso, a seconda della natura del negozio e degli effetti che lo stesso produce. Nel caso in esame il trust ha finalità liquidatorie del patrimonio conferito, ed al trustee è concessa la più ampia facoltà di operare con piena autonomia decisionale, pertanto non si ravvisa alcun vincolo di destinazione e non è applicabile l’imposta sulle donazioni. Considerato che le circolari ministeriali vincolano gli uffici alla loro applicazione e che la questione ha diversi aspetti interpretativi, appare equo compensare le spese del giudizio.


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II Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. VIII, 12 febbraio 2009, n. 30 64 Presidente: Valeriani - Relatore: Lepri Imposta sulle successioni e donazioni - Costituzione di patrimonio in trust - Beneficiari finali non individuati - Imposta sulle donazioni - Inapplicabilità - Imposta di registro in misura fissa - Applicabilità (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 19; D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, art. 58, comma 2; D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, art. 2, commi 47, 48 e 49) Il conferimento di beni immobili in un trust “liberale”, i cui beneficiari finali non siano individuati inizialmente, è soggetto ad imposta di registro in misura fissa; il tributo sulle donazioni sarà applicabile solo quando il trustee, realizzato il programma predisposto dal disponente nell’atto istitutivo, attribuirà i beni del trust ai beneficiari. Svolgimento del processo Con atto depositato in data 15 maggio 2008 il notaio [...] ricorre contro l’Agenzia delle Entrate, ufficio locale di Empoli per l’annullamento, previa sospensione, dell’avviso di liquidazione n. [...] relativo ad atto ricevuto dal notaio ricorrente e comunica quanto segue: In data 13 febbraio 2008, con atto n. [...] di repertorio, registrato il 18 febbraio 2008 al n. 1630, il notaio [...] ha stipulato un atto istitutivo di trust, avente ad oggetto beni immobili siti in [...], regolato dalla [...]. Tale atto è stato registrato con il pagamento delle imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa. L’ufficio, con l’avviso in oggetto, ha richiesto invece il pagamento: della imposta di donazione nella misura del 6% pari ad euro 29.190; delle imposte ipotecarie e catastali nella misura complessiva di euro 14.259. L’ufficio ha motivato l’avviso come segue: La costituzione di beni in trust, rileva ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. Il conferimento di beni nel trust va assoggettato pertanto all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale. Ai fini dell’applicazione delle aliquote e delle relative franchigie, occorre guardare al rapporto intercorrente tra il disponente e il beneficiario finale. Nel caso in cui il beneficiario finale o il beneficiario individuato con il grado di parentela con il disponente, non risulti identificato, l’imposta si applica nella misura dell’8%. Nel caso presente, essendo ipotizzabile che la devoluzione finale possa avvenire a favore di parenti fino al 4 grado, quindi di soggetti già individuati o individuabili si applica l’aliquota del 6%. Sono comunque dovute le imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale in quanto la loro applicazione non dipende dall’individuazione del beneficiario finale. Si citano, quali fonti normative, l’art. 2, comma 46, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito in legge 24 novembre 2006, n. 28 e il D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 e quale fonte comunitaria, le circolari n. 48/E del 7 agosto 2007 e la n. 3/E del 22 gennaio 2008. L’atto di trust in questione, all’art. 42, contiene la seguente clausole: art. 42, beneficiario finale. Per beneficiario finale si intende il soggetto cui spettano, secondo le disposizioni di questo atto, i beni in trust che alla scadenza del trust (come definita dall’art. 8) risultino ancora attribuiti, durante il periodo in cui il trust ha avuto esecuzione, né ai beneficiari del reddito, né in virtù dell’art. 43. Nel caso in cui alla scadenza del trust, la disponente sia di stato libero e senza figli viventi, beneficiario finale è [...] qualora egli sia in vita, nel caso in cui egli non sia in vita, beneficiari finali saranno in parti uguali fra loro [...], figli di [...], sorella di [...], madre della disponente. Nel caso in cui alla scadenza del trust, la disponente sia coniugata ed abbia figli viventi beneficiari finali saranno, in parti uguali tra loro, il coniuge e i figli.

Nel caso in cui, alla seconda del trust la disponente sia coniugata ma non abbia avuto figli ovvero non vi siano figli viventi, beneficiario finale sarà il coniuge. Nel caso in cui, alla scadenza del trust, la disponente sia di stato libero ed abbia figli viventi, beneficiari finali saranno i figli in parti uguali tra loro. È di immediata evidenza che, al momento della stipula dell’atto, non si conosce con certezza chi siano i beneficiari finali, essendo detta posizione instabile in quanto dipendenti dal verificarsi di determinati eventi. In altri termini, trattasi di disposizioni beneficiarie sottoposte a condizione sospensiva. L’ufficio fonda la sua richiesta applicando in maniera pedissequa, quanto scritto nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 3 del 22 gennaio 2008, che si inserisce nel solco della n. 48/E del 7 agosto 2007, espressamente dedicata ai trust. Dopo una esauriente disamina sull’istituto del trust conclude tirando le conclusioni del discorso si può affermare che, per individuare la corretta tassazione, è necessario ricostruire ogni trust secondo gli effetti giuridici propri del caso concreto, tenendo presente che: a) i trust cd. liberali (cioè la cui causa è liberale) sono in sostanza donazioni indirette al disponente in favore dei beneficiari; b) il trustee, nel contratto di un trust, svolge il mero ruolo di esecutore del programma di attribuzioni predisposto dal disponente nell’atto istitutivo; c) deve essere escluso, per ragioni direi ontologiche, che il trustee possa essere il soggetto passivo dell’imposta professionale; d) l’atto di trasferimento dal disponente al trustee, è atto né gratuito né oneroso bensì neutro; e) solo successivamente, e coerentemente con la ricostruzione civilistica dell’istituto, quando il trustee, così realizzando il programma predisposto dal disponente nell’atto istitutivo, attribuirà il trut fund ai beneficiari sarà integrato il presupposto impositivo. E chiede l’annullamento, previa sospensione, dell’avviso impugnato, con vittoria di spese e competenze di causa. Con deduzioni scritte datate [...] la Agenzia delle Entrate, ufficio di Empoli si costituisce in giudizio e precisa che il ricorso è palesemente infondato per i seguenti motivi: il trust è un istituto di civil law che ha avuto ingresso, nel nostro ordinamento, solo con la notifica della Convenzione dell’Aja (in vigore dall’1 gennaio 1992), che non ha una disciplina civilistica interna, e che ha ricevuto solo di recente una propria disciplina ad opera del legislatore (con la legge finanziaria per il 2007 n. 296/2006 per quel che riguarda l’imposizione diretta e con la legge 286/2006 per quel che riguarda l’imposizione indiretta. Tale ultima norma è quella che trova applicazione al caso in esame ed è quella che è stata richiamata dal notaio rogante nell’atto costitutivo del trust. Essa ha introdotto nel nostro ordinamento l’importo di donazione e successione statuendo espressamente che tale imposta trova applicazione anche alla costituzione di vincoli di destinazione e che la disciplina di riferimento è quella contenuta nel T.U., sulle donazioni e successioni (D.Lgs. 346/1990) nel testo in vigore al 24 ottobre 2001. Tutto ciò che può ricavarsi, in via interpretativa, da questa disposizione è che la costituzione di vincoli di destinazione (e tra essi è indubbio che vi rientri il trust, al pari del fondo patrimoniale o del patrimonio destinato ad uno specifico affare) rileva, in ogni caso, ai fini dell’applicazione della imposta di donazione e successione, indipendentemente dal tipo di trust, dato che la norma non ha alcuna distinzione. In questo quadro normativo di riferimento, si è avuta l’emanazione di due circolari della direzione centrale normativa e contenzioso (la n. 48 del 2007 e la n. 3 del 2008, entrambe citate dal notaio rogante nell’art. 42 citato e già allegate al ricorso di parte) che hanno inteso fornire istruzioni agli uffici sulla nuova imposta di donazione e successione e sul trust in particolare. Ebbene quello che viene specificato in en-


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trambe le circolari è che: l’importo dovuto sulla costituzione del trust deve essere corrisposto al momento della segregazione del patrimonio (il che può coincidere con la costituzione del trust o avvenire in un momento successivo); soggetto passivo d’imposta è il trust, in quanto immediato destinatario dei beni oggetto della disposizione segregativa; «nell’ipotesi di trust costituito nell’interesse di uno o più beneficiari, anche se non individuati, il cui rapporto di parentela con il disponente sia determinato l’aliquota di imposta si applica con riferimento al rapporto di parentela intercorrente tra il disponente e il beneficiario»; la devoluzione ai beneficiai dei beni costituiti in trust non realizza, ai fini dell’imposta nelle successioni e donazioni un presupposto impositivo ulteriore, i beni, infatti, hanno già scontato l’imposta sulla costituzione del vincolo di destinazione al momento della segregazione in trust. La tassazione proposta dal notaio in sede di autoliquidazione, pur richiamando tale normativa e tali circolari, è del tutto diverso, infatti, qualifica l’atto istitutivo di trust come un atto sottoposto a condizione sospensiva, sebbene ai soli fini tributari. La ricostruzione civilistica operata dal ricorrente nel ricorso (l’atto di trasferimento del disponente al trustee è presupposto impositivo sarà integrato solo quando i beni del trust saranno devoluti ai beneficiari finali) è del tutto privo di fondamento legislativo, stante una norma di legge che ne da una ricostruzione fiscale in termini diversi e difficilmente contestabili. L’accostamento all’istituto della condizione sospensiva appare per l’ufficio alquanto azzardato in quanto il trust ha un termine finale che è incerto nel quando, incerto nel se, e soprattutto ha dei beneficiari finali che sono certi (nel caso in esame)m anche se al momento della costituzione sono determinabili e non determinati. L’ufficio conclude: «È quindi assolutamente corretta la tassazione operata con l’atto di liquidazione qui impugnato, e cioè: imposta di donazione in misura del 6%, essendo il beneficiario finale individuabile nei parenti fino al quarto grado (in luogo di quello dell’ottavo applicabile in tutti i casi in cui il beneficiario finale non sia individuabile), imposta ipotecaria e catastale in misura proporzionale (rispettivamente 2% e 1%) dal momento che tali dal momento che tali imposta sono dovute per le formalità della trascrizione e per le volture catastali di atti che hanno ad oggetto il trasferimento di beni immobili i diritti reali immobiliari (e tale è innegabilmente anche l’atto costitutivo di trust con contestuale attribuzione di beni al trustee, ma pure per formare un patrimonio separato dal suo patrimonio personale)». E chiede che sia confermata la legittimità dell’atto impugnato, con vittoria di spese di giudizio, ai sensi dell’art 15 D.Lgs. n. 546/1992. Con memorie di repliche depositate in data 1 ottobre 2008 il ricorrente osserva fra l’altro che: le circolari non costituiscono fonti del diritto e quindi non possono prescrivere alcunché; le circolari, così come le norme, si interpretano e, comunque non è detto che coprano tutti i casi verificabili nelle materie di cui si discute, che è estremamente complessa; le circolari, in ogni caso, come affermato dalla Suprema Corte a sezioni unite (Cass., sez. un., 20 novembre 2007, n. 23031), sono meri pareri di parte (così come la risposta ad interpello come aveva già affermato la Corte costituzionale con sentenza 14 giugno 2007, n. 191); che il trust è, invece, un istituto proprio della common law, cioè del diritto anglosassone (il civil law è, invece, il nostro diritto civile che non conosce il trust); nessuna norma in materia di imposte indirette contiene riferimenti espressi al trust (la parola trust non è mai stata utilizzata, non si può quindi fare applicazione analogica o estensiva laddove si ritenga che l’espressione “vincoli di destinazione” si riferisca anche ai trust; in estrema sintesi. Dalle circolari n. 48/E del 2007 e n. 3/E del 2008 si ricaverebbe il principio secondo cui l’atto di trasferimento dei beni del disponente al trustee di un trust sconta l’imposta immediatamente, con le aliquote individuate sulla base del rapporto di parentela esistente tra il disponente e il beneficiario; soggetto passivo di ta-

le imposta è il trust (in realtà è il trustee, perché il trust non è soggetto di diritto) e rinviando a quanto già detto nel discorso principale, l’Agenzia conclude affermando che se fosse corretta la tassazione applicata in autoliquidazione del notaio ricorrente, la tassazione dell’atto sarebbe rimessa alla bontà dei beneficiari, visto che nessuna norma di legge prevede l’assoggettamento dell’atto di devoluzione (dal trustee ai beneficiari finali) a qualsiasi tipo di imposta, su quanto sopra detto, il ricorrente osserva che non si vuole sottrarre alcunché all’erario, ma solo applicare la giusta tassazione si ricava non solo dalla analisi che precede, ma dalla stessa norma; una volta dimostrato, come pare di aver fatto, che le posizioni beneficiarie sono sottoposte a condizione sospensiva, troverà l’applicazione diretta, l’art. 58, comma 2, del D.Lgs. 346/1990 che per le donazioni sottoposte a condizione sospensiva, richiama le disposizioni relative alla imposta di registro, disponendo altresì applicabile, ai sensi del comma 5, anche «per gli atti di liberalità tra vivi diversi dalla donazione» (tra cui pacificamente rientra il trust in oggetto); al momento in cui si verificherà la condizione, pertanto scatterà a carico del beneficiario sempre che il diritto ad ottenere i beni sia incontrovertibile, perché nulla esclude che il beneficiario rinunzi al beneficio stesso, in applicazione del principio generale secondo cui la sfera giuridica dei terzi non può essere modificata senza il loro consenso (v. ad es. l’art. 1411 in materia di contratto a favore del terzo, che fa salvo il rifiuto del terzo stesso), l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art 19 del D.P.R. 131/1986, con conseguente pagamento delle imposte dovute; ed insiste nell’accoglimento del ricorso con vittoria di spese ed onorari. Motivi della decisione La Commissione osserva: che a tutt’oggi con particolare riferimento all’imposizione indiretta, in Italia non vi è una disciplina normativa che si riferisca espressamente al trust (la parola trust non è mai stata utilizzata) non si può quindi fare applicazione diretta alla fattispecie de quo delle norme in materia di imposta sulle successioni e donazioni ma, tutt’al più, applicazione analogica e estensiva, laddove si ritenga che l’espressione «vincoli di destinazione» si riferisca anche ai trust; (per l’ufficio dalle circolari n. 48/E del 2007 e n. 3/E del 2008 si ricaverebbe il principio secondo cui con l’atto di trasferimento di beni del disponente al trustee di un trust sconta l’imposta immediatamente – l’imposta dovuta sulla costituzione del trust deve essere corrisposto al momento della segregazione del patrimonio, che può coincidere con la costituzione del trust o avvenire in un momento successivo – con le aliquote individuate sulla base del rapporto di parentela esistente tra il disponente e il beneficiario, soggetto passivo di tale imposta è il trust (in realtà è il trustee, perché il trust non è soggetto di diritto); che l’art. 49, comma 2 del D.Lgs. 3 ottobre 2006 n. 242 (convertito in legge il 4 novembre 2006, n. 286) che ha introdotto l’imposta sulle successioni e donazioni, nell’individuare le aliquote applicabili, fa riferimento al «valore dei beni o diritti attribuiti», per poi distinguere le aliquote in relazione al rapporto di parentela esistente tra disponente e beneficiario dell’attribuzione; e in questa sede (v. lett. a, a-bis, b e c) dello stesso art. 49, la norma utilizza le parole “a favore”; la norma esclude quindi la sottoposizione a tassazione della mera costituzione del vincolo di destinazione; (deve quindi trattarsi di beni o diritti “attribuiti a favore” di un soggetto terzo rispetto al disponente) e quindi l’interpretazione corretta della norma non può essere che quella secondo cui l’oggetto della tassazione deve concretizzarsi in un trasferimento di ricchezza “a favore di un soggetto terzo”; che l’oggetto del prelievo in materia di vincoli di destinazione (e quindi di trust) è costituito dall’incremento netto di ricchezza conseguito dal beneficiario dell’elargizione, quindi de suo effettivo arricchimento; che nel caso di cui trattasi i beneficiari son


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esclusivamente titolar di una posizione qualificabile come di “aspettativa giuridica” che è la posizione propria di chi è titolare di un diritto sottoposto a condizione sospensiva; sono quindi titolari di una posizione giuridica che si potrebbe anche definire “incontrovertibile” ma che comunque non consente loro, al momento dell’istituzione del trust, di ottenere i beni e quindi in capo ad essi non si manifesta alcun arricchimento tassabile; la incontrovertibilità rileva, quindi non in quanto tale, ma solo in quanto consenta di ottenere, appunto, i beni, che si verificherà nella fattispecie specifica, solo al momento del verificarsi degli eventi condizionati; tale negoziamento conduce quindi all’applicazione delle imposte, in misura fissa che va anticipata già al momento della istituzione; che la funzione dell’atto attributivo di beni al trustee è quello, pienamente strumentale, di consentirgli, attraverso il controllo dei beni stessi, di attuare il programma predisposto nell’atto istitutivo (l’atto di trasferimento del disponente al trustee, è atto né gratuito né oneroso, bensì neutro); che solo

successivamente e coerentemente con la ricostruzione civilistica dell’istituto, quando il trustee, realizzato il programma predisposto dal disponente nell’atto istituito, attribuirà il trust fund ai beneficiari sarà integrato il presupposto impositivo; che al momento in cui si verificherà la condizione, pertanto scatterà a carico del beneficiario, sempre che il diritto di ottenere i beni sia “incontrovertibile”, perché nulla esclude che il beneficiario rinunzi al beneficio stesso, in applicazione del principio generale secondo cui la sfera giuridica dei terzi non può essere modificata senza il loro consenso, l’obbligo di denunzia ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 131/1986, con conseguente pagamento delle imposte dovute; che le circolari, come affermato dalla Suprema Corte a sezioni unite (Cass., sez. un., 2 novembre 2007, n. 23031), sono meri pareri di parte. Pertanto, per quanto sopra detto, ritenuti fondati i motivi addotti dal ricorrente accoglie il ricorso. Osserva, inoltre, che sussistono giusti motivi per compensare le spese.

I - II Nota di Angelo Contrino

registrazione dell’atto, l’Agenzia delle Entrate ha preteso l’applicazione dell’imposta di donazione con l’aliquota dell’8%2, sul presupposto – chiarito anche in sede di giudizio – che gli atti istitutivi di trust costituissero vincoli di destinazione sui beni con effetto traslativo. Tale tesi è stata respinta dalla Commissione, con annullamento del relativo avviso di liquidazione, perché «il trust ha finalità liquidatorie del patrimonio conferito, ed al trustee è concessa la più ampia facoltà di operare con piena autonomia decisionale; pertanto non si ravvisa alcun vincolo di destinazione e non è applicabile l’imposta sulle donazioni». Nel secondo caso, deciso dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze, oggetto della controversia era un trust “liberale”, costituito da una persona fisica mediante il trasferimento in trust di beni immobili, ove i beneficiari finali – sebbene enumerati – non erano individuabili al momento dell’istituzione del trust, dipendendo la loro concreta e definitiva individuazione, prevista alla scadenza del trust, dal verificarsi di taluni eventi futuri e incerti3. La registrazione dell’atto da parte del notaio, con pagamento delle imposte di registro e ipocatastali in misura fissa, è stata seguita da un avviso di liquidazione col quale sono stati richiesti i tributi successorio, con aliquota del 6%4, e ipocatastale, in misura proporzionale, perché la costituzione di beni in trust comporterebbe – secondo l’ufficio procedente – l’applicazione immediata del tributo successorio e, nella specie, anche delle imposte ipocatastali. Anche in questo caso la Commissione ha respinto la te-

1. Le decisioni in rassegna rivestono un interesse particolare, e meritano di essere commentate, perché sono le prime a pronunciarsi sul “vincolo di destinazione” quale nuovo presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni, così come introdotta e ridefinita nel suo perimetro applicativo dall’art. 2, commi da 47 a 50, D. L. 3 ottobre 2006, n. 2621. L’occasione, in entrambi i casi, è stata la verifica della sussumibilità nella nuova fattispecie impositiva di un trust, che è figura priva di autonoma rilevanza nel contesto del tributo successorio ma suscettibile di realizzare una destinazione vincolata di uno o più beni a un fine predeterminato. Verifica che nei due casi è stata effettuata in termini differenti – piena nel primo e limitata a uno specifico profilo nel secondo –, riguardando trust di diversa natura. Nel primo caso, deciso dalla Commissione tributaria provinciale di Lodi, si trattava di un trust “commerciale”, e in particolare di un trust con scopo liquidatorio, in quanto costituito da una società in fase di liquidazione affinché il trustee, dopo i trasferimento dei cespiti in trust, potesse attuare la predetta liquidazione in modo efficace nella prospettiva della salvaguardia dell’interesse sia dei creditori che dei soci. Rifiutando l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa, richiesta dal notaio in sede di

1 Tale decreto è stato convertito con modificazioni dalla L. 24 novembre 2006, n. 286, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 77, della L. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007). La sfera di applicazione dell’attuale imposta sulle successioni e donazioni, che è tratteggiata nel comma 47, ha un’ampiezza sconosciuta alle normative previgenti (risalenti al 1972 e al 1990), essendo stati inseriti – accanto ai trasferimenti di beni e diritti per causa di morte o per donazione – i trasferimenti a titolo gratuito e, per l’appunto, i vincoli di destinazione. Sulle discipline previgenti ma successive alla riforma tributaria, v., senza pretesa di completezza, GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, Torino, 1976; BOSELLO, L’imposta sulle successioni e donazioni, in Trattato di diritto tributario, diretto da AMATUCCI, IV, Padova, 1994, 191; D’AMATI, Commento al testo unico delle imposte sulle successioni e donazioni, Padova, 1996; NUZZO, Riflessioni

sul presupposto del tributo successorio e degli altri tributi sulla circolazione della ricchezza, in Riv. Dir. Fin., 1985, I, 466; SACCHETTO, La donazione nel diritto tributario, in Riv. Dir. Trib., 1999, I, 989; STEVANATO, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, Padova, 2000; AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001; FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in Riv. Dir. Trib., 2003, I. 813; GHINASSI, Primi appunti sulla nuova “imposta sulle donazioni”, in Rass. Trib., 2003, 57. Sull’attuale disciplina, cfr. GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, Padova, 2008, e, nella manualistica, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2008, 325; BORIA, Il sistema tributario, Torino, 2008, 804; FALSITTA-DOLFIN, L’imposta sulle successioni e donazioni, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2009, 807; GHINASSI, Le altre imposte indi-

rette sui trasferimenti, in RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2009, 381. 2 Non potendo evidentemente esistere legami di parentela tra il disponente, la società in liquidazione e i beneficiari, individuati nei creditori sociali. 3 Eventi che riguardavano – come emerge dalla motivazione della sentenza, dove la clausola relativa ai beneficiari finali è riportata integralmente – la situazione personale e familiare del disponente alla scadenza del trust. 4 Perché, in questo caso, la clausola relativa ai beneficiari – ove, come detto, la relativa classe era chiusa, con soggetti individuabili ancorché non individuati – palesava che la devoluzione finale sarebbe comunque avvenuta a favore di parenti fino al quarto grado, e non di soggetti estranei rispetto al disponente.


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si dell’Agenzia delle Entrate, sancendo, fra le altre cose, che il tributo sulle donazioni non è applicabile all’atto dell’istituzione del trust quando «i beneficiari sono titolari di una posizione giuridica qualificabile come di “aspettativa giuridica”» perché «solo successivamente e coerentemente con la ricostruzione civilistica dell’istituto, quando il trustee, realizzato il programma predisposto dal disponente nell’atto istitutivo, attribuirà il trust fund ai beneficiari sarà integrato il presupposto impositivo». Le due Commissioni hanno affrontato due diversi profili di rilevanza del trust, con la mediazione dei “vincoli di destinazione”, ai fini dell’imposta sulle donazioni: la prima si è pronunciata sull’astratta applicabilità del tributo ai trust “commerciali”; la seconda, invece, sul momento di perfezionamento dell’obbligazione tributaria in presenza di un trust “liberale”, essendo pressoché pacifica, in questa ipotesi, l’applicabilità del tributo successorio. Entrambe sono giunte a conclusioni pienamente condivisibili, e in linea con le soluzioni già prospettate da un parte della dottrina, fornendo un contributo alla definizione degli esatti confini della nuova fattispecie del “vincolo di destinazione”, al disvelamento della effettiva capacità economica colpita dal rinnovato tributo successorio e alla corretta individuazione del momento in cui sorge il presupposto d’imponibilità; elementi, questi, ignorati o travisati nelle interpretazioni fornite dalla direzione centrale dell’Agenzia delle Entrate e applicate pedissequamente dagli uffici periferici. 2. Come risulta dalla motivazione delle sentenze, in entrambi i casi gli uffici interessati hanno fondato la loro richiesta, e giustificato il loro operato, invocando proprio la prassi ministeriale sul tributo successorio, e sul trust in particolare, secondo cui la costituzione di trust rientrerebbe sic et simpliciter tra i vincoli di destinazione e, pertanto, l’imposta sulle successioni e donazioni sarebbe sempre applicabile, in modo immediato e a qualunque tipo di trust. Rileva, in particolare, l’Agenzia delle Entrate che «il trust comporta la segregazione dei beni del settore in un patrimonio separato gestito dal trustee [...]. Il conferimento di beni nel trust (o il costituito vincolo di destinazione che ne è l’effetto) va assoggettato, pertanto, all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale, sia esso disposto mediante testamento o per atto inter vivos»; e ciò vale – com’è stato successivamente precisato – «in ogni caso, [...] indipendentemente dal tipo di trust. Pertanto, anche nel trust auto-dichiarato [...], l’attribuzione dei beni in trust, pur in assenza di formali effetti traslativi, deve essere assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni»5. La tesi dell’Agenzia, seguita dagli uffici anche nei due casi oggetto delle sentenze, non è condivisibile nella sua assolutezza, essendo il frutto di un’interpretazione meramente lessicale avulsa dall’oggetto dell’imposta sulle donazioni, e in particolare dalla capacità economica che giustifica ex art. 53, Cost., il prelievo nei

5 Gli incisi sono estratti, rispettivamente, dalla circ. Ag. Entrate, 6 agosto 2007, n. 48/E, e dalla circ. Ag. Entrate, 22 gennaio 2008, n. 3/E; pronunciamento, quest’ultimo, che ha sostanzialmente ribadito, in materia di trust, le posizioni già espresse dall’Agenzia col primo intervento. Per una disamina critica, v. GAFFURI, La nuova manifestazione di pensiero dell’Agenzia delle Entrate sulla tassazione indiretta dei trusts, in FRANSONI e DE RENZIS SONNINO, Teoria e pratica della fiscalità dei trust, Milano, 2008, 21. 6 «L’interprete di leggi tributarie – è stato autorevolmente affermato – deve dare rilievo alla ratio del tributo: si deve ritenere cioè

confronti dei soggetti passivi del medesimo tributo6. Non è vero – com’è stato affermato in atti dall’ufficio nel caso fiorentino, e riportato nella parte motiva della sentenza – che «tutto ciò che può ricavarsi, in via interpretativa, da questa disposizione [n.d.a.: ossia quella che ha reintrodotto il tributo successorio] è che la costituzione di vincoli di destinazione (e tra essi è indubbio che vi rientri il trust) rileva, in ogni caso, ai fini dell’applicazione dell’imposta di donazione e successione, indipendentemente dal tipo di trust, dato che la norma non ha alcuna distinzione». E ciò perché, per giungere a una corretta definizione dei suoi esatti confini operativi, la nuova fattispecie tassabile dev’essere calata e interpretata nel contesto del tributo in cui è stata innestata. Con il D.L. n. 262/2006 che l’ha reintrodotto, il tributo successorio ha subito un ampliamento rispetto al passato della sfera applicativa – che copre, adesso, anche gli atti gratuiti di trasferimento e, appunto, i vincoli di destinazione – ma non un mutamento del suo assetto strutturale e, dunque, dell’oggetto dell’imposta. Se è vero che i soggetti passivi del tributo continuano a essere, come prima, gli eredi, i legatari, i donatari e i beneficiari di altre liberalità tra vivi7; e che, pertanto, il tributo continua a presupporre la presenza di due differenti sfere soggettive, com’è confermato anche dall’art. 2, comma 49, del citato D.L. 262/2006, ove si fa riferimento ai «[...] beni o diritti attribuiti a favore [...]» di coniuge, parenti e affini o altri soggetti; non si può che concludere che i diversi presupposti imponibili – e, pertanto, anche i nuovi – rilevano se, e in quanto, determinino un incremento patrimoniale per un soggetto diverso dal disponente. E tale incremento – come già evidenziato in sede di primo commento della novella8 – esprime la capacità economica che ex art. 53, Cost., è in grado di giustificare, e in effetti giustifica, il prelievo nei confronti dei soggetti passivi del tributo. Il profilo dell’arricchimento si coglie inequivocabilmente anche nella prevista differenziazione delle aliquote d’imposta e delle franchigie in funzione del grado di parentela tra disponente e beneficiario, che imprime una connotazione “soggettiva” al presupposto e “baricentra” il prelievo sulla persona del beneficiario: l’attitudine alla contribuzione non dipende dalla mera espansione che si verifica nella sua sfera patrimoniale, bensì dalla collocazione di tale arricchimento nel contesto dei legami di parentela più o meno stretti esistenti con il disponente. In definitiva, la locupletazione del soggetto passivo senza sacrificio alcuno, pur se diversamente apprezzata in ragione dei vincoli relazionali col disponente, continua a rappresentare l’oggetto dell’imposta sulle successioni e donazioni, ossia la forza economica che legittima il prelievo. Onde è inappuntabile l’affermazione – fatta dal collegio fiorentino – secondo cui «l’oggetto del prelievo in materia di vincoli di destinazione (e quindi di trust) è

che, nell’interpretazione delle leggi d’imposta, debba essere innanzitutto individuato lo specifico fenomeno economico, espressivo di capacità contributiva, che il legislatore ha avuto di mira e che esprime la ratio del tributo. Ogni operazione interpretativa deve essere coerente con la ratio del tributo»: così, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2009, 43. 7 Invero, a seguito della modifica dei presupposti imponibili, l’art. 5 del D.Lgs. 346/1990 dovrebbe anche menzionare, ma non lo fa perché non è stato coordinato, i destinatari degli atti di trasferimento a titolo gratuito. 8 Sia consentito il rinvio ad CONTRINO, Riforma

del tributo successorio, atti di destinazione e trust familiari, in Riv. Dir. Trib., 2007, 529, ma v., altresì, STEVANATO, La reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni: prime riflessioni critiche, in Corr. Trib., 2007, 247, e Id., Alla ricerca della capacità economica nella “nuova” imposta sulle successioni e donazioni, in Dialoghi Dir. Trib., 2006, 1657. Sul tema della rilevanza dei trust nel rinnovato tributo successorio, v. inoltre MONTANARI, I trust liberali alla luce della nuova “imposta sulla gratuità”, in Trust, 2007, 547, e BUSANI, Imposta di donazione su vincoli di destinazione e trust, in Corr. Trib., 2007, 359,


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costituito dall’incremento netto di ricchezza conseguito dal bene- per i beneficiari quanto per il trustee. Non essendo possibile ravficiario dell’elargizione, quindi del suo effettivo arricchimento». visare né una liberalità né una gratuità, i negozi dispositivi iniziali dei trust commerciali fuoriescono dalla sfera operativa del 3. Se è così, la mera realizzazione di una fattispecie nominal- tributo successorio per ricadere sotto il dominio applicativo del mente coincidente con uno dei presupposti imponibili, che de- tributo di registro o, in alternativa, dell’imposta sul valore agtermina o che può determinare un astratto vantaggio per un giunto11. L’assoggettamento all’imposta sulle donazioni anche soggetto, non è sufficiente a far scattare l’applicazione del tribu- dei trust (e, più in generale, delle destinazioni) contraddistinti da to successorio, essendo la sua effettiva sussumibilità in uno dei assetti non onerosi – com’è, appunto, nel caso dei trust commerpresupposti impositivi, e la conseguente successiva tassabilità, ciali – condurrebbe a un prelievo irrazionale sotto il profilo sia condizionata al concreto verificarsi di un incremento nella sfera interno, in quanto contrario all’oggetto del tributo, sia esterno, in quanto ne impedirebbe l’utilizzazione in concreto. patrimoniale del destinatario. Limitandosi ai “nuovi” presupposti, ciò significa che non ogni at- Per i trust di stampo liberale, il collegio fiorentino coglie pienato di trasferimento a titolo gratuito va sottoposto al tributo suc- mente nel segno – alla luce della ricostruzione effettuata – quancessorio, ma solo quello che determina un arricchimento del sog- do ne riconosce l’assoggettabilità all’imposta sulle donazioni pergetto beneficiario dello stesso9; donde – a differenza di quanto ché «l’interpretazione corretta della norma non può essere che sostiene l’amministrazione finanziaria – non ogni costituzione di quella secondo cui l’oggetto della tassazione deve concretizzarsi un “vincolo di destinazione” comporta l’applicazione dell’impo- in un trasferimento di ricchezza a favore di un soggetto terzo», il sta sulle successioni e donazioni, ma solo quella che determina cui arricchimento – precisa ulteriormente la commissione – rapun effettivo accrescimento della sfera patrimoniale di un sogget- presenta «l’oggetto del prelievo in materia di vincoli di destinato diverso dal disponente. Diversamente, si finirebbe col tassare zione (e quindi di trust)». una fattispecie concreta priva (quanto meno al momento in cui Della stessa opinione dovrebbe essere anche l’Agenzia delle Enviene posta in essere, e fino a quando non si produce la locuple- trate, se ritiene – come condivisibilmente affermato nella circ. tazione del destinatario) della capacità economica oggetto del tri- 48/E del 2007 – che «il trust si sostanzia in un rapporto giuridibuto e, dunque, nei confronti di un soggetto che risulta total- co complesso che ha un’unica causa fiduciaria. Tutte le vicende del trust (istituzione, dotazione patrimoniale, gestione, realizzamente estraneo a ogni forma di arricchimento. Per i trust con finalità liquidatoria, e più in generale per tutti zione dell’interesse del beneficiario, il raggiungimento dello scoquelli appartenenti al genus dei trust commerciali (come, ad esem- po) sono collegate dalla medesima causa. Ciò induce a ritenere pio, i trust di garanzia, i trust finanziari, ecc.), è quindi corretto che la costituzione del vincolo di destinazione avvenga sin dalaffermare – come concluso dal collegio tributario lodigiano – che l’origine a favore del beneficiario (naturalmente nei trust con be«non si ravvisa alcun vincolo di destinazione e non è applicabile neficiario) e sia espressione dell’unico disegno volto a consentire l’imposta sulle donazioni»; nel senso che – secondo l’interpreta- la realizzazione dell’attribuzione liberale»12. Si è usato il condizione costituzionalmente orientata che è stata dianzi prospettata zionale perché tali corrette affermazioni di principio, e le conse– non esiste in queste ipotesi un vincolo di destinazione rilevan- guenze che ne discenderebbero sul piano ricostruttivo, sono preste ai fini del tributo successorio. soché obliterate dalla soluzione propugnata nella circ. n. 3/E del Nello specifico caso dei trust solutori, la costituzione del vincolo 2008 – seguita dalla prassi degli uffici per tutti i tipi di trust (codi destinazione determina indubbiamente un vantaggio per i be- me risulta la parte motiva di entrambe le sentenze) – secondo cui neficiari-creditori, ma si tratta di un vantaggio che non è latore «il soggetto passivo dell’imposta sulle successioni e donazioni è il di un incremento della loro sfera patrimoniale: il diritto dei be- trust, in quanto immediato destinatario dei beni oggetto della dineficiari-creditori a ottenere una quota dei beni in trust e il suc- sposizione»13. cessivo pagamento da parte del trustee non determina niente al- Trattasi di soluzione strumentale all’applicazione del tributo tro che una mera sostituzione (fra l’altro non sempre integrale) sempre all’atto della costituzione del vincolo di destinazione (su del credito già vantato nei confronti del disponente (nel caso di cui infra) ma inaccettabile nella sua assolutezza, confliggendo con specie, la società). Ed è indubbio che nella loro veste di benefi- la stessa ricostruzione dei trust liberale quale ipotesi di collegaciari del trust solutorio creato dal disponente i creditori non pos- mento negoziale configurante una liberalità indiretta e con il già sano essere qualificati come eredi, legatari, donatari o beneficia- illustrato oggetto del tributo successorio. Se vi è una liberalità inri di una liberalità tra vivi; ma neanche, al pari del trustee, come diretta, e se le aliquote e le franchigie vanno determinate in radestinatari di un trasferimento gratuito, ancorché non si faccia gione dei legami di parentela – più o meno stretti – esistenti fra i menzione – per un evidente difetto di coordinamento – di que- beneficiari della liberalità e il disponente, i soggetti passivi del trista categoria di soggetti passivi all’interno dell’art. 5 del D.Lgs. n. buto non possono che essere i beneficiari di tale liberalità indiretta – i quali, peraltro, sono espressamente menzionati nel già 346/1990. E ciò perché – com’è stato puntualmente evidenziato10 – «non è citato art. 5 del D.Lgs. n. 346 – e la capacità economica tassabicorretto definire gratuito ogni trasferimento che si realizzi in as- le non può che essere l’incremento patrimoniale conseguito dasetti non corrispettivi: sono sicuramente “onerosi” anche i trasfe- gli stessi. È dunque irrilevante il mero effetto segregativo valorizrimenti strumentali nell’ambito di una sequenza negoziale unita- zato dall’Agenzia dell’Entrate per tentare di giustificare la generia alla realizzazione di situazioni effettuali vantaggiose anche rale attribuzione della soggettività passiva al trust14, dovendosi per chi il trasferimento dispone»; donde l’impossibilità che si ve- più correttamente avere riguardo all’effettivo manifestarsi di un rifichi in tali casi un incremento patrimoniale “gratuito” tanto effetto traslativo e al terminale ultimo dell’arricchimento, e non

9 Donde il corrispondente restringimento dei confini operativi dell’imposta di registro, sussistendo – e continuando a sussistere de facto – un rapporto di alternatività o complementarietà tra i due tributi. 10 Cfr. FEDELE, Il trasferimento dei beni al trustee nelle imposte indirette, in FRANSONI-DE

RENZIS SONNINO, op. cit., 14. 11 Della stessa opinione, FEDELE, Il trasferimento dei beni al trustee, cit. 12 Così, circ. Ag. Entrate, 6 agosto 2007, n. 48/E, cit., par. 5.2. 13 Così, circ. Ag. Entrate, 22 gennaio 2008, n. 3/E, cit., par. 5.4.3.

14 Nelle circolari, fra l’altro, l’Agenzia non si avvede che finisce per smentire sé stessa, e la soluzione postulata in termini generali, ove mostra di negare la soggettività dei trust ai fini dell’applicazione delle imposte ipocatastali.


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al veicolo di attuazione del programma di attribuzioni. Sulla scorta di quanto rilevato, la conclusione non può che essere la seguente: pur nell’unicità del presupposto impositivo rappresentato dal “vincolo di destinazione”, non è possibile teorizzare – come pretende l’Agenzia – un trattamento fiscale indifferenziato per tutti i trust, ma – come correttamente rileva anche la commissione tributaria lodigiana – l’applicabilità dell’imposta sulle donazioni va valutata caso per caso, a seconda della natura del negozio (programma, destinatari e profilo causale delle attribuzioni, ecc.) e degli effetti che lo stesso produce. 4. Dopo aver indagato la capacità economica colpita dal tributo successorio e i confini del “vincolo di destinazione”, quale genus al cui interno è possibile ricondurre la species del trust, non rimane che accertare il “momento” in cui si sorge il presupposto e si perfeziona, dunque, l’obbligazione tributaria. La questione, specificamente affrontata dalla sentenza fiorentina, è una delle più problematiche dell’attuale disciplina dei trust (e dei vincoli di destinazione) sotto il profilo dell’imposizione indiretta sui trasferimenti. La tesi dell’Agenzia delle Entrate, seguita puntigliosamente dagli uffici (come emerge da entrambe le sentenze in commento), è chiara e radicale: «l’attribuzione dei beni in trust, pur in assenza di formali effetti traslativi, deve essere assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni», e dunque, generalizzando, il presupposto imponibile del tributo si perfeziona sempre al momento della creazione del vincolo destinazione su determinati cespiti; ciò – si argomenta – in ragione della «natura patrimoniale del conferimento in trust nonché dell’effetto segregativo che esso produce sui beni conferiti indipendentemente dal trasferimento formale della proprietà». Tale tesi – che riecheggia la soluzione elaborata da una parte della dottrina in sede di primo commento della novella15 – ha condotto, in modo coerente ma – come già evidenziato – errato, ad attribuire in via generale la soggettività passiva al trust, quale immediato destinatario dei cespiti che subiscono la segregazione, ed è stata elaborata perché – come rilevato in atti dall’ufficio nel caso fiorentino, e riportato nella parte motiva della sentenza – se si ammettesse il rinvio «la tassazione dell’atto sarebbe rimessa alla bontà dei beneficiari, visto che nessuna norma di legge prevede l’assoggettamento dell’atto di devoluzione (dal trustee ai beneficiari finali) a qualsiasi tipo di imposta»16. Trattasi di tesi che – come s’intuisce dalle osservazioni fatte in precedenza – non si può affatto condividere. Se l’oggetto del tributo successorio è l’arricchimento del benefi-

15 Cfr. GAFFURI, Note riguardanti la novellata imposta sulle successioni e donazioni, in Rass. Trib., 2007, 460 ss., secondo cui i «negozi – coi quali il trust è fornito delle dotazioni patrimoniali necessarie per gratificare, a tempo debito, i beneficiari istituzionali, già individuati o da individuare o genericamente definiti con riferimento alla categoria sociale di appartenenza – sono eventi imponibili. Essi attuano, infatti, la destinazione, giuridicamente vincolante, del bene alla soddisfazione del fine, tipicamente altruistico, per il quale l’entità è stata costituita. L’inattualità finanziaria del beneficio, che i destinatari dell’atto liberale riceveranno al tempo indicato nelle carte statutarie, non è di ostacolo alla pretesa fiscale immediata [...] per effetto del vincolo, istantaneamente efficace e operante, di destinazione patrimoniale». Per la soluzione opposta, v., MONTANARI, Il trust nell’ambito dell’imposizione indiretta: arre-

ciario, in mancanza di una disposizione che preveda l’anticipazione del prelievo rispetto a tale momento l’obbligazione tributaria nascente dalla realizzazione di un atto di destinazione o di trasferimento mortis causa o inter vivos, liberale o gratuito, non può che considerarsi perfezionata quando si verifica il materiale accrescimento della sfera patrimoniale del suddetto beneficiario. Ciò significa, per i “vincoli di destinazione”, che l’applicazione del tributo non può essere collegato alla mera creazione del vincolo, bensì al concreto verificarsi di una locupletazione del destinatario; onde rilevano soltanto i vincoli di destinazione con effetti traslativi e solo quando un simile effetto si produce nel patrimonio del destinatario. Sotto il profilo sistematico, la ricostruzione proposta appare coerente con la disposizione che in caso di delazione successoria pone a carico del chiamato non ancora accentante l’obbligo di pagare il tributo solo se e nella misura in cui possieda beni ereditari, così valorizzando – ai fini dell’anticipazione del prelievo, che è solo provvisorio e strumentale (semplificazione, tempestività e certezza della riscossione) – la presenza nella sua sfera patrimoniale e il possesso attuale dei beni caduti in successione. Alcune precisazioni paiono necessarie. Nella prospettiva considerata va attribuita rilevanza non solo alle vicende traslative in senso tecnico, vale a dire le modificazioni soggettive del rapporto, ma a ogni effetto derivativo, costitutivo, obbligatorio, et similia, idoneo a determinare un’espansione nel patrimonio di un soggetto diverso dal disponente17; donde l’autonomia del nuovo presupposto della “costituzione di vincoli di destinazione” rispetto al classico presupposto del “trasferimento di beni e diritti”. Ai fini dell’applicazione del tributo non è necessaria – come dimostrano le liberalità indirette e, dunque, anche i trust familiari di stampo liberale – l’effettiva devoluzione del bene o del trust fund al beneficiario dell’elargizione, ma è sufficiente l’acquisizione da parte dei quest’ultimo di un diritto certo e attuale di apprendere i suddetti cespiti, ancorché la materiale apprensione sia poi differita nel tempo: è nel momento dell’acquisizione di un diritto di tal fatta, e solo in quel momento, che il beneficiario subisce quell’espansione della sfera patrimoniale che si configura, ex art. 53 Cost., quale capacità economica attuale assoggettabile al tributo successorio. E solo così, peraltro, è possibile garantire il coordinamento, il pieno rispetto e la corretta applicazione della disposizione sui soggetti passivi e di quella che impone, ai fini dell’attuazione del prelievo, la differenziazione delle aliquote d’imposta e delle franchigie in base al grado di parentela esistente tra disponente e beneficiario effettivo dell’elargizione.

sti giurisprudenziali e novella legislativa, questa rivista, 2007, 44 ss. 16 Tale affermazione è palesemente errata. E infatti, a prescindere dal presupposto della costituzione del “vincolo di destazione”, i negozi dispositivi con cui il trustee realizza il fine liberale perseguito dal disponente, che sono latori di un arricchimento dei beneficiari, potrebbero essere tassati in quanto atti di trasferimento a titolo gratuito rientranti nel vecchio presupposto del “trasferimento dei beni e diritti”. E per di più, assumendo verosimilmente l’inesistenza di vincoli di parentela fra il trustee e i beneficiari, il prelievo potrebbe essere attuato con l’aliquota più elevata prevista per le attribuzioni effettuate tra soggetti estranei (e senza franchigia). 17 In tale senso va letta l’affermazione, fatta in sede di primo commento della novella e immediatamente prima dell’individuazione dell’oggetto del tributo (v. CONTRINO, Riforma del

tributo successorio, cit., 530 ss.) secondo cui «anche il “trasferimento di beni e diritti” non rappresenta più condizione indefettibile della definizione normativa del presupposto: il negozio di destinazione può avere struttura unilaterale (unipersonale o pluripersonale) ed essere, in quanto tale, privo di effetti traslativi (ciò accade, ad esempio, nei casi di destinazione ex art. 2645-ter c.c. attuata con dichiarazione del disponente, di fondo patrimoniale costituito da entrambi i coniugi o, ancora, di trust “autodichiarato”)»: il riferimento ai “trasferimenti di beni e diritti” e agli “effetti traslativi” è chiaramente da intendersi alle vicende traslative in senso tecnico, come conferma la successiva, immediata identificazione dell’oggetto dell’imposta nell’«accrescimento patrimoniale ricevuto, senza sforzo alcuno, dal beneficiario del trasferimento (a qualunque titolo realizzato, purché gratuito) o del vincolo di destinazione».


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Per applicare il tributo sulle successioni e donazioni il beneficiario diretto o indiretto di un’elargizione liberale deve essere non soltanto puntualmente individuato ma anche titolare di un diritto certo e attuale. È, dunque, ancora una volta ineccepibile la commissione tributaria fiorentina quando, per escludere l’applicazione immediata del tributo successorio pretesa dall’ufficio, afferma che «nel caso di cui trattasi i beneficiari sono esclusivamente titolari di una posizione qualificabile come di “aspettativa giuridica” che è la posizione propria di chi è titolare di un diritto sottoposto a condizione sospensiva; sono quindi titolari di una posizione giuridica che si potrebbe anche definire “incontrovertibile” ma che comunque non consente loro, al momento dell’istituzione del trust, di ottenere i beni e quindi in capo ad essi non si manifesta alcun arricchimento tassabile; la incontrovertibilità rileva, quindi non in quanto tale, ma solo in quanto consenta di ottenere, appunto, i beni, che si verificherà nella fattispecie specifica, solo al momento del verificarsi degli eventi condizionati». Per poi concludere – in modo altrettanto corretto – che «al momento in cui si verificherà la condizione, pertanto scatterà a carico del beneficiario, sempre che il diritto di ottenere i beni sia “incontrovertibile”, perché nulla esclude che il beneficiario rinunzi al beneficio stesso, [...] l’obbligo di denunzia ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 131/1986, con conseguente pagamento delle imposte dovute». La premessa consente di affermare, inoltre, che non è necessario – contrariamente a quanto ritiene l’Agenzia dell’Entrate – postulare l’applicazione immediata del tributo sempre all’atto della costituzione del vincolo di destinazione, a prescindere dagli effetti traslativi, per attrarre a tassazione anche i trust autodichiarati. Né si deve ritenere, per contro, che il tributo non sia mai applicabile a tale tipo di trust – e, più in generale, ai vincoli di destinazione aventi natura analoga – sul presupposto che esso non sottenda alcun trasferimento di beni e diritti. E infatti, l’imposta sulle donazioni troverà immediata applicazione se, e nella misura in cui, la costituzione del trust autodichiarato o la dichiarazione unilaterale ex art. 2645-ter c.c. comporti l’attribuzione, ai beneficiari finali del vincolo, di un diritto certo e attuale di apprendere i cespiti vincolati; diversamente, l’imposta si applicherà nel momento in cui i predetti beneficiari diventeranno titolari di un diritto di tal fatta o riceveranno direttamente i cespiti. Come

18 Sia ancora consentito il rinvio a CONTRINO, Riforma del tributo successorio, cit., 534 ss. In senso conforme, più di recente, FEDELE, Il trasferimento dei beni al trustee nelle imposte indirette, cit., 16 ss. 19 CONTRINO, Riforma del tributo successorio, cit., 533 ss. 20 Per gli approfondimenti del caso, ma anche per i pregi e i difetti della soluzione interpre-

già in altra sede evidenziato18, non si può inoltre escludere l’assoggettabilità al tributo dell’eventuale attribuzione, sempre nel momento cui l’attribuzione si verifica in concreto, di un diritto certo e attuale del beneficiario di percepire una rendita, posto che nel sistema dell’imposta sulle donazioni la rendita assume rilevanza – in quanto legato, donazione, onere, ecc. – in ragione del valore attuale da determinare secondo i criteri all’uopo previsti dall’art. 17 del D.P.R. 346/1990. Alla luce della ricostruzione effettuata e delle conclusioni raggiunte, è valida – e ha trovato piena conferma nella giurisprudenza fiorentina – la soluzione interpretativa elaborata in sede di primo commento della novella19, secondo cui, per i trust e i vincoli di destinazioni in genere, il momento di applicazione del tributo è legata alla presenza di beneficiari determinati e diritti equitativi definiti: se tale presenza è ravvisabile al momento della costituzione del trust, come ad esempio accade nei fixed trust, il tributo successorio potrà essere applicato immediatamente all’atto del compimento del negozio dispositivo di dotazione; in caso contrario, com’è nei discretionary trust, si dovrà attendere l’individuazione da parte del trustee del beneficiario finale (fra le persone rientranti nella relativa categoria) e la definizione del diritto spettante allo stesso, ovvero, in alternativa, la diretta erogazione al beneficiario di uno o più cespiti facenti parte del trust fund20. Peraltro, in mancanza di una disposizione che la preveda – disciplinandone le conseguenze al verificarsi dei diversi possibili eventi (con conseguenti necessità di conguagli, rimborsi, ecc.) – l’anticipazione del prelievo nei confronti di soggetti che, seppur potenzialmente beneficiari, non sono titolari di un diritto certo e attuale (perché, ad esempio, l’individuazione del beneficiario effettivo, tra quelli indicati in una “rosa di nomi”, è rimessa a un terzo come il trustee ovvero è subordinata al verificarsi di una o più condizioni, ecc.) si tradurrebbe nella tassazione, in capo agli stessi, di una capacità economica che non soltanto è inesistente al momento dell’attuazione del prelievo, ma che potrebbe addirittura non diventare mai una capacità economica “propria” del soggetto immediatamente sottoposto al tributo (perché, ad esempio, il beneficiario finale prescelto dal terzo o risultante dall’avveramento della condizione è un soggetto diverso da quello che ha pagato).

tativa individuata, sia consentito ancora il rinvio a CONTRINO, Riforma del tributo successorio, cit. Tale soluzione è stata di recente accolta da FEDELE, Il trasferimento dei beni al trustee, cit., 15 ss., ma soltanto per il caso in cui i beneficiari siano già determinati al momento della destinazione dei beni; laddove una parte del patrimonio non sia attribuita in modo certo al beneficiario o ai benefi-

ciari determinati ovvero l’indicazione dei beneficiari manchi o sia rimessa a valutazione discrezionale del trustee, l’autore ritiene infatti che la soluzione da accogliere sia quella dell’anticipazione e dell’applicazione dell’imposta come se il trustee fosse l’effettivo beneficiario dei beni e diritti destinati dal disponente.


