Giustizia Tributaria 2009 n. 1

Page 1



comitato scientifico Fabrizio Amatucci

ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Massimo Basilavecchia

ordinario di diritto tributario Università di Teramo Silvia Cipollina

ordinario di diritto tributario Università di Pavia Angelo Contrino

associato di diritto tributario italiano ed europeo Università di Modena e Reggio Emilia Daria Coppa

straordinario di diritto tributario Università di Palermo Roberto Cordeiro Guerra

straordinario di diritto tributario Università di Firenze Francesco Fichera

ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Suor Orsola Benincasa Stefano Fiorentino

associato di diritto tributario Università di Salerno Maria Cecilia Fregni [coordinamento]

ordinario di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Gianfranco Gaffuri

ordinario di diritto tributario Università di Milano Carlo Garbarino

associato di diritto tributario Università Bocconi Alessandro Giovannini

ordinario di diritto tributario Università di Siena Manlio Ingrosso

ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Agostino Ennio La Scala

associato di diritto tributario Università di Palermo Maurizio Logozzo

straordinario di diritto tributario Università Cattolica del Sacro Cuore Antonio Lovisolo

comitato direttivo Claudio Consolo ordinario di diritto processuale civile Università di Padova

Lorenzo del Federico ordinario di diritto tributario Università di Chieti e Pescara

Salvatore Sammartino

associato di diritto tributario Università di Genova

ordinario di diritto tributario Università di Palermo

Alberto Marcheselli

Giuliano Tabet

associato di diritto tributario Università di Torino Enrico Marello

associato di diritto tributario Università di Torino Sebastiano Maurizio Messina

ordinario di diritto tributario Università di Verona

ordinario di diritto tributario Università di Roma - La Sapienza

Francesco Tesauro ordinario di diritto tributario Università degli Studi di Milano - Bicocca

Salvatore Muleo

straordinario di diritto tributario Università della Calabria Mario Nussi

associato di diritto tributario Università di Udine Raffaele Perrone Capano

ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Federico II Maria Cristina Pierro

associato di diritto tributario Università dell’Insubria Francesco Pistolesi

straordinario di diritto tributario Università di Siena Roberto Schiavolin

ordinario di diritto tributario Università di Padova Loris Tosi

ordinario di diritto tributario Università di Venezia - Ca’ Foscari Alessandro Turchi

associato di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Giuseppe Zizzo

straordinario di diritto tributario Università LIUC - Castellanza comitato di redazione Christian Califano Filippo Cicognani Alessandra Magliaro Annalisa Pace Alessandra Villecco [coordinamento]

www.giustiziatributaria.it


hanno collaborato a questo numero Barbara Arcaio

dottore in economia Paolo Barabino

cultore della materia in diritto tributario, Università di Sassari Davide Borgni

dottorando di ricerca in diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Leonardo Brunetti

assegnista e dottore di ricerca in diritto pubblico, Università Cattolica del Sacro Cuore Maria Antonietta Capula

dottoranda di ricerca in gestione integrata d’azienda, Università LIUC - Castellanza Claudio Cardellini

dottore in giurisprudenza Mario Cermignani

dottorando di ricerca in diritto europeo e comparato dell’impresa e del mercato, Università di Chieti e Pescara Lorenzo del Federico

professore ordinario di diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Marcella Ferrante

dottore di ricerca in diritto tributario Maria Cecilia Fregni

professore ordinario di diritto tributario, Università di Modena e Reggio Emilia Maria Assunta Icolari

docente presso l’Università Telematica G. Marconi Giovanni Incerto

commercialista in Bologna Alessandra Magliaro

ricercatrice di diritto tributario, Università di Trento Giovanni Puoti

professore ordinario di diritto tributario, Università di Roma - La Sapienza Federico Rasi

dottore di ricerca in diritto tributario, Università LUISS - Guido Carli Gianluca Settepani

commercialista in Bologna Stefano Sibelja

cultore di diritto tributario, Università di Trieste Gian Luca Soana

giudice presso il Tribunale di Rieti Gianluca Triolo

dottore in giurisprudenza Claudia Turchet

dottoranda di ricerca in diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Alessandra Villecco

professore a contratto di diritto processuale civile, Università di Verona

direttore responsabile Daniela Artioli redazione Maria Pia Petrei stampa Logo (Borgoricco PD) progetto grafico Avenida (Modena) © Gedit edizioni, luglio 2009 via Irnerio 12/5, 40126 Bologna tel. 051 4218740, fax 051 4210565, mail@gedit.com, www.gedit.com ISSN 1590-5381 Abbonamento 12 mesi: 7 160,00 Singolo fascicolo 7 50,00 I materiali per la pubblicazione vanno inviati per posta elettronica a redazione@giustiziatributaria.it oppure via fax al n. 051 4210565. Gli autori devono uniformarsi ai criteri redazionali che possono essere richiesti via e-mail all’indirizzo sopra indicato.


GiustiziaTributaria

1 2009 3

Sommario

DOTTRINA SAGGI La riforma della riscossione ad opera del decreto legge 203/2005: profili ricostruttivi di Giovanni Puoti e Maria Assunta Icolari

7

Giurisdizione tributaria: due pronunce della Corte costituzionale (ri)definiscono la competenza delle Commissioni di Leonardo Brunetti

19

Litisconsorzio necessario e “trasparenze” fiscali: soluzioni attuali e prospettive future di Federico Rasi

30

NOTE A SENTENZA Sulla motivazione dell’autorizzazione all’espletamento delle indagini bancarie e sull’efficacia temporale dell’estensione ai professionisti della presunzione di imponibilità dei prelevamenti di Maria Antonietta Capula

41

La violazione del principio del contraddittorio anticipato previsto nello Statuto dei diritti del contribuente: l’annullabilità dell’atto di accertamento di Alessandra Magliaro

49

La violazione del principio del contraddittorio anticipato previsto nello Statuto dei diritti del contribuente: vizio dell’accertamento e valutazione complessiva del comportamento delle parti di Stefano Sibelja

54

Efficacia meramente indiziaria dei valori tratti dall’osservatorio del mercato immobiliare di Mario Cermignani

60

Ancora un’ipotesi di condono sul condono di Marcella Ferrante

65

Il monitoraggio dei crediti d’imposta ex art. 8, legge n. 388/2000: problematiche vecchie e nuove nella più recente giurisprudenza di merito di Claudio Cardellini

78

I fabbricati rurali delle cooperative agricole: la questione di legittimità dell’art. 2, comma 4, L. n. 244/2007 è dovuta ad un equivoco di Lorenzo del Federico

91

Esenzione Ici degli immobili delle Onlus usati come sede dell’ente di Barbara Arcaio

96


4

GiustiziaTributaria

1 2009

Indennità transattiva erogata da una società estranea al giudizio: brevi riflessioni sull’inerenza di Gianluca Triolo

102

In tema di detrazione Iva assolta su operazioni “prodromiche”, anche in assenza di operazioni attive di Claudia Turchet

108

Riassunzione del processo a seguito di declaratoria di difetto di giurisizione e conservazione degli effetti della domanda originaria di Alessandra Villecco

120

GIURISPRUDENZA ACCERTAMENTO Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. X, 19 marzo 2008, n. 95 Accertamento - Avviso di accertamento fondato sulle risultanze di indagini bancarie - Motivazione dell’atto autorizzativo - Necessità

40

Accertamento - Avviso di accertamento fondato sulle risultanze di indagini bancarie - presunzione di imponibilità delle operazioni di versamento realizzate dai professionisti - irretroattività nota di Maria Antonietta Capula Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, sez. XI, 26 marzo 2008, n. 9 Accertamento - Termine di 60 giorni ex art. 12, comma 7, L. 212/2000 - Violazione - Successivo avviso di accertamento Inesistenza note di Alessandra Magliaro e Stefano Sibelja

45

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 16 maggio 2008, n. 55 Accertamento - D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d - Regime anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 35, comma 3, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248 (cd. legge Bersani), valori del cd. “Osservatorio del Mercato Immobiliare” - Valore probatorio di presunzioni semplici - Difetto dei requisiti di gravità, precisione e concordanza - Necessità di ulteriori elementi nota di Mario Cermignani

59

CONDONI E SANATORIE Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. IX, 6 marzo 2008, n. 28 Condoni e sanatorie - Condono ex lege n. 413/1991 - Perfezionamento della procedura di condono - Iscrizione nel ruolo speciale delle somme dovute - Pagamento in misura ridotta, per effetto di una successiva legge di condono, delle somme iscritte nel ruolo speciale - Conseguenze - Decadenza dal condono nota di Marcella Ferrante

64

ESENZIONI E AGEVOLAZIONI Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. III, 21 maggio 2008, n. 26 Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Modello Cvs - Omissione - Decadenza Irragionevolezza della previsione - Insussistenza - Violazione del principio di irretroattività - Insussistenza

69

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. VI, 14 marzo 2008, n. 27 Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Atto di revoca di agevolazioni - Impugnabilità

70

Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Atto di revoca di agevolazioni - Retroattività della norma - Insussistenza - Recupero del credito di imposta - Legittimità Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 33 Esenzioni e agevolazioni - Statuto dei diritti del contribuente - Valenza costituzionale - Divieto di retroattività delle norme tributarie e divieto di norme che impongono adempimenti con scadenza inferiore a sessanta giorni dall’entrata in vigore - Fattispecie in tema di recupero di agevolazioni per investimenti in aree svantaggiate - Recupero - Atto impositivo in contrasto in contrasto con lo Statuto - Invalidità

71

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. I, 6 novembre 2007, n. 90 Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Comunicazione di dati mediante modello Cvs Oggetto - Benefici già acquisiti - Omissione - Perdita del credito

72


GiustiziaTributaria

1 2009 5

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. I, 20 febbraio 2008, n. 7 Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Invio telematico delle informazioni relative all’investimento - Omissione - Decadenza dall’agevolazione

72

Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. IX, 18 febbraio 2008, n. 2 Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Recupero retroattivo - Esclusione

75

Commissione tributaria provinciale di Isernia, sez. III, (ordinanza) 9 giugno 2008, n. 43 Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Riscossione - Iscrizione a ruolo - Cartella di pagamento Notificazione - Omessa indicazione del responsabile del procedimento - Jus superveniens - Violazione dell’art. 97 Cost. Questione di legittimità costituzionale - Sospensione del giudizio nota di Claudio Cardellini

76

ICI Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna, Parma, sez. XXI, (ordinanza) 12 marzo 2008, n. 4 Ici - Fabbricati rurali - Requisiti - Art. 42-bis, D.L. 1 ottobre 2007, n. 159 (conv. con L. 29 novembre 2007, n. 222) Fabbricati strumentali all’attività agricola - Fabbricati di proprietà delle cooperative agricole (e loro consorzi) - Inapplicabilità del tributo - Art. 2, comma 4, L. 24 dicembre 2007, n. 244 - Rimborso Ici in favore delle cooperative agricole (e loro consorzi) - Natura interpretativa dell’art. 42-bis - Preclusione del rimborso ex art. 2, comma 4 - Questione di legittimità costituzionale per violazione art. 3, Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza

88

Commissione tributaria provinciale di Chieti, sez. II, (ordinanza) 27 maggio 2008, n. 277 Ici - Fabbricati rurali - Requisiti - Art. 42-bis, D.L. 1 ottobre 2007, n. 159 (conv. con L. 29 novembre 2007, n. 222) Fabbricati strumentali all’attività agricola - Fabbricati di proprietà delle cooperative agricole (e loro consorzi) - Inapplicabilità del tributo - Art. 2, comma 4, L. 24 dicembre 2007, n. 244 - Rimborso Ici in favore delle cooperative agricole (e loro consorzi) - Natura interpretativa o innovativa dell’art. 42-bis - Irrilevanza - Ici - Inapplicabilità - Preclusione del rimborso ex art. 2, comma 4 Questione di legittimità costituzionale per violazione artt. 3, 24 e 53 Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza nota di Lorenzo del Federico

90

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. IX, 18 marzo 2008, n. 55 Ici - Fabbricati posseduti da una Onlus - Esenzione ex art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs n. 504/1992 - Utilizzo diretto come sede legale della Onlus - Spettanza dell’esenzione nota di Barbara Arcaio

95

IRES Commissione tributaria di II grado di Bolzano, sez. II, 17 maggio 2007, n. 7 Ires - Redditi d’impresa - Inerenza dei componenti negativi - Fusione per incorporazione - Impugnazione della delibera di approvazione - Somma versata in via transattiva - Costo inerente - Deducibilità nota di Gianluca Triolo

101

IRPEF Commissione tributaria provinciale di Venezia, sez. XII, 8 febbraio 2008, n. 1 Irpef - Reddito da lavoro dipendente - Incentivo all’esodo - Tassazione separata - Aliquota agevolata ex art. 19, comma 4-bis, T.U.I.R. - Trattamento agevolato per le donne ultracinquantenni e per gli uomini ultracinquantacinquenni - Divieto di trattamento discriminatorio tra uomini e donne - Applicazione anche agli uomini di età compresa tra i cinquanta e i cinquantacinque anni

104

IVA Commissione tributaria provinciale di Latina, sez. V, 8 aprile 2008, n. 50 Iva - Diritto di detrazione - Imposta relativa ad operazioni passive “prodromiche” all’attività d’impresa - Assenza di operazioni attive - Detraibilità - Condizioni nota di Claudia Turchet

106

PROCESSO TRIBUTARIO Commissione tributaria regionale del Molise, sez. II, 21 maggio 2008, n. 39 Processo tributario - Conciliazione giudiziale - Natura negoziale - Inadempimenti - Conseguenze - Recupero coattivo

115


6

GiustiziaTributaria

1 2009

Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 126 Processo tributario - Declinatoria di giurisdizione - Conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda originaria Riassunzione tempestiva oltre il termine per impugnare l’atto - Decadenza - Esclusione

117

Processo tributario - Prove raccolte in un giudizio diverso tra le stesse parti - Sentenza - Valore documentale - Ammissibilità Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. XVI, 20 gennaio 2009, n. 12 Processo tributario - Commissioni tributarie - Controversie relative al canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche Giurisdizione delle Commissioni tributarie - Esclusione

119

Processo tributario - Ricorso proposto alla commissione tributaria priva di giurisdizione - Inammissibilità - Riassunzione della causa innanzi al giudice ordinario fornito di giurisdizione - Termine di sei mesi nota di Alessandra Villecco

RISCOSSIONE Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. XI, 20 novembre 2008, n. 134 Riscossione - Cartella di pagamento - Notifica al socio accomandatario di società fallita - Avviso di accertamento notificato soltanto al curatore - Nullità

123

ATTI E INTERVENTI L’imponibilità fiscale del risarcimento del danno alla professionalità ed all’immagine di Paolo Barabino

125

Rassegna di giurisprudenza sul diritto penale tributario (2007/2008) di Gian Luca Soana

127

Indice cronologico delle sentenze

136


Giovanni Puoti e Maria Assunta Icolari 1 2009 7

LA RIFORMA DELLA RISCOSSIONE AD OPERA DEL DECRETO LEGGE 203/2005: PROFILI RICOSTRUTTIVI di Giovanni Puoti e Maria Assunta Icolari1 1. Premessa - 2. La fase della riscossione dei tributi nel sistema dei principi che governano l’attività amministrativa tributaria - 3. Equitalia nel contesto attuativo dei tributi. Aspetti problematici della definizione del modello - 4. Equitalia ed esecuzione coattiva mediante l’ingiunzione fiscale - 5. Equitalia e il fermo amministrativo. L’istituto del fermo amministrativo e i modelli normativamente disciplinati - 6. Conclusioni 1. Premessa Il piano della trattazione che seguirà è presto tracciato: dopo un breve cenno alle ragioni che hanno comportato la modifica delle norme sulla riscossione dei tributi nel verso della sfera pubblica, prendendo spunto anche dalla mancanza di continuità con le regole dell’accertamento (confermata peraltro dalla pronuncia costituzionale n. 280/20052), si tenta di qualificare la natura giuridica di Equitalia ed, in particolare, le misure dell’ingiunzione fiscale e del fermo. Pertanto, la riforma ad opera del D.L. 203/2005, completata dal D.L. 262/2006 e dal decreto Bersani-Visco si muove precipuamente nell’ottica di migliorare la fase coattiva, estendendo poteri autoritativi in precedenza esclusivi dell’accertamento e rafforzando contestualmente anche gli strumenti di recupero a mezzo ruolo. A tal riguardo, il ritorno della riscossione nella mano pubblica, mediante il coinvolgimento dell’Agenzia delle Entrate, cerca di dar vita ai presupposti per un governo unitario dell’obbligazione tributaria, per così migliorare anche il rapporto con il contribuente nondimeno abbassare i costi di gestione del servizio pubblico in oggetto. La scelta politica, attraverso la creazione di Equitalia S.p.A., di incidere sul profilo organizzativo della riscossione per realizzare l’efficienza, ponendo in tal modo anche un argine agli alti livelli di evasione (nel senso di omesso pagamento del tributo), in verità desta qualche perplessità. Da un lato, infatti, la disciplina di un organo solo formalmente privatistico e dotato di personalità giuridica appare in qualche punto priva di coerenza. Sul funzionamento del modello, invece, la scelta di mantenere inalterate alcune procedure ovvero di ripristinarne altre, vedi il fermo ammi-

1 Il presente contributo è stato elaborato congiuntamente dai due autori, ad ogni modo i paragrafi da 1 a 4 sono stati realizzati dalla Dott.ssa Icolari, i paragrafi 5 e 6 dal Prof. Puoti. 2 Prova del collegamento della riscossione con il principio della capacità contributiva e in generale con l’origine dei doveri pubblici, sotto altro versante è riscontrabile già nella sentenza costituzionale n. 468/1992, consultabile dal sito www.consultaonline.it , nella quale l’interesse sotteso alla riscossione coattiva dei tributi è quello che lo «Stato disponga di mezzi necessari per perseguire gli interessi pubblici dei quali si pone come ente esponenziale per cui è dotato di una particolare rilevanza anche costituzionale, ai sensi degli artt. 53 e 2 della Costituzione». La sentenza citata nel testo a fondamento della protezione del contraente debole del rapporto tributario, il contribuente,

nistrativo o l’istituto dell’ingiunzione fiscale, sconta più di un’obiezione soprattutto perché in un momento in cui le regole dell’attività amministrativa sono mutate sensibilmente. In tal verso, dalla legge 241/1990 in poi, il legislatore ha espresso una serie di indirizzi, quali il valore del tempo nel quale concludere una procedura, prescrivendo anche l’apporto partecipativo del privato, che combinati con i principi dello Statuto dei diritti del contribuente volgono verso un riassetto delle garanzie del contribuente anche nella fase dell’esazione del tributo. Nell’ordine delle idee, la riflessione continua con qualche osservazione proprio in merito al rapporto tra principio di efficienza e garanzie che il modello appresta per i debitori d’imposta. In particolare, l’attenzione cade, nell’ambito della procedura coattiva, sull’ingiunzione fiscale, istituto mai del tutto scomparso dalla disciplina del momento satisfattivo dei tributi, nel tentativo, (dopo un breve excursus storico, soffermandosi, in particolar modo, sulle posizioni assunte nel corso degli anni da dottrina e giurisprudenza), di conferirgli una fisionomia precisa. Sul fermo, poi, la questione strettamente connessa del riparto di giurisdizione espressamente risolta dalle pronunce costituzionali n. 64 e n. 130 del 2008 e quella della Cassazione a sezioni unite del 5 giugno 2008 n. 14831, realizza, invero, non indifferenti problemi. Ciò, peraltro, va analizzato in virtù del principio del giusto processo. Alla radice, infatti, la scelta tra una procedura esecutiva basata esclusivamente sulle regole alla base del processo civile ovvero procedura sui generis per la presenza di un ente pubblico e per il corrispondente interesse sotteso, ripropone nel contesto il problema della qualificazione dei principi ispiratori del processo tributario, tra principio inquisitorio e principio dispositivo3, ed in particolare la natura giuridica delle Commissioni tributarie. Porre l’accento sull’origine del processo, in quanto giudizio diretto esclusivamente all’annullamento dell’atto o, al contrario, alla valutazione del rapporto tributario alla sua base senza rimettere in discussione la valenza unificatrice della portata dell’art. 102 Cost. richiede, in primo luogo, un confronto tra la normativa procedurale che, nel corso degli anni, ha esteso la competenza del giudice tributario4 e le prime pronunce del giudice delle leggi dedite a definire la sua natura. L’ar-

avverso atti relativi al momento satisfattivo del tributo, giunge dopo un’ordinanza, la n. 107/1993 e diverse sentenze della Cassazione, tra le quali la n. 7662/1999 e la n. 10 del 7 gennaio 2004, reperibili dal sito www.finanze.it. Nell’ultima, in realtà è chiaramente disposta la natura perentoria del termine di 5 giorni nel quale l’esattore, dopo aver ricevuto il ruolo, deve notificare la cartella di pagamento, come previsto dall’art. 25 del D.P.R. 602/1973, al contribuente, allo scopo di non lasciarlo esposto indefinitivamente all’azione del fisco. 3 Per una descrizione dei principi si vedano, MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 1997, 99 ss. Per la scienza tributaria il riferimento da ultimo va a CONSOLO, Processo tributario (natura e oggetto), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da Cassese, Milano, 2006, 4603 ss., CIPOLLA, Processo tributario (disciplina), ivi, 4599, e, infi-

ne, per i dovuti richiami soprattutto nella fase istruttoria, SALVINI, Procedimento amministrativo (Dir. Trib.), ivi, 4531 ss. 4 Sul punto, tra gli altri, in dottrina BASILAVECCHIA, La giurisdizione sulla sospensione della cartella di pagamento, in Dir. e Prat. Trib., 5, 2005, 1035 ss. In tal senso, Cass., sez. trib., 9 agosto 2007, n. 17526 in materia di giudice competente per gli atti riguardanti l’esazione della Tia. Il tributo in oggetto, introdotto dall’art. 238 del D.Lgs. 152/2006, nonostante gli atti apparentemente privatistici con cui esso è richiesto e nonostante il suo mancato inserimento nel comma 1 dell’art. 19 del D.Lgs. 546/1992, (pur se è piuttosto pacifica che l’interpretazione tassativa di tale elenco debba tener conto anche dell’ampiezza contenutistica degli atti in esso inserito), assume la natura di prelievo a carattere pubblico, non rinvenendo in esso alcuna sorta di intervento o at-


8

GiustiziaTributaria

1 2009

gomento, infine, degno di un’attenta osservazione per i molteplici momenti essenziali attuativi del tributo. Finora, invece, il versanprofili di non scarso rilievo connessi, si presenta nelle sue diverse te della mancata corrispondenza con i principi costituzionali che sorreggono l’impianto accertativo dell’imposta svela nell’assenza sfaccettature e, quindi, nei problemi ancora aperto. di un nesso funzionale tra riscossione e capacità contributiva, 2. La fase della riscossione dei tributi nel sistema dei una questione problematica di non poco conto7. L’assenza di un principi che governano l’attività amministrativa tribu- reale coordinamento, anche attraverso dei richiami diretti, fra le taria esemplificazioni dei modi di assolvimento del debito tributario e Osservando la legislazione concernente i criteri di assolvimento il principio di giustizia tributaria, se per un verso segna un condel tributo che nel corso degli anni si è avvicendata si rileva una fine che avrebbe facilmente evitato la scelta di campo tra attività sorta di intreccio tra i provvedimenti che privilegiano l’autoliqui- autoritativa sic et sempliciter ovvero apertura ad alcune norme di dazione, ovvero anche la riscossione spontanea a mezzo ruolo diritto privato anche nell’attuazione del tributo, dall’altro rende (accentuando l’esigenza di semplificare e velocizzare i tempi di particolarmente impropria la sopravvivenza nel sistema di una realizzazione del debito tributario), e le formule coattive che si qualificazione del bene interesse alla esazione del tributo diverfanno risalire dall’art. 11 combinato con l’art. 50 del D.P.R. n. samente dalla realizzazione della sua pretesa. Siffatta situazione 602/1973 e sue successive modificazioni. si riverbera, in special modo, su questioni di più ampio respiro A tal riguardo, pur senza mai essere pervenuti ad un consolida- dell’ordinamento tributario. Le quali seppur intaccano precipuamento in un’unica procedura tributaria ovvero ad una codifica- mente i diritti del contribuente, in quanto parte debole del rapzione delle procedure della fase dell’attuazione dell’imposta, porto, implicitamente toccano la finalità del concorso alle spese punti fermi vengono offerti dalla dottrina a proposito del dato pubbliche incidendo sul connubio che deve sussistere fra effiche la legge già da prima della riforma tributaria prescrive l’uti- cienza e solidarietà nel modello contributivo. A tale scopo vanno lizzo del ruolo per giustificare che l’esazione del tributo è affida- rammentate le questioni sorte in materia di violazione del printa ad un organo diverso ed estraneo all’amministrazione finan- cipio di certezza del diritto, e del diritto di difesa, come nel caso ziaria5 e che la sua efficacia nei confronti del contribuente è ri- della mancanza di un termine perentorio per la notifica degli atmessa alla presenza della cartella di pagamento6. Sulla base di ti riguardanti proprio la riscossione, in taluni casi non superabitali presupposti, si può sostenere che le regole che informano il le neppure mediante il ricorso alla categoria dell’interpretazione momento che consegue all’art. 50 del D.P.R. 602/1973 ora più adeguatrice. E ancora per la violazione del diritto di difesa e del che mai richiedono una rivisitazione, in continuità con le regole giusto processo in ordine alla mancata notifica del ricorso per che sovrastano l’accertamento anche per quanto attiene i mezzi questioni concernenti non soltanto la legittimità dell’atto imposidi tutela e le garanzie da accordare. Anche se la classificazione tivo, bensì anche il rapporto giuridico d’imposta che ne è alla batra riscossione spontanea e riscossione coattiva sembra, nei fatti, se, determinando in tal modo l’impossibilità a difendersi ed a cocreare un distinguo ingiustificato tra i modi di estinzione dell’ob- stituire la parità processuale tra le parti, spirito della novella cobligazione tributaria stessa, basati, mediante il ricorso alle regole stituzionale modificativa dell’art. 111 Cost8. E, infine, il collegainvalse dal diritto civile, sui metodi satisfattori e non satisfattori. mento sanzioni tributarie/riscossione, vista la sussidiarietà degli Pertanto, più che di riscossione spontanea si dovrebbe parlare di strumenti repressivi non solo rispetto all’accertamento ma anche esatto adempimento dell’obbligazione pubblica e indisponibile, rispetto al momento satisfattivo della pretesa giusta imposta, in che deve avvenire in conformità a quanto previsto dalla legge, in quanto così inteso il bene interesse alla riscossione acquista un ribase cioè a quanto il principio di legalità sostanziale prescrive. A lievo peculiare che non dovrebbe consentire alcuna sorta di deciò, forse, potrebbe conseguire anche una reale sintonia tra i due penalizzazione9.

5 6 7

8

to volontario del privato. Pertanto, indiscussa è la natura tributaria del prelievo e, quindi, la competenza del suo giudice. FALSITTA. LA ROSA. In proposito, a tutt’oggi, nonostante la copiosa produzione in tema di capacità contributiva, non si ritrovano orientamenti che riconducono espressamente queste due fasi sotto l’ombrello dell’art. 53 Cost. Tuttavia per una serie di motivi che non è possibile qui enucleare, conviene rinviare a qualche spunto interessante che si può cogliere, fra gli altri, da MOSCHETTI, La razionalità del prelievo ed il concorso alle spese pubbliche, intervento al convegno “Le ragioni del diritto tributario in Europa” tenutosi a Bologna il 26-27 ottobre 2003 (paper). Peraltro, di recente un contributo valido nei termini dell’eguaglianza tributaria è quello di PITTEN VILLOSO; Eguaglianza tributaria e proporzionalità, in Riv. Dir. Trib., novembre 2006, 821 ss. Al riguardo, il giudice delle leggi nella censura n. 1/2007, reperibile dal sito www.consultaonline., evidenzia la vitalità dell’iniziativa di parte nelle questioni attinenti il rapporto giuridico d’imposta. Nello specifico, nella motivazione si ravvede l’illegittimità degli articoli 52, 53 e 54 del regolamento per la

procedura innanzi alla Corte dei Conti, R.D. n. 1038/1933, nella parte in cui non prevede che il ricorso dell’esattore avverso un diniego di rimborso notificato anche all’amministrazione finanziaria, in quanto omissione violativa del diritto di difesa combinato alla formula costituzionale del giusto processo. In merito, nell’additiva di principio la Corte avendo qualificato il giudizio volto all’accertamento della pretesa su una partita di conto tra l’esattore e l’amministrazione finanziaria, per cui fuoriesce dai giudizi contabili nei quali il P. agisce a tutela anche degli interessi concreti dei singoli e della p.a., ritiene un trattamento discriminatorio non estendere la notificazione del ricorso all’amministrazione finanziaria. Nel suo ragionamento, infatti, oggetto del giudizio per il giudice costituzionale non è il provvedimento finale bensì l’intero rapporto che ha dato vita alla procedura amministrativa, per cui il giudice contabile contestando la legittimità di detto atto accerta, nello stesso momento, anche il diritto rivendicato dall’esattore, ordinando all’amministrazione fiscale la restituzione della quota esigibile. 9 Sulla peculiarità delle modalità di riscossione delle sanzioni amministrative e sull’applicabilità del principio di tassatività della pena

e/o della sanzione nella stessa procedura che, nel caso di specie, comprende persino la fase del prelievo, questione di non poco momento attiene sicuramente alla disciplina applicabile nel momento di realizzazione coattiva, distinto, in origine, senza alcun valido fondamento giuridico, a seconda se sanzioni amministrative tributarie oppure non tributarie. Ad ogni modo, il problema pare essersi risolto mediante la norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1 comma 447 della legge finanziaria per il 2006, in specie nel punto dove precisa che i concessionari possono procedere ad accertamento, liquidazione e riscossione, volontaria e coattiva di tutte le entrate degli enti pubblici, comprese le sanzioni amministrative a qualsiasi titolo irrogate e con le stesse modalità ordinariamente previste per la gestione e riscossione delle entrate tributarie e patrimoniali dell’ente stesso. Ciò, quindi, implicitamente estende il ricorso alla procedura dell’ingiunzione fiscale, alla quale si guarda con maggior favore in quanto ritenuta realizzativa del bene interesse alla riscossione, in base a quanto la Consulta nella sentenza n. 516/1982 ritrova a favore degli atti prodromici sia dell’accertamento, sia della riscossione dei tributi, anche per le sanzioni


Giovanni Puoti e Maria Assunta Icolari 1 2009 9

3. Equitalia nel contesto attuativo dei tributi. Aspetti problematici della definizione del modello Sul tema della riforma della riscossione si discute anche se in contesti e momenti di maggiore o minore tensione oramai da anni10. La modifica al sistema vigente, infatti, anche se in situazioni più temperate veniva indicata da tutte le componenti politiche, anche tenendo conto delle considerazioni emerse durante l’audizione degli esperti del settore direttamente coinvolti dal fenomeno, come un’emergenza alla quale fare fronte visto lo scarso livello di realizzo della pretesa fiscale11. Entrando nel merito della questione, l’iter che prelude la sua stesura rivela, invero, qualche tensione relativamente alla salvaguardia delle garanzie dei dipendenti, rallentando di molto il processo di unificazione della riscossione nelle mani di un unico soggetto pubblico, nonché qualche presa di posizione in ordine al dato che il tutto si potesse risolvere in sussidi per il settore bancario, sinora fortemente investito della questione12. In effetti, laddove una banca, concessionaria, dovesse perseguire attraverso la riscossione coattiva un contribuente che è anche suo cliente diviene pressoché impossibile non immaginare un conflitto d’interesse. In realtà, lo spirito della riforma muove dall’esigenza di rendere più agevole e uniforme la procedura sia delle entrate tributarie erariali nondimeno quelle degli enti locali. Per tale motivo, la costituenda società pubblica propone di trattare la morosità con un’unica modalità e se del caso raggruppando i debitori d’imposta in categorie, sulla scorta di quanto già avviene per l’accertamento con l’applicazione degli studi di settore. Sulla base di tali indicazioni, la formulazione legislativa in favore dell’impresa pubblica modifica alcune regole alla base del munus pubblico, reintroducendo l’ingiunzione fiscale, in quanto procedimento ritenuto di concreta e pronta realizzazione del binomio efficienzaeconomicità dell’azione amministrativa finanziaria. Infine, sulla scorta dell’esperienza dei tributi locali, predispone per la riunione in un’unica gestione della fase dalla formazione del titolo a quella della sua esecuzione forzata. In tal senso, vanno lette le integrazioni all’art 3 del decreto legge n. 203/200513, nello specifico il comma 38, in materia di reintroduzione del pignoramento di 1/5 degli stipendi e quello presso terzi senza l’intervento del

amministrative non tributarie. In ordine alla tutela cautelare nel processo tributario per l’aspetto relativo alle sanzioni, tra gli altri, BELLÈ, La tutela cautelare nel processo tributario, in Dir. e Prat. Trib., 1, 2005, 142 ss. 10 Per una ricostruzione dell’istituto della riscossione alla luce delle modifiche sostanziali che nel corso degli anni si sono avvicendate è possibile riferirsi a, RINALDI, voce Riscossione dei tributi, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da Cassese, Milano, 2006, 5350 ss., prima ancora a DOLFIN e FALSITTA, voce Tributi (Riscossione dei), in Enc. Dir., IV, Milano, 1999, 1119 ss. 11 Tra gli altri, Commissione VI Finanze, indagine conoscitiva, resoconto stenografico della seduta di giovedì 27 marzo 2003, Audizione dei rappresentanti dell’Associazione nazionale aziende concessionarie servizi entrate locali (Anacap), reperibile dal sito www.senato.it., e da ultimo anche l’analisi e i commenti ad opera del Dott. ALLEGRETTI, presidente Associazione nazionale addetti riscossione entrate dello Stato e degli enti pubblici in ordine alla riforma della riscossione dei tributi, nella quale si conclude proponendo un tavolo tecnico di confronto con l’amministrazione tributaria, nonché resoconto della VI Commissione permanente (Finanze), martedì 5 dicembre

giudice, l’estensione della pratica del fermo amministrativo14, nonché la conferma, per i tributi locali della gestione in un’unica mano degli atti conseguenti dall’accertamento sino alla realizzazione dell’imposta. Anche se punti controversi, in quanto non controbilanciati da idonee garanzie, per il pignoramento automatico presso terzi restano da un lato il silenzio legislativo rispetto alla tutela del terzo debitore del soggetto passivo d’imposta con evidenti riflessi sul riparto di giurisdizione. Dall’altro, dopo il collegato alla Finanziaria 2007, il fatto che l’ordine di pagamento per il terzo non presume più l’ordine di comparire davanti al giudice dell’esecuzione, né tanto meno prescrive l’obbligo di notifica per il contribuente, può, creare una serie di lesioni e di inconvenienti nei rapporti tra i soggetti in questione. A ciò, però, va considerato come aspetto intermedio le modifiche in ordine al termine perentorio della dichiarazione del terzo debitore del contribuente e la possibilità per Equitalia di accedere alle banche dati, di acquisire dati finanziari e di ridurre vincoli su pignoramento e fermo. Al momento, nonostante la premessa di un profondo cambiamento delle procedure dal varo della riforma alla sua completa attuazione, pur per il lungo periodo transitorio del quale si è disposto, è possibile riflettere su qualche profilo in ordine alla definizione della natura giuridica15 di Equitalia S.p.A di immediato riflesso sul profilo procedurale. Tale impegnativa scelta di principio, che si coglie meglio se si fa anche un raffronto con la procedura della riscossione/adempimento obbligazione tributaria, negli altri sistemi ove per lo più appare gestita sempre dal potere pubblico16, prende le mosse dal profondo ripensamento a cui assiste odiernamente la pubblica amministrazione, con un concetto di ente pubblico che ha assunto oramai dei connotati così ampi, e della connessa nozione di atto pubblico quale conseguenza anche dell’interrelazione diritto primario comunitario/diritto nazionale. Ciò, invero, riflette in sé tutta la problematica che investe la pubblica amministrazione relativa alla contrapposizione tra attività autoritativa e attività amministrativa svolta in collaborazione e in condizione di parità con i privati e a vantaggio dei cittadini. Nella descrizione della natura Equitalia S.p.A., dopo aver appurato la mancanza anche a livello comunitario di una nozione uni-

2006, esame del provvedimento C. 1762, reperibile dal sito www.senato.it. 12 Interrogazione parlamentare n. 5-02245 del 31 luglio 2003, proposta dagli On. BENVENUTO e PISTONE, consultabile dal sito www.senato.it. 13 Resoconto stenografico VI Commissione permanente, sommario n. 300 del 19 ottobre 2005 reperibile dal sito www.senato.it. 14 Emblematica, per i risvolti sul diritto di difesa e più in generale sui diritti inviolabili connessi e anche per questo, forse, bisognosa di un’armonica disciplina che contempli sia i poteri organizzativi amministrativi nondimeno le procedure giurisdizionali che concernono persino i terzi, tenendo separati solo aspetti specifici frutto di situazioni peculiari, è la novità normativa che estende la modalità semplificata, finora prevista per la pignorabilità degli stipendi, senza mediazione giudiziaria, ad ogni forma di pignoramento presso terzi. Sul punto, BASILAVECCHIA, Soggetti passivi e riscossione coattiva, in Corr. Trib., 43, 2006, 3393 ss. 15 Una prima lettura sulla riforma in parola è operata da PARLATO, Brevi note sulla Riscossione S.p.A., in Rass. Trib, 4, 2006, 473 ss. Sulla natura giuridica di Equitalia ampi riferimenti sono offerti dal contributo di PARLATO, Gestione pubblica e privata nella riscos-

sione dei tributi a mezzo ruolo, in Rass. Trib., 5, 2007, 1355 ss. 16 La procedura contenziosa fiscale francese, gestita dalla mano pubblica, offre al contribuente che non contesta il fondamento dell’imposta bensì la validità e la regolarità degli atti da assolvere un’azione che è contemplata dall’art. 281 L.P.F. Divisa tra la contestazione della regolarità dell’atto che prevede persino un ricorso al giudice ordinario, il quale giudica attenendosi al principio del chiesto e pronunciato, la questione del riparto di competenza tra giudice ordinario e amministrativo diventa complessa quando il contribuente contesta l’esistenza, il quantum o l’esigibilità della somma imposta. Per i riferimenti al sistema francese si veda, GROSCLAUDE e MARCHESSOU, Diritto tributario francese, a cura di De Mita, Milano, 2006, 608 ss. Per la conclusione di un necessario riavvicinamento tra le distinte discipline concernenti le procedure di riscossione nei paesi della Comunità europea e sulla reciproca assistenza ancora valido il contributo di SACCHETTO, La cooperazione nella CEE in materia di riscossione dei crediti tributari. Analisi della situazione e proposte, in Convivenza nella libertà, scritti in onore di Abbamonte, Napoli, 1999, 1207 ss.


10

GiustiziaTributaria

1 2009

taria di soggetto di diritto pubblico, il fuoco del confronto si riassume intorno alla qualificazione se organismo di diritto pubblico oppure impresa pubblica con possibilità di affidamento in house17. Dalla valutazione rileva, innanzitutto, una difficoltà intrinseca a pervenire ad accezioni valide in tutti gli ordinamenti, per cui la giurisprudenza comunitaria tenta da sempre di giungere a soluzioni ragionevoli e condivise tra diritto comunitario e recepimento nazionale. Il centro del problema è stabilire se tali organi, formalmente privatistici ma sostanzialmente dell’organizzazione pubblica, agiscono all’interno del mercato, pur ammettendo deroghe nell’applicazione dei principi comunitari, o, al contrario, al di fuori di questo, per cui il rispetto dell’imparzialità e della trasparenza diventano presupposti inscindibili dalle fattispecie in oggetto. In tale contesto, i giudici di Bruxelles hanno dapprima dichiarato l’incompatibilità di società miste, successivamente hanno ribadito che «quando la società concessionaria è aperta anche solo in parte al capitale dei privati tale circostanza impedisce di considerare una struttura di gestione interna del servizio pubblico l’ente che lo detiene». Pertanto in tali casi, si realizza, sotto il versante delle regole, una sorta di autoproduzione, la quale non fa venire in essere la concorrenza, quindi, non fa sorgere l’esigenza della parità di trattamento tra gli operatori economici. Tali società, cioè, sono poste fuori dalle regole del mercato, per cui non affrontano né competizione, né fallimento. Perché ciò, però, non si trasformi in un meccanismo arbitrario è necessario che gli sia precluso di svolgere attività collaterali in concorrenza con imprese private. E, soprattutto, che si regoli il fenomeno evitando concentrazioni con l’organo controllore ovvero la verifica della compatibilità dei modelli presenti con i principi del diritto comunitario, (sancita anche dal parere della II sezione del Consiglio di Stato n. 456 del 18 aprile 2007). Non sempre, infatti, l’art. 3, 26 del D.Lgs. 163/2006, laddove prescrive i caratteri tassativi per il ritrovamento della fattispecie in esame, riesce a chiudere perfettamente il cerchio. Invero, è nella nozione di ente pubblico, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 1034/1971, che si fanno rientrare anche le tipologie in

17 Sul punto, SCOCA, Le amministrazioni come operatori giuridici, in Dir. Amm., a cura di Mazzarolli-Pericu-Romano-Roversi MonacoScoca, Bologna, 1998, 512 e GRECO, Ente pubblico, impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, in Riv. It. Dir. Pubb. Comp., 2000, 839 ss. In realtà, la definizione di soggetto pubblico sconta l’assenza in tutti i livelli di potere coinvolti di una nozione unitaria. A ciò, prima la Corte di giustizia con la famosa, per aver fornito dei criteri di riconoscimento, sentenza Teckal poi anche il nostro Consiglio di Stato hanno cercato di fare fronte enucleando dei presupposti validi in ogni singola fattispecie. A tale proposito il ricorso al cosiddetto “controllo analogo” inteso come un «rapporto che determina da parte dell’amministrazione controllante un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione», (sentenza Teckal), ripreso dalla sentenza dell’11 gennaio 2005 si ritiene sussistente se verifica in concreto una sorta di amministrazione indiretta del servizio. In tal senso, «la struttura deve essere tale da consentire la più totale ingerenza e controllo sulla gestione, nonché sull’andamento economico-finanziario, analogamente a quanto avrebbe potuto fare con un servizio gestito direttamente». Tale tipologia di controllo, ingerendosi, quindi, nelle singole modalità ope-

materia di appalti di pubblici servizi, per l’attività posta in essere. La giurisprudenza italiana nell’occasione, pur partendo dal presupposto che tali formule di svolgimento dei servizi pubblici dovrebbero rappresentare l’eccezione e non la regola, declina il cosiddetto “controllo analogo” tentando di descriverlo come un rapporto equivalente che, a fini pratici, corrisponde alla subordinazione gerarchica con un controllo genuino uguale a quello esercitato sui propri servizi. A criteri piuttosto restrittivi di contro ammette persino che l’organismo di diritto pubblico possa rivestire carattere imprenditoriale a condizione che comunque agisca per soddisfare l’interesse generale della collettività, in quanto dotato di personalità giuridica. Alla stregua, l’assenza di controlli amministrativi sull’attività e sull’organizzazione societaria vengono ritenuti irrilevanti quando l’attività è finanziata per la maggior parte dall’apparato pubblico, oppure quando questi designa la maggior parte degli organi sociali rilevanti, caratterizzando, peraltro, il rapporto tra società e pubblica amministrazione con quest’ultima in posizione dominante18. All’interno dei confini nei quali questo affidamento è ritenuto ammissibile i problemi di fondo restano sicuramente l’imparzialità delle procedure, la terzietà, la trasparenza nei rapporti e ancor di più il conflitto di interessi che si potrebbe generare. Dopo tale premessa ricostruttiva, tornando all’oggetto della riforma tributaria, emblematica si presenta, sotto il versante della separazione tra organi di controllo e organi regolatori, la previsione di riunire tutto nelle mani dell’Agenzia dell’Entrate, nondimeno il profilo del raccordo anche con il sistema dei tributi locali. Proprio in ordine ai tributi locali lo sviluppo della riforma evidenzia qualche perplessità dopo l’inserimento del comma 7 nell’art. 3 del decreto legge in parola, nello specifico come Equitalia S.p.A. acquisirà la gestione del servizio, se con procedura ad evidenza pubblica oppure se basterà qualche semplice convenzione. In merito, va ribadito come in precedenza l’art. 52 del D.Lgs. 446/1997 al comma 5 imponeva l’obbligo del rispetto dei vincoli comunitari. Altra questione problematica, dopo il conferimento alla potestà statutaria regionale dell’autonomia ammini-

rative e di gestione anche di dettaglio, è ascrivibile alla categoria dei controlli di diritto amministrativo, diversi da quelli di tipo civilistico o societario (Cons. di Stato, sez. V, 13 dicembre 2005, n.7058). Da ultimo, sempre il Consiglio di Stato, sez. V, 8 gennaio 2007, n. 5, ritiene insussistente il «controllo analogo» quando lo statuto di una S.p.A. intercomunale è quello di una «normale società per azioni» e non si prevede alcun elemento di raccordo tra gli organi sociali e gli enti pubblici territoriali coinvolti. Questo, in effetti, si atteggia ad una sorta di «rapporto equivalente ai fini politici ad una subordinazione gerarchica» (Cons. di Stato, 25 gennaio 2005, n.168 e 30 agosto 2006, n. 5072). Invero, il fuoco della contesa versa tutto sul terreno impervio del rapporto tra impresa e p.a., con quest’ultima in posizione dominante, in quanto l’attività deve essere proiettata al soddisfacimento dei bisogni della collettività. All’occorrenza il carattere di flessibilità dell’attività amministrativa consente persino deroghe alle direttive comunitarie, in merito la n. 17 e 18 del 2004, e restrizioni dei principi della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi, stante però l’insussistenza di un rapporto di terzietà tra soggetto partecipato ed amministrazione controllante, in considerazione di una condizione di dipendenza finanziaria ed organizzativa, attesa

l’attribuzione di una pubblica funzione amministrativa, così Cons. di Stato, ordinanza del 22 aprile 2004, n. 2316. Tale apertura per parte della dottrina rappresenta l’aggancio per sostenere la non tassatività della categoria. In tal verso, SORACE, L’ente pubblico tra diritto comunitario e diritto nazionale, in Riv. It. Dir. Pubb. Comp., 1992, 357 e più di recente, CHITI, Impresa pubblica e organismo di diritto pubblico: nuove forme di soggettività giuridica o nozioni funzionali?, in SANDULLI, Organismi e imprese pubbliche, Milano, 2004, 70 ss., il quale sostiene apertamente la possibilità che la figura soggettiva di tali fattispecie giuridiche sia tenuta all’applicazione di discipline di volta in volta diverse. Sull’interpretazione della nozione da ultimo, CHITI, Organismo di diritto pubblico, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da Cassese, Milano, 2006, IV. 18 Tale percorso completo di riferimenti giurisprudenziali e di suggestive riflessione è, autorevolmente, ricondotto negli interventi di MERUSI e di SEVERINI al convegno “Regolazione e gestione dei servizi pubblici locali. A cento anni dalla legge 29 marzo 1903, n. 103”, tenutosi a Bologna il 29 marzo 2003, presso la Scuola di specializzazione in studi sull’amministrazione pubblica dell’Università di Bologna. I contributi sono consultabili dal sito www.amministrazioneincammino.it.


Giovanni Puoti e Maria Assunta Icolari 1 2009 11

strativa in base ai principi di leale collaborazione e sussidiarietà, è quella di armonizzare o differenziare le procedure di assolvimento dei distinti tipi di tributi. Ciò, in primo luogo, richiede l’armonia tra potestà esclusiva statale in tema di tutela della concorrenza e potestà concorrente di coordinamento del sistema tributario19. Per finire, pur senza esaurire le controversie che da un’attenta riflessione tale riforma presenta, il versante della formula organizzativa di Equitalia S.p.A. lascia qualche incertezza proprio in merito alla trasparenza nei rapporti e alla terzietà nelle operazioni di controllo. Invero, il comma 3 dell’art. 3 della legge finanziaria del 2006 prosegue indicando, nella composizione dell’organismo, che la maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione è composta dai dirigenti di vertice dell’Agenzia delle Entrate e dell’Inps, mentre il collegio sindacale è scelto tra i magistrati della Corte dei Conti20. Tale prescrizione di principio, infatti, denota lo scenario problematico del se la Corte dei Conti possa veramente svolgere un controllo genuino, con il timore paventato della sovrapposizione fra controlli e della trasparenza nei rapporti, visto il vaglio già espresso da suddetto giudice sulla gestione finanziaria dell’Agenzia dell’Entrate, così come statuito dall’art. 61 della legge n. 300/1999. È pur vero che la predisposizione dell’art. 100 Cost. con la legge ordinaria del 1958 che disciplina la tipologia del controllo anche di Equitalia e della sua funzione strumentale di esazione dei tributi, e ancora il vaglio del giudice contabile, il quale non riferisce solo in Parlamento, ma bensì ha una giurisdizione piena della responsabilità amministrativa di gestione del danaro pubblico, volgono nel senso di evitare pericolose commistioni. Anzi dovrebbero favorire l’assunzione di una posizione di terzietà dell’Agenzia delle Entrate, con moduli funzionali che perseguono l’interesse pubblico in modo neutrale rispetto agli interessi in gioco. Nel frattempo, chissà se l’esperimento del bilancio consolidato possa in qualche modo rappresentare una chiave di volta tesa a evitare commistioni pericolose per l’imparzialità e il buon andamento e soprattutto a scongiurare la creazione di nicchie protette, rafforzando, così anche la trasparenza nel controllo e, quindi, nei rapporti. 4. Equitalia ed esecuzione coattiva mediante l’ingiunzione fiscale Passando a considerazioni più ampie sempre in tema di riscossione, la riforma in parola, dopo una copiosa e non sempre armonica legislazione in materia di esazione dei crediti d’imposta, mossa dall’esigenza concreta di celerità delle procedure in quanto sinonimo di efficienza, medita nuovamente sull’interesse fiscale relativo alla fase satisfattiva della pretesa tributaria. Invero, se da un lato siffatta rilettura ha comportato l’adozione di disposizioni innovative tese a garantire l’esatto adempimento del debito d’imposta, accentuando, peraltro, anche il profilo autoritativo in continuità con le teorie dell’accertamento, dall’altro richiede sicuramente l’imple-

19 La pronuncia costituzionale depositata il 3 marzo 2006, estensore il giudice De Siervo, in tema di tutela della concorrenza statuisce «nel quadro del nuovo titolo V della Costituzione questa è riconducibile alla competenza esclusiva statale. La Corte ha già avuto modo di affermare che la configurazione della tutela della concorrenza ha una portata così ampia da legittimare interventi dello Stato volti sia a promuovere sia a proteggere l’assetto concorrenziale del mercato (272/2004). Le competenze esclusive statali che- come quella relativa alla concorrenza – si configurano come trasversali, incidono

mentazione di nuove garanzie per il contribuente. Queste ultime, infatti, presenti solo attraverso le accezioni scaturenti da posizioni giuridiche di vantaggio, quali la sospensione dell’esecuzione ovvero la compensazione fra i modi di estinzione dell’obbligazione tributaria, non sempre risultano sufficienti. La riforma che, in sintesi, prevede nei ruoli organici della riscossione la costituenda società pubblica non muta il procedimento. Ancorato, nei fatti, alla distinzione tra titolarità del credito di competenza dell’ente creditore e titolarità dell’attività esecutiva, in capo all’organo che materialmente effettua la riscossione, con una formula in bianco che rinvia alle regole del codice di procedura civile, quando la specialità della materia per la natura della sua obbligazione non consenta deroghe contestuali, sulla falsa riga della disciplina del contenzioso tributario. A tal riguardo, i dubbi sollevati circa la natura di Equitalia S.p.A. si riverberano sulla fattispecie in esame per cui in presenza di un modello ibrido anche la separazione tra titolarità del credito e titolarità dell’azione esecutiva ne rimane sostanzialmente coinvolta. Al punto, per cui risulta ulteriormente controverso, contrario anche con l’esigenza di celerità, non consentire il discarico sul ruolo in caso di partite erroneamente iscritte o non correttamente notificate al contribuente, lo sgravio anche parziale della cartella quando contenga un debito assolto oppure indebitamente pagato. Oppure la richiesta di sospensione degli atti esecutivi anche da parte del concessionario nel caso sia dubbia la legittimità del credito, come nel caso dei crediti da lavoro ove tali questioni sono di competenza dell’ente previdenziale. Dalla distinzione appena tracciata si rinviene una considerazione. Tenuto fermo il principio che nel caso di crediti tributari ogni atto della sequenza procedimentale della riscossione va singolarmente impugnato, per cui nel caso dell’impugnazione della cartella la legittimazione passiva dell’agente della riscossione sussiste solo se l’impugnazione concerne vizi propri della cartella o del procedimento esecutivo, mentre resta escluso per i motivi di debenza del tributo, pare fondato consentire, per i casi in cui l’opposizione all’esecuzione contempli anche il merito della pretesa, in quanto ad esempio il contribuente eccepisca l’adempimento ovvero la prescrizione intervenuta dopo l’iscrizione a ruolo della somma, almeno che l’agente della riscossione possa chiamare in causa l’ente creditore, in base all’art. 39 della legge 112/1999. A questo punto del discorso, per tentare di comprendere i termini dell’annosa questione del mancato coordinamento tra fase preparatoria e fase dell’esecuzione esattoriale, conviene soffermarsi sulla normativa attualmente in vigore in materia di riscossione, in particolar modo sugli strumenti attuativi della riscossione coattiva. Ciò, però, dopo aver preso atto, in seguito all’emanazione della legge finanziaria del 2006, della tendenza favorevole ad estendere lo strumento dell’ingiunzione fiscale per tutte le entrate degli enti pubblici, comprese le sanzioni a qualsiasi titolo irrogate. Per la riscossione coattiva delle entrate pubbliche, infatti, il D.Lgs. n. 46/1999 estendeva la pratica dell’iscrizione a ruolo e, quindi,

nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse possano ritenersi propri, sulla totalità degli ambiti materiali entro i quali si applicano». 20 In seguito alla novella costituzionale 3, 2001 al ruolo della Corte dei Conti, quale organo ausiliario della Repubblica in grado di garantire la gestione della cosa pubblica nei confronti di tutti i soggetti (così sentenza Corte costituzionale n. 267/2006) in posizione di terzietà, viene ascritto e attribuita un’ulteriore funzione di garanzia, questa volta relativa alla gestione imparziale e trasparente degli enti locali mediante il cosiddetto “con-

trollo collaborativo”, come statuito dalla legge n. 131/2003, sulla falsa riga degli audit caratteristici degli ordinamenti anglosassoni. Invero, prendendo spunto da quanto appena riferito lo stesso potrebbe qualificarsi dalla partecipazione a Equitalia S.p.A., anche se punto nodale della questione, autorevolmente avanzato da DE MARTIN, L’attuazione del titolo V della Costituzione. Assetto dell’amministrazione e dei controlli, relazione al seminario interistituzionale su “L’attuazione del titolo V della Costituzione” tenutosi a Roma, 8 novembre 2006 e consultabile dal sito www.ammnistrazioneincammino.it.


12

GiustiziaTributaria

1 2009

della cartella di pagamento per le singole entrate tributarie erariali prevedendola, persino, per le entrate scaturenti da rapporti di diritto privato, mentre per i tributi locali lasciava un margine di scelta tra il ruolo e l’ingiunzione fiscale, ripristinata dall’art. 52 della legge 446/1997. La caratteristica della riscossione mediante ruolo risiede nella scissione tra titolarità del credito e titolarità dell’azione esecutiva con, in caso di inottemperanza della cartella di pagamento – pur senza mai aver avuto notizia del lasso di tempo tra l’iscrizione a ruolo e la formazione/notificazione della cartella di pagamento –, l’avvio di uno speciale procedimento di esecuzione forzata. Speciale perché non vi è il controllo preventivo del giudice dell’esecuzione, le operazioni sono affidate al concessionario della riscossione e il controllo giudiziale è solo successivo, in caso di opposizione agli atti esecutivi, nonostante l’esperibilità dell’opposizione di terzo e non anche delle opposizioni di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c. Pur se tale mancanza si ritiene colmata, almeno in parte, con l’estensione dell’applicazione dell’art. 47 della legge sul contenzioso. In tal senso, la riforma della riscossione, sotto il versante del procedimento, attualmente pare volgere nel senso dell’alternatività tra ruolo e ingiunzione fiscale sulla scorta dell’impianto sinora valido per i tributi locali. Dalle considerazioni appena esposte è possibile affermare che, dal momento che il ruolo non rappresenta più l’esclusivo strumento di riscossione dei tributi, tratto fondamentale di tutta la questione consta nella qualificazione della natura giuridica dell’ingiunzione fiscale. Nell’ambito dell’autotutela esecutiva, invero, l’amministrazione finanziaria ha il potere di emanare essa stessa il titolo esecutivo, rendendo pertanto l’obbligato soggetto all’esecuzione forzata. Sul punto, il dilemma, da sempre dibattuto sia in dottrina che in giurisprudenza, attiene se tale istituto sia espressione di un potere autoritativo che si materializza in un procedimento meramente esecutivo, pur se peculiare rispetto alle procedure monitorie contemplate dal diritto processuale civile anche perché non concerne gli aspetti sostanziali del rapporto, bensì solo la sua attuazione, ovvero se sia atto introduttivo della fase contenziosa. L’istituto previsto dal R.D. 639/1910 descrive il procedimento di emanazione dell’ingiunzione amministrativa come un ordine impartito dall’ufficio competente dell’ente creditore nei confronti del debitore di assolvere l’obbligazione fiscale entro un determinato termine, previo il ricorso all’esazione coattiva prevista dall’art. 5 della stessa disciplina, successivamente vidimato dal tribunale territorialmente competente. È proprio sull’apposizione del visto, che prima della riforma fiscale del 1971 veniva apposto dall’Intendente di finanza, che dottrina e giurisprudenza hanno a lungo dibattuto, in quanto da esso si desume la natura giuridica dell’ingiunzione fiscale, tra quella amministrativa ovvero la natura giurisdizionale, visto l’intervento del giudice21. È proprio in merito a tale intervento che

21 La Corte costituzionale nel merito pacificamente risolve da sempre, come tra l’altro nella sentenza 132/1973, ritenendo che «la funzione svolta dal pretore nell’apporre il visto di esecutorietà all’ingiunzione fiscale non è giurisdizionale ma amministrativa, in quanto l’ingiunzione fiscale costituisce un provvedimento amministrativo sui generis caratteristico del procedimento di riscossione delle imposte ed, in genere, delle entrate patrimoniali dello Stato. (art. 1 del R.D. 634/1910)». 22 Sull’ingiunzione fiscale, MARZUOLI, Ingiunzione di pagamento nel diritto amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., Milano, 1989, 395 ss., mentre per il diritto tributario, COCIVERA, Ingiunzione (diritto tributario), in Enc. Dir.,

problemi come l’esecutorietà dell’atto, la sua motivazione o la non giustiziabilità del suo diniego si rivelano in maniera preponderante. In realtà, il nucleo della questione che qui dà vita a situazioni assai particolari concernenti il proliferare dei problemi di giurisdizione prende le mosse dall’istituto dell’opposizione all’ingiunzione fiscale22. Partendo, infatti, dalla premessa per cui all’opposizione all’ingiunzione, ex art. 2 del T.U. n. 639/1910, diretta ad accertare vizi attinenti il profilo di formazione dell’atto, con un procedimento sommario che si conclude con la sua illegittimità, il legislatore affianca un’azione diretta a far accertare l’inesistenza del credito, esperibile anche nei casi di decadenza dall’opposizione dell’ingiunzione fiscale, poiché quest’ultima non accerta il rapporto, né svolge un procedimento amministrativo contenzioso diretto ad accertare l’obbligazione, come nel caso dell’ordinanza-ingiunzione, entrambe basate sull’inversione dell’onere della prova – spetta cioè al debitore opponente provare ciò che asserisce – il fuoco della contesa, dopo la lettura combinata degli artt. 2 e 19 novellati del D.P.R.. n. 546/199223, pare attestarsi sulla possibilità di una cognizione piena da parte del giudice speciale tributario. Tuttavia, qualche perplessità si profila proprio in ordine al riparto di giurisdizione quando la cartella di pagamento abbia ad oggetto anche crediti aventi natura extratributaria, nonostante le ultime pronunce della Corte costituzionale abbiano usato la materia quale criterio discretivo in tali casi. Diversamente, visto l’accertamento che vi è alla base, si ci può interrogare se l’ordinanza-ingiunzione costituisca titolo necessario per l’iscrizione del fermo da parte dell’agente della riscossione, in quanto questi, in base alla riforma, dovrebbe godere dei poteri necessari per porre in essere un’istruttoria procedimentale, spostando la riflessione sulla natura giuridica del fermo nondimeno sulle eccezioni sollevabili, con evidenti conseguenze in merito al giudice competente, di qui a breve affrontate. Al riguardo, una soluzione valida in generale per qualificare l’ingiunzione fiscale e, quindi, di conseguenza anche l’istituto dell’opposizione, pare stimarsi tra i valori costituzionali che infirmano l’attività amministrativa finanziaria. È, invero, il principio di legalità, volto della formula democratica dello Stato-apparato a consentire che l’esecutorietà diventi un connotato dell’atto in quanto conforme alla legge. Quest’ultimo, nella fattispecie non determina assetti bensì concorre a realizzare gli interessi del creditore, al quale, per la peculiarità della sua struttura e per la finalità connessa alle somme da incassare viene ragionevolmente accordata una situazione di privilegio. Ciò, nonostante Equitalia S.p.A. sia solo ente strumentale per la realizzazione dell’esazione del credito tributario. Se così non fosse, infatti, perplessità in merito al rapporto di separazione tra regolatore e controllore del fenomeno, nonché la terzietà nei confronti dell’amministrazione finanziaria verrebbero in essere.

XXI, Milano, 1971, 528 ss., e ancora nelle voci sulla riscossione ad opera sia di ALLORIO e MAGNANI, Riscossione coattiva delle imposte, in Nov. Dig. It., XVI, Torino, 1969, 34 ss., mentre ancora valido il contributo di FALSITTA, Riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e degli Enti pubblici, in Nov. Dig. It., XVI, Torino, 1969, 44 ss. Particolarmente suggestive sono le deduzioni dell’autore in merito al procedimento sommario di cognizione strettamente collegato alla motivazione dell’ingiunzione, ex art.2 del T.U. del 1910, nel quale per ragioni di semplificazione e di snellimento dell’attività amministrativa tributaria, si attribuisce all’amministrazione fiscale la possibilità di creare il titolo esecutivo lasciando all’intervento del giudice il solo

controllo sulla legittimità e fondatezza della pretesa. Invero, fuoco del dibattito è la natura giuridica del visto apposto dall’organo giudicante se amministrativa o giurisdizionale, ovvero se speciale, in quanto scaturente dalla combinazione tra entrambe le fasi in un rapporto “di coordinamento funzionale”. Altro contributo interessante è quello di MICHELI, Note esegetiche in tema di esecuzione esattoriale, in Opere minori di diritto tributario, Milano, 1982, I, 331 ss. 23 Considerazioni sull’ampliamento della giurisdizione del giudice tributario sono operate da LOVISOLO in, Osservazioni sull’ampliamento della giurisdizione e sui poteri istruttori del giudice tributario, in Dir. e Prat. Trib., 4, 2005, 1057 ss.


Giovanni Puoti e Maria Assunta Icolari 1 2009 13

A tale atto di intimazione propedeutico al procedimento esecutivo, originariamente adoperato per la riscossione delle imposte indirette e delle tasse, corrispondevano una serie di prerogative di vantaggio per l’amministrazione, oggi felicemente riprese, quali la creazione unilaterale e autoritativa del titolo esecutivo e lo svolgimento, nel caso di inottemperanza, di attività dell’esecuzione forzata non ricorrendo all’ausilio di organi giurisdizionali bensì, attualmente, direttamente in capo agli agenti della riscossione. Interpretando sistematicamente il tutto, infine, è pacifico come questa imponga di prendere in considerazione anche le eccezioni. Pertanto, se il fine rimane essere la garanzia della tutela effettiva degli individui, allora si può persino arrivare a contemplare un contenzioso tributario che accerti il rapporto alla sua base anche nella fase della riscossione, pur per evitare procedimenti defatiganti, nel caso di procedure esecutive basate su titoli illegittimi. Oppure come contromisura di una specialità delle regole a fondamento di un’esecuzione esattoriale peculiare e di una possibile arma a doppio taglio, quale è quella scaturente dall’abolizione del comma 3 dell’art. 7 del D.P.R. 546/199224. 5. Equitalia e il fermo amministrativo. L’istituto del fermo amministrativo e i modelli normativamente disciplinati La riforma della riscossione nell’ambito procedurale degli strumenti applicativi oltre all’istituto dell’ingiunzione fiscale conferma anche il fermo amministrativo nonostante le questioni problematiche che da esso traggono origine e che attengono precipuamente la tutela del contribuente arrivando persino ad annullare alcuni diritti costituzionalmente garantiti. L’analisi del fermo amministrativo prende le mosse dall’art. 1, comma 4, lett. e del D.L. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito con modificazioni nella L. 28 febbraio 1997, n. 30 che ha introdotto l’art. 9-bis nel D.P.R. 602/1973, (disciplina della riscossione delle imposte sui redditi) rubricato «fermo dei veicoli a motore e autoscafi» per cui «qualora in sede di riscossione coattiva di crediti iscritti a ruolo non sia possibile, per mancato reperimento del bene, eseguire il pignoramento dei veicoli a motore e degli autoscafi di proprietà del contribuente iscritti nei pubblici regi-

24 La legge n. 248/2005 di conversione del decreto legge n. 203 statuendo il deposito dei documenti ad istanza di parte pare, attraverso tale misura, volgere verso la formula processuale interlocutoria e di cognizione, come dichiarato anche dalla circolare n. 10 del 13 marzo 2006, consultabile dal sito www.finanzeefisco.it. Chi, al contrario, in dottrina accampa qualche riserva sulla misura in parola, presagendo involuzioni del profilo garantistico per il contribuente mediante preclusioni e violazioni del diritto di difesa è GLENDI, Deposito dei documenti con effetto boomerang, in Dir. e Prat. Trib., 2, 2006, 429 ss. Questioni riprese da ultimo da TODINI, I nuovi poteri istruttori delle Commissioni tributarie, modifiche normative ed esigenze di “giusto processo”, in Riv. Dir. Trib., 12, 2006, 977 ss., anche se ancora particolarmente validi appaiono i contributi di GALLO, Verso un giusto processo tributario, in Rass. Trib., 1, 2003, 11 ss. e TESAURO, Giusto processo e processo tributario, in Rass. Trib., 1, 2006, 30 ss. Chi, invece, tende a riparare riportando il discorso sui binari della parità delle armi è FALSITTA, Abuso di interpretazione autentica, obiter dictum e rispetto della “parità delle parti” sancita dai principi del “giusto processo”, in Riv.

stri, la Direzione regionale delle Entrate ne dispone il fermo». Proseguiva il comma 2 disponendo che «il provvedimento di fermo di cui al primo comma si esegue mediante iscrizione nei pubblici registri mobiliari a cura del concessionario che provvede, altresì, a darne comunicazione al debitore». A tale disposizione fece seguito, come previsto, il decreto ministeriale 7 settembre 1998, n. 503 teso a disciplinare modalità, termini e procedure per l’adozione ed esecuzione del fermo. Tra i vari punti presi in considerazione si può richiamare l’art. 5, comma 1, per cui dalla data di iscrizione del fermo nel pubblico registro sono inopponibili al concessionario gli atti di disposizione del veicolo, salvo che esso sia stato alienato «con atto di data certa anteriore all’iscrizione del fermo, ma trascritto successivamente» (secondo gli effetti propri della pubblicità dichiarativa), nel qual caso l’A.C.I. deve darne tempestiva comunicazione alla Direzione regionale delle Entrate «che provvede immediatamente all’annullamento del fermo, informandone il concessionario e il contribuente». Ancora, la cancellazione dell’iscrizione del fermo subordinata al pagamento integrale delle somme iscritte a ruolo, di sgravio totale della cartella di pagamento per indebito o di annullamento connesso al trasferimento a terzi della proprietà del veicolo con atto di data certa anteriore all’iscrizione (art. 6), la quale contempla modalità diverse a seconda del tipo di fermo a cui ci si riferisce. A tal riguardo, a sostegno della natura amministrativa del fermo, il Consiglio di Stato da ultimo ha ribadito il bisogno della revoca per procedere alla sua cancellazione e alla liberazione del bene a differenza di quello contemplato dal codice della strada, per il quale, invece, occorre semplicemente la prova del pagamento fornita dal debitore25. La disciplina del fermo amministrativo è stata trasfusa, successivamente, nell’art. 86 del D.P.R. 602/1973, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 16 del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 nell’ambito del riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, recante «disposizioni particolari in materia di espropriazione di beni mobili registrati». In tale fase il nuovo art. 86, pur mantenendo fermo il presupposto del preventivo esperimento negativo del pignoramento, onde poter applicare il fermo, tuttavia ha ampliato la portata della di-

Dir. Trib., 12, 2006, 900 ss., specie nelle conclusioni ove chiede all’amministrazione finanziaria di rinunciare alle “leggine” di interpretazione che attuerebbero un discutibile favor e al Supremo giudice di non dare troppa rilevanza alle stesse come espedienti per alterare i giudizi. 25 Cons. di Stato, ordinanza 13 aprile 2006, n. 2032, in Corr. Trib., 30, 2006, 2367 ss., con commento di GLENDI, Dubbi d’incostituzionalità sui mezzi di tutela nelle liti sui fermi fiscali di veicoli, ivi, 2369 ss. e ancora MESSINA, Ancora incertezze sulla giurisdizione sul fermo amministrativo di un rimborso Iva., in Riv. Dir. Trib., 12, 2006, II, 911 ss. Per una ricostruzione anche giurisprudenziale sull’istituto del fermo, CALISI, Il fermo amministrativo, in Dir. e Prat. Trib., 1, 2004, 129 ss. Più di recente è stato proposto un altro modello legale di fermo: quello dei veicoli previsto quale sanzione accessoria, per gravi infrazioni al codice della strada (guida senza patente, etc.), disciplinato dall’art. 214 del Codice della strada, come formulato dal D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 e successive modifiche. La norma dispone che, a seguito della constatazione delle infrazioni, l’organo di polizia «provvede direttamente a far ces-

sare la circolazione e a far ricoverare il veicolo in un apposito luogo di custodia». Avverso tale provvedimento è ammesso il ricorso al prefetto ai sensi dell’art. 203 Codice della strada e contro l’ordinanza del prefetto è possibile proporre opposizione dinanzi al giudice ordinario ai sensi degli artt. 22, 22bis e 23 della L. 24 novembre 1981, n. 689. Il fermo previsto dal Codice della strada si caratterizza per due elementi. Il primo è rappresentato dalla sua natura di sanzione amministrativa, poiché il fermo presuppone una violazione (guida senza aver conseguito la patente); il secondo attiene al tipo di vincolo che viene posto sul bene. Infatti, nel caso di specie si verifica una sottrazione materiale del bene tramite ricovero in un deposito. Questi due elementi, diversamente, mancano nel fermo amministrativo degli autoveicoli ex art. 86 D.P.R. 602/1973, poiché non è presente una sanzione amministrativa in senso proprio (posto che non costituisce una “violazione” il mero inadempimento dell’obbligazione iscritta a ruolo) e il tipo di sottrazione del bene è, almeno nell’intenzione del legislatore, giuridica, sebbene, come si vedrà, l’effetto si dimostrerà ben più ampio.


14

GiustiziaTributaria

1 2009

sposizione sotto il profilo soggettivo, includendo tra i destinatari anche le persone coobbligate (comma 1). L’art. 86, come riformulato a seguito dell’intervento normativo del 1999, prevedeva, inoltre, l’emanazione di un decreto ministeriale successivo, per l’attuazione di quanto disposto, ad oggi ancora non emanato, anche se, da ultimo, il comma 41 dell’art. 3 del D.L. 203, mediante un’interpretazione autentica con effetti retroattivi che salvano ciò che in passato si è verificato dal suo espletamento, prescrive che, sin quando non sarà emanato tale regolamento attuativo, Equitalia S.p.A. potrà applicarlo in base alle disposizioni contenute nel D.M. 503/1998. L’interpretazione autentica si è resa necessaria anche perché una seconda modifica all’istituto del fermo amministrativo era stata apportata dall’art. 1, comma 2, lettera q del D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193, in applicazione della legge delega 28 settembre 1998, n. 337 (art. 1, comma 2), la quale abrogava l’art. 86 disponendo che «decorso inutilmente il termine di cui all’articolo 50 comma 1, il concessionario può disporre il fermo dei beni mobili del debitore e dei coobbligati iscritti in pubblici registri, dandone notizia alla Direzione regionale delle Entrate e alla regione di residenza». La necessità di introdurre una misura come il fermo amministrativo trova la sua ragione nel rendere più efficace e sollecita la riscossione fiscale e, al contempo, nella difficoltà di assoggettare ad effettiva esecuzione quei beni, esattamente individuati (in quanto iscritti nei pubblici registri), pur se spesso praticamente introvabili (essendo mobili per eccellenza). Ciò che, però, appare anomalo e che ha suscitato non poche perplessità, non solo tra i giuristi, è la norma che trasferisce il potere di disporre tale provvedimento al concessionario, oggi a Equitalia S.p.A., rimettendo al suo arbitrio la possibilità di attivare la procedura denunciando un uso indiscriminato dell’istituto. La modifica del 2001, in effetti, ha determinato uno stravolgimento dell’istituto testé descritto creando, in determinati casi, situazioni grottesche per cui, a fronte di un debito di poche centinaia di euro, è stato sottoposto a fermo amministrativo l’intero parco macchine di una società. Talvolta il varo di una novità legislativa prende corpo dalla reinterpretazione e adattamento di vecchi istituti a nuove esigenze. Per il fermo amministrativo, infatti, occorre riportarsi all’art. 69, ultimo comma del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, recante le «nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato», secondo cui «qualora un’amministrazione dello Stato che abbia, a qualsiasi titolo ragione di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, richieda la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo». Questa ipotesi di fermo amministrativo, in verità, non ha grandi punti di contatto con l’istituto previsto per gli autoveicoli, sia in ordine all’oggetto, che agli effetti, tuttavia, nel contesto, appare utile richiamare alcuni elementi messi in luce dalla dottrina che costituiscono presupposti necessari di entrambe le fattispecie. In particolare, viene rilevato, che la pretesa creditoria della pubblica amministrazione, affinché non divenga fonte di soprusi, richiede che si siano verificate tutte le fasi della procedura amministrativa che rendano “ragionevole” la pretesa stessa (Cassese); e, dunque, proprio il rispetto della ragionevolezza elimina l’eventuale contrasto con i precetti costituzionali del fermo amministrativo, come riconosciuto dalla Corte costituzionale (sent. 19 aprile 1972, n. 67 in Giur. it. 1972, I, 1, 1554) per cui il fermo amministrativo non configura un irrazionale privilegio per la pubblica amministrazione, né distoglie il cittadino dal suo giudice naturale precostituito o viola la norma base sulla giurisdizione. A tali prime osservazioni si richiama un ulteriore elemento rappresentato dalla temporaneità del fermo amministrativo, essendo preordinato ad un provvedimento definitivo.

L’affievolimento del diritto soggettivo del titolare di un credito liquido ed esigibile nei confronti della pubblica amministrazione, che consegue al provvedimento di fermo, apre la via alla tutela innanzi al giudice amministrativo. Pertanto, con l’annullamento giudiziale del provvedimento di fermo, la posizione del debitore, già degradata ad interesse legittimo, riassume la consistenza di diritto soggettivo (Cass., sez. I, 19 gennaio 1979, n. 391, in Giust. civ. 1979, I, 600). Eccezion fatta per i presupposti (propri di tutti gli atti posti in essere dalla pubblica amministrazione), il fermo amministrativo degli autoveicoli diverge completamente da quello previsto nella legge del 1923. Quest’ultimo, infatti, ha per oggetto esclusivamente un credito (e non autoveicoli); inoltre, l’effetto che si determina è rappresentato dalla sospensione del pagamento del credito (e non dal vincolo di indisponibilità giuridica di un bene) e infine, la finalità della norma è nella compensazione totale o parziale del debito con il credito (e non il pagamento del debito iscritto a ruolo). 5.1 Fermo amministrativo. Elementi strutturali Come anticipato la novità dell’istituto del fermo amministrativo, rappresentata dalle modifiche introdotte dal D.lgs. 193 del 2001, con il passaggio del potere di disporre il fermo amministrativo dalla sfera pubblicistica, rappresentata dalla Direzione Regionale delle Entrate, a quella privatistica, con il concessionario della riscossione, rivela, ora più che mai, il bisogno di un ripensamento in relazione anche alla natura giuridica di Equitalia s.p.a . D’altro canto conseguenze ben più gravi si hanno se si osserva che l’applicazione della misura di fermo non è più condizionata all’impossibilità di eseguire il pignoramento per il mancato reperimento del bene. Sulla scia di tali presupposti, alcuni autori, facendo perno sulla natura privatistica del concessionario e sulla presunta sostanziale equipollenza del fermo amministrativo rispetto al pignoramento, tendono a ragionare in termini strettamente processual-civilistici, ed in particolare con riferimento al processo della esecuzione, al fine di constatare che esiste uno sbilanciamento di poteri a favore del concessionario con grave pregiudizio per il contribuente. In tal senso essi evidenziano che, mentre nel pignoramento è attribuita al debitore la facoltà di individuare i beni che preferisce vengano sottoposti alla procedura, nel fermo amministrativo, diversamente, sarebbe lo stesso creditore ad indicarli. Ed ancora, mentre nell’esecuzione forzata è ammessa la riduzione del pignoramento in quella esattoriale per garantire la posizione del contribuente diventa necessaria la statuizione della valutazione diretta a ristabilire la proporzione fra entità del credito tributario e sacrificio sopportato dal privato. In tal caso, essi sottolineano come il fermo amministrativo sia da dichiarare illegittimo perché si colpirebbe un bene di valore assai rilevante a fronte di un debito che, il più delle volte, si presenta modesto, invocando la previsione di cui all’art. 496 c.p.c., per cui è ammessa la riduzione del pignoramento laddove il “valore dei beni pignorati è superiore all’importo delle spese e dei crediti”. Le costruzioni elaborate da tali autori sono, tuttavia, prive di qualsiasi fondamento giuridico. A tali “civilisti” sfugge il rilievo che le stesse ragioni poste alla base delle norme sulla procedura esecutiva per la tutela del debitore, valgono, in larga parte, anche nel diritto amministrativo, seppur in una logica diversa. Basta limitarsi ad osservare che in precedenza, in virtù dell’atto di concessione, il concessionario esercitava una pubblica funzione ex art. 2, comma 1 del D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112. oggi di fatto esercitata da Equitalia S.p.A. Qualificare la sua natura giuridica, pertanto, diviene un presupposto logico irrinunciabile, in quanto, come il concessionario, dispone di un potere proprio, di natura pubblicistica, discrezionale e autoritativo, in ordine all’attuazione del fermo amministrativo, poiché «non è soggetto estraneo all’ammini-


Giovanni Puoti e Maria Assunta Icolari 1 2009 15

strazione finanziaria, ma ne è organo indiretto, in quanto, in forza di un atto concessorio esercita i poteri di riscossione, dei quali resta titolare la stessa amministrazione» (Cass. sez. I, civ., 19 luglio 1999, n. 7662). Parallelamente, tuttavia, incidendo nella sfera soggettiva dei privati, la sua azione è soggetta ai principi generali che regolano l’attività della pubblica amministrazione, tra i quali si richiama l’osservanza dei limiti della discrezionalità amministrativa, di logicità e di ragionevolezza. Le argomentazioni addotte da coloro che intendono interpretare l’istituto del fermo amministrativo secondo una logica processualcivilistica richiedono, in verità, una valutazione anche alla stregua delle regole pubblicistiche e, in modo particolare, alla luce dei principi introdotti con la L. 27 luglio 2000, n. 212, che si applicano anche al concessionario, stante la previsione, ivi contenuta, all’art. 17. A ciò si aggiunga che le violazioni si manifestano ancora più macroscopiche con riferimento ai dettami costituzionali. Una prima violazione si verifica con riferimento all’art. 3 dello Statuto del contribuente, in ordine alla efficacia temporale delle norme, laddove sia previsto che la comunicazione del fermo amministrativo avvenga entro cinque giorni dalla sua trascrizione e, dunque, dalla sua efficacia. Sul punto, la questione della giurisdizione del fermo, atto funzionale all’esecuzione forzata, provvedimento amministrativo non solo formale, così inteso perché l’agente della riscossione iscrive direttamente il preavviso di fermo, come atto autoritativo della p.a. che si sostanzia in un procedimento amministrativo ablatorio. Al di là dei ragionevoli dubbi che possono sorgere circa la impugnabilità di tale preavviso, pur perché «non si può minimamente dubitare che tutti gli atti che hanno la comune finalità dell’accertamento della sussistenza e dell’entità del debito tributario – in seguito ad un’ordinanza-ingiunzione – siano equivalenti, qualunque sia la denominazione data dal legislatore. Essi se suscettibili di produrre una lesione diretta ed immediata nella sfera giuridica soggettiva del contribuente sono impugnabili davanti al giudice tributario». (Corte costituzionale, sent. n. 264/1997). Ciò dovrebbe assumere il ruolo di criterio guida, nonostante da ultimo, la Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. LIX, nella pronuncia n. 192 del 13 giugno 2007, partendo dal presupposto che il preavviso di fermo per essere valido ed efficace deve possedere gli stessi requisiti essenziali degli atti amministrativi, qualifica l’atto, come il fermo, a natura sanzionatoria e come tale direttamente impugnabile davanti al giudice tributario. Nel contempo, però, la Cassazione, sez. un. n. 16293 del 24 luglio 2007, pare smentire ciò, ritenendo in materia di avviso bonario «impugnabile ogni atto dell’amministrazione finanziaria che contenga una pretesa definita e non condizionata». Ed ancora, in ossequio al brocardo della certezza del diritto e del legittimo affidamento, circa il momento dal quale iniziano a decorrere gli effetti pare si possa far ricorso alle regole che la legge sul procedimento amministrativo appronta per l’istituto della comunicazione. Con riferimento all’art. 7 comma 1 dello Statuto, invece, avente ad oggetto la chiarezza e motivazione degli atti, si ravvisa la violazione per difetto o carenza di motivazione (a seconda delle circostanze) del fermo amministrativo. A tal riguardo, va ribadito come tutti gli atti prodromici e non alla fase dell’esecuzione debbano essere correttamente motivati. Si rammenta, infatti, che il concessionario, in seguito l’agente della riscossione, ha la facoltà di decidere se adottare o meno tale provvedimento, potendo, in alternativa, tutelare il credito attraverso l’utilizzo di altri istituti, che risulterebbero meno invasivi della sfera patrimoniale del contribuente. Essendo prevista, dunque, una facoltà rimessa al concessionario e non un obbligo imposto dalla amministrazione, questi, nell’attuare il provvedimento, attesa la sua natura di organo indiretto della pubblica amministrazione ovvero di organo che si atteggia a sua longa manus, dovrà motivarlo in maniera adeguata, non po-

tendosi limitare a richiamare il «mancato pagamento del carico scaduto». Il provvedimento adottato, pertanto, dovrebbe adeguarsi all’entità del credito vantato dalla pubblica amministrazione, secondo un rapporto di proporzione e motivarlo nel merito, posto che, in difetto, incorrerebbe nel difetto di vizio di potere per illogicità, difetto di ragionevolezza, disparità di trattamento e ingiustizia manifesta. In passato, si è anche detto che il concessionario, in quanto organo indiretto della pubblica amministrazione, è dotato di una certa discrezionalità. Tuttavia l’amministrazione finanziaria, nella circolare 98/E del 2001 ha precisato che «l’azione di recupero coattivo del concessionario, quale imprenditore altamente specializzato, non possa, comunque, prescindere dall’analisi completa del profilo del contribuente desumibile oltre che, naturalmente da elementi di natura patrimoniale, anche dalla capacità reddituale dello stesso debitore rapportata alla entità del credito per cui si procede e al contesto socio-economico di riferimento». Tale previsione non costituiva altro che una specificazione e delimitazione del perimetro della discrezionalità, concetto che regola l’azione amministrativa (e che è, dunque, ben noto alla pubblica amministrazione), ma che potrebbe risultare confuso ad un soggetto poco avvezzo a ragionare in termini di pubblica utilità, quale è il concessionario della riscossione ovvero anche a Riscossione S.p.A. (che, ricordiamo, assume la veste di una Società per Azioni). Una ulteriore violazione si ravvisa con riferimento all’art. 7, comma 2, laddove non vengano indicati gli elementi tassativi che la norma prescrive ed in specie, sub lett. c «le modalità, il termine, l’organo giurisdizionale o l’autorità amministrativa cui è possibile ricorrere in caso di atti impugnabili». Una ultima violazione dello Statuto del contribuente si verifica con riguardo agli artt. 10 e 17 in tema di collaborazione e buona fede nei rapporti tra amministrazione e contribuente. Troppo frequentemente si pone l’attenzione sulla violazione della norma specifica che indica una fattispecie quanto più dettagliata possibile, trascurando la violazione del principio cardine che regola tutti i rapporti tra soggetti di diritto e che costituisce il criterio ermeneutico per definizione: la buona fede. Essa stessa, di per sé, già è sufficiente a censurare i comportamenti del concessionario, il quale, utilizza uno strumento di natura prettamente cautelare, in maniera arbitraria, per un fine coercitivo; la gravità appare poi di tutta evidenza se si considera che il concessionario, tramite aggio, guadagna in percentuale su quanto riscosso. Altro aspetto peculiare, questo, fortemente connesso alla qualificazione della natura giuridica della nascente società pubblica di riscossione dei tributi. Se il passaggio della facoltà di disporre il fermo in capo al concessionario ha determinato alcuni problemi in ordine ai poteri che questo esprime, ben più gravi sembrano essere quelli provocati dall’abolizione del previo esperimento del pignoramento. A seguito della eliminazione del previo esperimento negativo del pignoramento, si è modificata, difatti, la natura del fermo amministrativo, svincolando tale procedura da qualsiasi accertamento preventivo circa l’esistenza di un pregiudizio effettivo o potenziale per la realizzazione di un credito iscritto a ruolo e perdendo, per l’effetto, la sua natura cautelare. Accentuando, altresì, un carattere coercitivo, afflittivo e “parasanzionatorio”, che non può trovare alcuna giustificazione nell’interesse primario della riscossione dei tributi da parte dello Stato, tenuto conto che contemporaneamente vengono eliminate tutte le garanzie di tutela del contribuente. 5.2 Profili di legittimità costituzionale Il fermo amministrativo in materia di riscossione delle imposte, così come risulta formulato a seguito delle modifiche apportate nel 2001 e confermate dal D.L. 203, presenta forti dubbi di legittimità costituzionale.


16

GiustiziaTributaria

1 2009

In primis viene leso il principio di uguaglianza, espresso dall’art. 3 della Costituzione, attesa la evidente disparità di trattamento tra situazioni analoghe. In particolare, sebbene non sia possibile riportare il provvedimento de quo nell’alveo della procedura esecutiva del processo civile, in ordine agli effetti, si registra una disparità di trattamento tra quei soggetti sottoposti ad una procedura di pignoramento “ordinaria” e questa “anomala”, censurabile con riferimento ai diritti inviolabili espressi in Costituzione. Infatti, nell’ambito del procedimento civile il debitore ha la possibilità di individuare i beni da sottoporre a pignoramento; nel caso di specie, diversamente, è lo stesso concessionario che individua il bene da sottoporre a fermo, indicando un bene che per sua natura costituisce una estrinsecazione della persona nella sua normale vita di relazione. Il fermo amministrativo, a differenza del pignoramento, si presenta nella maniera più “traumatica” possibile per il debitore. A ciò si aggiunga che il debitore sottoposto a procedura di fermo amministrativo viene privato del bene, attesa la sanzione in cui incorre se il veicolo continua a circolare, mentre il debitore sottoposto a procedura esecutiva, sebbene non disponga giuridicamente del bene, nel senso che eventuali atti compiti in pregiudizio del creditore non sono opponibili solo se successivi alla trascrizione del pignoramento, tuttavia mantiene il diritto di utilizzo. La ragione di tale trattamento differenziato non può trovare giustificazione nella natura pubblicistica del credito vantato, ma deve intendersi esclusivamente come una infelice formulazione della norma modificativa dell’art. 86 del D.P.R. 602/1973, la quale, focalizzando la propria attenzione sulla procedura attuata dal concessionario, non ha saputo dare un inquadramento sistematico dell’istituto, parametrandolo al principio cardine dell’eguaglianza. Ancora più macroscopica si presenta la violazione dell’art. 24 della Costituzione, in tema di diritto di difesa, cui fa eco l’art. 112, comma 1. Come si è avuto modo di osservare il legislatore delegato non ha previsto alcuna possibilità di tutela contro il fermo amministrativo e non ha indicato, di conseguenza, quale autorità giudiziaria si dovesse adire per far valere le proprie ragioni, creando, tra l’altro, una serie di conflitti tra le giurisdizioni dello Stato. La lesione del diritto di difesa è, dunque, in re ipsa. Altra violazione è rappresentata dall’art. 97, comma 1 della Costituzione, secondo cui «i pubblici uffici sono organizzati secondo le disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione». Il fermo amministrativo non determina l’imparzialità della pubblica amministrazione e tanto meno il buon andamento, atteso che migliaia di ricorsi sono stati presentati dinanzi alle autorità giudiziarie per tutelare posizioni giuridiche violate. Oltre all’aumento di carico di lavoro per l’apparato giudiziario si riscontra, per le modalità con cui gli agenti della riscossione applicano la norma, un sempre maggiore divario tra amministrazione e cittadino i cui rapporti, anziché essere ispirati alla collaborazione e buona fede, si caratterizzano per una esasperata conflittualità. Ancora, vi sarebbe una violazione dell’art. 76 della Costituzione, per eccesso del potere normativo rispetto alla legge delega. Nello specifico, la legge delega 28 settembre 1998, n. 337, all’art. 1 lett. h attribuiva al Governo il potere di «snellimento e razionalizzazione delle procedure di esecuzione anche nel rispetto del principio della collaborazione del debitore all’esecuzione, secondo modalità che prevedano tra l’altro [...] la revisione e la semplificazione delle procedure di vendita di beni immobili e mobili registrati» (lett. h, n. 5) e «l’accesso dei concessionari, con le opportune cautele e garanzie, alle informazioni disponibili presso l’anagrafe tributaria, con l’obbligo di utilizzazione delle stesse ai soli fini dell’espletamento delle procedure esecutive» (lett. h, n. 7). In merito, la legge delegata ha disatteso nei contenuti le indicazioni espresse, presentando così rilievi di incostituzionalità.

Infine, il fermo amministrativo, così come applicato dai concessionari, può sollevare profili di incostituzionalità anche con riferimento ai principi di libertà individuale di movimento (art. 16), di libertà economica (art. 41) e di diritto al lavoro (artt. 4 e 35). Con riferimento all’art. 16 Cost. si osserva che nell’ipotesi in cui il fermo riguardi l’autovettura di un professionista o, addirittura, il parco macchine di una società (si pensi ad una società di trasporti) si causerebbe, inoltre, un danno economico suscettibile di creare un danno irreversibile (e, al limite, il fallimento) nei confronti del contribuente. 5.3 Tutela giuridica del diritto L’aspetto più complesso dell’intera vicenda è rappresentato, probabilmente, dalla tutela della situazione giuridica che si è venuta a ledere tramite il provvedimento del fermo amministrativo. Va detto che i contribuenti, al fine di tutelare il loro diritto soggettivo o il loro interesse legittimo (a seconda di come lo si voglia identificare) leso dal provvedimento, hanno adito l’autorità giudiziaria che ritenevano avesse giurisdizione in materia. Così taluni hanno incardinato il procedimento dinanzi all’autorità amministrativa, ravvisando la lesione di un interesse legittimo; altri, aderendo alla impostazione descritta, secondo cui il concessionario è un soggetto privato e la procedura si inquadra nelle norme del processo di esecuzione, si sono rivolti al giudice ordinario; altri ancora, argomentando sul presupposto tributario che ha attivato il provvedimento, hanno presentato ricorso presso alle Commissioni tributarie. Va premesso che prima dell’introduzione del D.Lgs. 193 del 2001 il fermo amministrativo era un “tipico” atto amministrativo e si riteneva che l’impugnazione del provvedimento dovesse avvenire dinanzi al giudice amministrativo. Si osservava, tuttavia, che, quantunque l’impugnazione dell’atto amministrativo si riferisse al fermo, se la lite era inerente ad una delle imposte menzionate nell’art. 2 del D.Lgs. 546/1992, allora sicuramente la giurisdizione era propria delle Commissioni tributarie. A seguito della modifica del 2001 anche l’autorità giudiziaria ordinaria fu stata investita della questione. Tra le varie pronunce emesse si possono citare la decisione della Commissione tributaria di Cosenza del 28 maggio 2003, n. 397 che rivendicava la esclusiva giurisdizione anche in materia di fermo, vertendosi in tema di riscossione tributaria. Diversamente il Tribunale di Catanzaro, con un provvedimento del 18 febbraio 2003, riteneva esperibile la procedura d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., riconoscendo la propria giurisdizione. Anche il T.A.R. Veneto, con ordinanza del 15 gennaio 2003, n. 886, sul presupposto che il pignoramento negativo del bene è un atto della procedura di esecuzione forzata in danno del debitore, riconosceva la giurisdizione del giudice ordinario. Infine, vi sono state pronunce del giudice amministrativo che ha riconosciuto la propria giurisdizione; precisamente il T.A.R. Puglia, Bari, con ordinanza sospensiva del 5 marzo 2003 n. 216. Sempre del T.A.R. Puglia, Bari, la sentenza della sez. I, n. 2331 del 2004 che ha riconosciuto la propria giurisdizione, argomentando sulla attribuzione in via esclusiva al giudice amministrativo di alcune questioni, tra qui quelle previste nell’art. 33 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7 della L. 21 luglio 2000, n. 205 relativa alla materia dei pubblici servizi. La norma in questione prevede, al comma 1, che «sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi»; più precisamente, in base al comma 2, lett. e, rientrano nella conoscenza del giudice amministrativo anche le controversie «riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi». La ratio della norma risiedeva nella volontà del legislatore di ripartire la giurisdizione, in tali materie, prescindendo (in parte) dal tradizionale criterio di riparto basato sulla dicotomia diritto soggetti-


Giovanni Puoti e Maria Assunta Icolari 1 2009 17

vo e interesse legittimo, preferendo una soluzione che teneva conto dell’alto grado di specialità del giudice amministrativo in tali materie e in considerazione, inoltre, del fatto che il giudice amministrativo può giudicare anche su un diritto di credito, condannando la pubblica amministrazione a quanto dovuto e all’eventuale risarcimento del danno. Su tale sentenza è stato chiamato a pronunciarsi il Consiglio di Stato che, con ordinanza n. 4356 della sez. V del 24 settembre 2004, sospese l’efficacia della sentenza impugnata, in considerazione del fatto che «i motivi di appello [...] appaiono meritevoli di considerazione sotto il duplice profilo della inerenza della questione alla materia tributaria, e dell’intervenuta decisione della Corte costituzionale in tema di giurisdizione dei servizi». La sentenza della Consulta è la n. 204 del 2004 che, ripercorrendo tutta la storia del riparto di giurisdizione con riferimento ai pubblici servizi, con un accurato lavoro di ricostruzione esegetica dei lavori preparatori della Costituzione, giunge alla conclusione di dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 33, comma 1 e comma 2, tramite una sentenza interpretativa di accoglimento. In particolare la Corte rileva che «la materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se in essa la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, si avvale di tale facoltà» sicché, prosegue la sentenza, «va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi, anziché le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi (così come era previsto fin dall’art. 5 della L. 1034 del 1971, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore (così come era previsto dall’art. 33, comma 2, lettere d ed e)». Stando alla lettura della sentenza, sebbene l’art. 33, commi 1 e 2, sia stato dichiarato incostituzionale, il Consiglio di Stato, nell’emettere la sentenza, a seguito di una attenta lettura della sentenza 204, dovrebbe riconoscere la giurisdizione del giudice amministrativo per il fermo amministrativo posto in essere dal concessionario. Di recente, invece, con un’ordinanza, la n. 2053 del 31 gennaio 2006, le sezioni unite della Cassazione hanno concluso a favore della giurisdizione del giudice ordinario, in considerazione del fatto che il fermo amministrativo è atto funzionale all’espropriazione forzata, quindi, mezzo di realizzazione del credito e che il concessionario non esercita alcun potere di supremazia in materia di pubblici servizi. Sollevata questione di costituzionalità sull’interpretazione in tal senso dell’art. 86 del D.P.R.. 602/1973, dopo che il T.A.R. Sicilia aveva censurato il diritto vivente che attribuiva, a suo dire, «in via surrettizia, in assenza di una previsione di legge, la giurisdizione al giudice ordinario, qualificando un mezzo di tutela amministrativo come uno strumento di diritto comune», il giudice delle leggi con l’ordinanza n. 106 del 2007 ritiene di doversi fermare alla manifesta inammissibilità della questione stessa, in quanto ritiene esservi un tentativo da parte del giudice a quo di ottenere l’avallo sulla sua diversa interpretazione, rendendo, pertanto, palese l’uso distorto dell’incidente di costituzionalità.

strativo con una certa discrezionalità, tuttavia è necessario, quanto prima, che venga emanato il regolamento volto a disciplinare l’intera materia, come previsto nella modifica dell’art. 86 del D.P.R. 602/1973, apportata nel 1998, in quanto l’inserimento del comma 41 dell’art. 3 del D.L. 203, come abbiamo visto, è foriero di ulteriori ricorsi, nonostante l’invito da parte del Consiglio di Stato nel 2004, ai concessionari di astenersi da tale procedura proprio per evitare il loro proliferare. In tale occasione potranno essere chiariti i limiti dell’azione dell’agente della riscossione e, per tale via, potrebbero essere corretti o attenuati taluni aspetti dei quali si è in precedenza segnalata la sospetta costituzionalità, anche se al riguardo, punto nodale di tutta la questione ruota intorno alla qualificazione della natura giuridica di Equitalia S.p.A. Per quanto concerne l’argomento di grande importanza della giurisdizione è chiaro che l’individuazione del giudice competente dipendeva essenzialmente dalla natura giuridica del fermo amministrativo de quo. In merito, sembra che la lite non riguardi né le imposte sui redditi né la riscossione di tali imposte. Si consideri, infatti, che l’impugnativa del provvedimento di fermo non può ovviamente riguardare l’an o il quantum debeatur e non può, quindi, devolvere al giudice questioni che vanno denunciate in sede di impugnativa dell’atto di accertamento o di riscossione. Né si tratta di una lite concernente la riscossione, dal momento che non si tratta di un atto equipollente al pignoramento del bene. Si tratta, dunque, di un provvedimento sanzionatorio che colpisce un comportamento del contribuente, vale a dire il mancato pagamento degli importi dovuti nel termine di 60 giorni dalla notifica della cartella esattoriale e, in sostanza, nel divieto di utilizzo del bene “fermato”. Sanzione accessoria cui può abbinarsi quella prevista dall’art. 214, comma 8, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, nel caso in cui l’autoveicolo venga comunque utilizzato: tale sanzione è irrogabile nei confronti di “chiunque” circoli con l’autoveicolo “fermato”, anche se per i soggetti diversi dal proprietario occorrerebbe dimostrare quanto meno la colpa (si pensi al comodatario temporaneo o al dipendente delle società, entrambi ignari del provvedimento di fermo). Pertanto era sostenibile che, sulla base della natura giuridica sanzionatoria (e non di atto della riscossione coattiva), la giurisdizione appartenesse alle Commissioni tributarie che potrebbero, ove dal provvedimento derivi un danno grave e irreparabile al contribuente, persino, sospenderne la esecuzione con ordinanza motivata non impugnabile. L’ordinanza, però, dovrebbe essere iscritta nei pubblici registri mobiliari onde neutralizzare gli effetti della iscrizione del fermo. Sotto altro versante, l’esigenza di garantire al cittadino il diritto di difesa nei confronti dell’amministrazione pubblica, come sancito dagli artt. 24 e 113 Cost., richiede in ordine al fermo amministrativo un sindacato pieno dell’atto. Ciò, perché dove il legislatore in materia di annullamento dell’atto ha previsto l’intervento esclusivo del giudice civile lo ha distintamente dichiarato. Stando, poi, alle ultime pronunce del giudice delle leggi non risulta tanto semplice negare che Equitalia S.p.A. non eserciterà alcun potere di supremazia in materia del servizio pubblico di riscossione esattoriale. Allo stesso modo, però, il principio del giusto processo e quindi della parità processuale delle parti venuta meno la ragione su cui si fonda il credito tributario dovrebbe an6. Conclusioni nullare tale sanzione con la mancata riscossione ovvero il rimConcludendo la riflessione si può sottolineare che sebbene il con- borso immediato delle somme ingiustamente trattenute, pur se cessionario abbia i poteri per porre in essere il fermo ammini- spontaneamente versate26.

26 In tal verso, BASILAVECCHIA, Il fermo amministrativo non sopravvive all’annullamento

dell’atto impugnato, in Corr. Trib., 44, 2006, 3499 ss., commento alla sentenza della Cas-

sazione, sez. trib., 22 settembre 2006, n. 20526.


18

GiustiziaTributaria

1 2009

Sulla base di tali premesse, forse, si potrebbe persino optare per la riunione nelle mani di un unico giudice, quello tributario, della giurisdizione estesa alla valutazione, anche se sommaria, della sussistenza dei requisiti che dal rapporto danno origine al corrispondente credito. Il non pregiudicare la situazione patrimoniale del contribuente in ogni caso potrebbe far ipotizzare lo spostamento della competenza del giudice tributario anche per gli atti della riscossione coattiva e quelli sanzionatori, qualificando anche la natura giuridica dell’ingiunzione fiscale, attraverso il ricorso all’interpretazione sistematica delle regole a base del riparto di giurisdizione e mediante la vocazione espansiva già mostrata dal legislatore processuale tributario, senza per questo snaturare il dettato prescrittivo dell’art. 102 Cost. È venuto il tempo, infatti, in cui anche il giudice tributario, non più speciale, può occuparsi di diritti costituzionali senza per questo intaccare i criteri più rigorosi dell’attività vincolata e la garanzia della tutela della posizione dei terzi. In tal senso, il contribuente potrebbe ricorrere al giudice tributario anche avverso il diniego di sospensione della procedura di autotutela esecutiva. L’opinione sopra formulata, relativa alla competenza del giudice tributario, è stata infine accolta dal legislatore che, con l’art. 35, comma 26-quinquies del D.L. 4 luglio 2006 n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006 n. 248, ha inserito il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del D.P.R. 1973 n. 602 nell’elenco de-

gli atti impugnabili dinanzi alle Commissioni tributarie, di cui all’art. 19 del D.Lgs. 1992 n. 546. La stessa disposizione ha pure inserito nel novero degli atti impugnabili dinanzi alle Commissioni tributarie l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77 del D.P.R. 1973 n. 602. Anche in questo caso, a nostro avviso, si tratta di un provvedimento sanzionatorio, dal momento che il concessionario, per il solo fatto del mancato pagamento, ha l’obbligo (e non la facoltà, come è previsto dal comma 1 dello stesso art. 77) di effettuare la iscrizione dell’ipoteca, iniziando la procedura espropriativa solo dopo che siano trascorsi sei mesi dalla data dell’iscrizione: e dunque bene ha fatto il legislatore a prevedere la giurisdizione del giudice tributario. Si tratta, ora, di verificare se la giurisdizione in argomento debba intendersi prevista solo quando la riscossione sia posta in essere relativamente alle entrate tributarie, ovvero anche quando la riscossione riguardi entrate non tributarie dello Stato, degli enti territoriali, degli altri enti pubblici non economici. Poiché gli atti impugnati sono comunque indipendenti rispetto al titolo del credito, nel senso che il giudice dovrà limitarsi a valutare i vizi propri dell’atto e non potrà, certamente, sindacare gli eventuali vizi del titolo, che dovranno essere fatti valere nei termini previsti dalla legge e dinanzi al giudice di volta in volta competente, sembra di potersi affermare che la competenza del giudice tributario è esclusiva con riferimento alla tipologia dell’atto.


Leonardo Brunetti 1 2009 19

GIURISDIZIONE TRIBUTARIA: DUE PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE (RI)DEFINISCONO LA COMPETENZA DELLE COMMISSIONI di Leonardo Brunetti 1. Le sentenze n. 64 e 130/2008 e i quesiti posti all’attenzione della Corte costituzionale - 2. Alle origini della questione odierna: una ricostruzione storica della cd. “giurisdizione tributaria” - 3. Esame dell’iter argomentativo delle decisioni - 4. Brevi conclusioni sulla condivisibilità e sugli effetti delle due pronunce 1. Le sentenze n. 64 e 130/2008 e i quesiti posti all’attenzione della Corte costituzionale La competenza giurisdizionale delle Commissioni tributarie, provinciali e regionali, viene disciplinata all’art. 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 («Disposizioni sul processo tributario in attua-

1 Sul ruolo delle Commissioni tributarie nel processo tributario, cfr. TESAURO, Processo tributario, in Dig. Disc. Priv., Sez. Comm., Torino, 1995, IV; e ancora Id., Giusto processo e processo tributario, in Rass. Trib., 2006, 1, 11 ss. 2 Ai sensi del quale «1. Appartengono [oggi, dopo la riforma del dicembre 2001 e gli interventi del 2005: n.d.r.] alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale, nonché le sovrimposte e le addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio. Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica. 2. Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, nonché le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale. Appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, e del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani, nonché le controversie attinenti l’imposta o il canone comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni [...]»: mio, ovviamente, il corsivo. In dottrina, sull’oggetto della giurisdizione tributaria, cfr. GLENDI, L’oggetto del processo

zione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413»1), rubricato appunto «Oggetto della giurisdizione tributaria»2. Come noto, tale articolo è stato modificato prima dall’art. 12, L. 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002), poi dall’art. 3-bis, comma 1, L. 2 dicembre 2005, n. 248 (di conversione del D.L. 30 settembre 2005, n. 2033). In particolare, la normativa del 2001 ha notevolmente ampliato l’ambito della giurisdizione delle Commissioni stesse rendendola oggi una giurisdizione generale in materia tributaria4, non più limitata ai soli tributi specificamente indicati5, restando in passato per gli altri competente il giudice ordinario6. Con due pronunce, le sentenze n. 647 e n. 1308 del 2008 – che

tributario, Padova, 1984; nonché, più di recente, MARONGIU, Evoluzione della giurisdizione tributaria, in Atti del Convegno di Pisa, 14 Dicembre 2006, consultabile on-line, sul sito http://eco.uninsubria.it/webdocenti/mpierro/didattica.htm, in particolare, il paragrafo 6, dal titolo La nozione di tributo e le controversie ricompresse nella nuova giurisdizione. 3 Sull’argomento, in generale, cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, I, Parte generale, Torino, 2006; nonché FANTOZZI, Corso di diritto tributario, Torino, 2005. 4 Il che ha attirato le forti critiche della dottrina: cfr., sul punto, BATTISTONI FERRARA-BELLÈ, Diritto tributario processuale, Padova, 2007, in particolare, 37, nota 12. Sottolineano gli Autori, alle cui considerazioni si rinvia, che «Due sono le problematiche sorte intorno alla nuova disposizione: la sua compatibilità con l’art. 102 della Costituzione e la nozione di tributo sottintesa dal legislatore», ivi, 37, 1. Di «generalizzazione della giurisdizione tributaria» scrive, ad esempio, ZANETTI, Riflessioni sui «limiti interni» della giurisdizione tributaria. Il tipo di tutela esperibile alla luce del carattere impugnatorio del processo, in Riv. Dir. Trib., 3, 2008, 186 ss., in particolare, 208, secondo il quale, però, tale «estensione della giurisdizione ratione materiae non è stata accompagnata da una modifica della struttura del processo [...] Il fatto è che i giudici tributari pur essendo divenuti giudici esclusivi della materia tributaria, vista la mancanza di concorrenza di altri giudici all’interno delle materie di cui all’art. 2 [D.Lgs. n. 546/1992, cit.] non hanno tuttavia ancora una giurisdizione piena sui rapporti di imposta devoluti alla loro cognizione», ivi, 206 ss. Sull’argomento, cfr. anche MARONGIU, La rinnovata giurisdizione delle commissioni tributarie, in Gius. Trib., 15-16, 2003, 51-66, in particolare, il paragrafo 2 dal titolo La giurisdizione tributaria generale, 52 ss.: l’intero numero della rivista citata è dedicato al 2° Convegno Nazionale Associazione Magistrati Tributari, Bologna 25-26 ottobre 2002, dal titolo La nuova giurisdizione delle Commissioni Tributarie. 5 Nella sua precedente formulazione, l’articolo disponeva, infatti, che «1. Sono soggette

alla giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie concernenti: a) le imposte sui redditi; b) l’imposta sul valore aggiunto, tranne i casi di cui all’art. 70 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, ed i casi in cui l’imposta è riscossa unitamente all’imposta sugli spettacoli; c) l’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili; d) l’imposta di registro; e) l’imposta sulle successioni e donazioni; f) le imposte ipotecaria e catastale; g) l’imposta sulle assicurazioni; h) i tributi comunali e locali; i) ogni altro tributo attribuito dalla legge alla competenza giurisdizionale delle commissioni tributarie. 2. Sono inoltre soggette alla giurisdizione tributaria le controversie concernenti le sovraimposte e le imposte addizionali nonché e sanzioni amministrative, gli interessi ed altri accessori nelle materie di cui al comma 1. 3. Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella nonché le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale». 6 Osserva che «in effetti non trovava giustificazione razionale la distribuzione delle competenze tra giudice ordinario e speciale», FORTUNA, Gli attuali confini della giurisdizione tributaria, in Riv. Dir. Trib., 1, 2003, 11 ss. 7 Corte costituzionale, sent. 10-14 marzo 2008, n. 64, pubblicata in Guida al diritto, 22, 2008, 36 ss., con commento di LOVECCHIO, Un’interpretazione secondo Costituzione di potenziale impatto su molte fattispecie, ivi, 40 ss.; la sentenza è commentata anche da MINERVINI, La giurisdizione del giudice tributario dopo la sentenza 14 marzo 2008 n. 64 della Corte Costituzionale, sul sito www.neldiritto.it. 8 Corte costituzionale, sent. 14 maggio 2008, n. 130, pubblicata in Guida al diritto, 25, 2008, 48-52, con commento di FINOCCHIARO, Le liti pendenti in commissione tributaria possono usufruire della translatio iudicii, ivi, 53 ss.


20

GiustiziaTributaria

1 2009

appare opportuno esaminare congiuntamente, richiamandosi espressamente quest’ultima al decisum della prima9 – la Corte costituzionale ha, per così dire, meglio «delimitato» i confini, in parte ancora incerti, della giurisdizione attribuita dal legislatore ordinario alle Commissioni tributarie: con espresso riferimento, nella prima decisione, al canone per l’occupazione di spazi e aree pubbliche10 (Cosap); nella seconda, alle sanzioni (che, per le ragioni che si vedranno, non possono ritenersi amministrative tributarie11) di cui all’art. 3, comma 3, D.L. 22 febbraio 2002, n. 12, convertito con modificazioni nella L. 23 aprile 2002, n. 73. Si trattava, in quest’ultimo caso, delle sanzioni per «l’impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria», irrogate – nella prima formulazione della norma – dall’Agenzia delle Entrate, e come tali (potenzialmente) rientranti nella competenza giurisdizionale delle Commissioni tributarie12. In realtà, relativamente a quest’ultima norma, così come si legge nella parte in diritto della sentenza del 14 maggio 2008, n. 130, «l’art. 36-bis del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 [...] introdotto in sede di conversione dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, ha [in effetti, già] modificato in più parti l’art. 3 del decreto legge n. 12 del 2002, tra l’altro attribuendo alla Direzione provinciale del lavoro – anziché alla Agenzia delle Entrate – la competenza a irrogare la sanzione ivi prevista per l’impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture obbligatorie», con ciò facendo venire definitivamente meno la giurisdizione delle Commissioni tributarie in merito. Il principio della perpetuatio jurisdictionis, determinata dalla domanda formulata nell’ambito del procedimento giurisdizionale nel quale la questione di legittimità costituzionale è stata incidentalmente sollevata, ha comunque consentito ai giudici di palazzo della Consulta di esaminare – nel merito – la fondatezza della questione posta al loro esame (cfr., in particolare, il punto 2 del «Considerato in diritto» della citata sentenza n. 130). Il vaglio della Corte costituzionale ha condotto, in entrambi i casi – sent. n. 64 e n. 130 –, al medesimo esito, traducendosi in una

9 Le due sentenze appaiono, infatti, omogenee in relazione ad almeno uno dei parametri del giudizio (l’art. 102, comma 2, Cost.; nel primo caso la questione di legittimità era sollevata anche in relazione all’art. 25, comma 1; nel secondo, anche in relazione agli artt. 3, 24 e alla VI disp. trans. e fin.), e hanno entrambe comportato un vaglio della normativa legislativa che attribuisce – ancorché in materie diverse – competenza giurisdizionale alle Commissioni tributarie. 10 Affidato alla giurisdizione delle Commissioni tributarie dall’art. 1, comma 1, L. 2 dicembre 2005, n. 248. 11 Come noto, la disciplina generale delle sanzioni amministrative tributarie è dettata dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 («Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662») e ss. mod. Sulle sanzioni amministrative tributarie, cfr., in generale, CARPENTIERI, Le sanzioni amministrative tributarie, Napoli, 2006; per alcuni particolari profili e un excursus storico sul regime delle stesse, cfr. invece MARONGIU, Le sanzioni amministrative tributarie: dall’unità al doppio binario, in Riv. Dir. Trib., I, 2004, 373 ss.; e ancora PIERRO, Il responsabile per la sanzione amministrativa tributaria: art. 11 D.Lgs. n. 472 del 1997, in Riv. Dir., 2, 1999, 224 ss., e la bibliografia ivi. In generale, sulle sanzioni amministrative, cfr. CERBO,

pronuncia di accoglimento del ricorso e nella conseguente declaratoria di parziale incostituzionalità delle norme sottoposte al suo esame: per contrasto con l’art. 102, comma 2, Cost., nel primo caso; per contrasto con tale norma e con la VI disposizione transitoria e finale, nel secondo. Le due decisioni si segnalano in quanto rappresentano una tappa fondamentale, e dagli effetti pratici non trascurabili13, nella definizione della sfera di esercizio della potestà giurisdizionale affidata alle Commissioni tributarie, ponendosi entrambe nel solco di un’annosa (ma non insoluta) riflessione sull’ammissibilità, prima, e sulla definizione, poi, dell’oggetto della giurisdizione tributaria. 2. Alle origini della questione odierna: una ricostruzione storica della cd. “giurisdizione tributaria” Al fine precipuo di chiarire i termini della questione odierna, può quindi risultare utile ricostruire, almeno nelle sue linee fondamentali – rintracciando cioè le principali posizioni dottrinali (e giurisprudenziali) che la alimentarono – la discussione che si svolse, in particolare, nella seconda metà del secolo scorso, in merito alla natura, amministrativa o giurisdizionale, delle Commissioni tributarie, e alla conseguente loro (in)compatibilità col divieto costituzionale di istituzione di «giudici speciali». Tale analisi verrà svolta nel presente paragrafo, ritornando poi, per così dire, al presente, nel successivo par. 3, ove si esamineranno compiutamente le due citate decisioni. La norma parametro, fulcro della riflessione e perno intorno al quale ruotò il dibattito, era infatti – ieri come oggi – esattamente quell’art. 102 Cost., che vedremo esercitare, secondo l’odierna tesi della Corte, un’irresistibile forza gravitazionale nei confronti della «giurisdizione tributaria», attraendo nella propria orbita le norme sulla giurisdizione delle Commissioni e legittimando – come si avrà modo di osservare – solo le competenze strettamente inerenti la materia tributaria. Ad essa si accostava poi la VI disposizione transitoria e finale14, la cui peculiare interpretazione15

Le sanzioni amministrative, Milano, 1999; nonché PALIERO e TRAVI, Sanzioni amministrative., in Enc. Dir., Milano, 1989, XLI; ID., La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988; e ancora TRAVI, Sanzioni amministrative e pubblica amministrazione, Padova, 1983. 12 In particolare, ai sensi dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, cit., nella parte in cui prevede la competenza delle Commissioni tributarie per tutte «le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari» (vedi la nota 1), piuttosto che ex art. 18, comma 1, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, il quale prevede a sua volta che contro il provvedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative tributarie sia ammesso ricorso alle Commissioni tributarie. 13 In riferimento alla sent. n. 64 nota, ad esempio, che «[essa] probabilmente non riguarda un numero di casi assai esteso, [ma] ciò che rileva maggiormente sono gli effetti indiretti della stessa», LOVECCHIO, Un’interpretazione secondo Costituzione di potenziale impatto su molte fattispecie, cit., in particolare, 41 (il corsivo è mio). 14 Ai sensi del cui comma 1 «entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e dei tribunali militari». 15 Perfettamente riassunte dalla stessa Corte

costituzionale nell’ord. 20 aprile 1998, n. 144, laddove essa osserva che «la Costituzione ha voluto che le (altre) giurisdizioni speciali preesistenti fossero sottoposte a revisione, che «comportando una scelta delicata tra soppressione pura e semplice e trasformazione, é stata affidata esclusivamente al Parlamento» (sentenze n. 92 del 1962, n. 41 del 1957, n. 42 del 1961, n. 17 del 1965), non limitato al semplice mantenimento delle suddette giurisdizioni speciali preesistenti; [...] l’obbligo di procedere alla revisione delle anzidette giurisdizioni speciali preesistenti, ha consentito l’intervento del legislatore con leggi posteriori a Costituzione attraverso mutamenti graduali (v., per tutte le disposizioni integrative e correttive emanate in base all’art. 17, comma 2, della legge 9 ottobre 1971, n. 825, i cui termini sono stati ripetutamente prorogati) e con parziali adeguamenti, anche per colmare «le molte deficienze del contenzioso tributario» sottolineate dalla Corte con invito a «riordino legislativo dell’intera materia» (sentenza n. 154 del 1984, n. 212 del 1986)». Ma cfr., in proposito, BARTOLE, La Costituzione e le convenienze della politica, in ID., Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna, 2004, 75 ss., in particolare, il capitolo dal titolo Il problema delle giurisdizioni speciali, 76 ss., ove l’autore osserva che «L’idea [che sottendeva alla VI disp. trans. e fin. Cost.] era, dunque, quella di un quin-


Leonardo Brunetti 1 2009 21

permise, alle condizioni determinate dalla stessa Corte, la sopravvivenza delle giurisdizioni speciali antecedenti la Costituzione repubblicana. In epoca pre-repubblicana, il sistema impugnatorio previsto per i tributi – che si può, in questa sede, ricostruire solo brevemente, quindi con tutte le approssimazioni del caso – era, in effetti, assai complesso16. Da un lato, con la riforma degli anni 1936193717, il legislatore aveva affidato ad apposite Commissioni provinciali e distrettuali la competenza in materia di «imposte dirette e indirette sui trasferimenti di ricchezza», ovvero «sugli affari» (in precedenza affidate alle Commissioni di primo e secondo grado), i cui provvedimenti – espressamente definiti «decisioni» – erano ricorribili innanzi la Commissione centrale18. I membri delle Commissioni erano nominati dall’Intendente di finanza oppure dal Ministro nei casi di cessazione, per qualsiasi motivo, dalla carica. Parte della dottrina si riferiva pianamente a tali Commissioni, per un verso, come ad un «organo giurisdizionale»19, per altro verso, come ad una «giurisdizione attribuita alle commissioni amministrative»20: un organo amministrativo, quindi, ma con funzioni giurisdizionali. Per le imposte dirette, era permesso al contribuente adire l’autorità giudiziaria, (solo) una volta adite le Commissioni quantomeno di primo grado – in particolare, ai sensi dell’art. 22, comma 421, del regio decreto legge del 1936 –; mentre, «per le imposte indirette, l’autorità giudiziaria poteva essere adita indipendentemente o anche cumulativamente al ricorso alle Commissioni»22. Dall’altro lato, per i tributi locali23, il Testo unico per la finanza locale del 14 settembre 1931, n. 1175 prevedeva, nell’originaria formulazione, che gli eventuali ricorsi fossero esaminati da apposite Commissioni comunali, le cui decisioni – il provvedimento era espressamente definito «decisione» dall’art. 281 del citato T.U. – erano appellabili innanzi la Giunta provinciale ammini-

quennale processo di progressiva riforma. Ma anche se si conveniva che la decorrenza inutile del termine [quinquennale] non avrebbe impedito al legislatore di provvedere in ritardo all’implementazione del disposto costituzionale, si sosteneva che il termine di cinque anni non era posto soltanto per il legislatore, “ma altresì per l’attività delle giurisdizioni speciali preesistenti”, le quali – ove non fossero state fatte oggetto della prevista riforma – avrebbero dovuto cessare di funzionare alla scadenza del quinquennio [...]. Apprezzabili ed evidenti ragioni di convenienza (seppure integrate da discutibili considerazioni di sistema) vennero, pertanto, elaborate a sostegno di un’opinione che finiva per consentire – come avrebbe osservato Calamandrei – alle giurisdizioni speciali assoggettate per disposto costituzionale a revisione «di rimanere in funzione così come sono, per omnia specula». Giacché in effetti, con la svolta impressa dalla giurisprudenza e in presenza di un persistente comportamento omissivo del legislatore, la continuità delle giurisdizioni speciali restava fuori discussione e non conosceva limite alcuno», ivi, 79 e 84; nonché ONIDA, Giurisdizione speciale, in Nov. Dig. It., Appendice, III, Torino, 1980, il quale riporta l’esistenza di due opposte tesi, quella «restrittiva, secondo cui essa [VI disp. trans. e fin.] avrebbe dovuto risolversi nella soppressione di tali giurisdizioni [speciali preesistenti] o nella loro trasformazione in sezioni specializzate della giurisdizione ordinaria, e quella estensiva secondo cui invece il legislatore potrebbe, in sede

16

17

18

19

strativa (e, dopo la riforma del 1952, ulteriormente appellabili nel successivo «grado», innanzi la Commissione centrale) ed eventualmente ricorribili innanzi l’autorità giudiziaria (art. 285). Le allora Commissioni comunali per i tributi locali (e così le vedute Giunte provinciali e la Commissione centrale) erano autorità, della cui natura, giurisdizionale ovvero amministrativa, si discuteva – soprattutto all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e del veduto divieto di cui all’art. 102 –, ma certamente svolgenti un’attività in senso proprio contenziosa24. Come noto, l’esito a cui condusse il vaglio di legittimità costituzionale, svolto dall’Alta Corte, sulle norme di legge istitutive di tali autorità, portò, a conclusione di un complesso e assai defatigante percorso giurisprudenziale (e normativo), del quale si darà di seguito brevemente conto, a ritenerne la natura giurisdizionale. La qual cosa – la natura giurisdizionale delle Commissioni25 – non era affatto scontata se, ancora nel 1953, Mario Nigro poteva scrivere che «il procedimento avanti le Commissioni tributarie è un procedimento contenzioso amministrativo, anzi il più vistoso tipo di procedimento contenzioso amministrativo – riconoscendo però che – [...] esso si pone quasi al limite estremo fra la funzione amministrativa e la funzione giurisdizionale»26. A partire dalla sentenza n. 41 dell’11 marzo 195727, e in diverse altre pronunce – fino al 1964 –, la Corte si era sempre orientata nel senso della costituzionalità delle Commissioni tributarie quali giudici speciali. L’indirizzo era, infatti, stato confermato nelle successive decisioni e, in particolare, nella sentenza del 7 dicembre 1964, n. 10328, nella quale la Corte costituzionale aveva addirittura affermato l’irrilevanza, ai fini della loro indipendenza, e quindi della loro qualificazione come giudici, della circostanza che la nomina dei membri delle Commissioni stesse – nel caso di specie, le Commissioni distrettuali delle imposte dirette – avvenisse su designazione dell’Intendente di finanza. Ciò principalmente in ragio-

di revisione, anche conservare tali giurisdizioni, limitandosi ad adeguarle alle esigenze costituzionali», la quale finì per prevalere, nonostante l’iniziale, apparente adesione della Corte costituzionale alla prima tesi nella sent. n. 41 del 1957; e, ancora, VASETTI, Giurisdizione speciale, in Nov. Dig. It., VII, Torino, 1961. Di un sistema «estremamente complesso e disorganico» scrivono, infatti, BATTISTONI FERRARA-BELLÈ, Diritto tributario processuale, cit., in particolare, 3; ma cfr. anche MARONGIU, Alle radici dell’ordinamento tributario italiano, Padova, 1988; nonché ID., Evoluzione della giurisdizione tributaria, cit. R.D.L. 7 agosto 1936, n. 1639 e R.D. 8 luglio 1937, n. 1516, il secondo dei quali, nella «parte più importante», riordinò il cd. processo tributario amministrativo: cfr., per tutti, PUGLIESE, La riforma degli ordinamenti tributari, in Arch. Dir. Pubbl., II, 1937, 557 ss., in particolare, il paragrafo 8, dal titolo Il riordino del processo tributario amministrativo. L’art. 22, commi 1 e 2, R.D.L. n. 1639/1936 cit. disponeva che «La risoluzione in via amministrativa delle controversie tra l’amministrazione finanziaria ed i contribuenti relative all’applicazione delle imposte dirette, esclusa quella sui terreni, è demandata in prima istanza a commissioni distrettuali ed in appello a commissioni provinciali. Nei casi contemplati dalla legge, contro le decisioni delle commissioni provinciali, è ammesso ricorso alla commissione centrale delle imposte dirette». PUGLIESE, La riforma degli ordinamenti tributari, cit., in particolare, 569.