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Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 28 gennaio 2009, n. 33 Presidente e Relatore: Montanari

Irpef - Redditi diversi - Plusvalenze da lottizzazione Terreni acquisiti per successione ereditaria - Cessione di poco successiva all’inizio delle opere di urbanizzazione - Determinazione del valore - Valore corrispondente alla differenza tra corrispettivo e costo delle opere - Fattispecie - Plusvalenza - Esclusione (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 67 e 68, ex 81 e 82). Nel caso di cessione di terreni lottizzati acquistati gratuitamente (nella specie, ereditati), al fine di determinare la plusvalenza imponibile, il costo dei terreni è determinato tenendo conto del valore normale degli stessi alla data di inizio della lottizzazione e delle opere di lottizzazione, ai sensi dell’art. 82, comma 2 (ora 67), D.P.R. n. 917/1986; pertanto, nel caso di cessione di un terreno di poco successiva all’inizio dei lavori di urbanizzazione, è fondatamente presumibile, secondo una comune regola d’esperienza, che il valore normale corrisponda all’ammontare del corrispettivo diminuito del costo delle opere di lottizzazione eseguite fino al momento della cessione, restando a carico dell’Agenzia dimostrare che un anomalo andamento del mercato immobiliare di riferimento abbia inficiato l’applicazione di questa regola (nel caso di specie, si è negato il configurarsi di una plusvalenza tassabile ai fini Irpef) Svolgimento del processo Le signore M.C. e M.G. gravano, con distinti ricorsi [...], due avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate, ufficio di Reggio Emilia, per l’anno d’imposta 2002 ai fini dell’Irpef e relative sanzioni ed interessi; la materia del contendere verte in punto ad un’omessa dichiarazione di una plusvalenza che l’Agenzia assume essere stata realizzata, ex art. 82, comma 2, D.P.R. 917/1986, dalle ricorrenti a seguito della cessione di un terreno, già lottizzato, pervenuto Loro per successione. Dispone la norma che quando l’acquisizione del terreno avviene gratuitamente il costo dello stesso va quantificato tenendo conto del suo valore normale alla data di inizio della lottizzazione. Deduce l’Agenzia che sarebbe infondata la tesi, sostenuta dalle ricorrenti, in sede precontenziosa, cioè di risposta ad un questionario della stessa, secondo cui il valore normale del terreno, dato il breve periodo intercorso tra l’inizio delle opere di lottizzazione (21 novembre 2001) e l’atto di trasferimento (16 gennaio 2002), «in assenza di eccezionali variazioni economiche che possono avere sconvolto il mercato immobiliare» coinciderebbe, fatti salvi i costi sostenuti per le opere di urbanizzazione debitamente documentate, col corrispettivo di cessione; secondo l’Agenzia, infatti, il valore normale alla predetta data sarebbe ben inferiore al corrispettivo di cessione come sarebbe desumibile dai valori medi delle aree fabbricabili stilata dal Comune di Reggio Emilia ai fini Ici e dal valore accertato poi definito con adesione delle ricorrenti, del terreno di cui ai ricorsi, in sede di rettifica della dichiarazione di successione, apertasi in data 11 settembre 1998, del de cuius da cui le stesse lo hanno ereditato; le ricorrenti confermano in sede di ricorso e di memorie aggiunte la suddetta tesi sottolineando come, non essendosi modificata, nel breve lasso di tempo di cui sopra, la destinazione urbanistica dei terreni, il valore normale

degli stessi possa essere stato influenzato solo dal costo delle opere di lottizzazione sostenute fino alla data di cessione; contestano, altresì, la fondatezza dei metodi di valorizzazione seguiti dall’Agenzia e producono perizia di un tecnico a conferma della qualificazione da loro effettuata del valore normale; l’Agenzia si costituisce in giudizio con proprie controdeduzioni in cui chiede venga confermata la legittimità del proprio operato: all’udienza dibattimentale le parti si riportano alle loro deduzioni scritte. Motivi della decisione I ricorsi di cui in narrativa sono oggettivamente connessi e vanno riunificati in capo al Rgr 450/2008. I ricorsi delle ricorrenti sono fondati e pertanto vanno accolti. Risulta dagli atti di causa che in data 25 maggio 2001. il Consiglio comunale di Reggio Emilia aveva deliberato l’approvazione del progetto di lottizzazione, che in data 19 giugno 2001 era stata stipulata la relativa convenzione urbanistica, che in data 16 novembre 2001 era stata rilasciata dal sindaco di Reggio Emilia la concessione edilizia per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria ed, infine, che in data 21 novembre 2001 era stato comunicato allo stesso l’inizio dei lavori per la realizzazione delle suddette opere di urbanizzazione; ora, considerando che la giurisprudenza (cfr. Cass., n. 26275/2007) ritiene la sottoscrizione della convenzione condizione finale di efficacia della deliberazione del Consiglio comunale, può ben dirsi che, nella fattispecie in esame, l’iter amministrativo per l’approvazione della lottizzazione si sia perfezionato; in conclusione, dal giugno 2001, il valore della rendita fondiaria non era più influenzabile, in termini concreti, da alcun altro provvedimento di natura amministrativa; dalla suddetta data solo l’andamento del mercato immobiliare, sia in termini generali, sia in termini specifici, in riferimento cioè al terreno in oggetto, poteva influenzare il corrispettivo di cessione; sulla base di queste considerazioni va affermato che non avendo l’Agenzia dimostrato, invero l’onus probandi era a suo carico, la presenza di anomali andamenti del mercato immobiliare di riferimento tra la data di cessione del terreno, 16 gennaio 2002, e la data di sottoscrizione della convenzione urbanistica, 19 giugno 2001, né tanto meno tra la prima data e quella di inizio delle opere di lottizzazione, 21 novembre 2001, e stante il periodo, invero molto breve, 51 giorni, intercorso tra le due date, può legittimamente affermarsi, sulla base di quella che è una comune massima d’esperienza, che alla suddetta data del 21 novembre 2001, il valore normale corrispondesse al corrispettivo di cessione diminuito del costo delle opere di lottizzazione eseguite da questa data alla data di cessione; ora poiché negli atti di causa non è contestato l’ammontare e la deducibilità dell’ammontare del suddetto costo, anche se non è provato che si riferisca specificatamente alle opere eseguite in quel periodo, va affermato che nella fattispecie non è stata realizzata una plusvalenza ai sensi della norma richiamata in narrativa. Stante la particolarità e la sostanziale novità della materia del contendere le spese di giudizio vanno compensate.


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Nota La particolarità del caso di specie, ove si controverte in materia di determinazione delle plusvalenze da lottizzazione ai fini Irpef, è costituita dal breve periodo di tempo (di soli cinquantuno giorni) decorso tra l’inizio dei lavori per le opere di urbanizzazione e la cessione di un terreno acquistato per successione. Risultando incontestati il corrispettivo e la deducibilità dei costi di urbanizzazione, la questione verte quindi sull’accertamento del valore normale di un bene acquisito in via successoria (per un caso analogo, v. Comm. trib. prov. Cosenza, sez. I, 6 giugno 2008, n. 277, in banca dati fisconline). Nel caso di specie, ai sensi dell’art. 68 (ex 82), comma 1, T.U.I.R. non ha ragione d’essere la regola generale che assume come prezzo di acquisto il valore normale del terreno nel quinto anno anteriore alla lottizzazione (cfr. per tutte Cass., sez. trib., 1 dicembre 2006, n. 25611 in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big), ma si applica la disciplina speciale riservata ai terreni acquisiti gratuitamente, in virtù della quale il costo deve essere determinato tenendo conto del valore normale alla data di inizio della lottizzazione o delle opere (cfr. Comm. trib. prov. Cosenza, sez. I, 6 giugno 2008, n. 277, cit.; Comm. trib. prov. Bari, sez. VI, 18 marzo 2005, n. 57, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. In dottrina, sulla determinazione delle plusvalenze da lottizzazione, v. ex pluribus, FANZINI, Le plusvalenze immobiliari, in AA.VV. Imposta sul reddito delle persone fisiche, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario diretta da TESAURO, Torino, 1994, I, 947 ss.; URICCHIO, La tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di aree fabbricabili e da provvedimenti espropriativi, in Riv. Dir. Trib., 1992, I, 773 ss. e in specie 776 ss.; MONTI, Cessioni di terreni edificabili tra antinomie del sistema e questioni di incostituzionalità, in Riv. Dir. Trib., 1994, I, 1057 ss.; BATISTONI FERRARA, Osservazioni in tema di imposizione sui plusvalori delle aree edificabili, in AA.VV., Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, I, 138 ss.). Vertendo su una previsione che rinvia al diritto urbanistico, la motivazione della sentenza in esame riporta con precisione i tempi del procedimento che ha legittimato la lottizzazione ed aderisce alla giurisprudenza che rinviene il relativo requisito di efficacia nella sottoscrizione della convenzione urbanistica (sulla nozione di lottizzazione v. per tutte Cass., sez. trib., 19 maggio 2006, n. 11819, in Fisco, 25, 2006, 1, 3942 ss.; Cass., sez. trib., 29 novembre 2001, n. 15208, in FANZINI, Le plusvalenze, cit., nonché, più recentemente, GAVELLI, L’autorizzazione comunale individua l’intervenuta lottizzazione del terreno, in Corr. Trib., 2008, 2781 ss.; MONTESANO, È idonea a produrre plusvalenze la lottizzazione consistente nell’espletamento di attività puramente amministrative, nota a Cass., sez. trib., 19 maggio 2006, n. 11819, in Fisco, 38, 2006, 1, 5940 ss. con ampi riferimenti di giurisprudenza amministrativa e tributaria. Per la distinzione ai fini Irpef tra cessione di terreno lottizzato e mera cessione di terreno edificabile v. Comm. trib. prov.

Cosenza, sez. I, 6 giugno 2008, n. 277, cit., e Comm. trib. prov. Bari, sez. VI, 18 marzo 2005, n. 57, cit.). Inoltre, sulla base della documentazione in atti, la sentenza in rassegna precisa che l’inizio dei lavori per eseguire le opere di urbanizzazione primaria era stato comunicato il 16 novembre 2001. Sul punto i giudici hanno sottolineato che era l’Agenzia a dover provare il diverso valore normale per poter imputare con successo alle ricorrenti l’omessa dichiarazione della plusvalenza da lottizzazione. Prova che non è stata fornita. L’Agenzia infatti aveva notificato l’accertamento disconoscendo la risposta fornita dal contribuente attraverso un questionario nel quale egli aveva rilevato che la fattispecie era caratterizzata dal breve periodo decorso tra l’inizio delle opere (21 novembre 2001) e la cessione del terreno (16 gennaio 2002); per cui – in assenza di eccezionali variazioni economiche che potessero aver influito pesantemente sul mercato immobiliare – il costo configurato dall’art. 82 (oggi 68), T.U.I.R. coincideva con la differenza tra il corrispettivo ed il costo documentato delle opere. In buona sostanza, la parte ricorrente affermava che nel caso di specie era verosimile che il valore normale non avesse subito variazioni nei soli cinquantuno giorni decorsi tra l’inizio delle opere e la cessione. Ma l’Agenzia disattendeva tale affermazione ritenendo diversamente di effettuare la valutazione in base ai valori medi delle aree fabbricabili stabiliti dal Comune ai fini Ici e al valore del terreno definito con adesione in sede di rettifica della dichiarazione di successione apertasi in data 11 settembre 1998. I giudici reggiani hanno evidentemente ritenuto che entrambe le ragioni dell’Agenzia si basassero sul valore venale, parametro che – se pure caratterizza l’Ici e le imposte indirette – è però cosa diversa dal valore normale configurato dall’art. 9, T.U.I.R. nel sistema delle imposte sui redditi e quindi non può rappresentare una prova efficace nel caso di specie. Se pure il mancato assolvimento dell’onere della prova da parte dell’Agenzia avrebbe potuto giustificare già di per sé l’accoglimento del ricorso per violazione dell’art. 42, D.P.R. n. 600/1973 (v. TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 158 ss.), i giudici reggiani hanno rafforzato tale soluzione basandosi sulle regole di comune esperienza ex art. 115, c.p.c. Nel contempo, essi hanno condivisibilmente ritenuto che il breve periodo (di cinquantuno giorni) decorso tra l’inizio delle opere e la cessione del terreno consente di assumere – non essendo state provate dall’Agenzia rilevanti oscillazioni del mercato immobiliare nei modi previsti dall’art. 38, D.P.R. n. 600/1973 – che il valore normale del terreno all’inizio delle opere di urbanizzazione corrisponda alla differenza tra il corrispettivo ed il costo delle opere stesse. Di qui, logicamente, l’equivalenza tra il corrispettivo ed il costo di acquisto incrementato dei costi inerenti, la quale impedisce il configurarsi del valore differenziale assunto come plusvalenza dall’art. 82, T.U.I.R.


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IVA NOTE IN TEMA DI DECADENZA DALL’AGEVOLAZIONE FISCALE PER L’ACQUISTO DELLA PRIMA CASA 66

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. IX, 3 marzo 2008, n. 62 Presidente: Riscica - Relatore: Maldari

Iva - Agevolazioni prima casa - Requisito del trasferimento entro diciotto mesi - Dies a quo - Data dell’acquisto - Mancato trasferimento anagrafico nei diciotto mesi dall’acquisto - Decadenza - Concessione di abitabilità - Irrilevanza - Ritardi nella consegna dell’immobile per lavori di ristrutturazione - Irrilevanza - Trasferimento di fatto - Irrilevanza (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, tariffa allegata, parte prima, art. 1, nota 2-bis) In tema di agevolazioni fiscali per l’acquisto della “prima casa”, il termine di diciotto mesi per il trasferimento della residenza dell’acquirente nel Comune in cui è posto l’immobile decorre dalla data di acquisto dell’immobile, e non da quando è stata ottenuta l’abitabilità dell’immobile, ai sensi dell’articolo 1, nota 2-bis, lettera a della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, richiamato dal n. 21 della tabella A, parte II, allegato al D.P.R. n. 633 del 1972, con la conseguenza che decade dall’agevolazione il contribuente che non si sia trasferito anagraficamente nei diciotto mesi dall’acquisto, anche se i vi sono stati ritardi nella consegna dell’immobile da parte del venditore, dovuti a lavori di ristrutturazione, ed anche se il contribuente si è trasferito di fatto nel territorio del Comune ove è situato l’immobile acquistato. Svolgimento del processo Avverso 1’avviso in epigrafe proponeva ricorso il sig. S.G.M.A. ora residente in Vittorio Veneto con atto in cui, in base alle argomentazioni esposte, chiedeva che la Commissione in accoglimento del ricorso pronunciasse la illegittimità dell’atto impugnato, con vittoria delle spese di giudizio. Il ricorso conteneva l’istanza di discussione della causa in pubblica udienza. In data 17 gennaio 2007 si costituiva l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Vittorio Veneto (TV), che sulla scorta delle proprie controdeduzioni concludeva chiedendo che la Commissione, contrariis reiectis, rigettasse il ricorso di controparte per le esposte ragioni in fatto ed in diritto; confermasse l’operato dell’ufficio; con vittoria di spese, diritti e onorari. All’udienza di discussione il giudice relatore illustrava il contenuto degli atti; quindi venivano ammessi alla discussione per il ricorrente la dott. S.B., all’uopo delegata da mandato in calce la ricorso, e per l’ufficio la dott. D’A.L. Motivi della decisione Al momento dell’acquisto il 2 ottobre 2001 ai rogiti del notaio P. di una unità immobiliare ad uso di civile abitazione in Vittorio Veneto (TV) [...], il ricorrente dichiarava di voler trasferire nel Comune ove è sito l’immobile la propria residenza – godendo pertanto, il trasferimento, dell’applicazione dell’aliquota agevolata Iva del 4% –, mentre la società venditrice rappresentava che l’unità compravenduta era stata ricavata da altra in conformità ad autorizzazione edilizia n. [...] del Comune di Vittorio Veneto ed aveva goduto di autorizzazione alla realizzazione di opere di

manutenzione straordinaria. Il rinnovo era stato concesso in data 21 gennaio 2002. Tali opere avevano termine in data 7 ottobre 2002 e l’abitabilità era stata ottenuta con il silenzio assenso tre mesi dopo il termine dei lavori. Il trasferimento della residenza del ricorrente nel Comune di Vittorio Veneto datava 29 gennaio 2004 – in conformità a dimessa certificazione del predetto Comune – entro 13 mesi dalla abitabilità. Asserisce il ricorrente che dal settembre 2001 egli risiedeva di fatto in Vittorio Veneto in quanto assunto alle dipendenze della C. S.p.A. di Revine Lago dall’1 settembre 2001, e che deteneva un immobile in via Cavour di Vittorio Veneto nell’attesa che terminassero i lavori di ristrutturazione sopra menzionati. A sostegno della sue argomentazioni in ordine alla residenza di fatto il sig. S. ha prodotto la prima facciata di un contratto di locazione, del tutto irrilevante già per lo stralcio così compiuto – mentre l’analisi o meno della pertinenza di un documento è nella facoltà di questa Commissione cui deve essere data la possibilità di valutare l’intero documento – nonché copie di documenti di fornitura Enel e gas e la dichiarazione della ditta C. di Revine Lago. In questa si precisa che il rapporto di lavoro con il ricorrente ha avuto durata dall’1 settembre 2001 al 31 ottobre 2004 e che gli era stata data una copia di chiavi della forestale della società sita in Vittorio Veneto perché vi pernottasse. Con l’impugnato avviso l’ufficio ha richiesto la differenza tra l’aliquota agevolata e quella normale del 10%, dichiarando decaduto il ricorrente dall’agevolazione in quanto non aveva trasferito la residenza entro il termine di 18 mesi dalla data del rogito di compravendita nel Comune in cui è ubicato l’immobile acquistato. Invero rimanendo al motivo per cui è stata revocata l’agevolazione – la norma – art. 1, nota 2-bis, lett. a, tariffa D.P.R. 1131 del 1986 è precisa nell’indicare il dies a quo dei 18 mesi coincidente con l’acquisto che rappresenta pertanto l’inizio della decorrenza del tempo entro cui deve verificarsi il trasferimento della residenza nel Comune in cui è sita la agevolata porzione immobiliare compravenduta. È escluso di conseguenza che il termine possa decorrere dalla concessione della abitabilità, stante il pulito diverso inequivoco dictum normativo. Così è escluso che nei lavori di ristrutturazione e nelle eventuali insorgenze di cause di ritardi nella consegna possa reperirsi la causa di giustificazione del mancato trasferimento, agevole per contro essendo il prendere atto che eventuali siffatti ritardi non assumono natura oggettiva, e sono per di più facilmente prevedibili e pertanto altrettanto facilmente evitabili, con la conseguenza che è erronea la loro invocazione a giustificazione dell’omesso trasferimento. Inoltre nella fattispecie neppure può essere invocato il trasferimento di fatto. Prima di tutto ed in principalità perché ad avviso di questa Commissione il concetto di residenza espresso dalla normativa in esame è un concetto pratico giuridico, obiettivo per sua natura, che cioè presuppone l’avvenuto reale trasferimento a tutti gli effetti della vita della persona nelle sue normali manifestazioni, talché


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è anche superfluo il rilevare che le asserzioni del ricorrente non possono venir condivise, oltre che per i motivi dianzi espressi, anche per il fatto che è proprio lui a provare con la dichiarazione sopra ricordata della sua datrice di lavoro che il suo rapporto si svolgeva in Revine Lago, Comune diverso da quello di Vittorio Veneto, in secondo luogo che tale dichiarazione non è neppure idonea a dimostrare ed a permettere di invocare una – irrilevante al fine – residenza di fatto visto che proprio la C. S.p.A. indica nel solo pernottamento il tempo di dimora del ricorrente in Vittorio Veneto presso un alloggio del tutto provvisorio e precario anche nella volontà delle parti. Infine si precisa che, contrariamente alle argomentazioni del ricorrente, questa Commissione ritiene applicabile anche al caso di specie la proroga prevista normativamente di due anni dei ter-

mini di rettifica e liquidazione regolata dall’art. 11 della L. 289/2002 che, derogando alle norme dello Statuto del contribuente, dispone la predetta deroga in ipotesi di mancata presentazione dell’istanza di condono precisata nel medesimo art. 11. Invero la Commissione concorda con l’Agenzia della Entrate laddove nell’interpretare l’intreccio normativo tra il comma 1 ed il comma 1-bis del precisato articolo, significa che il riferimento di quest’ultima disposizione alla precedente non incide né modifica la proroga espressamente in questa disposta. Il ricorso pertanto deve andare rigettato. Secondo il normativo principio della soccombenza il ricorrente è condannato al pagamento alla Agenzia delle Entrate delle predette spese e competenze che vengono liquidate nella misura di euro 500,00.

Nota di Vito Achilli

quistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con il beneficio fiscale. Al riguardo, l’amministrazione finanziaria ha precisato che tale dichiarazione è efficace anche se resa in un atto integrativo dell’originario atto di compravendita, redatto con le medesime formalità2. Il successivo punto 4 della medesima nota II-bis stabilisce, come cause di decadenza dall’agevolazione, la dichiarazione mendace, o il trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici di cui all’articolo 1, prima del decorso del termine di cinque anni dalla data del loro acquisto, a meno che entro un anno dalla cessione non venga acquistato un altro immobile da adibire a propria abitazione principale3. Il mancato trasferimento della residenza non comporta la perdita dei benefici solo nel caso in cui l’acquirente non abbia potuto tener fede alle dichiarazioni rese in atto per caso di forza maggiore, che ricorre quando sopravviene un impedimento oggettivo non prevedibile e tale da non poter essere evitato, vale a dire un ostacolo all’adempimento dell’obbligazione, caratterizzato da non imputabilità alla parte obbligata, inevitabilità e imprevedibilità dell’evento4. Precisamente l’evento si deve verificare durante la pendenza dei termini entro i quali l’acquirente avrebbe dovuto dare attuazione alle dichiarazioni rese5. In caso di decadenza, l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate deve recuperare nei confronti dell’acquirente la differenza fra le imposte calcolate in assenza di agevolazioni e quelle risultanti dall’applicazione delle aliquote agevolate, oltre agli interessi di mora, nonché irrogare la sanzione amministrativa pari al trenta per cento della differenza medesima.

1. L’agevolazione sulla quale si è espressa la Commissione è disciplinata dalla nota 2-bis all’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, richiamata dal numero 21 della tabella A, parte II, allegata al D.P.R. n. 633 del 1972, la quale prevede l’applicazione dei benefici fiscali agli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di case di abitazione non di lusso ed agli atti traslativi o costitutivi della nuda proprietà, dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione relativi alle stesse. Per fruire del regime agevolato, occorre che l’abitazione oggetto dell’acquisto non sia “di lusso”, secondo le caratteristiche indicate dal decreto ministeriale del 2 agosto 1969 e che l’immobile si trovi nel Comune in cui l’acquirente ha la propria residenza (o intenda stabilirla entro diciotto mesi dal rogito), oppure, nel Comune in cui l’acquirente svolge la propria attività, o, se trasferito all’estero per ragioni di lavoro, in quello in cui ha sede o esercita l’attività il soggetto da cui dipende. Per i cittadini italiani residenti all’estero deve trattarsi di prima casa nel territorio nazionale1. Inoltre, il compratore deve dichiarare di avere la residenza o nel territorio del Comune ove è situato l’immobile da acquistare o di stabilirla entro diciotto mesi dall’acquisto, di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del Comune in cui è situato l’immobile da acquistare e di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione ac-

1 Cfr. IANNIELLO, Agevolazioni per l’acquisto della “prima casa” (1995-2006), in Dir. e Prat. Trib., 2006, 2, 385 ss.; AIELLO, Il punto sulle agevolazioni fiscali per l’acquisto della prima casa, in Boll. Trib., 2002, 5, 329 ss.; BELLINI, Decadenza dalle cd. agevolazioni “prima casa”, in Vita Not., 2005, 3, 2, 1669 ss.; ZILLI, Recenti interpretazioni ministeriali in tema di agevolazioni “prima casa”, in Riv. Not., 2005, 4, 3, 920 ss. 2 In tal senso si è espressa la direzione generale delle tasse e imposte indirette sugli affari, che con la risoluzione del 25 luglio 1986, prot. n. 220478, ha fatto presente che «sebbene l’atto integrativo (rectius atto di rettifica) tragga spunto dalla dichiarazione di parte intesa a conseguire i benefici in argomento, non può negarsi al predetto documento la natura di atto notarile che, per dichiarazione dello stesso pubblico ufficiale rogante, si integra con il precedente rogito». Con la predetta risoluzione, quindi, è stata riconosciuta

la possibilità di integrare anche successivamente l’atto di compravendita qualora nello stesso non sia stata resa la dichiarazione prescritta dalla legge per avvalersi dell’agevolazione “prima casa”. In conclusione, deve riconoscersi la possibilità che, con atto successivo, il richiedente renda le dichiarazioni previste dalla legge ed erroneamente omesse nell’atto di acquisto. Ciò che conta per l’applicazione del beneficio fiscale in parola è che la dichiarazione di sussistenza dei presupposti soggettivi e oggettivi al momento della stipula dell’atto di trasferimento sia resa in atto integrativo redatto secondo le medesime formalità giuridiche come specificato dalla più recente circolare dell’Agenzia delle Entrate del 12 agosto 2005, n. 38, 9. 3 Le circolari dell’Agenzia delle Entrate n. 38 del 12 agosto 2005, n. 19/E del 1 marzo 2001 e n. 1/E del 2 marzo 1994, hanno precisato che per fruire delle agevolazioni prima casa non è però necessario che il fabbricato ac-

quistato sia destinato ad abitazione propria e/o dei familiari dell’acquirente, infatti può essere acquistata con le agevolazioni “prima casa” anche un’abitazione locata o da dare in locazione dopo l’acquisto. La norma agevolativa, infatti, non intende agevolare l’acquisto dell’abitazione principale in cui il soggetto deve dimorare, ma l’acquisto della sua prima casa; è però necessario che l’acquirente abbia o trasferisca entro 18 mesi dall’acquisto la propria residenza nel Comune dove è situato il fabbricato. 4 Cass., 19 marzo 1981, n. 1616, in Giust. Civ., 1981, I, 2034. 5 La risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 1 febbraio 2002, n. 35/E, ha ammesso per la prima volta la possibilità di conservare i benefici in questione nel caso in cui l’inadempimento del contribuente non sia imputabile a sua colpa, ma sia dipeso da un evento imprevedibile e oggettivamente inevitabile.


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2. La Commissione provinciale, nella sentenza qui annotata, ha precisato, considerando la previsione normativa che fa riferimento alla data di acquisto, che il termine per il cambio di residenza non può decorrere dalla concessione di abitabilità e che non rileva l’avvenuto trasferimento di fatto nel Comune in cui è ubicato l’immobile acquistato. Sul punto, la Commissione ha ritenuto che il concetto di residenza di fatto, oltre che irrilevante ai fini del beneficio fiscale, riveste carattere oggettivo e presuppone l’avvenuto reale trasferimento di tutti gli effetti della vita della persona nelle sue normali manifestazioni e non può consistere nella mera disponibilità di un alloggio provvisorio per il solo pernottamento. Con riferimento alla rilevanza della residenza di fatto, la Corte di Cassazione ha affermato – nella sentenza n. 8377 del 20 giugno 20016 – che condizione per il riconoscimento del beneficio fiscale è che l’immobile sia ubicato nel Comune in cui l’acquirente ha la residenza anagrafica e che, pertanto, non può riconoscersi alcuna rilevanza giuridica alla realtà fattuale, ove in contrasto con il dato anagrafico, né al successivo ottenimento della residenza. Detta interpretazione, secondo quanto affermato dalla Corte, è avvalorata sia dal dato letterale che dalla specialità della norma, che, derogando all’ordinario regime di tassazione, non consente interpretazioni estensive, né applicazioni in via analogica. Infatti, gli unici casi espressamente indicati dalla norma, perché in deroga alla ordinaria disposizione per cui è prevalente il dato anagrafico rispetto a quello fattuale, sono costituiti dal caso in cui l’immobile da acquistare è ubicato nel Comune ove il contribuente svolge la propria attività e dal caso in cui l’immobile deve essere situato dove ha sede l’impresa da cui dipende l’acquirente trasferito all’estero per ragioni di lavoro7. Ciò induce a ritenere che il requisito della residenza è un requisito formale che non può essere sostituito da situazioni sostanzialmente analoghe. Solo la residenza indicata all’anagrafe appare infatti in grado di fornire un dato certo che consente di verificare il rispetto dell’obbligo di trasferimento della residenza, non essendo quindi possibile dare rilevanza giuridica a circostanze fattuali, ove in contrasto con il dato anagrafico. Questa interpretazione appare conforme al dettato normativo che subordina l’agevolazione in questione al rispetto di determinati requisiti, tra cui il trasferimento della residenza nel Comune in cui è ubicato l’immobile e al principio di certezza del diritto. Nella recente sentenza del 16 aprile 2008, n. 99498, la Suprema Corte ha confermato il criterio della prevalenza anagrafica su quella di fatto, precisando che la disposizione contenuta nell’articolo 2 del decreto legge n. 12 del 1985, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 aprile 1982, n. 118, in tema di agevolazioni per l’acquisto della prima casa, induce a ritenere insufficiente la

6 In banca dati fisconline. 7 Cfr. TORRONI, Rassegna di prassi interpretativa in tema di agevolazioni prima casa e di credito d’imposta, in Riv. Not., 2006, 6, 3, 1639 ss.; CIGNARELLA MARIA, Jus superveniens e termini per il trasferimento della residenza nell’ambito delle agevolazioni prima casa., in Riv. Not., 2006, 3, 1, 732 ss.; SERVIDIO, Benefici “prima casa”: prevalenza della residenza anagrafica su quella di fatto, in Prat. Fisc. e Prof., 2008, 25, 41 ss. 8 In banca dati fisconline. 9 In banca dati fisconline. 10 Cfr. circolare Agenzia delle Entrate dell’1 marzo 2001, n. 19, paragrafo 2.1.2, in cui è ribadito che «per quanto concerne in particolare la residenza si precisa che fa fede la da-

dimostrazione dell’avvenuto trasferimento di fatto nell’immobile compravenduto già alla data del rogito, se tale cambio di residenza è stato registrato all’anagrafe comunale solo successivamente. Tuttavia, è stato precisato nella stessa sentenza che il beneficio della registrazione ad aliquota ridotta è da riconoscere anche a coloro che, al momento dell’acquisto, hanno già fatto formale richiesta di trasferimento della residenza nel Comune in cui l’immobile acquistato è ubicato, sebbene la conseguente registrazione all’anagrafe sia successiva. La validità della richiesta formale di mutamento dell’iscrizione anagrafica nel termine fissato dalla legge ai fini del beneficio fiscale è stata giustificata dalla Corte di Cassazione nelle sentenze n. 15412 dell’11 giugno 2008 e n. 19099 del 10 luglio 20089 in base al principio della unitarietà del procedimento amministrativo inteso al mutamento dell’iscrizione anagrafica, sancito anche dal D.P.R. n. 223 del 1989, art. 18, comma 2, che afferma la necessità della saldatura temporale tra cancellazione dall’anagrafe del Comune di precedente iscrizione ed iscrizione in quella del Comune di nuova residenza. La stessa amministrazione finanziaria ha più volte precisato che il cambio della residenza si considera avvenuto nella stessa data in cui l’interessato rende la dichiarazione di trasferimento al Comune, ai sensi dell’articolo 18, commi 1 e 2 del D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223, nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente, sempre che risulti accolta la richiesta di iscrizione nell’anagrafe10. Tuttavia non sono mancate alcune sentenze, seppure non relative all’agevolazione prima casa, che assegnano la prevalenza alla residenza reale piuttosto che a quella anagrafica. In particolare, nella sentenza n. 2814 del 10 marzo 200011, la Corte di Cassazione ha chiarito che se la residenza è il luogo ove la persona fisica ha la dimora abituale, per cui occorre far riferimento alla residenza effettiva, mentre la residenza anagrafica può costituire semplicemente un indizio, sempre superabile da prova contraria. Allo stesso modo, la Corte di Cassazione, nella sentenza 19 aprile 2002, n. 571312, ha precisato che, ai fini della determinazione del luogo di residenza o dimora della persona destinataria della notificazione, rileva esclusivamente il luogo ove essa dimora di fatto in modo abituale, rivestendo le risultanze anagrafiche mero valore presuntivo circa il luogo di residenza e potendo essere superate, in quanto tali, da prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento13. Sul punto, nelle istruzioni al modello di dichiarazione per le persone fisiche unico 2008, è precisato, seppure ai fini della detrazione spettante per il mutuo ipotecario relativo alla costruzione e ristrutturazione edilizia dell’abitazione principale, che al fine di stabilire l’abitazione principale, cioè quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente, rilevano le ri-

ta della dichiarazione di trasferimento resa dall’interessato al Comune, ai sensi dell’articolo 18, commi 1 e 2, del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, concernente l’approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente, sempre che risulti accolta la richiesta di iscrizione nell’anagrafe»; circolare Agenzia delle Entrate del 12 agosto 2005, n. 38, par. 2.4, in cui è evidenziato che «ai fini della corretta valutazione del requisito di residenza, dovrà considerarsi che il cambio di residenza si considera avvenuto nella stessa data in cui l’interessato rende al Comune, ai sensi dell’articolo 18, comma 1 e 2, del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (regolamento anagrafico della popolazione residente) la dichiarazione di trasferimento».

11 Giur. It., 2000, 2246. 12 In banca dati fisconline. 13 Secondo la R.M. 26 maggio 2000, n. 76/E, non assume alcun rilievo che una specifica norma di legge impedisca la fissazione della residenza nel Comune in cui è situata l’abitazione acquistata. La nota 2-bis, comma 1, lett. a all’art. 1 della tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986, prevede, infatti, «che l’immobile sia ubicato nel territorio del Comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall’acquisto la propria residenza o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria attività [...]», senza ammettere deroghe.


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sultanze dei registri anagrafici o l’autocertificazione effettuata ai sensi del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, con la quale il contribuente può attestare anche che dimora abitualmente in luogo diverso da quello indicato nei registri anagrafici. 3. Tanto premesso, la sentenza della Commissione provinciale di Treviso non si discosta da un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato che individua nella forza maggiore, sopraggiunta in un momento successivo rispetto a quello di stipula dell’atto di acquisto dell’immobile, l’unica eccezione – che non comporta decadenza dall’agevolazione – all’obbligo di acquisire la residenza nel Comune, ove è ubicato l’immobile, entro il termine stabilito per legge14. A tale proposito, la Commissione provinciale ha precisato che i ritardi dei lavori di ristrutturazione cui è sottoposto l’immobile da acquistare non costituiscono una valida causa di giustificazione del mancato rispetto del termine per il cambio di residenza, in quanto dette operazioni non solo sono prive di natura oggettiva, ma anche facilmente prevedibili ed evitabili. Al riguardo, la Commissione tributaria centrale, nella sentenza del 2 aprile 1996, n. 149715, sotto il vigore della disposizione precedente che disponeva che l’immobile fosse adibito a propria abitazione, aveva ritenuto che spettavano le agevolazioni in materia di “prima casa” anche qualora l’unità abitativa non venisse in concreto utilizzata dall’acquirente, a causa del mancato ottenimento della disponibilità dell’immobile, perché locato, pur essendo state esperite tutte le azioni per ottenerne la riconsegna16. Infatti, secondo i giudici, gli impedimenti oggettivi sopravvenuti all’acquisto, che non consentono all’acquirente di destinare l’im-

14 Cfr. IANNIELLO, Esclusa la decadenza delle agevolazioni «prima casa» in caso di forza maggiore, in Corr. Trib., 2002, 26, 2336 ss.; AIELLO, In tema di prima casa. Le agevolazioni per l’acquisto di fabbricato abitativo. Condizioni. Immobili acquistato nel Comune di residenza e non occupato. Effetti., in Boll. Trib., 2003, 19, 1388 ss.; D’ORSOGNA, La causa di forza maggiore può evitare la revoca delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa, per le imposte di registro, ipotecaria e catastale, in Fisco, 2002, 9, 1, 3152. 15 In banca dati fisconline. 16 Allo stato attuale, è possibile concedere in locazione l’unità immobiliare abitativa che è stata appena comprata con i benefici “prima casa”, considerato che, ai fini dell’agevolazione, non è più previsto dalla vigente normativa l’obbligo di adibire l’immobile ad abitazione principale o di dichiarare di voler provvedere a questa destinazione. In tal senso si è espressa anche l’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 69 del 14 agosto 2002 e nella successiva circolare n. 38 del 12 agosto 2005, in cui è stato specificato che tale obbligo, necessario ai sensi della precedente disciplina, non è stato più riproposto dalla normativa attuale. 17 In banca dati fisconline. 18 Nel caso, si trattava del sisma avvenuto in Umbria nel 1997 che aveva impedito al soggetto beneficiario dell’agevolazione di tra-

mobile ad abitazione propria, non possono comportare la revoca delle agevolazioni. Per l’amministrazione finanziaria la forza maggiore deve essere interpretata in modo alquanto restrittivo. Infatti, nella risoluzione 1 febbraio 2002, n. 35, è stato chiarito, richiamando la sentenza della Corte di Cassazione del 19 marzo 1981, n. 161617, che ricorre il caso della forza maggiore quando si verifica e sopravviene un impedimento oggettivo non prevedibile e tale da non poter essere evitato, vale a dire un ostacolo all’adempimento dell’obbligazione, caratterizzato da non imputabilità alla parte obbligata, inevitabilità e imprevedibilità dell’evento18. Ciò in quanto, in caso contrario, l’acquirente, per stabilire nel termine previsto per legge la propria residenza nel Comune in cui è situato l’immobile inutilizzabile, dovrebbe sostenere, oltre alla perdita subita, anche un nuovo onere finanziario, contrario alla ratio della norma, per assicurarsi la disponibilità di un nuovo immobile nel medesimo Comune19. Pertanto, per fruire dell’agevolazione prima casa è necessario, tra l’altro, il trasferimento della residenza anagrafica entro il termine di legge con decorrenza dalla data di acquisto del bene; la residenza di fatto non integra uno dei presupposti richiesti per fruire delle agevolazioni fiscali sull’acquisto della prima casa. Non è richiesto dalla disposizione normativa un periodo minimo di permanenza della dimora abituale nel Comune ove è situato l’immobile. Ne deriva che i trasferimenti di residenza anagrafica successivi in altro Comune non comportano di per sé la decadenza del beneficio fiscale per la prima casa.

sferire la propria residenza a causa del terremoto avvenuto nel Comune dove aveva acquistato la casa di abitazione. Al riguardo, l’amministrazione fiscale ha escluso la perdita dei benefici per il contribuente, precisando però che non può di norma considerarsi sufficiente il verificarsi di un evento sismico per impedire a chiunque di trasferire la residenza in uno dei Comuni colpiti. Infatti, il danneggiamento non aveva colpito solo l’immobile acquistato, ma un’area più vasta, quale l’intero Comune. Cfr. D’ORSOGNA, op. cit. Secondo detto autore, la risoluzione citata, riconoscendo l’estensione dell’istituto giuridico della causa di forza maggiore a fattispecie tributarie, è applicabile anche a fattispecie diverse da quella presa in considerazione dall’amministrazione, quali l’esproprio dell’immobile agevolato da parte della pubblica autorità verificatosi dopo l’acquisto, perché l’impedimento all’acquisizione della residenza discende dalla materiale indisponibilità del bene per una causa estranea alla volontà del soggetto interessato, ovvero il perimento della cosa, dovuto a lesioni strutturali non riconducibili alla volontà del soggetto acquirente che rendono il bene inservibile per l’uso cui è destinato. 19 L’Agenzia delle Entrate ha da ultimo fornito ulteriori precisazioni sul mancato stabilimento della residenza per causa di forza maggiore nella risoluzione del 10 aprile

2008, n. 140. Nel caso, il contribuente invocava la causa di forza maggiore perché il mancato rispetto del termine previsto per legge era da attribuire ad un’oggettiva situazione di fatto, del tutto straordinaria e a lui non imputabile. Infatti, dichiarava di non aver potuto trasferire la propria residenza nel termine di diciotto mesi, poiché l’immobile acquistato era stato dichiarato inagibile, con conseguente revoca del certificato di abitabilità, a causa di abbondanti infiltrazioni d’acqua provenienti dal tetto. L’amministrazione finanziaria ha ritenuto che se il mancato trasferimento da parte del contribuente è dipeso da un evento imprevisto e inevitabile, verificatosi successivamente all’acquisto dell’immobile, che ha impedito il trasferimento della residenza, allora tale evento, concretizzando una causa di forza maggiore non dà luogo a decadenza dall’agevolazione “prima casa”. La circostanza dell’esistenza della causa di forza maggiore è oggetto di valutazione da parte dell’ufficio accertatore. Con questa risoluzione, l’amministrazione ha riconosciuto una valenza più ampia alla causa di forza maggiore che è quindi invocabile anche quando l’evento impeditivo riguarda solo l’immobile acquistato e non un’area più vasta, come invece era stato riconosciuto nel caso del sisma avvenuto in Umbria (risoluzione 1 febbraio 2002, n. 35/E, cit).


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IN TEMA DI FRODI IVA NEL COMMERCIO DI AUTOMOBILI: RIFLESSIONI SUGLI ONERI DI PROVA I Commissione tributaria provinciale di Pesaro, sez. IV, 28 maggio 2009, n. 68 67 Presidente: Cormio - Relatore: Venturati Iva - Detrazioni - Acquisto di autovetture usate in ambito comunitario - Applicazione del regime del margine ex art. 36, D.L. 41/1995 - Presupposti - Titolarità originaria risultante dal libretto di circolazione - Prova insufficiente - Onere della prova gravante sull’ufficio finanziario (D.L. 30 agosto 1993, n. 331; D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 36) In tema di acquisto di autovetture usate in ambito comunitario, la titolarità originaria di un autoveicolo da parte di una società di noleggio o di leasing, come risultante dai libretti di circolazione, non costituisce elemento sufficiente per poterne individuare il regime Iva applicabile alla transazione, posto che il libretto originario non consente di escludere che, nella catena dei “passaggi” successivi, anche un solo operatore non abbia potuto o voluto recuperare l’imposta per far si che la autovettura entri a pieno diritto nel regime speciale del margine. Svolgimento del processo In data 13 gennaio 2009 la società [...] S.r.l. nella persona del suo legale rappresentante sig. [...] ricorre presso la Commissione tributaria provinciale di Pesaro avverso i seguenti atti: - avviso di accertamento n. [...] emesso dall’Agenzia delle Entrate di Pesaro relativamente ad Irpeg, Irap e Iva 2003; tale atto, seguendo il Pvc della G. di F. di Pesaro (19 febbraio 2005) e la nota (prot. [...] del 10 aprile 2008) trasmessa all’ufficio dalla Agenzia delle Dogane di Ancona, Sot di Pesaro determina le seguenti maggior imposte: Irpeg pari ad euro 51.903,00; Irap per euro 7862,00 ed Iva per euro 6957,00, sanzioni pecuniarie per euro 10.435.650,00 e relativi interessi; - atto di contestazione n. [...] in cui, per lo stesso anno (2003), viene rilevata ai fini Iva per le medesime operazioni l’omessa regolarizzazione degli acquisti effettuati da operatori nazionali con l’irrogazione dell’ulteriore sanzione amministrativa pari ad euro 1.567.701,00. La ricorrente lamenta che l’a.f. ha ipotizzato che la società avrebbe realizzato una frode in operazioni di triangolazione comunitaria con fittizia indicazione apposta da falso triangolatore comunitario ma che tuttavia non trovano alcun riscontro nel Pvc da cui emerge che le irregolarità contabili e tributarie riscontrate in capo ai fornitori comunitari o sono relative ad anni precedenti o non hanno visto coinvolta la F.A. alla quale la G. di F. non ha imputato alcuna responsabilità diretta. Precisa che l’accertamento trae origine da un controllo aziendale sulla correttezza applicativa in ambito Iva del “regime del margine”. Tale verifica si è conclusa senza alcun addebito nella predetta materia, essendo state riscontrate unicamente irregolarità di calcolo inerenti la liquidazione d’imposta. Sostiene che la G. di F. richiedeva poi agli organi collaterali esteri di effettuare verifiche su alcuni fornitori “comunitari” della [...] per gli anni dal 2000 al 2002 ed in seguito anche per le annualità 2003/2004. Gli addebiti si fondano su informative di organi collaterali esteri riguardanti alcuni dei fornitori comunitari riferite ad annualità precedenti (2000/2002) a quella accertata che tuttavia non coinvolgono mai la società ricorrente.

Successivamente la G. di F., a sostegno degli addebiti formulati nel Pv dell’1 settembre 2005, portava un nuovo elemento, ovvero, il fatto che l’originaria immatricolazione delle auto a società di autonoleggio e leasing, riportata in alcuni dei libretti di circolazione, poteva veramente consentire l’individuazione del regime Iva applicabile all’auto non è dato comprendere il motivo per cui durante i sei mesi di verifica (sett. 2002/mar. 2003) la polizia tributaria non abbia tratto dall’esame dei libretti di circolazione trovati in azienda alcun elemento di contestazione. La società precisa che solo nel 2005 la G. di F. ha portato l’argomento delle “carte di circolazione” su operazioni dell’anno 2003. Inoltre l’a.f. nell’accertamento impugnato, non si è limitata a “riprendere a tassazione” le compravendite di autovetture con i fornitori esteri oggetto di informativa degli organi collaterali esteri, sebbene ad anni precedenti, o quelle auto i cui libretti riportavano l’unico originale intestatario del bene, le società di noleggio, leasing ma il controllo ha riguardato sia gli acquisti di autovetture inquadrate dalla ricorrente in regime del margine sia quelli effettuati da fornitori comunitari che italiani, riprendendoli a tassazione Iva. Ugualmente ha operato per tutte le vendite di auto a cui è stato applicato il regime del margine contestando l’omessa imposizione ad Iva. I verificatori sostanzialmente hanno considerato l’intero importo indicato in dichiarazione Iva acquisti e vendite al quale era stato applicato il regime del margine addebitando l’omessa imposizione, secondo il regime analitico, senza tener conto né della provenienza delle auto né delle risultanze delle singole carte di circolazione recuperando in tal modo oltre all’Iva, interessi, sanzioni e l’imposizione diretta con riferimento ad Ires, Irap. Pertanto la società ricorrente eccepisce i seguenti principali motivi di gravame: - Violazione di legge, in relazione agli artt. 42, D.P.R. n. 600/1973 e 54, D.P.R. 633/1972 dell’art. 7 dello Statuto del contribuente e dell’art. 2 D.Lgs. n. 32/2001; - Violazione di legge, per difetto di motivazione ex artt. 42, D.P.R. n. 600/1973 e 56, D.P.R. 633/1972 per illegittima applicazione di presunta generalizzata irregolarità del totale delle vendite effettuate. - Violazione della legge ex art. 36 legge n. 85/1995. - Violazione dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992. - Violazione dell’art. 36, legge n. 85/1995 per illegittima pretesa di valorizzazione, ultra legem, del rango probatorio dei libretti di circolazione. - Assenza di qualsiasi vantaggio concorrenziale da parte della ricorrente. - Violazione dell’art. 19, D.P.R. 633/1972 in relazione al principio di neutralità dell’Iva. - Violazione dell’art. 10 del T.U.I.R. Chiede pertanto, in via preliminare, la riunione dei due fascicoli riguardanti l’avviso di accertamento n. [...] e l’atto di contestazione sanzioni n. [...] entrambi relativi alla stessa annualità (2003), in via principale, che venga deciso l’annullamento dell’atto di accertamento impugnato per violazione della legge e per difetto di motivazione, in subordine, di ridurre la pretesa erariale e dichiarare non dovute le pene pecuniarie ex art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 per incertezza interpretativa delle norme, con vittoria delle spese di lite.


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In data 5 marzo 2009, l’Agenzia delle Entrate si costituisce in giudizio controdeducendo copiosamente: - sulla pretesa violazione degli artt. 42 del D.P.R. n. 600/1973 e 56 del D.P.R. 633/1972 e sull’art. 7 dello Statuto del contribuente, - sulla asserita applicazione della presunzione di generalizzata irregolarità di tutte le vendite, - sulla asserita violazione dell’art. 36 della legge n. 85/1995, - sul regime del margine in generale, - sull’asserita violazione violazione dell’art. 7 D.Lgs. 546/1992, - sull’invocata assenza di qualsiasi vantaggio concorrenziale, - sulla invocata violazione dell’art. 109 T.U.I.R. L’ufficio inoltre, a sostegno delle proprie tesi, cita e commenta diverse sentenze sia di merito che di legittimità tra le quali: - le direttive del Consiglio europeo n. 1991/680; n. 94/5; n. 77/388 e n. 2001/118; - la sentenza della Corte di Giustizia UE del 12 gennaio 2006, cause riunite (C-354/2003, C-355/2003 e C-484/2003); - le sentenze della Corte di Cassazione n. 14904 del 23 novembre 2001 e n. 18424 del 16 settembre 2005; - la sentenza della Commissione tributaria regionale di Milano n. 14 del 30 gennaio 2008, secondo la quale «ancorché il contribuente non sia tenuto all’effettuazione di specifiche indagini o ricerche che esulino dal normale contesto delle relazioni commerciali, egli è comunque obbligato ad osservare la normale diligenza ed accortezza. Conseguentemente, l’operatore economico che sia entrato (necessariamente) in possesso dei documenti accompagnatori dei beni acquistati (nella specie, i libretti di circolazione delle autovetture dai quali possano agevolmente evincersi circostanze atte ad escludere l’applicabilità del regime del margine, non può dolersi lamentando l’insussistenza di obblighi di legge in relazione alla raccolta di informazioni sulla provenienza dei beni medesimi». La sentenza della Commissione tributaria provinciale di Treviso n. 117/1/2006 del 18 ottobre 2006 secondo cui: «È condivisibile l’assunto che non può chiedersi al soggetto acquirente di eseguire una approfondita e difficile ricerca per verificare l’esatta applicazione del beneficio, ma è altrettanto condivisibile l’assunto che esso soggetto acquirente è tenuto alla verifica formale dell’applicazione del beneficio. Conseguentemente, dal libretto di circolazione era desumibile che esso beneficio non spettava risultando che i soggetti indicati apparivano, salvo prova contraria, non in possesso del contribuente, soggetti passivi di imposta ordinaria e quindi in grado di operare la di essa detrazione»; e le pronunce: Comm. trib. prov. Firenze (n. 33 del 26 novembre 2007); Comm. trib. reg. Lazio (n. 65 del 18 giugno 2008); Comm. trib. reg. Veneto (n. 42 del 28 novembre 2007). Conclude pertanto chiedendo la conferma dell’atto di accertamento impugnato ed il rigetto del proposto gravame, con vittoria delle spese di giudizio. In data 23 aprile 2009 la società produce le proprie memorie illustrative in cui assume la nullità dell’atto impositivo in quanto l’ufficio ha formulato una serie di presunzioni circa l’ipotizzato abuso del regime del margine di alcuni fornitori per gli anni dal 2000/2002 anche al 2003, ritenendo che anche fornitori non controllati abbiano continuato a vendere in regime ordinario anche successivamente. Precisa che esiste un unico modulo della motorizzazione civile per l’immatricolazione di tutte le tipologie degli autoveicoli di provenienza comunitaria e come da esso non sia possibile desumere il regime Iva applicabile alla compravendita. Sostiene che il regime del margine non ha natura agevolativa ma il solo fine di evitare la doppia imposizione e che l’ipotizzata irregolarità commessa dal fornitore non può essere imputata anche al cliente. Sottolinea che i libretti di circolazione contengono unicamente dati tecnici e che sono irrilevanti per certificare il regime Iva spettante.

Poiché alcuni documenti riportano soltanto nomi e cognomi è presumibile che si tratti di soggetti privati e che pertanto è errato considerare irregolari tutte le operazioni. Infine commenta la sentenza della Corte di Cassazione n. 6124 del 13 marzo 2009 che ha ribadito che «l’acquisto di merci reimportate con regolare corresponsione, da parte del contribuente, dell’Iva esposta nelle fatture non comporta una necessaria e consapevole partecipazione, da parte dell’acquirente, all’evasione Iva posta in essere dalla venditrice». Per tutte queste ragioni chiede, quindi, la riunione dei due ricorsi, il loro accoglimento, e l’annullamento degli impugnati atti impositivi. Motivi della sentenza Osserva il Collegio: il ricorso è fondato e pertanto va accolto. Portano a questa conclusione le ragioni di seguito esposte. Preliminarmente questo Collegio, constatata la connessione oggettiva e soggettiva del gravame di cui all’Rgr n. [...] a quello recante Rgr n. [...] riunisce i ricorsi per espressa domanda della difesa di parte privata, nulla opponendo il rappresentante dell’ufficio. Va inoltre respinta l’eccezione pregiudiziale circa la sollevata illegittimità dell’accertamento per il difetto di motivazione, conseguente alla mancata allegazione della nota delle dogane n. [...]. Infatti a prescindere dall’avvenuta allegazione o meno della predetta nota all’avviso di accertamento, quest’ultimo anche integrato dal solo Pvc del 19 febbraio 2005 espressamente richiamato nell’atto impugnato, risulta ugualmente supportato da specifica motivazione e, quindi, idoneo a chiarire quali siano stati i fatti e le ragioni all’origine della pretesa impositiva. La menzionata nota, come osservato dallo stesso resistente ufficio, non contiene argomenti nuovi o “passaggi” motivazionali ulteriori rispetto all’atto di accertamento integrato dal Pvc e, pertanto, anche la successiva produzione della nota in ambito processuale garantisce il perfezionamento del contraddittorio e il diritto di difesa del contribuente. Si ritiene, di contro, che siano da accogliersi le rimanenti censure avanzate dalla difesa della ricorrente sia in diritto che nel merito. La pretesa tributaria, come precisato nelle controdeduzioni, si fonda principalmente sulle risultanze dei libretti di circolazione idonei, secondo la tesi propugnata dall’organo accertatore, a configurare il regime Iva applicabile alla compravendita. Questa tesi deve essere respinta conformemente ai precedenti di questa stessa Commissione. Infatti l’acquisizione originaria in capo ad una società di leasing, di noleggio, ecc., risultante dall’intestazione sui libretti di circolazione, non costituisce elemento sufficiente per poterne individuare il regime Iva applicabile alla transazione, in quanto la detraibilità dell’Iva in fase d’acquisto è pure dipendente dalla “destinazione” concreta del bene all’attività “propria” dell’impresa. Ne consegue che automezzi pure acquistati da società di leasing o di autonoleggio, ma destinati ad essere impiegati come beni strumentali o ad altro uso non caratterizzante l’attività propria dell’azienda, si vedrebbero negata la detraibilità dell’imposta sull’acquisto con l’effetto di immettere gli stessi nel regime Iva del margine. Appare significativa sul punto la pronuncia della stessa a.f. (ris. min. n. 550378 del 27 luglio 1990) riguardo gli acquisti effettuati da concessionari auto, soggetti potenzialmente legittimati al recupero dell’Iva, di autovettutre destinate ad “uso dimostrazione”. Ebbene, solamente in quanto tali autovetture sono state qualificate come “connesse intrinsecamente all’attività propria” della ditta e a condizione che il loro acquisto trovi riscontro in un preciso obbligo contrattuale scritto assunto nei confronti del concedente” ne è consentito il recupero dell’imposta. Ciò a riprova che è la effettiva destinazione od uso della autovettura a determinare il regime tributario del-


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l’acquisto, situazione certamente non desumibile dai libretti di circolazione. Posto che è sufficiente che nella catena dei “passaggi” successivi, anche un solo operatore non abbia potuto o voluto recuperare l’imposta per far si che la autovettura entri a pieno diritto nel regime speciale del margine, la circostanza, recentemente posta in luce anche dall’a.f. (circ. n. 14/E del 26 febbraio 2008), che in alcuni paesi comunitari non sussiste l’obbligo giuridico di trascrivere sulla carta di circolazione per prefigurare il regime Iva applicabile alla compravendita dell’autovettura (Comm. trib. reg. Ancona n. 82/9/2008 del 10 giugno 2008). Al riguardo, la verifica condotta dalla G. di F. presso il ricorrente a cavallo tra il 2002 e il 2003 proprio sulla applicazione del regime Iva del margine, conclusasi senza alcuna valorizzazione delle risultanze dei libretti di circolazione e sicuramente significativa sulla insufficiente valenza probatoria del documento in oggetto. Procedendo poi all’esame dei libretti di circolazione depositati in causa, si deve rilevare che non sempre le diciture ivi apposte consentono di ricondurre l’intestazione originaria a società di leasing o di noleggio. A volte sono riconducibili nominativi di società almeno a prima vista non identificabili come società di leasing o noleggio, in altri casi si riscontrano doppie intestazioni con indicata una società finanziaria o di altro genere nonché un soggetto utilizzatore spesso identificato con nome e cognome (e quindi senza ragione sociale), e ancora compaiono a volte solamente nominativi di persone fisiche, come pure in alcuni libretti sono presenti diciture a tampone in cui è desumibile la provenienza delle autovetture da aste pubbliche. Di fronte a questa molteplicità di situazioni rinvenibile dai libretti di circolazione, l’accertamento della “totalità” delle operazioni assoggettate dal ricorrente nel regime del margine in termini di evasione di imposta si mostra generico e indeterminato e quindi meritevole di censura. L’atto di accertamento avrebbe dovuto enucleare specificatamente le operazioni caratterizzate da un valore segnaletico delle carte di circolazione difforme dal regime indicato in fattura, secondo i criteri sostenuti in motivazione e cioè intestazione a società di noleggio leasing, ecc., e per queste contestare e accertare in maniera indiscriminata tutte le operazioni assoggettate al regime del margine. Sull’obbligo del soggetto acquirente di prestare la necessaria diligenza per verificare il corretto inquadramento tributario dell’operazione sono da formularsi le seguenti considerazioni. Certamente la fattura di acquisto deve riportare il riferimento normativo al regime Iva applicato, circostanza non contestata nel procedimento in esame. Anche le condizioni per la qualificazione di “usato” del bene compravenduto nell’ambito degli acquisti comunitari, ex art. 38 (comma 4), D.L. n. 331/1993, e cioè l’immatricolazione da almeno sei mesi e la percorrenza di più di 6000 chilometri, rientrano nel doveroso ambito di controllo dell’acquirente, ma anche il verificarsi di queste condizioni non è contestato in questo procedimento. Ribadito che i libretti di circolazione non si configurano come elementi idonei per avvalorare il regime tributario indicato in fattura non si vede quali altre attività si possano richiedere all’acquirente e comunque, pur riconoscendo la sussistenza di un dovere di correttezza e diligenza a cui l’operatore deve uniformarsi e che trascende il mero rispetto “formale” delle prescrizioni normative, va tuttavia riconosciuto il principio per cui “l’obbligato in rivalsa” non può trasformarsi «in un collaboratore con supplenza in funzioni di esclusiva pertinenza dell’ufficio finanziario [...] introducendo una sorta di accertamento privato in rettifica della dichiarazione del debitore di imposta» (Cass., n. 11313 del 29 settembre 2000). Anche sulla base del principio sopra affermato sono da valutarsi le informative pervenute dagli organi collaterali esteri. In primo luogo si deve prendere atto che trattasi di informative riguardan-

ti per gran parte annualità precedenti a quella accertata, e cioè il periodo 2000-2002, quindi non applicabili alla controversia in esame. In secondo luogo, le informative che interessano l’anno 2003, oltre ad esprimersi in termini generali, cioè sulle modalità operative delle aziende estere verificate e non sullo specifico rapporto intervenuto con la società [...] (C. Ltd e C.P. Ltd) e in termini alquanto incerti e dubitativi (ancora C. Ltd e C.P. Ltd e M.), non provano una qualsiasi compartecipazione del ricorrente al disegno “evasivo” posto in atto da alcuni fornitori esteri, né lo svolgimento di un ruolo fattivo svolto dalla stessa ricorrente, espressamente escluso in alcuni passaggi del Pvc, o comunque una mera conoscibilità delle irregolarità commesse dagli stessi fornitori se si esclude l’argomento dei libretti di circolazione già trattato, irregolarità emerse solamente nell’ambito di controlli autoritativi operati da organismi di polizia tributaria. Più specificatamente, esaminando le posizioni dei fornitori esteri trattate nelle controdeduzioni dell’ufficio, in quanto inerenti l’anno accertato, è emerso quanto segue. In ordine alle società inglesi, l’informativa proveniente dal collaterale organismo britannico riguardante la C. Ltd non fornisce elementi univoci di valutazione in quanto, con riferimento alla complessiva operatività di questa società, si afferma (Pvc del 19 febbraio 2005, 38) che «alcuni di questi veicoli (riferendosi ad auto probabilmente acquistate in Spagna e vendute in Italia) possono rientrare nel cd. regime del margine e l’Iva a debito sul margine sembra essere dovuta nel Regno Unito. Si ritiene inoltre che altri veicoli provengano dal noleggio e che possono essere stati ceduti al di fuori di detto regime». Riguardo l’altra società britannica, la C.P. Ltd, l’informativa è ancora più generica, rilevando (Pvc, 40) che «non sono stati reperiti documenti significativi a parte poche fatture relative alla vendita di auto provenienti dalla Spagna e dirette in Francia» e concludendo che «non si ritiene che sarà possibile ottenere documenti utili in relazione alla verifica delle transazioni oggetto della richiesta». Per quanto riguarda gli acquisti effettuati dalla società spagnola M. Slu, l’organo collaterale estero informa che le autovetture provenivano dalla società tedesca M. GmbH, acquistate dalla M. Slu in regime di «esenzione Iva trattandosi di acquisti intracomunitari» (Pvc, 40), e da queste cedute in triangolazione alla F.A. S.r.l. applicando il regime del margine Pvc, 45 ss.), da cui «emergeva il sospetto che la società iberica sia stata interposta esclusivamente al fine di evadere la tassazione Iva sugli acquisti in Italia» (Pvc, 46). In conclusione si condivide il principio più volte recepito dalla Corte di Giustizia UE, secondo cui «il diritto di un soggetto passivo di dedurre l’imposta sul valore aggiunto pagata a monte non è pregiudicato dal fatto che, nella catena di cessioni in cui si iscrivono tali operazioni, senza che il medesimo soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un’altra operazione, precedente o successiva a quella realizzata da quest’ultimo, sia inficiata da frode all’imposta sul valore aggiunto». Per tutto quanto sopra rappresentato, si conferma l’orientamento di questa Commissione (sent. n. 120/3/2007 del 5 dicembre 2007; n. 564/2008 e n. 565/2008 del 5 dicembre 2008) per cui soltanto laddove si provi che il soggetto passivo abbia collaborato con gli autori della frode o ne sia complice o comunque ne fosse a conoscenza o potesse esserne a conoscenza attraverso gli elementi a propria disposizione della frode stessa si potrà negare il diritto alla detrazione di imposta, circostanze queste che nella fattispecie non sono state affatto accertate e nemmeno dimostrate. Anche sull’onere probatorio in materia di applicazione del regime Iva del margine non vi sono motivi per discostarsi dall’orientamento espresso da questa Commissione (sent. n. 120/3/2007 del 5 maggio 2007; n. 564/2008 e n. 565/2008 del 5 dicembre 2008) per cui il regime del margine non si configura come norma agevolativa, quanto come norma finalizzata ad evitare una


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doppia imposizione, per cui non può operare alcuna inversione dell’onere della prova, che rimane così a carico del procedente ufficio nella sua qualità di attore sostanziale nel processo tributario. Infatti, «la richiamata normativa ha come scopo quello di evitare una doppia imposizione tributaria con effetti limitativi della libera concorrenza e della circolazione di beni nell’ambito della Comunità europea» (circ. min. n. 177/F del 22 giugno

1995) non proponendosi quindi fini agevolativi bensì un corretto e neutrale funzionamento dell’imposizione tributaria indiretta. Le considerazioni svolte portano a ritenere infondato l’impugnato avviso di accertamento che va, pertanto, annullato. Il regolamento delle spese processuali, tenuto conto sia della singolarità sia della complessità della trattata fattispecie, viene individuato mediante l’integrale compensazione tra le parti in giudizio.

II Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. III, 29 aprile 2008, n. 25 68 Presidente: Tatozzi - Relatore: Pace Iva - Detrazioni - Acquisto di autovetture usate in ambito comunitario - Applicazione del regime del margine ex art. 36, D.L. 41/1995 - Prova della insussistenza dei presupposti - Onere gravante sull’ufficio finanziario (D.L. 30 agosto 1993, n. 331; D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 36) In caso di compravendita di beni usati suscettibili di reimpiego all’interno della CE – come previsto dagli artt. 36 e 37 del D.L. 41/1995, convertito in legge 85/1995, che prevede, al fine di evitare la doppia tassazione Iva, che l’importatore conteggi l’Iva con il regime del margine, cioè sul maggior prezzo realizzato, rispetto a quello pagato – l’unico adempimento, cui è tenuto l’importatore, è la verifica che trattasi di beni usati (in particolare per gli autoveicoli che si tratti di autoveicoli immatricolati da almeno sei mesi e che abbiano percorso almeno 6000 km.); il cessionario non è tenuto a verificare che i veicoli acquistati avessero assolto l’Iva in maniera completa e definitiva, essendo onere dell’ufficio provare che i veicoli provenivano da precedenti titolari soggetti di Iva, i quali, all’atto del loro acquisto, avevano recuperato l’Iva, per cui una parte del costo di quei veicoli non aveva scontato l’imposta in forma definitiva. Il signor P.G. di Avezzano, titolare di ditta individuale per la commercializzazione di autoveicoli, rappresentato e difeso dall’avv. F.M. di Campobasso, con atto di appello depositato il 3 ottobre 2007 e registrato al rep. Rga 1356/2007, ha impugnato la sentenza n. 128/05/2006 con la quale la Comm. trib. prov. di L’Aquila ha accolto in parte il suo ricorso proposto avverso. Avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Avezzano aveva conteggiato e richiesto maggiori imposte Irap, Irpef, Iva e contributi previdenziali per l’anno 2000 sul presupposto “abuso” del regime del margine (art. 36, legge 85/1995) inerente la normativa Iva: abuso rilevato e segnalato all’Agenzia della Direzione regionale delle Entrate per l’Abruzzo. In particolare l’ufficio ha rilevato abuso del regime del margine in occasione di acquisti intracomunitari di 35 veicoli usati, di acquisti da fornitori nazionali di n. 2 autovetture e di cessione di detti veicoli. Ha inoltre recuperato a tassazione costi indeducibili, in quanto non inerenti, relativi al costo di due passaggi di proprietà non effettuati e spese di agenzia per immatricolazioni e passaggi di proprietà per i quali non sono state rinvenute fatturazioni. La Comm. trib. prov. ha confermato l’avviso di accertamento per tutti i rilievi contestati ad eccezione dell’ultimo riguardante i ricavi omessi non fatturati sul presupposto sostenuto dal contribuente che quelle spese sono, per consuetudine incorporate, all’atto della vendita, nel prezzo di vendita stesso. Il rilievo dell’abuso del margine è stato effettuato in quanto l’ufficio ha accertato che dai precedenti cessionari dei veicoli commerciati non era stata assolta l’Iva in forma definitiva ma recuperata a credito trattandosi di aziende soggetti a Iva: il contribuente, secondo l’ufficio, nell’applicare il regime del margine,

cioè il conteggio dell’Iva solo sul maggior prezzo realizzato all’atto della vendita, avrebbe dovuto tener conto di quelle quote del prezzo medesimo che non avevano assolto in forma definitiva l’imposta nelle precedenti fasi di compravendita delle quali il veicolo usato era stato oggetto. Il contribuente, con il proprio atto di appello conferma quanto deciso dalla sentenza impugnata in merito alla indeducibilità di costi non inerenti e contesta la tesi dell’ufficio circa l’obbligo di verificare la situazione dell’Iva relativamente alle transazioni che hanno preceduto i suo acquisto, nessun obbligo del genere essendo previsto dalla legge regolante il regime del margine. A sostegno della propria tesi cita sentenza di Commissioni provinciali, peraltro riprese da stampa specializzata, che hanno affermato il principio del non obbligo di verifica della posizione Iva del veicolo commercializzato a seguito di precedenti cessioni. L’ufficio, con atto depositato il 5 ottobre 2007 e fascicolato con Rga n. 1365/2007, propone appello per quanto attiene il rilievo di ricavi non fatturati secondo l’obbligo previsto dall’art. 21 del D.P.R. 633/1972 non essendo sufficiente la tesi del contribuente che quei costi di agenzia ed immatricolazione sono stati incorporati nella fattura di vendita del veicolo, quanto lo stesso contribuente ha ammesso che su quelle fatture non sono stati evidenziati quei costi. Il fascicolo va preliminarmente inserito come da prassi in quello più datato ovvero nel Rga 1356/2007. Con contro deduzioni ed appello incidentale depositati il 15 novembre 2007 l’ufficio ribadisce la propria tesi inerente una giusta applicazione del regime del margine riaffermata dalla Corte di Giustizia europea che esaminando casi analoghi ha parlato di “frode carosello” e cita ancora recente giurisprudenza della Corte di Cassazione. Infine con appello incidentale, dopo aver richiamato l’appello precedentemente notificato a depositato, ribadisce la censura ivi sollevata e chiede la conferma dell’avviso di accertamento con condanna alle spese. Osserva questa sezione, preliminarmente che il fascicolo individuato dal numero di Rga 1365, relativo all’appello dell’ufficio, va riunito al fascicolo più datato ovvero a quello distinto dal n. 1356 di Rga ricorrendo le condizioni di connessione tra i due procedimenti. Nel merito la sentenza appellata da entrambe le parti in causa ha confermato l’avviso di accertamento per quanto attiene al recupero di imposta per omesso controllo da parte del contribuente della effettiva situazione debitoria ai fini Iva degli autoveicoli usati compravenduti, annullando il recupero a tassazione di ricavi non fatturati. Relativamente a questi ultimi va accolto l’appello dell’ufficio il quale ha accertato, ed il contribuente non ha smentito, che nelle fatture emesse a carico degli acquirenti delle autovetture non è stata esposta la voce riguardante quei ricavi né gli stessi sono stati altrimenti fatturati: giustamente, quindi, l’ufficio ha recuperato gli stessi a tassazione. Per quanto attiene, invece, al recupero di imposta sui veicoli usa-


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ti commercializzati dal contribuente ed acquistati in sede comunitaria con fatture assoggettate al regime del margine, ritiene, questa Sezione, che vada accolto l’appello del contribuente. La compravendita di beni usati suscettibili di reimpiego all’interno della CEE è regolamentato dagli artt. 36 e 37 del D.L. 41/1995 convertito in legge 85/1995 che prevede, al fine di evitare la doppia tassazione Iva, che l’importatore conteggi l’Iva dovuta con il cosiddetto regime del margine che si sostanzia nel calcolare l’Iva dovuta sul maggior prezzo realizzato, rispetto a quello pagato, nella rivendita dei veicoli aumentano delle spese di riparazione eventualmente sostenute. L’unico adempimento cui è tenuto l’importatore, previsto dalle norme richiamate, è la verifica che trattasi di beni usati, in particolare per gli autoveicoli che si tratti di autoveicoli immatricolati da almeno sei mesi e che abbiano percorso almeno 6000 km. La censura sollevata dall’ufficio con l’avviso di accertamento emesso, è che il contribuente inquisito non ha provveduto a verificare che i veicoli acquistati avessero assolto l’Iva in maniera completa e definitiva limitandosi ad acquisire fatture di vendita senza Iva con la dicitura “regime del margine”. L’ufficio, invece, da una verifica delle carte di circolazione ha rilevato che quei veicoli provenivano da precedenti titolari non privati ma soggetti di Iva i quali, pertanto, all’atto del loro acquisto avevano recuperato l’Iva: una parte del costo di quei veicoli, pertanto, non aveva scontato l’imposta in forma definitiva: imposta che l’ufficio ha ritenuto di recuperare con l’avviso di accertamento in discussione. Se è vero che un sano e prudente comportamento dell’importatore dovrebbe suggerire un maggiore e più meticoloso controllo di quanto acquista per la successiva rivendita per non incorrere in responsabilità nei confronti di clienti e dello Stato stesso, è pur vero

che le norme istitutive del regime del margine in tema di imposta Iva impongono all’importatore solo ed esclusivamente l’obbligo di verificare la verifica di “usato” del bene senza alcun ulteriore onere. D’altro canto solo alle amministrazioni finanziarie degli Stati comunitari può incombere l’onere e la possibilità di verificare la posizione contributiva ai fini fiscali di un bene usato compravenduto in ambito comunitario, e di un veicolo, in particolare, che abbia subito, magari, più di un passaggio di proprietà tra privati e soggetti di Iva prima di essere acquistato da importatore di altro Stato. Senza specifiche e dettagliate norme comunitarie che obblighino, ad esempio, alla trascrizione sulla carta di circolazione di una sorta di “stato dell’arte” che dettagli cronologicamente oltre ai passaggi di proprietà anche le varie fasi dei pagamenti di imposta e di recupero della stessa da parte dei proprietari soggetti di Iva, si dovrà e potrà pretendere dall’importatore l’obbligo di verifica ora disatteso dal contribuente e preteso, invece, dall’ufficio. Solo a partire dall’anno 2003 in poi l’a.f. ha iniziato ad ipotizzare la necessità di un controllo più attento della carta di circolazione (vedi circ. 40/2003) e la Corte di Giustizia europea ha iniziato a rilevare quelle che ha definito la “frode carosello” conseguente all’applicazione del regime del margine in forma abusiva. Ma le circolari ministeriali non costituiscono obblighi di legge per i contribuenti e le constatazioni della Corte di Giustizia europea e della Corte di Cassazione costituiscono solo segnali di un profondo vuoto di normativa e della necessità che sia al più presto colmato. L’assoluta mancanza di obblighi di legge fa si che il contribuente inquisito non abbia derogato ad alcun obbligo di controllo dello Stato di precedenti transazioni che abbiano interessato gli autoveicoli usati acquistati in regime del margine. Questa sezione, infine, compensa fra le parti le spese di giudizio a seguito di reciproca parziale soccombenza.

III 69 Commissione tributaria provinciale di Campobasso, sez. I, 29 aprile 2009, n. 131 Presidente e Relatore: Mazzagreco Iva - Detrazioni - Fatture relative ad acquisti soggettivamente inesistenti - Partecipazione del contribuente all’accordo simulatorio o consapevolezza, o possibilità di consapevolezza, della frode - Onere di prova a carico dell’ufficio (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19) In caso di mancato riconoscimento della detrazione Iva relativa ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, l’ufficio è tenuto a provare o che il contribuente abbia partecipato alla interposizione fittizia o che sapeva o poteva sapere dell’intento fraudolento della propria controparte commerciale, traendo la sussistenza della mala fede dalle situazioni oggettive e dai riscontri operati nei confronti di tutti i soggetti partecipanti all’operazione. Svolgimento del processo

porti tra costoro ed altre società, trascurando che gli elementi addotti, se in ipotesi idonei a fornire la dimostrazione di condotte evasive delle dette imprese, non dimostravano in alcun modo la partecipazione ai tali disegni della società ricorrente, disegni e partecipazione ipotizzati in termini vaghi (senza alcuna valutazione quantitativa e qualitativa dei rapporti posti in essere) e comunque contrastanti (talora assumendosi che la società ricorrente avrebbe posto in essere la mera apparenza di società interposte, talaltra prospettandosi un suo ruolo di mero filtro rispetto ad ulteriori rivendite). Ne segue la sostanziale violazione dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, venendo ad essere negate detrazioni spettanti, senza che l’amministrazione abbia offerto prova della inesistenza delle operazioni disconosciute ed addotto elementi idonei a dimostrare la falsità della documentazione contabile delle stesse, arbitrariamente disconosciuta. Sotto altro profilo, il ricorrente contesta l’insussistenza del lieve ammanco riscontrato nel conto giacenze finali e la pretesa incongruenza dell’importo degli acquisti. Si è costituito in giudizio l’ufficio convenuto, allegando l’infondatezza di tutte le censure contenute nel ricorso, di cui ha domandato il rigetto. Prodotti documenti, all’udienza del 16 marzo 2009 il collegio ha riservato la decisione.

Col ricorso in epigrafe, la società ivi indicata si duole che l’ufficio di Campobasso abbia, con l’accertamento impugnato, per l’anno 2004: accertato (per effetto di variazioni delle rimanenze, degli acquisti e dei costi per assicurazioni) maggiori redditi ai fini Ires e Irap; ritenuto indebite le detrazioni Iva riferita ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti. Il ricorrente lamenta in primo luogo che la pretesa simulazione soggettiva sia basata su motivazione solo apparente e comunque su elementi inidonei a sorreggere valide presunzioni, in quanto Motivi della decisione riducentisi alla mera illazione che un certo modus operandi riscontrato nei rapporti tra l’impresa accertata e quelle facenti capo ad In ordine al mancato riconoscimento della detrazione relativa ad altri soggetti dovesse essere analogo a quello riscontrato nei rap- operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, sono opportune


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alcune preliminari osservazioni in ordine alla reale portata delle rispettive allegazioni delle parti. In primo luogo, sebbene il ricorrente si affidi a due censure formalmente distinte – la prima formulata in termini di carenza di motivazione, la seconda in termini di violazione dell’art. 19 D.P.R. n. 633/1972 – il motivo di contestazione è sostanzialmente unico e non si traduce tanto nella carenza di motivazione, quanto nella sua conformità alla disciplina probatoria. Egli, infatti, non contesta che la detrazione ex art. 19 cit. debba escludersi a fronte della dimostrazione che i suoi acquisti siano “soggettivamente” inesistenti, per essere stati effettuati direttamente da esportatore comunitario, ma contesta che si sia trattato d’interposizione fittizia e non reale e che fosse comunque in grado di apprezzare l’intento dell’altro contraente di non versare l’Iva all’erario. E lo contesta sotto il profilo non della radicale assenza di motivazione in ordine al ritenuto carattere fittizio dell’interposizione, bensì da un lato della intrinseca significatività (gravità e precisione) delle presunzioni cui l’amministrazione affida la dimostrazione del carattere fittizio di detta interposizione o della conoscibilità degli intenti fraudolenti dei soggetti con cui ha contrattato; dall’altro, del ritenuto contrasto di tale pretesa sintomaticità con altri elementi accertati. Fatta tale precisazione, non è di immediato rilievo la problematica che l’ufficio resistente agita in ordine alla corretta interpretazione dell’art. 19 cit., che non consentirebbe di ritenere consentita la detrazione dell’Iva pagata a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti (cfr. Cass., sez. V, sentenza n. 8959 del 5 giugno 2003, Rv. [...]: «in tema di Iva, ai sensi degli artt. 17 e 19 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633» – per cui «è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione – interpretati in coerenza con quanto prescritto dagli artt. 17 e 20 della VI direttiva del Consiglio CEE del 15 maggio 1977, n. 77/388 CEE, e del principio affermato dalla Corte di Giustizia delle Comunità con la sentenza 13 dicembre 1989, (C342/1987), l’esercizio del diritto di detrazione è limitato soltanto alle imposte dovute, vale a dire alle imposte corrispondenti ad un’operazione soggetta all’Iva o versate in quanto dovute, e non si estende all’imposta che sia stata pagata per il semplice fatto di essere stata indicata in fattura»). Il ricorrente, infatti, non contestata tale interpretazione dell’art. 19 cit., bensì il presupposto della sua applicazione, cioè il carattere d’inesistenza soggettiva delle operazioni in discorso, che egli ritiene avere integrato una interposizione reale, senza alcun connotato di simulazione soggettiva. S’impone poi un ulteriore chiarimento, relativamente agli argomenti addotti dall’ufficio convenuto. Tale organo, infatti, allega due diversi e in parte contrastanti ordini di considerazioni. Da un lato, prospetta la ricorrenza di una vera e propria ipotesi di simulazione soggettiva, allorquando ravvisa un’interposizione fittizia, che, per definizione, presupporrebbe che il ricorrente fosse partecipe di un accordo simulatorio che coinvolgesse i venditori esteri e le persone di volta in volta fittiziamente interposte. Dall’altro, che fosse o consapevole o quanto meno in grado di rendersi conto, con l’ordinaria diligenza, dell’intendimento del soggetto con cui ha contrattato di frodare il fisco, omettendo di versare l’Iva esposta in fattura. Sotto il primo profilo è assorbente il rilievo che nessun elemento viene addotto che sia idoneo a dimostrare il coinvolgimento “trilaterale” in un accordo soggettivamente simulatorio. Nessun elemento presuntivo viene infatti nemmeno addotto circa la partecipazione dei venditori esteri a siffatto accordo, nulla affermandosi circa la loro conoscenza che le imprese asserita-

mente interposte fossero delle mere “cartiere”, o di loro interesse a partecipare all’accordo simulatorio (ad esempio, per potere realizzare un maggiore volume di vendite). Né a tanto basta il rilievo che uno dei venditori esteri fosse a conoscenza di un recapito diretto (numero di fax) del successivo acquirente italiano. Esclusa l’ipotesi della interposizione fittizia, resta da premettere un ulteriore duplice chiarimento. L’amministrazione finanziaria si richiama alle affermazioni di Cass., sez. V, sentenza n. 1950 del 30 gennaio 2007, Rv. [...]: «in tema di Iva, nell’ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, il diritto alla detrazione dell’imposta versata in rivalsa al soggetto, diverso dal cedente/prestatore, che ha, tuttavia, emesso la fattura, non sorge immancabilmente, per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione di imposta ivi formalmente indicata, ma richiede altresì, a dimostrazione dell’effettiva inerenza dell’operazione all’attività istituzionale dell’impresa, che il committente/cessionario, il quale invochi la detrazione, fornisca, sul proprio stato soggettivo in ordine all’altruità della fatturazione, riscontri precisi, non esaurientisi nella prova dell’avvenuta consegna della merce e del pagamento della stessa nonché dell’Iva riportata sulla fattura emessa dal terzo, trattandosi di circostanze non decisive, rispetto al thema probandum, in rapporto alle peculiarità del meccanismo dell’Iva e dei relativi, possibili, abusi» (conforme la successiva sez. V, sentenza n. 16492 del 18 giugno 2008, Rv. [...]). Tali affermazioni, peraltro, riguardano l’ipotesi in cui la fatturazione delle cessioni sia effettuata da soggetto diverso da quello che ha effettuato la vendita. Nel caso in esame, invece, una volta esclusa la ricorrenza di un’ipotesi d’interposizione fittizia, il cedente originario ha regolarmente fatturato al soggetto cui ha realmente venduto, così come questo al soggetto a cui ha effettivamente rivenduto i veicoli. In secondo luogo, vi è da considerare che non solo l’amministrazione, ma il ricorrente medesimo richiama la giurisprudenza comunitaria in materia. Giova subito premettere che – come affermato in numerose altre occasioni da questa Commissione – la responsabilità del terzo contraente ne presuppone o la volontaria partecipazione alla interposizione fittizia o la consapevolezza dell’intento fraudolento di colui col quale ha contrattato o, almeno, la possibilità di rendersi conto di tale intendimento (basti il comune richiamo delle parti al noto precedente della sentenza emessa in data 6 luglio 2006 dalla Corte di Giustizia nelle cause riunite (C-439/2004 e C-440/2004). Infatti, ciò che il ricorrente essenzialmente contesta è proprio l’idoneità degli elementi a tal fine addotti dall’ufficio. In tale prospettiva, se può prescindersi dalle contestazioni che il ricorrente muove in ordine all’assenza di specifica dimostrazione che egli abbia tratto un qualche concreto vantaggio dalle modalità operative adottate, diviene essenziale verificare se egli fosse in grado di rendersi conto della circostanza che il suo diretto contraente non avrebbe provveduto al riversamento dell’Iva pagatagli sulle fatture emesse. A questa stregua, sono insufficienti gli elementi tratti dalle dichiarazioni del soggetto con cui hanno avuto luogo la maggior parte delle cessioni incriminate (esiguità ed inconsistenza dell’organizzazione dell’impresa del soggetto interposto, anticipazione delle somme occorrenti per l’acquisto presso i rivenditori dei paesi comunitari da parte dell’odierno ricorrente, scelta preventiva da parte sua dei modelli da acquistare, consegna diretta a costui degli autoveicoli acquistati presso i rivenditori comunitari), perfettamente compatibili con una ordinaria operazione d’interposizione reale o di mandato, senza alcuna implicazione fraudolenta, e così come del lecito intento dell’interposto di riversare all’erario l’Iva percepita.


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Né diversamente deve dirsi delle discrasie in ordine alla fatturazione di taluni autoveicoli. Realmente significativo sarebbe invece un diverso elemento che l’organo resistente allega, non fornendone però prova adeguata. Il riferimento è alla circostanza che, effettuato il pagamento delle fatture di vendita, il ricorrente avrebbe ricevuto in restituzione la parte corrispondente all’Iva esposta in fattura, ciò che lo avrebbe evidentemente reso perfettamente. In proposito, anche a prescindere dal rilievo del ricorrente che siffatto accertamento avrebbe richiesto la non effettuata verifica dei movimenti bancari relativi, è assorbente la considerazione – oltre che dell’assenza di specifiche affermazioni in tal senso da uno dei soggetti interposti le cui dichiarazioni l’amministrazione ha richiamato – che dagli “elenchi” di siffatti movimenti (prodotti dal resistente come allegati al Pvc) non è dato evincere non

solo la fonte da cui si ricavano tali pretesi riversamenti all’acquirente delle somme corrispondenti all’Iva indicata nelle fatture, ma neppure dei riferimenti quantitativi e temporali che permettano di ricollegare presuntivamente i pagamenti effettuati dalla società ricorrente in relazione alle fatture di vendita incriminate e le somme che si assumono “rientrate” nella sua disponibilità (sul riscontro di coincidenze quantitative e cronologiche tra ammontare dell’Iva pagata ed epoca del pagamento delle fatture ed ammontare ed epoca delle pretese restituzioni). È poi necessario rilevare che l’assenza di tali riscontri non può essere supplita dalla considerazione che dette restituzioni siano state invece ricostruite ed accertate, da parte del medesimo soggetto “interposto”, nei suoi rapporti con altro concessionario italiano. [Omissis]

IV Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. X, 18 ottobre 2008, n. 199 70 Presidente: Iannaccone - Relatore: Casablanca Iva - Detrazioni - Fatture relative ad acquisti soggettivamente inesistenti - Partecipazione del contribuente all’accordo simulatorio o consapevolezza, o possibilità di consapevolezza, della frode - Onere di prova a carico dell’ufficio (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19) In caso di mancato riconoscimento della detrazione Iva relativa ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, l’ufficio è tenuto a provare o che il contribuente abbia partecipato alla interposizione fittizia o che sapeva o poteva sapere dell’intento fraudolento della propria controparte commerciale, traendo la sussistenza della mala fede dalle situazioni oggettive e dai riscontri operati nei confronti di tutti i soggetti partecipanti all’operazione. Con avviso di accertamento ritualmente notificato, l’Agenzia delle Entrate di Pescara determinava nei confronti della contribuente S.A.M. maggiori ricavi e redditi da cui scaturiva una maggiore imposta – a titolo di Irpef. Irap e Iva anno 2004 – pari ad euro 715.641.00. A tale determinazione l’ufficio era pervenuto utilizzando le risultanze emerse nel corso di un’indagine fiscale condotta dalla Guardia di Finanza in relazione ad un procedimento penale avviato dalla Procura della Repubblica di Pescara nei confronti della ditta C.S. di L.B.A. Le indagini eseguite dai finanzieri erano approdate alla conclusione che la C.S. era da annoverarsi tra le società di comodo o cartiere, le quali acquistano e rivendono autoveicoli solo sulla carta, nascondendo le effettive transazioni intervenute tra due soggetti diversi: a tale risultato accertativo i militi erano pervenuti avendo rilevato che la C.S. non disponeva di adeguata struttura aziendale, non aveva mai occupato personale dipendente né mai aveva tenuto libri o scritture contabili di natura fiscale o amministrativa. Nel corso dell’indagine emergeva il ruolo marginale ricoperto dal L. e si acclarava invece che la reale attività commerciale di vendita era svolta da tale R.F., preposto della società francese U.P. destinatario di ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Velletri. La circostanza del ruolo attivo del R. era comprovata dai riscontri acquisiti dai militi verbalizzanti presso i titolari di autosaloni che dichiaravano di non aver mai conosciuto il L.B.A., mentre restava appurato secondo i militi che il R. si era occupato degli acquisti e delle rivendite. Secondo la Guardia di Finanza, pertanto, alla luce dei riscontri oggettivi, doveva ritenersi che le transazioni erano in realtà intervenute tra la U.P. e i

clienti nazionali. L’indagine si spostava così verso i clienti della C.S. tra i quali si annoverava appunto l’autosalone E. di S.A.M. La Guardia di Finanza sottoponeva a verifica l’autosalone E. inviando questionari a clienti, mettendo a confronto i dati forniti con i dati rilevati dai contratti di vendita e dai contratti di finanziamento e da cui secondo i militi emergeva che erano state fatturate operazioni imponibili inferiori rispetto a quelle effettive. Con articolato ricorso, la contribuente adiva la Commissione tributaria provinciale contestando in toto le risultanze ispettive emergenti dall’indagine fiscale. La Commissione tributaria provinciale respingeva il ricorso. Contro la sentenza di primo grado, la contribuente interpone appello riproducendo in sostanza i motivi addotti con il ricorso introduttivo. In ordine alla omessa contabilizzazione di ricavi l’appellante deduce che la ripresa fiscale si fonda sulle dichiarazioni rilasciate dai clienti sui questionari inviati dalla Guardia di Finanza e sulle asserite discordanze rilevate nei confronti di finanziamento rispetto ai contratti di acquisto degli autoveicoli. Deduce l’appellante che, per consolidato orientamento del giudice di legittimità, le dichiarazioni rese da terzi non sono idonee a fondare una affermazione di responsabilità del contribuente in materia tributaria, potendo soltanto fornire un riscontro a quanto già accertato e provato per altro verso nel procedimento tributario; relativamente alle discordanze tra contratti di finanziamento e contratti di acquisto, afferma l’appellante, con elencazione di dati rilevanti dal confronto tra i due contratti, che l’importo indicato nei contratti di finanziamento è volutamente maggiorato rispetto al prezzo pattuito per l’acquisto, avendo lo scopo di far ottenere al cliente un prestito che copra l’intero costo della autovettura, di modo che la differenza tra i due importi venga considerata quale acconto corrisposto dal cliente alla data del finanziamento. In ordine al recupero di costi derivanti dall’utilizzo di fatture inesistenti, la contribuente deduce che il riferimento del mancato versamento dell’Iva alla esistenza di un accordo tra compratore e ditta di comodo e la piena consapevolezza della frode si fonda su una presunzione priva dei requisiti di legge e sul punto cita numerosa giurisprudenza anche comunitaria. Conclude chiedendo che in accoglimento dell’appello venga riformata l’impugnata sentenza con il conseguente annullamento dell’avviso di accertamento. Si costituisce in giudizio l’ufficio e con proprie controdeduzioni contesta le argomentazioni di parte appellante. In via preliminare, solleva eccezione di inammissibilità dell’appello per assenza


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di motivi specifici di impugnazione. Nel merito con riferimento ai ricavi non fatturati, l’ufficio afferma che l’elemento indiziario – le dichiarazioni rilasciate dagli acquirenti – risulta corroborato dagli elementi emersi dalla indagine sui contratti di acquisto e di finanziamento. In ordine alla prova del pagamento dell’Iva, l’ufficio ribadisce che le contestate operazioni rientrano nelle situazioni patologiche proprie delle frodi, come rilevato dai militi della Guardia di Finanza. Conclude chiedendo che in via principale si dichiari la inamissibilità dell’appello; in via subordinata, che venga pronunciata sentenza al rigetto dell’atto di gravarne. Replica la contribuente alle controdeduzioni dell’ufficio con memoria illustrativa ampia ed articolata in ordine ai rilievi contestati con l’atto di appello. All’esito della odierna discussione svoltasi in pubblica udienza, la causa è stata decisa come da dispositivo. [Omissis] Venendo a trattare il merito della controversia, con il primo motivo di appello la contribuente contesta la ripresa a tassazione di costi non deducibili derivanti dall’utilizzo di fatture inesistenti. Le risultanze a cui è pervenuto l’ufficio sulla base degli esiti scaturenti dalla verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza, traggono origine dalle seguenti frodi fiscali in materia Iva nel settore delle vendite e degli acquisti di autoveicoli usati in cui, grazie alla interposizione di un’impresa di comodo, si ottengono indebite detrazioni di imposta. Nel caso di specie, secondo l’ufficio la C.S., priva di struttura amministrativa e quindi di fatto inesistente, acquistava veicoli da un fornitore comunitario – la società U.P. – senza versare l’Iva dovuta; gli autoveicoli venivano poi rivenduti alla contribuente con un imponibile fatturato con addebito dell’Iva relativa che non veniva versata e poi quest’ultima li rivendeva detraendo l’Iva a credito. Orbene l’ufficio, traendo spunto dalla sostanziale inesistenza della C.S., ha ritenuto che a monte delle operazioni sia stato stretto un accordo volto ad ottenere illecite detrazioni di imposta e così in concreto attuando un piano penalmente e fiscalmente criminoso. Ciò premesso la presunzione cui ricorre l’ufficio per fondare la ripresa fiscale non riesce ad assurgere al livello di prova, mancando dei requisiti di gravità, precisione e concordanza gli elementi che risultano raccolti dalla Guardia di Finanza e recepiti dall’ufficio nel contestato accertamento.

In proposito, va rilevato che sulla vaexata quaestio delle frodi cosiddette “carosello” è intervenuta a più riprese la Corte di Giustizia UE la quale, sulla base del principio della neutralità dell’Iva, ha avuto modo di stabilire che i soggetti che sono in buona fede non possono subire motivazioni alla detrazione. In particolare l’orientamento della giurisprudenza comunitaria ha trovato una recente conferma con una sentenza del 2006 riguardante le cause C-354/2003, C-355/2003 e C-484/2003 statuendo che «il diritto di un soggetto [...] di dedurre l’Iva pagata a monte non è pregiudicato dal fatto che, nella catena di cessioni in cui si iscrivono le operazioni, senza che il soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un’altra operazione precedente o successiva a quella realizzata da quest’ultimo, sia inficiata di frode all’Iva»; in tal senso è l’ufficio la parte processuale cui incombe l’onere di provare che il contribuente soggetto a verifica sapeva o poteva sapere della frode, traendo la sussistenza della mala fede dalle situazioni oggettive e dai riscontri operati nei confronti di tutti i soggetti partecipanti all’operazione opportunamente comprovati. In altri termini non può ritenersi sufficiente a fini probatori fondare l’accertamento sulla sola circostanza della inesistenza strutturale della C.S., ma occorreva esplorare ed approfondire altri elementi in grado di appurare il sicuro coinvolgimento nella frode della contribuente cessionaria, quali la intensità dei rapporti intercorsi tra la C.S. e l’autosalone E. rilevabile dal rapporto quantitativo dato dalla incidenza degli acquisti di autoveicoli dalla C.S. sul totale degli acquisti operati nell’anno; la durata nel tempo dei rapporti commerciali tra cedente e cessionario; la presenza e l’incidenza degli acquisti effettuati sotto costo, mettendo a confronto il prezzo corrisposto all’operatore comunitario e quello praticato alla contribuente dalla società interposta. Ma di tali rilievi ed accertamenti, non v’è traccia nella verifica effettuata dalla Guardia di Finanza e quindi, allo stato dei fatti, la presunzione di una combine intercorsa tra i soggetti della vicenda tributaria non può trovare conforto nella sola inesistenza della società cedente né può inficiare il diritto del soggetto cessionario di dedurre l’Iva e pertanto deve necessariamente concludersi che manca la prova che la contribuente “sapeva o poteva sapere” che un’altra operazione precedente all’acquisto effettuato dalla C.S. fosse viziata da frode. [Omissis]

I - IV Nota di Chiara Di Cola

L’esame metterà in evidenza un quadro giurisprudenziale del tutto disomogeneo, influenzato dal conflitto interpretativo insorto tra la Corte di Giustizia UE e la Corte di Cassazione in merito alla questione relativa al disconoscimento del diritto alla detrazione Iva nei confronti del cessionario nazionale, all’esito del compimento di operazioni inesistenti. Difformità interpretative che, fondandosi prevalentemente sulla ripartizione del carico probatorio, suscitano gravi perplessità sulla coerenza del sistema e conducono ad un’incerta applicazione del diritto.

1. Le pronunce in rassegna confermano come il settore della vendita di autoveicoli in ambito comunitario sia un fertile terreno per lo sviluppo e l’articolazione di comportamenti di natura fraudolenta in materia di Iva1. Il ricorso al fenomeno di interposizione fittizia, al pari dell’abuso dell’utilizzo del regime del margine, costituisce una prassi consolidata con effetti a livello di perdita del gettito fiscale e con ricadute sulla funzionalità e sulla coerenza dei principi che governano il sistema dell’imposta sul valore aggiunto. Le fattispecie, ben note alle cronache fiscali in riferimento ai fatti che le caratterizzano, offrono l’occasione per una riflessione sullo stato attuale della fiscalità indiretta – per l’appunto nel settore Iva – in materia di compravendita di veicoli nuovi ed usati, con particolare attenzione agli strumenti di accertamento di cui dispongono gli uffici finanziari per il contrasto a tali pratiche ed al conseguente profilo relativo alla ripartizione dell’onere probatorio tra le parti.