20 Ivi, 568. Anche in ragione di ciò, tali Commissioni divennero da allora oggetto di studio da parte della dottrina: cfr., in proposito, BERLIRI, Il processo tributario amministrativo, Reggio Emilia, 1940. 21 Il comma 4 dell’art. 22 cit. prevedeva, infatti, che «L’autorità giudiziaria può essere adita dal contribuente anche dopo che sia intervenuta soltanto decisione definitiva della Commissione distrettuale o di quella provinciale, purché la relativa imposta sia stata inscritta a ruolo». 22 BATTISTONI FERRARA-BELLÈ, op. cit. 23 Per particolari profili, ed una accurata ricostruzione del sistema della finanza locale (attuale), cfr. MARONGIU, Evoluzione e lineamenti della finanza locale in Italia in Finanza loc., 9, 2005, 31 ss.; e ancora ID., Evoluzione e lineamenti della finanza locale in Italia nel secondo Novecento, in Il Diritto della Regione, 5-6, 2005, 737 ss. 24 «Il carattere contenzioso è chiarissimo nel procedimento avanti le Commissioni» riteneva, infatti, NIGRO, Le decisioni amministrative, Napoli, 1953, in particolare, 108; ma cfr., anche, ID., Sulle decisioni amministrative, in Foro Amm., XXVI, 1950, 15 ss. di cui la prima opera citata costituisce una rielaborazione e un approfondimento. 25 Per la quale, si espressero, ad esempio, autorevolmente ALLORIO, Diritto processuale tributario, Milano, 1942. 26 Ivi. 27 In Giur. Cost., II, 1957, 511 ss. 28 In Riv. Dir. Proc., XX, 1965, 434 ss.


22

GiustiziaTributaria

1 2009

ne del fatto che, quale garanzia d’indipendenza, gli «artt. 7, 10 e 22, R.D. 8 luglio 1937, n. 1516 [avrebbero apprestato] una disciplina sufficientemente precisa e circostanziata delle ipotesi di revoca e di decadenza dei membri stessi, assicurandone l’inamovibilità, per il breve periodo del loro ufficio (quattro anni)»29. 2.1. Il revirement della Corte Con ben due diverse sentenze30 del 1969, nn. 6 e 10, «inizi[ò] la riforma del nostro sistema tributario – annotava all’epoca un insigne giurista – rompendo gli indugi che sembra[vano] intralciare l’attività innovatrice da parte del potere esecutivo e del potere legislativo»31 e «sc[uotendo] dalle fondamenta tutto il complesso edificio del cd. contenzioso tributario»32. In tali pronunce, la Corte – autorevolmente presieduta da Aldo Sandulli – dichiarò, infatti, non essere ammissibili le questioni di legittimità costituzionale di alcune norme e, in particolare, (rispettivamente nelle sentenze n. 6 e n. 10 citt.) dell’art. 47 L. 2 luglio 1952, n. 70333, che sostituiva l’art. 278 del T.U. Finanza loc., e dell’art. 4 R.D.L. 19 agosto 1943, n. 737 (recante «Nuovi provvedimenti in materia di imposte di registro»), in relazione all’art. 50 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, stante «la natura amministrativa delle Commissioni e della loro attività»34. Tali pronunce diedero la stura a un contrasto giurisprudenziale35 tra la Corte costituzionale – la quale ancora nel 1971, con l’ordinanza n. 116 del 26 maggio, ribadiva la certa natura “amministrativa” delle Commissioni36 – e la Corte di Cassazione, la quale ultima riteneva, invece, da un lato, di dovere riconoscere alle sum-

29 Così – nell’annotare la sentenza – MICHELI, Ancora in tema di indipendenza dei giudici speciali (le Commissioni tributarie), ivi, 434 ss., in particolare, 435. Riteneva «la tesi della giurisdizionalità delle Commissioni [...] assolutamente prevalente in dottrina e in giurisprudenza, malgrado [secondo l’opinione dell’autore] il suo debole fondamento», MIELE, Riflessi della Costituzione sull’ordinamento del contenzioso tributario, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1951, II, 825 ss., in particolare, 837. 30 Corte cost., sent. 6 febbraio 1969, n. 6 e sent. 10 febbraio 1969, n. 10, entrambe in Giur. Cost., XIV, 1969, rispettivamente alle 36 ss. e 61ss. 31 MICHELI, Osservazioni sulla natura giuridica delle Commissioni tributarie, in Giur. Cost., XIV, 1969, 310 ss. 32 Ivi. 33 Il testo dell’art. 46, L. 703/1952, cit. recitava: «L’art. 278 del testo unico per la finanza locale 14 settembre 1931, n. 1175, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente: “Sui ricorsi decide in primo grado la Commissione comunale. La Commissione è formata di sessanta membri nei Comuni appartenenti alla classe A; di quarantacinque in quelli appartenenti alle classi B e C; di trenta in quelli appartenenti alle classi D ed E; di quindici in quelli appartenenti alle ultime classi indicate nell’art. 11 (comma 1). In caso di comprovata necessità il Consiglio comunale, con deliberazione soggetta all’approvazione della Giunta provinciale amministrativa, può aumentare il numero dei componenti, purché risulti divisibile per tre. I componenti della Commissione non dovranno superare il numero di novanta per i Comuni della classe A, di settantacinque per quelli delle classi B e C, di quarantacinque per quelli delle classi D ed E e di trenta

menzionate Commissioni il carattere proprio delle “giurisdizioni” – ribadendo di conseguenza la certa esperibilità, avverso le loro decisioni, del ricorso diretto per Cassazione, ex art. 111 Cost. – e, dall’altro lato, di essere tenuta a dichiarare manifestamente infondate le questioni di costituzionalità delle norme di diritto che disciplinavano l’istituzione delle Commissioni stesse37. Nelle citate sentenze n. 6 e 10 del 1969, la Corte costituzionale deduceva la veduta natura amministrativa delle Commissioni in esame «non solo, e non tanto [dai] criteri di scelta e di nomina dei componenti delle commissioni stesse, nonché [dai] poteri ad esse conferiti dalla legge»38, quanto, piuttosto, dal «duplice ordine di tutela»39 del contribuente, il quale, dopo un primo accertamento (in contraddittorio) davanti alle Commissioni – nella sede ritenuta amministrativa –, poteva accedere a un’ulteriore tutela giudiziaria innanzi l’autorità giurisdizionale ordinaria40. Ma più ancora, l’ossatura delle pronunce della Corte costituzionale era rappresentata dalla constatata mancanza d’indipendenza dei membri delle Commissioni41. In breve, i giudici della Corte costituzionale, posti di fronte ad un dato testuale contraddittorio, traevano le loro conclusioni desumendole dalla ricostruzione sistematica del dato positivo, e inferendo la natura amministrativa delle Commissioni dalla loro composizione, dai poteri e dal funzionamento delle stesse, nonché dalla conseguente mancanza di indipendenza organica42; natura che trovavano poi confermata nella duplicità dei rimedi – amministrativi prima, giurisdizionali poi43 – previsti avverso le loro decisioni.

per quelli delle altre classi. Essi debbono avere i requisiti per l’elezione a consigliere comunale. La Commissione è costituita con provvedimento del sindaco: due terzi dei componenti sono nominati dal Consiglio comunale e un terzo dal Prefetto tra i contribuenti del Comune (comma 2). Per la nomina ogni consigliere comunale non può trascrivere nella scheda di votazione un numero di nominativi superiore ai due terzi dei componenti la Commissione. La Commissione elegge nel suo seno, a scrutinio segreto e a maggioranza di voti, il presidente ed uno o più vice-presidenti (comma 3). I membri nominati decadono dalle funzioni se, all’atto dell’insediamento della Commissione, ovvero successivamente, hanno contestazioni pendenti nell’accertamento dei tributi comunali dovuti da essi. Il segretario comunale, o altro impiegato del Comune, funziona da segretario della Commissione; egli risponde della conservazione dei documenti e della regolare tenuta del registro delle decisioni e cura ogni altro adempimento richiesto dai lavori della Commissione. I membri della Commissione durano in carica un biennio e possono essere riconfermati (comma 4)”». 34 Corte cost., sent. 6 febbraio 1969, n. 6, cit., in particolare, 46. 35 Contrasto «parso [...] drammatico», anche se, per la verità, affermò Giuseppe Branca, allora Presidente della Corte costituzionale, il 20 settembre 1969 in occasione dell’incontro di fine anno coi giornalisti, «drammaticità in effetti non c’è stata», ID., Sull’opera della Corte costituzionale nell’anno 19681969, in Giur. Cost., XIV, 1969, 2737 ss., in particolare, 2742. Ma del «più infelice [contrasto] che a mente d’uomo sia dato immaginare», scriveva, invece, ANDRIOLI, «Surplace fiscale» delle due Corti, in Giur. Cost.,

XVI, 1971, 1155 ss., in particolare, 1155. 36 Corte cost., ord. 26 maggio 1971, n. 116, in Giur. Cost., XVI, 1971, 1154 ss., con nota di ANDRIOLI, «Surplace fiscale» delle due Corti, cit. 37 Cfr. Cass., sez. un., sent. 20 giugno 1969, n. 2175, in Foro It., 1969, I, 1416; sent. 20 giugno 1969 e 21 giugno 1969, n. 2201, in Giust. Civ., I, 1846. In dottrina, cfr., sul tema, MICHELI, Osservazioni sulla natura giuridica delle Commissioni tributarie, cit., in particolare, 317 (nota 19); nonché ANDRIOLI, op. cit. 38 MICHELI, Osservazioni sulla natura giuridica delle Commissioni tributarie, cit., 315. 39 Ivi. 40Cfr. ivi, 315 ss. 41 Cfr. ivi, in particolare, 316. 42 Cfr., in particolare, il punto 3 in diritto della sent. 10 febbraio 1969, n. 10 cit. 43 A titolo di esempio, il R.D. 14 settembre 1931, n. 1175 (Testo unico per la finanza locale), come modificato dalla L. 2 luglio 1952, n. 703, prevedeva, infatti, un complesso meccanismo in virtù del quale, ex art. 278, per i ricorsi contro gli accertamenti in materia di finanza locale, era competente in primo grado la Commissione comunale – composta ai sensi del medesimo articolo e suddivisa, ai sensi del successivo art. 279, in sottocommissioni –; avverso tali decisioni era dato appello, ex art. 282, alla Giunta provinciale amministrativa, le cui decisioni, ai sensi dell’art. 284-bis erano ulteriormente impugnabili innanzi una apposita sezione della Commissione centrale. L’art. 284-bis – introdotto dalla L. n. 703/1952 cit. – disponeva, infatti, che «contro le decisioni sulle controversie concernenti l’applicazione dei tributi locali emesse in sede di appello, dalla Giunta provinciale amministrativa, integrata ai sensi del precedente art. 283 (primo comma), salvo che non sia stabilita una speciale procedura nei capi riguardanti i singoli tributi predetti, è am-


Leonardo Brunetti 1 2009 23

Osservava, infatti, la Corte nella sent. 6 febbraio 1969, n. 6, in merito alla cd. «fase propriamente amministrativa e [alla cd.] fase tipicamente giurisdizionale»44 del sistema del contenzioso tributario locale, «che [se] alla frequente qualificazione delle Commissioni come organi comunali non può essere riconosciuta una incidenza risolutiva sulla definizione delle loro funzioni [...] – secondo la Corte, si sarebbe cioè potuto qualificare un organo, in ipotesi, comunale come giudice speciale – [andava però] subito aggiunto che ciò non esclude che alcuni elementi attinenti al modo di composizione delle Commissioni [...] alla sua [rectius: loro] organizzazione [...] e alla mancanza di previsione di incompatibilità con cariche e uffici dell’amministrazione interessata debbano essere presi in considerazione come seri e univoci indizi della natura amministrativa delle competenze in esame»45. Tanto più che – per il caso di disfunzione dei rimedi amministrativi – sarebbero residuati al contribuente ulteriori rimedi giurisdizionali (art. 280 T.U. finanza loc.). Ulteriori indici a conferma della natura amministrativa delle Commissioni de quibus sarebbero poi stati la regola – tipica degli organi amministrativi, non mai di quelli giurisdizionali – che prevedeva, per la validità delle deliberazioni della Commissione, la presenza di almeno la metà dei componenti (art. 270 T.U. cit.) e il potere di scioglimento della Commissione stessa attribuito al Prefetto ex art. 291 T.U. cit., del tutto «incompatibile – a detta della Corte costituzionale – con la pretesa natura giurisdizionale dell’organo e delle sue funzioni e [che], di contro, è perfettamente corrispondente al potere di controllo sostitutivo46 che ha per destinatari organi amministrativi e per oggetto attività amministrative»47. Parte della dottrina dell’epoca, nel criticare la coppia di sentenze, segnalò che tutti «gli argomenti esposti nelle due decisioni della Corte [le vedute sent. 6 e 10 del 1969] – da ritenersi non soltanto non determinanti, ma addirittura equivoci – [concernevano in realtà meri] aspetti formali organizzativi, meno uno»48, di carattere, quindi, “sostanziale”: l’«unico argomento d’ordine sostanziale attiene al tipo di funzione, di attività cui le Commissioni sono chiamate»49. Ad esse era, infatti, riconosciuto anche il potere di aumentare la base imponibile accertata50, in tal caso invitando l’amministrazione (comunale) a notificare il nuovo accertamento al contribuente, che poteva nuovamente ricorrere – entro il termine di trenta giorni dalla notificazione – alla stessa Commissione. Con riguardo a tali attività, la medesima dottrina conveniva che «la loro qualificazione come giurisdizionali non sarebbe [stata] sostenibile. Infatti – secondo l’autore testé citato

messo ulteriore gravame, per i soli motivi di legittimità, e nel termine di trenta giorni dalla notificazione delle decisioni stesse, alla Commissione centrale per le imposte dirette. A tal fine è aggiunta alla Commissione centrale suindicata, costituita nei modi di cui all’art. 32 del R.D.L. 7 agosto 1936, n. 1639, un’apposita altra sezione per la risoluzione dei ricorsi proponibili a termine del precedente comma [...]». Tali decisioni erano poi «ulteriormente impugnabili innanzi l’autorità giudiziaria», ai sensi dell’art. 285 del Testo unico, che disciplinava il ricorso all’autorità giudiziaria, disponendo che «esauriti i ricorsi di cui agli artt. 282, 284 e 284-bis ogni ulteriore questione, che non si riferisse ad estimazione di redditi o ad accertamenti di fatto relativi alla materia imponibile, potesse essere proposta unicamente davanti all’autorità giudiziaria, ai sensi dell’art. 6, L. 20 marzo 1865, all. E», dal che di nuovo altri tre gradi di giudizio (primo grado, appello e Cassazione). 44 Corte cost., sent. n. 6/1969, cit., 44.

– il problema della distinzione fra attività (atti, funzioni, organi) giurisdizionale e attività amministrativa sorge sul terreno delle decisioni, e perché vi possono essere decisioni non giurisdizionali»51, ma non vi potrebbe mai essere giurisdizione se l’attività non fosse di decisione. Pencolanti tra «amministrazione» e «giurisdizione», le Commissioni tributarie sopravvissero – e vivono tuttora, ma oggigiorno non più – in una dimensione di contestata indipendenza, subendo nel tempo svariati processi di riforma, che passando attraverso la L. 9 ottobre 1971, n. 825 (contenente «Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria») e il conseguente D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (che, in esecuzione della delega, ha disposto la «Revisione della disciplina del contenzioso tributario»), approdarono in fine alla riforma – più o meno definitiva – del 1992. 2.2. Il decreto legislativo n. 546/1992 e l’ordinanza n. 144/1998 Passando allora – per così dire – per saltum ai tempi più recenti, con i decreti legislativi n. 545 (di disciplina dell’«Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria») e 546 (contenente «Disposizioni sul processo tributario»), entrambi del 31 dicembre 1992 e ancora oggi vigenti, e in attuazione della delega di cui all’art. 30 L. 30 dicembre 1991, n. 413, il legislatore attuò il riordino52 (degli organi) della giurisdizione tributaria, disponendo, in particolare, che «La giurisdizione tributaria [fosse] esercitata dalle commissioni tributarie provinciali e dalle commissioni tributarie regionali di cui all’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1992, n. 545» (art. 1), e dando così un assetto sostanzialmente definitivo alla giurisdizione tributaria delle Commissioni de quibus. La legittimità costituzionale delle Commissioni tributarie così riformate passò al vaglio della Corte che, nell’ordinanza n. 144 del 199853, affermò la piena costituzionalità delle stesse, condizionata però al rispetto di determinati presupposti. I giudici costituzionali precisarono, infatti – in un passaggio per noi di fondamentale importanza – che «per le preesistenti [rispetto all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana] giurisdizioni speciali, una volta che siano state assoggettate a revisione, non si crea una sorta di immodificabilità nella configurazione e nel funzionamento, né si consumano le potestà di intervento del legislatore ordinario; [...] questi conserva il normale potere di sopprimere ovvero di trasformare, di riordinare i giudici speciali, conservati ai sensi della VI disposizione transitoria, o di ristrutturarli nuovamente anche nel funzionamento e nella

45 Ivi, 45. 46 Sul «controllo sostitutivo» ci si permette di rinviare al mio Considerazioni sul potere di annullamento di cui all’art. 138 T.u.e.l. e sulla sua riconducibilità all’art. 120, comma 2, Cost., in Dir. Amm., 3, 2006, 721-746, e alla bibliografia ivi. 47 Corte cost., sent. 6/1969, cit., 45. 48 CAPACCIOLI, Le Commissioni tributarie e l’atto di decisione, in Riv. Dir. Proc., XXIV, 1969, 402 ss., in particolare, 406. 49 Ivi. 50 Ai sensi dell’art. 280 R.D. n. 1175/1931 cit., come sostituito dall’art. 48 L. 2 luglio 1952, n. 703. 51 Ivi. 52 Di un «nuovo assetto» dato per tale via alla giurisdizione tributaria, dopo «una lunga odissea di interpretazioni giurisprudenziali e di revisioni legislative», scrive autorevolmente PIZZORUSSO, Art. 102, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, continuato da Pizzorusso, Bologna-Roma, 1994.

53 Sulla questione avente ad oggetto la legittimità costituzionale dell’art. 30 L. 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l’attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale) e dei D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) e n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413).


24

GiustiziaTributaria

1 2009

procedura, con il duplice limite di non snaturare (come elemento essenziale e caratterizzante la giurisprudenza speciale) le materie attribuite alla loro rispettiva competenza e di assicurare la conformità a Costituzione, fermo permanendo il principio che il divieto di giudici speciali non riguarda quelli preesistenti a Costituzione e mantenuti a seguito della loro revisione» (mio il corsivo). In tal senso, la Corte concludeva che «la modifica mediante ampliamento della competenza delle Commissioni tributarie non vale a far ritenere nuovo il giudice tributario in modo tale da ravvisarsi un diverso giudice speciale, in quanto é rimasto non snaturato né il sistema di estrazione dei giudici (anzi migliorato dal punto di vista dei requisiti di idoneità e di qualificazione professionale e delle incompatibilità), né la giurisdizione nell’ambito delle controversie tributarie»54. Il legislatore può insomma «sopprimere», «trasformare», «riordinare» ovvero «ristrutturare» le Commissioni tributarie rispettando però due limiti invalicabili, ossia il confine della natura tributaria della materia ad esse attribuita, nonché la conformità a Costituzione del quadro delle competenze così risultante. Nel 2001 (e poi ancora nel 2005), come si è visto, il legislatore intervenne, infatti, nuovamente sull’ambito di esercizio della giurisdizione tributaria, conferendo alle Commissioni tutta (e soltanto) la cognizione in materia tributaria, senza incorrere in alcuna sanzione da parte della Corte costituzionale. In estrema sintesi, quindi, anche dopo i veduti interventi del legislatore, del 1992 e del 2001, le Commissioni tributarie restano certamente giudici “speciali”55 della materia tributaria: tali, soprattutto, per le particolari modalità di accesso alla carica e per la loro specializzazione in relazione alla materia. Ciò ancorché esse abbiano cognizione su situazioni di diritto soggettivo56 – ma si dovrebbe forse, più correttamente, dire anche in ragione di tale fatto: l’opinione prevalente in dottrina ravvisa, infatti, «la natura di diritti soggettivi nelle situazioni sostanziali oggetto del giudizio delle commissioni; [dal che essa] desume che le commissioni stesse non sono organi di giurisdizione amministrativa, [né ovviamente ordinaria: ndr.] ma di giurisdizione speciale»57. Tale ricostruzione viene a contrario confermata dal disposto del-

54Corte cost., ord. 20 aprile 1998, n. 144, cit. nel testo. 55 Della qual cosa non par lecito dubitare, essendo così definite non solo dalla Corte costituzionale, nella veduta ordinanza del 1988, come in diverse altre pronunce (precedenti e) successive, ivi comprese le sent. n. 64 e 130 cit. – in particolare, nel punto 3.2 del «Considerato in diritto» ove la Corte afferma che «la giurisdizione tributaria deve essere considerata un organo speciale di giurisdizione preesistente alla Costituzione» –, ma anche espressamente dalla Costituzione stessa (VI disp. trans. e fin.), dalla unanime dottrina (cfr., per tutti, MARTINES, Diritto costituzionale, Milano, 2005, in particolare, 398 ss.), come anche dalla giurisprudenza (cfr., ad esempio, Corte di Cassazione, sez. un., sent. 31 marzo 2006, n. 7578, in particolare, punto 4 del «Considerato in diritto» e 22 febbraio 2007, n. 4109, sulla quale infra). 56Cfr. MANDRIOLI, Diritto processuale civile. Nozioni introduttive e disposizioni generali, Torino, 2006, 208; nello stesso senso, CAIANIELLO, Profili di costituzionalità del processo tributario, in Riv. Dir. Proc., 1999, in particolare, 646 ss.; contra TESAURO, Gli atti impugnabili e i limiti della giurisdizione tributaria, in questa rivista, 1, 2007, 9 ss. il quale – riprendendo

l’art. 18, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 in materia di sanzioni amministrative tributarie, il quale prevede, al comma 2, che «se le sanzioni si riferiscono a tributi rispetto ai quali non sussiste la giurisdizione delle commissioni tributarie [caso oggi infrequente, stante la veduta competenza ampliata delle Commissioni tributarie: ndr.], è ammesso, nel termine di sessanta giorni dalla notificazione del provvedimento, ricorso amministrativo in alternativa all’azione avanti all’autorità giudiziaria ordinaria58, che può comunque essere adita anche dopo la decisione amministrativa ed entro centottanta giorni dalla sua notificazione». È quindi certo che il sistema attuale del contenzioso tributario sia correttamente descritto come basato su tre gradi di giudizio, di cui i primi due dati da un giudice speciale, ossia le Commissioni tributarie, provinciali e regionali; il terzo, da un giudice ordinario, ovverosia la Corte di Cassazione: entrambe le magistrature, ordinaria e speciale, giudicano (ancorché ciò non sia indiscusso) di diritti soggettivi, il cui giudice naturale è – notoriamente – il giudice ordinario. Autorevole dottrina ha però correttamente osservato che, in un certo senso, «si può parlare a ragione [delle Commissioni come] di giudice “ordinario” di uno specifico settore dell’ordinamento. Tale affermazione richiede, tuttavia, alcune precisazioni. Innanzi tutto, non [si può] fare a meno di rilevare che, se le commissioni sono oggi il giudice ordinario dei tributi, esse restano pur sempre un “giudice speciale”, soggetto, quindi, al divieto di istituzione di nuovi giudici speciali»59 (mia l’enfasi); ma – prosegue il medesimo autore – tale divieto non si estende alla possibilità di affidargli competenze nuove, purché ciò non «snaturi» (utilizzando le parole della Corte, nell’ord. n. 144/1998 cit.) le materie originariamente attribuite alla sua competenza. Tale assunto risulta oggi confermato dalle sentenze in esame. La compatibilità con la Costituzione repubblicana delle Commissioni tributarie deriva, insomma, esclusivamente dalla possibilità – consentita dal disposto dell’art. 102, comma 2, Cost. – di conservare, nel nostro ordinamento, accanto ad un giudice ordinario – quello di cui al comma 1 del medesimo articolo –, determinate magistrature speciali. E questo perché, ancorché la nostra Costituzione vieti, di massima, l’istituzione di giudici speciali, i mem-

l’insegnamento del maestro (cfr., in particolare, ALLORIO, Diritto processuale tributario, V, Torino, 1969, 596 ss.) – osserva, invece, che «La giurisprudenza ha sempre ritenuto e ritiene che la posizione soggettiva del contribuente, di fronte agli atti concreti d’imposizione, sia una posizione di diritto soggettivo. L’origine di questa impostazione risale alla legge abolitrice del contenzioso amministrativo e trae la sua giustificazione tecnica dall’assenza di discrezionalità che caratterizza il potere impositivo. Si ritiene però, anche in materia tributaria, vi siano atti connotati da discrezionalità, a cui corrispondono posizioni di interesse legittimo, la cui cognizione appartiene al giudice amministrativo. In tal modo, il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario (fino a quando era giudice di merito per alcune imposte) e giudice amministrativo, in materia tributaria, appariva regolato secondo il criterio generale, per cui il giudice ordinario è giudice dei diritti soggettivi, il giudice amministrativo giudice degli interessi legittimi. [...] I giudici amministrativi si considerano giudici esclusivi degli interessi legittimi; le commissioni tributarie sono assimilate ai giudici ordinari in quanto giudici di diritti soggettivi. Sembra quasi escluso che anche le commissioni tributarie, che pure sono giudici

amministrativi, possano operare a tutela di interessi legittimi. Questa impostazione, pur profondamente radicata, può essere ridiscussa e messa in crisi in base agli orientamenti recenti della giurisprudenza amministrativa in tema di definizione dell’interesse legittimo. Secondo gli orientamenti attuali della giurisprudenza amministrativa, a fronte dell’attività discrezionale la posizione soggettiva del cittadino è sempre una posizione di interesse legittimo. Non sempre, invece, di fronte ad una funzione vincolata, vi è una posizione di diritto soggettivo»; ma cfr., anche, del medesimo autore, Giusto processo e processo tributario, cit.; nonché GLENDI, L’oggetto del processo tributario, cit., in particolare, 163 ss. 57 MANDRIOLI, op. cit. 58Competente, in tal caso, non solo in quanto “giudice naturale” delle sanzioni (amministrative), ma anche dei tributi non affidati alla competenza giurisdizionale delle Commissioni tributarie. 59 FANTOZZI, Nuove forme di tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali: la prospettiva tributaria, in Riv. Dir. Trib., 1, 2004, 3 ss.; ma cfr. anche TABET, Specialità del giudice e specialità del procedimento nel processo tributario riformato, in questa rivista, 2008, 4, 690 ss.


Leonardo Brunetti 1 2009 25

bri delle Commissioni tributarie sono scelti in considerazione della particolarità della materia e sulla base di una preparazione specifica, trovando in ciò la loro stessa giustificazione. Dalla materia stricto sensu, tributaria non è però lecito nemmeno al legislatore ordinario esorbitare, conferendo alle Commissioni competenze diverse; ma nel limite della conformità alla Costituzione (ossia dell’inerenza alla materia tributaria) possono essere attribuite alle Commissioni competenze, per così dire, “nuove” – purché non in materie nuove – rispetto a quelle ab origine previste. Al contrario, in riferimento ai giudici amministrativi (id est T.A.R. e Consiglio di Stato) e sulla base di un disegno costituzionale del tutto differente (artt. 24 e 103), la Corte costituzionale aveva potuto affermare, nella notissima sentenza n. 204 del 2004 – sulla quale infra –, che «il Costituente [...] ha riconosciuto al giudice amministrativo piena dignità di giudice ordinario»60. La denominazione di «giudice speciale», in riferimento alla magistratura amministrativa, ha quindi – non tanto un valore storico, quanto piuttosto – senso solo «sotto il profilo soggettivo [essendo i giudici amministrativi] dotati di giurisdizione generale in materia di interessi legittimi»61, ed essendo perciò la giurisdizione amministrativa contrapposta a quella ordinaria (all’art. 113, comma 1, Cost.), solo in quanto deputata a conoscere – in via generale – di situazioni di interesse legittimo e non – salvo pur possibili eccezioni – di diritti soggettivi. In sintesi, il giudice tributario è oggi – dopo il 2001 – giudice «naturale» (quantomeno nel senso della sua necessaria precostituzione), ma non già “ordinario”, in senso proprio – salvo sempre possibili riforme in direzione dell’unità della giurisdizione –, dei tributi. Un giudice che non è garantito, bensì permesso (o meglio, la cui conservazione è permessa al legislatore) dalla Costituzione repubblicana. Vedremo però, nell’ultimo paragrafo, come sia innegabile – perché diretta conseguenza sia degli orientamenti interpretativi del

60 Con ciò recependo l’insegnamento di Giorgio Berti, il quale scriveva, infatti, che «Il giudice amministrativo non è invero giudice speciale se si guarda alla sua competenza generale, in quanto appunto definita in funzione della tutela degli interessi legittimi»: ciò che la citata sent. n. 204/2004 ha certamente condiviso e sancito; l’insigne maestro aggiungeva peraltro subito dopo che il giudice amministrativo «dovrebbe emergere come giudice speciale quando invece lo si consideri per le materie enumerate e specificamente attribuitegli a titolo di competenza esclusiva», in BERTI, Art. 113 [e 103, comma 1 e 2], in Commentario della Costituzione. La magistratura, t. IV, a cura di Branca, continuato da Pizzorusso, Bologna-Roma, 1987, 85 ss., in particolare, 90. 61 MANDRIOLI, op. cit., 202, nota 46. A onor del vero, non si può però sic et simpliciter obliterare il dato, di diritto positivo, che la stessa Costituzione si riferisce al Consiglio di Stato come a un «organo speciale di giurisdizione» (VI disp. trans. e fin.), con ciò sancendo l’impossibilità di liquidare sbrigativamente l’osservazione, proveniente, infatti, da autorevole dottrina, secondo la quale, in Costituzione, l’espressione «giurisdizione speciale» sarebbe assunta in un duplice senso: e cioè sia in riferimento agli organi delle giurisdizioni amministrativa, contabile e militare che sono «conservate [dalla Costituzione] accanto alla giurisdizione ordinaria»; sia in riferimento ad organi di altro genere – da soppri-

giudice della legittimità sia (soprattutto) di puntuali pronunce della Corte costituzionale, il cui effetto non può essere né disconosciuto né revocato in dubbio – il fenomeno che parte della dottrina ha efficacemente descritto come un «lento incedere dell’unità della giurisdizione»62: fenomeno (e pronunce) dal quale è necessario trarre le dovute conclusioni di ordine sistematico – il che avverrà nell’ultimo paragrafo –, anche in riferimento alla giurisdizione tributaria. 2.3. Una necessaria chiarificazione terminologica Si impone, a questo punto, una chiarificazione terminologica: se, infatti, il termine «giudice» – come da tempo notato in dottrina – si presta, già singolarmente considerato, ad assumere una «pluralità di significati»63, le espressioni «giudice naturale», «giudice ordinario», «giudice speciale» e «giudice straordinario» si arricchiscono esponenzialmente di significati plurimi e non (sempre) univoci. Al riguardo, appare opportuna una primissima considerazione: l’opposizione concettuale espressa in Costituzione è tutt’altro che perfetta. Essa appare al contrario, in qualche modo, «asimmetrica»: il riferimento al «giudice ordinario»64 (art. 102, comma 1) non trova – da un punto di vista concettuale – l’esatta contrapposizione nell’espressione – che parrebbe invece più contigua – «giudice straordinario», di cui all’art. 102, comma 2, bensì in quella (ivi contenuta) «giudice speciale», come comprova, del resto, l’art. 111. Tale articolo, all’attuale comma 7, vede, infatti, opposti agli «organi giurisdizionali ordinari» quelli «speciali». È certo perciò (anche senza dover puntualmente richiamare sia la tradizione dottrinale sia i lavori dell’assemblea costituente65, i quali comunque confermano tale dato66), che i padri costituenti abbiano inteso indicare, nel dettato costituzionale, nelle magistrature preesistenti la Costituzione repubblicana67, le quali non rientravano nell’ordinamento giudiziario allora vigente, delle giurisdizioni «speciali» (VI disposizione transitoria e finale). Ma-

mersi ovvero trasformarsi – in un significato diverso da quello che l’espressione assume nel primo caso. Sono perciò almeno due le accezioni possibili dell’espressione «giudice speciale»: cfr. GIANNINI, Una sentenza ponte verso i tribunali amministrativi, in Giur. Cost., 1968, 760, in particolare, 768; il passo è citato da SENESE, Giudice (nozione e diritto costituzionale), in Dig. Disc. Pubbl., VII, Torino, 1991, 195 ss., in particolare, 220 62 MANGIA, Il lento incedere dell’unità della giurisdizione, in Giur. Cost., 2, 2007, 736 ss., consultabile anche on-line, sul sito www.giurcost.it. Sul principio di unità (o unicità) della giurisdizione, cfr., tra gli altri, PASTORI, Per l’unità e l’effettività della giurisdizione, in Riv. Dir. Proc., 1996, 919 ss.; MARZUOLI e ORSI BATTAGLINI, Unità e pluralità della giurisdizione: un altro secolo di giudice speciale per l’amministrazione?, in Dir. Pubbl., 1997, 895 ss.; TRAVI, Per l’unità della giurisdizione, ivi, 1998, 371 ss. 63 Così SPAGNA MUSSO, Giudice. Nozione e profili costituzionali, in Enc. Dir., diretta da Mortati e Pugliatti, XVIII, Milano, 1969, 931 ss., in particolare, 931. 64Con la quale ci si riferisce al giudice individuato dall’art. 102, comma 1, Cost. (id est «magistrati ordinari», civili e penali) rispondente a quell’«orientamento favorevole al principio di unicità della giurisdizione che fu talora enunciato dai costituenti (ma non fino al punto di indurli a modificare radicalmente l’assetto delle giurisdizioni esistenti)»: così

PIZZORUSSO, Art. 102, cit., 208; di una «aspirazione alla giurisdizione unica, pur da molte voci sostenuta in sede costituente, [che] assume nell’impianto costituzionale il valore di una semplice linea di tendenza», scrive anche IMPANGATIELLO, Giudice (ordinamento del), in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., IX, 33 ss., in particolare, 37. 65 Sui quali, cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, VIII, Roma, 1971, 1889 ss.; nonché RIGANO, Costituzione e potere giudiziario, Padova, 1982, e, ancora, POGGI, Il sistema giurisdizionale tra «attuazione» e «adeguamento» della Costituzione, Napoli, 1995. 66 Cfr., in proposito, SENESE, Giudice (nozione e diritto costituzionale), cit., in particolare, 218 ss. 67 Interessante, in proposito, leggere quanto scriveva, nel 1941, CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, il quale, distinguendo gli “uffici ordinari” da quelli “speciali” indicava questi ultimi negli «uffici destinati alla composizione di determinate categorie di liti; tali sono, per esempio, la “magistratura del lavoro” (art. 13 legge 3 aprile 1926, n. 563) oppure i “tribunali delle acque pubbliche” (art. 65 e 66, D.L. 9 ottobre 1919, n. 2161); tali sono altresì gli uffici della cd. “giustizia amministrativa” e in principal modo le “sezioni giurisdizionali del consiglio di Stato” (art. 9 del T.U. 26 giugno 1924, n. 1054) e la “giunta provinciale amministrativa” (T.U. 26 giugno 1924, n. 1058)».


26

GiustiziaTributaria

1 2009

gistrature delle quali si preoccuparono che venisse garantita l’indipendenza, ancorché con legge ordinaria (art. 108); con ciò implicitamente indicando nel giudice «straordinario» – il cui divieto di istituzione completa, ma anche necessariamente accompagna, quello dei giudici speciali – il giudice che non fosse precostituito con legge (in violazione, quindi, del precetto costituzionale contestualmente posto). L’art. 102 citato è, infatti, evidentemente ispirato al principio di cd. «unità della giurisdizione»68, che la Costituzione, in certo modo, contemporaneamente accoglie e contraddice – confermando aliunde (all’art. 108) l’esistenza di magistrature diverse da quella ordinaria –, e dovendosi perciò ritenere almeno in parte «delusa dalla [stessa] Costituzione l’aspirazione all’unità della giurisdizione»69. Extra ordinem risulta quindi essere, in tal senso (cioè in riferimento all’art. 102), non tanto il giudice straordinario, quanto piuttosto quello speciale. È vero, infatti, che «mentre il divieto di istituzione di giudici straordinari si fonda sull’esigenza di assicurare il rispetto dei principi fondamentali del sistema democratico, il divieto di istituzione di giudici “speciali” è correlato soltanto al rispetto del principio dell’unicità della giurisdizione»70. Allo stesso modo, l’opposizione concettuale delineata dai costituenti non è tra «giudice naturale» e «speciale», bensì tra «giudice naturale»71 (precostituito con legge) e «giudice straordinario» (creato ex post factum ovvero per giudicare determinate persone), quale «giudice creato ad hoc per occuparsi di un determinato tipo di controversie o di reati»72. Rispetto a tale ultimo giudice (straordinario) il divieto costituzionale è, peraltro, assoluto73, non ravvisandosi alcuna eccezione in tal senso al principio della precostituzione del giudice naturale. Ciò ancorché non sia mancato, in dottrina, chi abbia sostenuto la non perfetta coincidenza tra i concetti di «giudice naturale» e

68 «I lavori preparatori dell’Assemblea costituente relativi al Titolo della Costituzione dedicato alla magistratura lasciano apparire una larga convergenza di dichiarazioni di principio favorevoli all’accettazione del principio dell’unità della giurisdizione, cioè alla concentrazione della funzione giurisdizionale in capo ad un unico ordine di organi, del resto espressamente indicato dal primo comma dell’art. 102 Cost.», così BARTOLE, op. cit., 76 ss. Sul principio di unità della giurisdizione, vedi la nota 62. 69 PIZZORUSSO, Art. 102, cit., 195. 70 Ivi, 209. 71 Sul quale, ancora oggi, rimane imprescindibile la consultazione di ROMBOLI, Il giudice naturale. I. Studio sul significato e la portata del principio nell’ordinamento costituzionale italiano, Milano, 1981. 72 PIZZORUSSO, op. cit. 73 Ivi; la ratio del «carattere assoluto» di tale divieto – diversamente da quello di istituzione di giudici speciali – viene ravvisata, dall’illustre autore, nel diverso fondamento dei due divieti: cfr. infra, il passo cit. alla nota 70. 74 Ad esempio, NOBILI, Art. 25, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, continuato da Pizzorusso, Bologna-Roma, 1981. Sul punto, cfr., in generale, ZANON e BIONDI, Diritto costituzionale dell’ordine giudiziario. Status e funzioni dei magistrati alla luce dei principi e della giurisprudenza costituzionali, in particolare, il capitolo IV, dal titolo Il giudice naturale, 117 ss. 75 In particolare, cfr. la sent. 7 luglio 1962, n. 88, in Giur. Cost., II, 1962, 959 ss., con nota di MICHELI, In tema di illegittimità costituzio-

di «precostituzione per legge», di cui all’art. 25, comma 1, Cost. Le due espressioni rappresenterebbero, infatti, per alcuni74 – come per la stessa Corte costituzionale75 –, un’inscindibile endiadi, coincidendo cioè «naturalità» e «precostituzione»; mentre, per altri, si dovrebbe attribuire un autonomo e distinto significato a ciascuno dei due termini76. In generale, ancorché discusse, trovano invece riscontro, in dottrina, sia l’opinione che l’art. 25 configuri una sorta di «diritto del singolo» a non essere distolto dal giudice naturale77 – in virtù di un principio di certezza, e cioè di non dubbia (e previa) conoscenza del giudice competente; ma anche di necessaria imparzialità del giudice stesso – sia quella che indica il medesimo articolo a fondamento e garanzia del riconoscimento di un pluralismo interpretativo nella magistratura. 3. Esame dell’iter argomentativo delle decisioni Venendo all’esame delle due sentenze che si commentano, in entrambe le decisioni de quibus – quale conseguenza del ragionamento suesposto – appare fondamentale per la Corte il riscontro della natura tributaria delle competenze affidate alle Commissioni: «ove sia stata accertata la natura non tributaria della materia attribuita alla cognizione dei giudici tributari – scrive, infatti, la Corte –, si deve affermare l’illegittimità costituzionale di detta attribuzione»78. In altre parole, «il piano dell’indagine giuridica si sposta sull’esame della natura del prelievo oggetto di verifica da parte della Corte»79 (ossia il Cosap) – nella sentenza n. 64 – ovvero sulla natura tributaria delle sanzioni amministrative (dell’organo competente a irrogarle) – nella sentenza n. 130. In quest’ultimo caso, peraltro, la consonanza con il disposto della nota sentenza n. 204 del 200480 – che pure investiva una questione del tutto differente, sul-

nale della proroga della competenza in materia penale, ivi, 961 ss. 76 È, in particolare, CARNELUTTI, Incostituzionalità della deroga alla competenza penale per materia decretata dal pubblico ministero, in Riv. Dir. Proc., 1962, 179 ss., a ritenere che l’«aggettivo naturale [di cui all’art. 25 Cost.] alludendo alla natura delle cose, sembra doversi riferire ad un criterio rigorosamente oggettivo per la scelta del giudice», in particolare, 181: il corsivo è nel testo. Lo stesso autore affermava, infatti, aliunde che – ad esempio – «La competenza funzionale nel processo di cognizione è determinata dalla natura del processo o del procedimento», in ID., Istituzioni del nuovo processo civile italiano, cit., in particolare, 113: anche in questo caso, il corsivo è nel testo. Se tale considerazione appare difficilmente condivisibile, anche per i rilievi svolti da NOBILI, Art. 25, cit. al quale si rinvia, è ciononostante accettabile (e, anzi, assolutamente da condividersi) la conclusione che il giudice debba essere necessariamente pre-costituito, cioè costituito prima, ove il «“prima” allude ad un rapporto logico piuttosto che cronologico. Ora la priorità logica si risolve nella indipendenza della scelta de giudice dalle circostanze concrete del fatto, in termini tecnici nella scelta riferita alla fattispecie e non al fatto, dove fattispecie è parola usata nel senso rigoroso di modello legale del fatto e non del fatto nella sua storicità»: il corsivo è nel testo. 77 Cfr. ZANON e BIONDI, Diritto costituzionale dell’ordine giudiziario, cit., in particolare, 118, in cui gli autori scrivono che l’art. 25, comma 1,

«chiaramente delinea un diritto: quello, appunto, a non essere distolti dal giudice naturale precostituito»; il che viene dedotto (e confermato) da parte della stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 272 del 1962 – citata dagli autori –, dalla collocazione dell’art. 25 tra i diritti e doveri dei cittadini. 78 Punto 2.1.2. del «Considerato in diritto» della sent. n. 64/2008 cit. 79 LOVECCHIO, Un’interpretazione secondo Costituzione, cit., in particolare, 40. 80Ove si legge, infatti, che «tale necessario collegamento delle “materie” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è espresso dall’art. 103 laddove statuisce che quelle materie devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo. Il legislatore ordinario ben può ampliare l’area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente


Leonardo Brunetti 1 2009 27

la quale, in ragione della sua notorietà, appare superfluo soffermarsi – è notevole. E ciò benché certamente, in quest’ultima sentenza, la Corte ragionasse a partire da un riparto di competenze sostanzialmente fissato in Costituzione, tra giudici (necessariamente) previsti nel nostro ordinamento – quindi ugualmente «ordinari»81, non essendo più definibili «speciali in senso pieno»82, ma ratione materiae83 i giudici amministrativi, o meglio ancora, in quanto «giudici la cui specializzazione si riflette nella particolare organizzazione» della relativa magistratura84 –; mentre nel caso de quo (sent. n. 130) essa ragiona a partire dall’esistenza di un giudice speciale in senso proprio85, ancorché ammesso ai sensi della VI disposizione transitoria e finale, ma comunque non previsto, né tantomeno garantito dalla Costituzione. Il problema si sposta perciò in tale ultimo caso, quasi “in negativo” rispetto alla sentenza n. 204 del 2004, sull’«ambito» (o, se si vuole, «frazione») della giurisdizione legittimamente attribuita al giudice tributario, e quindi sulla compatibilità con la Costituzione stessa dell’attribuzione di una potestà giurisdizionale che, qualora quest’ultimo giudice venisse soppresso, spetterebbe naturaliter ad altro giudice86. Le due questioni non appaiono, però, del tutto estranee l’una all’altra, in quanto anche nella sent. n. 204 la Corte costituzionale era chiamata a verificare la portata di una norma attributiva di giurisdizione che, entro un riparto «ordinario» di competenze – soltanto in tale ultimo caso fissato in Costituzione –, prevedeva poi un’ammissibile deroga (qui ex art. 103, comma 1, Cost.), della quale essa fornisce una interpretazione restrittiva. Ma tornando alle sentenze n. 64 e n. 130 del 2008, in entrambi i casi al nostro esame, ciò che conduce la Corte a dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme portate alla sua attenzione – e cioè, nel primo caso, l’art. 2, comma 2, secondo periodo, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dichiarato illegittimo nella parte in cui stabilisce che «Appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni»; nel secondo caso, il comma 1 del medesimo articolo, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria tutte «le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche lad-

perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice “della” pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.) e, dall’altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo». 81 Cfr. il punto 2.2. «Considerato in diritto» della sentenza 6 luglio 2004, n. 204, citata nel testo. 82 Così BERTI, Interpretazione costituzionale, Padova, 2001, in particolare, 557; sembra il caso di riportare per intero il passo del maestro, 556 ss., in cui ripercorre le tappe del passaggio dall’ordinamento giudiziario precedente a quello costituzionalizzato negli articoli 102 e 103 Cost.: «A stare all’art. 102, si direbbe dunque che la costituzione abbia inteso trasferire la normativa sull’ordinamento giudiziario in un contesto costituzionale, nel quale i «giudici ordinari costituirebbero la giurisdizione per antonomasia, o sarebbero quantomeno decisamente preminenti su ogni altra istituzione alla quale siano stati in passato conferiti compiti di giustizia». E per vero il comma 2 dell’art. 102, a conferma del-

dove esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria» – è l’esorbitanza dalla materia tributaria, in senso proprio, delle competenze in esse attribuite alle Commissioni. Particolarmente chiare, al riguardo, appaiono le argomentazioni svolte nella sent. n. 130, ove la Corte costituzionale, richiamandosi alla precedente sent. n. 64, ribadisce innanzitutto che «Sulla base di tali considerazioni, nella più volte citata sentenza n. 64 del 2008 si è affermato che “l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali – osservando poi come – tale illegittima attribuzione può derivare, “direttamente”, da una espressa disposizione legislativa che ampli la giurisdizione tributaria a materie non tributarie ovvero, “indirettamente”, dall’erronea qualificazione di “tributaria” data dal legislatore (o dall’interprete) ad una particolare materia (come avviene, ad esempio, allorché si riconducano indebitamente alla materia tributaria prestazioni patrimoniali imposte di natura non tributaria)». In questo secondo caso, l’attribuzione che la Corte definisce «indiretta» avverrebbe sulla base di una sorta di errore del legislatore, consistente nell’errata convinzione che una determinata prestazione patrimoniale imposta abbia natura tributaria. La natura tributaria della prestazione è, insomma, un dato sostanzialmente pre-giuridico, che appartiene alla scienza delle finanze87 o al diritto tributario, e che non è disponibile al legislatore. La Corte osserva altresì – ancora nella sent. n. 130 – di avere, in precedenza, già dichiarato manifestamente inammissibili, in relazione all’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, numerose censure di legittimità costituzionale della medesima norma, per non avere il rimettente compiuto il doveroso tentativo di individuare una interpretazione della norma conforme a Costituzione. Nel caso specifico, in relazione, quindi, alle sanzioni di cui all’art. 3, D.L. n. 12/2002 cit., i giudici di palazzo della Consulta hanno, però, ritenuto di poter conoscere della questione, entrando nell’esame del merito della norma denunciata, e pervenendo all’esito di sancire il contrasto dell’art. 2, comma 1, cit. – nell’interpretazione datane dalla Cassazione – con l’art. 102 Cost. Ciò in considerazione dell’esistenza del diritto vivente della Corte di Cassazione88 che ritiene tali sanzioni appartenenti alla giurisdi-

l’unità della giurisdizione intorno ai giudici dell’ordinamento e della magistratura ordinaria, dichiara che non possono istituirsi giudici straordinari o speciali, ma soltanto ed eventualmente “sezioni specializzate” di organi giudiziari ordinari [...]. Di queste giurisdizioni speciali il successivo art. 103 Cost. ha confermato e ricondotto al campo delle figure costituzionalmente rilevanti il consiglio di stato e gli altri organi di giustizia amministrativa (tribunali amministrativi regionali), la Corte dei Conti e i Tribunali militari: questi giudici che non sarebbero più speciali in senso pieno, esisterebbero dunque intorno alla giurisdizione ordinaria, raccogliendo nel loro campo di attività giurisdizionale quelle controversie che, per tradizione, per oggetti o per collegamenti necessari con settori di attività pubblica, non sono mai rientrate nell’area giurisdizionale ordinaria e non possono rientrarvi fino a che persistano le ragioni storiche ed obiettive della loro singolare legittimazione»: in corsivo nel testo. Sembra appena il caso di notare che le considerazioni “extragiuridiche” svolte dal maestro, in riferimento ai giudici amministrativi, contabili e militare, appaiono perfettamente appropriate anche agli organi della giurisdi-

zione tributaria, ma che il dato positivo, ossia la norma di riferimento in Costituzione, è nei due casi diverso. Peraltro, la VI disp. trans. e fin. pur comprendendo espressamente il Consiglio di Stato tra gli «organi speciali di giurisdizione» li esclude(va), come ovvio, dall’obbligo di revisione. 83 Vedi la nota 60; cfr., inoltre, per tutti, MARTINES, Diritto costituzionale, cit., 398. 84 BERTI, Interpretazione costituzionale, cit., in particolare, 557. 85 E che, quindi, ben può definirsi «naturale» solo in quanto «precostituito per legge»: cfr. Corte costituzionale, sent. 13 luglio 1984, n. 217. 86 Vedi le note 57 e 58. 87 Così come avviene, ad esempio, secondo BALBONI, Il dovere che tutela i diritti di tutti, in Etica per le professioni, 3, 2007, in relazione al concetto di «capacità contributiva», in particolare, 17. 88 Desumibile, in particolare, dall’ordinanza delle sez. un. della Corte di Cassazione n. 2888/2006 (citata dai giudici a quo e dalla Corte nella sent. n. 130), nonché dalle sentenze, ancora delle sez. un., n. 3182/2007 e 13902/2007; ma cfr. anche Corte di Cassazione, sent. n. 3154/2008.


28

GiustiziaTributaria

1 2009

zione delle Commissioni tributarie89 (ex art. 2, comma 1, D.Lgs. La nozione di «tributo» – sulla quale non è possibile soffermarsi n. 546/1992 e ss. mod.90), cioè in forza di un criterio meramen- in questa sede – resta, però, ancora aperta. te soggettivo, basato sulla natura finanziaria dell’organo compe4. Brevi conclusioni sulla condivisibilità e sugli effetti tente ad irrogarle (Agenzia delle Entrate)91. delle due pronunce In conclusione, credo possibile affermare che le due sentenze 3.1. Il contrasto con la Corte di Cassazione La questione richiede e merita di essere attentamente analizzata. esaminate siano sostanzialmente condivisibili nel merito, e che Nella sentenza n. 64, la Corte costituzionale assume che, in base entrambe le pronunce appaiano conformi ai precedenti orientaal diritto vivente della Corte di Cassazione, «le controversie atti- menti della Corte costituzionale, in particolare, nell’indicare nelnenti al Cosap non hanno natura tributaria (ex multis, Cassazio- la materia tributaria l’oggetto esclusivo (e il limite) della giurisdine, sezioni unite civili, n. 25551, 13902, 1611 del 2007; n. 14864 zione delle Commissioni e, implicitamente, nella «specialità» del del 2006; n. 1239 del 2005; n. 5462 del 2004; n. 12167 del giudice tributario – ancorché oggi dotato di competenza genera2003)»; natura ancora recentemente riconosciuta invece dalla le in materia di tributi – la ragione di tale limitazione. Corte di Cassazione92 all’imposta di pubblicità. Se la premessa Sulle conseguenze di tale pronuncia sembrano però potervi essedella Corte è, come si è visto, l’esistenza di un «nesso di inscin- re alcuni dubbi. dibilità tra giurisdizione tributaria e materia tributaria»93, e cioè Se risulta certamente ridefinita pro futuro la competenza delle il principio in base al quale «la giurisdizione del giudice tributa- Commissioni tributarie, per le cause oggi pendenti (come per rio “deve ritenersi imprescindibilmente collegata” alla “natura quelle che venissero domani erroneamente incardinate) davanti tributaria del rapporto”»94 – come dalla Corte stessa già affer- ad esse – cioè innanzi a un’autorità giudiziaria sfornita di giurimato nelle ordinanze n. 395/2007 e n. 427, 94, 35, 34 del 2006 sdizione –, sembra che possa invece sussistere qualche incertezza – la declaratoria di incostituzionalità della norma che prevede la in merito all’applicazione della cd. translatio iudicii – ai sensi degli competenza delle Commissioni tributarie in tal caso appare del art. 37 e 50, ovvero 367 e 382 c.p.c. ai procedimenti in corso. L’istituto si potrebbe forse ritenere oggi applicabile al processo tutto conseguente. Nella sentenza n. 130, la Corte costituzionale si è invece dovuta tributario, pur trattandosi certamente – nel riparto dei poteri tra misurare con una interpretazione del giudice di legittimità che, le Commissioni tributarie ed i giudici ordinari – di una questiopur negando la natura tributaria delle vedute sanzioni95 (ex art. ne di giurisdizione e non di competenza97. 3, comma 3 e 5, D.L. n. 12/2002) affermava ciononostante la In tempi relativamente recenti, una notissima pronuncia della competenza delle Commissioni tributarie, in ragione dell’irroga- Corte costituzionale98 ha, infatti, reso applicabile l’istituto della zione delle stesse da parte dell’Agenzia delle Entrate96. Anche in translatio alle cause erroneamente instaurate (nel caso specifico ex tal caso, la conclusione della Corte costituzionale appare sostan- post) innanzi il giudice amministrativo, qualora per effetto di una zialmente scontata: in sintesi, riscontrata la non afferenza delle sentenza della stessa Corte99 risulti mutata, successivamente alla sanzioni per l’impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dal- proposizione del ricorso innanzi tale giudice, la competenza giule scritture obbligatorie alla materia tributaria, la Corte non ha risdizionale. In tale occasione, il giudice delle leggi, premettendo potuto non concludere che l’attribuzione alle Commissioni tri- che la disciplina della «individuazione del giudice competente butarie delle relative competenze giurisdizionali finisse per «sna- [è] volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia costiturare» la materia originariamente attribuita alla cognizione del tuzionale del giudice naturale e, dall’altro, l’idoneità (nella valugiudice tributario e, conseguentemente, violare l’evocato art. tazione del legislatore) a rendere la migliore decisione di merito» ha tratto da ciò argomento per colmare un’evidente lacuna del 102, comma 2, Cost. La Corte ha così tracciato con grande precisione i confini della nostro ordinamento. Essa è, cioè, pervenuta «finalmente [ad] afcd. giurisdizione tributaria, con un’actio finium regundorum utile ad ferma[re] – come ha commentato accorta dottrina – la regola orientare, anche per il futuro, sia il legislatore sia l’interprete, in- della translatio iudicii tra giudice ordinario e giudici speciali»100, in dividuando un criterio che appare ben definito e comprensibile: una storica sentenza101 della cui portata la Corte stessa è parsa in breve, l’ambito della giurisdizione delle Commissioni tributa- ben consapevole102, e in cui essa ha «definitivamente affermato rie, tracciato una tantum dal legislatore costituente (e non rivedibi- il principio della conservazione degli effetti della domanda prole, cioè non disponibile al legislatore ordinario), è fissato nella posta innanzi il giudice sprovvisto di giurisdizione»103. materia «tributaria» in senso proprio, senza che da tale ambito la A ciò si aggiunga che la Corte di Cassazione si era già precegiurisdizione delle Commissioni – oggi, provinciali e regionali – dentemente (ma, come noto, in epoca del tutto coeva) pronunciata nel senso di ritenere sussistenti tutte «le condizioni per popossa esorbitare.

89 E tenuto, altresì, conto che – come si legge nella medesima sent. n. 130 del giudice delle leggi – «La funzione nomofilattica attribuita alla Cassazione comporta che debba essere considerata come diritto vivente l’interpretazione della norma censurata data dalla suprema Corte, “esonerando la Commissione dall’obbligo di ricercare divergenti interpretazioni”» della stessa norma. 90Vedi la nota 12. 91 Annota che «Le sezioni unite della Corte di Cassazione si sono più volte pronunciate in favore della cognizione delle Commissioni sulle controversie cha hanno a oggetto le sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, a prescindere dalla qualificazione tributaria delle stesse», LOVECCHIO, op. cit., 41.

92 Cfr., in particolare, la sent. 31 marzo 2008, n. 8273 (e n. 8279). 93 Punto 2.1.1. del «Considerato in diritto», della sent. n. 64/2008 cit. 94 Ivi. 95 Che viene invece, oggi, correttamente affermata dalla Cassazione per le sanzioni relative a violazioni tributarie: sent. 5 giugno 2008, n. 14827; ma cfr. già le sez. un. del 12 febbraio 1988, n. 1496 che ritenevano rientranti nella «nozione di controversia tributaria [...] anche quella avente per oggetto pene pecuniarie per omesso pagamento di tributi». 96Vedi la nota 88. 97 O almeno di ciò appare convinta la Corte di Cassazione: cfr. MANDRIOLI, op. cit., 208, nota 62.

98Corte costituzionale, sent. 12 marzo 2007, n. 77. 99La n. 204/2004 cit. 100 SANDULLI, I recenti interventi della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione sulla traslatio iudicii, sul sito www.federalismi.it. 101 Anzi, in due storiche sentenze, la prima delle due essendo rappresentata dalla pronuncia delle sez. un., citata alla successiva nota 103: così ROMBOLI, Translatio iudicii tra Corte costituzionale e Corte di Cassazione: due sentenze «storiche» sono meglio di una?, in Quad. Cost., XXVIII, 1, 2008. 102 Cfr. MANGIA, Il lento incedere dell’unità della giurisdizione, cit., in particolare, 736. 103 Ivi.


Leonardo Brunetti 1 2009 29

tere affermare che è stato dato ingresso nell’ordinamento processuale al principio della translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale [ancorché, nel caso specifico, si trattasse del giudice amministrativo], e viceversa»104. Essa ha, infatti, statuito che «sia nel caso del ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., n. 1 […] sia nel caso del regolamento preventivo di giurisdizione proponibile innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al giudice amministrativo, contabile o tributario, deve poter operare la translatio iudicii», precisando, poi, ulteriormente che «la trasmigrabilità della causa dal giudice ordinario al giudice speciale, e viceversa, non richiede necessariamente la pronuncia di queste sezioni unite sulla questione di giurisdizione, ma è resa possibile anche nel caso di sentenza del giudice di merito»105, e perciò anche delle Commissioni tributarie stesse106. Ora, la successiva sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 2007 cit., ha però sostanzialmente disatteso l’opinione del giudice della legittimità, affermando la necessità di un intervento normativo volto ad introdurre l’istituto – pur affermando esistente nell’ordinamento il principio – della translatio tra giudice ordinario e speciale (o viceversa). Il che potrebbe rendere necessario, anche nel caso de quo un’ulteriore intervento della Corte costituzionale (ovvero del legislatore). Ammesso quindi di non ritenere che la translatio iudicii si applichi oggi ope legis al caso in esame, ovverosia che la citata pronuncia della Corte costituzionale trovi applicazione nel caso specifico – il che non è, poiché la pronuncia (sent. n. 77/2007) ha investito

104 Corte di Cassazione, sez. un., sent. 22 febbraio 2007, n. 4109. 105 Ivi. 106 In tal senso, cioè per l’applicazione della

soltanto l’art. 30, legge 9 dicembre 1971, n. 1034 (il quale richiama l’art. 41 c.p.c.) –, potrebbe invece ritenersi valido, pur con qualche difficoltà, l’orientamento del giudice della legittimità (affermato nella sent. n. 4109 cit.107 – e già in precedenza nella sent. n. 88/2001, proprio relativamente alla competenza del giudice tributario – ancorché successivamente smentito dalla Corte costituzionale, la quale, per il caso di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo, ha ritenuto invece di dover intervenire con una sentenza additiva) che ritiene applicabile la translatio iudicii anche ai casi a quibus. Ciò con lo strumento tecnico previsto dal codice di procedura civile, cioè l’atto di riassunzione – ex art. 125 disp. att. e trans. c.p.c. – nei termini previsti dall’art. 50, o eventualmente dall’art. 367 (ossia quello fissato in sentenza, o quello di sei mesi dalla comunicazione della sentenza). In alternativa, non resterebbe che sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, D.Lgs. 546/1992, che estende al processo tributario le norme del codice di procedura non incompatibili col medesimo decreto, nonché dell’art. 3 (Difetto di giurisdizione), il quale richiama l’art. 41 c.p.c. Quanto invece all’applicabilità dell’art. 18 D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, per il solo caso delle sanzioni di cui alla veduta sent. n. 130 (ossia quelle ex art. 3, comma 3, D.L. n. 12/2002, conv. mod. L. n. 73/2002)108, avendo la Corte ritenuto la natura sostanzialmente “previdenziale” e non tributaria delle stesse, la norma appare inapplicabile al caso.

translatio in virtù dell’orientamento della Cassazione, apparentemente FINOCCHIARO, op. cit. 107 Vedi la nota 104.

108 Il quale prevede la giurisdizione del giudice ordinario per le sanzioni tributarie per le quali non siano competenti le Commissioni tributarie: vedi infra, il punto 2.2.


30

GiustiziaTributaria

1 2009

LITISCONSORZIO NECESSARIO E “TRASPARENZE” FISCALI: SOLUZIONI ATTUALI E PROSPETTIVE FUTURE di Federico Rasi 1. Effetti processuali della trasparenza fiscale: la questione all’attenzione delle sezioni unite della Corte di Cassazione - 2. I rimedi processuali alla pluralità di determinazioni del medesimo componente reddituale: il litisconsorzio necessario tra teorie negatrici, teorie favorevoli e la lettura “costituzionale” offerta dalla Cassazione - 3. Applicazione del principio di diritto affermato dalle sezioni unite all’ipotesi della trasparenza fiscale delle società di capitali - 4. Considerazioni conclusive 1. Effetti processuali della trasparenza fiscale: la questione all’attenzione delle sezioni unite della Corte di Cassazione La sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite del 4 giugno 2008, n. 14815 in tema di litisconsorzio necessario offre l’occasione per svolgere alcune riflessioni in ordine al più generale problema del rapporto tra “trasparenze” fiscali e litisconsorzio necessario. Il ricorso allo schema impositivo dell’automatica imputazione dei redditi prodotti da una società al socio che vi fa parte comporta, dal punto di vista procedimentale, che il medesimo componente reddituale (ovvero il reddito societario) risulti elemento comune ad una pluralità di soggetti. All’amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 40, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è consentito utilizzare l’accertamento di tale elemento sia ai fini dell’Irap (o in passato dell’Ilor) dovuta dalla società, sia ai fini dell’Irpef dovuta dai singoli soci. Essa, tuttavia, per pretendere le maggiori imposte dai soci, deve notificare a ciascuno di loro un ulteriore avviso di accertamento individuale. Il medesimo componente reddituale (il reddito societario determinato in capo alla società) diventa, così, l’elemento fondante una pluralità di avvisi di accertamento. Tale meccanismo opera sia per le società di persone, cui la trasparenza si applica per legge, sia per le società di capitali che, ricorrendone i presupposti, hanno esercitato l’opzione per l’applicazione di tale metodo. In entrambe le ipotesi, nella fase processuale, questa situazione si traduce nella possibilità di instaurare diversi processi: a) uno tra la società e l’amministrazione finanziaria avente ad oggetto il reddito prodotto dalla società e imputato per trasparenza ai soci; b) più d’uno tra ciascuno dei soci singolarmente e l’amministrazione finanziaria in cui può essere contestata non solo la qualità di socio (ivi compresa la misura di partecipazione alla società) e/o l’inclusione del reddito determinato nei confronti della so-

1 Il mancato riconoscimento ai soci del diritto di contestare il reddito societario in sede di impugnazione o dell’avviso di accertamento della società o degli avvisi singolari si tradurrebbe in una manifesta violazione del diritto costituzionale alla difesa di cui all’art. 24 Cost. In giurisprudenza cfr. Consiglio di Stato, parere 17 gennaio 1984, n. 68. 2 BASILAVECCHIA, Effetti sui soci dell’accertamento con adesione della società di persone (nota a Cassazione, sez. trib., sent. 1 aprile 2005, n. 14418), in Corr. Trib., 2005, 3177. 3 Cass., sent. 11 ottobre 2002, n. 14498; Cass.,

cietà nel reddito complessivo del socio, ma anche la determinazione stessa del reddito societario (qualora il socio non abbia partecipato al procedimento sub a)1. Risulta, così, possibile che il medesimo componente reddituale sia diversamente determinato per la società e per i soci a seconda dei comportamenti processuali delle parti e delle convinzioni dei giudici2. Per ovviare a questa situazione, era stata ora ammessa, ora negata, l’applicazione dell’istituto del litisconsorzio necessario3. Nella sentenza da cui si prendono le mosse, la Cassazione ritiene che le controversie aventi ad oggetto la determinazione del reddito prodotto dalle società di persone debbano svolgersi nel litisconsorzio della società e dei soci. Occorre ora approfondire se, ed entro quali limiti, tale conclusione valga anche per il caso della trasparenza delle società di capitali. Preliminarmente a tali analisi, si dovranno però analizzare le condizioni alle quali l’ordinamento nazionale consente il ricorso al litisconsorzio per comprendere le ragioni e le criticità del più recente orientamento giurisprudenziale favorevole all’applicazione di tale istituto. 2. I rimedi processuali alla pluralità di determinazioni del medesimo componente reddituale: il litisconsorzio necessario tra teorie negatrici, teorie favorevoli e la lettura “costituzionale” offerta dalla Cassazione Il litisconsorzio trova la propria generale definizione all’art. 102 c.p.c. che impone la partecipazione di più soggetti ad un processo allorquando deve essere resa una decisione necessariamente unitaria. Come chiarito dalla dottrina processualcivilistica4, pur non individuando l’art. 102 c.p.c. i presupposti dell’istituto ma i suoi effetti, in via interpretativa5 si ricava che esso trova il proprio fondamento nel combinarsi di una “situazione di diritto sostanziale” con una “situazione di diritto processuale”. Dal punto di vista sostanziale, la situazione dedotta avanti al giudice si articola in una pluralità di situazioni tra loro inscindibili con l’effetto che, dal punto di vista processuale, qualora la pronuncia non sia resa nei confronti di tutti, la stessa è inutiliter data. 2.1. Le teorie negatrici Dal punto di vista tributario, con specifico riferimento all’accertamento del reddito delle società di persone, le teorie contrarie6 all’applicabilità di tale istituto giungono a questa conclusione analizzando sia il profilo sostanziale, sia quello processuale. Dal punto di vista sostanziale osservano7 che non sussiste unicità del rapporto in quanto dalla comunanza del rapporto privatisti-

sent. 18 ottobre 2003, n. 4271; Consiglio di Stato, parere 17 gennaio 1984, n. 68. Per una approfondita analisi di tale giurisprudenza cfr. FRASCA, Intorno al litisconsorzio necessario nel processo tributario (riflessioni a margine della sentenza delle sezioni unite n. 1052/2007 con riguardo alle controversie sulla imputazione al socio di società di persone), nota a Cass., sez. un., n. 1052/2007, in Riv. Dir. Trib., 2008, 95. 4 LUISO, Diritto processuale civile. Principi generali, Milano, 2007, 287 e in particolare 289. 5 Cfr. LUISO, Diritto processuale civile. Principi

generali, cit., 288. 6 BAFILE, Alcune osservazioni sulla pluralità soggettiva e sulla società di persone, in Riv. Dir. Trib., 1993, 340; TESAURO, L’accertamento «unitario» dei redditi delle società di persone, in Boll. Trib., 1979, 437; BELLÈ, Il processo tributario con pluralità di parti, Torino, 2002, 113. 7 COMASCHI, Dal litisconsorzio necessario al perseguimento della giusta imposizione: una pronuncia a sorpresa delle sezioni unite, in Dir. e Prat. Trib., 2007, 564, nota 11; BELLÈ, Il processo tributario con pluralità di parti, cit. 113.


Federico Rasi 1 2009 31

co di riferimento (il contratto necessariamente plurisoggettivo di società) non deriva altresì identità dell’obbligazione tributaria. Il reddito prodotto dalla società concorre, infatti, alla determinazione del reddito complessivo del socio, la misurazione del quale dipende da circostanze esclusivamente imputabili a quest’ultimo8. Ne deriva, pertanto, che le posizioni della società e dei soci sono perfettamente scindibili l’una dalle altre9. Il medesimo componente reddituale fonda obbligazioni tributarie differenti perché determinate sulla base di elementi (ad esempio deduzioni o detrazioni) differenti tra la società e i soci10. Sul piano processuale, tale situazione si traduce nella diversità di oggetto dell’eventuale processo (il reddito della società rilevante a fini Irap o in passato a fini Ilor da un lato, il reddito complessivo del socio rilevante a fini Irpef dall’altro), circostanza ostativa all’operatività di un processo litisconsortile che presuppone, invece, vi sia tra i litisconsorti identità della situazione processuale da decidere11. In definitiva, le teorie negatrici insistono sulla diversità tra ruolo della società e ruolo dei soci. Se è vero che l’obbligazione del socio è dipendente da un componente reddituale accertato nei confronti della società (nel senso che l’amministrazione finanziaria è vincolata a ribaltare sui soci quanto accertato nei confronti della società), è altresì vero che l’obbligazione tributaria del socio deve essere valutata nella sua interezza e deve, quindi, tenersi conto di circostanze del tutto estranee alla società12. Tali considerazioni escluderebbero la necessità di celebrare il processo alla contemporanea presenza sia dei soci sia della società13.

8 ALBERTINI, Il processo con pluralità di parti, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario. Il processo tributario, diretta da Tesauro, Torino, 1998, 275. 9 Così TESAURO, L’accertamento «unitario» dei redditi delle società di persone, cit., 439. 10 Argomenti a favore della pluralità di risultati cui si può pervenire nell’ambito dell’accertamento del reddito dei soci delle società di persone, vengono rivenuti nella disciplina dell’accertamento con adesione. CARINCI, L’accertamento nel regime di trasparenza delle società: responsabilità, garanzie e tutele per la società e per i soci, in Rass. Trib., 2006, 185, osserva che la possibilità di una determinazione del reddito societario differente e autonoma per i diversi soggetti costituisce un’eventualità già contemplata e consentita nell’ambito dell’ordinamento nazionale in caso di accertamento con adesione. L’art. 4, comma 2, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, pur disponendo che l’accertamento con adesione del reddito delle società di persone vada definito con un unico atto e in contraddittorio con la società e i soci così da garantire una chiusura unica e contestuale delle posizioni di tutti i soggetti coinvolti, consente, tuttavia, che all’accertamento aderiscano solo taluni dei soggetti interessati. Si tratterebbe di un riconoscimento espresso della non configurabilità nel caso di specie di un litisconsorzio necessario tra società e soci. Oltre a CARINCI, anche FRANSONI, Giudicato tributario e attività dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2001, 345 ss., ritiene che con il D.Lgs. n. 218 del 1997 sia entrato in crisi l’assunto della necessaria corrispondenza tra reddito dichiarato dalla società e quota del reddito imputata al socio. È di opinione contraria BELLÈ, Il processo tributario con pluralità di parti, cit., 114 ss., nota 58, secondo la quale il legislatore ha

2.2. Le teorie favorevoli Le teorie favorevoli14, al contrario, valorizzano i profili sostanziali e, in particolare, l’identità dell’elemento reddituale su cui si fonda l’accertamento emesso nei confronti della società e quello emesso nei confronti dei soci. Dal momento che il reddito societario è il diretto e immediato presupposto delle obbligazioni dei soci, allora sue eventuali rettifiche non possono che valere sia nei confronti della società, sia nei confronti dei soci. Dette rettifiche possono avvenire sia nella fase di accertamento, sia nella fase contenziosa15. Per la prima, operano gli artt. 6 e 40, D.P.R. 29 n. 600 del 1973 che, come osservato in precedenza, prevedono debba procedersi unitariamente all’accertamento del reddito societario e all’accertamento del reddito complessivo dei soci. Per la seconda, nonostante manchi una norma esplicita, risulta evidente l’opportunità di procedere unitariamente. Dal momento che già nella fase dell’accertamento il legislatore ha dimostrato di ritenere che la pluralità di atti impositivi da emettere non costituisce ostacolo alla trattazione unitaria della vicenda, la stessa esigenza si trasferisce sul piano processuale dove, pure, deve essere assicurata ai soci piena tutela giurisdizionale rispetto all’accertamento del comune elemento reddituale16. Non costituisce ostacolo a tale conclusione la formulazione letterale dell’art. 14, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 che restringe il campo di applicazione del litisconsorzio rispetto all’art. 102 c.p.c. Secondo tali teorie17, tra le due disposizioni, nonostante alcune differenze meramente terminologiche, esiste una sostanzia-

voluto conservare l’unitarietà dell’accertamento dal momento che, dal punto di vista procedurale, ha ribadito la necessità di procedere, anche in sede di accertamento con adesione, nei confronti della società e dei soci con un unico atto e in loro contraddittorio e, dal punto di vista sostanziale, ha stabilito che nei confronti dei soggetti che non aderiscono alla definizione gli uffici competenti debbano, comunque, procedere sulla base della reddito cui gli altri hanno aderito. Secondo l’autore, la circostanza che si consideri perfezionato l’accertamento tramite l’adesione solo di alcuni soci si giustifica con la scelta di voler evitare di limitare il campo di applicazione di tale istituto. Prosegue ancora BELLÈ, Il processo tributario con pluralità di parti, cit., 116, ritenendo che la disciplina in tema di accertamento con adesione ribadisce il canone dell’unitarietà dell’azione accertatrice, canone che non risulta, invece, ripetuto nella fase processuale. Conduce a questa conclusione di nuovo l’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 218 del 1997 nella parte in cui salvaguarda la possibilità per i soci di non aderire all’accertamento con adesione e, logicamente, consente loro di impugnare il successivo accertamento. Viene così sottointeso che l’accertamento può essere diversamente definito. BELLÈ concorda, pertanto con quella parte della dottrina che esclude doversi ricorre all’istituto del litisconsorzio necessario. 11 Dalla diversità dell’oggetto del contendere deriva un’ulteriore circostanza: il difetto di legittimazione processuale del socio ad impugnare l’accertamento della società (ed altresì la carenza di legittimazione della società ad impugnare l’accertamento ai fini dell’imposta dovuta dal socio). In questo senso BAFILE, Alcune osservazioni sulla pluralità soggettiva e sulla società di persone,

12

13

14

15 16

17

cit., 344; TESAURO, L’accertamento «unitario» dei redditi delle società di persone, cit., 438. Ne riferisce DELLA VALLE, L’intervento ed il litisconsorzio, in Il processo tributario, a cura di Della Valle-Ficari-Marini, Padova, 2008, 308. Può al massimo configurarsi un’ipotesi di litisconsorzio facoltativo per ALBERTINI, Il processo con pluralità di parti, cit., 275. Ritengono vada riconosciuto il litisconsorzio necessario: RUSSO, Processo tributario, in Enc. Dir., XXXVI, Milano, 1987, 765; ID., Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 68; CASTALDI, Art. 14 (Litisconsorzio e intervento), in Il nuovo processo tributario. Commentario, di BAGLIONEMENCHINI-MICCINESI e altri, Milano, 2004, 133; MACCAGNANI, Art. 14 (Litisconsorzio ed intervento). Commento, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, di CONSOLOGLENDI, Padova, 2005, 125; TREMONTI, Ancora sull’accertamento “unitario” dei redditi delle società di persone, in Dir. e Prat. Trib., 1979, 883. Così RUSSO, Processo tributario, cit., 765. Russo, Redditi delle società di persone: problemi in tema di accertamento e sanzioni, in Rivista della Guardia di Finanza, 1981, 172 secondo cui gestire la procedura di accertamento del reddito dei soci e della società separatamente gli uni dall’altra «sarebbe, insomma, come se il legislatore avesse statuito, né più né meno, che l’accertamento dei redditi delle società di persone vada effettuato non giù unitariamente nei confronti di esse, bensì direttamente ed esclusivamente nei confronti dei singoli soci: che è appunto l’opposto di quel che si legge nelle norme vigenti». RUSSO, Manuale di diritto tributario. Processo tributario, cit., 69.


32

GiustiziaTributaria

1 2009

le analogia in quanto entrambe analizzano il medesimo fenomeno. La norma processualcivilistica guarda al litisconsorzio dal lato degli effetti, mentre la norma processualtributaria fa perno sull’oggetto del ricorso. Alla luce di entrambe le disposizioni è, comunque, necessaria la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti allorquando una situazione giuridica sostanziale dedotta in un processo è inscindibile perché fondato sullo stesso oggetto. Che le posizioni di una società di persone e dei relativi soci siano tra loro inscindibili deriva dagli schemi sostanziali (art. 5 T.U.I.R.) e procedimentali (artt. 6 e 40, D.P.R. n. 600 del 1973) scelti dal legislatore. In sede processuale non può, pertanto, non conservarsi l’unitarietà che connota il fenomeno. 2.3. La “terza” via delle sezioni unite della Corte di Cassazione Le sezioni unite della Corte di Cassazione giungono al riconoscimento dell’esistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario nel caso di trasparenza delle società di persone non aderendo completamente ad alcuna delle teorie appena illustrate, ma ricorrendo ad una “terza” via fondata su un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 14, D.Lgs. n. 546 del 1992. Nel solco di quanto già affermato in occasione della sentenza 18 gennaio 2007, n. 1052, viene sostenuta la diversità dell’art. 14 menzionato rispetto all’art. 102 c.p.c.. Per la Cassazione, il litisconsorzio nel processo tributario si configura come fattispecie autonoma rispetto a quella del processo civile dal momento che l’art. 14, D.Lgs. n. 546 del 1992, non costituisce «una norma in bianco [tale è, invece, l’art. 102 c.p.c.], ma positivamente indica i presupposti nella inscindibilità della causa determinata dall’oggetto del ricorso». Il problema viene così spostato sull’individuazione dell’oggetto del processo tributario per il quale, nel contesto di un processo impugnatorio18, deve intendersi «la fattispecie costitutiva dell’obbligazione risultante dai contenuti dell’atto autoritativo impugnato». Ne deriva allora la necessità di guardare alla situazione sostanziale dedotta nel processo: sussiste un’ipotesi di litisconsorzio necessario in tutti i casi in cui la fattispecie costitutiva dell’obbligazione presenta elementi comuni ad una pluralità di sog-

18 La Cassazione, nella sentenza in esame, mantiene ferma tale qualificazione. Si ricorda solo brevemente la tradizionale distinzione secondo cui mediante il ricorso non si introduce un giudizio di impugnazione-annullamento, cioè un processo diretto all’eliminazione giuridica dell’atto dell’amministrazione finanziaria, eccependone i vizi di legittimità, bensì si instaura un processo annoverabile tra quelli che vengono definiti di impugnazione-merito in quanto caratterizzati da un profilo formale impugnatorio attinente all’introduzione del giudizio e alla previsione di termini di decadenza, e da un profilo sostanziale concernente l’oggetto e le situazioni giuridiche soggettive dedotte nel processo. In questo contesto, l’atto di accertamento costituisce il “veicolo” per accedere alla giustizia tributaria in quanto il ricorso, pur formalmente indirizzato contro tale atto, è in realtà diretto a consentire l’accertamento del regime giuridico del rapporto d’imposta enunciato da tale atto. In giurisprudenza, oltre alla sentenza n. 1052 del 2007, cfr. Cass., sent. 10 agosto 2005, n. 16776; Cass., sent. 24 luglio 2007, n. 16293. In dottrina FANTOZZI, Il Diritto tributario, Torino, 2003, 707; GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1994, 237; RUSSO, Processo tributario, cit., 770; TESAURO, Processo tri-

getti e l’impugnazione proposta da uno o più degli obbligati investe direttamente tali elementi. In queste ipotesi, una sua determinazione diversificata è inaccettabile alla luce dei principi di cui agli artt. 3 e 53 Cost. intesi a realizzare «una giusta imposizione», sicché il ricorso al litisconsorzio diviene necessitato. Così la Cassazione sposta l’attenzione dall’analisi dei profili processuali della vicenda (e, quindi, dalla possibilità o meno di una sentenza di esplicare effetti nei confronti di tutti i soggetti coinvolti) all’analisi dei profili sostanziali e, specificatamente, al modo di atteggiarsi dell’obbligazione tributaria. Sulle base del ragionamento della Cassazione consegue che l’individuazione dei casi di litisconsorzio deve passare attraverso l’analisi della situazione sostanziale oggetto di concreta impugnazione da parte del contribuente. Si impone il ricorso al litisconsorzio quando la questione «a) presenti elementi comuni ad una pluralità di soggetti e b) siano proprio tali elementi ad essere posti a fondamento dell’impugnazione proposta da uno dei soggetti obbligati», in altri termini, quando «normativamente unica sia la fattispecie costitutiva dell’obbligazione». La trasparenza delle società di persone soddisfa i requisiti menzionati e, quindi, consente la soluzione positiva circa l’applicazione del litisconsorzio. Con l’espressione “principio di trasparenza” si indica, infatti, quel particolare metodo di imposizione dei soggetti collettivi mediante il quale il reddito societario viene direttamente riferito agli individui che compongono l’ente e non all’organizzazione stessa19. Il ricorso a tale modello è consentito allorquando il soggetto che produce un reddito non è in grado di “trattenerlo”. Con questa espressione si descrive la situazione che si realizza per legge nelle società di persone le quali sono incapaci di imprimere un’autonoma destinazione al reddito da loro prodotto. Conduce a questa conclusione il particolare assetto normativo delineato per questa figura associativa dal codice civile. Le norme codicisitiche in tema di ripartizione degli utili20, quelle concernenti la titolarità del potere di amministrazione, i regimi di responsabilità per le obbligazioni sociali21 consentono di imputare ai soci l’attività e i relativi risultati reddituali, pur nell’assenza della materiale disponibilità di tali risultati. Queste con-

butario, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., XI, Torino, 1995, 337; BASILAVECCHIA, L’accertamento unitario trova un assetto stabile (nota a Cass., sez. un., 4 giugno 2008, n. 14815), in Corr. Trib., 2008, 2274. Analizza gli sviluppi delle giurisprudenza della Cassazione e i significati attribuiti all’espressione impugnazione-merito: TESAURO, Profili del giudicato tributario, cit., 874, secondo cui la formula impugnazione-merito non è «linguisticamente appropriata» perché gli atti impositivi non racchiudono alcun profilo di merito nel senso amministrativistico del termine. 19 Così BORIA, Il principio di trasparenza nell’imposizione delle società di persone, Milano, 1996, 15; FILIPPI, Redditi prodotti in forma associata, in Enc. Giur., V, Roma, 1988, 1; GAFFURI, I redditi prodotti in forma associata, in Il reddito di impresa nel nuovo Testo Unico, coordinato da UCKMAR e MARONGIU, Padova, 1988, 194. 20 Proprio l’art. 2262 c.c. dimostra la loro incapacità di trattenere il reddito. Per effetto di tale disposizione, ciascun socio vanta il diritto all’integrale apprensione degli utili una volta che questi siano stati accertati in sede di rendiconto annuale. Si configura così a favore dei soci una posizione giuridicamente tutelata (BORIA, Il principio di trasparenza nell’imposizione delle società di persone,

cit., 190) per effetto della quale, nonostante non si realizzi l’automatico trasferimento a favore dei soci di un diritto reale sulla parte del patrimonio societario corrispondente alla quota di utili da distribuire, viene, comunque, riconosciuto loro un diritto di credito su tali utili. Il risultato dell’attività svolta dalla società risulta così, in maniera pressoché immediata, riferibile ai soci. 21 Ulteriore elemento che corrobora l’immedesimazione tra soci e società e, quindi, la ragionevolezza del ricorso al meccanismo di tassazione per trasparenza, è la circostanza che a tutti i soci sia attribuito il potere di amministrazione. Fa eccezione a questa regola la categoria dei soci accomandanti, di cui all’art. 2320 c.c., nelle società in accomandita semplice ai quali è fatto divieto di amministrare la società. Questa disposizione si correla alla limitazione di responsabilità di cui essi godono. Nel sistema delle società di persone, non può farsi a meno di osservare come il modello della società in accomandita semplice si discosti dalle regole generali e attenui l’immedesimazione tra soci e società che altrimenti connota il modello associativo delle società personali. Resta fermo, però, il regime di ripartizione degli utili che li vede attribuiti anche ai soci accomandanti, indipendentemente dall’assunzione di una


Federico Rasi 1 2009 33

dizioni delineano l’esistenza di un legame significativo tra una società di persone e i soci che la dottrina22 definisce di “immedesimazione” tra società e soci. La trasparenza delle società di persone si giustifica così non sulla base della mancanza di personalità giuridica delle società a base personale23, ma sulla base dalla incapacità di “trattenere”, nel senso appena chiarito, il reddito. Pur riconoscendosi che «l’ “imputazione” è cosa diversa dal “possesso” del reddito, quindi la relativa disciplina si presenta come eccezionale rispetto ai principi generali in materia di riferibilità ai soggetti dei fatti indice di capacità contributiva»24, la struttura stessa delle società di persone diviene una valida giustificazione, anche costituzionale, per l’applicazione dello schema della trasparenza. Sul piano processuale ne deriva che le posizioni della società e dei soci non sono scindibili l’una dalle altre e ne deriva, quindi, la necessità di accertare il reddito societario nel litisconsorzio della società e dei soci. In particolare, il ricorso proposto avverso l’avviso di rettifica della dichiarazione dei redditi della società o avverso l’avviso di rettifica del socio in conseguenza della rettifica del reddito societario determina un’ipotesi di litisconsorzio necessario originario tra la società e i soci «purché il ricorso venga proposto per contestare il reddito della società o le modalità

formale delibera di distribuzione. Tale elemento pare essere stato sufficiente al legislatore tributario per applicare anche a questa tipologia di società il meccanismo di tassazione per trasparenza. È l’art. 2262 c.c. che risulta la principale norma tenuta in considerazione in materia tributaria. 22 SCHIAVOLIN, I soggetti passivi – Redditi prodotti in forma associata, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario. L’imposta sul reddito delle persone fisiche, diretta da TESAURO, I, Torino, 1994, 125. 23 Esse sarebbero, infatti, dotate di quel minimo di capacità giuridica che consente di riferire loro i redditi. Cfr. FEDELE, Profilo fiscale delle società di persone, in Rivista del Notariato, 1988, 552. 24 FEDELE, Profilo fiscale delle società di persone, cit. 553; SCHIAVOLIN, I soggetti passivi. Redditi prodotti in forma associata, cit., 135. 25 La sussistenza del litisconsorzio potrebbe, così, affermarsi anche in altre fattispecie. Si ipotizzano, ad esempio, i casi in cui il medesimo componente reddituale non rileva per più soggetti (ma per uno soltanto) e più soggetti sono coinvolti dal lato attivo. Così nelle controversie avverso l’atto di applicazione dell’Ici emanato dal Comune e l’atto di classamento catastale emanato dall’Ute. Per la Cassazione (Cass., sent. 2 settembre 2004, n. 17698; Cass., sent. 10 settembre 2004, n. 18271), il fatto che «il provvedimento di attribuzione della rendita catastale ad un immobile, che, a norma dell’art. 23, R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652 (come sostituito dal D.L. 8 aprile 1948, n. 514) costituisce la base per la determinazione, nei modi che saranno stabiliti per legge, del reddito imponibile soggetto alle imposte ed alle sovrimposte» (cfr.: per l’imposta di registro, l’art. 52, comma 4, D.P.R. n. 131/1986; per l’Invim, l’art. 19, D.P.R. n. 643/1972; per l’imposizione dei redditi, l’art. 22, D.P.R. n. 917/1986; per l’Ici, l’art. 5, D.Lgs. n. 504/1992), non è sufficiente per determinare un caso di litisconsorzio necessario tra il contribuente, il Comune e l’Ute. Anche in questa ipotesi, ove ci si sposta dal

del suo accertamento». Diversamente, ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario solamente tra i soci «quando il ricorso introduttivo abbia ad oggetto la mera ripartizione del reddito» o «il socio contesti la propria qualità». Da quanto affermato dalla Cassazione consegue, come già adombrato nella sentenza n. 1052 del 2007, che, in materia tributaria, il ricorso al litisconsorzio non deve essere limitato alle sole situazioni di contitolarità strictu sensu dell’obbligazione tributaria, ma deve essere esteso a tutte le situazioni in cui il medesimo componente reddituale è posto a carico di più soggetti di modo che la sua determinazione deve risultare per loro identica per non violare il principio di uguaglianza. In altri termini, vi si deve ricorrere in ipotesi in cui, usando l’espressione della Corte, è «normativamente unica» la fattispecie costitutiva dell’obbligazione tributaria25. La Cassazione, allora, una volta affermata la sussistenza di un caso di litisconsorzio necessario, passa ad illustrarne le conseguenze sul piano processuale. È in questa fase che, anche volendo condividere il ragionamento sino ad ora svolto dai giudici di legittimità, la sentenza n. 14815 del 2008 mostra le sue criticità. Essa, infatti, “rompe” con l’assetto del processo tributario come sino ad ora ricostruito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione26 al qua-

lato attivo dell’obbligazione tributaria, vi è una “normativa” unitarietà dell’obbligazione tributaria e pare evidente che il rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e capacità contributiva non possa tollerare differenti determinazioni del valore del bene. Lo svolgimento del processo nel litisconsorzio di tali soggetti tutelerebbe queste esigenze. Ad analoghe conclusioni si potrebbe giungere nelle controversie aventi ad oggetto i rapporti nascenti dalla sostituzione di imposta ove, secondo la ricostruzione prevalente si distingue tra a) controversie nascenti dal rapporto di sostituzione tributaria e aventi ad oggetto la regolazione del rapporto creditorio interno tra sostituto e sostituito in cui, per la Cassazione (Cass., ord. 19 febbraio 2004, n. 3343; Cass., sent. 20 febbraio 2005, n. 21733), vige la giurisdizione del giudice tributario e la questione va definita in litisconsorzio necessario anche dell’amministrazione finanziaria, e b) controversie che coinvolgono, da una parte, il sostituto o il sostituito e, dall’altra, l’amministrazione finanziaria. La questione dell’applicabilità del litisconsorzio a tali ipotesi è risolta sia in senso positivo (Cass., sent. 9 novembre 2005, n. 21733; Cass., sent. 23 novembre 1999, n. 12991), sia in senso negativo (Cass., sent, 27 settembre 2000, n. 12814; Cass., sent. 4 febbraio 2003, n. 1652) dalla Cassazione. La nuova giurisprudenza della Cassazione potrebbe far preferire la tesi favorevole in tutti i casi in cui le controversie possano incidere sull’obbligazione tributaria del sostituito. Cfr. MICELI, Le controversie fra il sostituto e il sostituito d’imposta, in Il processo tributario, a cura di Della Valle-Ficari-Marini, Padova, 2008, 78; CARDELLA, Il litisconsorzio nelle controversie tra sostituito e sostituito, in Il processo tributario, a cura di Della Valle-Ficari-Marini, Padova, 2008, 316. 26 La Cassazione giunge a conclusioni non prive di profili di criticità anche quanto procede all’analisi di alcuni aspetti operativi, in particolare, ad individuare il giudice competente a decidere la controversia. Sulla base delle re-

gole della competenza, potrebbe risultare che i ricorsi proposti avverso l’avviso di rettifica rivolto alla società e quelli proposti avverso gli avvisi rivolti ai soci, pendano avanti la stessa Commissione tributaria; in tal caso, in forza dell’art. 29, D.Lgs. n. 546 del 1992, dovrà essere disposta la riunione dei procedimenti avanti una delle sezioni della Commissione tributaria adita. Se tale ipotesi non desta particolari perplessità, alcune ne sorgono nel caso in cui i ricorsi pendano avanti diverse Commissioni tributarie. Potrebbe, infatti, accadere che il domicilio fiscale della società e dei soci differiscano tra loro e conseguentemente risultino differenti gli uffici competenti all’accertamento e le Commissioni tributarie competenti per il ricorso. Il giudice unico avanti al quale procedere, per la Cassazione, va individuato nella Commissione tributaria preventivamente adita. Secondo la Corte sono, infatti, applicabili, in via interpretativa, i principi sul riparto della giurisdizione previsti dal codice di procedura civile. Ai sensi degli artt. 39 e 40 c.p.c., nel caso di giudizi pendenti avanti a giudici ugualmente competenti, opera il criterio della prevenzione. Il giudice così individuato risulterà investito dell’intera vicenda, dovrà giudicare non solo delle contestazioni concernenti il reddito societario, ma anche delle contestazioni avanzate dai singoli soci ed aventi oggetto la trasposizione dello stesso nel reddito singolare dei soci. Ne deriva così un’implicita deroga delle ordinarie regole in tema di competenza: la società e ciascun socio potranno essere obbligati a procedere avanti ad un giudice differente da quello individuato sulla base del loro domicilio fiscale. La soluzione offerta dalla Cassazione è imposta dalle regole vigenti in tema di competenza; ciò nondimeno suggerisce alcune osservazioni. Le regole di competenza attuano i principi di cui agli artt. 24 Cost., concernente il diritto di difesa, e 25 Cost., secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Le regole di competenza vengono, così, ad avere non solo una portata organizzatoria, ma anche ga-


34

GiustiziaTributaria

1 2009

le erano ritenute non appartenere le azioni di accertamento negativo ovvero quelle azioni intese ad ottenere in via anticipata la declaratoria di insussistenza della pretesa erariale27. Le stesse sezioni unite della Cassazione, anche recentemente, nella sentenza 20 novembre 2007, n. 24011, avevano ribadito che il contenzioso tributario si fonda su un atto impositivo notificato al contribuente, di modo che, nell’assenza di una specifica e concretamente esigibile pretesa erariale che giustifichi l’interesse ad agire del contribuente, il ricorso è improponibile28. Questa conclusione viene ora messa in discussione dall’affermazione secondo cui la mancata integrazione del contraddittorio nei casi di litisconsorzio necessario determina nullità, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, dell’intera pronuncia per violazione dell’art. 101 c.p.c. sicché, per prevenire tale situazione, se «uno o più parti non abbiano ricevuto la notifica dell’avviso di accertamento, o avendola ricevuto non l’abbiano impugnato, il giudice adito per primo deve disporre l’integrazione del contraddittorio, mediante la loro chiamata in causa entro un termine stabilito a pena di decadenza». L’ordine di integrazione del contraddittorio deve, pertanto essere rivolto anche a coloro (soci o società) che, al momento della presentazione del primo ricorso, non risultano destinatari di alcun atto impositivo o non destinatari di quello impugnato. Ora si consente, anzi si impone, la partecipazione ad un processo a taluni soggetti al solo fine di veder dichiarata anche nei loro confronti l’illegittimità della rideterminazione di un componente reddituale, pur nell’assenza di una concreta pretesa rivolta loro. La Cassazione dimostra, così, di prescindere completamente dagli aspetti formali del “processo tributario”, che considerano parti dello stesso solo coloro che sono diretti ed immediati destinatari dell’atto impugnato, per accentuare ulteriormente l’analisi degli aspetti sostanziali del “rapporto tributario”. L’oggetto del processo tributario, in questa prospettiva, non è tanto la relazione che intercorre tra il contribuente e l’ente impositore in relazione ad una fattispecie

rantista. Come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza 6 luglio 1994, n. 280, in generale nella disciplina processuale e, in particolare nella disciplina processualpenalistica, la ripartizione della competenza è ispirata dall’esigenza di agevolare la raccolta delle prove e, per tale via, la tutela del diritto di difesa. Ne deriva che una maggiore gravosità nelle modalità di esercizio di questo diritto è giustificabile solo se sorretta da motivi di salvaguardia di altri interessi ugualmente meritevoli di considerazione (LUISO, Diritto processuale civile. Principi generali, cit., 85; GIONFRIDA, Competenza civile, in Enc. Dir., VIII, Milano, 1961, 40; MANDRIOLI, Diritto processuale civile. Nozioni introduttive e principi generali, Torino, 2005, 239; MELILLO, Competenza (proc. pen.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da Cassese, II, Milano, 2006, 1081). La soluzione della Cassazione di svolgere il processo avanti il giudice previamente adito potrebbe rendere più gravoso l’esercizio del diritto di difesa della società e dei soci e potrebbe rendere meno spedito il ricorso ai poteri istruttori riconosciuti ai giudici tributari. Si ricorda che ai sensi dell’art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 546 del 1992, è riconosciuto alle Commissioni tributarie il potere di esercitare le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari dalle leggi di imposta. Per quanto qui di interesse, si tratterà dei poteri riconosciuti agli

tributaria oggetto di accertamento, bensì la relazione che intercorre, in merito all’accertamento di un fatto indice di capacità contributiva, tra l’ente impositore e tutti coloro cui tale fatto indice pertiene in quanto possibili destinatari di una pretesa impositiva relativa a tale fatto29. Ritenere, pertanto, come ha fatto la Cassazione nella sentenza n. 24011 del 2007 che «la tutela del contribuente si attui mediante la proposizione di ricorsi avverso specifici atti di accertamento o di imposizione dell’amministrazione finanziaria» diviene valido se lo si interpreta nel senso che «è offerta tutela mediante la proposizione di ricorsi avverso specifici atti di accertamento o di imposizione dell’amministrazione finanziaria a tutti coloro cui la fattispecie ivi accertata è normativamente comune e che, pertanto, possono essere destinatari di un atto di accertamento». Possono così esperire il ricorso non solo coloro che sono stati raggiunti da un atto impositivo, ma anche coloro che lo possono essere in quanto un altro atto accerta un elemento loro comune. Il divieto dell’esperimento di azioni di accertamento negativo ne risulta fortemente ridimensionato. Le conclusioni della sentenza n. 14815 del 2008 presentano profili di criticità anche nella parte in cui impongono il litisconsorzio a quelli che non hanno impugnato l’atto e nei confronti dei quali il relativo accertamento è divenuto definitivo. Il principio della decadenza dall’impugnazione una volta decorsi i relativi termini viene travolto della Cassazione per perseguire l’obiettivo dell’attuazione del principio di capacità contributiva. La Cassazione ravvisa un solo limite alle pretese del contribuente: l’eventuale pagamento delle imposte30. L’accertamento giudiziale del reddito societario in misura inferiore a quella effettuata dall’amministrazione finanziaria non vale, infatti, a rendere indebite le eventuali maggiori imposte pagate e, quindi, a giustificare il diritto del contribuente al rimborso. Ammettere l’irripetibilità delle maggiori imposte versate è una conclusione che lascia perplessi dal momento che il conseguimento da parte del contribuente di un giudicato a lui favorevole avrebbe imposto di ritenere dette somme non più dovute all’erario in quanto

uffici dal D.P.R. n. 600 del 1973 per lo svolgimento dei quali potrebbe essere necessaria la presenza presso la sede della società il cui reddito deve essere accertato. Cfr. SCHIAVOLIN, Le prove, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario. Il processo tributario, diretta da Tesauro, Torino, 1998, 474; PAPARELLA, I poteri istruttori del giudice tributario, in Il processo tributario, a cura di Della ValleFicari-Marini, Padova, 2008, 203. Non pare, però, nel bilanciamento degli interessi imposto dalla Corte costituzionale, che, dal punto di vista concreto, i fastidi che possono derivare ai soci o alla società nello svolgimento delle attività processuali configurino una reale menomazione del loro diritto di difesa tali da costituire un pregiudizio di diritti costituzionalmente garantiti. 27 MANDRIOLI, Diritto processuale civile. Nozioni introduttive e principi generali, cit., 67; RUSSO, Processo tributario, cit., 771; PEZZUTI, Art. 19 (Atti impugnabili e oggetto del ricorso), in Il nuovo processo tributario. Commentario, di BAGLIONE-MENCHINI-MICCINESI e altri, Milano, 2004, 179. 28 Nella sentenza menzionata la Cassazione osserva che: «La riferita esperienza giurisprudenziale che vede collocata l’azione di accertamento negativo nel giudizio di opposizione ad ingiunzione fiscale evidenzia che la proponibilità della predetta azione di accertamento presuppone un valido ed efficace esercizio, da parte dell’amministrazione,

della pretesa erariale la cui inesistenza il contribuente intenda far accertare: sicché qualora non emerga, mediante un atto concreto (e giuridicamente efficace) di esercizio della pretesa tributaria, la volontà impositiva dell’amministrazione nei confronti di un determinato soggetto di imposta, deve ritenersi improponibile l’azione di accertamento negativo. Quest’ultima, infatti, non può che rapportarsi (trovandovi fondamento) ad una specifica (e concretamente esigibile) pretesa erariale che giustifichi l’interesse ad agire del contribuente: con la conseguenza che in materia tributaria, anche di fronte al giudice ordinario, un’azione di accertamento negativo in via preventiva della pretesa erariale – senza, cioè, che sussista un effettivo esercizio della pretesa stessa – è improponibile». 29 BASILAVECCHIA, L’accertamento unitario trova un assetto stabile (nota a Cass., sez. un., 4 giugno 2008, n. 14815), cit., 2274 osserva che «l’impostazione delle sezioni unite, la si condivida o meno, è sempre meno condizionata da tale nozione, ed appare pertanto più moderna, pragmatica, in definitiva più attenta agli schemi di diritto positivo, che non alle concettualizzazioni tradizionali». 30 Critica questa impostazione BASILAVECCHIA, L’accertamento unitario trova un assetto stabile (nota a Cass., sez. un., 4 giugno 2008, n. 14815), cit., 2274, in quanto idonea a incoraggiare atteggiamenti dilatori da parte dei contribuenti.


Federico Rasi 1 2009 35

espressione di un pagamento ingiustificato rispetto al principio di capacità contributiva. Il riferimento alla “giusta imposizione” avrebbe suggerito una diversa conclusione31. Con la sentenza n. 14815 del 2008, la Cassazione, una volta di più, rinvia alla fase processuale il momento in cui recuperare l’unità sostanziale che connota talune fattispecie tributarie. Ne deriva una svalutazione della fase dell’accertamento in cui pure si avvertono le stesse esigenze qui tutelate. Invece, proprio per l’ipotesi delle società di persone si potrebbero rinvenire disposizioni sintomatiche della volontà del legislatore di favorire la determinazione del medesimo componente reddituale alla contestuale presenza della società e dei soci: così, oltre agli artt. 6 e 40, D.P.R. n. 600 del 1973, l’art. 4, comma 2, D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 in tema di accertamento con adesione. Esso testimonia come il legislatore, quando risulta possibile addivenire ad una definitiva determinazione del reddito di una società di persone, consenta la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti. Allora, non si comprende perché non perseguire tale risultato nell’arco di tutta la fase di accertamento. L’obiettivo dell’attività di controllo è quello di giungere alla determinazione dell’obbligazione tributaria in misura corrispondente alla reale capacità contributiva del soggetto passivo, sicché, non si vedono motivi per non aprire tutti i momenti in cui si articola il rapporto tributario alla necessaria partecipazione di coloro cui il medesimo componente reddituale si riferisce, nel rispetto non solo dei principi di giusta imposizione invocati dalle sezioni unite, ma anche di quelli di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa32. Sviluppando il ragionamento delle sezioni unite si dovrebbe concludere ritenendo che non solo le norme processuali devono es-

31 La soluzione offerta dalla Cassazione è in linea con quanto dalla stessa affermato in tema di applicabilità alla materia tributaria dell’art. 1306 c.c. Secondo Cass., sez. un., sent. 21 gennaio 1991, n. 535, se il coobbligato può invocare il giudicato favorevole, tuttavia incontra dei limiti, tra i quali lo spontaneo pagamento di quanto richiesto dall’amministrazione finanziaria. Per la Cassazione (cfr. ex multis Cass., sent. 3 agosto 2005, n. 16332) «il pagamento, infatti, comportando l’estinzione del vincolo obbligatorio rientrante nel “fascio” di rapporti facenti capo a soggetti distinti, preclude ogni possibilità di dedurre, a fondamento dell’azione di ripetizione, una circostanza idonea a paralizzare la pretesa del creditore solo in via di eccezione (e ciò in maniera tassativa [...])». La possibilità di ripetere quanto pagato non è, però, preclusa nel caso in cui «i versamenti in questione non siano spontanei ma siano imposti dalla legge» (così Cass., sent. 22 maggio 2006, n. 12014). Per la Cassazione, in definitiva, il pagamento, se spontaneo, risulta un comportamento incompatibile con la volontà di opporsi all’atto impositivo dell’amministrazione, al contrario, se imposto per legge, non è sintomatico dell’acquiescenza del contribuente alla pretesa erariale. In dottrina, cfr. TESAURO, Profili del giudicato tributario, cit., 878. Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. Corte cost., sent. 11 ottobre 2000, n. 416; Corte cost., sent. 26 luglio 2005, n. 320), possono, invece, trarsi argomenti per giungere a conclusioni di segno opposto. Secondo la Corte costituzionale (cfr. Corte cost., sent. 11 ottobre 2000, n. 416), «non è compatibile con il principio di ragionevolezza l’operato del legislatore che qualifichi un pagamento come non dovuto e nello stes-

sere interpretate in senso costituzionale, ma anche quelle procedimentali: queste dovrebbe essere lette nel senso di consentire la necessaria partecipazione dei soci a tutte le fasi, fisiologiche o patologiche, in cui si articola l’obbligazione tributaria. In questa prospettiva, gli artt. 6 e 40, D.P.R. n. 600 del 1973 e l’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 218 del 199733 dovrebbero costituire l’appiglio normativo dal quale far derivare l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di comunicare ogni atto dell’accertamento riguardante il reddito societario non solo alla società, ma anche ai soci e garantire a questi ultimi di poter esercitare in ogni momento gli stessi diritti riconosciuti alla società. Interpretare le norme in tema di accertamento alla luce del principio di diritto affermato dalle sezioni unite della Cassazione pare, allo stato attuale, l’unica via percorribile per superare le diversità di trattamento riconosciute ai soci di società di persone in questa fase rispetto a quella processuale. Infatti, una volta accolte, non senza riserve, le conclusioni della Cassazione e l’interpretazione costituzionalmente orientata da esse proposta34, si deve evitare che tra le due fasi vi sia disparità di tutela. Prevedere il coinvolgimento dei soggetti tra i quali l’obbligazione è normativamente unitaria solo nella fase processuale (o al massimo in caso di proposizione di istanza di accertamento con adesione), se è certamente opportuno, risulta comunque tardivo. 3. Applicazione del principio di diritto affermato dalle sezioni unite all’ipotesi della trasparenza fiscale delle società di capitali Così chiarito il campo di applicazione del litisconsorzio necessario, si può allora procedere a verificare se ricorra “normativa

so tempo lo sottragga all’azione di ripetizione. [...] L’intrinseca contraddittorietà della disposizione si riflette del resto in una palese violazione del principio di eguaglianza per disparità di trattamento di situazioni sostanzialmente uguali, venendo a riservarsi un trattamento deteriore a chi abbia erroneamente pagato un’imposta non dovuta rispetto a chi, versando nella medesima situazione, non abbia invece effettuato alcun pagamento». La Consulta, alla luce del principio di “giusta imposizione”, dimostra di non considerare il pagamento dell’imposta un fatto ostativo alla possibilità di chiedere il rimborso di quanto pagato ove risulti che tale pagamento non è dovuto. Tale orientamento della giurisprudenza costituzionale conferma ulteriormente l’opportunità di un ripensamento delle conclusioni raggiunte dalla Cassazione nella sentenza in esame. 32 SALVINI, La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo Statuto del contribuente e oltre), in Riv. Dir. Trib., 2000, 39, ricorda come «adire il giudice tributario è un costo per il contribuente, ma anche per la collettività, ed è dunque opportuno deflazionare il contenzioso dando il massimo impulso al contraddittorio amministrativo ed applicando anche alla materia tributaria il principio dell’amministrare tramite il consenso piuttosto che attraverso l’esercizio autoritativo ed unilaterale di poteri». Cfr. anche SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento (nelle imposte sui redditi e nell’Iva), Padova, 1990, 23; GALLO, Verso un “giusto processo” tributario, in Rass. Trib., 2003, 15, secondo il quale deve condividersi quell’evoluzione dell’ordinamento tributaria finalizzata a «porre sempre più la sostanza del rapporto

tributario e il diritto alla giusta imposizione al centro dell’attività amministrativa, spogliando l’attività stessa di alcune sue sovrastrutture procedimentali autoritative di tipo spiccatamente inquisitorio e aprendo il procedimento alla partecipazione del contribuente in funzione di una più obiettiva determinazione del debito di imposta». 33 Sulle contrastanti posizioni della dottrina circa la possibilità di invocare l’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 218 del 1997 per fondare l’obbligo di una comune determinazione del reddito societario cfr. nota 10. Per muovere da tale disposizione per argomentare la necessaria partecipazione di tutti i soci all’accertamento, dovrebbero condividersi quelle teorie che spiegano la possibilità della mancata adesione di taluni soci con la volontà del legislatore di agevolare il ricorso a questo istituto. 34 Non ci si esime dal ricordare l’ordinanza del 23 maggio 2007, n. 181 con cui la Corte costituzionale ha ribadito la natura solo sostanziale del principio di capacità contributiva in una questione avente ad oggetto la legittimità delle norme che importano per i contribuenti decadenza dalla presentazione di documenti. L’ordinanza menzionata sembrerebbe muovere in una direzione diversa da quella prospettata: si ritiene, però, essa intervenga su un profilo differente in cui, oltre al principio di capacità contributiva, entrano in gioco differenti profili quali le stesse modalità operative della pubblica amministrazione che possono giustificare un diverso bilanciamento degli interessi in gioco. Nell’ipotesi della determinazione per una società trasparente e per i suoi soci del comune elemento reddituale, si ritiene di dover invocare principi differenti il bilanciamento tra i quali merita una diversa soluzione.