1 In argomento v. anche Comm. trib. prov. Lecco, sez. III, 3 gennaio 2007, n. 124, in questa

2. La Commissione pesarese è stata investita di un ricorso proposto da una società operante nel settore della compravendita di autoveicoli, nei confronti della quale è stata contestata una indebita applicazione del regime del margine Iva, sulla scorta di elementi desumibili dai libretti di circolazione degli autoveicoli e da informative rilasciate dagli organi collaterali esteri su alcuni fornitori comunitari della società ricorrente. Fattispecie, questa, analoga a quella esaminata dalla Commissione tributaria regionale de L’Aquila.

rivista, 2007, 2, 336, con nota di VENTIMIGLIA, L’onere della prova in tema di applicazione

del regime Iva sul margine agli acquisti di autoveicoli usati in ambito comunitario.


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In entrambe le decisioni, la questione attinente la distribuzione del regime probatorio connesso al disconoscimento degli effetti conseguenti alla applicazione del regime del margine è stata risolta in favore del contribuente, nei confronti del quale gli uffici finanziari sono tenuti non solo a provare la sussistenza di elementi che escludano l’applicazione del regime di favore, ma altresì a fornire la dimostrazione della compartecipazione – attiva o tacita – del cessionario alla condotta fraudolenta. L’impostazione, come si vedrà, appare alquanto gravosa per l’amministrazione finanziaria e, almeno sulla carta, non appare come l’antidoto idoneo a scoraggiare i fenomeni di abuso della disciplina, sostanzialmente in ragione della posizione di privilegio probatorio che attribuisce al cessionario. Come noto, il regime del margine, introdotto dal D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito in legge 23 marzo 1995, n. 85, costituisce una disciplina speciale applicabile alle sole cessioni di beni mobili usati, la cui introduzione è stata giustificata dall’esigenza di scongiurare che beni suscettibili di un reimpiego all’interno dello Stato o in altro Stato membro dell’Unione europea, sui quali l’Iva sia già stata definitivamente assolta, potessero essere nuovamente sottoposti a tassazione all’atto della reintroduzione nel mercato2. La condizione soggettiva necessaria all’applicazione del regime del margine – che determina un prelievo commisurato alla differenza tra il prezzo dovuto dal cessionario del bene e quello relativo all’acquisto, aumentato delle spese di riparazione e di quelle accessorie – è costituita dall’avvenuto assolvimento dell’onere fiscale in almeno uno degli scambi commerciali, senza che vi sia stata la possibilità per il soggetto cessionario di esercitare la detrazione dell’imposta addebitatagli a titolo di rivalsa. Condizione chiaramente soddisfatta nel caso in cui il cessionario sia un privato consumatore, quale appunto soggetto che nella struttura istituzionale dell’imposta rimane definitivamente inciso dal prelievo, non vantando alcun diritto all’esercizio della detrazione. Differenti valutazioni si impongono nel caso in cui il cessionario sia un soggetto passivo d’imposta; chiarimenti sovvengono direttamente dall’art. 36 del D.L. n. 41/1995 nella parte in cui parifica al cessionario privato consumatore il soggetto passivo Iva che non abbia potuto esercitare la detrazione all’atto dell’acquisto o dell’importazione3, l’operatore che benefici nel proprio Stato membro di appartenenza del regime di franchigia, ed il soggetto passivo che abbia acquistato beni già stati sottoposti al regime del margine.

2 La normativa è stata introdotta nel sistema italiano in attuazione di quanto disposto dalla direttiva del Consiglio dell’Unione europea del 14 febbraio 1994, n. 94/5/CE nel cui preambolo si afferma, previa constatazione della sussistenza di regimi diversificati che determinano distorsioni di concorrenza e sviamenti di traffico tanto all’interno di ogni Stato membro che nei rapporti tra Stati membri e che tali divergenze determinavano inoltre disuguaglianze nella riscossione delle risorse proprie delle Comunità, la necessità di garantire un corretto funzionamento dei meccanismi di assoggettamento all’imposta sul valore aggiunto mediante l’adozione di una normativa comunitaria che evitasse per quanto possibile le doppie imposizioni e le distorsioni di concorrenza tra soggetti passivi. 3 Si pensi alle ipotesi di indetraibilità oggettiva, per difetto del requisito dell’inerenza del bene all’attività di impresa, come previsto

La connotazione soggettiva dell’istituto4, al pari degli effetti “premiali” legati alla all’applicazione del regime e consistenti nella applicazione dell’imposta su una base imponibile costituita dal plusvalore ricavabile dalla differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di cessione del bene, ha inevitabilmente reso l’istituto facile approdo per comportamenti fraudolenti. Frequentemente, gli operatori commerciali hanno millantato l’applicazione del regime del margine ad una data cessione di autoveicolo usato, attraverso false indicazioni in fattura o ricorrendo al fenomeno delle doppie fatturazioni. L’intento è quello di mascherare una cessione intracomunitaria, ordinariamente soggetta all’applicazione dell’imposta secondo il criterio della tassazione nel paese di destinazione del bene, mediante accordi con operatori esteri consenzienti. Il vantaggio conseguibile è indubbio: viene omessa da parte del cessionario la liquidazione dell’imposta sull’importo fatturato dal cedente comunitario, ma anche nelle successive rivendite, essa viene applicata solo sul margine. Non solo. Per rendere difficoltosa l’individuazione di tali operazioni solitamente le parti pongono in essere triangolazioni mediante l’interposizione di soggetti appositamente istituiti, come contestato dall’ufficio di Pesaro nella fattispecie di cui si discute. Come anticipato, l’ufficio che eccepisce l’indebita applicazione del regime del margine, imputabile alla verifica della insussistenza dei presupposti di legge, sarebbe onerato della relativa prova. Per quanto attiene i fatti di causa, sembrerebbe che le società avessero ricevuto fatture con dicitura attestante l’applicazione del regime del margine; indicazione, questa, che non è stata ritenuta dall’ufficio sufficiente ad assoggettare l’acquisto al regime speciale, soprattutto in considerazione delle indicazioni riportate dai libretti di circolazione degli autoveicoli dalle quali risulterebbe in via presuntiva l’avvenuta detrazione dell’imposta da parte del cedente5. La Comm. trib. prov. di Pesaro è laconica nell’affermare l’infondatezza del rilievo, in ragione della inidoneità dei libretti di circolazione degli autoveicoli usati soggetti a rivendita in ambito UE a provare la regolare applicazione del regime del margine Iva nelle relative operazioni di vendita. L’insufficienza probatoria è riconducibile alla carenza nel contesto comunitario di un obbligo giuridico di trascrizione sulla carte di circolazione dei successivi proprietari dell’autoveicolo; le normative nazionali sono disarmonizzate e tali in ogni caso da non consentire l’attendibilità del documento come elemento di determinazione del regime Iva perché non permette di verifica-

dall’art. 19, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 ed alla fattispecie di indetraibilità per espressa previsione normativa ex art. 19-bis del D.P.R. n. 633/1972. Si rinvia agli interessanti spunti critici sollevati da CENTORE, La determinazione del regime del margine Iva, in Corr. Trib., 2000, 7, 457, proprio in riferimento al rapporto esistente tra le disposizioni sancite dall’art. 36 del D.L. n. 41/1995 e le norme che regolano la detassazione dei beni per i quali non è stata detratta l’imposta all’acquisto. Secondo l’autore l’esenzione prevista dall’art. 10, comma 1, n. 27-quinquies del D.P.R. n. 633/1972 (che prevede l’esenzione dall’imposta per le cessioni di beni acquistati o importati senza il diritto alla detrazione totale della relativa imposta) creerebbe una “probabile distonia” del sistema, superabili solo considerando le cessioni di beni per le quali non è prevista la detrazione dell’imposta come appartenenti al sistema Iva e, come tali, soggette alla relativa disci-

plina ordinaria e non speciale. 4 Per chiarezza espositiva si richiamano i presupposti di natura oggettiva richiesti dalla normativa ai fini dell’applicazione del regime del margine: il comma 10 dell’art. 36 richiede che i mezzi di trasposto, ai fini dell’applicazione del regime del margine, sono considerati beni usati solo laddove siano stati immatricolati da più di sei mesi ed abbiamo una percorrenza superiore ai 6000 km. Elementi, questi, di non difficile accertamento da parte dell’ufficio. 5 Si segnala la circolare dell’Agenzia delle Entrate, direzione centrale normativa e contenzioso, 18 luglio 2003, n. 40, nella quale è stato precisato che la specificazione in fattura relativa alla applicazione del “regime del margine”, non esime l’acquirente da responsabilità qualora in base ad elementi oggettivi, si possa desumere che il cedente comunitario non godeva delle condizioni necessarie all’applicazione del regime speciale.


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re le modalità di assolvimento del prelievo fiscale sulle transazioni che hanno preceduto il suo acquisto6. L’obiettiva impossibilità di fotografare l’iter storico del bene nelle totalità delle transazioni che lo hanno interessato determina de plano l’impossibilità di verificare se nei passaggi intermedi il bene abbia già scontato l’imposizione senza beneficio della detrazione da parte del cedente. Corollario, questo, condiviso anche dall’amministrazione finanziaria da ultimo nella circolare n. 14/E del 26 febbraio 2008 nella quale sono stati forniti ai contribuenti chiarimenti in ordine agli adempimenti necessari per immatricolare gli autoveicoli di provenienza comunitaria7. Se la carta di circolazione non rappresenta un obiettivo parametro per la debita applicazione del margine, l’ufficio la utilizza come strumento indiziario per sostenere l’avvenuta detrazione dell’imposta nel corso dei passaggi intermedi. Sostanzialmente, gli uffici disconoscono l’applicabilità del margine sulla base di elementi indiziari ricavabili dalla intestazione del bene ad una società di autonoleggio8 che, come tale, godrebbe del diritto di portare in detrazione l’imposta addebitata a titolo di rivalsa sui propri acquisti9. La Commissione pesarese esclude tale impostazione, fondata sulla convinzione che anche il solo esercizio di tale attività sia un indice oggettivo di avvenuto “abbattimento” dell’imposta da parte dell’acquirente/rivenditore, facendo al contrario leva sul rilievo che l’effettiva destinazione dell’autoveicolo, alla quale è imprescindibilmente collegata la detrazione, è idonea a determinare il regime tributario dell’acquisto, che non sarebbe invece desumibile dalla mera titolarità del bene in capo ad una società di autonoleggio.

6 Comm. trib. reg. Toscana, sez. XIII, 2 marzo 2009, n. 17 in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. VI, 18 aprile 2007, n. 34; Comm. trib. prov. Pordenone, sez. II, 11 luglio 2005, n. 35, entrambe edite in banca dati Servizio di documentazione tributaria. 7 Consultabile in banca dati Servizio di documentazione tributaria. La circolare offre delucidazioni in merito alle nuove modalità di controllo degli uffici finanziari nei confronti degli operatori nazionali che acquistano auto nell’Unione europea in applicazione del regime del margine. In ossequio alle previsioni di cui all’art. 1, commi 9, 10 e 11 del D.L. 262/2006, le immatricolazioni di auto usate acquistate nei paesi dell’Unione europea non potranno più avvenire senza un preliminare controllo da parte dell’a.f. volto ad accertare la presenza dei requisiti minimi per l’applicazione del regime Iva del margine. L’operatore nazionale è tenuto a presentare agli uffici, prima di procedere all’immatricolazione, la fattura o altro titolo equipollente di acquisto e la carta di circolazione estera, dal cui controllo, laddove dovesse risultare la precedente titolarità del bene in capo a società/imprese, l’ufficio acquisirà una dichiarazione dalla quale risulti che il rivenditore soggetto d’imposta in Italia abbia acquistato il bene da un privato consumatore o da un soggetto che abbia potuto esercitare il diritto alla detrazione. 8 Nella pronuncia emessa dalla Comm. trib. reg. de L’Aquila si opera un riferimento a precedenti intestatari soggetti passivi Iva. 9 La circolare n. 40/2003 – già richiamata nella nota n. 6 – precisa che laddove risulti che

A conforto di tale argomento vi è anche una considerazione: la detrazione è un diritto riconosciuto in capo al soggetto nei cui confronti viene effettuata una operazione di cessione di beni/prestazione di servizi, il cui esercizio è comunque rimesso ad una scelta del soggetto che potrebbe anche non avvalersene. Non solo. Anche laddove l’ufficio fornisse obiettivi elementi a sostegno dell’avvenuta detrazione dell’imposta nelle fasi precedenti la cessione del bene, dando prova della indebita applicazione del regime del margine, il diritto alla detrazione del cessionario nazionale non risulterebbe soggetto a limitazioni se lo stesso avesse agito in buona fede. La posizione processuale dell’amministrazione finanziaria appare gravosa alla luce della recente giurisprudenza di merito: ed infatti, nonostante vi sia stato assolvimento dell’onere probatorio in relazione all’insussistenza delle condizioni per l’applicazione del regime del margine, il diritto alla detrazione del cessionario nazionale potrebbe trovare limitazione solo in presenza di un comprovato comportamento fraudolento10. In sintesi, il principio elaborato dalla Corte di Giustizia UE, secondo cui i soggetti in buona fede non possono subire limitazioni al proprio legittimo diritto di operare la detrazione dell’imposta, ha trovato applicazione nell’ambito della struttura probatoria del regime del margine, il cui accertamento incombe in capo all’ufficio. Il diritto di un soggetto passivo di dedurre l’imposta sul valore aggiunto pagata a monte non è pregiudicato dal fatto che, nella catena di cessioni in cui si iscrivono tali operazioni, senza che il medesimo soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un’altra operazione, precedente o successiva a quella realizzata da quest’ultimo, sia inficiata da frode all’imposta11.

l’intestatario dell’autoveicolo sia un’impresa che lo ha utilizzato come bene proprio dell’attività (es. impresa di noleggio di mezzi di trasporto) la successiva cessione non può perciò essere effettuata con l’utilizzo del margine. Per cui, nel caso di rapporto intracomunitario, il cessionario italiano, soggetto di imposta, dovrà assolvere a tutti gli obblighi sugli acquisti intracomunitari. Analogamente, qualora la stessa operazione si realizzi attraverso una triangolazione comunitaria, la circostanza che il primo cedente ha detratto l’Iva sugli acquisti dei mezzi di trasporto in questione, impedisce che gli stessi nelle correlate operazioni triangolari possano essere commercializzati con il regime del margine, imponendo al soggetto Iva nazionale destinatario finale dei beni (designato debitore dell’imposta) di effettuare un acquisto intracomunitario. Appare così evidentemente anacronistico è il riferimento operato nella pronuncia in rassegna alla Risoluzione ministeriale n. 550378 del 27 luglio 1990. Per una critica alla circolare n. 40/2003 si segnala CATTELAN, PROVITO, Prime pronunce giurisprudenziali in materia di acquisti intracomunitari di auto usate in regime del margine, in Riv. Giur. Trib, 2005, 6, 548. 10 In senso conforme: Comm. trib. prov. Pordenone, sez. II, 11 luglio 2005, n. 35 in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. VI, 18 aprile 2007, n. 34 in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Comm. trib. reg. Molise, sez. I, 26 febbraio 2007, n. 35 con commento di CENTORE, La responsabilità (limitata) dell’acquirente di beni assoggettati al regime del margine, in Riv. Giur. Trib.,

2007, 6, 523; Comm. trib. prov. Udine, sez. I, 15 febbraio 2005, n. 246 e Comm. trib. prov. Treviso, sez. VIII, 16 dicembre 2004, entrambe con commento di CATTELAN-ANTONINO-PROVITO, Prime pronunce giurisprudenziali in materia di acquisti intracomunitari di auto usate in regime del margine, in Riv. Giur. Trib., 2005, 6, 548; Comm. trib. prov. Roma, 3 luglio 2007, n. 246, in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Comm. trib. II grado Bolzano, sez. II, 1 febbraio 2007, n. 1, in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Comm. trib. prov. Benevento, sez. II, 10 novembre 2006, n. 171, in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Comm. trib. prov. Treviso, sez. VII, 19 marzo 2008, n. 12, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. Pistoia, sez. I, 22 febbraio 2008, n. 214, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. reg. Molise, sez. I, 26 febbraio 2007, n. 35, in banca dati Servizio di documentazione tributaria. Si segnala Comm. trib. reg. Puglia, sez. XI, 13 giugno 2008, n. 34, edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, nella quale addirittura viene riconosciuta la legittima applicazione del regime previsto dall’art. 36 del D.L. n. 41 del 23 febbraio 1995 anche laddove si registri la mancata annotazione in fattura del regime del margine: questa tesi è espressiva del principio della prevalenza della sostanza sulla forma e trova in ogni caso conforto nell’assenza di una norma che prescriva l’obbligatorietà dell’inserimento della dicitura in fattura. 11 Corte di Giustizia UE, 6 luglio 2006 (Cause riunite C-439/2004 e C-444/2004), pubbli-


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Per contro, qualora risulti acclarato, alla luce di elementi obiettivi, che la cessione sia stata effettuata nei confronti di un soggetto passivo che sapesse o avrebbe dovuto sapere di partecipare con il proprio acquisto, ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’imposta sul valore aggiunto, spetta al giudice nazionale negare al detto soggetto passivo il beneficio del diritto alla detrazione. La giurisprudenza esclude così che il cessionario sia tenuto ad effettuare delle verifiche sul soddisfacimento di tutte le condizioni necessarie per l’applicazione del regime del margine, gravando sugli uffici il relativo onere di provare non solo l’insussistenza delle predette condizioni, ma ad abundantiam la conoscenza o conoscibilità dell’intento fraudolento in capo al cessionario. Sul punto, si condivide la considerazione espressa dalla commissione abruzzese secondo cui solo l’amministrazione finanziaria godrebbe degli strumenti idonei a verificare la posizione contributiva ai fini fiscali di un bene usato oggetto di compravendita in ambito comunitario. Tuttavia, è comunque innegabile che “alleggerire” la posizione del cessionario che beneficia del regime del margine, ponendo a suo carico il solo onere di verificare la presenza in fattura dell’applicazione del regime, più che contrastare il fenomeno dell’indebita applicazione, determinerà di fatto un più continuo ricorso a quest’ultima. La problematica non può che essere risolta in un’ottica di contemperamento tra i diversi interessi che entrano in gioco, quali la garanzia di una applicazione dell’Iva conforme ai suoi principi, primo fra tutti la neutralità, la necessità di contrastare fenomeni di natura fraudolenta distorsivi del sistema e recanti perdita di gettito, e di evitare che le norme di favore si trasformino in un eccessivo adempimento per il soggetto che intende avvalersene12. La premessa, condivisibilmente posta in luce dalle motivazioni delle sentenze in esame, dalla quale inevitabilmente non si può prescindere è che gli uffici, nello svolgimento dell’attività di controllo e di accertamento, svolgano tutti i controlli del caso e forniscano elementi a sostegno degli addebiti, in un contesto nel quale la mera intestazione di un bene mobile ad una società di noleggio non può costituire, da sola, il presupposto automatico per disconoscere la detrazione, assumendo che al cessionario sia

cata su Rass. Trib., 2008, 1, con commento di CARDILLO, Tutela della buona fede e dell’affidamento del soggetto passivo nelle frodi Iva mediante operazioni carosello, 246 ss. Con consolidato orientamento, la Corte di Giustizia UE ha stabilito che una società che ha partecipato a sua insaputa ad una frode di tipo “carosello” ha comunque diritto al rimborso o alla detrazione dell’Iva pagata sulle operazioni poste a monte. La Corte ha infatti statuito che i negozi estranei alla truffa costituiscono un’operazione imponibile, in quanto imputabili ad un soggetto passivo, la cui facoltà di detrarre l’imposta non viene meno per il fatto che, senza che egli ne abbia conoscenza, i detti negozi si integrano in una catena di scambi illegali. In base a tale orientamento si evince che il sistema comune dell’Iva non consente di negare il beneficio della detrazione a chi, in buona fede, acquisti dei beni ignaro degli artifici del venditore. Si segnala anche Corte di Giustizia UE, 12 gennaio 2006, causa C-354/2003, C35/2003 e C-484/2003 edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, in cui si sostiene che per valutare se una operazione negoziale inserita in una catena di cessioni sia qualificabile come attività economica, occorre valutare tale operazione in

sicuramente conoscibile la frode. Nel caso sottoposto al vaglio della Commissione abruzzese si evidenzia come l’ufficio non abbia addotto alcun elemento dal quale potesse desumersi la natura indebita dell’applicazione del regime del margine, fondata unicamente sulle risultanze dei libretti di circolazione che, per costante riconoscimento giurisprudenziale e ministeriale, non sono idonei a verificare una regolare applicazione del regime. Solo una attenta attività di accertamento, seriamente condotta nell’ottica di reperire validi ed obiettivi riscontri13, può determinare il riconoscimento della fondatezza dei rilievi e, soprattutto, costituire un ostacolo alla proliferazione di pratiche abusive. Ciò premesso, sarebbe comunque auspicabile il riconoscimento di una maggiore responsabilizzazione della posizione del cessionario, il quale nello svolgimento della propria attività deve essere chiamato ad una azione conforme ai canoni della diligenza ordinaria, alla cui stregua appare corretto attendersi un controllo ragionevole sull’originario acquirente. Nello svolgimento della propria attività imprenditoriale il contribuente deve usare la normale diligenza per verificare la correttezza delle operazioni effettuate; il che certamente non impone allo stesso di effettuare indagini specifiche ed approfondite sui singoli beni che acquista con finalità di rivendita, ma non lo esime dall’ignorare fatti e circostanze che emergono, nei limiti della ragionevolezza, dalla documentazione in suo possesso. In questo senso, al fine di dimostrare il presunto coinvolgimento del cessionario al disegno di frode si riterrebbe opportuno che gli uffici valutassero anche la diligenza dell’operatore commerciale nella gestione dei propri affari. Questa impostazione presuppone un attento esame della fattispecie, dei fatti che hanno caratterizzato l’operazione intercorsa tra gli operatori commerciali, oltre ad una analisi quantitativa delle transazioni, da valutare in riferimento al volume complessivo degli affari del cessionario; valutazioni che, tuttavia, frequentemente vengono tralasciate dagli uffici. In riferimento alla “responsabilizzazione” del cessionario, si segnalano le sollecitazioni pervenute da una parte della giurisprudenza di merito14 che, facendo leva sulla natura agevolativa della

modo autonomo dalle altre operazioni eventualmente connesse. Con la conseguenza che «operazioni che facciano parte di un circuito di cessioni in cui un operatore si appropria indebitamente degli importi pagatigli a titolo di Iva, invece di dichiarare tali importi alla autorità tributaria, non cessano, per tale motivo, di costituire attività economiche». Si segnala Corte di Giustizia CE, sentenza 21 febbraio 2008, causa C271/2006, in Rass. Trib., 2008, 6, 1788, con commento di MONDINI, Falso materiale ed ideologico nelle frodi Iva e tutela dell’affidamento e della buona fede del contribuente nell’apparenza di situazioni fattuali e giuridiche prodotta da terzi, nella quale, pronunciatasi in tema di applicazione del regime di esenzione per le cessioni con uscita di beni al di fuori del territorio dello Stato, la Corte si sofferma sui riflessi fiscali dell’affidamento che il cedente riponga nella liceità dei comportamenti posti in essere dal proprio partner commerciale, ammettendo anche in questo contesto come l’operatore che agisca in buona fede non possa perdere il diritto all’esenzione dell’Iva, laddove non sia a conoscenza del fatto che in realtà non sono soddisfatte le condizioni per usufruire dell’esenzione.

12 In riferimento a quest’ultimo interesse, si segnala Comm. trib. prov. Treviso, sez. VII, 19 marzo 2008, n. 12, edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, in cui si ragiona di come l’inclusione, fra i compiti del cessionario di un apprezzamento critico eccessivamente rigoroso sull’emittente la fattura, trasformerebbe l’obbligato in rivalsa, in un collaboratore con supplenza in funzioni di esclusiva pertinenza dell’ufficio finanziario e tutto ciò andrebbe oltre la ratio di assicurare all’ufficio medesimo la conoscenza piena dei fatti rilevanti ai fini impositivi, introducendo una sorta di “accertamento privato” in rettifica della dichiarazione del debitore di imposta. 13 Si sottolinea come sussista la necessità della formazione della prova da parte dell’amministrazione finanziaria già in sede di accertamento, in quanto le ragioni della pretesa devono essere necessariamente indicate nell’atto in cui la pretesa stessa è determinata nell’an e nel quantum, con ridotti limiti di una successiva integrazione in una eventuale sede processuale. Si segnala CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 294. 14 Comm. trib. reg. Toscana, sez. XIII, 2 marzo 2009; Comm. trib. reg. Lombardia, 15 feb-


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normativa relativa al regime del margine Iva, porterebbero ad un equilibrio nella ripartizione probatoria tra le parti processuali15. In materia di agevolazioni la Corte di Cassazione, con costante orientamento, ha sancito che l’onere di provare i fatti giustificativi di un trattamento fiscale agevolato grava sempre su colui che invoca il beneficio, chiamato a dimostrare che nella fattispecie ricorrano le condizioni di legge per ottenerlo.16 Come rilevato da autorevole dottrina17, se è indubbio che l’amministrazione debba provare il presupposto, mentre il cittadino è tenuto ad allegare le circostanze che impediscono, modificano o estinguono la pretesa fiscale, allora è altrettanto incontestabile che spetti al contribuente l’onere di provare le circostanze che danno vita ad una fattispecie di esenzione, il cui relativo onere deve essere adempiuto con costante riferimento al modo di operare del beneficio medesimo. La nozione di agevolazione, se intesa come un regime diverso dal trattamento tributario ordinario che si realizza con un minor carico fiscale o con semplificazioni formali, potrebbe conciliarsi con la disciplina del regime del margine che, di fatto, attribuisce al soggetto Iva la facoltà di ottenere una tassazione su un bene mobile la cui base imponibile è costituita dal plusvalore rappresentato dalla differenza tra il prezzo di vendita ed il prezzo di acquisto e non dall’intero corrispettivo della cessione. Sulla scia di tale orientamento, l’art. 36 del D.L. n. 41/1995 costituirebbe una norma agevolativa nella parte in cui consente una riduzione della base imponibile su cui improntare la tassazione Iva. L’impostazione non è condivisa dalla giurisprudenza in rassegna – in particolare dalla commissione pescarese – laddove esclude la natura agevolativa del regime del margine in ragione della finalità sottesa alla sua introduzione, quale appunto il contrasto al fenomeno della doppia imposizione. Seppure opinabile, quell’impostazione deve in effetti necessariamente trovare una valida ricostruzione giuridica mediante l’individuazione dei caratteri che consentano di equiparare la disciplina del margine ad un regime di agevolazione fiscale, piuttosto che farne una articolazione applicativa di tipo strutturale. Nella attuale divergenza di posizioni giurisprudenziali, non resta che valutare un contemperamento tra l’esigenza di evitare fenomeni di doppia imposizione e l’esigenza di contrastare efficacemente le pratiche di indebito utilizzo di un regime Iva che di fatto determina ricadute negative sul gettito. In questo filone si collocano i progressivi interventi compiuti dalle istituzioni dell’Unione europea, e si spiega l’attenzione che le amministrazioni fiscali stanno riservando a procedure che, predisponendo un controllo anticipato sulla immissione al consumo

braio 2008, n. 14, entrambe in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. reg. Veneto, sez. IV, 28 novembre 2007, n. 42, con commento di MARCHESELLI, Individuazione dei doveri di diligenza del cessionario di auto usate in regime del margine e utilizzazioni di verbali di dichiarazioni di terzi, in Riv. Giur. Trib., 2008, 2, 143; Comm. trib. reg. Lazio, sez. X, 18 giugno 2008, n. 65, edita in massima in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Comm. trib. prov. Parma, sez. V, 12 marzo 2008, n. 103, edita in massima in banca dati Servizio di documentazione tributaria. 15 BASILAVECCHIA, voce Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni (diritto tributario), in Enc. Dir., V, Milano, 2001, 48. L’autore, nell’assenza di una fisionomia dell’istituto ricavabile dal dato normativo, fornisce una definizione gene-

di autoveicoli usati, sono finalizzate a costituire un fluido circuito di informazioni comunitarie. 3. Le pronunce della Commissione tributaria provinciale di Campobasso e della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sezione distaccata di Pescara, hanno investito il profilo della spettanza del diritto alla detrazione dell’Iva relativamente ad operazioni inquadrabili nell’ambito di complessi schemi fraudolenti. Le fattispecie attengono ad accertamenti in materia di Iva, fondati sul disconoscimento della detraibilità dell’imposta assolta su operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, compiuti nei confronti di società considerate compartecipi di un disegno fraudolento, predisposto mediante la triangolazione con soggetti fittizi, nella finalità di accumulare il carico fiscale su soggetti inesistenti che avrebbero poi omesso il relativo versamento dell’Iva. I comportamenti in frode alla normativa Iva sono ben noti e, contrariamente a quanto caratterizza le fattispecie di indebita applicazione del regime del margine, sono variegati, in ragione delle molteplici forme in cui può atteggiarsi la frode. Nell’ottica di ricondurre la pratica ad un fenomeno unitario, possono essere ricomprese in tale nozione quelle condotte che hanno lo scopo di evadere l’Iva con una metodologia attraverso la quale un operatore nazionale che intenda acquistare merce da un operatore situato in altro Stato membro crea artificialmente un terzo soggetto che si interpone fittiziamente tra i due reali contendenti. In virtù di tale meccanismo impositivo, il soggetto interposto diventa il principale debitore d’imposta ed è qui che si innesca la frode: dopo aver effettuato un consistente numero di transazioni commerciali in un ristretto arco di tempo ed aver accumulato un consistente debito Iva la società interposta scompare, senza provvedere al pagamento dell’imposta. Il che determina perplessità sulla legittimità della detrazione operata dal cessionario proprio perché ha ad oggetto un’imposta, che nonostante sia stata corrisposta al cedente all’atto dell’emissione della fattura, non è stata versata dal cedente nelle casse dell’erario. Nella fattispecie in esame, la società deduce l’illegittimità dell’accertamento per compiuta violazione dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972 in ragione della infondatezza dei rilievi mossi dall’ufficio circa il compimento di operazioni soggettivamente inesistenti e la conoscibilità degli intenti fraudolenti dell’operatore commerciale con cui è intercorsa l’operazione. Con tale pronuncia, si conferma la contrarietà della giurisprudenza di merito al disconoscimento della detrazione operata dal cessionario che abbia partecipato in buona fede ad una frode carosello18.

rale di agevolazioni: «la categoria generale delle agevolazioni comprenderebbe ogni forma di attenuazione della tassazione che conduce o ad una diminuzione sostanziale dell’entità del prelievo, o quanto meno all’applicazione di modalità e schemi semplificati attuazione del tributo», per poi evidenziarne limiti ed approcci critici a ricostruzioni sistematiche poco rispettoso delle dinamiche – non solo tributarie – che entrano inevitabilmente in gioco in una fattispecie di agevolazione. 16 Cass., sez. un., 22 gennaio 2009, n. 1593, in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Cass., sez. trib., 10 settembre 2007, n. 18980, in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Cass., sez. un., 29 dicembre 2006, n. 27619, in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Comm. trib. reg.

Emilia Romagna, sez. XIX, 26 gennaio 2009, n. 17, in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Comm. trib. reg. Sicilia, sez. XXX, 28 aprile 2008, n. 44, in banca dati Servizio di documentazione tributaria. Per un ampio contributo alla problematica delle agevolazioni fiscali, si rinvia a PACE, Agevolazioni fiscali: forme di tutela e schemi processuali, in corso di pubblicazione, consultato per gentile concessione dell’autrice; nonché a BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, XVI, Torino, 2009, 299. 17 TESAURO, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. Dir. Fin., 1986, 88. 18 Sulla legittimità della detrazione Iva a fronte della buona fede del cessionario e sull’onere probatorio incombente sull’a.f.: Comm. trib. reg. Puglia, sez. V, 12 gennaio 2009, n. 2, in


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L’orientamento è assolutamente conforme all’indirizzo interpretativo della Corte di Giustizia UE che ha ripetutamente sancito come il diritto di un soggetto di portare in detrazione l’Iva assolta a monte non possa essere pregiudicato dal fatto che, nella catena di cessioni in cui si iscrivono le operazioni, senza che il soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un’altra operazione, precedente o successiva a quella realizzata da quest’ultimo, sia inficiata di frode all’Iva19. La premessa impone l’individuazione del soggetto cui incombe l’onere di provare la partecipazione soggettiva del cessionario al comportamento fraudolento. Sul punto, le osservazioni del giudice tributario, assolutamente in linea con l’indirizzo interpretativo della Corte di Giustizia UE, portano a concludere che l’ufficio sia la parte processuale cui compete l’onere di provare che il soggetto sottoposto a verifica sapeva o poteva sapere dell’intendo fraudolento della propria controparte commerciale, traendo la sussistenza della mala fede dalle situazioni oggettive e dai riscontri operati nei confronti di tutti i soggetti partecipanti all’operazione. Sulla prova del carattere fittizio dell’interposizione, si conferma l’irrilevanza dei soli dati relativi alle dimensioni della società interposta proprio perché non sintomatici dell’intento di porre in essere pratiche in frode al sistema Iva. Nel caso di specie, la commissione di Campobasso ritiene che non sia stato addotto alcun elemento idoneo a dimostrare il coinvolgimento trilaterale in un accordo soggettivamente simulatorio: in atti risulta che il cedente originario ha regolarmente fatturato al soggetto cui ha realmente venduto, così come questo al soggetto a cui ha effettivamente rivenduto i veicoli. Sono stati invero ritenuti insufficienti gli elementi tratti dalle dichiarazioni del soggetto con cui hanno avuto luogo la maggior parte delle operazioni incriminate, dalle quali sarebbero emersi dati relativi alla esiguità dell’organizzazione dell’impresa interposta, all’anticipazione delle somme da parte della società ricorrente occorrenti per l’acquisto presso i rivenditori dei paesi comunitari. Tutti elementi che sono stati valutati come perfettamente compatibili con una ordinaria operazione di interposizione reale o di mandato, senza alcuna implicazione fraudolenta. Valutazioni analoghe sono state espresse anche dalla Commissione abruzzese, la quale non ha potuto non rilevare l’insufficienza delle argomentazioni dell’ufficio, esclusivamente fondate sulla “inesistenza strutturale” della società indicata come cartiera. In tal senso la Commissione osserva come l’interposizione fittizia avrebbe potuto esser provata attraverso una attività istruttoria ulteriore da parte dell’ufficio, con una valutazione della incidenza degli acquisti di autoveicoli da parte del cessionario acquistati dalla società interposta sul totale degli acquisti operati nell’anno, mediante la durata nel tempo dei rapporti commerciali tra cedente e cessionario, la presenza e l’incidenza degli acquisti effettuati sotto costo, mettendo a confronto il prezzo corrisposto all’operatore comunitario e quello praticato alla contribuente dalla società interposta20.

banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. reg. Lombardia, sez. XXIII, 9 maggio 2008, n. 34, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. reg. Lazio, sez. I, 16 aprile 2008, n. 151, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. reg. Abruzzo, sez. X, 13 marzo 2008, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sez. I, 9 marzo 2007, n. 111, con commento di PEIROLO, I limiti della responsabilità del cessionario nelle frodi carosello, in Riv. Giur. Trib., 2007,

Alla mancata prova sulla frode nell’interposizione si affianca la deficienza probatoria dell’ufficio in ordine sia al conseguimento di un indebito vantaggio fiscale tratto dalla società, derivante dalle modalità operative adottate ed alla conoscibilità dell’intento fraudolento del suo diretto contraente. In riferimento al primo elemento, non può non richiamarsi la ben nota sentenza Halifax della Corte di Giustizia21, pronunciata relativamente ad una fattispecie di presunta triangolazione di prestazioni immobiliari effettuate nell’ambito di un gruppo bancario. Si è affermato che in ambito Iva le operazioni devono essere trattate così come esse si presentano sotto il profilo giuridico formale e pertanto, se esaminate sotto tale profilo esse risultano rientrare nella nozione di cessione di beni o prestazioni di servizi, devono essere assoggettate al relativo regime. Il tutto senza che l’amministrazione possa sindacare su eventuali ulteriori scopi particolari perseguiti con le transazioni poste in essere, e quindi incluso il caso in cui lo scopo sia un vantaggio fiscale. Pertanto la Corte ritiene che la detraibilità dell’Iva assolta sugli acquisti deve essere limitata solo nei casi in cui le operazioni poste in essere abbiano come unico scopo quello di procurare un vantaggio fiscale abusivo, vale a dire, nella fattispecie, una riduzione del debito Iva che altrimenti non sarebbe stato possibile conseguire. Anche perché i principi affermati devono poi trovare concreta applicazione nelle singole fattispecie: se non vi è questione sull’effettività oggettiva dell’operazione la stessa deve considerarsi a pieno titolo rientrante nel campo di applicazione dell’imposta e quindi soggetta al naturale regime, compreso quello concernente la detraibilità dell’Iva corrisposta dall’acquirente. Le operazioni sono state “triangolate” realmente il che comporta il principio per cui i motivi di tali comportamenti non possono essere oggetto di sindacato da parte dell’amministrazione, a meno che essi non consistano, oggettivamente, nel conseguimento di un vantaggio abusivo ai fini Iva, ovvero di un vantaggio indebito che, all’esame degli atti, non sembrerebbe sussistere. In altri termini, la sentenza della Corte di Giustizia chiarisce il principio in forza del quale non si possono sollevare contestazioni in ambito Iva solo per il fatto che determinate operazioni, assolutamente regolari sotto il profilo formale di applicazione di tale imposta, sono state poste in essere per realizzare fini che esplicano tuttavia i propri effetti in un ambito assolutamente diverso rispetto a quello dell’Iva. Del pari, si è già avuta occasione di osservare come il sistema comune dell’Iva non consenta di negare il beneficio della detrazione a chi, in buona fede, abbia acquistato dei beni ignaro della macchinazione fraudolenta del venditore. La scelta che opera la Corte di Giustizia è chiara: quella di garantire tra i valori in gioco l’effettività del diritto alla detrazione che si conferma aspetto sempre più essenziale per la vita di un tributo quale l’Iva. Deve esservi così prova di un coinvolgimento del soggetto cessionario/committente e deve esservi la consapevolezza che il pro-

8, 704; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 23 marzo 2007, n. 164 e Comm. trib. prov. Isernia, 14 marzo 2007, n. 8, con commento di BASILAVECCHIA, Sulla prova della responsabilità del cessionario nelle frodi Iva, in Corr. Trib., 2007, 20, 1628. 19 Si rinvia al contenuto della nota 10. 20 In realtà, unico elemento emerso nel corso del giudizio, idoneo a provare il carattere fittizio dell’operazione, sarebbe la presunta restituzione da parte dell’interposta dell’imposta indicata in fattura e versata dalla cessionaria. Tuttavia, nonostante la gravità del ri-

lievo, l’ufficio non ha fornito elementi comprovanti il trasferimento al cessionario dell’importo corrispondente all’Iva versata al cedente. 21 Corte di Giustizia UE, 21 febbraio 2006, n. 212, causa C-255/2002, con commento di SANTI, Il divieto di comportamenti abusivi si applica anche al settore dell’Iva, in Riv. Giur. Trib., 2006, 5, 385. Tra i contributi alla sentenza si consulti In riferimento si segnalano Corte di Giustizia UE, sez. III, 6 luglio 2006, n. C-439/2004 in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big.


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prio vantaggio economico deriva dalla frode fiscale attuata dalla controparte commerciale. Una scelta che pone incisivi effetti sul piano del regime probatorio, in quanto la posizione dell’ufficio non è certamente agevole ed il ricorso alle presunzioni è d’obbligo, ma non sempre di facile attuazione. In estrema sintesi, anche laddove venisse provata l’inesistenza soggettiva delle operazioni di acquisto fatturate da imprese che costituivano mere cartiere svolgenti attività commerciali, non può esservi disconoscimento della detrazione se non vi è prova che il soggetto che ha beneficiato della detrazione conoscesse e/o favorisse con la propria condotta l’attività truffaldina svolta dalla cartiera. Si impone, allo stato, una doverosa precisazione in ordine al rilievo che la ricostruzione operata nelle sentenze in rassegna, come detto in linea con l’interpretazione resa dalla Corte di Giustizia, non è certamente incontrastata ed immune da critiche. Il fenomeno della interposizione fittizia e il criterio della ripartizione dell’onere probatorio, come ricostruito, si scontrano inevitabilmente con un orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione22 che pone a carico del contribuente l’onere della prova sulla legittimità dell’esercizio della detrazione. In tema di Iva, qualora l’amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di imposta addebita a titolo di rivalsa sulla fatture per essere le stesse relative ad operazioni inesistenti, la Corte ha ripetutamente sancito che la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente il quale è tenuto a dar prova della effettiva esistenza delle operazioni. Così come il riconoscimento della buona fede del cessionario è subordinato alla prova fornita da quest’ultimo, chiamato così a dimostrare che la propria condotta sia stata immune da colpa. Resterebbe a carico dell’ente impositore l’incombente relativo alla mera allegazione di semplici elementi indiziari rilevabili anche da controlli indiretti23 oppure di elementi che fanno almeno sospettare della non veridicità delle fatture24. L’orientamento non è tuttavia unanime; ed infatti, su tale delicata questione si registrano oscillazioni interpretative della Corte di Cassazione che, paradossalmente, giunge a postulare principi di segno contrapposto a quello appena esaminato. Si segnala, da ultimo, una opposta tendenza che pone freno agli accertamenti in rettifica Iva a fronte del compimento di operazioni inesistenti laddove vi sia una mera indicazione da parte dell’ufficio dei fatti, senza alcuna spiegazione sul perché da quei fatti si trarrebbero elementi forniti dei requisiti della gravità, precisione e concordanza25. La contraddittorietà della pronunce in merito al criterio di riparto dell’onere probatorio non sembrerebbe riconducibile alla diversità strutturale delle fattispecie sottoposte all’attenzione del-

22 Tra gli ultimi contributi della giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla previsione di un onere probatorio incombente sul contribuente si segnalano: Cass., sez. trib., 29 luglio 2009, n. 17572; Cass., sez. trib., 9 giugno 2009, n. 13197; Cass., sez. trib., 9 giugno 2009, n. 13211; Cass., sez. trib., 29 ottobre 2008, n. 25910; Cass., sez. trib., 3 settembre 2008, n. 22195; Cass., sez. trib., 26 maggio 2008, n. 13483, tutte in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 23 Cass. civ., sez. trib., 31 marzo 2008, n. 8247 edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 24 Cass. civ., sez. trib., 21 agosto 2007, n. 17799, edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 25 Cass. civ., sez. trib., 29 luglio 2009, n. 17572,

la Corte, quanto piuttosto ad una incertezza del giudice di legittimità che ad oggi ancora non trova una uniformità di giudizio. 4. Entrambe le fattispecie esaminate confermano le difficoltà legate alla gestione ed alla risoluzione dei fenomeni di natura fraudolenta. Difficoltà che si registrano non solo nella predisposizione di procedure di controllo e di sistemi di scambio di informazioni tra le singole amministrazioni degli Stati membri nell’ottica di prevenire gli abusi, ma anche nella risoluzione giudiziale delle controversie nelle quali emerga la realizzazione di un’operazione indebita. Si è avuto modo di osservare come una indebita ed illegittima applicazione del regime del margine consente agli operatori di applicare l’imposta su una base imponibile inferiore a quella ordinaria, in quanto data dalla differenza tra il prezzo di vendita e quello di acquisto; analogamente, il ricorso al fenomeno della interposizione di società cartiere fa sì che il compimento di un’operazione di acquisto – fittizia dal punto di vista oggettivo o soggettivo – consente la detrazione di un’imposta che il cedente simulato invece non ha versa all’erario. Punto in comune tra le fattispecie è costituito dal rilievo della centralità dell’istituto della detrazione nel sistema dell’Iva. Nell’applicazione del regime del margine la detrazione è assunta dal legislatore comunitario come parametro per usufruire di un regime agevolato per il contribuente soggetto passivo d’imposta: compiuta la detrazione il bene nei successivi passaggi sconterà una applicazione dell’imposta limitatamente a quella parte di materia imponibile costituita appunto dalla differenza tra il prezzo di rivendita ed il prezzo di acquisto. Nelle frodi carosello la detrazione rappresenta invece lo strumento attraverso il quale giunge a compimento il comportamento fraudolento degli operatori economici che consente di “scaricare” l’imposta che è stata addebitata a titolo di rivalsa a fronte del mancato versamento da parte del rispettivo cedente. Attualmente si segnala una sostanziale uniformità a livello giurisprudenziale nel disconoscere la detrazione solo laddove vi sia la prova della partecipazione del cessionario – o anche la mera conoscibilità – al disegno fraudolento. Nel contempo, non può non destare preoccupazione il contrasto interpretativo sorto in seno alla giurisprudenza di legittimità – con riflessi sul versante dell’interpretazione resa dalla Corte di Giustizia – che, pur muovendo dall’assunto per cui il diritto alla detrazione spetta in ragione della buona fede del cessionario, pone differenti e contrastanti soluzioni in ordine alla ripartizione del regime probatorio. Conflitto che oltre a porre problemi sulla uniforme applicazione del diritto ed alla conseguente certezza del sistema, non contribuisce fattivamente a contrastare le frodi carosello26.

edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, con un primo commento di FALCONE-IORIO, Stop alle rettifiche Iva senza adeguate motivazioni, in Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2009; Cass. civ., sez. trib. 6 ottobre 2009, n. 21317, con commento di CENTORE, Sui redditi da fatture false prova a carico del fisco, in Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2009. 26 Tra gli strumenti preordinati a specifiche finalità di repressione e contrasto a pratiche evasive e di distorsione del regime dell’imposta sul valore aggiunto si segnala la responsabilità solidale del cessionario Iva, come prevista dall’art. 60-bis del D.P.R. n. 633/1972, che, in ossequio alla previsione comunitaria dell’art. 203 della direttiva n. 2006/112/CE, ha introdotto due fattispecie di

responsabilità nell’ipotesi di omesso versamento dell’imposta da parte del cedente. Una prima fattispecie, contemplata nel secondo comma, applicabile alle sole operazioni di cessione di beni – indicati in apposito decreto ministeriale – laddove effettuate ad un prezzo inferiore al valore normale nei confronti di un cessionario che sia un soggetto passivo Iva. Il comma 3-bis prevede la responsabilità del cessionario – anche non soggetto passivo Iva – tutte le volte in cui il corrispettivo indicato nell’atto di cessione e nella fattura relativa alle cessioni di beni immobili sia diverso da quello effettivo, con responsabilità al pagamento dell’imposta relativa alla differenza tra il corrispettivo effettivo e quello indicato, nonché delle relative sanzioni.


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Commissione tributaria provinciale dell’Aquila, sez. III, 30 dicembre 2008, n. 237 Presidente e Relatore: Grilli

Iva - Operazioni soggettivamente inesistenti - Prova presuntiva dell’ufficio - Omessa controprova del contribuente - Detrazione dell’Iva ex art. 19, D.P.R. 633/1972 - Esclusione (Dir. 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE; c.c., art. 2697; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 47) Iva - Acquisto intracomunitario - Omessa integrazione ex art. 46, D.L. 331/1993 - Riconoscimento della detrazione dell’Iva non autofatturata - Sussistenza (Dir. 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE; c.c., art. 2697; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 47) Irpef - Art. 14, comma 4-bis, L. 537/1993 - Indeducibilità dei costi sostenuti per conseguire proventi illeciti - Operazioni inesistenti solo dal punto di vista soggettivo - Costi effettivamente sostenuti - Deducibilità (L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis) È indetraibile l’Iva relativa alle operazioni soggettivamente inesistenti qualora l’amministrazione finanziaria adduca elementi, anche presuntivi, che facciano ritenere la non veridicità delle fatture e l’interessato non dimostri con puntuali controdeduzioni, volte a superare le argomentazioni dell’ufficio, l’effettività delle operazioni disconosciute in sede di accertamento. È contraria al principio di neutralità la prassi accertativa in base alla quale, qualora in sede di controllo sia accertato che il contribuente nazionale non ha integrato la fattura estera con l’imposta dovuta e, nel contempo, non ha provveduto a registrarla sia nel registro Iva degli acquisti che nel registro Iva delle fatture emesse, egli sia comunque tenuto a versare l’imposta a debito, dovendosi, invece, negare il diritto alla detrazione dell’imposta a credito. L’art. 14, comma 4-bis, della legge n. 537 del 1993, che esclude la deducibilità dei costi sostenuti per la produzione di proventi illeciti, non si applica nel caso ai costi documentati da fatture false solo soggettivamente, ossia nelle ipotesi in cui l’operazione sottostante, sotto il profilo oggettivo, è reale ed effettiva. Svolgimento del processo Con distinti ricorsi la società in epigrafe e i soci R.D. (nonché rappresentante legale della società), D.F.V., D.M.J. e D.M.M., tutti rappresentati e difesi dall’avv. P.C., si opponevano all’atto di accertamento n. [...] col quale l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Avezzano rettificava per l’anno 2004 la dichiarazione dei redditi prodotta dalla società; per l’effetto l’ufficio determinava in capo alla società, ai fini Irap, una maggiore imposta di euro 63.956,00 e, ai fini Iva, una maggiore imposta di euro 603.078,00, oltre interessi e sanzioni. I rispettivi soci avverso gli atti a loro notificati si opponevano, inoltre, al maggior imponibile accertato ai fini Irpef in capo alla

società – pari a euro 1.504.844,00 –, e imputato in proporzione alla loro partecipazione ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. 971/1986. Premesso: - che la rettifica operata nei confronti della società e dei soci trae origine dal Pvc redatto dai funzionari della medesima Agenzia in data 19 ottobre 2004; - che ai fini Iva si contesta: a) l’indebita applicazione del regime del margine ai sensi dell’art. 36 del D.L. 41/1995 cui corrisponde un’Iva relativa pari a euro 1.140,00; b) l’utilizzo di fatture d’acquisto soggettive inesistenti a fronte di operazioni intracomunitarie, rilevando: 1) l’omessa integrazione delle fatture relative ad operazioni intracomunitarie – art.46, D.L. 331/1993 per l’imponibile di euro 1.504.846,65, cui corrisponde un’Iva di euro 300.969,33; 2) l’indebita detrazione Iva ai sensi dell’articolo 19 del D.P.R. 633/1972 per operazioni soggettivamente inesistenti pari a euro 300.969,33; - che ai fini delle imposte dirette si contesta: c) l’indebita deduzione di costi di euro 1.504.846,65, pari all’ammontare delle operazioni intracomunitarie, da imputare ai soci in proporzione alla quota di partecipazione nella società; - che ai fini Irap si contesta: d) l’indebita deduzione di costi di euro 1.504.846,65 riferiti alle fatture d’acquisto; - che in data 9 febbraio 2007 fu presentata, senza ricevere alcun invito al contraddittorio, istanza di adesione ex art. 6, comma 2, del D.Lgs. 218/1997. La società ricorrente avverso l’atto di accertamento emesso nei suoi confronti, esprimeva i seguenti motivi di doglianza: 1) In via pregiudiziale: [Omissis] 5) In via principale: insussistenza della pretesa impositiva per inconsistenza degli indizi su cui si fonda la contestazione e controprova della regolarità dell’operazione. Violazione e falsa applicazione dell’art. 21 del D.P.R. 633/1972 in combinato disposto con l’art. 36 del D.L. 41/1995 e art. 26-bis della direttiva 77/388/CE, nonché art. 109 del D.P.R. 917/1986. Si fa rilevare la erronea interpretazione dei fatti e delle norme di riferimento, a fronte di elementi certi e congrui negli importi. 6) Ancora in via principale: sulla pretesa falsità delle fatture ricevute: violazione e falsa applicazione degli articoli 19, comma 1, e 28 del D.P.R. 633/1972 e art. 109 del D.P.R. 917/1986. Si evidenzia la regolarità delle operazioni relative alla fatturazione passiva differentemente da quanto sostenuto e non provato dall’ufficio. 7) Sul rispetto del principio del legittimo affidamento e della certezza del diritto: violazione e falsa applicazione dell’articolo 10, comma 1 e 2 della legge 212/2000. 8) Ancora in via principale ai fini delle II.DD.: sulla indeducibilità dei costi e spese riconducibili ad attività criminose di cui al comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 537/1993; violazione e falsa applicazione art. 109 del D.P.R. 917/1986. Si sostiene la errata interpretazione dell’art. 14, ribadendo la totale legittimità


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dell’operato della società in relazione alla deduzione di costi realmente ed effettivamente sostenuti. 9) Illegittimità delle sanzioni: si contesta la violazione e falsa applicazione delle disposizioni in tema di presentazione dei modelli Intrastat, degli articoli 5, comma 4 e 7, 6, comma 2, e 17, comma 1, del D.Lgs. 472/1997 e dell’art. 8 del D.Lgs. 546/1992. I soci, nei rispettivi ricorsi avverso gli avvisi di accertamento, oltre ad evidenziare le doglianze espresse ai punti 1), 2), 3), 6), 7), 8) e 9) eccepivano: 10) Insussistenza della potestà accertativa: sulla posizione reddituale del socio. Si fa rilevare come il reddito dei soci deve essere oggetto di autonomo accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria sia nell’an che nel quantum, esame che, nella fattispecie dedotta è mancata. Concludevano la società ricorrente e i soci con la richiesta di annullamento degli atti impugnati. In data 20 luglio 2007 l’Agenzia delle Entrate di Avezzano con distinte controdeduzioni si costitutiva in giudizio per sostenere la legittimità del proprio operato e per chiedere il rigetto del ricorsi. Nel controdedurre punto per punto a quanto posto in evidenza dalla società ricorrente faceva rilevare quanto appresso. [Omissis] Circa il merito delle questioni eccepite, l’ufficio nel considerarle – alla luce delle motivazioni addotte – destituite di fondamento, precisava che parte ricorrente non è stata in grado, attraverso la documentazione, di aver correttamente applicato la norma prevista dall’art. 36 del D.L. 41/1995, né di essersi attenuto alle circolari della UE. In tal caso, l’ufficio in assenza di prove da parte di chi si è assunto la responsabilità di applicazione del regime, ha recuperato l’Iva indebitamente detratta su operazioni fraudolente e gestite nell’ambito comunitario con il nome di operazioni carosello, nonché l’imposta che la ricorrente avrebbe dovuto liquidare sull’acquisto intracomunitario se avesse operato correttamente, oltre ai costi riconducibili ad illeciti penalmente rilevanti. In data 3 marzo 2008 parte ricorrente, con riferimento ai procedimenti in esame, depositava memorie illustrative in risposta alle costituzioni in giudizio dell’ufficio. Nel riportarsi alle doglianze già espresse, puntualizzava ulteriormente in ordine ai singoli punti oggetto di riscontro da parte dell’ufficio. Insisteva, quindi, per l’accoglimento dei ricorsi. [Omissis] Motivi della decisione Circa le questioni sollevate in via pregiudiziale: [Omissis] Circa il merito delle questioni la Commissione così osserva in ordine alle pretese dell’ufficio: [Omissis] b) Utilizzo di fatture d’acquisto soggettivamente inesistenti a fronte di operazioni intracomunitarie, rilevando: 1) Omessa integrazione delle fatture relative ad operazioni intracomunitarie – art. 46 del D.L. 331/1993 per l’imponibile di euro 1.504.846,65, cui corrisponde un’Iva di euro 300.969,33. 2) Indebita detrazione Iva ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 633/1972, per operazioni soggettivamente inesistenti pari a euro 300.969,33 di cui al precedente rilievo. L’ufficio giustifica la propria pretesa partendo dal presupposto che la società ricorrente nel periodo in esame avesse indebitamente detratta l’Iva su acquisti intracomunitari. Più dettagliatamente, l’ufficio considera operazioni soggettivamente inesistenti gli acquisti di auto di provenienza intracomunitaria effettuati dalla società ricorrente attraverso i fornitori A. di M.P. e ditta I.C. di D.A.D., acquisti di cui all’art. 38 del D.L. 331/1993 per un totale imponibile pari a euro 1.504.846,65 più Iva 20% pari a euro 300.969,33.

A fondamento della pretesa l’ufficio parte dai seguenti elementi di riscontro: - dalla specifica segnalazione della direzione regionale dell’Abruzzo, settore accertamento contenente gli elementi relativi alla verifica che la stessa ha nei confronti della ditta A. di M.P. che risulta essere, tra l’altro, un prestanome di altri soggetti, fra cui la società ricorrente; - dal fatto che la A. non svolge una vera e propria attività d’impresa, difettando la stessa di organizzazione, struttura, capitale di dotazione, scopo di profitto. Gli acquisti di vetture provenienti dall’estero effettuati tramite la A. hanno consentito agli acquirenti, tra cui la società ricorrente, di detrarre l’Iva esposta sulle relative fatture. Dal raffronto delle fatture di acquisto e di vendita della A., si rileva che l’importo dell’acquisto dal fornitore UE (non imponibile Iva) corrisponde all’importo a lordo Iva fatturato alla società ricorrente, quindi una vendita sottocosto con una perdita per ogni singola vettura pari all’importo dell’Iva, tra l’altro, non versata dalla A.; - dalla circostanza, non casuale, che le auto fossero pagate dalla società ricorrente con bonifici effettuati ancor prima che l’A. acquistasse dal fornitore UE; - dalla evidenza che fino al mese di maggio 2003 la società ricorrente acquistasse direttamente dal fornitore UE (A.T.C.), quest’ultimo poi divenuto fornitore del fornitore A.; - dalla esistenza di telefonate dirette tra il fornitore UE (A.T.C.) e la società ricorrente; - dalla consegna diretta delle auto dal fornitore UE (A.T.C.) alla società ricorrente; - dall’esame della documentazione extracontabile relativa ad acquisti effettuati presso la ditta I.C. di D.A.D., acquisti gestiti in forma identica agli acquisti A.; - dall’informativa del 21 ottobre 2004 trasmessa dalla D.R.A. alla Agenzia delle Entrate di Avezzano circa gli esiti di un accesso mirato nei confronti della I.C. Sulla base di detti elementi e motivazioni, l’ufficio recupera, nei confronti della società ricorrente, ai sensi dell’art. 46 del D.L. 331/1993 l’Iva sulle fatture emesse senza addebito di imposta nei confronti di fornitori A. e I.C. pari a euro 308.969,33 (per l’omessa integrazione delle fatture relative alle operazioni intracomunitarie) e l’Iva indebitamente detratta, ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 633 del 1972 di euro 300.969,33, sugli acquisti effettuati dai citati fornitori pari a euro 1.504.846,65. Sostiene parte ricorrente che spetta all’amministrazione finanziaria di provare adeguatamente che gli acquisti da essa effettuati non sono stati posti in essere così come indicato nelle relative fatture (ex art. 54 del D.P.R. 633/1972, art. 42 del D.P.R. 600/1973 e 2697 c.c.), puntualizzando che le operazioni effettuate; - sottendono a reali acquisti di provenienza intracomunitaria effettuati attraverso i fornitori A. di M.P. e I.C. di D.A.D.; - sono state regolarmente annotate; - sono state integralmente pagate, nonostante l’ufficio tenti di accreditare la consapevolezza della società nelle operazioni poste in essere e asseritamente ritenute “fraudolente”; - indicano come corrispettivo delle cessioni un valore del tutto congruo rispetto al prezzo normalmente praticato per i beni di quel genere e marca. Sostiene, altresì, che sono state soddisfatte tutte le condizioni richieste per il riconoscimento del diritto di detrazione di cui al primo comma dell’art. 19 del D.P.R. 633/1972, in quanto non possono esservi dubbi sulla reale esistenza degli acquisti di auto di provenienza estera da parte della società ricorrente e poi perché dette operazioni sono state trattate contabilmente nel rispetto delle regole stabilite dal D.P.R. 633/1972 e dal D.P.R. 917/1986. Sostiene, infine, che la società ricorrente non ha tratto alcun be-


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neficio economico dall’operazione e al contempo non ha partecipato in alcun modo e, soprattutto, consapevole alla pretesa frode. Questo giudice, esaminate e valutate le opposte tesi, ritiene che sussistono tutti i presupposti per considerare fittizie le fatturazioni poste in essere per il tramite delle ditte A. e I.C., ma con l’effetto di ritenere legittimo solo il recupero dell’Iva non detraibile, ai sensi del citato articolo 19, per euro 300.969,48. Dalla documentazione di supporto (Pvc del 10 ottobre 2004 e informativa della Dra del 21 ottobre 2004), risulta provato che le due società presso le quali la ricorrente ha effettuato acquisti non svolgevano una vera attività imprenditoriale per l’assenza dei fattori caratterizzanti il tipo di impresa in esame, quali la struttura organizzativa e logistica, il capitale di dotazione, l’assenza del profitto. A ben guardare, poi, le due società effettuavano cessioni a prezzi estremamente vantaggiosi, con pagamenti delle auto presso i fornitori comunitari effettuati successivamente a quelli ricevuti dai loro clienti. Altre evidenze riguardano il contatto diretto fra fornitore comunitario e società ricorrente, come anche il tipo di trasporto per essere stati effettuati i carichi e scarichi di auto direttamente fra fornitore comunitario e l’interponente italiano. Per di più – dato rilevante – non risulta che le due società “da tramite” abbiano effettuato versamenti periodici ai fini Iva. Tutti questi elementi giustificano un meccanismo distorto, laddove l’iter posto in essere per il tramite dei fornitori italiani A. e I.C. fosse solo di simulazione soggettiva e con l’effetto di assistere a fatturazioni di operazioni soggettivamente inesistenti, per le quali (Cass., n. 20968, agosto 2008) «non è consentita la detrazione dell’Iva indicata nelle fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto riguardante l’operazione fatturata». Nel caso che ci riguarda, questo giudice ritiene, alla luce dei fatti succedutisi, delle pronunce della Corte di Giustizia e della recentissima sentenza, che sussistono tutti i presupposti per disconoscere il diritto alla detrazione. Non ritiene, invece, di condividere l’operato dell’ufficio, secondo cui la società ricorrente avrebbe dovuto liquidare l’imposta sugli acquisti intracomunitari se avesse correttamente operato. In ordine agli accadimenti, si conferma quindi l’ipotesi della cd. frode carosello nell’ambito comunitario tenuto conto che il fornitore comunitario (A) ha effettuato cessioni in esenzione d’imposta alle società “tramite” con sede in Italia (B), le quali a loro volta hanno fatturato alla società ricorrente (C) incassando l’Iva (che faceva parte del prezzo d’acquisto) senza versarla all’erario. Da questo quadro deve convenirsi che: - il soggetto (B) ha evaso sia l’Iva dovuta nel momento in cui ha ricevuto la fattura per l’acquisto intracomunitario, sia l’Iva fatturata al cliente italiano (C), ha detratto inoltre l’imposta assolta per l’acquisto intracomunitario; - la società ricorrente (C) avendo acquistato da (B) ha evitato l’Iva sull’acquisto intracomunitario (A); inoltre, avendo ricevuto dal soggetto (B) una fattura comprensiva di Iva pari all’importo fatturato dal fornitore comunitario (A) ha conseguito un vantaggio di competitività sul mercato nazionale. La questione della indetraibilità dell’Iva e del diritto alla detrazione da parte di un soggetto che acquista un bene nell’ambito di una frode cd. carosello, trova riscontro in due pronunce della Corte di Giustizia (la sentenza del 12 gennaio 2006 resa nei procedimenti riuniti C-354/2003, C-355/2003 e C-484/2003 e la sentenza del 6 luglio 2006 resa nei procedimenti riuniti C439/2004 e C-440/2004) laddove vengono contemplati una serie di principi intorno all’acquisto di autovetture usate da fornitori comunitari. Nelle pronunce, si intende sottolineare in generale, che l’eventuale disegno fraudolento va individuato nelle singole operazioni poste in essere dal cedente e dal concessionario. A ben guardare l’ufficio, partendo da elementi di riscontro, ha ben individuato il meccanismo esaminato.

In conclusione, la Commissione ritiene, da tutti gli elementi indiziari, peraltro non sconfessati da parte ricorrente che si è limitata, viceversa, a far valere generiche affermazioni, di considerare legittimo il recupero dell’Iva detratta ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 633/1972. In relazione al rilievo relativo alla pretesa omessa autofatturazione di acquisti intracomunitari per i quali viene recuperata la somma di euro 300.939,33, senza il riconoscimento della dipendente detrazione di pari importo, la Commissione si riporta alla recente sentenza della Corte di Giustizia dell’8 maggio 2008 nei procedimenti riuniti C-95/2007 e C-96/2007. In applicazione del principio di neutralità dell’autofatturazione, la Corte di Giustizia ha accertato la incompatibilità rispetto al diritto comunitario di una norma, o una prassi di rettifica e di accertamento, che nel caso di autofatturazione non riconosca il diritto alla detrazione di tale imposta non autofatturata ai fini Iva. Nel caso di specie, essendo stata reclamata la medesima imposta nel rilievo attinente al recupero dell’Iva non ritenuta detraibile, ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 633/1972, la società ricorrente si troverebbe di fronte ad una duplicazione del prelievo. Pertanto, in applicazione del principio di neutralità dell’autofatturazione, cui l’integrazione delle operazioni comunitarie è ispirata secondo quanto statuito dalla sentenza dell’8 maggio 2008, la Commissione giudica illegittimo il recupero della somma di euro 300.969,33. c) Indebita deduzione di costi di euro 1.504.846,65, pari all’ammontare delle operazioni intracomunitarie, da imputare ai soci in proporzione alla quota di partecipazione nella società, ai fini Irpef e addizionali L’ufficio, nel richiamare la circolare 42/E del 26 settembre 2005 dell’Agenzia delle Entrate, accerta un maggior reddito di euro 1.504.846,65 sul presupposto che la società ricorrente avendo utilizzato fatture d’acquisto soggettivamente inesistenti, i relativi costi sono riconducibili al reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. 74/2000 sulla base della legge 537/1993, art. 14, comma 4-bis, come tali da considerare indeducibili. La società ricorrente nel ribadire la totale legittimità del proprio operato in relazione alla deduzione dei costi, in quanto reali ed effettivamente sostenuti, precisa che l’asserita indeducibilità dei costi da parte dell’ufficio trova origine in una errata interpretazione dell’art. 14 della legge 537/1993, norma introdotta con la specifica finalità di prevedere la imponibilità, ai fini delle imposte sul reddito, dei proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo e con l’esclusione dei proventi già sottoposti a sequestro o confisca penale. E con l’ulteriore precisazione che certamente costituisce provento illecito il ricavo del soggetto che venda la fattura oggettivamente falsa (è l’ipotesi classica della cartiera), caso quest’ultimo diverso da quello della fattura soggettivamente inesistente, nella quale, per definizione, l’operazione sottostante, sotto il profilo oggettivo, è reale, essendo l’illecito riferito ad una operazione fittizia, sotto il profilo soggettivo. E con la conclusione che il provento deve essere in rapporto di causa-effetto con l’atto, il fatto o l’attività illecita. Questo giudice, esaminata e valutata la questione oggetto di pretesa fiscale, ritiene che non sussistono i presupposti per considerare indebita la deduzione dei costi, pari a euro 1.504.846,65. Occorre osservare in primis che parte ricorrente nel ricorso ha offerto tesi difensive di certo rilievo avverso i motivi posti a base dell’accertamento, tesi che non hanno trovato riscontro nelle controdeduzioni dell’ufficio. Tale comportamento favorevole alla parte ricorrente viene ulteriormente rafforzato dalle seguenti osservazioni: - dalla documentazione agli atti non è dato rilevare che alla società ricorrente siano stati contestati comportamenti penalmente rilevanti, né risulta essere stata acquisita prova della partecipa-


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zione o della sola conoscenza, da parte della stessa, agli eventuali illeciti commessi dalle società A. e I.C.; - ci si trova di fronte a costi effettivamente sostenuti e documentati. Altre osservazioni fatte valere da parte ricorrente e condivise da questo Collegio trovano conforto nelle seguenti evidenze: - esclusi i comportamenti penalmente rilevanti, cioè il pretium sceleris, la norma invocata dall’ufficio (art. 14, comma 4 della legge 537/1993) richiama a tassazione i proventi già sottoposti a sequestro e confisca penale; - dalla mancanza del presupposto (proventi illeciti) previsto dal quarto comma discende l’inapplicabilità dell’indeducibilità sostenuta dall’ufficio in ragione del comma 4-bis del citato art. 14. Per cui il recupero deve ritenersi a tutti gli effetti illegittimo. d) Indebita deduzione di costi di euro 1.504.846,65 riferiti alla fattura d’acquisto, ai fini Irap. Anche l’indebita deduzione dei costi in esame, fatta valere ai fini Irap, non può trovare ingresso per le stesse osservazioni riportate al punto c). Così decide la Commissione. Il ricorso avverso l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società è meritevole di accoglimento parziale. Per l’effetto si

conferma l’operato dell’ufficio in ordine al recupero dell’Iva di euro 1.140,00 e della indebita detrazione Iva, art. 19 D.P.R. 633/1972 di euro 300.969,33. Sanzioni nei valori minimi e interessi come per legge. Per il resto la Commissione ritiene di accogliere le doglianze di parte ricorrente, nel senso di cui oltre. Va abbandonato il recupero della somma di euro 300.696,33, oltre sanzioni e interessi per omessa integrazione dell’Iva sulle fatture relative ad operazioni intracomunitarie, nonché la maggiore imposta accertata ai fini Irap di euro 63.956,00, oltre sanzioni e interessi a seguito della riconosciuta deduzione dei costi di euro 1.504.846,65. Gli avvisi di accertamento emessi nei confronti dei soci vanno annullati, a seguito della riconosciuta deduzione dei costi di euro 1.504.846,65 e del conseguente azzeramento del maggior imponibile accertato di pari importo e valevole nei loro confronti per effetto dell’art. 5 del D.P.R. 917/1986. L’azzeramento del maggior reddito accertato di euro 1.504.846,65 esplica i suoi effetti anche nei confronti di quel socio, D.F.L., che per competenza territoriale ha instaurato ricorso presso la Commissione tributaria provinciale di Roma. Sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio.

Nota di Gabriele Marini

maggio 2008, cause riunite C-95/2007 e C-96/2007, che in caso di omessa integrazione degli acquisti intracomunitari è in contrasto con il principio di neutralità la «prassi di rettifica e di accertamento, che nel caso di autofatturazione non riconosca il diritto alla detrazione di tale imposta non auto fatturata ai fini Iva». Altresì, i giudici sostengono che non sussistono i presupposti per considerare indebita la deduzione dei costi tenuto conto che: i) non è stata provata la contestazione alla società ricorrente di comportamenti penalmente rilevanti; ii) i costi sono stati effettivamente sostenuti; iii) dalla mancanza del presupposto (proventi illeciti) previsto dal quarto comma (n.d.r.: art. 14, L. 537/1993) discende l’inapplicabilità dell’indeducibilità sostenuta dall’ufficio in ragione del comma 4-bis del citato art. 14. La Commissione aquilana, invece, ha ritenuto valide le ragioni dell’amministrazione in quanto, a fronte dell’insieme degli elementi indiziari prodotti dall’Agenzia delle Entrate a sostegno della fittizietà delle operazioni, il contribuente non è stato in grado di contraddire. In relazione alla contestazione sull’applicazione del regime del margine, poiché non è stata posta nelle condizioni di verificare, ai sensi dell’art. 38 del D.L. 331/1993, la sussistenza di elementi essenziali presenti all’atto dell’acquisto dell’autovettura usata. La decisione in esame è nel complesso condivisibile; lascia, tuttavia, perplessi la stretta correlazione operata dai giudici tra i proventi illeciti e l’indeducibilità dei costi.

Premessa La sentenza presenta particolari spunti di interesse in quanto rappresenta una sintesi delle problematiche fiscali manifestatesi a seguito delle cd. “frodi carosello”1 nel commercio degli autoveicoli. La vicenda processuale trae origine dagli accertamenti emessi nei confronti di una società di persone e dei relativi soci in cui si contestava alla società l’utilizzazione di fatture d’acquisto soggettivamente inesistenti a fronte di operazioni intracomunitarie. L’amministrazione finanziaria procedeva al recupero dell’Iva in detrazione derivante dalla fatture emesse dai soggetti interposti “cartiere”, nonché dell’Iva a debito che sarebbe derivata dall’acquisto intracomunitario effettuato in assenza di soggetto interposto, a seguito dell’integrazione della fattura ai sensi dell’art. 46 del D.L. n. 331/1993. L’ufficio, altresì, rettificava il reddito d’impresa da imputare ai soci per trasparenza, ritenendo indeducibili i costi sostenuti per l’acquisto dei beni in quanto riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato; nella specie il reato previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000, dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti. Infine, sempre nell’ambito delle frodi Iva ma per importi di gran lunga inferiori ai precedenti, l’a.f. contestava l’indebita applicazione del regime del margine ai sensi dell’art. 36 del D.L. n. 41/1995 relativamente ad un autoveicolo acquistato da un rivenditore francese, ritenuto di contro acquisto intracomunitario. La Commissione aquilana, attraverso una puntuale trattazione delle singole contestazioni, annulla gli accertamenti limitatamente alle riprese fiscali concernenti il recupero dell’Iva a debito derivante dall’omessa integrazione degli acquisti intracomunitari e l’indeducibilità dei costi sostenuti per l’acquisto degli autoveicoli; rigetta poi il ricorso della società in ordine al regime del margine ed all’indebita detrazione Iva per le fatture emesse dalle “cartiere”. In particolare, per i punti favorevoli al contribuente, i giudici ritengono, in aderenza alla sentenza della Corte di Giustizia del 8

Onere della prova ed operazioni inesistenti In ordine alla questione dell’incidenza dell’onere della prova, e dei mezzi di prova cui può farsi ricorso, ove l’amministrazione, ai fini dei conteggi relativi all’Iva, contesti l’esistenza di talune operazioni economiche esposte dal contribuente, la Commissione aquilana sembrerebbe aver fatto proprio l’orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione la quale ha affermato che qualora l’amministrazione fornisca validi elementi di prova, anche indiziari, per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, incombe sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni.

1 Sull’argomento v. PISANI, Frodi “carosello” all’Iva sugli scambi intracomunitari e rilevanza dell’elemento psicologico, in questa rivista, 2007, 367.


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In sintesi i giudici di legittimità hanno sostenuto che l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni ricade sul contribuente, ma, in prima battuta, può essere fornita attraverso l’esibizione di regolari fatture. Tuttavia, qualora l’amministrazione finanziaria adduca elementi che facciano almeno sospettare la non veridicità delle fatture, saranno richiesti all’interessato puntuali controdeduzioni, volte a superare le argomentazioni dell’ufficio2. Sono superati, pertanto, quegli indirizzi interpretativi che alternativamente attribuivano in via esclusiva l’onere probatorio in ordine all’inesistenza o esistenza di un operazione rispettivamente all’amministrazione finanziaria ovvero al contribuente. Invero nel primo caso si affermava che la fattura fosse un documento idoneo a documentare un costo dell’impresa, come si evince chiaramente dall’art. 21 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 che ne disciplina il contenuto, prescrivendo tra l’altro l’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo di ogni operazione commerciale; pertanto, nella ipotesi di fatture ritenute dall’amministrazione relative ad operazioni inesistenti, non spettava al contribuente provare l’effettività dell’operazione, ma spettava all’amministrazione, che adduceva la falsità del documento e, quindi l’esistenza di un maggiore imponibile, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non era stata mai posta in essere3. Il secondo indirizzo, invece, muoveva sull’assunto che innanzi a contestazioni dell’amministrazione finanziaria circa l’indebita detrazione di fatture perché relative a prestazioni inesistenti, spettava al contribuente l’onere di provare la legittimità e la correttezza dell’operazione. Dunque, quando il contribuente non era in grado di dimostrare la fonte che giustifica la detrazione, questa doveva ritenersi indebita, sicché legittimamente l’ufficio provvedeva a recuperare a tassazione l’imposta irritualmente detratta4. Omessa autofattura e limiti al diritto di detrazione dell’Iva Una delle contestazioni mosse dall’amministrazione finanziaria al contribuente riguardava l’omessa integrazione delle fatture relative agli acquisti intracomunitari che la società avrebbe realizzato in assenza del’interposizione soggettiva della “cartiera”. In tal modo l’ufficio recuperava l’Iva a debito, non riconoscendo la detrazione in quanto trascorso il termine di decadenza previsto dal’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972. Come è noto, l’integrazione della fattura prevista dall’art. 47 del D.L. 331/1993 si basa sull’applicazione del meccanismo del reverse charge (inversione contabile). Attraverso l’inversione contabile, definito con carattere di generalità nel terzo comma dell’art. 17 del D.P.R. 633/19725, ed in particolare per quanto concerne le operazioni intracomunitarie dal art. 47 del D.L. 331/1993, si ha una traslazione legale dell’obbligo d’imposta dal cedente/prestatore al cessionario/committente purché quest’ultimo sia un soggetto passivo.

2 Cass., 19 ottobre 2007, n. 21953, in Riv. Giur. Trib., 2008, 2, 99; Cass., 11 giugno 2008, n. 15395, in Corr. Trib., 2008, 29, 2364; Cass., 20 novembre 2008, n. 27574, in Fisco, 2008; Cass., 16 dicembre 2008, n. 29396, in Corr. Trib., 2009, 5, 392. 3 Cass., 5 febbraio 1997, n. 1092, in Riv. Dir. Trib., 1997, II, 3; Cass., 12 dicembre 2005, n. 27341, in Mass. Giur. It., 2005 e Cass., 23 settembre 2005, n. 18710, in Rass. Trib., 2006, 4, 1300. 4 Cass., 23 marzo 2007, n. 7144, in Dir. e Prat. Trib., 2007, 4, 2, 931; Cass., 23 dicembre 2005,

In pratica sul soggetto passivo nazionale che ha posto in essere un acquisto intracomunitario vengono traslati in conformità al meccanismo del reverse charge gli obblighi formali e sostanziali. Pertanto, il cessionario, ai sensi dell’art. 47, integrerà la fattura emessa dal soggetto comunitario e l’annoterà sia nel registro degli acquisti di cui all’art. 25 del D.P.R. n. 633/1972, sia in quello delle fatture emesse di cui all’art. 23 dello stesso decreto, concorrendo in tal modo alla liquidazione dell’imposta. La Commissione ha accolto le doglianze della ricorrente richiamandosi ai principi affermati dalla Corte di Giustizia nella sentenza 8 maggio 2008, cause riunite C-95/2007 e 96/2007, Ecotrade6. In tale sede in giudici comunitari sono stati chiamati a pronunciarsi sulla compatibilità con la sesta direttiva della norma contenuta nell’art. 19, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972, che prevede un termine biennale di decadenza per l’esercizio del diritto alla detrazione, nonché della prassi di rettifica delle dichiarazioni e di accertamento dell’Iva, la quale sanzioni un’irregolarità contabile e di dichiarazione, quale l’omessa autofattura e/o integrazione, negando il diritto a detrazione in caso di applicazione del regime di inversione contabile. La Corte di Giustizia pur ritenendo conforme ai principi di equivalenza ed effettività il termine di decadenza biennale previsto dall’art. 19 del D.P.R. 633/1972, ha considerato in contrasto con i principi di neutralità e proporzionalità la prassi di rettifica e di accertamento che sanziona l’inosservanza, ad opera del soggetto passivo, degli obblighi contabili che non implichi un rischio di perdite di entrate fiscali con un diniego del diritto a detrazione. In altri termini i giudici comunitari sostengono che dinnanzi alla violazione dell’obbligo dell’inversione contabile caratterizzato, in linea di principio e salvo soggetti con pro-rata, dall’assenza di un debito Iva in quanto attraverso la registrazione a debito ed a credito l’imposta è nulla, è incompatibile con la sesta direttiva la prassi dell’amministrazione finanziaria di recuperare l’imposta a debito non riconoscendo l’Iva a credito sostenendo l’ormai intervenuta decadenza dal diritto di detrazione. La commissione tributaria, come detto, applicando la sentenza interpretativa della Corte di Giustizia ha ritenuto di annullare la ripresa fiscale dell’omessa fatturazione alla luce del carattere neutro dell’autofattura ai fini della liquidazione dell’imposta. Nulla è stato disposto in ordine alla sanzione che, tuttavia, sembrerebbe aver seguito la sorte dell’imposta. Al riguardo si evidenzia che la prassi amministrativa7 ritiene che laddove sia constatata una violazione del regime dell’inversione contabile, pur riconoscendo il diritto alla detrazione, resta ferma l’applicazione della sanzione amministrativa di cui all’art. 6, comma 9-bis, primo periodo del D.Lgs. n. 471 del 1997 (comma introdotto dall’art. 1, comma 155 della legge 24 dicembre 2007, n. 244), per inosservanza degli obblighi previsti dalla disciplina Iva, anche se il contribuente non sarà tenuto a versare alcun ammontare a titolo di imposta all’erario. Nel caso di specie detta sanzione non trova comunque applica-

n. 28695, in Dir. e Prat. Trib., 2006, 2, 2, 430. 5 La norma prevede che, in assenza di rappresentante fiscale o di identificazione diretta ex art. 35-ter, gli obblighi relativi alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato da soggetti non residenti, sono adempiuti dai cessionari o committenti che acquistano i beni o utilizzano i servizi nell’esercizio di imprese, arti e professioni. 6 In Racc., 2008, 1 ss. e in Corr. Trib., 2008, 1955 con commento di CENTORE, Natura (formale e non sostanziale) dell’obbligo di auto

fatturazione. In una recente risoluzione (n. 56/E del 6 marzo 2009) l’Agenzia delle Entrate, nel prendere atto della decisione della Corte di Giustizia, si è conformata alla stessa affermando che laddove sia constatata una violazione del regime dell’inversione contabile che comporti, in quella sede, l’assolvimento del tributo da parte dei contribuenti, contestualmente all’accertamento del debito, deve essere riconosciuto il diritto alla detrazione della medesima imposta. 7 Ris. n. 56/E del 2009, in Corr. Trib., 2009, 1275.


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zione in virtù del principio di legalità di cui all’art. 3 del D.Lgs. 472/1997, espressione dell’art. 25 della Costituzione, dato che le violazioni contestate sono anteriori all’entrata in vigore della norma8. Verosimilmente la sanzione applicata dall’amministrazione sarà stata quella prevista dall’art. 6, comma 1, del D.Lgs. 471/1997, vale a dire la sanzione compresa tra il cento e il duecento per cento dell’imposta relativa alle operazioni imponibili non correttamente documentate o registrate. In proposito si ritiene opportuno rilevare che, pur nel silenzio della motivazione, la decisione in ordine all’annullamento della sanzione è senz’altro corretta in quanto l’omessa integrazione delle fatture che documentano acquisti intracomunitari e la relativa registrazione ai sensi dell’art. 23 del D.P.R. 633/1972, non configura la violazione dell’omessa documentazione e registrazione di operazioni imponibili, tenuto conto che sostanzialmente trattasi della documentazione di una operazione passiva (acquisto) ed non attiva (cessione). Ciò è reso palese, altresì, dalla posizione assunta dalla stessa amministrazione finanziaria la quale nella circolare 23 febbraio 1994, n. 13, tiene a precisare che gli acquisti intracomunitari annotati nei registri di cui agli artt. 23 e 24 non concorrono né alla formazione del volume di affari ai fini Iva, né alla determinazione dello status di esportatore abituale e del plafond utilizzabile per effettuare acquisti di beni e servizi senza il pagamento dell’imposta e nemmeno alla determinazione del pro-rata di indetraibilità, nel caso anche di effettuazione di operazioni esenti. In ultima analisi, si sottolinea che nella fattispecie in esame potrebbe applicarsi l’art. 6, comma 5-bis, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, il quale dispone la non punibilità di quelle violazioni che «non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo»9. Infatti, l’inottemperanza all’obbligo dell’inversione contabile alla luce del suo carattere “neutro” appare inidoneo ad arrecare pregiudizio alle ragioni erariali, né in grado di interferire con l’attività di controllo. Operazioni soggettivamente inesistenti ed indeducibilità dei costi collegati ad attività costituenti reato Da quanto si evince dalla motivazione della sentenza, l’ufficio fiscale aveva ripreso a tassazione, considerandoli indeducibili ai sensi del richiamato art. 14, comma 4-bis, della legge n. 537/1993, i costi documentati in fatture ritenute soggettivamente inesistenti in quanto emesse da cd. “cartiere”, sul presupposto che l’utilizzazione di dette fatture configura il reato di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000. La Commissione aquilana disattende la tesi prospettata dall’ufficio rilevando che i costi erano stati effettivamente sostenuti; inoltre, hanno considerato inapplicabile al caso di specie la disciplina in esame in ragione della mancanza dei proventi illeciti costituendi il presupposto applicativo dell’indeducibilità dei costi relativi.

8 Sul punto, DEL FEDERICO, Violazioni e sanzioni in materia tributaria, in Enc. Giur., IX, 2001. 9 Sulla portata e l’applicazione pratica della norma v. DEL FEDERICO, La non punibilità delle violazioni formali nella giurisprudenza delle commissioni tributarie, in questa rivista, 2008, 619. 10 Lo schema tipico delle “frodi carosello” si caratterizza dalla presenza di tre soggetti Iva, di cui due (fornitore e primo cessionario) sono identificati in diversi Stati membri, mentre il terzo (cessionario effettivo) è iden-

Le operazioni contestate, invero, erano riconducibili al diffuso filone delle frodi Iva effettuate nella commercializzazione delle autovetture di provenienza comunitaria caratterizzate dall’interposizione tra i reali operatori commerciali di soggetti nazionali “cartiere” aventi l’unico scopo di permettere all’ultimo cessionario di detrarre l’imposta che, altrimenti, a seguito di un acquisto intracomunitario diretto sarebbe stata neutralizzata dal meccanismo del reverse charge10. Il comma 4-bis11 dell’art. 14 della legge 537/1993 prescrive che «nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti». Pur richiamando tutte le categorie di reddito, è evidente che la norma espande la propria efficacia prevalentemente nell’ambito del reddito d’impresa ed in quello di lavoro autonomo in quanto introduce una eccezione alla ordinaria determinazione degli stessi che, come è noto, avviene facendo la differenza tra i ricavi (compensi) ed i costi inerenti l’attività esercitata. A questo punto si pone l’interrogativo se l’indeducibilità dei costi è comminata solo nel caso in cui vi sia un provento da reato da tassare ovvero in ogni caso in cui i costi siano comunque connessi a fatti, atti o attività costituenti reato, anche nelle situazioni in cui non vi sia alcun provento illecito da sottoporre a tassazione. Una parte della dottrina è orientata verso la completa autonomia della disciplina in esame rispetto alla norma che prevede la generale tassazione dei proventi illeciti12. In particolare si sostiene che «nessun riferimento testuale, al di là della semplice collocazione della nuova norma, immediatamente dopo quella della tassabilità dei proventi illeciti, permette di collegare la seconda alla prima, o, meglio, di ritenere che solo la preventiva applicabilità di questa permetta di rendere operativo il divieto di deducibilità dei costi;[...] come sarebbe stato altrimenti doveroso concludere laddove il legislatore avesse utilizzato locuzioni che chiaramente avessero deposto in tal senso»13. Altra dottrina ritiene che «per l’indeducibilità dei costi non basti la contestazione di un qualsivoglia illecito penale connesso all’esborso, occorrendo anche un legame funzionale con la produzione dei ricavi (occorrerà cioè dimostrare che, senza quei costi illeciti, l’impresa non avrebbe potuto conseguire quei certi ricavi)»14. In pratica non si considera sufficiente per sostenere l’indeducibilità del costo l’acquisizione del relativo fattore produttivo attraverso la commissione di un illecito penale ma si ritiene conditio sine qua non il decisivo contributo del costo alla realizzazione del provento a cui si trasmette, quindi, il carattere illecito. In entrambi i casi, tuttavia, si dovrebbe ritenere indeducibile solo i costi illeciti in senso stretto, vale a dire quei costi direttamente correlati alla commissione di un reato. La seconda tesi sembrerebbe essere stata accolta dalla stessa amministrazione finanziaria15 la quale sostiene che la norma vieta la deducibilità di costi e spese comunque inerenti all’attività e funzionali alla produzione dei relativi proventi, nel caso in cui

tificato nello stesso Stato membro del primo cessionario; quest’ultimo attraverso una catena di fatturazioni ottiene un credito Iva da utilizzare in detrazione in ragione degli acquisti effettuati dai fornitori nazionali (interposti) per i quali è stata formalmente corrisposta l’Iva in modo da generare il relativo credito. Per l’erario italiano, la frode deriva dal comportamento del soggetto interposto, il quale, dopo avere incassato l’Iva addebitata, in via di rivalsa, scompare senza avere provveduto

a riversarla all’erario. 11 Introdotto dall’art. 2, comma 8, della L. 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria per il 2003). 12 Comma 4, dell’art. 14 della L. 537/1993. 13 SCREPANTI, L’indeducibilità dei costi da reato, in Rass. Trib., 2004, 954. 14 VIGNOLI-STEVANATO-MARCHESELLI-LUPI, L’indeducibilità dei costi illeciti alle prime prove giurisprudenziali, in Dialoghi Trib., 2009, 224. 15 Circolare n. 42/E del 26 settembre 2005.


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l’attività nel suo complesso ovvero il singolo atto o fatto illecito costituisca un illecito penalmente rilevante. In altri termini la prassi richiede una correlazione del costo al provento illecito. Peraltro, l’amministrazione rileva che «nel caso in cui l’illiceità coinvolga solo uno o più “fatti o atti” nell’ambito della propria attività lecita, l’indeducibilità riguarderà sia i costi e le spese a questi specificamente afferenti, sia una quota dei costi riconducibili all’attività in generale ossia comuni a più fatti o atti, alcuni leciti e altri illeciti» estendendo di fatto l’operatività della norma anche ai costi non direttamente riferibili ai proventi illeciti. Nella controversia in esame l’ufficio fa risalire l’indeducibilità del costo al fatto che lo stesso è documentato da fatture emesse da soggetti interposti (cartiere) che in virtù della loro utilizzazione in dichiarazione concorrono alla determinazione del reato di dichiarazione fraudolenta. Da tale contestazione si intravede la tendenza a considerare indeducibile qualsiasi costo che concorre alla realizzazione di un reato, a prescindere da qualsiasi esistenza di un provento illecito. I giudici aquilani hanno disatteso detto orientamento richiedendo la correlazione del costo con proventi illeciti, che nel caso di specie non sussistono. Al riguardo si evidenzia che una diversa ricostruzione della ratio della norma avrebbe potuto portare ad una soluzione favorevole alla posizione dell’amministrazione. Infatti, c’è chi intravede nella disposizione in esame l’esigenza di tutela delle simmetrie fiscali che sarebbero lese se si ammettesse la deducibilità di un costo esorbitante la normalità imprenditoriale a fronte di un provento, rappresentante l’altra faccia della medaglia, di cui alcun soggetto dichiarerebbe l’esistenza16. Per esempio, ammettere la deduzione del costo di una tangente comporterebbe un salto d’imposta in quanto a fronte del costo dedotto dal corruttore non si riscontrerebbe il corrispondente reddito del soggetto corrotto il quale si guarderà bene dal dichiarare detto provento. Alle medesime conclusioni, vale a dire l’importanza delle simmetrie fiscali ai fini della deducibilità del costo relative ad opera-

16 In tal senso VIGNOLI-STEVANATO-MARCHESELLILUPI, L’indeducibilità dei costi illeciti alle prime prove giurisprudenziali, in Dialoghi Trib., 2009, 220. La VIGNOLI afferma che «quando,

zioni soggettivamente inesistenti, sembrerebbe essere giunta la Suprema Corte17 la quale ha affermato che ai fini fiscali, non è «indifferente identificare il soggetto che ha fornito le prestazioni fatturate, sul presupposto che il costo è deducibile a prescindere da chi abbia incassato la relativa somma. Non bisogna dimenticare, infatti, che il costo sostenuto da un soggetto è un corrispettivo per chi ha fornito la prestazione [...]. In definitiva, la non corrispondenza tra soggetto che emette la fattura e soggetto che effettua la prestazione (sempre che la prestazione sia stata effettuata), impedisce il controllo sull’ammontare del prezzo effettivamente pagato (che il percettore deve dichiarare nei componenti positivi del reddito) e sull’adempimento degli obblighi Iva, e consente a chi lavori “a nero” di sottrarsi all’imposizione (tant’è che l’utilizzazione di fatture soggettivamente false non si sottrae a profili sanzionatori). Il dubbio sul soggetto che ha effettuato la prestazione, anche quando si ha la certezza che la prestazione stessa sia stata effettuata, non esclude la possibilità di recuperare il relativo costo e l’Iva apparentemente assolta». La Commissione aquilana nel riconoscere la deducibilità del costo sostenuto per l’acquisto delle autovetture ha mostrato di avere attenzione esclusivamente alla effettività oggettiva dell’operazione disinteressandosi dei riflessi fiscali della stessa sotto l’aspetto soggettivo. Detto approccio se condivisibile nella normalità degli scambi commerciali, lo è meno innanzi ad operazioni che si innestano in un ampio disegno criminoso strutturato per contrapporre al fisco a giustificazione dei costi, documenti contabili provenienti da soggetti privi di qualsiasi consistenza che omettono sistematicamente di dichiarare e versare le imposte. In tali casi una maggiore attenzione alle cosiddette simmetrie fiscali avrebbe potuto orientare i giudici verso interpretazioni che garantiscono una giustizia sostanziale in aderenza alle scelte del legislatore che, attraverso l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 14, ha inteso evitare che chi pone in essere comportamenti delittuosi possa trarne indirettamente beneficio in ambito fiscale.

invece, a fronte del pagamento illecito non vi è un soggetto che potenzialmente potrebbe dichiarare e pagare le imposte, a fronte dei relativi proventi, ammettere la deduzione

del costo da ricettazione provocherebbe una discontinuità tra costi e ricavi». 17 Cass., 20 novembre 2008, n. 27574, in banca dati fisconline, 2008.


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PROCESSO TRIBUTARIO IMPUGNABILITÀ DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO, EMESSA A SEGUITO DI LIQUIDAZIONE EX ART. 36-BIS, D.P.R. 600/1973, PER INSUSSISTENZA DEL PRESUPPOSTO D’IMPOSTA 72

Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. IV, 29 settembre 2008, n. 365 Presidente: Santaniello - Relatore: Pagano

Processo tributario - Atti impugnabili - Cartella di pagamento - Somme liquidate ex art. 36-bis, D.P.R. 600/1973 - Irap iscritta a ruolo per effetto della compilazione del quadro IQ - impugnabilità della cartella per insussistenza del presupposto dell’imposta (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-bis; D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) La cartella di pagamento emessa a seguito di attività di liquidazione ex art. 36-bis, D.P.R. n. 600 del 1973, può essere impugnata sia per vizi propri, sia per infondatezza della pretesa fiscale, anche quando sia stata iscritta a ruolo l’Irap derivante dalla compilazione del quadro IQ della dichiarazione dei redditi (nella specie, al contribuente, che aveva dovuto compilare il quadro IQ in quanto non era possibile, almeno fino al modello unico 2006, l’invio della dichiarazione telematica senza la compilazione di tale quadro, è stata riconosciuta la possibilità di far valere in giudizio l’insussistenza del presupposto del tributo). Svolgimento del processo Il rag. L.F., procuratore di se stesso, proponeva tempestivo ricorso avverso e per l’annullamento della cartella esattoriale n. 10020070047900704000, con la quale l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Salerno, a seguito di liquidazione della dichiarazione ai sensi dell’art. 36-bis D.P.R. 600/1973, chiedeva il pagamento di 868,37 euro comprensivo di sanzione ed interessi per omesso versamento Irap per l’anno di imposta 2004. Il ricorrente eccepiva la nullità della cartella per insussistenza dell’obbligo del versamento Irap di cui all’art. 2 del D.Lgs. 446/1997 perché, essendo lavoratore autonomo, la propria attività era priva di autonoma organizzazione e citava sentenza della Suprema Corte e di Comm. trib. prov. Precisava, nel merito, di svolgere l’attività di ragioniere commercialista senza avvalersi di collaboratori e senza significativi costi di gestione in quanto aveva come struttura una stanza posta all’interno di altro studio professionale. Il valore dei beni strumentali, poi, ammontava ad euro 9.961,00 ed allegava copia del quadro E dell’unico 2005 e copia del libro dei cespiti ammortizzabili. Ancora, evidenziava che i compensi percepiti erano riferibili per il 31% ad una collaborazione con altro professionista e per il 59% ad incarichi sindacali. Nel gravame veniva richiesta in via cautelare la sospensione dell’esecuzione dell’ atto impugnato. Si costituiva l’ufficio e preliminarmente chiedeva, ai sensi dell’art. 14 del D.Lgs. 546/1992 l’integrazione del contraddittorio della regione Campania. Riteneva, poi, il ricorso inammissibile perché il ricorrente adduceva questioni che attenevano al merito e non ai vizi propri della cartella e che con la compilazione dell’apposito quadro lo stesso aveva manifestato la volontà di assoggettare il reddito di lavoro autonomo all’imposta. Infine, in ordine alla sussistenza dell’imposta, evidenziava che il

contribuente non aveva fornito chiari elementi che dimostrassero l’inesistenza di una autonoma organizzazione. Chiedeva, quindi, il rigetto del ricorso e vittoria delle spese di giudizio. Alla pubblica udienza del 13 maggio 2008 la Commissione accoglieva l’istanza di sospensione dell’atto impugnato. All’odierna pubblica udienza la Commissione decideva come da dispositivo. Motivi della decisione Il ricorso è fondato e va, perciò, accolto. Circa la richiesta di integrazione del contraddittorio la Commissione osserva che dal periodo d’imposta in corso all’1 gennaio 2000 la competenza per il controllo, l’accertamento e la riscossione dell’Irap passa alle singole regioni, qualora queste abbiano provveduto ad emanare apposita legge al riguardo. Nel caso di specie, la notifica del ruolo da parte dell’Agenzia delle Entrate ufficio di Salerno, confermerebbe l’assenza di legge regionale. Pertanto il ricorso, così come è avvenuto, andava notificato all’Agenzia delle Entrate di Salerno. Quanto all’inammissibilità del ricorso perché il ricorrente aveva addotto questioni che attenevano al merito e non ai vizi propri della cartella esattoriale la Commissione osserva che la mancata compilazione del quadro IQ , che attesta la non debenza dell’Irap, costituiva un errore bloccante per l’invio della dichiarazione. Infatti non era possibile inviare il quadro RE senza abbinare la compilazione del quadro IQ. Una conferma a tale circostanza sono le modifiche alle istruzioni e alle specifiche tecniche fatte nel modello unico 2007 proprio allo scopo di aggiornare modulistica e software alle recenti pronunce giurisprudenziali nelle quali la Cassazione ha chiarito i casi di non debenza del tributo. La stessa Agenzia delle Entrate, poi, con comunicato stampa del 31 maggio 2007 annunciava l’eliminazione del controllo bloccante che non avrebbe consentito di presentare la dichiarazione in via telematica, nel caso dei professionisti che non compilano il quadro IQ per l’Irap pur presentando il quadro RE per i redditi di lavoro autonomo. Sussistendo, pertanto, tale obbligo per il periodo di imposta in contestazione e considerato che la relativa cartella, frutto di una semplice attività di liquidazione o controllo formale, è l’unico atto del procedimento amministrativo con il quale l’ufficio porta a conoscenza del contribuente sia la volontà di imposizione che di riscossione, la stessa assume, a parere di questo Collegio, la duplice natura di atto di accertamento e riscossione. Pertanto la cartella può essere impugnata anche nel merito oltre che per vizi propri. Se ciò non fosse possibile si violerebbe il principio di imparzialità oggettiva, che veicola il modus operandi della p.a. verso il reale interesse dell’erario nel pieno rispetto dei diritti del contribuente nell’ambito di un rapporto improntato a correttezza, collaborazione, trasparenza.


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Infatti obbligherebbe il ricorrente, che per i requisiti evidenziati e provati nel ricorso rientra tra i casi di non debenza del tributo previsti dalle recenti pronunce della Cassazione, al solve et repete con danni e difficoltà nel recupero della somma versata. Nel merito, nel caso dell’odierno ricorrente, lo stesso ha prodot-

to documentazione dalla quale risulta che l’attività professionale è svolta senza dipendenti, con attrezzature limitate, per cui non può certo parlarsi di attività che possa svilupparsi in assenza del titolare dello studio. Sussistono giusti motivi per compensare le spese.