36

GiustiziaTributaria

1 2009

unitarietà” della fattispecie costitutiva dell’obbligazione tributaria nel senso inteso dalla Cassazione anche nel caso della trasparenza delle società di capitali di cui agli artt. 115 e 116 T.U.I.R. che, pur se modellata sul regime di cui all’art. 5 T.U.I.R., prevede alcune specificità di cui occorre tenere conto. Brevemente, si ricorda che gli articoli da ultimo menzionati consentono l’esercizio dell’opzione per la trasparenza fiscale, il primo, alle società di capitali residenti qualora i soci siano esclusivamente altre società di capitali ciascuna con una percentuale di diritti di voto e di partecipazione agli utili non inferiore al 10 per cento e non superiore al 50 per cento, il secondo, alle società a responsabilità limitata residenti il cui volume di ricavi non sia superiore alla soglia prevista per l’applicazione degli studi di settore e abbiano una compagine sociale composta esclusivamente da soci persone fisiche in numero non superiore a dieci35. Per l’accertamento, il legislatore ha espressamente stabilito all’art. 115, comma 10, T.U.I.R., ed all’art. 12, D.M. 23 aprile 2004, che ai soggetti optanti (ovvero ai partecipanti ed alla partecipata) si applichino le disposizioni del più volte menzionato comma 2 dell’art. 40, D.P.R. n. 600 del 197336. Opera, pertanto, anche nell’ipotesi di trasparenza delle società di capitali, il modulo procedimentale analizzato in precedenza, per effetto del quale, analogamente a quanto avviene per i soci delle società di persone, l’erario non può pretendere la maggiore imposta dai soci se non attraverso l’emissione nei loro confronti di un autonomo atto di accertamento individuale. Il regime di trasparenza di cui agli artt. 115 e 116 T.U.I.R. si discosta, invece, da quello di cui all’art. 5 T.U.I.R. quanto alla previsione contenuta nel comma 8 dell’articolo 115 T.U.I.R., secondo cui la società partecipata risponde solidalmente con ciascuna società partecipante37 per l’assolvimento degli obblighi tributari conseguenti all’imputazione del reddito di partecipazione. Tale responsabilità va riferita «all’imposta, sanzioni ed interessi conseguenti all’obbligo di imputazione del reddito». Si tratta di una disposizione “innovativa”38 rispetto al tradizionale regime di trasparenza delle società di persone che non prevede alcuna responsabilità della società partecipata. Attraverso di essa, il legislatore ha vo-

35 O a venti soci in caso di società cooperative. 36 CARINCI, L’accertamento nel regime di trasparenza delle società: responsabilità, garanzie e tutele per la società e per i soci, cit., 177. 37 Stando almeno a quanto affermato dall’Agenzia delle Entrate, nella circolare 22 novembre 2004, n. 49, risponde in via solidale con ciascun socio persona fisica anche la società a responsabilità limitata che opti per la trasparenza ai sensi dell’art. 116 T.U.I.R. Secondo l’amministrazione finanziaria, il contenuto di tali disposizioni non presenta, infatti, elementi di contrasto giuridico con la specifica disciplina riservata alle società in esame, così come espressamente richiesto dall’ultimo comma dell’articolo 14, D.M. 23 aprile 2004. Le conclusioni dell’Agenzia lasciano perplessi. L’applicazione di tale regime collide con il principio della legge delega secondo cui il regime fiscale delle società a ristretta base proprietaria sarebbe dovuto risultare affine a quello delle società di persone. Queste ultime non sono solidalmente responsabili con i soci per i debiti di imposta di questi ultimi (SALVINI, La tassazione per trasparenza, in Rass. Trib., 2003, 1522). 38 L’espressione è di SALVINI, La tassazione per trasparenza, cit., 1517. 39 Così SALVINI, La tassazione per trasparenza, cit., 1505; FANTOZZI-SPOTO, Prime osservazio-

luto fortemente privilegiare le ragioni dell’erario39 rovesciando l’approccio tradizionale: mentre nella fattispecie di cui all’art. 5 T.U.I.R., i soci sono gli unici tenuti al pagamento delle imposte per le quali opera la trasparenza, nelle fattispecie di cui agli artt. 115 e 116 T.U.I.R., oltre ai soci, è tenuta al pagamento delle imposte, oltre eventuali interessi e sanzioni dovuti da questi ultimi, anche la società partecipata. Alla luce di tali disposizioni, la responsabilità del socio resta esclusiva in ordine alle imposte dovute per un reddito correttamente determinato dalla società di capitali trasparente, mentre alla responsabilità del socio si accompagna quella della società per quelle omissioni che derivano dalla mancata o infedele dichiarazione del reddito societario dovute alla sola società trasparente, ma condizionanti la misura della base imponibile e dell’imposta che il socio avrebbe dovuto dichiarare e versare40. Il legislatore ha così delineato una nuova ipotesi di obbligazione solidale che, nella classificazione tradizionale41, deve essere ricondotta alle ipotesi di solidarietà dipendente42. Ovvero a quelle ipotesi in cui il presupposto del tributo è riferibile ad uno o più soggetti, ma la norma tributaria, per tutelare l’interesse fiscale all’esazione dei tributi, coinvolge anche soggetti cui non è riferibile la capacità contributiva evidenziata dal presupposto43. 3.1. Le controversie aventi ad oggetto il reddito societario La sentenza n. 14815 del 2008 invita a dare rilievo alla situazione sostanziale sottostante e ritiene “normativamente unica” la fattispecie costitutiva dell’obbligazione nell’ipotesi della trasparenza delle società di persone. Si dovrà ora verificare se la stessa situazione ricorra nell’ipotesi della trasparenza delle società di capitali di cui agli artt. 115 e 116 T.U.I.R. che presenta evidenti analogie con quella di cui all’art. 5 T.U.I.R. Come chiarito in precedenza, l’applicazione del modello della trasparenza è possibile allorquando la società che produce un reddito non è in grado di trattenerlo, in quanto priva di autonomia rispetto ai soci. Nelle società di capitali, come individuate dal legislatore agli artt. 115 e 116 T.U.I.R., si può registrare tale situazione. Anche in queste società si verifica quella immedesimazione tra soci e società che connota le società personali. Il nu-

ni in materia di trasparenza fiscale delle società di capitali, in Riv. Dir. Trib., 2003, 687. 40Oltre alla dottrina che ritiene la solidarietà della società partecipata sia prevista per ragioni di garanzia (SALVINI, La tassazione per trasparenza, cit., 1517; FICARI, L’imposizione “per trasparenza” delle “piccole” società di capitali, in A.N.T.I., Associazione nazionale tributaristi italiani, L’Ires. due anni dopo: considerazioni, critiche e proposte; libro bianco, Milano, 2005, 117; STEVANATO, Società “trasparenti” e responsabilità solidale tra norme espresse e principi di sistema, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 63; MENTI, Il regime della trasparenza fiscale esteso alle società a responsabilità limitata a ristretta base proprietaria, in Dir. e Prat. Trib., 2004, 431 e 433), ve ne è altra (FANTOZZI-SPOTO, Prime osservazioni in materia di trasparenza fiscale delle società di capitali, cit., 696; MARELLO, Il regime di trasparenza, cit., 547) che attribuisce a tale responsabilità una funzione ulteriore: ovviare alla discrasia che connota il regime in esame, quella tra reddito imputato e reddito distribuito. Nell’ipotesi in cui l’inadempimento del socio dipenda dall’assenza di denaro per provvedere al pagamento, in quanto non è stata deliberata la distribuzione di utili, il legislatore consente all’erario di richiedere il pagamento del tributo nei confronti di chi dispone della

provvista necessaria. 41 Analizzano le categorie tradizionali: FANTOZZI, La solidarietà nel diritto tributario, Torino, 1968, 37; CASTALDI, Solidarietà tributaria, in Enc. Giur., XXIX, Roma, 1993, 3; MICCINESI, Solidarietà nel diritto tributario, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., XIV, Torino, 1997, 446; BASILAVECCHIA, Sostituzione tributaria, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., XV, Torino, 1998, 67; NUSSI, La solidarietà dipendente derivante da fonte civilistica: problemi procedimentali e di giurisdizione (nota a Comm. prov. Treviso, sez. VII, 4 maggio 1999, n. 387), in Rass. Trib., 1999, 1559. 42 CARINCI, L’accertamento nel regime di trasparenza delle società: responsabilità, garanzie e tutele per la società e per i soci, cit., 200; FICARI, L’imposizione “per trasparenza” delle “piccole” società di capitali, cit., 143; MARELLO, Il regime di trasparenza, cit., 547 che osserva come non possa nascondersi la presenza di alcuni sfridi. La società partecipata non è del tutto un terzo estraneo alla fattispecie. 43 Vengono così coinvolti soggetti estranei che non manifestano alcuna capacità contributiva, sicché al coobbligato dipendente deve essere riconosciuto il diritto di rivalsa per l’intero in ossequio al principio costituzionale di capacità contributiva ed alla disposizione generale di cui all’art. 64, D.P.R. n. 600 del 1973.


Federico Rasi 1 2009 37

mero necessariamente ridotto dei soci che compone le società cui è consentito l’esercizio dell’opzione44 consente di presumere che essi siano in grado di esercitare un effettivo dominio sulle scelte di gestione e, quindi, di apprendere in maniera diretta i risultati reddituali della società stessa. In queste situazioni, come osservato in dottrina45, si può derogare alla regola generale per la quale il socio di una società di capitali rileva essenzialmente come titolare di un capitale impiegato e remunerato con una partecipazione agli utili, in quanto gode, in via di fatto, di poteri maggiori di quelli di cui comunemente dispone. La partecipazione ad una società a ristretta base proprietaria non appare, così, finalizzata alla percezione dei relativi dividendi, ma alla concreta gestione della società stessa, analogamente a quanto può osservarsi per le società di persone. La possibilità di un utilizzo immediato e diretto, da parte dei soci, di una società a base capitalistica consente, anzi impone, di superare il dato formale (l’esistenza di una società dotata di personalità giuridica) e di correttamente allocare la capacità contributiva (qui da intendersi in senso relativo quale potenzialità economica riferibile anche a fatti e situazioni concrete46, direttamente in capo ai soci). In definitiva, nelle società per azioni la cui compagine è costituita da un numero ristretto di soci viene in rilievo la stessa situazione che contraddistingue tipicamente il modulo partecipativo delle società di persone: ovvero una completa corrispondenza o sovrapposizione tra l’area degli interessi facenti capo ai soci come privati e quelli che essi possono perseguire come soggetti investiti della disponibilità funzionale dei patrimoni delle società partecipate47. Il rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di neutralità fiscale della forma societaria utilizzata per lo svolgimento di un’attività economica (art. 41 Cost.) consentono l’assimilazione delle due fattispecie e, pertanto, la scelta del legislatore di estendere il campo di applicazione della trasparenza fiscale48 appare del tutto condividibile. Da tale assetto sostanziale, si devono allora trarre le necessarie

44Assolvono a questa funzione le soglie di partecipazione previste dall’art. 115 T.U.I.R., secondo cui possono esercitare l’opzione le società i cui soci detengano una partecipazione non inferiore al 10 per cento (percentuale minima) e non superiore al 50 per cento (percentuale massima). Ne deriva, indirettamente, un limite al numero di soci della partecipata che non possono così essere in numero inferiore a due e in numero superiore a dieci. L’ipotesi di cui all’art. 116 T.U.I.R. risulta più articolata, in quanto in questa ipotesi l’elevato grado di immedesimazione tra i soci e la società è garantito dall’operare di più fattori: la fissazione del numero massimo di soci, la limitazione dell’esercizio dell’opzione a società i cui soci siano esclusivamente persone fisiche, l’utilizzo di una soglia quantitativa (quella per l’applicazione degli studi di settore). Questi elementi consentono di consentire l’opzione a “piccole” società di capitali a vocazione non propriamente industriale nelle quali il ruolo dei soci è predominante in ragione del frequente e quasi fisiologico controllo esercitato da una ristretta cerchia di soci sulla gestione dell’impresa e sull’appropriazione del risultato. La possibilità di poter individuare in questi casi un socio tiranno o un socio la cui partecipazione è estremamente esigua non confuta questa conclusione. Si può comunque ritenere che nelle società il cui numero di soci è inferiori a dieci la gestione dell’attività sociale sia, in ogni caso, esercitata da tutti i soci.

conseguenze. Dal punto di vista procedimentale il legislatore ha correttamente esteso a tali società il modulo operativo dell’art. 40, comma 2, D.P.R. n. 600 del 1973 e, sul piano processuale, pare allora logico e necessario, invocare il litisconsorzio necessario. Anche in tale ipotesi, l’oggetto dell’accertamento processuale (il reddito societario) è un elemento “normativamente” comune agli accertamenti emessi nei confronti della società e dei soci; pertanto, l’eventuale controversia che venisse proposta per contestare il reddito della società o le modalità del suo accertamento dovrebbe svolgersi nel contradditorio della società e dei soci. La particolare struttura degli artt. 115 e 116 T.U.I.R. consente poi di estendere ulteriormente i casi di applicazione dell’istituto del litisconsorzio: devono essere comprese le cause instaurate per impugnare un avviso di accertamento che contesti la sussistenza dei requisiti oggettivi o soggettivi da verificare in capo alla società oltre che in capo ai soci per l’accesso al regime49. Infatti, dal verificarsi di una causa che preclude l’accesso al regime di trasparenza o ne importa decadenza, deriva la necessità di procedere al recupero dell’Ires in capo alla società partecipata: questa, torna ad essere il soggetto tenuto agli obblighi tributari. Tale situazione si ribalta nei confronti dei soci a favore dei quali può maturare il diritto al rimborso delle imposte pagate in relazione al reddito di partecipazione da loro non dovuto o l’obbligo di corrispondere maggiori imposte non pagate per effetto di perdite di partecipazione da loro scomputate, ma non dovute. Il verificarsi di una causa ostativa all’accesso della trasparenza comporta, quindi, la necessità di riliquidare le imposte dovute dalla società e dai soci. Tali controversie, sia nell’ipotesi in cui si discuta della sussistenza o meno dei requisiti per l’esercizio dell’opzione, sia nell’ipotesi in cui si discuta delle conseguenze della decadenza dall’esercizio della stessa, devono svolgersi nel litisconsorzio necessario della società con i soci, per evitare che il medesimo componente reddituale (e le condizioni che ne regolano la riferibilità soggettiva) sia variamente definito per i soggetti coinvolti50. Tale conclusio-

45FEDELE, La nuova disciplina Ires: i rapporti fra soci e società, cit., 465. 46GALLO, Ratio e struttura dell’Irap, in Rass. Trib., 1998, 627. 47 ZIZZO, Reddito delle persone giuridiche (imposta sul), in Dig. Disc. Priv., sez. comm., XII, Torino, 1996, 222, nonché in Riv. Dir. Trib., 1994, 630; SACCHETTO, L’imposta sul reddito delle persone giuridiche, in Trattato di diritto tributario. I tributi in Italia, diretto da Amatucci, IV, Padova, 1994, 104. 48 Non vi sono, ciò nonostante, giustificazioni sufficienti per considerare questo meccanismo come naturale meccanismo di tassazione di simili modelli societari stante l’assenza di un definito quadro civilistico di riferimento (FEDELE, I rapporti fra società e soci, cit., 51). Nel diritto commerciale, le società di capitali conservano il loro elevato grado di autonomia rispetto ai soci che le compongono, ma, ancor più rilevante a fini tributari, risulta la circostanza che il diritto soggettivo dei soci ad apprendere la propria quota di utile resta, comunque, mediato dall’assunzione di una specifica delibera dell’assemblea sociale. Ricompone questa situazione proprio la circostanza che l’esercizio dell’opzione sia condizionata all’unanime consenso dei soci. Condizionare l’accesso al regime di trasparenza all’opzione unanime dei soci consente di rafforzare la presunzione, sottesa ai meccanismi in esame, della diretta partecipazione di soci all’attività di gestione o, quanto meno, della possibilità di apprensione degli

utili. Dovendo l’opzione trovare l’accordo di tutti i soci, ne deriva che anche quelli la cui partecipazione alla gestione risulta minima possono esercitare una sorta di diritto di veto, condizionando il loro parere favorevole alla stipula di patti parasociali che regolino la distribuzione di utili (RUSSO, I soggetti passivi dell’Ires e la determinazione del reddito imponibile, cit., 326). 49 Non possono porsi tali ipotesi nel caso di trasparenza ex art. 5 T.U.I.R. in quanto trattasi di un regime legale di trasparenza la cui applicazione non può venire in discussione; diversamente, la trasparenza degli artt. 115 e 116 T.U.I.R. è una trasparenza opzionale subordinata al rispetto di specifiche condizioni attinenti la composizione della compagine sociale la cui sussistenza può essere oggetto di accertamento. Si tratta dei procedimenti in cui viene contestata l’impossibilità per la società di esercitare l’opzione per superamento della soglia prevista per l’applicazione degli studi di settore; ovvero viene contestato il rispetto delle percentuali minime e massime al verificarsi delle quali è consentito l’esercizio dell’opzione; ovvero, nell’ipotesi di partecipazione di un socio estero, viene denunciato il mancato verificarsi della condizione di non applicazione di ritenuta in uscita sui dividendi. 50CARINCI, L’accertamento nel regime di trasparenza delle società: responsabilità, garanzie e tutele per la società e per i soci, cit., 201.


38

GiustiziaTributaria

1 2009

so, pare potersi tenere fermo l’orientamento giurisprudenziale tradizionale e ritenere che la società possa avanzare le proprie difese, in qualità di coobbligato, attraverso l’impugnazione del primo atto della procedura esecutiva a lei notificato. Diversamente, però, dagli altri casi di coobbligazione solidale, la società partecipata incontrerà una limitazione: non le potrà essere consentito di rimettere in discussione l’accertamento del reddito societario. Mentre di norma al coobbligato, estraneo al procedimento avente ad oggetto il debito di imposta, deve consentirsi di proporre le proprie difese anche in relazione al componente reddituale controverso, nel caso della trasparenza delle società di capitali la società coobbligata può già autonomamente proporre le proprie difese avverso l’accertamento del reddito da cui deriva la responsabilità. L’impugnazione da parte della società del primo at3.2. Le controversie ex art. 115, comma 8, T.U.I.R. to della procedura esecutiva non può divenire occasione per riSempre con riferimento alla trasparenza delle società di capitali mettere in discussione il reddito societario già accertato in masi deve poi verificare se sussista un caso di litisconsorzio nelle niera definitiva anche nei suoi confronti. controversie, in cui l’amministrazione fa valere la responsabilità solidale della società, ex art. 115, comma 8, T.U.I.R., per le ob- 4. Considerazioni conclusive bligazioni dei soci dipendenti dal reddito imputato per traspa- La sentenza delle sezioni unite n. 14815 del 2008 pone fine, solo renza. per ora, all’annosa questione circa l’applicabilità dell’istituto del Come chiarito, si tratta di un caso di coobbligazione solidale di- litisconsorzio necessario alle controversie aventi ad oggetto il redpendente. In queste ipotesi, secondo la ricostruzione prevalente dito di una società di persone. La Cassazione, confermando la liin dottrina51 e in giurisprudenza52, è sufficiente che l’ammini- nea tracciata con la sentenza n. 1052 del 2007, ancora al princistrazione finanziaria, dopo aver accertato il debito d’imposta in pio della “giusta imposizione” l’individuazione dei casi di liticapo al debitore principale, notifichi al coobbligato solidale di- sconsorzio nel processo tributario ed amplia ulteriormente l’ampendente l’atto della riscossione come richiesto dall’art. 25, bito di operatività dell’art. 14 D.Lgs. n. 546 del 1992. Tale estenD.P.R. 29 settembre 1973, n. 602. Il coobbligato resta, così, sione opera nei casi in cui viene in rilievo un problema di corretestraneo dalla procedura di accertamento svolta nei confronti ta determinazione di un componente reddituale “normativadell’obbligato principale, come pure dall’eventuale processo da mente” comune a più soggetti. La comunanza necessaria perché questi instaurato. La giurisprudenza53 ha ritenuto che tale sche- tale meccanismo operi deve risultare da una scelta normativa e ma operativo non si traduca in una violazione del diritto costitu- non da mere considerazioni di opportunità. Il ragionamento delzionale alla difesa a condizione che al coobbligato dipendente sia la Cassazione non diviene così estensibile alle ipotesi di coobbliriconosciuto il diritto di impugnare l’atto della riscossione notifi- gazione solidale dipendente, ove l’unico strumento processuale catogli contestando non solo il proprio rapporto di rappresen- percorribile rimane il litisconsorzio facoltativo. tanza o la propria responsabilità, ma anche l’an e il quantum di un Dal riconoscimento della sussistenza di un caso di litisconsorzio debito d’imposta nel frattempo divenuto definitivo nei confronti necessario tra la società ed i soci deriva l’effetto di accentrare in del debitore principale54. Sul piano processuale il coobbligato di- un’unica sede le controversie aventi ad oggetto il reddito societapendente è stato così considerato litisconsorte facoltativo55. rio. Solo apparentemente ne consegue una semplificazione e riIl nuovo orientamento giurisprudenziale avviato con la sentenza n. duzione del contenzioso. Lo stesso giudice (determinato indiffe14815 del 2008 si ritiene non autorizzi a giungere a differenti con- rentemente secondo il domicilio della società o del socio) si poclusioni dal momento che il coobbligato dipendente resta estraneo trà, infatti, trovare a decidere non solo del reddito societario, ma alla realizzazione del componente reddituale “normativamente” anche del reddito complessivo di ciascuno dei singoli soci. Pur comune56. In relazione alla fattispecie reddituale controversa non applicandosi il litisconsorzio solo alle questioni concernenti il si pone, nei suoi confronti, un problema di manifestazione di ca- reddito societario i suoi effetti si estendono all’intera vicenda propacità contributiva, sicché pare che neppure la rilettura costituzio- cessuale. Ne deriva l’applicazione di specifiche regole (tra le altre nalmente orientata dell’istituto del litisconsorzio offerta dalle se- quelle in termini di spostamento della competenza o in tema di zioni unite della Cassazione possa spingersi fino ad imporre il liti- integrazione del contraddittorio in appello) che certamente comsconsorzio nei casi di coobbligazione solidale dipendente. plicano lo svolgimento del processo, con un conseguente aggraNé si ritiene debba giungersi a conclusioni difformi ove si passi vio per i contribuenti. Con la sentenza n. 14815 del 2008, la Casad analizzare l’ipotesi della responsabilità solidale della società sazione apre così una nuova serie di questioni a cui la giurisprupartecipata ex art. 115, comma 8, T.U.I.R.. Anche in questo ca- denza dovrà dare soluzione. ne è imposta dalla lettura in senso costituzionale dell’istituto processuale del litisconsorzio adottata dalle sezioni unite. Dal momento che l’obiettivo da perseguire è la “giusta imposizione”, allora, ogniqualvolta una situazione giuridica presa a riferimento dal legislatore tributario sia comune una pluralità di soggetti, tutti questi devono partecipare al relativo accertamento, anche processuale. Questo vale non solo nelle fattispecie positive, ovvero in quelle in cui più soggetti pongono in essere il medesimo componente reddituale, ma anche in quelle negative, ovvero in quelle in cui si esclude che più soggetti abbiano posto in essere il medesimo componente reddituale. Avendo tali accertamenti riflessi sostanziali sia sulla società, sia sui soci, tutti devono necessariamente partecipare al relativo processo.

51 GLENDI, Solidarietà dipendente e pretesa estensibilità ai coobbligati dell’efficacia esecutiva del titolo riguardante il debitore principale d’imposta, in Dir. e Prat. Trib., 1974, 777; CASTALDI, Solidarietà tributaria, cit., 16; MICCINESI, Solidarietà nel diritto tributario, cit., 465. 52 Cass., sent. 7 dicembre 1993, n. 12000; Cass., sent. 5 settembre 2001, n. 11413; Cass., sent. 16 settembre 2005, n. 18415. 53 Cass., sent. 5 settembre 2001, n. 11413. Cfr. Anche Corte cost., sent. 24 maggio 1991, n. 219 ove la stessa Corte rinvia alle ordinanze

n. 48 del 1988; n. 591 del 1988; n. 246 del 1989 e n. 178 del 1990. 54È stato anche precisato che, per consentire al coobbligato di formulare tutte le proprie difese, la cartella di pagamento deve contenere, in forma comprensibile e non criptica, l’indicazione della qualifica e dell’ammontare del tributo richiesto nonché tutte le informazioni necessarie al coobbligato per proporre le proprie difese. Così Cass., sent. 16 settembre 2005, n. 1841. In dottrina cfr. FERLAZZO NATOLI-INGRAO, La motivazione della

cartella esattoriale di pagamento: elementi essenziali, in Riv. Dir. Trib., 2005, 542. 55 ALBERTINI, Il processo con pluralità di parti, cit., 287; CASTALDI, Art. 14 (Litisconsorzio e intervento), cit., 141;. BACCAGLINI, Art. 14 (Litisconsorzio e intervento), in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo-Glendi, Padova, 2005, 128. 56 FANTOZZI, La solidarietà nel diritto tributario, cit., 37.


Federico Rasi 1 2009 39

Se la celerità e la semplificazione sono esigenze che la Corte costituzionale ha, in più occasioni57, posto al centro del sindacato di legittimità costituzionale – e certamente il litisconsorzio necessario favorisce tale istanze – è altresì vero che, ancora secondo la Corte costituzionale58, non deve essere così violato il diritto costituzionale alla difesa. L’assetto delineato dalla Cassazione, se non comprime tale diritto, comunque ne rende più complesso l’esercizio. Sono questi gli effetti del più recente orientamento della Cassazione, che, nel cercare di adattare gli istituti sostanziali agli schemi processuali, incorre in forzature quando sostituisce ad un approccio sistematico un approccio pratico. L’unica giustificazione alla “svolta sostanzialistica” della giurisprudenza dei giudici di legittimità si rinviene nella circostanza che essa cerca di assecondare la più recente evoluzione dell’ordinamento tributario al centro del quale si pone, con sempre maggiore evidenza, la sostanza del rapporto tributario59. Nonostante queste contraddizioni occorre prendere atto che la sentenza fonda un nuovo assetto dei riflessi processuali dell’istituto della trasparenza delle società di persone. Tale assetto pare estensibile anche alla trasparenza delle società di capitali, almeno limitatamente alle controversie in cui si discute del reddito societario. Le “trasparenze” ex art. 5, T.U.I.R. ed ex artt. 115 e 116 T.U.I.R., pur presentando elementi di autonomia l’una dall’altra,

57 Corte cost., ord., 4 febbraio 2003, n. 32; Corte cost., ord. 28 luglio 2004, n. 292. 58 Corte cost., sent. 24 luglio 2007, n. 321; Corte cost. ord. 24 giugno 2005, n. 245. 59 Così GALLO, Verso un “giusto processo” tributario, cit. 60 Marello, Il regime di trasparenza, cit., 523. 61 Il regime di responsabilità previsto dal legislatore collide con la tradizionale ricostruzione che vuole, ai fini delle imposte dirette, la società trasparente del tutto priva di soggettività a fini tributari (se non relativamente a taluni

muovono, infatti, da una comune valutazione della capacità contributiva – l’incapacità, di diritto o di fatto, della società di trattenere il reddito60 – da cui ne deriva l’opportunità di sostituire i soci alla società nella costruzione dell’obbligazione tributaria. La sostanza del rapporto tributario risulta la medesima, sicché sul piano processuale la vicenda deve svolgersi in modo analogo. Rispetto alla trasparenza delle società di persone, nella trasparenza delle società di capitali è, invece, del tutto nuova la previsione della responsabilità solidale della società partecipata per le imposte dovute dai soci in relazione al reddito imputato per trasparenza. L’art. 115, comma 8, T.U.I.R. è, però, una norma contraddittoria: il legislatore, dopo aver negato la soggettività tributaria della società di capitali, la riafferma nell’ipotesi patologica di mancato adempimento del debito tributario da parte dei soci. Oltre che dal punto di vista sostanziale61 tale norma genera confusioni anche dal punto di vista processuale, una cui soluzione deve però necessariamente essere trovata attraverso una completa rimeditazione della disposizione in esame62. Una soluzione solo processuale – sancire il ricorso al litisconsorzio necessario anche in tale ipotesi – pur risolvendo problemi di ordine pratico, non sarebbe condivisibile sul piano sistematico: essa sarebbe sintomatica non di una “svolta sostanzialistica” della giurisprudenza di legittimità, quanto piuttosto di una sua “deriva sostanzialistica”.

aspetti procedimentali). L’unica giustificazione a tale scelta si rinviene nella circostanza che l’esercizio dell’opzione per la trasparenza delle società di capitali non superi la necessità dell’assunzione di una formale delibera di distribuzione degli utili per assegnarli ai soci. Può allora apparire opportuno introdurre specifiche cautele fiscali per evitare che l’imposta sia dovuta da un soggetto a cui i dividendi non sono stati distribuiti e che, quindi, potrebbe essere privo della provvista per provvedere al pagamento delle imposte. In dottrina MARELLO,

Il regime di trasparenza, cit., 527; CARINCI, L’accertamento nel regime di trasparenza delle società: responsabilità, garanzie e tutele per la società e per i soci, cit., 172. 62 L’abrogazione della disposizione, l’introduzione di norme che obblighino la società a procedere alla distribuzione di una parte dell’utile, la limitazione della responsabilità della società ai soli casi in cui non si sia provveduto alla distribuzione dei dividendi sono alcune delle soluzioni teoricamente ipotizzabili.


40

GiustiziaTributaria

1 2009

ACCERTAMENTO SULLA MOTIVAZIONE DELL’AUTORIZZAZIONE ALL’ESPLETAMENTO DELLE INDAGINI BANCARIE E SULL’EFFICACIA TEMPORALE DELL’ESTENSIONE AI PROFESSIONISTI DELLA PRESUNZIONE DI IMPONIBILITÀ DEI PRELEVAMENTI 1

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. X, 19 marzo 2008, n. 95 Presidente: Orsatti - Relatore: Gesualdi

Accertamento - Avviso di accertamento fondato sulle risultanze di indagini bancarie - Motivazione dell’atto autorizzativo - Necessità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2 e 7) Accertamento - Avviso di accertamento fondato sulle risultanze di indagini bancarie - Presunzione di imponibilità delle operazioni di versamento realizzate dai professionisti - Irretroattività - Insussistenza (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2 e 7) L’assenza di motivazione determina l’illegittimità dell’autorizzazione allo svolgimento di indagini bancarie e l’inutilizzabilità dei dati acquisiti in quella sede. Di conseguenza, l’avviso di accertamento fondato esclusivamente sulle risultanze di tali indagini è illegittimo in quanto infondato. L’estensione ai professionisti della presunzione di imponibilità delle operazioni di prelevamento non trova applicazione con riferimento ai periodi di imposta anteriori alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2005). Svolgimento del processo Il sig. [...] ha impugnato l’avviso di accertamento in oggetto (recante una pretesa di euro 66.758,11 per Irpef, euro 1.335,56 per addizionale regionale Irpef, euro 26.336,20 per Irap e euro 25.876,04 per Iva, oltre ad una sanzione pari ad euro 100.177,66) emesso sulla base di indagini bancarie condotte ex art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973, deducendo in sintesi: - che né l’avviso di accertamento, né gli atti richiamati, indicano le motivazioni per cui il contribuente è stato sottoposto ad indagini bancarie e inoltre che non gli è stata notificata (separatamente o mediante allegazione all’avviso impugnato) la richiesta di autorizzazione, avanzata dall’ufficio di Milano 1 al Direttore regionale, ad effettuare indagini bancarie nei suoi confronti; - che l’art. 32, primo comma, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973 (come modificato dall’art. 1, comma 402, lett. a, n. 1, della legge n. 311/2004), in base al quale sono stati recuperati a tassazione “i prelievi”, non può trovare applicazione nel caso in esame, non avendo efficacia retroattiva, potendo tutto al più trovare applicazione solo con decorrenza 1 gennaio 2005 (l’efficacia retroattiva dei poteri istruttori introdotti con la legge finanziaria 2005, oltre a ledere la tutela dell’affidamento, compromette anche il diritto di difesa del contribuente e contrasta con l’art. 3, commi 1 e 2 della legge 212/2000, secondo cui le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo); - l’illegittimità della pretesa fiscale nella parte in cui senza che vi sia stata alcuna richiesta di chiarimenti e quindi contraddittorio, l’ufficio recupera a tassazione i prelevamenti (l’attività istruttoria è stata concentrata infatti solo ed esclusivamente sui versamenti); - nel merito, l’oggettiva infondatezza della pretesa fiscale; l’illegittimità dell’avviso di accertamento, alla luce della nota sentenza della Corte costituzionale n. 156/2001, nella parte in cui l’ufficio recupera l’Irap.

L’Agenzia delle Entrate, ufficio di Milano 1, costituitosi in giudizio con nota n. 112049/2007 del 24 settembre 2007, ha controdedotto osservando in sintesi, a sua volta, che l’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 subordina la legittimità delle indagini bancarie e delle relative risultanze solo all’esistenza dell’autorizzazione rilasciata dalla Direzione regionale; che le modifiche introdotte con la finanziaria 2005 hanno ampliato le informazioni alle quali il fisco può accedere (le richieste dell’amministrazione finanziaria possono riguardare qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata); che per i periodi di imposta anteriori all’1 gennaio 2006 gli uffici possono richiedere oltre ai dati relativi alle operazioni annotate nei conti anche dati, notizie o documenti riguardanti operazioni non transitate in un conto (D.L. n. 203/2005); che il contribuente è stato invitato a fornire la documentazione relativa all’anno di imposta 2001 attraverso apposito questionario; che l’operato dell’ufficio trova fondamento nell’art. 1, comma 402, della legge n. 311/2004, il quale ha modificato l’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 aggiungendo il termine “compensi” tra le operazioni bancarie potenzialmente soggette a rettifiche del reddito; che spettava al contribuente provare l’origine dei versamenti effettuati sui c/c e la natura dei pagamenti sostenuti, che per quanto riguarda l’Irap la Cassazione ha chiarito che l’imposizione è legittima al cospetto di una struttura organizzativa esterna. La controversia viene discussa in pubblica udienza, con la presenza delle parti che illustrano le rispettive posizioni. Motivi della decisione La Commissione osserva preliminarmente che lo strumento dell’indagine bancaria, data la forte capacità invasiva della sfera privata personale, è un mezzo istruttorio straordinario, tant’é che per poterlo attivare è necessaria l’autorizzazione del Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate, che costituisce un momento di garanzia per assicurare la massima legalità e correttezza nell’azione amministrativa. Detta autorizzazione non può non dare conto (costituendo da tempo ius receptum nel diritto amministrativo l’obbligo di motivare i provvedimenti discrezionali, specie se sfavorevoli al privato) delle ragioni e dei presupposti che fanno ritenere opportuna e conveniente la scelta dell’indagine bancaria, suscettibile di interferire per sua natura su interessi costituzionalmente tutelati, quali quello alla riservatezza e alla tutela del risparmio, rispetto agli altri strumenti istruttori di cui dispongono gli uffici accertatori. Ciò posto la Commissione, esaminati gli atti di causa, rileva che né le motivazioni dell’avviso di accertamento (ove si legge: «vista la dichiarazione dei redditi presentata per il 2001, esaminati gli esiti dell’indagine finanziaria compiuta ai sensi [...] esaminata la documentazione prodotta dalla s.v. sulla scorta del questionario [...] si precisa quanto segue [...]»), né l’autorizzazione del Direttore generale delle Entrate della Lombardia (formulata nei seguenti termini «vista la nota [...] con la quale l’ufficio locale di Milano 1 ha richiesto ai sensi [...] l’autorizzazione ad ottenere il rilascio di una dichiarazione contenente l’indicazione della natu-


Accertamento 1 2009 41

ra, del numero e degli estremi identificativi dei rapporti intrattenuti con aziende ed istituti di credito, amministrazione postale, con società fiduciarie e ogni altro intermediario [...] del seguente soggetto [...] autorizza [...]») esplicitano i presupposti rilevanti ed i motivi che suggeriscono di procedere in termini così approfonditi nella vita privata del contribuente. L’eccezione formulata da quest’ultimo relativa alla carenza di motivazione del provvedimento impugnato è da ritenersi pertanto fondata. Parimenti fondata appare, ad avviso del Collegio, l’eccezione secondo cui l’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 nella nuova versione (come modificato cioè dall’art. 1, comma 402, lettera a, n. 1, della legge 30 dicembre 2004, n. 311) è inapplicabile alle annualità pregresse rispetto alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2005) e quindi al caso in esame, non potendo avere efficacia retroattiva. Una diversa interpretazione, oltre a ledere la tutela dell’affidamento (riconosciuta alla giurisprudenza quale limite nei con-

fronti della attività del legislatore) ed a compromettere il diritto di difesa della controparte, contrasterebbe altresì con il disposto dell’art. 3, comma 1 e 2, della legge n. 212/2000 (Statuto del contribuente), secondo cui le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. La previsione del novellato art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, pur collocandosi nell’ambito di una disciplina di carattere procedimentale, esplica effetti sostanziali in punto di determinazione del reddito e di conseguenza, sotto questo profilo, non si giustifica una applicazione retroattiva della norma ad attività di accertamento relative, come nella fattispecie, a periodi di imposta pregressi. L’accoglimento dei suddetti motivi di ricorso assorbe gli altri e ne rende superfluo l’esame. La controvertibilità della questione esaminata giustifica, ad avviso del Collegio, l’integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

Nota di Maria Antonietta Capula

primis, che né l’atto impositivo né gli atti dallo stesso richiamati contenevano l’indicazione delle ragioni per cui lo stesso era stato sottoposto ad indagine bancaria e, in secondo luogo, sostenendo l’irretroattività delle modifiche apportate dalla legge finanziaria per il 2005 all’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 600/1973, con conseguente inutilizzabilità della presunzione di imponibilità ivi contemplata con riferimento alle operazioni di prelevamento realizzate prima dell’entrata in vigore delle citate modifiche, avvenuta il 1 gennaio 20054. La Commissione tributaria provinciale di Milano ha accolto entrambe le censure5, annullando l’atto impositivo per i motivi di seguito illustrati.

Premessa Nella sentenza in rassegna la Commissione tributaria provinciale di Milano affronta due tematiche fondamentali in tema di indagini bancarie1. La prima concerne la motivazione dell’autorizzazione che, ai sensi dell’art. 32, comma 1, n. 7, del D.P.R. 600/1973, gli uffici delle imposte ovvero la Guardia di Finanza sono tenuti a richiedere2 al fine di ottenere dalle banche, dalle poste, dagli intermediari finanziari e, in generale, dai soggetti che operano nel campo del risparmio, «dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati, con i loro clienti, nonché alle garanzie prestate da terzi». La seconda riguarda, invece, il problema dell’efficacia temporale della nuova formulazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 600/1973 (così come modificato dall’art. 1, comma 402, della legge 30 dicembre 2004, n. 311)3 che ha esteso ai professionisti la presunzione di imponibilità delle operazioni di prelevamento non registrate in contabilità, per le quali il professionista non sia in grado di indicare il beneficiario. Nonostante la scarna descrizione del fatto, è possibile ricostruire nei seguenti termini il caso concreto sottoposto all’esame della Commissione tributaria provinciale di Milano. La controversia traeva origine da un avviso di accertamento, fondato sulle risultanze delle indagini bancarie condotte nei confronti di un professionista, con il quale l’ufficio aveva recuperato a tassazione come compensi non dichiarati non soltanto le somme relative alle operazioni di versamento ma anche quelle relative alle operazioni di prelevamento, realizzate entrambe nel periodo di imposta 2001. Il ricorrente impugnava l’avviso di accertamento adducendo, in

1 Su questo argomento v. Comm. trib. prov. Bologna, sez. XII, 4 giugno 2007, n. 158, con nota di CASSANO, I controlli bancari: il problema dell’equivalenza “prelievo-ricavo (compenso)” nell’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, in questa rivista, 2008, 3, 464 ss. 2 Al direttore centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle Entrate o al direttore regionale della stessa gli uffici, e al comandante regionale i membri del Corpo della Guardia di Finanza. 3 Legge finanziaria per il 2005. 4 In realtà, il ricorrente aveva sollevato ulteriori motivi di impugnazione (assenza di con-

L’assenza di idonea motivazione allo svolgimento di indagini bancarie come causa di illegittimità dell’avviso di accertamento Quanto al primo profilo, i giudici milanesi hanno, in primis, evidenziato il carattere “straordinario” dell’indagine bancaria rispetto agli altri strumenti istruttori che gli uffici possono utilizzare per lo svolgimento delle loro funzioni, ponendo l’accento sul fatto che l’autorizzazione dell’Autorità gerarchicamente sovraordinata a cui il legislatore ha subordinato l’attivazione di tale mezzo istruttorio rappresenta «un momento di garanzia per assicurare la massima legalità e correttezza dell’azione amministrativa». A nostro avviso, i giudici mostrano di avere correttamente interpretato il ruolo che il legislatore ha voluto attribuire all’autorizzazione di cui all’art. 32, comma 1, n. 7, del D.P.R. 600/1973. Tale autorizzazione, non rappresenta, infatti, una mera formalità, ma un atto indispensabile per rimuovere un ostacolo all’utilizzazione da parte degli uffici di uno strumento di indagine in grado di incidere in maniera significativa nella sfera privata dei contribuenti.

traddittorio nella fase procedimentale in merito alle operazioni di prelevamento; nel merito, infondatezza della pretesa fiscale ed illegittimità dell’avviso di accertamento nella parte in cui esso recuperava l’Irap nei confronti di un professionista privo di autonoma organizzazione) ma soltanto i motivi sopra esposti hanno formato oggetto di decisone da parte della Commissione tributaria provinciale di Milano. 5 Al riguardo, si rileva che l’accoglimento del primo motivo di ricorso sarebbe stato di per sé sufficiente a determinare l’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato, tut-

tavia, i giudici milanesi hanno ritenuto opportuno esaminare anche il secondo motivo d’impugnazione, relativo all’efficacia temporale delle modifiche apportate all’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 600/1973 dalla legge finanziaria per il 2005. Sebbene tale atteggiamento appaia non propriamente corretto sotto il profilo procedurale, la decisione in rassegna non può che essere accolta positivamente, non solo perché rappresenta la prima pronuncia giurisprudenziale sull’argomento, ma soprattutto perché, come si dirà in seguito, i detti giudici hanno negato efficacia retroattiva alla citata disposizione.


42

GiustiziaTributaria

1 2009

La ratio è quella di contemperare l’interesse fiscale con l’interesse del privato a non vedersi sottoposto ad indagine bancaria in assenza dei presupposti che ne legittimano il ricorso. Riteniamo, invero, che il fatto che il legislatore del 1991 abbia eliminato il sistema di deroghe tassative al segreto bancario e il controllo di un organo avente natura giurisdizionale6, non legittima un uso indiscriminato di tale strumento istruttorio7, la cui attivazione resta di fatto subordinata ad una valutazione di opportunità, se non addirittura di effettiva necessità8, da parte di un organo sovraordinato con funzioni di indirizzo e di controllo. Dottrina9 e amministrazione finanziaria10 concordano nel ritenere che l’autorizzazione de quo non è un atto dovuto, ma un atto a carattere discrezionale, che «riveste la duplice funzione di atto legittimante l’uso dello strumento istruttorio degli accertamenti bancari e di atto di controllo del loro corretto utilizzo»11, comportando per gli organi competenti al suo rilascio la «necessità di valutare i requisiti di legittimità e di merito, anche con riferimento alla prevedibile proficuità della richiesta indagine»12. Dalla natura di atto amministrativo discrezionale dell’autorizzazione, i giudici milanesi hanno fatto discendere l’obbligo di motivazione13, precisando che, al pari di qualunque provvedimento discrezionale «specie se sfavorevole al privato», anche l’autorizzazione allo svolgimento di indagini bancarie deve «dare conto [...] delle ragioni e dei presupposti che fanno ritenere opportuna e conveniente la scelta dell’indagine bancaria, suscettibile di interferire per sua natura su interessi costituzionalmente tutelati, quali quello al-

6 A tal fine, può essere utile ricordare che l’attribuzione del potere di autorizzare gli uffici all’espletamento di indagini bancarie è stato devoluto ad un organo interno della stessa amministrazione finanziaria soltanto a seguito delle modifiche apportate alla disciplina degli accertamenti bancari dall’art. 18 della legge 413/1991. Prima di tale modifica il potere degli uffici di procedere ad indagine bancaria poteva essere esercitato soltanto nelle ipotesi tassative contemplate dall’art. 35 del D.P.R. 600/1973, ed era subordinato sia al parere conforme dell’ispettorato compartimentale delle imposte dirette, sia alla autorizzazione del presidente della Commissione tributaria di primo grado territorialmente competente. 7 Tale affermazione sembra condivisa anche dal comando generale della Guardia di Finanza che, nel «fornire alcune indicazioni di carattere operativo utili ad orientare l’attività dei reparti e dei comandanti di zona in ordine all’opportunità, rispettivamente, di ricorre alle indagini de quibus e di autorizzarle», ha indicato alcune situazioni caratterizzate da una forte “pericolosità”(ad esempio il caso del contribuente evasore totale, ovvero nel caso in cui il soggetto verificato abbia ripetutamente omesso di fatturare e registrare operazioni attive generative di ricavi, proventi e, in genere, di corrispettivi ecc.) in cui gli uffici sono legittimati ad avanzare la richiesta di autorizzazione, rilevando che «al di fuori dei casi di cui sopra, la possibilità di richiedere l’autorizzazione per l’esecuzione degli accertamenti bancari dovrà essere valutata di volta in volta» (circolare n. 1/360000 del 20 ottobre 1998, par. 7.6.4). 8 Ritengono legittimo il ricorso all’indagine bancaria soltanto qualora la stessa si dimostri non meramente opportuna ma necessaria: PICCARDO, Gli accertamenti bancari: Evo-

9

10

11 12 13

la riservatezza e alla tutela del risparmio, rispetto agli altri strumenti istruttori di cui dispongono gli uffici accertatori». Come correttamente rilevato dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, la necessità che gli atti amministrativi a carattere discrezionale siano adeguatamente motivati costituisce ormai ius receptum, essendo tale principio sancito dall’art. 3 della legge sulla trasparenza amministrativa (L. 241/1990). Riteniamo tuttavia di poter affermare che, anche prescindendo dalla sua natura di atto amministrativo a carattere discrezionale, l’obbligo di motivazione dell’autorizzazione allo svolgimento delle indagini bancarie derivi direttamente dal fatto che detta autorizzazione è un atto dell’amministrazione finanziaria. Ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge 212/2000), infatti, «gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione degli atti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione»14. L’espressione omnicomprensiva adottata dal legislatore – atti dell’amministrazione finanziaria –, consente di ritenere che l’obbligo di motivazione si estende a “tutti” gli atti promananti dall’amministrazione finanziaria, e quindi non soltanto agli atti impugnabili dinnanzi alle Commissioni tributarie ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs n. 546/1992, ma anche agli atti istruttori, fra i quali rientra l’autorizzazione allo svolgimento di indagini bancarie15. Non solo.

luzione normativa ed applicazioni giurisprudenziali, in Dir. e Prat. Trib., I, 2007, 35; ID, Profili interpretativi sull’utilizzo presuntivo dei dati bancari ai fini fiscali, in Dir. e Prat. Trib., II, 2002, 569. MAZZAGRECO, Questioni attuali in tema di motivazione degli atti, in Riv. Dir. Trib., I, 2008, 386-387; VIOTTO, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2002, 281; TOMASSINI-TORTORA, Rafforzati i poteri degli uffici negli accertamenti bancari, in Corr. Trib., 2005, 356; FERRAJOLI, La tutela del contribuente nelle procedure di accertamento bancario: linee evolutive, in Fisco, 2004, 3817; PICCARDO, Profili interpretativi, cit., 569; SCHIAVOLIN, Segreto bancario, in Riv. Dir. Trib., I, 1993, 1137. Circolare n. 116/E-III-5-1093 del 10 maggio 1996, par. 3, ove l’amministrazione rileva che gli organi competenti «possono opporre un eventuale diniego» alla richiesta di autorizzazione presentata dagli uffici «qualora emerga la mancanza dei requisiti (di legittimità e di merito) sopra richiamati». Anche il comando generale della Guardia di Finanza, si è espresso in tal senso, affermando espressamente che «l’autorizzazione non è un atto dovuto, ma costituisce, al contrario, un provvedimento discrezionale che presuppone l’apprezzamento delle condizioni legittimatici e delle ragioni operative, rappresentate nella richiesta che ne sollecita l’emanazione» (circolare n. 1/360000 del 20 ottobre 1998, par. 7.6.5, cit.). TOMASSINI-TORTORA, op. cit., 357, nota 15. Circ. n. 116/E-III-5-1093, cit, par. 3. L’obbligo di motivazione riguarda non soltanto il provvedimento autorizzativo ma, prima ancora, la richiesta proveniente dagli uffici, nella quale devono essere indicate le ragioni, in termini di opportunità e di merito, che legittimano il ricorso allo strumento del-

l’indagine bancaria, facendo specifico riferimento alla fattispecie concreta e, quindi, alla situazione specifica del contribuente per il quale si richiede l’autorizzazione all’espletazione dell’indagine bancaria. La necessità che la richiesta di autorizzazione sia adeguatamente motivata non soltanto è riconosciuta dalla dottrina (PICCARDO, Gli accertamenti bancari, cit. 56; MARRONE, La disciplina degli accertamenti bancari ai fini fiscali, in Rass. Trib., 1996, 629) ma anche dalla stessa amministrazione finanziaria, la quale ha affermato che «al fine di consentire alla Direzione regionale delle Entrate la valutazione di opportunità su ciascuna domanda di autorizzazione [...] occorrerà motivare adeguatamente le richieste, in relazione ai singoli soggetti nei confronti dei quali si intende procedere» (circ. n. 21/55300 del 27 giugno 2000). 14 Sull’obbligo di motivazione degli atti dell’amministrazione finanziaria sancito dall’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente si segnalano, senza alcuna pretesa di completezza, MAZZAGRECO, cit., 361 e ss; MODOLO, Procedimenti attuativi dei tributi e Statuto dei diritti del contribuente. Questioni attuali in tema di motivazione degli atti impositivi, in Riv. Dir. Trib., I, 2007, 289 e ss; MICELI, La motivazione degli atti tributari, in Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Fantozzi e Fedele, 2005, 300; BEGHIN, La motivazione dell’avviso di accertamento, in Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Marongiu, Giappichelli, 2004, 9 e ss; AGOSTINELLI, Riflessioni sul valore e sulla funzione della motivazione degli atti impositivi anche alla luce del più recente quadro normativo, in Riv. Dir. Trib., II, 2002, 692 e ss. 15 MICELI, cit., 300; VIOTTO, cit., 289; MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Giappichelli, 2008, 290; MAZZAGRECO, cit., 384.


Accertamento 1 2009 43

La necessità che l’autorizzazione all’espletamento delle indagini bancarie sia adeguatamente motivata discende direttamente dalla funzione che a detta autorizzazione è stata attribuita dal legislatore, ovvero, garantire un utilizzo non indiscriminato di tale strumento di indagine. Infatti, «se l’esercizio dei poteri di indagine bancaria, diversamente da altre ipotesi, è subordinato ad una espressa autorizzazione, ciò significa che non è sufficiente la sua mera esistenza ad attribuire legittimità a dette indagini, ma occorre un’autorizzazione debitamente motivata [...] altrimenti ragionando, e cioè ritenendo che l’autorizzazione non debba essere motivata la si svuoterebbe del suo significato riducendola a un mero orpello formale»16. Essendo la motivazione requisito essenziale dell’atto autorizzativo, il difetto di motivazione determina l’illegittimità dell’autorizzazione e, di conseguenza, dell’indagine bancaria e delle prove mediante la stessa acquisite. Sebbene il problema dell’utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite rappresenta uno temi più dibattuti del diritto tributario, a cui il legislatore non ha ancora dato risposta e di fronte al quale la giurisprudenza di legittimità si mostra divisa17, riteniamo di aderire a quella autorevole opinione che ha affermato che «i dati e le notizie illegittimamente acquisite sono inidonee a fungere da prova: di conseguenza, tanto l’ufficio dotato della potestà impositiva o sanzionatoria nello stabilire se emettere un avviso di accertamento o di irrogazione di sanzioni, quanto l’organo giurisdizionale nel giudicare la fondatezza della pretesa fiscale, non dovrebbero riconoscere a detti dati e notizie alcuna capacità rappresentativa»18. Alla luce delle considerazioni sopra esposte, condividiamo la decisione in commento con cui la Commissione tributaria provinciale di Milano, a causa dell’assenza di motivazione dell’atto autorizzativo, ha annullato l’avviso di accertamento fondato esclusivamente sulle risultanze dell’indagine bancaria ritenendo inutilizzabili ai fini probatori le informazioni illegittimamente acquisite in quella sede19.

16 MARONGIU, cit., 173 ss. 17 Affermano l’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, fra le altre, Cass., sez. un., n. 16424/2002; Cass., sez. trib., n. 7368/1998; n.15230/2001; 15209/2001. In senso contrario, Cass., sez. trib., n. 8344/2001; n. 1383/2002. 18 FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2008, 478; TESAURO, Compendio di diritto tributario, 2007, 102 (che, con riferimento all’autorizzazione del Procuratore della Repubblica per l’ipotesi di accessi in abitazioni private ha affermato espressamente che «l’atto del Procuratore della Repubblica è un atto amministrativo discrezionale, che deve essere motivato e che può essere sindacato dal giudice tributario, sia sotto il profili della adeguatezza della motivazione, sia sotto il profilo della correttezza in diritto dell’apprezzamento dei gravi indizi di evasione. L’autorizzazione non può essere concessa sulla base di notizie anonime, e, se è illegittima, le prove reperite non possono essere utilizzate»); LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001, 442; LIPARI, L’inutilizzabilità di elementi probatori irritualmente acquisiti, in Fisco, 2007, 2592 e ss. 19 In senso conforme, Comm. trib. prov. Milano, sent. n. 154/2001 e n. 228/2000. In dottrina, MAZZAGRECO, cit., 388; PICCARDO, Gli accertamenti bancari, cit., 57; FERRAJOLI, cit., 3817. 20 Avvenuta l’1 gennaio 2005. 21 TOMASSINI-TORTORA, cit., 356; ARTUSO, I prele-

Al contempo, non possiamo esimerci dal rilevare l’inopportunità della formula utilizzata dai giudici milanesi per giustificare la loro decisione. Al riguardo, essi hanno affermato che «l’eccezione [...] relativa alla carenza di motivazione del provvedimento impugnato è da ritenersi pertanto fondata». La formula è fuorviante. La carenza di motivazione non riguardava, infatti, l’atto impugnato, bensì l’atto autorizzativo e l’illegittimità dell’avviso di accertamento è derivata dal fatto che, essendo lo stesso fondato esclusivamente su dati bancari illegittimamente acquisiti e, di conseguenza, inutilizzabili, è venuto a mancare ogni fondamento probatorio della pretesa fiscale. Divieto di applicazione retroattiva dell’estensione ai lavoratori autonomi della presunzione di imponibilità delle operazioni di addebito in conto corrente La seconda questione affrontata nella sentenza in rassegna attiene al problema dell’efficacia temporale della norma che ha esteso ai professionisti la presunzione di imponibilità per le operazioni di prelevamento. Fino all’entrata in vigore delle modifiche apportate con la legge 311/200420, il testo dell’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 600/1973 per la parte relativa ai prelevamenti faceva esclusivo riferimento ai “ricavi”, di conseguenza, la dottrina21 aveva negato l’applicabilità della presunzione di imponibilità ivi contemplata nei confronti degli esercenti arti e professioni, la cui attività, come noto, produce “compensi”. Con la legge n. 311 del 2004, il legislatore ha esteso l’ambito soggettivo di applicazione della citata disposizione, aggiungendo nel testo dell’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 600/1973 la parola “compensi”, pertanto, a partire dal 1 gennaio 2005, la presunzione di imponibilità delle operazioni di prelevamento trova applicazione anche nei confronti degli esercenti arti e professioni22. Prescindendo da valutazioni in merito all’opportunità di tale estensione23, e limitando la presente trattazione alla disamina del pro-

vamenti bancari effettuati dai professionisti e la nuova presunzione di compensi tra principi di civiltà giuridica, divieto di retroattività e ambigue classificazioni delle norme sulle prove, in Riv. Dir. Trib., I, 2007, 3; PICCARDO, Gli accertamenti bancari, cit., 59; MARINO, Finanziaria 2005: la valenza presuntiva dei prelevamenti ingiustificati dai conti correnti nell’accertamento dei redditi dei lavoratori autonomi, in Fisco, 2005, 975; BULLO, Gli accertamenti bancari verso i professionisti, in Corr. Trib., 2007, 3927. 22 La riferita interpretazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 600/1973, non è pacifica in giurisprudenza. In un primo tempo anche la Cassazione (sent. n. 11094/1999) si era espressa nel senso che la presunzione di imponibilità delle operazioni di addebito in conto corrente trovava applicazione soltanto nei confronti degli imprenditori. Di recente, invece, la Corte (sent. n. 11750/2008) ha ritenuto che la formulazione letterale della prima parte dell’art. 32, comma 1, n. 2 del D.P.R. 600/1973, pacificamente applicabile ai lavoratori autonomi, facendo genericamente riferimento ai «dati ed elementi risultanti dai conti» permetteva di ricomprendere al suo interno sia le operazioni di versamento sia le operazioni di prelevamento. In forza di tali considerazioni, la Cassazione ha ritenuto applicabile ai lavoratori autonomi la presunzione di imponibilità delle operazioni di prelevamento realizzate in periodi di imposta antecedenti alle modifiche apportate con la legge 311/2004.

A parere di chi scrive, l’orientamento da ultimo espresso dalla Cassazione non è condivisibile, in quanto, aderendosi ad esso, si dovrebbe concludere che la seconda parte della norma in esame, relativa ai prelevamenti, è priva di autonoma efficacia precettiva, essendo la prima parte della norma idonea a far sorgere la presunzione di imponibilità sia per le operazioni di versamento sia per quelle di prelevamento. Ragionando in tal modo, tuttavia, si dovrebbe ritenere privo di significato anche il recente inserimento della parola “compensi” accanto alla parola “ricavi” operato con la legge 311/2004. Al contrario riteniamo che, per il tramite della suddetta modifica il legislatore abbia voluto accrescere l’ambito soggettivo di applicazione della presunzione di imponibilità delle operazioni di addebito in conto corrente, estendendola ai professionisti. 23 PICCARDO, Gli accertamenti bancari, cit., 60, afferma che la «presunzione di imponibilità dei prelevamenti bancari assume contorni paradossali se rivolta ai lavoratori autonomi i quali, legittimamente, utilizzano i propri conti personali, anche e, soprattutto, a fini estranei all’attività oggetto di verifica»; TOMASSINI-TORTORA, op. cit., 356, hanno rilevato che «l’estensione ai lavoratori autonomi dell’operatività della presunzione riferita ai prelevamenti accentua i problemi per questi ultimi di “precostituzione” di una prova idonea la superamento delle presunzioni:a differenza dei conti aziendali, nei conti dei lavorato-


44

GiustiziaTributaria

1 2009

blema sottoposto all’attenzione dei giudici milanesi, si rileva che detti giudici, interrogati in merito all’efficacia temporale della disposizione in esame, hanno affermato che la nuova formulazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 600/1973 «è inapplicabile alle annualità pregresse rispetto alla sua entrata in vigore.. non potendo avere efficacia retroattiva». La Commissione tributaria provinciale di Milano è giunta a tale apprezzabile conclusione facendo leva su esigenze di “tutela dell’affidamento” e di garanzia del “diritto di difesa” del contribuente24, ma soprattutto in forza del principio di irretroattività delle disposizioni tributarie sancito dall’art. 3, comma 1, dello Statuto del contribuente (legge 212/2000)25. Essa ha correttamente rilevato che «la previsione del novellato art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, pur collocandosi nell’ambito di una disciplina di carattere procedimentale, esplica effetti sostanziali in punto di determinazione del reddito e di conseguenza, sotto questo profilo, non si giustifica una applicazione retroattiva della norma ad attività di accertamento relative, come nella fattispecie, a periodi di imposta pregressi». Il ragionamento operato dai giudici per negare l’efficacia retroattiva della disposizione in esame è, a nostro avviso, ineccepibile26. In particolare, merita di essere condiviso il riferimento agli effetti sostanziali esplicati dalla norma, posto che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il principio di irretroattività delle disposizioni tributarie sancito dall’art. 3 dello Statuto del contribuente opera «limitatamente ai profili sostanziali del rapporto tributario ed agli obblighi, anche formali, dalla cui violazione possano conseguire effetti negativi per il contribuen-

ri autonomi solitamente transitano operazioni di diversa natura, sia personale che professionale». Si segnala inoltre che, già prima della suddetta estensione MARRONE, op. cit., 625 e 626, aveva rilevato l’irrazionalità di un eventuale riferimento ai professionisti dell’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 600/1973 nella parte in cui considera come proventi non dichiarati i prelevamenti bancari, osservando che «se già in via sistematica tale disposizione solleva dubbi di legittimità, anche in ragione del principio costituzionale di capacità contributiva, essa assume anche contorni paradossali se rapportata a lavoratori autonomi e imprenditori individuali, i quali legittimamente utilizzano i propri conti personali anche a fini del tutto estranei alle attività oggetto di verifica». 24 Invero, il professionista giustamente confidando nella stabilità delle norme tributarie non poteva certamente prevedere che l’amministrazione finanziaria potesse in futuro richiedergli l’esibizione di documentazione relativa a spese per le quali non sussisteva, né sussiste tutt’ora, alcun obbligo di annotazione in contabilità, in quanto estranee all’esercizio dell’arte o professione e attinenti a proprie esigenze personali. L’art. 19 del D.P.R. 600/1973 impone a tali soggetti di annotare in contabilità, oltre ai compensi «sotto qualunque forma e denominazione» derivanti dall’esercizio dell’arte e della professione, soltanto le «spese inerenti all’esercizio dell’arte e della professione delle quali si chiede la deduzione analitica ai sensi dell’art. 50 (ora 54)» dello stesso decreto, mentre nessun obbligo di registrazione in contabilità è previsto per le operazioni di prelevamento. 25 L’articolo 3, comma 1, della legge 212/2000, rubricato “Efficacia temporale delle norme

te»27, mentre per le disposizioni a carattere procedurale vige l’opposto principio del tempus regit actum28, in forza del quale dette disposizioni, in quanto incapaci di incidere sull’obbligazione tributaria, sono suscettibili di trovare applicazione anche con riferimento a periodi di imposta precedenti la loro entrata in vigore29. La Commissione tributaria provinciale di Milano mostra di aderire all’opinione30 che ha rilevato come la tradizionale distinzione fra norme sostanziali e norme procedurali mal si attaglia alle disposizioni che, come quella in esame, disciplinano l’efficacia dei mezzi di prova, in quanto essendo le stesse in grado di spostare l’onere probatorio a favore di un determinato soggetto del rapporto obbligatorio, finiscono necessariamente per influenzare la decisione del giudice, riverberando i loro effetti sul piano sostanziale31. Tali norme rappresentano una sorta di tertium genus, che si colloca a metà strada fra norme sostanziali e norme procedurali32, in quanto pur essendo inserite nell’ambito delle disposizioni che disciplinano il procedimento ovvero il processo, dalla loro applicazione discende l’esito del giudizio e quindi la regolamentazione del rapporto. La disposizione che ha esteso ai professionisti la presunzione di imponibilità dei prelevamenti si colloca, precisamente, all’interno di questa peculiare categoria di norme. Essa, sebbene inserita nell’ambito di una disciplina a carattere procedimentale riverbera i suoi effetti sul piano sostanziale, posto che, ove il professionista non sia in grado di fornire la prova contraria predeterminata dallo stesso legislatore (rilevazione in contabilità o indicazione del beneficiario), i prelevamenti assurgono automaticamente ad elementi costitutivi del rapporto di imposta33.

tributarie”, dispone espressamente che, fatta eccezione per le leggi di interpretazione autentica «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo». Si tratta della trasfusione in materia tributaria del principio generale di cui all’art. 11 delle preleggi, ai sensi del quale «la legge non dispone che per l’avvenire; essa non ha effetto retroattivo». Sul problema della retroattività delle disposizioni tributarie si veda in particolare AMATUCCI, L’efficacia nel tempo della norma tributaria, 2005. 26 Non possiamo, tuttavia, esimerci dal rilevare che l’opinione espressa dai giudici milanesi non appare condivisa dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 11750/2008 ha ritenuto applicabile nei confronti degli esercenti arti e professioni la presunzione di imponibilità delle operazioni di prelevamento anche a periodi d’imposta precedenti la sua entrata in vigore facendo ricorso ad una discutibile interpretazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 600/1973. Ad avviso della Corte, sarebbe irrilevante al fine di risolvere il problema dell’applicabilità ai professionisti della presunzione di imponibilità delle operazioni di prelevamento a periodi d’imposta precedenti l’inserimento nella seconda parte dell’art. 32, comma 1, n. 2 della parola «compensi», in quanto l’espressione «singoli dati ed elementi risultanti dai conti» contenuta nella prima parte della norma, pacificamente applicabile anche ai professionisti, è suscettibile di ricomprendere al suo interno tanto le operazioni di versamento quanto quelle di prelevamento. A nostro avviso, la riferita interpretazione dell’art. 32, comma 1, n. 2 del D.P.R. 600/1973 non appare condivisibile, ponendo una pluralità di problemi applicativi che la Corte sembrerebbe aver tralasciato di considerare

ma che non possono essere esaminati in questa sede in quanto la loro trattazione esula dal presente lavoro. 27 Cass., sez. trib., n. 11274/2001. 28 Per un’applicazione pratica di tale orientamento della giurisprudenza di legittimità, si vedano le decisioni in tema di applicazione retroattiva del cd. redditometro: Cass., sez. trib., n. 19403/2005; 14161/2003; 12731/2002; nonché le sentenze in tema di applicazione retroattiva delle modifiche introdotte con il più volte citato art. 18 della legge 413/1991 che ha, di fatto, abolito nel nostro ordinamento il segreto bancario: Cass., sez. trib., n. 10538/2006; 7344/2003; 11778/2001; 1728/1999. 29 AMATUCCI (cit., 145 e ss) ritiene, invece, che «l’applicazione del principio del tempus regit actum è accettabile soltanto se si considerano le norme procedimentali tributarie in melius che disciplinano i poteri dell’amministrazione finanziaria nella formazione di un provvedimento e che garantiscono maggiormente il contribuente». 30 FALSITTA, cit., 85 e 86; LUPI, La categoria delle norme di garanzia, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 1470 e ss; ARTUSO, cit., 5 e ss; SERRANÒ, Retroattività delle disposizioni di prova legale e lesione del diritto di difesa, ivi, 1459 e ss; 31 PICCARDO, Gli accertamenti bancari, cit., 63, nonché la dottrina citata nella nota precedente. 32 FALSITTA, cit, 84; LUPI, cit., 1741; ARTUSO, cit., 9. 33 Non solo, essa introduce per i professionisti un obbligo di conservazione della documentazione relativa ai prelevamenti prima non prevista, con la conseguenza che, ove applicata retroattivamente, rende particolarmente onerosa, se non addirittura impossibile (cd. probatio diabolica) per tali soggetti la possibilità di fornire la prova contraria, comportando


Accertamento 1 2009 45

La decisione in commento contraddice l’opposto orientamento espresso dall’amministrazione finanziaria, ad avviso della quale, la norma in esame ha «natura meramente procedimentale» e, in quanto tale, è «applicabile anche per l’accertamento di annualità pregresse rispetto alla sua entrata in vigore»34. Tale non condivisibile opinione è stata giustificata dall’amministrazione finanziaria richiamando la giurisprudenza della Corte di Cassazione in ordine alle modifiche introdotte dall’art. 18 della legge 413/1991, che aveva abolito il sistema di deroghe tassative al segreto bancario, ignorando tuttavia che, in quella occasione, la Suprema Corte aveva giustificato la retroattività della disposizione, riconoscendone la natura meramente procedimentale, sulla scorta dell’affermazione che il citato articolo 18 «non interferisce sul rapporto tributario, non introduce infrazioni o sanzioni prima non previste, né tocca l’onere dell’amministra-

zione di provare la pretesa impositiva, ma si occupa solo delle attività di indagine e accertamento»35. L’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. 600/1973, nella formulazione risultante dopo le modifiche apportate dalla legge finanziaria per il 2005, invece, non soltanto ha posto per gli esercenti arti e professioni un nuovo onere di conservazione della documentazione giustificativa dei prelevamenti, ma soprattutto ha inciso sull’onere dell’amministrazione di provare la pretesa impositiva, introducendo una presunzione legale relativa a suo favore. In conclusione, alla Commissione tributaria provinciale di Milano deve riconoscersi il merito di essere andata oltre le rigide qualificazioni giuridiche, inquadrando correttamente la natura della disposizione esaminata in forza degli effetti che essa è destinata a produrre sul piano sostanziale.

LA VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO ANTICIPATO PREVISTO NELLO STATUTO DEI DIRITTI DEL CONTRIBUENTE I L’ANNULLABILITÀ DELL’ATTO DI ACCERTAMENTO II VIZIO DELL’ACCERTAMENTO E VALUTAZIONE COMPLESSIVA DEL COMPORTAMENTO DELLE PARTI

2

Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, sez. XI, 26 marzo 2008, n. 9 Presidente: Rossi - Relatore: Alfano

Accertamento - Termine di 60 giorni ex art. 12, comma 7, L. 212/2000 - Violazione - Successivo avviso di accertamento - Inesistenza (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7) La fase sospensiva dell’attività accertativa, prevista dall’articolo 12, comma 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, costituisce parte essenziale della fattispecie complessa a formazione progressiva che ha come momento conclusivo l’avviso di accertamento, con la conseguenza che il mancato rispetto del predetto termine costituisce lesione di un diritto fondamentale del contribuente e rende giuridicamente inesistente l’avviso di accertamento notificato prima che siano trascorsi 60 giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica, in quanto carente di un elemento essenziale necessario ex lege a costituirlo. La [...] con sede legale in [...] assistita e difesa dal [...] commercialista in [...], ricorre in data 19 gennaio 2004 contro l’avviso di

un’inaccettabile compressione del loro diritto di difesa. In particolare, ARTUSO (cit., 24), rileva che, ove si affermasse la retroattività della disposizione esaminata «si addiverrebbe alla situazione in cui il contribuente (lavoratore autonomo) dovrebbe offrire una prova contraria in base a materiale del quale il legislatore non prevedeva fosse tenuto a munirsi, nel momento in cui perfezionava la fattispecie oggetto di accertamento [...] ci pare infatti perfettamente in linea con i più comuni canoni comportamentali che il contribuente il quale abbia affrontato spese personali mediante prelevamenti da conti bancari non con-

accertamento n. [...] emesso dall’Agenzia Entrate, ufficio di [...], relativamente ad Irpeg, Irap e Iva, sulla scorta del Pvc del [...] dallo stesso ufficio elevato a carico della società verificata. L’avviso di accertamento è stato notificato il [...] e contiene la rettifica del Modello unico prodotto dalla ricorrente per l’anno di imposta 1999. In particolare l’ufficio. dopo aver negato che alle operazioni di factoring, poste in essere dalla verificata, si applichi il regime di esenzione dall’imposta previsto dall’art. 10 D.P.R. 633/1972: a) procede. ai fini Iva. al recupero di euro 1.130.724,46, per avere la società emesso fatture senza applicazione dell’imposta ex art.10 citato a fronte di operazioni (suppostamene) imponibili; nonché al recupero di euro 115.145,75, per avere la società omesso di regolarizzare fatture di acquisto (per servizi di intermediazione o per le attività di supporto all’attività di factoring), che non dovevano essere emesse in esenzione di imposta ex art. 10, n. 1 o n. 9, del D.P.R. 633/1972. b) riprende, ai fini imposte sui redditi a tassazione: 1) costi per euro 92.800,07

servi – in mancanza, appunto, di obblighi al riguardo la documentazione ab origine acquisita a supporto degli esborsi effettuati». 34 Circ. 32/E del 19 ottobre 2006, par. 5.4. 35 Cass., sez. trib., n. 1728/1999; 11778/2001; 7344/2003; 4732/2006; 10538/2006. In argomento, si segnalano due recenti pronunce della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale. La Cassazione con la sentenza n. 9585/2008 ha ribadito che, le modifiche introdotte con la legge 413/1991 in tema di indagini bancarie trovano «applicazione anche per i periodi di imposta precedenti, per i quali [...] i termini per l’accertamento sono ancora

pendenti, in forza del principio tempus regit actum». La Consulta (ordinanza n. 173/2008), chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’applicazione a periodi di imposta anteriori rispetto alla sua entrata in vigore delle modifiche apportate al sistema delle indagini finanziarie dalla legge 413/1991, ha respinto le censure di incostituzionalità ritenendo che dette novità, esplicano i loro effetti soltanto sul piano istruttorio, di conseguenza, «il contribuente non può subire alcun pregiudizio, rilevante ai fini del giudizio di costituzionalità, in caso di applicazione di detta norma ad anni di imposta anteriori al 1992».


46

GiustiziaTributaria

1 2009

corrispondenti all’Iva assolta dalla ricorrente sui propri acquisti, della quale viene a posteriori riconosciuta la detraibilità dall’Iva e, contestualmente, disconosciuta la deduzione come componente negativo nella determinazione del reddito di impresa; 2) euro 43.106,94 pari ai due terzi dei costi sostenuti nel corso dell’esercizio per l’adeguamento all’euro, che secondo l’ufficio avrebbero dovuto essere considerati costi pluriennali e, pertanto, concorrere alla formazione in negativo del reddito nella misura di 1/3: accerta, di conseguenza, complessivamente un maggior reddito imponibile di euro 135.059,16. c) assume ai fini Irap, gli stessi due rilievi operati in rettifica (in aumento) del reddito di impresa per incrementare il valore della produzione netta e, di conseguenza, accerta un maggior imponibile di euro 7.293,40. La società ricorrente preliminarmente eccepisce l’inammissibilità e l’assoluta invalidità e inefficacia dell’atto impugnato per essere stato emesso in violazione del comma 7 dell’art. 12 della legge 212/2000 che preclude agli uffici la potestà di emanare avvisi di accertamento prima che siano trascorsi 60 giorni dalla consegna al contribuente di copia del Pvc: nel caso di specie la consegna del Pvc è avvenuta in data 28 ottobre 2003 e l’avviso è stato notificato appena 20 giorni dopo e cioè il 17 novembre 2003. [Omissis] I primi giudici, quanto alla questione preliminare, richiamata la sentenza della Cassazione n. 17576 del 10 dicembre 2003, nella quale si ribadisce che le disposizioni dello Statuto del contribuente rappresentano i principi generali dell’ordinamento tributario, nonché la successiva sentenza n. 7080 deI 14 aprile 2004 ove si evidenzia che i principi contenuti nello Statuto hanno un elevato valore ermeneutico vincolante, per cui tali principi costituiscono le regole fondamentali dei particolare ordinamento cui devono attenersi tanto l’amministrazione quanto il legislatore, hanno ritenuto che non possono essere condivise le generiche in merito svolte dall’ufficio, tendenti a sanare il mancato rispetto del termine di 60 giorni stabilito dal comma 7 dell’art. 12 della legge 212/2000 semplicemente rifacendosi alla normativa e alla prassi pre Statuto, le quali, invece, devono adeguarsi allo Statuto. L’Agenzia delle Entrate ha agito in vigenza di un temporaneo ma tassativo divieto a procedere, non sussistendo la circostanza dell’urgenza: non si capisce come l’ufficio, avendo avuto la possibilità durante tutto l’anno 2004 di rinnovare l’atto impugnato, non abbia provveduto con nuova notifica a sanare la situazione di irregolarità. L’atto impugnato affermano i primi giudici, pur se materialmente esistente e nonostante lo Statuto non preveda esplicitamente la sanzione della nullità, dovrà essere considerato inefficace, nel senso che non è idoneo a spiegare gli effetti che gli sono propri, e come tale annullabile. I primi giudici, dopo essersi espressi incidenter tantum sul merito della controversia, hanno, quindi, accolto il ricorso della società [...] con decisione n. 1 del 19 gennaio 2005, avverso la quale ha proposto appello l’ufficio. [Omissis] Il collegio osserva che la controversia consta di una delicata questione di merito, la quale potrà essere o no affrontata solo dopo la soluzione di una altrettanto delicata questione preliminare sollevata dal contribuente in ordine alla interpretazione da dare al comma 7 dell’art. 12 dello Statuto del contribuente, di cui alla legge n. 212/2000. Si evidenzia, innanzitutto, per un esame sistematico della questione preliminare, che le disposizioni dell’art. 12 della legge 212/2000 costituiscono principi generali (parzia1mente innovativi, come ad esempio il comma 7) da osservare nello svolgimento dell’attività istruttoria della verifica fiscale che l’a.f. è chiamata a compiere ai fini dell’accertamento. Si premette a questo riguardo che la legge, com’è noto, non dà una definizione precisa della verifica fiscale, limitandosi ad indi-

viduare i poteri ispettivi di cui gli organi dell’amministrazione finanziaria possono avvalersi per controllare il regolare adempimento delle norme tributarie. Il fondamento normativo primario dei poteri ispettivi è rinvenibile per un verso nell’art. 23 della Costituzione (secondo cui nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge), dal momento che tali poteri impongono al contribuente una prestazione personale concretantesi nell’obbligo di rispondere, di fornire documenti, di consentire perquisizioni; dall’altro nell’art 14, ultimo comma, Cost. il quale stabilisce che le ispezioni ai fini fiscali sono regolate da leggi speciali. La riserva di legge, sia nell’art. 23 che nell’art. 14, utimo comma, Cost., è giustificata dal fatto che i poteri ispettivi fiscali incidono, comprimendoli, diritti fondamentali della persona, come la libertà personale, nonché l’inviolabilità del domicilio, la riservatezza della corrispondenza, la libera esplicazione delle attività economiche, che costituiscono articolazioni del diritto soggettivo dell’uomo alla propria libertà; sicché le leggi devono disciplinare le modalità e i termini per l’esercizio dei poteri di controllo in materia tributaria. E l’ispezione del fisco, come meglio vedremo in seguito, è un’attività istruttoria, avente natura discrezionale, collocata nel più generale procedimento d’imposizione, volta a produrre risultati che assumono valore solo nella misura in cui sono recepiti, nel rispetto dei principi costituzionali sopra richiamati, a fondamento del provvedimento amministrativo conclusivo dell’intera attività dì accertamento. In questo quadro l’art. 12 della legge n. 212/2000 disciplina in particolare, i diritti e le garanzie del contribuente sottoposto a verifica fiscale, la quale è ontologicamente attività preparatoria del futuro provvedimento definitivo di accertamento tributario, e il Pvc di chiusura delle operazioni di verifica è un atto interno al più vasto e complesso procedimento di accertamento, solo al termine del quale viene emesso l’atto impositivo che va ad incidere la posizione giuridica soggettiva del cittadino. È da ritenere che sia stato attribuito un diritto tutte le volte in cui la norma conferisce uno specifico potere al soggetto sottoposto a verifica. «Attribuiscono diritti le disposizioni contenute nei commi 2, 3, 6 e 7, rispettivamente in tema: a) di informazione del contribuente su taluni aspetti che attengono alla verifica; b) di richiesta del contribuente volta ad ottenere che l’ispezione documentale sia effettuata al di fuori dei locali di cui ha la disponibilità, e precisamente nell’ufficio dei verificatori o presso il professionista che lo assiste o rappresenta; c) di possibilità di rivolgersi al garante del contribuente in caso di verifica svolta con modalità non conformi alla legge; d) di comunicazioni e di osservazioni e richieste del contribuente dopo la chiusura delle operazioni di verifica». Le garanzie, invece, comportano restrizioni all’esercizio dei poteri istruttori da parte degli organi di controllo. «I limiti all’area di operatività di tali organi, in sede di verifica fiscale, costituiscono altrettante garanzie per il contribuente circa il rispetto del principio del buon andamento della p.a. di cui all’art. 97 della Costituzione e delle esigenze di equilibrio degli interessi dell’organo di controllo e del soggetto verificato nel contesto di un rapporto tra soggetto attivo e soggetto passivo della obbligazione tributaria improntato al principio della collaborazione e della buone fede ex art. 10 dello Statuto. Tali limitazioni trovano la loro disciplina nei commi 1, 4 e 5 dell’art. 12 e attengono alle esigenze che giustificano la verifica, alle modalità e ai tempi di svolgimento della stessa nonché alla redazione del processo verbale delle operazioni di verifica». L’attività istruttoria degli uffici impositori è direttamente strumentale alla emissione dell’atto finale del procedimento amministrativo di accertamento, e tale strumentalità pone il problema della refluenza della violazione delle disposizioni dell’art. 12 sul-


Accertamento 1 2009 47

la validità dell’avviso di accertamento che dovesse fondarsi sul risultato della verifica fiscale. Ebbene, se le disposizioni dell’art. 12 dello Statuto del contribuente non prevedono espressamente, come nel nostro caso, la sanzione della nullità, ciò non significa sic et simpliciter che la violazione non sia produttiva di conseguenze negative con riguardo all’atto di accertamento. «Sarà compito dell’interprete chiedersi se la violazione sia suscettibile o meno di produrre effetti sull’atto finale del procedimento di accertamento, quali siano tali effetti e quali forme di tutela l’ordinamento appronti al contribuente». Si pensi ad esempio alla cartella di pagamento che non indichi il nome del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione. Questa cartella è nulla in base ai principi generali dell’ordinamento, senza bisogno di una norma specifica che commini una tale nullità: per convincersene basta leggere l’art. 4-ter del decreto legge 31 dicembre 2007 n. 248, convertito nella legge 28 febbraio 2008 n. 31, dal quale emerge chiaramente come che il legislatore sia stato costretto a sancire, per tirar fuori l’amministrazione dai guai in cui si era cacciata, che la mancata indicazione del responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati prima del 1 giugno 2008 “non è causa di nullità” delle stesse. «Mentre normalmente – si dice da parte di autorevole dottrina – le norme fiscali impongono, nell’interesse pubblico generale, obblighi a carico del contribuente, la cui violazione è punita con l’irrogazione di sanzioni, le disposizioni dello Statuto, e in particolare quelle contenute nell’art. 12, impongono, nell’interesse del contribuente, precisi comportamenti a carico dell’ufficio impositore con la conseguente possibilità per il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, in caso di violazione, di rivolgersi al giudice affinché sanzioni l’operato della amministrazione finanziaria». Ora, il comma 7 dell’art. 12 chiude la categoria dei diritti del contribuente sottoposto a verifica fiscale, attribuendo al soggetto verificato il diritto di comunicare all’ufficio impositore osservazioni e richieste entro 60 giorni dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura dell’attività di verifica. La norma prevede, in aggiunta a ben noti istituti, come quello della procedura di accertamento con adesione, «una ulteriore forma di contraddittorio necessario nella fase istruttoria che precede la conclusione del procedimento di accertamento»: un contraddittorio “differito” (rispetto alla verifica) o “anticipato” (rispetto all’emissione dell’atto finale), un contraddittorio, per così dire, “preventivo” da svolgere subito dopo il Pvc e prima della emissione dell’atto di accertamento, e cioè prima che sopravvenga il provvedimento che va ad incidere la posizione giuridica soggettiva del contribuente, il quale ha il diritto (soggettivo) di formulare osservazioni sulla verifica, che, se violato, va in una qualche forma risarcito o reintegrato. Ragion per cui la norma stabilisce che l’ufficio impositore, prima della scadenza del termine di 60 giorni concesso al contribuente per presentare osservazioni e richieste, non può emettere “l’avviso di accertamento”. Se il comma 4 dell’art. 12 dello Statuto attribuisce al contribuente la garanzia che le osservazioni da lui fatte in corso di verifica siano verbalizzate, senza che ciò vada a limitare l’opera dei verificatori, i quali sono solamente tenuti ad annotare nei processi verbali giornalieri e in quello finale di chiusura i rilievi tecnico-fiscali mossi dal verificato, non v’è dubbio che il comma 7 dell’art. 12 ha avvertito la necessità di introdurre, con norma di rango primario, una vera e propria fase di contraddittorie post verifica, espressione del principio di collaborazione come codificato nel precedente art 10. Il contraddittorio post verifica reso dalla nonna obbligatorio per l’amministrazione, qualora il contribuente lo instauri, e che costituisce una delle maggiori novità endoprocedimentali, della complessa operazione di accertamento, in favore del contribuente, assume valenza in condIzione di procedibilità per la successi-

va emanazione dell’atto impositivo finale che va ad incidere sulla sfera patrimoniale del contribuente. Consegue che l’inosservanza da parte dell’amministrazione del termine dei 60 giorni, riservati obbligatoriamente all’esercizio del diritto di contraddittorio che il verificato volesse instaurare in una fase precontenziosa, cioè pregiurisdizionale, non può andare esente da sanzione perché il comportamento dell’amministrazione viola direttamente non solo il comma 7 dell’art. 12 della legge 212/2000, che il legislatore ha qualificato come attuativa di principi costituzionali, attribuendo ad essa particolare autorevolezza specie con riferimento all’ampliamento dei diritti fondamentali di partecipazione del cittadino-contribuente, ma anche la stessa norma costituzionale sul diritto al contraddittorio: il contraddittorio pregiurisdizionale post verifica discende direttamente dagli artt. 97 e 24 della Costituzione che, come ogni altra norma costituzionale non puramente programmatica, il giudice di merito è tenuto a far rispettare e la cui violazione non può essere considerata, in mancanza di una specifica norma di legge ordinaria che ne commini la sanzione, tamquam non esset. Il comma 7 dell’art. 12 dello Statuto attribuisce al cittadino-contribuente il diritto di comunicare all’ufficio accertatore osservazioni e richieste in ordine alla verifica svolta, da esercitare entro 60 giorni dalla notifica del processo verbale di constatazione, cui corrisponde l’obbligo dell’amministrazione di valutare i rilievi così formulati, anche, se del caso, facendo ritornare, nella sede del soggetto controllato, i verificatori per esaminare le osservazioni presentate e le richieste avanzate dal contribuente l’ufficio accertatore non può violare questo suo obbligo strumentale alla soddisfazione di un diritto soggettivo del contribuente a mezzo della instaurazione del contraddittorio post verifica, senza conculcare lo stesso diritto del contribuente, la cui violazione non può rimanere senza esito sanzionatorio. La violazione dello specifico diritto del contribuente deve necessariamente produrre una conseguenza negativa per l’amministrazione autrice del fatto “illecito”, che si estrinseca nella nullità dell’avviso di accertamento emesso contra ius, e cioè, nel caso di specie, appena 20 giorni dopo la notifica del processo verbale di chiusura delle operazioni di verifica. Il comma 7 dell’art. 12 delle legge 212/2000 Impone agli uffici accertatori un temporaneo, ma tassativo, divieto a procedere al fine di garantire al contribuente il diritto di partecipare all’accertamento tributario, attraverso l’instaurazione del contraddittorio post verifica, disponendo, per il rispetto del divieto, una temporanea sospensione del potere impositivo. La conseguenza della violazione della norma da parte dell’ufficio è l’illiceità dèl comportamento della p.a. e l’invalidità dell’atto di accertamento per carenza di potere, che non consente all’autorità investita (in via ordinaria del potere impositivo) di esprimere un atto giuridicamente valido: di qui la nullità dell’atto emanato contra ius. Si verifica, quindi, l’ipotesi della cd. carenza di potere in concreto, nel senso che il potere di fatto esercitato dalla a.f. effettivamente risulta da un punto di vista normativo attribuito alla stessa, ma il suo esercizio è stato effettuato in difetto dei particolari presupposti e circostanze previsti dalla norma del comma 7 dell’art. 12, e cioè è stato esercitato in presenza di difetti radicali che rendono nullo l’atto emesso in violazione della detta norma. Si esprime, in buona sostanza, lo stesso concetto sopra formulato dicendo che il comma 7 dell’art. 12 legge 212/2000 vincola l’amministrazione ad un comportamento fattuale di temporanea inattività accertativa, nel quale il contribuente confida ope legis e la cui omissione giustifica tout court l’inesigibilità della prestazione tributaria. Giova qui ricordare che, con riferimento alla rideterminazione dei ricavi d’impresa utilizzando gli studi di settore, l’orientamento della Suprema Corte è nel senso che gli studi di settore previsti dal-


48

GiustiziaTributaria

1 2009

l’art. 62-bis del D.L. 30 agosto 1993, data la natura di atti amministrativi generali di organizzazione, non possono essere considerati sufficienti perché l’ufficio operi l’accertamento di un rapporto tributario di specie ultima, senza che l’attività istruttoria amministrativa sia completata nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, cioè consentendo al contribuente, ai sensi del comma 7 dell’art. 12 dello Statuto, di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di essere costretto ad adire il giudice tributario, al fine di vincere la mera praesumptio hominis costituita dagli studi di settore: di qui l’illegittimità di un accertamento in rettifica che prescinda dal processo verbale di constatazione (Cass. n. 13995 del 27 settembre 2002, n. 9946 del 23 giugno 2003, n. 9135 del 3 maggio 2005, n. 17229 del 28 luglio 2006). In altri termini, dalle citate sentenze si può dedurre che l’orientamento della Cassazione è nel senso che nella fase procedimentale amministrativa, che va dalla presentazione della dichiarazione tributaria all’emissione dell’avviso di accertamento allo spirare del “termine a difesa” stabilito dal comma 7 dell’art. 12 succitato, deve garantirsi lo svolgimento del contraddittorio post verifica, consentendo al contribuente di intervenire a “dire la sua” già prima di adire, eventualmente, il giudice tributario. Diventa, allora, inconferente il richiamo operato dall’ufficio appellante alla sentenza n. 12070 del 1 luglio 2004 della Cassazione che, con riferimento alla mancata previsione di sanzione nella ipotesi del secondo comma dell’art. 7 dello Statuto, riguardante l’obbligo della indicazione negli atti tributari impugnabili dell’organo giurisdizionale cui poter ricorrere, ha affermato che, in tale fattispecie, si deve dedurre la volontà del legislatore di non assegnare a tale specifico vizio la capacità di produrre la nullità dell’atto. Come inconferente è anche la evocata sentenza della Cassazione n. 8344 del 19 giugno 2001, la quale, soffermandosi sul quinto comma dell’art. 12 in questione, ha affermato che «la violazione delle regole dell’accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria l’inutilizzabilità degli elementi acquisiti», in mancanza di una specifica previsione in tal senso: questa sentenza è stata superata dalla successiva, resa a sezioni unite, n. 16424/2002, in base alla quale «la inutilizzabilità (delle prove reperite mediante perquisizione illegittima) non abbisogna di una espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola». Ma c’è anche di più. L’atto emesso in violazione del comma 7 dell’art. 12 della legge 212/2000 non solo è nullo ma è anche giuridicamente inesistente. Emerge dalle norme che il provvedimento conclusivo del procedimento d’imposizione, cioè l’atto di accertamento, si configura come l’atto finale di una fattispecie complessa, a formazione successiva, composta: a) da una fase endoprocedimentale preliminare direttamente strumentale alla decisione finale, che è la verifica fiscale, col relativo atto conclusivo rappresentato dal Pvc; b) da una fase endoprocedimentale intermedia, che è la pausa operativa. ex art. 12 legge 212/2000, di 60 giorni concessi al contribuente per l’esercizio del suo diritto, sintonizzato con i principi espressi dagli artt. 23 e 14 della Costituzione, alla instaurazione di un contraddittorio post verifica con l’a.f., durante la quale c’è sospensione del potere accertativo; c) dalla fase conclusiva del procedimento durante la quale si ha l’emanazione dell’atto finale di accertamento: quest’ultimo viene ad esistenza giuridica solamente dopo il compimento di tutte le sue varie fasi costitutive. Qui non si tratta di vizi del procedimento che ha preceduto l’atto di accertamento, vizi riguardanti la legittimità dell’atto stesso, ma si tratta della nullità/inesistenza dell’atto finale perché non realizzato nei suoi elementi essenziali e costitutivi per incompletezza della fattispecie: la sopravvenuta norma dell’art. 21-septies della legge 11 febbraio 2005 n. 15 di riforma della legge fondamentale sul procedimento amministrativo n. 241/1990, (la cui

applicazione peraltro è esclusa nel caso di specie avendo l’amministrazione definito l’atto impugnato in vigenza della precedente disciplina), sancisce la nullità/inesistenza del provvedimento amministrativo che manchi deg1i elementi essenziali necessari ex lege per la sua giuridica esistenza, tra i quali devesi, a parere di questo Collegio, far rientrare la completezza della fattispecie, anche perché, come afferma autorevole dottrina, il legislatore, canonizzando la nullità dell’atto, non ha chiarito quali siano, poi, questi elementi essenziali. Secondo giurisprudenza consolidata il provvedimento amministrativo può considerarsi assolutamente nullo o inesistente, tra l’altro, ove manchi dei connotati essenziali dell’atto amministrativo necessari ex lege a costituirlo, quali possono essere la radicale carenza di potere da parte dell’autorità procedente, ovvero il difetto di forma, della volontà e dell’oggetto, mentre non può parlarsi di inesistenza dell’atto allorché si discuta unicamente dei vizi del procedimento che lo ha preceduto, in ciò risolvendosi la mancata corrispondenza del concreto procedimento, e cioè delle modalità di esercizio del potere da parte dell’amministrazione, al relativo paradigma normativo (ex multis Cons. di Stato n. 948/1999, e da ultimo Cons. di Stato n. 6023/2005). Ora sotto il profilo che si sta esaminando si verifica l’ipotesi della cd. carenza di potere in astratto, nel senso che non può dirsi venuto ad esistenza alcun provvedimento fiscale perché nessun potere può dirsi esercitato, nemmeno di fatto: qui non ci troviamo di fronte ad un potere di fatto scorrettamente esercitato, ma di fronte all’inesistenza di qualsiasi potere accertativo in capo all’amministrazione, per aver questa emanato un avviso di accertamento in violazione di norme di relazione attributive del potere impositivo, in violazione cioè di norme come quella del comma 7 dell’art. 12 dello Statuto, il quale nel momento stesso in cui dispone la sospensione del potere di accertamento lo riattribuisce scaduto il termine dei 60 giorni, configurandosi sotto questo aspetto norma di relazione attributiva del potere impositivo, e, con ciò, in violazione di norme come quelle degli articoli 39 e 40 del D.P.R. 600/1973, che conferiscono all’a.f. il potere di accertamento in rettifica delle dichiarazioni Irpeg, e dell’art. 54 del D.P.R. 633/1972 che conferisce all’ufficio il potere di rettifica delle dichiarazioni annuali Iva. Questa situazione è ben diversa da quella, avanti esaminata, che si verifica nell’ipotesi di violazione di norme di azione che disciplinano le modalità dell’esercizio del potere in concreto, nel qual caso il potere non manca totalmente e l’atto emanato è semplicemente nullo e non anche inesistente. In buona sostanza il comma 7 dell’art. 12 della legge 212/2000 (fermo restando che, considerato con riguardo al contribuente, conferisce a questi un diritto soggettivo di partecipazione all’accertamento attraverso l’instaurazione del contraddittorio “preventivo”) viene in gioco, nei riguardi dell’amministrazione finanziaria, sotto due diversi profili: 1) sotto un primo aspetto rileva come norma di azione che disciplina le modalità di esercizio del potere in concreto, e la sua violazione produce la nullità dell’avviso di accertamento invalidamente emesso; 2) sotto un secondo aspetto rileva come norma di relazione attributiva di poteri e facoltà all’a.f., e la sua violazione produce nullità radicale, o inesistenza, dell’atto emesso in assenza di potere. La p.a., che in concreto deve agire in vista del perseguimento dell’interesse pubblico, il quale costituisce la ragione stessa dell’attribuzione del potere, in teoria potrebbe essere lasciata “libera” di scegliere le modalità di azione ritenute più consone nei singoli casi: tuttavia così non avviene perché alla bisogna sovvengono le cd norme di azione che disciplinano l’attività amministrativa e si distinguono dalle norme di relazione che, invece, risolvono conflitti intersoggettivi sul piano dell’ordinamento generale o conferiscono poteri e facoltà alla p.a. Si conclude dicendo che se per un verso l’avviso di accertamen-


Accertamento 1 2009 49

to, quando non reca la sottoscrizione, la motivazione, l’indicazione degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e delle imposte liquidate, è nullo, ai sensi art. 42 D.P.R. 600/1973, perché contiene vizi che ineriscono alla sua funzione obiettivo, che è quella della esatta determinazione dell’an e del quantum dell’obbligazione tributaria, per altro verso l’avviso di accertamento, quale atto conclusivo del complesso procedimento di accertamento, in cui sono espresse le risultanze di fatto e di diritto dell’intera istruttoria, quando non siano stati realizzati tutti i suoi elementi strutturali costitutivi, è da ritenersi radicalmente nullo o inesistente: nel caso di specie, non si è realizzata la fase sospensiva dell’attività accertativa e, quindi, non si è potuto instaurare il contraddittorio post verifica ex comma 7 dell’art. 12 dello

Statuto del contribuente, con conseguente lesione di un diritto fondamentale del contribuente. Sicché, in definitiva, l’atto di accertamento può dirsi giuridicamente esistente e legittimamente emanato solo se posto in essere dopo lo spirare del termine di cui al comma 7 dell’art. 12 dello Statuto. Alla luce delle suesposte considerazioni il Collegio ritenuta fondata, come sollevata dal contribuente, la questione preliminare, che assorbe le questioni di merito, in ordine alle quali ogni argomentazione diventa, pertanto, ultronea, la accoglie e rigetta l’appello dell’ufficio, confermando l’impugnata decisione. Data la novità della materia e la complessità interpretativa della normativa afferente si compensano le spese di lite.

I Nota di Alessandra Magliaro

L’atto di accertamento, dunque, viene ad esistenza giuridica solamente dopo il compimento di tutte le sue varie fasi costitutive. Il vizio relativo alla fase endoprocedimentale intermedia – così come definita dalla Commissione triestina – non integra un vizio del procedimento con conseguente illegittimità dell’atto finale, ma determina un vizio più grave, ovvero l’inesistenza dell’atto stesso, in quanto non realizzato nei suoi elementi essenziali e costitutivi per incompletezza della fattispecie. Queste considerazioni della Commissione meritano, a nostro parere, una riflessione relativamente al complesso rapporto fra valore delle norme contenute nello Statuto del contribuente, invalidità degli atti tributari e nuovo regime dei vizi del provvedimento amministrativo.

Premessa La sentenza della Commissione regionale del Friuli Venezia Giulia1 si inserisce nel filone delle decisioni ormai sempre più frequenti in tema di articolo 12 dello Statuto del contribuente; in particolare sulle conseguenze del mancato rispetto del termine di 60 giorni fra processo verbale di chiusura delle operazioni di verifica fiscale e notificazione dell’avviso di accertamento. Tale norma, al comma 7, stabilisce che «nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro 60 giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza». I giudici triestini con un’articolata e interessante motivazione giungono alla conclusione che l’avviso di accertamento emesso in violazione del termine previsto dal comma 7 dell’articolo 12 dello Statuto è illegittimo. Ma la sentenza non si arresta qui: i giudici danno una lettura della norma anche alla luce delle modifiche apportate dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15 alla normativa sul provvedimento amministrativo (nonostante nel caso di specie ne fosse esclusa l’applicazione avendo l’amministrazione definito l’atto impugnato in vigenza della precedente disciplina). E così la Commissione giunge ad affermare che l’atto emesso in violazione del comma 7 dell’art. 12 è giuridicamente inesistente in quanto emesso in carenza di potere e dunque mancante dei connotati essenziali dell’atto amministrativo necessario per legge a costituirlo. Infatti, ragionano i giudici, l’atto di accertamento si configura come l’atto finale di una fattispecie complessa composta da una fase endoprocedimentale preliminare consistente nella verifica fiscale; da una fase endoprocedimentale intermedia consistente nei sessanta giorni concessi al contribuente per effettuare osservazioni e richieste; dalla fase conclusiva che si estrinseca nell’emanazione dell’atto finale di accertamento.

1 Si veda la decisione di primo grado Comm. trib. prov. Pordenone, 19 gennaio 2005, n.1 in Riv. Giur. Trib., 2005, 483, commentata da CASTELLI, L’avviso di accertamento emanato prima dei 60 giorni dal rilascio del Pvc e il regime Iva delle prestazioni proprie delle società di factoring. 2 Si pensi a titolo di esempio all’ipotesi di accertamenti sulla base dei coefficienti presuntivi e alle indagini bancarie.

L’articolo 12 dello Statuto del contribuente nelle riflessioni di dottrina e giurisprudenza L’articolo 12 dello Statuto del contribuente è certamente norma di peculiare rilievo all’interno di questo corpo normativo. E invero, stabilendo diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali interviene in un segmento particolarmente delicato del rapporto fisco contribuente. È questo sicuramente un ambito nel quale l’invasività dei poteri dell’amministrazione tributaria, comparabili solo a quelli previsti nel codice processuale penale, ha reso necessario un bilanciamento di tutele in capo al contribuente. È con l’art. 12, infatti, che vengono regolamentati gli accessi e le verifiche con particolare riguardo alla durata e alle modalità degli stessi. Ma lo Statuto del contribuente compie un passo ulteriore si propone infatti di attuare la partecipazione del contribuente proprio in questa delicata fase. In questo senso si deve leggere il quarto comma che prevede la formalizzazione delle osservazioni e dei rilievi del contribuente all’interno del processo verbale e soprattutto il comma 7 di cui precipuamente ci si occupa. Mentre prima dell’emanazione dello Statuto il contraddittorio durante lo svolgimento delle indagini era più da considerarsi una facoltà che non un obbligo,salvo particolari ipotesi2, oggi la presenza di una disposizione di carattere generale come quella contenuta nell’ultimo comma dell’articolo 12 fa capire come sia avvenuta un’inversione di tendenza3.

3 Parla di rafforzamento della partecipazione del contribuente all’accertamento sia in chiave difensiva, sia in chiave collaborativa con l’Amministrazione finanziaria FERLAZZO NATOLI, La tutela del contribuente nel procedimento istruttorio (tra conventio ad excludendum e eguaglianza costituzionale), in Dir. e Prat. Trib., 2006, I, 584. Altro autore (VIOTTO, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria nel quadro dei

diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002, 323) sostiene che l’art. 12 «rappresenta una sintesi equilibrata dei diversi interessi coinvolti nel momento di esercizio dei poteri di accertamento nella prospettiva di una rafforzamento delle istanze garantistiche quali si esprimono nella esigenza che la funzione impositiva si svolga sempre più in aderenza alla direttiva tracciata dal principio di capacità contributiva, dai canoni


50

GiustiziaTributaria

1 2009

È stata, infatti, acutamente sottolineata la peculiarità di tale disposizione: mentre di norma le leggi fiscali impongono obblighi a carico del contribuente sanzionabili in caso di inadempienza, le norme dello Statuto e precipuamente l’articolo 12 impongono nell’interesse del contribuente precisi comportamenti a carico dell’ufficio con la conseguente possibilità per il soggetto passivo in caso di violazione di adire il giudice per l’opportuna tutela4. In questo quadro di riferimento e nella considerazione espressa dalla Corte di Cassazione secondo la quale le disposizioni dell’art. 12 contengono «principi generali del diritto, dell’azione amministrativa e dell’ordinamento particolare tributario»5, sembra a chi scrive che la mancanza di una espressa nullità6 dei provvedimenti emessi in violazione del precetto statutario non abbia particolare rilievo. E invero sembra piuttosto che con la mancata espressa conseguenza invalidante, pur ipotizzata nel dibattito parlamentare all’epoca dell’emanazione dello Statuto, non si siano volute aprioristicamente e senza valutazione del caso specifico, attribuire conseguenze predeterminate, optando piuttosto per un esame della singola fattispecie ad opera del giudice7. Nel rinviare al prossimo paragrafo le riflessioni relative al tipo di conseguenza che deriva all’atto di accertamento che non abbia rispettato il dettato del comma 7 dell’articolo 12, preme ora indagare quali possano essere i casi di particolare urgenza che legittimano l’emanazione dell’avviso prima del decorso di sessanta giorni dal processo verbale di constatazione.

4

5 6

7

8

di ragionevolezza e dal diritto di difesa». PISANI (La tutela del contribuente sottoposto a verifica fiscale, in Corr. Trib., 2002, 2963) inserisce la disposizione fra quelle che negli ultimi anni hanno caratterizzato un recupero del dialogo fra amministrazione e contribuente quali ad esempio le istanze di autotutela o le comunicazioni previste dagli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. 600 del 1973. Di esaltazione dell’istituto del contraddittorio quale unico vero strumento giuridico per assicurare una partecipazione reale e fattiva alle parti nell’ambito del procedimento di accertamento parla CAPOLUPO, Accertamento:verifica e deduzioni del contribuente, Fisco, 2007, 5410. Così SAMMARTINO, I diritti del contribuente nella fase delle verifiche fiscali, in MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2004, 128. Cass., 10 dicembre 2002, n. 17576. Si preferisce parlare di nullità piuttosto che di inesistenza, come sembra preferire la Commissione, per restare più aderenti al dettato normativo della legge sul procedimento amministrativo 7 agosto 1990, n. 241 (come modificata dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15). Il precetto contenuto nel comma 7 dell’articolo 12 dello Statuto va inteso nel senso che fino al decorso del sessantesimo giorno esiste una barriera preclusiva all’emissione dell’atto secondo MARONGIU (Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino 2008, 162). Se il legislatore prevede il contraddittorio, continua l’autore, il suo mancato rispetto comporta la nullità del successivo atto di accertamento. In tal senso ad esempio ANTICO-FUSCONI, Ancora sull’accertamento emesso dopo il verbale ma prima della scadenza del termine per le osservazioni del contribuente ex art. 12 dello Statuto, in Dialoghi Dir. Trib., 2006, 1183; CAPOLUPO, Accertamento, cit., 5410.

È opportuno in prima battuta prendere le distanze da chi legittima tale comportamento in caso sussistano pericoli di perdita del credito erariale8. Ed invero in questo caso ben più efficace dell’immediata notificazione dell’avviso di accertamento sembra essere la possibilità di iscrivere ipoteca o sequestro conservativo sui beni del contribuente ai sensi dell’art. 22 del D.Lgs. 472 del 19979. Non sembra neppure che l’approssimarsi del termine di decadenza per l’amministrazione finanziaria possa essere argomento inconfutabile per la compressione del termine previsto all’articolo 1210. Se così fosse sembrerebbe svilito il senso di questa importante disposizione dello Statuto, restando ancorata all’organizzazione dell’amministrazione finanziaria la possibilità per il contribuente di porre in essere una attività difensiva statutariamente riconosciuta11. Con questo si vuole prendere le distanze da chi afferma che lo spirare dei termini di decadenza costituisce sic et simpliciter un caso di particolare urgenza, ma non si vuole negare che talvolta ed in particolari circostanze anche l’approssimarsi di questi termini possa costituire una fattispecie derogatoria. Potrebbe essere il caso, ad esempio, in cui a seguito di un controllo incrociato siano emerse circostanze a carico di un terzo successivamente sottoposto a verifica in prossimità del termine di decadenza per l’emanazione dell’atto di accertamento. Orbene se tale peculiare situazione, correttamente motivata12, necessiti un restringimento del termine di sessanta giorni previsto per le considerazioni difensive del contribuente, potrebbe ipotizzarsi proprio uno di quei

9 È infatti la stessa amministrazione (Ag. Entrate, circ. 6 luglio 2001) che estende la possibilità di iscrivere ipoteca sulla base del processo verbale non solo su quanto dovuto a titolo di sanzione, ma anche sull’imposta evasa. Di diverso avviso, ma solo con riferimento alle ipotesi disciplinate dall’art 22 del D.Lgs 18 dicembre 1997, n. 472 e non con riguardo all’ipoteca disciplinata dal D.P.R. 602/1973, invece DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in questa rivista, 2007, 3, 427, il quale ritiene che ipoteca e sequestro conservativo possono essere richiesti solo a garanzia delle sanzioni pecuniarie. 10 Sono invece propensi a riconoscere la particolare urgenza allo scadere del termine per l’accertamento ANTICO-FUSCONI, Ancora, cit., 1180, che in questo caso ritengono inutile alcuna esplicita menzione essendo l’urgenza in re ipsa e non necessitando di ulteriori spiegazioni; SAMMARTINO, op. cit., 136. 11 A questo proposito si segnala in primis una circolare della Guardia di Finanza (n. 250400 del 17 agosto 2000) che, in previsione della disposizione in esame, prescrive la conclusione dell’ispezione relativa ai periodi di imposta in decadenza con almeno quattro mesi di anticipo. Successivamente anche l’Agenzia delle entrate ha emanato due circolari (n. 72 del 14 agosto 2002 e n. 42 del 24 luglio 2003 entrambe in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big) nelle quali ha riconosciuto dapprima l’esigenza di evitare di concentrare l’attività di controllo nell’ultimo periodo dell’anno, in special modo con riguardo alle annualità per le quali è prevista la decadenza del potere di accertamento. Nella seconda circolare l’agenzia invita gli uffici a tener conto – in sede di effettuazione dei controlli – del disposto dell’articolo 12, comma 7 della legge 212/2000, salvo casi di particolare e motivata urgenza.

Anche la giurisprudenza di merito sembra propensa a non riconoscere a priori la particolare urgenza al sopraggiungere del termine di decadenza. In tal senso Comm. trib. prov. Brescia 2 marzo 2002, n. 12; Comm. trib. prov. Treviso, 28 febbraio 2005, n. 7 (tutte in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big); Comm. trib. prov. Cosenza, 5 gennaio 2006, n. 158, in Boll. Trib., 2006, 1054; Comm. trib. prov. Treviso, 9 marzo 2005, n. 14, ivi; Comm. trib. prov. Genova, 23 febbraio 2006, n. 15, in questa rivista, 2005, 799, con commento di DOMINICI, Le osservazioni del contribuente dopo la chiusura della verifica. Convince sul punto il ragionamento di RENDA, L’art. 12 dello Statuto del contribuente e l’auspicata cristallizzazione del principio del contraddittorio anticipato, in questa rivista, 2007, 2, 237, laddove sottolinea come la circostanza che impedisce il rispetto del termine di sessanta giorni deve risultare equidistante dalle parti coinvolte nell’esercizio del potere impositivo. Contrario alla compressione del termine solo a cagione dell’approssimarsi del termine di decadenza anche DOMINICI, Le osservazioni, cit., 799. Se l’accertamento anticipato fosse giustificato dalla sola necessità di evitare la decadenza tutto l’impianto normativo sarebbe compromesso e rimesso al libero libito delle autorità verificatrici e accertatrici scrive MARONGIU, Lo Statuto, cit.,164. Essendo il comma 7 dell’articolo 12, prosegue l’autore, attuazione del principio di collaborazione, di partecipazione e di buona fede, questo diritto non può essere compromesso da una cattiva pianificazione dei tempi di intervento delle autorità fiscali. 12 Sottolinea la necessità di una accurata e dettagliata motivazione D’AGOSTINO, Il contraddittorio anticipato ex art. 12 dello Statuto del contribuente, in questa rivistra, 2008, 481.