Nota di Luca De Rosa

atto di accertamento e di riscossione, essendo l’unico atto con il quale l’ufficio porta a conoscenza del contribuente sia la volontà di imposizione sia quella di riscossione. Ne consegue che la cartella, portante la liquidazione dell’imposta di cui è stato omesso il versamento, può essere impugnata contestando che l’imposta sia dovuta, oltre che per vizi propri. Il Collegio giudicante osserva che, diversamente, sarebbe violato il principio di imparzialità oggettiva che veicola il modus operandi della pubblica amministrazione verso il reale interesse dell’erario, nel pieno rispetto dei diritti del contribuente, nell’ambito di un rapporto improntato a correttezza, collaborazione, trasparenza.

L’oggetto della controversia e i punti salienti della pronuncia assunta dal Collegio giudicante La controversia in esame origina dalla impugnazione, da parte di un libero professionista, di cartella di pagamento ex art. 36-bis del D.P.R. 600/1973, con la quale si pretendeva il pagamento dell’Irap emergente dalla dichiarazione presentata. In realtà, il ricorrente, pur ritenendo di non rivestire la qualità di soggetto passivo Irap, era risultato “obbligato” a compilare il quadro IQ della dichiarazione ai fini Irap in quanto, come noto, il protocollo informatico ufficiale, almeno fino al modello unico 2006, non consentiva, in assenza di tale compilazione, l’invio telematico della dichiarazione unificata. Solo in seguito a risposta ad interrogazione parlamentare (n. 50159) del 30 maggio 2007, l’amministrazione finanziaria ha eliminato l’errore “bloccante”, segnalato dal software Entratel, a partire dalla trasmissione telematica del modello unico 2007 persone fisiche. Difatti, il sistema di controllo Entratel, elaborato dalla Sogei, come unico protocollo informatico utile al detto adempimento, prevedeva al proprio interno un sistema di “blocco” che, allorquando registrava discordanze anche di tipo formale tra i dati inseriti e quelli previsti dal protocollo, “scartava” la dichiarazione attraverso un codice di cd. “errore bloccante”, impedendone così la trasmissione telematica. Per tale motivo il ricorrente, pur ritenendo di non essere soggetto passivo Irap, perché svolgente la sua attività professionale in assenza di autonoma organizzazione, era stato costretto a compilare il quadro IQ ma, non avendo versato l’imposta, è stato iscritto a ruolo ed ha dovuto impugnare la cartella, contenente la “liquidazione” della dichiarazione Irap. L’ufficio periferico dell’Agenzia delle Entrate, nel costituirsi in giudizio, eccepiva che il ricorso non era motivato da “vizi propri” dell’atto impugnato, ma da questioni che attenevano al merito della pretesa fiscale che non potevano essere sollevate impugnando un atto della riscossione. Ciò perché, con il controllo automatico della dichiarazione ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. 600/1973, l’amministrazione finanziaria opera un semplice ricalcolo dei dati contabili esposti dal contribuente, abbinandoli agli importi comunicati dagli enti esterni (versamenti, ritenute, ecc.). Nel caso di specie, il ricorrente, avendo compilato il quadro IQ relativo all’Irap, aveva chiaramente manifestato la volontà di assoggettare il reddito da lavoro autonomo alla predetta imposta. Questi gli elementi essenziali della controversia. Il Collegio giudicante ha ritenuto che la cartella di pagamento, ex art. 36-bis del D.P.R. 600/1973, assume la duplice natura di

1 Sul tema si rimanda, da ultimo, a SCHIAVOLIN, L’autonomia organizzativa nell’Irap: il faticoso sviluppo del “diritto vivente” nella giurisprudenza di merito, in questa rivista, 2008, 779 ss. 2 In termini, le decisioni della Commissione tributaria centrale dell’1 settembre 1989, n. 5331 e del 21 aprile 1998, n. 2059, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria

Profili relativi alla ritrattabilità della dichiarazione in sede contenziosa Le argomentazioni adottate dal Collegio necessitano di alcune osservazioni aggiuntive. Il libero professionista che si avvale, nella produzione del proprio reddito professionale, unicamente del suo apporto personale, in assenza di autonoma organizzazione, non è soggetto ad Irap, per insussistenza del presupposto di cui all’art. 2 del D.Lgs. 446/19971. Ora, in aderenza con l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, la suddetta eccezione è sollevabile anche in sede di opposizione all’iscrizione a ruolo, poiché è possibile far valere, tramite l’impugnazione del ruolo, l’insussistenza del debito, erroneamente dichiarato2. Invero, la liquidazione di cui all’art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973 non preclude al contribuente, attraverso l’impugnazione del ruolo e della relativa cartella, di rimettere in discussione la debenza del tributo3. Ciò per effetto della ritrattabilità della dichiarazione in sede contenziosa, che si armonizza col noto indirizzo giurisprudenziale, secondo cui il processo tributario assume natura di procedimento di impugnazione-merito, con cognizione piena del giudice tributario non solo sull’atto impugnato, ma anche sul suo contenuto, cioè sul rapporto tributario, se vi è la mediazione/filtro di un atto impositivo tempestivamente opposto non per motivi formali, ma di carattere sostanziale, attinenti al merito del rapporto. Si impone, tuttavia, una opportuna distinzione: a) quando l’impugnazione verte su vizi formali dell’atto e il giudice riconosce fondato il ricorso, si ha l’annullamento dell’atto; il giudizio, in questo caso, è un giudizio di mero annullamento; b) quando il giudizio verte sull’an o sul quantum dell’imposta (come nella controversia in rassegna) la sentenza che accoglie il ricorso assume un contenuto complesso, poiché il giudice non si limita ad eliminare l’atto impugnato, ma emette una sentenza sostitutiva dell’atto impugnato.

Big. Si veda, in merito, anche la discordante posizione della dottrina che, discostandosi dall’orientamento giurisprudenziale dominante, esclude che, avverso il ruolo di cui all’art. 36-bis, si possa eccepire un vizio della dichiarazione estraneo alla liquidazione. Cfr. NUSSI, La dichiarazione tributaria, Torino 2009, 294. Inoltre, l’asserzione tiene conto del fatto che la normativa sull’imposta re-

gionale delle attività produttive fa espresso richiamo alla disciplina relativa alla dichiarazione delle imposte sui redditi (cfr. art. 19, comma 2 e 5, e art. 25, comma 1, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446). 3 Cass., 29 giugno 2006, n. 12787, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big.


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Per questo motivo la giurisprudenza definisce il processo tributa- Ciò perché la previsione degli effetti collegabili alla fattispecie rio come processo di impugnazione-merito, intendendo dire che tributaria è contenuta integralmente nella legge, che non lascia la sentenza, oltre ad eliminare l’atto impugnato, lo sostituisce4. spazio libero ad autonome determinazioni di volontà del contribuente. Brevi cenni sulla natura della dichiarazione tributaria Per tale motivo la dichiarazione è atto diretto ad esternare non e sulla sua ritrattabilità in sede processuale, secondo la volontà, ma la sussistenza di determinati fatti e, pertanto, si concretizza in una dichiarazione di scienza. il diritto giurisprudenziale tributario La ritrattabilità della dichiarazione in sede contenziosa è una Ne deriva, altresì, che il procedimento tributario deve far emerconseguenza della natura non negoziale della dichiarazione stes- gere l’obbligazione dovuta per legge, non già l’obbligazione emergente dalla dichiarazione, se questa si pone in contrasto con sa, affermata dalla giurisprudenza di legittimità. Difatti, come noto, la dichiarazione tributaria (pur mancando quanto dovuto ex lege. una definizione normativa espressa e pur essendovi diverse fattispecie normative), almeno nei suoi contenuti narrativi (segnata- La differente posizione assunta dall’ufficio resistente, mente, l’indicazione degli elementi attivi e passivi necessari per in sede processuale, nonché da parte della dottrina, la determinazione degli imponibili), costituisce atto di scienza e laddove viene sostenuto che il ricorso avverso il ruolo emesso ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. 600/1973 cogiammai atto negoziale5. Più specificamente, la dichiarazione tributaria non è dichiarazio- stituisca rimedio inutile (o limitatamente utile per i ne di volontà, bensì mero atto, cioè atto le cui conseguenze giu- soli elementi eventuali) a emendare la dichiarazione La tesi sostenuta dall’ufficio resistente, nella controversia in rasridiche sono predeterminate dalla legge6. In altri termini la dichiarazione tributaria è la comunicazione segna – secondo cui il ricorrente sollevava questioni che atteneobbligata che il dichiarante rende all’erario di fatti ed elementi vano al merito e che, nella fase della riscossione, non potevano che si sono verificati nella propria sfera giuridica7. trovare accesso – trova una coincidente posizione in autorevole La comunicazione è voluta dal legislatore come collaborazione dottrina11, laddove viene escluso che avverso il ruolo di cui alnecessaria con l’erario ai fini della determinazione della base im- l’art. 36-bis si possa eccepire un vizio della dichiarazione, oltre a ponibile e dell’imposta dovuta del contribuente tenuto alla pre- quelli della liquidazione stessa. sentazione della dichiarazione stessa8. Cioè, posto che in sede di impugnazione giudiziale di ruolo ex Il legislatore ne fissa i contenuti, i tempi, le modalità di presenta- art. 36-bis si è, esclusivamente, nella fase della riscossione, non zione, a tutela dell’interesse collettivo all’attuazione del prelievo. troverebbero spazio eccezioni rivolte a contestare l’an ed il quanMa, si deve sottolineare, non di qualsivoglia prelievo, e neppure di tum debeatur del tributo, salva la tutela esperibile con l’azione di un prelievo conforme a parametri eccezionali, come accade per la rimborso di cui all’art. 38 del D.P.R. 602/1973. dichiarazione di condono, bensì del prelievo conforme alla capa- Ciò perché l’iscrizione a ruolo dell’art. 36-bis si riconnetterebbe cità contributiva, che si è effettivamente realizzata (art. 53, Cost.)9. esclusivamente alla liquidazione dell’obbligazione legale nascenDifatti, secondo le sezioni unite della Corte di Cassazione10, an- te dalla qualificazione fattuale della dichiarazione dei redditi corché non esista un modello ricostruttivo univoco, la dichiara- operata dal dichiarante. zione non si configura né come atto negoziale né come confes- In altri termini, la fattispecie di cui all’art. 36-bis si realizzerebbe sione stragiudiziale, bensì come esternazione di scienza e di giu- indipendentemente dalla conformità al presupposto (del tributo) dizio. degli elementi attivi e passivi di reddito dichiarati. Prevale dunque l’orientamento secondo cui la dichiarazione è, in Ne discende che il ruolo conseguente sarebbe censurabile solo in linea di principio, emendabile e ritrattabile quando risulti frutto relazione ad eventuali errori della liquidazione, non venendo in aldi un errore del dichiarante – errore testuale o extratestuale, di cun rilievo il diverso profilo della conformità del dichiarato con il fatto o di diritto – ossia quando da essa possa derivare l’assog- reale, se non nei ristretti limiti della legittimità formale di taluni gettamento del dichiarante medesimo ad oneri contributivi di- elementi eventuali (oneri deducibili o detraibili, crediti di imposta versi, e più gravosi, di quelli che per legge devono restare a suo e il riepilogo dei versamenti effettuati) con esclusione degli elecarico. menti reddituali che risultano estranei al controllo in sede di liquiCorollario del citato principio è che gli eventuali errori della di- dazione, potendosi correggere solo gli errori materiali e di calcolo. chiarazione possono essere fatti valere anche mediante ricorso Il ruolo ex art. 36-bis, quindi, potrebbe essere impugnato solo per contro il ruolo. vizi riconducibili all’attività di liquidazione ovvero alla rappre-

4 Cfr. Cass., 23 marzo 1985, n. 2085; Id., 19 dicembre 1986, n. 7735; Id., 24 febbraio 1987, n. 1987; Id., 26 ottobre 1988, n. 5786; Cass., 3 marzo 1986, n. 1322, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. Cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, I, Torino, 2006, 368. Anche la Consulta ha più volte avallato i riferiti approdi della giurisprudenza di legittimità sul punto (cfr. Corte cost., n. 365 del 1994 in Giur. It., 1995, I, 77, con nota di PAPALIA; Fisco, 39, 1994, 9475, con nota di SPAZIANI TESTA). In linea con tali sviluppi, autorevole dottrina (CONSOLO, Processo e accertamento tra responsabilità contributiva e debito tributario, in Riv. Dir. Proc., 2000, 1041) ha avuto modo di evidenziare come lo stesso ALLORIO, «capostipite delle teorie costitutive», aveva già

ammesso che l’azione costitutiva del contribuente potesse dar luogo non solo all’annullamento, ma eventualmente anche alla riforma, con più idonea determinazione dell’atto impositivo, ammettendosi dunque anche una sentenza sostitutiva del contenuto dell’avviso di accertamento impugnato (cfr. ALLORIO, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 384). Conseguentemente, sfuggendo in definitiva il processo tributario ad un esatto inquadramento in uno dei due tradizionali modelli generali, si è ritenuto che ad esso possa attribuirsi un carattere “cumulativo” e dell’azione di annullamento e del riesame sostituivo, ove rispettivamente si chieda al giudice «un sindacato invalidante oppure sostitutivo sulla fattispecie di accertamento» (CONSOLO, op cit., 1060 ss.). 5 Sulla natura della dichiarazione tributaria

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cfr., Comm. trib. I grado Trento, 7 dicembre 2006, n. 70, in questa rivista, 2007, 221, con nota di COPPOLA, La dichiarazione tributaria con errori a danno del contribuente: la complessa esegesi dei commi 8 e 8-bis, art. 2, D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322. Cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, cit., 181. Cfr. BODRITO, Ingiusta preclusione alla contestazione sull’Irap nelle liti sui ruoli, in Riv. Giur. Trib., 2007, 348. BODRITO, op. cit., 348. BODRITO, op. cit., 348. Si veda MOSCHETTI, Emendabilità della dichiarazione tributaria, tra esigenze di “stabilità” del rapporto e primato dell’obbligazione dovuta per legge, in Rass. Trib., 2001, 1149 ss. NUSSI, La dichiarazione tributaria, cit., 294.


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sentazione delle singole situazioni soggettive manifestate in dichiarazione ed oggetto del controllo automatizzato, risultando preclusa, in tale sede, la possibilità di sollevare censure in ordine alla debenza del tributo. La riportata dottrina ha avuto modo di affermare, altresì, che la citata conclusione risulta, tra l’altro, del tutto coerente anche con l’attuale assetto degli atti impugnabili laddove la ricorribilità solo per vizi propri ben si armonizza con la ritrovata autonomia dell’azione di rimborso, non più preclusa dalla notifica di precedenti atti impugnabili, come nel regime previgente12. Peculiarità della fattispecie, oggetto di giudizio, caratterizzata dalla “forzosa ed obbligata” compilazione della dichiarazione Irap, imposta dal protocollo informatico ufficiale al dichiarante privo di soggettività passiva Irap, con conseguente prospettata illegittimità dell’iscrizione a ruolo ex art. 36-bis Preso atto delle divergenti posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza sulla impugnabilità del ruolo 36-bis per profili attinenti alla debenza del tributo, non può non farsi rilevare che la fattispecie all’esame del collegio giudicante, nella controversia in rassegna, assume una particolarità tutta sua. Difatti, come sopra rimarcato, il ricorrente, pur non ritenendo di rivestire la qualità di soggetto passivo Irap, era risultato “obbligato” a compilare la relativa dichiarazione (con annessa liquidazione del tributo), perché il protocollo informatico ufficiale non consentiva, in assenza di detta compilazione (segnalando un “errore bloccante” nella procedura informatica), l’invio telematico della dichiarazione unificata (modello unico, comprensivo delle dichiarazioni ai fini dell’imposta sul reddito e dell’imposta sul valore aggiunto). È il caso di rammentare che l’obbligo dichiarativo Irap, di cui all’art. 19 del D.Lgs. n. 446/1997, sussiste esclusivamente per i soggetti passivi individuati dagli artt. 2 e 3 del D.Lgs. 446/1997, e cioè per chi esercita una o più delle attività autonomamente organizzate, dirette alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. Il fatto costitutivo dell’obbligo dichiarativo, quindi, ancorché non ne consegua un debito di imposta, sembra essere proprio il presupposto del tributo, misurato tramite il valore della produzione13. Ne consegue che il libero professionista, come il ricorrente nella fattispecie oggetto di giudizio, svolgente attività economica produttiva in assenza di autonoma organizzazione, risulta privo di soggettività passiva Irap per carenza del presupposto oggettivo del tributo. Ne deriva, nei suoi confronti, l’assenza di obbligo dichiarativo14. Ora, pur in assenza di obbligo dichiarativo Irap, al libero professionista, come sopra individuato, risultava precluso l’invio telematico della sua dichiarazione unificata se priva, quest’ultima, della “forzosa dichiarazione Irap”, con annessa autoliquidazione dell’imposta. In sostanza, l’utilizzo del software predisposto dall’amministra-

12 NUSSI, op. cit., 295; CONSOLO, Processo e accertamento, cit., 1061 ss.; SCHIAVOLIN, sub art. 19, in CONSOLO-GLENDI, Commentario breve alle leggi sul processo tributario, Padova, 2005, 198; TESAURO, Istituzioni, cit., 304, nota 16. 13 NUSSI, op. cit., 91. 14 Resta impregiudicata, ovviamente, la facoltà dell’ufficio periferico di contestare al contribuente, entro i termini decadenziali, la sussistenza della soggettività passiva Irap e del concorrente presupposto del tributo, con debito avviso di accertamento motivato.

zione finanziaria15 ha determinato il sorgere di una nuova figura, normativamente non contemplata, cioè quella di un «dichiarante senza obbligo dichiarativo», cui, artificiosamente, è imposto un concorrente obbligo di versamento, facendolo divenire davvero un «obbligato senza obbligazione». In un contesto così delineato, diviene difficilmente sostenibile la posizione sopra illustrata, secondo cui l’iscrizione a ruolo dell’art. 36-bis sarebbe impugnabile solo per vizi propri. Ciò perché la dichiarazione Irap, ad opera del «dichiarante senza obbligo dichiarativo e di versamento», risulta «indotta e provocata» da un adempimento – la presentazione della dichiarazione Irap, con annessa liquidazione del tributo – che risulta artificiosamente imposto dal protocollo informatico ufficiale. A ben vedere, il ruolo di cui all’art. 36-bis, in cui l’amministrazione iscrive fattispecie simili a quella in esame, risulta viziato ab origine perché fondato su una imposizione di natura informatica e non su una prescrizione normativa o, almeno, su un comportamento liberamente assunto dal dichiarante. La questione, impostata in questi termini, non lascia molti dubbi sul campo. Un siffatto ruolo ex art. 36-bis è senz’altro portatore di vizi propri perché senza titolo, ossia collegato ad un presupposto d’imposta del tutto virtuale e artificiosamente generato. La giurisprudenza di merito si è pronunciata per lo più favorevolmente al contribuente, ammettendo il ricorso contro la cartella. Un primo indirizzo16 ha ammesso che il contribuente, in sede di ricorso contro la cartella di pagamento, possa addurre «che la procedura di redazione della dichiarazione fiscale impediva al contribuente, titolare di partita Iva, l’invio telematico della dichiarazione stessa in assenza della compilazione del quadro Irap [...]; pertanto pur essendovi un’imposta dichiarata, non viene meno il diritto del contribuente di chiedere la verifica della sussistenza del presupposto d’imposta e ciò può essere legittimamente effettuato in sede contenziosa nel momento in cui viene notificata la cartella esattoriale quale primo atto impositivo [...] poiché la mera indicazione in dichiarazione dell’Irap o il suo parziale pagamento non possono costituire automaticamente la fonte dell’imposta ovvero il riconoscimento dell’esistenza e l’accertamento incontestabile del presupposto d’imposta Irap». Un secondo indirizzo17 è risultato più radicale: «[...] la tesi dell’ufficio, secondo cui il contribuente non è legittimato ad eccepire, in sede di ricorso contro il ruolo, l’insussistenza del presupposto impositivo, va rigettata, attesa l’impossibilità – all’epoca esistente – di presentare la dichiarazione dei redditi senza la compilazione della parte relativa all’Irap». Conclusioni In conclusione, è possibile affermare che, secondo il diritto giurisprudenziale tributario, il procedimento tributario di cui all’art. 36 bis del D.P.R. 600/1973 non preclude, in sede di opposizione giudiziale, di far valere l’insussistenza del presupposto del tribu-

15 Ciò fa sì che l’amministrazione finanziaria liquidi i dati manifestati dal contribuente senza alcuna possibilità da parte di quest’ultimo di poter interferire: il sistema non sembra conforme a legge, atteso che la normativa specifica non prevede affatto una liquidazione addirittura preventiva alla presentazione della dichiarazione; operazione che si risolve in una sorta di inammissibile (almeno in quanto privo di tutele) controllo ex ante sui dati da dichiarare, dati che nella pratica spesso vengono “rifiutati” dal software, in pieno contrasto con la legge. Cfr. NUSSI, op.

cit., 61. 16 Cfr. Comm. trib. reg. Abruzzo, 31 dicembre 2007, n. 172 (in Ipsodaily, quotidiano di informazione su fisco, lavoro e impresa); Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 14 marzo 2008, n. 29; nonché Comm. trib. prov. Treviso, sez. VI, 7 ottobre 2008, n. 116 e sez. V, 20 ottobre 2008, n. 75, in Finanza & Fisco, 41, 2008, 3674 ss. 17 Comm. trib. prov. Piacenza, 31 marzo 2008, n. 24, in Pratica fiscale e professionale, 47, 2008, 35.


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to o la sussistenza di fatti impeditivi, modificativi o estintivi del tributo preteso. Ciò è ammesso, a fortiori, quando si è in presenza di un dichiarante privo di soggettività passiva Irap e, quindi, senza obbligo dichiarativo e di versamento, cui viene imposta, artificiosamente, la compilazione e la liquidazione della dichiarazione Irap. Opinando diversamente e, quindi, aderendo alla tesi sostenuta dall’ufficio resistente nella fattispecie oggetto di giudizio, cioè costringendo il dichiarante, privo di soggettività passiva Irap, ad assolvere preventivamente l’Irap e – differendo la sua tutela in sede di azione di rimborso, ex art. 38 del D.P.R. 602/1973 – si evo-

18 Il principio del solve et repete incideva sulla proponibilità dell’azione giudiziaria ed importava un difetto temporaneo di giurisdizione dell’a.g.o. Esso era espresso con norme che precludevano la tutela giurisdizionale al contribuente che non avesse previa-

cherebbe una variante del risalente principio del solve et repete che subordinava la tutela giurisdizionale al preventivo assolvimento dell’obbligazione18. Condivisibile sul punto, appare, quindi, il passo della pronuncia in rassegna dove viene evocata e paventata questa infausta eventualità. Ma, allo stato, venuta meno da alcuni decenni siffatta impostazione del rapporto fisco-contribuente19, l’eccezione sollevata dall’ufficio resistente, nella sentenza in rassegna, risulta estranea all’intervenuta evoluzione del diritto tributario positivo e del diritto giurisprudenziale tributario.

mente soddisfatto il debito d’imposta e coesisteva con l’esecutorietà dell’atto amministrativo di imposizione tributaria (v., ad es., gli artt. 149 e 145 della legge organica di registro di cui al R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269). In termini, Cass., sez. un., 8 marzo

1977, n. 942, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 19 Con la pronuncia n. 21 del 31 marzo 1961 (in Giur. It., 1961, I, 1, 529) la Corte costituzionale ha statuito l’illegittimità costituzionale del solve et repete.


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Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. IV, 9 giugno 2008, n. 59 Presidente: Bazzotti - Relatore: Visconti

Riscossione - Cartella di pagamento - Omessa indicazione del responsabile del procedimento Conseguenze - Art. 7, comma 2, lett. a, L. 212/2000 - Nullità (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 2 lett. a; D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 4-ter) L’indicazione del responsabile del procedimento, così come previsto dall’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, è obbligo tassativo anche per gli atti dell’agente o concessionario della riscossione; ne discende che la cartella di pagamento priva di tale indicazione deve considerarsi nulla, conformemente alla statuizione della Corte costituzionale e in applicazione dei principi della legge sul procedimento amministrativo. Svolgimento del processo Con ricorso depositato in data 10 aprile 2006, la cantina S. – ora cantina M. – nella persona del legale rappresentante sig. V.B., ha impugnato la cartella di pagamento n. [...] notificata in data 30 gennaio 2006, riguardante sia l’Ici per gli anni 2000 e 2001, in ordine alla quale imposta il Comune, a seguito di sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto a sé sfavorevole, passata in giudicato, provvedeva a disporne lo sgravio, sia l’Iciap per gli anni 1989-1993, in ordine alla quale imposta pende tuttora ricorso in appello presso la direzione regionale delle Entrate del Veneto. La ricorrente eccepisce: - violazione della procedura di notifica della cartella: artt. 26, D.P.R. n. 602/1972, 148, c.p.c. e 3, L. 898/1982; - in merito ai vizi propri della cartella: omessa motivazione, mancata indicazione del responsabile del procedimento, omessa sottoscrizione della cartella. I convenuti Comune di Mareno di Piave e Uniriscossioni S.p.A. (ora Equitalia Nomos S.p.A.) nelle rispettive memorie di costituzione e risposta, replicavano puntualmente, ciascuno per la parte di propria competenza, alle eccezioni sollevate da parte ricorrente. Motivi della decisione

chiesta di pagamento dell’Iciap) è da ritenersi fondato, e, pertanto, va accolto. L’art. 7 della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente) prevede che gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei «concessionari della riscossione» debbono tassativamente indicare (tra l’altro) «il responsabile del procedimento». Al riguardo, la Corte costituzionale, con ordinanza n. 377 del 9 novembre 2007, si è espressa nel senso che ogni provvedimento amministrativo è il risultato di un procedimento e che l’art. 7 della citata legge n. 212 si applica anche ai procedimenti tributari dei concessionari della riscossione, in quanto soggetti provati cui compete l’esercizio di funzioni pubbliche, senza potersi distinguere, agli effetti in discorso, tra procedimenti di massa e procedimenti di natura discrezionale, e che l’obbligo imposto dalla legge di indicazione del responsabile nella cartella, obbligo definito testualmente come tassativo, «lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza della attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento della pubblica amministrazione». Con la citata ordinanza la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, lettera a, della legge n. 212/2000, sollevata dalla Commissione tributaria regionale di Venezia, in riferimento agli artt. 3, comma 1, e 97 della Costituzione. Non va sottaciuto che la stessa Corte, già prima dell’entrata in vigore della legge 212, aveva ritenuto l’applicabilità ai procedimenti tributari della legge generale n. 241/1990 sul procedimento amministrativo (ordinanza n. 117/2000, relativa all’obbligo della motivazione della cartella di pagamento). Dal suindicato principio consegue che, stante la tassatività dell’obbligo di indicare nella cartella il responsabile del procedimento, come da dettato di legge, in caso di inosservanza, come nel caso di specie, l’impugnata cartella deve considerarsi nulla. Si considerano assorbiti tutti gli altri motivi. Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.

Il ricorso (rimasto in vita soltanto per la parte riguardante la ri-

Nota La sentenza in rassegna affronta la problematica delle cd. cartelle mute, ossia quelle cartelle che sono state notificate al contribuente senza l’indicazione del responsabile del procedimento. La querelle giurisprudenziale e dottrinale sul tema, ormai nota a tutti, ha trovato il suo epilogo nella sentenza della Corte costituzionale del 27 febbraio 2009, n. 58. La pronuncia della Commissione provinciale di Treviso offre l’occasione per ricostruire a grandi linee l’evoluzione della questione. L’art. 7, comma 2, dello Statuto del contribuente (L. n. 212/2000) detta gli elementi che devono essere tassativamente indicati negli atti dell’amministrazione finanziaria, ricomprendendo tra i destinatari della disposizione anche il concessionario della riscossione (ora agente della riscossione). La disposizione è stata considerata “irragionevole” da un giudice a quo secondo cui «l’attività svolta dai concessionari della riscossione, al fine di formare la cartella, non pareva configurabile come un vero e pro-

prio procedimento» ciò che lo ha indotto a sollevare questione di legittimità costituzionale. Di diverso avviso è stata la Corte costituzionale che nell’ordinanza 5 novembre 2007, n. 377, ha sottolineato che il concessionario della riscossione, non è un mero soggetto privato, bensì un soggetto privato cui compete l’esercizio di funzioni pubbliche (per un commento dell’ordinanza, BASILAVECCHIA, Le indicazioni obbligatorie sulle cartelle di pagamento, in Riv. Giur. Trib., 2008, 5, 373). La Consulta, in particolare, ha tenuto a precisare che i requisiti richiesti dall’art. 7, «hanno proprio lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino e la garanzia del diritto di difesa che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, sanciti dall’art. 97, primo comma, Cost.», pertanto non si pongono in contrasto con essa, ma anzi tendono a darne pratica attuazione. Benché la questione del tipo di invalidità scaturente da tale violazione non sia stata espressamente affrontata nell’ordinanza dalla Corte, sono stati i giudici di merito che ne hanno fatto concreta attuazione a di-


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vidersi tra coloro che hanno affermato la nullità delle cartelle prive della predetta indicazione e coloro che, invece, ne hanno riconosciuto la mera annullabilità (per le posizioni dei giudici di merito si veda BASILAVECCHIA, L’invalidità degli atti del concessionario per omissione delle indicazioni obbligatorie: gli orientamenti della giurisprudenza di merito, in questa rivista, 2008, 2, 341). La sentenza in commento, si schiera dalla parte dei fautori della nullità delle cd. cartelle mute, fondando la motivazione sull’ordinanza della Corte costituzionale n. 377/2007 e sulle precedenti pronunce che hanno riconosciuto l’applicabilità, al procedimento tributario, della L. 241/1990. A ben guardare, però, la nullità di un atto in applicazione della L. 241/1990, può essere dichiarata solo nei casi espressamente previsti dalla legge (art. 21-septies), e una simile previsione non si rinveniva nella norma dello Statuto (più in generale sulla problematica della invalidità degli atti impostivi alla luce della normativa amministrativa si v. TESAURO, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 2005, 1445). V’è da dire, poi, che sulla diatriba innescata dai giudici di merito, l’ultima parola doveva essere lasciata alla Corte di Cassazione, invece, è intervenuto il legislatore che, con il cd. decreto “milleproroghe”, ha generato una sorta di spartiacque tra le cartelle emesse anteriormente ovvero successivamente al 1 giugno 2008, stabilendo espressamente la nullità solo per le cartelle, carenti dell’indicazione del responsabile del procedimento, emesse dopo tale data (sul punto criticamente si veda MARONGIU, Le cartelle mute: una “querelle” infinita, in Corr. Trib., 2009, 14, 1104). Questa disposizione è stata interpretata

dall’amministrazione come una sorta di sanatoria per tutte le cartelle precedenti, dimenticando di considerare che il secondo periodo dello stesso comma stabilisce semplicemente: «la mancata indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento relative ai ruoli consegnati prima di tale data (1 giugno 2008), non è causa di nullità della stessa», quindi senza escludere l’annullabilità di tali cartelle (si veda il commento a circ. 6 marzo 2008, n. 16/E, di GLENDI, Cartelle di pagamento tra Statuto, Corte costituzionale e decreto “milleproroghe”, in Corr. Trib., 2008, 14, 1149). La Corte costituzionale è stata chiamata nuovamente ad intervenire e con la sentenza n. 58 del 2009 (per un commento della sentenza si veda BASILAVECCHIA, Atti impositivi carenti ma legittimi, in Corr. Trib., 2009, 14, 1099 e anche GLENDI, Cartelle “mute”, Corte costituzionale “ultraparlante” e nuove leggi “da interpretare”, in Riv. Giur. Trib., 2009, 5, 381), ha precisato che le cartelle precedenti al 1 giugno 2008 potranno essere annullate se prive dell’indicazione dei responsabili del procedimento (in senso conforme MARONGIU, op. cit.). Di talché, le cartelle emesse fino al 31 maggio 2008, potranno essere annullate, se in carenza dei requisiti, mentre le cartelle emesse dopo il 1 giugno 2008, sono radicalmente nulle, considerata l’espressa previsione normativa di tale forme di invalidità, nel pieno rispetto, quindi, della L. 241/1990, la quale all’art. 21-septies stabilisce che «è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge».


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SANZIONI AMMINISTRATIVE L’INAPPLICABILITÀ DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE TRIBUTARIE PER DIFETTO D’IMPUTABILITÀ 74

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXI, 24 ottobre 2008, n. 313 Presidente: Davigo - Relatore: Chiametti

dell’art. 41 del D.P.R. n. 600/1973, rientrante nella categoria dei Sanzioni amministrative - Grave malattia del contri- redditi diversi disciplinati dall’art. 81 del D.P.R. n. 917/1986. buente - Inapplicabilità - Imputabilità - Insussistenza Trattandosi di redditi non dichiarati all’epoca dal contribuente (D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 4) (l’anno esaminato dall’Agenzia delle Entrate era il 1999) e non contestati nel ricorso dallo stesso contribuente, al consesso giudiNon è sanzionabile il comportamento del contribuente che, pur avendo omes- cante non rimane che confermare tout court l’operato dell’ufficio. so di presentare la dichiarazione Irpef, risulti affetto da grave malattia, do- La ripresa effettuata dall’ufficio viene confermata in quanto il cumentata da reperti sanitari e cartelle mediche. reddito a suo tempo prodotto avrebbe dovuto scontare le relative imposte sin dal momento della sua percezione. Con ricorso presentato tempestivamente, il ricorrente contestava l’av- Non avendo assolto all’epoca le imposte, è corretto che il contriviso di accertamento redatto ai sensi dell’art. 41 relativo al reddito buente le corrisponda ora. non dichiarato per euro 12.794.000, reddito assimilato a reddito di la- Sul problema sanzioni, la sezione giudicante rileva quanto segue. voro dipendente e compensi di attività commerciale e attività di lavo- È noto che la sanzione è il quantum, vale a dire la misura punitiva ro autonomo (euro 7.898.000 più euro 1.296,000 e euro 3.000.000) che il contribuente deve corrispondere al fisco a causa delle proper un totale di euro 12.794.000 non dichiarati a suo tempo. prie inadempienze, inattività, violazioni o inosservanze di qualche L’ufficio era venuto a conoscenza di tali importi in quanto gli norma che si concretizza in campo fiscale nel fatto di non aver corstessi compensi erano stati dichiarati dai sostituti d’imposta con risposto fin d’allora le relative imposte, calcolate in modo corretto. mod. 770 per l’anno 1999, percepiti dal ricorrente. Il Collegio giudicante non ritiene di voler sanzionare il comporNel proprio ricorso parte ricorrente non contestava le singole vo- tamento del contribuente tenuto conto che lo stesso era affetto da ci sopra citate e di conseguenza i relativi importi, ma sottolinea- gravi malattie le cui pezze giustificative risultano allegate al fava il fatto che era ed è una persona ammalata (stato di salute scicolo processuale. molto precario). La sezione giudicante lette attentamente le carte fornite dalla parAllegava al proprio ricorso copia fotocopiata di certificati medi- te, in particolar modo visto con attenzione il carteggio medico-clici, esami clinici e quanto di simile. nico, tra l’altro ben nutrito di reperti sanitari e cartelle mediche, Affermava che era disposto a pagare le imposte ma non le san- quali: attestato di invalidità civile rilasciato dalla Commissione sazioni vere e proprie, a causa della malattia. nitaria della Regione Lombardia, da cui risultava un’invalidità toL’ufficio si costituiva in giudizio il 25 marzo 2008, affermando la tale e permanente nella misura del 100%; nonché documentabontà del proprio operato e sottolineava il fatto che il ricorrente zione rilasciata da specialista in psichiatria, sulle malattie o menon aveva contestato le singole riprese, neppure in modo molto nomazioni di cui il contribuente era ed è affetto, ed altro ancora. pacato. Non condivideva il comportamento del contribuente che Tutta la documentazione medico-sanitaria che è di supporto al era dipeso unicamente dal proprio stato di salute, situazione che ricorso ha convinto il Collegio giudicante ad annullare le sanziogli avrebbe impedito di rispondere all’invito dell’ufficio, produ- ni inflitte dall’ufficio (cumulo giuridico ed altro) in quanto il comcendo copiosa documentazione sanitaria. portamento del contribuente era dipeso unicamente dallo stato Alla stregua di ciò, l’ufficio chiedeva il rigetto del ricorso. di salute (sempre peggiorativo) dello stesso ricorrente. Presenti all’udienza le parti che hanno insistito nelle proprie ri- Ritiene corretto il Collegio annullare le sanzioni ai sensi dell’art. chieste ed eccezioni. 4 del D.Lgs. n. 472/1997, che così recita: «Non può essere asIl Collegio giudicante distingue il problema in due aspetti: il pri- soggettato a sanzione chi, al momento in cui ha commesso il fatmo riguardante le imposte, e il secondo le sanzioni. to, non aveva, in base ai criteri indicati nel codice penale, la caCirca il primo punto, il Collegio non può che confermare l’ope- pacità di intendere e di volere». rato dell’ufficio, tenuto conto che il maggiore reddito non di- La sezione giudicante ha tenuto conto della malattia del ricorchiarato scaturiva da un avviso di accertamento redatto ai sensi rente.

mento in cui ha commesso il fatto, non aveva, in base ai criteri indicati nel codice penale, la capacità di intendere e volere». Viene, quindi, affrontato innovativamente il tema della punibilità Premessa La sentenza dei giudici milanesi rappresenta uno dei primi esem- del contribuente che non adempie i propri obblighi tributari in pi applicativi dell’art. 4 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 se- quanto affetto da grave malattia1. Tale stato, puntualmente docondo cui «non può essere assoggettato a sanzione chi, al mo- cumentato durante il processo, è ritenuto idoneo ad escludere la Nota di Silvia Giorgi

1 La sentenza viene individuata come espressione di “diritto mite” da AZZONI, L’incapacità d’intendere e volere del contribuente, in

Boll. Trib., 2009, 319; si veda anche il commento di BATISTONI FERRARA, Sanzione amministrativa tributaria e capacità d’intendere e

di volere del trasgressore, in Riv. Giur. Trib., 2009, 270.


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capacità d’intendere e volere del soggetto e, di conseguenza, la stessa applicazione della sanzione ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 472/1997. Nel caso di specie, il contribuente, ricorreva avverso un avviso di accertamento per omessa dichiarazione Irpef, affermando la propria disponibilità «a pagare le imposte, ma non le sanzioni vere e proprie, a causa della malattia». Di conseguenza, il Collegio, constatato che il ricorrente non contestava il tributo, si è concentrato sul profilo sanzionatorio. In prima battuta, ha osservato che «la sanzione è il quantum, vale a dire la misura punitiva che il contribuente deve corrispondere al fisco a causa delle proprie inadempienze, inattività, violazioni o inosservanze di qualche norma che si concretizza in campo fiscale nel fatto di non aver corrisposto fin d’allora le relative imposte, calcolate in modo corretto». Nonostante la condotta materiale – consistente nell’omessa presentazione della dichiarazione Irpef – integrasse gli estremi della violazione, la Commissione ha ritenuto che tale comportamento fosse «dipeso unicamente dallo stato di salute (sempre peggiorativo) dello stesso ricorrente». In particolare è stato attribuito particolare rilievo al «carteggio medico-clinico, tra l’altro ben nutrito di reperti sanitari e cartelle mediche, quali: attestato d’invalidità civile rilasciato dalla Commissione sanitaria della Regione Lombardia, da cui risultava un’invalidità totale e permanente nella misura del 100%; nonché documentazione rilasciata da specialista in psichiatria, sulle malattie o menomazioni di cui il contribuente era ed è affetto, ad altro ancora». Proprio tale documentazione, ha indotto il Collegio ad escludere che il soggetto fosse capace d’intendere e volere e lo ha convinto ad annullare le sanzioni ai sensi del succitato art. 4. La pronuncia in esame offre lo spunto per una riflessione sull’imputabilità, istituto tradizionalmente di scarso interesse per il tributarista, costretto a recepire sic et simpliciter le soluzioni penalistiche; infatti, l’espresso rinvio al codice penale, quanto ai criteri per escludere la capacità d’intendere e volere, finisce per comprimere ulteriormente l’appeal di una problematica già di per sé «assolutamente marginale per la materia tributaria»2. L’imputabilità nel diritto penale: cenni Posto che lo stesso art. 4, D.Lgs. 472/1997 prescrive di valutare la capacità d’intendere e volere del contribuente a rischio di sanzione tributaria alla stregua dei criteri penalistici, è inevitabile accennare alle disposizioni del codice penale in materia. L’art. 85 c.p. concepisce l’imputabilità coma la sintesi delle condizioni fisio-psichiche necessarie per ascrivere la commissione del fatto alla responsabilità dell’autore3. Si articola da un lato nella capacità d’intendere, ovvero nel momento (puramente intellettivo) della «comprensione del mondo esterno secondo parametri di normalità»4; dall’altro, nella capacità di volere, ovvero

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DEL FEDERICO, Violazioni e sanzioni in materia tributaria, in Enc. Giur., Roma, 2002, 6; TOSI, Profili soggettivi della disciplina delle sanzioni tributarie, in Rass. Trib., 1999, 1328. ROMANO-GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, 2005, sub art. 85, 14. Ibidem. RUSSO, sub art. 85, in AA.VV., Codice penale, a cura di Padovani, Milano, 2005, 504. In estrema sintesi, la psichiatria forense oscilla tra tre diversi paradigmi. Il primo, medico-organicistico, attribuisce rilievo alle sole malattie del sistema nervoso riconducibile a ben precise tavole nosografiche. La stessa giurisprudenza tende a far riferimento a tale modello, pur dimostrando importanti aperture: l’art. 88 c.p. viene infatti applicato

«nell’attitudine del soggetto a esercitare il controllo su stimoli e reazioni, ad attivare meccanismi psicologici di impulso e di inibizione in attuazione di decisioni assunte in conformità alla propria comprensione della realtà e alle opzioni conseguenti». Il codice penale, prosegue con l’elencazione delle cause che escludono o affievoliscono l’imputabilità, ricomprendendo sia situazioni di alterazione patologica (infermità di mente all’art. 88 c.p., nonché azione dell’alcol o degli stupefacenti se dovute a caso fortuito o forza maggiore art, 91 c.p.) sia di immaturità fisiologica 5(minore età, sordomutismo se compromette effettivamente la capacità d’intendere e volere 96 c.p.). Per quanto concerne il minore di anni quattordici è esclusa l’imputabilità in assoluto (art. 97 c.p.); per chi, invece, ha un’età compresa fra i quattordici ed i diciotto anni la capacità d’intendere e volere deve essere accertata caso per caso (art. 98 c.p.). La sentenza in commento ricollega chiaramente la non-imputabilità del contribuente al suo stato di salute; sembra, quindi, affermare l’incapacità d’intendere e volere per infermità di mente del soggetto, in quanto viene attribuito rilievo all’attestato d’invalidità nonché alla documentazione rilasciata da specialista in psichiatria. Pare, così, opportuno spendere qualche parola sulla nozione penalistica d’infermità mentale. L’art. 88 c.p. individua nel vizio di mente una causa di esclusione dell’imputabilità, ma non si cura di delimitarne il confine, preferendo rinviare alle acquisizioni della scienza psichiatrica. Secondo l’intendimento dei compilatori del codice, di fatto, tale condizione era circoscritta a patologie rientranti in quadri nosografici ben definiti. Sennonché, progressivamente nel tempo, si è andata affermando un’accezione più ampia d’infermità psichica, tesa a ricomprendere anche anomalie psichiche diverse dalle malattie psichiatriche in senso stretto6, svincolate da rigide classificazioni cliniche. Ne è derivato uno scenario in cui i confini dell’infermità mentale sono talmente mobili da far parlare di crisi dello stesso concetto d’imputabilità, rimanendo come unica consapevolezza quella dell’incertezza del sapere scientifico7. La stessa giurisprudenza non può che prendere atto dell’eventualità – tutt’altro che infrequente – che «le conclusioni degli esperti che hanno ricevuto incarico di eseguire perizia psichiatrica sull’imputato» possano essere «insanabilmente divergenti»8. Si tenga presente che, dal punto di vista processuale, l’accertamento della capacità d’intendere e volere, rappresenta una questione di fatto di competenza del giudice di merito. Di conseguenza, il controllo di legittimità cade esclusivamente sui «criteri che hanno determinato la scelta tra le opposte tesi scientifiche: il che equivale a verificare se il giudice di merito abbia dato congrua ragione della scelta e si sia soffermato sulla tesi che ha creduto di non dover seguire e se, nell’effettuare tale operazione, ab-

spesso anche a psicosi prive di classificazione nosografica; si richiede, tuttavia, che si tratti di vere e proprie patologie. Il secondo paradigma, psicologico, recentemente accolto anche in sede giurisprudenziale, dilata l’accezione d’infermità mentale anche a quei disturbi non ricollegabili a specifiche patologie. Da ultimo, il paradigma sociologico svincola l’infermità mentale da cause di natura organica o psicologica e lo ancora a condizionamenti di tipo sociale. Per approfondimenti, BERTOLINO, La crisi del concetto d’imputabilità, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1981, 190; ID., Profili vecchi e nuovi dell’imputabilità penale e della sua crisi, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1988, 202. 7 BERTOLINO, Le incertezze della scienze a le

certezze del diritto a confronto sul tema dell’infermità mentale, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2006, 539. Il tentativo di superamento della crisi del concetto d’imputabilità passa attraverso l’elaborazione di sistemi diagnostici condivisi. Tuttavia l’autrice osserva che nemmeno tale risposta offre prospettive rassicuranti. In ogni caso, si tenga presente che la sessa giurisprudenza della Cassazione, nell’accogliere un concetto psicologico di malattia mentale, ha richiamato uno dei più diffusi manuali diagnostici che include anche i disturbi della personalità tra le malattie mentali. Cass., sez. un., 25 gennaio 2005, n. 9163, in Cass. Pen., 2005, 1851. 8 Cass., 24 maggio 2000, n. 8056, in Cass. Pen., 2001, 1875.


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bia tenuto costantemente presenti le altre risultanze processuali e Indubbiamente, la necessità di una più radicale emancipazione abbia con queste confrontato le tesi recepite»9. dall’originario alveo penalistico si avverte nella fase di accertamento dell’incapacità d’intendere e volere. L’imputabilità nel diritto tributario Il dato critico sta nella difficoltà di prova, al momento della comCom’è stato osservato, nonostante l’art. 4 del D.Lgs. 472/1997 missione del fatto, da un punto di vista empirico-scientifico. In rinvii integralmente ai criteri penalistici, «la questione dell’impu- altre parole, il problema della prova dell’incapacità d’intendere e tabilità nel diritto penale affiora con un’ampiezza di problemati- volere passa necessariamente attraverso regole d’esperienza17. che sostanzialmente estranee al diritto tributario»10. S’impone Sul piano dell’applicazione concreta, la giurisprudenza penale, pertanto, la rinuncia ad un’acritica ricezione delle soluzioni ela- pur non univoca, si è dimostrata alquanto rigorosa18. Da qui l’eborate nella diversa sedes materiae, a vantaggio di una ricostruzio- sigenza di una maggior indulgenza in materia tributaria, se non ne che, senza perdere di vista la matrice penale, possa adattarsi si vuole relegare la disposizione di cui all’art. 4, D.Lgs. 472/1997 alle caratteristiche strutturali e processuali dell’illecito tributa- tra le mere affermazioni di principio19. In linea generale, compete alla parte esibire atti, consulenze, dorio11. In primo luogo, emergono profili di criticità dalla disposizione cumenti idonei a comprovare il proprio stato20; tuttavia, non è da penalistica che afferma l’imputabilità dei minori d’età compresa escludere il rischio di connivenze con specialisti compiacenti ed, tra i quattordici ed i diciotto anni, prevedendo però in tal caso in tale evenienza, si dovrebbe ammettere il ricorso ai poteri una diminuzione della pena. Taluni, infatti, ritengono che la sog- istruttori della Commissione, in particolare alla consulenza tecgettività tributaria presupponga necessariamente quella di dirit- nica, posto che l’accertamento dello stato d’infermità può ben to civile, non essendo ipotizzabile che un minore gestisca auto- rendere necessario «acquisire elementi conoscitivi di particolare nomamente il rapporto tributario12. Non a caso l’art. 2 della leg- complessità» (art. 7, comma 2, D.Lgs. 472/1997). Invero, l’ipoge n. 689/1981 recide ogni dubbio a riguardo, limitando l’im- tesi è alquanto astratta giacché il giudizio tributario, per sua naputabilità ai maggiorenni. tura, sopravviene a distanza di anni dal momento di consumaTuttavia, non è esclusa una qualche rilevanza applicativa della zione dell’illecito21. disposizione penalistica nel caso in cui il minore, che abbia com- È opportuno evidenziare che, in materia tributaria, l’accertata piuto i quattordici anni, sia stato emancipato ed autorizzato al- non-imputabilità priva la violazione di ogni conseguenza: non l’esercizio dell’impresa o concorra nella violazione ex art. 9 del solo, infatti, il trasgressore andrà indenne da sanzione, ma anche D.Lgs. 472/199713. da qualsivoglia altra misura. Di converso, per l’autore l’illecito Il codice penale, contempla poi ipotesi di imputabilità ridotta, penale, il difetto d’imputabilità non esclude l’applicazione di mima non esclusa, (artt. 89, 91 comma 2, e 96 comma 2, c.p.) che sure si sicurezza laddove venga accertata la pericolosità sociale determinano una diminuzione della pena; nonché un sistema di del soggetto22. aggravanti ed attenuanti a fronte di particolari circostanze14. La trasposizione di tale disciplina in materia tributaria15, si scontra Il caso in esame con la secca previsione di cui all’art. 4 che ignora del tutto l’e- La pronuncia dei giudici milanesi merita di essere condivisa. ventualità di una ridotta capacità d’agire, nonché con il sistema Non si può che accogliere con favore l’applicazione nel sistema sanzionatorio generale, impermeabile alla logica di attenuanti ed tributario di un istituto finora negletto, ma d’indiscussa imporaggravanti. Unica strada percorribile, pare quella di considerare tanza sistematica23. Ciononostante, la pregnanza della questione tali circostanze in sede di determinazione della sanzione, ai sen- trattata, oltre che l’ assoluta originalità per la materia tributaria, si dell’art. 7 del D.Lgs. 472/199716. avrebbe dovuto sollecitare una motivazione più articolata.