Accertamento 1 2009 51

casi di particolare urgenza richiesti dalla norma13. Scorrendo la giurisprudenza delle commissioni tributarie si ha la sensazione che molto spesso gli uffici contravvengano al dettato dell’ultimo comma dell’articolo 12 dello Statuto e non rispettino il termine di sessanta giorni fra verbale di chiusura delle operazioni di verifica e atto di accertamento. Questo atteggiamento si può forse spiegare da un lato con una prassi degli uffici precedente all’emanazione dello Statuto e non modificata nonostante l’avvento della legge 212 del 2000, nella considerazione che il comma 7 dell’articolo 12 fosse norma non assistita da sanzione. D’altro lato, di frequente, gli uffici si trovano a violare il disposto della norma perché prossimi ai termini di decadenza per la notifica dell’avviso di accertamento. I giudici tributari sembrano per lo più orientati a considerare il mancato rispetto dei sessanta giorni, stabilito dall’articolo 12, motivo di illegittimità dell’accertamento perché «la ratio della disposizione risiede nella volontà del legislatore di concedere l’equo termine di sessanta giorni all’ufficio accertatore per porre in essere le proprie autonome attività istruttorie ed al contribuente per predisporre un’adeguata difesa»14. O ancora «il termine costituisce un vero e proprio spatium deliberandi quale condizione di procedibilità dell’azione della finanza la cui violazione importa la nullità dell’atto»15. La Commissione tributaria provinciale di Genova16, dopo aver ribadito che la norma ha come finalità la sospensione dell’attività di accertamento al fine di consentire al contribuente di raccogliere elementi probatori a sostegno delle proprie ragioni e agli uffici di leggere in chiave critica il processo verbale di constatazione redatto dai verificatori, osserva che «il mancato rispetto del termine [...] deve ritenersi nullo e non sanabile in quanto emesso in violazione alla norma relativa al potere di emanare l’atto». Di diritto per il contribuente all’utilizzo dello spatium deliberandi concesso dalla legge parla la Commissione regionale del Lazio17 che ne fa derivare come conseguenza «la nullità dell’atto per carenza relativa al potere esercitato» all’avviso emanato anteriormente allo spirare del termine previsto per il contradditorio. Di nullità per carenza di potere si parla anche nella sentenza della Commissione regionale del Molise, nella considerazione che la ratio della norma è «quella di sospendere, in una fase introduttiva del rapporto tributario, l’attività di accertamento per un periodo di sessanta giorni, al fine di consentire al contribuente la raccolta di elementi probatori da produrre a sostegno delle proprie ragioni o, nel caso contrario, di riconoscere le proprie mancanze e all’organo accertatore la lettura, in chiave critica, del Pvc redatto dai verifica-

13 Ancora RENDA, op. cit., ravvisa l’urgenza ad esempio in comportamenti fraudolenti posti in essere dal contribuente o in presenza di eventi naturali imprevedibili. 14 Comm. trib. prov. Brescia, 2 marzo 2002, n. 12. 15 Comm. trib. prov. Siracusa, 20 aprile 2005, n. 68, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 16 Comm. trib. prov. Genova, 23 febbraio 2006, n. 15, in questa rivista 2005, 799, con commento di DOMINICI, Le osservazioni del contribuente dopo la chiusura della verifica. 17 Comm. trib. reg. Lazio, 13 settembre 2007, n. 197. 18 Comm. trib. reg. Molise, 24 gennaio 2008, n. 25, in questa rivista 2008, 478. 19 Comm. trib. reg. Lazio, 20 febbraio 2008, n. 198. 20 Comm. trib. reg. Lazio, 7 aprile 2005, n. 55; Comm. trib. prov. Pordenone, 28 settembre 2005, n. 61; Comm. trib. prov. Roma, 27 no-

tori e, se del caso, provvedere ad integrare il relativo atto di accertamento in relazione a specifici e ulteriori elementi istruttori forniti dal soggetto verificato valutati autonomamente dall’ufficio»18. Di illegittimità dell’atto parla ancora la Commissione regionale del Lazio in un’ancora più recente sentenza del 200819. Non mancano naturalmente decisioni che non ritengono la violazione dell’articolo 12, comma 7, dello Statuto foriera di illegittimità per il successivo avviso di accertamento. Il ragionamento prevalente in queste sentenze20 si basa sulla mancanza di una espressa sanzione di illegittimità nel caso di inosservanza del termine di sessanta giorni fra processo verbale e atto di accertamento. Effetti del nuovo regime dei vizi dei provvedimenti amministrativo sulla disposizione statutaria Dopo aver ricordato le posizioni di dottrina e giurisprudenza sul valore da attribuire al comma 7 dell’articolo 12, occorre ora cercare di rispondere alla domanda certamente più interessante, relativa alle conseguenze da collegare al mancato rispetto del termine di sospensione nell’emanazione dell’atto di accertamento. Come già accennato in precedenza non si è dell’opinione che la mancata espressa previsione della sanzione della nullità sia particolarmente significativa; sembra anzi che sia stata volontà del legislatore statutario non prevedere aprioristicamente conseguenze invalidanti precise, ma lasciare all’interprete – precipuamente al giudice tributario in caso di contestazione – la decisione su quali forme di tutela l’ordinamento possa offrire al contribuente. La Commissione ricostruisce la fattispecie, in un primo tempo, come illegittima per carenza di potere. L’amministrazione finanziaria, ragionano i giudici, esercita un potere – quello di accertamento – che certamente gli appartiene, ma il suo esercizio in concreto è stato effettuato in difetto dei particolari presupposti e circostanze previsti dalla norma e quindi è stato esercitato in presenza di difetti radicali che rendono nullo l’atto emesso in violazione del comma 7 dell’articolo 12. Il ragionamento della Commissione appare sul punto convincente21. Probabilmente, però, sembra a chi scrive più opportuno parlare di annullabilità piuttosto che di nullità22 ma nel diritto tributario fino al 2005 il mancato rigore terminologico sul punto non sembrava foriero di particolari conseguenze23. Ed invero fino alle modifiche apportate alla legge sul procedimento amministrativo dalla L. 15 del 2005, tranne casi peculiari di difetto assoluto di attribuzione (nell’ipotesi di scuola l’avviso di accertamento emanato dal provveditore agli studi) per i quali si parlava di inesistenza dell’atto, la conseguenza tipica degli atti tributari illegittimi era certamente l’annullabilità24.

vembre 2006, n. 181, in questa rivista, 2007, 235. 21 Di contrario avviso sul punto SIBELJA, Vizio dell’accertamento e valutazione complessiva del comportamento delle parti, infra, 54 ss., a commento di questa stessa sentenza, il quale ritiene che non si possa parlare di carenza di potere in concreto dal momento che il termine dilatorio previsto al comma 7 dell’articolo 12 non comporta la consumazione del potere amministrativo e quindi non si verifica alcuna decadenza della pubblica amministrazione. 22 Sulla distinzione tra carenza di potere in assoluto e in concreto e sulle conseguenza invalidanti si veda BARTOLINI, Illegittimità del provvedimento amministrativo, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da CASSESE, Milano, 2006, IV, 2866, ove si ricostruiscono le due fattispecie alla luce delle modifiche apportate dalla legge 15 del 2005 alla normativa sul procedimento amministrativo. Il difetto asso-

luto di attribuzione, già causa dell’inesistenza dell’atto, viene oggi ricompresa nella figura della nullità; mentre la carenza di potere in concreto, non rientrando nel difetto assoluto di attribuzione è da inquadrarsi fra le illegittimità causa di annullamento. 23 TESAURO (L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 2005, 1445) sottolinea come il tema dell’invalidità dell’avviso di accertamento sia stato trattato fino al 2005 mettendo in evidenza che la differenza civilistica tra negozio nullo e annullabile era estranea al diritto tributario. L’avviso di accertamento nullo era considerato come un atto che se pur viziato produceva effetti fino a quando non era annullato. 24 Autorevole dottrina (BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi: considerazioni su principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. Dir. Fin., 2006, I, 364) sottolinea che il grande numero di norme che prevedevano la nullità quale conseguenza di vizi degli atti era


52

GiustiziaTributaria

1 2009

Oggi, certo, in presenza di una legge generale sull’invalidità degli atti amministrativi non è più ammissibile alcuna leggerezza terminologica. L’articolo 21-septies, della legge 241 del 199025, infatti, stabilisce che è «nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi previsti dalla legge». I tre vizi classici dell’atto amministrativo, invece, incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, secondo il primo comma dell’articolo 21-octies, danno luogo ad annullamento dell’atto. Il mancato rispetto del contradditorio anticipato previsto dall’articolo 12, comma 7, dunque, sembrerebbe ascriversi fra i vizi disciplinati in questo ultimo articolo e più propriamente nella violazione di legge. Forse proprio la modifica legislativa del 2005 – anche se ininfluente nel caso de quo – e le sue conseguenze sugli atti tributari suggeriscono ai giudici di approfondire l’analisi dell’atto emesso in violazione dell’articolo 12 e a dichiararlo non solo nullo, ma giuridicamente inesistente. La fase endoprocedimentale intermedia (come definita dalla Commissione) consistente nella pausa operativa ex art. 12, comma 7, costituisce elemento essenziale e costitutivo della fattispecie, la cui mancanza comporta non un vizio del procedimento (e quindi una violazione di legge), ma la inesistenza dell’atto finale. La conclusione della Commissione seppure interessante ad articolata, non appare però del tutto convincente. Ed invero non si comprende come la cd “fase endoprocedimentale intermedia” possa essere un elemento essenziale della fatti-

dovuto anche al contesto culturale tipico del periodo in cui erano state introdotte le diposizioni tributarie della riforma degli anni settanta. «Essendo in tale periodo fortemente dubbia la valenza provvedimentale dell’atto impositivo e prevalendo l’idea di una sua natura processuale, o comunque funzionale al processo, l’uso del termine nullità offriva maggiore certezza in ordine all’effetto invalidante dell’anomalia consentendo in teoria di superare la tentazione di qualificare il vizio in termini di mera irregolarità». 25 Al riguardo si pone il problema di fondo della applicabilità della legge 241 anche in materia tributaria. Sul punto si ritiene che, salve espresse deroghe, la disciplina si applichi anche nel nostro settore. Sul punto si veda DEL FEDERICO, La nuova transazione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali, in Riv. Dir. Trib., 2008, I, 235; Id, Procedimento amministrativo e procedimento tributario: le prospettive di revisione della legge n. 21/1990, in AA.VV., Dal procedimento amministrativo all’azione amministrativa. Atti dell’incontro di studio “L’azione amministrativa nel progetto di revisione della legge 241/1990”, a cura di Civitarese-MattuecciGardini, Bologna 2004, 87; Id., Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva europea, Pescara, 2003, 65; CALIFANO, Principi comuni e procedimento tributario:dalle tradizioni giuridiche nazionali alle garanzie del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2004, I, 993; ID., La motivazione della cartella di pagamento non preceduta da avviso di accertamento, in Dir. e Prat. Trib., 2005, III, 497; TESAURO, L’invalidità, cit., 1447; BASILAVECCHIA, La nullità, cit., 356.

specie che ha come esito l’emanazione dell’avviso di accertamento se, per espresso dettato normativo, questa fase può mancare in casi di particolare e motivata urgenza. Delle due l’una o la pausa di sessanta giorni è connotato essenziale dell’atto di accertamento, il quale viene a giuridica esistenza solo dopo il compimento di tutte le sue varie fasi (ma allora non può concepirsi un elemento indispensabile eventualmente assente), o il contradditorio anticipato è un requisito necessario, ma la cui violazione ha come conseguenza l’annullabilità dell’atto (se non sussistono i casi di particolare urgenza) e non la sua inesistenza essendo un vizio di violazione di legge. Se pure si intende prendere le distanze dalla ricostruzione della fattispecie fatta propria dai giudici friulani, altrettanto si intende fare da chi ha optato per ricomprendere l’ipotesi fra quelle disciplinate dal secondo comma dell’articolo 21-octies26. Tale disposizione ha formalizzato la nozione di irregolarità disponendo che non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato27. La distinzione tra vizi invalidanti ai sensi degli articoli 21-septies e 21-octies, comma 1, e vizi che impediscono l’annullamento del provvedimento non è sempre agevole28. Autorevole dottrina29 ricorda che in tema di vizi di forma, riprendendo le considerazioni proprie della giurisprudenza amministrativa, si possono citare ad esempio l’omessa indicazione del responsabile del procedimento30 o la mancanza di indicazioni circa l’impugnazione del provvedimento31. Riguardo ai vizi pro-

26 Sembra orientarsi in questo senso Comm. trib. reg. Lazio, 13 settembre 2007, n. 197 (banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big) laddove censurando l’operato dell’ufficio che non aveva rispettato il termine di sessanta giorni, dichiara che «l’amministrazione finanziaria non ha inoltre dimostrato che il contenuto dell’atto e l’esito della procedura non sarebbero mutati in presenza delle rappresentate ragioni del contribuente, che avrebbero potuto precludere l’emissione dell’avviso di recupero». Si veda anche Comm. trib. reg. Lombardia, 9 luglio 2007, n. 61 che applicando il comma 2 dell’art. 21-octies, non ha annullato l’atto impositivo sulla base del fatto che «eventuali osservazioni formulate all’Agenzia delle Entrate prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, non avrebbero modificato il contesto nel quale l’atto è stato emanato». Pare moderatamente orientato verso questa soluzione, pur auspicando un intervento chiarificatore del legislatore fiscale, anche THIONE, Considerazioni generali in ordine alla legittimità del cd accertamento anticipato, in Fisco, 2008, 247. CAPOLUPO, Accertamento, cit., 5410 osserva che «la partita, in sostanza, sembra essersi spostata dalla fase endoprocedimentale a quella contenziosa ancorché non si registri alcun capovolgimento dell’onere della prova. Competerà all’amministrazione finanziaria, invero, dimostrare in quella sede che non vi è stata alcune violazione di legge posto che qualora fosse stato rispettato il termine di sessanta giorni ed il contribuente avesse presentato le sue memorie, le conclusioni non sarebbero state differenti». AZZONI, Brevi note circa l’avviso di accerta-

mento emanato in violazione del termine utile al contradditorio anticipato (art. 12, comma 7 della L. 212/2000), in Fisco, 2007, 59, osserva che «viene meno alla completezza del proprio mandato il giudice che blocca la sua riflessione alla mera constatazione della mancata osservanza del termine; [...] se la mano pubblica evocata in giudizio a difendere il proprio atto dimostra che, quand’anche i sessanta giorni fossero stati accordati l’esito della procedura non sarebbe mutato [...] allora il vizio è destinato a rientrare, a finire riassorbito nella giustezza complessiva del risultato ultimo». 27 L’istituto ha un precedente – seppure non simmetrico – nell’ambito tributario nella figura della rinnovazione dell’atto impugnato disciplinata dall’articolo 21 del D.P.R. 636/1972, che prevedeva il potere del giudice nei casi previsti di sollecitare l’amministrazione alla regolarizzazione dell’atto. Sul punto si rinvia a CONSOLO, Chiarimento su una norma processuale tributaria abrogata ma non inutile, in Giur. It., 1996, I, 1, 1041. 28 Non è questa la sede per un’analisi dell’impatto di questa disposizione nel settore tributario. Per uno studio approfondito peculiarmente dell’articolo 21-octies, comma 2, si veda BUTTUS, Implicazioni tributarie del nuovo regime dei vizi del provvedimento amministrativo, in Dir. e Prat. Trib., 2007, I, 465. 29 TESAURO, L’invalidità, cit., 1445. 30 Si consideri però che l’art. 4-ter del D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito nella legge 28 febbraio 2008, n. 31 prescrive che dal 1 giugno 2008 sia necessario a pena di nullità indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento. 31 Non può invece considerarsi un vizio di for-


Accertamento 1 2009 53

cedimentali la individuazione è ancora più difficile dal momento che occorre distinguere quelli che danno luogo a mere irregolarità – e perciò non annullabili – da quelli che invece danno luogo a violazioni di legge32. Nel diritto tributario in particolare la applicazione della norma pone peculiari problemi anche perché il potere impositivo incide su interessi di tipo oppositivo. Attenta dottrina sottolinea, infatti, come nell’ottica di un’amministrazione di risultato il depotenziamento dei vizi formali sia da guardare con favore per i procedimenti e i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati, ma suscita allarme laddove l’amministrato esprime un interesse oppositivo33. Nella fattispecie che ci riguarda34, volendo considerare il mancato rispetto del termine di sessanta giorni fra verbale di chiusura della verifica e notificazione dell’avviso di accertamento quale vizio del procedimento che porterebbe all’applicabilità della regolarizzazione prevista al secondo comma dell’articolo 21-octies, (ipotesi che come sopra ricordato non convince) si pone anche un ulteriore problema. Dal momento che la norma stabilisce che non è annullabile l’atto qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, è chiaro che il controllo degli eventuali effetti della fase mancante dovrà essere condotta ad opera del giudice tributario. Questi, dunque, probabilmente dagli elementi indicati nel ricorso, dovrà stabilire se le considerazioni che il contribuente non ha potuto svolgere nella fase precontenziosa avreb-

ma ad esempio la mancata indicazione delle aliquote in caso di accertamento Irpef. La mancanza di questa indicazione, che potrebbe in verità essere considerata una irregolarità qualora fossero correttamente indicati nell’avviso di accertamento sia la base imponibile sia l’imposta, è espressamente prevista dalla norma a pena di nullità. 32 L’interrogativo maggiore che ha interessato gli studiosi relativamente al comma 2 dell’articolo 21-octies è il vizio di carenza di motivazione degli atti impositivi nell’ipotesi in cui il dispositivo sia palesemente conforme alla legge. TESAURO, L’invalidità, cit., 1448 ricorda che ci sono norme che prescrivono la motivazione a pena di nullità e per queste ipotesi non si potrà applicare la cd regolarizzazione dell’atto amministrativo; nei casi nei quali il vizio di motivazione non è sanzionato in modo espresso la motivazione inerisce al contenuto dell’atto e non alla forma per cui anche in questi casi non sarà possibile l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2. Anche BUTTUS, Implicazioni, cit, 478 comprende il vizio motivazionale fra le violazioni non formali ma di contenuto; di conseguenza sarà sempre un vizio invalidante, implicante l’annullamento dell’atto. 33 Cfr DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, cit., 263. 34 La concreta fattispecie ha origine dalla rettifica a fini Iva, e conseguentemente anche a fini Irpeg e Irap, delle operazioni di factoring alle quali l’ufficio, nell’avviso di accertamento che dà origine alla vicenda giudiziaria, nega il regime di esenzione d’imposta previsto dall’articolo 10 del D.P.R. 633/1972. L’operato dell’ufficio trae origine dalla sentenza della Corte di Giustizia CE 26 giugno 2003, causa 305/2001 che ha inquadrato le prestazioni in parola nell’ambito dell’attività di recupero crediti imponibile ai fini dell’Iva e non fra le attività di finanziamento sulla

bero potuto incidere sul provvedimento finale. In tal modo, però, le commissioni dovrebbero sostituirsi all’amministrazione finanziaria in una funzione loro propria quale quella della valutazione degli elementi delle attività di verifica35 in una inaccettabile sovrapposizioni di poteri. Conclusioni Tirando le fila delle considerazioni fin qui effettuate sembra più opportuno inquadrare il provvedimento emanato senza rispettare il dettato dell’articolo 12 comma 7 come annullabile ai sensi dell’articolo 21-octies, comma 1, della L. 241 del 1990, piuttosto che inesistente/nullo36 come invece deciso dalla Commissione37. Queste conclusioni raggiunte sul piano sostanziale confortano anche rispetto ai riflessi processuali perché, anche se nell’ambito tributario non si pongono le peculiari complicazioni di giurisdizione emerse in sede di introduzione dell’azione di nullità davanti al giudice amministrativo38, posto che la situazione giuridica sottoposta a tutela non incide sulla giurisdizione tributaria, l’azione di nullità pone non pochi problemi anche nel settore tributario. Ed invero, essendo l’azione di nullità imperscrittibile e rilevabile anche d’ufficio, questi provvedimenti potrebbero sfuggire alla naturale esecutorietà, sottraendosi all’impugnativa nel termine decadenziale e creando una situazione di incertezza in cui l’interesse fiscale all’applicazione e alla riscossione dei tributi verrebbe compresso con inevitabili implicazioni di illegittimità costituzionale39.

scorta dell’analisi delle legislazioni svedese e inglese. Le peculiarità del factoring italiano invece secondo l’Abi (lettera circolare 29 dicembre 2003, prot. TR/006361) e l’Agenzia delle Entrate (ris. 17 novembre 2004, n. 139) farebbero inserire l’istituto all’interno della categoria dei finanziamenti: da ciò l’applicabilità dell’esenzione Iva. La mancata analisi della fattispecie concreta nel presente lavoro è originata dal fatto che sul punto la Commissione regionale non si è pronunciata considerando la questione sul merito assorbita dalla questione preliminare relativa alla violazione delle statuizioni dello Statuto del contribuente. Sulla questione di merito si erano invece pronunciati i giudici di primo grado (v. nota 1). 35 In tal senso anche RENDA, L’art. 12, comma 7, cit., 237, il quale sottolinea come questo esame da parte dei giudici tributari sembra sfuggire ai poteri propri del giudice tributario. Questi, ad avviso dell’autore, dovrebbero risolversi nella preliminare verifica della natura del vizio procedimentale in argomento, il giudice dovrebbe cioè valutare se il vizio del provvedimento impositivo, originatosi con la violazione di una norma posta a salvaguardia dei diritti del contribuente possa considerarsi meramente formale ovvero sostanziale e, comportare in quest’ultimo caso, quanto meno, l’annullabilità dell’atto impositivo, anche se non espressamente prevista dal dettato normativo. 36 È la stessa Commissione di Trieste, come già ricordato, che utilizza l’endiadi nullità/inesistenza invece della sola nullità forse proprio per rafforzare il più possibile il concetto di invalidità del provvedimento. Non pare infatti che sia possibile ipotizzare una terza categoria di invalidità – l’inesistenza, appunto- accanto alle figure di nullità ed annullabilità; in questo senso si veda SIBELJA, op. cit., infra, 54 ss. 37 Seppure con un diverso processo argomen-

tativo che valorizza maggiormente la valutazione complessiva del comportamento tenuto da ente impositore e contribuente nella fase istruttoria, ritiene annullabile e non nullo l’avviso di accertamento emanato senza il rispetto del contraddittorio anticipato SIBELJA, op. cit., infra, 54 ss. 38 È interessante notare infatti che, con riferimento al provvedimento amministrativo, il dibattito si è incentrato non tanto sulle differenti ipotesi di nullità regolate dalla novella legislativa, quanto piuttosto sui riflessi giurisdizionali. L’azione di nullità, infatti, presupponendo la lesione di un diritto soggettivo pone dubbi sulla giurisdizione del giudice amministrativo. Vedi sul punto le considerazioni svolte nonché le segnalazioni bibliografiche indicate da BUTTUS, Implicazioni, cit, 486. 39 Non trova particolari problemi all’introduzione nel processo tributario dell’azione di nullità TESAURO L’invalidità, cit., 1147 che, fra le azioni esperibili davanti alle commissioni – annullamento, cautelare, rimborso, ottemperanza – ammette la possibilità di poter agire senza osservare alcun termine di decadenza anche per ottenere una sentenza dichiarativa di nullità. Cfr. inoltre TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 100. Di diverso avviso BASILAVECCHIA, La nullità, cit., 361, il quale non crede facilmente coordinabile con la struttura attuale del processo tributario l’azione di nullità proposta nei confronti di un atto. L’autore propende per una soluzione che non comporti un accesso indiscriminato al processo nelle forme di una tutela di puro accertamento svincolata dall’impugnativa di un atto. Sembra più favorevole a tradurre questa azione in motivo di ricorso contro un atto dichiarato impugnabile che assuma a suo presupposto l’atto nullo. In questo modo prosegue l’autore, sarebbe derogata solo la regola dei vizi propri di cui al terzo comma dell’art. 19 del D.Lgs. 546 del 1992.


54

GiustiziaTributaria

1 2009

II Nota di Stefano Sibelja Premessa La sentenza in commento fornisce un ulteriore contributo all’ormai ampio dibattito sorto sull’interpretazione del disposto dell’art. 12, comma 7, L. 27 luglio 2000, n. 212, ed avente ad oggetto le conseguenze derivanti dalla notifica di un avviso di accertamento prima del termine di sessanta giorni dal rilascio di copia del processo verbale di verifica. Si tratta di una decisione piuttosto interessante, in quanto testimonia il senso di disorientamento manifestato dagli operatori chiamati ad applicare norme, come quella in esame, che, pur prescrivendo determinati comportamenti a carico della amministrazione, non prevedono però alcuna espressa conseguenza per la loro violazione. Nella fattispecie, l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate aveva notificato un avviso di accertamento in materia di factoring in data 17 novembre 2003, sulla scorta di un processo verbale di constatazione rilasciato il 28 ottobre 2003, quando cioè erano trascorsi appena venti giorni. I giudici della Commissione tributaria regionale di Trieste non hanno avuto dubbi nell’affermare l’obbligatorietà del contraddittorio post verifica, la cui violazione determina la nullità dell’atto emanato contra ius, verificandosi un’ipotesi di carenza di potere in concreto, ed altresì l’inesistenza dell’atto. L’avviso di accertamento notificato prima della scadenza del termine previsto dall’art. 12, comma 7, L. 27 luglio 2000 n. 212, in relazione alla lettura giurisprudenziale del principio del contraddittorio in ambito tributario È noto come l’art. 12, comma 7, L. 27 luglio 2000, n. 212, attri-

1 Secondo la norma di legge «nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza». 2 Difetta infatti, nel diritto tributario, un criterio normativo che permetta di distinguere i vizi che danno luogo solo ad irregolarità da quelli che conducono ad invalidità dell’atto (cfr. MARELLO, Per una teoria unitaria dell’invalidità nel diritto tributario, in Riv. Dir. Trib., 2001, 387, 23). Seguendo una autorevole linea di pensiero il discrimen andrebbe individuato nella ratio della norma violata e, in particolare, se sia diretta o meno a tutelare interessi giuridicamente protetti del contribuente (vedasi: TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, I, Torino, 2006, 217; FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2003, 396). 3 Testualmente NANULA, Le osservazioni e richieste del contribuente dopo la chiusura della verifica fiscale, in Fisco, 10, 2004, 1, 1403, secondo cui l’atto sarebbe inesistente; conf. ID., La tempistica per gli accertamenti in scadenza, in Fisco, 32, 2003, 1, 4961; PERONACE, L’invalidità dell’accertamento adottato senza rispettare il termine per le deduzioni del contribuente sulle operazioni di verifica, in Boll. Trib., 12, 2006, 1058. Propendono per la nullità dell’atto anche CERIANA, Osservazio-

buisca al contribuente la possibilità di comunicare osservazioni e richieste all’ufficio impositore entro sessanta giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica e, al contempo, impedisca l’emanazione di un avviso di accertamento prima della scadenza del predetto termine1. Benché il dato testuale sembri imporre un preciso obbligo per l’ente impositore, il legislatore non ha invero esplicitato le conseguenze per l’eventuale comportamento difforme rispetto allo schema normativo. Essendo pertanto demandata alla discrezione dell’interprete il giudizio sulla gravità del vizio e sul suo valore invalidante2, si sono manifestati sul punto orientamenti dottrinali e giurisprudenziali piuttosto diversificati. Se l’opinione prevalente propende per l’invalidità dell’avviso di accertamento emesso senza rispettare il citato termine dei sessanta giorni, molteplici sono le argomentazioni addotte a sostegno di tale assunto. Seguendo l’impostazione più rigorosa l’avviso emesso, più che annullabile, sarebbe proprio un atto radicalmente nullo ab origine non suscettibile di sanatoria perché «la violazione concerne una norma afferente l’esistenza del potere di emettere l’atto»3. Secondo altri invece la violazione della norma determina l’illegittimità dell’atto e la sua annullabilità (vuoi in sede amministrativa vuoi in sede giurisdizionale), configurandosi nel caso una violazione di legge nell’iter amministrativo di adozione dell’avviso di accertamento: si tratterebbe cioè di un vizio procedimentale4. In analoga prospettiva si invoca il rispetto del principio del giusto procedimento che impone la completezza dell’attività istruttoria consentendo al contribuente, ai sensi dell’art. 12, comma 7, L. 27 luglio 2000, n. 212, di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di essere costretto ad adire il giudice tributario5.

ni difensive ai processi verbali di constatazione (art. 12 comma 7 legge n. 212/2000); quale funzione per il termine dei sessanta giorni?, in Dialoghi Dir. Trib., 2004, 532; LUCARIELLO, Sulla difesa del contribuente in tema di avviso di accertamento emanato prima dei sessanta giorni dalla notifica del processo verbale di constatazione, in Fisco, 37, 2007, 1, 5477; MICELI, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria, in AA.VV., Statuto dei Diritti del contribuente, a cura di Fantozzi - Fedele, Milano, 2005, 693 ss.; TABET, Sospensione del potere impositivo dopo la chiusura delle operazioni di verifica, in Boll. Trib., 12, 2006, 1056. In giurisprudenza affermano la nullità dell’atto per carenza relativa al potere esercitato: Comm. trib. reg. Lazio, sez. XXXVIII, 13 settembre 2007, n. 197, in Fisco, 37, 2007, 1, 5523; Comm. trib. prov. Genova, sez. XI, 23 febbraio 2006, n. 15; Comm. trib. reg. Liguria, sez. I, 5 aprile 2006, n. 16; Comm. trib. prov. Udine, sez. I, 18 ottobre 2005, n. 41, in Boll. Trib., 9, 2007, 816. Considerano genericamente l’atto nullo: Comm. trib. prov. Siracusa, sez. I, 31 gennaio 2006, n. 4; Comm. trib. prov. Siracusa, sez. II, 23 luglio 2005, n. 26; Comm. trib. prov. Siracusa, sez. IV, 20 aprile 2005, n. 68, (la quale considera il termine quale condizione di procedibilità), tutte in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 4 In questo senso V. AZZONI, Brevi note circa l’avviso di accertamento emanato in violazione del termine utile al contraddittorio anticipato (art. 12, comma 7, della L. n. 212/2000), in Fisco, 1, 2007, 1, 60. In termini analoghi si pone: RENDA, L’art. 12, comma 7,

dello Statuto del contribuente e l’auspicata cristallizzazione del principio del contraddittorio anticipato, in questa rivista, 2, 2007, 242 ss. Parla di causa di annullabilità dell’atto CAPOLUPO, Manuale dell’accertamento delle imposte, Milano, 2003, 2205, nonché D’AGOSTINO, Il contraddittorio anticipato ex art. 12 dello Statuto del contribuente, in questa rivista, 2008, 3, 481; in giurisprudenza: Comm. trib. prov. Pordenone, sez. V, 19 gennaio 2005, n. 1, in Lex24 & Repertorio24. Il Sole 24 ore; Comm. trib. reg. Lazio, sez. XL, 29 dicembre 2006, n. 551, in Boll. Trib., 6, 2008, 507; Comm. trib. prov. Pordenone, sez. V, 14 dicembre 2006, n. 175, in questa rivista, 2007, 2, 235. In giurisprudenza circa l’illegittimità, nel caso, dell’atto emesso: Comm. trib. reg. Lazio, sez. IV, 20 febbraio 2008, n. 198, in I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. Viterbo, sez. I, 29 maggio 2006, n. 141, in I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. Cosenza, sez. II, 5 gennaio 2006, n. 158, in Boll. Trib., 12, 2006, 1055; Comm. trib. prov. Brescia, sez. IX, 07 marzo 2002, n. 12, in I quattro codici della riforma tributaria Big. Sulla natura procedimentale della norma contenuta nell’art. 12, comma 7, L. n. 212/2000: cfr. CONIGLIARO, Nullità dell’accertamento emanato prima di 60 giorni dalla notifica del processo verbale di constatazione (Comm. trib. reg. Roma n. 197/2007), in Fisco, n. 41/2007, 1, 5996; LUCARIELLO, Sulla difesa del contribuente in tema di avviso di accertamento, cit., 5480. 5 Sul punto: Cass. civ., sez. trib., sent. 28 luglio 2006, n. 17230; Cass. civ., sez. trib., sent. 28 luglio 2006, n. 17229; Cass. civ., sez. trib.,


Accertamento 1 2009 55

Su un piano diverso si pone invece quella dottrina la quale considera “squilibrato” comminare la nullità per comportamenti che appaiono meno gravi di altri che non sono «sanzionati affatto dallo Statuto e ciononostante avallati dalla giurisprudenza», pur comportando «violazioni gravi dei principi di collaborazione fisco-contribuente, nonché del diritto di difesa»6. In questo senso il mancato rispetto del dettato dell’art. 12, comma 7, dello Statuto dovrebbe essere «sanzionato in senso ampio» sul piano della valutazione complessiva del comportamento delle parti, «costituendo un argomento collaterale per giungere eventualmente all’annullamento dell’accertamento per infondatezza giuridica, difetto di motivazione o prova»7. La disposizione contenuta nello Statuto non costituisce peraltro un caso isolato nel contesto tributario, inserendosi anzi con una certa coerenza di indirizzo in un tessuto normativo sostanzialmente impermeabile nei confronti delle esigenze partecipative del contribuente e che quasi mai prevede delle conseguenze per il mancato contraddittorio procedimentale8. Innanzitutto la legge generale sui procedimenti amministrativi autolimita la propria espansione, statuendo che le disposizioni

sent. 15 dicembre 2003, n. 19163 Comm. trib. prov. Genova, sez. I, 31 gennaio 2007, n. 424, tutte in I quattro codici della riforma tributaria Big. In dottrina: D’AGOSTINO, Il contraddittorio anticipato ex art. 12 dello Statuto del contribuente, in questa rivista, 2008, 3, 481. 6 In questi termini: LUPI, La valutazione processuale del contegno delle parti come possibile via di uscita tra “nullità” e “mera irregolarità”, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 1183, il quale riporta l’esempio dei cd. accertamenti bancari. Secondo altra dottrina il mancato rispetto dei 60 giorni non può condurre sic et simpliciter alla nullità dell’atto: l’art. 12, comma 7, L. n. 212/2000 «non contiene nessuna espressa sanzione nei confronti dell’ufficio che non si attiene a queste disposizioni; d’altronde l’eventuale esplicita comminatoria di nullità, disposta dalla Statuto dei diritti del contribuente, avrebbe dovuto comportare una consequenziale modifica dell’art. 42 D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 56 D.P.R. n. 633/1972» (come avvenuto attraverso il D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32: così ANTICO, L’accertamento anticipato. Ulteriori considerazioni, in Fisco, 40, 2007, 1, 5481; nonché ANTICO-FUSCONI, Ancora sull’accertamento emesso dopo il verbale, ma prima della scadenza del termine per le osservazioni del contribuente ex art. 12 dello Statuto, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 1178). Dubita dell’esistenza di un obbligo a carico dell’ufficio: SALVINI, La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo Statuto del contribuente e oltre), in Riv. Dir. Trib., 2000, 40. Secondo un recente orientamento giurisprudenziale la norma in oggetto non ha natura perentoria e l’inosservanza del termine non priva il contribuente del suo diritto alla difesa (vedasi: Comm. trib. reg. Milano, sez. XXIV, sent. 5 dicembre 2007, n. 71; Comm. trib. reg. Firenze, sez. XXVII, sent. 15 aprile 2008, n. 14; Comm. trib. prov. Genova, sez. XVI, 25 gennaio 2007, n. 429, tutte in Lex24 & Repertorio24. Il Sole 24 ore). Nella stessa direzione si rileva che la legge non prevede alcuna sanzione né la nullità: Comm. trib. prov. Firenze, sez. XX, sent. 4 luglio 2008, n. 87, inedita; Comm. trib. reg. Lazio, sez. X, 27 novembre 2006, n. 181, in que-

7

8

9

10

sulla partecipazione non si applicano ai procedimenti tributari9; né vi sono nelle leggi tributarie norme che sanciscono in via generale la doverosa attuazione del principio del contraddittorio all’interno del procedimento tributario10, ma solo disposizioni che prevedono, caso per caso, la facoltà o l’obbligo per l’ufficio di ascoltare le ragioni del contribuente. Alla luce di questo quadro ordinamentale, incapace di darsi una forma compiuta, viene anzi da chiedersi se esista (o meno) un trend legislativo verso la partecipazione del privato, o se piuttosto sia il formante dottrinale ad adottare sempre più di frequente gli schemi partecipativi11. L’interrogativo si palesa doveroso anche in considerazione della giurisprudenza bifronte della Corte di Cassazione, la quale valorizza diversamente le norme partecipative in ragione del diverso modulo accertativo adottato. A fronte di un consolidato orientamento secondo cui l’attività di accertamento, pur dovendo svolgersi nel rispetto di ben determinate cautele previste per evitare arbitrii e violazioni dei diritti fondamentali del contribuente, non è retta dal principio del contraddittorio12, se ne registra un altro, in tema di accertamenti parametri-

sta rivista, 2, 2007, 237. Da segnalare Comm. trib. reg. Firenze, sez. XXX, sent. 26 aprile 2007, n. 10, in Lex24 & Repertorio24. Il Sole 24 ore, secondo cui il tendenziale contraddittorio rimane pur sempre subordinato all’iniziativa del contribuente il quale deve attivarsi anche avvalendosi della procedura dell’accertamento con adesione. Testualmente LUPI, La valutazione processuale del contegno delle parti, cit., 1183, secondo cui sia la automatica nullità dell’accertamento anticipato, sia la indiscriminata degradazione di questo comportamento a “mera irregolarità” appaiono insoddisfacenti. La sanzione della nullità è prevista da: art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973, in materia di disposizioni antielusive; art. 6, comma 5, L. n. 212/2000, relativo alle iscrizioni a ruolo derivanti da controlli formali; art. 16, comma 7, D.Lgs. n. 472/1997, concernente l’irrogazione di sanzioni tributarie amministrative; art. 12, D.L. n. 69/1989 (ora abrogato), in merito alla applicazione dei coefficienti presuntivi. Negli altri casi il legislatore non prevede alcuna sanzione: art. 61, D.P.R. n. 1142/1949, inerente l’effettuazione di classamento di un immobile; artt. 36-bis, comma 3 e 36-ter, comma 3, D.P.R. n. 600/1973, nonché art. 54-bis D.P.R. n. 633/1972, nel caso di controlli formali e liquidazione delle dichiarazioni; art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, in tema di indagini bancarie; art. 38, comma 7, D.P.R. n. 600/1973, in materia di accertamento sintetico; art. 10, comma 3-bis, L. n. 146/1998, relativo agli accertamenti basati sugli studi di settore; art. 6, comma 2, e 12, comma 7, L. n. 212/2000 (per questa elencazione si rinvia a MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000, 132 e ss., nonché a RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2002, 211 ss., il quale ultimo vi include anche le ipotesi di interpello). Secondo l’art. 13, comma 2, L. 7 agosto 1990 n. 241, le disposizioni contenute nel capo III non si applicano «ai procedimenti tributari per i quali restano parimenti ferme le particolari norme che li regolano». In questo senso TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, cit., 161; ma già, sul punto, MARELLO, L’accertamento con ade-

sione, cit., 126. Secondo la circ. Ag. Entrate 19 ottobre 2006, n. 32/E, punto 4.5, «nei procedimenti tributari in genere [...] non si applicano [...] le disposizioni recate dalla legge (n.d.r. L. n. 241/1990) stessa in tema di accesso partecipativo (art. 10) e di accesso conoscitivo o informativo (art. 22), ma soltanto le particolari norme che regolano i procedimenti tributari». 11 Così MARELLO, L’accertamento con adesione, cit., 132, 91. In chiave evolutiva si può osservare come l’attuale situazione di incertezza potrebbe trovare una soluzione alla luce dell’esperienza comunitaria. Da un lato infatti la giurisprudenza della Corte di Giustizia tende a valorizzare la nozione di forme sostanziali, tra cui si annoverano appunto le norme che impongono la partecipazione dei soggetti interessati al procedimento, al fine di ritenere invalidante la violazione di regole inerenti la forma o la procedura qualora abbiano l’effetto di ostacolare il diritto ad una tutela adeguata dell’interessato (sul punto si rinvia all’analisi di PONTE, La nullità del provvedimento amministrativo. Profili sostanziali e processuali, Milano, 2007, 9, 282, 302 ss.). Dall’altro sono tutte da verificare le possibili ricadute sul diritto tributario italiano del diritto al contraddittorio stabilito dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo nel caso Jussila, sia in sede processuale sia, ai nostri fini, in sede di istruttoria pre-contenziosa: cfr. CEDU, Ad. Plen., 23 novembre 2006, ric. n. 73053/2001, in Rass. Trib., 1, 2007, con nota di GREGGI, Giusto processo e diritto tributario europeo: la prova testimoniale nell’applicazione della Cedu (il caso Jussila). 12 Testualmente: Cass. civ., sez. trib., sent. 23 marzo 2001, n. 4273. Analogamente Cass. civ., sez. trib., sent. 3 marzo 2001, n. 3128, Cass. civ., sez. V, sent. 28 luglio 2000, n. 9946, tutte in I quattro codici della riforma tributaria Big. In termini sostanzialmente analoghi si veda: Cass. civ., sez. trib., sent. 30 ottobre 2007, n. 22938; Cass. civ., sez. trib., sent. 19 aprile 2006, n. 9129; Cass. civ., sez. trib., sent. 18 aprile 2003, n. 6232, tutte in I quattro codici della riforma tributaria Big. Significativo, in questo senso, l’indirizzo in tema di accertamenti bancari secondo cui


56

GiustiziaTributaria

1 2009

ci e fondati sugli studi di settore, il quale ritiene che «anche se non sia espressamente previsto», il contraddittorio procedimentale amministrativo è «necessario anche in materia tributaria in forza del principio generale dell’azione amministrativa del giusto procedimento»13. L’invalidità del provvedimento amministrativo (e tributario) emesso in carenza di potere: quali conseguenze? Sino ad un recente passato il tema dell’invalidità del provvedimento amministrativo veniva ricondotto prevalentemente alla figura della illegittimità-annullabilità, la quale era spiegata facendo leva sulla presenza nel diritto positivo di un giudice dell’annullamento14, mentre residuava per le patologie più gravi di nullità-inesistenza la cognizione del giudice ordinario15. Ulteriore problematica era quella concernente la natura dell’invalidità: se cioè avesse carattere dicotomico (nullità-annullabilità) o triadico (comprensivo dell’inesistenza). In questo contesto si inserisce la tematica della carenza di potere la quale ha storicamente condizionato il tema dell’invalidità sotto lo specifico profilo del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Il potere è carente ove l’amministrazione pretenda di esercitare un potere che nessuna norma prevede e, quindi, di cui nessuna autorità è titolare, nonché quando viene esercitata una potestà attribuita ad una amministrazione radicalmente diversa, oppure nel caso di invasione da parte della amministrazione di ambiti di pertinenza di un diverso potere dello Stato16. Si è parlato, in proposito, di “carenza in astratto”, per distinguere tale ipotesi da quella, successivamente ideata dalla stessa Corte di Cassazione, della cd. “carenza in concreto” in cui la potestà, pur essendo attribuita in astratto (da una norma) all’ammi-

la possibilità di un contraddittorio con il contribuente costituisce una mera facoltà dell’ufficio dal cui mancato esercizio non deriva l’illegittimità della rettifica operata: Cass. civ., sez. trib., sent. 23 giugno 2006, n. 14675, in I quattro codici della riforma tributaria Big. Il principio è stato ribadito di recente da: Cass. civ., sez. V, sent. 23 luglio 2008, n. 20268, in Banca dati giuridica; Cass. civ., sez. trib., sent. 6 novembre 2007 (dep. 7 febbraio 2008), n. 2821, in Fisco, 8, 2008, 1, 1421. Sul punto vedasi altresì: Cass. civ., sez. trib., sent. 13 giugno 2002, n. 8422; Cass. civ., sez. trib., sent. 28 luglio 2000, n. 9946, entrambe in I quattro codici della riforma tributaria Big; Cass. civ., sez. trib., sent. 3 giugno 1999 (dep. 6 ottobre 1999), n. 11094, in Fisco, 44, 1999, 12729. Questo indirizzo è stato condiviso dall’amministrazione finanziaria nella circ. Ag. Entrate 19 ottobre 2006, n. 32/E, punto 4.4; successivamente, peraltro, l’Agenzia ha affermato che, in presenza di indagini finanziarie, gli uffici «instaureranno un contraddittorio con il contribuente» (cfr. circ. Ag. Entrate 6 febbraio 2007, n. 6/E, punto 2.4). Anche in tema di accertamenti sintetici la Suprema Corte ritiene che la «mancata instaurazione di una qualche forma di contraddittorio con il contribuente nella fase istruttoria non può giustificare l’annullamento dell’accertamento sintetico» (così Cass. civ., sez. trib., sent. 18 dicembre 2006, n. 27079; analogamente: Cass. civ., sez. trib. sent. 16 settembre 2005, n. 18429; Cass. civ., sez. trib., sent. 8 marzo 2002, n. 3419, tutte in I quattro codici della riforma tributaria Big; in senso conforme si è espressa anche l’amministrazione finanzia-

nistrazione agente, non può nel concreto essere esercitata a causa di una preclusione legislativa17. Nel primo caso appunto si determina la nullità-inesistenza dell’atto; verificandosi invece la figura della carenza in concreto, il provvedimento, secondo l’opinione prevalente in dottrina (e, di recente, condivisa dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato18) dovrebbe qualificarsi come illegittimo e, quindi, oggetto di annullamento per violazione di legge, mentre secondo il costante indirizzo della Corte di Cassazione si realizzerebbe nel caso una ipotesi di nullità o inesistenza dell’atto. Attualmente l’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990 n. 241 stabilisce che sono causa di nullità del provvedimento amministrativo la mancanza degli elementi essenziali, il difetto di attribuzione, la violazione o elusione del giudicato, nonché le altre cause di nullità previste dalla legge. Il successivo art. 21-octies disciplina poi l’annullabilità dell’atto adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza, purché si tratti di un vizio realmente invalidante. Dalla lettura coordinata delle due norme si può arguire che, da un lato, il nostro ordinamento amministrativo riconosce solo la nullità testuale e quella strutturale (non già la nullità virtuale19), e dall’altro, che la regola generale di invalidità del provvedimento amministrativo resta sempre l’annullabilità20. Il vigente testo di legge non contiene invece alcun accenno alla categoria dell’inesistenza, il che non impedisce peraltro di far ricorso alla nozione, consentendo di inquadrarvi ipotesi marginali che non possono farsi rientrare in alcuno dei tipi astrattamente previsti dalla legge, al fine di escludere anche quei minimi effetti riconducibili all’atto nullo21. Per quanto concerne la figura della carenza di potere la norma dell’art. 21-septies della L. n. 241/1990 dichiara la nullità del provvedimento amministrativo «viziato da difetto assoluto di at-

ria: cfr. circ. Ag. Entrate, 9 agosto 2007, n. 49/E, punto 4.2). 13 In proposito: Cass. civ., sez. trib., sent. 30 ottobre 2007 (dep. 7 febbraio 2008), n. 2816, in Fisco, 8, 2008, 1, 1417, in tema di parametri. Relativamente agli studi di settore l’obbligo del contraddittorio procedimentale è cristallizzato nell’art. 10, comma 3-bis, L. n. 146/1998, cionondimeno la giurisprudenza ha ritenuto che gli stessi non «si possono considerare sufficienti perché l’ufficio tributario operi l’accertamento di un rapporto giuridico tributario di specie ultima, senza che l’attività istruttoria amministrativa sia completata nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, cioè consentendo al contribuente, ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, di intervenire già in sede procedimentale amministrativa»: così Cass. civ., sez. trib., sent. 28 luglio 2006, n. 17230. Analogamente: Cass. civ., sez. trib., sent. 28 luglio 2006, n. 17229; Cass. civ., sez. trib., sent. 15 dicembre 2003, n. 19163, e Comm. trib. prov. Genova, sez. I, 31 gennaio 2007, n. 424, tutte in I quattro codici della riforma tributaria Big. 14 Sul punto: D’ORSOGNA, Il problema della nullità in diritto amministrativo, Milano, 2004, 98; PONTE, La nullità del provvedimento amministrativo, cit., 11 ss. 15 Taluno parla anche di atto amministrativo illecito ma ciò è possibile con riferimento non ai vizi dell’atto, ma alle conseguenze sulla sfera giuridica della pubblica amministrazione o di terzi (cfr. ITALIA-LANDI-POTENZA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2002, 239; analogamente: CASETTA, Manuale

di diritto amministrativo, Milano, 1999, 485); l’illiceità si riferisce ad un comportamento dell’amministrazione (cfr. VIRGA, Diritto amministrativo. Atti e ricorsi, 2, Milano, 2001, 115; analogamente CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2007, 1118; VILLATA-RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006, 338). 16 Sul punto: CARINGELLA, Manuale, cit., 1129; VILLATA-RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, cit., 353 ss.; CROSETTI, voce Incompetenza (diritto amministrativo), in Dig. Disc. Pubbl., Torino, VIII, 1993, 204 ss. 17 Testualmente BARTOLINI, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 22. In senso conforme CARINGELLA, Manuale, cit., 1129. 18 Si veda Cons. di Stato, ad. plen., 26 marzo 2003, n. 4, in Lex24 & Repertorio24. Il Sole 24 ore; Cons. di Stato, sez. IV, 30 novembre 1992, n. 990, in Foro Amm., 1992, 2524. 19 Concordano sul punto: CARINGELLA, Manuale, cit., 1133; PONTE, Commento all’art. 21-septies; BOTTIGLIERI-COGLIANI-PONTE-PROIETTI, Commentario alla legge sul procedimento amministrativo, Padova, 2007, 813. 20 Così CARINGELLA, Manuale, cit., 1133. In giurisprudenza per l’affermazione del principio ex pluribus Cons. di Stato, sez. VI, sent. 13 giugno 2007, n. 3173; Cons. di Stato, sez. VI, sent. 28 febbraio 2006, n. 891, tutte in Banca dati giuridica. 21 In proposito: CARINGELLA, Manuale, cit., 1122; PONTE, La nullità del provvedimento amministrativo, cit., 28 ss.; SUSCA, L’invalidità del provvedimento amministrativo dopo le leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Milano, 2005, 17.


Accertamento 1 2009 57

tribuzione», mostrando così l’intenzione di ricondurre la carenza di potere in concreto ai vizi di annullabilità del provvedimento amministrativo22. Tra le fattispecie che vengono ricondotte alla carenza in concreto di potere particolare interesse assume ai nostri fini quella riguardante il superamento dei tempi procedimentali. Nel caso di avvenuta maturazione di un termine perentorio, si consuma il potere dell’amministrazione, la quale decade dalla potestà di provvedere, sicché il provvedimento emesso tardivamente deve ritenersi invalido. Le suesposte considerazioni consentono di affermare che, nella fattispecie, non si è realizzata la carenza di potere in astratto dell’ente impositore: le norme che attribuiscono all’ufficio periferico la competenza ad emettere un avviso di accertamento in materia di imposte dirette ed Iva esistono23 e, sul punto, la disposizione contenuta nello Statuto del contribuente si palesa del tutto ininfluente. Più fondata sembrerebbe, almeno prima facie, l’affermazione circa la ricorrenza, nel caso, di una ipotesi di carenza di potere in concreto. Ritengo peraltro che non si realizzi neppure questa situazione, posto che il termine dilatorio di cui si discute non comporta, quale effetto, la consumazione del potere amministrativo, e quindi non si verifica alcuna decadenza della pubblica amministrazione24. L’attività vincolata della amministrazione finanziaria e la violazione delle norme sulla partecipazione del contribuente alla luce dell’art. 21-octies L. n. 241/1990 Occorre a questo punto valutare se il caso in esame possa rien-

22 In termini coincidenti: CARINGELLA, Manuale, cit., 1137; PONTE, Commento all’art. 21-septies, in BOTTIGLIERI-COGLIANI-PONTE-PROIETTI, Commentario, cit., Padova, 2007, 821; VILLATA-RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, cit., 370. Analogamente, nella giurisprudenza amministrativa, ex multis: Cons. di Stato, sez. IV, 21 agosto 2006, n. 4858; Cons. di Stato, sez. V, 31 luglio 2006, n. 4694; T.A.R. Campania Napoli sez. V, 3 ottobre-2006, n. 8474, tutte in Lex24 & Repertorio24. Il Sole 24 ore. Secondo TRAVI, La legge n. 15/2005: verso un nuovo diritto amministrativo?, in Corr. Giur., 2005, 449, la carenza di potere in concreto potrebbe essere recuperato sul piano degli elementi essenziali del provvedimento (in giurisprudenza, per una ipotesi esemplificativa, cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 21 agosto 2006, n. 4858, in Lex24 & Repertorio24. Il Sole 24 ore). 23 Sono l’art. 31, comma 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, secondo cui «gli uffici delle imposte controllano le dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti d’imposta, ne rilevano l’eventuale omissione e provvedono alla liquidazione delle imposte o maggiori imposte dovute». L’art. 51, comma 1, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 per il quale «gli uffici dell’imposta sul valore aggiunto controllano le dichiarazioni presentate e i versamenti eseguiti dai contribuenti, ne rilevano l’eventuale omissione e provvedono all’accertamento e alla riscossione delle imposte o maggiori imposte dovute». L’art. 62, comma 1, D.Lgs. 30 luglio 1999. n. 300, stabilisce che: «all’Agenzia delle Entrate sono attribuite tutte le funzioni concernenti le entrate tributarie erariali che non sono assegnate alla competenza di altre agenzie, amministrazioni dello Stato [...], con il compito di persegui-

trare tra le ipotesi previste dall’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, il quale dispone la non annullabilità del provvedimento, adottato in violazione di norme sul procedimento, qualora sia palese che il contenuto di questo, per la sua natura vincolata, non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato dalla amministrazione finanziaria. È affermazione ricorrente quella secondo cui l’attività della amministrazione finanziaria nella determinazione del tributo sia tendenzialmente vincolata25, sicché anche il giudice tributario, prima di procedere all’annullamento di un avviso di accertamento, dovrebbe compiere un’indagine circa l’influenza che eventuali memorie presentate dal contribuente avrebbero potuto determinare sulla formazione dell’atto impositivo. L’applicabilità della norma surrichiamata all’ambito tributario si palesa peraltro di problematica prospettazione. Innanzitutto, come autorevolmente sostenuto, il significato che viene attribuito, in ambito amministrativo, al concetto di “vincolatezza” sembra diverso dal modo in cui viene tradizionalmente inteso con riferimento agli atti della amministrazione finanziaria: nella ipotesi dell’art. 21-octies si evoca infatti «un certo meccanicismo dell’atto, una forte predeterminazione legislativa del relativo contenuto, con la possibilità del destinatario di intenderlo agevolmente, al di là del vizio formale»26. In materia tributaria infatti la rigida alternativa “discrezionalitàvincolatezza” appare un modello esplicativo inadeguato ad inquadrare i molteplici aspetti della realtà giuridica, stante l’esistenza di numerosi profili che il fisco può essere chiamato a bilanciare nell’applicazione dei tributi27.

re il massimo livello di adempimento degli obblighi fiscali sia attraverso l’assistenza ai contribuenti, sia attraverso i controlli diretti a controllare gli inadempimenti e l’evasione totale». L’art. 2, comma 2, del regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate prevede poi che «l’Agenzia si articola in uffici centrali e regionali, con funzioni prevalenti di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo, e in uffici locali, con funzioni operative». L’art. 5, comma 1, dispone poi che «le funzioni operative dell’Agenzia sono svolte da uffici locali di livello dirigenziale. Essi curano, in particolare, l’attività di informazione ed assistenza ai contribuenti, la gestione dei tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del contenzioso». 24 Di contrario avviso MAGLIARO, Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifica fiscale: il ruolo del contraddittorio anticipato, supra a commento della stessa sentenza, 49 ss. 25 Si evidenzia in dottrina come la quasi totalità dei provvedimenti dell’amministrazione finanziaria abbia natura vincolata: ALLORIO, Diritto processuale tributario, Torino, 1962, 104 ss.; GALLO, Discrezionalità nell’accertamento tributario e sindacabilità delle scelte dell’ufficio, in Riv. Dir. Fin., 1992, I, 655; GALLO, Discrezionalità (Dir. Trib.), in Enc. Dir., aggiornamento, III, Milano, 1999, 536; MORETTI, La motivazione nell’accertamento tributario, Padova, 1969, 222; MANZONI, Potere di accertamento e tutela del contribuente nelle imposte dirette e nell’Iva, Milano, 1993, 220; MAFFEZZONI, Il procedimento di imposizione nell’imposta generale sull’entrata, Napoli, 1965, 100 ss.; RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2002, 255, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale,

cit., 208. Riconoscono l’esistenza in capo all’ufficio soltanto di una discrezionalità cd. tecnica: FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 364; MICHELI, Premesse per una teoria della potestà d’imposizione, in Riv. Dir. Fin., 1967, I, 270; PERRONE, Discrezionalità e norma intera nell’imposizione tributaria, Milano, 1969, 40. 26 Testualmente LUPI, Un’ipotesi limitata alle vicenda “autoesplicative”, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 542. 27 Così: LUPI, Un’ipotesi limitata alle vicenda “autoesplicative”, cit., 542. Lo stesso autore, in altra occasione, aveva evidenziato come siffatti profili dispositivi diano «luogo talvolta a vera e propria discrezionalità amministrativa» (cfr. LUPI, Diritto tributario. Parte generale, Milano, 2000, 61; al riguardo vedasi pure FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 277). A favore della connotazione discrezionale dell’attività istruttoria si sono espressi: BOSELLO, La fiscalità fra crisi del sistema e crisi del diritto, in Riv. Dir. Trib., 1998, I, 1080; FALSITTA, Il ruolo di riscossione, Padova, 1972, 233 ss.; FICARI, Utilizzazione e trasmissione di dati bancari, segreto bancario ed accertamento tributario: dalla L. n. 197 del 1991 antiriciclaggio alla L. n. 413 del 1991, in Riv. Dir. Trib., 1992, I, 856; LOVISETTI, Ricorso alle indagini bancarie e motivazione dell’autorizzazione, in Corr. Trib., 2001, 759; LUPI, Diritto tributario. Parte generale, cit., 177 ss.; LUPI, Manuale professionale di diritto tributario, 1998, 276; MOSCATELLI, Discrezionalità dell’accertamento tributario e tutela del contribuente, in Rass. Trib., 1997, 1110; SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 223 ss.; TESORO, Principi di diritto tributario, Bari, 1938, 298 ss.; VIOTTO, I poteri di indagine del-


58

GiustiziaTributaria

1 2009

Sotto un diverso profilo si dubita del fatto che le norme tributarie afferenti la partecipazione del contribuente alla fase procedimentale possano qualificarsi come norme sul procedimento, in quanto assolvono ad una finalità di concreto adeguamento del contenuto del provvedimento finale alle dimensioni effettive dell’evasione28. Nel caso previsto dall’art. 12, comma 7, dello Statuto le osservazioni comunicate dal contribuente possono in effetti condizionare il contenuto dispositivo dell’atto sia sul piano motivazionale sia su quello sostanziale di misurazione del presupposto d’imposta. Aperta è, infine, la questione circa la possibilità per il giudice tributario di annullare un atto impositivo emesso in violazione del termine dei sessanta giorni, qualora venga dimostrato che, ove le osservazioni del contribuente fossero state valutate in sede endoprocedimentale, il contenuto dell’avviso di accertamento sarebbe stato palesemente diverso29. Conclusioni Le considerazioni sinora svolte consentono di esprimere alcune valutazioni sul ragionamento seguito dai giudici di Trieste i quali pervengono a delle conclusioni non del tutto condivisibili. Infatti se da un canto l’inosservanza del dettato dell’art. 12, comma 7, dello Statuto «non può andare esente da sanzione» e, quindi, non può apprezzarsi come una mera irregolarità non invalidante, meno convincente appare la contestuale affermazione secondo cui, nel caso, avremmo un avviso di accertamento che sarebbe simultaneamente nullo, verificandosi l’ipotesi della carenza di potere in concreto, ed al contempo anche giuridicamente inesistente, verificandosi l’ipotesi della cd. carenza di potere in astratto. Infatti valorizzando la dicotomia nullità-annullabilità la figura della inesistenza sarebbe assimilabile alla nullità per identità di regime ed effetti, sicché avremmo, nel caso, un’unica forma di invalidità (e non due); per converso, ove si riconoscesse all’invalidità un carattere triadico, sorgerebbe la necessità di distin-

l’amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002, 139; ZINGALI, L’elasticità della norma e la discrezionalità dell’amministrazione nel campo tributario, in Dir. e Prat. Trib., 1960, 6 ss. 28 In questo senso LA ROSA, Principi di diritto tributario, Torino, 2006, 478. Sotto un diverso profilo la necessità del contraddittorio procedimentale si ricollega allo stato di inferiorità conoscitiva dell’amministrazione in relazione ai fatti che determinano la base imponibile. In questo senso l’informazione (proveniente dal contribuente) relativa al presupposto d’imposta è necessaria per la esatta determinazione dell’imposta medesima (così MARELLO, L’accertamento con adesione, cit., 152 ss.; circa il deficit conoscitivo della a.f. vedasi LUPI, Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, 75 ss.). Secondo l’Agenzia delle Entrate nel procedimento di accertamento basato sugli studi di settore «il contraddittorio con il contribuente consente una più fondata e ragionevole “misurazione” del presupposto impositivo che tiene conto degli elementi di valutazione offerti dal contribuente». (cfr. circ. Ag. Entrate 7 giugno 2004, n. 21/E, punto 7; analogamente circ. Ag. Entra-

guere le diverse patologie dell’atto, sì da ricondurre alla categoria della inesistenza solo delle ipotesi marginali non inquadrabili in alcuno dei tipi previsti dalla legge; in questa direzione il collegio di Trieste avrebbe dovuto ricondurre la fattispecie all’una o all’altra figura, non potendo coesistere le due diverse patologie invalidanti in presenza di un’unica violazione di legge30. Non sembra poi che nella fattispecie si sia realizzata la carenza di potere in astratto dell’ente impositore, in quanto esiste un corposo reticolato normativo che appunto attribuisce agli uffici periferici dell’Agenzia delle Entrate la competenza ad emettere un avviso di accertamento in materia di imposte dirette ed Iva, e su cui la disposizione contenuta nello Statuto dei contribuenti non riverbera effetto alcuno. Né ritengo ravvisabile una ipotesi di carenza di potere in concreto, posto che il termine dilatorio di cui si discute non comporta, quale effetto, la consumazione definitiva del potere impositivo. Se dunque si può affermare che la mancata instaurazione del contraddittorio post verifica rappresenti una invalidità procedimentale, non pare che ciò possa comportare la nullità-inesistenza dell’atto né, quale “automatica” conseguenza, l’annullamento dell’avviso di accertamento in assenza di ulteriori elementi valutativi: depongono in tal senso sia il dato testuale che non prevede alcuna sanzione (unitamente alla bifronte giurisprudenza di legittimità che avalla violazioni ben più gravi dei principi di collaborazione fisco-contribuente), sia il fatto che, attualmente, gli strumenti deflattivi del contenzioso consentono comunque un possibile contraddittorio procedimentale (anche) successivo alla emanazione dell’avviso di accertamento. Il mancato rispetto della norma contenuta nello Statuto dovrebbe quindi essere sanzionato “in senso ampio” sul piano della valutazione complessiva del comportamento tenuto da ente impositore e contribuente nella fase istruttoria ed in quella processuale, «costituendo un argomento collaterale per giungere eventualmente all’annullamento dell’accertamento»31.

te 26 agosto 2003, n. 48/E, punto 6, e circ. Ministero delle Finanze 8 agosto 1997, n. 235/E, punto 1.2). 29 Dubita di tale possibilità RENDA, L’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente, cit., 242, nonché MAGLIARO, Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifica fiscale: il ruolo del contraddittorio anticipato, supra a commento della stessa sentenza, 49 ss. Secondo MULEO, Motivazione degli atti impositivi e (ipotetici) riflessi tributari delle modifiche alla legge n. 241/90, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 538, «l’eventuale ammissibilità del principio di cui all’art. 21-octies al procedimento tributario non implicherebbe la possibilità di mutare il percorso della motivazione sulla base di elementi probatori nuovi ed ulteriori rispetto a quelli già acquisiti al termine dell’istruttoria primaria». Sembrano invece ritenere possibile un vaglio giudiziale: AZZONI, Brevi note circa l’avviso di accertamento emanato in violazione del termine utile al contraddittorio anticipato, cit., 61, nonché TESAURO, Invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 19, 2005, 1448. 30 Seguendo una certa linea di pensiero le recenti modifiche hanno comportato la necessità di distinguere, anche nel settore tributa-

rio, tra provvedimento nullo ed annullabile, con la conseguenza che molte ipotesi finora indicate come cause di inesistenza del provvedimento impositivo debbono essere riclassificate come ipotesi di nullità. In questa prospettiva cioè l’invalidità nel diritto tributario avrebbe assunto un carattere triadico (sul punto vedasi TESAURO, Invalidità dei provvedimenti impositivi, cit., 1446. Sulle recenti modifiche vedasi: altresì BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi; considerazioni su principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. Dir. Fin., 2006, I, 356 ss.). Prima della novella del 2005, l’invalidità dell’atto tributario aveva natura dicotomica, in quanto oltre alla figura dell’atto illegittimo (e, quindi, annullabile) si riconosceva solo quella dell’atto inesistente, privo cioè di quei requisiti minimi che condizionano la nascita dell’atto da un punto di vista giuridico (al riguardo si rinvia a: FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 396; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, cit., 216; TESAURO, Invalidità dei provvedimenti impositivi, cit., 1445 ss.). 31 Testualmente LUPI, La valutazione processuale del contegno delle parti come possibile via di uscita tra “nullità” e “mera irregolarità”, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 1183.


Accertamento 1 2009 59

EFFICACIA MERAMENTE INDIZIARIA DEI VALORI TRATTI DALL’OSSERVATORIO DEL MERCATO IMMOBILIARE 3

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 16 maggio 2008, n. 55 Presidente e Relatore: Crotti

Accertamento - D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d - Regime anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 35, comma 3, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, conv. con L. 4 agosto 2006, n. 248 (cd. legge Bersani), valori del cd. “Osservatorio del Mercato Immobiliare” - Valore probatorio di presunzioni semplici Difetto dei requisiti di gravità, precisione e concordanza - Necessità di ulteriori elementi (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d; D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 3, conv. con L. 4 agosto 2006, n. 248) Prima delle modifiche introdotte dall’art. 35, comma 3, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248 (cd. legge Bersani), i valori desumibili dall’Osservatorio del mercato immobiliare (Omi), essendo frutto di elaborazioni statistiche per medie, non hanno valore di presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, con la conseguenza che possono essere posti a base di un avviso di accertamento, emesso ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, solo se sono integrati da altri elementi. Svolgimento del processo E.A. di A.A. & C. S.n.c., svolgente l’attività di impresa edile artigiana, ricorre, ritualmente, con tre distinti ricorsi, avverso altrettanti avvisi di accertamento, emessi a suo carico dall’Agenzia delle Entrate per gli anni d’imposta 2003, 2004, 2005. L’ufficio ha proceduto ad accertare un maggior imponibile ai fini Irpef (soci), Iva ed Irap contestando a parte ricorrente una cessione di immobili di civile abitazione a privati, non imprenditori: vendita dalla quale avrebbe incassato, “in nero”, una parte cospicua del corrispettivo pattuito. La conclusione alla quale l’Agenzia è pervenuta “previa elaborazione di una pluralità di informazioni” si fonda: 1) sulle risposte pervenute dagli istituti di credito, mutuanti degli acquirenti «ai quali erano stati inviati una serie di questionari, in base e per l’effetto dell’art. 32, comma 1, n. 5, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600», quesiti in cui venivano richieste informazioni in ordine all’istruttoria effettuata per la concessione del finanziamento per l’acquisto dell’immobile; 2) sul valore di mercato degli immobili compravenduti, così come desumibile sulla base dei dati rilevati dall’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia del territorio; 3) per il solo anno d’imposta 2003, sulle notizie desunte dai contraddittori instaurati con gli acquirenti degli immobili (sempre in base all’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973). La difesa contesta la legittimità degli atti, chiedendone la dichiarazione di nullità, per le seguenti ragioni: a) illegittima modalità di acquisizione della documentazione bancaria, ciò a dire; l’Agenzia avrebbe proceduto all’acquisizione secondo i dettami del comma 1, n. 5, del più volte citato art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, e non, come voluto dalla norma, in base al successivo punto 7; quindi, non sarebbe stata richiesta la necessaria autorizzazione gerarchica; ma v’è di più: secondo parte ricorrente, a detta illegittima modalità di acquisizione conseguirebbe l’inutilizzabilità dei suddetti dati ai fini degli accertamenti; b) illegittimo utilizzo dei dati desunti dall’Osservatorio del mer-

cato immobiliare: gli stessi avrebbero valenza, e solo per gli atti formati prima del 4 luglio 2006, di presunzioni semplici e non assolute, come, invece, assume l’Agenzia nel caso di specie; all’uso irregolare dei suddetti dati conseguirebbe la nullità degli atti opposti; c) illegittimo utilizzo di documenti non provenienti dalla ricorrente e/o dai suoi aventi causa e comunque privi di valenza contrattuale: l’Agenzia definirebbe “preliminare di cessione” quelli che in realtà sarebbero solo schemi contrattuali del tutto anonimi; d) violazione del principio di buona fede e di chiarezza e motivazione degli atti in base e per gli effetti tutti della L. 27 luglio 2000, n. 212. Parte ricorrente deposita memoria illustrativa con documenti allegati; l’Agenzia produce controdeduzioni con le quali, dopo avere, pregiudizialmente, contestato l’ammissibilità della suddetta memoria, in quanto, con la stessa, sarebbero stati introdotti, irritualmente, motivi aggiunti “sostanzialmente, rifacendosi alla motivazione degli avvisi impugnati”, ribadisce la legittimità del proprio operato chiedendone la conferma; in particolare, sottolinea, che: a) l’eventuale illegittimità delle modalità di acquisizione delle informazioni dagli istituti bancari mutuanti non porterebbero alla nullità degli avvisi impugnati, sia perché non esisterebbe una norma esplicita che la sanzioni con l’inutilizzabilità, sia per l’immanenza nel sistema del principio giuridico sintetizzato dal noto brocardo latino male captum bene retentum; b) i dati desunti dall’Osservatorio del mercato immobiliare, indipendentemente dalla normativa citata, di per sé, comunque, avrebbero la valenza di presunzioni gravi, precise, concordanti; c) i documenti utilizzati, anche se non sottoscritti dagli interessati, sarebbero, in ogni caso, del tutto simili a quelli utilizzati da altri promessi acquirenti e, dunque, la loro validità ai fini probatori rimarrebbe integra; d) non vi sarebbe violazione dello Statuto del contribuente in quanto l’Agenzia si sarebbe comportata lealmente nei confronti di parte ricorrente. All’udienza le parti confermano le proprie doglianze. La Commissione, preliminarmente, osserva: - i ricorsi sono connessi e pertanto gli stessi vanno riunificati; assorbendo, il fascicolo [...] i ricorsi [...] e [...]; - va disattesa la richiesta dell’Agenzia di dichiarare inammissibile la memoria illustrativa della difesa in quanto introdurrebbe nel giudizio, irritualmente, motivi aggiunti, non specificando, l’Agenzia, quali sarebbero tali motivi aggiunti. Ad avviso del Collegio la difesa non fa altro che sottolineare le proprie lagnanze nei ricorsi introduttivi ed a produrre ulteriori documenti a supporto. Motivi della decisione Il più volte citato art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 dispone, al primo comma, che gli uffici delle imposte, per l’adempimento dei loro compiti possono: [Omissis] 5) Richiedere agli organi e alle amministrazioni dello Stato, agli enti pubblici non economici, alle società ed enti di assicurazione ed alle società ed enti che effettuano istituzionalmente riscossioni e pagamenti in conto di terzi [...] la comunicazione, anche in deroga a contrarie disposizioni legislative, statutarie o regola-


60

GiustiziaTributaria

1 2009

mentari, di dati e notizie relativi a soggetti indicati singolarmente o per categorie. Alle società ed enti di assicurazione, per quanto riguarda i rapporti con gli assicurati del ramo vita, possono essere richiesti dati e notizie attinenti esclusivamente alla durata del contratto di assicurazione, all’ammontare del premio e alla individuazione del soggetto tenuto a corrisponderlo. Le informazioni sulla categoria devono essere fornite, a seconda della richiesta, cumulativamente o specificamente per ogni soggetto che ne fa parte. Questa disposizione non si applica all’Istituto centrale di statistica, agli ispettori del lavoro per quanto riguarda le rilevazioni loro commesse dalla legge, e, salvo il disposto del n. 7, alle banche, alla società Poste Italiane S.p.A., per le attività finanziarie e creditizie, agli intermediari finanziari, alle imprese di investimento, agli organismi di investimento collettivo del risparmio, alle società di gestione del risparmio e alle società fiduciarie; 6) [Omissis] 7) Richiedere, previa autorizzazione del Direttore centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle Entrate o del Direttore regionale della stessa, ovvero, per il Corpo della Guardia di Finanza, del Comandante regionale, alle banche, alla società Poste Italiane S.p.A. per le attività finanziarie e creditizie, agli intermediari finanziari, alle imprese di investimento, agli organismi d’investimento collettivo del risparmio, alle società di gestione del risparmio e alle società fiduciarie, dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati, con i loro clienti, nonché alle garanzie prestate da terzi. Alle società fiduciarie di cui alla L. 23 novembre 1939, n. 1966, e a quelle iscritte nella sezione speciale dell’albo di cui all’art. 20 del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria di cui al D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, può essere richiesto, tra l’altro, specificando i periodi temporali di interesse, di comunicare le generalità dei soggetti per conto dei quali esse hanno detenuto o amministrato o gestito beni, strumenti finanziari e partecipazioni in imprese, inequivocabilmente individuati. La richiesta deve essere indirizzata al responsabile della struttura accentrata, ovvero al responsabile della sede o dell’ufficio destinatario che ne dà notizia immediata al soggetto interessato; la relativa risposta deve essere inviata al titolare dell’ufficio procedente; [Omissis] Pacifico, per tabulas, nel caso di specie, non contestato dall’Agenzia resistente, che la stessa abbia richiesto agli istituti bancari mutuanti dati e notizie inviando la richiesta ai sensi del n. 5 e non del n. 7, senza, cioè, aver previamente ottenuto, e, a quanto è dato saperne, senza neppure averla domandata, l’autorizzazione del Direttore centrale dell’accertamento dell’Agenzia stessa o del suo Direttore regionale. Il problema di diritto che ora si pone, ed a cui questo giudice è chiamato a dare soluzione, è quali siano le conseguenze di questa omissione, se cioè, come sostiene parte ricorrente, ne consegua l’inutilizzabilità dei dati e notizie ottenuti dagli istituti ban-

cari, oppure se, come sostiene l’Agenzia, la illegittima modalità di acquisizione degli stessi non ne impedisca la legittima utilizzabilità ai fini dell’accertamento; al Collegio è ben noto l’ampio dibattito dottrinario e giurisprudenziale sviluppatosi sul punto e lo stesso non può non concordare con le conclusioni a cui è pervenuta la Suprema Corte; conclusioni che hanno definitivamente posto termine a qualche contrasto sorto al suo interno. Non è fuori luogo osservare che le pronunce richiamate dall’Agenzia sono tutte anteriori a quelle cui la Commissione si riferisce. Ebbene, secondo l’orientamento consolidato, va dichiarata l’inutilizzabilità a sostegno dell’accertamento delle prove illegittimamente acquisite per i seguenti motivi: 1) detta inutilizzabilità non esige un’espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale, secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola; 2) il compito del giudice (di vagliare le prove offerte in causa) è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente riscontrato la rituale assunzione; 3) l’acquisizione di un documento con violazione di legge non può non rifluire a vantaggio del detentore, che sia l’autore di tale violazione, o ne sia comunque direttamente o indirettamente responsabile; in conclusione deve dunque affermarsi che nel caso di specie non possono essere legittimamente utilizzabili, quali prove a sostegno degli avvisi d’accertamento impugnati, le informazioni ottenute dal sistema bancario mutuante gli acquirenti. Il Collegio si chiede se gli avvisi impugnati che, lo si vuole rimarcare, hanno preso corpo sulla base di una pluralità di informazioni ottenute da altrettante fonti mantengano la propria validità potendosi basare su altre fonti che non siano quelle bancarie; per quanto attiene le informazioni desunte sulla base dei dati rilevati dall’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia del Territorio va, preliminarmente, sottolineato come, per gli atti formati prima che andasse in vigore la legge Bersani, i dati avessero la valenza di presunzioni semplici. Presunzioni che in tanto potevano venire poste a base di un avviso d’accertamento in quanto fossero gravi, precisi e concordanti; caratteristiche del tutto assenti, essendo frutto di elaborazioni statistiche per medie che, per assurgere al valore di presunzioni gravi, precise e concordanti devono essere supportate da altri elementi che nella fattispecie non esistono; quanto alle informazioni desunte dai verbali di contraddittorio con gli acquirenti, richiamati per il solo anno d’imposta 2003, va evidenziata la loro inutilizzabilità ai fini del giudizio stante, per tabulas, la sistematica opera di oscuramento e censura attuata dall’Agenzia sui suddetti verbali che ne rendono impossibile una completa intelligenza ed approfondita valutazione. A tutto ciò consegue che gli avvisi impugnati, non essendo supportati da alcun valido elemento probatorio, perdono ogni legittimità e vanno annullati. Le spese di giudizio, qualificate in euro 12.000,00, seguono la soccombenza.

Nota di Mario Cermignani

vati dall’Osservatorio del mercato immobiliare» (Omi) «dell’Agenzia del Territorio», «essendo frutto di elaborazioni statistiche per medie», hanno, con riferimento agli atti formati prima dell’entrata in vigore dell’art 35, comma 3, del predetto D.L. n. 223/2006, «valenza di presunzioni semplici», prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza previsti dalla legge; conseguentemente, per essere posti a base di un atto impositivo di tipo presuntivo, tali valori devono essere integrati e supportati da elementi ulteriori, in grado di conferire legittimità allo schema inferenziale probabilistico-induttivo articolato sul citato art. 39, comma 1, D.P.R. n. 600/1973. Su un piano più generale, ne deriva che non è sufficiente, per l’Agenzia delle Entrate, dimostrare (puramente e semplicemente)

Il caso I giudici di Reggio Emilia ribadiscono sostanzialmente un principio affermato in modo pressoché uniforme dalla prevalente dottrina e giurisprudenza, in tema di accertamento analitico-induttivo (ai fini delle imposte dirette, ex art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) di un maggiore imponibile generato da operazioni di trasferimento immobiliare, prima delle modifiche introdotte dall’art. 35, comma 3, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248. Viene infatti chiarito che i valori desumibili «sulla base dei dati rile-


Accertamento 1 2009 61

che il “valore normale” del bene immobile compravenduto (ossia il valore di scambio “medio” del bene) risulta divergente dal prezzo/corrispettivo particolare (ovvero dal valore di scambio specifico e concreto relativo alla singola operazione commerciale e risultante dagli atti e dalla documentazione contabile), per sorreggere, sul piano probatorio, l’accertamento analitico presuntivo di un maggior reddito d’impresa, essendo, di per sé, inidoneo il solo uso di “medie statistiche” ad integrare i necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza1.

certativo5; ossia, come affermato dalla stessa Cassazione in altra occasione, «nel contesto della situazione contabile ed economica dell’impresa, in presenza di altre concordanti indicazioni documentali o anche presuntive».6 Anche la dottrina prevalente ritiene che la semplice discrepanza tra il corrispettivo dichiarato in atti ed il valore commerciale di un bene immobile, a rigore costituisce non una “presunzione”, ma un “argomento di prova” di natura meramente “indiziaria”, che necessita, per fondare adeguatamente il recupero induttivo di corrispettivi non dichiarati, dell’individuazione/valutazione di Contesto normativo ante D.L. n. 223/2006 e criterio ulteriori elementi rafforzativi ascrivibili al soggetto passivo d’imdel “valore normale” posta (e tali da connotare un quadro probatorio complessivo Vi è da dire che, per quanto concerne il settore immobiliare, in avente i requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui allinea generale il criterio del “valore normale” dei beni e dei di- l’art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. n. 600/1973)7. ritti scambiati sul mercato (inteso ai sensi dell’art. 9, comma 3, T.U.I.R., come «prezzo o corrispettivo mediamente praticato per Le modifiche introdotte dal D.L. n. 223/2006 beni e servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera Per quanto riguarda le imposte sui redditi, l’art. 35, comma 3, concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel D.L. n. 223/2006 (in vigore dal 4 luglio 2006), ha modificato la tempo e nel luogo in cui è stata effettuata l’operazione o nel tem- lett. d del comma 1 dell’art. 39 D.P.R. n. 600/1973, prevedendo po e nel luogo più prossimi»), può essere posto dall’amministra- che nelle «cessioni aventi ad oggetto beni immobili ovvero la cozione finanziaria a base di una presunzione “semplice” nel con- stituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento sui metesto di un accertamento analitico-induttivo2. desimi beni», la prova presuntiva dell’esistenza di attività non diDalla stessa definizione normativa (art. 9, comma 3, T.U.I.R.), chiarate o inesistenza di passività dichiarate (ai fini delle rettifituttavia, emerge che il “valore normale” è in sostanza rappre- che analitiche delle dichiarazioni dei redditi determinati sulla basentato dall’equivalente monetario “medio” del valore di scam- se delle scritture contabili), si «intende integrata» anche se «l’inbio di una determinata tipologia (omogenea) di beni, commer- fedeltà dei relativi ricavi viene desunta sulla base del valore norcializzati in un mercato (o segmento di mercato) dotato di carat- male», determinato ai sensi dell’art. 9, comma 3, del T.U.I.R. teristiche strutturali del tutto uniformi e comparabili, cui, astrat- Si tratta dell’introduzione di una particolare presunzione “legatamente, appare riconducibile la particolare e specifica opera- le” che opera nel caso di trasferimenti immobiliari, sul piano zione oggetto di procedimento accertativo. probatorio, ad evidente vantaggio dell’Agenzia delle Entrate, faÈ dunque evidente che si tratta di una categoria concettuale sca- cilitando notevolmente la speditezza dell’azione accertativa8. turente da una legge economica (quella della domanda e dell’of- La funzione della norma in questione è di chiara natura antieferta), corrispondente ad un modello puramente astratto e teori- vasiva, inserendosi nel contesto dell’accertamento analitico-conco di funzionamento del mercato3. tabile ex art. 39, comma 1, D.P.R. n. 600/1973: la prova desunDa ciò consegue che, per i periodi d’imposta precedenti all’en- ta «sulla base del valore normale» viene pertanto legislativamentrata in vigore del citato D.L. n. 223/2006, il disallineamento tra te considerata sufficiente, in modo autonomo, a fondare la rettiil prezzo di cessione di un immobile dichiarato in atti ed il valo- fica dell’imponibile, senza necessità di ulteriori integrazioni. re commerciale del bene scambiato (frutto di medie statistiche e Si è correttamente evidenziato che non è il valore normale in sé procedimenti estimatori), può in realtà rappresentare solo un ad essere assunto dalla norma come fondamento dell’atto impo“indizio” (e non una presunzione) di evasione, utilizzabile, a cer- sitivo, ma è il disallineamento tra il valore normale e il corrispette condizioni, in sede di accertamento del reddito d’impresa4. tivo che viene ricondotto ex lege nel novero dei fatti idonei a supLa Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza 7 portare una presunzione di evasione tributaria attraverso fattiagosto 2008, n. 21348, ha recentemente ribadito tale linea inter- specie simulatorie del prezzo di vendita.9 pretativa, affermando che il mero confronto fra prezzo del bene, È stata dunque inserita nel sistema una presunzione legale “relacontabilizzato quale risultante dal contratto, e valore normale sul tiva” che, sul piano esclusivamente procedimentale/processuale, mercato (ricostruito sulla base delle stime dell’Ute), può non co- determina l’inversione dell’onere probatorio a favore dell’ammistituire elemento sufficiente a giustificare il recupero a reddito nistrazione finanziaria, vincolando il giudice, in mancanza di della differenza. L’indizio consistente nello scostamento sensibile prova contraria del contribuente, a ritenere dimostrata l’entità del prezzo del bene, dichiarato in contratto, dal valore medio di dell’evasione per maggiori redditi o minori costi deducibili in bamercato non può infatti essere valutato isolatamente, ma deve es- se alla prova del solo fatto indiziante (divergenza tra valore norsere letto dal giudice di merito in rapporto all’intero contesto ac- male e corrispettivo dichiarato)10.

1 Cfr. BEGHIN, I valori dell’Omi al bivio tra presunzioni semplici e legali, in Corr. Trib.,. 30, 2008, 2450 ss. 2 Cfr. TASSANI, L’accertamento dei corrispettivi nelle cessioni immobiliari e la nuova presunzione fondata sul valore normale, in Rass. Trib., 1, 2007, 148 3 Cfr. BEGHIN, La differenza prezzo-valore rileva solo in una “vera” valutazione d’insieme, in Corr. Trib., 36, 2008, 2934. 4 Cfr. BEGHIN, La differenza prezzo-valore, cit., 2934. 5 Cfr. Cass., sez. trib., 7 agosto 2008, n. 21348, in Corr. Trib., 36, 2008, 2931 ss.

6 Cfr. Cass., sez. trib., 1 agosto 2000, n. 10049, in banca dati fisconline. 7 Cfr. in questo senso, anche BEGHIN, cit., 2935; per un approfondimento sulla tematica della prova nel diritto tributario, Cfr. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005; TESAURO, Prova (diritto tributario), in Enc. Dir., III, Milano, 1999, 882 ss.; ID, TESAURO, La prova nel processo tributario, in Riv. Dir. Fin., 2000, 73; TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009; 155 ss.; DEL FEDERICO, I poteri istruttori delle Commissioni Tributarie, in Quaderni del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, 5,

2002; TINELLI, Prova (diritto tributario), in Enc. Giur., XXV, Roma, 1991, 1 ss.; PUOTI, Istruzione e prova nel procedimento di imposizione, Roma, 1979, 121 ss. RUSSO, Problemi della prova nel processo tributario, in Rass. Trib., 2000, 380; AMATUCCI, Criteri di valutazione e utilizzo della prova nel processo tributario, in questa rivista, 2, 2008, 214 ss. 8 Cfr. BEGHIN, I valori dell’Omi, cit. 2452 ss. 9 Cfr. TASSANI, cit., 141. 10 Cfr. ancora, in una prospettiva più ampia, si rimanda a CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005; TESAURO, Prova (diritto tributario), in Enc. Dir.,


62

GiustiziaTributaria

1 2009

Il criterio del “valore normale” ha dunque, nel contesto dell’attuale art. 39 D.P.R. n. 600/1973, una valenza di tipo strettamente procedimentale che non pregiudica affatto il principio generale secondo il quale nei trasferimenti (immobiliari) a titolo oneroso la base imponibile è costituita dal corrispettivo liberamente determinato dalle parti11, presentando piuttosto una funzione di “garanzia” dell’effettività (nel caso concreto) dello stesso principio del corrispettivo contrattuale12. Ovviamente, alla luce dei limiti/principi costituzionali di capacità contributiva (art. 53 Cost.), di ragionevolezza, logicità e proporzionalità del prelievo tributario (e, di conseguenza, anche delle scelte legislative in ordine ai meccanismi presuntivi di accertamento dell’imponibile13), nonché di legittimità, imparzialità e correttezza dell’azione amministrativa (artt. 24, 97, 113 Cost.), appare necessario, per la legittima operatività della presunzione in questione, che la divergenza tra valore normale e corrispettivo dichiarato sia in ogni caso rilevante o notevole (o, comunque, statisticamente non “ordinaria”). Sintetizzando: l’inversione dell’onus probandi, fondata sulla presunzione introdotta dall’art. 35, comma 3, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, comporta che l’amministrazione finanziaria, nella fase istruttoria del controllo, debba comunque preliminarmente provare il “fatto indiziante”14, ossia determinare correttamente il “valore normale” dell’immobile trasferito e la difformità “rilevante” tra quest’ultimo e il corrispettivo negoziale; su tale base, potrà poi operare legittimamente il meccanismo presuntivo previsto dalla legge, senza necessità di valutare ulteriori requisiti di gravità, precisione e concordanza, necessari, al contrario, per le presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. ed art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. n. 600/1973. In altri termini, è ora la stessa legge che considera la discrasia tra valore normale e corrispettivo palesato, come “presunzione” grave, precisa e concordante di occultamento di corrispettivi. Il dato normativo dell’art. 35, comma 3, D.L. n. 223/2006, conferma che l’elemento posto a base della presunzione “legale” di infedeltà dei ricavi nelle transazioni immobiliari, è esclusivamente il “valore normale” dei beni immobili, «determinato ai sensi dell’art. 9, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui» al D.P.R. n. 917/1986, e non i valori dell’Omi, i quali rappresentano, al contrario, rilevazioni statistiche unilaterali costituenti un semplice elemento indiziario, non idoneo (se assunto “a priori” in modo isolato ed astratto, cioè senza ulteriori e possibili comparazioni) a fondare alcun tipo di presunzione né “semplice” (ex art. 2729 c.c. e 39, comma 1, lett. d D.P.R. n. 600/1973, in cui il nesso probabilistico-inferenziale tra circostanze conosciute ed eventi non direttamente noti deve essere caratterizzato da gravità, precisione e concordanza), né tanto meno legale (in cui il nesso tra fatto noto ed ignoto viene stabilito dalla legge). D’altro canto, per determinare il valore normale di un bene (o di un servizio), lo stesso art. 9, comma 3, T.U.I.R., prevede che si faccia «riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe profes-

III, Milano, 1999, 882 ss.; TINELLI, Prova (dir. trib.), in Enc. Giur., XXV, Roma, 1991, 1 ss.; PUOTI, Istruzione e prova nel procedimento di imposizione, Roma, 1979, 121 ss.; sulle presunzioni in materia tributaria, anche LUPI, Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988; ID., Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001; VERSIGLIONI, Presunzioni legali e prova del fatto ignoto nell’accertamento dell’Iva, in Riv. Dir. Trib., 2000, I, 139 ss. 11 Cfr. art. 85, comma 1; 86, comma 2; 92, 54,

sionali, tenendo conto degli sconti d’uso»: vengono cioè fissati legislativamente dei parametri oggettivi ed un ordine stringente di utilizzo degli stessi. I valori dell’Omi potrebbero eventualmente rientrare nella categoria delle “mercuriali”, che in sostanza sono tabelle di “valori modali” pubblicate da enti pubblici o privati sulla base di una rilevante pluralità di esperienze di mercato di cui sono in possesso in virtù dell’attività istituzionale svolta: si tratta dunque solo di uno dei possibili elementi concorrenti alla corretta/oggettiva individuazione del “valore normale” dell’immobile compravenduto. In proposito, è stato correttamente notato che, anche se la nozione di valore normale evoca di per sé un’idea di “stima”, nel senso di scelta fra una gamma continua di ipotetici valori tutti probabili (sia pure con un diverso grado di probabilità)15, appare «indubbio che la predisposizione normativa di criteri che vincolino l’interprete nella individuazione concreta del valore normale, possa ridurre i margini per la valutazione estimativa, fino ad escluderla completamente in alcuni casi limite nei quali i criteri delineati dal legislatore positivo finiscono per operare automaticamente o quasi»16. Più precisamente, si può affermare che non vi è (né potrebbe esservi) alcuna automatica ed assoluta coincidenza fra dati statistici (necessariamente frutto di “medie”generali ed astratte) desumibili dall’Osservatorio del mercato immobiliare, e “valore normale” dello specifico immobile oggetto di trasferimento a titolo oneroso, essendo di conseguenza necessario per l’ufficio accertatore, procedere ad una puntuale ed argomentata attività di “adeguamento” alla realtà, nella ricostruzione di un “valore normale” che tenga conto delle concrete caratteristiche del bene compravenduto, in una sorta di “personalizzazione dello schema inferenziale”17. Il tutto, pertanto, non può non risolversi (ancora adesso) in una questione di oggettiva efficacia persuasiva della prova presuntiva e di ragionevoli argomentazioni addotte dall’ufficio, sia nell’esatta ricostruzione del “valore normale”, sia per spiegare la divergenza tra corrispettivi dichiarati dal contribuente e quelli ricostruiti con riferimento al valore normale, attraverso l’occultamento di corrispettivi18. In questa direzione, inoltre, pare procedere il “provvedimento” dell’Agenzia delle Entrate del 27 luglio 2007 (G.U. n. 182 del 7 agosto 2007) con il quale sono stati stabiliti i criteri per la determinazione del valore normale degli immobili oggetto di compravendita, che rispondano ad «esigenze di uniformità e correttezza», con l’obiettivo di «una maggiore aderenza alla realtà dei prezzi praticati nel mercato immobiliare»: in tale ottica, viene precisato che i dati tecnico-statistici dell’Omi devono essere integrati «dalle altre informazioni in possesso dell’ufficio che possono adeguare maggiormente alla realtà l’aspetto personalizzato della valorizzazione dell’immobile»19. In ordine alla inapplicabilità retroattiva (ovvero a fattispecie realizzate prima del 4 luglio 2006) dell’art. 35, comma 3, D.L. n. 223/2006, la Commissione tributaria emiliana richiama giustamente l’art. 1, comma 265, della legge finanziaria per il 2008 (L.

comma 1, T.U.I.R. 12 Cfr. TASSANI, cit., 143. 13 Cfr. Corte costituzionale, ordinanze n. 651 del 16 giugno 1988 e n. 807 del 14 luglio 1988, in DE MITA, Fisco e Costituzione, II, Milano, 1993, 954 e 971; MOSCHETTI, Il principio di capacità contributiva, Padova, 1973, 283 ss.; FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005; DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2000, 85 ss. 14 Cfr. CIPOLLA, La prova, cit., 629. 15 Cfr., in tal senso, LUPI, Metodi induttivi e pre-

16

17 18 19

sunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, 119. Cfr. CARPENTIERI, Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi, Milano 1997, 24. È il caso estremo, ad esempio, di un bene per cui esista un unico mercato, un unico fornitore ed un unico listino prezzi rigidamente applicato. Cfr. BEGHIN, I valori dell’Omi, cit., 2450. Cfr. CARPENTIERI, cit. 220. Cfr. Provvedimento Ag. Entrate 27 luglio 2007, in Documentazione Tributaria.


Accertamento 1 2009 63

24 dicembre 2007, n. 244), il quale stabilisce che, per gli atti (di trasferimento immobiliare) formati anteriormente al 4 luglio 2006, la presunzione di cui al citato art. 35, valga come “presunzione semplice”: in tali ipotesi, dunque, il fisco non potrà procedere alla rettifica basandosi esclusivamente sul “valore normale”, dovendolo necessariamente integrare con altri elementi idonei a costruire un quadro probatorio grave, preciso e concordante. Il legislatore risolve gli equivoci correlati alla possibile applicazione a periodi d’imposta antecedenti a quello di emanazione del D.L. n. 223/2006, di una presunzione normativa sull’integrazione della prova, di carattere sicuramente procedimentale, ma in grado di incidere pesantemente su rapporti tributari pregressi20. Osservazioni conclusive È interessante, in conclusione, rilevare come la ratio delle modifiche legislative introdotte dall’art. 35, comma 3, D.L. n. 223/2006, rifletta, fondamentalmente, un particolare indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione21, in base al quale il riscontro di un comportamento del contribuente/impresa gravemente “antieconomico” (cioè assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo)22, costituisce un «elemento indiziario estremamente grave e preciso»23, in grado di legittimare l’accertamento presuntivo ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. n. 600/1973. In effetti, la divergenza tra valore normale e corrispettivo dichiarato nelle transazioni immobiliari, posta a base della presunzione legale ex art. 35 citato, potrebbe in modo plausibile essere interpretata/valutata alla luce dei criteri giurisprudenziali (derivanti senza dubbio dall’osservazione empirica del dato reale) di evidente e inspiegabile “antieconomicità” di una determinata operazione commerciale24. Su un piano di riflessione più generale, e considerando l’intera vicenda complessiva, viene da notare come la descritta dinamica costituisca un tipico esempio di determinazione “dialettica” (cioè non automatica né meccanica o unilaterale) delle “forme giuridiche” da parte del fattore economico-strutturale di fondo (il fe-

20 Cfr. BEGHIN, cit., 2452. 21 Cfr. Cass., sez. trib., n. 7680 del 26 febbraio 2002, in banca dati fisconline; n. 3980 del 22 maggio 2002, in Riv. Dir. Trib., 2003, II,

nomeno evasivo nel particolare settore immobiliare e la connessa perdita di gettito per lo Stato), attraverso l’interazione reciproca di una pluralità di “sovrastrutture” (il potere legislativo, l’Agenzia delle Entrate – articolazione dell’esecutivo –, la giurisprudenza, ma anche la dottrina) che producono/applicano/interpretano la norma giuridica di contrasto, in un processo sociale sostanzialmente unitario. Specularmente, dallo stesso fenomeno risulta confermata l’intrinseca flessibilità dello strumento giuridico tributario nell’adattarsi alla concreta realtà economica (oggetto di regolazione), producendo, a sua volta, su tale struttura economica basilare (“determinante”), rilevanti effetti e “retroazioni” successive e correlate. C’è da segnalare che, in data 17 marzo 2009, il Senato della Repubblica ha approvato il disegno di legge delega recante “Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2008” (AS 1078), il quale, all’art. 22, comma 4, lett. f e comma 5, abroga le presunzioni legali introdotte dai commi 2 e 3 del D.L. n. 223/2006, eliminando il “valore normale” come strumento di accertamento “automatico” nelle compravendite immobiliari, sia ai fini Iva (art. 54, comma 3, D.P.R. n. 633/1972) che delle imposte sui redditi (art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. n. 600/1973). Dalla documentazione interna del Senato (gennaio 2009, n. 33) relativa alla discussione dell’emendamento 16.0.2, emerge testualmente che «l’eliminazione della citata norma antielusiva» (rectius, antievasiva) «contenuta nella disciplina della rettifica delle dichiarazioni e della veridicità delle scritture contabili (recata dai due articoli 54 e 39 citati) e che consente un controllo più stringente dei dati dichiarati dai contribuenti, può recare indirettamente un minor gettito per effetto della minore capacità accertatrice da parte degli uffici, i cui accertamenti richiederanno un’attività più complessa»25. Continua incessante la dialettica reale tra interessi economici settoriali (imprese e mercato immobiliare), “generali” (interesse fiscale) e produzione di norme giuridiche positive.

504 ss.; n. 10802 del 23 aprile 2002; n. 1821 del 18 ottobre 2000, in Riv. Dir. Trib, 2001, II, 507 ss. 22 Cfr. Cass. n. 7680/2002, cit.

23 Cfr. Cass. n. 3980/2002 cit. 24 Cfr., in questo senso, anche TASSANI, cit., 151. 25 In http://www.senato.it/documentazione/bilancio.


64

GiustiziaTributaria

1 2009

CONDONI E SANATORIE ANCORA UN’IPOTESI DI CONDONO SUL CONDONO 4

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. IX, 6 marzo 2008, n. 28 Presidente: Angelini - Relatore: Casablanca

Condoni e sanatorie - Condono ex lege n. 413/1991 Perfezionamento della procedura di condono - Iscrizione nel ruolo speciale delle somme dovute - Pagamento in misura ridotta, per effetto di una successiva legge di condono, delle somme iscritte nel ruolo speciale - Conseguenze - Decadenza dal condono (L. 30 dicembre 1991, n. 413; L. 8 maggio 1998, n. 146; L. 27 dicembre 2002, n. 289) In tema di condono ex lege n. 413/1991, il versamento delle somme dovute non può essere ridotto applicando la norma di condono introdotta dall’art. 12 della legge n. 289/2002, poiché, ai sensi dell’art. 18, comma 1, della legge n. 146/1998 – che espressamente prevede che «i contribuentiche non hanno corrisposto in tutto o in parte [...] le somme dovute provvedano al pagamento delle complessive somme iscritte nel ruolo speciale» – è necessario il pagamento di tutte le somme iscritte a ruolo, altrimenti non si verifica l’efficacia novativa del condono ex lege n. 413/1991 sul rapporto tributario preesistente. La società contribuente presentava in data 30 giugno 1992 domanda di condono fiscale producendo dichiarazione integrativa ai sensi dell’art. 32 della legge n. 413/1991 concernente avvisi di accertamento per gli anni d’imposta dal 1986 al 1989, versando contestualmente la prima rata pari a lire 170.247.000. In data 23 luglio 1993, essendo stata disposta l’amministrazione controllata e successivamente promossa procedura di concordato preventivo, la società ometteva di versare le altre due rate di condono, per cui l’ufficio provvedeva alla iscrizione a ruolo delle residue due rate di condono per il pagamento delle quali veniva notificata la cartella di pagamento n. 990229. In data 15 maggio 2003, la società inoltrava comunicazione al concessionario per la riscossione di volersi avvalere della definizione ex art. 12 della legge n. 289/2002 provvedendo al pagamento della cartella n. 9900229 per euro 69.329,44, con la conseguenza di ritenere valido il condono prodotto ai sensi della legge n. 413/1991. In data 27 febbraio 2004, venivano notificate alla società le cartelle di pagamento afferenti le maggiori imposte accertate per gli anni dal 1986 al 1989 e la società inoltrava alla amministrazione finanziaria richiesta di sgravio totale per intervenuto condono, a cui l’ufficio rispondeva con un provvedimento di diniego dello sgravio motivando che la condizione di efficacia delle dichiarazioni integrative prodotte ai sensi dell’art. 32 della legge n. 413/1991 era il versamento dell’intero importo delle imposte liquidate. Contro il diniego, la società ricorreva alla Commissione tributaria provinciale sostenendo che il pagamento delle somme iscritte a ruolo effettuato ai sensi dell’art. 12 della legge n. 289/2002 costituiva regolare pagamento che non invalidava il condono richiesto ai sensi della legge n. 413/1991; soggiungeva che la sentenza della Corte di Cassazione n. 6462 del 6 maggio 2002 citata dall’ufficio nel provvedimento impugnato riguarda un caso di rideterminazione di imponibili scaturenti da precedente istanza di condono al fine di usufruire di altro condono, mentre nel caso di specie non v e stata alcuna rideterminazione. La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso. Contro la sentenza di primo grado l’Agenzia delle Entrate pro-

pone appello ed in via preliminare solleva eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo ritenendo che il rifiuto allo sgravio consiste in una semplice comunicazione che non può annoverarsi tra gli atti impugnabili ex art. 19 del decreto legislativo n. 546/1992; nel merito, osserva che non è consentito rideterminare gli importi da pagare usufruendo di altra legge sul condono. Chiede pertanto il pieno accoglimento dell’appello. Si costituisce in giudizio la società contribuente eccependo la inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 3 della legge n. 248/2005; nel merito, sostiene la piena legittimità del proprio operato e ribadisce la estraneità al caso di specie delle argomentazioni contenute nella sentenza citata della Corte di Cassazione. Conclude chiedendo che venga rigettato l’appello e confermata la impugnata sentenza. All’esito della discussione svoltasi in pubblica udienza, la causa è stata decisa come da dispositivo. Osserva il Collegio che preliminarmente vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso introduttivo e dell’appello sollevate da entrambe le parti in causa. L’ufficio deduce che il rigetto della istanza di sgravio non rientra tra i provvedimenti amministrativi impugnabili, ma costituisce una semplice comunicazione con la quale si informa il contribuente che non si procede allo sgravio della cartella. L’eccezione è infondata. Il rifiuto dell’ufficio allo sgravio delle cartelle di pagamento riguardanti i maggiori imponibili accertati, si traduce in un rigetto della definizione agevolata delle pendenze tributarie per omesso versamento degli importi risultanti dalla dichiarazione integrativa e quindi il provvedimento della amministrazione finanziaria, risolvendosi nella sostanza in un rifiuto di accogliere l’agevolazione scaturente dalla norma di condono, rientra a pieno titolo tra gli atti impugnabili indicati alla lettera h dell’art. 19 del decreto legislativo n. 546/1992. La società contribuente sostiene che l’appello dell’ufficio è inammissibile giacché l’atto non risulterebbe depositato preso la segreteria della Commissione tributaria provinciale, secondo quanto dispone l’art. 3 bis della legge n. 248/2005. L’eccezione è destituita di fondamento. Si rinviene agli atti del fascicolo una ricevuta datata 12 febbraio 2007 rilasciata dalla segreteria della Commissione tributaria provinciale da cui risulta che in pari data l’Agenzia delle Entrate di Lanciano ha depositato l’atto di appello. Nel merito, il thema decidendum ruota attorno alla questione se il pagamento di debiti di imposta derivanti da dichiarazione integrativa di condono di cui alla legge n. 413/1991 possa essere effettuato legittimamente in misura ridotta per effetto dell’ulteriore condono introdotto dalla legge n. 289/2002, mantenendo intangibili i benefici agevolativi previsti dalla normativa di favore. La risposta al quesito è negativa. La legge n. 413/1991 introduceva una serie di norme agevolative per la definizione delle pendenze tributarie in materia di imposte dirette e indirette, specificando al comma 1 dell’art. 32 relativamente all’Irpef, Irpeg e Ilor che i contribuenti «erano ammessi a presentare dichiarazioni integrative in luogo di quelle omesse e per rettificare in aumento quelle già presentate», prevedendo gli stessi adempimenti in materia di Iva e, per quanto attiene gli avvisi di accertamento – come nel caso di specie – disponendo che la dichiarazione integrativa dovesse recare un imponibile non inferiore alla somma del sessantacinque per cento dell’imponibile accertato e del quindici per cento dell’imponibile di-


Condoni e sanatorie 1 2009 65

chiarato dal contribuente e siano rate le relative imposte. L’art. 32, comma 3, della predetta legge n. 413 stabiliva poi la nullità della dichiarazione integrativa non predisposta sui moduli approvati dalla amministrazione finanziaria, aggiungendo al 40 comma che «le dichiarazioni integrative producono effetti a condizione che il contribuente esegua regolarmente i versamenti delle imposte in base ad esse dovute», precisando al successivo art. 39, comma 1, che le imposte sono riscosse mediante versamento diretto, da eseguirsi su stampati e moduli come disposto dall’art. 41 ed al 20 comma che il versamento diretto doveva essere effettuato in tre rate di eguale importo nei mesi di aprile e luglio 1992 e luglio 1993 e stabilendo che – nel caso di omesso, tardivo o parziale versamento – non si producevano effetti di decadenza dal condono come era lecito attendersi dall’esame del testo dell’art. 32, comma 4, laddove è sancito che il contribuente deve eseguire “regolarmente” i versamenti – cioè alle scadenze indicate e per gli importi stabiliti – bensì soltanto una sospensione degli effetti del condono e prevedendo invece al successivo 4 comma dell’art. 39 che le maggiori somme dovute e quelle non versate venissero riscosse mediante iscrizione in un ruolo speciale entro il termine previsto dal precedente comma 3 – cioè nel termine di cui all’art. 17 del D.P.R. n. 600/1973 – senza tuttavia indicare alcunché in ordine agli effetti dell’omesso, parziale o tardivo versamento delle somme iscritte nel ruolo speciale sul richiesto condono, di modo che, prendendo spunto dalla irretrattabilità della dichiarazione integrativa, poteva desumersi con sufficiente grado di attendibilità che in ogni caso anche in presenza di omissione nei versamenti un nuovo rapporto di imposta si sostituisse a quello precedente, impedendo all’ufficio di far rivivere il eredito precedente e quindi di procedere se del caso ad accertamento per gli anni di imposta indicati in dichiarazione. A dirimere la problematica non risolta dalla legge n. 413/1991, interveniva il legislatore il quale, in chiave di interpretazione autentica dell’art. 32 della predetta legge n. 413, stabiliva con l’art. 18, della legge n. 146/1998 che la definizione delle situazioni e pendenze tributarie di cui al titolo VI della legge medesima – quindi tutte le situazioni e pendenze tributarie, anche quelle derivan-

ti, da accertamenti già eseguiti dall’ufficio – si intende legittimamente avvenuta se i contribuenti, i quali abbiano presentato la dichiarazione integrativa, provvedono al pagamento delle complessive somme iscritte nel ruolo speciale di cui all’art. 39 – comma 4 – citato, restando fermo che, nel caso di mancato pagamento delle somme dovute, la definizione delle situazioni e pendenze tributarie è priva di effetto e l’amministrazione finanziaria può esercitare l’azione di accertamento per tutti i periodi di imposta indicati nella dichiarazione integrativa ed anche se la norma fa esplicito riferimento alla “azione di accertamento”, non v’è dubbio che la disposizione si estenda anche agli accertamenti già eseguiti in forza della stessa dizione letterale dell’art. 18, laddove è precisato che «le disposizioni dell’art. 32 – comma 4 – della legge 31 dicembre 1991 n. 413 si interpretano nel senso che la definizione delle pendenze tributarie di cui al titolo VI della legge medesima» rientrando nel titolo VI anche la fattispecie disciplinata dall’art. 34 che regola definizione agevolata dei maggiori imponibili accertati. Riportando questi concetti nell’alveo della presente controversia, si appalesa fondata la tesi dell’ufficio, giacché il parziale versamento in misura ridotta delle somme dovute per effetto della norma di condono introdotta dall’art. 12 della legge n.289/2002, priva della agevolazione fiscale la dichiarazione integrativa prodotta dalla società contribuente in forza della previsione contenuta nell’art. 18 – comma 1– della legge n. 146/1998 che espressamente prevede che «i contribuenti [...] che non hanno corrisposto in tutto o in parte [...] le somme dovute provvedano al pagamento delle complessive somme iscritte nel ruolo speciale» quindi, tutte le somme iscritte a ruolo e non una parte di esse, pur determinata da una successiva norma di condono e ciò in quanto un versamento parziale impedisce l’efficacia novativa del condono ex lege n. 413/1991 sul rapporto tributario preesistente, con la conseguenza che l’ufficio riacquista in pieno il potere di esercizio dell’azione di accertamento e, ove come nel caso di specie tale potere sia stato già esercitato, il diritto di pretendere il pagamento delle imposte derivanti dai maggiori imponibili accertati. Le spese vanno compensate in ragione della natura particolare della vertenza.

Nota di Marcella Ferrante

te oggetto di accertamento e asseritamente condonate. L’ufficio negava lo sgravio sul presupposto che il pagamento parziale dei ratei di condono – quantunque operato sulla base di una sopravvenuta disposizione agevolativa- avesse privato di efficacia la dichiarazione integrativa ex lege 413 cit. e legittimasse, pertanto, l’escussione dei maggiori importi originariamente accertati. La fattispecie, portata all’attenzione del giudice tributario per il tramite della impugnativa del diniego di sgravio, veniva decisa, in primo grado, in senso favorevole al contribuente. La Commissione tributaria regionale, per contro, perviene ad una conclusione diametralmente opposta e, superate le eccezioni preliminari sollevate da entrambe le parti, accoglie l’appello ed in riforma della sentenza appellata dichiara integralmente dovuti i maggiori importi accertati ed iscritti al ruolo, portati a conoscenza del contribuente con la cartella di pagamento del 2004. A fronte di una fattispecie concreta almeno all’apparenza piuttosto complessa ed articolata, la Corte procede da una mediata individuazione del thema decidendum, sottolineando come la controversia si decida stabilendo «se il pagamento dei debiti di imposta derivanti dalla dichiarazione integrativa di condono di cui alla legge 413/1991 possa essere effettuato legittimamente in misura ridotta per effetto dell’ulteriore condono introdotto dalla legge 289/2002, mantenendo intangibili i benefici agevolativi previsti dalla normativa di favore». La Corte abruzzese, per decidere della questione giuridica così individuata, procede dalla ricostruzione della normativa di rife-

Il caso Il giudizio origina dalla impugnazione del diniego, opposto dalla Agenzia delle Entrate di Lanciano, di sgravio delle maggiori somme iscritte al ruolo sulla base di atti di accertamento relativi agli anni dal 1986 al 1989. Il contribuente, in relazione alle imposte accertate per gli anni suddetti, aveva presentato, ai sensi dell’art. 32, legge 413/1991, dichiarazione integrativa, provvedendo poi al pagamento della prima rata di condono. Le successive due rate, tuttavia, non erano state corrisposte, di modo che l’amministrazione finanziaria aveva curato di iscrivere al ruolo sia gli importi residui dovuti a titolo di condono, provvedendo a notificare la cartella alla società contribuente nel mese di maggio dell’anno 2003, sia, successivamente, i maggiori importi accertati per gli anni 1986-1989 ed in relazione ai quali era stata illo tempore presentata la dichiarazione integrativa, provvedendo nel mese di febbraio 2004 a notificare la relativa cartella di pagamento. Il contribuente, per parte sua, a fronte della notifica della cartella relativa al ruolo speciale portante i ratei di condono non corrisposti provvedeva sì al pagamento ma nella misura ridotta resa possibile dal sopravvenuto condono del 2002, ed in specie sulla base della disposizione di cui all’art. 12 della legge 289/2002 (cd. condono dei ruoli). Ritenuto, pertanto, che tale pagamento avesse perfezionato la procedura di condono ex lege 413/1991, la società chiedeva fosse disposto lo sgravio dei maggiori importi accertati e successivamente iscritti al ruolo per le annualità già fat-


66

GiustiziaTributaria

1 2009

rimento e dal compiuto richiamo agli arresti giurisprudenziali in tema di scansione della procedura di condono ex lege 413 cit., trascurando, tuttavia, ogni pur fugace accenno alla legge sul condono del 2002. A ben vedere, infatti, la Commissione regionale, che pure aveva correttamente individuato la questione controversa, la affronta in maniera del tutto peculiare e difforme da ogni precedente giurisprudenziale, non indagando la ammissibilità del condono dei ruoli aventi ad oggetto carichi iscritti sulla base di una precedente sanatoria, quanto piuttosto soffermandosi sull’esatto tenore e la compiuta ricostruzione della fattispecie condonativa disegnata dalla legge 413/1991. Il procedimento di definizione ex lege 413/1991 L’aspetto della controversia che, nell’iter argomentativo del giudice tributario, risulta decisivo è costituito dagli effetti del mancato pagamento, ovvero del mancato pagamento integrale, delle somme dovute per il condono. Attesa l’assoluta eterogeneità strutturale dei provvedimenti di condono1, la questione degli effetti del mancato pagamento dei ratei di condono va riguardata con riferimento alla singola legge agevolativa. Occorre, allora, premettere taluni brevi cenni al quadro normativo di riferimento. La legge 413 del 1991 prevedeva, tra l’altro, all’art. 32 una fattispecie di cd. condono improprio, ovvero di condono incidente su rapporti non esauriti e volto a consentirne una definizione stabile, sì come non rivedibile dalla amministrazione finanziaria nell’esercizio dei suoi poteri di controllo e rettifica, sulla base di un criterio di determinazione di tipo essenzialmente forfettario. Effetto della dichiarazione integrativa prevista dall’art. 32 cit. con riguardo alle imposte sui redditi, relative addizionali e Ilor è quello di inibire il dispiegarsi dei poteri dell’ufficio intesi a conformare la tassazione alla reale capacità contributiva del contribuente che abbia aderito al condono e presentato dichiarazione idonea a dispiegare appieno i suoi effetti. Quanto alle modalità attraverso le quali si produce l’effetto della inibizione del potere dell’ufficio e, per conseguenza, della stabile definizione del rapporto di imposta, il provvedimento legislativo in parola già evidenziava come tale effetto non conseguisse alla semplice dichiarazione e piuttosto costituisse elemento di una fattispecie a formazione progressiva. Il comma 4 dell’art. 32 stabiliva, infatti, che «le dichiarazioni integrative producono effetti a condizione che il contribuente esegua regolarmente i versamenti delle imposte in base ad esse dovute nonché degli interessi e delle soprattasse». L’art. 39 stabiliva, poi, le modalità per il

1 La dottrina rileva da tempo la difficoltà di offrire una ricostruzione sistematica unitaria delle diverse figure di condono succedutesi nel tempo (in tal senso si veda già TREMONTI, Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977, 47), nondimeno si rinvengono tentativi di offrire classificazioni, su varia base, delle diverse fattispecie di condono: PICCIAREDDA, Condono (Dir. Trib.), in Enc. Giur.; Passaro, Condono nel diritto tributario, in Dig. Disc. Priv., sez. commerciale, III, Torino, 1988, 388 ss. Si sottolinea, ad ogni modo, come l’unico elemento effettivamente idoneo a consentire una ricostruzione unitaria dell’istituto sia la sua funzione definitoria (SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 586 e ss.; BASILAVECCHIA, Principi costituzionali e provvedimenti di condono, in Riv. Dir. Fin., 1988, I, 231). Il tema della sistema-

versamento del dovuto contemplando, in particolare, la possibilità di un versamento rateale articolato in tre tranches a scansioni temporali predefinite dal legislatore. La questione delle ripercussioni sull’effetto agevolativo del mancato pagamento di una delle rate previste si pose sin dalla prima applicazione della legge e, a fronte di un dato normativo scarno, la giurisprudenza di merito mostrò qualche oscillazione e qualche iniziale apertura nel senso di ritenere sufficiente la dichiarazione, sì come definita irretrattabile, a consolidare l’effetto2. Invero, già con riguardo ai precedenti provvedimenti di condono si era evidenziata la necessità di concentrare l’attenzione non tanto sulla dichiarazione di condono in sé, e dunque sulla natura che se ne dovesse predicare, quanto piuttosto – come detto – sulla “fattispecie condonativa”, intesa come fattispecie complessa di cui sono elementi costitutivi non solo la dichiarazione di adesione al condono, conforme alle indicazioni legislative, ma anche il versamento degli importi3 e dal cui perfezionarsi solo discende l’effetto della definizione sostitutiva del rapporto tributario. Nel caso del condono ex lege 413/1991, nondimeno, era proprio la precisa ricostruzione della fattispecie procedimentale a dar adito a dubbi. E infatti, a fronte della prevista possibilità di pagamento rateale degli importi dovuti, si rappresentava l’eventualità che al pagamento della prima rata non facesse seguito quello delle rate successive, di modo che si pose il problema di stabilire se e quando l’effetto agevolativo restasse irrimediabilmente precluso dal mancato pagamento della rata. L’orientamento favorevole a considerare efficace il condono, pur in caso di omesso o tardivo versamento di una rata successiva alla prima, già sembrava potersi argomentare sulla base della lettera della legge 413/1991, atteso che i “regolari versamenti” di cui all’art. 32 erano quelli indicati dall’art. 39 della legge 413 cit. secondo il quale, «entro il termine di cui al comma 3, sono riscosse, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni, le maggiori somme dovute e quelle non versate, mediante iscrizioni in ruolo speciale secondo le modalità e i criteri stabiliti con decreto del Ministro delle Finanze [...]». Una attenta lettura della norma, dunque, già evidenziava come le somme dovute sulla base della richiesta di definizione e non ancora versate dovessero essere riscosse dalla amministrazione mediante iscrizione in un ruolo speciale. In sostanza, le maggiori somme dovute o le somme non versate (ma dovute sulla base delle richieste di definizione ex lege 413 del 1991), sembravano dover essere riscosse dall’amministrazione “mediante iscrizioni in un ruolo speciale”, senza che il semplice decorso del termine previsto potesse considerarsi comportare la definitiva decadenza del contribuente dal beneficio4.

zione teorica delle fattispecie di condono ed ancor più la spinosa questione della loro compatibilità con l’assetto dell’ordinamento costituzionale e comunitario (quest’ultimo tema recentemente trattato dalla CGCE sent. 17 luglio 2008, causa C-132/06, su Riv. Dir. Trib., 2008, IV, 323 con nota di FALSITTA, I condoni fiscali Iva come provvedimenti di natura agevolativa violatori del principio di neutralità del tributo) restano, tuttavia, estranei al presente lavoro. La sentenza che si commenta impone, infatti, di concentrare l’attenzione esclusivamente sui passaggi procedimentali attraverso i quali si perviene all’effetto di definizione del rapporto, indipendentemente da ogni più complessa indagine sul rapporto tra il procedimento di imposizione ordinario e quello straordinario di condono. 2 La giurisprudenza di legittimità ha chiarito

come il carattere della irrevocabilità attribuito alla dichiarazione integrativa dall’art. 57 della legge 412 cit. non comporta che da essa discenda direttamente la estinzione del rapporto fiscale originario, che rimane in piedi sino a quando non siano stati pagati gli importi dovuti, quanto piuttosto che la definizione intervenuta sulla base di tali dichiarazioni non possano essere modificate dagli uffici né contestate dal contribuente (Cass., 13 giugno 2002, n. 8431; 12 dicembre 2005, n. 27356; 30 giugno 2006, n. 15172; 30 agosto 2006, n. 18761). 3 D’altra parte la giurisprudenza ha da sempre chiarito come la ratio e la giustificazione del condono debba ravvedersi nella duplice e concorrente esigenza di ridurre il contenzioso ed assicurare la immediatezza del gettito tributario (Cass. 8591/2006). 4 Nondimeno qualche iniziale pronuncia di merito ebbe ad affermare che la dichiarazio-


Condoni e sanatorie 1 2009 67

Il legislatore è tuttavia intervenuto a fugare ogni dubbio in ordine alla opzione ermeneutica da preferire e, con una apposita norma interpretativa, ha dato ai contribuenti una sorta di proroga per il pagamento, fermo restando il principio dell’iscrizione delle somme non corrisposte nell’apposito ruolo speciale. Infatti, secondo la L. 18 maggio 1998, n. 146, art. 18, comma 1 (Disposizioni per la semplificazione e la razionalizzazione del sistema tributario e per il funzionamento dell’amministrazione finanziaria, nonché disposizioni varie di carattere finanziario), le previsioni «della L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 32, comma 4, si interpretano nel senso che la definizione delle situazioni e pendenze tributarie, di cui al titolo VI della legge medesima, si intende legittimamente avvenuta, purché i contribuenti che hanno presentato le dichiarazioni integrative di cui alla citata L. n. 413 del 1991, art. 32, comma 1 e che non hanno corrisposto in tutto o in parte alle previste scadenze, anche ratealmente, le somme dovute, provvedano, alla scadenza della rata, al pagamento delle complessive somme iscritte nel ruolo speciale di cui alla predetta L. n. 413 del 1991, art. 39, comma 4; il pagamento è considerato valido se comunque eseguito prima dell’inizio della azione esecutiva». La fattispecie procedimentale produttiva dell’effetto agevolativo si arricchisce, così, di un ulteriore tassello, in una prospettiva di favore per il contribuente. Il mancato pagamento di uno dei ratei dovuti non produce, infatti, automaticamente la decadenza dal beneficio, occorrendo invece che tale difetto si consolidi a seguito di una iscrizione al ruolo, cui pure non faccia seguito alcun pagamento. Dunque non solo l’iscrizione nel ruolo speciale è il presupposto per chiedere il pagamento di quello che non è stato ancora eseguito, ma il pagamento successivo, purché intervenuto prima dell’avvio della attività esecutiva, è comunque idoneo alla produzione degli effetti tipici del condono. La giurisprudenza ha così ritenuto illegittimo il diniego di condono – attraverso la successiva emissione di atti di accertamento ovvero la riattivazione delle procedure di riscossione degli importi relativi ad atti di accertamento già “congelati” dalla adesione – ogni qual volta l’amministrazione non provi in giudizio non solo il mancato pagamento dei ratei di condono, ma che tale pagamento sia stato preceduto dalla iscrizione al ruolo e, dunque, sollecitato attraverso la notifica della apposita cartella di pagamento5. Anche dopo la notifica della cartella di pagamento, atto solo preliminare alla esecuzione forzata6, si danno, pertanto, tempi per un adempimento idoneo a far salvi gli effetti del condono. Nel caso che ci occupa, tuttavia, la questione controversa non era tanto il tempo entro il quale era avvenuto il pagamento e tan-

ne integrativa, accompagnata dal pagamento della prima rata producesse un effetto novativo non più reversibile, con la conseguenza che, estinto il rapporto originario l’amministrazione avrebbe potuto solo riscuotere quanto dovuto sulla base delle definizione agevolata. 5 Secondo la giurisprudenza ormai pacifica incombe sull’amministrazione la prova della regolare e tempestiva formazione del ruolo (Cass. 18293/2004; 16254/04; 7093/2003). Nondimeno ove l’ufficio contesti il mancato pagamento di ratei di condono successivi al primo, incomberà sul contribuente dar prova di aver estinto l’obbligazione sorta per effetto della dichiarazione integrativa. In questo caso, infatti, la cartella di pagamento non ha il contenuto di atto di accertamento di mag-

to meno la correttezza dei tempi entro i quali era avvenuta l’iscrizione al ruolo. Non sembrano esservi, infatti, contestazioni al riguardo e dunque può ritenersi che la fattispecie procedimentale fosse stata rispettata dall’ufficio nella sequenza degli atti che devono scandirla. Il punctum dolens, come rilevato dalla Corte regionale, è la misura dell’adempimento idoneo a consolidare il condono ex lege 413/1991 e, in particolare, la possibilità di fruire di un secondo provvedimento di clemenza e ridurre ulteriormente l’importo dovuto sulla base del precedente provvedimento di condono. Secondo la Corte regionale, infatti, il comma 1 dell’art. 18 legge 146/1998, nell’offrire l’interpretazione autentica dell’art. 32, comma 4, legge 413/1991, ha precisato che il contribuente che intenda conservare efficacia alla dichiarazione integrativa attraverso il pagamento dei ratei di condono già iscritti nel ruolo speciale, perché inutilmente scaduti, è tenuto a corrispondere «le complessive somme iscritte nel ruolo speciale». Tale previsione escluderebbe, secondo una interpretazione rigorosa7, la possibilità di un pagamento ridotto delle somme dovute, pur in ragione della previsione legislativa sopravvenuta che consente il pagamento in misura ridotta delle somme già iscritte al ruolo, con la conseguenza che riprenderebbe vigore l’originario accertamento dell’ufficio ed esso sarebbe legittimato alla escussione degli importi originariamente accertati ed ormai definitivamente iscritti al ruolo. La posizione della giurisprudenza. Il divieto di condono su condono Nelle proprie difese, per vero, l’ufficio aveva proposto la applicazione di un principio che, almeno in apparenza, sembra attagliarsi alla ricostruzione della fattispecie controversa operata dalla Commissione tributaria regionale e consentire una rapida e sicura soluzione della stessa, suffragata da una giurisprudenza ormai piuttosto consolidata: il divieto di condono su condono. La circostanza del susseguirsi di provvedimenti di condono, infatti, ha reso non infrequente l’ipotesi di sovrapposizione tra le procedure di definizione agevolata e sul punto si registrano arresti della Suprema Corte di Cassazione, incline ad affermare come immanente al sistema di un principio di ordine generale che vieta il “condono su condono”. Ricostruito il condono come un accertamento straordinario o eccezionale, vale a dire eseguito sulla base di una normativa derogatoria a quella ordinaria, risulta la inammissibilità di un accertamento straordinario del rapporto di imposta già accertato in via straordinaria8. Il principio si trova affermato in maniera pacifica nella giurisprudenza della suprema Corte, pur quando perviene ad ammettere una qualche sovrapposizione tra procedure di condono9.

giori imposte e rispetto ad essa non può quindi predicarsi l’onere della amministrazione di dar prova della pretesa fiscale (Cass., 27 settembre 2005 n. 18851), in coerenza con il principio che regola in linea generale il governo della prova a mente degli artt. 1218 e 2697 c.c. e per cui la dimostrazione dell’avvenuto pagamento grava sul soggetto tenuto all’adempimento, mentre non può onerarsi il destinatario di esso di dar prova di un fatto negativo (Cass., 12 agosto 2004, n. 15647). 6 Sulla duplice funzione della cartella di pagamento di atto di partecipazione dell’iscrizione al ruolo e di atto preliminare della esecuzione forzata, si veda, tra gli altri, BASILAVECCHIA, Riscossione delle imposte, in Enc. Giur., XXVII, Milano, 2000, 6.

7 Sulla necessità che i canoni ermeneutici siano particolarmente rigorosi e restrittivi allorché si tratti di decidere della applicazione di norme di condono, in ragione della natura eccezionale di tali disposizioni si veda Cass., 3 ottobre 2006, n. 21328, ove espressamente si fa monito all’interprete di orientarsi a «estrarre dalla disposizione normativa la norma strutturalmente di specie più bassa ed ad applicabilità più ristretta». 8 Vedi Cass., 3 ottobre 2006, n. 21328, ove si sottolinea come ammettere la possibilità di un condono su condono equivarrebbe a consentire una “eccezione di secondo grado”; 17 maggio 2005, n. 10308. 9 Cass., 12 aprile 2006, n. 8591; 7 aprile 2006, n. 8275; 26 ottobre 2005, n. 20785; 12 luglio 2006, n. 15843; 20 marzo 2006, n. 6186.


68

GiustiziaTributaria

1 2009

In particolare, il giudice di legittimità, che in tempi recenti si è più volte occupato della possibilità ricondurre entro il novero delle liti pendenti condonabili ai sensi dell’art. 16 della legge 289 del 2002 le controversie riguardanti cartelle di pagamento relative a precedenti condoni, si è sempre preoccupato di riaffermare la necessità – per aversi lite fiscale condonabile – che la controversia verta su questioni che esorbitano dalla mera liquidazione della somma dovuta sulla base del precedente provvedimento agevolativo, in ragione proprio del richiamato principio che osterebbe, in termini generali, alla applicabilità di un condono su condono10. Rispetto alle fattispecie oggetto dei giudizi, nel corso dei quali il principio si è formato, la questione che ci occupa presenta tuttavia delle indubbie peculiarità. La Corte di Cassazione, infatti, si è occupata della possibilità di fruire di due successivi provvedimenti di condono guardando agli effetti del sovrapporsi di dichiarazioni – e così ha offerto risposta al problema muovendo dalla ricostruzione della natura straordinaria e degli effetti della dichiarazione integrativa – ovvero argomentando dai fatti preclusivi espressamente individuati dalla legge istitutiva del beneficio intervenuta successivamente. Nelle sentenze richiamate, infatti, la questione della fruibilità o meno del condono relativo alle liti fiscali pendenti viene risolta attraverso la rigorosa definizione della nozione di atto impositivo, escludendo che, la cartella di pagamento, che porti le somme dovute solo sulla base della dichiarazione integrativa, possa dar luogo, ove impugnata, ad una controversia relativa ad un atto impositivo definibile ex art. 16 legge 289/2002, atteso che in tale ipotesi la cartella difetta di ogni e qualsiasi vis impositiva. La controversia che non riguardi un atto impositivo, ma solo un atto vincolato di mera liquidazione del quantum dovuto, costituisce circostanza che preclude, in tale prospettiva ed espressamente, la fruizione del beneficio. Diverso il caso in cui la controversia attenga ad una cartella di pagamento con la quale si provveda anche alla irrogazione di sanzioni, nella quale ipotesi è sicuramente ravvisabile un atto impositivo. La Suprema Corte ha, poi, ammesso come sia suscettibile di condono anche la lite che verta sulla applicabilità del condono stesso ovvero sulla interpretazione e valutazione della dichiarazione integrativa, riconoscendo come in tal caso si sia in presenza di una lite “effettiva e non meramente apparente”, della quale può ammettersi una successiva definizione agevolata. In questa seconda ipotesi la Corte, più che argomentare dalla nozione di atto impositivo, procede dalla ricostruzione del condono come atto di definizione di una lite, attuale o potenziale, per affermare che se è vero che la lite originaria, che aveva come oggetto l’imposizione in sé, una volta condonata non può esserlo una seconda volta (in forza del richiamato divieto di condono su condono), ciò non esclude che in un momento successivo possa sorgere una «nuova controversia, con oggetto diverso, relativa applicazione del precedente condono ed all’efficacia, anche alla

10 Da ultimo, Cass., 3 dicembre 2008, n. 28670. 11 Per una compiuta ricostruzione della fattispecie si veda, oltre alle sentenze richiamate nel testo della nota 9, Cass., 26 ottobre 2005, n. 20785 12 Cfr. Cass., 8 luglio 2005, n. 14440. La Corte, per vero, non affronta ex professo la que-

luce dell’interpretazione del comportamento tenuto nella circostanza dalla contribuente, da attribuire alla dichiarazione integrativa allora presentata». In tal caso, la controversia è effettiva, ed ha un oggetto differente da quello originariamente definito tramite condono, di modo che si ammette l’accessibilità del nuovo provvedimento di clemenza11. Conclusioni Orbene, guardando all’art. 12 della legge 289/2002 che viene in evidenza nella sentenza in commento, emerge chiara la circostanza che esso invece prevede una forma del tutto particolare di provvedimento di clemenza, che si colloca non già entro il procedimento di accertamento – con funzione sostitutiva della modalità ordinaria determinazione del debito – ma ad esito dello stesso, quando cioè il debito di imposta risulta definito sì da essere iscritto al ruolo. Effettivamente, dunque, come sottolineato dal contribuente nelle sue difese, non si danno margini di sovrapposizione di dichiarazioni integrative. Del pari non si rinvengono nella norma in parola fatti preclusivi riconducibili alla esistenza di un precedente provvedimento di condono, tant’è che la Suprema Corte di Cassazione, esaminando la problematica muovendo dalla interpretazione della normativa sopravvenuta, ha espressamente ammesso la possibilità di condonare, ai sensi del richiamato art. 12, il ruolo speciale portante le somme liquidate sulla base della dichiarazione integrativa ex lege 413/199112. La Corte di Pescara, diversamente, evita ogni confronto con la normativa sopravvenuta ed, in particolare, con l’art. 12 legge 289/2002, che indubbiamente si presta, per il suo tenore e la particolare struttura del beneficio che accorda, a favorire la duplice fruizione di leggi di favore. Il passaggio argomentativo che sarebbe apparso necessario alla luce della individuazione del thema decidendum viene, a ben vedere, del tutto pretermesso nel corpo della sentenza, la quale non si occupa in alcun modo di stabilire se la lettera della legge ovvero un più generale principio sistematico ostino acché l’art. 12 della legge 289 cit. trovi applicazione nel caso di ruolo formato sulla base di un precedente provvedimento di condono, ma risolve la questione guardando solo alla normativa precedente, vale a dire alla legge 413 nella interpretazione autentica offertane dalla legge 146/1998. Il pagamento delle somme conteggiate sulla base dell’art. 12 legge 289/1992 viene, in altri termini, riguardato non tanto come un pagamento effettuato sulla base di un successivo provvedimento di condono, ma semplicemente come pagamento in una misura ridotta rispetto a quella previsto dall’art. 18 legge 146/1998, come tale inidoneo – sulla base di una interpretazione rigorosa e letterale della norma – a consentire il consolidarsi dell’effetto agevolativo.

stione della condonabilità del ruolo portante somme dovute sulla base di un precedente provvedimento di condono. Infatti, si limita, in motivazione, a riscontrare la presenza agli atti della documentazione comprovante la fruizione del condono ai sensi dell’art. 12 cit. e che legittima la dichiarazione di cessazio-

ne della materia del contendere. Dalla scarna ricostruzione dei fatti di causa sembrerebbe, tuttavia, che la cartella impugnata portasse solo le somme liquidate sulla base del precedente provvedimento di condono.


Esenzioni e agevolazioni 1 2009 69

ESENZIONI E AGEVOLAZIONI IL MONITORAGGIO DEI CREDITI D’IMPOSTA EX ART. 8, LEGGE N. 388/2000: PROBLEMATICHE VECCHIE E NUOVE NELLA PIÙ RECENTE GIURISPRUDENZA DI MERITO I 5

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. III, 21 maggio 2008, n. 26 Presidente: Tatozzi - Relatore: Porto

Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Modello Cvs - Omissione - Decadenza - Irragionevolezza della previsione - Insussistenza - Violazione del principio di irretroattività - Insussistenza (L. 31 dicembre 2002, n. 289, art. 62, comma 1, lett. a) Deve ritenersi decaduto dal diritto di fruire dell’agevolazione prevista dall’art. 8 della L. n. 388/2000 il contribuente che abbia omesso di ottemperare all’obbligo di inviare la comunicazione ex art. 62 della L. n. 289/2002, in quanto tale obbligo è diretto a garantire il rilevante interesse pubblico all’immediata disponibilità di dati che non sono ricavabili dalla dichiarazione dei redditi; conseguentemente, è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione del principio di irretroattività e, per l’effetto, del principio dell’“affidamento della sicurezza giuridica”, in quanto la norma censurata non dispone per il passato, ma fissa per il futuro un obbligo di comunicazione “a pena di decadenza”, a nulla rilevando che tale decadenza abbia ad oggetto un contributo già conseguito. Con decisione n. 116, assunta il 27 luglio 2006, la Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. 3, accoglieva il ricorso proposto dalla società avverso l’avviso di recupero del credito d’imposta emesso dall’Agenzia delle Entrate di [...] e chiedeva che l’atto impugnato fosse annullato per violazione dell’art. 9, comma 10, della L. n. 289/2002, per la violazione del principio di irretroattività, nonché per la violazione dell’art. 3, comma 2, dello Statuto del contribuente e, in subordine, il rigetto nel merito dei rilievi formulati, ivi incluso quello di esclusione del beneficio dei costi sostenuti per l’acquisto dei computer, con vittoria di spese. La società censurava di nullità l’atto impugnato per la violazione dell’art. 9 della L. sopra citata perché, disponendo di tutti i requisisti necessari, ha adempiuto a tutte le formalità richieste al fine di beneficiare della definizione automatica per i periodi d’imposta i cui termini scadevano entro il 31 ottobre 2002 ed ha eseguito correttamente tutti i versamenti nei termini previsti. Avverso tale decisione propone appello l’Agenzia delle Entrate di [...] chiedendo la riforma integrale della decisione impugnata, con vittoria di spese. Fa presente che in tema di credito d’imposta il legislatore stabiliva linee guida per la ricognizione dei crediti con la seguente scansione: introduzione del monitoraggio con l’art. 1 del D.L. n. 253/2002; predisposizione della modulistica necessaria (mod. Cvs) con provvedimento del 12 dicembre 2002, pubblicato sulla G.U. del 27 dicembre 2002; conferma e fissazione dei termini per l’invio telematico del modello al 28 febbraio 2003, a pena di decadenza del contributo; ripubblicazione del mod Cvs nella G.U. del 24 febbraio 2003 .Censura la decisione impugnata per ultrapetizione perché la Commissione ha annullato il recupero in virtù delle considerazioni relative alla inapplicabilità dell’art. 62 al caso di specie, assolutamente estranee all’oggetto del giudizio. Si eccepisce la violazione dell’art. 112 c.p.c. quale causa specifica di nullità della sentenza, in via preliminare. Ribadisce che il ter-

mine per l’invio del modello telematico individuato dall’art. 62, comma 1, lett. a, L. n. 289/2002 è di natura perentoria, stante la sanzione prevista ed è ininfluente un’eventuale trasmissione tardiva, non prevista. Sulla questione si è pronunciata la Corte costituzionale che ha ritenuto insussistente la denunciata irragionevole sproporzione tra la violazione commessa dal contribuente per il mancato invio di un modello entro il termine previsto e la decadenza del termine. Si censura la decisione sull’annullamento del rilievo circa il recupero all’avvenuta dismissione di alcuni beni strumentali con conseguente riduzione del credito spettante. Viene sottolineato che fu lo stesso amministratore della società a far presente ai verificatori che i computer elencati nel Pvc erano stati dismessi in quanto fuori uso; l’amministrazione pertanto ritiene di avere fornito prova fattuale fondata dell’avvenuta dismissione dei beni e della conseguente ricorrenza dei presupposti della causa antielusiva prevista dall’art. 8, comma 70, L. n. 388/2000, contestata dalla controparte con una ritrattazione, alla quale il Collegio ha dato acriticamente credito, senza verificare se, a distanza di un anno e mezzo dalla formulazione del verbale, la società disponesse di fatture emesse per la riparazione dei computer. La società presenta appello incidentale e chiede di rigettare l’appello principale, di riformare la sentenza impugnata con l’accoglimento degli ulteriori profili presenti nell’appello incidentale. Ripropone la questione della nullità dell’atto di recupero del credito d’imposta per violazione del principio di irretroattività. Ritiene che non si possa decadere dal diritto di credito per l’inosservanza di adempimenti introdotti da una norma successiva. Ribadisce la nullità del recupero per illegittima riduzione dell’investimento netto, perché i computer erano in riparazione. Circa i motivi dell’appello incidentale fanno presente che avendo la società aderita al condono tombale all’ufficio è precluso ogni accertamento tributario, con la conseguenza che in caso d’ispezione, come nel caso di specie, la società può opporre agli organi competenti gli effetti preclusivi. La verifica pertanto è nulla e così come il relativo verbale di recupero credito. Rileva la nullità dell’atto di recupero per violazione dell’art. 3, comma 2, dello Statuto del contribuente per irretroattività della disposizione. Il termine del 28 febbraio 2003 risulta fissato in data anteriore al decorso di 60 giorni sia rispetto alla data di entrata in vigore della L. 289/2002 (1 gennaio 2003), sia alla data di pubblicazione del predetto provvedimento sulla G.U. (4 febbraio 2003). Censura di illegittimità del recupero del credito per violazione de! principio dell’affidamento del contribuente. Ritiene che l’omessa presentazione del modello Cvs non debba essere considerata, poiché tale prescrizione è stata disposta con D.L. 2 novembre 2002, n. 253, convertito in legge il 27 dicembre 2000, cioè successivamente alla L. 388/2000 e dopo che era divenuta definitiva la fruizione del beneficio da parte del ricorrente. All’odierna udienza la Commissione tributaria regionale, in esito al vaglio in pubblica udienza del gravame, deliberava sul gravame nei termini di cui in dispositivo sulla scorta delle seguenti considerazioni.


70

GiustiziaTributaria

1 2009

L’appello appare aver fondamento. La Commissione rileva che l’art. 8, L. n. 388/2000, non condizionava la fruizione di tale contributo ad un previo assenso dell’amministrazione finanziaria, ma riservava ad una fase successiva (cioè «almeno dodici mesi dall’attribuzione del credito d’imposta») le «verifiche necessarie a garantire la corretta applicazione dell’agevolazione medesima ed a vagliare la corretta applicazione» dell’agevolazione. Evidenzia che il Ministero dell’Economia e delle Finanze di concerto con il Ministero delle Attività produttive ha previsto una nuova procedura di acquisizione dei dati sugli investimenti realizzati, ponendo il relativo obbligo informativo a carico sia delle imprese, che già hanno conseguito in via automatica il diritto al contributo, sia di quelle che lo hanno conseguito previo assenso dell’Agenzia delle Entrate. Nella fase di passaggio dal regime fondato sulla fruizione automatica del contributo a quello fondato sulla sua fruizione previo assenso, la sollecita acquisizione di dati esaurienti assume, pertanto, una speciale importanza in relazione alle imprese che hanno già conseguito in via automatica il contributo. Sulla base delle considerazioni sopra riportate e tenuto conto dell’esigenza di tempestiva integrazione dei dati mancanti a disposizione dell’amministrazione finanziaria, non è irragionevole che il mancato rispetto del termine fissato per la comunicazione dei dati stessi sia sanzionato, indipendentemente dall’effettiva sussistenza dei requisisti per fruire dell’agevolazione, con la decadenza del contributo automaticamente conseguito. La sanzione prevista, infatti, è diretta a garantire il rilevante interesse pub-

blico dell’immediata disponibilità dei dati non ricavabili dalla dichiarazione dei redditi all’epoca presentata. La Commissione fa proprie le conclusioni della Corte costituzionale nell’ordinanza n. 124 del 24 marzo 2006 che ha ritenuto che «la previsione della decadenza dal contributo appare adeguata e coerente con la ratio della norma censurata e non eccede i limiti dell’ampia discrezionalità riservata al legislatore in materia di agevolazioni; limiti che, come questa Corte ha più volte affermato, vanno individuati nella “palese arbitrarietà od irrazionalità” (vedi, ex plurimis, sentenze n. 346 del 2003 e n. 431 del 1997 e ordinanza n. 275 del 2005); inoltre è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione del principio di irretroattività e, per l’effetto, del principio “dell’affidamento della sicurezza giuridica”, perché – contrariamente a quanto affermato dal giudice a quo – la norma censurata non dispone per il passato, ma fissa per il futuro un obbligo di comunicazione dei dati a pena di “decadenza dei contributi”, a nulla rilevando che tale decadenza abbia ad oggetto un contributo già conseguito». La stessa Corte costituzionale dichiarando la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 62, comma 1, lett. a, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, sgombra il campo dalle interpretazioni della parte ricorrente, legittimando l’operato dell’Agenzia delle Entrate. L’accoglimento dell’appello principale assorbe tutti i motivi contenuti nell’appello incidentale. La difficoltà interpretativa e la natura delle questioni trattate legittima la compensazione spese di giudizio compensate.

II 6

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. VI, 14 marzo 2008, n. 27 Presidente: Ferrari - Relatore: Fioravanti

Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Atto di revoca di agevolazioni - Impugnabilità (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 1, lett. h) Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Atto di revoca di agevolazioni - Retroattività della norma - Insussistenza Recupero del credito di imposta - Legittimità (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19; L. 31 dicembre 2002, n. 289, art. 62, comma 1, lett. a) Il provvedimento di recupero del credito d’imposta per investimenti nelle aree svantaggiate deve ritenersi, in relazione al suo contenuto sostanziale, atto di revoca di agevolazioni, e, come tale, atto impugnabile ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett. h, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Non è retroattiva la norma che prevede il recupero del credito d’imposta per investimenti nelle aree svantaggiate per il fatto che deve essere applicata alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto disciplinato dalla legge precedente; pertanto, ove il contribuente abbia omesso di inviare il modello Cvs relativo agli investimenti effettuati, previsto a pena di decadenza, l’ufficio può legittimamente disconoscere il credito d’imposta. La [...] S.n.c. proponeva ricorso avverso atto di recupero di credito d’imposta per investimenti in aree svantaggiate, ex art. 8, L. 388/2000, emesso dall’ufficio di [...] della Agenzia delle Entrate in quanto indebitamente portato in detrazione. La ricorrente società sosteneva l’assoluta illegittimità ed infondatezza dell’atto impugnato e concludeva chiedendo l’accoglimento del ricorso. Si costituiva l’ufficio, sostenendo che la ricorrente non aveva

provveduto, ai sensi dell’art. 62, comma 1, lett. a, della legge 289/2002, a comunicare nei tempi previsti i dati necessari alla ricognizione degli investimenti realizzati, incorrendo così nella decadenza dei benefici, come previsto dalla legge stessa. L’amministrazione concludeva pertanto per il rigetto del ricorso. La Commissione tributaria provinciale di Teramo rigettava il ricorso del contribuente ritenendo impugnabile l’atto di recupero ed escludendo che l’art. 62, L. 289/2002 potesse ritenersi contrario all’art. 11 delle disposizioni preliminari del c.c. e all’art. 3, L. 212/2000. Proponeva appello la società contribuente, che riproponeva i motivi esposti in primo grado e chiedeva pertanto l’accoglimento del gravame proposto. Si costituiva l’Agenzia delle Entrate, ufficio di [...], ribadendo le deduzioni svolte in primo grado in ordine alla legittimità del proprio operato e concludendo quindi per il rigetto dell’appello; l’Agenzia proponeva inoltre appello incidentale in ordine al capo relativo alle spese di giudizio, deducendo l’ingiustizia della compensazione operata dai primi giudici. Questa Commissione ritiene infondato, e pertanto non meritevole di accoglimento, l’appello della società contribuente. Invero, per quanto riguarda la dedotta non impugnabilità del provvedimento notificato alla società contribuente, deve osservarsi che esso deve ritenersi, in relazione al suo contenuto sostanziale, atto di revoca di agevolazioni, e come tale previsto come atto impugnabile alla lett. h, comma 1, art. 19, D.Lgs. 546 del 31 dicembre 1992. In ordine alla lamentata applicazione retroattiva dell’art. 8, L. 388/2000 deve osservarsi che nel caso di specie non può parlarsi di retroattività della norma (peraltro «Il principio della irretroattività delle leggi è costituzionalmente garantita soltanto in materia penale, sicché per materie diverse, quale quella tributaria, è ben possibile che siano emesse norme con efficacia ex tunc»,


Esenzioni e agevolazioni 1 2009 71

Cass. 24 marzo 1981, n. 1703) in quanto «La retroattività normativa sussiste quando la nuova disciplina disconosca gli effetti già esauriti del fatto passato e tolga efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali o future di essi; per contro, la nuova legge è priva di carattere retroattivo e deve essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenuti alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto disciplinato dalla legge precedente, ove essi, ai fini della disciplina posta dalla nuova legge, debbano essere considerati in se stessi, indipendentemente dal loro collegamento col fatto generatore, in modo che resti escluso che attraverso tale applicazione sia modi-

ficata la disciplina del fatto medesimo: il che si verifica mediante la sopravvenuta introduzione di nuovi presupposti, condizioni o facoltà per il riconoscimento di diritti o obblighi inerenti al fatto generatore [...]» (Cass. 29 aprile 1982, n. 2705). Pertanto, non avendo il contribuente inviato il modello Cvs relativo agli investimenti effettuati, invio previsto a pena di decadenza del credito, legittimamente l’ufficio ha disconosciuto il credito d’imposta. Infine, in accoglimento dell’appello incidentale dell’ufficio, in applicazione del principio della soccombenza, condanna l’appellante alle spese di giudizio, liquidate come da dispositivo.

III 7

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 33 Presidente: Pacces - Relatore: Fioravanti

Esenzioni e agevolazioni - Statuto dei diritti del contribuente - Valenza costituzionale - Divieto di retroattività delle norme tributarie e divieto di norme che impongono adempimenti con scadenza inferiore a sessanta giorni dall’entrata in vigore - Fattispecie in tema di recupero di agevolazioni per investimenti in aree svantaggiate - Recupero - Atto impositivo in contrasto in contrasto con lo Statuto - Invalidità (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, commi 1 e 2; L. 31 dicembre 2002, n. 289, art. 62, comma 1, lett. a) Secondo lo Statuto dei diritti del contribuente, le norme tributarie non hanno effetto retroattivo e non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore; poiché le norme dello Statuto hanno valenza costituzionale, un atto impositivo emesso sulla base di norme confliggenti con i menzionati principi dallo Statuto del contribuente deve essere considerato invalido (nella specie, è stato dichiarato invalido un provvedimento di recupero di agevolazioni relative ad investimenti in aree svantaggiate). La contribuente [...] proponeva ricorso avverso cartella di pagamento relativa ad iscrizione a ruolo effettuata dalla Agenzia delle Entrate di [...] a seguito di recupero di credito di imposta. La ricorrente deduceva la violazione dell’art. 3 dello Statuto del contribuente, in quanto il termine finale per l’adempimento previsto dalla legge 289/2002 era fissato prima dei sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge stessa. Sosteneva inoltre la contribuente che l’amministrazione finanziaria era comunque a conoscenza della utilizzazione del credito di imposta poiché risultante dalla dichiarazione dei redditi regolarmente presentata. Resisteva l’ufficio sostenendo la piena legittimità del proprio operato, non avendo la contribuente provveduto all’invio del modello prescritto dall’art. 62, legge 289/2002. La resistente amministrazione chiedeva pertanto la conferma integrale dell’atto impugnato. La Commissione tributaria provinciale di Teramo accoglieva il ricorso, ritenendo sussistente la violazione dell’art. 3 dello Statuto del contribuente; i primi giudici ritenevano inoltre che l’aver riportato in dichiarazione sia i dati dell’investimento che il credito di imposta maturato aveva permesso all’ufficio di verificare e valutare la corretta applicazione delle disposizioni disciplinanti la materia. Proponeva appello l’ufficio lamentando:

- la erronea interpretazione ed applicazione degli articoli 3, L. 212/2000, 1, D.L 253/2002 e 62, L. n. 289/2002, per insussistenza del presupposto applicativo dell’art. 3, comma 3, dello Statuto del contribuente; - la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, L. 212/2000, 42, D.P.R. 600/1973 e 19, D.Lgs. 546/1992, per avere la Comm. trib. prov. annullato il provvedimento in assenza di norma espressamente legittimante la caducazione dell’atto; - la violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 15 disposizione preliminare c.c. e 134 Cost., per avere la Commissione dato ingiustificata prevalenza all’art. 3, L. n. 212/2000 anziché alla successiva normazione del 2002 censurando l’operato del legislatore, anziché dell’amministrazione finanziaria, senza ricorrere al giudizio di costituzionalità; - la erroneità e illogicità della motivazione, nonché la violazione dell’art. 3, comma 1, L. 212/2000, per aver ritenuto i primi giudici sufficiente la compilazione del quadro RU per consentire all’ufficio l’espletamento dei controlli e per aver violato il principio di irretroattività delle norme tributarie. L’ufficio concludeva pertanto per la conferma dell’atto di recupero del credito d’imposta e della successiva cartella esattoriale. Resisteva la contribuente reiterando le difese svolte in primo grado e concludendo per il rigetto dell’appello. Osserva la Commissione. La giurisprudenza è costante nell’affermare il generale principio di irretroattività delle norme tributarie, facendo applicazione dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, norma che ha il suo corrispondente specifico in materia tributaria nell’art. 3, comma 1, legge 212/2000 (meglio conosciuta come Statuto del contribuente), il quale stabilisce che le norme tributarie non hanno effetto retroattivo. Inoltre lo stesso Statuto del contribuente stabilisce che le leggi tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dall’adozione dei provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti. Tali principi sono da considerarsi “inderogabili” in quanto lo Statuto del contribuente deve considerarsi legge di rango superiore a valenza costituzionale, come stabilito anche dalla Suprema Corte nella sentenza 7080/2004. Pertanto l’appello dell’ufficio deve essere rigettato, in quanto il provvedimento impugnato è stato emesso sulla base di norme configgenti con i principi sopra menzionati. Spese compensate, attesa la particolarità e la controvertibilità delle questioni giuridiche trattate.


72

GiustiziaTributaria

1 2009

IV 8

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. I, 6 novembre 2007, n. 90 Presidente: Ferrari - Relatore: Colangelo

Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Comunicazione di dati mediante modello Cvs - Oggetto - Benefici già acquisiti - Omissione - Perdita del credito (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, commi 1 e 2; L. 31 dicembre 2002, n. 289, art. 62, comma 1, lett. a) La disciplina del credito d’imposta per investimenti in aree svantaggiate non ha subito innovazioni per effetto dell’art. 62, L. 31 dicembre 2002, n. 289, con riferimento alla modalità e ai criteri di concessione del beneficio, avendo tale disposizione introdotto soltanto un meccanismo di comunicazione di dati; tale comunicazione ha per oggetto anche i contributi già fruiti, mediante invio del mod. Cvs, la cui omissione comporta la decadenza dai contributi già conseguiti. L’Agenzia delle Entrate, ufficio di [...], ha proposto appello avverso la sentenza n. 5 gennaio 2006 con cui la Comm. trib. prov. Teramo aveva accolto il ricorso del contribuente, sig. [...] contro avviso di recupero, emesso a seguito di Pvc del 7 marzo 2005, del credito d’imposta (pari a euro 2.332,00 più interessi e sanzioni) indebitamente utilizzato nell’anno 2001 per investimenti nelle aree svantaggiate, ex art. 8, L. n. 388/2000. Il primo giudice aveva accolto le motivazioni del ricorrente sul presupposto che la legge finanziaria del 2003 aveva leso il principio di irretroattività della norma introducendo anche per i soggetti che avevano già usufruito del credito di imposta degli adempimenti obbligatori che potevano essere richiesti solo a chi successivamente a quella data accedeva al beneficio. Con ciò ledendo il principio di affidamento e di buona fede sancito dall’art.l0 dello Statuto del contribuente, l’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile e, indirettamente, gli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione. L’ufficio appellante lamenta innanzi tutto un vizio di ultrapetizione della impugnata sentenza, in quanto il giudice si sarebbe pronunciato su eccezioni non denunciate dal ricorrente (quali la violazione dei principi di affidamento e di buona fede). Inoltre avrebbe motivato la sentenza medesima esprimendo valutazioni su questioni estranee al contenzioso in atto, oltre a disapplicare norme di legge successive a norme di pari rango invocate dal contribuente. Infine, nel merito, ribadisce la legittimità del suo operato in linea con le disposizioni del D.L. n. 253/2002 e della successiva L. n. 289/2002, le quali hanno introdotto una sanzione per eventuali inadempimenti del contribuente per violazioni di obblighi di comunicazione di dati che, per altro, non andavano ad interferire con il diritto al beneficio già goduto ma solo a soddisfare esigenze connesse al suo monitoraggio.

Il contribuente non si è costituito in giudizio. Osserva la Commissione che il recupero dell’ufficio è stato correttamente operato ai sensi dell’art 62, comma 1, lett. a della legge 27 dicembre 2002 n. 289, il quale prevede che entro il 28 febbraio 2002 doveva essere presentata, pena decadenza dal beneficio, la comunicazione mod. Cvs relativo agli investimenti effettuati in aree svantaggiate a seguito del beneficio medesimo, a tale scopo concesso sotto forma di credito d’imposta dall’art. 8 della legge 388/2000. La ditta ricorrente non ha ottemperato al suddetto obbligo di comunicazione, con ciò incorrendo nella perdita del credito d’imposta utilizzato nell’anno 2001. La disposizione di riferimento (art. 8, L. 388/2000) già prevedeva la formalizzazione del credito d’imposta ad investimenti in aree svantaggiate, per cui nulla ha innovato la successiva normativa (art. 62, L. 289/2002) rispetto alle modalità o ai criteri di concessione del beneficio di che trattasi. Essa ha introdotto invece un meccanismo per l’acquisizione di dati che non può configurarsi come un obbligo che vale per il passato con effetto retroattivo per i contributi già acquisiti, bensì come onere di comunicazione dei dati stessi, che risponde alle esigenze di verifica e di monitoraggio dell’amministrazione, che la legge pone a capo dei beneficiari che quei dati detengono, e che vale sia per i contributi già fruiti, per i quali, comunque, alla data dell’entrata in vigore della “nuova” norma non era ancora spirato il termine per i controlli fiscali, che per quelli futuri. Il giudice di primo grado si è invece soffermato su questioni dì costituzionalità della norma in relazione alla sua irretroattività, dimenticando che detto effetto è costituzionalmente sanzionato solo per le norme penali, e che, comunque non poteva egli stesso effettuare la valutazione di costituzionalità per questo e per qualsiasi altro motivo, ma eventualmente promuovere la questione con ricorso incidentale davanti la Corte costituzionale. Questa, per altro, nella sua ordinanza n. 124 del 24 marzo 2006, ha sgombrato ogni dubbio sulla costituzionalità dell’art. 62 citato e sulla ragionevolezza della decadenza dal contributo comminata in caso di omesso invio del mod. Cvs, a nulla rilevando che tale decadenza abbia ad oggetto un contributo già conseguito. La sentenza impugnata, deve essere riformata anche per i riferimenti fatti allo Statuto dei contribuenti e alla ipotizzata violazione del principio d’affidamento sia per le motivazioni di merito sopra espresse sia per il fatto che la legge 212/2000 è comunque una legge ordinaria che può essere modificata o disattesa da altra legge ordinaria. L’alterno esito del giudizio e la novità delle questioni giuridiche trattate, giustificano la compensazione delle spese di entrambi i gradi del giudizio.

V 9

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. I, 20 febbraio 2008, n. 7 Presidente: Paracampo - Relatore: Bruni

Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Invio telematico delle informazioni relative all’investimento - Omissione Decadenza dall’agevolazione (L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 8; L. 31 dicembre 2002, n. 289, art. 62 comma, 1 lett. a)

Decade dal diritto al credito di imposta previsto, per gli investimenti in aree svantaggiate, dall’art. 8 della L. n. 388/2000, il contribuente che non abbia provveduto ad inviare telematicamente, entro il termine previsto dalla legge, la comunicazione modello Cvs di cui alla legge 31 dicembre 2002, n. 289, art. 62, comma 1, lett. a).


Esenzioni e agevolazioni 1 2009 73

Svolgimento del processo La C. S.r.l. di S.F., in persona del suo legale rappresentante S.F., rappresentati e difesi dal Dott. T.D.S., con ricorso depositato presso la segreteria della Commissione tributaria di Bari in data 16 febbraio 2005, notificato all’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2 lo stesso giorno, impugnava l’avviso di recupero credito d’imposta n. [...], notificato il 20 dicembre 2004, con il quale l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2 aveva recuperato il credito di imposta previsto dall’art. 8 della legge n. 388/2000, che assumeva essere stato indebitamente utilizzato in compensazione negli anni 2001 e 2002, per l’importo di euro 28.718,97, oltre interessi per euro 2.725,88 e sanzioni per euro 4.548,17, per un totale di euro 35.993,03. Nell’atto impugnato l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2, visto il verbale di constatazione redatto l’1 giugno 2004, rilevava che «alla società non viene riconosciuto il credito di imposta determinato, ai sensi dell’art. 8 L. 388/2000, in quanto, da informazioni assunte presso l’anagrafe tributaria, non risulta essere stato trasmesso il modello Cvs previsto per la comunicazione da parte dei soggetti che hanno conseguito il diritto al credito di imposta anteriormente alla data dell’8 luglio 2002, violando l’art. 62, comma 1, lett. a, L. 289/2002». La società, nel ricorso introduttivo, rilevava, preliminarmente, che nel 2001 effettuò un investimento iniziale acquistando una gru per il quale, alla luce delle disposizioni previste dall’art. 8 della legge 388/2000, ha proceduto all’utilizzo del credito maturato attraverso compensazione dei tributi a debito. Successivamente, interveniva la legge 289/2002 la quale al comma 1 dell’art. 62 prevedeva l’obbligo a carico di tutti i contribuenti che avessero maturato il diritto ai contributi di provvedere, a pena di decadenza, entro e non oltre il 28 febbraio 2003 a comunicare i dati relativi a tutti gli investimenti generatori di credito di imposta. La società pur predisponendo l’istanza non riusciva ad eseguire l’invio in via telematica nel termine previsto dalla normativa (28 febbraio 2003) e desisteva dall’effettuare ulteriori tentativi in considerazioni che le comunicazioni effettuate oltre il termine venivano respinte. Ciò premesso, la società eccepiva: - illegittimità dell’avviso per violazione dell’art. 3 della legge 212/2000 (Statuto del contribuente). Ciò in quanto la legge 289/2002 entrata in vigore il 1 gennaio 2003 ha posto a carico del contribuente adempimenti con scadenza anteriore al sessantesimo giorno. Peraltro, il provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate con cui venivano stabiliti i dati da comunicare ed approvati i relativi modelli (Cvs) è stato emesso il 24 gennaio 2003 e pubblicato sulla G.U. 4 febbraio 2003, quindi senza il rispetto del predetto termine di 60 giorni antecedenti la scadenza dell’adempimento (28 febbraio 2003); - illegittimità dell’art. 62 L. 289/2002 per contrasto sia con il disposto dell’art. 11 delle disposizioni preliminari c.c. («la legge dispone per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo») sia con il disposto dell’art. 3 comma 1 della legge 212/2000 («le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo»). L’art. 62 de quo ha tentato di vincolare un diritto soggettivo (il contributo previsto dalla legge 388/2000) ormai acquisito dal contribuente prevedendone la “decadenza” a fronte di un mancato adempimento che al momento dell’acquisizione non esisteva. L’Agenzia delle Entrate ufficio di Bari 2 si costituiva in giudizio con controdeduzioni depositate il 9 giugno 2005 con le quali confermava la legittimità dell’avviso di recupero del credito di imposta in quanto emesso in forza di un provvedimento di legge (art. 62 L. 289/2002) e stante la omessa comunicazione dei dati richiesti dal modello Cvs. La C. S.r.l., in data 12 gennaio 2006, presentava istanza di sospensione della cartella di pagamento n. [...] relativa ad iscrizio-

ne a ruolo derivante dall’avviso di recupero del credito di imposta n. [...] notificato il 21 dicembre 2004 per complessivi euro 36.316,50. La Commissione tributaria provinciale di Bari, con ordinanza del 15 febbraio 2006 rigettava la richiesta di sospensione. La C., in data 24 aprile 2006, presentava istanza di discussione in pubblica udienza ex art. 33 D.Lgs. 546/1992. La Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. 4, nell’udienza del 10 maggio 2006 rigettava il ricorso della società C. S.r.l., dichiarando la «legittimità dell’atto gravato emesso in forza dell’art. 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004 n. 311», tenuto conto, inoltre, «che la decadenza dal beneficio fiscale è espressamente sanzionata dal comma 1, lett. a, dell’art. 62 della legge 289/2002». La C. S.r.l., in persona del suo legale rappresentante S.F., rappresentati e difesi dal Dott. T.D.S., con atto notificato all’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2, il 25 maggio 2007, depositato il 25 maggio 2007 presso la segreteria della Commissione tributaria regionale della Puglia e il 23 luglio 2007 presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale di Bari, ha proposto ricorso in appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bari n. 61/04/2006 del 10 maggio 2006, depositata il 26 maggio 2006 non notificata. Il difensore della società, anche se premette di aver proposto ricorso avverso «avviso di accertamento protocollo n. [...]» sostiene la «illegittimità della cartella di pagamento» e censura la sentenza impugnata per i motivi di seguito riportati: 1) violazione di legge – vizio o manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata – illegittimità della cartella di pagamento. Ciò in quanto i giudici di primo grado non si sono pronunciati circa tutte le eccezioni avanzate dalla ricorrente sulla legittimità, in primis, dell’art. 62, comma 1, lett. a, della L. 27 dicembre 2002, n. 289 e, successivamente, «sulla legittimità della cartella esattoriale impugnata». Il difensore, preliminarmente, contesta la «disparità di trattamento» rispetto ai contribuenti i cui ricorsi sono stati trattati prima del 24 marzo 2006, cioè prima dell’ordinanza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 62, comma 1, lett. a. Quindi, rilevato che «pur tuttavia [...] la sentenza oggi impugnata non fa alcun riferimento alla pronuncia della Corte costituzionale», ribadisce le argomentazioni svolte nel ricorso introduttivo con riferimento: a. alla illegittimità dell’art. 62, comma 1, lett. a, della legge 289/2002, in quanto in contrasto con l’art. 3 della legge 212/2000 (Statuto del contribuente); b. alla “buona fede” della società che invano ha tentato di inviare telematicamente il modello Cvs nei giorni antecedenti il 28 febbraio 2003 (termine di scadenza); c. alla avvenuta acquisizione di «un diritto soggettivo all’agevolazione richiesta [...] che secondo il principio del tempus regit actum [...] non può in alcun modo essere derogato da una legge successiva». Inoltre, rileva: d. che i funzionari incaricati hanno potuto verificare i dati dell’investimento riportando nei processo verbale di accesso e constatazione tutti i dati che il modello Cvs non trasmesso avrebbe dovuto contenere, con ciò dimostrando la inutilità dello stesso; e. che la società ricorrente ha consentito la verifica del monitoraggio dei flussi di spesa esponendo nel quadro U della dichiarazione dei redditi il credito maturato, peraltro interamente utilizzato entro l’8 luglio 2002, ovvero prima dell’entrata in vigore della legge 289/2002 (pubblicata sulla G.U. 31 dicembre 2002). Evidenzia che la utilizzazione del credito in data antecedente alla entrata in vigore della legge 289/2002 (1 gennaio 2003) de-


74

GiustiziaTributaria

1 2009

termina la nullità della “cartella” (rectius avviso di recupero) per violazione del principio di irretroattività delle leggi sancito in via generale dall’art. 11 delle preleggi e specificatamente codificato in materia tributaria dall’art. 3 della legge 212/2000. 2) Totale nullità del procedimento di accertamento – totale nullità della cartella emessa – nullità per vizio di legge dell’impugnata sentenza n. 61/04/2006 emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Bari per violazione dell’art. 9 legge 289/2002 (cd. “condono tombale”). Rileva il difensore che la ditta C. S.r.l. ha aderito al cosiddetto “condono tombale”, previsto dall’art. 9 della legge 289/2002 per tutti gli anni previsti dalla legge, ivi compreso l’anno 2002 nel quale il credito di imposta è stato interamente fruito. Sostiene, quindi, che ai sensi del comma 10 dell’art. 9 L. 289/2002 «il perfezionamento della procedura» prevista nel presente articolo comporta: a) la preclusione, dei confronti del dichiarante e dei soggetti obbligati, di ogni accertamento “tributario”. L’accesso mirato effettuato nei confronti del ricorrente non è consentito in presenza di condono tombale. Conseguentemente non «doveva essere emessa alcuna cartella esattoriale [...] di diniego della fruizione del credito di imposta, in quanto atto precluso dal “perfezionamento del condono”». In calce all’atto di appello il contribuente ha chiesto la sospensione dell’esecuzione dell’atto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 47 del D.Lgs. 546/1992. L’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2 si è costituita in giudizio con controdeduzioni depositate il 29 giugno 2007 con le quali, preliminarmente, rileva che la controversia, contrariamente a quanto erroneamente sostenuto dal ricorrente, non riguarda la cartella di pagamento ma l’avviso di recupero del credito di imposta. L’ufficio ribadisce, quindi, la legittimità di detto avviso di recupero contestando la fondatezza e le motivazioni delle doglianze del ricorrente ciò anche alla luce di quanto stabilito dal giudice costituzionale con la ordinanza n. 124/2006. Rileva, inoltre, che la «violazione dell’art. 9 della legge 289/2002» è motivo nuovo proposto dall’appellante, e come tale non consentito ai sensi dell’art. 57 del D.Lgs. 546/1992. L’ufficio, comunque, negando in ogni caso l’acquiescenza al divieto di introduzione di nuove eccezioni, osserva che trattandosi di revoca di agevolazioni il condono ex art. 9, L. 289/2002 non ha incidenza. L’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2 ha depositato nota delle spese per entrambi i gradi del giudizio per complessivi euro 8.019,00. Con ordinanza n. 22/1/07 del 12 luglio 2007, depositata il 7 agosto 2007, il Presidente Dott. Salvatore Paracampo ha dichiarato inammissibile l’istanza di sospensione presentata dalla C. S.r.l. La C. S.r.l., in data 23 gennaio 2008, ha presentato istanza di discussione in pubblica udienza ex art. 33, D.Lgs. 546/1992. All’odierna udienza sono presenti l’Avv. D.C. per il contribuente e il Dott. S.Z. per l’ufficio. Motivi della decisione Il Collegio, procedendo nella disamina delle questioni proposte, osserva che parte ricorrente ha eccepito la mancata pronuncia dei giudici di prime cure sulla illegittimità dell’adempimento introdotto dall’art. 62, primo comma lett. a, della legge 27 dicembre 2002 n. 289. Ha evidenziato il ricorrente che essendo la legge n. 289/2002 (pubblicata sulla G.U. 31 dicembre 2002) entrata in vigore il 1 gennaio 2003 ed essendo il provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate stato emesso il 24 gennaio 2003 e pubblicato nella G.U. del 4 febbraio 2003, la fissazione del termine ulti-

mo per l’inoltro della comunicazione, per la data del 28 febbraio 2003, risulterebbe illegittima sia perché in contrasto con l’art. 3 legge n. 212/2000 (cd. Statuto del contribuente che stabilisce «in ogni caso le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore»), sia perché in contrasto sempre col richiamato art. 3 nella parte in cui prevede che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo», laddove nella specie il termine decadenziale verrebbe ad incidere su diritti acquisiti. La predetta censura merita ulteriori approfondimenti che effettivamente non sono stati svolti dai giudici di primo grado. Le Commissioni tributarie chiamate a pronunciarsi sulla illegittimità dell’art. 62 della legge 289/2002 per contrasto con l’art. 3 dello Statuto del contribuente, tenuto conto che l’art. 1 dello Statuto del contribuente sancisce espressamente che le disposizioni in esso contenute sono dettate «in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione», hanno rimesso alla Corte costituzionale la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 62, comma 1, lett. a, della legge 289/2002 con gli articoli 3, 23, 25, 53 e 97 della Costituzione. La Corte costituzionale con ordinanza n. 124 del 24 marzo 2006: - ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 62 comma 1, lett. a sollevata in riferimento agli artt. 23, 25, 53 e 97 della Costituzione; - ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 62 comma 1, lett. a sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione. La Corte, con le predetta ordinanza 124/2006, tra l’altro ha rilevato: - che la anticipata acquisizione di dati consente di perseguire anche le finalità, di interesse pubblico, indicate nell’alinea del comma 1 del citato art. 62 della legge n. 289 del 2002, della prevenzione di comportamenti elusivi; - che le imprese che hanno conseguito in via automatica il contributo in base alla disciplina prima vigente avevano fornito all’amministrazione finanziaria, con la dichiarazione dei redditi (modello Unico, riquadro RU) soltanto i pochi dati richiesti all’epoca per far valere il credito di imposta; - che i dati esposti nelle dichiarazioni dei redditi potevano essere assoggettati unicamente agli eventuali controlli della dichiarazione previsti in via ordinaria dagli articoli 31, 32, 33 e 37 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi); - che pertanto visti gli interessi tutelati «non è irragionevole che il mancato rispetto del termine fissato per la comunicazione dei dati stessi sia sanzionato, indipendentemente dall’effettiva sussistenza dei requisiti per fruire dell’agevolazione, con la decadenza dal contributo automaticamente conseguito»; - che la sanzione della decadenza dal contributo «è diretta a garantire il rilevante interesse pubblico all’immediata disponibilità dei dati non ricavabili dalla dichiarazione dei redditi all’epoca presentata, ma necessari allo svolgimento sia di uniformi ed organiche politiche di incentivazione, sia di più agevoli e solleciti controlli sulla spettanza del contributo»; - che, in definitiva, «la previsione della decadenza dal contributo appare adeguata e coerente con la ratio della norma censurata e non eccede i limiti dell’ampia discrezionalità riservata al legislatore in materia di agevolazioni». Il Collegio ritiene di doversi attenere ai principi chiaramente indicati dalla Corte costituzionale e, pertanto, tenuto conto delle finalità di interesse pubblico tutelate, non può che confermarsi la sanzione della decadenza dal contributo tenuto conto che la C. S.r.l. non ha provveduto ad inviare telematicamente entro il termine del 28 febbraio 2003 la comunicazione modello Cvs per gli investimenti eseguiti sino all’8 luglio 2002.


Esenzioni e agevolazioni 1 2009 75

Circa il secondo motivo di appello, il Collegio rileva che la società nel ricorso introduttivo non ha svolto alcuna eccezione circa la presunta violazione dell’art. 9 della legge 289/2002 ed alla preclusione, in conseguenza dell’avvenuta presentazione della domanda di condono, di ogni possibilità di accesso.

È evidente, pertanto, che trattandosi di “eccezione nuova” deve essere dichiarata inammissibile ai sensi dell’art. 57 del D.Lgs. 546/1992. Le spese, di questo grado, seguono la soccombenza e si liquidano, in via equitativa, nella misura di euro 1.000,00.

VI Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. IX, 18 febbraio 2008, n. 2 10 Presidente: Benedetti - Relatore: Boni Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Credito d’imposta - Recupero retroattivo Esclusione (D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6) Nel vigente ordinamento la retroattività delle norme tributarie deve essere del tutto eccezionale e prevista espressamente dalla legge; conseguentemente, poiché il legislatore non ha previsto esplicitamente la retroattività dell’art. 62, comma 1, legge 289/2002, tale norma non può essere legittimamente utilizzata dall’ufficio per il recupero dell’agevolazione già conseguita. Svolgimento del processo La S.a.s. R. impugnava l’avviso di recupero del credito d’imposta per investimenti in aree svantaggiate emesso dall’Agenzia delle Entrate – ufficio di Prato – avente ad oggetto l’omessa presentazione del modello Cvs. Impugnava altresì la ripresa della compensazione dell’importo di euro 248,40 effettuata dalla ricorrente mediante utilizzo parziale di detto credito. La società impugnava poi la conseguente cartella emessa per il recupero, chiedendone l’annullamento. La Commissione tributaria provinciale di Prato, sez. VI, – riuniti i ricorsi – con sentenza n. 61/06/2005 del 27 ottobre 2005 accoglieva il ricorso avverso la cartella di pagamento, annullava l’atto impugnato e ordinava lo sgravio. Accoglieva parzialmente il ricorso avverso l’avviso di recupero con riferimento agli importi di euro 548,68 ed euro 904,89 e «inseguenti interessi e sanzioni». Dichiarava poi non dovute le sanzioni sull’importo di euro 248,40 utilizzato in compensazione, confermandone però il recupero oltre ad interessi. Compensava le spese di giudizio tra le parti. Per i primi giudici l’art. 62, comma 1, legge 289/2002 è stato nella fattispecie applicato retroattivamente ed in contrasto con l’art. 3 della legge 212/2000 (cd. Statuto del contribuente), in forza del quale le disposizioni tributarie non possono avere effetto retroattivo. Con riferimento alle sanzioni irrogate per l’importo di euro 248,40 utilizzato in compensazione nel periodo di sospensione decorrente dal 13 novembre 2002, la Commissione di I grado ha sentenziato che, trattandosi di un diritto riconosciuto, non appaiono applicabile sanzioni per il disposto dell’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1977. Ha appellato l’ufficio, a ciò debitamente autorizzato ai sensi dell’art. 52, comma 2, D.Lgs. 546/1992. Per l’ufficio l’applicazione retroattiva dell’art. 62, comma 1, legge 289/2002, trova conferma nell’ordinanza della Corte costituzionale n. 124 del 24 marzo 2006. Insiste poi sul fatto che per ciò che concerne la compensazione di euro 248,40, sono dovute le sanzioni. Impugna inoltre la sentenza anche per l’annullamento totale della cartella. Si è costituito in giudizio il contribuente ribadendo che al momento della richiesta del credito d’imposta non era previsto altro atto dichiarativo da parte del contribuente una volta effettuata correttamente la richiesta nella dichiarazione dei red-

diti. Rileva poi che la norma impugnata rimandava la sua applicazione all’emanazione di un successivo provvedimento del direttore dell’Agenzia. Tale provvedimento sarebbe stato emanato in data 24 gennaio 2003, pubblicato sulla G.U. del 4 febbraio 2003 con valenza dal 19 febbraio 2003 per una scadenza prevista per il successivo 28 febbraio 2003. Anche sotto questo profilo – sostiene il contribuente – è stato violato l’art. 3, comma 2, della legge 212/2000, che prevede un tempo minimo di 60 giorni per ottemperare alle scadenze previste dalle norme tributarie. Per ciò che riguarda la compensazione effettuata in data 13 novembre 2002 tramite il modello F24, il contribuente si chiede come avrebbe potuto essere a conoscenza della sospensione della possibilità di effettuare la compensazione, compensazione effettuata il giorno 13 novembre, data della pubblicazione della sospensione nella Gazzetta Ufficiale. Osserva poi che della sospensione non era a conoscenza nemmeno il Centro nazionale della riscossione, visto che il pagamento con compensazione è stato regolarmente accettato. Con successiva memoria il contribuente stigmatizza la citata ordinanza della Corte costituzionale, che non ha tenuto conto di quanto previsto dall’art. 1, comma 1, della legge 212/2000. Il contribuente sostiene che nemmeno la Corte costituzionale può dichiarare retroattiva una norma tributaria. Il compito della Corte costituzionale è solo quello, ad avviso del contribuente, di giudicare della costituzionalità delle leggi. A norma dell’art. 1 della citata legge, il legislatore ha inteso per il contribuente vincolare lo stesso potere legislativo. Il giorno 21 gennaio 2008 la causa è stata discussa in pubblica udienza. Motivi della decisione La sentenza di primo deve essere confermata. Nel vigente ordinamento le norme di legge non sono retroattive, e la loro retroattività – che dovrebbe essere del tutto eccezionale – deve essere espressamente prevista dalla legge (che poi vuoi dire dal legislatore che, in quanto rappresentante del popolo, è il titolare del preminente dei tre poteri, secondo il sistema delineato dalla Costituzione della Repubblica). Tanto più questo principio generale è cogente nel caso di specie, considerato che la legge 21 febbraio 2000, al comma 1, testualmente recita: «Le disposizioni della presente legge, in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali». L’art. 3, comma 2 della legge menzionata recita poi «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo». Tanto dovrebbe bastare. La Corte costituzionale, nella sua ordinanza, sembrerebbe muoversi nel senso di privilegiare le esigenze del gettito, che poco hanno a che vedere con la legge. Questa esigenza doveva caso mai essere sentita dal legislatore, che avrebbe legittimamente potuto prevedere la retroattività dell’art. 62, comma 1, legge 289/2002. Il legislatore non lo ha fatto e pertanto la norma utilizzata per il recupero non poteva essere


76

GiustiziaTributaria

1 2009

legittimamente applicata dall’ufficio. La rilevata illegittimità alla luce dell’art. 3, comma 2 della già citata legge 212/2000 e sulla quale i primi giudici non si sono pronunziati, avrebbe dovuto essere sollevata dal contribuente appellando la sentenza di I grado. Sulla questione si è pertanto formato un giudicato interno e non può essere affrontata da questa Commissione. Per quel che concerne, poi, la disapplicazione delle sanzioni applicate sull’importo di euro 248 di cui era stata effettuata la compensazione, questa Commissione non può che confermare l’operato dei primi giudici. La sospensione della facoltà di compensare nel modello F24 il debito d’imposta con il credito d’imposta di cui all’art. 8, legge 388/2000 era stata pubblicata sulla Gazzetta

Ufficiale il 13 novembre 2002, cioè lo stesso giorno in cui la compensazione è stata effettuata. Si condivide pertanto la tesi della Commissione tributaria provinciale di Prato, quando afferma che «per l’indicata tempistica della disposizione violata si era determinata ignoranza inevitabile di essa, che vale ad escludere la punibilità a norma dell’art. 6, D.Lgs. n. 472/1997». Per quanto poi riguarda l’annullamento della successiva cartella, tenuto conto che la medesima è stata emessa non a titolo di iscrizione provvisoria malgrado il ricorso del contribuente, la medesima è stata a ragione ritenuta emessa illegittimamente. Considerato che l’ufficio ha considerato opportuno continuare a coltivare il contenzioso, la soccombenza importa che il medesimo debba essere condannato alle spese del presente grado di giudizio.

VII Commissione tributaria provinciale di Isernia, sez. III, (ordinanza) 9 giugno 2008, n. 43 11 Presidente e Relatore: Di Giacomo Esenzioni e agevolazioni - Investimenti in aree svantaggiate - Riscossione - Iscrizione a ruolo - Cartella di pagamento - Notificazione - Omessa indicazione del responsabile del procedimento - Jus superveniens Violazione dell’art. 97 Cost. - Questione di legittimità costituzionale - Sospensione del giudizio (Cost., artt. 23 e 97; L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 1 e 7; D.L. 31 dicembre 2007, art. 36, comma 4, n. 248, conv. con mod. nella L. 28 febbraio 2008, n. 311) Deve essere vagliata dalla Corte costituzionale la questione sulla legittimità dell’art. 36, comma 4-ter, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248 (convertito, con modificazioni, nella L. 28 febbraio 2008, n. 311), in riferimento all’art. 97, comma 1, della Costituzione e agli art. 1, comma 1, art. 3, comma 1, e art. 7, L. 27 luglio 2000, n. 212, previa valutazione della natura delle disposizioni che disciplinano il principio di irretroattività delle norme tributarie e che impongono l’obbligatorietà dell’indicazione negli atti impositivi del responsabile del procedimento, anche con riferimento a procedimenti relativi ad agevolazioni per investimenti in aree svantaggiate. Premesso che, con ricorso depositato il 17 aprile 2007, la [...] ha chiesto l’annullamento della cartella di pagamento [...] emessa dall’Agenzia delle Entrate di Isernia e notificata per il tramite della SRT S.p.A. di Isernia in data 14 febbraio 2007, con intimazione di pagamento della somma di euro 574.128,11, oltre diritti di notifica, per Irap, Irpeg, Iva e relativi interessi e sanzioni per l’anno d’imposta 2002. Deduce preliminarmente la ricorrente che trattasi di provvedimento nullo o comunque illegittimo per inesistenza della notificazione e per una serie di motivi ulteriori. Con successiva memoria illustrativa, depositata il 26 maggio 2008, la ricorrente deduce altresì preliminarmente la nullità o comunque l’illegittimità della medesima cartella per mancata indicazione del responsabile del procedimento e per una serie di motivi ulteriori, eccependo anche l’incostituzionalità dell’art. 36, comma 4-ter, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, come convertito nella L. n. 31/2008. La medesima norma si presenterebbe altresì irragionevole, perché una nullità o è tale o non lo è, e non può essere comminata solo a partire da una certa data e non anche prima di detta data; prima della quale data, peraltro, era già stata comminata (“tassativamente”) per l’appunto dall’art. 7 della L. n. 212/2000. Costituitasi, la E.S. S.p.A. (già SRT S.p.A.) ha preliminarmente chiesto dichiararsi regolare e legittimo il proprio operato quanto all’impugnata cartella esattoriale e, rispetto al merito del ricorso, ha eccepito la propria carenza di legittimazione passiva. Costituitasi a sua volta, l’Agenzia delle Entrate ha convenuto do-

versi sgravare gl’importi iscritti a ruolo, a titolo di sanzioni per Irpeg, per euro 15.872,70 ed euro 8.550,96. Per il resto, ha chiesto il rigetto del ricorso, sostenendo la legittimità del proprio operato, con conseguente conferma, in parte qua, dell’impugnata cartella. All’udienza del 22 maggio 2007, è stata rigettata l’istanza di sospensione del provvedimento impugnato; - considerato che la sollevata questione della nullità della notifica della cartella si presenta preliminare ed assorbente rispetto a tutte le altre. Trattasi, peraltro, di questione che, ai fini che qui interessano (e salva ogni più approfondita valutazione in sede decisoria da parte di questa Commissione, in diversa composizione), appare infondata, stante il disposto dell’art. 26 D.P.R. n. 602/1973, in base al quale la notifica della cartella esattoriale può essere eseguita (come nella specie) anche a mezzo invio di raccomandata a/r in plico chiuso, nel qual caso «la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto» dal soggetto abilitato alla sua ricezione. A differenza di quanto asserisce la ricorrente, nessuna compilazione di un’ulteriore e separata relata di notifica appare dunque richiesta. - ritenuto che non manifestamente infondata si presenta, invece, l’altra questione preliminare, a sua volta assorbente rispetto alle altre, ossia quella relativa all’omessa indicazione del responsabile del procedimento nell’ambito della cartella in oggetto. Sul principio che tale omessa indicazione (indicazione prescritta invece dall’art. 1, comma 1, L. n. 241/1990, come modificato dalla L. n. 15/2005) infici insanabilmente l’atto amministrativo è ormai pacifica la giurisprudenza amministrativa. Nella specifica materia, tributaria, poi, l’art. 7, comma 2, lett. a, L. n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente) richiede “tassativamente”, tra le altre, l’indicazione in questione. E la Corte costituzionale, con l’ordinanza 9 novembre 2007, n. 377 (invocata dalla ricorrente), ha statuito che quest’ultimo articolo, con specifico riferimento alla questione dell’indicazione del responsabile del procedimento, si applica pure ai procedimenti tributari dei concessionari della riscossione, in quanto soggetti privati cui compete l’esercizio di funzioni pubbliche, e che tali procedimenti comprendono anche quelli, cd. “di massa”, (che culminano, cioè, in provvedimenti di contenuto omogeneo o standardizzato nei confronti di innumerevoli destinatali) e quelli di natura non discrezionale. Aggiunge l’Alta Corte che «l’obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la


Esenzioni e agevolazioni 1 2009 77

garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, comma 1, Cost.». Vero è che, successivamente alla citata ordinanza della Corte costituzionale, è stata promulgata la L. n. 31/2008, la quale, nel convertire in legge il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248 con le modificazioni riportate nell’allegato alla legge medesima, all’art. 36 ha aggiunto il comma 4-ter, secondo cui la cartella di pagamento ex art. 25 D.P.R. n. 602/1973 e succ. mod., «contiene, altresì, a pena di nullità, l’indicazione del responsabile, del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione e di notificazione della stessa cartella. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1 giugno 2008: la mancata indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati prima di tale data non è causa di nullità delle stesse». Tuttavia come esattamente osserva la ricorrente, si è qui in presenza di una norma tributaria di carattere retroattivo, laddove (sebbene il principio d’irretroattività della legge non abbia natura costituzionale, essendo riferibile l’art. 25, comma 2, Cost. alle sole leggi penali) l’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale dispone il principio d’irretroattività delle legge, principio questo ribadito, ancor più specificamente nella materia tributaria, dall’art. 3, comma 1, della citata L. n. 212/2000 (salve le ipotesi eccezionali di norme espressamente qualificate come d’interpretazione autentica, ai sensi del precedente art. 1, comma 2, legge cit.). Orbene, l’art. 1, comma 1, di detta legge statuisce che «le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali». Sennonché, il menzionato art. 36, comma 4-ter, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, come convertito nella L. n. 31/2008, costituisce appunto una legge speciale, che, oltre tutto, non deroga espressamente agli artt. 7, 3 e 1, L. n. 212/2000 (i quali, in detto art. 36, comma 4-ter, non vengono neppure richiamati). Vi è, dunque, un evidente contrasto applicativo tra quest’ultima norma (art. 36, comma 4-ter) e gli artt. 7, 3 e 1 dello Statuto dei diritti del contribuente. Ora, la S.C., nella sentenza 14 aprile 2004, n. 7080 (parimenti invocata dalla ricorrente, unitamente alla conforme Cass., 13 giugno 2002, n. 8415 e vedi pure Cass., 27 agosto 2001, n. 11274), ha condivisibilmente affermato il principio secondo cui «il cd. Statuto del contribuente ha inteso attribuire alle proprie disposizioni (e tra queste a quella sulla irretroattività delle leggi fiscali) il valore di principi generali dell’ordinamento tributario, con una autoqualificazione che dà attuazione alle norme costituzionali richiamate dallo Statuto, e che costituiscono orientamento ermeneutico ed applicativo vincolante nell’interpretazione del diritto, cosicché qualsiasi dubbio interpretativo o applicativo deve essere risolto dall’interprete nel senso più conforme a questi principi, a cui la legislazione tributaria, anche antecedente allo Statuto, deve essere adeguata». Aggiunge in motivazione la Corte di Cassazione che tanto risponde anche a principi di correttezza, ragionevolezza e tutela dell’affidamento del contribuente, che hanno trovato conferma pure da parte della Corte costituzionale e della stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia CEE e della Corte europea dei diritti dell’uomo. La menzionata sentenza della Cassazione riguardava un caso avente ad oggetto una legge antecedente all’entrata in vigore dello Statuto del contribuente (dal che il riferimento all’adeguamento ai principi di quest’ultimo da parte delle legislazione “anche antecedente” alla sua entrata in vigore); ma analogo discorso risulta estensibile e può essere esteso alla legislazione anche successiva alla sua entrata in vigore. Anzi, da ultimo Cass., 16 aprile 2008, n. 9913 ha sul punto rivisto l’orientamento di Cass.,

n. 7080/2004 cit. e, nel sancire la non riferibilità del principio d’irretroattività di cui all’art. 3 dello Statuto alle leggi promulgate prima della sua entrata in vigore, ha espressamente confermato in motivazione che «la legge n. 212/2000 vale per il futuro e, nella parte in cui detta disposizioni che attengono alla tecnica e ai contenuti delle leggi tributarie, ha come destinatario il legislatore futuro» (eccezion fatta per i principi generali della L. n. 212/2000 attuativi degli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost. – cfr. art. 1, legge cit. –, «che sono di immediata applicazione, in quanto espressione di principi costituzionali vigenti»). In altri termini, sebbene approvato col meccanismo e con la forma della legge ordinaria, lo Statuto del contribuente si può dunque porre sostanzialmente sul piano delle fonti interposte (tra la Costituzione e le leggi ordinarie) e quindi prevalere sulle leggi ordinarie, ancorché posteriori e speciali (in deroga ai principi sulla successione delle leggi nel tempo di cui agli artt. 15 e 14 delle preleggi), con esso incompatibili. Interposizione che l’art. 1, comma 1, L. n. 212/2000 pare espressamente voler attribuire alle disposizioni dello Statuto allorché sancisce che esse «costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario» (che «possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali»), «in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione». In particolare, il principio d’irretroattività, di cui all’art. 3, comma 1, L. n. 212/2000 s’interporrebbe così a quello di cui all’art. 23 Cost., nel senso che, quanto meno a partire dall’entrata, in vigore appunto di detta legge interposta n. 212, nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta in base ad una legge retroattiva; ed il principio relativo all’indicazione del responsabile del procedimento di cui all’art. 7, comma 2, L. n. 212/2000 s’interporrebbe a quello di cui all’art. 97 Cost., nel senso che, sempre quanto meno a partire dall’entrata in vigore appunto di detta legge interposta n. 212, detta indicazione è necessaria al fine di assicurare il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione (ma su quest’ultimo discorso si tornerà, in ultimo, allorché si tratterà del possibile contrasto diretto dell’art. 36, comma 4ter, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, come convertito nella L. n. 31/2008, con l’art. 97 Cost.). La S.C., nelle menzionate sentenze n. 9913/2008, 7080/2004, 8415/2002 e 11274/2001 (e altre conformi), non giunge ad esplicitare testualmente la natura di fonte interposta dello Statuto del contribuente e, in particolare (per quel che qui interessa), del principio d’irretroattività di cui al comb. disp. dei suoi artt. 7, 3 e 1; ma i loro cennati passaggi motivazionali sembrano inevitabilmente condurre proprio a questa conclusione. D’altra parte, l’organo deputato al compimento di tale esplicita valutazione risulta essere, più che la S.C., proprio l’Alta Corte. Orbene, con la sentenza 11 gennaio 220006, n. 12 (e cfr. poi pure, per altri casi ancora, con le sentenze n. 269/2007, 108/2005, 533/2002, 4/2000, 85/1990 e 101/1989) la Corte costituzionale ha già avuto modo di affermare, in tutt’altra materia, la natura di fonte interposta di una legge approvata col meccanismo e con la forma della legge ordinaria, ossia della L. n. 131/2003 (che detta disposizioni ai fini dell’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale n. 3/2001). Da ultimo, con le sentenze 22 ottobre 2007, n. 348 e 349, la Corte costituzionale ha confermato la natura di fonte interposta della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificando che spetta però ad essa Corte costituzionale vagliare la costituzionalità delle norme pattizie contenute in detta Convenzione (nell’interpretazione fornitane dalla Corte europea) in quanto fonti di livello sub-costituzionale; aggiunge la Corte costituzionale nelle sentenze in esame che, a differenza delle norme comunitarie, (sopranazionali) contenute nei Trattati CEE come interpretate dalla Corte di Giustizia CEE del Lussemburgo (le quali hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno, sicché, in caso di loro contrasto con


78

GiustiziaTributaria

1 2009

una norma interna, ancorché successiva e speciale, quest’ultima dev’essere direttamente disapplicata dal giudice comune), gli eventuali contrasti tra norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (come interpretata dalla Corte di Strasburgo) e le norme interne «non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma Cedu, poiché l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale». Ne deriva che «in occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta»: duplice verifica, questa, riservata esclusivamente alla Corte costituzionale ed ovviamente riferibile non soltanto alle norme della Cedu, ma a tutte le fonti interposte. Tornando al caso di cui è processo, dunque, ove si condivida il discorso precedentemente svolto in ordine alla natura di fonte interposta dello Statuto del contribuente, ne discende che questa Comm. trib. prov. non può procedere (come vorrebbe la ricorrente) alla disapplicazione diretta dell’art. 36, comma 4-ter D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, come convertito nella L. n. 31/2008, ma deve rimettere gli atti alla Corte costituzionale affinché quest’ultima stabilisca: a) innanzi tutto, se lo Statuto del contribuente e, per quanto qui interessa, i suoi artt. 7, 5 e 1, che sanciscono il principio d’irretroattività delle norme tributarie oltre che il principio della, necessaria indicazione del responsabile del procedimento, abbiano o meno natura di fonte interposta, con particolare riferimento, rispettivamente, agli artt. 23 e 97 Cost.; b) in caso affermativo, se detti artt. 7, 3 e 1 siano conformi alla Costituzione (ma questo vaglio sembra essere stato già superato innanzi all’Alta Corte, in base al contenuto dell’ordinanza n. 377/2007 che si è citata all’inizio); c) in caso ancora affermativo, se il menzionato art. 36, comma 4-ter, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, come convertito nella L. n. 31/2008, sia o meno conforme al disposto dei citati artt. 7, 3 e 1 della L. n. 212/2000. Ove la Corte costituzionale dovesse negare la natura di fonte interposta dello Statuto del contribuente o comunque degli artt. 7, 3 e 1 anzidetti, resterà comunque da valutare da parte sua la questione (che, parimenti, si presenta non manifestamente infondata) relativa alla costituzionalità dell’art. 36, comma 4-ter, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, come convertito nella L. n. 31/2008, da porsi direttamente a raffronto col contenuto dell’art. 97, comma 1, Cost. Difatti, già con l’ordinanza n. 377/2007 (che si è citata all’inizio) la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare il prin-

cipio secondo cui l’obbligo di indicazione del responsabile del procedimento nelle cartelle di pagamento ai sensi dell’art. 7, L. n. 212/2000, lungi dall’essere un inutile adempimento, risponde ai precetti di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione predicati appunto dall’art. 97, comma 1, Cost.; e il rispetto di tali precetti costituzionali non può essere ragionevolmente imposto dal legislatore ordinario solo a partire da una certa data in poi (dall’1 giugno 2008 in poi, come fa l’art. 36, comma 4-ter, cit.) ed escluso per il periodo antecedente e, in particolare, per il periodo compreso tra la data di entrata in vigore della L. n. 212/2000 e il 31 maggio 2008. Periodo quest’ultimo rispetto al quale, oltre tutto, con la medesima ordinanza n. 377/2007 la Corte costituzionale aveva già espressamente affermato operativi quei precetti di cui all’art. 97, comma 1, Cost. proprio con specifico riferimento all’art. 7, L. n. 212/2000 (e, per converso, rispondente quest’ultima norma a quei precetti). A ben vedere, anzi, tale accertamento e valutazione da parte della Corte costituzionale, relativo alla questione del contrasto diretto dell’art. 36, comma 4-ter, cit. con l’art. 97, comma 1, Cost., si presenta pregiudiziale rispetto alla questione del contrasto dello stesso art. 36, comma 4-ter, cit. con lo Statuto del contribuente (e, in particolare, con i suoi artt. 7, 3 e 1) quale fonte interposta (se tale esso venga ritenuto); - ritenuto che la prospettata questione di costituzionalità si presenta altresì rilevante nel caso di cui è processo, perché il suo eventuale accoglimento determinerebbe il conseguenziale accoglimento del ricorso pendente in questa sede sotto il segnalato profilo; - visti gli articoli di legge; la Commissione provinciale, previa sospensione del presente procedimento [...], rimette gli atti alla Corte costituzionale perché si pronunci sulle seguenti questioni, rilevanti e non manifestamente infondate: 1) se vi sia contrasto tra l’art. 36, comma 4-ter, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, come convertito nella L. n. 31/2008, e l’art. 97, comma 1, Cost.; 2) in caso negativo, se vi sia contrasto tra l’art. 36, comma 4-ter, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, come convertito nella L. n. 31/2008, e lo Statuto del contribuente di cui alla L. n. 212/2000, con particolare riferimento ai suoi artt. 7, 3, comma 1 e 1, comma 1, previamente vagliando; a) se lo Statuto del contribuente e, per quanto qui interessa, i suoi artt. 7, 3 e 1, che sanciscono il principio d’irretroattività delle norme tributarie oltre che il principio della necessaria indicazione del responsabile del procedimento, abbiano o meno natura di fonte interposta, con particolare riferimento, rispettivamente, agli artt. 23 e 97 Cost.; b) in caso affermativo, se detti artt. 7, 3 e 1 siano conformi alla Costituzione. Manda alla segreteria per gli adempimenti di competenza.

I - VII Nota di Claudio Cardellini

commi 271-279 della legge 27 dicembre 2006 n. 296 (Finanziaria 2007), reintrodotto dopo la cessazione, a fine 2006, del regime agevolativo dettato dall’art. 8 della legge 23 dicembre 2000 n. 3882. Con la manovra finanziaria per il 2007, il nuovo Governo insediatosi nel 2006 aveva riproposto il regime del credito in esame nelle medesime modalità di fruizione “automatica” previste dalla stesura originaria della cd. “Visco-Sud”; e proprio su dette

Cenni normativi ed inquadramento delle problematiche Con l’art. 2 del decreto legge n. 97 del 3 giugno 20081 il legislatore è pesantemente intervenuto sul regime di fruizione automatica del credito d’imposta per investimenti nelle aree svantaggiate ex art. 1

1 Pubblicato in G.U. n. 128 del 3 giugno 2008 e convertito con modificazioni in L. n. 129 del 2 agosto 2008, in G.U. n. 180 del 2 agosto 2008. 2 Fatte salve le ristrette proroghe concesse con il D.L. n. 300/2006 a determinate categorie di soggetti. L’art. 4 comma 4-bis del predetto provvedimento, così come risultan-

te a seguito delle modifiche apportate dalla legge di conversione n. 17/2007, ha integrato la formulazione dell’art. 8, comma 1, L. n. 388/2000, prorogando, per coloro che avessero già ottenuto il riconoscimento del diritto al credito d’imposta negli anni 2005 e 2006, il termine per il completamento degli

investimenti rispettivamente al 31 dicembre 2007 e 2008. Sulle le problematiche ingenerate da detto intervento, v. IZZO-GOGLIA, Problematiche attuative della proroga della «Visco-Sud», in Corr. Trib., 18, 2007, 1449 ss.


Esenzioni e agevolazioni 1 2009 79

modalità si erano incentrate le profonde modifiche apportate dal neoinsediato Governo di centro-destra nel secondo semestre 2002, operanti su un duplice filo conduttore teso da un lato a bloccare l’indiscriminato accesso ai crediti e a contingentarne gli utilizzi in via percentuale, e dall’altro a trasformare il beneficio in un’agevolazione soggetta a previa autorizzazione, con monitoraggio degli investimenti realizzati fino al 31 dicembre 2002 e dei relativi crediti fruiti fino al cd. “blocco” degli utilizzi disposto con il decreto legge 12 novembre 2002 n. 2533. Il D.L. n. 97/2008, espressione della medesima coalizione politica che già aveva a suo tempo “bocciato” l’impianto originario dell’art. 8 della L. n. 388/2000, si è mosso su una linea del tutto analoga a quella del 2002, riproponendo un giro di vite sui crediti d’imposta in questione connotato dalle medesime criticità emerse in sede di applicazione del D.L. n. 253/2002 e della L. n. 289/2002. Così come, in particolare, il D.L. n. 253/2002 aveva imposto ai titolari dei crediti ante 8 luglio 2002 di comunicare all’Agenzia delle Entrate, a pena di decadenza dal contributo conseguito automaticamente, i dati occorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati e dei contributi fruiti ed ancora da utilizzare, così anche il D.L. n. 97/2008 ha onerato coloro che abbiano già avviato, alla data di entrata in vigore del D.L., progetti di investimento sulla base di atti o documenti aventi data certa, di inoltrare telematicamente, a pena di decadenza dal contributo, un apposito formulario approvato con provvedimento del direttore dell’Agenzia, con valenza ricognitiva e di monitoraggio ovvero autorizzativa vera e propria all’accesso alla fruizione del credito4. Sebbene il lasso cronologico di influenza del D.L. n. 97/2008 si presenti decisamente più ristretto rispetto al precedente, se non altro per effetto dello scarto temporale intercorso tra la riproposizione dell’agevolazione ad opera della L. n. 296/2006 e la successiva approvazione della stessa da parte della Commissione UE, intervenuta il 25 gennaio 20085, e benché l’odierno legislatore si sia premurato di evitare i ritardi e le imprecisioni che avevano connotato gli interventi del 20026, cionondimeno la ripro-

3 Si fa riferimento, in particolare, alla sostituzione del regime di fruibilità automatica con un nuovo sistema di previa autorizzazione (con obbligo di presentazione preventiva in via telematica di un’apposita istanza, a partire dal 25 luglio 2002, al Centro operativo di Pescara dell’Agenzia delle Entrate; cfr. D.L. n. 138 dell’8 luglio 2002,, convertito con modificazioni dalla legge n. 178 dell’8 agosto 2002), e, dall’altro, all’imposizione di forti restrizioni alla compensabilità automatica dei crediti maturati (sospensione, con decorrenza immediata, dell’utilizzo del credito fino al 30 marzo 2003 ex art. 1, comma 1, lett. a, del decreto legge 12 novembre 2002 n. 253) e di specifici obblighi comunicativi con scadenze anteriori alla presentazione dei modelli annualizzati (confermati, dopo la decadenza del decreto per mancata conversione, dalla legge n. 289/2002, e da attuarsi sulla base della modulistica pubblicata in G.U. del 27 dicembre 2002 (provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 12 dicembre 2002 di approvazione, tra gli altri, del modello Cvs) e poi in G.U. del 4 febbraio 2003 (provvedimento direttoriale del 24 gennaio 2003, recante la nuova approvazione del predetto modello). Sul punto, v. PACE, I presupposti per l’utilizzo della procedura automatica di accesso alla «Tremonti-Sud», commento a ris. Ag. Entrate n. 142/E/2003, in Corr. Trib., 31, 2003, 2554 ss.

posizione della “decadenza dal contributo” quale conseguenza dell’omesso invio del formulario mod. FAS ex art. 2, comma 1, lett. a e b del decreto 97 evoca immediatamente la stessa terminologia già utilizzata nel 2002 dal D.L. n. 253/2002 e dalla successiva L. n. 289/2002. E ciò conferisce ancora attualità all’ampio dibattito, tuttora in corso in seno alla giurisprudenza di merito, circa le conseguenze dell’inottemperanza al monitoraggio dei crediti, dibattito del quale le pronunce rassegnate costituiscono una significativa esemplificazione. Il contenzioso che ha preso vita dall’attività di controllo posta in essere dall’Agenzia delle Entrate a partire dal secondo semestre 2003 e formalizzata in appositi “atti di recupero dei crediti d’imposta indebitamente fruiti” sulla scorta della modulistica acclusa alla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 35/E/2003, si è incentrato principalmente su tre tematiche, ossia la legittimità degli obblighi di sospensione immediata dell’ulteriore fruizione dei crediti ex art. 1 D.L. n. 253/2002, la tipicità degli atti di recupero e la conformità a legge della «decadenza dal contributo automaticamente conseguito» per i soggetti inottemperanti agli obblighi di invio telematico del mod. Cvs ex art. 62 comma 1, lett. a L. n. 289/20027. Le sentenze annotate offrono un significativo panorama dei dissidi tuttora presenti nella giurisprudenza di merito nell’affrontare le ultime due tematiche appena elencate che, benché apparentemente confinate nel ristretto alveo del recupero crediti, involgono in realtà argomenti di più ampio spessore quali le conseguenze giuridiche del contrasto dei provvedimenti dell’amministrazione con le norme dello Statuto del contribuente o, più in generale, i rapporti tra quest’ultimo e legislazione residua. Il problema della tipicità degli atti di recupero Abbandonata la disputa, tendenzialmente recessiva, del recupero delle compensazioni dei crediti eseguite all’indomani del “blocco” degli utilizzi disposto con il D.L. n. 253/20028, l’attenzione della giurisprudenza è stata focalizzata innanzitutto sulla

4 Sulla diversa valenza delle comunicazioni di competenza dell’Agenzia in esito alle istanze ex art. 2, comma 1, lett. a e b, D.L. n. 97/2008, v. BERARDO-DULCAMARE, Modificate le condizioni per l’accesso e la fruizione delle agevolazioni della Visco-Sud, in Corr. Trib., 27,2008, 2156 ss. 5 Decisione della Commissione UE n. 380 del 25 gennaio 2008 (n. 39/2007) 6 Ci si riferisce, in particolare, alla decadenza del decreto legge n. 253/2002 senza conversione nei termini – e, con esso, altresì dei provvedimenti attuativi emessi ai fini del monitoraggio, in primis dei decreti di approvazione della relativa modulistica – nonché al ritardo con il quale il mod. Cvs era stato riproposto (provvedimento del 24 gennaio 2003, in G.U. del 4 febbraio 2003) dopo l’approvazione della L. n. 289/2002, in vigore dall’1 gennaio 2003, che aveva fissato un termine massimo di trenta giorni per l’emanazione del provvedimento direttoriale; questioni per le quali l’attuale legislatore ha mostrato una maggiore sensibilità, probabilmente facendo tesoro della pregressa esperienza, rispettando la rigorosa sequenza fissata dal D.L. n. 97/2008 per l’approvazione del formulario mod. Fas (provvedimento Direttore Agenzia Entrate del 10 giugno 2008, prot. n. 91610) e per l’attivazione della procedura di trasmissione telematica del medesimo con il software “Creditofas” nei tre giorni successivi (software reso disponibile

in ambiente web dal 12 giugno 2008 per le trasmissioni prescritte dalle ore 10:00 del giorno seguente). 7 Sul punto si v. INGRAO, Il recupero del credito di imposta per tardivo invio del modello Cvs: tra autoliquidazione, compensazione e disapplicazione delle sanzioni, in questa rivista, 2008, 1, 87 ss. 8 Nonostante i numerosi arresti giurisprudenziali rinvenibili, prevalentemente favorevoli ai ricorrenti, detta questione ha presentato tutto sommato spessore inferiore rispetto a quella esplosa pochi mesi dopo, e relativa all’omesso invio telematico del mod. Cvs. Ciò è stato determinato non tanto dalla minor pregnanza delle questioni di diritto sottese, alcune delle quali di valenza generale (come ad esempio la violazione dell’art. 3, comma 2, L. n. 212/2000), quanto dalla più limitata incisività patrimoniale dei provvedimenti adottati dall’Agenzia per violazione degli obblighi di sospensione, considerato che in tali casi il credito oggetto di recupero era normalmente soltanto una parte di quello maturato, ed una volta riversato all’erario poteva essere nuovamente fruito a partire dal 10 aprile 2003, mentre la sanzione poteva essere estinta avvalendosi della sanatoria ex art. 9-bis L. n. 289/2002 e successive modifiche. Ciononostante, i contribuenti che hanno deciso di adire comunque la sede giurisdizionale (essenzialmente per elidere la


80

GiustiziaTributaria

1 2009

problematica della tipicità dei primi atti di recupero adottati dall’amministrazione finanziaria sulla scorta delle istruzioni contenute nella circolare n. 35/E/2003. Nell’annotata sentenza n. 27/2008, la Comm. trib. reg. aquilana affronta espressamente il problema, confermando la sentenza di prime cure e optando per la tesi dell’Agenzia relativa alla natura di “revoca di agevolazione” ascrivibile all’atto di recupero, tipologia provvedimentale contemplata dall’art. 19 comma 1 lett h del D.Lgs. n. 546/1992. La posizione della Comm. trib. reg. appare tutto sommato condivisibile laddove rinviene il paradigma di legittimità dell’atto in una disposizione che non a caso, nel passaggio dal vecchio al nuovo rito tributario, il legislatore aveva introdotto per codificare apposita tipologia provvedimentale non contemplata dal D.P.R. n. 636/1972, recependo in tal modo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità9.

sanzione irrogata, nonché sottrarsi al successivo contingentamento delle percentuali di utilizzo del credito) hanno generalmente visto accogliere le proprie ragioni (cfr. Comm. trib. prov. Palermo, sez. XIX, sent. n. 21 del 19 marzo 2008 e sez. XXV, sent. n. 81 del 9 gennaio 2007; Comm. trib. reg. Toscana, sez. IX, sent. n. 2 del 18 febbraio 2008, tutte in fisconline, e quest’ultima qui pubblicata e annotata; Comm. trib. reg. Campania, sez. XII, sent. n. 157 del 24 giugno 2005, in Riv. Giur. Trib., 2006, 70 ss., con nota di IANNIELLO; per una disamina compiuta di detto contenzioso, nonché per una rassegna delle pronunce più risalenti, v. AMOROSO, Credito d’imposta ex art. 8 della L. n. 388/2000: l’illegittimità del blocco degli investimenti alla luce dello Statuto dei diritti del contribuente, in Fisco, 20, 2007). Da segnalare, tuttavia, qualche pronuncia dissenziente dall’orientamento prevalente, addirittura favorevole all’amministrazione (Comm. trib. prov. Avellino, sez. V, sent. n. 73 dell’8 luglio 2004) ovvero propensa ad annullare le sole sanzioni per difetto di colpevolezza in capo all’agente (approccio senz’altro condivisibile almeno per le compensazioni operate in data 13 novembre 2002, ossia in data pari a quella di pubblicazione in G.U. del D.Lgs. n. 253/2002, in vigore dal 13 novembre 2002, ma meno attendibile per le compensazioni eseguite nei giorni successivi, a pubblicazione avvenuta: benché in questi casi alla disapplicazione delle sanzioni le Commissioni siano pervenute non tanto per il difetto di colpevolezza, quanto sulla scorta delle condizioni di obiettiva incertezza ex artt. 8, D.Lgs. n. 546/1992 e 10, L. n. 212/2000, essendo stata emanata la risoluzione n. 360/E/2002 di blocco dei codici tributo soltanto in data 18 novembre 2002); v. Comm. trib. prov. Messina, sez. VI, sent. n. 14 dell’8 marzo 2004; Comm. trib. prov. Teramo, sez. II, sent. n. 107 del 7 luglio 2005; Comm. trib. prov. Avellino, sez. V, sent. n. 73 del 10 giugno 2004, in Riv. Giur. Trib., 2005, 183 ss., con nota di PINO, Non è sanzionabile l’ignoranza della legge se«inevitabile». 9 La quale, in assenza di riferimenti normativi espressi, aveva dovuto interpretare estensivamente la categoria degli avvisi di accertamento fino ad includervi gli atti relativi alla spettanza di agevolazioni ed esenzioni, con i quali l’amministrazione in ultima istanza ac-

Il Collegio respinge così le posizioni più rigide espresse da altra frangia della giurisprudenza di merito in ordine alla nullità ovvero addirittura all’inesistenza stessa dell’atto di recupero, in quanto non contemplato da alcuna norma di diritto. Secondo questa posizione, essendo gli atti di recupero sprovvisti della retrostante presenza di apposita norma codificatrice della tipologia provvedimentale specifica, come nei casi ex artt. 42 d.P.R. n. 600/73, 56 d.P.R. n. 633/72 o 16 D.Lgs. n. 472/97, gli atti emessi dagli Uffici sarebbero da ritenere illegittimi (o meglio, nulli se non addirittura inesistenti)10, non potendosi ovviamente ascrivere valenza retroattiva alla successiva L. n. 311/2004 in assenza di indicazioni esplicite in tal senso11. È questa una tesi molto rigida, che, sebbene apparentemente trovi diversi elementi sintomatici di fondamento a livello di normazione ordinaria e di prassi amministrativa12, non tiene adeguatamente conto delle implicanze generate dalle possibili conseguenze

certa «la non spettanza di una data agevolazione»; cfr. Cass. civ., sez. I, sent. n. 11006 del 14 novembre 1990. 10 V., tra le altre, Comm. trib. reg. Umbria, sez. VI, sent. n. 124 del 21 dicembre 2005 e sez. III, sent. n. 40 del 12 luglio 2005; Comm. trib. reg. Calabria, sez. VI, sent. n. 97 del 3 luglio 2006. Secondo questa impostazione, l’attività amministrativa tributaria è sottoposta al principio generale della tipicità, derivato direttamente dal principio costituzionale dello Stato di diritto, ed enunciato espressamente nell’art. 11 della legge 241 del 1990, secondo il quale l’autorità amministrativa, ed in particolare quella fiscale che ha il potere tributario, ovvero di incidere direttamente in una materia sottoposta a riserva di legge, è vincolata a perseguire solo i fini predeterminati dalla legge e solo con i poteri che, per ciascun fine, le sono attribuiti dalla legge. L’orientamento, in effetti, trova specifici riscontri nella giurisprudenza di legittimità, e in particolare nelle pronunce tese a rimarcare il principio di tipicità degli atti di imposizione tributaria, ognuno dei quali espressivo dell’esercizio di un potere assegnato da una norma che ne individua presupposti ed effetti (Cass. civ., sez. trib., sent. n. 1791 del 28 gennaio 2005); trattasi, però, di osservazioni svolte dalla Suprema Corte a proposito della diversa problematica relativa alla natura esemplificativa ovvero tassativa dell’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, in relazione alla quale la seconda posizione, tendenzialmente prevalente (Cass. civ., sez. un., ord. n. 22245 del 17 ottobre 2006; Cass. civ., sez. un., sent. n. 7388 del 27 marzo 2007), trova comunque temperamento nella riconosciuta ammissibilità di interpretazione estensiva della norma, nonché negli sforzi profusi dalla stessa S.C. per ammettere la ricorribilità dell’atto ogniqualvolta quest’ultimo tenda a concretizzare una manifestazione di pretesa tributaria compiuta e non condizionata né ancora in itinere (Cass. civ., sez. un., sent. n. 16293 del 24 luglio 2007, in Riv. Giur. Trib., 4, 2008, con nota di TABET, Contro l’impugnabilità degli avvisi di pagamento della Tarsu), quand’anche non «si vesta della forma autoritativa propria di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 [...]» (Cass. civ., sez. trib., sent. n. 21045 dell’8 ottobre 2007, in Riv. Giur. Trib., 6, 2008. 507

ss., con nota critica di TABET, Verso la fine del principio di tipicità degli atti impugnabili?). Per una compiuta disamina dell’evoluzione della più recente giurisprudenza della Suprema Corte verso un tendenziale “abbandono” della precedente lettura rigida dell’art. 19, alla luce dell’esclusività della giurisdizione delle Commissioni tributarie ex art. 2, D.Lgs. n. 546/1992, v. FIORENTINO, I nuovi limiti “interni” della giurisdizione tributaria alla stregua dei recenti orientamenti della Corte di Cassazione, in questa rivista, 2, 2008, 223 ss. Decisamente per la natura tassativa dell’elencazione ex art. 19, sia pur se mitigata da possibili interpretazioni estensive, TESAURO, Gli atti impugnabili e i limiti della giurisdizione tributaria, in questa rivista, 1, 2007, 9 ss. 11 Art. 1, commi 421-423, L. n. 311/2004, recanti la previsione di «apposito atto di recupero motivato» finalizzato alla riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte. 12 La figura dell’atto di recupero, in effetti, ha fatto letteralmente irruzione nel panorama giuridico per il tramite della circolare n. 35/E/2003, che per i primi controlli aveva approntato, senza alcun esplicito richiamo normativo, due distinti modelli provvedimentali sostanzialmente riconducibili ad un’unica tipologia di atto; né la legittimità dell’atto, in questi casi, può essere conferita dal tipo di procedimento retrostante posto in essere (accessi, brevi o mirati, ex art. 32, D.P.R. n. 600/1973), posto che altro è il fondamento normativo dei poteri strumentali di controllo dell’a.f., ma altro è il risultato dell’esercizio di detti poteri in termini di esternazione della pretesa impositiva conformemente a diritto: per tali motivi non convince appieno il richiamo operato da Comm. trib. reg. Sicilia, sez. XXIV, sent. n. 40 del 24 aprile 2007, al D.L. 24 febbraio 2004 e alle facoltà di controllo in detto atto previste per giustificare l’inquadrabilità del provvedimento in questione tra gli atti di imposizione impugnabili, benché in seconda battuta il Collegio si ricolleghi pur sempre alla categoria del diniego di agevolazione ex art. 19, D.Lgs. n. 546/1992 (v. il commento di ANTICO, Investimenti nelle aree svantaggiate: i giudici siciliani danno ragione al Fisco, in Fisco, 33, 2007, I, 4883 ss.). In secondo luogo, il tardivo intervento normativo posto in essere


Esenzioni e agevolazioni 1 2009 81

dell’atipicità (cfr. infra) e della presenza dell’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, norma che consente l’impugnativa degli atti di “diniego o revoca di agevolazioni” ed alla quale giustamente la Comm. trib. reg. aquilana si richiama nella prima pronuncia in esame. Nulla quaestio sul fatto che alla prassi amministrativa non può certo riconoscersi la potestà di creare tipologie provvedimentali ulteriori rispetto a quelle codificate dal T.U. sull’accertamento ovvero da specifiche disposizioni normative; pertanto, la soluzione per cui si è schierata la giurisprudenza maggioritaria, della quale l’annotata Comm. trib. reg. aquilana è espressiva, è stata ricercata essenzialmente riconducendo gli atti di recupero a provvedimenti già codificati nell’ordinamento, al fine di ampliare la tutela giurisdizionale del contribuente in ragione delle possibili conseguenze derivanti dall’atipicità dell’atto. Soprattutto in ragione di quest’ultima esigenza ha trovato ampia affermazione, tra la giurisprudenza di merito formatasi anteriormente all’esplicito e forse incauto intervento legislativo ex lege 311/04, la tesi ricollegata all’art. 19 comma 1 lett. h D.Lgs. n. 546/1992, portata avanti dall’amministrazione finanziaria per pervenire all’inquadramento degli atti in esame tra quelli di diniego o revoca di agevolazioni13. Quest’impostazione è senz’altro quella maggiormente condivisibile, se non altro in ragione del contemperamento dei contrapposti interessi che essa reca.

con la L. n. 311/2004 tradisce pur sempre una posizione di incertezza da parte del legislatore, posto che se, come alla fine in giurisprudenza è prevalso, l’atto di recupero costituisse indubitabilmente un provvedimento di revoca di agevolazione tributaria, non vi sarebbe stata alcuna necessità di sovrapporre una disposizione di carattere generale, quale il comma 421 dell’art. 1, L. n. 311/2004, ad un’altra di carattere parimenti generale quale l’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, che ben avrebbe potuto di per sé legittimare tutta la futura azione di controllo dei crediti d’imposta da parte dell’amministrazione; e, in ultimo, la tesi della nullità trova un ulteriore appiglio almeno per ciò che concerne l’apparato sanzionatorio recato dagli atti di recupero, i quali, oltre a veicolare un diniego o revoca di agevolazione, contestualmente dispongono l’irrogazione della sanzione ex art. 13, D.Lgs. n. 471/1997 senza l’utilizzo delle specifiche categorie di atti (atto di contestazione, di irrogazione sanzione ovvero iscrizione diretta a ruolo) contemplate dagli artt. 16 e 17, D.Lgs. n. 472/1997: impasse, quest’ultimo, superabile solo aderendo alla tesi che vede nell’atto di diniego o revoca di agevolazione una vera e propria filiazione dell’avviso di accertamento (cfr. Cass. civ., sent. n. 11006/1990, cit.; altresì Cass. civ., sez. trib., sent. n. 7116 del 9 maggio 2003; Cass. civ., sez. I, sent. n. 6262 del 25 novembre 1980; per la disamina di dette posizioni veggasi TOTO, L’avviso di recupero dei crediti d’imposta, avviso di accertamento o mero atto impositivo ?, in www.rivista.ssef.it) 13 Il credito d’imposta ex art. 8, L. n. 388/2000 costituisce a pieno titolo un’agevolazione tributaria, seppur non abbisognante, almeno fino al D.L. n. 138/2002, di apposita istanza di ammissione e/o rilascio. L’atto di recupero, dal canto suo, concretizza un invito a riversare all’erario il credito d’imposta indebitamente fruito, pena la successiva iscrizione a ruolo in caso di inadempimento del contribuente, ed

La prima ricostruzione, in effetti, tende a ripudiare la qualificazione avanzata dall’erario dell’atto di recupero in termini di “diniego di agevolazione” sulla base di un presupposto erroneo, secondo il quale osterebbe ad una simile etichettatura l’assenza di una previa istanza del contribuente, rispetto alla quale il provvedimento dell’A.F. fungerebbe da posterius logico e giuridico; tuttavia, detta mancanza non costituisce che la naturale conseguenza dell’originario meccanismo di funzionamento del credito, attribuito direttamente dal legislatore senza lo schermo dell’attività autorizzativa della p.a. E, a parte ciò, la tesi risulta fortemente penalizzante anche per i contribuenti, che rischierebbero di doversi confrontare non più con atti di recupero, ma con cartelle di pagamento dalla motivazione ben più criptica, ovvero addirittura di subire sentenze di inammissibilità dei ricorsi introduttivi del giudizio per atipicità e conseguente non impugnabilità dell’atto14. Se, in effetti, l’atto di recupero non fosse contemplato dalla retrostante normativa, esso sarebbe da considerarsi tamquam non esset, e come tale estraneo all’elencazione di cui all’art. 19 e ad essa non riconducibile con una mera operazione ermeneutica; cosicché, l’impugnativa risulterebbe inammissibile per difetto di provvedimento impugnabile, ed il contribuente sarebbe costretto a recuperare la tutela in una fase successiva, accollandosi non solo gli oneri di un’ulteriore iniziativa giudiziale, ma anche i rischi

in ciò esso reca evidenti assonanze con le procedure liquidatorie e di controllo formale ex artt. 36-bis e 36-ter, D.P.R. n. 600/1973, laddove le cartelle di pagamento sono precedute da comunicazioni informative alle quali il contribuente è libero o meno di aderire. L’atto di recupero, tuttavia, differisce dalle predette tipologie in quanto prescinde dai controlli sui modelli annualizzati, esprime compiutamente le ragioni dell’amministrazione in merito alla non spettanza dei crediti d’imposta già fruiti in compensazione, che vengono revocati mediante il disconoscimento e il contestuale recupero, e irroga contestualmente la sanzione conseguente ex art. 13, D.Lgs. n. 471/1997; costituisce, dunque, atto autonomamente impugnabile laddove esprime il convincimento dell’a.f. in merito alla regolamentazione del rapporto d’imposta, e diviene definitivo se non impugnato nei termini (Cass. civ., sent. n. 6647 del 13 novembre 1986; Cass. civ., sez. I, sent. 11006 del 14 novembre 1990). Non sembra pertanto neppure necessaria un’interpretazione estensiva dell’art. 19, comma 1, lett. h, D.Lgs. n. 546/1992 per ricondurre alla categoria del diniego o revoca di agevolazioni l’atto di recupero, il quale realizza un’indubbia economia procedimentale e processuale (convergenza della controversia sulla spettanza dell’agevolazione, sull’utilizzo indebito del credito e sulla sanzionabilità del contribuente in un’unica sede), in una ad una piena salvaguardia dei diritti difensivi del contribuente, legittimato a sottoporre al vaglio della giustizia tributaria la questione relativa alla spettanza dell’agevolazione ed alla conseguente debenza di imposta e sanzione. E vizi propri dell’atto, in tal senso, sono non solo quelli connessi a deficienze o erroneità strutturali direttamente ad esso riferibili (es., errori materiali o di calcolo influenti sulla successiva iscrizione a ruolo), ma anche quelli propriamente “motivazionali”, ossia afferenti le ragioni dell’a.f.

come sintetizzate nei motivi del provvedimento ed eventualmente anticipate nella redazione di apposito processo verbale di constatazione (atto non impugnabile se non trasfuso nel successivo provvedimento di recupero). Sul punto, v. PACE, La riduzione di personale non sempre è causa di revoca del credito per nuove assunzioni, commento a Comm. trib. prov. Lecce, sez. V, sent. n. 79/2005, in Corr. Trib., 33, 2005, 2630 ss. 14 Poiché se, in linea di massima, la difformità del provvedimento dal paradigma legale, ovvero l’inesistenza di quest’ultimo, dovrebbero ripercuotersi sulla validità dell’atto ovvero sulla sua stessa esistenza, travolgendolo ineludibilmente in conseguenza dei principi di legittimità dell’attività amministrativa e di tipicità e tassatività degli atti della p.a., chiaramente applicabili con massimo rigore all’amministrazione finanziaria (Cass. civ., sez. trib., sent. n. 1791 del 28 gennaio 2005), cionondimeno nella specificità del rito tributario, laddove gli atti diversi da quelli elencati dall’art. 19, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992 non sono impugnabili autonomamente, e la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo (art. 19, ultimo comma, D.Lgs. n. 546/1992), potrebbe ipotizzarsi una diversa soluzione in termini di inammissibilità stessa dell’impugnativa. In tal caso, tuttavia, il contribuente potrebbe recuperare tutela nella successiva fase della riscossione a mezzo ruolo, forzando un po’ l’orientamento espresso dalla più recente giurisprudenza di legittimità secondo il quale «la mancata impugnazione di un atto, non espressamente indicato nell’art. 19, contenente la manifestazione di detta pretesa tributaria nel termine di cui all’art. 22 del D.Lgs n. 546/1992 non determina la non impugnabilità (cristallizzazione) di quella pretesa che va successivamente reiterata in uno degli atti tipici previsti dall’art. 19» (Cass. civ., sez. trib., sent. n. 21045/07, cit.).


82

GiustiziaTributaria

1 2009

dell’esecuzione forzata connessi ai ricorsi avverso le cartelle di pagamento15. Per tali motivi appare senz’altro più appropriato l’inquadramento degli atti di recupero tra i provvedimenti di revoca di agevolazione ex art. 19, comma 1, lett. h, D.Lgs. n. 546/199216, il quale, benché coniughi posizioni portate avanti da fisco e commissioni per fini diversi17, riesce a garantire, senza forzature ermeneutiche della citata norma, sia i principi di legalità e tipicità dell’azione amministrativa, che la salvaguardia di una piena dialettica processuale sul merito della pretesa, anticipata alla fase della sua esternazione anziché a quella di esazione del dovuto tramite ruolo: percorso, quest’ultimo, indubbiamente più disagevole e per l’esiguità dei contenuti motivazionali della cartella, e per l’eventualità della pluralità delle parti processuali, e infine per i maggiori rischi di aggressione del patrimonio del contribuente nelle more di svolgimento del giudizio, ivi inclusa la fase cautelare. L’omesso invio telematico del mod. Cvs: presunta applicazione retroattiva di norme ex art. 3 comma 1 L. n. 212/2000 A parte il profilo appena accennato, la questione maggiormente dibattuta è stata quella relativa ad una presunta applicazione retroattiva di norme, ravvisata da copiosa giurisprudenza di merito nell’art. 1 del D.L. n. 253/2002 e nell’art. 62 comma 1, lett. a della L. n. 289/2002. Secondo detta impostazione, promossa dalla nota sentenza della

15 Sussiste, in effetti, una certa contraddittorietà tra l’impugnativa di un atto di recupero – che postula, di per sé, già una previa valutazione da parte del contribuente in ordine alla sussistenza dei presupposti ex art. 19, D.Lgs. n. 546/1992 – e la pretesa di caducazione dell’atto per atipicità, che implica, in capo al medesimo soggetto, un contestuale convincimento in ordine, stavolta, all’inapplicabilità del citato art. 19: coerenza vorrebbe, in questi casi, che il contribuente attendesse quantomeno la notifica della cartella per contestare l’inesistenza dell’atto presupposto e il conseguente vizio dell’iscrizione a ruolo e della motivazione dell’intimazione di pagamento. Ben pochi, tuttavia, sono disposti a rischiare di attendere l’esecuzione forzata per agire in sede giurisdizionale pur di conferire dignità giuridica ad una tesi che, a parere di chi scrive, avrebbe condotto a risultati ben più fruttuosi ove coniugata ad un agire consequenziale nei termini sopra chiariti. 16 Cfr. altresì, oltre l’annotata pronuncia della Comm. trib. reg. aquilana, Comm. trib. prov. Perugia, sez. VI, sent. n. 6 del 22 febbraio 2005; Comm. trib. prov. Palermo, sez. V, sent. n. 91 del 26 maggio 2005; Comm. trib. reg. Lazio, sez. XXXVIII, sent. n. 195 del 13 settembre 2007; Comm. trib. reg. Sicilia, sez. XIX, sent. n. 10 del 2 maggio 2007, favorevoli alla tesi rassegnata, da ultimo condivisa anche dalla Cassazione nella recente ordinanza n. 4965 del 2 marzo 2009 (in banca dati fisconline). Con l’unica eccezione forse, a parere di chi scrive, dei casi in cui mediante i provvedimenti in questione l’Agenzia ha inteso recuperare soltanto gli utilizzi del credito, senza negarne a monte la spettanza. Ci si riferisce, chiaramente, al recupero delle compensazioni eseguite a partire dal 13 novembre 2002 (cfr. nota 8), laddove a ben vedere l’a.f., a parte l’applicazione delle sanzio-

Comm. trib. prov. di Avellino, n. 225/200418, l’introduzione del termine decadenziale del 28 febbraio 2003 per la ricognizione dei crediti d’imposta ex art. 8 L. n. 388/2000, unitamente alla previsione della decadenza dal contributo automaticamente acquisito per l’ipotesi dell’inottemperanza all’obbligo di invio telematico del mod. Cvs a tal fine previsto, avrebbero concretizzato una vera e propria applicazione retroattiva di norme, volta a travolgere diritti già acquisiti al patrimonio del contribuente in aperta violazione dell’art. 3 comma 1 legge 27 luglio 2000 n. 212 e del principio generale dell’ordinamento giuridico da esso recato, «regola essenziale del sistema, da applicare per la certezza dei rapporti giuridici [...]». Sulla scia di detta pronuncia, sostenuta da ampia ed approfondita motivazione, si è assistito ad una generalizzata caducazione degli atti di recupero adottati dall’Agenzia delle Entrate soprattutto durante la prima fase dei controlli, ad opera di una giurisprudenza sospinta forse più dall’impatto emotivo e mediatico delle tematiche sul tappeto che da una serena riflessione sulla reale portata di queste ultime. Le sentenze in commento della Comm. trib. reg. aquilana rappresentano un significativo campione delle variegate posizioni assunte dalla giurisprudenza di merito, a tutt’oggi divisa tra chi sostiene la valenza costituzionale delle norme dello Statuto del contribuente19 ovvero la superiorità sostanziale e quindi l’inderogabilità delle stesse in quanto espressive di principi generali dell’ordinamento20, chi ritiene imprescindibile l’intervento della

ni, non ha negato né revocato benefici, tant’è vero che il credito restituito dopo la notifica dell’atto di recupero andava ad alimentare il credito nuovamente utilizzabile a partire dal 10 aprile 2003 (data di ripresa degli utilizzi), con incisione della sfera patrimoniale del contribuente unicamente in misura pari alla sanzione irrogata. In tali casi, la qualifica dell’atto in termini di diniego o revoca di agevolazioni appare un po’ una forzatura, operata mediante l’inserzione ermeneutica, in seno all’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, del termine “sospensione”: a meno di non voler ritenere che in tali casi si sia trattato di un diniego “temporaneo” dell’utilizzabilità dell’agevolazione, e non dell’agevolazione in sé, ma anche sotto tale profilo non può negarsi il sentore di un’analogia legis in malam partem. Tendenzialmente recessiva, infine, è un’ulteriore teorizzazione che aggancia gli atti di recupero al comma 3-ter dell’art. 8, L. n. 388/2000 nella formulazione post L. n. 178/2002. La ricostruzione in effetti è poco condivisibile, se non altro in virtù del fatto che il predetto comma ha ad oggetto gli atti di diniego all’accesso al credito come risultante a seguito delle modifiche introdotte con il D.Lgs n. 138/2002 (regime di autorizzazione preventiva), e non è riferibile ai casi in cui il contribuente abbia già maturato e fruito il credito nel precedente regime “automatico”, senza inoltro di alcuna istanza telematica al Cop ex art. 8, comma 1-bis, L. n. 388/2000. 17 La “preoccupazione” dei giudici di merito in termini di vuoti di tutela ed inammissibilità dei ricorsi conseguente all’atipicità dell’atto di recupero è tangibile, ad esempio, in Comm. trib. prov. Cagliari, sez. II, sent. n. 94 del 17 maggio 2004, e ancor più in Comm. trib. prov. Bari, sez. V, sent. n. 171 del 14 settembre 2005, laddove una simile conse-

guenza è paventata in termini di “inevitabile conclusione”. 18 Comm. trib. prov. Avellino, sez. IV, sent. n. 225 del 20 novembre 2004, in Riv. Giur. Trib., 2004, 1090 ss., con commento di IANNIELLO, La disciplina del credito d’imposta non supera il “test” dello Statuto dei contribuenti; la pronuncia è altresì pubblicata in Corr. Trib., 32, 2004, 2543 ss., con commento di PACE, L’interpretazione adeguatrice sulla trasmissione dei modelli per fruire della «TremontiSud», focalizzato sulla “coraggiosa” presa di posizione dei giudici campani. L’autrice, peraltro, riferisce l’aggettivo alla disamina che la Comm. trib. prov. Avellino ha condotto in merito all’altro profilo della questione, afferente la violazione da parte del legislatore del termine minimo di sessanta giorni ex art. 3, comma 2, L. n. 212/2000, sul quale l’argomentare dei giudici appare tutto sommato di maggior spessore e condivisibilità: ma forse non fino al punto di potersi discorrere di “dolo”, imputato dalla Comm. trib. prov. all’organo legislativo da poco insediatosi. 19 Comm. trib. reg. Campania, sez. XLVII, sent. n. 163 del 18 dicembre 2007. 20 Comm. trib. prov. Benevento, sez. II, sent. n. 121 del 5 giugno 2007; Comm. trib. prov. Firenze, sez. IX, sent. 18 febbraio 2008, n. 2, qui annotata; trattasi della posizione maggiormente diffusa in dottrina, seppur in tale ambito non spinta fino all’estrema conseguenza dell’inderogabilità dello Statuto ed alla recessività applicativa della residua legislazione, per la quale v. MARONGIU, Retroattività e affidamento nell’applicazione della legge tributaria, commento a Cass. civ., sez. trib., sent. 14 aprile 2004, n. 7080, in Corr. Trib., 29, 2004, 2290 ss.; Id., Lo Statuto del contribuente: le sue “ragioni”, le sue applicazioni, in Dir. e Prat. Trib., 2003, I, 1007 ss.; D’AYALA VALVA, Il principio di cooperazione


Esenzioni e agevolazioni 1 2009 83

Corte costituzionale in virtù del richiamo a disposizioni costituzionali contenute nell’art. 1 dello Statuto21, chi tende a restringere l’effettiva portata degli obblighi del monitoraggio ai soli soggetti con credito residuo da utilizzare all’1 gennaio 200322, e chi invece propende per la piena derogabilità e modificabilità della L. n. 212/2000 da parte di disposizioni successive23. Attratta, tuttavia, dalla più ghiotta tematica dei rapporti tra Statuto e legislazione residua, la giurisprudenza di merito, a parere di chi scrive, non ha ben focalizzato la quaestio facti che sta a monte del problema, ossia l’effettiva sussistenza della tanto paventata applicazione retroattiva di norma, continuando peraltro ad aggirare il problema anche quando la Corte costituzionale ha escluso radicalmente essersi verificata una simile evenienza24. L’approccio operato dalla Comm. trib. prov. aquilana nelle pronunce 26/III/2008 e 27/VI/2008 appare assolutamente corretto, specialmente laddove, non ancorandosi semplicemente alla giurisprudenza di costituzionalità, ma svolgendo autonoma indagine (sent. n. 27/VI/2008), focalizza la disamina circa l’effettiva sussistenza di quanto addebitato al legislatore del 2002 anziché percorrere i più insidiosi sentieri del raccordo tra Statuto del contribuente e legislazione sopravvenuta, soffermandosi altresì sui profili di ragionevolezza della scelta legislativa di approntare una sanzione scissa dall’effettiva sussistenza dei requisiti per fruire dell’agevolazione25. Nell’accogliere le difese svolte dall’Agenzia delle Entrate, la Comm. trib. reg. esclude qualsivoglia applicazione retroattiva di norme (della quale sarebbe stato lecito discorrere, al limite, nel caso in cui il legislatore avesse imposto l’obbligo incondizionato della restituzione del contributo già fruito, ovvero restrizioni delle iniziali condizioni oggettive o soggettive di accesso al credito), conseguendo la sanzione in forma specifica della decadenza ad un’infrazione posta in essere dal contribuente in data successiva a quella di entrata in vigore della norma sanzionatoria (1 gennaio 2003). Né, in contrario, giova invocare la pregressa regolamentazione del credito d’imposta ex art. 8 L. n. 388/2000, non contemplante alcun obbligo informativo specifico. Il principio dell’irretroattività della legge, infatti, non preclude l’applicabilità della nuova norma agli status ed alle situazioni esistenti o sopravvenu-

tra amministrazione e contribuente. Il ruolo dello Statuto, in Riv. Dir. Trib., 2001, I, 915 ss. 21 Comm. trib. prov. Isernia, sez. III, ord. n. 43 del 9 giugno 2008, qui annotata, pubblicata in banca dati fiscoline, con nota di TURIS; pronuncia resa a proposito della questione relativa all’intervento legislativo ex art. 36, comma 4-ter, D.L. n. 248/2007, conv. in L. n. 31/2008, ma le cui argomentazioni sono senz’altro estensibili alle tematiche esaminate; in linea con la predetta impostazione, v. altresì Comm. trib. reg. Puglia, sez. I, sent. 20 febbraio 2008, n. 7, pubblicata in banca dati fiscoline e qui annotata. In dottrina, v. FERLAZZO NATOLI-INGRAO, Lo Statuto dei diritti del contribuente nella recente giurisprudenza della Cassazione, in Rass. Trib., 4, 2005, 1275 ss. 22 Comm. trib. reg. Puglia, sez. XV, sent. n. 77 del 25 gennaio 2007, in DT. Servizio di documentazione economica e tributaria. 23 Comm. trib. prov. Pescara, sez. I, sent. n. 199 del 6.6.2005; Comm. trib. prov. Cagliari, sez. II, sent. n. 94 del 17.5.2004, in Servizio di documentazione economica e tributaria. In dottrina, con specifico riguardo alla valenza dei principi posti dallo Statuto del contribuente, ai suoi rapporti con la residua legislazione ed ai limiti derivanti all’ordinaria attività di legi-

te all’entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, allorquando debbono essere presi in considerazione in se stessi, prescindendo cioè dal collegamento con il fatto che li ha generati ed in modo che attraverso tale applicazione non resti modificata la disciplina del fatto generatore26. Ed ancora, la retroattività non sussiste quando la nuova norma disciplini gli atti di un procedimento, anche se riguardanti eventi ed effetti sostanziali già compiuti e si tratti della sua applicazione agli atti da compiere, ovvero quando la seconda norma disciplini status, situazioni e rapporti che, pur costituendo latu sensu effetti di un pregresso fatto generatore (previsti e considerati nel quadro di una diversa normazione), siano distinti ontologicamente e funzionalmente (indipendentemente dal loro collegamento con detto fatto generatore), in quanto suscettibili di una nuova regolamentazione mediante l’esercizio di poteri e facoltà non consumati sotto la precedente disciplina: il che si verifica mediante la sopravvenuta introduzione di nuovi presupposti, condizioni e facoltà per il riconoscimento di diritti e obblighi inerenti al pregresso fatto generatore, ovvero mediante la sopravvenuta soppressione o limitazione dei presupposti, condizione e facoltà per il riconoscimento suddetto, se ancora non avvenuto definitivamente27. Nel caso di specie, insomma, la decadenza, pur assumendo ad ineliminabile presupposto la pregressa maturazione del credito d’imposta, è scissa, al momento applicativo, da tale situazione giuridica soggettiva, in quanto la decadenza dal contributo discende dal mancato adempimento all’obbligo del monitoraggio (da eseguirsi al più tardi entro il 28 febbraio 2003, ossia in data successiva all’entrata in vigore della legge), che nell’economia della fattispecie sanzionatoria si pone quale fattore generatore di responsabilità, collegato ma distinto ontologicamente e funzionalmente dal regresso rapporto, e come tale suscettibile di nuova regolamentazione ai sensi del predetto orientamento giurisprudenziale. La sanzione in forma specifica della decadenza consegue cioè non ad un’applicazione retroattiva della normativa, ma ad un’infrazione posta in essere dal contribuente in data successiva a quella di entrata in vigore delle norme sanzionatorie (13 novembre 2002 e 1 gennaio 2003): e di ciò la Corte costi-

ferazione, v. MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008; Id., Retroattività, cit., Corr. Trib., 29, 2004, 2290 ss.; Id., Lo Statuto dei diritti del contribuente, in Fisco, 1, 2006, 1 ss.; FALCONE, Il valore dello Statuto del contribuente, in Fisco, 2000, 11038 ss.; LOMBARDI, Statuto dei diritti del contribuente e teoria delle fonti, in Riv. Dir. Trib., 2005, 2, 165 ss.; FALCONE, Statuto dei diritti del contribuente e Cassazione tributaria, in Fisco, 2003, 2221 ss. Per una completa rassegna delle variegate posizioni dottrinarie in tema di valenza dello Statuto nel vigente ordinamento, v. FERLAZZO NATOLI-INGRAO, Lo Statuto, cit., in Rass. Trib., 4, 2005, 1275 ss. 24 Corte cost., ordinanza n. 124 del 20/24 marzo 2006, in http://www.cortecostituzionale.it. 25 L’annotata sentenza n. 26/III/2008, in effetti, svolge autonome considerazioni non sul profilo della presunta retroattività, per il quale si affida completamente alle argomentazioni della Corte costituzionale, bensì sulla “non irragionevolezza” della previsione sanzionatoria della decadenza dal credito, benché la soluzione del problema transiti, in ragione delle considerazioni svolte nel presente spunto, non per i limiti alla discrezionalità

legislativa, bensì per una scansione temporale degli eventi che rende di immediata percezione come l’omissione dell’invio del modello Cvs, consumatasi definitivamente il 28 febbraio 2003, sia posteriore sia alla prima codificazione del precetto e della correlata sanzione (ad opera dell’art. 1, D.L. n. 253/2002) che alla successiva reintroduzione con legge della predetta disposizione decaduta per mancata conversione (ad opera dell’art. 62, comma 1, lett. a, L. n. 289/2002). E parimenti sempre alla ragionevolezza della scelta legislativa fa riferimento l’annotata sentenza n. 90/01/2008, benché il giudizio sulla ragionevolezza dell’operato del legislatore debba seguire e non certo precedere quello sulla portata retroattiva o meno di una data disposizione, nel senso che soltanto l’acclarata retroattività di una determinata disposizione fa sorgere la necessità di ricercare i motivi della scelta di operare in deroga all’art. 3 dello Statuto del contribuente, ai fini di un giudizio sul corretto esercizio della discrezionalità legislativa. 26 Cass. civ., sent. n. 290 dell’1 gennaio 1974. 27 Cass., 11 luglio 1975, n. 2743; Cass., 29 aprile 1982, n. 2705; Cons. di Stato, 1 aprile 1980, n. 330.


84

GiustiziaTributaria

1 2009

tuzionale non ha potuto che prendere atto nell’ormai nota ordinanza n. 124/2006, resa – guarda caso – su ordinanza di remissione della stessa Comm. trib. prov. di Avellino che aveva dato il via alla “rivolta” giurisprudenziale contro il monitoraggio dei crediti, ed alla quale va ascritto senz’altro il merito di aver correttamente reimpostato il problema sin dalla radice, ossia devolvendo al Giudice delle leggi ogni questione relativa al conflitto tra fonti di pari rango formale. La Corte costituzionale non ha avuto alcun dubbio nel respingere per manifesta infondatezza la censura relativa alla violazione del principio di irretroattività e, per l’effetto, del principio dell’affidamento nella sicurezza giuridica, in quanto, per dirla con le parole del redattore, «la norma censurata non dispone per il passato, ma fissa per il futuro un obbligo di comunicazione dei dati a pena di “decadenza dal contributo”, a nulla rilevando che tale decadenza abbia ad oggetto un contributo già conseguito»: impostazione chiaramente ribadita nella successiva pronuncia n. 180 del 7 giugno 2007, di portata meno specifica della precedente, ma recante principi e richiami a precedenti giurisprudenziali di costituzionalità molto più pregnanti e risolutivi per le ulteriori questioni sottese ai recuperi dei crediti disposti dalla L. n. 289/200228. Decisamente non convince, invece, l’approccio diametralmente opposto al problema operato dalla medesima Comm. trib. reg. aquilana nella sentenza n. 33/VI/2008, fondato sul “rango superiore a valenza costituzionale” ascrivibile agli artt. 11 Disp. Prel. Cod. Civ. e 3 L. n. 212/2000. Non convincono, in particolare, né la strada seguita dal Giudice di fronte ad un provvedimento assolutamente vincolato ai sovrastanti testi normativi, né il riconoscimento del rango costituzionale alle norme statutarie; ma, ancor più a monte, manca del tutto la disamina della questione di base circa la sussistenza o meno della natura retroattiva delle disposizioni incriminate, che appena un mese prima, nella pronuncia n. 27/2008 della medesima sez., aveva costituito invece il fulcro della decisione favorevole all’erario. Ed infine, neppure convince l’affastellamento operato dal Collegio di due distinte questioni (violazione dei commi 1 e 2 dello Statuto) che sarebbe stato più che opportuno mantenere distinte, se non altro perché nel primo caso può fondatamente sostenersi che la legislazione del 2002 sia rispettosa del principio di

28 In effetti, nonostante la Comm. trib. prov. Avellino, nell’ordinanza n. 450 del 25 marzo 2005 avesse devoluto alla disamina della Consulta entrambe le questioni attinenti i commi 1 e 2 dell’art. 3 della L. n. 212/2000, la Corte da un lato aveva giustamente negato la sussistenza di applicazione retroattiva di norma (con ciò esimendosi dall’affrontare la tematica dei rapporti tra Statuto e residua legislazione ordinaria), ma dall’altro aveva omesso di pronunziarsi sulla seconda problematica, non oggetto di piena disamina neppure nella successiva ordinanza n. 180/2007, benché dal tenore delle osservazioni svolte in quest’ultima (e ancor più nelle successive ordinanze n. 41/2008 e 266/2008) la Corte faccia discendere significative chiavi d’accesso per la soluzione della questione (cfr. infra, nel testo). 29 Anche per la presente eccezione, la diatriba ha preso avvio sostanzialmente dalla sentenza n. 225/2004 della Comm. trib. prov. di Avellino, la quale tuttavia è relativa ad una fattispecie del tutto peculiare e minoritaria rispetto alla generalità dei casi, ossia un invio tardivo e non completamente omesso del

irretroattività, mentre nel secondo l’infrazione del termine minimo di sessanta giorni tra l’introduzione dell’adempimento e la scadenza per ottemperarvi è difficilmente negabile; con la conseguenza che la seconda questione non può che essere affrontata su un piano di puro diritto, cercando essenzialmente nella giurisprudenza di costituzionalità le dovute chiavi interpretative. Il mancato rispetto del termine minimo ex art. 3 comma 2 L. n. 212/2000 e i rapporti tra Statuto e legislazione residua Ultima questione sottesa al problema dell’omesso invio del mod. Cvs è quella afferente il presunto mancato rispetto del termine minimo di sessanta giorni ex art. 3 comma 2 L. n. 212/2000, nel quale il legislatore sarebbe incorso fissando al 28 febbraio 2003, con la L. n. 289/2002 (entrata in vigore il 1 gennaio 2003), il termine ultimo per l’invio telematico del modello. La problematica, passata tutto sommato in secondo piano rispetto a quella precedentemente esaminata (di maggior risalto mediatico sulle riviste specializzate), ma non per ciò solo di minore importanza, involge a monte lo spinoso argomento dei rapporti tra lo Statuto del contribuente e le altre fonti normative29. Due sono le questioni di fatto non revocabili in dubbio, e sulle quali il confronto giudiziale non può certo dare adito ad incertezza alcuna. È innanzitutto innegabile che tra l’entrata in vigore della L. n. 289/2002 ed il termine ultimo per l’invio siano decorsi meno di sessanta giorni (59 per l’esattezza), e che ancor minore sia stato il lasso temporale intercorso tra l’adozione del Provvedimento dell’Agenzia attuativo dell’art. 62 L. n. 289/2002 (Provvedimento del direttore Ag. Entrate del 24 gennaio 2003, in G.U. del 4 febbraio 2003) e il termine ultimo per l’invio (28 febbraio 2003)30. È altresì innegabile, purtuttavia, che la presente questione reca uno spessore di molto inferiore rispetto all’altra appena esaminata, posto che oggetto di contesa non è il travolgimento retroattivo di diritti quesiti, bensì una compressione assolutamente trascurabile del termine di adempimento ex art. 3 comma 2 L. n. 212/2000, ingiustificatamente amplificato, nel corso dei giudizi, quasi a sostenere con convinzione 60 giorni sarebbero stati sufficienti a rispettare i propri obblighi informativi nei confronti dell’amministrazione, mentre 59 giorni non avrebbero tutelato a sufficienza31.

mod. Cvs; con la conseguenza che da detta sentenza non è possibile traslare acriticamente le argomentazioni giudiziali, fino al punto di consentire sempre e comunque l’impunità a tutti coloro che, astenendosi del tutto dall’adempimento, hanno effettivamente vanificato gli obiettivi perseguiti dal legislatore. Obiettivi riepilogati dall’estensore stesso della pronuncia, e che assumono una chiara valenza orientativa del giudice nell’economia della decisione assunta, laddove viene rilevato come costituisca finalità primaria del legislatore non sanzionare l’omissione, bensì prevenire i comportamenti elusivi e la pianificazione e il monitoraggio dei flussi di spesa. Più in generale, la sentenza, pur muovendo da premesse condivisibili, ad un certo punto sembra smarrire il filo conduttore, non affrontando espressamente la tematica dei rapporti Statuto/legislazione residua, ma preferendo rifugiarsi in una discutibilissima interpretazione letterale dell’art. 62, comma 1, lett. a, L. n. 289/2002 per poi ascrivere le responsabilità della mancata osservanza del termine al provvedimento amministrativo generale del 24 gennaio 2003 piuttosto che

alla retrostante normativa (di per sé violatrice dell’art. 3, L. n. 212/2000). 30 A meno di non voler accedere ad un’interpretazione “economicamente” orientata dello Statuto, e ritenere che il legislatore del 2000 abbia inteso, nell’art. 3, comma 2, L. n. 212/2000, riferirsi ad adempimenti di carattere squisitamente finanziario, al fine di preservare l’integrità patrimoniale dei contribuenti: in tal caso, tuttavia, la disposizione avrebbe dovuto albergare nel successivo art. 8, rubricato “Tutela dell’integrità patrimoniale”, e non già tra norme di portata generale, tra le quali appunto l’art. 3. 31 E se, com’è vero, tale è lo spessore delle tesi fatte valere in giudizio, può legittimamente dubitarsi dell’ingiustificato risalto attribuito alla vicenda dalla giurisprudenza e dagli spunti dottrinali rinvenibili sul punto, specie ove si consideri che l’obbligo del monitoraggio è stato introdotto per la prima volta nell’ordinamento dall’art. 1, comma 1, lett. a, del D.L. n. 253/2002, entrato in vigore il 13 novembre 2002. Detto decreto non è stato convertito in legge, tuttavia l’art. 1 è stato fedelmente riprodotto dall’art. 62 della L. n.