9 Cass., n. 8056/2000, cit., in Cass. Pen., 2001, 1875. 10 AMBROSETTI, sub art. 4, in AA.VV., Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria, a cura di Moschetti e Tosi, Padova, 2000, 146. 11 LANZI-ALDROVANDI, L’illecito tributario, Padova, 2001, 15. 12 BELLAGAMBA-CARITI, Le nuove sanzioni tributarie, Milano, 1998, 21 ss. 13 DEL FEDERICO, op. cit., 6. 14 Ad esempio, l’ubriachezza e l’intossicazione da stupefacenti, quando siano preordinate al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa, comportano un aumento di pena. 15 La cui applicazione concreta potrebbe non essere del tutto inverosimile. Si pensi all’ipotesi del vizio parziale di mente che determina una riduzione della pena. 16 LANZI-ALDROVANDI, L’illecito tributario, cit., 18. 17 ROMANO-GRASSO, op. cit., 16. La valutazione spetta ovviamente al giudice, anche se strumento pressoché essenziale per la diagnosi d’infermità mentale è la perizia psichiatrica. Da qui il delicato problema della delimitazione di competenze tra giudice e perito. 18 Viene attribuito rilievo innanzitutto al nesso eziologico tra lo stato d’infermità ed il comportamento deviante, Cass. pen., sez. un., 25

gennaio 2005 n. 9163, in Cass. Pen., 2005, 1851. A titolo meramente esemplificativo, si tende ad escludere dal novero delle infermità sia lo stato di senilità, se non associato ad una vera e propria patologia (Cass., 16 novembre 1983, in Riv. Pen., 1985, 44); sia l’insufficienza mentale dovuta a sfavorevoli condizioni ambientali, culturali e sociali (Cass., 10 dicembre 1984, in Riv. Pen. 1985, 1088), sia i disturbi alimentari, sia le cd. reazioni a corto circuito (Cass., 11 ottobre 1995, n. 11373 in Cass. Pen., 1997, 414; contra, Cass., 2 luglio 1990, in Giust. Pen., 1991, 301). 19 AMBROSETTI, op. cit., 149. 20 BELLAGAMBA-CARITI, op. cit., 24. 21 Si tenga presente, infatti, che solitamente gli uffici procedono alla notifica dell’accertamento in prossimità della consunzione dei termini; quindi almeno quattro anni dopo la presentazione della dichiarazione. 22 LANZI-ALDROVANDI, op. cit., 19. 23 TOSI, Profili soggettivi, cit.,1336; BATISTONI FERRARA, Principio di personalità, elemento soggettivo e responsabilità del contribuente, in Dir. e Prat. Trib., 1999, 1509. Gli autori ne sottolineano lo stretto collegamento con l’introduzione del principio personalistico ad opera del D.Lgs. 472/1997. Peraltro, già prima dell’introduzione dell’art. 4, si sottolinea-

va la necessità che il sistema sanzionatorio tributario accogliesse tale ineludibile principio di civiltà giuridica. DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 305. Si tenga presente che l’art. 7 del D.L. 269/2003 prevede che le sanzioni relative al rapporto fiscale delle persone giuridiche sono esclusivamente a carico di queste ultime. La dottrina maggioritaria ritiene, a riguardo, che le disposizioni del D.Lgs. 472/1997 di spiccata matrice personalistica – tra le quali anche l’art. 4 – siano di fatto implicitamente abrogate per le sole persone giuridiche. Di converso, dottrina minoritaria ma autorevole, ha proposto un’interpretazione dell’art. 7, D.L. 269/2003 idonea a superarne le lacune applicative. In particolare, si sostiene che l’art. 7 incide solo sulle norme del decreto 472/1997 che riguardano i rapporti tra autore materiale e responsabile per la sanzione (coobligazione solidale e concorso nell’illecito). Non impatta, invece, sulla struttura soggettiva della responsabilità accolta dal D.Lgs. 472/1997, limitandosi a porre le sanzioni a carico della persona giuridica. GALLO, L’impresa e la responsabilità per le sanzioni amministrative tributarie, in Rass. Trib., 2005, 11.


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Il Collegio, infatti, fonda interamente la decisione sulle “gravi malattie” che affliggono il contribuente. Viene spontaneo commentare che, di per sé, la grave malattia potrebbe non intaccare la capacità d’intendere e volere del soggetto, potendo tranquillamente comprometterne la sola “normalità fisica”. In tal caso, la non punibilità del contribuente potrebbe al più derivare dall’invocazione della forza maggiore24, ovvero di un fatto umano o naturale, che renda materialmente impossibile l’ adempimento delle disposizioni tributarie25. È appena il caso di osservare che sussiste, sotto il profilo dogmatico, una differenza rilevante tra i due istituti: se, infatti l’imputabilità costituisce presupposto della colpevolezza, la forza maggiore è annoverata nel diritto tributario tra le mere cause di non punibilità. Conseguentemente, qualora sussistesse una condizione d’incapacità d’intendere e volere sarebbe negata la stessa configurabilità dell’illecito; mentre nel caso in cui venga accertata la forza maggiore sarebbe esclusa la sola assoggettabilità a sanzione26. Peraltro, dal punto di vista applicativo, le differenze andrebbero ridimensionate, posto che, in entrambe le ipotesi, spetta al contribuente eccepire circostanze idonee ad escluderne la punibilità;

né il diritto tributario contempla la varietà di formule di proscioglimento proprie del processo penale. Suscita, comunque, qualche perplessità la sentenza nella parte in cui non ha accertato e motivato il “tipo” di patologia rilevante nella concreta fattispecie, non consentendo di valutare se sussistessero i presupposti per affermare una ridotta – ma non del tutto esclusa – capacità d’intendere e volere; il che avrebbe inciso sul quantum sanzionatorio ai sensi dell’art. 7 del D.Lgs. 472/2997, senza poter impattare sull’an. L’unico appiglio che trapela dalla pronuncia e suffraga, quantomeno, la tesi del difetto d’imputabilità dovuto ad infermità mentale, sembra essere la «documentazione rilasciata da specialista in psichiatria». Tale elemento, unito all’attestato d’invalidità totale e permanente, autorizza ad avallare la pronuncia dei giudici milanesi, sottintendendo una patologia mentale di particolare gravità. In conclusione, la soluzione adottata dalla Commissione tributaria provinciale di Milano pare corretta ed è anzi auspicabile che la giurisprudenza tributaria, nel contesto quanto mai rigoroso del sistema sanzionatorio, valorizzi maggiormente il profilo soggettivo e gli istituti di garanzia.

NON APPLICABILITÀ DI SANZIONI ALL’OMESSO VERSAMENTO DI RITENUTE ALLA FONTE PER TITOLO ANTERIORE ALL’INIZIO DELLE PROCEDURE CONCORSUALI 75

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 22 gennaio 2009, n. 20 Presidente: Nicastro - Relatore: Montanari

Sanzioni amministrative - Procedura concorsuale di amministrazione controllata - Ritenute sul reddito di lavoro dipendente con titolo anteriore ma termine successivo all’ inizio della procedura - Omesso versamento - Sanzione - Illegittimità - Imprenditore tornato in bonis - Mancato versamento spontaneo delle ritenute Punibilità - Esclusione (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 166, 167, 168, 188 (nel testo anteriore alla riforma attuata con D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e con D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169); D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 23; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 17) In caso di procedure concorsuali, non possono essere applicate sanzioni per l’omesso versamento di ritenute sui redditi di lavoro dipendente aventi titolo anteriore all’inizio della procedura, ma scadenza del termine di versamento successivo all’avvio di detta procedura, poiché non possono essere eseguite pa-

24 Per la verità difficilmente configurabile in materia tributaria. Si tenga presente, infatti, che solitamente non ne è ammessa l’invocazione nemmeno in caso di dissesto finanziario. AMBROSETTI, op. cit., 195. 25 Si veda, a riguardo, una discutibile sentenza della Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, n. 290 del 16 maggio 2007, con nota critica di BATISTONI FERRARA, I giudici di merito esonerano il contribuente tossicodipendente dall’applicazione delle sanzioni, in Corr. Trib., 2007, 2110. L’autore non condivide la pronuncia di merito che annulla le sanzioni a carico del contribuente affetto da grave forma

gamenti al di fuori delle regole del concorso, né risulta sanzionabile il mancato versamento “spontaneo” di tali ritenute da parte dell’imprenditore tornato in bonis, dovendo l’amministrazione attivarsi, come tutti gli altri creditori, per richiedere il pagamento del proprio credito. Svolgimento del processo La N. S.r.l. ricorre avverso silenzio rifiuto opposto dall’Agenzia delle Entrate all’istanza di rimborso, quanto ad euro 54.470,40, di sanzioni irrogate per omessi versamenti di ritenute su redditi di lavoro dipendente relative al mese di dicembre 2003. La ricorrente deduce che: - in data 12 gennaio 2004 era stata ammessa alla procedura concorsuale di amministrazione controllata ai sensi e per gli effetti dell’art. 166 L.F.; - la procedura concorsuale si era chiusa in data 17 gennaio 2006, giusto decreto, in pari data, del Tribunale di Reggio Emilia, con conseguente suo ritorno in bonis;

di tossicodipendenza, per la quale si era assoggettato a programmi di recupero. Osserva ancora l’autore che, nel caso di specie, non risulta che la tossicodipendenza avesse determinato un’intossicazione patologica qualificabile come vera e propria infermità mentale. Di conseguenza, non si sarebbe nemmeno potuta escludere l’imputabilità del comportamento. 26 Quanto all’inquadramento sistematico dell’imputabilità nel diritto penale, si contrappone un orientamento che la considera una qualificazione giuridica soggettiva afferente alla tematica del reo (MARINI, voce Imputabi-

lità, in Dig. Disc. Pen., 1992, 243) ad un orientamento che la colloca nella teoria generale del reato, come presupposto della colpevolezza (FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2007, 294; ROMANO-GRASSO, op. cit., 2). In riferimento alla forza maggiore, la prevalente dottrina penalistica, la qualifica causa di esclusione della coscienza e volontà della condotta, impedendo che la condotta possa essere considerata propria del soggetto. LEONCINI, sub art. 45, in AA.VV., Codice penale, a cura di Padovani, Milano, 2005, 280.


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- con comunicazione a lei recapitata in data 25 settembre 2006 l’Agenzia delle Entrate, direzione centrale servizi ai contribuenti e relazioni esterne, evidenziava la presenza di anomalie ed irregolarità relative al controllo automatizzato della dichiarazione, modello unico 2004: in particolare veniva evidenziato l’omesso versamento delle ritenute su redditi di lavoro dipendente relative al mese di dicembre 2003 che avrebbero dovuto essere versate in data (rectius: entro il, n.d.r.) 16 gennaio 2004, ritenute che la ricorrente veniva invitata a versare in uno con sanzioni, ridotte, e relativi interessi; - la comunicazione suddetta veniva in parte «sgravata» dall’Agenzia resistente e sostituita con altra comunicata in data 16 ottobre 2006; - provvedeva nel termine di 30 gg. dalla data di cui sopra e, cioè, in data 15 novembre 2006, al versamento delle ritenute suddette e degli interessi, in quanto dovute/i delle sanzioni, anche se non dovute, stante il disposto dell’art. 168 L.F., a puro titolo cautelativo ed al solo scopo di evitare gli atti esecutivi; - con istanza presentata all’Agenzia resistente in data 14 marzo 2007 richiedeva il rimborso delle sanzioni versate; - sulla stessa si formava il silenzio rifiuto avverso cui interponeva gravame; - il suddetto silenzio rifiuto è illegittimo in quanto il versamento delle ritenute, legittimamente, non è stato effettuato ai sensi del combinato disposto degli artt. 188, 167, 168 L.F. che prevedeva, a favore dei soggetti ammessi alla procedura di amministrazione controllata, la cd. moratoria dei pagamenti, ai sensi della quale, agli stessi, è inibito procedere al pagamento dei debiti pregressi, «anche se nei confronti dell’amministrazione finanziaria»; - in una fattispecie del tutto analoga la Cassazione, n. 24071/2006, si è già pronunciata per la non debenza delle sanzioni; - l’istanza di cui sopra è, pertanto, fondata e l’Agenzia resistente deve essere condannata al rimborso della somma richiesta in uno con i relativi interessi. L’Agenzia si costituisce in giudizio con controdeduzioni con le quali: - «in via pregiudiziale eccepisce» e chiede venga dichiarata «l’inammissibilità del ricorso di cui è causa in quanto il rapporto tributario è orami divenuto definitivo a seguito dello spontaneo pagamento, da parte del contribuente, dell’avviso bonario»; - nel merito afferma di essere «pienamente d’accordo con la ricostruzione normativa e giurisprudenziale esposta dalla ricorrente in merito al congelamento dei debiti pregressi per i soggetti ammessi alla procedura di amministrazione» controllata ma che «la questione che qui ci occupa, però, non ha riguardo al periodo durante il quale la controparte è stata sottoesposta alla procedura concorsuale bensì a quello che è accaduto successivamente al 18 gennaio 2006, data di deposito del decreto di cessazione della procedura. La sanzionabilità dell’omesso versamento delle ritenute, infatti, trova il proprio fondamento nel fatto che dopo il ritorno in bonis la contribuente non ha adempiuto spontaneamente al proprio obbligo, ma ha atteso ben dieci mesi ed ha provveduto al pagamento solo dopo esplicita richiesta dell’amministrazione»: sotto tale profilo chiede il rigetto del ricorso.

All’udienza dibattimentale le parti si riportano alle proprie deduzioni scritte. Motivi della decisione L’eccezione d’inammissibilità del ricorso, sollevata in via pregiudiziale dall’Agenzia, risulta infondata e va respinta: invero, avendo la ricorrente provveduto, nei termini di rito, a presentare formale istanza di rimborso di quanto cautelativamente versato, ed avendo impugnato, sempre nei termini di rito, il silenzio rifiuto formatosi, deve affermarsi che il rapporto tributario non è divenuto definitivo, ma è ancora da ritenersi sub iudice essendo stata la sua legittimità dedotta in giudizio ai sensi della lett. g dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992. Passando ora al merito del ricorso va, al contrario, affermata la fondatezza delle doglianze della ricorrente; invero appaiono del tutto condivisibili le argomentazioni, da integrare in questa sede, prospettate in ordine alla non debenza delle sanzioni: le ritenute sui redditi di lavoro dipendente non sono state, legittimamente, versate, in quanto era proibito, ai sensi della legge fallimentare, versarle, trovandosi la ricorrente, al momento dello spirare del termine entro cui il versamento sarebbe dovuto avvenire, assoggettata alla procedura concorsuale dell’amministrazione controllata ed avendo le ritenute «titolo o causa» anteriore al decreto di ammissione alla procedura stessa; è principio generale del diritto, e questa è la integrazione che va apportata alla suddette argomentazioni, che non può essere sanzionato un comportamento legittimamente tenuto; non appare invece condivisibile la tesi sostenuta dall’Agenzia secondo cui la sanzionabilità dell’omesso versamento delle ritenute troverebbe il proprio fondamento non nel fatto che le ritenute non siano state versate in costanza di procedura concorsuale, ma nel fatto che dopo il ritorno in bonis la ricorrente non avrebbe adempiuto spontaneamente al proprio obbligo, ma avrebbe provveduto al pagamento solo dopo esplicita richiesta dell’amministrazione invero questa prospettazione non appare supportata da alcun riscontro documentale (nella citata comunicazione non è rinvenibile alcun riferimento a tale distinguo, alla procedura concorsuale, al ritorno in bonis) e pertanto va qualificata, più che altro, come un tentativo di giustificazione, a posteriori, di una procedura che ci si è resi conto, essere illegittima; ma, v’è di più: anche qualora risultasse documentalmente provato che tale distinguo avesse, fin dall’inizio, indirizzato il consapevole comportamento dell’Agenzia resistente, questo non sarebbe stato, comunque, legittimo posto che il ritorno in bonis non obbligava la ricorrente ad un immediato versamento delle ritenute, quasi che riprendesse a decorrere l’iniziale termine «interrotto» dal decreto di ammissione alla procedura, ma, unicamente, autorizzava l’Agenzia resistente, come tutti gli altri creditori, alla richiesta del proprio credito, le ritenute, come in effetti è, di fatto, avvenuto; solo una richiesta inevasa, come non è stato nella fattispecie, avrebbe, eventualmente, abilitato l’Agenzia resistente all’irrogazione delle sanzioni; a tutto ciò consegue l’illegittimità del comportamento tenuto dalla stessa e la fondatezza delle doglianze della ricorrente il cui ricorso và, pertanto, accolto; la particolarità della fattispecie dedotta in contenzioso rende equa la compensazione delle spese di giudizio.

quale l’adempimento del dovere di non eseguire pagamenti al di fuori del concorso rende non illegittimo, e quindi non sanzionaLa fattispecie concreta sottoposta all’esame dei giudici bile, il comportamento tenuto dal debitore sottoposto a concorLa sentenza in commento si è inserita nella direzione dell’ormai dato preventivo ovvero ad amministrazione controllata che non consolidato indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo il abbia ottemperato al versamento delle imposte1. Nota di Michele Mauro

1 Cfr., oltre alla pronuncia della Cassazione 10 novembre 2006, n. 24071 richiamata dagli stessi giudici, Cass., 2 luglio 2008, n. 18078; Cass., 2 ottobre 2008, n. 24427.


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La fattispecie concreta ha riguardato l’omesso versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente, operate da una società successivamente assoggettata ad amministrazione controllata, aventi titolo anteriore all’inizio della procedura ma termine di versamento successivo all’avvio di quest’ultima. In particolare la società è stata ammessa alla procedura di amministrazione controllata (al momento attuale non più in vigore – come noto – per via dell’abrogazione prevista dal D.Lgs. n. 5 del 2006) in data immediatamente antecedente alla scadenza del versamento delle suddette ritenute che, pertanto, non sono state versate in virtù della cristallizzazione dei debiti pregressi sottesa a tutte le procedure concorsuali, ivi compresa quella di amministrazione controllata2, la quale, in virtù del combinato disposto degli artt. 188, 167 e 168 della legge fallimentare (vigenti all’epoca dei fatti), inibiva ai creditori per titolo o causa anteriori alla procedura l’esercizio o la prosecuzione delle azioni esecutive sul patrimonio del debitore. Tuttavia al termine della menzionata procedura è stata notificata alla società una comunicazione con la quale era richiesto il versamento delle ritenute unitamente ai relativi interessi ed alle sanzioni. A tal punto la società debitrice ha provveduto, in via cautelativa, al versamento degli importi richiesti presentando, nel contempo, istanza di rimborso con riferimento alle sanzioni versate. Consolidatosi il silenzio rifiuto in ordine a tale richiesta, la società ha proposto ricorso affermando la piena legittimità del proprio comportamento in base alle richiamate disposizioni della legge fallimentare (ossia, il combinato disposto degli artt. 188, 167 e 168 L.F.) che sancivano il dovere di non eseguire pagamenti al di fuori del concorso, ancorché nei confronti dell’amministrazione finanziaria. Quest’ultima, per contro, pur condividendo la ricostruzione normativa prospettata dal contribuente, ha evidenziato come le sanzioni si riferissero all’omesso versamento del debito d’imposta da parte di costui dopo il suo ritorno in bonis, invocando altresì, inopinatamente, la definitività del rapporto tributario in ragione del versamento spontaneo effettuato dalla società debitrice. I giudici, in consonanza con le doglianze del ricorrente, dopo aver ricordato che il rapporto tributario in questione era ancora sub iudice, hanno confermato la legittimità del comportamento del contribuente in quanto quest’ultimo era assoggettato all’amministrazione controllata – in relazione a debiti d’imposta aventi titolo o causa anteriori al decreto di ammissione alla procedura – al momento dello spirare del termine entro cui il versamento sarebbe dovuto avvenire; pertanto un comportamento legittimamente tenuto non poteva essere sanzionato. Parimenti infondata è apparsa loro la tesi dell’amministrazione finanziaria in base alla quale le sanzioni erano, in realtà, da imputare al mancato versamento delle ritenute da parte del contribuente all’epoca del suo ritorno in bonis. Invero – hanno evidenziato i giudici nella sentenza – ancorché le sanzioni irrogate fossero state giustificate in ragione della suddetta prospettazione avanzata dall’amministrazione, ciò che, al contrario, non è apparso supportato da alcun riscontro documentale3, comunque il comportamento del

2 Tale procedura, in particolare, presupponendo uno stato d’insolvenza temporaneo e reversibile, svolgeva una funzione cautelare in quanto era finalizzata a realizzare il successivo integrale adempimento delle obbligazioni contratte dall’imprenditore mediante la proposizione, da parte di tale soggetto, di un piano di risanamento da attuare sotto il controllo del commissario giudiziale nominato dal tribunale.

contribuente sarebbe stato legittimo poiché il suo ritorno in bonis, lungi dall’obbligarlo a provvedere al versamento del debito d’imposta, era unicamente idoneo a consentire all’amministrazione finanziaria, come a tutti gli altri creditori, la riscossione del proprio credito il cui eventuale esito negativo le avrebbe permesso, eventualmente, di irrogare le relative sanzioni. La soggezione dell’erario alle regole del concorso in ordine alla soddisfazione delle proprie pretese durante le procedure concorsuali I principi sanciti dalla presente pronuncia appaiono condivisibili nonché apprezzabili secondo la prospettiva tesa all’individuazione del corretto equilibrio tra le esigenze poste alla base delle procedure concorsuali e le prerogative erariali. Invero, come noto, una delle finalità primarie sottesa a tutte le procedure concorsuali, compresa quella di amministrazione controllata che ha costituito oggetto del giudizio in argomento, è quella di tutelare gli interessi dei creditori dell’imprenditore che versa in stato d’insolvenza, sia esso reversibile o meno. A tale finalità si contrappone, evidentemente, l’interesse fiscale alla riscossione dei tributi che mantiene la propria rilevanza anche nell’ambito delle suddette procedure. Si rende pertanto necessario risolvere il descritto contrasto tra obiettivi differenti mediante il razionale contemperamento di interessi opposti che sicuramente risultano entrambi meritevoli di tutela4. In base alla formulazione letterale delle già evidenziate disposizioni della legge fallimentare, peraltro non contraddette da alcuna norma speciale sulla riscossione dei crediti tributari, non è dato rinvenire alcuna differenziazione tra l’erario e gli altri creditori dell’imprenditore in crisi per ciò che attiene alla cristallizzazione dei debiti anteriori all’avvio della procedura concorsuale (nella specie amministrazione controllata). Pertanto, come asserito dai giudici nella sentenza in commento con riguardo al versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente, è da ritenere che l’erario soggiaccia, come tutti i creditori, alle regole del concorso, con la conseguenza che il soggetto attivo del prelievo, ancorché qualificato dalla veste pubblica, non è in grado di azionare, durante la procedura concorsuale, le proprie pretese aventi titolo anteriore all’avvio di quest’ultima; di conseguenza, eventuali pagamenti effettuati dal contribuente in violazione delle regole del concorso sarebbero inefficaci ai sensi degli artt. 167 e 168 L.F. Inoltre, l’affermata equiparazione dell’erario agli altri creditori in ordine alla riscossione dei crediti in costanza della procedura concorsuale implica che anche al termine di questa l’amministrazione finanziaria debba, come tutti gli altri creditori, attivarsi nei confronti del soggetto tornato in bonis per riscuotere i propri crediti rimasti insoddisfatti, senza che il soggetto passivo sia obbligato ad assolvere spontaneamente la propria obbligazione. La descritta ricostruzione, evidentemente, sottende come corollario che il comportamento tenuto dal contribuente, consistente nell’omesso versamento dei propri debiti tributari durante la procedura, è da ritenersi legittimo e quindi non sanzionabile. Tale argomentazione, peraltro, è talmente nodale da esser stata specificamente qualificata dalla Commissione tributaria conforme al

3 Invero, dalla cadenza temporale degli eventi narrati sembra più ragionevole ritenere che la notifica dell’avviso di pagamento si è perfezionata successivamente alla chiusura della procedura concorsuale per mero caso, nel senso che, presumibilmente, l’avviso sarebbe potuto giungere alla società ricorrente anche in pendenza della procedura. 4 Peraltro l’evidenziata contrapposizione tra la tutela degli interessi dei creditori concor-

suali e le prerogative erariali, specie nell’ambito della procedura fallimentare, investe, oltre a quello della riscossione, altri profili, sia sostanziali che procedimentali e processuali, che caratterizzano l’atteggiarsi della potestà impositiva e sanzionatoria: su tali problematiche sia consentito rinviare a MAURO, Contributo alle dinamiche tributarie nel fallimento, Roma, 2009.


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principio generale del diritto secondo cui un comportamento le- controllata di cui al giudizio in commento, qualora questa fosse successivamente sfociata nel fallimento. gittimamente tenuto non può essere sanzionato5. Invero, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale Il problematico contemperamento normativo tra l’in- di legittimità, il periodo “sospetto” rilevante ai fini dell’esercizio teresse fiscale e le ragioni degli altri creditori in tema dell’azione revocatoria di cui all’art. 67 L.F. è computato, in cadi riscossione dei crediti nelle procedure concorsuali so di successione del fallimento all’amministrazione controllata L’appurata equiparazione dell’erario agli altri creditori con ri- (così come al concordato preventivo), dalla data di ammissione a guardo alla riscossione dei crediti nel corso dell’amministrazione quest’ultima procedura e non da quella della dichiarazione di controllata, oggetto del giudizio in esame, offre lo spunto per evi- fallimento9. denziare talune incongruenze che sembrano sussistere allor- Pertanto al verificarsi della descritta circostanza, l’erario, nel caso di specie, non avrebbe mai potuto subire la dichiarazione di quando si concentri l’attenzione sulla procedura fallimentare. Invero, nonostante, in tema di riscossione dei crediti, tutte le pro- inefficacia dei pagamenti ricevuti prima dell’avvio dell’amminicedure concorsuali siano pervase dal principio, affermato nella strazione controllata, ciò che, al contrario, sarebbe potuto accapresente sentenza, della parità di trattamento tra tutti i creditori dere nei confronti di altri creditori talvolta addirittura disattencompreso l’erario, nell’ambito del fallimento è necessario pren- dendo le ragioni che hanno indotto il legislatore ad anteporre tadere atto di talune scelte legislative che sembrano svilire tale con- luni crediti a quelli erariali nella fissazione dell’ordine dei privistatazione avallando la prevalenza delle ragioni erariali rispetto legi rilevante anche ai fini delle ripartizioni fallimentari10. alla tutela degli altri creditori del fallito. È, dunque, evidente come le previsioni normative finora richiaIn particolare, si rinvengono talune rigidità delle posizioni tribu- mate, ancorché rispondenti al perseguimento dell’interesse eratarie creditorie e debitorie che rendono gravosa per la massa fal- riale alla riscossione dei tributi ovvero dettate dal carattere publimentare la realizzazione dei propri crediti verso l’erario, con blicistico delle posizioni tributarie debitorie e creditorie, non evidenti ripercussioni, in termini di soddisfazione, verso gli altri sembrino essere giustificate, dal punto di vista assiologico, rispetto alla tutela delle ragioni degli altri creditori concorsuali al cui creditori del fallito. Il riferimento, in specie, è, oltre che alle stringenti prescrizioni soddisfacimento la procedura concorsuale è pure preordinata. procedurali concernenti il rimborso di taluni crediti che la mas- Pertanto appare ragionevole invocare, ai fini del problematico sa concorsuale verosimilmente vanta verso l’erario6, all’ambito di contemperamento legislativo tra gli opposti interessi finora deoperatività della compensazione tributaria in sede fallimentare il scritti, la piena equiparazione dell’erario agli altri creditori conquale, oltre ad essere mitigato dalla nota problematica legata al- corsuali per ciò che attiene alla soddisfazione dei crediti ovvero l’immediata applicabilità dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del all’estinzione dei debiti di natura fiscale, a pena di evocare l’“incontribuente7, è soggetto alle ulteriori questioni relative all’inter- cubo fiscale” del fallimento11 che in passato è stato focalizzato sezione dell’istituto con l’art. 56 della legge fallimentare per ciò dalla dottrina per descrivere la scomoda ed ingombrante presenche attiene a crediti e debiti nati prima del fallimento ovvero do- za del fisco nella procedura fallimentare. po l’avvio della procedura8. In tale spirito, peraltro, devono essere apprezzate le previsioni inTuttavia, la previsione che crea maggiori perplessità nella predi- trodotte dalla riforma della legge fallimentare (legge delega n. lezione dell’interesse fiscale rispetto a quello degli altri creditori 80/2005 attuata con il D.Lgs. n. 5/2006 e con il D.Lgs. n. è l’art. 89 del D.P.R. n. 602/1973 in base al quale l’azione revo- 169/2007) che hanno attenuato alcune rigidità delle pretese eracatoria di cui all’art. 67 della legge fallimentare è esclusa per i riali azionate nell’ambito del fallimento per concretizzare la spepagamenti delle imposte sui redditi scaduti i quali dunque, a dif- ditezza della procedura e realizzare la conveniente liquidazione ferenza dei pagamenti di altri debiti scaduti, non potranno giam- dell’attivo. mai essere considerati inopponibili nei confronti dei creditori Si tratta, in particolare, della facoltà di cedere a terzi i crediti triconcorrenti. butari (art. 106 L.F.) e di assegnare ai creditori che vi consentoPeraltro tale statuizione avrebbe potuto mostrare la propria effi- no, in sede di riparto, i crediti d’imposta del fallito non ancora cacia anche con riguardo alla procedura di amministrazione rimborsati (art. 117 L.F.).

5 È questo il senso che appare logico attribuire all’affermazione della Commissione tributaria secondo cui «[...] è principio generale del diritto, e questa è l’integrazione che va apportata alla suddette argomentazioni, che non può essere sanzionato un comportamento legittimamente tenuto [...]». I giudici, invero, hanno certamente inteso qualificare conformi all’enunciato principio generale del diritto le argomentazioni proposte dal ricorrente – che ha sostenuto la legittimità del proprio comportamento in virtù del fatto che durante la procedura di amministrazione controllata è inibito procedere al pagamento dei debiti pregressi – non potendo, quest’ultime, essere integrate dall’organo giudicante se non con riferimento alle questioni che attengono all’effettività del diritto comunitario. 6 Si tratta, in specie, del problematico rimborso dei crediti vantati frequentemente dalla

massa fallimentare verso l’erario originati dalle dichiarazioni finali del curatore ai fini delle imposte sui redditi (art. 5 del D.P.R. n. 322/1998) e dell’Iva (cfr. circolare n. 26/E del 22 marzo 2002) le quali, dovendo verosimilmente essere presentate dopo la chiusura del fallimento, vanificano la riscossione ed il riparto in favore dei creditori concorrenti da parte del curatore che ha cessato le proprie funzioni. 7 Sulla questione cfr., per tutti, MESSINA, La compensazione nel diritto tributario, Milano, 2006, 118 ss. e specialmente 132 ss. 8 Sull’applicabilità della compensazione tributaria nel fallimento sia consentito riferirsi a MAURO, Brevi osservazioni sulla compensazione tributaria in sede fallimentare, in Boll. Trib., 2007, 1849 ss. 9 Cfr. Cass., 28 novembre 2008, n. 28445; Cass., 23 febbraio 2006, n. 2437; Cass., 16 aprile 2003, n. 6019.

10 Sull’ordine dei privilegi si vedano, in particolare, gli articoli 2777 ss. del Codice civile. Per una disamina completa dei privilegi che attualmente assistono i diversi crediti tributari nel fallimento si veda ROCCO, Il debito fiscale nelle procedure concorsuali, in Dir. e Prat. Trib., 2006, II, 1100 ss. Sul tema si vedano anche i contributi di GLENDI, Privilegi del credito d’imposta, in Enc. Giur., Roma, 1991, XXIV; BATISTONI FERRARA, I privilegi, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, Padova, 1994, II, 317 ss. 11 L’espressione è stata coniata da CALAMANDREI, Il processo civile sotto l’incubo fiscale, in Studi sul processo civile, III, Padova, 1934 e ripresa da PROVINCIALI, Il processo di fallimento sotto l’incubo fiscale, in Dir. Fall., 1958, I, 58, come citato da FALSITTA, La tassazione delle plusvalenze e sopravvenienze nelle imposte sui redditi, Padova, 1986, 259, nota 4.


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ATTI E INTERVENTI LA COMPENSAZIONE DELLE SPESE DI LITE ALLA LUCE DEL NOVELLATO ART. 92 C.P.C.: RIFLESSI SUL PROCESSO TRIBUTARIO di Giovanni Caliceti 1. Premessa: il contesto normativo Dopo lunga e probabilmente assai meditata elaborazione, il 26 maggio 2009 sembra essere giunta a conclusione la riforma del processo civile: la seconda di questo secolo. La legge 18 giugno 2009, n. 69, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 19 giugno 2009, n. 140, suppl. ord. n. 95, è entrata in vigore da subito, naturalmente con esclusivo riferimento ai «giudizi instaurati» a partire dal quattro luglio 20091. Fra i molti istituti rivisitati, il legislatore ha avvertito l’esigenza di rimodulare anche quello della compensazione delle spese di lite come disciplinato dall’art. 92, comma 2, del Codice di procedura civile2. Una norma, quest’ultima, che ha subito nel corso degli ultimi quattro anni ben due interventi di novellazione, tutti ispirati da ragioni deflattive del contenzioso. Il testo originale dell’art. 92, comma 1, c.p.c., infatti, prevedeva che, in caso di «soccombenza reciproca», ovvero qualora concorressero altri «giusti motivi», il giudice potesse compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti3. La norma in esame mutava la propria fisionomia a fronte della promulgazione della recente legge 28 dicembre 2005, n. 263, la quale sanciva l’obbligo, in capo al giudice, di esplicitare nella parte motiva della sentenza le ragioni della compensazione4. Oggi il legislatore dell’ultima riforma ha ritoccato ulteriormente il testo della norma in commento affermando che la compensazione delle spese di lite può esser disposta dal giudice, ovviamente previa esplicita motivazione, oltre che nei casi di soccombenza reciproca, esclusivamente qualora «concorrano altre gravi ed eccezionali ragioni»5. Si persevera, pertanto, nella via intrapresa già nel 2005 allorché venne promulgata una disposizione che, indiscutibilmente, si iscriveva nel solco delle misure deflattive del contenzioso, dirette ad evitare, o comunque a tentare di scoraggiare, l’instaurazione

1 Non è stata prevista alcuna ipotesi di retroattività, ma si registra l’applicazione nell’immediato del principio del tempus regit actum. Per un rapido inquadramento dei precetti arrecati dalla riforma del c.c., cfr. CONSOLO, Una buona “novella” al c.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360-bis e 614-bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr. Giur., 2008, 6, 737 ss.; nonché integralmente il doppio numero di Guida al diritto, 27-28, 2009. 2 Approvato con il R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443, in G.U. 28 ottobre 1940, n. 253. 3 Così il testo ante riforma del 2005 dell’art. 92, comma 2, c.c.: «se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». 4 Così il testo dell’art. 92, comma 2, c.c., a mente della novella apportata dall’art. 2, comma 4, della L. 28 dicembre 2005, n. 263: «se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensa-

di giudizi meramente dilatori tesi unicamente a frustrare e procrastinare il buon diritto della controparte. Occorre però procedere con ordine, ricostruendo le origini e, conseguentemente, le ragioni dell’istituto della compensazione delle spese di lite. Senz’altro nota è la ratio dell’istituto della compensazione che va individuata nella necessità, chiaramente avvertita dal legislatore del processo civile, di contemperare e mitigare la regola secondo cui il carico definitivo delle spese debba gravare sempre sulla parte genericamente soccombente6. Tuttavia, come si desume anche dalla lettura della manualistica, si tratta di una regola che non è imposta da alcun principio costituzionale o anche solo implicitamente interno all’ordinamento. Una siffatta “regola” è dunque suggerita da chiare ragioni di opportunità in considerazione delle quali è logico che essa subisca delle eccezioni ogniqualvolta l’applicazione rigorosa di quella stessa regola possa apparire iniqua o comunque inopportuna. Ecco dunque che il legislatore ha espressamente previsto non solo che il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’art. 91 cit., «possa escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue», ma anche che, sulla base della propria discrezionalità, possa compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti, e ciò non solo nei casi di soccombenza reciproca7, ma anche quando ritenga sussistano altre – ed oggi sempre più qualificate – ragioni. La regola della soccombenza non è quindi un principio generale dell’ordinamento (né interno né internazionale), ma discende da una lettura sistematica delle norme di riferimento. Ecco allora che il rapporto fra l’art. 91 c.p.c. e il successivo art. 92 è stato considerato, dal legislatore del 1940, quale rapporto di genere – specie, perché concede al giudice la possibilità di mitigare la regola giustappunto generale in tema di liquidazione del-

re, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». 5 Così il testo attuale dell’art. 92, cit., come modificato dall’art. 45, comma 11, della L. 18 giugno 2009, n. 69: «il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente [art. 91], può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo 88, essa ha causato all’altra parte. Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti. Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione». 6 Questo il testo della norma: «Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rim-

borso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92. Le spese della sentenza sono liquidate dal cancelliere con nota in margine alla stessa; quelle della notificazione della sentenza, del titolo esecutivo e del precetto sono liquidate dall’ufficiale giudiziario con nota in margine all’originale e alla copia notificata. I reclami contro le liquidazioni di cui al comma precedente sono decisi con le forme previste negli articolo 287 e 288dal capo dell’ufficio a cui appartiene il cancelliere o l’ufficiale giudiziario». 7 Ad es. quando una stessa sentenza accoglie una domanda di parte attrice e poi, su altra domanda, riconosce fondate le ragioni del convenuto.


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le spese di lite se, eccezionalmente, si dovesse riscontrare nel caso concreto la presenza di giusti motivi. La prassi delle aule giudiziarie, tuttavia, ha mostrato, nel corso degli anni, un lento ma graduale ribaltamento della sistematicità e della logicità del precetto normativo appena delineato. È infatti noto agli operatori come sia invalso nelle Corti territoriali, probabilmente sulla base di un’interpretazione estensiva dell’art. 24, comma 1, della Costituzione, il non commendevole uso da parte del giudicante dapprima di non dilungarsi a motivare le ragioni delle compensazione, ovvero di abbondare nell’utilizzo di mere e stereotipe perifrasi di stile, e ciò a fronte di un insegnamento, per vero avvallato da un consistente indirizzo della Corte di Cassazione, secondo cui la compensazione totale o parziale delle spese avrebbe costituito una facoltà assolutamente discrezionale del giudice di merito e quindi, per ciò stesso, insindacabile dal giudice di legittimità. Lo stato di latente disapplicazione del precetto di cui all’art. 91, c.p.c., affiancato dal larghissimo uso che negli anni si è fatto del successivo art. 92, rendeva quanto mai urgente la necessità di metter mano all’impianto normativo di riferimento, accogliendosi fra l’altro i suggerimenti provenienti oramai da anni sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza tutti nel senso dell’evidente necessità di porre un limite a pronunce di compensazione immotivate, scarsamente sorrette da effettive ragioni processuali e quindi assai spesso del tutto inique. Il che, come già accennato, si è puntualmente verificato per il tramite del duplice intervento normativo condotto dal legislatore di riforma della procedura civile prima nel 2005 e, successivamente, nel 2009. 2. L’evoluzione giurisprudenziale 2.1 La posizione dominante L’intento del legislatore del 2005, relativamente ai motivi di compensazione, era chiaramente volto ad eliminare la discrezionalità pressoché totale conferita dalla giurisprudenza di legittimità al giudice di merito, al quale concedeva di compensare le spese per giusti motivi senza obbligo di motivazione, avvallando di fatto il pressoché indiscriminato ricorso a clausole di stile quali «ricorrendo» o «ravvisando» giusti motivi di compensazione. In particolare, l’assenza dell’obbligo di motivazione, rendeva insindacabile, in sede di legittimità, la scelta del giudice di merito, eccettuate le ipotesi di: - ragioni palesemente illogiche, tali da inficiare, stante la loro inconsistenza, lo stesso processo formativo della volontà decisionale espressa sul punto; - parziale o totale soccombenza della parte totalmente vittoriosa8. Questo orientamento era assolutamente maggioritario e giunse addirittura a superare il vaglio di costituzionalità rispetto agli articoli 111 e 24, Cost. In riferimento all’art. 111, che impone l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali, è stato ritenuto inapplicabile alla compensazione delle spese perché la motivazione che la giustifica va posta in relazione e deve essere integrata con la motivazione della sentenza e con tutte le vicende processuali,

8 In particolare cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 1963, n. 1422, Cass., sez. un., 29 marzo 1973, n. 864 e Cass., sez. un., 15 novembre 1994, n. 9597, in Mass., 1994, le quali tutte confermavano l’insindacabilità in sede di legittimità della scelta del giudice di merito sulle spese, ove la discrezionalità sulle spese era ricorribile per cassazione solo per indicazioni di ragioni palesemente illogiche, tali da in-

stante l’inscindibile connessione tra lo svolgimento della causa e la pronuncia sulle spese9. Quanto al secondo precetto costituzionale: è stato affermato che il potere del giudice di compensare le spese per giusti motivi senza specificazioni non è in contrasto con l’art. 24, comma 1, Cost., giacché il provvedimento di compensazione non costituisce ostacolo alla difesa dei propri diritti, non potendosi estendere la garanzia costituzionale dell’effettività della tutela giurisdizionale sino a ricomprendervi anche la condanna del soccombente10. Inoltre è stato escluso il sospetto di incostituzionalità dell’art. 92, c.p.c., laddove consente la compensazione anche per l’ipotesi di soccombenza integrale di una parte, poiché la ragione della disciplina del carico delle spese processuali va ritenuta nell’esigenza di stimolare la parte ad un uso cosciente del proprio diritto di difesa e di evitare che ne abusi per fini dilatori11. 2.2 La posizione minoritaria A fronte del segnalato orientamento costantemente maggioritario si sono riscontrate pronunce di segno contrario, che dagli anni settanta in poi sono divenute sempre più numerose. Dette sentenze affermano dunque l’esistenza in capo al giudice di merito di un vero e proprio obbligo di esplicitare o comunque rendere chiaramente comprensibili le ragioni che hanno condotto a decidere la compensazione per giusti motivi e, conseguentemente, ammettono la sindacabilità dell’omessa motivazione ovvero della sua illogicità o contraddittorietà nel giudizio di legittimità12. In particolare la sentenza della Corte di Cassazione n. 4455 del 4 maggio 199913 argomentava che le ragioni della condanna o compensazione alle spese per soccombenza reciproca, ovvero per il concorso di altri giusti motivi, «se non debbono, (bensì possono) essere specificamente esplicate, devono, però quantomeno, risultare dalla motivazione complessiva del provvedimento giurisdizionale». La sentenza chiosa che solo in questo modo l’orientamento dominante sfugge ai dubbi di costituzionalità sulla base del semplice ed immediato rilievo che altro è affermare la non doverosità della motivazione specifica di un provvedimento giurisdizionale accessorio, altro è affermare, tout court, la non doverosità di alcuna motivazione di una scelta giurisdizionale, fondandola sull’esercizio, da parte del giudice, di un potere discrezionale attribuitogli dalla legge. Sempre a sostegno dell’orientamento minoritario, alcuni più recenti arresti adducono motivazioni simili precisando che la regolazione delle spese è governata dal principio di causalità e che il riconoscimento di uno spazio di pura discrezionalità costituirebbe una anomalia del sistema, risolvendosi in un sostanziale diniego di tutela giurisdizionale, ovvero che la mancanza di motivazione – quantomeno desumibile da quella complessivamente adottata a fondamento dell’intera pronuncia – trasformerebbe in mero arbitrio il potere discrezionale di regolazione affidato al giudice, o, ancora, che la impossibilità di rinvenire nel contesto della decisione complessiva una giustificazione della totale o parziale compensazione delle spese, integrerebbe una palese violazione dell’art. 24, Cost., ancor più evidente quando il valore della causa sia di modesta entità e in concreto economicamente incompatibile rispetto all’entità delle spese processuali14.

ficiare, stante la loro inconsistenza, lo stesso processo formativo della volontà decisionale espressa sul punto. Altre sentenze limitavano poi la discrezionalità del giudice di merito unicamente in caso di compensazione delle spese a danno della parte totalmente vittoriosa, Cass., 8 maggio 1973, n. 1244. 9 In tal senso Cass., 27 novembre 1992, n. 12657, in Mass., 1992.

10 Cfr. Cass., 17 marzo 2004, n. 5405, in banca dati Giuridica. 11 Così motiva la sentenza della Cass., 20 settembre 2004, n. 18857. 12 Cfr. Cass., 9 settembre 1974, n. 2444, nonché Cass., 4 aprile 1979, n. 1973. 13 In Corr. Giur., 12, 2000, 1631, con nota di NAPPI. 14 In tal senso v. Cass., 25 gennaio 2006, n. 1422; Cass., 15 marzo 2006, n. 5783; Cass.,


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3. I profili attinenti il processo tributario La condanna alle spese è stata introdotta nel processo tributario solo con la riforma del 1992. L’art. 39 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, infatti, escludeva espressamente l’applicabilità degli articoli 90-97 del Codice di procedura civile. Tale previsione superò fra l’altro l’eccezione di incostituzionalità con il rilievo che «l’istituto della condanna del soccombente nel pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile»15 e che, nel processo tributario, la deroga era giustificata dalle peculiarità del rito, «pur sempre diverso e più snello dell’ordinario procedimento civile»16. Ora invece, l’art. 15, comma 1, primo periodo, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, stabilisce apertis verbis che «la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese di giudizio che sono liquidate con sentenza». La relazione ministeriale al D.Lgs. n. 546, cit., ricorda che questa regola è stata introdotta in attuazione della legge delega17 innovando la precedente disciplina. La condanna alle spese di soccombenza rappresenta, anche nel processo tributario, l’applicazione del principio costituzionale del diritto alla difesa, desumibile dall’art. 24, Cost., essendo evidente che tale diritto, spettante ad entrambe le parti, verrebbe pregiudicato, quindi non sarebbe effettivo, se, per ottenere la tutela, la parte fosse costretta a sostenere in via definitiva le spese processuali, con ciò subendo un evidente pregiudizio patrimoniale18. La ratio della norma è, anche in questo ambito processuale, quella di evitare una diminuzione patrimoniale alla parte (cioè quasi sempre il contribuente) che ha dovuto svolgere un’attività giurisdizionale per ottenere il riconoscimento e l’attuazione del proprio diritto. A tacer d’altro l’art. 15 cit. si presenta, almeno sotto questo profilo, come logico corollario alla odierna obbligatorietà dell’assistenza tecnico-professionale nei giudizi avanti le Commissioni tributarie. Il giudice tributario deve dunque oggi applicare il principio secondo il quale le spese seguono la soccombenza (cd. victus victori) «per ottenere l’effetto che era nelle intenzioni del legislatore, vale a dire la riduzione del numero delle controversie»19. In riferimento al processo in generale è stato osservato20 che, se «per ottenere il riconoscimento del diritto a 100 si dovesse spendere (senza poter recuperare) 20, se ne dovrebbe desumere che l’ordinamento tutela i diritti all’80% e non nella loro integrità, il che contrasterebbe col fondamento postulato che viceversa vuole i diritti integralmente tutelati». Pertanto, anche nel processo tributario, il principio del victus victori non deve ricercarsi nella colpa di aver sostenuto un proprio diritto, risultato poi in tutto o in parte inesistente, bensì «nel fatto obiettivo della soccombenza: da un lato il vincitore deve ottenere il suo diritto possibilmente integro e non diminuito dalle spese di causa; dall’altro colui che rimane soccombente dimostra con ciò di avere senza ragione causato una lite, o per aver proposto una domanda infondata: o per aver invece resistito ad una domanda che invece era fondata»21.

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30 marzo 2006, n. 7514; Cass., 26 settembre 2007, n. 20017; tutte in CED Cass. Cfr. altresì Cass., sez. un., 30 luglio 2008, n. 20598 e la successiva Cass., sez. un., 30 luglio 2008, n. 20599, entrambe in banca dati Giuridica. Corte cost., 24 novembre 1982, n. 120, in Dir. e Prat. Trib., 1983, II, 120. Corte cost., 24 novembre 1982, n. 120, cit., e TESAURO, Giusto processo e processo tributario, in Rass. Trib., 2006, 56. L. 30 dicembre 1991, n. 413, sub art. 30, lett. i. LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 1997,

Ecco allora che la ratio della condanna alle spese è identica tanto nel processo civile, quanto nel processo tributario, e consiste non in un intento punitivo della parte soccombente bensì nel risarcimento della parte vittoriosa22. Il principio della soccombenza nelle spese come regola generale operante anche innanzi al giudice fiscale ha trovato conferma (indiretta) nella sentenza della Corte costituzionale 12 luglio 2005, n. 27423, la quale ha statuito il contrasto dell’art. 46, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992 rispetto all’art. 3 della Costituzione (principio di ragionevolezza), laddove disponeva che le spese del giudizio estinto, non solo nei casi di definizioni delle pendenze tributarie prevista dalla legge, ma anche in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere, restassero ex lege a carico della parte che le aveva anticipate (cd. “soccombenza virtuale”). Nel solco tracciato dall’importante pronuncia della Corte costituzionale si è inserita tanto la giurisprudenza di merito, quanto, successivamente, quella di legittimità. La Commissione tributaria provinciale di Bologna, nelle sentenza 22 febbraio 2006, n. 2024, ha perciò ritenuto che, qualora la parte stia in giudizio personalmente e questo si estingua per intervenuta cessazione della materia del contendere, è possibile interpretare analogicamente l’art. 15, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 546/1992, ritenendo sussistente il diritto al rimborso per le spese della propria difesa. Se infatti l’art. 15, ult. cit., dispone che «nella liquidazione delle spese a favore dell’ufficio del Ministero delle finanze, se assistito da funzionari dell’amministrazione, e a favore dell’ente locale, se assistito da propri dipendenti, si applica la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato ivi previsti [...]», analogamente si deve ritenere che del beneficio astrattamente previsto da quella norma per una sola parte del processo si possa avvantaggiare anche l’altra, qualora il giudice ne riscontri il presupposto. In senso ulteriormente adesivo rispetto alla citata pronuncia della Consulta non va dimenticata la successiva sentenza delle Suprema Corte di Cassazione, secondo la cui massima, «qualora l’amministrazione finanziaria eserciti il proprio potere di autotutela in modo “egoistico”, per vanificare il diritto di reazione del contribuente, travalicando i precisi ed inderogabili limiti normativi che l’ordinamento pone a regolamentazione dell’esercizio di poteri autoritativi destinati ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei privati, l’amministrazione stessa deve essere condannata alla rifusione delle spese di lite»25. 3.1 La compensazione delle spese quale eccezione alla regola generale L’art. 15, comma 1, secondo periodo del D.Lgs. n. 546/1992, stabilisce che «la Commissione tributaria può dichiarare compensate in tutto o in parte le spese, a norma dell’art. 92, comma 2, del Codice di procedura civile». Dal rinvio espresso all’art. 92, comma 2, c.p.c. discende l’applicazione diretta dei principi e della giurisprudenza di stampo civilistico anche al processo tributario. In particolare sono direttamente applicabili al processo tributario le elaborazioni in tema di

I, 400, oltre a VERNA, Sulle spese di giudizio e sulla prassi di disporne la compensazione nel processo tributario, in Boll. Trib., 2006, 655 ss. 19 STROVATO, L’obbligatorietà della difesa tecnica e la condanna della parte soccombente alle spese del giudizio quali principi fondamentali della riforma del processo tributario, in Fisco, 1997, 6836; VERNA, op. cit. 20 MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Torino, 2004, I, 340. 21 Così LIEBMAN, Manuale di diritto processuale

civile. Principi, Milano, 2002, 117. 22 In tal senso si è espresso PERRUCCI, Riflessioni intorno alle spese del processo tributario, in Boll. Trib., 1234. 23 In Corr. Trib., 2005, 2693, con nota di GLENDI e in Riv. Giur. Trib., 2005, 797, con nota di BRUZZONE. 24 In Riv. Giur. Trib., 2006, 802. 25 Così, Cass., 15 ottobre 2007, n. 21530, in Corr. Trib., 2008, 146.