Esenzioni e agevolazioni 1 2009 85

Su un piano di stretto diritto, tuttavia, la decadenza ex tunc del D.L. n. 253/2002 impedisce pur sempre di conteggiare il termine de quo a partire dai mesi di novembre e dicembre 2002, e sul punto è condivisibile la reiezione delle motivazioni dell’Agenzia ad opera della Comm. trib. prov. avellinese e della successiva giurisprudenza di merito, benché le disposizioni del D.L. siano state riprodotte in legge prima ancora dello spirare del termine ultimo per la conversione del decreto. L’approccio maggiormente corretto al problema va forse ricercato, in questo caso, esclusivamente sul piano del diritto, ed in particolare tra le disquisizioni giuridiche sul rango da attribuirsi allo Statuto del contribuente nel sistema delle fonti normative32. Le sentenze della Comm. trib. reg. aquilana qui annotate si innestano sulle due opposte tesi della preponderanza dello Statuto, quale fonte “anomala” o comunque rafforzata dalla menzione di precetti costituzionali in seno all’art. 1, ovvero della prevalenza della legiferazione successiva, in virtù del criterio temporale e della mancanza di un nesso gerarchico in senso stretto tra la L. n. 212/2000, pur sempre legge ordinaria, e la L. n. 289/2002. La prima tesi, optata dalla nell’annotata sentenza n. 33/2008, non convince né sotto i profili formali di soluzione diretta del problema, né sotto quelli sostanziali espressi nella disamina della valenza costituzionale delle norme statutarie. Circa la prima questione, è più che lecito dissentire dall’orientamento di tutti quei Collegi che, sia ritenendo lo Statuto fonte di valenza costituzionale, sia facendo assurgere lo stesso a rango comunque superiore a quello della legge ordinaria, in virtù dei richiami contenuti nell’art. 1, hanno proceduto alla disapplicazio-

289/2002, in vigore dall’1 gennaio 2003 (e dunque ancor prima della decadenza del decreto per mancata conversione), il cui comma 7, abrogando espressamente gli artt. 1 e 2 del citato decreto e nel contempo dichiarando validi gli atti e i provvedimenti adottati, fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base delle predette disposizioni, ha conferito piena continuità giuridica tra la normazione del 2002 e quella del 2003. Con la conseguenza che le disposizioni incriminate, pur mutando fonte di produzione, sono state sempre vigenti nell’ordinamento senza alcuna interruzione; sotto tale profilo, appare pur condivisibile la tesi espressa dall’a.f. circa il fatto che i contribuenti erano stati onerati dell’invio dei modelli per la ricognizione dei crediti sin dal novembre 2002, e per tale verso l’art. 3, comma 2, dello Statuto del contribuente deve ritenersi perfettamente rispettato, essendo intercorsi ben 104 giorni tra l’entrata in vigore del D.L. 253/2002 (introduzione dell’obbligo del monitoraggio) e il termine ultimo per l’invio telematico del mod. Cvs (28 febbraio 2003). Sul piano attuativo del monitoraggio, poi, aggiungasi che il provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate del 24 gennaio 2003, pubblicato in G.U. del 4 febbraio 2003, è pedissequamente riproduttivo, nella forma e nella sostanza, di quello datato 12 dicembre 2002 e pubblicato nella G.U. del 27 dicembre 2002 (approvazione dei modelli Cvs e Cts), ossia 63 giorni prima della scadenza del 28 febbraio2003 per l’invio telematico (cfr., in proposito, Comm. trib. prov. Pescara, sez. III, sent. n. 48 del 26 maggio 2004 e 63 del 28 giugno 2004). 32 Rimane tendenzialmente recessiva in giurisprudenza, benché costantemente sostenuta

ne della normativa sopravvenuta ed al conseguente annullamento dei provvedimenti consequenzialmente adottati. Ogniqualvolta, in effetti, si ponga un problema di contrasto tra normativa ordinaria e fonti di rango costituzionale, non sembra possibile riconoscere alla magistratura di merito il sindacato di tipo “diffuso” del quale l’annotata sent. n. 33/08 costituisce un significativo esempio senza esautorare il Giudice delle Leggi dall’essenziale funzione che gli attribuisce la Carta costituzionale. Unica strada percorribile, in questi casi, non può che essere la devoluzione alla Corte costituzionale del rilevato contrasto tra norme, sia che nel far ciò si denunci violazione diretta dei precetti costituzionali (è il caso dell’ordinanza n. 450/2005 della Comm. trib. prov. di Avellino,v. nota n. 27), sia che si utilizzi la figura giuridica delle “fonti interposte” tra Costituzione e legge ordinaria, come appunto lo Statuto per esplicito richiamo ex art. 1 (v. Comm. trib. prov. Isernia n. 43/08). Per ciò che invece attiene la disamina di merito della gerarchia delle fonti, quanto osservato dai giudici aquilani si pone in netta e palese antitesi con il fermo e costante orientamento della Corte costituzionale ormai consolidato nel negare dignità giuridica alle predette costruzioni ermeneutiche33, ancor più inconferenti laddove si richiamano alla Costituzione per fondarvi una guarentigia, quale quella dell’irretroattività delle disposizioni tributarie, che per costante applicazione giurisprudenziale è limitata alla sola materia penale. I limiti della predetta impostazione sono ancor più evidenti laddove cerca appiglio nel filone giurisprudenziale varato dalla Suprema Corte dal biennio 2001/200234 e poi puntualizzato nella

dall’Agenzia nei propri scritti difensivi, la tesi relativa alla mancata previsione di sanzione specifica di nullità all’interno dell’art. 3 della L. n. 212/2000. Avendo il legislatore del 2000 codificato solo in alcuni casi disposizioni aventi rango di leges perfectae, come per gli artt. 6, comma 5 e 11, comma 2, laddove la sanzione in forma specifica della nullità è espressamente comminata per l’ipotesi di violazione dei precetti recati dalle norme esaminate, nei restanti casi l’assenza di previsioni in termini di nullità degli atti impedirebbe di pervenire a detta conseguenza, dovendosi altrimenti ritenere lesa la voluntas legis di non compromettere la validità dei provvedimenti in ipotesi di violazione di finalità di carattere programmatico presenti nella maggior parte dei casi all’interno dello Statuto. Questa posizione, in favore della quale si ravvisa un buon filone giurisprudenziale (cfr. Comm. trib. reg. Lazio, sent. n. 181 del 20 novembre 2006; sez. VII, sent. n. 55 del 5 maggio 2005) e da ultimo avallata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 58 del 23 febbraio 2009 (in Corr. Trib., 2009, 14, 1102 ss., con nota di BASILAVECCHIA, Atti impositivi carenti ma legittimi, 1099 ss., e MARONGIU, Le cartelle mute: una “querelle” infinita, 1104 ss.), resa in esito all’ordinanza n. 43/2008 della Comm. trib. prov. Isernia qui pubblicata e annotata, trae ulteriore spunto dalla bocciatura, durante la seduta n. 685 del 2 marzo 2000 della Camera dei Deputati, di un testo alternativo dello Statuto che prevedeva l’inserzione della nullità per gli avvisi di accertamento emanati prima del decorso dei sessanta giorni tra la notifica del Pvc e quella del successivo atto impositivo ex art. 12, ultimo comma, L. n. 212/2000. Orbene, a maggior ragione, laddove non siano in ballo interessi

preminenti e costituzionalmente garantiti come il diritto alla difesa del contribuente, ma lo Statuto codifichi valori non immanenti all’ordinamento giuridico (proprio come nel caso dell’art. 3, comma 2), sarebbe irragionevole, in difetto di espressa comminatoria della legge, far discendere dal mancato rispetto del termine un effetto non proporzionato alla garanzia che il legislatore esplicitamente ha voluto assicurare. Questa tesi presenta sicuramente, a parere di chi scrive, ampi profili di sostenibilità, pur se, a ben vedere, oltre a dilatare forzatamente ad ambiti sostanziali regole strettamente processuali, quali quella ex art. 156, comma 1, c.p.c., non esaurisce certo la gamma di stati viziati dai quali può risultare affetto l’atto amministrativo e conseguentemente anche quello di imposizione tributaria, per i quali la nullità convive con altre categorie che spaziano dalla mera irregolarità alla radicale inesistenza. 33 Corte cost., ord. n. 41 del 27 febbraio 2008, in www.cortecostituzionale.it, laddove la Consulta, nel richiamare quali specifici precedenti le ordinanze n. 428/2006 e 216/2004, osserva, a proposito dell’art. 36, comma 2, D.L. n. 223/2006, «che la disposizione denunciata, infatti, in quanto dotata della stessa forza della legge n. 212 del 2000 (che non ha valore superiore a quello della legge ordinaria, come sottolineato da questa Corte con le ordinanze n. 180 del 2007, n. 428 del 2006 e n. 216 del 2004), è idonea ad abrogare implicitamente quest’ultima [...]»; orientamento ribadito pochi mesi dopo nell’ordinanza n. 266/2008 (Corte cost., ord. n. 266 del 10 luglio 2008, in www.cortecostituzionale.it). 34 Cfr., tra le altre, Cass. civ., sez. trib, sent. n. 4760 del 30 marzo 2001; Cass. civ., sent. n. 17576 del 10 dicembre 2002, in banca dati fi-


86

GiustiziaTributaria

1 2009

nota sent. n. 7080 del 2004, richiamata dal Collegio abruzzese nella pronuncia n. 33/2008. La Corte di Cassazione ha individuato all’interno dello Statuto previsioni di carattere innovativo a fianco ad altre, ricognitive di valori, anche costituzionali, immanenti e preesistenti nell’ordinamento giuridico, che fungerebbero da vincolo per il legislatore ordinario. Tuttavia, la Cassazione non si è mai spinta fino al punto di predicare l’illegittimità ovvero l’incostituzionalità della norma di legge successiva in contrasto con queste ultime, limitandosi a rilevare la necessità, in caso di conflitto tra diverse interpretazioni della norma tributaria, di propendere per quella conforme a Statuto (ed unicamente in ciò, anche a parere della più attenta dottrina, si esaurisce il presunto rango superiore di quest’ultimo rispetto alla normazione ordinaria35). Nel caso specifico, una simile impostazione non è fondatamente invocabile. Le disposizioni incriminate36 sono di chiara ed inequivoca lettura tanto nell’individuazione della platea dei soggetti onerati dell’invio, quanto nella previsione dell’obbligo, quanto infine in quella delle conseguenze dell’eventuale inadempimento, con ciò dovendosi escludere qualsiasi possibilità di interpretazioni più o meno conformi a Statuto: in particolare, la perentorietà del termine, garantita dalla sanzione secca della decadenza voluta dal legislatore, inibisce di accedere ad un diverso approccio ermeneutico in termini di ordinatorietà37. Nè a migliori risultati conduce una variante della predetta tesi, la quale, pur non chiamando in causa i precetti costituzionali, tende a ritenere inefficace la deroga implicita che il legislatore del 2002 avrebbe apportato all’art. 3 comma 2 L. n. 212/2000, inibita dal disposto di cui all’art. 1 dello Statuto che fissa la necessità della deroga espressa: anche in tal caso, tuttavia, la posizione patrocinata da certa giurisprudenza di merito, richiamata altresì dalla Comm. trib. prov. di Avellino nella nota sent. n. 225/2004, ha trovato smentita da parte della Corte costituzionale, la quale ha rile-

sconline, con nota di STEVANATO, Tutela dell’affidamento e limiti all’accertamento del tributo; Cass. civ., sez. trib., sent. n. 7080 del 14 aprile 2004, in Corr. Trib., 29, 2004, con nota di MARONGIU, Retroattività e affidamento nell’applicazione della legge tributaria; Cass. civ., sent. n. 21513 del 2006, in Fisco, 45, 2006, con nota di D’ORSOGNA, L. 27 luglio 2000, 212: i principi di irretroattività e legittimo affidamento, 6950 ss., e nota integrativa del medesimo autore, in Fisco, 46, 2006, I, 7158 ss. 35 Cfr. Cass. civ., sent. n. 17576 del 10 dicembre 2002; Cass. civ., sent. n. 7080/2004; Cass. civ., sent. n. 21513 del 6 ottobre 2006; in dottrina, REBECCA-COMITO, Retroattività delle norme tributarie nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, in Fisco, 21, 2007, 3125 ss.; sui limiti all’interpretazione adeguatrice nella giurisprudenza di costituzionalità e legittimità cfr. AZZONI, Giudizio tributario e interpretazione adeguatrice, in Fisco, 41, 2006, 6349 ss.). 36 Art. 1, D.L. n. 253/2002 e art. 62, comma 1, lett. a, L. n. 289/2002. 37 Così, ad esempio, l’eventuale tardività dell’invio equivale chiaramente all’omissione, stante la previsione della decadenza che blinda la perentorietà del termine; in tal senso, Comm. trib. prov. Cagliari, sez. II, sent. n. 156/02/2004, nonché l’annotata Comm. trib. prov. L’Aquila, sez. III, sent. n. 26/2008, afferente proprio un invio tardivo del modello Cvs. Per i medesimi motivi non si condivide

vato che in casi simili la previsione di inderogabilità implicita vale unicamente come criterio interpretativo38. Meno emotivo e maggiormente attento al sistema gerarchico delle fonti del diritto nazionale è l’approccio al problema condotto dalla Comm. trib. reg. aquilana nella sentenza n. 90/2008, che si inserisce nel filone interpretativo, opposto a quello appena cennato, propenso a parificare la valenza di Statuto e legislazione residua. Nel riformare la sentenza di primo grado, il Collegio censura l’indebito sindacato diffuso di costituzionalità esercitato dal primo giudice, ed in ciò si condivide pienamente l’individuazione del criterio riparto tra giurisdizioni, unica via concepibile nel nostro ordinamento per garantire l’uniformità applicativa alla legislazione ordinaria ovvero l’espunzione definitiva della norma incostituzionale ad opera dell’unica magistratura a ciò deputata. Nel merito, invece, la Comm. trib. reg. accoglie l’interpretazione offerta dalla Consulta dei rapporti fra Statuto e legislazione residua quali fonti di pari rango, con ciò aprendo le porte al criterio cronologico nella ricerca della disposizione prevalente. In effetti, ancor prima che la Corte costituzionale consolidasse il proprio orientamento in tema di derogabilità dello Statuto, parte della giurisprudenza di merito era già pervenuta a detta soluzione, affermando che «la gerarchia delle fonti pone le norme primarie tutte sullo stesso piano, per cui la legge successiva può abrogare la precedente sia espressamente che implicitamente, nonostante qualsiasi dichiarazione d’intenti del legislatore ordinario nell’ambito di una legge precedente»39. E così è anche per la L. n. 212/2000, legge ordinaria che il legislatore stesso ha voluto come tale (al pari delle cd. “preleggi”) e successivamente sottoposto a modifiche e deroghe di ogni genere. Il contrasto tra Statuto e normazione successiva, allora, fatti salvi appunto i casi di interpretazione “statutariamente” (e quindi costituzionalmente) orientata, non praticabile nel caso specifico, transita necessariamente per gli ordinari criteri cronologico e di specialità di ordinamento delle fonti, in base ai quali la L. n.

l’interpretazione offerta da Comm. trib. reg. Puglia, sez. XV, sent. n. 77 del 25 gennaio 2007, volta a restringere, nella citata ottica ermeneutica statutaria, gli obblighi di invio del Cvs ai soli contribuenti che non avessero esaurito il rapporto con integrale utilizzo del credito alla data di entrata in vigore della L. n. 289/2002: tanto l’art. 1 del D.L. n. 253/2002, quanto l’art. 62, comma 1, lett. a, della L. n. 289/2002 riferiscono indistintamente gli obblighi di trasmissione a tutti i contribuenti fruitori del credito nel regime automatico ante 8 luglio 2002, senza possibilità di diverse interpretazioni. Più in generale, il chiaro tenore letterale dei testi normativi del 2002 e la questione di massima sottesa, ossia la preponderanza o meno di una disposizione in potenziale contrasto con lo Statuto del contribuente, mina fortemente l’attendibilità delle posizioni giurisprudenziali di merito propense a riconoscere la legittimità degli atti di recupero limitatamente al credito, e con esclusione della sanzione irrogata, per le quali v. INGRAO, Il recupero del credito d’imposta per tardivo invio del modello Cvs tra autoliquidazione, compensazione e disapplicazione delle sanzioni, cit., 87 ss. È forse più appropriato dubitare dell’opportunità di assommare, come in effetti è avvenuto, una sanzione in forma specifica, quale la decadenza dal contributo automaticamente conseguito, ad un’altra di carattere pecuniario, quale quella di cui all’art. 13, D.Lgs. n.

472/1997, correlata al recupero del credito, con una penalizzazione eccessiva ed in piena controtendenza rispetto allo spirito informatore del sistema sanzionatorio tributario. 38 Cfr. REBECCA-COMITO, Retroattività, cit., in Fisco, 2007, 21, 3125 ss.; v. altresì quanto ribadito dalla Corte costituzionale circa l’ammissibilità di abrogazione implicita dello Statuto, seppur senza motivazione espressa sul punto specifico, nella citata ordinanza n. 41/2008. 39 «La tesi per cui una legge ordinaria, pur se contenente principi generali dell’ordinamento, possa rendere illegittime o comportare la disapplicazione delle leggi successive in contrasto non è sostenibile nel nostro ordinamento, poiché il giudice, come è circostanza del tutto pacifica, non può dichiarare illegittima la norma primaria né può disapplicarla, neppure se in contrasto con altre norme primarie precedenti contenenti principi generali» (così Comm. trib. prov. Cagliari, sez. II, sent. n. 94 del 17 maggio 2004, in Servizio di documentazione economica e tributaria). Nessun sindacato diffuso compete alle Commissioni, cioè, se non quello finalizzato alla questione di costituzionalità, sollevabile anche d’ufficio e non surrogabile da una rilevazione incidentale di eventuali contrasti tra l’atto amministrativo che sia espressione vincolata di determinate norme ordinarie e precetto costituzionale (fatta salva, ovviamente, e nei termini di cui sopra, la cd. interpretazione costituzionalmente adeguatrice).


Esenzioni e agevolazioni 1 2009 87

289/2002 è senz’altro destinata a prevalere, essendo posteriore alla L. n. 212/2000 e non potendo predicarsi tra le due fonti alcun rapporto di specialità; e ciò anche in virtù di quello che in dottrina si definisce principio dell’“inesauribilità dell’azione legislativa”, secondo il quale il legislatore di un determinato momento, pur adottando formule di stile tese ad impedire deroghe o modifiche implicite o tacite della normativa, anche attraverso il richiamo a principi di carattere costituzionale, non vincola mai il suo successore, almeno fintantoché non blindi il suo intervento in termini di costituzionalità40. In questo scenario, l’ultimo intervento della Corte costituzionale sulla specifica materia (ord. n. 180/2007) sembra andare addirittura oltre, offrendo una soluzione parzialmente diversa dalla precedente (ord. n. 124/2006). In particolare, la Consulta, nel rilevare che le questioni dedotte alla sua analisi concernenti la violazione dell’art. 24 Cost. sono fondate, tra l’altro, sul presupposto che il termine minimo di sessanta giorni ex art. 3 comma 2 L. n. 212/2000 abbia uno specifico fondamento costituzionale, ha statuito che «l’art. 3 della legge n. 212 del 2000 non costituisce parametro idoneo a fondare il giudizio di legittimità costituzionale (ordinanza n. 216 del 2004)». Orbene, non pare azzardato sostenere che in detta pronuncia la Corte abbia voluto ancora una volta segnare una netta distinzione tra disposizioni statutarie costituzionalmente protette ed altre disposizioni sprovviste di tale fondamento; per cui, riallacciando la succitata giurisprudenza di Cassazione a detta presa di posizione della Consulta, conseguirebbe l’estraneità dell’art. 3 comma 2 a qualsivoglia copertura di carattere costituzionale, con esclusione (stavolta a monte, e non già in ragione dell’impossibilità concreta di praticare difformi approcci ermeneutici) di qualsivoglia possibile preponderanza, anche solo interpretativa, dello Statuto, e conseguentemente con prevalenza, ratione temporis, delle disposizioni della L. n. 289/2002 in merito alla legittima compressione del termine minimo di sessanta giorni.

40Sui motivi della scelta legislativa di non codificare la L. n. 212/2000 in termini di legge co-

Considerazioni conclusive La giurisprudenza di vertice ha ormai posto il sigillo definitivo sulla piena legittimità costituzionale della normativa del 2002 in tema di monitoraggio dei crediti d’imposta, benché non possa escludersi a priori che la Corte di Cassazione assuma, nell’immediato futuro, una posizione parzialmente difforme, se non altro in virtù della sua maggior sensibilità agli interessi presidiati dallo Statuto del contribuente. Non sempre, tuttavia, la costituzionalità di una norma esaurisce i possibili giudizi che della stessa possono essere formulati, specie quando la tutela degli interessi dei quali essa è posta a guarentigia finisce per offuscare o addirittura ledere esigenze che al contrario dovrebbero avere rango preminente. Il legislatore del 2002, pur avendo incassato pieno avallo dal suo unico Giudice, non esce certo vincitore dal confronto giudiziale oggetto del presente spunto, avendo vanificato, in un’ottica puramente strumentale ad obiettivi di politica fiscale, le ben più importanti finalità economiche di patrimonializzazione e capitalizzazione delle imprese perseguite appena due anni prima con il meccanismo dei crediti d’imposta. D’altro canto, sebbene l’operato del legislatore non abbia nel complesso brillato per chiarezza, coerenza e linearità, è pur vero che non possono sottacersi le responsabilità dei veri artefici dell’intera vicenda, ossia coloro che, incaricati della trasmissione telematica dei modelli, sono rimasti inspiegabilmente inottemperanti di fronte a norme magari opinabili sui piani etico e giuridico, ma di indiscutibile chiarezza nella fissazione dei loro precetti: e sotto questo profilo è più che lecito chiedersi fino a che punto sia stato opportuno, per i contribuenti, tentare la via del difficile sindacato sulla ragionevolezza legislativa innanzi alla magistratura tributaria piuttosto che azionare le responsabilità professionali dei predetti soggetti presso quella civile.

stituzionale, cfr. MARONGIU, Lo Statuto, in Fisco, 2006, 1, 1 ss.; Id., Statuto del contribuen-

te: primo consuntivo ad un anno dall’entrata in vigore, in Corr. Trib., 2001, 28, 2069 ss.


88

GiustiziaTributaria

1 2009

ICI I FABBRICATI RURALI DELLE COOPERATIVE AGRICOLE: LA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ DELL’ART. 2, COMMA 4, L. N. 244/2007 È DOVUTA AD UN EQUIVOCO I Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna, Parma, sez. XXI, (ordinanza) 12 marzo 2008, n. 4 12 Presidente: Boselli - Relatore: Bazzani Ici - Fabbricati rurali - Requisiti - Art. 42-bis, D.L. 1 ottobre 2007, n. 159 (conv. con L. 29 novembre 2007, n. 222) - Fabbricati strumentali all’attività agricola - Fabbricati di proprietà delle cooperative agricole (e loro consorzi) - Inapplicabilità del tributo - Art. 2, comma 4, L. 24 dicembre 2007, n. 244 - Rimborso Ici in favore delle cooperative agricole (e loro consorzi) - Natura interpretativa dell’art. 42-bis - Preclusione del rimborso ex art. 2, comma 4 - Questione di legittimità costituzionale per violazione art. 3, Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza (Cost., art. 3; D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, conv. con L. 29 novembre 2007, n. 222, art. 42-bis; L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, comma 4) L’art. 2, comma 4, L. 24 dicembre 2007, n. 244, afferma che «non è ammessa la restituzione di somme eventualmente versate a titolo di imposta comunale sugli immobili ai Comuni, per i periodi di imposta precedenti al 2008, dai soggetti destinatari delle disposizioni» (le cooperative ed i loro consorzi) «di cui alla lettera i del comma 3-bis dell’art. 9 del decreto legge [...] 1993, n. 557[...] introdotta dall’art. 42-bis, D.L. 1 ottobre 2007[...] in relazione alle costruzioni di cui alla medesima lettera i»; conseguentemente deve ritenersi che l’art. 42-bis, cit., abbia natura interpretativa in merito al riconoscimento della ruralità per i fabbricati strumentali all’attività agricola di proprietà delle cooperative agricole (e loro consorzi), donde la non manifesta infondatezza della questione di legittimità dell’art. 2, comma 4, cit., nella parte in cui preclude il diritto al rimborso, per violazione dell’art. 3 Cost. Svolgimento del processo La cooperativa produttori suini P.S. con sede in Vescovato (CR) impugnava avanti la Commissione tributaria provinciale di Parma il diniego opposto dal Comune di Tizzano Val Parma alla domanda di rimborso Ici per l’anno 2004 versata per il fabbricato strumentale sito in località Capoponte utilizzato per la conservazione, manipolazione e trasformazione dei prodotti agricoli conferiti dai soci agricoltori. La società ricorrente contestava i motivi addotti a. sostegno del provvedimento impugnato adducendo che: - i fabbricati di proprietà, strumentali all’attività agricola, sono da definirsi rurali, come da pronunce di Cass. n. 6884/2005, 13674/2005; - la cooperativa di agricoltori, anche se soggetto distinto dai soci, può svolgere attività connessa all’esercizio normale dell’agricoltura; - la novella introdotta dal D.P.R. 139/1998 ha nettamente separato l’asservimento del terreno al fabbricato; - non ha rilievo il fatto che l’immobile sia accatastato alla sezione fabbricati industriali; - ciò che rileva è essenzialmente la circostanza che i prodotti trasformati provengano in prevalenza dai soci, come nella fattispecie risulta dal bilancio (nel caso, il 68%).

Chiedeva quindi il rimborso della somma versata, che assumeva non dovuta. Resisteva il Comune di Tizzano con controdeduzioni con le quali, respingendo le tesi della ricorrente, evidenziava che: - in primo luogo il fabbricato risulta iscritto al catasto quale fabbricato industriale nella categoria D7 e come tale, deve ritenersi non esente da Ici per il combinato disposto degli artt. 7 e 9 del D.Lgs. 505/1992; - in secondo luogo, deve sussistere identità fra possesso del fabbricato e proprietario e/o del detentore del terreno, come da Cass. n. 14489/2002, 18853/2005, 12369/2005; - il reddito della cooperativa non va ritenuto agricolo in quanto la stessa lavora, trasforma e vende prodotti provenienti da terreno non proprio. Entrambe le parti depositavano memorie a sostegno delle rispettive tesi. La Comm. trib. prov. Parma accoglieva il ricorso, sostanzialmente sulla seguente motivazione: - con riferimento alla natura giuridica della cooperativa, ai sensi dell’art. 2135, comma 3, c.c., la ricorrente è indiscutibilmente imprenditore agricolo; - sulla necessità di collegamento diretto fra proprietà del terreno e quella del fabbricato, il comma 3-bis dell’art. 9 della legge 133/1994, in vigore dal 1998, sancisce senza equivoci la natura rurale delle costruzioni strumentali alle attività agricole, ne deriva che il fabbricato in oggetto assume la connotazione rurale a prescindere dalla connessione con il fondo agricolo; - sulla attività della ricorrente, l’attività di stagionatura delle carni operata dalla cooperativa rientra nell’attività agricola connessa: la cooperativa funziona come longa manus dei soci allevatori potendosi quindi avvalere delle agevolazioni ad essi assegnate dalla legge; - la categoria catastale attribuita al fabbricato strumentale non rileva ai fini del diniego di riconoscimento della ruralità. In definitiva il fabbricato strumentale deve ritenersi non assoggettabile a Ici. Contro la decisione ha interposto appello il Comune di Tizzano Val Parma sulla base dei seguenti motivi: 1. la cooperativa agricola non può avere un reddito qualificabile come “reddito agrario”, a prescindere da qualsiasi prova prodotta; 2. in ordine alla natura rurale delle costruzioni, il dettato normativo conferma il necessario rapporto di connessione e asservimento fra il fabbricato strumentale e il terreno; 3. con riguardo all’esercizio di attività agricola, dalla visura camerale risulta chiaramente che l’attività è prettamente industriale e non agricola; 4. il D.Lgs. 99/2004 riconosce l’estensione alle società agricole delle agevolazioni spettanti ai coltivatori diretti limitatamente alle imposte indirette e alle agevolazioni creditizie ma non all’Ici; 5. la produzione di “salumeria” non rientra tra le attività indicate che possono godere dell’esenzione Ici; 6. relativamente alla qualificazione della cooperativa come longa manus dei soci, la giurisprudenza di legittimità riconosce la speci-


Ici 1 2009 89

ficità della legge che, in assenza di espressa previsione, non consente di ritenere esente dall’Ici il fabbricato; 7. l’immobile in questione non è mai stato iscritto al catasto terreni come rurale; 8. citava a sostegno dei motivi, fra l’altro, Cass. n. 18853/2005, 12369/2005. Concludeva pertanto per la riforma dell’impugnata sentenza per violazione ed errata interpretazione di legge. Con proprie controdeduzioni la cooperativa resisteva all’appello contro deducendo: 1. la nota integrativa fornisce la prova circa la qualifica di imprenditore agrico1o; 2. il D.P.R. 139/1993 ha riconosciuto il carattere rurale delle costruzioni strumentali alle attività agricole; 3. l’attività svolta dalla cooperativa è di tipo agricolo, l’attività di stagionatura e commercializzazione dei prosciutti rappresenta un’attività marginale rispetto all’attività principale di macellazione dei suini conferiti dai soci agricoltori e della lavorazione delle relative carni; 4. l’art. 2, comma 6, lettera a, della L. 350/2003, con efficacia dal 1 gennaio 2004, ha modificato la definizione di attività agricola connessa rendendola conforme alle disposizioni dell’art. 2135 c.c.; 5. il riconoscimento dello scopo comune fra cooperativa e produttori agricoli è confermato da Cass. n. 2004/1970, 3243/1974; 6. la categoria catastale di iscrizione del fabbricato non rileva per il riconoscimento del carattere di ruralità ai fini Ici; 7. la cooperativa ha quindi dimostrato di possedere tutti i requisiti richiesti dalla normativa per l’esclusione del fabbricato dall’Ici (è imprenditore agricolo, l’attività svolta rientra tra le attività agricole connesse, il fabbricato è strumentale all’attività agricola dei soci). 8. citava, a sostegno, Cass. n. 18853/2005, 13674/2005, 13675/2005, l3676/2005, 13677/2005. Concludeva per la conferma della sentenza impugnata e la condanna del Comune alle spese di giudizio. Con memoria depositata in data 12 febbraio 2008 il Comune appellante deduceva che la legge 222/2007, all’art. 42-bis, in vigore dal 21 dicembre 2007, che riconosce il carattere di ruralità alle costruzioni strumentali allo svolgimento dell’attività agricola, ha efficacia esclusivamente e assolutamente innovativa, confermando perciò il contrario regime per le annualità precedenti. Ribadiva inoltre che, per il combinato disposto delle norme richiamate nell’atto di appello, è escluso che il terreno posseduto da impresa commerciale comprese le cooperative, possa essere produttivo di reddito agrario, concludendo quindi che per tali soggetti la ruralità non può operare. La questione di legittimità costituzionale Dalla documentazione prodotta dalla cooperativa può considerarsi provata la strumentalità degli immobili della cooperativa stessa alla attività agricola di cui all’art. 29 del D.P.R. 917/1986. Emerge infatti univocamente dagli elementi probatori acquisiti che i fabbricati di proprietà della cooperativa produttori suini sono destinati in larga prevalenza alla macellazione e lavorazione dei suini conferiti dai soci agricoltori, mentre è marginale l’attività di stagionatura di prosciutti per la successiva commercializzazione. Acquisita detta prova, non può non farsi riferimento alle pronunce, intervenute in materia, della Corte di Cassazione con sentenze n. 6884/2005, 18853/2005. Con dette pronunce la Corte ha affermato il principio per cui l’art. 2 del D.P.R. n. 139 del 23 marzo 1998 ha modificato l’art. 9 del D.L. 557/1993 distinguendo a seconda che i fabbricati ven-

gano utilizzati o meno come abitazione e ha stabilito che la previgente normativa continuava ad essere applicata soltanto per i primi, dato che per i secondi doveva riconoscersi carattere rurale a tutte le costruzioni strumentali alle attività agricole di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 917/1986. Detto principio è certamente applicabile alla fattispecie venendosi in costruzioni strumentali alla trasformazione di prodotti agricoli, definite dal citato art. 29 del D.P.R. n. 917/1986, comma 2, lettera c. Anche con successive sentenze n. 13674/2005, 13675/2005, 13676/2005, 13677/2005 e, più recentemente, con sentenza n. 16701/2007 la Corte di Cassazione ha affermato che, con il comma 3-bis introdotto dall’art. 9 del D.L. n. 557/1993, i presupposti per il riconoscimento della ruralità degli immobili, a partire dal 1998, prescindono dall’appartenenza ad unico proprietario del fabbricato “asservito”, non essendo più necessario il concorso dei titoli di proprietà del terreno e del fabbricato in capo al medesimo soggetto, ma essendo sufficiente la conduzione del terreno cui l’immobile è asservito a qualunque titolo, e, quindi anche quale ente conferitario degli stessi. Il requisito per considerare “rurale” un fabbricato è stato definitivamente stabilito con l’art. 42-bis del D.L. 159/2007, convertito dalla legge 222/2007, che ha integrato l’art. 9 del D.L. 557/1993. La norma sancisce il riconoscimento del carattere di ruralità agli effetti fiscali delle costruzioni strumentali, necessarie allo svolgimento dell’attività agricola di cui all’art. 2135 c.c., destinate «alla manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli, anche se effettuate da cooperative e loro consorzi». Ad avviso di questa Commissione tributaria regionale, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, la norma ha carattere interpretativo. Il legislatore, infatti, proprio al fine di superare 1’oneroso contenzioso che vedeva coinvolta l’amministrazione finanziaria sulle questioni in oggetto, ha scelto, con la legge n. 222 del 2007, la soluzione alla quale era pervenuta, come si è detto, la giurisprudenza di legittimità. È quindi palese che, sia il testo della norma, sia lo scopo dalla stessa perseguito di risolvere le incertezze interpretative sorte sul trattamento tributario in questione, non consentono dì dubitare sul carattere interpretativo della norma de qua. Stante, dunque, l’indubbia efficacia retroattiva della norma dell’art. 42-bis D.L. 159/2007, convertito dalla legge 222/2007, di cui verrebbe a beneficiare la cooperativa produttori suini, la funzione della norma dell’art. 2, comma 4, legge 24 dicembre 2007 n. 244 (legge finanziaria 2008) – oggetto specifico di impugnazione per illegittimità costituzionale – è con evidenza quella di limitare gli effetti economico-finanziari di tale retroattività, escludendo la ripetibilità delle imposte già (indebitamente) pagate. Detta norma infatti dispone: «Non è ammessa la restituzione di somme eventualmente versate a titolo di imposta comunale sugli immobili ai comuni per i periodi di imposta precedenti al 2008, dai soggetti destinatari delle disposizioni di cui alla lettera i del comma 3-bis dell’articolo 9 del decreto legge 30 dicembre 1993 n. 557, convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 1994 n. 133, introdotta dall’articolo 42-bis del decreto legge 1 ottobre 2007 n. 159 convertito con modificazioni dalla legge 29 novembre 2007 n. 222, in relazione alle costruzioni di cui alla medesima lettera i». Orbene, proprio, relativamente a tale norma questa Commissione tributaria regionale solleva questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 3 della Costituzione nonché ai principi di ragionevolezza, razionalità e non contraddizione. La questione è rilevante in quanto la disposizione denunciata è applicabile ai periodi di imposta oggetto del giudizio che, per-


90

GiustiziaTributaria

1 2009

tanto, non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale sollevata. Dalla risoluzione di detta questione dipende infatti l’accoglimento o il rigetto dell’appello. La questione si appalesa altresì manifestamente fondata per i seguenti motivi. La norma denunciata è innanzitutto incoerente e contraddittoria e, pertanto, viziata da irragionevolezza poiché per un verso essa riconosce – con il richiamo della complessa e reiterata normativa che ha riconosciuto la esenzione da Ici per i soggetti destinatari delle disposizioni di cui alla normativa richiamata (fra i quali rientra la cooperativa produttori suini in questione) – che, appunto, tali soggetti sono esclusi dalla soggezione all’Ici, mentre, per altro verso, sottrae i pagamenti indebiti all’azione di ripetizione, negando appunto il diritto al rimborso delle imposte pagate indebitamente. La norma stessa, sotto altro aspetto, si pone in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art 3 della Costituzione, disciplinando in modo differenziato situazioni di diritto sostanzialmente uguali soltanto per il fatto, del tutto causale, dell’essere o meno intervenuto il pagamento dell’indebito fiscale, prevedendosi nell’un caso la irripetibilità di quanto versato sine titulo e nell’altro caso la non debenza dell’imposta. Ne consegue una palese, ingiustificata disparità di trattamento fra quanti alla dell’entrata in vigore della disposizione censurata già avevano provveduto al pagamento dell’imposta e quanti, invece, non lo avevano fatto: i primi, ancorché ne abbiano fatto ri-

chiesta (come, appunto, la cooperativa appellata) non possono ripetere quanto versato, i secondi, invece, sono definitivamente liberati dall’obbligo tributario. È evidente, quindi, il trattamento deteriore, assolutamente ingiustificato – conseguente alla disposizione censurata – di chi abbia erroneamente pagato un’imposta non dovuta rispetto a chi, versando nella medesima situazione, non abbia invece effettuato alcun pagamento. La Corte costituzionale ha già affermato che non è compatibile con il principio di ragionevolezza l’operato del legislatore che qualifichi un pagamento come non dovuto e nello stesso tempo lo sottragga all’azione di ripetizione (sentenze n. 416 del 2000 e n. 421 del 1995). A pronuncia di illegittimità costituzionale la Corte stessa è pervenuta pure con sentenza n. 320 del 2005 relativamente a normativa in materia fiscale (art. 39 legge 21 novembre 2000 n. 342) che parimenti escludeva la ripetibilità delle imposte già pagate che, al contempo, qualificava come non dovute. La Commissione tributaria regionale – sezione staccata di Parma, sospesa oggi decisione, visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 comma 4 della legge 24 dicembre 2007 n. 244 (legge finanziaria 2008) per violazione dell’art. 3 della Costituzione. Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che a cura della cancelleria l’ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri e venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

II 13 Commissione tributaria provinciale di Chieti, sez. II, (ordinanza) 27 maggio 2008, n. 277 Presidente e Relatore: Moffa Ici - Fabbricati rurali - Requisiti - Art. 42-bis, D.L. 1 ottobre 2007, n. 159 (conv. con L. 29 novembre 2007, n. 222) - Fabbricati strumentali all’attività agricola - Fabbricati di proprietà delle cooperative agricole (e loro consorzi) - Inapplicabilità del tributo - Art. 2, comma 4, L. 24 dicembre 2007, n. 244 - Rimborso Ici in favore delle cooperative agricole (e loro consorzi) - Natura interpretativa o innovativa dell’art. 42-bis - Irrilevanza Ici - Inapplicabilità - Preclusione del rimborso ex art. 2, comma 4 - Questione di legittimità costituzionale per violazione artt. 3, 24 e 53 Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza (Cost., artt. 3, 24 e 53; D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, conv. L. 29 novembre 2007, n. 222, art. 42-bis; L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, comma 4) L’art. 2, comma 4, L. 24 dicembre 2007, n. 244, afferma che «non è ammessa la restituzione di somme eventualmente versate a titolo di imposta comunale sugli immobili ai Comuni, per i periodi di imposta precedenti al 2008, dai soggetti destinatari delle disposizioni» (le cooperative ed i loro consorzi) «di cui alla lettera i del comma 3-bis dell’art. 9 del decreto legge [...] 1993, n. 557[...]. introdotta dall’art. 42-bis, D.L. 1 ottobre 2007 [...] in relazione alle costruzioni di cui alla medesima lettera i». Conseguentemente deve ritenersi che, a prescindere dalla natura interpretativa o innovativa dell’art. 42-bis, cit., in merito alla ruralità per i fabbricati strumentali all’attività agricola di proprietà delle cooperative agricole (e loro consorzi), l’Ici non possa essere applicata, donde la non manifesta infondatezza della questione di legittimità dell’art. 2, comma 4, cit., nella parte in cui preclude il diritto al rimborso, per violazione degli artt. 3, 24 e 53 Cost. Con atto depositato il 14 novembre 2007 P.S., in qualità di legale rappresentante di C. società cooperativa con sede in Ortona,

proponeva ricorso avverso il rigetto dell’istanza di rimborso Ici per gli anni 2004-2005-2006-2007 adottato con determinazione n. 456 del 2 ottobre 2007 dal comune di Ortona. A sostegno del ricorso deduceva che gli immobili appartenenti al consorzio C., costituito da nove cantine sociali, tutte cooperative agricole a mutualità prevalente operanti nel settore vitivinicolo ed enologico, siccome svolgente attività di vinificazione e commercializzazione dei prodotti ottenuti con il conferimento dei soci in fabbricati strumentali all’attività agricola e non destinati a fini abitativi, andavano esenti da Ici non potendosi disconoscere il carattere della ruralità, di qui la fondatezza della richiesta di rimborso delle somme pagate indebitamente negli anni pregressi. Resisteva in giudizio il comune di Ortona con richiesta di rigetto del ricorso al rilievo che la diversa titolarità dei fabbricati inquadrati nella categoria D7 del catasto urbano ed intestati alla cooperativa rispetto ai soci coltivatori diretti e soprattutto la natura del reddito ricavato, d’impresa e non agrario, non consentivano raccoglimento della domanda. La discussione della controversia s’incentrava sull’operatività dell’art. 43, D.L. 1 ottobre 2007, n. 159 convertito in legge 29 novembre 2007, n. 222 che ha posto fine alle incertezze interpretative sulla ruralità delle costruzioni strumentali necessarie alla manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione dei prodotti agricoli, anche se effettuate da cooperative e loro consorzi e dell’art. 2, comma 4, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008) secondo cui non è ammessa la restituzione di somme eventualmente versate a titolo di imposta comunale sugli immobili ai Comuni per periodi precedenti al 2008. Proprio con riferimento a tale ultima normativa la parte ricorrente ha sollevato questione di legittimità costituzionale per la violazione degli artt. 3, 24, 53 della Costituzione. L’art. 42-bis, D.L. 1 ottobre 2007, n. 159 ha posto fine al contrasto giurisprudenziale insorto sulla natura dei fabbricati delle coo-


Ici 1 2009 91

perative agricole riconoscendone il carattere della ruralità e quindi l’esenzione dall’Ici, e conferendo fondatezza ai motivi del ricorso del consorzio C. Ritiene la Commissione che, al riguardo, non rilevi la questione sulla natura innovativa o interpretativa di tale norma che si riverbera su quella più ampia della retroattività o meno della normativa tributaria anche perché questa stessa Commissione ha avuto modo di dar ragione ai ricorrenti che avevano impugnato l’avviso d’accertamento per mancato pagamento dell’Ici sui fabbricati delle cooperative agricole proprio su base interpretativa (v. al riguardo le decisioni della giurisprudenza di legittimità e di merito sul punto), quanto piuttosto la legittimità dell’art. 2, comma 4 della legge finanziaria 2008 che ha negato il diritto al rimborso Ici alle cooperative per gli anni antecedenti al 2008. In buona sostanza la problematica in esame può essere sintetizzata nei seguenti brevi termini: le cooperative agricole non sono tenute a pagare l’Ici sui propri fabbricati per dettato normativo, ma se l’hanno fatto non spetta il rimborso se non dal 2008. Ognuno comprende la discrasia logica e giuridica di tale proposizione, ma ancor più evidente è la irragionevolezza sul piano processuale. In altri termini le cooperative che hanno omesso di pagare l’Ici sui fabbricati di proprietà giovandosi di una giurisprudenza di favore o anche della novella legislativa (art. 42-bis, D.L. 1 ottobre 2007, n. 159) vedono riconosciuto il loro diritto all’esenzione in sede contenziosa, mentre quelle che si sono adeguate ad un altro orientamento interpretativo, annullato in forza di legge sopravvenuta, resterebbero ingiustamente penalizzate. È di tutta evidenza la disparità di trattamento di due identici soggetti rispetto alla debenza della medesima imposta nient’affatto giustificata per il solo fatto che alcuni sono stati più ligi ad accollarsi un’imposta non dovuta rispetto ad altri che l’hanno contestata in sede giurisprudenziale.

D’altronde il diritto al rimborso è un istituto di carattere generale che è stato recepito specificamente nella normativa sull’Ici, sub art. 13, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504. Palese è la violazione del principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3 Cost.) e del diritto di difesa (art. 24 Cost.) una volta verificato che il consorzio C. ha inoltrato il ricorso tributario in data 26 settembre 2007, cioè anteriormente alla emanazione della legge 24 dicembre 2007, n. 244 che ha illegittimamente vanificato un diritto al rimborso sub iudice, ma già riconosciuto in sede legislativa, e della disparità di trattamento tributario a parità di capacità contributiva dei medesimi soggetti passivi (art. 53 Cost). La questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 4, legge 24 dicembre 2007, n. 244 è poi rilevante nella presente controversia poiché il diritto al rimborso dell’Ici indebitamente pagata – petitum sostanziale del ricorso tributario – può essere riconosciuto, a prescindere dalla fondatezza dei motivi addotti (causa pretendi), soltanto a seguito dell’espunzione di detta norma dall’ordinamento tributario, il che è rimesso appunto alla Corte adita. Visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 e ss. della legge 11 marzo 1953, n. 87; dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale nei termini di cui in motivazione dell’art. 2, comma 4, legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008) in relazione agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione; sospende il presente procedimento; ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la dichiarazione di incostituzionalità della norma sopra richiamata; dispone che, a cura della segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere.

l’applicabilità dell’Ici ai fabbricati di proprietà delle cooperative agricole ha trovato ormai soluzione nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha ripudiato la concezione Premessa reddituale del tributo comunale immobiliare, approdando ad Le due ordinanze di rimessione riguardano l’annosa problemati- una concezione puramente catastale (v. infra). ca dei fabbricati rurali di proprietà delle cooperative agricole, sotto il profilo dei rapporti tra due norme di difficile interpreta- I rapporti tra Testo unico delle imposte sui redditi, Ici zione e di notevole complessità: e normativa catastale -da un lato l’art. 42-bis del D.L. 1 ottobre 2007, n. 159 (conv. dalla Come è noto la legge Ici (D.Lgs. n. 504/1992) non si occupa speL. 29 novembre 2007, n. 222), che ha revisionato ed a fondo il siste- cificamente dei fabbricati rurali, pertanto anche ai fini dell’Ici la ma dei fabbricati rurali, sia di quelli ad uso abitativo, sia di quelli dottrina prevalente ritiene necessario basare l’indagine in merito strumentali all’esercizio dell’agricoltura, rimettendo in discussione le all’identificazione della tipologia dei fabbricati rurali sulla fondasoluzioni precedentemente raggiunte da dottrina e giurisprudenza; mentale norma di cui all’art. 42 del T.U.I.R. n. 917/1986. -dall’altro l’art. 2, comma 4, della legge 24 dicembre 2007, n. La dottrina ha evidenziato che la norma si può suddividere in una 244 (legge finanziaria 2008), che nel limitare il diritto al rimbor- prima parte, formulata in termini negativi, diretta ad escludere per so dell’Ici in favore delle cooperative agricole (e dei loro consor- le costruzioni rurali la produzione di un reddito autonomo di fabzi) a fronte della nuova disciplina dei fabbricati rurali strumenta- bricati, ed in una seconda parte, costituente il presupposto logico li all’esercizio dell’agricoltura, sembra postulare la natura inter- della prima, di contenuto positivo, diretta a stabilire i requisiti nepretativa dell’art. 42-bis, a tal fine richiamato. cessari per la configurazione del carattere rurale nei fabbricati1. Sul piano generale le tematiche in tema di ruralità dei fabbrica- È comunque pacifico che l’esclusione di un’autonoma rilevanza ti ad uso a abitativo o strumentali per l’esercizio dell’agricoltura reddituale dei fabbricati rurali è dovuta al fatto che «le costruziosono molteplici, la farraginosa legislazione non aiuta e l’art. 42- ni rurali non si considerano produttive di reddito di fabbricati, ossia non generano un reddito autonomo; ciò in quanto esse, nel bis del D.L. n. 159/2007 ha riaperto il dibattito. Attualmente il punto nodale, di maggior tensione giuridica, ma presupposto che si tratti di beni strumentali all’impresa agricola anche finanziaria e politico-istituzionale, resta quello della rura- esercitata sul fondo, sono già state considerate in sede di formazione delle tariffe d’estimo relative al fondo stesso, in quanto strulità dei fabbricati posseduti dalle cooperative agricole. Viceversa, all’esito di una lunga maturazione, la questione del- mentali all’attività agricola su questo esercitata, e pertanto non I - II Nota di Lorenzo del Federico

1 MARINI, L’imposta comunale sugli immobili. Le agevolazioni per il settore agricolo: la

normativa interna sui fabbricati rurali, la nozione di imprenditore agricolo a titolo prin-

cipale, le compatibilità dettate dalla normativa comunitaria, in Finanza loc., 2004, 39.


92

GiustiziaTributaria

1 2009

Corte rese sullo specifico tema, quand’anche in riferimento al testo originario del comma 3) non esiste per l’Ici; per questa imposta, infatti, la ruralità del fabbricato assume rilievo solo indiretto, come effetto della necessaria ed indefettibile correlazione posta dal legislatore tra iscrizione in catasto (con autonoma attribuzione di rendita) del fabbricato e suo assoggettamento all’Ici». La Corte di Cassazione completa il suo ragionamento precisando che dal complesso quadro normativo «discende l’inopponibilità al Comune di qualsivoglia questione che incida sulla classificazione catastale del fabbricato e/o sulla rendita ad esso attribuita, come, in ispecie, della sua “ruralità” ai sensi del D.L. n. 557, art. 9. Questa disposizione e le relative modificazioni, tra cui quelle apportate dall’art. 42-bis, introdotto dalla L. [...] 2007, n. 222 [...] hanno influito (per così dire, “a monte” dell’Ici) sui criteri della classificazione catastale e dell’attribuzione della rendita, ma non hanno importato il non assoggettamento all’Ici del fabbricato qualificato “rurale”; l’esclusione dall’Ici di un fabbricato “rurale”, infatti, può discendere solo dall’eventuale non attribuzione di una rendita catastale [...]». Ovviamente la concezione puramente catastale dell’Ici sposta il problema della ruralità dei fabbricati posseduti dalle cooperative agricole nell’ambito del rapporto cooperative-Agenzia del Territorio, scaricando sulle problematiche del classamento, e sul relativo contenzioso, le tensioni sino ad ora emerse in tema di Ici. La più recente giurisprudenza in tema di applicabilità Il problema della ruralità dei fabbricati posseduti dalle cooperadell’Ici ai fabbricati delle cooperative agricole tive agricole resta quindi quantomai aperto e oggi va risolto sulNel corso del 2008 la giurisprudenza della Corte di Cassazione la base dell’art. 42-bis del D.L. n. 159/2007 in un’ottica esclusisi è decisamente espressa in favore di una concezione dell’Ici co- vamente catastale. me tributo a base catastale, affermando che la tesi dell’intassabilità dei fabbricati rurali di proprietà delle cooperative agricole è La ruralità dei fabbricati delle cooperative agricole da rigettare in quanto fondata su una logica reddituale estranea Sintetizzando le tappe evolutive si può registrare un primo dato all’Ici; tesi questa priva di pregio in quanto escludere «l’assog- indiscusso nella legislazione anteriore alla riforma del 1993: il regettabilità a tale imposta del fabbricato della cooperativa in base quisito della ruralità era riconoscibile ai soli fabbricati appartealla irrilevante considerazione della natura agricola dell’attività nenti allo stesso proprietario del terreno agricolo, titolare di redsvolta dalla stessa nell’immobile [...] non [...] considera [...] che diti fondiari7. l’iscrizione (quand’anche nella categoria D/10) di quel fabbrica- Un secondo dato, altrettanto pacifico, riguarda il regime introto in catasto (già “urbano”, poi “dei fabbricati”), con attribuzio- dotto dall’art. 9 del D.L. n. 557/1993 in cui era chiara la necesne di autonoma rendita, costituisce presupposto (necessario ma sità dell’asservimento del fabbricato ad un terreno e della riconducibilità di entrambi, a vario titolo, ad un unico soggetto titolaanche) sufficiente» per la tassazione ai fini Ici6. Tale orientamento è stato assunto in numerose e consolidanti re di reddito fondiario. pronunce, peraltro esse non hanno potuto affrontare ex professo Il terzo dato indiscusso è che soltanto con il D.P.R. n. 139/1998, la disciplina di cui all’art. 42-bis del D.L. n. 159/2007. che ha introdotto nell’art. 9 D.L. n. 557/1993, il comma 3-bis, vi Tuttavia tali sentenze hanno chiarito che per apprezzare l’esatto è stata la svolta, radicalmente innovativa, secondo cui per i fabvalore degli incisi «agli effetti fiscali» (comma 3) e «ai fini fiscali» bricati strumentali alle attività agricole non è più necessario né (comma 3-bis), contenuti nell’art. 9 del D.L. n. 557/1993, si de- l’asservimento al terreno agricolo, né la riconducibilità di fabbrive puntualizzare che i “fini” e gli “effetti” sono quelli che una cato e terreno ad un unico soggetto, essendo sufficiente il requispecifica disposizione fiscale attribuisce alla “ruralità”, «disposi- sito meramente oggettivo della strumentalità ad attività agricole zione che, come visto (e affermato da tutte le decisioni di questa ex art. 32 T.U.I.R.8

sono idonee a produrre alcun autonomo reddito dei fabbricati. Il reddito dominicale include, dunque, una percentuale ascrivibile al contributo arrecato alla sua produzione dalla presenza di tale categoria di cespiti»2. Tuttavia l’attuale vigenza dell’art. 42 T.U.I.R. è alquanto controversa. Secondo alcuni autori – confortati dalla prassi amministrativa – tale norma (pregr. art. 39) sarebbe stata tacitamente abrogata dall’art. 9, del D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, conv. dalla L. 26 febbraio 1994, n. 133, che, nel prevedere l’istituzione del catasto dei fabbricati, ha individuato (ai commi 3 e seguenti) nuovi requisiti per il riconoscimento ai fini fiscali del carattere della ruralità3. L’orientamento prevalente della dottrina ritiene invece che l’art. 42 (già art. 39) conservi vigore nella parte in cui stabilisce l’esclusione delle costruzioni rurali dalla produzione di reddito di fabbricati, mentre sia abrogato nella parte in cui detta i requisiti per la qualificazione della ruralità di un immobile4. Tale tesi sembra avvalorata dal fatto che l’art. 9, del D.L. n. 557/1993 ha subito varie modifiche – da ultimo per il tramite dell’art. 42-bis del D.L. n. 159/20075 – assumendo, nello svolgersi dell’evoluzione legislativa, il ruolo di norma base per la qualificazione della ruralità di un immobile.

2 In tal senso v. per tutti FALSITTA, nota a Corte cost. n. 263 del 1994, in Riv. Dir. Trib., 1994, II, 563. 3 V. ad es.: ROSA, Appunti sulla nuova definizione di fabbricato rurale, in Riv. Dir. Trib., 1994, 225; circ. Ministero delle Finanze, 27 maggio 1994, n. 73/E. 4 MARINI, L’imposta comunale sugli immobili, cit., 41, sulla scia di: SCHIAVOLIN, La nuova nozione di fabbricato rurale, in Riv. Dir. Trib., 1994, 776; PISTONE, Individuati i criteri per identificare le costruzioni rurali, in Corr. Trib.,1994, 639. 5 Si consideri che l’art. 9 è stato sottoposto a ben nove interventi di revisione legislativa, il ché la dice lunga sull’importanza degli interessi in gioco, sulle incertezze del legislatore

e sui condizionamenti derivanti dalle contingenze politico-istituzionali. 6 Cass., sez. trib., 10 giugno 2008, n. 15321, in Giur. Trib., 2008, 790, con nota critica di CATTELAN, Soggetto ad Ici il fabbricato rurale iscritto in catasto con rendita autonoma, e in Corr. Trib., 2008, 2683, con nota critica di POGGIOLI, Fabbricati rurali e presupposto Ici; Cass., sez. trib., 6 agosto 2008, n. 21163; Cass., sez. trib., 7 agosto 2008, n. 21272; Cass., sez. trib., 7 agosto 2008, n. 21273; Cass., sez. trib., 30 luglio 2008, n. 20637; Cass., sez. trib., 30 luglio 2008, n. 20639; Cass., sez. trib., 7 agosto 2008, n. 21278; Cass., sez. trib., 7 agosto 2008, n. 21279; Cass., sez. trib., 30 luglio 2008, n. 2036; Cass., sez. trib., 15 settembre 2008, n. 2397.

7 In merito v. per tutti MARINI, L’imposta comunale sugli immobili, cit., 43, nota 8. 8 Tale interpretazione risulta praticabile soltanto attraverso notevoli forzature; basti considerare la necessità di attribuire alle cooperative agricole una sorta di trasparenza per poter apprezzare la connessione all’attività agricola svolta dai soci, la necessità di svalutare la natura del reddito d’impresa imputabile alla Cooperativa, la necessità di obliterare del tutto i profili soggettivi ecc. La più piana e lineare lettura del comma 3-bis dell’art. 9 è quella secondo cui deve riconoscersi carattere rurale alle costruzioni strumentali alle attività agricole di cui all’art. 32 T.U.I.R. nei limiti, soggettivi ed oggettivi, in cui tali attività sono qualificabili come agri-


Ici 1 2009 93

Suscita quindi profonde perplessità la novella introdotta dall’art. 42-bis del D.L. n. 159/2007, secondo cui deve riconoscersi carattere di ruralità alle costruzioni strumentali necessarie allo svolgimento dell’attività agricola ex art. 2135 c.c. e in particolare destinate a tutta una serie di attività specifiche (protezione delle piante, conservazione dei prodotti, custodia degli attrezzi, allevamento ecc.), e comunque deve riconoscersi carattere di ruralità alle costruzioni destinate alla manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli «anche se effettuate da cooperative e loro consorzi»9. Emerge una clamorosa ed irrazionale disparità di trattamento fra le società di capitali da un lato e le cooperative (ed i loro consorzi) dall’altro, in quanto: - l’art. 2135 c.c., dopo aver affermato che è imprenditore agricolo chi esercita la coltivazione del fondo, la silvicoltura, l’allevamento degli animali e le attività connesse (comma 1), chiarisce che «si intendono comunque connesse le attività esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo [...]» (comma 3); - conseguentemente per le attività connesse il regime dell’agrarietà richiede necessariamente il concorso di due requisiti, il primo di natura soggettiva, nel senso che tali attività debbono essere svolte dallo stesso imprenditore agricolo, ed il secondo di natura oggettiva, nel senso che tali attività debbono avere ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo (condotto dall’imprenditore agricolo)10; - come è noto la qualifica di imprenditore agricolo professionale (Iap) viene riconosciuta alle persone fisiche in presenza di taluni stringenti presupposti11, ma spetta anche alle società che abbiano come oggetto l’esercizio esclusivo di attività agricole; inoltre in caso di società di persone, almeno un socio deve essere in possesso della qualifica di Iap, mentre per le società di capitali o coo-

cole ai fini del T.U.I.R., e quindi nei limiti in cui siano produttive di reddito agrario. Viceversa l’interpretazione che valorizza il solo profilo oggettivo si pone in palese contrasto con la legge delega. Invero è stata la delega di cui all’art. 3, comma 156, della L. n. 662/1996, attuata dall’art. 2, D.P.R. n. 139/1998, che ha portato all’introduzione del comma 3-bis nell’art. 9 del D.L. n. 557/1993. Ma, per quanto rileva ai nostri fini, i principi ed i criteri direttivi dell’art. 3, comma 156, si limitano - in modo alquanto vago - a prevedere che l’esistente normativa oggetto dell’intervento riformatore «deve essere applicata soltanto all’edilizia rurale abitativa» e che «si deve provvedere all’istituzione di una categoria di immobili a destinazione speciale per il classamento dei fabbricati strumentali, ivi compresi quelli destinati all’attività agrituristica». Dal canto suo, laconicamente, il comma 3-bis dell’art. 9 si limita ad affermare che «ai fini fiscali deve riconoscersi carattere rurale alle costruzioni strumentali alle attività agricole di cui all’articolo 29» T.U.I.R., e che «deve, altresì, riconoscersi carattere rurale alle costruzioni strumentali all’attività agricola destinate alla protezione delle piante, alla conservazione dei prodotti agricoli, alla custodia delle macchine, degli attrezzi e delle scorte occorrenti per la coltivazione, nonché ai fabbricati destinati all’a-

perative, deve esserci almeno un amministratore -che per le cooperative deve essere anche socio- in possesso di tale qualifica. L’art. 42-bis del D.L. n. 159/2007, in spregio dello status di imprenditore agricolo, favorisce, con palese ed irrazionale disparità di trattamento, le cooperative, ed i loro consorzi, in danno delle imprese individuali, delle società di persone e delle società di capitali, giacché riconosce carattere di ruralità alle costruzioni destinate alla manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli «anche se effettuate da cooperative e loro consorzi», e ciò in palese violazione dei due indefettibili requisiti soggettivo ed oggettivo (le attività debbono essere svolte dallo stesso imprenditore agricolo, sia esso persona fisica o società, e debbono avere ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del suo fondo). Il quadro sarebbe poi ulteriormente aggravato se si ritenesse di poter applicare questo significativo privilegio catastale (e fiscale) alle cooperative (e loro consorzi) addirittura laddove risultino prive dei requisiti per il riconoscimento della qualifica di Iap (che comunque di per se non risolverebbe mai il diverso problema della insussistenza dei due indefettibili requisiti per l’attrazione delle attività connesse). L’art. 42-bis del D.L. n. 159/2007 è una norma innovativa Una volta chiarita la portata dirompente, di estremo favore per le cooperative – e di effetto discriminatorio nei confronti delle imprese individuali e di tutte altra società – risulta chiaro che l’art. 42-bis non può essere concepito come norma meramente interpretativa. Si tratta piuttosto di una norma fortemente innovativa12 (in contrasto con la giurisprudenza), e di dubbia legittimità sotto il profilo della violazione dell’art. 3 della Costituzione. Del resto, a mente dell’art. 1, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, le norme di interpretazione autentica debbono autodefinirsi tali. Inoltre prende corpo un opaco aiuto di stato alle cooperative (ed

griturismo». Non si rinvengono i supporti letterali sui quali poter fondare quell’interpretazione volta a radicalizzare il solo profilo oggettivo del rinvio al T.U.I.R.; non trovano supporto quelle forzature interpretative che attribuiscono alle cooperative agricole una sorta di trasparenza, svalutano la natura del reddito d’impresa ad esse imputabile, ed obliterano del tutto i profili soggettivi. Tale interpretazione risulta priva di adeguata base nella delega, molto dubbia e problematica rispetto alla formulazione letterale del comma 3-bis dell’art. 9, e in palese contrasto sia con la logica del sistema catastale, sia con il consolidato quadro del T.U.I.R.. Pertanto, anche in ossequio al fondamentale principio dell’interpretazione adeguatrice, va preferita la lettura secondo cui deve riconoscersi carattere rurale alle costruzioni strumentali alle attività agricole di cui all’art. 32 T.U.I.R. nei limiti, soggettivi ed oggettivi, in cui tali attività sono qualificabili come agricole ai fini del T.U.I.R., e quindi nei limiti in cui siano produttive di reddito agrario (per tali argomentazioni v. DEL FEDERICO, I fabbricati rurali nell’Ici, in Finanza loc., 2006, 49 ss., nonché RICCI, Cooperative agricole ed Ici sui fabbricati rurali: una questione ancora aperta, in Riv. Dir. Trib., 2006, II, 205). 9 In merito v. DEL FEDERICO, La farraginosa evoluzione legislativa in tema di fabbricati rura-

li: il problema dell’Ici, in Finanza loc., 2008. 10 Su tali questioni per la dottrina agraristica v. CASADEI, I tre decreti orientamento: della pesca e acquicoltura, forestale ed agricolo, in Nuove Leggi Civ., 2001, 736, e ROMAGOLI, L’impresa agricola, Torino, 2004; mentre per la dottrina tributaria v. PICCIAREDDA, La nozione di reddito agrario, Milano, 2004, e MULEO, Impresa agraria ed imposizione reddituale, Milano, 2005. 11 La qualifica di imprenditore agricolo professionale (Iap) viene riconosciuta alle persone fisiche che dedicano all’agricoltura, direttamente (o in qualità di socio) almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavano dalle attività agricola almeno il 50% del proprio reddito da lavoro; la qualifica spetta anche alle società che abbiano come oggetto sociale l’esercizio esclusivo di attività agricole, nonché, in caso di società di persone, almeno un socio in possesso della qualifica di Iap; in caso di società di capitali o cooperative, deve esserci almeno un amministratore (che per le cooperative deve essere anche socio) in possesso della qualifica di Iap (art. 1, D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99, come modif. dal D.Lgs. 27 maggio 2005, n. 101). 12 Per quanto riguarda la porzione dell’art. 42bis relativa ai fabbricati rurali strumentali si consideri anche la formulazione letterale «il comma 3-bis è sostituito dal seguente [...]».


94

GiustiziaTributaria

1 2009

ai loro consorzi) non notificato alla Commissione europea e quindi allo stato improduttivo di effetti, quand’anche costituzionalmente legittimo13. Ma dubbi di legittimità si pongono anche rispetto all’art. 53 della Costituzione, in quanto la norma in questione, per la prima volta supera il requisito soggettivo della medesimezza tra soggetto che svolge l’attività agricola e proprietario del fabbricato strumentale all’esercizio delle attività connesse. Infatti l’esclusione di un’autonoma rilevanza reddituale dei fabbricati rurali è dovuta al fatto che tali costruzioni non generano reddito autonomo, in quanto strumentali all’impresa agricola esercitata sul fondo, e quindi, per tale circostanza, sono già state considerate in sede di formazione delle tariffe d’estimo relative al fondo; il reddito dominicale include, dunque, una percentuale ascrivibile al contributo arrecato alla sua produzione dalla presenza del fabbricato rurale; tale reddito viene quantificato secondo criteri medio-ordinari, così da tener conto anche della redditività espressa dai fabbricati rurali che insistono sul terreno14. Ma un fenomeno del genere non si verifica affatto allorché tra fondo e fabbricato rurale non vi sia alcun vincolo di asservimento e manchi quindi qualsivoglia legame sia sul piano soggettivo, sia sul piano oggettivo. Ed è proprio ciò che avviene nel caso delle cooperative agricole, il cui esonero dall’Ici non potrebbe certo fondarsi su giustificazioni del genere15. L’art. 2, comma 4, L. n. 244/2007 è una norma errata Il punto centrale delle due ordinanze di rimessione è costituito dall’art. 2, comma 4, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008), secondo cui «non è ammessa la restituzione di somme eventualmente versate a titolo di imposta comunale sugli immobili ai comuni, per i periodi di imposta precedenti al 2008, dai soggetti destinatari delle disposizioni» (le cooperative e i loro consorzi) «di cui alla lettera i del comma 3-bis dell’art. 9 del decreto legge [...] 1993, n. 557 [...] introdotta dall’art. 42-bis [...] in relazione alle costruzioni di cui alla medesima lettera i». La norma parrebbe presupporre una portata interpretativa dell’art. 42-bis, lett. i, ed in tal senso sembra orientata l’Anci nella sua circolare di commento alla legge finanziaria 200816. In senso analogo si è orientata anche l’ordinanza della Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna, mentre l’ordinanza della Commissione tributaria provinciale di Chieti sembra prescindere dai profili qualificatori, mostrandosi più attenta a profili sostanziali. Ma, per quanto ampiamente esposto, si ha a che fare con un evidente svarione, dovuto al timore (ingiustificato) delle ricadute finanziarie dell’art. 42-bis, ed alla frettolosa valutazione degli orientamenti giurisprudenziali in tema di Ici e fabbricati rurali. Si tratta di una «disposizione fortemente voluta dall’Anci» – così la circolare – che «interviene a sanare una situazione che si trascinava ormai da anni e che era già arrivata in Cassazione per molti Comuni».

13 In argomento v. comunicazione CE 2007/ C/272/05, Verso l’esecuzione effettiva delle decisioni della Commissione che ingiungono agli stati membri di recuperare gli aiuti di stato illegali e incompatibili, in questa rivista, 2008, 1, 189, con nota di DEL FEDERICO, Recupero degli aiuti di stato fiscali, procedure applicabili e principi di equivalenza ed effettività. In particolare sulla applicazione della clausola di standstill nella giurisprudenza comunitaria v. VERRIGNI, Tributi di scopo, tutela ambientale e divieto di esecuzione degli aiuti di Stato, in Riv. Dir. Fin., 2006, II, 8. 14 In merito v. per tutti BASILAVECCHIA, Profili ge-

Purtroppo questa volta l’Anci ha fatto un coperchio di troppo, e sono subito intervenuti i contribuenti alla ricerca della pentola. Le due ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale valorizzano il rilievo sistematico dell’art. 2, comma 4, L. n. 244/2007, attribuendogli un notevole rilievo ermeneutico che non merita. Nella sostanza tali ordinanze postulano la natura interpretativa dell’art. 42-bis e quindi l’illegittimità dell’art. 2, comma 4, L. n. 244/2007, per violazione dell’art. 3 Cost., secondo la Comm. trib. reg. Emilia Romagna, per violazione degli artt. 3, 24 e 53 Cost., secondo la Comm. trib. prov. Chieti17. Tuttavia l’art. 2, comma 4, L. n. 244/2007 non può essere concepito come indizio della natura interpretativa dell’art. 42-bis lett. i, per le molteplici ragioni suesposte, che depongono decisamente in favore della natura innovativa. A tutto concedere si potrebbe concepire come norma sui generis di natura cautelativa, nel senso che ovemai la giurisprudenza finisse con l’attribuire all’art. 42-bis, lett. i, natura interpretativa comunque il rimborso sarebbe precluso. Ancora si potrebbe pensare ad una norma destinata ad operare sul piano del rimborso, ma soltanto nei limiti in cui la controversia in tema di tassabilità Ici del fabbricato rurale sia ancora dipendente dalla risoluzione di una controversia in atto fra cooperativa e Agenzia del Territorio avente ad oggetto l’accatastamento (secondo la concezione puramente catastale dell’Ici fatta propria dalla Corte di Cassazione nel corso del 2008). Ma forse, più semplicemente, si tratta di una norma errata, frutto di un eccesso di lobbismo da parte dell’Anci, e quindi incostituzionale proprio per la sua incoferenza rispetto al sistema. Le due ordinanze di rimessione, sia pure animate dai migliori propositi, sopravvalutano frettolosamente la valenza sistematica dell’art. 2, comma 4, L. n. 244/2007, senza rendersi conto che si tratta di una norma “faziosa”. C’è da augurarsi che la Corte costituzionale sappia far giustizia, senza subire i condizionamenti di quella contingente e strumentale legislazione finanziaria, troppo spessa frutto di pressioni di parte ed interventi improvvisati. Del resto che l’art. 42-bis cit. abbia natura innovativa è risolutivamente desumibile dall’art. 23, comma 1-bis, del D.L. 31 dicembre 2008, n. 207 (cd. Milleproroghe), conv. dalla L. 27 febbraio 2009, n. 14. L’art. 23, comma 1-bis, qualificato espressamente, ai sensi dello Statuto del contribuente, come norma di interpretazione autentica, inteverviene sull’art. 2 del D.Lgs. n. 504/1992, prevedendo l’intassabilità dei fabbricati rurali e di conseguenza risolve alla radice la problematica. Il fatto che tale norma sia espressamente qualificata di interpretazione autentica conferma, senza possibilità di dubbio, che l’art. 42-bis ha natura innovativa, in quanto è inconcepibile la presenza di due norme di interpretazione autentica in relazione alla medesima fattispecie.

nerali dell’Ici, in Rass. Trib., 1999, 1356, il quale riprende il noto approccio reddituale di FALSITTA (nota a Corte cost. n. 263 del 1994 cit.), condiviso anche dalla prassi amministrativa. 15 Errano quindi quei commentatori che utilizzano il criterio dell’assorbimento della redditività del fabbricato rurale nel reddito dominicale ascrivibile al terreno, per giustificare l’inapplicabilità dell’Ici ai fabbricati delle cooperative agricole (CATTELAN, Soggetto ad Ici il fabbricato rurale iscritto in catasto, cit.; POGGIOLI, Fabbricati rurali e presupposto Ici, cit.). Particolarmente fuorviante risulta poi il richiamo alla circolare Ministero delle Finanze

20 marzo 2000, n. 50/E, in termini di legittimo affidamento del contribuente a fronte della tesi che ritiene applicabile l’Ici ai fabbricati delle cooperative agricole (CATTELAN, Soggetto ad Ici il fabbricato rurale iscritto in catasto, cit., 800), in quanto il Ministero ha fatto riferimento alla «redditività facente capo alle costruzioni rurali asservite». 16 ANCI-IFEL, Commento alla legge finanziaria, 2008, 47. 17 Comunque sia per l’incostituzionalità delle norme che arbitrariamente limitano il diritto al rimborso v. da ultimo Corte cost. 27 luglio 2007, n. 330.


Ici 1 2009 95

ESENZIONE ICI DEGLI IMMOBILI DELLE ONLUS USATI COME SEDE DELL’ENTE 14

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. IX, 18 marzo 2008, n. 55 Presidente: Maffei - Relatore: Casablanca

Ici - Fabbricati posseduti da una Onlus - Esenzione ex art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs n. 504/1992 - Utilizzo diretto come sede legale della Onlus - Spettanza dell’esenzione (D.Lgs 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i; D.Lgs 15 dicembre 1997, n. 446, art. 59, comma 1, lett. c; D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 7, comma 2-bis, conv. con mod. in L. 2 dicembre 2005, n. 248; D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 39, conv. con mod in L. 4 agosto 2006, n. 248) L’esenzione dall’Ici, di cui all’art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs. n. 504/1992, è da applicare agli immobili di una Onlus, utilizzati direttamente come sede della stessa Onlus. Svolgimento del processo Con avviso di accertamento il Comune di Chieti richiedeva all’O.D.P. il versamento dell’Ici per l’anno 2001 relativa ad immobili di proprietà dell’O. Contro l’avviso, la contribuente ricorreva alla Commissione tributaria provinciale deducendo la illegittimità dell’accertamento per carenza di motivazione e nel merito sollevando una serie di contestazioni relative agli immobili di cui ai punti 1, 2, 5 e 7 descritti nell’allegato all’avviso di accertamento. La Commissione tributaria provinciale accoglieva parzialmente il ricorso disponendo per l’immobile di cui al punto 1 la rideterminazione dell’imposta da calcolare per undici mesi e ciò in quanto nel dicembre 2001 l’immobile era divenuto sede legale dell’O. e quindi doveva considerarsi sottratto alla imposizione Ici: per l’immobile di cui al punto 2, l’accoglimento integrale della doglianza in quanto l’immobile risultava locato; confermava nel resto l’impugnato accertamento. La contribuente propone appello avverso la sentenza di primo grado deducendo in via principale che è stato violato l’art. 6 della legge n. 212/2000; che l’O. in quanto Onlus è esente dall’Ici per effetto dell’art. 7 – comma 2-bis – della legge n. 248/2005 e dell’art. 39 della legge n. 248/2006; che l’atto di accertamento è carente di motivazione ai sensi dell’art. 11 del decreto legislativo n. 504/1992, degli artt. 16 e 17 del decreto legislativo n. 472/1997 e dell’art. 7 – comma 1 – della legge n. 212/2000; che l’accertamento è errato in quanto l’imposta dovuta non corrisponde al totale delle imposte accertate. Nel merito, la contribuente solleva contestazione in ordine a tutti gli immobili, ad eccezione di quello al punto 2 e precisamente: gli immobili di cui ai punti 1 e 7 sono esenti dall’imposta in quanto nel 2001 erano entrambi sede dell’associazione; l’immobile di cui al punto 5 è una duplicazione dell’immobile indicato al punto 7; l’immobile indicato al punto 8 è stato dichiarato con valore superiore a quello accertato. Conclude chiedendo che venga accolto l’appello e dichiarato nullo o illegittimo l’avviso di accertamento. Il Comune di Chieti si costituisce in giudizio e con proprie controdeduzioni respinge le argomentazioni di parte appellante. Contesta la carenza di motivazione e l’eccezione sollevata in appello in ordine alla interpretazione autentica dell’art. 7 – comma 2-bis – della legge n. 248/2005. Nel merito si oppone a tutte le determinazioni poste dell’appellante chiedendo conferma della impugnata sentenza. La Soc. T. interviene nel giudizio in qualità di ente convenzionato con il Comune di Chieti per la gestione e riscossione delle entrate tributarie e chiede rigettarsi l’appello e confermare l’impugnata sentenza. All’odierna udienza di discussione sono inter-

venute le parti in causa e la controversia è stata decisa come da dispositivo. Motivi della decisione Osserva il Collegio che preliminarmente occorre esaminare le eccezioni sollevate dalla contribuente in relazione al contestato accertamento Ici effettuato dal Comune di Chieti. Con il primo motivo, l’appellante deduce la violazione dell’art. 6 della legge n. 212/2000 poiché, prima di emettere l’avviso di accertamento ha omesso di richiedere la documentazione comprovante la situazione di utilizzo degli immobili e non ha verificato presso gli uffici competenti la documentazione comprovante l’esistenza del contratto di locazione e dell’atto di modifica della sede legale. Il motivo è infondato. Relativamente alla omessa richiesta di documenti sulla situazione di utilizzo degli immobili, l’art. 6 n. 5 della citata legge 212/2000 stabilisce l’obbligo della amministrazione finanziaria di richiedere chiarimenti o di produrre documenti mancanti solo nella ipotesi in cui la stessa giudichi o valuti la sussistenza di incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione e comunque prima di procedere alla iscrizione a ruolo, mentre nel caso di specie – valutata dall’ente comunale l’assenza di incertezze in ordine alla situazione degli immobili – si versa in tema di accertamento e non di iscrizione a ruolo; per quanto riguarda la mancata verifica presso gli uffici competenti della esistenza del contratto di locazione e del verbale di assemblea, l’art. 6, n. 4 della citata legge ne delimita il campo di applicazione rinviando all’art. 18 – commi 2 e 3 – della legge n. 241/1990 il quale dispone l’acquisizione di ufficio di atti, fatti, qualità e stati soggettivi posseduti dalla amministrazione finanziaria – purché necessari alla istruttoria del procedimento – ovvero per i quali incombe alla amministrazione finanziaria un obbligo di certificazione e pertanto in quelle categorie di atti non possono annoverarsi i contratti di locazione e il verbale di assemblea non soltanto in quanto elementi non necessari al procedimento che nel caso di specie sfocia nell’avviso di accertamento ma anche in quanto atti che non rientrano in quella sfera di situazioni giuridiche che la pubblica amministrazione è tenuta a certificare. Lamenta altresì la contribuente la carenza di motivazione dell’atto impugnato in quanto privo delle indicazioni previste dall’art. 7 della legge n. 212/2000 – presupposti di fatto e ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’ente comunale. Il motivo è infondato. L’atto di accertamento contiene tutti i riferimenti legislativi su cui si fonda il potere di accertamento dell’ente comunale e le ragioni che ne sono a fondamento ed anche i presupposti di fatto, con la indicazione di tutti gli immobili soggetti ad Ici chiaramente individuati nel sito, nella partita catastale e nella rendita catastale a ciascuno assegnata; di tutti i dati del dichiarato e dell’accertato e con la indicazione delle somme che si assumono dovute con la differenza tra il versato e gli importi ancora da versare scaturenti dai calcoli riportati per ciascun immobile. Venendo ora a trattare il merito della controversia, vanno esaminate nel dettaglio le risultanze accertative concernenti gli immobili incisi dall’imposta, attribuendo a ciascuno di essi l’ordine numerico desumibile dalla elencazione contenuta nell’allegato all’avviso di accertamento. Per gli immobili indicati al punto 1 ed al punto 7, premesso che per l’esenzione ex art. 7, comma 1, lett. i, del decreto legislativo n. 30/1992 il costante orientamento del giudice di legittimità stabilisce la ricorrenza di due requisiti – utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e destina-


96

GiustiziaTributaria

1 2009

zione ad attività che non siano produttive di reddito – considerando che è pacifica la natura non commerciale dell’O. – occorre concentrare l’indagine sulla effettiva utilizzazione degli immobili de quibus da parte della contribuente appellante. A tal fine va rilevato che, per effetto del verbale di assemblea del 30 novembre 2001 viene a mancare il requisito di utilizzazione diretta dell’immobile al punto 7 – via Cauta 77 – mentre per l’immobile al punto 1 – via IV novembre 5 – ricorre il predetto requisito. Ciò premesso, per l’immobile al punto 1 non è dovuta l’Ici per l’anno 2001 essendo stato il medesimo acquistato in pari data, come risulta dalla denuncia Ici anno 2001 presentata il 30 luglio 2002, mentre per l’immobile al punto 7 l’Ici risulta dovuta per il solo mese di dicembre 2001. L’immobile al punto 2 – via T. Del Grosso – risultava nel 2001 locato al sig. D’A. E., come comprovato dal contratto di locazione in atti stipulato il 2 febbraio 1998 e registrato per l’annualità 2001; ne consegue che – non versandosi nell’ipotesi di immobile tenuto a disposizione – va applicata l’Ici con l’aliquota del sei per cento. Per l’immobile indicato al punto 5 – via Armellini – assume l’appellante che trattasi di una duplicazione dei valori indicati nell’immobile di cui al punto 7 in quanto lo stesso non è stato mai posseduto dall’associazione. Premesso che l’immobile reca i seguenti dati: foglio 35, n. 607, sub. 6; risulta altresì privo della dicitura “accertato” e della rendita catastale e si indica un valore dichiarato di 329.432,36 euro, va precisato che con dichiarazione presentata l’1 luglio 1996 n. 1681, l’associazione denunciava la fusione di due immobili – siti in via Cauta n. 73 e via Cauta n. 85 – nell’immobile sito in via Cauta n. 77 foglio 35, n. 697, sub. 6. Nelle denunce successive del 26 luglio 2002 e del 24 luglio 2003 viene nuovamente indicato l’immobile di via Cauta n. 73 – non è più catastalmente esistente per fusione nell’immobile di via Cauta n. 77 –; vengono indicati dati identificativi – foglio 35, n. 607, sub. 6 – che non so-

no mai appartenuti all’immobile di via Cauta n. 73 – i cui dati identificativi prima della fusione erano contrassegnati da foglio 35, n. 697, sub. 4. Risulta quindi evidente che l’associazione è incorsa in errori di indicazione – via Cauta n. 73 invece di via Cauta n. 77; identificativo catastale n. 607 invece di 697 – giacché sicuramente intendeva riferirsi all’immobile di via Cauta n. 77 e ai dati identificativi foglio 35, n. 697, sub. 6, prova ne sia che il valore indicato nelle due descritte denunce – euro 32.943,54 – corrisponde al valore dell’immobile sito in via Cauta n. 77 e riportato nell’avviso di accertamento. Dalle considerazioni testé esposte, ne deriva che al dato identificativo foglio 35, n. 607, sub. 6 corrisponde un immobile sito in via Armellini che la contribuente assume di non essere di sua proprietà. In proposito – e con riferimento anche agli immobili di cui ai punti 1, 2 e 7 – va osservato che il principio di inesistenza di una presunzione di illegittimità degli atti amministrativi operante anche nel campo della imposizione tributaria comporta che spetta alla amministrazione finanziaria e all’ente comunale l’onere di provare l’esistenza dei fatti costitutivi della pretesa tributaria, restando a carico del contribuente l’obbligo di provare l’esistenza di fatti modificativi ed estintivi della pretesa medesima. Nel caso di specie, l’associazione ha depositato ampia documentazione comprovante lo stato degli immobili interessati dall’accertamento – segnatamente il contratto di locazione registrato per l’immobile n. 2; il verbale di assemblea del 30 novembre 2001 e la denuncia Ici anno 2001 del 30 luglio 2007 per gli immobili n. 1 e 7; le denunce dell’1 luglio 1996, del 26 luglio 2002 e del 24 luglio 2003 per l’immobile n. 5 – le cui risultanze e dichiarazioni non sono state validamente contestate dal Comune di Chieti con la produzione di ulteriori supporti documentali di segno diverso. La complessità e natura della controversia inducono il Collegio a compensare le spesa.

Nota di Barbara Arcaio

formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana. L’art. 7 del D.Lgs n. 504/1992 enuncia una serie di esenzioni oggettive e soggettive tra cui, in particolare, quella rivolta agli immobili utilizzati dagli enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali. Seguendo un’autorevole corrente dottrinale, le norme di carattere agevolativo possono essere considerate costituzionalmente legittime ex art. 53 Cost. nel momento in cui il principio della capacità contributiva viene perseguito nel rispetto di altri principi dell’ordinamento di rango costituzionale, parimenti meritevoli di tutela e promozione. È, dunque, la visione sistematica dei principi e valori della carta costituzionale, su cui si fonda, peraltro, l’accezione solidaristica del principio di capacità contributiva – secondo la quale il concorso alle spese pubbliche di ogni soggetto deriverebbe dalla sua capacità economica, apprezzata alla luce di altri valori e principi costituzionali –, a legittimare ex art. 53 Cost. le norme agevolative. Ciò implica che le esenzioni, essendo espressione di una pluralità di principi, non deroghino all’art. 53 Cost., ma, al contrario, implementino una ratio compatibile anche con il principio della capacità contributiva1.

Nella sentenza in esame la Commissione tributaria Regionale dell’Abruzzo si pronuncia sull’imponibilità, ai fini dell’Ici, di alcuni immobili di proprietà di una Onlus. Tra le fattispecie poste all’attenzione del giudice vi è, in particolare, il riconoscimento dell’esenzione dall’imposta comunale sugli immobili, a fronte del collocamento della sede legale dell’Onlus presso immobili di sua proprietà. Ratio dell’esenzione L’esenzione in parola è disposta dall’articolo 7, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, il quale recita «sono esenti dall’imposta [comunale sugli immobili]: [...] i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’articolo 87 [attualmente 73], comma 1, lett. c, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lett. a, della legge 20 maggio 1985, n. 222», ossia le attività di religione e di culto, intendendo per tali quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla

1 MOSCHETTI, La capacità contributiva, Padova, 1993, 43 ss., riassume la questione di legittimità rispetto al principio della capacità contributiva delle norme agevolative affermando che «assume rilievo in proposito sia la qualificazione solidaristica della capacità economica, sia la qualificazione della stessa alla luce delle norme costituzionali che indi-

cano certi soggetti, certe istituzioni, certe attività e in genere certi beni giuridici come oggetto di particolare tutela e promozione», e prosegue scrivendo che «le agevolazioni sono dunque legittime se giustificate da capacità contributiva minore o inesistente e questa deve risultare da un’interpretazione sistematica dell’art. 53 alla luce dell’art. 2 e

dei fondamentali valori espressi dalla costituzione». FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 185, fa notare che «prevalgono ora le tesi che riconoscono alle norme di esenzione compatibilità con il principio di capacità contributiva purché esse si integrino con altri principi, costituzionali o non, presenti nell’ordinamento e dunque concorrano


Ici 1 2009 97

Nel caso specifico dell’art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs n. 504/1992 sarebbero le peculiari finalità istituzionali perseguite dagli enti a meritare una simile tutela: in conclusione, interpretando sistematicamente i principi e valori costituzionali ne discenderebbe la legittimità e la ratio dell’esenzione dall’imposta comunale sugli immobili per gli enti non commerciali, in funzione delle attività tutelate svolte. Peraltro, è da notare che la norma dettata in materia di tale imposta non è isolata, ma si inserisce nell’ambito di una serie di agevolazioni che l’ordinamento riserva a questi peculiari enti. Comprendere la mens legis e i termini della legittimità costituzionale dell’esenzione è molto utile per interpretare la disposizione in esame, dal momento che sono stati sollevati, fin dall’origine, numerosi dubbi circa il suo effettivo ambito applicativo. Nella norma sono fissati essenzialmente due presupposti a cui è condizionata la sua applicazione. Il primo consiste nell’utilizzo degli immobili da parte di enti non commerciali, come individuati dall’art. 73, comma 1, lett. c, del T.U.I.R.. Il secondo, invece, delimita la destinazione degli immobili: infatti, i soggetti predetti, per poter godere dell’esenzione, devono destinare gli immobili esclusivamente alle attività specificatamente e tassativamente elencate nell’art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs n. 504/1992. Il primo presupposto dell’esenzione in un dibattito sempre aperto Venendo al primo presupposto, l’incertezza interpretativa deriva dall’uso del legislatore di una formulazione letterale un po’ controversa. La norma, precisamente, condiziona l’esenzione dall’Ici all’“utilizzo” degli immobili da parte di specifici soggetti. Pertanto, dalla lettura della norma sembra sufficiente, per applicare l’esenzione de qua, il mero utilizzo dell’immobile da parte di un ente non commerciale. In effetti, l’art. 7 del D.Lgs n. 504/1992, facendo riferimento non al ‘possesso’ degli immobili, ma all’’utilizzo’ degli stessi, induce a credere che l’agevolazione si fondi sul semplice utilizzo dell’immobile, a prescindere dal titolo in forza del quale l’ente non commerciale ne usufruisca (proprietà, usufrutto, locazione finanziaria, comodato, locazione non finanziaria, ecc.). Una conferma di tale interpretazione letterale deriva dal successivo intervento del D.Lgs n. 446/1997, art. 59, comma 1, lett. c, il quale dispone che «con regolamento adottato a norma dell’art. 52, i Comuni possono: [...] c) stabilire che l’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, concernente gli immobili utilizzati da enti non commerciali, si applica soltanto ai fabbricati e a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore». La relazione governativa di accompagnamento, inoltre, afferma esplicitamente che, ai fini dell’esenzione ex art. 7, «è sufficiente l’utilizzo [degli immobili] e non è richiesto altresì il possesso da parte dell’ente non commerciale e poiché l’esenzione si riferisce indistintamente agli immobili, la norma può condurre agevolmente ad eludere il pagamento dell’imposta. Si pensi, ad esempio, ad una società di un’area fabbri-

con questi a realizzare una ratio del tributo congrua rispetto al principio espresso dall’art. 53». 2 Si vedano, per esempio, Comm. trib. reg. Toscana, sez. 24, sent. 26 maggio 2003, n. 22; Comm. trib. reg. Puglia, sez. IX, 22 maggio 2007, n. 57. 3 Si vedano, in particolare, MARINI, Contributo allo studio dell’imposta comunale sugli immobili, Milano, 2000, 116; BASILAVECCHIA, Profili generali dell’imposta comunale sugli im-

cabile di elevatissimo valore; è sufficiente che la stessa dia in affitto o in comodato (magari fittiziamente) tale area ad una associazione assistenziale o sportiva (che sia un ente non commerciale) la quale la utilizzi per lo svolgimento di siffatta attività assistenziale o sportiva, affinché trovi applicazione l’esenzione in vantaggio della società proprietaria dell’area per tutti gli anni dell’affitto o del comodato». In quell’occasione il legislatore, in chiave antielusiva, ha rimesso alla decisione dei singoli enti locali la possibilità di restringere la portata dell’esenzione ex art. 7, limitandola ai soli fabbricati ed escludendo i terreni agricoli e le aree edificabili. La norma, inoltre, prosegue consentendo di condizionare la limitazione dell’esenzione anche al “possesso” dell’immobile, in luogo del mero utilizzo, da parte dell’ente non commerciale e, quindi, prevedendo una deroga all’originaria condizione dell’ente utilizzatore. In conclusione, sarebbe il riferimento all’“utilizzo” – e non al possesso – degli immobili a rispecchiare, innanzitutto, la mens legis, ma anche a dare coerenza alle disposizioni dettate in tema di esenzione dall’Ici per gli enti non commerciali. Tale impostazione, volta ad assecondare la formula letterale della norma, è stata condivisa, in particolare, da alcuni giudici di merito2 e dalla dottrina prevalente3. Accogliendo l’interpretazione letterale della norma, si può riscontrare, allora, una differenza niente affatto trascurabile tra il presupposto dell’esenzione e il generale presupposto dell’Ici: nel primo caso, rileva l’“utilizzo” dell’immobile, mentre, nel secondo, rileva il “possesso”. Posto che, nella generalità delle circostanze, tale diversità di presupposti non si riflette anche nei soggetti, utilizzatori, da un lato, e possessori, dall’altro, poiché di regola essi coincidono4, per alcune specifiche fattispecie la questione deve essere impostata in modo differente. Ci si riferisce, in particolare, alla locazione non finanziaria e al comodato, la peculiarità dei quali consiste nel fatto che si tratta di due titoli che consentono l’utilizzo di un immobile a soggetti diversi da quelli che rappresentano i soggetti passivi ai fini Ici. Si determina, dunque, una distinzione tra l’utilizzatore dell’immobile, che, in forza delle proprie caratteristiche e dell’attività svolta, legittima l’applicazione dell’esenzione, e il soggetto che beneficia dell’agevolazione. Sulla base di tale osservazione, allora, si possono effettuare alcune riflessioni, specie sulla effettiva realizzabilità della ratio della norma. Come si è già argomentato inizialmente, a determinare la legittimità costituzionale ex art. 53 Cost. dell’esenzione è l’interpretazione sistematica del principio di capacità contributiva, alla luce di altri valori e principi di rango costituzionale. Nel caso specifico dell’agevolazione ex art. 7 del D.Lgs n. 504/1992, ad essere meritevoli di tutela sono le particolari finalità istituzionali perseguite dagli enti non commerciali. Premesso ciò, si può notare che, quando l’utilizzatore dell’immobile coincide con il possessore, la capacità economica e le finalità tutelate fanno capo al medesimo soggetto (l’ente non commerciale). Viceversa, quando il possessore è un soggetto distinto dall’utilizzatore, il beneficiario dell’agevolazione differisce dal soggetto meritevole di tutela: in

mobili, in Rass. Trib., 1999, 1354 ss.; BIANCHI, Esenzione Ici per gli enti non commerciali, in Fisco, 1998, 6736 ss; LO GIUDICE, Esenzione per gli immobili posseduti da enti non commerciali e dagli stessi utilizzati esclusivamente per attività sportive, in Fisco, 2006, 1, 71 ss. 4 Premesso che il presupposto dell’imposta è il possesso di fabbricati, di aree edificabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs n. 504/1992,

i «soggetti passivi dell’imposta sono il proprietario [...], ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, sugli stessi anche se non residenti nel territorio dello Stato o se non hanno ivi la sede legale o amministrativa o non vi esercitano l’attività. Per gli immobili concessi in locazione finanziaria, soggetto passivo è il locatario».


98

GiustiziaTributaria

1 2009

questi casi, dunque, la capacità economica del primo (che non è necessariamente un ente non commerciale, in quanto potrebbe essere anche una società commerciale che svolge esclusivamente attività commerciali e lucrative) viene apprezzata alla luce delle finalità istituzionali perseguite da un altro soggetto, estraneo al rapporto tributario. A questo punto, nulla vieterebbe una simile dicotomia, a patto che il principio di capacità contributiva conservi espressione nella norma agevolativa: in effetti, si potrebbe ipotizzare che il riferimento all’“utilizzo” dell’immobile lasci intendere che il legislatore abbia cercato di promuovere le attività istituzionali degli enti non commerciali, incentivando (con un’agevolazione) il possessore a mettere a disposizione di tali soggetti gli immobili, affinché essi possano perseguire le loro peculiari finalità5. Il problema, allora, è capire se siffatta esenzione consenta effettivamente la promozione degli scopi meritevoli di tutela. Si ritiene, al riguardo, piuttosto improbabile riuscire a garantire la protezione e la promozione delle attività istituzionali, favorendo la messa a disposizione degli immobili, mediante l’esenzione dall’Ici e senza porre alcun vincolo locativo legale. Diverso sarebbe qualora si riconoscesse l’esenzione a fronte della concessione dell’immobile all’ente non commerciale ad un equo canone o in forza di un comodato – escludendo, in sostanza, le ipotesi in cui il possessore persegua liberamente il proprio scopo lucrativo, allineando il canone di locazione ai valori di mercato –, in quanto l’agevolazione potrebbe svolgere la propria funzione, trovando applicazione a fronte (almeno) del godimento di un vantaggio economico da parte dell’ente non commerciale utilizzatore. In conclusione, nonostante il riferimento all’“utilizzo” dell’immobile garantisca il rispetto formale dell’art. 7 del D.Lgs n. 504/1992 e delle altre norme correlate, nonché il rispetto della voluntas del legislatore, resta piuttosto in ombra la razionalità dell’esenzione nell’ipotesi di una locazione non finanziaria a canoni allineati ai valori di mercato. A risolvere una simile incertezza interpretativa si presterebbe un orientamento condiviso, in particolare, dalla Corte costituzionale6, dal giudice di legittimità nelle sentenze più recenti7, da alcuni giudici di merito8, da una parte della dottrina9, nonché da una

5 In tal senso anche BIANCHI, Esenzione Ici per gli enti non commerciali, cit., 6736 ss. 6 Ordinanze n. 429 del 19 dicembre 2006 e n. 19 del 10 gennaio 2007. Si riportano di seguito dei passaggi molto significativi della prima ordinanza, secondo la quale «il citato art. 59, comma 1, lett. c, ha il solo scopo di attribuire ai Comuni, in deroga a quanto previsto all’art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs n. 504 del 1992, la facoltà di escludere gli enti non commerciali che possiedono terreni agricoli e aree edificabili dal novero dei soggetti esenti e, perciò, di applicare l’Ici anche nei loro confronti, ferma restando l’esenzione per i fabbricati posseduti dai medesimi enti non commerciali e da essi direttamente utilizzati per lo svolgimento delle attività di cui all’art. 7; […] e quindi, sotto questo aspetto, non innova la disciplina nei requisiti soggettivi dell’esenzione». 7 Si vedano, per esempio, Cass., sent. del 4 dicembre 2003, n. 18549; Cass., sent. del 30 agosto 2006, n. 18838. 8 Come nel caso della sentenza in rassegna. 9 Si veda, per esempio, LENZU, Esenzione Ici, profilo soggettivo e utilizzo del fabbricato, in questa rivista, 1, 2008, 100 ss. 10 Si veda, per esempio, la risoluzione del Dipartimento delle Politiche fiscali n. 2 del 13

recente posizione dell’amministrazione finanziaria10. Tale corrente giurisprudenziale e dottrinale, assecondando l’interpretazione logico-sistematica della norma di cui all’art. 7, restringe le ipotesi di operatività dell’esenzione ai soli casi in cui, oltre all’utilizzo, si verifichi anche il “possesso” dell’immobile da parte di un ente non commerciale. Quindi, secondo tale visione, la norma presuppone l’esistenza di un ente non commerciale che sia utilizzatore dell’immobile, in forza di uno dei titoli indicati nell’art. 3 del D.Lgs n. 504/199211. Di conseguenza, verrebbe meno la possibile distinzione tra soggetti utilizzatori e possessori, con le relative incertezze di razionalità della norma agevolativa nell’ipotesi di una locazione non finanziaria: affiancando all’interpretazione letterale quella logico-sistematica, quindi, il soggetto che svolge le attività tutelate, di fatto, coinciderebbe con il soggetto passivo dell’Ici e, in tal modo, beneficerebbero effettivamente dell’esenzione i soli enti non commerciali, in quanto verrebbero escluse tutte le ipotesi in cui tali enti costituiscano dei meri utilizzatori degli immobili, restando estranei al rapporto tributario12. Infine, si verificherebbe la coincidenza tra il presupposto assunto a fondamento dell’esenzione e il generale presupposto di imponibilità ai fini Ici, in quanto, in entrambi i casi, rileverebbe il “possesso” dell’immobile. Tale impostazione restrittiva garantisce, dunque, una certa coerenza in seno al D.Lgs n. 504/1992 e, soprattutto, fa venir meno le incertezze interpretative in precedenza osservate; tuttavia, essa si distacca dalla voluntas originaria del legislatore e dalla formulazione letterale della norma. Attualmente, in giurisprudenza, questo rappresenta l’orientamento prevalente, anche se vi sono ancora alcuni giudici di merito che restano fedeli all’impostazione meno restrittiva, aderente al dato testuale13. Assunto che, ai fini del riconoscimento dell’esenzione, sia necessario che il possesso14 dell’immobile avvenga effettivamente da parte di un soggetto di cui all’art. 73, comma 1, lett. c, del T.U.I.R., si giustificano le varie pronunce giurisprudenziali volte ad escludere dall’ambito applicativo dell’esenzione tutti i soggetti diversi dagli enti non commerciali suindicati, come le società commerciali15, la Guardia di Finanza16, ecc17.

giugno 2007, da cui si evince che l’amministrazione finanziaria ha effettuato un’inversione di tendenza, abbandonando il vecchio orientamento, per allinearsi a quello della Corte costituzionale. 11 Ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs n. 504/1992, i «soggetti passivi dell’imposta sono il proprietario [...], ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, sugli stessi anche se non residenti nel territorio dello Stato o se non hanno ivi la sede legale o amministrativa o non vi esercitano l’attività. Per gli immobili concessi in locazione finanziaria, soggetto passivo è il locatario». 12 È il caso specifico degli enti non commerciali che utilizzano gli immobili a titolo di locazione non finanziaria o di comodato, ossia, mediante titoli che non sono annoverati nell’art. 3 del D.Lgs. n. 504/1992. 13 Si ricorda, in proposito, la recente sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. IX, 22 maggio 2007, n. 57, che ripropone la tesi dell’orientamento minoritario, riconoscendo l’esenzione dall’Ici in funzione della natura di ente non commerciale del soggetto locatario (semplice utilizzatore, e non possessore, dell’immobile in questione).

14 Si precisa che la norma parla, in verità, di “utilizzo”. 15 Cass., sent. del 30 agosto 2006, n. 18838. 16 Cass., sent. del 16 marzo 2005, n. 5747. 17 Secondo alcune sentenze – Comm. trib. reg. Marche, sent. 21 ottobre 2004, n. 67 e Comm. trib. prov. Novara, sent. 8 gennaio 2008, n. 89 – farebbero, per così dire, eccezione le società di mutuo soccorso, in quanto, nonostante la formale qualificazione di “società”, presentano, in sostanza, dei tratti di gran lunga differenti dalle società commerciali. Le stesse Commissioni, con valide argomentazioni, hanno ammesso l’esenzione anche per le suddette società, riconoscendone l’assimilabilità agli enti non commerciali ex art. 73, comma 1, lett. c, del T.U.I.R.. Allo stesso modo, a fronte della mutualità che le caratterizza, si potrebbe riconoscere l’applicazione dell’esenzione anche a favore delle società cooperative. Tuttavia, sono di avviso contrario: ARDENGHI - CHITTOLINA – CORSINI - GARRINI, Imposta Comunale sugli Immobili, Verona, 2003, 80. Gli autori, effettuando delle osservazioni a proposito delle Onlus, giungono alla conclusione che non possa considerarsi integrato il presupposto dell’esenzione nel caso in cui ad assumere detta qualifica siano le società cooperative,


Ici 1 2009 99

La definizione del secondo presupposto dell’esenzione Venendo al secondo presupposto, esso specifica la destinazione degli immobili “posseduti” dagli enti non commerciali. L’art. 7 del D.Lgs n. 504/1992 dispone, infatti, che gli immobili siano «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lett. a, della legge 20 maggio 1985, n. 222», ossia le attività di religione e di culto, intendendo per tali quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana. Un dubbio che è stato sollevato sull’interpretazione della norma derivava dall’eventualità che le attività tassativamente elencate dall’art. 7 potessero rivestire natura commerciale. È ammessa dal legislatore stesso, infatti, la possibilità che gli enti non commerciali svolgano, accanto alle attività di carattere istituzionale – che, peraltro, ne costituiscono l’oggetto principale -, attività di tipo commerciale. Tali attività non prevalenti (accessorie o, comunque, connesse allo scopo prevalente dell’ente), tuttavia, potrebbero coincidere con una di quelle annoverate nell’art. 7 e, in tal caso, sulla base del tenore letterale normativo, l’esenzione potrebbe, comunque, trovare applicazione. È legittimo chiedersi, a questo punto, se tali fattispecie soddisfino la ratio della norma, o se, invece, ostacolino l’attuazione della mens legis. Al riguardo, si sono manifestati in passato due orientamenti: da un lato, vi era chi sosteneva l’indispensabile natura esclusivamente istituzionale dell’attività svolta presso l’immobile esentato; dall’altro, vi era chi, sulla base della lettera della norma, propendeva per un’interpretazione meno restrittiva, ammettendo l’esenzione anche in presenza dello svolgimento di attività di natura commerciale, purché riconducibili a quelle specificate nell’art. 7. Di fronte alla legittima e comprensibile incertezza interpretativa, il legislatore ha preso una posizione ufficiale con alcuni interventi di interpretazione autentica, ponendo fine ad ogni dubbio in merito. Un primo tentativo è stato esperito con il decreto legge 17 agosto 2005, n. 163, il quale disponeva che «l’esenzione prevista dall’art. 7, comma 1, lett. i, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e successive modificazioni, si intende applicabile anche nei casi di immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione educazione e cultura di cui all’articolo 16, primo comma, lett. b della legge 20 maggio 1985, n. 222, pur svolte in forma commerciale, se connesse a finalità di religione o di culto». Questo primo tentativo legislativo è fallito, non trovando conversione in una legge. D’altronde, questa norma di interpretazione autentica, di fatto, avrebbe generato una discriminazione ingiusta e inspiegabile tra gli enti non commerciali - in quanto diretta a favorire solo gli enti ecclesiastici ex L. n. 222/1985, trascurando tutti gli altri enti non commerciali - nonché tra le confessioni religiose, dal momento che sarebbero stati discriminati anche tutti gli altri enti religiosi diversi da quelli ecclesiastici. La discriminazione in parola consisteva nel riconoscere solo a questi ultimi l’esenzione dall’Ici nell’ipotesi di svolgimento di un’attività di natura commerciale (purché connessa a

le cooperative sociali e i consorzi con base sociale interamente costituita da cooperative sociali, in quanto, nonostante le finalità non profit ad utilità sociale perseguite, i soggetti non rientrerebbero formalmente tra quelli dell’art. 73, comma 1, lett. c, del T.U.I.R.. Sennonché si può osservare che anche le società di mutuo soccorso non garantiscono il rispetto formale della norma, ma per esse è stata, comunque, riconosciuta dalla giuri-

finalità di religione o di culto). Il motivo per cui è stato attuato questo precipitoso tentativo era riconducibile ad una sentenza della Corte di Cassazione – la n. 4645 del 22 ottobre 2003 – che ha portato a conclusione un contenzioso di rilevante importanza, che vedeva coinvolti proprio gli enti ecclesiastici. Il nodo della questione riguardava l’operatività dell’esenzione per quegli immobili che venivano destinati all’esercizio di attività di carattere commerciale. In quell’occasione la Corte, seguendo l’interpretazione letterale della norma, ha concluso che l’agevolazione non potesse trovare applicazione per effetto del mancato richiamo, nell’art. 7, della lett. b, dell’art. 16, della L. n. 222/1985, la quale contemplava le attività commerciali degli enti religiosi. Di fronte ad una simile pronuncia giurisprudenziale e al rischio di una generale inversione di tendenza da parte dei Comuni per allinearsi ad essa, il legislatore ha cercato di risolvere la questione con un intervento ad efficacia retroattiva. Tuttavia, come si è già anticipato, sono state sollevate forti incertezze sulla legittimità costituzionale della norma, al punto che essa non ha mai trovato consacrazione in una legge. Dopo un primo tentativo non riuscito, il legislatore è intervenuto con il decreto legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modifiche in legge 2 dicembre 2005, n. 248, il quale sanciva all’art. 7, comma 2-bis, che «l’esenzione disposta dall’articolo 7, comma 1, lett. i, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lett. a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse». In tal modo, il legislatore ha accolto un’interpretazione meno restrittiva della disposizione di cui al D.Lgs n. 504/1994, scongiurando i profili di incostituzionalità del precedente tentativo. In verità, però, anche tale secondo intervento non si è rivelato molto soddisfacente, in quanto, con la nuova interpretazione, si è corso il rischio di svuotare il significato del secondo presupposto. Infatti, ai fini del riconoscimento dell’esenzione, sarebbe stato sufficiente integrare il primo presupposto e, nel contempo, esercitare una delle attività annoverate dall’art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs n. 504/1992, nonostante l’eventuale natura prettamente commerciale18. Tale impostazione, evidentemente, non era molto coerente con la volontà originaria del legislatore e, non a caso, la portata della norma interpretativa è stata ridimensionata con la successiva modifica ad opera dell’art. 39 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248, in forza della quale il comma 2-bis è stato così sostituito: «l’esenzione disposta dall’articolo 7, comma 1, lett. i, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale». In tal modo, si può affermare che attualmente la questione interpretativa collegata al secondo presupposto, che in passato ha visto contrapposti due orientamenti, è stata risolta grazie ai suddetti interventi di interpretazione autentica. In conclusione, il legislatore ha condiviso la tesi meno restrittiva, riconoscendo l’esenzione anche a fronte dello svolgimento di attività non esclusivamente istituzionali, ma anche parzialmente commerciali, purché rientranti tra quelle annoverate dall’art. 7, comma 1, lett. i,

sprudenza l’applicazione dell’esenzione, in funzione delle loro peculiari finalità: non si può, dunque, non rilevare come vi sia una disparità di trattamento tra le une e le altre, seguendo tale corrente dottrinale. 18 In senso analogo anche LA ROCCA, Le novità in materia di imposta comunale sugli immobili introdotte dalla L. n. 248/2005 di accompagnamento alla Finanziaria per il 2006, in Fisco, 2006, 1, 2589 ss.; LA ROCCA,

Le novità in materia di imposta comunale sugli immobili introdotte dalla L. n. 248/2006, di conversione del D.L. n. 223/2006, in Fisco, 2006, 1, 6199 ss.; LO GIUDICE, Esenzione per gli immobili posseduti da enti non commerciali e dagli stessi utilizzati esclusivamente per attività sportive, cit., 71 ss.


100

GiustiziaTributaria

1 2009

del D.Lgs n. 504/1992. Si può considerare, quindi, definitivamente superato quell’orientamento giurisprudenziale19 e dottrinale che restringeva l’applicazione dell’agevolazione all’esercizio di attività esclusivamente istituzionali. Conclusioni: osservazioni critiche alla sentenza in rassegna Sulla base di quanto sopra illustrato, si può concludere che la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo in rassegna si allinea agli attuali prevalenti orientamenti interpretativi giurisprudenziali. Il giudice, in particolare, non dubitando delle finalità istituzionali perseguite dall’ente – trattandosi di una Onlus –, nonché della sua natura di ente non commerciale, ha incentrato l’indagine per il riconoscimento dell’esenzione dall’Ici «sulla effettiva utilizzazione degli immobili de quibus da parte della contribuente». Nel caso in questione, l’ente è proprietario di una serie di immobili, per alcuni dei quali il giudice ha ritenuto applicabile l’esenzione ex art. 7, in funzione, in primis, della coincidenza tra soggetto utilizzatore e possessore e, in secondo luogo, dell’attività tipica svolta presso gli immobili interessati. In particolare, ai fini dell’integrazione del secondo presupposto, nella sentenza l’elemento decisivo è rappresentato dal collocamento della sede legale della Onlus presso tali immobili. Precisamente, nel caso in esame, a fronte del trasferimento della sede legale in corso d’anno, l’esenzione è stata riconosciuta a due immobili, ma solo per il periodo dell’anno durante il quale si è verificata la condizione, ossia limitatamente all’arco temporale in cui hanno accolto la sede legale dell’ente.

19 Si ricorda, per esempio, Cass., sent. del 5 marzo 2004, n. 4573.

Per l’immobile concesso in locazione ad un terzo soggetto è stata riconosciuta, invece, l’applicazione di un’aliquota inferiore, come previsto dal regolamento comunale. Partendo dall’assunto che la norma richieda non solo l’utilizzo (coincidente con il possesso, secondo l’orientamento qui condiviso) di un immobile da parte di un ente non commerciale, ma anche la sua destinazione ad attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché alle attività di cui all’articolo 16, lett. a, della legge 20 maggio 1985, n. 222, seppur di natura parzialmente (e non esclusivamente) commerciale, resta, comunque, in ombra il fatto che la collocazione di una sede legale presso un immobile comporti effettivamente l’integrazione del secondo presupposto. In effetti, collocare la sede legale di un ente non commerciale presso un immobile non implica necessariamente che ivi vengano svolte le attività meritevoli di tutela, potendo queste essere esercitate in unità locali differenti, o potendo l’ente svolgere presso la medesima sede legale attività accessorie, individuate o meno dall’art. 7, esclusivamente commerciali. Per quanto riguarda, invece, le altre fattispecie poste all’attenzione del giudice, si può ritenere pienamente condivisibile la decisione, considerato, in un caso, che l’attività di locazione sia un’attività di tipo commerciale non contemplata nell’elenco di cui all’art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs n. 504/1992 e ipotizzato, nell’altro, in mancanza di ulteriori precisazioni nella sentenza in esame, che l’immobile che in precedenza accoglieva la sede legale dell’ente sia diventato semplicemente un immobile a disposizione (e, pertanto, non destinato all’esercizio di alcuna attività meritevole di tutela).


Ires 1 2009 101

IRES INDENNITÀ TRANSATTIVA EROGATA DA UNA SOCIETÀ ESTRANEA AL GIUDIZIO: BREVI RIFLESSIONI SULL’INERENZA 15

Commissione tributaria di II grado di Bolzano, sez. II, 17 maggio 2007, n. 7 Presidente e Relatore: Bruccoleri

Ires - Redditi d’impresa - Inerenza dei componenti negativi - Fusione per incorporazione - Impugnazione della delibera di approvazione - Somma versata in via transattiva - Costo inerente - Deducibilità (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109) L’esborso sostenuto da una società, in base ad una transazione volta a definire una controversia civile promossa da un socio di una società incorporanda nella quale era stata impugnata la delibera di approvazione della fusione per incorporazione e svolta connessa azione di risarcimento danni, va considerato costo inerente e come tale deducibile dal reddito. 1. Nel corso dell’anno 2001 la società D. S.r.l. (ora D. Italia S.r.l.), la società H. Costruzioni F. S.r.l. e la società A. S.r.l., tutte aziende di spicco nel ramo degli impianti a fune, sia pur con diverse specializzazioni di settore, deliberavano di fondersi per incorporazione nella D. S.r.l. La procedura di fusione subiva nel dicembre 2001 un’inattesa e imprevedibile battuta d’arresto per effetto dell’iniziativa di un socio di minoranza della H., tale K., il quale impugnava innanzi al Tribunale di Bolzano la delibera di approvazione del progetto di fusione e svolgeva contestualmente azione di risarcimento danni nei confronti di altri soci della stessa società per violazione di norme e di patti parasociali. Il Tribunale disponeva in via cautelare la sospensione del procedimento di fusione, in tal modo rendendo impossibile il rispetto del termine previsto dall’allora in vigore art. 2503 c.c. e a nulla valeva la successiva revoca, disposta il 1 febbraio 2002, della misura cautelare inizialmente adottata. Interveniva volontariamente in causa la D. S.r.l. ai sensi dell’art. 105 c.p.c. per contrastare essa pure, al pari della H., l’impugnativa della delibera assembleare e per avanzare a sua volta richiesta di risarcimento dei danni subiti, anche a titolo di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., a causa dalla paralisi del procedimento di fusione. Nel mese di giugno dell’anno 2002 le parti addivenivano ad una transazione, nella quale tra l’altro era previsto che i soci G. e Z. rifondessero a K. la somma di euro 1.200.000,00 (a fronte di una richiesta iniziale di euro 12.000.000,00) e che la D. si accollasse i 2/3 dell’esborso, ossia l’importo di euro 800.000,00. 2. La presente controversia verte appunto sull’anzidetto importo, che la D. ha esposto in conto economico come costo fiscalmente deducibile e che viceversa l’Agenzia delle Entrate ufficio di Merano, con l’avviso di accertamento qui impugnato, ha recuperato a tassazione disconoscendo il requisito dell’inerenza. Non forma più oggetto del contendere il recupero a tassazione di altri costi, che la commissione di I grado, in parziale accoglimento del ricorso del contribuente, ha ritenuto interamente deducibili con statuizione alla quale l’Agenzia delle Entrate ha prestato formale ed espressa acquiescenza nella memoria di costituzione in appello in data 3 maggio 2007. È a dire inoltre che non è stata riproposta dall’appellante la censura, svolta in primo grado e disattesa nella sentenza impugnata, di carenza di motivazione dell’avviso di accertamento.

3. La reiezione del ricorso della D. in ordine alla deducibilità del costo in discussione, negata per difetto del requisito dell’inerenza richiesto dall’art. 75 D.P.R. 917/1986 (ora art. 109), viene fondata dai primi giudici sui seguenti argomenti: a) non v’è prova dell’asserzione della D. che l’accollo volontario da parte sua di una quota dell’onere risarcitorio assunto dai soci Z. e G. sia stato risolutivo per la composizione della controversia; b) l’affermata inerenza del costo in questione non sarebbe affatto dimostrata dal confronto fra i bilanci pre e post-fusione, giacché i secondi altro non fanno che assommare ai ricavi della società incorporante quelli delle due incorporate; c) l’esborso sostenuto dalla D. si riferiva in buona sostanza a una controversia privata tra soci della H. per presunti comportamenti illeciti di alcuni di loro, il risarcimento anche se parziale dei quali non è in alcun modo riconducibile al principio di inerenza. Tali argomenti sono stati tutti analiticamente e tenacemente contrastati sia nell’atto di appello che nei successivi scritti difensivi della parte, con censure che a parere di questo collegio meritano piena condivisione. 4. L’esame dei singoli motivi di appello va preceduto da un’annotazione preliminare, cui consegue l’imprescindibile necessità di operare una valutazione complessiva e organica dei termini della transazione che ha portato alla definizione della controversia civile e che per vero la stessa la Commissione di I grado correttamente ha formulato, laddove ha riconosciuto come innegabile l’interesse che la D. aveva a rimuovere ogni possibile ostacolo che si frapponesse alla progettata fusione. Tale era ovviamente la causa intentata da K. alla società H. e a taluni soci della stessa, rivolta, si sottolinea, non solo e non tanto a conseguire un risarcimento danni, ma prim’ancora e più ancora a rimuovere la delibera di approvazione della fusione per incorporazione. Ne discende evidente l’inutilità di verificare, come si pretende dai primi giudici, se la decisione volontariamente assunta dalla D. di concorrere a definire la pretesa risarcitoria di K. sia stata risolutiva o meno per la composizione della controversia. Il giudice tributario deve limitarsi a prendere atto che l’onere assunto dall’appellante rappresentava una delle molteplici condizioni della transazione, che ha portato non solo alla definizione della pretesa risarcitoria avanzata da K., ma soprattutto, ed è quanto più premeva all’odierna appellante, all’abbandono dell’impugnazione della delibera di approvazione della fusione, cui si accompagnava l’impegno dello stesso K. a cedere le proprie quote di partecipazione della H. e comunque a non contrastare in sede assembleare la progettata fusione. È da aggiungere che la stessa D. ha rinunciato, da parte sua, alla richiesta di risarcimento danni svolta in via riconvenzionale nei confronti del K. nel proprio atto di intervento volontario. La Commissione di I grado, nel valutare l’esborso di euro 800.000,00 come afferente ad una mera controversia privata fra soci della H., cui la D. era estranea, e per ciò stesso in alcun modo inerente all’attività dalla stessa svolta, ha commesso a parere del Collegio due errori di prospettiva. In primo luogo, ha isolato la clausola dal contesto generale della transazione, alla quale va riconosciuto, come già sopra osservato, una portata decisamente


102

GiustiziaTributaria

1 2009

più ampia. In secondo luogo, ha adombrato che il concorso al risarcimento del danno da parte dell’appellante, avrebbe comportato un implicito riconoscimento dell’illiceità del comportamento ascritto ai soci convenuti in giudizio dal K. Lo si desume a chiare lettere dal passo della motivazione in cui si afferma che «opinando diversamente [...] si finirebbe per riconoscere deducibilità fiscale a somme corrisposte in modo del tutto volontario a due soci a titolo di parziale rifusione di un risarcimento danni e quindi premiare fiscalmente comportamenti a dir poco riprovevoli». L’enunciazione sembra trascurare natura e funzione del negozio transattivo, che ha carattere “neutro”, nel senso che, essendo rivolto a prevenire una lite insorgente o a porre termine a una lite già incominciata, mira appunto a evitare un accertamento giudiziale sulla fondatezza delle reciproche pretese. Se ne ricava conferma, tra l’altro, dalla disposizione (art. 1970 c.c.) che esclude l’impugnabilità della transazione per causa di lesione, questa presupponendo una previa verifica della situazione giuridica contestata, verifica che la transazione vuole, come detto, evitare. Va aggiunto che le ragioni che possono indurre le parti a definire in via transattiva una controversia possono essere le più diverse: dal fastidio di una causa all’incertezza del suo esito, dalle lungaggini del processo ai suoi costi, ed altre ancora. Nel caso in esame è fuor di dubbio che il fattore decisivo che ha indotto la D. all’accordo transattivo era quello di spianare la strada alla progettata fusione. È pertanto errato attribuire alla transazione, per la parte che riguarda l’appellante, valore di riconoscimento implicito della fondatezza anche se soltanto parziale della pretesa risarcitoria del K. Anche sul punto specifico dell’inerenza del costo in questione vengono svolte nella sentenza impugnata considerazioni lacunose, quando sbrigativamente è stato escluso, senza approfondito esame della documentazione al riguardo dimessa, che la fusione

avesse prodotto effetti migliorativi sui ricavi della società incorporante. Risulta al contrario dal confronto tra il volume d’affari realizzato dalle tre società nell’ultimo esercizio che precedette la fusione e il volume della incorporante D. a fusione perfezionata che questo secondo è stato largamente superiore alla sommatoria del volume delle tre società. Ma se anche non lo avesse superato, si sarebbe comunque in presenza di un accresciuto volume di affari imputabile ad uno stesso soggetto fiscale. E potrebbe addirittura anche bastare, quale fattore sia pure indirettamente incidente sui ricavi, l’indiscusso risparmio economico che la fusione ha comportato a livello di gestione amministrativo- contabile, divenuta unica da triplice che era. Ciò detto, va ricordato che il principio dell’inerenza, non più legato ai ricavi dell’impresa, ma all’attività dalla stessa svolta, consiste in una relazione causale tra componenti negativi e attività dalla quale promanano eventuali componenti positivi tassabili e non già tra componenti negativi e componenti positivi tassati. In particolare preme rilevare che sono fiscalmente deducibili anche i componenti negativi potenzialmente suscettibili di originare, anche in proiezione futura e quindi in successione di tempo componenti positivi. In conclusione, se è vero, e il dato può darsi per pacifico, che la D. aveva il massimo interesse a condurre in porto la fusione con la H., al punto da sobbarcarsi all’onere di cui si tratta (l’esborso di euro 800.000,00) pur di rimuovere gli ostacoli che la ritardavano o la mettevano addirittura in forse, deve riconoscersi, quantomeno in proiezione futura, l’inerenza di quell’onere all’attività dell’appellante, la sua potenziale idoneità a realizzare ricavi e quindi la sua piena deducibilità. L’appello merita perciò accoglimento. La singolarità della fattispecie affrontata giustifica l’integrale compensazione delle spese di entrambi i gradi.

Nota di Gianluca Triolo

La Commissione di II grado, invece, riconoscendo preminente rilevanza all’innegabile interesse della società a rimuovere ogni possibile ostacolo alla fusione, considera il costo contestato inerente e quindi deducibile dal reddito. Incanalandosi, poi, nel solco della giurisprudenza dominante1, afferma che «sono fiscalmente deducibili anche i componenti negativi potenzialmente suscettibili di originare, anche in proiezione futura e quindi in successione di tempo, componenti positivi».

1. Riassumendo in brevi battute il fatto, tre società operanti nello stesso settore deliberano di operare una fusione per incorporazione. Un socio di minoranza di una delle tre società impugna la delibera di approvazione del progetto di fusione e chiede alla propria società il risarcimento dei danni per la violazione di norme e patti parasociali. Dopo la sospensione cautelare della fusione viene avviata con successo una transazione a seguito della quale il socio, che aveva inferto una inattesa battuta d’arresto alla fusione, ottiene un indennizzo a titolo di risarcimento approntato, per una rilevante quota, da una delle società estranee al giudizio. Il punto nodale della questione, con specifico riferimento al caso affrontato in giudizio, è se l’importo versato da quest’ultima società ed esposto correttamente in bilancio configuri, alla luce del principio di inerenza, un costo fiscalmente deducibile o meno. La Commissione tributaria di I grado di Bolzano, disconoscendo il requisito dell’inerenza, conferma il recupero a tassazione dell’importo.

1 Cass., sez. trib., 1 agosto 2000, n. 10062; Cass., sez. trib., 5 settembre 2000, n. 11648 e Cass., sez. trib., 6 settembre 2000, n. 11770; Cass., sez. trib., 20 novembre 2001, n. 14570, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 2 Di recente è tornato sul punto LUPI, Limiti alla deduzione degli interessi e concetto generale di inerenza, Corr. Trib., 2008, 771. Si può leggere che «le disposizioni legislative generali in materia di inerenza, oggi, preci-

2. Le conclusioni appena profilate, da noi appieno condivise, sollecitano alcune considerazioni a fronte di quelle pronunce giurisprudenziali che spesso considerano estranei alla sfera aziendale i costi sostenuti nell’interesse dell’impresa. Il concetto generale d’inerenza, privo nel nostro ordinamento di una disposizione legislativa specifica2, ha la funzione di operare una selezione tra le spese che attengono alla “produzione” del reddito (deducibili) e quelle che ne rappresentano un atto di “disposizione” (indeducibili). Tuttavia, come è noto, se vi è concordia sulla funzione del principio di inerenza, la sua concreta operatività è stata causa di diver-

samente, contenute nell’art. 109, comma 5, del T.U.I.R., non contengono indicazioni per distinguere la sfera personale, privata, extraimprenditoriale, da quella dell’impresa. Le disposizioni sulla deduzione dei costi, in relazione al loro riferimento a ricavi che concorrono o meno a formare il reddito d’impresa, riguardano infatti il differente aspetto del rapporto con i ricavi esenti». Già in passato ZIZZO, Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa, in Giuri-

sprudenza sistematica delle imposte, a cura di Tesauro, 1994, 557, secondo il quale «contrariamente a quanto si suole ritenere questa norma è in seno al T.U.I.R. priva di disposizione. L’art. 75, comma 5, cui generalmente si fa riferimento a tale proposito si occupa, infatti, del connesso, ma distinto, problema della deducibilità dei componenti negativi in presenza di ricavi e proventi non computabili nel reddito d’impresa».


Ires 1 2009 103

genti interpretazioni, nonché oggetto di una lenta evoluzione (normativa, giurisprudenziale, dottrinale) durata quasi un secolo3. L’ultimo lido cui è approdata la giurisprudenza, nonché la prassi, può comunque far ritenere che, in definitiva, nessuno più oggi dubiti della circostanza che l’inerenza sia ravvisabile ogni qual volta la spesa sia collegata all’attività d’impresa4 e non già ai ricavi. Tuttavia, proprio perché orfana di una definizione legislativa, il discrimen netto fra costi personali e costi relativi all’impresa non è di facile individuazione, e tra l’inerenza e la non inerenza di un costo si frappongono un’infinità di sfumature intermedie. Da ciò ne consegue che l’inerenza si atteggia a concetto assolutamente relativo, che necessita di un giudizio fattuale, compiuto sulla base di circostanze quali la tipologia di attività svolta dall’impresa, le sue dimensioni, le sue esigenze. Riprendendo la definizione di autorevole dottrina è riconducibile all’alveo dei costi inerenti «ogni onere sostenuto nell’interesse dell’attività d’impresa, nella prospettiva di fornirle una qualche utilità, anche se soltanto in via mediata e indiretta»5. A nostro avviso l’affermazione va letta nel senso che laddove a seguito di un giudizio “in concreto” eseguito sul fatto sia “in astratto” configurabile l’interesse dell’impresa all’effettuazione del costo, questo vada considerato deducibile. Ciò detto: a) se il fine dell’inerenza, quale profilo strutturale e immanente del concetto di reddito, è quello di garantire l’incidenza fiscale del reale indice di capacità contributiva del soggetto passivo; b) se ciò che rileva, ai fini del collegamento all’attività, è che la spesa venga effettuata nell’interesse dell’impresa; allora c) non possono trovare spazio valutazioni di sorta riguardanti la natura giuridica del decremento patrimoniale quando questo avvenga nell’interesse dell’impresa, pena la lesione del principio di capacità contributiva. Sono da rigettare, dunque, tutte quelle impostazioni che, sulla base di valutazioni inerenti la congruità del costo6, la natura sanzionatoria7o risarcitoria del decremento patrimoniale o l’assenza di vincolo giuridico, inducono la giurisprudenza a disconoscere l’inerenza degli oneri affrontati al fine d’arrecare un vantaggio all’impresa.

3 Per un approfondimento sull’evoluzione storica del principio di inerenza si veda: GRAZIANI, L’evoluzione del principio di inerenza e il trattamento fiscale dei finanziamenti ad enti esterni di ricerca, in I costi di ricerca scientifica, a cura di Falsitta-Moschetti, Milano, 1988, 51 ss. 4 L’opinione è largamente diffusa sia presso la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. trib., 30 luglio 2007, n. 16826, in Rass. Trib., 2007, 1789, con nota di ZIZZO, Inerenza ai ricavi o all’attività? Nuovi spunti su una vecchia questione, 1796; Cass., sez. trib., 1 agosto 2000, n. 10062; Cass., sez. I, 10 ottobre 1991, n. 10662, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big), sia presso quella di merito, che presso la prassi dell’amministrazione finanziaria (risoluzione ministeriale 28 ottobre 1998, n. 145735; risoluzione ministeriale 14 luglio 1993, n. III/6/2005; circolare ministeriale 7 luglio 1983, n. 30, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big). 5 ZIZZO, L’imposta sul reddito delle società, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, 2005, 337 ss. Per un inquadramento sistematico del concetto di inerenza: TINELLI, Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’im-

3. Affrontando il tema della pronuncia giurisprudenziale in esame la società che, in assenza di un vincolo giuridico, si è accollata volontariamente una quota dell’indennità transattiva per la composizione di una controversia cui è estranea, ha diritto di dedurre tale importo se è stato affrontato nell’ottica di riceverne un’utilità. In assenza di tale utilità (anche sperata) saremmo in presenza di un’erogazione liberale, sicuramente indeducibile. La Cassazione, in una recente nonché lucida pronuncia, ha affermato che l’inerenza è «una relazione tra due concetti – la spesa e l’impresa – che implica un accostamento concettuale tra due circostanze per cui il costo assume rilevanza ai fini della quantificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili»8. Nel caso di specie l’abbandono dell’impugnazione della delibera di fusione, e l’impegno del socio a non contrastare in sede assembleare la progettata fusione, disvela un’evidente relazione concettuale della spesa con la fonte produttiva del reddito d’impresa. La presenza di tale collegamento rende, alla luce delle predette considerazioni, superflua ogni altra considerazione riguardante la volontarietà (intesa come assenza di obbligo giuridico) del costo, nonché la natura risarcitoria o sanzionatoria dell’indennità transattiva versata. La Commissione di I grado, infatti, aveva affermato chiaramente in motivazione che riconoscere la deducibilità fiscale alle somme corrisposte a titolo di parziale refusione di un risarcimento danni sarebbe equivalso a «premiare fiscalmente comportamenti a dir poco riprovevoli». I giudici di I grado lasciano trasparire, tra le pieghe di questo inaccettabile ragionamento, l’insidia di chi considera l’inerenza una sorta di concessione del legislatore o peggio una misura agevolativa. Tra le righe della sentenza della Commissione di I grado, in altri termini, ci è dato scorgere una visione restrittiva della sfera applicativa del tributo sul reddito, ai fini di determinare il quale ricavi e costi devono avere uguale incidenza9.

presa, in Riv. Dir. Trib., 2002, I, 437 ss.; MAInvoluzione del principio di inerenza?, in Riv. Dir. Fin., 2002, I, 510; PANIZZOLO, Inerenza ed atti erogativi di reddito, in Riv. Dir. Trib., 1999, 678; LUPI, L’inerenza e il sindacato delle scelte imprenditoriali sul versante dei costi, in Il reddito d’impresa, 2002, 88; ROSA, Il principio di inerenza, in Il reddito d’impresa, a cura di Tabet, 1997, 137; ZIZZO, op. cit., 1994, 556. 6 In tema di congruità il pensiero corre alla dibattuta questione della sussistenza o meno, in capo all’amministrazione finanziaria del potere di sindacare, in termini di inerenza, l’entità dei compensi erogati agli amministratori. Di parere favorevole: Cass., sez. trib., 27 settembre 2000, 12813, in Dir. e Prat. Trib., 2001, II, 487, con nota di MENTI, Il compenso agli amministratori di società sproporzionato e la deducibilità dal reddito d’impresa, 492; Cass., sez. trib., 30 ottobre 2001, n. 13478, in Riv. Dir. Trib., 2001, II, 958, con nota di VANTAGGIO, L’inerenza dei compensi agli amministratori (e degli altri componenti dell’impresa) è sindacabile sotto un profilo quantitativo?, 960). Di parere contrario: Cass., sez. trib., 9 maggio 2002, n. 6599, in Riv. Dir. Trib., 2002, II, 559, con nota di VIGNOLI, La deduzione dei compensi agli RELLO,

amministratori, tra valori normali, corrispettivi contrattuali e spiragli di riqualificazione contrattuale, in Riv. Dir. Trib., 2002, II, 563; e con nota di GIULIANI, Revirement della Cassazione in tema di compensi agli amministratori, in Dir. e Prat. Trib., 2003, II, 923; Cass., sez. trib., 25 settembre 2006 n. 20748, in Dialoghi Dir. Trib., 2007, 659, con nota GULINO-LUPI-STEVANATO. 7 Posto che per le sanzioni civili, come ad es. gli interessi per ritardato pagamento o il risarcimento danni per inadempimento contrattuale, da sempre sussiste maggiore propensione verso la deducibilità, e che il divieto di dedurre i costi derivanti da illecito penale è oggetto di esplicita previsione normativa (art. 14, comma 4-bis della L. n. 537/1993), maggiori perplessità sussistono per le sanzioni amministrative. 8 Cass., sez. trib., 30 luglio 2007, n. 16826, con nota di ZIZZO, op. cit. 9 Il reddito è effettivo aumento di ricchezza misurabile in capo al soggetto passivo, e di conseguenza non può tener conto della funzionalità degli oneri. Sul concetto di reddito vedi FALSITTA, Principio di uguaglianza e rifiuto del diritto al giusto riparto (a proposito dell’arbitrario doppio regime fiscale dell’assegno divorzile), in Riv. Dir. Trib., 2007, II, 421 ss.


104

GiustiziaTributaria

1 2009

IRPEF 16

Commissione tributaria provinciale di Venezia, sez. XII, 8 febbraio 2008, n. 1 Presidente: Santoro - Relatore: Primicerio

Irpef - Reddito da lavoro dipendente - Incentivo all’esodo - Tassazione separata - Aliquota agevolata ex art. 19, comma 4-bis, T.U.I.R. - Trattamento agevolato per le donne ultracinquantenni e per gli uomini ultracinquantacinquenni - Divieto di trattamento discriminatorio tra uomini e donne - Applicazione anche agli uomini di età compresa tra i cinquanta e i cinquantacinque anni (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 19, comma 4-bis) L’aliquota agevolata prevista dall’art. 19, comma 4-bis T.U.I.R. (applicabile ratione temporis e abrogato dall’art. 36, comma 23 del D.L. 223/2006, cd. decreto Bersani) per la tassazione separata delle somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori dipendenti che abbiano superato i cinquant’anni, se donne, e cinquantacinque, se uomini, deve essere applicata anche ai lavoratori maschi di età ricompresa tra i cinquanta e i cinquantacinque anni, in ottemperanza al divieto di trattamento discriminatorio tra i sessi sancito dalla sentenza di Corte di Giustizia n. C-270/2004 del 2005. La parte ricorrente impugna il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso dell’Irpef applicata in misura piena anziché ridotta – come previsto dalla norma contenuta nel D.P.R. n. 917/1986 art. 19 comma 4-bis – su quanto ricevuto in occasione della risoluzione del rapporto di lavoro a titolo di incentivo all’esodo. Viene evidenziato nel ricorso che la Corte di Giustizia della Comunità europea in data 21 luglio 2005 ha ritenuto la suindicata normativa contraria alla direttiva CEE 75/207/CEE nella misura in cui opera una discriminazione a favore delle donne ed a sfavore degli uomini. È costituita l’Agenzia delle Entrate che insiste per il rigetto del ricorso. La Commissione ritiene opportuno richiamare il quadro normativo di riferimento. La norma in questione così recita: «per le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori che abbiano superato l’età di 50 anni se donne e di 55 anni se uomini, di cui all’articolo 17, comma 1, lettura a, l’imposta si applica con l’aliquota pari alla metà di quella applicata per la tassazione del trattamento di fine rapporto e delle altre indennità e somme indicate alla richiamata lettera a del comma 1 dell’articolo 17». Tale disposizione in quanto incompatibile con il principio di parità di trattamento previsto dalla direttiva comunitaria n. 207/2006 è stata abrogata dal comma 23, art. 36, D.L. 223/2006. Il profilo di incompatibilità della normativa nazionale con la normativa comunitaria era stato evidenziato dalla Corte di Giustizia della Comunità europea con la sentenza C-270/2004 del 2005, ancorché in fase di pronuncia su di una questione pregiudiziale. La Commissione adita viene chiamata ad affrontare il tema degli effetti della sentenza della Corte di Giustizia della Comunità europea sui rapporti giuridici sorti nel periodo precedente all’abrogazione della citata norma od in particolare gli effetti sul rapporto tributario collegato alla tassazione applicata nei confronti dei soggetti di sesso maschile destinatari di incentivi all’esodo con

una età ricompresa tra i cinquanta e i cinquantacinque anni al momento di interruzione del rapporto di lavoro. Orbene la Corte di Giustizia – chiamata a decidere sul presunto contrasto con la normativa comunitaria del requisito della differenza di età tra uomini e donne – ha ritenuto che « [...] la direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976 n. 79/207/CEE relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una norma quale appunto l’art. 19, comma 4-bis, T.U.I.R. che consente il beneficio della tassazione con aliquota ridotta alla metà delle somme erogate in occasione dell’interruzione del rapporto ai lavoratori che hanno superato i 50 anni se donne e i 55 anni se uomini». Preliminarmente va ricordato che le sentenze della Corte di Giustizia che statuiscono in merito all’ambito di applicazione di una norma comunitaria sono vincolanti per i giudici nazionali per cui esse hanno un ambito di applicazione che travalica la singola controversia in cui ha origine. Sui punto è intervenuta la Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 389 del 1980, ha avuto modo di precisare e statuire che: «qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di Giustizia, come interprete qualificato di tale diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze. Quando questo principio viene riferito ad una norma comunitaria avente effetti diretti – vale a dire una norma della quale i soggetti operanti all’interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio – non v’è dubbio che la precisazione o l’integrazione del significato normativo compiuto attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate». Ne discende, pertanto, che la disparità di trattamento contenuta nell’ormai abrogato comma 4-bis dell’art. 19 del T.U.I.R., deve intendersi come illegittima. Va chiarito, peraltro, che la Corte europea ha soltanto posto l’attenzione sulla presenza all’interno della normativa nazionale della disparità di trattamento in contrasto con i dettagli comunitari non entrando nel merito dell’agevolazione tributaria che consiste nell’applicazione di un’aliquota agevolata ai fini dell’Irpef per le somme erogate quale esodo volontario in aggiunta alle normali indennità di fine rapporto. La Commissione – vista la portata della sentenza interpretativa della Corte – non ritiene che possa condividersi l’impostazione dell’Agenzia delle Entrate secondo la quale, per i rapporti precedenti l’abrogazione della norma agevolativa, i sostituti di imposta devono operare le ritenute in attuazione dell’art. 19 comma 4-bis, T.U.I.R., atteso che in tal modo verrebbe del tutto trascurato il dictum dell’organo giudicante comunitario. La lamentata discriminazione può essere eliminata solo concedendo alla categoria sfavorita le stesse agevolazioni previste per la categoria privilegiata con la conseguenza che va riconosciuto il diritto dei percettori di un incentivo all’esodo di sesso maschile in età ricompresa tra i 50 e i 55 anni al rimborso delle imposte versate in eccesso. Tale conclusione trova conferma nella recente decisione della Corte di Giustizia 7 settembre 2006 Cordero C-81/2005 che ha affermato che «[...] quando venga accertata una discriminazione


Irpef 1 2009 105

incompatibile col diritto comunitario, e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità dì trattamento, l’osservanza del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone che vengono privilegiate (sentenza Rodriguez Caballero, punto 42). In tale ipotesi il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore [...].Tale obbligo incombe ad esso indipendentemente dall’esistenza nel diritto interno di disposizioni che gli attribuiscono la competenza al riguardo». Pertanto – disapplicato l’art. 19 comma 4-bis, T.U.I.R., nella parte in cui prevede una disparità di trattamento tra i sessi – l’applicazione dell’aliquota agevolata andrà riconosciuta sia agli uomi-

ni che alle donne che abbiano superato i cinquanta anni di età. L’opinare diversamente, applicando alle donne il limite di età più sfavorevole per accedere al beneficio non appare possibile in quanto si avrebbe una reformatio in peius che – colpendo manifestazioni di capacità contributiva passate – verrebbe a ledere il legittimo affidamento nella norma agevolativa da parte delle lavoratrici che abbiano superato i 50 anni. L’Agenzia delle Entrate dovrà procedere al ricalcolo della aliquota applicata sull’incentivo all’esodo della parte ricorrente e dar corso al rimborso di quanto corrisposto in eccesso con gli interessi di legge dalla data della richiesta di rimborso – vertendosi in tema di ripetizione di indebito ex art. 2033 c.c. ed escludendosi la malafede del percettore delle somme – al saldo. La novità e la complessità della materia trattata comportano la compensazione delle spese.

Nota

Comm. trib. reg. Piemonte, 4 dicembre 2007, n. 62, in Corr. Trib., 2008, 2767, con nota critica di FALCONI-MARIANETTI, Rimborso per incentivi all’esodo: contrasti tra Corte UE e giurisprudenza nazionale, e di PETRUCCI, L’indennità per l’esodo nella giurisprudenza comunitaria (ivi, 2008, 2568). Per la prassi cfr. circ. Ag. Entrate, 23 dicembre 1997, n. 326/E; ris. Ag. Entrate, 2 marzo 2004, n. 30/E; ris. Ag. Entrate, 13 ottobre 2006, n. 112/E; circ. Ag. Entrate, 16 febbraio 2007, n. 10/E; ris. Ag. Entrate, 19 giugno 2007, n. 138/E. Sugli incentivi all’esodo, in generale, v. Cass., sez. lav., 7 aprile 2001, n. 5219, in Riv. Dir. Trib., 2001, II, 828. Si rammenta che la norma agevolativa di cui all’art. 19, comma 4-bis, T.U.I.R., che prevedeva un abbattimento della metà di quella applicata per il trattamento di fine rapporto, è stata abrogata dall’art. 36, comma 23, del cd. decreto Bersani (D.L. 4 luglio 2006, n. 223, conv., con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248), ferma restando per gli incentivi all’esodo la modalità della tassazione separata.

La sentenza in rassegna, già pubblicata in Giur. It., 2009, 1016, con nota adesiva di FREGNI, Il trattamento fiscale agevolato degli incentivi all’esodo ed il principio di parità uomo-donna, inquadra correttamente la questione del trattamento fiscale degli incentivi all’esodo percepiti da lavoratori maschi in età ricompresa tra i cinquanta e i cinquantacinque anni, giudicando estensibili ai medesimi i benefici fiscali applicabili ratione temporis alle donne di età superiore ai cinquant’anni. In sostanza, la decisione si uniforma ed applica i principi sanciti da Corte di Giustizia CE, 21 luglio 2005, n. C-207, in Foro It., 2006, 10, 4, 534 (e ora definitivamente ribaditi da Corte di Giustizia CE, ordinanza, 16 gennaio 2008, cause riunite da C126/2007 a C-131/2007). In senso conforme cfr., ex multis, Comm. trib. prov. Treviso, 25 maggio 2007, n. 48, in Boll. Trib., 2007, 1569, con nota di LOVECCHIO, Incentivo all’esodo e incompatibilità comunitaria. Contra


106

GiustiziaTributaria

1 2009

IVA IN TEMA DI DETRAZIONE IVA ASSOLTA SU OPERAZIONI “PRODROMICHE”, ANCHE IN ASSENZA DI OPERAZIONI ATTIVE 17

Commissione tributaria provinciale di Latina, sez. V, 8 aprile 2008, n. 50 Presidente: Del Vecchio - Relatore: Moscarino

Iva - Diritto di detrazione - Imposta relativa ad operazioni passive “prodromiche” all’attività d’impresa Assenza di operazioni attive - Detraibilità - Condizioni (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19) In assenza di elementi che possano far presumere intenti o comportamenti elusivi, le operazioni passive prodromiche all’attività d’impresa possono dar luogo a detrazioni ai fini Iva, anche se non vi è stato in concreto esercizio d’impresa, cioè in totale assenza del compimento di operazioni attive, purché gli acquisti siano stati effettuati per le finalità imprenditoriali e ricorra il requisito dell’inerenza dell’acquisto all’attività imprenditoriale o professionale. Svolgimento del processo L’Agenzia delle Entrate ufficio di Latina, con avviso di accertamento n. [...], ha proceduto alla rettifica della dichiarazione annuale Iva presentata da G.A. per l’anno 2003, recuperando l’imposta chiesta a rimborso di euro. 23.784,00 erogato per l’anno 2003, oltre interessi ed irrogando sanzioni per euro 29.731,25, relativamente all’imposta inerente l’acquisto di due immobili siti in Latina viale P.L. Nervi consistenti in fabbricati uso ufficio e annessi garage. G.A., rappresentata e difesa dal dott. D.D.P., con ricorso depositato presso la segreteria di questa Comm. trib. prov. il 20 novembre 2007, ha impugnato il predetto atto impositivo deducendo l’irregolarità della notifica dell’atto per non essere stata apposta la relata in calce all’atto stesso, in violazione dell’art. 148 c p.c. Nel merito afferma di aver aperto la partita Iva nel 2003, Studi di mercato e sondaggi di opinione, con l’intento di operare nel settore della ricerca di mercato qualitativa e quantitativa e della consulenza aziendale, con specializzazione nell’ambito della comunicazione; che, a tal fine, per poter concretamente iniziare ed esercitare detta attività. acquistava dalla società consorzio Due fiori S.r.l. due unità immobiliari ad uso ufficio. A causa dell’insorgere di grave patologia clinica è stata costretta ad interrompere qualsiasi attività il 31 luglio 2006, emettendo in pari data la fattura n. 1 di autoconsumo per cessazione dell’attività relativa alle due unità immobiliari. Chiede, in via preliminare, di dichiarare la illegittimità e la nullità dell’avviso di accertamento impugnato per violazione dell’art. 148 c.p.c. In via principale, dichiarare l’illegittimità e l’infondatezza dell’avviso di accertamento, riconoscendo il diritto alla detraibilità dell’Iva assolta sugli acquisti: in subordine, lo sgravio di qualsiasi importo. Cita, al riguardo, la giurisprudenza della Suprema Corte. Resiste l’amministrazione finanziaria e con controdeduzioni in data 14 gennaio 2008 oppone che la notifica è stata eseguita a mani proprie della contribuente. In ogni caso la nullità dell’atto risulta sanata dalla proposizione del ricorso. Nel merito eccepisce che non essendo stata esercitata attività d’impresa secondo la definizione degli artt. 4 e 5, non risultando posta in essere alcuna operazione imponibile, viene meno il pre-

supposto dell’acquisto dei beni ammortizzabili: gli stessi vengono, pertanto, più coerentemente inquadrati in acquisti in proprio effettuati da un soggetto finale inciso dall’Iva ed al quale non può riconoscersi il diritto alla detrazione. Cita la sentenza n. 44 dell’8 aprile 1999 della Comm. trib. reg. Sicilia. Chiede il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente alle spese di giudizio. La controversia è stata trattata e decisa in camera di consiglio all’udienza del 17 marzo 2008. Motivi della decisione Il Collegio, letti gli atti e sentito il relatore, ritiene non fondata la tesi dell’ufficio, secondo la quale, nel periodo di riferimento in cui era stata attiva la ricorrente non vi era stata alcuna attività d’impresa, essendo invece questa da individuarsi nell’attività di Studi mercato e sondaggi di opinione codice attività 74130. Prima di esaminare funditus la questione, vale la pena esaminare la disciplina giuridica predisposta dal legislatore. L’art. 1 del D.P.R 26 ottobre 1972, n. 633, prevede espressamente che l’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate. Fatte tali premesse è evidente che l’esatta individuazione dell’inizio effettivo dell’attività d’impresa rappresenta un aspetto di estrema rilevanza ai fini Iva, in quanto solo a partire da tale momento il soggetto passivo d’imposta può ritenersi legittimato all’esercizio del diritto alla detrazione. Per questo l’amministrazione utilizza, come nel caso di specie, che la presunta mancanza di un effettivo esercizio di attività imprenditoriale, determina la negazione del diritto alla detrazione. Non va pretermesso che pur in mancanza di operazioni attive svolte, il diritto alla detrazione deve essere egualmente riconosciuto in caso di operazioni d’acquisto operate nell’ambito delle cosiddette “attività preparatorie” ossia quelle propedeutiche allo svolgimento di future attività d’imprese programmate. Ciò perché alla fase preliminare di organizzazione dell’impresa va riconosciuta la natura di attività già costituente l’effettiva gestione della stessa. A livello giurisprudenziale la questione relativa alla rilevanza ai fini Iva delle attività preparatorie è stata più volte analizzata dalla Corte di Giustizia della Comunità europea. Anche secondo l’orientamento espresso da tale organo, gli atti preparatori posti in essere durante la fase di inizio attività sarebbero già di per sé parte integrante delle future attività economiche e, in quanto tali, garantirebbero l’esercizio del diritto alle detrazioni dell’imposta assolta da parte del soggetto Iva. Oltre alla giurisprudenza citata la questione in esame è stata analizzala altresì dall’amministrazione finanziaria con la risoluzione ministeriale 124/E del 7 settembre 1998. In tale sede, uniformandosi con quanto espresso a livello europeo, è stato sottolineato che: «l’attività di impresa deve intendersi eser-


Iva 1 2009 107

citata fin dal momento in cui vengono posti in essere atti che non lasciano dubbi sulla circostanza che essi siano i primi di una lunga serie di atti posti in essere nel quadro di un processo produttivo finalizzato, quindi, ad una attività professionalmente esercitata». In senso conforme, anche la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione: sent. n. 8583 del 15 febbraio 2006, dep. il 12 aprile 2006 «la stretta connessione degli acquisti con le finalità imprenditoriali, in virtù della quale è consentilo il recupero dell’Iva corrisposta non é necessariamente esclusa dalla mancanza di operazioni attive»; inoltre, sent. 13738 dell’otto febbraio 2001, dep. il 6 novembre 2001, «per la detrazione di cui all’art. 19 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, la inerenza dei beni o servizi all’attività dell’impresa ben può sussistere anche in assenza di attuali operazioni attive cui si collegano operazioni passive». Ancora, sent. n. 5739 del 16 marzo 2005, dep. il 16 febbraio 2005 «la detrazione Iva di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, che spetta in caso di inerenza dei beni o servizi acquistati all’attività d’impresa, è configurabile in presenza di documentate spese di investimento, sostenute in vista dello svolgimento dell’attività lucrativa, articolata in un’iniziativa complessa e quantitativamente rilevante, anche in assenza di operazioni attive, non potendo escludersi che una società non intenda perseguire lo scopo per cui è stata costituita soltanto perché costretta ad una stasi da una temporanea crisi finanziaria o da fluttuazioni del mercato»; sentenza n. 1863 in data 2 febbraio 2004 «mentre le cessioni di beni da parte di una società di capitali sono da considerare in ogni caso effettuate nell’esercizio di impresa, in ordine invece agli acquisti di beni occorre accertare ai fini della detraibilità dell’imposta, che dette operazioni passive siano effettivamente inerenti all’esercizio dell’impresa, cioè compiute in stretta connessione con le finalità imprenditoriali, senza tuttavia che sia richiesto il concreto esercizio dell’impresa, con la conseguenza che la detrazione dell’imposta spetta, ricorrendo la detta condizione, anche nel caso di assenza di compimento di operazioni attive; sent. 21 gennaio 2008, dep. 20 dicembre 2007, n. 1421, secondo la quale va accertato che le operazioni compiute siano state in stretta connessione con le finalità imprenditoriali con onere a carico di chi invochi la detraibilità»; Comm. trib. prov. Frosinone, sez. III, del 13 aprile 1999, dep. l’11 maggio 1999, n. 178 «le spese di costituzione di una società possono essere considerate come attività economica ai sensi della VI direttiva, e di conseguenza, anche in mancanza di successive operazioni imponibili, l’amministrazione finanziaria deve riconoscere il diritto al rimborso dell’Iva assolta, in considerazione della dichiarata intenzione dell’impresa di avviare un’attività soggetta all’imposta sul valore aggiunto». L’orientamento sopra esposto è pienamente condiviso dal Collegio. Infatti, esaminando la posizione della ricorrente si rileva che la stessa aveva regolarmente aperto la partita Iva; che gli acquisiti possono essere ritenuti riferibili alla volontà di intraprendere un’attività imprenditoriale, che l’impedimento all’inizio di tale attività non è dipeso dalla volontà della ricorrente, bensì da eventi ostativi sopravvenuti. Nell’ottica della giurisprudenza comunitaria e nazionale sopra evidenziata, appare illogico affermare che la contribuente non possa ottenere la detrazione operata. In assenza di elementi che possano far presumere intenti o comportamenti elusivi, le operazioni passive possono dar luogo a detrazioni anche se non c’è stato in concreto esercizio d’impresa, cioè una totale assenza del compimento di operazioni attive. A parere del Collegio è sufficiente che gli acquisti siano stati effettuati per le finalità imprenditoriali, anche in assenza del compimento di operazioni attive purché ricorra la condizione imprescindibile dell’inerenza dell’acquisto all’attività imprenditoriale o professionale. L’inerenza di un’operazione ai fini Iva comporta solo la necessità che la stessa sia funzionale all’attività imprenditoriale formaliz-

zata nell’oggetto per l’apertura della partita Iva o sociale. Nel caso di specie, 1’acquisto degli immobili ad uso ufficio per lo svolgimento dell’attività di Studi di mercato e sondaggi di opinione con l’intento di operare nel settore della ricerca di mercato qualitativa e quantitativa e della consulenza d’azienda, con specializzazione nell’ambito della comunicazione appare sicuramente inerente alla futura attività prospettica dell’imposta. D’altro canto e, definitivamente, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il sistema delle detrazioni è inteso a neutralizzare interamente l’Iva pagata o dovuta dall’imprenditore nell’ambito di tutte le attività economiche purché queste siano in linea di principio, soggette ad Iva secondo il consolidato orientamento della Corte, continua la risoluzione n. 40 del 2002, il diritto alla detrazione, una volta nato, rimane acquisito «anche quando il soggetto passivo non abbia potuto utilizzare i beni o i servizi che hanno dato luogo alla detrazione per l’effettuazione di operazioni imponibili a causa di circostanze estranee alla sua volontà». Il pensiero dell’amministrazione è ancora richiamato nella circ. min. 24 dicembre 1997 n. 328/E laddove si precisa che, nell’ottica prospettica che giustifica il diritto di detrazione, il soggetto passivo «non deve attendere l’effettiva utilizzazione dei beni e dei servizi nella propria attività per stabilire se gli competa e possa o non esercitare tale diritto, essendo a tal fine sufficiente che i beni e i servizi siano “afferenti”, cioè destinati ad essere utilizzati in operazioni che danno o non danno diritto alla detrazione». Quindi se è vero che deve trattarsi di una destinazione avvalorata oggettivamente dalla natura dei beni e dei servizi acquistati rispetto all’attività concretamente esercitata dal contribuente, è anche vero che l’acquisizione della soggettività passiva è determinata dall’intenzione del soggetto passivo di avviare un’attività dalla quale possano, in linea prospettica originare operazioni imponibili (Corte di Giustizia CE, 29 febbraio 1996, causa C-110/942 Inzo). Non solo ma, come insegna la Corte di Giustizia nelle sentenze Inzo e Ghem Coal Terminal la mancata realizzazione delle “prospettiche” e “previste” operazioni imponibili, se indipendente dalla volubilità del soggetto (cioè, più chiaramente, se addebitabile a fatti oggettivi esterni alla sua sfera giuridica) non impedisce il diritto alla detrazione. L’ufficio non ha contestato la grave patologia documentata dalla ricorrente. In poche parole in sede comunitaria il diritto alla detrazione è cosi forte da sopravvivere ad ogni ribaltamento. L’ufficio, infine, non ha preso, posizione su un ultimo aspetto meritevole di riflessione: l’emissione da parte della ricorrente della fattura n. 1 per “autoconsumo”. L’autoconsumo si applica per la dismissione dei beni già utilizzati nell’esercizio d’impresa, destinati ad una finalità che, per sua natura (essendo estranea all’impresa) non produce valore aggiunto. La negazione del diritto alla detrazione o al rimborso determinerebbe un indebito arricchimento dell’amministrazione finanziaria (Cass., sent. 25 febbraio 1998 n. 2063). In conclusione, non è revocato in dubbio che la ricorrente ha manifestato l’intenzione di avviare un’attività economica che avrebbe dato luogo ad operazioni imponibili. È altresì provato sia la sussistenza della natura di attività preparatoria alla futura attività d’impresa, per gli acquisti operati per i quali è invocato il diritto alla detrazione, sia l’impedimento reale e non fittizio al compimento di operazioni attive. Per effetto delle considerazioni sopra esposte, il ricorso va accolto con consequenziale affermazione del diritto alla detrazione da parte della ricorrente dell’imposta sul valore aggiunto nell’importo specificato nell’avviso di rettifica e l’annullamento delle relative sanzioni irrogate dall’Agenzia delle Entrate di Latina. Nella decisione restano assorbite tutte le altre deduzioni ed eccezioni. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.


108

GiustiziaTributaria

1 2009

Nota di Claudia Turchet Premessa La sentenza in epigrafe conferma un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, sia a livello nazionale che in ambito comunitario, in materia di detraibilità Iva in relazione ad operazioni prodromiche all’esercizio effettivo dell’attività d’impresa, anche in assenza di operazioni attive1. Il caso di specie riguarda la detrazione dell’Iva assolta sull’acquisto di due unità immobiliari aventi destinazione d’uso ufficio, che avrebbero dovuto essere funzionali e necessarie allo svolgimento di attività di consulenza aziendale e ricerca di mercato. A causa di grave patologia clinica documentata (e non eccepita dall’amministrazione finanziaria) l’attività effettiva di consulenza non è mai stata esercitata dal soggetto ricorrente. L’amministrazione finanziaria ritiene non spettante il diritto di detrazione dell’Iva assolta sull’acquisto di tali cespiti, in quanto, non essendo stata posta in essere alcuna operazione attiva, ritiene che non sia stata esercitata attività d’impresa secondo la definizione degli articoli 4 e 5 del D.P.R. 633/1972 e ciò farebbe venir meno il presupposto per la detrazione dell’Iva sull’acquisto dei beni ammortizzabili; secondo tale ricostruzione, tali operazioni passive sono più coerentemente inquadrabili quali “acquisti in proprio” effettuati da un soggetto finale inciso dall’Iva ed al quale, quindi, non può riconoscersi il diritto alla detrazione. Il Collegio giudicante, invece, ha riconosciuto sussistente il diritto di detrazione dell’Iva, respingendo la tesi dell’ufficio che negava la spettanza di tale diritto, e accogliendo l’orientamento più volte ribadito dalla giurisprudenza, nonché in sede comunitaria, sulla irrilevanza del compimento di operazioni attive al fine di considerare spettante il diritto di detrazione, e sulla corretta detrazione dell’Iva assolta sulle operazioni prodromiche all’esercizio effettivo dell’impresa laddove queste siano inerenti all’esercizio dell’impresa. Nell’analizzare la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Latina, articolata nella motivazione e condivisibile nella sua conclusione, ci sembra doveroso soffermarci su alcuni argomenti toccati dalla sentenza meritevoli di approfondimento. In primo luogo, di notevole importanza appare l’esatta individuazione del momento in cui si considera iniziata l’attività d’impresa, al fine di valutare la legittimità della detrazione dell’Iva assolta sugli acquisti inerenti, effettuati nella fase “preparatoria” dell’attività d’impresa; in secondo luogo sembra opportuno soffermarsi sul concetto di inerenza, la cui esistenza è condicio sine qua non per la de-

1 Fra le più recenti sentenze della Suprema Corte in materia: Cass., 21 marzo 2008, n. 7809, in banca dati fisconline; Cass., 20 giugno 2007, n. 14371, in banca dati fisconline; Cass., 12 aprile 2006, n. 8583, in Dir. e Prat. Trib., 2007, II, 525, con nota di TURCHET, La detrazione Iva e la nozione di inerenza nelle attività preparatorie; Cass., 2 febbraio 2004, n. 1863, in Riv. Giur. Trib., 2004, 409, con nota di PEIROLO, Detraibilità dell’Iva anche in assenza di operazioni attive; Cass., 9 dicembre 2002, n. 17514, in Dir e Prat. Trib., 2004, II, 93; Cass., 6 novembre 2001, n. 13738, in Giur. Imposte, 2002, 151 ss. 2 Ex pluribus, cfr. Cass., 12 aprile 2006, n. 8583, cit.; Cass., 2 febbraio 2004, n. 1863, cit., 409; Cass., 26 luglio 2006, n. 17079, in Dir. Prat. Soc., 2006, 2191; Cass., 20 giugno 2007, n. 14371, cit. Sul punto è necessario osservare che in passato la maggioritaria giurisprudenza di merito, nel valutare la spettan-

trazione dell’Iva – così come anche ai fini della deduzione dei costi nelle imposte sui redditi. Tali concetti, com’è noto, nonostante la loro particolare rilevanza ai fini di una corretta applicazione della norma, non ritrovano in alcun testo normativo una precisa definizione positiva, sì da dover desumere il loro significato concreto da una attenta interpretazione delle norme, nonché dai principi del sistema e dalle elaborazioni giurisprudenziali. Individuazione del dies a quo quale inizio dell’attività d’impresa e (ir)rilevanza del compimento di operazioni attive ai fini dell’esercizio del diritto della detrazione nell’Iva La Commissione tributaria provinciale di Latina, nella presente pronuncia, esordisce riconoscendo che «l’esatta individuazione dell’inizio effettivo dell’attività d’impresa rappresenta un aspetto di estrema rilevanza ai fini Iva [...]», in quanto solo a partire dal momento in cui si considera iniziata l’attività il soggetto passivo può ritenersi legittimato all’esercizio del diritto di detrazione. Ed è questo il punto nevralgico della questione, giacché l’amministrazione finanziaria non eccepisce l’inerenza dei costi sostenuti, bensì contesta la sussistenza del diritto alla detrazione in quanto, non sussistendovi operazioni attive, presume mancante l’effettivo esercizio di attività imprenditoriale. In verità, come più volte ribadito dalla Suprema Corte2, si conferma in questa sede l’irrilevanza del compimento di operazioni attive quale requisito indispensabile per l’esercizio della detrazione dell’Iva assolta sugli acquisti; non sembra corretto infatti considerare iniziata l’attività d’impresa solo al momento dell’effettuazione di operazioni attive, e neppure il giudizio sull’inerenza dei costi può essere denegato a priori per la loro eventuale (e magari temporanea) assenza. Come precisato in sede comunitaria, è invece necessario che le operazioni siano effettuate da un soggetto passivo formalmente identificato rientrando quindi nell’ambito applicativo della disciplina Iva3. Ebbene, nel caso di specie nulla quaestio sull’identificazione formale del soggetto passivo Iva, ma l’acquisto dei due immobili ad uso ufficio (e destinati intenzionalmente a stabilirvi la sede in cui svolgere l’attività di studio e consulenza), l’assenza di compimento di operazioni attive e la successiva cessazione di attività hanno indotto l’amministrazione finanziaria a considerare tali atti quali “acquisti in proprio”, effettuati da un soggetto finale inciso dall’Iva. In verità, tali operazioni, attengono a quella fase di organizzazione e preparazione che comunque deve farsi rientrare nell’esercizio di attività d’impresa, in quanto si tratta di atti pro-

za del diritto di detrazione, aveva richiesto il concreto (e non solo potenziale) esercizio di attività d’impresa, per risolvere il problema di comportamenti elusivi a fronte della detrazione effettuata da parte di “società senza impresa”; in questo senso vedasi Comm. trib. prov. Modena, 24 ottobre 1984, n. 172, in Riv. Dir. Fin., 1987, II, 75; Comm. trib. prov. Salerno, 1 marzo 1994, n. 52, in Riv. Dir. Trib., 1995, II, 223, con nota di ZIZZO, Società senza impresa e detrazione dell’Iva sugli acquisti; Comm. trib. II grado Torino, 28 marzo 1995, n. 699, in Riv. Giur. Trib., 1995, 925, con nota di COMELLI, Limiti del diritto alla detrazione Iva; Comm. trib. reg. Lazio, 18 ottobre 2000, n. 33, in Fisco, 2002, 151. Da tali pronunce era emerso che nei casi di “società senza impresa” non sussistevano gli estremi per ritenere sussistente un’attività imprenditoriale e quindi, mancando l’inerenza degli acquisti effettuati, doveva essere disconosciuta la detrai-

bilità dell’Iva. 3 La Corte di Giustizia CE, nella sentenza 8 febbraio 2007, n. C-435/2005, 24, Investrand, in banca dati Jurisdata, ha affermato che il diritto di detrazione è ammesso anche quando «non possa essere ricostruito un nesso immediato e diretto tra una specifica operazione a monte e una o più operazioni a valle, quando i costi dei servizi fanno parte delle spese generali del soggetto passivo e, in quanto tali, sono elementi costitutivi del prezzo dei prodotti o dei servizi che esso fornisce [...]»; tuttavia in tale occasione la Corte di Giustizia ha precisato che ci deve comunque essere un nesso immediato e diretto con il complesso dell’attività economica del soggetto passivo e che l’Iva non può essere ammessa in mancanza del requisito “soggettivo”, ovvero della formalizzazione della sua attività imprenditoriale o professionale.


Iva 1 2009 109

dromici e funzionali alla futura (ed eventuale) fase di gestione, in cui verranno generate operazioni attive. Sull’argomento si è sviluppata una saga giurisprudenziale anche in ambito comunitario4, da cui è emerso l’orientamento, secondo cui «gli atti preparatori devono già ritenersi parte integrante delle attività economiche»5. La Corte di Giustizia europea, sul punto, ha precisato che le attività economiche – di cui all’art. 4, n. 1, della VI direttiva6 – possono consistere in vari atti consecutivi che si riferiscono a tutte le attività di produttore, commerciante o produttore di servizi; in tale nozione rientrano anche gli atti preparatori, qualunque forma giuridica essi assumano, funzionali all’esercizio di siffatte attività7. Peraltro, evidenzia la Corte, «sarebbe in contrasto con il summenzionato principio di neutralità dell’Iva considerare quale inizio dell’attività soltanto il momento in cui un bene comincia a produrre un reddito imponibile»8. Ed è proprio in questo senso che si pone anche la presente pronuncia della Comm. trib. prov. Latina, laddove viene precisato che «[...] alla fase preliminare di organizzazione dell’impresa va riconosciuta la natura di attività già costituente l’effettiva gestione della stessa». Gli atti preparatori devono essere apprezzati quindi come esercizio di un’attività economica9 ai fini fiscali quando rilevano i carat-

4 Corte di Giustizia CE, sentenza 14 febbraio 1985, Rompelman, in Racc. Giur. Corte di Giustizia, 1985, 665; sent. 11 luglio 1991, Lennartz, in Racc. Giur. Corte di Giustizia, 1991, 3839; sent. n. 29 febbraio 1996, Inzo, in Racc. Giur. Corte di Giustizia, 1996, I, 870; sent. 8 giugno 2000, n. C-400/1998, Breitsohl, in Guida normativa, 2000, 117, 32; sent. 8 giugno 2000, n. C-396/1998, Schloßtraße, in Giur. Imposte, 2000, 935. Si noti che nella sentenza Inzo le conclusioni a cui è giunta la Corte hanno disatteso la tesi opposta dell’avvocato generale Lenz, il quale aveva sostenuto che l’atto preparatorio non rappresenta ancora di per sé alcuna fase economica, essendo questa riconducibile alla sola fase di gestione. 5 Come è stato osservato anche in dottrina, tale affermazione si può mutuare anche in materia di imposte sui redditi, ove gli atti preparatori e di organizzazione devono essere tenuti in considerazione ai fini della determinazione del reddito netto d’impresa che sorgerà una volta avviata l’attività produttiva dei ricavi; l’inizio dell’attività d’impresa deve ricondursi quindi fin dai primi atti suscettibili di collegarsi con un nesso di strumentalità all’attività economica del soggetto e, quindi, al suo reddito (FANTOZZI, voce Impresa e imprenditore, in Enc. Giur., Roma 1989). Per un approfondimento sul punto cfr. STEVANATO, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994, 109, a cui si rinvia anche per la copiosa bibliografia. 6 L’art. 4 della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, al punto 2, (cfr. oggi art. 9, direttiva 112/2006) definisce quali attività economiche tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi; in particolare, aggiunge, «si considera attività economica un’operazione che comporti lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità». 7 Nello stesso senso anche il Ministero delle Finanze, che ha più volte affermato che l’attività d’impresa deve intendersi esercitata fin

teri concreti di questo esercizio10; ne consegue de plano che, in quanto finalizzati – sulla base delle intenzioni oggettivamente manifestate dal soggetto – al compimento di operazioni nell’ambito dell’impresa, fanno sorgere il diritto di detrazione nel momento stesso in cui sono poste in essere. L’assenza di compimento di operazioni attive e quindi il mancato impiego dei beni stessi ai fini dell’esercizio concreto dell’attività d’impresa non fa venir meno il diritto di detrazione esercitato11: visto il ruolo fondamentale della destinazione prospettica, il mero sopraggiungere di cause ostative che impediscono il concreto svolgimento dell’attività d’impresa, non determina una rettifica della detrazione effettuata12, a meno che non si rinvengano ipotesi di frode o abuso13. E, dall’analisi dei fatti alla base della decisione oggetto della presente nota, tale problema non sembra affatto sussistere, dal momento che nella fattispecie la grave patologia clinica sopravvenuta e documentata dalla parte, sembra ineccepibile, tanto che nemmeno l’amministrazione finanziaria ha sollevato dubbi in proposito. Inerenza all’esercizio dell’attività d’impresa nell’Iva (e nelle imposte sui redditi) quale condicio sine qua non per l’esercizio del diritto di detrazione Nel considerare legittimo l’esercizio del diritto di detrazione anche

dal momento in cui vengono posti in essere atti che non lasciano dubbi sulla circostanza che essi siano i primi di una lunga serie, finalizzati ad un’attività professionalmente esercitata (ris. min. 7 settembre 1998, n. 124/E e ris. min. 19 agosto 1977, n. 360210). 8 Si fa riferimento alla nota e risalente sentenza Rompelman, Corte di Giustizia CE, 14 febbraio 1985, C-268/1983, cit., 655; nello stesso senso anche la più recente Corte di Giustizia CE, 3 marzo 2005, C-32/2003,in Riv. Dir. Trib.,2005, III, 83. 9 MELIS, Atti preparatori, esercizio di attività economiche e detrazione Iva, in Riv. Dir. Trib., II, 893 (nota a Corte di Giustizia CE, 29 febbraio 1996, C-110/1994) osserva che la tesi che attribuisce rilevanza agli atti preparatori ai fini Iva appare la sola in grado di assicurare il rispetto del principio di neutralità, sul quale si fonda il funzionamento dell’imposta sul valore aggiunto, affinché l’onere dell’imposta stessa ricada sul consumatore finale. 10 Cfr. TASSANI, Detrazione Iva ed attività economiche preparatorie nell’esperienza comunitaria e nel sistema italiano, in Giur. Imposte, 2000, 1140. 11 Giova puntualizzare sul punto che la Corte di Giustizia CE (sentenza 14 febbraio 1985 C268/1983, Rompelman, cit.) ha affermato come principio generale che «incombe a colui che chiede la detrazione dell’Iva l’onere di provare che sono soddisfatte le condizioni per tale detrazione e che egli ha la qualità di soggetto passivo». La Corte di Cassazione in più sedi ha ribadito che è onere del contribuente dare la prova dell’inerenza degli acquisti all’attività imprenditoriale, ogni qual volta questa venga posta in dubbio dall’amministrazione finanziaria (Cfr. Cass., 4 febbraio 2005, n. 2300, in Giust. Civ., Mass., 2005, 2; Cass., 10 aprile 2000, n. 4517, in Riv. Giur .Trib., 2000, 990, con nota di COMELLI, Sull’onere della prova ai fini della detrazione Iva). Parzialmente difforme Cass., 21 dicembre 1999, n. 14350, in Riv. Giur. Trib., 2000, 583, con nota di COMELLI, Inerenza ai fini dell’Iva e onere della prova, che ritiene non do-

vuta la prova del contribuente laddove il bene acquisito risulti per sua natura necessariamente correlato all’esercizio d’impresa. 12 Tuttavia occorre puntualizzare che la tendenza prospettica deve essere non solo intrinseca, collegata cioè alla natura del bene, ma anche confermata dalla “buona fede”, dall’atteggiamento complessivo dell’operatore. Sulla rilevanza della buona fede vedasi anche Corte di Giustizia CE, 21 marzo 2000, C-110/1998, in Riv. Giur. Trib., 2000, 764, con nota di CENTORE, Diritto alla detrazione e concetto di “inizio di attività professionale”. Sul disconoscimento della detrazione nelle ipotesi in cui si ravvisino comportamenti fraudolenti da parte del contribuente che finga di voler iniziare un’attività, la Corte di Giustizia si è infatti pronunciata più volte: Corte di Giustizia CE, 29 febbraio 1996, C110/1994, cit.; Corte di Giustizia CE, 3 marzo 2005, C-32/2003, cit.; Corte di Giustizia CE, 8 giugno 2000, C-400/1998, cit. 13 Sul punto la Corte di Giustizia (8 giugno 2000, C-396/98, Schloßtraße, cit., 935) si è espressa ritenendo che, qualora il mancato o diverso utilizzo dei beni che hanno dato luogo a detrazione sia dovuto a circostanze estranee alla volontà del soggetto passivo, il diritto alla detrazione rimane acquisito, essendo in tali ipotesi escluso il rischio di frodi o abusi. È stato tuttavia osservato che subordinare la spettanza o meno del diritto di detrazione all’individuazione di «circostanze estranee alla volontà del soggetto passivo» può destare qualche perplessità per la difficoltà di individuazione di tali ipotesi e la discrezionalità ravvisabile in un siffatto tipo di valutazioni. TASSANI, Detrazione Iva ed attività economiche preparatorie nell’esperienza comunitaria e nel sistema italiano, cit., 1145, nel muovere alcune critiche verso tale orientamento della Corte di Giustizia, osserva che sembrerebbe più appropriato individuare elementi obiettivi che confermano l’intenzione di voler effettuare successivamente l’attività economica ed il compimento di operazioni attive.


110

GiustiziaTributaria

1 2009

in assenza di operazioni attive, la Comm. trib. prov. Latina precisa che condizione imprescindibile è invece l’inerenza dell’acquisto all’attività imprenditoriale. È necessario quindi verificare, oltre alla soggettività passiva, un quid pluris, ovvero la sussistenza dell’inerenza delle operazioni passive alle finalità imprenditoriali. Com’è noto, la detrazione è ammessa per l’Iva assolta su acquisti “inerenti” all’attività d’impresa e tale legame deve sussistere, come peraltro chiariva la relazione ministeriale al D.P.R. 633/1972, al fine di evitare abusi fruendo della detrazione per beni acquisiti da soggetti Iva, in veste però di consumatori finali14. Non esiste però una formula astratta, individuabile a priori, che definisca l’inerenza, ma se ne dovrà verificare la sussistenza caso per caso15; non va misurata la necessità o l’utilità di un determinato costo rispetto all’attività dell’impresa, che è giudizio economico ed insindacabile scelta imprenditoriale, né, come ormai sembra pacifico, pare possibile far valere la presunzione di cui all’art. 4, n. 2, D.P.R. 633/1972, la quale riconduce (presunzione iuris et de iure) nell’area dell’esercizio dell’impresa tutte le operazioni compiute da società ed enti commerciali. Gli acquisti effettuati da una società commerciale non sono in ogni caso “inerenti” all’attività d’impresa per il solo fatto che sono acquisti di una società commerciale16. L’inerenza si determina verificando l’eventuale sussistenza, in un’ottica prospettica, di finalità imprenditoriali, e non personali, di un certo acquisto di beni o servizi; è una qualità del bene o servizio oggettivamente considerato, previa sua riferibilità al determinato soggetto passivo. La pronuncia della Comm. trib. prov. Latina afferma che «l’ine-

14 Come osserva CORDEIRO GUERRA, L’imposta sul valore aggiunto, in RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte Speciale, Milano, 2002, 235, la ratio della detrazione porterebbe ad un’applicazione il più possibile generale ed integrale di tali regole; tuttavia numerose sono le limitazioni a tale diritto. 15 In senso conforme, nel ritenere necessaria una verifica “caso per caso”, COMELLI, Iva comunitaria e Iva nazionale, Padova, 2002, 687; nonché LUPI, voce Imposta sul valore aggiunto, in Enc. Giur., XVI, Roma, 1989, 17, il quale precisa che un acquisto non è “inerente” o non “inerente” in assoluto, ma bisogna considerare dimensioni e modalità di esplicazione dell’attività svolta. 16 Cfr. sul punto la recente Cass., 23 gennaio 2008, n. 1421, in banca dati Jurisdata, ove la Suprema Corte afferma che l’inerenza all’esercizio dell’impresa delle operazioni passive non può essere ritenuta in virtù della semplice qualità di imprenditore societario, ma occorre accertare che le operazioni passive siano in stretta connessione con le finalità imprenditoriali. Nello stesso senso anche Cass., 24 febbraio 2001, n. 2729, in Boll. Trib., 2003, 1026; Cass., 10 aprile 2000, n. 4517, cit.; Cass., 9 aprile 2003, n. 5599, in Riv. Dir. Trib., II, 2004, 455, con nota di SALA, Alcune riflessioni sull’esercizio di impresa ed il diritto alla detrazione Iva. Tuttavia anche tale posizione non è scevra da dubbi: c’è chi rileva infatti che la presunzione di cui al summenzionato art. 4, n. 2, dovrebbe valere anche ai fini della detrazione ex art. 19, perché altrimenti «essendo sempre applicabile l’Iva alle cessioni, si avrebbe una duplicazione del prelievo, in contrasto con il principio della neutralità del tributo e con la sua ratio di imposta sul consumo» (cfr. in questo senso FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2005, 602).

renza di un’operazione ai fini Iva comporta solo la necessità che la stessa sia funzionale all’attività imprenditoriale formalizzata nell’oggetto per l’apertura della partita Iva o sociale»; non viene richiesto quindi l’esercizio concreto dell’attività, né l’inerenza riguarda un rapporto particolare tra acquisto del bene e relativa operazione imponibile generata, ma una più generica destinazione prospettica del bene o servizio all’attività economica17. Il che però si traduce nella verifica della riconducibilità alla sfera imprenditoriale e non a quella personale, nel caso di imprenditore persona fisica, ovvero, in caso di ente collettivo, nella riferibilità meramente soggettiva dell’acquisto del bene o servizio. Nell’ordinamento interno, ante D.Lgs. n. 313/1997, la condizione per la detraibilità sembrava configurabile nella generale idoneità del bene (o servizio) acquisito ad essere utilizzato nell’ambito dell’attività produttiva; era sufficiente quindi che l’acquisto dei beni fosse effettuato nell’esercizio dell’attività del soggetto passivo, non essendo richiesto alcun altro nesso18. Con il D.Lgs. n. 313/199719, ai fini di una maggiore aderenza con i principi comunitari20, il legislatore italiano ha inteso precisare, seppur in negativo21, il legame che deve sussistere tra acquisti ed operazioni attive, prevedendo l’indetraibilità dell’Iva qualora i beni acquisiti “afferiscano” ad operazioni esenti o non soggette ad Iva, lasciando però immutato il principio generale di cui al comma 1 dell’art. 19, in cui è disposta la regola della detrazione laddove gli acquisti siano effettuati nell’esercizio dell’impresa ed introducendo limitazioni al diritto de quo al ricorrere di determinate condizioni22. In altri termini, il sistema attualmente vigente, ai fini dell’eserci-

17 Per un rinvio alla giurisprudenza di merito, in relazione alla necessità dell’inerenza all’esercizio dell’attività economica del soggetto passivo ai fini del diritto di detrazione, senza il necessario concreto utilizzo, si veda anche Comm. trib. reg. Trieste, 10 maggio, 1997, in Rass. Trib., 1997, 993, con nota di STEVANATO, Acquisti “destinati” all’impresa. È necessario l’utilizzo effettivo del bene per la detrazione Iva? 18 Cfr. sul punto SALVINI, La detrazione Iva nella sesta direttiva e nell’ordinamento interno: principi generali, in Studi di onore di Victor Uckmar, II, Padova, 1997, 1054 (e in Riv. Dir. Trib., 1998, I, 146 ss.), 949, la quale sostiene che nella normativa interna non è previsto l’utilizzo del bene o servizio acquistato quale condizione della detrazione, essendo sufficiente che l’acquisto sia effettuato nell’esercizio dell’attività d’impresa. Conforme, nel senso di ritenere sufficiente una relazione indiretta tra acquisto e attività del soggetto passivo, Cass., 19 marzo 1992, n. 3419, in Boll. Trib., 1992, 1625; Comm. trib. centr., 21 gennaio 1986, n. 521, in Rass. Trib., 1986, II, 669. Contra, Cass., 5 ottobre 1992, n. 10919, in Boll. Trib., 1993, 609, secondo cui l’inerenza consiste nella funzionalità diretta del bene o servizio acquisito all’esercizio di impresa. 19 Con l’art. 3 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 il governo era stato delegato a rivedere la disciplina delle detrazioni, nell’ottica di un più puntuale adeguamento alla normativa comunitaria. Con il relativo D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 313 sono state pertanto apportate significative modifiche alla disciplina sostanziale delle detrazioni. 20 Si precisa infatti che secondo quanto disposto dall’art. 17 della VI direttiva CEE, la detrazione del tributo compete nell’an e nel quantum in relazione all’impiego dei beni. Il riferi-

mento all’“impiego” e all’“utilizzo” del bene, presente nel testo comunitario, sembrerebbe presupporre quindi una precisa correlazione con l’utilizzazione del bene in attività soggette ad Iva ed istituire una diretta proporzione tra il quantum della deduzione e l’utilizzo in operazioni soggette ad Iva. 21 STEVANATO, Detrazione Iva a seguito del D.Lgs. n. 313/1997, in Riv. Dir. Trib., 1998, I, 943, osserva come sia diverso affermare il diritto a detrazione in base al principio dell’inerenza all’impresa rispetto al subordinare la detraibilità alla (destinazione) degli acquisti in specifiche operazioni imponibili: l’aver sancito una “inerenza in negativo” – anziché una detraibilità collegata “in positivo” all’effettuazione di specifiche operazioni imponibili – tende ad essere una soluzione molto più flessibile. 22 Limitazioni al diritto di detrazione sono previste non solo per il caso di acquisto di beni o servizi utilizzati in via esclusiva per l’effettuazione di operazioni esenti o estranee al campo di applicazione del tributo, ma anche in caso di acquisto di beni e servizi utilizzati promiscuamente. Sul punto giova rilevare che la previsione dell’imputazione specifica per le ipotesi di utilizzo promiscuo, disciplinata al comma 4 dell’art. 19, D.P.R. 633/1972, è stata da alcuni definita un “errore grossolano” del legislatore italiano che non avrebbe tenuto conto di alcuni orientamenti della Corte di Giustizia: quest’ultima infatti, con sentenza dell’11 luglio 1991 C-97/1990, Lennartz, cit., affermava che in caso di utilizzazione promiscua dei beni non viene meno il diritto alla integrale deduzione, ma sorge l’obbligo dell’imponibilità dell’utilizzazione della destinazione ad uso privato (BOSELLO, L’attuazione delle direttive comunitarie in materia di Iva: l’esperienza italiana,in Riv. Dir. Trib., 1997, I, 710).


Iva 1 2009 111

zio del diritto alla detrazione Iva richiede innanzitutto l’inerenza del bene – seppur prospettica – all’esercizio d’impresa rispettando quanto disposto al comma 1 dell’art. 19, in cui sembra risiedere detto noto concetto; una volta verificato tale requisito, la detrazione dell’imposta può essere esercitata sempre che la fattispecie concreta non afferisca23 ad operazioni destinate ad essere non soggette all’imposta o esenti (comma 2, art. 1924). Ai fini della detrazione quindi non è richiesta una necessaria riferibilità specifica ad elementi che generano “materia imponibile”, bensì una relazione causale tra il bene stesso ed il suo utilizzo potenziale e prospettico25 nell’esercizio dell’attività del soggetto passivo. Peraltro, giacché la valutazione al momento dell’esercizio del diritto è di tipo programmatico (in quanto, si ribadisce, da effettuarsi prima del concreto utilizzo26), per tener conto dell’effettivo impiego del bene o servizio acquisito ed evitare abusi, è stato previsto un meccanismo di rettifica dell’imposta detratta: tale strumento si è reso necessario per far coincidere quanto detratto inizialmente con quanto spettante in misura definitiva, qualora i beni o servizi siano effettivamente utilizzati per operazioni che danno diritto alla detrazione in misura diversa da quella inizialmente operata, come si avrà modo di approfondire nel paragrafo successivo. Da ultimo, si sottolinea come l’inerenza non sia principio caratterizzante il solo tributo Iva, ma costituisca elemento essenziale anche ai fini della deduzione dei costi nelle imposte sui redditi27. Tuttavia, mentre per quanto concerne l’Iva il concetto di inerenza può farsi risiedere nell’art. 19, comma 1, del D.P.R. 633/1972, in materia di imposte sui redditi non si rinviene una disposizione specifica che richieda l’inerenza dei costi per una loro deducibilità28, benché essa sia chiaramente presupposta e sicuramente vigente in seno al T.U.I.R. L’art. 109, comma 5, cui spesso si fa riferimento, attiene invece al distinto, ma connesso, profilo della riferibilità dei componenti negativi ad attività imponibili; il giudizio sull’inerenza del costo è quindi prodromico rispetto al successivo vaglio della deducibilità dei costi afferenti all’imponibilità o meno dei correlati proventi. Effettuando un parallelismo con il sistema normativo dell’Iva, tale concetto è assimilabile con l’“affe-

23 La scelta del termine “afferenza” da parte del legislatore italiano e la formulazione “in negativo” del disposto normativo di cui all’art. 19, comma 2, è stata molto discussa, generando dubbi sull’esatta portata da attribuirvi. Si rinvia per un approfondimento ed un commento a tale nozione a FAZZINI, Il diritto di detrazione nel tributo sul valore aggiunto, Padova, 2000, 74; DUS, Le modifiche strutturali dell’Iva introdotte con il D.Lgs. n. 313/1997, cit., 2928; STEVANATO, Detrazione Iva a seguito del D.Lgs. n. 313/1997, cit., 948; SALVINI, La detrazione Iva nella sesta direttiva e nell’ordinamento interno: principi generali, cit., 1071; GIORGI, Detrazione e soggettività passiva nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005, 295. 24 Non del tutto condivisibile pare la conclusione cui è giunta di recente la Corte di Cassazione (7 maggio 2008, n. 11121), che ha riconosciuto spettante il diritto di detrazione dell’Iva assolta su acquisti effettuati in assenza di operazioni attive nell’esercizio, benché il contribuente avesse come oggetto sociale un’attività che comporta il compimento di operazioni esenti, conformi all’oggetto sociale (casa di riposo per anziani). 25 Come ha osservato anche FILIPPI, L’imposta sul valore aggiunto, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, IV, Padova, 1994, 245, non si richiede per la detrazione

renza” desumibile a contrario all’art. 19, comma 2-bis. Volendo avvicinare quindi i due sistemi impositivi, Iva e imposta sui redditi, si può osservare che l’inerenza, assunta nei termini sopra descritti, intesa cioè quale rapporto causale con l’esercizio dell’attività imprenditoriale e non quale connessione specifica del costo a ricavi imponibili, paiono assumere gli stessi connotati29. I possibili strumenti di correzione della detrazione esercitata e la destinazione dei beni (e dei servizi?) a finalità estranee all’esercizio d’impresa Infine, sembra utile un’ultima annotazione ai margini della presente sentenza, anche se riguarda una questione solo accennata dal Collegio giudicante e non determinante ai fini della risoluzione della controversia de qua: in particolare, si fa riferimento all’emissione della fattura di “autoconsumo”, a seguito della cessazione dell’attività d’impresa. Nel caso di specie, al verificarsi dell’evento ostativo che ha comportato la cessazione dell’attività, la parte ricorrente, in relazione agli immobili acquisiti e per i quali era stato esercitato “a monte” il diritto di detrazione in quanto vi sussistevano i presupposti, ha ritenuto opportuno, mutandone la destinazione, emettere una fattura di “autoconsumo”, rientrando la fattispecie nella previsione dell’art. 2, comma 2, n. 5, del D.P.R. 633/1972, e generando quindi l’emersione di materia imponibile. Ebbene, com’è noto, il meccanismo della detrazione previsto dall’art. 19 del D.P.R. 633/1972, è finalizzato – unitamente alla rivalsa – a rendere “neutrali” i passaggi intermedi del ciclo economico, affinché il soggetto definitivamente inciso dal tributo resti il consumatore finale. Le modifiche apportate dalle norme che si sono susseguite nel tempo per avvicinare la disciplina nazionale a quella comunitaria30, non hanno mutato gli aspetti essenziali del meccanismo applicativo del tributo; in particolare è rimasto immutato il momento in cui sorge la spettanza del diritto di detrazione, che si caratterizza per la sua “immediatezza”. Il dies a quo31 è collegato quindi al momento in cui l’imposta diviene esigibile, in attuazione dell’art. 17, par. 1 della sesta direttiva, secondo il quale «il diritto a deduzione nasce quando l’imposta deducibile diventa

che il bene venga effettivamente utilizzato ma che vi sia una correlazione tra l’attività esercitata dal soggetto passivo ed i beni e servizi acquistati che devono necessariamente inerire all’impresa, arte o professione. 26 STEVANATO, Acquisti “destinati” all’impresa. È necessario l’utilizzo effettivo del bene per la detrazione Iva?, cit., 736, osserva che in un sistema in cui è prevista la detrazione immediata dell’imposta al momento dell’acquisto (principio dell’immediatezza), non è possibile attendere che il bene venga effettivamente utilizzato nell’impresa per operare la detrazione; ciò conduce, quasi per necessità logica, ad una concezione dell’inerenza nei termini “programmatici”. 27 TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, 258, precisa che il collegamento del componente reddituale all’attività dell’impresa non può ritenersi soltanto di carattere economico, inteso cioè quale riferibilità del fatto di gestione al tipo di attività svolta dall’impresa, ma dovrà anche presentare carattere giuridico. Il componente reddituale dovrà porsi, cioè, oltre che economicamente in relazione con l’attività economica dell’impresa, quale modificazione in senso giuridico del patrimonio imprenditoriale. 28 Cfr. ZIZZO, Regole generali sulla determina-

zione del reddito d’impresa, in L’imposta sul reddito delle persone fisiche, Giur. Sist. Dir. Trib., diretta da Tesauro, Torino, 1994, 557. In senso conforme anche TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, cit., 258; BORIA, Il concetto di inerenza e le spese promozionali, in Riv. Dir. Trib., 1992, I, 413; TESAURO, Esegesi delle regole generali sul calcolo del reddito d’impresa, in AA.VV., Commentario al Testo unico delle imposte sui redditi ed altri scritti, Roma-Milano, 1990, 229. Per un approfondimento, oltre ai succitati, vedasi anche MARELLO, Involuzione del principio di inerenza?, in Riv. Dir. Fin., 2002, I, 480, cui si rinvia anche per la copiosa bibliografia. 29 Sull’avvicinamento del concetto di inerenza in materia di imposte sui redditi a quello riferibile in materia di Iva, cfr. anche TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, II, Torino, 2005, 240; DUS, Le modifiche strutturali dell’Iva introdotte con il D.Lgs. n. 313/1997, cit., 2929. 30 Si fa riferimento in particolare al D.Lgs. 313/1997, che ha modificato in parte la disciplina sostanziale delle detrazioni (cfr. nota 19). 31 Il dies ad quem è costituito invece dalla data di presentazione della «dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto», come stabilito dall’art. 19, comma 1, secondo periodo, del D.P.R. 633/1972.


112

GiustiziaTributaria

1 2009

esigibile» e, di conseguenza, è possibile esercitare tale diritto già all’atto dell’acquisto del bene o servizio, senza doverne attendere il concreto utilizzo32. Ciò sembrerebbe condurre alla totale irrilevanza dell’impiego del bene, rispetto al diritto di detrazione, ma, ove così fosse, si configurerebbe una distonia con quanto rinvenibile nello stesso art. 17, par. 2, della direttiva n. 77/388 CEE del 17 maggio 1977, in cui è previsto che la deduzione spetta «nella misura in cui i beni e i servizi sono utilizzati [...]33». Al fine di armonizzare la coesistenza di tali due esigenze, ovvero il permanere dell’“immediatezza” quale momento temporale rilevante ai fini dell’esercizio della detrazione e la connessione che deve sussistere con l’effettivo utilizzo dei beni, sono stati previsti dal legislatore dei meccanismi di rettifica al fine di assicurare la coerenza e la simmetria del sistema34. In altri termini, laddove ad una prima valutazione prospettica in cui si ritenga di detrarre totalmente l’Iva assolta sulle operazioni passive, susseguano mutamenti di condizioni per cui non risulta più corretto il comportamento adottato a monte, è necessario intervenire e “correggere” la detrazione effettuata. È in questa logica che si innesta il meccanismo della rettifica della detrazione, utilizzato nei casi in cui esista un mutamento nell’impiego prospettico del bene nella effettuazione di operazioni soggette all’imposta; diversamente, l’autoconsumo (esterno)35, conformemente a quanto previsto anche dalla normativa comunitaria36, risponde all’esigenza di ripristinare la simmetria del sistema laddove venga meno l’inerenza dei beni all’attività dell’impresa, che ne aveva giustificato a monte la detrazione all’atto dell’acquisto. Senza scendere nel dettaglio delle aree applicative dei due meccanismi, l’uno previsto all’art. 19, comma 2-bis, l’altro all’interno dell’art. 2, comma 2, n. 5, è opportuno rilevare in questa sede che proprio l’esistenza di tali meccanismi “regolatori” si pone anche in un’ottica di contrasto ad eventuali utilizzi distorsivi del meccanismo della detrazione Iva assolta sugli acquisti di beni, effettuati da soggetti passivi Iva, al solo fine di detrarre l’Iva sugli

32 La relazione al decreto legislativo n. 313/1997 in attuazione dell’art. 3, comma 66, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, precisa che la detrazione deve continuare ad avvenire al momento dell’acquisto dei beni e servizi, compresi quelli ammortizzabili, senza quindi attendere il materiale impiego dei suddetti beni. Seppure per effetto di una norma letteralmente assai diversa da quella contenuta nella summenzionata direttiva, anche l’ordinamento interno è ispirato quindi al principio della detrazione immediata; così SALVINI, La detrazione Iva nella sesta direttiva e nell’ordinamento interno: principi generali, cit., 1054. Sul principio comunitario della deduzione immediata vedasi anche FAZZINI, Il diritto di detrazione nel tributo sul valore aggiunto, cit., 54; GIORGI, Detrazione e soggettività passiva nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, cit., 268; STEVANATO, Detrazione Iva a seguito del D.Lgs. n. 313/1997, cit., 950. Sulla nozione di “esigibilità del tributo”, quale momento in cui nasce il diritto di detrazione, CORDEIRO GUERRA, Fatto generatore, esigibilità dell’Iva ed incasso del prezzo secondo la Corte di Giustizia: spunti per una revisione della disciplina italiana, in Riv. Dir. Trib., 1996, II, 449. 33 Si precisa che tale formulazione letterale è rimasta immutata nella nuova direttiva Iva 28 novembre 2006, n. 112/2006, art. 168 ss. 34 La stessa relazione governativa al D.Lgs. 313/1997, che ha profondamente modificato il

acquisti, senza aver mai avuto l’intenzione di svolgere effettiva attività d’impresa, ma di perseguire fini personali mediante raggiri ed indebiti risparmi d’imposta. L’assenza di operazioni attive, se considerata singolarmente, così come il fatto che le operazioni passive siano riferite all’attività prodromica all’esercizio effettivo dell’attività d’impresa, non devono essere ostativi all’esercizio del diritto di detrazione, che rimane acquisito: la simmetria del tributo e le logiche interne sembrano non essere minate, giacché i meccanismi di correzione sopra visti dovrebbero assicurare la coerenza del sistema. Indi, anche analizzando la fattispecie de qua da una diversa angolazione, trova conferma la correttezza della conclusione cui è giunto il Collegio giudicante: e ciò non solo per il sussistere della spettanza del diritto di detrazione nelle “attività preparatorie” anche in assenza di effettivo esercizio dell’attività imponibile, come si è ampiamente commentato nella presente nota, ma anche per gli adempimenti assunti dalla parte ricorrente al sopraggiungere dell’evento ostativo che ha impedito l’effettivo esercizio dell’attività. Vi è da chiedersi, piuttosto, se in assenza di tale adempimento (emissione di fattura di autoconsumo), la detrazione esercitata si debba considerare ugualmente spettante o meno. Come sopra precisato, tale elemento infatti non è stato determinante nell’ambito della controversia de qua, giacché i giudici si sono solo limitati ad osservare che l’ufficio non ha preso posizione sulla emissione dell’autofattura da parte della ricorrente37. Giova a questo punto precisare che nell’attuazione di tali meccanismi di rettifica, potrebbero verificarsi delle distorsioni applicative: un indebito risparmio d’imposta si potrebbe ravvisare laddove vengano assunti valori minimi, irreali, quale base imponibile della fattura di autoconsumo; inoltre, l’assenza di una simmetrica disposizione che consideri, come nel caso della cessione di beni, “autoconsumo esterno” anche per le prestazioni di servizi nelle ipotesi di cessazione dell’attività, potrebbe indurre, a prima vista, a considerare irrazionale tale scelta legislativa (o una mancanza di pre-

sistema delle detrazioni, evidenzia come la rettifica della detrazione «trae la sua giustificazione sia dal fatto che la detrazione è dalla legge accordata con carattere di immediatezza, senza cioè attendere l’effettivo impiego degli acquisti, sia dal fatto che alcun beni e servizi formano oggetti d utilizzazione pluriennale da parte del soggetto passivo». 35 È opportuno precisare che, a seconda che l’utilizzazione avvenga per l’espletamento dell’attività dell’impresa, ovvero per esigenze estranee all’attività medesima, si configura l’autoconsumo interno, ovvero quello esterno. In altri termini, laddove il soggetto d’imposta utilizza nella propria impresa, anche se in stabilimenti diversi o presso terzi, un bene o una materia prodotta dall’impresa stessa, si ha un autoconsumo “interno”, il quale non assume rilevanza ai fini impositivi all’interno del nostro ordinamento, in quanto considerato di trascurabile importanza pratica. Diversamente, l’“autoconsumo esterno”, che si concreta nella destinazione di beni al consumo o all’uso personale o familiare del soggetto d’imposta, nonché ad altre finalità estranee all’esercizio dell’attività economica gestita dallo stesso soggetto, genera emersione di materia imponibile, come previsto dall’art. 2, comma 2, n. 5, D.P.R. 633 del 1972. 36 Nell’art. 5, par. 6, della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE (oggi cfr. art. 16 della direttiva 2006/112/CE), si legge che «è assimi-

lato ad una cessione a titolo oneroso il prelievo di un bene dalla propria impresa da parte di un soggetto passivo il quale lo destina al proprio uso privato o all’uso del suo personale o lo trasferisce a titolo gratuito o, più generalmente, lo destina a fini estranei alla sua impresa, quando detto bene o gli elementi che lo compongono hanno consentito una deduzione totale o parziale dell’imposta sul valore aggiunto». La giurisprudenza comunitaria ha osservato, in più occasioni, che «l’obiettivo dell’art. 5, par. 6, della sesta direttiva consiste in particolare nel garantire una parità di trattamento tra il soggetto passivo che prelevi un bene della sua impresa per fini privati e un consumatore ordinario che acquisti un bene dello stesso tipo» (cfr. in questo senso Corte di giustizia CE, 27 aprile 1999, n. C-48/1997, punto 21; 6 maggio1992, causa C-20/1991, De Jong, in Racc. Giur. Corte di Giustizia, I, 2847, 15; 26 settembre 1996, n. C-230/1994, Enkler, in Racc. Giur. Corte di Giustizia, I, 4517, 33). 37 La Commissione tuttavia ha colto l’occasione per puntualizzare che l’autoconsumo si applica per la «dismissione dei beni già utilizzati nell’esercizio d’impresa, destinati ad una finalità che, per sua natura (essendo estranea all’impresa) non produce valore aggiunto», arrivando alla conclusione che «la negazione del diritto di detrazione o al rimborso determinerebbe un indebito arricchimento dell’amministrazione finanziaria».


Iva 1 2009 113

visione). La presenza di questi vulnus parrebbe quindi rendere l’assetto meno stabile di quanto detto innanzi, lasciando degli spazi su cui potrebbero innestarsi possibili utilizzi distorsivi degli istituti sopra menzionati. Nondimeno, analizzando le due diverse quaestiones, si osserva in primo luogo che il rischio di manovre evasive è ostacolato dalla previsione normativa di cui all’art. 13, comma 2, lett. c del D.P.R. 633/1972, ove è disposto che la base imponibile per le ipotesi dell’autoconsumo è costituita dal “valore normale dei beni e delle prestazioni”: viene legislativamente previsto così un modus procedendi per la quantificazione del valore del bene, senza lasciare che questo ricada nella libera discrezionalità delle parti, prestandosi in tal’ultimo caso a possibili raggiri al fine di ottenere risparmi indebiti d’imposta38. Sulla seconda questione, relativa alla mancanza nella normativa nazionale di una previsione per le prestazione di servizi di ipotesi di “auotoconsumo” ed emersione di materia imponibile laddove vi sia cessazione dell’attività, si osserva quanto segue: in ambito comunitario, all’art. 26 della direttiva 28 novembre 2006, n. 112, è prevista l’assimilazione alle prestazioni di servizio a titolo oneroso delle attività prestate, anche a titolo gratuito, dal soggetto passivo per il proprio uso privato o per l’uso del suo personale o, più generalmente, per fini estranei alla sua impresa. Nell’ambito della disciplina nazionale, similmente, l’art. 3, comma 3, dispone che anche le prestazioni di servizio svolte a titolo gratuito per «ogni operazione di valore superiore a lire cinquantamila [...] anche se effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore, ovvero a titolo gratuito per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa», integrino il presupposto oggettivo dell’Iva. In via generale, quindi, anche l’autoconsumo esterno di servizi si configura quale ipotesi di prestazione imponibile39; tuttavia la questione presenta dei profili più problematici di applicabilità laddove vi sia cessazione dell’attività: in tale ipotesi infatti ci si chiede se la prestazione di servizio, consulenza, noleggio, ecc., acquisita nell’esercizio dell’impresa si debba comunque considerare assoggettabile ad Iva in ipotesi di cessazione dell’attività, in quanto caso di “autoconsumo esterno di servizi”, pur in assenza di una specifica previsione. Al proposito è interessante por mente alla pronuncia della Cassazione n. 8583 del 15 febbraio 2006, in cui si confermava il diritto di detrazione per l’Iva assolta su acquisti inerenti e prodromici all’attività d’impresa (nel caso di specie, si trattava in via principale di consulenza e progettazione – oltre che acquisto del terreno – per l’edificazione di fabbricati) in assenza di operazioni attive. In tal caso, la Suprema Corte si è focalizzata sui requisiti che dovevano possedere tali acquisti, per ammettere la detraibilità dell’Iva: non ravvisandosi intenti elusivi o frodatori nella cessazione dell’attività d’impresa senza compimento di alcuna operazione attiva, il diritto alla detrazione si è ritenuto acquisito definitivamente. Nell’intera vicenda non si rinviene quindi alcun riferimento in relazione all’eventuale necessità di assoggettare tali prestazioni al tributo per “autoconsumo esterno”, né sembra potersi desumere dalla descrizione dei fatti che sia stata emessa alcuna autofattura, ovvero che si sia forma-

38 La giurisprudenza sul punto ha precisato che «ove l’imprenditore destini un bene aziendale a consumo personale, l’imposta sul valore aggiunto deve essere ragguagliata al valore normale del bene cioè al suo valore di mercato; tale valore può formare oggetto di accertamento da parte dell’ufficio, cui è consentito dimostrare che la somma indicata dall’imprenditore in sede di fatturazione per autoconsumo è inferiore al valore normale del bene» (cfr. Cass., 5 aprile 2006, n. 12322, in Giust. Civ., 2006, 5).

lizzato alcun caso di assegnazione di beni ai soci, né alcuna eccezione di questo tipo sembra essere stata sollevata dall’amministrazione finanziaria. L’autoconsumo deve intendersi infatti quale meccanismo di regolazione a chiusura del sistema e con valenza antielusiva, con la funzione di mantenere la simmetria nell’imposizione: nel caso dell’acquisto delle prestazioni di servizio nell’ambito delle attività d’impresa sembra difficile potersi configurare una ipotesi in cui la cessazione dell’attività d’impresa comporti “autoconsumo esterno”, in quanto non si presta per sua natura ad essere acquisita con lo scopo di essere finalizzata in un secondo momento a fini personali. La mancanza di una espressa disciplina che preveda una ipotesi di autoconsumo per le prestazioni di sevizi nei casi di cessazione dell’attività non dovrebbe essere considerata quindi una dimenticanza del legislatore, ma una voluta assenza di previsione, in quanto ritenuta non necessaria. Il diritto alla detrazione, in ogni caso, viaggia su binari propri e richiede un giudizio autonomo, come testimonia la sentenza de qua, alla stessa stregua di altre pronunce giurisprudenziali; è rilievo autonomo e distinto l’eccezione eventualmente sollevabile per la mancata emissione di fattura di autoconsumo e il relativo assoggettamento ad imposizione del bene destinato a finalità estranee all’attività imprenditoriale nel caso di cessazione dell’attività. Conclusioni Non si rilevano difformità nella pronuncia emessa dalla Commissione provinciale di Latina rispetto a quanto già ribadito in sede comunitaria e dalla giurisprudenza di legittimità: indubbia la legittimità della detrazione esercitata in relazione agli acquisti inerenti effettuati nell’attività d’impresa, pur in assenza di operazioni attive. Irrilevante ai fini di tale giudizio, anche se corretto, il comportamento tenuto dalla parte ricorrente, nell’emissione della fattura di autoconsumo all’atto di cessazione dell’attività imprenditoriale. Non sussistendo intenti elusivi o comportamenti frodatori è illegittimo negare la detrazione dell’Iva assolta per il solo fatto che a causa di una sopravvenuta patologia clinica il soggetto non abbia potuto mai esercitare l’effettiva attività d’impresa. Infondata anche l’eccezione dell’ufficio che considera tali acquisti effettuati “in proprio” per il solo fatto che il bene, a conclusione della complessa vicenda, è stato destinato al “consumo” personale dell’imprenditore. L’acquisto è comunque avvenuto da parte di un soggetto passivo Iva, formalmente identificato, nell’esercizio della sua attività d’impresa (anche se solo attività preparatoria) e, com’è stato opportunamente provato dalla parte ricorrente, sussistevano sia i presupposti soggettivi che oggettivi per la legittima detrazione dell’Iva; la causa di forza maggiore sopravvenuta non è certo idonea a mutare tale giudizio di correttezza, tanto più che il contribuente, ha provveduto ad assoggettare ad imposizione il bene fuoriuscito dall’ambito dell’attività d’impresa per mutamento di destinazione, in ossequio a quanto disposto dalle norme dettate in materia di Iva.

39 Per un approfondimento sulla disciplina dell’“autoconsumo esterno” per le prestazioni di servizi si rinvia a REDA, Autoconsumo di servizi, in Boll. Trib., 1996, 281; GIORGI, Detrazione e soggettività passiva nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, cit., 457. È stato osservato al proposito che la disciplina interna non sembra essere pienamente conforme alla disciplina comunitaria, in quanto da un lato tale forma di autoconsumo è prevista per la sola attività d’impresa e dall’altro è prevista anche in riferimento alle “prestazio-

ni di servizi” effettuate attraverso il riaddebito dei costi di servizi, quando nella disciplina comunitaria l’autoconsumo di servizi può essere originato soltanto dal temporaneo venir meno della condizione di inerenza di beni all’attività. Si rinvia comunque per talune osservazioni sull’argomento a CENTORE, Anche i professionisti soggetti all’autoconsumo Iva, in Corr. Trib., 1992, 2400; CARPENTIERI, L’irrilevanza Iva dell’autoconsumo di servizi: una ingiustificata asimmetria del sistema, in Rass. Trib., 1995, 119 ss.


114

GiustiziaTributaria

1 2009

Peraltro si osservi che, laddove si convenisse, per denegata ipotesi, con la tesi dell’amministrazione finanziaria e si ritenesse non spettante il diritto di detrazione esercitato a monte dalla ricorrente in relazione agli acquisti effettuati, verrebbe infranta la simmetria del sistema, giacché se da un lato si nega la detrazione dell’Iva sull’acquisto di beni, in quanto considerati quali “acquisti in proprio” effettuati da consumatori finali incisi dall’Iva, dall’altro lato non si può assoggettare una seconda volta ad imposizione lo stesso bene per “autoconsumo”, giacché i beni non si possono considerare mai entrati nel “mondo impresa” secondo questa ipotesi e quindi non si potrà realizzare il presupposto di cui all’art. 2, comma 2, n. 5. Indi, al fine di rispettare la simmetria e la logica del sistema Iva, considerare indebita la detrazione esercitata sull’Iva assolta in re-

40Non è questa la sede per approfondire la delicata questione del rimborso da indebito in ambito Iva, ma ci si limita ad osservare brevemente che il rimborso Iva che si prefigurerebbe nell’ipotesi sopra delineata, sarebbe un caso di rimborso “da indebito”, la cui disciplina non è rinvenibile in alcuna norma all’interno del decreto Iva. È noto infatti che il rimborso “fisiologico” dell’Iva (il credito cioè non derivante da indebito), è disciplinato dall’art. 30 del D.P.R. 633/1972, e rappresenta lo strumento necessario per assicurare la neutralità del prelievo; per la diversa ipotesi del rimborso “da indebito”, invece non vi è una disciplina specifica (se non sotto il profilo della rettifica delle inesattezze della fatturazione o della registrazione di cui all’art. 26 del decreto

lazione agli acquisti inerenti, fa sorgere dall’altro lato un diritto al rimborso dell’Iva versata in relazione alla cessione per autoconsumo. Come osservato dalla Comm. trib. prov. Latina, però, l’amministrazione finanziaria nessuna considerazione ha svolto in relazione all’autofattura emessa dalla ricorrente; ha solo considerato non spettante la detrazione esercitata in relazione agli acquisti inerenti effettuati nello svolgimento dell’attività preparatoria, per insussistenza del presupposto (esercizio di attività d’impresa); seguendo questa impostazione lo stesso ufficio avrebbe dovuto però riconoscere alla ricorrente il diritto al rimborso40 per l’Iva versata in relazione alla fattura di autoconsumo, emessa ai sensi dell’art. 2, comma 2, del decreto Iva, al fine di non assoggettare la stessa fattispecie ad una ingiustificata doppia imposizione.

Iva), ma si ritiene sia corretto applicare le regole generali di ripetizione dell’indebito. In tal senso, TESAURO, Credito d’imposta e rimborso da indebito nella disciplina dell’Iva, in Boll. Trib., 1979, 1467; TABET, voce Rimborso di tributi, in Enc. Giur., Roma, 1991, 7; FREGNI, voce Rimborso dei tributi, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., XII, Torino, 1996, 506; PACE, I rimborsi, in AA.VV., L’imposta sul valore aggiunto, Giur. Sist. Dir. Trib., diretta da Tesauro, Torino, 2001, 747. Sull’applicabilità della procedura di rimborso mediante presentazione di un’istanza ai sensi dell’art. 21 del D.Lgs. 546/1992, sembrano nutrirsi alcuni dubbi: se tale metodologia sembra corretta laddove vi sia una riscossione autoritativa, fondata cioè su un atto dell’ufficio emesso ai sensi degli articoli 54

e ss, qualche dubbio potrebbe sorgere invece sull’applicabilità della stessa disciplina (con istanza ex art. 21) per le ipotesi di rimborso di somme autoliquidate (TESAURO, Profili sistematici del processo tributario, Padova, 134; Id, Credito d’imposta e rimborso da indebito nella disciplina dell’Iva, cit., 1466; TABET, voce Rimborso di tributi, cit., 7): in tal ultimo caso si potrebbe ritenere corretto allora applicare l’art. 38 del D.P.R. 602/1973 (sulla funzione procedimentale delle norme tributarie sul rimborso, vedasi TESAURO, Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975, 215). Per un approfondimento generale sulla ripetizione dell’indebito in materia tributaria, si rinvia a TESAURO, Il rimborso dell’imposta, cit.; MISCALI, Il diritto di restituzione, Milano, 2004.


Processo tributario 1 2009 115

PROCESSO TRIBUTARIO 18

Commissione tributaria regionale del Molise, sez. II, 21 maggio 2008, n. 39 Presidente: Evangelista - Relatore: Serafino

Processo tributario - Conciliazione giudiziale - Natura negoziale - Inadempimenti - Conseguenze - Recupero coattivo (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 48) Gli effetti giuridici della conciliazione giudiziale si producono per la sola manifestazione di volontà, trattandosi di atto avente natura negoziale; in presenza di ritardi o di omissioni circa le obbligazioni nascenti dall’atto di conciliazione, l’amministrazione finanziaria è legittimata al recupero coattivo delle somme quali individuate nell’atto conciliativo stesso. In data 7 ottobre 2002 il sig. S., a mezzo dei propri difensori di fiducia, impugnava una cartella esattoriale con la quale veniva richiesto il pagamento della somma di euro 7.299,48 per Iva sanzioni ed interessi relativa all’anno 1990. Il ricorrente eccepiva che l’avviso di rettifica richiamato nella cartella esattoriale era stato impugnato dinanzi alla Commissione tributaria e che il giudicante aveva dichiarato l’estinzione del giudizio per avvenuta conciliazione. Non essendo stati versati nei termini di legge (venti giorni) gli importi conciliati l’ufficio aveva iscritto a ruolo l’intera somma risultante dall’avviso di rettifica. La pretesa creditoria era, dunque, illegittima. Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle Entrate che sosteneva la legittimità del proprio operato poiché la conciliazione non si perfeziona in mancanza del versamento. L’adita Commissione accoglieva il ricorso ritenendo che l’ufficio avrebbe potuto e dovuto riscuotere gli importi conciliati in quanto l’atto transattivo costituisce titolo valido per la riscossione. Stante l’evidenza dei fatti di causa condannava l’amministrazione finanziaria alla refusione delle spese di giudizio. La prefata sentenza veniva impugnata dalla soccombente Agenzia che ne chiedeva la riforma ribadendo quanto già espresso in primo grado. Anche l’appellato si costituiva in giudizio insistendo sulla fondatezza della propria tesi e chiedendo la conferma della sentenza. Osserva nel merito il Collegio che la decisione impugnata appare meritevole di integrale conferma con consequenziale rigetto dell’appello. In merito a quanto dedotto dall’ufficio, va detto che l’atto di conciliazione debitamente sottoscritto dalle parti è atto avente i re-

Nota La Commissione tributaria regionale di Campobasso, con la pronuncia in epigrafe, afferma che l’amministrazione finanziaria non abbia titolo per richiedere le somme individuate nell’avviso di accertamento, qualora, a seguito dell’impugnazione dello stesso atto impositivo, sia addivenuta ad una conciliazione con il contribuente, ancorché quest’ultimo non abbia adempiuto, entro il termine di venti giorni, all’obbligo di pagamento della somma concordata, ovvero della prima rata nel caso di dilazione di pagamento. Nella motivazione della decisione in rassegna, il giudice molisano prende le mosse da una riflessione in ordine alla natura giuridica della conciliazione stessa. Mostra di convenire, sul punto, con la consolidata giurisprudenza di legittimità, in ossequio alla quale, «pur nella sua indubbia specificità, la conciliazione giudi-

quisiti per produrre i suoi effetti e quindi la estinzione della vertenza tributaria cui esso si ricollega. Trattandosi di atto avente natura negoziale, gli effetti giuridici si producono per la sola manifestazione di volontà liberamente e legittimamente formatasi: tali effetti sono di natura sostanziale per quanto attiene all’oggetto della controversia e di natura processuale in quanto estingue il giudizio senza possibilità che il medesimo possa tornare in vita stante la intangibilità dell’atto negoziale di conciliazione che è giuridicamente efficace anche se mancante dell’elemento perfezionante costituito dall’adempimento di quanto concordato. Questa Commissione ritiene di non poter condividere l’operato dell’ufficio nell’aver individuato la soluzione all’inadempimento del contribuente in una nuova iscrizione a ruolo di tutte le somme della precedente cartella esattoriale. E infatti, rimanendo intangibili i termini dell’accordo e quindi anche dei provvedimenti consequenziali, l’amministrazione finanziaria, in presenza di ritardi o di omissioni circa le obbligazioni nascenti dall’atto di conciliazione, sarebbe stata legittimata ad intraprendere quella procedura specifica per il caso in discorso consistente nel recupero coattivo delle somme in sofferenza quali individuate nell’atto conciliativo semmai maggiorate di penalità ed interessi. Ciò peraltro si inquadra benissimo nella sistematica delle agevolazioni tributarie che prevede che, quando sono stati riconosciuti premi, gli stessi possono essere eliminati per effetto dell’inadempimento da parte del contribuente ovvero possono essere irrogate altre penalità, così come avviene per altri istituti: in materia, ad esempio, di accertamento con adesione (art. 3, comma 2-nonies, del D.L. 564/1994) e anche in materia di dichiarazione integrativa ai sensi dell’art. 39 della legge 413/1991). Per quanto concerne la liquidazione delle spese va rilevato che l’ulteriore grado di giudizio ha costretto il contribuente a sostenere ulteriori oneri e che appare logico che lo stesso sia tenuto indenne dalle spese anche di questo grado di giudizio che si liquidano in complessivi euro 1.358,45 da distrarsi ex art. 93, c.p.c., in favore dei procuratori antistatari. La Comm. trib. reg. rigetta l’appello dell’ufficio e, per l’effetto, conferma l’impugnata decisione. Condanna l’amministrazione finanziaria al pagamento delle spese di giudizio che liquida in complessivi euro 1.358,45 di cui euro 775,00 di onorari, euro 413,00 di diritti, rimborso forfetario euro 118,80 ed euro 51,65 di spese vive. ziale costituisce un istituto deflattivo di tipo negoziale» (si veda, testualmente, Cass. civ., sez. trib., 3 ottobre 2006, n. 21325, in Foro It., 2007, 1689 ss., e in Finanza loc., 2007, 3, 55. Propende, inoltre, per una lettura in chiave transattiva della conciliazione BATISTONI FERRARA, voce Conciliazione giudiziale (diritto tributario), in Enc. Dir., Aggiornamento, II, Milano, 1998, 232 ss. Concordano, sul punto, altresì GAMBOGI-SARTI, La conciliazione giudiziale, Milano, 2003, 137 ss., nonché PETRILLO, Profili sistematici della conciliazione giudiziale tributaria, Milano, 2006, 112 ss. Sostiene la natura negoziale dell’istituto nell’ottica di una discrezionalità tributaria necessaria, VERSIGLIONI, Accertamento con adesione, logica e responsabilità della scelta, in questa rivista, 2008, 3, 446 ss.; si confronti, ancora, Id., Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001, 285 ss.). Reputata equiparabile alla conciliazione prevista all’art. 185, c.p.c., quanto ad effetti sostanziali e processuali, la conciliazione giudiziale tributaria presenterebbe un indubbio carattere


116

GiustiziaTributaria

1 2009

novativo (così Cass. civ., sez. trib., 20 settembre 2006, n. 20386, in Dir. Giust., 21 settembre 2006), tanto da determinare l’estinzione del credito originariamente vantato dal fisco, unilaterale e contestato, e la sua sostituzione con una nuova pretesa, certa e concordata. Proprio in considerazione del carattere negoziale dell’istituto in discorso, il Collegio ritiene che esso esplichi i propri effetti sin dal momento della manifestazione del reciproco scambio dei consensi delle parti in lite, mediante la sottoscrizione ad opera delle stesse dell’atto conciliativo, determinando, in tal modo, anche l’estinzione della vertenza tributaria cui questo si ricollega. Conseguentemente, secondo il pressoché unanime avviso della giurisprudenza, eventuali omissioni o ritardi nell’adempimento degli obblighi nascenti dall’atto conciliativo atterrebbero alla sola fase dell’esecuzione, e non a quella del perfezionamento, della fattispecie estintiva, residuando al fisco, in tali evenienze, la mera facoltà di iscrivere a ruolo le somme concordate, maggiorate di sanzioni ed interessi (si confronti, in proposito, Cass. civ., sez. trib., 20 settembre 2006, n. 20386, cit., in materia di inadempimento all’obbligo di pagamento di rate successive alla prima, nel regime ante lege 30 dicembre 2004, n. 311, la quale all’art. 1, comma 419, ha innovato la disciplina in questione, con l’introduzione di un nuovo comma 3-bis, all’art. 48, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546). Si deve, per converso, dare conto di un differente orientamento che ha attraversato giurisprudenza e dottrina. Valorizzando il disposto dell’art. 48, comma 3, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui sancisce che «la conciliazione si perfeziona con il versamento, entro il termine di venti giorni dalla data di redazione del processo verbale, dell’intero importo dovuto ovvero della prima rata e con la prestazione della […] garanzia sull’importo delle rate successive», vi è chi ha ritenuto invalido l’atto conciliativo in difetto degli ulteriori elementi perfezionativi ivi previsti dal legislatore (cfr. Comm. trib. prov. Milano (ordinanza), sez. XXXI, 1 dicembre 2000, in Boll. Trib., 2001, 1497, con nota di PAPA, Qualora sia stato emesso il decreto di estinzione ai sensi dell’art. 48 comma 5 del D.Lgs. 546/1992, in caso di inadempimento è possibile chiederne la revoca ai sensi dell’art. 742 c.p.c.?, in Boll. Trib., 2001, 1497 ss. In materia, si guardi ancora la circolare ministeriale, 8 agosto 1997, n. 235). A parere di certa dottrina, all’invalidità dell’atto conseguirebbe finanche la definitività del provvedimento impugnato nella lite conciliata, quale sanzione per l’inadempimento del contribuente alle obbligazioni assunte (in questo senso, si veda BATISTONI FERRARA, op. cit., ove si asserisce essere la conciliazione una fattispecie a formazione progressiva, articolata in due fasi, l’una relativa alla formazione dell’accordo, l’altra alla sua attuazione. Del medesimo parere è CANTILLO, voce Conciliazione. Processo tributario, in Enc. Giur., Roma, 2002, 11, ove si legge che «l’atto di conciliazione non è di per sé idoneo a produrre l’effetto di eliminare la controversia, all’uopo essendo necessario l’adempimento dell’obbligazione così determinata, il quale viene assunto, quindi, all’interno del procedimento conciliativo, come elemento condizionante il risultato finale dell’istituto». Si confrontino ancora i concordi pareri di POLANO, La conciliazione giudiziale, in Rass. Trib., 2002, 43 ss., e di PETRILLO, La conciliazione giudiziale tributaria e la teoria germanica della “intesa effettiva”, in questa rivista, 2008, 4, 666 ss., nonché Id., La conciliazione giudiziale, in Dir. e Prat. Trib., 2001, I, 517 ss.). Il favor conciliationis, trasversale all’intero ordinamento, determinerebbe, infatti, la supposta prevalenza, in un ipotetico giudizio di bilanciamento, dei valori costituzionali della speditezza processuale, del contenimento della mole del contenzioso e dell’immediatezza della riscossione, rispetto al soccombente principio dell’indisponibilità della pretesa tributaria, che alla stessa stregua trova presidio nella Costituzione fiscale (si legga, a tal riguardo, SELICATO, La conciliazione giudiziale tributaria: un istituto processuale dalle radici procedimentali, in questa rivista, 2008, 4, 673 ss.). Giustificando in tal modo una deroga del generale principio di irri-

nunciabilità del credito tributario, la conciliazione assumerebbe le vesti di un istituto premiale cui non può difettare la tempestiva dazione, divenendo, nell’ipotesi inversa, tamquam non esset. Sull’opposto versante si colloca la tesi fatta propria da quanti autori, riconoscendo che la conciliazione opera esclusivamente in fase contenziosa, ossia in presenza di una res dubia, hanno posto in luce come tale istituto miri alla risoluzione concordata della controversia tributaria mediante l’impiego di un modulo consensuale, di una procedura collaborativa tra l’ufficio ed il contribuente volta a consentire una definizione della pretesa fiscale il più aderente possibile all’attitudine contributiva di quest’ultimo. Non deve, infatti, essere dimenticata la dottrina che nega il carattere negoziale, affermando la natura di atto impositivo, della conciliazione giudiziale (sostengono la natura pubblicistica dell’istituto, quale strumento di esercizio della funzione impositiva, TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, 187 ss., nonché GALLO, Ancora sul neoconcordato e sulla conciliazione giudiziale, in Rass. Trib., 1994, 1490 ss.). Atteso che la Costituzione fa espresso divieto al fisco di disporre discrezionalmente dell’obbligazione tributaria, si deve ritenere che, laddove questo abbia accondisceso, in sede conciliativa, alla rideterminazione di una data pretesa assieme al contribuente, abbia fatto ciò solamente in quanto riteneva l’importo concordato maggiormente rispondente alle previsioni della normativa fiscale (si confronti, sul punto, MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 164 ss.). Ciò emerge con ancora maggior chiarezza qualora si presti attenzione al fatto che, a differenza di quanto avviene per il contratto di transazione, il quale postula reciproche concessioni tra le parti in lite, l’atto conciliativo può giungere, per converso, persino a confermare in toto le pretese dell’ufficio, col solo beneficio per il contribuente dell’abbattimento del carico sanzionatorio. Ponendosi in quest’ordine di idee, nelle ipotesi di omissioni o ritardi nel versamento delle somme previste nell’atto di conciliazione, si profilerebbe per il fisco la sola possibilità di richiedere al contribuente la somma concordata, in quanto ritenuta dallo stesso ufficio maggiormente coerente con la capacità contributiva espressa dal presupposto d’imposta realizzato (si legga ancora MOSCATELLI, op. cit., 204 ss.). Non deve considerarsi difforme all’orientamento tratteggiato l’opinione espressa dalla Corte costituzionale con la sentenza 24 ottobre 2000, n. 433 (in Giur. Cost., 2000, 3269 ss., con nota di MARELLO, La conciliazione giudiziale nel processo tributario: il primo vaglio della Corte, in Giur. Cost., 2000, 4411 ss.), laddove afferma non essere contrastante l’art. 48, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, con il disposto degli artt. 53, 97 e 104, Cost., nella parte in cui non consente al giudice alcun controllo sulla congruità dell’importo concordato tra l’ufficio ed il contribuente, in sede di conciliazione giudiziale tributaria. A ben vedere, tale assunto discende proprio dal presupposto divieto in capo al fisco di transigere o di rinunciare alla pretesa fiscale, e dall’opposto dovere di determinare la giusta imposta, non residuando, così, al giudice alcuna incombenza oltre a quella del controllo della legittimità formale delle operazioni compiute dall’ufficio. Diversamente, verrebbe meno anche la concreta realizzazione dell’intento perseguito dal legislatore nel disciplinare l’istituto in analisi, il quale consiste certamente nella deflazione dell’ingente mole del contenzioso che grava sul giudice tributario. Ad ogni buon conto, nonostante le divergenti tesi sostenute in dottrina, è indubitabile che il decisum del giudice molisano imponga all’interprete di rimeditare sull’annosa querelle che vede contrapposte, per un verso, la necessità di fornire all’homo oeconomicus punti di riferimento normativi certi e stabili, nonché un apparato giurisdizionale rapido e funzionale, e, per l’altro, l’insopprimibile esigenza, congenita al diritto tributario, dell’equo riparto dei carichi pubblici tra i consociati.


Processo tributario 1 2009 117

RIASSUNZIONE DEL PROCESSO A SEGUITO DI DECLARATORIA DI DIFETTO DI GIURISIZIONE E CONSERVAZIONE DEGLI EFFETTI DELLA DOMANDA ORIGINARIA I Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 126 19 Presidente: Schiavone - Relatore: Laudazi che derivano, invece, dalla domanda introdotta innanzi a giudice munito di giurisdizione, benché incompetente; b) inammissibilità delle ragioni attinenti a vizi formali della cartella; Per quanto attiene, invece, alle pregiudiziali di merito, c) ritiene l’Inps che la opposta da controparte prescrizione sia stata validamente interrotta. In ordine al merito sostiene l’Istituto di. previdenza che, Processo tributario - Prove raccolte in un giudizio di- d) fondato era da ritenere il rilievo degli ispettori di effettuazione verso tra le stesse parti - Sentenza - Valore documen- di lavoro supplementare eccedente l’orario d’obbligo e per il tale - Ammissibilità quale non era stato effettuato versamento di contribuzione, la (C.p.c., art. 116, comma 1) quale, quindi, veniva recuperata. con la cartella qui opposta. Processo tributario - Declinatoria di giurisdizione Conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda originaria - Riassunzione tempestiva oltre il termine per impugnare l’atto - Decadenza Esclusione (C.p.c., art. 50; D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 25, comma 5)

Gli effetti sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta tempestivamente ad un giudice privo di giurisdizione, si conservano, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo riassunto tempestivamente davanti al giudice munito di giurisdizione; pertanto, nel caso in cui un ricorso, in materia appartenente alla giurisdizione tributaria, sia proposto dinanzi al giudice ordinario, la causa può essere riassunta davanti al giudice tributario, anche se è decorso il termine previsto per l’impugnazione dell’atto. Hanno valore probatorio nel processo tributario, idoneo a fondare il convincimento del giudice, le prove raccolte in un giudizio diverso tra le stesse parti e di cui la sentenza costituisca la prova documentale. Svolgimento del processo Con ricorso depositato alla segreteria di questa Commissione il 21 novembre 2007 (notificato alle controparti il 25 e 26 ottobre 2007, a seguito di sentenza declinatoria della giurisdizione emessa il 17-18 maggio 2007 dal Tribunale di Pisa), il ricorrente in epigrafe indicato riassumeva il giudizio al fine di sentir annullare la cartella esattoriale, sopra indicata e notificatagli a cura dell’Inps per il recupero di contribuzione relativa alla voce Servizio sanitario nazionale. Faceva presente, infatti, parte ricorrente che la cartella, contenente più voci di credito contributivo, era stata impugnata innanzi al Tribunale di Pisa, il quale, però, in applicazione della (ormai nota) decisione della Suprema Corte (ordinanza n. 123/2007). con la quale è stato stabilito che in ipotesi di contribuzione richiesta per il Ssn la giurisdizione appartiene al giudice tributario, ha declinato la giurisdizione per questa parte, proseguendo il giudizio per le altre poste. Prima di passare alla verifica della fondatezza del merito, deve essere dato seguito alle eccezioni dell’Inps che assumono il contenuto di preliminari di rito e di merito. Va adeguatamente evidenziato, infatti, come nei giudizi di opposizione a ruolo parte opponente assuma la veste di convenuto in senso sostanziale, mentre quella di attore pertiene all’opposto (Cass., n. 15849/2006) su cui grava, conseguentemente, l’onere probatorio (art. 2697, c.c.). Sicché doverosamente si deve precedere analizzando la posizione dell’Inps ed innanzitutto le eccezioni di rito. Eccepisce l’Inps: a) la decadenza dall’azione non avendo parte ricorrente impugnato la cartella nel rispetto dei termini di quaranta giorni fissato. dall’art. 24, comma 5, D.Lgs. n. 46/1999, poiché, a dire dell’Istituto opposto, l’introduzione del giudizio innanzi a giudice sguarnito di giurisdizione non vale a produrre gli effetti sostanziali e processuali

Motivi della decisione Valuta la Commissione assolutamente infondate le tesi sostenute dall’Inps. Seguendo l’ordine espositivo appena adottato dev’essere rilevato: a) in ordine agli effetti sostanziali connessi con. l’introduzione del giudizio non risponde al vero che l’opposizione introdotta innanzi a giudice privo di giurisdizione non sia idonea a produrre gli stessi effetti sostanziali connessi con il giudizio introdotto innanzi a giudice incompetente. Così dicendo l’Inps mostra di non tenete in conto alcuno l’insegnamento formulato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 77/2007. Il giudice delle leggi, effettuata un’ampia rassegna delle problematiche connesse con la presenza di più giudici nel nostro ordinamento, ma invitando a riflettere approfonditamente sul nuovo contenuto dell’art. 111, Cost., ha fra l’altro affermato che: «la loro pluralità (di giurisdizioni: n.d.g.) non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti – per giunta innervantesi su un riparto delle loro competenze complesso ed articolato – è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l’errore del giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale». Affermato, poi, che: «il [...] principio per cui la declinatoria della giurisdizione comporta l’esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo giudizio; principio questo che, non formulato espressamente in una o più disposizioni di legge ma presupposto dall’intero sistema dei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali e tra i giudici speciali, deve essere espunto, come tale, dall’ordinamento» ha concluso dichiarando, nello specifico, «l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 10344. (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non prevede che gli effetti sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione». È assolutamente indubitabile, quindi, che si tratti di principio di carattere generale valido per tutte le ipotesi in cui il giudice dovesse necessariamente affermare il proprio difetto di giurisdizione e non limitato al difetto di giurisdizione dei T.A.R.