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giusti motivi che vengono ravvisati in caso di: questioni controverse in dottrina o giurisprudenza; difficile interpretazione di una clausola contrattuale; produzione in appello di nuovi documenti decisivi; comportamento negligente della parte vittoriosa; mancato tentativo di comporre la vertenza in ambito pre-processuale; esiti altalenanti dei giudizi intermedi; riconoscimento da parte del convenuto del diritto dell’attore quando tale riconoscimento sia stato l’unica prova acquisita di tale diritto; mutamento della giurisprudenza intervenuto in corso del giudizio; sopravvenuta illegittimità costituzionale della norma posta a base della sentenza, intervenuta nel corso del giudizio; errore scusabile del soccombente. Anche in ambito tributario è invalsa la prassi (che in questo processo è assurta a vera e propria regola) della compensazione delle spese senza alcuna motivazione e solo adducendo meri richiami a (fantomatici) giusti motivi rinvenuti sulla base di un apprezzamento largamente (e sbrigativamente) discrezionale del giudice e, quindi, in pratica, sulla base di argomenti di tipo equitativo censurabili o meno in Cassazione a seconda di quello degli orientamenti più sopra riportati a cui si intenda aderire.

dittica compensazione delle spese, sia per non ledere i diritti della parte vittoriosa, ma soprattutto, meno aulicamente, per tentare di ridurre il carico delle domande giudiziali troppo spesso determinate da intenti meramente pretestuosi e dilatori. Dalla modifica legislativa del 2005 esce fortemente rafforzato l’assunto per cui se la statuizione sulle spese di lite è accessoria rispetto alla domanda principale, è tuttavia legata a questa dal principio della soccombenza, per cui, se viene accolta la domanda principale ma vengono immotivatamente compensate le spese di lite, al contribuente non rimane altra via che appellare la sentenza relativamente a tale capo, non potendo evidentemente appellare la sentenza anche per la parte ad esso favorevole29. Nemmeno può sfuggire che a fronte della previsione legislativa di in preciso obbligo di motivazione all’atto della compensazione delle spese, la sua omissione integra oggi certamente gli estremi della violazione di legge (art. 92, comma 2, c.p.c., così come novellato nel 2005), denunciabile e sindacabile anche in sede di legittimità30. Del pari è da ritenere possibile il ricorso in Cassazione anche per insufficiente motivazione, nel caso in cui il giudice di merito si sia limitato ad individuare i motivi senza corredare la relativa decisione con argomenti completi ed esaurienti, oltre ovviamente al 3.2 La giurisprudenza tributaria La consolidata giurisprudenza di legittimità afferma che le sen- già riconosciuto motivo di contraddittorietà della motivazione31. tenze delle Commissioni provinciali che pronunciano la compensazione delle spese sono, anche solo con riferimento a tale 4. La Cassazione a sezioni unite del 30 luglio 2008, motivo, impugnabili innanzi alle Commissioni tributarie regio- n. 20598 nali. La compensazione delle spese disposta dalla Commissione Nonostante l’intervento legislativo del 2005, la Corte di Cassaregionale può essere oggetto di ricorso in Cassazione solo se la zione con due sentenze gemelle a sezioni unite32 ha ritenuto che, motivazione è irrazionale o quando manca anche implicitamen- anche per il periodo anteriore all’entrata in vigore della L. n. te, o se è manifestamente in contrasto con le risultanze degli atti 263/2005, fosse tempo di superare la duplicità di orientamenti processuali. giurisprudenziali di cui si è dato conto ai paragrafi 1.1 e 1.2. In sostanza la giurisprudenza tributaria pare accogliere in pieno In esito le sezioni unite hanno accolto la posizione minoritaria e, l’orientamento giurisprudenziale dominante in ambito civilistico traendo spunto dalla motivazione della citata Cassazione n. che sembra ammettere la discrezionalità del giudice di merito 4455/1999, hanno affermato che «non può dubitarsi che se foschiamato a decidere sulla compensazione o meno delle spese di se ipotizzabile un potere discrezionale del giudice nella attribuzione alle parti del costo del processo, la statuizione non esigelite26. Giova a questo punto della trattazione dar conto, evidenziando- rebbe alcuna motivazione, e, quindi, non potrebbe essere inficialo, che anche in ambito tributario è oggi operante la regola se- ta dalla esposizione di una motivazione illogica o contraddittoria condo cui il giudice deve adottare le statuizioni sulle spese anche che, in quanto non doverosa, dovrebbe essere considerata tamqualora la parte non abbia allegato agli atti la consueta notula. quam non esset [...]. Alla stregua dei principi sopra esposti, dovrà Ed infatti, eccezion fatta per il caso in cui una parte vi abbia ritenersi assolto l’obbligo del giudice di dare conto delle ragioni espressamente rinunciato od abbia essa stessa richiesto la com- della compensazione totale o parziale delle spese, oltre che in pensazione27, la giurisprudenza di legittimità è oggi concorde nel presenza di argomenti specificamente riferiti a detta statuizione, ritenere che il caso del mancato deposito della nota non esima il anche allorché le argomentazioni svolte per la statuizione di megiudice tributario dal provvedimento di liquidazione delle spese rito contengano in sé considerazioni giuridiche o di fatto idonee giudiziali, limitandosi tuttavia soltanto a quelle risultanti dagli at- a giustificare la regolazione delle spese adottata. A titolo merati processuali, attesa la doverosità di tale statuizione28. mente esemplificativo, potrebbe ritenersi assolto detto obbligo di motivazione ove si desse atto nella motivazione del provvedi3.3 La legge 28 dicembre 2005, n. 263 e il processo tributario mento di merito (ma sarebbe anche sufficiente che fosse desumiCome osservato nelle premesse l’art. 2, comma 1, lett. a, della L. bile in modo inequivoco dal contesto delle argomentazioni) di n. 263/2005 ha significativamente innovato l’art. 92, comma 2, oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisiva, ovvero di c.p.c., stabilendo che la compensazione anche parziale delle spe- oggettive difficoltà di accertamenti in fatto idonee a incidere sulse deve essere disposta dal giudice indicando esplicitamente nel- la esatta conoscibilità a priori delle attività processuali richieste, la motivazione quali siano i giusti motivi in base ai quali il colle- ovvero, ancora, di un comportamento processuale ingiustificatagio è giunto a siffatta opinione. Tale innovazione manifesta chia- mente restio a proposte conciliative plausibili in relazione alle ramente la volontà del legislatore di ridurre il ricorso alla apo- concrete risultanze processuali, ecc.»33.

26 Cfr. per tutte: Cass., 1 marzo 2005, n. 4305, in Boll. Trib., 2006, 948 ss.; Cass., 19 maggio 1998, n. 4997; Cass., 8 ottobre 1997, n. 9762, tutte comunque reperibili in banca dati Giuridica. 27 Così, Cass., 5 giugno 1987, n. 4922, in Mass., 1987, Cass., 21 aprile 1990, n. 3346, ivi, 1990. 28 Così, Cass., 7 luglio 2006, n. 1557, in CED

Cass. e Cass., 9 febbraio 2000, n. 1540; Cass., 23 aprile 1988, n. 3149, tutte in banca dati Giuridica. 29 In tal senso Comm. trib. reg. Puglia, 9 luglio 2007, n. 61, in questa rivista, 2008, 1, 165 ss. 30 Cass., 19 novembre 2007, n. 23993, in Boll. Trib., 2008, 1366. 31 In tal senso v. CARPI-TARUFFO, Commentario

breve al Codice di procedura civile, Padova, 2006, 271. 32 V. Cass., sez. un., 30 luglio 2008, n. 20598 e 20599, in CED Cass. e in Corr. del Merito, 2008, 12, 1274, con nota di TRAVAGLINO. 33 Cfr. supra 2.2, per gli ulteriori casi in cui si ritiene sussistere il requisito dei giusti motivi.


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5. La nuova riforma del Codice di procedura civile La legge 18 giugno 2009, n. 69, entrata in vigore il 4 luglio 2009, ha profondamente riformato il processo civile, apportando, per quanto qui di interesse, nuove modifiche alla compensazione delle spese di lite di cui all’art. 92, comma 2, c.p.c. (cfr. supra nota sub n. 6). La recentissima riforma è ispirata alla ben nota necessità di rendere più veloce il contenzioso civile e, al contempo, di scoraggiare le pretestuose domande o eccezioni delle parti al fine (o nella speranza) di diminuire il carico di pratiche che sovrasta l’attività giurisdizionale. Come detto, tra i numerosi interventi innovativi contenuti nella riforma ha trovato spazio un ulteriore riformulazione del secondo comma dell’art. 92, c.p.c., volta, auspicabilmente e definitivamente, a superare la compensazione “per prassi” delle spese di giudizio. Questo nuovo intervento modificativo che giunge ad appena quattro anno dal precedente, si è reso necessario poiché la questione, seppur risolta definitivamente per il pregresso dalle citate sezioni unite, non ha ancora avuto sufficiente significativo accoglimento da parte della giurisprudenza, che permane quasi ostinatamente restia ad abbandonare la prassi consolidata delle sentenze immotivate o stereotipatamente motivate in punto alla di compensazione delle spese di lite34. Oggi, dunque, è fatto espresso obbligo al giudice non solo di indicare i motivi per i quali decide di compensare le spese in tutto o in parte (già di per sé è motivo di impugnazione in cassazione per omissione motivazione a seguito della modifica del 2005) ma, per il nuovo inciso introdotto nel art. 92, comma 2, c.p.c., lo stesso giudice dovrà motivare altrettanto palesemente la gravità ed eccezionalità delle ragioni che lo hanno convinto a compensare le spese. Questa novità reca con sé due conseguenze: 1. Il giudice, se non vi è soccombenza reciproca, non solo deve motivare la decisione sulla compensazione in modo espresso e puntuale (anche alla luce del nuovo art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., secondo cui la sentenza deve contenere la «concisa esposizione delle ragioni di fatto di diritto della decisone»), ma dovrà motivare anche e soprattutto l’eccezionalità delle ragioni che lo hanno indotto a tale decisione. Conseguentemente una tale scelta renderà ancor più probabile l’impugnazione della sentenza affetta da omessa o insufficiente motivazione e da errore o falsa applicazione della norma nei casi in cui non sussistano le gravi ed eccezionali ragioni pretese oggi dall’art. 92. 2. I giudici di merito dovrebbero perciò divenire restii a compensare le spese, sia per evitare l’autonomo motivo di impugnazione, sia, paradossalmente, per evitare di dover motivare in maniera precisa e puntuale caso per caso la compensazione delle spese. 6. Conclusioni Si impongono alcune riflessioni conclusive a cavallo da un lato tra passi consolidate e quasi ostinate e normativa di riferimento come interpretata dalla giurisprudenza e, dall’altro, mutate esigenze “operative” finalmente avvertite dal legislatore. Si è in queste pagine a più riprese evidenziato come le degenerazioni del processo in generale e di quello tributario in partico-

34 In tal senso ad esempio: Comm. trib. prov. Bari, sez. XII, 22 aprile 2008, n. 94, in Boll. Trib., 2008, 1025. Oltre a Comm. trib. reg.

lare, derivino non solamente dall’inadeguatezza degli strumenti normativi messi a disposizione degli operatori ma anche, talvolta in modo preponderante, dall’utilizzo invalso in certa pratica “economica” di utilizzare proprio il processo come un efficace e legalizzato mezzo di dilazione degli obblighi di pagamento. Nella materia che ci occupa è dunque fenomeno assai in voga (nonostante la maggiore efficienza oramai raggiunta dalla riscossione delle imposte) quello di utilizzare la via contenziosa come ultimo estremo rimedio per posticipare gli obblighi di pagamento che gravano, volta a volta, sul contribuente o sull’Agenzia delle Entrate. Quanto alla parte privata non v’è chi non abbia verificato il profondersi e l’accumularsi avanti le Commissioni di ricorsi contro ogni sorta di atto (accertativo o di riscossione che sia) motivati unicamente da eccezioni formali (più rare quelle di merito) spesso risibili e senz’altro pretestuose. Ma identico fenomeno lo si rinviene nell’agire degli uffici locali allorché si controverta ad esempio in tema di rimborsi ovvero su fattispecie certamente risolvibili con un corretto uso del potere di annullamento in autotutela. Insomma la pratica ha dimostrato che siffatti comportamenti che, a tacer d’altro, subissano i giudici di contenziosi privi di una reale ragion d’essere, sono di fatto avvallati proprio dalla quasi certezza degli operatori che nessuna ulteriore onere verrà addebitato al soccombente a titolo di spese di lite. Ecco allora che sicuramente il legislatore ha ritenuto opportuno restringere la possibilità offerta ai giudici di compensare le spese in chiave deflattiva del procedimento, onde evitare l’eccessivo proliferare di domande giudiziali ultronee, proposte a meri fini dilatori, con l’unico evidente scopo di posticipare l’adempimento della prestazione dovuta sfruttando il lungo decorso temporale dello svolgimento del processo. Ma pare anche di scorgere che sia pure voluto ribadire il principio secondo cui le parti devono agire nel processo con senso di auto responsabilità e buona fede salvo valutare appieno le conseguenze latu senso sanzionatorie conseguenti alla orami certa condanna alla rifusione delle spese di lite a favore della parte vittoriosa. L’espansione della portata del precetto di cui all’art. 91, c.p.c., da un lato, e l’assoluta straordinarietà che dovrebbe, nei giudizi instaurati dopo il quattro luglio u.s., assistere le pronunce di compensazione delle spese di lite, dall’altro, ristabiliscono in realtà l’ordine delle fonti processuali così come ideate dal legislatore del Codice di rito, confermando che, per quanto attiene l’ordinamento interno, la regula iuris è il carico delle spese in capo al soccombente, mentre l’eccezione è costituita da una pronuncia di segno opposto chiunque siano le parti in lite e quindi anche e soprattutto l’Agenzia delle Entrate. Il nuovo testo dell’art. 92, comma 2, c.p.c., va, in sostanza, salutato con favore in quanto il legislatore ha tentato, a dispetto della prassi invalsa in sede pretoria di procedere comunque, e discrezionalmente, alla compensazione delle spese, di imbrigliare l’ormai eccessiva discrezionalità demandata al giudice in materia, vivificando il noto postulato chiovendiano per il quale la necessità di ricorrere alla giustizia non deve in nessun caso ritorcersi a carico di “chi ha ragione”.

Lombardia, 6 febbraio 2007, n. 4, con nota critica di VERNA, La sistematica violazione della regola della condanna alle spese del

soccombente nel processo tributario, in Boll. Trib., 2007, 507.


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RASSEGNA DELLE PRASSI DEGLI UFFICI NELLA GESTIONE DELLE CONTROVERSIE TRIBUTARIE (gennaio 2008 - giugno 2009) di Alessandra Magliaro Premessa Il monitoraggio delle prassi amministrative, seppure nella consapevolezza della non vincolatività delle circolari e delle risoluzioni provenienti dalle agenzie fiscali, può essere utile per gli operatori del processo tributario. L’orientamento degli uffici nella gestione delle controversie, le indicazioni processuali dell’amministrazione finanziaria derivanti da modifiche legislative, da sentenze della Corte Costituzionale o dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione sono anche un’espressione del grado di rilevanza che l’Agenzia attribuisce ad una buona gestione del contenzioso. Ecco dunque una rassegna delle principali circolari e risoluzioni in materia in ordine cronologico. 1. Indicazione del responsabile del procedimento nelle cartelle di pagamento L’articolo 7, comma 2, lettera a, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) prevede che «gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare l’ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento». L’articolo 36, comma 4-ter, del decreto legge 31 dicembre 2007, n. 248, recante «proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31, dispone che: «la cartella di pagamento di cui all’articolo 25 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni, contiene, altresì, a pena di nullità, l’indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione e di notificazione della stessa cartella. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1 giugno 2008; la mancata indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati prima di tale data non è causa di nullità delle stesse». Per effetto di tale disposizione, le cartelle di pagamento relative ai ruoli consegnati dal 1 giugno 2008 devono contenere, a pena di nullità, l’indicazione dei responsabili dei procedimenti di iscrizione a ruolo (ente creditore) nonché di emissione e notificazione della medesima cartella di pagamento (agente della riscossione). Con circolare del marzo 20081 vengono date istruzioni per la gestione delle controversie pendenti. In primo luogo si stabilisce che per le controversie concernenti la mancata indicazione del responsabile del procedimento di emissione e notificazione della cartella di pagamento nelle quali sia stato chiamato in causa l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha iscritto a ruolo le somme contenute nella cartella di pagamento oggetto di impugnazione, l’ufficio dovrà eccepire in via pregiudiziale l’imputabilità di tale vizio all’agente della riscossione. Nell’eventualità che l’agente della riscossione non sia stato evocato in giudizio dal ricorrente, lo stesso agente va chiamato in causa da parte dell’ufficio. Nel caso invece in cui la controversia riguardi l’omessa indica-

1 Ag. Entrate, Dir. centr. Norm. e Cont., circ. 6 marzo 2008, n. 16.

zione del responsabile del procedimento in atti amministrativi diversi dalla cartella di pagamento, gli uffici rileveranno che detta omissione costituisce un vizio non invalidante e che la mancata indicazione del responsabile non determina la nullità né l’annullabilità dell’atto. In via generale, deve essere sottolineato, con riguardo ad eventuali atti privi dell’indicazione del responsabile del procedimento, come l’articolo 7, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, si limiti ad individuare una serie di elementi che gli atti devono contenere, ma non prevede espressamente la nullità quale conseguenza dell’omissione degli stessi. Tale ultima considerazione è sostenuta a contrariis sulla base del dettato dell’articolo 6, comma 5, dello Statuto che dispone che «prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della richiesta. La disposizione si applica anche qualora, a seguito della liquidazione, emerga la spettanza di un minor rimborso di imposta rispetto a quello richiesto. La disposizione non si applica nell’ipotesi di iscrizione a ruolo di tributi per i quali il contribuente non è tenuto ad effettuare il versamento diretto. Sono nulli i provvedimenti emessi in violazione delle disposizioni di cui al presente comma». Anche l’articolo 11, comma 2, dello Statuto prevede espressamente un’ipotesi di nullità nel caso di atto impositivo emanato in difformità all’interpello precedentemente reso alla parte. Tramite queste argomentazioni l’Agenzia sostiene che la mancata previsione di nullità per gli atti impositivi privi dell’indicazione del responsabile d’imposta rende al più l’atto meramente irregolare, in ciò conformandosi ad un orientamento consolidatosi in campo amministrativo. In chiusura si rammenta nella circolare come l’eccezione di nullità della cartella di pagamento per mancanza dell’indicazione del responsabile del procedimento deve essere contenuta nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e non può essere fatta valere con memoria successiva né può essere proposta per la prima volta in appello stante il divieto dell’articolo 57 del D.Lgs. 546 del 1992. 2. Indirizzi operativi in materia di contenzioso tributario Interessante la lettura di una circolare sempre di marzo 20082 dove vengono illustrati in generale indirizzi operativi in tema di processo tributario. In primo luogo si afferma che il contenzioso tributario costituisce una fase decisiva dell’attività di prevenzione e contrasto dell’evasione ed elusione tributaria, contribuendo in modo determinante a consolidare le posizioni espresse dall’Agenzia delle Entrate in sede interpretativa e le pretese esercitate in sede di attività di controllo.

2 Ivi, circ. 28 marzo 2008, n. 29.


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In particolare si rammenta nella circolare come strategiche siano la tempestiva ed esauriente costituzione in giudizio, la sistematica e qualificata presenza in udienza e l’esame sollecito delle pronunce giurisdizionali. Per una buona gestione del contenzioso si sottolinea l’importanza di un costante aggiornamento della base informativa automatizzata, nonché un’attività di difesa in giudizio svolta dai team di assistenza legale o comunque, negli uffici di ridotte dimensioni, da un apposito gruppo di funzionari incaricati dell’attività contenziosa. Dal 1 aprile 2008, si legge sempre nella circolare, le Direzioni regionali daranno attuazione al progetto «Qualità del contenzioso tributario». Tale progetto si propone l’obiettivo specifico di incrementare gli esiti favorevoli delle controversie di maggiore rilevanza economica concernenti atti di accertamento, con il coinvolgimento delle Direzioni regionali, le quali, mediante una costante azione di monitoraggio e assistenza agli uffici, interverranno in modo mirato e tempestivo per assicurare il miglioramento dell’efficacia dell’azione difensiva e l’uniformità di comportamento degli uffici. In particolare, le Direzioni regionali verificheranno la tempestività, correttezza e completezza degli adempimenti, con particolare riferimento: - alla costituzione in giudizio in primo e secondo grado; - alla riscossione provvisoria e definitiva; - alla partecipazione alle udienze in primo e secondo grado; - all’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali; - all’appello o all’acquiescenza; - alle richieste di ricorso e controricorso in Cassazione. 3. Regime fiscale degli atti di concessione demaniale delle autorità portuali Con questa circolare dell’aprile 20083 si danno istruzioni agli uffici relativamente alla gestione del contenzioso pendente relativamente ad alcuni atti delle autorità portuali. Il comma 993 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) prevede che «gli atti di concessione demaniale rilasciati dalle autorità portuali, in ragione della natura giuridica di enti pubblici non economici delle autorità medesime, restano assoggettati alla sola imposta proporzionale di registro ed i relativi canoni non costituiscono corrispettivi imponibili ai fini dell’imposta sul valore aggiunto». Il secondo periodo del comma 993 stabilisce che «gli atti impositivi o sanzionatori fondati sull’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto ai canoni demaniali marittimi introitati dalle autorità portuali perdono efficacia ed i relativi procedimenti tributari si estinguono». Conseguentemente si invitano gli uffici dell’Agenzia a riesaminare caso per caso il contenzioso pendente in materia e, se del caso, a provvedere al relativo abbandono. In caso di abbandono, gli uffici dovranno depositare presso la segreteria della Commissione tributaria richiesta di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere. La circolare precisa che in tal caso va chiesta la compensazione delle spese di lite, ai sensi del comma 3 dell’art. 46 del contenzioso, in base al quale le spese del giudizio estinto in caso di cessazione della materia del contendere «restano a carico della parte che le ha anticipate». Detta disposizione, infatti, anche a seguito della parziale dichiarazione di incostituzionalità, di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 274 del 12 luglio 2005, resta in vigore per le ipotesi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge, cui sembra riconducibile, con interpretazione estensiva, la fattispecie in esame.

3 Ivi, circ. 21 aprile 2008, n. 41.

Nel caso in cui, poi, la controversia sia in uno stato più avanzato occorrerà nel caso di deposito di sentenza sfavorevole all’Agenzia delle Entrate prestare acquiescenza alla sentenza stessa; nel caso di giudizio pendente in sede di legittimità chiedere all’Avvocatura di Stato l’abbandono del giudizio secondo le modalità di rito. 4. Sospensione di atti volti al recupero di aiuti di Stato e definizione delle relative controversie Di particolare rilievo questa circolare, sempre di aprile4, che segue l’introduzione dell’articolo 47-bis nel D.Lgs. 546 del 1992 avvenuta con il comma 1 dell’articolo 2 del decreto legge 8 aprile 2008, n. 59. Con l’inserimento, nel decreto sul contenzioso tributario di tale articolo, il legislatore ha previsto una disciplina, a carattere speciale, delle controversie aventi ad oggetto gli atti volti al recupero di aiuti di Stato dichiarati incompatibili in esecuzione di una decisione adottata dalla Commissione europea ai sensi dell’articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999. Al fine di garantire l’esecuzione immediata ed effettiva delle decisioni di recupero, il legislatore ha introdotto una disciplina speciale della sospensione giudiziale degli atti di recupero di aiuti di Stato e della definizione delle relative controversie innanzi alle Commissioni tributarie, prevedendo in particolare delle condizioni specifiche al verificarsi delle quali l’organo giurisdizionale può concedere la sospensione. I commi 1 e 2 dell’articolo 47-bis del D.Lgs. n. 546 del 1992 individuano le condizioni in base alle quali la Commissione tributaria provinciale può concedere la sospensione dell’efficacia dell’atto di recupero. I presupposti per la concessione della misura cautelare in esame sono i seguenti: a) la presenza di gravi motivi di illegittimità della decisione di recupero, ovvero la sussistenza di un evidente errore nella individuazione del soggetto tenuto alla restituzione dell’aiuto di Stato ovvero di un evidente errore nel calcolo della somma da recuperare, nei limiti di tale errore; b) il pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile conseguente all’esecuzione dell’atto. La previsione della “gravità” dei motivi comporta che, in sede di valutazione della sussistenza del presupposto in esame, la Commissione tributaria provinciale potrà concedere la sospensione dell’atto impugnato solo se vi siano gravi riserve sulla validità della decisione di recupero. Un altro dei presupposti che – sempre unitamente al periculum in mora – consente la concessione della misura cautelare è l’evidente errore nell’individuazione del soggetto destinatario dell’atto di recupero. L’erroneità nell’individuazione del soggetto chiamato alla restituzione deve emergere prima facie, ossia allo stato degli atti e senza che sia necessaria alcuna indagine o apprezzamento coinvolgente il merito. L’Agenzia precisa poi che, relativamente al requisito dell’evidente errore di calcolo, questo è solo quello facilmente rilevabile dagli elementi indicati dall’ufficio nell’atto di recupero. Più specificamente, si tratta del caso in cui l’importo complessivamente preteso dall’ufficio sia superiore a quello risultante dalla liquidazione delle singole voci poste a base del recupero; tale incongruenza deve essere frutto di un palese errore di calcolo. Ancora la circolare precisa che non trovano applicazione nelle controversie in esame le disposizioni del comma 3 del citato articolo 47, che prevedono la facoltà per il Presidente di concedere con decreto, in casi di eccezionale urgenza, la sospensione inaudita altera parte.

4 Ivi, circ. 29 aprile 2008, n. 42.


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Dal momento che secondo la disciplina transitoria la Commissione tributaria provinciale, su impulso di parte, è tenuta a riesaminare i provvedimenti cautelari già concessi e ad operare una valutazione fondata sui nuovi presupposti e limiti stabiliti dall’articolo 47-bis in esame. Al riguardo l’Agenzia invita gli uffici a provvedere – senza indugio ed in ogni caso – al deposito presso le Commissioni tributarie provinciali della prevista istanza di riesame, evidenziando gli eventuali motivi ostativi alla conferma del provvedimento cautelare.

chiesta di rimborso, spetta al contribuente dimostrare i requisiti necessari per ottenerlo e al giudice accertarne la sussistenza prima di accogliere la domanda del contribuente. All’ufficio è quindi consentito introdurre anche nel giudizio di appello gli elementi di cui è in possesso per contestare l’assunto del contribuente del difetto di autonoma organizzazione. In ultimo la circolare stabilisce che l’adesione del contribuente ad uno dei diversi condoni previsti dalla legge n. 289 del 2002 è ostativa alla prosecuzione del giudizio per il rimborso dell’Irap che si assume indebitamente versata.

5. Assoggettabilità all’imposta regionale sulle attività produttive degli esercenti arti e professioni Con la circolare del giugno 20085 l’Agenzia delle Entrate impartisce istruzioni agli uffici in merito alla gestione dei giudizi relativi all’assoggettabilità Irap dei lavoratori autonomi. Dopo una ricognizione della nota sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 21 maggio 2001 e della giurisprudenza della Corte di Cassazione sviluppatasi sul tema nel periodo febbraio aprile 2007, la circolare conclude che non è ulteriormente sostenibile la tesi interpretativa dell’assoggettamento generalizzato a Irap degli esercenti arti e professioni. Si intendono quindi superate le istruzioni precedentemente fornite in contrasto con l’orientamento della Suprema Corte. Sulla scorta delle indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione, gli uffici devono fondare la propria linea difensiva, oltre che su ogni altra questione sostenibile nello specifico caso, in particolare sull’esistenza di fattori organizzativi utilizzati nell’esercizio dell’attività stessa, che confermino l’autonoma organizzazione, con conseguente assoggettamento ad Irap. In primo luogo si stabilisce che la deduzione secondo cui l’imposta non è dovuta per difetto di autonoma organizzazione deve essere contenuta nel ricorso in primo grado e non può essere introdotta in giudizio successivamente. A sostegno della tesi si fa riferimento all’articolo 24, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, che prevede l’integrazione dei motivi del ricorso solo quando sia «resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della Commissione». Ne consegue, conclude l’Agenzia, l’impossibilità da parte del contribuente di modificare la domanda mediante la proposizione di motivi integrativi di quelli già esposti nel ricorso introduttivo del giudizio. A maggior ragione la deduzione dell’assenza di autonoma organizzazione costituisce domanda nuova nel giudizio di appello, improponibile ai sensi dell’articolo 57 del D.Lgs. n. 546 del 1992. Per quanto attiene, poi, all’onere di descrivere l’organizzazione della sua attività e provare l’assenza dei presupposti per l’assoggettamento all’imposta, in coerenza con le scritture contabili tenute e con le dichiarazioni presentate, spetta al contribuente l’onere della prova dal momento che si tratta di controversie di rimborso. Per documentare le proprie affermazioni il contribuente ha l’onere di esibire copia delle dette scritture contabili. A titolo di esempio, il contribuente che svolge un’attività artistica, dichiarando di non avvalersi di collaboratori, agenti o procuratori, ha l’onere di dimostrare come concretamente organizzi la sua attività e i molteplici rapporti con i suoi interlocutori. Spetta all’ufficio evidenziare l’eventuale mancata dimostrazione da parte del contribuente dell’assenza di autonoma organizzazione; in tal caso peraltro non viene introdotta in giudizio un’eccezione in senso proprio, ma una mera specificazione dei presupposti per l’assoggettamento all’imposta, considerato che, in presenza di ri-

6. Legittimazione processuale dell’agente della riscossione Con questa circolare di luglio6 l’Agenzia interviene a seguito della sentenza della Corte di Cassazione, sezioni unite, n. 16412 del 25 luglio 2007. I giudici di legittimità, chiamati a pronunciarsi su una controversia avente ad oggetto la contestazione di un avviso di mora non preceduto dalla notificazione della cartella di pagamento e recante somme derivanti dalla liquidazione della dichiarazione dei redditi, hanno affermato che «l’azione (del contribuente per la contestazione della pretesa tributaria) può essere svolta dal contribuente indifferentemente nei confronti dell’ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi una ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l’ente creditore».Il ragionamento della Suprema Corte si fonda su quanto disposto dall’articolo 39 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112. Venendo alle istruzioni che l’Agenzia offre agli uffici per la gestione delle controversie nelle quali sia stata chiamata in causa soltanto l’Agenzia delle Entrate per questioni concernenti esclusivamente la regolarità e la validità degli atti dell’agente della riscossione, l’ufficio si legge dovrà eccepire in via preliminare il difetto di legittimazione passiva, in quanto trattasi di vizi imputabili all’attività riscossiva e, successivamente, chiamerà in causa lo stesso agente della riscossione. Nel caso in cui il ricorrente evochi in giudizio esclusivamente l’agente della riscossione, rilevando l’esistenza di vizi riferibili alla pretesa tributaria, sarà onere dell’agente della riscossione chiamare in causa l’ufficio competente ai sensi dell’articolo 39 del decreto legislativo n. 112 del 1999, al fine di evitare gli effetti pregiudizievoli di una condanna. Per la gestione delle controversie nelle quali sia stata chiamata in causa sia l’Agenzia delle Entrate sia l’agente della riscossione, per vizi imputabili solo a quest’ultimo, l’ufficio potrà limitarsi ad eccepire il proprio difetto di legittimazione passiva. Nei casi in cui il ricorrente faccia valere sia vizi ascrivibili all’agente della riscossione sia questioni relative all’esercizio del potere impositivo dell’amministrazione, l’ufficio legittimato passivo dovrà predisporre adeguate controdeduzioni con riferimento agli atti di propria competenza. La circolare, poi, sollecita gli uffici a prestare particolare attenzione alla individuazione della Commissione tributaria provinciale nei confronti della quale il contribuente ha proposto ricorso, in particolare quando l’ufficio e l’agente della riscossione hanno sede in due ambiti territoriali differenti.

5 Ivi, circ. 13 giugno 2008, n. 45.

7. Sanzioni amministrative per l’utilizzo di lavoratori irregolari La circolare di settembre7 interviene per dare chiarimenti sulle procedure, anche relative alla giurisdizione, in tema di sanzioni

6 Ivi, circ. 17 luglio 2008, n. 51.

7 Ivi, circ. n. 56 del 24 settembre 2008.


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amministrative per l’utilizzo di lavoratori irregolari dopo l’intervento della L. n. 247/2007, del D.L. n. 248/2007 e della sentenza della Corte costituzionale n. 130/2008. La parte rilevante al fine di questa rassegna è proprio quella relativa all’individuazione della giurisdizione. La sentenza della Corte costituzionale n. 130 del 2008 infatti ha affermato la natura non tributaria delle sanzioni in esame, incidendo, tuttavia, esclusivamente sulla questione relativa alla giurisdizione. Di conseguenza, la disciplina sostanziale delle sanzioni di cui si tratta continua ad essere regolata dal D.Lgs. n. 472 del 1997, stante l’espresso rinvio a tale disciplina contenuto nell’articolo 36-bis, comma 7-bis del DL n. 223 del 2006. Di contro, atteso che la sentenza della Consulta ha inciso direttamente sulla giurisdizione, non trovano applicazione le norme del D.Lgs. n. 472 del 1997 concernenti la tutela in sede giurisdizionale e, in particolare, l’articolo 18, il quale prevede, al comma 2, che «se le sanzioni si riferiscono a tributi rispetto ai quali non sussiste la giurisdizione delle Commissioni tributarie, è ammesso, nel termine di sessanta giorni dalla notificazione del provvedimento, ricorso amministrativo in alternativa all’azione avanti all’autorità giudiziaria ordinaria, che può comunque essere adita anche dopo la decisione amministrativa ed entro centottanta giorni dalla sua notificazione. Salvo diversa disposizione di legge, il ricorso amministrativo è proposto alla Direzione regionale delle Entrate, competente in ragione della sede dell’ufficio che ha irrogato le sanzioni». Detta disposizione – antecedente all’ampliamento della giurisdizione tributaria operato con l’articolo 12, comma 2 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 – disciplinava il contenzioso di sanzioni inerenti a tributi per i quali non sussisteva la giurisdizione tributaria, mentre con specifico riferimento alla giurisdizione in materia di sanzioni amministrative per utilizzo di lavoratori irregolari tale collegamento ai tributi è stato espressamente escluso dalla sentenza della Corte costituzionale n. 130 del 2008. Tanto premesso, si ritiene che, in punto di giurisdizione e di relativo procedimento contenzioso, risultino applicabili le disposizioni stabilite dagli articoli 22 e seguenti della legge n. 689 del 1981. Pertanto, l’autorità giudiziaria cui spetta la cognizione delle controversie concernenti le sanzioni in esame va individuata, a norma degli articoli 22, primo comma e 22-bis, comma 2, della legge n. 689 del 1981, nel Tribunale del luogo in cui è stata commessa la violazione. L’opposizione alla sanzione, dunque, si proporrà nelle forme, con le modalità e nei termini previsti dall’articolo 22 della legge n. 689 del 1981. Ne consegue che il giudizio innanzi al Tribunale del luogo in cui è stata commessa la violazione si introdurrà mediante ricorso, da proporre nel termine di trenta giorni dalla notificazione del provvedimento, nei confronti dell’ufficio locale che ha emesso l’atto impugnato. 8. Chiarimenti sulla natura delle risposte agli interpelli La circolare del marzo 20098 si occupa della natura delle risposte rese in sede di interpello e di conseguenza della loro non impugnabilità. Dopo aver passato in rassegna succintamente le varie ipotesi di interpelli previsti nell’ordinamento, l’agenzia li classifica in due categorie: 1) interpelli finalizzati ad acquisire dall’Agenzia un parere sulla corretta interpretazione, rispetto al caso concreto, delle norme di

8 Ivi, circ. 3 marzo 2009, n. 7.

natura tributaria (interpello ordinario) o sulla preventiva qualificazione di atti, fatti o negozi, a carattere potenzialmente elusivo (interpello ex art. 21 della legge n. 413 del 1991); 2) interpelli diretti ad ottenere la valutazione da parte dell’Agenzia, in relazione alla fattispecie prospettata nell’istanza, circa la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione di uno specifico regime tributario o per la disapplicazione di disposizioni tributarie volte a prevenire comportamenti elusivi. Il comune denominatore fra le due categorie di interpello è rappresentato dalla circostanza che entrambe sono espressione di una attività di indirizzo e di interpretazione dell’Agenzia; in nessuna delle due ipotesi la risposta dell’amministrazione determina effetti vincolanti nei confronti del contribuente, che resta libero di disattenderla. Ne consegue, secondo l’Agenzia, che la risposta all’interpello non è impugnabile con ricorso alla Commissione tributaria provinciale. La non impugnabilità delle risposte all’interpello si giustifica, essenzialmente, alla luce della loro natura di atti amministrativi non provvedimentali. In particolare, la circolare esclude che l’interpello disapplicativo sarebbe un atto impugnabile, assimilabile agli atti di diniego o di revoca di agevolazioni, previsti dall’art. 19, comma 1, lett. h, del D.Lgs. n. 546 del 1992. Il diniego e la revoca di agevolazioni hanno sostanzialmente natura di atti impositivi in quanto assoggettano a tassazione fatti già avvenuti. L’interpello, invece, ha lo scopo di consentire al contribuente di conoscere in tempi certi e brevi l’orientamento dell’amministrazione finanziaria in ordine alla futura applicazione di disposizioni tributarie rispetto a specifici casi concreti. L’impugnazione della risposta agli interpelli configurerebbe, dunque, una vera e propria azione di accertamento negativo nei riguardi dell’amministrazione finanziaria, che è improponibile in quanto estranea alla struttura del processo tributario innanzi alle Commissioni tributarie. 9. Indirizzi operativi in materia di contenzioso tributario per l’anno 2009 Nell’ultima circolare che si annota in questa rassegna9 ritroviamo un documento contenente indicazioni generali in tema di processo tributario. L’Agenzia si raccomanda, infatti, affinché le strutture territoriali assicurino una corretta ed efficace difesa in giudizio degli interessi erariali, garantendo tutti gli adempimenti richiesti dalle norme processual-tributarie, con particolare attenzione al valore della lite ed ai principi di diritto in discussione. Va tenuto presente che il miglioramento degli esiti delle controversie rappresenta l’obiettivo fondamentale dell’attività contenziosa, considerati fra l’altro i conseguenti effetti favorevoli sulla crescita generale del gettito. Inoltre, la sistematica, completa e sollecita iscrizione a ruolo a titolo provvisorio e definitivo consente di accelerare la riscossione. Nel documento vengono anche richiamate le recenti modifiche apportate al regolamento di amministrazione che hanno dato avvio alla riorganizzazione dell’Agenzia con l’istituzione delle Direzioni provinciali quali strutture destinate a sostituire gli uffici locali, assorbendone le competenze. Con provvedimento prot. n. 2008/191630 del 24 dicembre 2008 del direttore dell’Agenzia è stato stabilito che le Direzioni provinciali sono articolate in uno o più uffici territoriali e un ufficio controlli, al cui interno è prevista una specifica area legale, che

9 Ivi, circ. 15 maggio 2009, n. 24.


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cura il contenzioso relativo agli atti della Direzione provinciale. L’area legale della Direzione provinciale e, fino alla sua attivazione, il team di assistenza legale (ovvero – negli uffici di ridotte dimensioni in cui il team non è stato costituito – comunque un apposito gruppo di funzionari incaricati dell’attività contenziosa, eventualmente inserito anche all’interno di un solo team integrato di controllo) dell’ufficio locale, oltre alla difesa in giudizio, in relazione agli atti impugnati svolgono le attività istruttorie concernenti: - il riesame in sede di autotutela; - la conciliazione giudiziale; - la determinazione degli importi da riscuotere in pendenza di giudizio e a conclusione dello stesso ovvero da rimborsare e, più in generale, la sollecita esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali. Le predette articolazioni interne seguono anche gli adempimenti relativi ai processi diversi da quelli tributari. Inoltre, ai sensi dei commi da 9 a 14 dell’articolo 27 del decretolegge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2 e del comma 3 dell’articolo 4 del regolamento di amministrazione, a decorrere dal 1 gennaio 2009 è stata attribuita alle Direzioni regionali l’attività di controllo e relativo contenzioso nei confronti dei soggetti con volume d’affari, ricavi o compensi non inferiori a cento milioni di euro. All’interno della Direzione regionale l’attività contenziosa è attribuita all’ufficio contenzioso. Si richiama la necessità che venga intrapresa ogni iniziativa diretta alla diminuzione della conflittualità nei rapporti con i contribuenti mediante il ricorso agli istituti deflativi del contenzioso. Per quanto riguarda la gestione del contenzioso tributario, l’azione delle strutture territoriali deve favorire l’utilizzo – qualora ne ricorrano i presupposti – dell’autotutela e della conciliazione giudiziale. Prima della predisposizione delle controdeduzioni, va valutato il grado di sostenibilità della pretesa, tenendo conto dei motivi di ricorso, al fine di verificare l’eventuale esistenza dei presupposti per l’autotutela o la conciliazione giudiziale, totali o parziali. Qualora sia stato inutilmente instaurato il contraddittorio con il contribuente ai fini dell’accertamento con adesione, l’opportunità di addivenire alla conciliazione giudiziale va valutata con riguardo soprattutto ai fatti nuovi o alle circostanze prima non rappresentate adeguatamente. Si evidenzia che la consapevolezza da parte del contribuente che l’Agenzia difende efficacemente in giudizio l’atto impugnato rappresenta un motivo rilevante ai fini della decisione di avvalersi degli istituti che evitano il contenzioso, vale a dire l’adesione al processo verbale di constatazione o agli inviti al contraddittorio, la rinuncia all’impugnazione dell’atto impositivo, l’accertamento con adesione. Inoltre, le diverse forme di interpello e consulenza giuridica contribuiscono a prevenire ed evitare il contenzioso, permettendo al contribuente di conoscere preventivamente la posizione dell’Agenzia e, quindi, di applicare correttamente la norma tributaria. Anche se non sono prettamente istruzioni operative sul contenzioso è interessante, infine, dare uno sguardo sugli obiettivi del budget di produzione riferiti al contenzioso stabiliti nella circolare. A tal riguardo l’Agenzia stabilisce che in continuità con lo scorso anno vengono confermati per il 2009 i seguenti indicatori:

- costituzioni in giudizio in Commissione tributaria provinciale sui ricorsi notificati dai contribuenti dal 1 novembre 2008 al 31 ottobre 2009 con valore economico in Commissione tributaria contestazione inferiore ad euro 100.000 (obiettivo 98%); - costituzioni in giudizio tempestive in Commissione tributaria provinciale sui ricorsi notificati dai contribuenti dal 1 novembre 2008 al 31 ottobre 2009 con valore economico in contestazione superiore o uguale ad euro 100.000 (obiettivo 100%); - costituzioni in giudizio in Commissione tributaria regionale sui ricorsi notificati dai contribuenti dal 1 novembre 2008 al 31 ottobre 2009 con valore economico in contestazione inferiore ad euro 100.000 (obiettivo 98%); - costituzioni in giudizio tempestive in Commissione tributaria regionale sui ricorsi notificati dai contribuenti dal 1 novembre 2008 al 31 ottobre 2009 con valore economico in contestazione superiore o uguale ad euro 100.000 (obiettivo 100%); - controversie con valore economico inferiore ad euro 5.000 discusse in pubblica udienza con la partecipazione dell’ufficio, al netto di quelle a cui non si è partecipato per rinvio, cessazione della materia del contendere o altre ipotesi di estinzione del giudizio (obiettivo 85%); - controversie con valore economico superiore o uguale ad euro 5.000 discusse in pubblica udienza con la partecipazione dell’ufficio, al netto di quelle a cui non si è partecipato per rinvio, cessazione della materia del contendere o altre ipotesi di estinzione del giudizio (obiettivo 98%); - autorizzazioni alla proposizione dell’appello rilasciate o denegate dalle Direzioni regionali almeno 10 giorni prima della scadenza del termine di impugnazione (obiettivo 98%); - invio all’Avvocatura generale dello Stato della relazione per il controricorso in Cassazione e per l’eventuale ricorso incidentale entro 20 giorni dalla data in cui è avvenuta la prima notifica del ricorso per Cassazione (obiettivo 100%); - esecuzione – entro 120 giorni dalla data in cui si verifica il relativo presupposto – dell’iscrizione a ruolo conseguente ad avvisi di accertamento imposte dirette e Iva oggetto di giudizio davanti alle Commissioni tributarie (obiettivo 80%). Infine si richiama la circolare 29 del 2008 (v. supra)e si prosegue il progetto qualità del contenzioso tributario avviato il 1 aprile 2008, con l’obiettivo di aumentare gli esiti favorevoli delle controversie di maggior valore economico. I risultati conseguiti lo scorso anno, relativi ovviamente ad un numero esiguo di pronunce depositate, delineano un quadro positivo che induce a ritenere opportuna la prosecuzione del progetto con riferimento anche al secondo grado di giudizio. Di conseguenza, le Direzioni regionali continueranno ad operare secondo le modalità di cui alla circolare 29/E del 28 marzo 2008 e successive istruzioni attuative, effettuando una costante azione di monitoraggio e di assistenza che assicuri interventi diretti e tempestivi volti a migliorare l’azione difensiva sotto l’aspetto dell’efficacia della difesa e dell’uniformità di comportamento. Il compito della Direzione regionale è essenzialmente quello di migliorare l’azione difensiva svolta dagli uffici mediante un controllo mirato e preventivo sulla correttezza e tempestività degli adempimenti processuali nonché sulla qualità degli atti difensivi relativi ad un campione significativo di controversie.


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Indice cronologico delle sentenze

Commissione tributaria regionale della Lombardia, Brescia, sez. LXIII, 7 febbraio 2008, n. 290

319

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 8 febbraio 2008, n. 10

318

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XXXIV, 14 febbraio 2008, n. 9

317

Commissione tributaria provinciale di Gorizia, sez. I, 20 febbraio 2008, n. 193

280

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XVII, 25 febbraio 2008, n. 2

314

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. IX, 3 marzo 2008, n. 62

345

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. III, 29 aprile 2008, n. 25

352

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. XXXVII, 29 aprile 2008, n. 35

312

Commissione tributaria regionale del Veneto, Verona, sez. XXV, 9 giugno 2008, n. 20

331

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. IV, 9 giugno 2008, n. 59

375

Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. IV, 29 settembre 2008, n. 365

370

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. X, 18 ottobre 2008, n. 199

355

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXI, 24 ottobre 2008, n. 313

377

Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. VIII, 5 novembre 2008, n. 226

281

Commissione tributaria di II grado di Trento, sez. I, 14 novembre 2008, n. 91

326

Commissione tributaria provinciale dell’Aquila, sez. III, 30 dicembre 2008, n. 237

363

Commissione tributaria provinciale di Lodi, sez. I, 12 gennaio 2009, n. 12

335

Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. XV, 14 gennaio 2009, n. 4

282

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 22 gennaio 2009, n. 20

380

Commissione tributaria provinciale di Vicenza, sez. III, 28 gennaio 2009, n. 6

310

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 28 gennaio 2009, n. 33

343

Commissione tributaria di I grado di Trento, sez. V, 2 febbraio 2009, n. 8

308

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. VIII, 12 febbraio 2009, n. 30

336

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XXII, 3 marzo 2009, n. 71

283

Commissione tributaria provinciale di Vercelli, sez. I, 9 marzo 2009, n. 14

288

Commissione tributaria regionale della Liguria, sez. I, 18 marzo 2009, n. 25

306

Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXVI, 1 aprile 2009, n. 26

304

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XX, 7 aprile 2009, n. 118

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Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VII, 22 aprile 2009, n. 41

300

Commissione tributaria provinciale di Campobasso, sez. I, 29 aprile 2009, n. 131

353

Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. LIII, 8 maggio 2009, n. 207

299

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. VIII, 19 maggio 2009, n. 149

296

Commissione tributaria provinciale di Pesaro, sez. IV, 28 maggio 2009, n. 68

349

Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. XII, 1 luglio 2009, n. 76

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