118

GiustiziaTributaria

1 2009

È, dunque, errata la tesi dell’Inps per cui essendo stato il giudizio riassunto necessariamente dopo lo scadere dei quaranta giorni dalla notifica della cartella, questa Commissione dovrebbe procedere ad accertare la decadenza dall’impugnazione. Essendo incontroverso, invece, che quel termine fu rispettato allorquando venne introdotto il giudizio innanzi al giudice dichiaratosi (giustamente) privo di giurisdizione, la salvezza degli effetti sostanziali della domanda impone di ritenere tempestiva l’introduzione del giudizio anche davanti a questa Commissione munita di giurisdizione. b) Ma l’eccezione è infondata quand’anche formulata sotto diversa angolazione. Infatti, non può dirsi che il termine non sia stato comunque rispettato poiché la riassunzione non è stata effettuata nei quaranta giorni dalla pronuncia declinatoria. È noto che la Corte costituzionale, nella succitata pronuncia, di cui è stato riportato soltanto un limitatissimo stralcio ma la cui lettura è illuminante per il rapporto fra giurisdizioni, specie alla luce del novellato art. 111, Cost., ha sollecitato il legislatore ad intervenire prontamente per dettare la normativa che assegni definitiva e completa disciplina alla traslatio iudici derivata dalla ricusazione di giurisdizione. E però, ne discende che il giudice di merito non possa non procedere oltre nella decisione della causa, non potendo attendere le determinazioni del parlamento, specie alla luce della presunzione tradizionale di esaustività dell’ordinamento. Orbene, ritiene questa Commissione che i principi ispiratori della sentenza citata possano offrire adeguata base per rintracciare la disciplina che ne consegue. In vero, se elemento fondativo della pronuncia di costituzionalità è stato l’evitare «un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale», non si può certo far rientrare tale pregiudizio dalla finestra dopo averlo cacciato dalla porta. E così sarebbe se, pur salvando formalmente gli effetti sostanziali della domanda, gli stessi verrebbero meno per l’assegnazione di un termine incongruo alla riassunzione della causa. E inoltre, l’armonia dell’ordinamento vuole che a situazioni analoghe si diano risposte analoghe, sicché non si vede per quale ragione – salvo migliore puntualizzazione da parte del legislatore – se per riassumere la causa a seguito di pronuncia di incompetenza, l’ordinamento, in assenza di diversa indicazione giudiciale, ritiene congruo il termine di sei mesi (art. 50, c.p.c.), non si vede per quale ragione nel caso in esame dovrebbe essere ritenuto, invece, utilizzabile il termine previsto per la valida impugnazione dell’atto contestato. I termini previsti per formulare tempestivamente la contestazione rispondono, infatti, ad esigenze diverse, prima fra tutte la tempestività, da quelle che l’ordinamento disciplina una volta che il giudizio sia. stato validamente instaurato o che tale debba considerarsi a seguito del nuovo assetto costituzionale, dovendo esso mirare essenzialmente ad essere un giudizio giusto (art. 111, Cost.). È pacifico in atti che la riassunzione sì avvenuta con notifica alle controparti nel termine di sei mesi, sicché validamente. c) Dev’essere rigettato il primo motivo di contestazione formulato dal riassumente e relativo all’insufficienza delle indicazioni contenute nella cartella, in ordine all’atto fondativi della pretesa dell’Inps. Ritiene la Commissione di dover condividere, a tale proposito, l’eccezione dell’Inps secondo cui le contestazioni relative al contenuto formale della cartella devono essere proposte non solo in via esclusiva nei confronti dell’ente concessionario della riscossione, quanto, trattandosi di opposizione assimilabile a quella agli atti esecutivi, nel termine perentorio di 20 giorni,, ex art. 617, c.p.c. d) Per quanto attiene ai motivi preliminari di merito e segnatamente alla prescrizione del credito, la. Commissione valuta l’infondatezza del motivo. In effetti, la tempestiva contro eccezione di interruzione della prescrizione, opposta dall’Inps deve ritenersi validamente elevata in quanto sostenuta da idonea prova, non contraddetta vali-

damente . da alcuna deduzione avversaria. È pacifico che si tratti di contributi relativi agli anni 1996/1999, sicché il termine applicabile è quello quinquennale ex L. n. 335/1995. Ebbene, l’Inps ha prodotto copia della raccomandata ricevuta da controparte il 29 agosto 2000, nella quale era domandato il pagamento dettagliato della somma di poi pretesa con la cartella opposta. Come detto, avverso l’efficacia interruttiva di questa analitica richiesta nulla è stato contro dedotto. Successivamente, sempre nel quinquennio, il 3 dicembre 2004 è stata notificata la cartella opposta. La prescrizione pertanto, non può ritenersi maturata. e) Merito. La pretesa contributiva radica su un accertamento ispettivo del 15 marzo 1999, nel corso del quale era stato appurato che undici lavoratori avevano effettuato lavoro supplementare o straordinario rispetto al quale o non era stata erogata retribuzione, ovvero era stata erogata, senza contabilizzazione, tutti elementi idonei a far sorgere comunque il credito contributivo, a prescindere da quale fosse stato l’accordo fra le parti. Si tratta della riproposizione degli stessi argomenti che l’Istituto di previdenza ha articolato innanzi al Tribunale di Pisa, prima e alla Corte d’Appello di Firenze poi, a sostegno delle voci contributive per le quali permaneva la giurisdizione dell’a.g.o. In merito, come detto, è già intervenuta decisione sia di primo che di secondo grado, le cui motivazioni sono state prodotte dalla parte riassumente. Orbene, ritiene la Commissione che quelle decisioni debbano essere totalmente assunte a base della presente. In effetti, questa conclusione è possibile, innanzitutto, per i1 valore giuridico da attribuire alle prove raccolte in altri giudizi fra le stesse parti. Ha insegnato, infatti, la Suprema Corte che: «il giudice di merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche le prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse parti o tra altre parti, delle quali la sentenza che in detto giudizio sia stata pronunciata costituisce documentazione» (Cass., n. 21115/2005, n. 13619/2007, n. 20335/2004, n. 9630/1994, n. 4763/1993). Ora, se si tiene conto dei noti e vistosi limiti che permeano il processo tributario (non ultimi quelli relativi alla prova orale), a fronte della libertà di prova (art. 116, comma 1, c.p.c.) che governa, invece, il processo civile ordinario, ne consegue una particolare autorevolezza da assegnare ai documenti processuali formatisi in quella sede. Innanzi a questa Commissione l’Inps, su cui – si ripete – grava l’onere della prova non ha saputo fornire elementi tali da scalfire le conclusioni assunte da quei giudici, di tal ché non vi è ragione per non replicare alle tesi dell’Inps, qui riproposte tali e quali, con gli argomenti utilizzati dall’a.g.o. per valutare, alla luce dell’istruttoria espletata, l’infondatezza della pretesa contributiva per il Ssn. La Corte d’Appello, rigettando il gravame dell’Inps, ha accertato l’inesistenza di un suo credito. In effetti è assolutamente condivisibile il percorso logico, secondo cui il compenso mensile accessorio relativo alla pattuizione fra le parti – diretta a remunerare una prestazione ulteriore solo potenzialmente dovuta per una prestazione ulteriore e quale corrispettivo per una flessibilità dell’orario – era stato inserito nelle buste paga, sottoponendola alla relativa contribuzione. Ebbene, pur condividendo la tesi per cui le pattuizioni fra le parti di forfetizzazione non sono opponibili all’Inps (Cass., n. 1227/1987, riportata dall’Inps), va detto che ciò avrebbe comportato, d’altra parte, che fosse fornita adeguata prova che la contribuzione effettuata, con riferimento pur sempre alla remunerazione accessoria, secondo l’accertamento dell’a.g.o., non fosse comunque idonea a coprire le ore di lavoro supplementare o straordinario effettivamente svolte e che un teste, 1a cui deposi-


Processo tributario 1 2009 119

zione risulta fatta propria dalla Corte di merito, ha riferito essere state effettuate senza alcuna cadenza specifica o, addirittura, ben potendo mancare anche per diverse settimane (cfr. sent. n. 1099/2006 Corte d’Appello FI). Tale prova, è mancata e a poco vale richiamare la fede privilegiata che hanno i verbali ispettivi in quanto atti pubblici, poiché qui non si tratta di valutare fatti accaduti sotto la percezione di tali pubblici ufficiali, bensì le deduzioni di questi in merito ad al-

cuni rilevamenti documentali, che ben possono essere sindacati dall’opponente, specie allorquando, come nell’ipotesi in esame, manca qualsiasi riferimento ripartito per ogni anno e specifico al monte ore che sarebbe stato svolto, in raffronto a quello forfetariamente remunerato. f) La particolarità delle questioni trattate e che emerge da quanto finora detto, è giusto motivo per compensare integralmente le spese del grado.

II Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. XVI, 20 gennaio 2009, n. 12 20 Presidente: Ferrara - Relatore: Minichini Processo tributario - Commissioni tributarie - Controversie relative al canone per l’occupazione di spazi e aree pubbliche - Giurisdizione delle Commissioni tributarie – Esclusione (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2) Processo tributario - Ricorso proposto alla commissione tributaria priva di giurisdizione - Inammissibilità - Riassunzione della causa innanzi al giudice ordinario fornito di giurisdizione - Termine di sei mesi (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 5; c.p.c., art. 50) È inammissibile per difetto di giurisdizione il ricorso alla Commissione tributaria in materia di canone per l’occupazione di spazi e aree pubbliche, anche se proposto prima della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, del D. Lgs. n. 546/1992. A seguito di declaratoria di difetto di giurisdizione da parte del giudice tributario, gli effetti sostanziali e processuali della domanda originariamente proposta sono fatti salvi se il ricorrente riassume la causa innanzi al giudice ordinario nel termine di sei mesi a decorrere dalla comunicazione in via amministrativa della sentenza tributaria che rileva il difetto di giurisdizione. [Omissis] Come è stato esposto in narrativa, oggetto dell’impugnativa è la sanzione amministrativa per occupazione abusiva di un’area demaniale marittima di mq 1.314,00. Dagli atti depositati in giudizio risulta che alla società ricorrente, col provvedimento comunale n. 3 del 9 settembre 2007 (che non risulta ritirato), è stato dato in concessione uno spazio dell’area in questione per anni 6 (dal 9 agosto 2007 al 9 agosto 2012) per l’esercizio della servitù di passaggio per l’accesso al mare, e ciò a fronte del canone complessivo di euro 1.889,58 pari all’importo di euro 314,93 annuo. Deduce, pertanto, la società ricorrente la contraddittorietà del provvedimento impugnato con la suddetta concessione; e richiama la transazione del 16 marzo 2004 stipulata con l’Agenzia del Demanio relativa all’abbandono del giudizio civile volto all’accertamento della natura pubblica o privata dell’area, nonché la pendenza dei procedimenti relativi al condono edilizio per le opere edificate sull’area medesima. Ciò posto in fatto, questa Commissione, per quanto attiene alla controversia portata alla sua cognizione, deve, preliminarmente, verificare se essa rientri nella giurisdizione tributaria. In proposito si osserva, in primo luogo, che la sanzione amministrativa impugnata, riguardando anche uno spazio di area assistito da concessione demaniale marittima (mai ritirata) di durata sessennale con determinazione del relativo “canone” nella complessiva somma di euro 1.889,58, accede in parte qua alla materia relativa al Cosap (canone d’occupazione di spazi e aree pubbliche) previsto dall’art. 63 del D.Lgs. n. 446/1997.

E, dunque, in parte qua la disciplina del detto Cosap è il parametro normativo di riferimento per la verifica della sussistenza o meno della giurisdizione tributaria; per il residuo si dirà in prosieguo. Rileva allora l’art. 3-bis, comma 1 del D.Lgs. n. 203/2005 (convertito nella legge n. 248/2005) che, integrando l’art. 2 della legge n. 546/1992 (di disciplina del processo tributario), ha attribuito le controversie in materia di Cosap alla giurisdizione tributaria. Sennonché la Corte costituzionale, con la sentenza n. 64 del 14 marzo 2008, pubblicata sulla G.U. del 19 marzo 2008, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle appena richiamate disposizioni legislative nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione tributaria «le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’art. 63 del D.Lgs. n. 446/1997 e successive modificazioni». Ha considerato la Corte il pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale della Cassazione (da reputarsi diritto vivente) che afferma la natura non tributaria (ma di corrispettivo) del Cosap ed ha rilevato che le norme attributive della materia de qua alla giurisdizione tributaria contrastano con il divieto d’istituire giudici speciali dettato dall’art. 102, Cost. La richiamata decisione del giudice delle leggi rileva nella controversia in esame pur se essa è stata pronunciata in tempo successivo alla proposizione del ricorso. Si osserva infatti che, come condivisibilmente affermato con la decisione n. 6487/2002 dalle sez. un. della Cassazione e come si evince dall’ordinanza n. 269/2008 della Corte cost. pronunciata proprio in materia di Cosap, il principio dettato dall’art. 5 c.p.c., secondo cui la legge vigente al momento della domanda giudiziale è quella determinativa della giurisdizione non rilevando i mutamenti successivi della stessa, non opera – a differenza della legge abrogata – nelle ipotesi di declaratoria d’illegittimità costituzionale della legge, e ciò in ragione dell’efficacia ex tunc delle decisioni del giudice delle leggi, efficacia questa che esclude la riconducibilità della fattispecie al concetto di mutamento sopravvenuto. Ne deriva che nel caso in esame in cui si controverte di Cosap non sussiste la giurisdizione tributaria, ma quella del giudice ordinario tenendosi conto che la materia riguarda la pretesa creditoria non tributaria relativa al canone derivante da concessione di uso speciale del bene pubblico (trattasi, in altri termini, di corrispettivo d’affitto). Alla stessa conclusione si giunge per il residuo spazio d’area non assistito da concessione (e anche se, come fa il Comune, si prescinde in tesi del tutto dalla più volte menzionata concessione considerando l’occupazione sine titulo per l’intera area), posto che anche in tale ipotesi di occupazione abusiva si verte in tema di rapporti di dare-avere non tributario (Cfr. in termini Cass., sez. un., n. 14543/2001; n. 604/2005; n. 12638/2008). Il ricorso, in definitiva, è inammissibile per difetto di giurisdizione della Commissione adita. Residua aggiungere che la Commissione, in linea con il recente arresto giurisprudenziale dei massimi organi della giustizia di le-


120

GiustiziaTributaria

1 2009

gittimità (Cass., sez. un., n. 4109/2007, Cons. di Stato, sez. VI, n. 3801/2007 e n. 1059/2008) e del giudice delle leggi (decisione n. 77/2007), reputa che alla sentenza declinatoria della giurisdizione segua il rinvio della controversia al giudice ritenuto munito di giurisdizione con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta dall’istante. Il menzionato arresto giurisprudenziale ha, invero, affermato il condivisibile principio secondo cui la traslatio iudicii opera anche nei rapporti tra diversi ordini giudiziari perché altrimenti si verificherebbe la poco accettabile conseguenza di un processo che si conclude con la decisione sulla sola giurisdizione senza la definizione della fondatezza o meno della pretesa azionata in giudizio. Per l’individuazione del termine di riassunzione del processo può

essere applicato, in via analogica, quello previsto dall’art. 50 c.p.c. in tema di declaratoria d’incompetenza nell’ambito della giurisdizione ordinaria (o quello consimile dell’art. 5 del D.Lgs. n. 546/1992 recante la disciplina del processo tributario), termine che nella fattispecie in esame viene fissato in mesi 6. In conclusione, il ricorso, alla stregua delle considerazioni svolte, è inammissibile per difetto di giurisdizione di questa Commissione; ed a ciò consegue l’onere di. parte ricorrente di riassunzione della causa innanzi al giudice ordinario nel termine di mesi 6 a decorrere dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza. Le spese di giudizio, in ragione della complessità delle questioni, vanno compensate tra le parti.

I - II

cadenze intervenute». Sulle possibili modalità di prosecuzione se ne darà brevemente conto in seguito. La seconda questione affrontata dai giudici del provvedimento in epigrafe riguarda la disciplina delle prove ed esula dal presente commento, perché concerne un argomento che non può essere trattato congiuntamente all’argomento in esame per la sua autonoma specificità. Riguardo a ciò, vale solo la pena osservare che la pronuncia tributaria in questione evidenzia la sempre crescente osmosi di principi e di regole tra processo civile e processo tributario. Infatti, viene affermata una piena adesione al diritto di difesa in base ai principi sanciti dalla Carta costituzionale all’art. 24, per cui deve essere riconosciuta l’ammissibilità delle prove atipiche, purché venga salvaguardato il principio del contraddittorio, mentre sul versante dei poteri istruttori ufficiosi appare corretto parlare ai sensi dell’art. 7, D.Lgs. 546 del 1992 di una «dispositività attenuata»4, nel senso che il giudice interviene a colmare il mancato assolvimento dell’onore probatorio solo quando tale mancanza non sia imputabile ad un comportamento colposo delle parti. Ciò che del resto è stato giustamente considerato nel caso di specie dal giudice tributario riguardo al mancato assolvimento colposo di tale onere da parte l’amministrazione finanziaria. Questa affermazione giurisprudenziale è stata superata dalla legge n. 69/2009 che, proprio in relazione all’ipotesi di specie, intende riconoscere alle prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione l’efficacia degli argomenti di prova (comma 5 dell’art. 59) e cioè un valore probatorio indiziario, che peraltro potrebbe essere inidoneo a fondare il convincimento del giudice in assenza di altre prove.

Nota di Alessandra Villecco Premessa Le pronunce in commento trattano un rilevante aspetto processuale: gli effetti della declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice adito. La pronuncia del giudice tributario pisano inoltre prende in considerazione anche il fenomeno dell’efficacia delle prove atipiche, in particolare delle prove raccolte in un giudizio diverso, idonee a fondare il convincimento del giudice e delle quali la sentenza costituirebbe prova documentale. Nel secondo provvedimento, emesso dalla commissione tributaria provinciale di Salerno, si afferma che le commissioni tributarie non hanno giurisdizione sulle controversie in materia di canone d’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap), dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo, in parte qua, l’art. 2, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 5461. Riguardo al primo argomento i giudicanti hanno ritenuto estensibile al processo tributario lo strumento della translatio iudicii anche nel caso del difetto di giurisdizione del giudice originariamente adito, perché si è integralmente adeguato al principio enunciato dalla Corte costituzionale2 in materia di giurisdizione amministrativa nel dichiarare l’illegittimità dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, «nella parte in cui non prevede che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione». Il giudice delle leggi sostiene infatti che negare gli effetti prodotti dalla domanda originariamente proposta comporterebbe il mancato esame nel merito della domanda traducendosi in concreto nel diniego della tutela giurisdizionale. Tanto più che tale orientamento è stato quasi integralmente confermato dall’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 693, per cui a seguito della sentenza che dichiara il difetto di giurisdizione il processo potrà essere riproposto davanti al giudice indicato nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che ha dichiarato il difetto di giurisdizione. La norma precisa poi che «nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito sin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le de-

1 Corte cost., 14 marzo 2008, n. 64, in Giur. It., 2008, 2349. 2 Corte cost., 12 marzo 2007, n. 77, in Mass. Giur. It, 2007. 3 Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 140 del 19 giugno 2009 (suppl. ord.).

Il difetto di giurisdizione e la translatio iudicii Alla luce della recentissima riforma in materia di “decisione delle questioni di giurisdizione” di cui all’art. 59 della più volte menzionata legge, la questione del difetto di giurisdizione e delle conseguenze ad essa correlate avranno una disciplina normativa ben definita, senza che la giurisprudenza, come ha fatto il giudice tributario pisano, dovrà preoccuparsi di affermare la sopravvivenza degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta davanti al giudice privo di giurisdizione5, nonché dei termini per la riassunzione. Infatti, nel caso di specie, tutta la questione ruota attorno alle possibili argomentazioni per affermare la sussistenza della translatio iudicii e degli aspetti che ne derivano circa gli effetti e i termini per la riassunzione.

4 COMOGLIO, Istruzione probatoria e poteri del giudice nel nuovo processo tributario, cit., 70. 5 In argomento si veda GLENDI, e Il difetto di giurisdizione e le prospettive di revisione degli assetti ordina mentali, in La giurisprudenza tributaria nell’ordinamento giurisdizionale,

atti del convegno di Teramo 22 e 23 novembre 2007, a cura di Basilavecchia-Tabet, Bologna, 2009, 163 ss. In generale in materia di giurisdizione tributaria si veda RUSSO, Il riparto della giurisdizione fra giudice tributario e giudice amministrativo e contabile, 91 ss.


Processo tributario 1 2009 121

Così, nei provvedimenti in esame viene ammessa la translatio iudicii in caso di difetto di giurisdizione, condividendo pienamente gli argomenti utilizzati dai giudici della Consulta, con l’ulteriore precisazione che la riassunzione deve avvenire nel termine di sei mesi in virtù di un’estensione analogica al caso in esame della disciplina temporale sulla tempestiva riassunzione della causa davanti al giudice competente, una disciplina contenuta nell’art. 5, comma 5, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 sul processo tributario e che riproduce, sul punto, quanto prescrive l’art. 50, c.p.c., per cui è di sei mesi il termine per una tempestiva riassunzione della causa davanti al giudice competente. Dopo la pronuncia della Consulta, i processi instaurati davanti alle commissioni tributarie devono necessariamente concludersi con una pronuncia di difetto di giurisdizione, ma, come osserva la decisione commentata, non opera l’art. 5, c.p.c. (secondo cui la giurisdizione è determinata dalla legge vigente al momento della domanda giudiziale). Prima che fosse affermato il principio della translatio iudicii, la declaratoria di difetto di giurisdizione poteva avere come effetto la definitività del provvedimento impugnato, a causa del decorso del termine per l’impugnazione davanti al giudice dotato di giurisdizione. La Commissione regionale di Pisa ha considerato che, ammessa la translatio iudicii tra giudice ordinario e quello tributario nell’ipotesi del difetto di giurisdizione, sia ragionevole applicare anche qui il termine di sei mesi per la riassunzione del processo, perché diverse sarebbero le ragioni del termine breve per impugnare rispetto a quello per la riassunzione, anche se questo ragionamento, come si dirà, non pare pienamente condivisibile. Il riconoscimento della translatio iudicii da parte della giurisprudenza tributaria peraltro contrasta con quanto fino ad ora era stato espresso dalla giurisprudenza di legittimità specie delle sezioni unite6, che ha sempre ritenuto operante il principio della translatio iudicii solo all’interno del giudizio civile e non in quello del processo amministrativo, specie dopo il riconoscimento esplicito della stessa da parte della richiamata sentenza della Consulta. In più occasioni è stata ribadita l’esclusione della prosecuzione del rapporto processuale in caso del difetto di giurisdizione, perché non può esservi un’ipotesi di riassunzione e di prosecuzione di un processo, che sia stato instaurato in ordine ad una questione che non poteva essere portata all’esame del giudice privo di giurisdizione fin dall’origine, perché si tratterebbe dell’instaurazione di un nuovo rapporto processuale, e la domanda deve essere proposta nel rispetto dei termini per non essere rigettata. Così si è sempre espressa la Cassazione7 circa il difetto di giurisdizione del giudice ordinario non solo rispetto ad una questione di spettanza del giudice amministrativo, ma anche in riferimento alla giurisdizione tributaria8. La norma contenuta nell’art. 50, c.p.c., ha voluto introdurre un meccanismo di natura conservativa circa gli effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale proposta al giudice incompetente, purché nel rispetto dei termini legali per la riassunzione, attuando così la sanatoria del vizio di incompetenza9. La dottri-

6 Cass., sez. un., 28 marzo 2008, n. 7039 e dal Cons. di Stato, 23 novembre 2000, n. 6233. 7 Cass., sez. un., 28 marzo 2006, n. 7039; Cons. di Stato, 23 novembre 2000, n. 6233. 8 Cass., 25 novembre 2003, n. 17934 che ha ritenuto inammissibile l’opposizione proposta dalla parte avverso la cartella esattoriale per nullità della notificazione del verbale di accertamento di infrazione, in quanto, non potendo essere preso in considerazione il termine della proposizione del ricorso alla commissione

na osservava a tal riguardo, come già precisato, che la translatio iudicii sarebbe dovuta avvenire all’interno della medesima giurisdizione e ciò per la necessità di valutare l’ammissibilità della domanda che ha dato vita al rapporto processuale utilizzando criteri omogenei il che non sempre è possibile quando la domanda viene proposta a una giurisdizione diversa che ha regole specifiche per quanto riguarda, ad esempio, i termini di decadenza eventualmente stabiliti per la proponibilità della medesima10. Modalità della riassunzione L’art. 5, comma 5, del D.Lgs. 564/1996 dispone che la riassunzione del processo «deve essere effettuata ad istanza di parte»: si tratta dunque di chiarire se a tale istanza si possano applicare le norme del codice di procedura civile circa la forma della riassunzione nel caso di incompetenza. Così, analogamente a quanto si ammette per la riassunzione ex art. 50, si può sostenere che l’atto di riassunzione11 non necessita di una nuova procura12 e circa i requisiti di forma-contenuto conviene guardare a quanto dispone l’art. 125, disposizione attuativa, c.p.c., mentre dubbia potrebbe apparire la norma contenuta nell’art. 126 che dispone sulla richiesta al cancelliere dell’ufficio giudiziario incompetente effettuata dal cancelliere del giudice ad quem, di trasmissione del fascicolo d’ufficio, poiché nel caso del difetto di giurisdizione non viene indicato in concreto il giudice competente, anche se si dovrà ammettere che il giudice che nega la propria giurisdizione deve indicare il giudice dotato di giurisdizione, dinanzi a cui il processo può proseguire. Circa le modalità di prosecuzione del processo, vanno applicati gli strumenti ermeneutici già presenti nell’ordinamento, per dare immediata attuazione al principio della conservazione degli effetti della domanda nel processo riassunto13. Se la Corte di Cassazione cassa con rinvio a seguito di ricorso ex artt. 360, n. 1, e 362, comma 2, c.p.c, il termine per la riassunzione davanti al giudice di rinvio è quello di un anno dalla pubblicazione della sentenza, previsto dall’art. 392 c.p.c.; se, invece, la pronuncia sulla giurisdizione è resa a seguito di regolamento preventivo di giurisdizione, si applica il termine di sei mesi dalla comunicazione della sentenza, ai sensi dell’art. 367, comma 2, c.p.c. In caso di cassazione con rinvio alle commissioni tributarie si applica l’art. 63, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Di fronte dunque al vuoto normativo nel caso del difetto di giurisdizione dichiarato da una commissione tributaria, i giudici che hanno emesso i provvedimenti in commento hanno ritenuto applicabile in via analogica il termine previsto dall’art. 50 c.p.c. e dall’art. 5 del D.Lgs. n. 546/1992, disponendo che la riassunzione della causa innanzi al giudice ordinario dotato di giurisdizione avvenga nel termine di sei mesi dalla comunicazione della sentenza. La riassunzione per la sua natura endoprocessuale di impulso deve essere notificata ai sensi dell’art. 170, c.p.c., al procuratore costituito14, ne consegue che la notifica fatta alla parte personalmente provoca la nullità del successivo giudizio e della conseguente sentenza15, pur trattandosi sempre di una nullità sanabile con la costituzione della parte citata in riassunzione.

tributaria, per l’inapplicabilità della translatio iudicii, di conseguenza il termine di impugnazione risultava scaduto alla data dell’impugnazione davanti al giudice ordinario. 9 CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile. Profili generali, II, Padova, 2006. 10 BUONCRISTIANI, Giurisdizione, competenza, rito e merito (problemi attuali e possibili soluzioni), in Riv. Dir. Proc., 1994, 162; PRENDINI, Commento all’art. 50 c.p.c. in Codice di procedura civile commentato, a cura di Consolo-Luiso, 556.

11 In argomento si veda l’approfondito studio di SALETTI, Diritto processuale civile, I, Milano, 1981. 12 Cass., 16 aprile 1991, n. 4045, in Mass. Giur. It., 1991. 13 Corte cost., 12 marzo 2007, n. 77, cit. 14 Cass., 9 aprile 1994, n. 4475, in Mass. Giur. It., 1994, 402. 15 LEVONI, Regolamento di competenza, in Dig. It., IV, XVI, Torino, 1997.


122

GiustiziaTributaria

1 2009

La forma tipica dell’atto in riassunzione è una comparsa di costituzione, pur non essendo determinante per la validità della riassunzione medesima il rispetto di tale forma sempre che l’atto contenga gli elementi essenziali idonei al raggiungimento dello scopo di riassumere il processo, ovvero il riferimento esplicito alla precedente fase processuale e la manifesta volontà di riattivare il giudizio col ricongiungimento delle due fasi in unico processo. La giurisprudenza di legittimità ha poi precisato non essere necessaria la riproduzione integrale dell’atto introduttivo, né la riproduzione specifica di tutte le domande, ma che è sufficiente fare ad essa richiamo ed indicare altresì il provvedimento in forza del quale è fatta la riassunzione medesima16, ossia una riassunzione delle precedenti domande con l’indicazione del precedente svolgimento del processo e della sentenza di incompetenza17. Parte della dottrina ritiene poi che qualora sia avvenuta la translatio e l’atto di riassunzione sia stato notificato in termini, la mancata iscrizione della causa a ruolo non determina l’estinzione del giudizio ex art. 307, comma 3, c.p.c., poiché il processo si viene a trovare in una situazione di quiescenza ai sensi dei primi due commi del medesimo articolo ferma restando la possibilità di una successiva ripresa del processo innanzi al giudice competete davanti al quale è avvenuta la translatio. D’ora in avanti, sulla base della disciplina contenuta nell’art. 59 della già più volte citata legge, la prospettiva è diversa, in quanto sarebbe inesatto riferirsi alla riassunzione vera e propria, in quanto chiaramente la norma nel secondo comma utilizza i termini “domanda riproposta” e “successivo processo” come se quest’ultimo fosse totalmente autonomo da quello instaurato innanzi al giudice privo di giurisdizione, nel senso che, pur rimanendo salvaguardati gli effetti sostanziali e processuali originariamente proposti, la domanda deve essere introdotta con la forma dell’atto introduttivo che gli è propria in base alle «modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile», e di conseguenza anche il contenuto non dovrebbe essere inteso come un mero richiamo all’atto originariamente proposto davanti al giudice privo di giuri-

16 Cass., 9 settembre 2004, n. 18170, in Mass. Giur. It., 2004. 17 CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Padova, 2006. 18 CONSOLO, Evoluzioni processuali tra translatio iudicii e riduzione della proliferazione dei

sdizione, ma avere tutti gli elementi delle domande proposte. A tal proposito desta comunque qualche perplessità la formulazione del secondo comma dell’art. 59 per il quale restano ferme «le preclusioni e le decadenze intervenute». Conclusioni L’ammissibilità della translatio iudicii in caso del difetto di giurisdizione sostenuta dall’emergente orientamento giurisprudenziale, ora tradotto in legge non può che essere condivisa, se non altro per la salvaguardia degli effetti sostanziali della domanda presentata innanzi al giudice privo di giurisdizione. Infatti, si tratta di un evolversi fisiologico dello scopo del processo preso in considerazione anche dalla dottrina più sensibile18, da porre in relazione con il principio di economia processuale valevole per ogni sede giurisdizionale. Un’esigenza particolarmente sentita nel giudizio tributario per i rilevanti interessi in gioco e che, proprio in riferimento alla translatio iudicii, è a fondamento della prassi che consente la trasmissione in via amministrativa dei fascicoli dal giudice tributario incompetente a quello indicato come competente19. In tale contesto, si può tuttavia ritenere che l’applicazione del termine di tre mesi, in un giudizio di carattere impugnatorio al fine di ottenere l’annullamento di un provvedimento impositivo, non pare pienamente in sintonia con i principi normativi sottesi a questi procedimenti. Mentre si può considerare più opportuna un’opzione per distinguere da un punto di vista sostanziale i termini per la riassunzione in riferimento alle tipologie di azione: solo nel caso in cui venga proposta un’azione di accertamento potrà valere il termine di sei mesi sancito dall’art. 50, c.p.c. e poi si applicherà il termine previsto dall’art. 38 dopo l’entrata in vigore della riforma contenuta nel citato disegno di legge; nel caso invece di un’azione di annullamento, dovrebbe valere il termine di sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza che ha deciso la questione di giurisdizione o che ha disposto il rinvio, in analogia a quanto previsto per il ricorso introduttivo del giudizio tributario di annullamento20.

riti e dei ritualismi, in Corr. Giur., 6, 2007, 745; ORIANI, È possibile la translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale: divergenze e consonanze tra Corte di Cassazione e Corte costituzionale, in Foro It., 2007, I, 1013.

19 Cass., 1 giugno 1990, n. 5150 in Mass. Foro It., 1990. 20SCOGNAMIGLIO, Translatio iudicii, giudice ordinario e giudice amministrativo, in Foro Amm., 2007, 2109.


Riscossione 1 2009 123

RISCOSSIONE 21

Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. XI, 20 novembre 2008, n. 134 Presidente: Brusati - Relatore: Ballardini

Riscossione - Cartella di pagamento - Notifica al socio accomandatario di società fallita - Avviso di accertamento notificato soltanto al curatore - Nullità (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 147; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 54, 55, 56 e 57) È nulla la cartella di pagamento notificata al socio accomandatario di società dichiarata fallita, dopo che, durante la procedura concorsuale, l’avviso di accertamento Iva, emesso nei confronti della società, sia stato notificato soltanto al curatore fallimentare. La sig.ra [...] ha proposto opposizione alla cartella n. [...] relativo ad importi non pagati ed omesse dichiarazioni della S.a.s. [...] per l’anno 1991. Narra la ricorrente di essere stata socia accomandataria della società (dichiarata fallita nel 1992) sino al marzo 1991 e che, una volta dichiarato il fallimento della società, il curatore di questo, dott. [...], ha chiesto ed ottenuto dichiarazione di fallimento anche nei suoi confronti. Ottenuta la riabilitazione civile, il 16 aprile 2007 la ricorrente si è vista notificare la impugnata cartella, pur non avendo, a suo tempo, ricevuto la notifica di alcun atto ad essa prodromico. Ne eccepisce pertanto la nullità. Si costituisce l’Agenzia delle Entrate Bologna 3, affermando che l’avviso di rettifica fu, a suo tempo, notificato al curatore del fallimento, [...], ed al legale rappresentante e socio accomandatario della società sig. [...]. Produce fotocopia delle relate di notifica, ed insiste per il rigetto del ricorso. Alla udienza del 9 maggio 2008 sono presenti i difensori delle parti, che si riportano alle rispettive difese, chiedendone l’accoglimento. Nota I giudici di merito, nella condivisibile sentenza in commento, respingono la ricorrente pratica degli uffici di notificare un’ingiunzione di pagamento (rectius: cartella esattoriale) al socio di società di persone dichiarata fallita (e che sia stato a sua volta dichiarato fallito a seguito di “estensione del fallimento” dalla società ai soci – ex art. 147 legge fallimentare) nel momento in cui lo stesso socio è riabilitato ovvero ritorna in bonis. E ciò al solo fine di ottenere il soddisfacimento di crediti tributari sorti in epoca anteriore all’apertura della procedura concorsuale nei confronti della società. I giudici di primae curae, annullando l’atto esattivo in mancanza della notifica dell’atto presupposto (rectius: avviso di accertamento), hanno così ben giudicato, uniformandosi ad un orientamento giurisprudenziale consolidato della Corte di Cassazione (si veda, fra le altre, Cass. trib., 24 febbraio 2006, n. 4235; 14 maggio 2002, n. 6937; 20 novembre 2000, n. 14987; 28 aprile 1997, n. 3667; 11 luglio 1996, n. 7561, n. 3020 del 12 febbraio 2007 e, da ultimo, 18 dicembre 2008, n. 29642). Le suddette conclusioni si basano sul principio assodato che il fallito non perde durante il fallimento la sua qualità di “contribuente”, e quindi di soggetto dotato di attitudine giuridica ad agire nei confronti del fisco ed a ricevere atti dell’amministrazione finanziaria, avvisi di accertamento, iscrizioni a ruolo, ecc. (sul-

La Commissione pone quindi il ricorso in decisione. Il ricorso appare accoglibile, per i motivi che si vanno ad esporre. La normativa vigente prevede che la notifica della cartella esattoriale sia preceduta da quella dell’avviso di rettifica o d’accertamento per cui si procede. Nel caso in esame, per stessa ammissione dell’amministrazione opposta, la ricorrente non ha mai ricevuto alcuna precedente notifica. L’ufficio ha prodotto la fotocopia di un processo verbale di constatazione e avviso d’accertamento, relativo all’anno d’imposta 1991, notificato al curatore dott. [...] il 23 maggio 1997, e la copia di un tentativo di notifica dello stesso, indirizzato al sig. [...], presso l’abitazione privata e non presso la sede della società, con conseguente dichiarazione d’invio di raccomandata ex art. 140, c.p.c. In merito all’asserito invio della raccomandata, si deve rilevare che la fotocopia della cartolina che dovrebbe attestarne il ricevimento, porta il timbro di un’agenzia di recapito espressi, non porta alcun numero di raccomandata postale, e le firme dell’incaricato alla consegna e del ricevente sono assolutamente illeggibili. Appare quindi evidente che mai alla ricorrente, e nemmeno al legale rappresentante all’epoca delle accertate irregolarità, sia stato notificato alcun atto di rettifica o d’accertamento, e che pertanto «la mancata notifica di tali atti, ed in particolare dell’avviso d’accertamento, in quanto necessari alla successiva iscrizione dell’avviso d’accertamento, in quanto necessari alla successiva iscrizione a ruolo della cartella di pagamento, origina la conseguente invalidità anche della medesima cartella di pagamento» (Comm. trib. reg. Liguria, sez. I, n. 73/2006). A ciò si aggiunga che, trattandosi di credito tributario relativo al 1991, esso appare prescritto, anche in considerazione dell’accertata mancanza di atti interruttivi. la legittimazione del fallito ad impugnare gli avvisi di accertamento cfr.: Comm. centr., 30 maggio 1977, n. 7276, in Giur. It., 1978, voce Fallimento, 780; nel senso che la legittimazione del curatore non esclude quella del fallito, di cui non può essere leso il diritto di difesa, v. Cass. pen., 30 marzo 1983, in Riv. Pen., 1984, 351 e in Riv. Cass. Pen., 1984, 1811, e Cass. pen., 14 settembre 1983, in Fallimento, 1984, 471 e in Giur. Imposte, 1984, 433). Le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno chiaramente affermato che la perdita della capacità processuale del fallito non è assoluta, ma solo relativa alla massa dei creditori (Cass. civ., sez. un., 21 luglio 1998, n. 7132). Più in particolare, il fallito conserva la capacità processuale proprio in relazione a quei rapporti dai quali potrebbe derivargli un autonomo giudizio (come in caso di notifica di accertamenti posti in essere dagli uffici finanziari) e dove, un’eventuale omissione nella notifica al fallito, lo priverebbe della possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa, costituzionalmente garantito ai sensi dell’art. 24 della Costituzione (così Comm. trib. 22 gennaio 1992, n. 401. Si veda anche Comm. Prov. Bari, 27 marzo 2008, n. 74, in questa rivista, 2008, 4, 714 ss., con nota di MARENGO, Avviso di accertamento motivato per relationem, garanzie del contribuente e posizione del curatore fallimentare). Peraltro, la medesima amministrazione finanziaria, intuendo la particolare delicatezza della tematica in oggetto, con la circolare n. 16/8189/A del 18 ottobre 1984, aveva già da tempo dettato


124

GiustiziaTributaria

1 2009

disposizioni ai propri uffici affinché procedessero alla notifica degli avvisi di accertamento non soltanto al curatore, ma anche al contribuente fallito. Pertanto qui giunti è possibile affermare che l’atto impositivo debba essere notificato sia al curatore, visto che i crediti fiscali partecipano al concorso fallimentare, sia al contribuente, sempre titolare del rapporto tributario e destinatario, comunque, delle eventuali conseguenze sanzionatorie e patrimoniali dell’atto impositivo divenuto definitivo. In mancanza di quest’ultima notifica si verifica la nullità insanabile della cartella esattoriale indirizzata al contribuente quale diretta conseguenza dell’accertamento (Corte di Cassazione, con sentenza 8 marzo 2002 n. 3427, ha altresì affermato che tali principi valgono, in particolare, per le ipotesi, quale quella di specie, di fallimento “per estensione” di socio di società in accomandita semplice – dichiarata fallita e soggetto passivo Iva, relativamente a periodi anteriori alla dichiarazione di fallimento). I giudici, nella sentenza qui in commento, osservano, peraltro con un obiter dictum, che il credito tributario, in quanto relativo al 1991, «appare prescritto, anche in considerazione dell’accertata mancanza di atti interruttivi». Tale riferimento non appare chiaro, posto che le norme tributarie stabiliscono in genere termini decadenziali all’esercizio della funzione impositiva e non termini prescrittivi. In specie, per quanto riguarda l’Iva, l’art 57 del D.P.R. 633/1972, rubricato «Termine per gli accertamenti», al comma 1 stabilisce «gli avvisi relativi alle rettifiche e agli accertamenti previsti nell’art. 54 e nel comma 2 dell’art. 55 devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione». Pertanto, alla fattispecie esaminata dai giudici, stante la disposizione contenuta nell’art. 57 citato, non possono certo essere applicate le disposizioni riguardanti la prescrizione, ma quelle del-

la decadenza. Da ciò deriva che all’amministrazione è precluso il diritto di rinnovare la notifica dell’atto di accertamento non già per il decorso del termine di prescrizione ma per lo spirare del termine decadenziale per l’esercizio della funzione impositiva (differente è l’ipotesi della pretesa tributaria di un debito Iva rinveniente da una dichiarazione regolarmente presentata, trattandosi in questo caso di un diritto di credito già esistente e soggetto a termini prescrizionali. Per un approfondimento sul tema si rinvia a CAPELLO, La prescrizione civile, penale e tributaria, 2007, 976). Al fine di comprendere appieno il ragionamento proposto, giova ricordare che gli istituti che portano all’estinzione di un rapporto obbligatorio, in virtù del decorso del tempo legata all’inerzia del creditore, sono due: la prescrizione e la decadenza. La prescrizione porta all’estinzione di un diritto (già valido ed esercitabile) a causa del suo mancato esercizio (da parte del titolare) per un periodo di tempo prolungato determinato dalla legge (art. 2934, comma 1, del Codice civile). La decadenza impedisce il sorgere del diritto, se questo non è fatto valere nei termini fissati dalla legge. L’art. 2966 del Codice civile, infatti, dispone che la decadenza è impedita solo con il compimento degli atti previsti dalla legge così (Cass., sent. n. 4043 del 6 novembre 1976; si veda anche Cass., sent. n. 12411 del 9 settembre 2000). Infine, si sottolinea che la decadenza, diversamente dalla prescrizione, non può subire né interruzioni né sospensioni, salvo particolari casi espressamente previsti dalla legge (si pensi, ad esempio, all’art. 245 c.c., in tema di sospensione del termine per l’azione di disconoscimento della paternità e, in campo tributario, alla proroga biennale dei termini di accertamento per i contribuenti che non si sono avvalsi del cd. condono, previsto dall’art. 7 ss. della L. 289/2002). Pertanto, per impedire che si verifichi la decadenza, è necessario che chi ne ha facoltà compia gli atti previsti per affermare il diritto nei confronti della controparte.


Atti e interventi 1 2009 125

ATTI E INTERVENTI L’IMPONIBILITÀ FISCALE DEL RISARCIMENTO DEL DANNO ALLA PROFESSIONALITÀ ED ALL’IMMAGINE di Paolo Barabino

Una recente pronuncia della Corte di Cassazione1 offre l’opportunità di studiare la problematica dell’assoggettamento a tassazione di una somma percepita da un lavoratore subordinato a titolo di risarcimento: trattasi, in tal caso, del ristoro a fronte del danno alla professionalità ed all’immagine derivanti da demansionamento, che vede quale punctus dolens dell’intera vicenda2 processuale tributaria la natura del risarcimento stabilito, ovverosia l’interpretazione delle norme del Testo unico relativamente sia alla sostituzione del reddito ed al risarcimento del danno (con la conseguente distinzione concettuale tra danno emergente e lucro cessante) sia al relativo regime di tassazione separata (rectius l’interpretazione degli artt. 6 e 17 del D.P.R. 917/1986). Occorre, dunque, indagare sulla natura di una erogazione (sia essa in denaro od in natura) nonché sulla veste che essa può assumere, a seconda della quale risulterebbe idonea, o non, a generare materia imponibile. In primis, analizzando il contenuto del citato art. 6, comma 23, e limitando la fattispecie all’ambito del rapporto di lavoro, la ratio normativa può essere esemplificata nella liquidazione dell’indennità di fine rapporto non in denaro ma mediante buoni postali fruttiferi ritenuti imponibili alla stregua del regime della somma sostituita4. Nell’ambito delle vicende patologiche che possono caratterizzare un rapporto di lavoro fondamentale distinzione tra le eroga-

1 Corte Suprema di Cassazione, sez. V civ., sent. n. 28887, pronunciata il 23 novembre 2008, depositata il 9 dicembre 2008, nella quale: in tema di imposte sui redditi le somme percepite dal contribuente a titolo di risarcimento, financo esso derivi da un provvedimento dell’autorità giudiziaria in merito a questioni di lavoro, formano materia imponibile a condizione che rappresentino il reintegro di un danno consistente nella mancata percezione di redditi. 2 Il datore di lavoro (una banca) al momento della erogazione della somma risarcitoria assoggettò la stessa a ritenuta fiscale (probabilmente al fine di non esporsi, non applicandola, al rischio di sanzione amministrativa, mostrandosi tuttavia eccessivamente legato ai propri doveri di sostituto d’imposta al momento si elargire il risarcimento a cui era stato condannato), ed indusse così il lavoratore a ricorre presso il giudice tributario mediate l’impugnazione del silenzio-rifiuto dell’amministrazione finanziaria sull’istanza di rimborso dell’Irpef da ritenuta: gli esiti dei primi due gradi di giudizio, avvenuti nel 2001 e nel 2003, respinsero univocamente le doglianze del lavoratore ricorrente facendo prevalere la tesi dell’imponibilità dell’indennità, privilegiando la tassazione delle somme risarcitorie in quanto somme “comunque” percepite e derivanti da «provvedimento dell’autorità giudiziaria relativa a questioni di lavoro» (così la lett. a, comma 1, dell’art.

3

4 5

6

zioni scaturenti è quella delineabile tra somme con funzione risarcitoria e sostitutiva. In linea generale, quella risarcitoria richiama la distinzione civilistica5 tra danno emergente e lucro cessante e si proietta in ambito tributario, mantenendone la propria valenza, riferendosi all’obbligazione esistente tra il datore di lavoro e il dipendente, assunta a presupposto dell’imposta. La funzione sostitutiva, intende meglio specificare la distinzione civilistica in seno alla fattispecie tributaria nel rispetto dei principi (costituzionali) a questa propri6. Nello specifico, anche in considerazione delle pattuizioni private, occorre effettuare una ulteriore distinzione all’interno delle erogazioni risarcitorie: quanto viene erogato in luogo di un “valore” che, se percepito fisiologicamente in un momento anteriore a quello della sua effettiva erogazione avrebbe rappresentato un elemento reddituale per il percipiente e, a contrariis, quanto non costituisce un nuovo “valore”, ma una mera reintegrazione patrimoniale sostitutiva ma non accrescitiva del patrimonio giuridico del lavoratore7. Di particolare interesse, quali espressione di un giudizio di fatto8 – e in assenza di un’espressa presa di posizione da parte del D.Lgs n. 314/1997 che obbliga ad analizzare caso per caso ciascuna fattispecie assieme alle diverse ipotesi interpretative, gravando il contribuente dell’onere di provare la natura del danno risarcito9 – si citano i casi dell’indennità per ferie non godute10,

17 del T.U.I.R.). Occorrerà l’intervento del giudice di legittimità per accogliere il ricorso del lavoratore dipendente, statuire il rimborso delle ritenute applicate al risarcimento danni, assumendo quale fulcro dell’argomentazione il non concretarsi, nel caso di specie, di una diminuzione stipendiale. Il quale recita: «proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti». Cfr. Cass., sez. trib., 30 marzo 2004, n. 6315. L’art. 1223 del codice civile prevede che «il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta». Sul punto TOSI, La nozione di reddito, in AA.VV., L’imposta sul reddito delle persone giuridiche; (Giur. Sist. Dir. Trib. a cura di Tesauro), Torino, 1994, I, 33 ss. In giurisprudenza la distinzione è assunta come fondamentale espressamente in Cass., sez. I, 14 dicembre 1999, n. 14006 e in Cass., sez. I 17 dicembre 1999, n. 14198 entrambe in Boll. Trib., 2001, 72 ss., nonché a Cass., sez. I, 11 ottobre 1997, n. 9893; ivi, 1998, 1149 con nota di LO-

VECCHIO, Trattamento fiscale delle transazioni da lavoro: la soluzione della Corte. 7 Così CROVATO, Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, cit., 109 ss.; nella stessa «dottrina ministeriale» (FERRANTI-DODERO-ZACCARIA, I redditi, op. cit., 25) viene specificata la non tassabilità delle somme che «intendono ricostruire il mero patrimonio» in quanto non vi sarebbe alcun fenomeno di sostituzione di un reddito non conseguito. 8 Che si tratti di una situazione di fatto e non di diritto è affermato, nella giurisprudenza di legittimità, da Cass., 10 marzo 2000, n. 2745 in Boll. Trib., 2001, 790 in ordine alla tassazione delle somme corrisposte a seguito di una transazione intervenuta tra il dirigente ed il datore di lavoro nelle more del processo avente ad oggetto l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento. 9 Così espressamente Cass., sez. trib., 17 febbraio 2004 n. 3082, ma anche Cass., sez. trib., 17 agosto 2004 n. 16014. 10 Nel rinviare per tutti a BATOCCHI, L’indennità per ferie non godute. I. Profili generali, in AA.VV., I redditi di lavoro dipendente, a cura di Ficari, Torino 2003, 384, nonché a PURI L’indennità per ferie non godute. II. Argomenti a sostegno dell’intassabilità, ivi, 414, per un’analisi di dettaglio della questione ricordiamo nel senso della non imponibilità pur ai fini previdenziali Cass., sez. lav., 2 febbraio 2000, n. 10173 in Riv. Dir. Trib., 2001, 285 ss., la quale ha evidenziato la funzione


126

GiustiziaTributaria

1 2009

dell’indennità risarcitoria del cd. danno biologico11, dell’indennità supplementare per ingiustificato licenziamento del dirigente rispetto ad un patrimonio “professionale” del medesimo12, delle somme erogate dal datore di lavoro in relazione alla cessazione del rapporto di lavoro13. Similmente, indicatore della natura promiscua delle erogazioni esaminande, frapposte fra valore reddituale e risarcitorio, si segnala l’assoggettamento a tassazione di particolari indennità mediante la previsione di una franchigia o percentuale14. Di converso, la previsione normativa riguardante la indennità per il cd. incentivo all’esodo15. Nei casi citati, dunque, la contrapposizione danno emergente/lucro cessante risulta sufficiente ad escludere l’applicazione degli artt. 49 e 51 del T.U.I.R. In secundis, l’analisi dell’art. 17 del T.U.I.R. potrebbe suggerire (non correttamente) la valutazione di un autonomo ruolo qualificatorio della disposizione in materia di tassazione separata16. Tale norma è investita da problemi interpretativi anche in considerazione della propria collocazione in seno all’art. 17 piuttosto

risarcitoria del danno fisico e psichico subito dal lavoratore per violazione dell’art. 2109 del codice civile e dell’art. 36 della Costituzione; nel senso dell’imponibilità Cass., sez. trib., 18 ottobre 2004, n. 20384; 29 marzo 2004 n. 6246; 26 settembre 2003 n. 14304 che consolidano un precedente orientamento; contra Cass., 21 ottobre 1998, n. 10419 cui si aggiunga, nella giurisprudenza di merito, Comm. trib. prov. Roma sez. XLIII, 8 marzo 2001, n. 33/1943. 11 Vedi per l’imponibilità Cass., 19 ottobre 2000, n. 13860, contra Comm. trib. prov. Milano 31 gennaio 2005 n. 297. Similmente, con riferimento al danno all’immagine cfr. sulla non imponibilità Comm. trib. prov. Milano 28 febbraio 2001 n. 53. 12 Cfr. BATOCCHI, L’indennità supplementare per ingiustificato licenziamento del dirigente d’azienda, in AA.VV., I redditi di lavoro dipendente, cit., 429 ss.; FICARI, Brevi note sulla tassazione delle erogazioni pararetributive, in Riv. Dir. Trib., 1993, I, 980 ss. Vedasi anche la recente sentenza n. 30433 emessa dalla Corte di Cassazione il 30 dicembre 2008, nella quale si sancisce l’assoggettamento a tassazione dell’indennità per licenziamento ingiustificato di un dirigente, essendo stata rilevata natura reddituale derivante da una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, Cass., sez. trib., 12 gennaio 2009 n. 360, in cui si chiarisce che «tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, e quindi tutte le indennità aventi causa o che traggano comunque origine dal rapporto di lavoro, comprese le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento del datore di lavoro, costituiscono redditi da lavoro dipendente» salvo che il contribuente dimostri che l’indennità si riferisca (in tutto o in parte) a voci di risarcimento puro (cfr. sulla non tassazione a seguito della dimostrazione del carattere risarcitorio dell’indennità, Comm. trib. reg. Umbria 4 luglio 2000, n. 465). 13 Cfr. Cass., sez. trib., 28 giugno 2007, n. 14911, in Boll. Trib., 2007, 1905 ss., in cui si stabilisce che la natura risarcitoria o reddituale di

che similmente a quanto previsto negli artt. 49 ss. del T.U.I.R. in ordine alle somme di cui all’art. 429 del c.p.c.: in tale ultima fattispecie, il Testo unico rinvia esplicitamente alle disposizioni del Codice di procedura civile, inglobando nella sfera dei redditi di lavoro dipendente (ex art. 49, T.U.I.R.) anche la rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro (ex art. 429, comma 3, c.p.c.). Tuttavia, pare ragionevole ritenere che, stante il principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente (contenuto negli artt. 49 ss. del Testo unico), come pure d’altronde la formazione di materia imponibile solo in presenza di lucro cessante (comma 2, art. 6, T.U.), anche nella fattispecie delle transazioni17 (siano essere novative o meno) la rilevanza fiscale delle stesse debba essere generata dalla intrinseca qualificazione reddituale18, proprio in virtù di quel rapporto di genus ad speciem che lega la nozione di reddito a quella di risarcimento19. Solo attribuendo valore decisivo alla natura del risarcimento, e dunque valutando il titolo giuridico20 prodromico al corrispettivo, si preserva la ratio antielusiva21 della suddetta parte dell’art.

una somma deve essere oggetto di accertamento di fatto gravante sul giudice di merito al fine di ricostruire la effettiva volontà delle parti, prescindendo dalla qualificazione attribuita ed appalesata dalle stesse. In tal senso già la Comm. trib. prov. Savona 2 maggio 2000 n. 219. 14 Si pensi all’indennità di trasferimento ed a quelle genericamente corrisposte al lavoratore in conseguenza del trasferimento della sede di lavoro come nei casi dei dipendenti degli istituti di credito e delle più diffuse indennità di trasloco. Si rinvia a RENDA, Le indennità di trasferta e di trasferimento in AA.VV., I redditi di lavoro dipendente, cit., 333; sull’argomento vedasi, comunque, Cass., 14 dicembre 1999, n. 14006 e Cass., 17 dicembre 1999, n. 14198 cit.; Comm. trib. reg. Lombardia sez. XXIII 27 gennaio 1997, n. 37 in Boll. Trib., 1997, 641 ss. 15 L’applicazione dell’imposta avrebbe una sua giustificazione nella circostanza che l’erogazione trovi la propria causa giuridica non in un comportamento illecito o, comunque, idoneo a causare un danno ex art. 2043 c.c. ma nella cessazione anticipata e consensuale del rapporto di lavoro; nel qual caso, la somma deriverebbe, in un nesso di consequenzialità, dal rapporto giuridico o, meglio, dalla sua interruzione per un fatto non patologico come potrebbe accadere nel caso del licenziamento ingiustificato ma fisiologico cioè per un evento concordato dalle parti a seguito di una previsione di legge o di contratto collettivo tale da ricondurre l’indennità di esodo o prepensionamento ad un reddito imponibile perché non eccezionale né non ricorrente ma, invece, inserita in un vero e proprio rapporto obbligatorio come controprestazione (in tal senso Cass., sez. trib., 26 febbraio 2002, n. 2817 in Fisco, 2002, 3006). Si precisa, tuttavia, che codesta indennità, che era assoggetta a tassazione separata a fini agevolativi ex art. 19, comma 4-bis, del T.U.I.R. vigente fino al 12 agosto 2006, non riveste natura retributiva ne è assimilabile all’indennità di preavviso o d’anzianità, in quanto è strumento finalizzato ad agevolare anticipatamente la cessazione del rapporto lavorativo ed a rinnovare i quadri aziendali (così, Cass., sez. trib., 28 settembre 2007, n.

22548). Per tutti BONICHI, Gli incentivi all’esodo in AA.VV., I redditi di lavoro dipendente, cit., 321 ss.; nel senso dell’imponibilità, separatamente, delle somme volte ad incoraggiare la risoluzione anticipata del rapporto Cass., sez. trib., 11 ottobre 2004 n. 20104; 12 agosto 2004, n. 15660; 22 settembre 2003, n. 14001; contra Comm. trib. reg. Lazio 24 febbraio 2003, n. 3; Comm. trib. reg. Campania 16 luglio 2003, n. 40 e 41. 16 L’ultimo periodo del comma 1, lett. a, dell’art. 17, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 32, comma 1 della L. 22 marzo 1995, n. 85, recita: «le somme e i valori comunque percepiti al netto delle spese legali sostenute, anche se a titolo risarcitorio o nel contesto di procedure esecutive, a seguito di provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di transazioni relativi alla risoluzione del rapporto di lavoro». 17 Sul legame tra tassabilità del risarcimento a titolo di lucro cessante e non imponibilità del risarcimento a titolo di danno emergente, cfr. in tal senso Comm. trib. reg. Lombardia 4 marzo 2002, n. 18, Comm. trib. prov. Milano 27 febbraio 1998, n. 6, Comm. trib. reg. Lazio 20 aprile 2005, n. 48, contra Comm. trib. prov. Milano 21 giugno 2000, n. 132. 18 In maniera univoca sulla tassazione delle transazioni da lucro cessante vedasi ex pluribus le sentenze della Cassazione n. 9893/1997, n. 10419/1998, n. 8139/2003. 19 Così, in maniera cristallina, la sentenza della Cassazione n. 5081 del 26 maggio 1999, la quale esplicita la preferenza che è necessario attribuire alla distinzione tra prestazioni reddituali e risarcitorie rispetto alla qualificazione dell’erogazione come emolumento: un risarcimento sarà escluso dalla sfera del reddito di lavoro dipendente grazie alla nozione stessa di reddito, ovverosia l’esenzione sarà giustificata dalla non emersione di nuova ricchezza. 20 Indagine da svolgere al fine di individuare la vera natura di quanto convenuto dalle parti, mediante l’applicazione del principio della prevalenza della sostanza sulla forma (Cfr. Cass., sez. trib., 28 giugno 2007, n. 14911, op. cit.; Cass., 2 ottobre 2008, n. 24432). 21 Il legislatore si premura di evitare che possa essere sottratto parte del reddito semplicemente mutando la forma dell’erogazione in


Atti e interventi 1 2009 127

17 T.U. ovverosia l’evitare la formazione di transazioni fittizie. La disposizione in materia di tassazione separata non mira a definire una nuova categoria reddituale, soggiacendo al vincolo della tipizzazione ex art. 6 del T.U.I.R., né ad innovare nei criteri qualificatori delle diverse categorie reddituali, quanto a disciplinare un metodo di definizione della misura dell’aliquota in termini di tendenziale medietà che dia conto della formazione pluriennale di una componente reddituale che aliunde viene già qualificata come imponibile in capo al beneficiario: di conseguenza, resterà necessaria l’indagine se quanto erogato abbia funzione di risarcire un danno emergente od un lucro cessante22. A chiusura delle considerazioni suesposte, prescindendo dallo status del lavoratore dipendente, all’uopo di scongiurare l’imposizione fiscale è necessario che l’erogazione di un “valore”, in denaro o in natura, non possa essere collocata all’interno della categoria dei redditi diversi ex art. 67, comma 1, lett. l, del Testo unico e dunque non derivi «dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere»23: nello specifico, l’obbligazione di non fare si dovrebbe concretizzare nella rinunzia all’azione giurisdizionale o al perseguimento della stessa, ovvero nella rinunzia da parte del lavoratore all’esercizio di diritti disponibili a fronte del

indennità, non imponibili, qualsivoglia definite. Parimenti l’orientamento della Amministrazione finanziaria (risoluzioni 8625/1993, 5-393/1994, circolare 326/E 1997) la quale esemplifica le indennità e somme che vanno assimilate (e tassate) come reddito di lavoro dipendete: cassa integrazione, indennità di disoccupazione, mobilità, indennità di maternità. 22 In questi termini con riguardo alle somme erogate a titolo transattivi cfr. Cass., sez.

pagamento di somme di denaro. Tuttavia, la condizione necessaria affinché si possa coinvolgere la categoria dei redditi diversi è l’estraneità della erogazione rispetto al rapporto lavorativo: fattispecie assai rara, un cui esempio può essere rinvenuto nelle somme che le aziende private, tenute all’assunzione obbligatoria del personale ai sensi della legge 2 aprile 1968, n. 482 corrispondevano ai soggetti avviati al lavoro al fine di ottenere da essi la rinuncia all’assunzione, delineando un quadro in cui la somma oggetto di transazione poteva essere esclusa dai redditi di lavoro dato che il rapporto lavorativo con i soggetti interessati si sarebbe costituito sulla base di un successivo contratto24. In definitiva, alla luce delle considerazioni di cui sopra, riosservando il contenzioso tributario25 che ha dato spunto alle stesse, si rimarca come la non convergenza dell’operato del giudice di merito26 a quello del giudice di legittimità, dovrebbe essere riallineata (in tal caso concordemente all’orientamento dottrinale) mediate una attività ermeneutica caratterizzata da un sovraordinamento (in quanto espressione di un rapporto di genere a specie) dell’art. 5 rispetto all’art. 17 del T.U.I.R., in ragione della (complessa, se non utopica) ricerca dei principi generali di diritto tributario.

trib., 24 luglio 2003, n. 11501; 25 giugno 2003, n. 10085 entrambe nel senso dell’imposizione delle somme erogate perché a titolo di risarcimento di un lucro cessante. 23 Cfr. MASTROIACOVO, Le transazioni di lavoro in AA.VV., I redditi di lavoro dipendente, Torino, 2003, 354 ss. 24 Tale qualificazione è stata sostenuta dall’Agenzia delle Entrate nella risoluzione 22 luglio 1996, n. 150. 25 V. supra nota n. 1.

26 La Commissione tributaria regionale della Lombardia che ha emesso la sentenza (n. 45 del 7 ottobre 2003) poi impugnata dal lavoratore presso la Suprema Corte di Cassazione (dando luogo alla sentenza di cui alla nota n. 1) svolse un percorso logico-giuridico connotato dall’attribuire alla indennità conseguita a titolo di risarcimento danni, conferita tramite una sentenza del giudice del lavoro, valore reddituale e dunque assoggettabile a ritenuta fiscali Irpef.

RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA SUL DIRITTO PENALE TRIBUTARIO (2007/2008) di Gian Luca Soana

1. Premessa La presente rassegna ha quale obiettivo quello di richiamare gli interventi più rilevanti avutisi nel biennio 2007/2008 – con alcuni richiami anche al 2006 – da parte della giurisprudenza della Suprema Corte e, laddove pubblicata o conosciuta, dei giudici di merito in materia di diritto penale tributario. Rassegna che si limiterà ad un richiamo a queste decisioni ed alle questioni risolte od, invece, sollevate. Il tutto in relazione unicamente alle fattispecie nelle quali sono intervenute decisioni significative1. 2. Il delitto di utilizzazione di fatture false (art. 2) Diverse sono le decisioni avutesi in relazione a questa fattispecie che costituisce, insieme al parallelo art. 8, la fonte di maggiore intervento in questa materia. In primo luogo alcune sentenze sono intervenute per eliminare quei dubbi sorti subito dopo la riforma in relazione all’effettiva portata della nozione di operazioni qui rilevanti in quanto da

1 Per maggiori approfondimenti sullo stato attuale della giurisprudenza e della dottrina in materia di diritto penale tributario, cfr.:

considerare come «in tutto o in parte inesistenti» per come definite dall’art. 1, lett. a, ove queste vengono indicate come relative a quelle fatture emesse a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte. Al riguardo, si è, innanzitutto, confermato come in questa nozione rientrino, oltre ai casi nei quali vi sia una mancanza assoluta dell’operazione fatturata – cd. inesistenza oggettiva assoluta – anche quelli ove, a fronte di una operazione realmente effettuata, vi sia una divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale. Si è, poi, specificato come siano, sicuramente, comprese in questa nozione le operazioni di cd. sovrafatturazione quantitativa da valutarsi come presente ogni qualvolta si abbia, in fatto, una parziale divergenza tra il reale e quanto indicato in fattura – cd. inesistenza oggettiva relativa – in quanto l’operazione economica si è effettivamente verificata fra i soggetti in essa indicati, ma in termini quantitativi minori rispetto al dichiarato2; il tutto confermando

SOANA, I reati tributari, Milano, 2009, 2a ed., 1-489. 2 Cass., sez. III, 25 ottobre 2007, 15 gennaio

2008, n. 1996, con nota di FIGURA, in Fiscalitax, 2008, 409.


128

GiustiziaTributaria

1 2009

– attraverso un espresso richiamo a quella decisione – quanto già indicato nella vigenza dell’art. 4 della legge n. 516/19823. La stessa Suprema Corte ha, poi, valutato la presenza di questo reato anche per operazioni che, pur se realmente effettuate, siano da considerare come giuridicamente inesistenti. Si fa riferimento a quei casi di simulazione relativa ove nel documento venga attestato il compimento di un negozio giuridico (apparente) diverso da quello realmente intercorso tra le parti: chiaramente laddove questo determini o sia, comunque, indirizzato a conseguire una evasione di imposta. Al riguardo, subito dopo l’entrata in vigore della riforma dei reati tributari, parte della dottrina ha indicato come questo tipo di operazioni non avrebbero avuto più rilevanza penale in quanto l’inesistenza qui richiesta è solo quella materiale e non anche quella giuridica ove, pur in presenza di una simulazione, la sostanza del rapporto economico è reale ed effettivo essendo avvenuta l’operazione indicata, pur se con una causale mendace. In particolare, a supporto di questa tesi, si è indicato4 come l’art. 1, lett. a, nel definire la nozione di fatture per operazioni inesistenti, aggiunga – rispetto alla previgente definizione presente nell’art. 4, lett. d – l’avverbio “realmente” proprio a volere intendere – secondo questa prospettazione – come il legislatore abbia voluto privilegiare un concetto di inesistenza materiale dell’operazione superando l’interpretazione di segno opposto5. In senso diverso si è orientata la Suprema Corte che, nell’annullare una sentenza di assoluzione, ha indicato come – in una ipotesi ove la movimentazione di denaro tra due società, nel trovare la sua causa formale nell’assunta forniture di beni e servizi, in realtà dissimulava un finanziamento di una società in favore dell’altra con non trascurabili vantaggi fiscali – rientrino nella nozione di cui all’art. 1, n. 1, lett. a, anche le operazioni aventi qualificazione giuridica diversa da quella indicata in fattura; ciò in quanto l’operazione riferita nella fattura non essendo mai stata posta in essere – in quanto diversa da quella effettivamente realizzata – deve valutarsi come inesistente; il tutto concludendosi come, in queste ipotesi, ricorra la fattispecie in esame in quanto «è vero che un’operazione esiste, ma non quella documentata»6. In applicazione di questi principi si è affermata la presenza di una soprafatturazione qualitativa nel caso di un contratto di leasing ove una delle società coinvolte aveva stipulato un contratto di leasing in relazione ad un prezzo superiore a quello a cui la società fornitrice gli aveva venduto il bene; in questo contesto, a seguito del pagamento da parte della società di leasing al fornitore del bene, quest’ultimo aveva restituito, poi, all’utilizzatore dello stesso la parte “gonfiata” del prezzo, depurato di una percentuale che tratteneva a titolo di compenso. Il vantaggio derivante da questa operazione era per l’utilizzatore/locatario dato sia dall’avvenuta restituzione da parte del fornitore di una cospicua parte del sovraprezzo del bene ceduto alla società di leasing sia dal pagamento a quest’ultima di canoni di locazione calcolati anche sulla par-

3 Cass., sez. III, 21 gennaio 1997, con nota di BASILE, in Ced. Cass., n. 206945. 4 PRICOLO, in Commento all’articolo 2, in AA.VV., Diritto e procedura penale tributaria, a cura di Caraccioli-Giarda-Lanza, Padova, 2001, 100; IZZO, Dichiarazione fraudolenta mediante fatture o documenti per operazioni inesistenti, in Fisco, 2000, 5206; CARACCIOLI, Sull’imposta evasa il rischio di confusione, in Guida Dir., 2000, 14, 56; BRICCHETTI, Operazioni inesistenti: da diciotto mesi a sei anni, in Guida Dir., 2000, 14, 76; GIORDANENGO, Unico 2000: profili penali, in Fisco, 2000, 7167. 5 Nella vigenza dell’art. 4, lett. d, si era affermata la rilevanza penale della cd. inesisten-

te di prezzo non pagata – perché restituita dal fornitore del bene – con conseguente creazione di una componente negativa di reddito in parte fittizia e con conseguente evasione di imposta sui redditi e Iva7. Il tutto, essendosi evidenziato, come non abbia, poi, rilevanza ai fini della penale responsabilità ex art. 2 dell’utilizzatore della fattura, la circostanza che la società di leasing emittente – nel commettere dal punto di vista oggettivo il delitto di cui all’art. 8 – fosse all’oscuro di questa condotta fraudolenta – credendo di pagare il prezzo effettivo – essendo quest’ultimo elemento idoneo ad escluderne la sua responsabilità penale ma non ad escludere, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo, il delitto qui in esame per l’utilizzatore di queste fatture. In modo analogo si è valutato nel caso di un contratto di leasing ove – ancora una volta all’insaputa della società di leasing – di fatto il bene oggetto di leasing era già di proprietà del locatario il quale, con questa operazione e con la complicità del fittizio venditore del bene, era riuscito ad ottenere un finanziamento con conseguenti vantaggi anche fiscali (a mezzo, tra l’altro, della detrazione di un canone di leasing che, in realtà, rappresentava la restituzione di un finanziamento). In questi casi si è ritenuta la presenza di questo reato sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo non richiedendosi per la sua sussistenza la consapevolezza da parte dell’emittente della fittizietà delle fatture8. Si è, poi, chiarito come, invece, non rientrino nella nozione di inesistenza quei casi ove si contesti non già l’inesistenza, anche solo giuridica dell’operazione effettuata, ma la congruità o l’economicità di operazioni pur realmente pagate restando una tale ipotesi fuori dalle previsioni dell’art. 29. Dal punto di vista, invece, della cd. inesistenza soggettiva una decisione di merito ha valutato come presente questo reato nel caso in cui vengano utilizzate fatture relative a beni e/o servizi acquisiti per finalità estranee a quelle aziendali. In particolare, si è affermata – da parte di un giudice di merito – la sussistenza di questa interposizione fittizia nel caso di un imprenditore che aveva effettuato costosi lavori di ristrutturazione di un immobile adibito ad abitazione della propria famiglia ed, in parte, anche all’esercizio dell’attività commerciale, deducendone per intero le spese così sostenute dalle dichiarazioni annuali della società; società che, peraltro, aveva effettivamente sostenuto quei costi che, tuttavia, in parte non erano inerenti all’attività di impresa. Si è, infatti, ritenuto che in una tale ipotesi ricorra il delitto in esame essendo presente nella fattura la chiesta diversità tra il soggetto cui si riferisce l’operazione ed il soggetto a cui questa appare riferirsi. Si è aggiunto come non abbia rilevanza la circostanza che, poi, il pagamento delle fatture sia stato, effettivamente, fatto dal soggetto intestatario delle stesse in quanto la provenienza del denaro è del tutto ininfluente ai fini della sussistenza del delitto in esame tutelando questo, non l’integrità del patrimonio dell’impresa, ma il fedele e completo assolvimento dell’onere tributario, di quanto dovuto, senza indebito abbattimento della base imponibile e, dunque, dell’imposta da pagare10.

za giuridica sostenendosi che oggetto della sanzione è «ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale», Trib. Genova, 25 maggio 1994, con nota di CHIARLE, in Foro It., 1995, II, 267; Trib. Tortona, 13 maggio 1988, con nota di PALAVICINO, in Riv. Pen., 1988, 879; Cass., sez. III, 24 ottobre 1986, con nota di CECI, in Fisco, 1987, 6242; Cass., 17 giugno 1982, con nota di USUELLI, in Cass. Pen., 1984. 6 Cass., sez. III, 6 marzo 2008-3 aprile 2008, 13975, con nota di CARCANO. 7 Trib. Torino, 17 maggio 2007, s.r., in Riv. Dir. Trib., 2008, III, 53 con nota di SOLDI. 8 Cass., sez. III, 14 novembre 2007-19 dicembre

2007, n. 47054. 9 Cass., sez. III, 25 ottobre 2007-15 gennaio 2008, n. 1996, con nota di FIGURA, in Fiscalitax, 2008, 409. 10 Trib. Firenze, 23 marzo-20 giugno 2006, n. 1212, in Riv. Dir. Trib., 2007, 60, con nota critica di GENNAI-TRAVERSI, decisione recentemente annullata dalla Corte di Cassazione nella cui sentenza si è indicato che laddove «l’operazione commerciale sia realmente intercorsa tra i soggetti i quali risultino l’effettivo committente della merce o del servizio ed il cessionario degli stessi e il primo abbia effettuato il pagamento ad essi relativo [...] si è al di fuori della fattispecie criminosa del-


Atti e interventi 1 2009 129

Inoltre, in relazione alla nozione di fattura idonea a documentare un’operazione inesistente, si è indicato come non sia necessario che questa sia stata effettivamente emessa da un terzo in favore dell’utilizzatore ricorrendo questa fattispecie anche laddove il documento falso, utilizzato in dichiarazione, sia stato creato ex novo da parte dello stesso utilizzatore per, poi, farlo apparire come emesso (e ricevuto) da terzi, essendo una tale ultima ipotesi assimilabile al falso ideologico11. In due decisioni si è confermato come per integrare il reato in esame, non sia sufficiente la mera registrazione/detenzione del documento falso, ma è necessario che questo venga inserito nella dichiarazione mendace, precisandosi come quest’ultimo è il momento nel quale viene a perfezionarsi il reato in esame12. In questo ambito si è aggiunto che, allora, nel caso di acquisito di beni strumentali non corrispondenti ad operazioni reali laddove questi vengano, poi, portati, quali elementi passivi fittizi relativi a quote di ammortamento di questi beni, in più dichiarazioni relative ad anni diversi si avrà, per ogni anno, la commissione del delitto qui in esame13. In relazione alla natura della ipotesi meno grave di cui all’ultimo comma dell’art. 2 – con formulazione identica anche per l’ultimo comma dell’art. 8 – sono intervenute due opposte decisioni ove in una si è indicato come trattasi di un reato autonomo14 mentre in altra si è sostenuto che trattasi di circostanza attenuante15. Con riferimento a quanto previsto dall’art. 9, lett. b – ove si esclude la possibilità di concorso dell’utilizzatore nel delitto di cui all’art. 8 – è stata affrontata la questione relativa alla possibilità di ritenere o meno presente questo concorso laddove il ricevente la fattura falsa non l’abbia, poi, utilizzata (non commettendo, allora, il delitto di cui all’art. 2). In modo sintetico, due decisione della Suprema Corte intervenute del 2003 – da parte di sezione diversa da quella abitual-

l’emissione o utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, potendo eventualmente ravvisarsi nei confronti dell’utilizzatore della fattura allorché si accerti la non inerenza della stessa [...] le diverse ipotesi di reato della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) o della dichiarazione infedele (art. 4)»: Cass., sez. III, 26 novembre 2008/23 gennaio 2009, n. 3203. 11 Cass., sez. III, 7 febbraio-23 marzo 2007, n. 12284, con nota di ARGENTO. 12 Cass., sez. III, 6 marzo-9 aprile 2008, n. 14718, con nota di DE FRANCO. 13 Cass., sez. III, 24 settembre-20 ottobre 2008, n. 39176, con nota di AGRAMA; il tutto, non condividendo quanto sostenuto dalla difesa dell’imputato per la quale, essendo la fattura stata inserita in contabilità in occasione della prima dichiarazione, il reato si sarebbe consumato solo per quell’anno e non anche per gli anni successivi; tesi smentita dalla Cassazione per la quale, essendo l’inserimento in contabilità attività prodromica e di per se penalmente irrilevante ed essendo il delitto in esame un reato istantaneo ogni singola dichiarazione nella quale venga utilizzata questa fattura falsa determina, singolarmente, la realizzazione del reato in esame. 14 Cass., sez. III, 6 marzo-10 giugno 2008, n. 23064, con nota di PALAMÀ; a conferma di quanto già indicato, con riferimento al comma 3 dell’art. 8, in Cass., sez. III, 13 maggio-11 giugno 2004, n. 26395, con nota di MADASCHI, in Fisco, 2004, 7659; decisioni ove si è specificato come sia stata utilizzata una tecnica legislativa diretta a determinare la ricorrenza di una fattispecie autonoma per

mente competente – hanno, con quello che è sembrato essere un vero e proprio infortunio ermeneutico, indicato, come in questi casi chi ha ricevuto le fatture false non utilizzandole risponda, a titolo di concorso con l’emittente ex art. 110 c.p., del delitto di cui all’art. 8 avendo con la sua condotta istigato, provocato ovvero rafforzato il proposito criminoso dell’emittente16. Decisioni queste che, nel porsi in chiaro contrasto con la lettera dell’art. 9 del D.Lgs. n. 74/2000, con la relazione governativa e con una antecedente sentenza della Corte costituzionale17, hanno trovato esplicita smentita (con un richiamo critico alla sentenza “Grande”) in una recente decisione della Suprema Corte ove si è indicato come laddove il beneficiario delle fatture false, per una qualsiasi ragione, non si avvalga dei documenti fittizi in una dichiarazione fiscale lo stesso non potrà essere punito né a titolo di tentativo né a titolo di concorso nel reato di cui all’art. 8; ciò per evitare una indiretta resurrezione del reato prodromico18. Il tutto, poi, ribadendosi, in questa stessa decisione, come la registrazione in contabilità o la detenzione ai fini di prova di fatture per operazioni inesistenti, anche se teleologicamente dirette in modo non equivoco alla successiva dichiarazione fraudolenta, non siano punibili, ex artt. 6 e 9, neanche quando il loro successivo mancato inserimento nella dichiarazione derivi, non già da uno spontaneo ripensamento del contribuente, ma dall’intervento, nelle “more”, di un accertamento compiuto nei suoi confronti19. Un’ultima notazione con riferimento al possibile concorso tra il delitto in esame e quello di cui all’articolo 640 comma 2, n. 2, c.p. (truffa ai danni dello Stato): concorso valutato come possibile durante la vigenza della legge n. 516/1982 in relazione alla fattispecie di cui all’art. 4, lett. d 20. In senso diverso, in più sentenze, si è osservato come il reato di cui all’articolo 2 non concorra con quello di truffa aggravata in quan-

evitare gli effetti perversi del giudizio di equivalenza o di prevalenza delle attenuanti. 15 Cass., sez. III, 8 maggio-20 giugno 2008, n. 25204, con nota di LUNETTO, ove si è indicato che anche nell’ipotesi di cui al comma 3, trattandosi di circostanza attenuante, deve procedersi (in relazione alla pena massima prevista dal comma 3) ad udienza preliminare. 16 Cass., sez. II, 16 maggio 2003, n. 24167, con nota di GRANDE, in Cass. Pen., 2004, 1050; Cass., sez. II, 26 settembre-22 ottobre 2003, n. 39991, in Fisco, 2004, 3658, con nota di PERINI. 17 Corte costituzionale, 15 marzo 2002, n. 49, in Foro It., 2003, I, 415, con nota di MELCHIONDA; anche in Rass. Trib., 2002, 731 con nota di PERINI, con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato non fondata la questione di legittimità postagli, tra l’altro, proprio in relazione all’articolo 9, lett. b, questione che traeva origine proprio da una fattispecie nella quale il soggetto che aveva ricevuto le fatture, dopo averne istigato l’emissione, non le aveva indicate in dichiarazione; in questa occasione, il giudice remittente aveva sollevato la questione di legittimità ritenendo che la impossibilità di configurare il concorso per l’utilizzatore nel delitto di cui all’art. 8 potesse costituire una possibile violazione dell’articolo 3 della Costituzione (G.I.P Trib. Brescia ord. n. 297 del 27 gennaio 2001, in Fisco, 2002, 726) e la Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibile detto quesito nella considerazione che una eventuale decisione di incostituzionalità avrebbe svuotato di significato pratico la norma incriminatrice di cui all’articolo 2 in quanto «per effetto dell’applicazione dell’istituto del concorso di

persone nel reato, la linea di intervento penale risulterebbe in concreto spostata, riguardo al destinatario delle fatture, dal momento della dichiarazione a quello della emissione della falsa documentazione». 18 Cass., sez. III, 14 novembre 2007-21 gennaio 2008, n. 3052, con nota di CAPPATO; principio confermato anche da Cass., sez. III; 17 aprile 2008, n. 25129, con nota di FERRARA, ove si è aggiunto come l’art. 9 non escluda, invece, la possibilità del concorso di altre persone nel delitto di cui all’art. 8 secondo le regole generali di cui all’art. 110, c.p. 19 Cfr. anche Cass., sez. un., 25 ottobre 2000, n. 27, con nota di DI MAURO, in Fisco, 2000, 12853; in Rass. Trib., 2000, 1925, con nota di SOANA; in Foro It., 2001, II, 143, con nota di MELCHIONDA; Cass., sez. II, 17 novembre-12 dicembre 2004, n. 47701, in Fisco, 2004, 12086. 20 Cass., sez. III, 16 marzo 2000, con nota di PADOVANI, in Cass. Pen., 2001, 3174. Si è indicato in questa occasione come tra queste due fattispecie non fosse presente alcun rapporto di specialità considerando che, anche se le modalità di commissione del reato tributario costituivano altrettante ipotesi di artifici e raggiri, per la sua configurabilità non si richiedeva l’effettiva induzione in errore dell’amministrazione finanziaria, né il raggiungimento di un ingiusto profitto con danno della stessa amministrazione, essendo sufficiente la semplice messa in opera delle operazioni in esso indicate, con il dolo specifico, consistente nel fine dell’evasione o dell’ottenimento del rimborso, che diversamente manca nel reato di truffa: in questi casi, indi, potevano trovare applicazioni entrambe le fattispecie.


130

GiustiziaTributaria

1 2009

to rispetto ad esso si pone in rapporto di specialità trovando, allora, applicazione solo il delitto tributario. Ciò in quanto quest’ultimo è connotato da uno specifico artificio (costituito da fatture per operazioni inesistenti), da una condotta a forma vincolata (indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi e sull’Iva) e dalla sua natura di reato di pericolo per il quale la tutela è anticipata prescindendo la consumazione dello stesso dal verificarsi dell’evento di danno21. 3. Il delitto di emissione di fatture false (art. 8) Per quanto riguarda questa fattispecie, oltre agli interventi indicati nell’art. 2, si è confermato come trattasi di reato di pericolo astratto per la cui ricorrenza è sufficiente accertare che la immutazione del vero presente nella fattura falsa emessa abbia comportato per i destinatari la possibilità di illeciti vantaggi fiscali. In tale ambito, «non rileva la effettiva utilizzazione delle fatture da parte del soggetto ricevente configurandosi la fattispecie in esame come delitto di pericolo astratto per la configurazione del quale è sufficiente il mero compimento dell’atto tipico22». Si è, poi, confermata la presenza del reato laddove si accerti che l’emittente, oltre a proporsi la finalità di evasione altrui, abbia avuto altra finalità non incidendo questa sulla già avvenuta integrazione del delitto23. In altra decisione, la Corte di Cassazione ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale di questa fattispecie evidenziando come rientri nella legittima discrezionalità del legislatore di prevedere un trattamento sanzionatorio identico a quello di cui all’art. 224. In ultimo si segnala come questa fattispecie sia esclusa dai benefici previsti in materia dalla legge n. 289 del 27 dicembre 2002 per chi si è avvalso del condono tombale. Al riguardo, infatti, l’art. 8 non è incluso – a differenza di quanto avviene per l’art. 2 – tra i reati per i quali è esclusa la punibilità nel caso di accesso a detta definizione automatica. In particolare, a fronte della decisione di giudici di merito che hanno applicato questa esclusione della punibilità anche a questo reato a mezzo di una interpretazione analogica in bonam partem, laddove l’utilizzatore della fattura falsa emessa abbia definito la propria posizione a mezzo del condono25, a conclusioni diverse è giunta la Suprema Corte che ha osservato come la L. n. 289 del 2002 non includa questa fattispecie tra quelle per le quali è prevista questa causa di esclusione della punibilità ed ha aggiunto come detta mancata inclusione non sia in contrasto con la Costituzione tenendo conto sia della differenza strutturale tra questa fattispecie e quella di cui all’art. 2 – in misura tale da non esservi ragioni costituzionali per una loro equiparazione a tali fini – sia della circostanza che chi emette fatture false per consentire a terzi l’evasione non

21 Cass., sez. II, 15-29 ottobre 2008, n. 40429; Cass., sez. II, 11 gennaio-8 febbraio 2007, n. 5656, con nota di PERROZZI; Cass., sez. II, 23 novembre 2006, n. 40226, con nota di BELLAVITA. Sentenze intervenute tutte per annullare decisioni di G.I.P. e di Tribunali del riesame con le quali era stata affermata – sull’assunto di un possibile concorso tra il delitto di truffa ai danni dello Stato e la fattispecie di cui all’art. 2 – la possibilità di applicare la confisca per equivalente prevista in materia di truffa (art. 640-quater c.p.) anche in caso di frode fiscale; il tutto chiaramente con riferimento a fatti avvenuti prima dell’introduzione della confisca per equivalente anche nel diritto penale tributario (cfr. par. 8). 22 Cass., sez. III, 26 dicembre 2006, n. 40172, con nota di DI BELLO; Cass., 21gennaio-14 gennaio 2008, n. 3052, in Giur. Trib., 4, 2008, 338.

può essere ammesso al condono tributario ed alla conseguente esenzione da pena in quanto, con la sua condotta incriminata, non ha maturato alcun debito tributario da condonare26. 4. Le frodi carosello Nell’ambito delle fattispecie di cui agli artt. 2 e 8 un particolare rilievo hanno avuto nell’applicazione giurisprudenziale le cd. frodi carosello in materia di Iva intracomunitaria27. In modo sintetico, trattasi di frodi che avvengono utilizzando la particolare modalità di pagamento dell’Iva nel caso di operazioni intracomunitarie – che non avviene al momento della cessione del bene da parte dell’operatore comunitario ma allorché il cessionario italiano rivende il bene ad altro operatore nazionale – e che ha portato allo svilupparsi di frequenti condotte penalmente illecite dirette a non versare l’Iva dovuta. In diverse decisioni intervenute in materia – a sottolineare l’importanza del fenomeno – è stata descritta la condotta illecita che viene in queste ipotesi compiuta e che, nella forma più semplice, si realizza allorché, a fronte di una cessione reale tra un operatore comunitario ed un operatore italiano, viene inserito, fittiziamente, un (o anche più di uno) terzo soggetto (cd. intermediario) sempre italiano. In particolare, l’operatore comunitario, a fronte di una effettiva cessione di merce in favore di un cessionario italiano per la quale riceve il corrispettivo stabilito, emette la necessaria fattura in favore di un intermediario fittizio; a sua volta, poi, l’intermediario integra la fattura con l’ammontare dell’Iva dovuta per questa operazione, caricandola a debito, e, poi, emette una nuova fattura in favore dell’effettivo acquirente nazionale del bene, già comprensiva dell’Iva. Il tutto con evasione di imposta in quanto l’intermediario – che abitualmente è una “cartiera” spesso creata proprio a tale fine – non versa l’Iva dovuta e l’effettivo acquirente del bene avrà in tale modo risparmiato su questa imposta, non versandola (in quanto per l’operazione fittizia con l’intermediario nulla di fatto ha versato a quest’ultimo) ed, anzi, detraendosela, senza averla mai corrisposta28. Analoghe frodi si verificano laddove questo meccanismo venga attuato acquistando – ed interponendo sempre rispetto all’effettivo acquirente una società di comodo – da un fornitore che agisca in regime di esenzione dall’Iva (o da fornitori di San Marino o da fornitori nazionali che nella dichiarazioni di intenti falsamente attestino la propria qualità di esportatori abituali)29. Sul punto, allora, la Suprema Corte ha evidenziato la presenza, innanzitutto, di fatture false. In particolare, la prima fattura – quella emessa dal fornitore comunitario in favore dell’intermediario – risulta soggettivamente falsa in quanto, a fronte di una operazione realmente effettuata, in essa viene indicato un destinatario diverso da quello reale30.

23 Nel caso di specie, oltre alla finalità evasiva, vi era quella di dissimulare un rapporto di subappalto del quale la società non poteva essere parte per difetto delle condizioni soggettive: Cass., sez. III; 14 novembre 2007-26 marzo 2008, n. 12719, con nota di IANNAZZO. 24 Il tutto tenendo conto della rilevante offensività per gli interessi erariali dello Stato della condotta criminosa tesa a favorire mediante l’emissione delle fatture false l’evasione fiscale di terzi: Cass., sez. III, 14 novembre-19 dicembre 2007, n. 47056, con nota di BARRELLA. 25 G.U.P. Trib. Crotone, 6 aprile-7 maggio 2004, n. 112, in Rass. Trib., 2004, 1102, con nota di ARDITO. 26 Cass., sez. III, 14 novembre 2007-21 gennaio 2008, n. 3052, con nota di CAPPATO. 27 Per un approfondimento si rinvia al capitolo 13 del volume SOANA, I reati tributari, cit.; FURLAN,

Brevi riflessioni sulla riforma penale tributaria e frodi all’Iva intracomunitaria, in Fisco, 2001, 13081; STORARI, Le frodi intracomunitarie nella prospettiva dell’utilizzatore e le frodi con il regime del margine, in www.ius.unitn.it, Università di Trento, seminario del 21 marzo 2007; SOANA, Profili penali dell’evasione da riscossione nell’Iva ovvero delle cd. “frodi carosello”, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 815. 28 Cass., sez. V, 15 dicembre 2006-30 gennaio 2007, n. 3257, con nota di BARISANO et al.; anche Cass., sez. III, 9 ottobre-18 novembre 2002, n. 38652, in Fisco, 2003, 276. 29 Cass., sez. III, 15 marzo-20 aprile 2006, n. 13947, con nota di VARATELLI; Cass., sez. III, 15 marzo-13 aprile 2006, n. 13244, in Fisco, 2006, 5827. 30 Cass., sez. III, n. 13947 del 2006, cit.; Cass., n. 13244 del 2006, cit., 5829.


Atti e interventi 1 2009 131

La seconda, invece, è stata valutata come relativa ad una operazione del tutto inesistente anche dal punto di vista oggettivo; infatti, l’operazione descritta in fattura è assolutamente fittizia in quanto con la sua emissione viene consacrata una operazione commerciale che, in realtà, non è mai intervenuta né tra quelle parti né tra soggetti da esse in tutto od in parte diversi31. Da quanto sopra si è, allora, in modo consequenziali indicato come, in queste ipotesi, per l’intermediario (la cartiera) ricorra il delitto di cui all’art. 8 avendo questi emesso una fattura per una operazione inesistente, con la finalità di consentire al cessionario di evadere imposta. Infatti, con essa, il cessionario potrà evitare di pagare l’Iva relativa al bene da esso acquistato ed, inoltre – facendo apparire come avvenuto questo pagamento in favore dell’emittente (che poi dovrebbe versarla all’erario) – potrà dedursi un costo mai sostenuto32. Di converso, l’utilizzatore della fattura – e cioè l’effettivo acquirente del bene – risponderà del delitto di cui all’art. 2. Questi, infatti, attraverso l’inserimento in dichiarazione di questa fattura otterrà una evasione di imposta in materia di Iva data dall’indicazione di elementi passivi fittizi, costituiti dalla detrazione di Iva in realtà mai versata33 e relativa ad una operazione fittizia34. Si segnala, inoltre, una recente decisione che ipotizza la possibilità di configurare con riferimento all’interposto, oltre ai reati tributari, anche una bancarotta fraudolenta; il tutto laddove chiaramente questi fallisca proprio a seguito del mancato versamento dell’Iva dovuta35. Infatti, si è indicato che laddove si riesca a provare che, anche al solo fine di rendere credibile una operazione fittizia, la società effettiva acquirente abbia, comunque, versato all’intermediario l’importo di Iva che, poi, quest’ultimo gli ha restituito con corrispondente distrazione di questa somma rispetto ai fini societari, allora, potrà ricorrere per l’intermediario la fattispecie qui indicata36. In ultimo appare utile ricordare due decisioni avutesi in materia e dirette ad individuare quegli elementi in fatto che risultano indici della natura fittizia della triangolazione verificatasi e, con essa, della presenza della frode qui rappresentata. In particolare, si è indicato come questa natura emerga dalla circostanza che: - l’intermediario sia una società di comodo essendo priva di sede operativa, di organizzazione stabile ed intestata a persone sprovviste della necessaria competenza nei settori commerciali in cui le stesse operavano37. - la società intermediaria sia una società di brevissima durata, messa in liquidazione dopo meno di un anno durante il quale non ha versato alcuna delle imposte dovute, che ha svolto la sua attività – per come emersa dalla documentazione – in modo del tutto antieconomico ed in contrasto con qualunque principio di normale e ordinario svolgimento degli affari38.

31 Cass., sez. III, 15 marzo 2006, con nota di CHIAROLLA, n. 13244, in Fisco, 2006, 5827; Cass., sez. III, 15 marzo-20 aprile 2006, n. 13947, con nota di VARATELLI: ove si evidenzia come la vera operazione, seppure con un destinatario falso, è descritta nella prima fattura – allorché in effetti vi è stata la cessione di un bene e il pagamento di un corrispettivo – mentre per la seconda non vi è stata ne cessione né pagamento. 32 Cass., sez. V, n. 3257 del 2007, cit.; Cass., sez. III, 9 ottobre/18 novembre 2002, n. 38652, in Fisco, 2003, 276; Cass., sez. III, 29 novembre 2005-16 gennaio 2006, n. 1427, con nota di CHIAROLLA. 33 Trib. Padova, 15-20 novembre 2007, n. 683, in Riv. Dir. Trib., 2008, 5, 351.

5. L’occultamento o la distruzione di documenti contabili (art. 10) Nel biennio di interesse sono intervenute decisioni della Suprema Corte che hanno confermato, con alcuni elementi di novità, principi già indicati in modo costante anche in relazione alla identica previgente fattispecie di cui all’art. 4, lett. b, L. n. 516 del 1982. Innanzitutto, si è ribadito come la fattispecie in esame sia presente, non solo laddove l’occultamento o la distruzione dei documenti la cui tenuta è obbligatoria sia totale ed in misura tale da rendere impossibile di ricostruire tutta la gestione economica del contribuente per quell’anno, ma anche qualora questa condotta abbia avuto ad oggetto solo parte della documentazione ed in misura tale da non consentire la ricostruzione di quelle singole operazioni ad essa connesse. Impossibilità, poi, che deve essere valutata con riferimento unicamente alla situazione interna aziendale essendo, allora, il reato escluso solo laddove quelle operazioni, pur mancando la documentazione obbligatoria, possano essere accertate sulla base di altra documentazione conservata dall’imprenditore interessato, mentre il delitto è presente ove questa ricostruzione sia stata possibile solo grazie agli elementi ed ai dati raccolti all’esterno dall’ufficio accertatore: ciò in quanto anche in detta ultima ipotesi viene ad essere leso il bene giuridico protetto qui dato dall’interesse alla trasparenza fiscale del contribuente39. Pertanto «il giudice dovrà accertare in base ad una valutazione comparativa della documentazione esistente e di quella mancante, se la condotta fraudolenta del contribuente era idonea a mettere in pericolo la funzione probatoria dei cespiti imponibili che la legge assegna alla documentazione e alla scritturazione obbligatoria40». Inoltre, in relazione al momento di perfezionamento del reato – rilevante soprattutto con riferimento al momento di decorrenza della prescrizione – la Suprema Corte, ha innanzitutto, ribadito come in caso di occultamento il delitto abbia natura di reato permanente, in quanto l’obbligo di esibizione perdura fino a quando è consentito il controllo e, quindi, la condotta antigiuridica si protrae nel tempo a discrezione del reo, il quale – a differenza di quanto avviene nella distruzione – ha il potere di far cessare l’occultamento esibendo i documenti. Da ciò deriva che la permanenza cessa quando scade l’obbligo di conservazione dei documenti o, se antecedente ad esso, allorché gli organi dell’accertamento abbiano chiesto, senza esito, di esaminare la documentazione41. Laddove, invece, si abbia la distruzione del documento due decisioni hanno indicato – in modo diverso dal passato ove anche per questa ipotesi si indicava la permanenza del reato – in sintonia con la posizione della dottrina prevalente come il delitto in esame si configuri come reato istantaneo che si realizza al momento dell’eliminazione della documentazione42. Sul punto, è da segnalare, con riferimento a possibili situazioni

34 Cass., sez. V., n. 3257 del 2007, cit. 35 Eventualità probabile trattandosi spesso di cartiere prive di ogni consistenza patrimoniale e che con queste operazioni accumulano un rilevante debito Iva. Iva che, infatti, è dovuta dall’interposto anche laddove il medesimo ammetta la falsità dell’operazione compiuta essendo anche in questa ipotesi, ex art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633 del 1972 obbligato al versamento dell’imposta. 36 Cass., sez. V, 23 gennaio 2007, n. 6825, con nota di MELLI e altri. Fattispecie che, invece, non ricorre, non essendovi stata alcuna distrazione di denaro, laddove nessun passaggio di denaro vi sia stato da parte dell’effettivo acquirente in favore dell’intermediario. 37 Cass, sez. III, 29 novembre 2005/16 gennaio

2006, n. 1427, con nota di CHIAROLLA. 38 Comm. trib. reg. Lombardia, sez. XXVIII, 22 maggio 2006, n. 24, in questa rivista, 2007, 2, 364. 39 Cass., sez. III, 18 dicembre 2007-6 febbraio 2007, n. 5791, con nota di MOTTA, in Fiscalitax, 2008, 735. 40Cass., sez. III, 14 novembre 2007-21 gennaio 2008, n. 3057, con nota di LANTERI. 41 Cass., sez. III, 14 novembre 2007-21 gennaio 2008, n. 3057, cit.; Cass., sez. III, 14 novembre 2007-21 gennaio 2008, n. 3055, con nota di ALLOCCA. 42 Cass., sez. III, 7 marzo 2006, n. 13716, con nota di CESARMI, in Boll. Trib., 2006, 1340; Cass., sez. III, 17 gennaio 2006, n. 4871, con nota di FESTA.


132

GiustiziaTributaria

1 2009

analoghe, il caso concreto affrontato nella seconda sentenza appena citata, avente ad oggetto documentazione non reperita presso una società cessata a seguito della sua liquidazione. Si è indicato come in una tale ipotesi il momento di consumazione del reato si ha, non già, come sostenuto dai giudici di merito, con l’accertamento – allorché veniva richiesta l’esibizione della documentazione – ma con la precedente estinzione della società avutasi al termine della procedura per il suo scioglimento e liquidazione; ciò in quanto, a quel momento è venuto a cessare – ex art. 2457, c.c. (ora art. 2496, c.c.) – l’obbligo della conservazione della documentazione da parte dell’imprenditore dovendo i libri sociali essere depositati e conservati presso l’ufficio del registro delle imprese: il tutto, in misura tale da fare presumere che a quella data la condotta di distruzione e/o occultamento sia cessata. Distruzione che si ha ogniqualvolta vi è l’eliminazione fisica del documento ottenuta ora con l’annientamento del supporto cartaceo o magnetico di esso ora rendendo, in tutto od in parte, non leggibile il suo contenuto attraverso abrasioni, cancellature o altro. Si è aggiunto – sempre in queste due decisioni – che laddove vi sia la prova che lo stesso documento sia stato prima occultato ed, in un secondo momento, distrutto, siano configurabili due reati, eventualmente legati tra di loro sotto il vincolo della continuazione, trattandosi di condotte diverse che vengono a ledere con pari gravità il bene giuridico protetto; «ciò in quanto una tale ipotesi» non sarebbe riconducibile al reato complesso non esistendo tra le condotte di “distruzione” e di “occultamento” un rapporto di specialità. Il tutto in contrasto con posizione dottrinale che, invece, riteneva la presenza in un tale caso di un unico reato43. Infine in relazione alla competenza per territorio si è precisato che, qualora non sia possibile accertare ove il documento sia stato occultato, allora questa, ex art. 18, comma 1, si viene a radicare nel luogo ove la Guardia di Finanza abbia chiesto di esibire questi documenti e il contribuente abbia falsamente dichiarato di averli smarriti essendo questo il momento e il luogo di accertamento dell’illecito occultamento44. 6. Il delitto di sottrazione fraudolenta (art. 11) Diversi sono stati gli interventi avutisi diretti a chiarire l’esatta portata di questa fattispecie. In premessa ed in modo sintetico si evidenzia come questa norma ha avuto, rispetto al suo immediato antecedente – l’art. 97, comma 6, del D.P.R. n. 602 del 1973 – una formulazione diversa avendo voluto il legislatore superare quegli elementi formali che, di fatto, avevano, in quasi trenta anni di vigenza, reso inapplicabile e inapplicata questa fattispecie. In particolare, l’art. 97, cit., nel sanzionare le condotte fraudolente

43 Cfr. CERQUA, Commento all’articolo 10, in AA.VV., Diritto e procedura penale tributaria, a cura di Caraccioli-Giarda-Lanza, Padova, 2001, 316, ove si è indicato come l’occultamento e la distruzione costituiscano due modalità esecutive di una medesima condotta diretta a rendere impossibile la ricostruzione dei redditi e del volume di affari essendo allora la successiva distruzione del documento in precedenza occultato una progressione della medesima condotta di soppressione, determinando con essa la consumazione definitiva del reato già perfezionato; anche SOANA, Il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili di cui all’art. 10 D.Lgs. n. 74 del 2000, in Rass. Trib., 2003, 2036. 44Cass., sez. III, 18 febbraio 2007-6 febbraio 2008, n. 5791, con nota di MOTTA, in Fiscalitax, 2008, 735.

dirette a rendere inefficacie l’esecuzione esattoriale limitava, innanzitutto, l’intervento penale unicamente a quelle condotte compiute dopo l’inizio degli accessi, ispezioni, o verifiche o alla preventiva notificazione di inviti, richieste, ecc.; elemento questo che rendeva irrilevanti tutte quelle condotte avutesi prima di questo momento45. Inoltre, per la ricorrenza di questo reato era necessario che la condotta fraudolenta avesse, poi, concretamente arrecato un danno all’erario rendendo inefficacie l’esecuzione esattoriale46. Partendo da questo dato negativo, in sede di formulazione del nuovo art. 11 si è proceduto ad un ampliamento delle ipotesi sanzionate e, soprattutto, ad un arretramento del momento della punibilità, con specifico riferimento al profilo dell’offensività. Si è, innanzitutto, anticipato l’intervento penale, essendo sufficiente che la condotta del soggetto attivo sia idonea a rendere inefficacie una futura procedura di riscossione e non già che questa inefficacia si sia, poi, concretamente realizzata. Inoltre la nuova disposizione non richiede più che la condotta sottrattiva intervenga, allorché, sia già stata attivata dagli uffici a ciò competenti la procedura di riscossione coattiva o, comunque, l’attività diretta all’ordinaria riscossione dell’imposta47. Elementi di novità, che hanno trovato un riscontro nella prima decisione intervenuta sull’art. 11 allorché, si è, innanzitutto, indicato come, rispetto al previgente art. 97, con la nuova fattispecie penale «non è più richiesto il presupposto della previa effettuazione di accessi della polizia tributaria o notificazione di atti di accertamento [...]» potendo «il compimento degli atti incriminati avvenire in qualsiasi momento anche prima di qualsiasi attività accertativa»; si è aggiunto che l’unica condizione richiesta è che il soggetto attivo, al momento della sua condotta, fosse «debitore nei confronti dell’erario di tributi diretti o Iva o sanzioni ed interessi ad essi correlati». Inoltre, si è precisato come con l’art. 11 è sufficiente la mera idoneità della condotta a vanificare la riscossione coattiva mentre è venuta meno la condizione rappresentata dalla inefficacia dell’esecuzione esattoriale48. Queste novità sono, però, state smentite da una sentenza della Suprema Corte – resa da sezione diversa da quella abitualmente competente in materia – intervenuta nel 2005. In essa, infatti, si è indicato49 come il reato in esame è configurabile solo laddove [tra l’altro] ricorrano i seguenti elementi: a) l’esistenza di specifiche procedure di riscossione di imposte sui redditi o sul valore aggiunto; [...] c) l’identificazione dell’ammontare delle somme non corrisposte in misura superiore alla soglia fissata dal legislatore in euro 51.645,69. Considerazioni che, poi, sono state ulteriormente sviluppate, nella parte finale della sentenza, precisandosi che il giudice di merito era incorso in vizio della motivazione non avendo, tra l’altro, indicato: «[...] quali siano le procedu-

45Ciò in contrasto con l’esperienza comune per la quale, abitualmente, il contribuente che vuole sottrarsi alla riscossione coattiva delle imposte agisce per occultare i propri beni molto prima dell’intervento dell’amministrazione finanziaria organizzando il loro simulato trasferimento in modo tale da non potere essere gli stessi, poi, attaccati da future azioni esecutive. 46Fattore questo che spostava, anche di molti anni, il momento della condotta rispetto a quello dell’evento (dato dal definitivo accertamento dell’inefficacia della procedura di riscossione coattiva) e con esso, quindi, anche il momento di consumazione del reato; il tutto rendendo, tra l’altro, non possibili – non essendosi ancora perfezionato il reato – quegli interventi cautelari, sia reali che personali, utili ad impedire il raggiungimento dello scopo illecito perseguito o il protrarsi delle

conseguenze di esso. 47 In tale direzione si è espressa la relazione governativa al D.Lgs. n. 74/2000 in Guida al diritto, 2000, 14, 39, ove si è espressamente indicato come rispetto all’art. 97 vi sia stata, tra l’altro, «la soppressione del presupposto rappresentato dall’avvenuta effettuazione di accessi, ispezioni o verifiche o dalla preventiva notificazione all’autore della manovra di inviti, richieste, atti di accertamento o iscrizioni a ruolo; presupposto che aveva contribuito, in effetti, a limitare fortemente la capacità di presa dell’incriminazione». 48Cass., sez. III, 27 febbraio-18 aprile 2001, n. 15864, in Fisco, 2002, 1337, con osservazioni di IZZO. 49 Cass., sez. VI, 26 gennaio-9 marzo 2005, n. 9251, con nota di SCALERA, in Riv. Dir. Pen. economia, 2005, 568 e in Boll. Trib., 2006, 522, con nota di SOANA.


Atti e interventi 1 2009 133

re di riscossione coattiva che l’indagato ha inteso rendere inefficacie e [...] quale l’ammontare delle somme non corrisposte». Con essa, allora, si è affermato come per la sussistenza di questo delitto sia, ancora, necessario che la condotta fraudolenta intervenga in presenza di una già attivata procedura di riscossione [coattiva] sulla quale si venga a sovrapporre, in modo negativo, l’azione di sottrazione. Inoltre, si è richiesto che detta condotta determini, poi, in concreto la non corresponsione all’erario di una somma pari a quella fissata dal legislatore nella soglia di punibilità. Il tutto, quindi, con una interpretazione che di fatto, riporta l’art. 11 al testo dell’abrogato art. 97 e con esso anche alle difficoltà applicative manifestatesi durante la vigenza di quest’ultima norma. Questa decisione ha provocato una serie di interventi da parte della stessa Cassazione, stimolati da ricorsi che la richiamavano, con i quali si è venuto a correggere il principio di diritto indicato e che, in modo consequenziale, sono venuti anche a delineare gli esatti contorni di questa fattispecie. Innanzitutto, si è chiarito, in tutte queste decisioni, che per la configurabilità di questo reato non è necessario né accertare che al momento della condotta sia in atto una procedura di riscossione dei tributi né verificare che, poi, in concreto la condotta fraudolenta abbia determinato, effettivamente, una inefficacia dell’esecuzione esattoriale, essendo sufficiente che questa abbia posto in pericolo la riscossione del credito da parte dell’erario50. Il tutto, quindi, in relazione ad una esecuzione tributaria coattiva che non configura un presupposto della condotta ma è prevista solo come evenienza futura che la condotta tende (e deve essere idonea) a neutralizzare51. Con ciò, allora, a confermare una anticipazione della tutela penale e con essa la trasformazione del reato in esame, rispetto alla previgente fattispecie, da reato di danno, per la cui consumazione era necessario accertare l’essersi realizzata una effettiva lesione dell’interesse dell’erario attraverso l’avvenuta inefficacia della procedura esecutiva attivata, ad un reato di pericolo52 per la cui presenza è sufficiente, con un giudizio ex ante, che la condotta di sottrazione abbia messo in pericolo l’efficacia di questa procedura non essendo più necessario il verificarsi di un tale evento53. Pertanto, si è aggiunto che nell’individuazione dell’interesse oggetto di tutela diretta da parte della norma deve escludersi che questo possa essere dato dal diritto di credito del fisco. Infatti, pur costituendo questo il fine ultimo perseguito dal legislatore, la sua lesione non costituisce elemento necessario della fattispecie potendosi avere il reato anche laddove, in concreto, dopo il compimento degli atti fraudolenti qui richiesti, avvenga il pagamento dell’imposta ed, indi, non vi sia alcuna lesione di questo interesse. Si è, allora, individuato il bene giuridico protetto nella garanzia (generica) patrimoniale offerta al fisco dai beni dell’obbligato54. In questo contesto normativo ed interpretativo diviene, allora, particolarmente importante l’esatta individuazione di questo elemento al fine di evitare di sanzionare condotte prive di qualsivoglia pericolosità. In tale ambito, si è osservato come il giudizio prognostico-ipotetico sull’idoneità della condotta a porre in pericolo il bene protetto deve essere collocato, ex ante, con riferimen-

50Cass., sez. III, 3 giugno-3 agosto 2007, n. 32282, in banca dati fisconline; Cass., sez. V, 10 gennaio-26 febbraio 2007, n. 7919, con nota di CUTILLO; Cass., sez. III, 4 aprile 2006, n. 17071, DE NICOLO, in Foro It., 2007, II, 384 o in Riv. Giur. Trib., 2007, 151 o in Rass. Trib., 2007, 606. 51 Cass., sez. III, 6. marzo-9 aprile 2008, n. 14720, con nota di GHIGLIA. 52 Cass,. sez., III, n. 14720 del 2008, cit. 53 Cass., sez. III, n. 32282 del 2007, cit.; Cass., sez. III, 18 dicembre 2007-6 febbraio 2008, n. 5824, con nota di SOLDERA.

to al momento nel quale questa è stata posta in essere55. In relazione all’oggetto di questo giudizio si è aggiunto come questo deve tenere conto esclusivamente delle circostanze conosciute e conoscibili dall’agente al momento della sua azione; ciò in quanto, trattandosi di fattispecie di condotta pericolosa, il soggetto attivo deve essere consapevole, allorché agisce, dell’attitudine offensiva della sua azione nei confronti del bene protetto. La non necessità, poi, della presenza, al momento della condotta, di procedure esecutive in atto o di preventivi accessi da parte della polizia tributaria o di notificazione di atti di accertamento e l’irrilevanza dal punto di vista dell’elemento oggettivo della verifica della inefficacia della procedura dell’esecuzione esattoriale hanno fatto si che la procedura esattoriale ed il suo esito non facciano più parte dell’elemento strutturale del reato ma del momento intenzionale dovendo, allora, essere valutati in quel contesto56. Per quanto riguarda il debito tributario si è indicato come questo debba essere preesistente al momento della condotta tipica, costituendone il presupposto. In particolare, lo stesso deve essere già maturato anche se, poi, non è indispensabile che di esso l’agente ne abbia avuto una conoscenza formale da parte del fisco, essendo sufficiente che sia consapevole della sua esistenza57. In modo conseguente, si è stabilito come indispensabile che il debito tributario, pur non accertato definitivamente, sia concretamente configurabile – estremamente probabile – e che il contribuente, sul versante del dolo, ne sia, comunque, a conoscenza e che sulla base di detta consapevolezza abbia compiuto la condotta fraudolenta diretta a sottrarsi al pagamento di questi tributi58. Inoltre, è necessario anche il dolo specifico dato dall’essere questa condotta finalizzata ad eludere una futura riscossione esattoriale59, attraverso la sottrazione ad essa di beni aventi un presumibile valore di realizzo superiore a 51.645,69 euro. Si tratta, sul punto, di dolo specifico, in quanto non è indispensabile che, poi, detto evento si realizzi essendo sufficiente, ma anche necessario, che in tale direzione si sia indirizzata la volontà dell’agente. In particolare, si è sottolineato come, non essendo richiesto dal punto di vista oggettivo che la condotta abbia concretamente reso vana una procedura esecutiva eventualmente attivata, sia indispensabile valutare questo elemento dal punto di vista intenzionale richiedendosi che a tale fine sia indirizzata la condotta dell’agente60. Tra le ipotesi applicative si è valutata come idonea a determinare il compimento di atti fraudolenti la costituzione di un fondo patrimoniale non giustificato dalla situazione familiare dell’imputato ed idoneo ad impedire il soddisfacimento delle pretese dell’erario nei suoi confronti61. Infine, deve richiamarsi una recente decisione che, nell’esaminare la clausola posta all’inizio della norma in esame, ove è indicata la sua presenza «salvo che il fatto costituisca più grave reato», ha specificato come debba escludersi la ricorrenza di questo delitto laddove la condotta del soggetto attivo determini anche la realizzazione di una bancarotta fraudolenta patrimoniale, ex articolo 216, comma 1, n. 1 della legge fallimentare, applicandosi in questa ipotesi unicamente il reato più grave di cui all’art. 216. Di converso,

54Cass., sez. III, n. 14720 del 2008, cit.; Cass., sez. III, n. 32282 del 2007, cit., ove si fa riferimento «all’interesse a rendere possibile la riscossione da parte dell’erario [...] attraverso l’intangibilità della garanzia patrimoniale rappresentata dai beni dell’obbligato». 55 Cass., sez. III, n. 32282 del 2007, cit.; Cass., sez. V, n. 7919 del 2007, cit. 56Cass., sez. III, n. 32282 del 2007, cit. 57 Cass., sez. III, n. 14720 del 2008, cit.; Cass., sez. III, n. 32282 del 2007, cit., ove, come già indicato, non si richiede che al momento del-

la condotta l’amministrazione finanziaria abbia già compiuto un’attività di verifica, accertamento o iscrizione a ruolo. 58Cass., sez. III, n. 32282 del 2007, cit. 59 Cass., sez. III, n. 14720 del 2008, cit. 60Cass., sez. III, n. 32282 del 2007, cit. 61 Cass., sez. III, n. 5824 del 2008, cit.; decisione che cita la sentenza: Cass., sez. civ. III, 17 gennaio 2007, n. 966, che ha accolto l’istanza di revocatoria ordinaria da parte di creditori in relazione ad un negozio costitutivo del fondo patrimoniale.


134

GiustiziaTributaria

1 2009

si è affermato come questa clausola non sia idonea ad escludere il possibile concorso tra il reato qui in esame e la truffa ai danni dello Stato tenendo conto che i due delitti non condividono né struttura né connotati, non essendo la condotta considerata dall’art. 11 capace di determinare alcun «atto di disposizione» dell’erario62. 7. Soglie di punibilità, rapporti tra processo penale e tributario e condono Interessante è una recente decisione che in materia di determinazione del superamento o meno delle soglie di punibilità ha indicato in modo chiaro – a scansare ogni possibile equivoco sulla paventata reviniscenza della pregiudiziale tributaria – come sia compito esclusivo del Giudice penale di determinare l’ammontare dell’imposta evasa. In particolare, la Suprema Corte – nel richiamare quando già sostenuto dalla dottrina63 – ha stabilito che il Giudice penale nell’autonoma determinazione del tributo effettivamente dovuto lo deve correlare al risultato economico conseguito e, indi, determinarlo – sulla base delle risultanze probatorie acquisite nel processo – dalla contrapposizione dei ricavi e dei costi di esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formali che caratterizzano l’ordinamento tributario. Il tutto con un accertamento che deve avvenire «attraverso una verifica che può venirsi a sovrapporre ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria»64. In questo ambito, si è aggiunto come il giudice possa legittimamente fondare il proprio convincimento, in tema di responsabilità dell’imputato per omessa annotazione di ricavi, sull’informativa della Guardia di Finanza che abbia fatto riferimento a percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati di mercato e ricorrere anche all’accertamento induttivo dell’imponibile quando la contabilità imposta dalla legge sia stata tenuta irregolarmente65; ciò a condizione che non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica, autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti aliunde 66; nel caso specifico si dava atto di questa valutazione da parte dei giudici tenendo conto che il calcolo delle percentuali di ricarico era stato effettuato non su dati desunti da indagini di mercato, che possono risultare approssimative, ma sulle risultanze dei talloncini dei prezzi riportati sui capi esposti per la vendita; il tutto allora con una valutazione fondata su dati assolutamente attendibili. Si è aggiunto come in senso contrario non fosse possibile richiamare la decisione diversa assunta dalla commissione tributaria non costituendo questa un precedente vincolante per il giudice di merito.

62 Cass., sez. V, n. 7919 del 2007, cit. 63 In questo contesto, si è specificato che l’imposta evasa è data dalla differenza tra l’imposta indicata dal contribuente nella dichiarazione e liquidata sulla base degli artt. 36bis e ter del D.P.R. n. 600 del 1973 ed il tributo effettivamente dovuto in relazione al risultato economico conseguito e determinato – sulla base delle risultanze probatorie acquisite nel processo penale – dalla contrapposizione dei ricavi e dei costi d’esercizio fiscalmente ed astrattamente detraibili (ANNUNZI, Imposta evasa ed imposta effettivamente dovuta nel D.Lgs. n. 74/2000, in Fisco, 2000, 11456); il tutto, nella ricerca del requisito dell’“effettività” dando, rispetto all’ordinamento tributario, la prevalenza al da-

Ancora in relazione alla possibile influenza che può avere sul processo penale una eventuale sentenza irrevocabile emessa dal giudice tributario si è osservato come, pur nel rispetto della autonomia dei due giudizi, questa non possa essere ignorata dal Giudice penale – soprattutto allorché il credito per il quale venga apprestata la tutela venga escluso – posto che trattasi di sentenza che, a norma dell’art. 238-bis, c.p.p., può essere valutata ai fini della prova del fatto in essa accertato sia pure, nei limiti stabiliti dagli artt. 197 e 192, comma 3, c.p.p., come elemento di prova la cui valenza, per legge non autosufficiente, deve essere corroborata da altri elementi che la confermino. Si è anche aggiunto come l’eventuale sentenza non definitiva della Giudice tributario, pur non vincolando in alcun modo il giudice penale, può essere da questi acquisita ex art. 234, c.p.p., e liberamente valutata come semplice elemento di giudizio soggetto al libero convincimento finalizzato all’accertamento del fatto67. Per quanto riguarda i rapporti tra la verifica fiscale ed il procedimento penale si è, ancora un volta, affermata l’indipendenza tra la fase amministrativo/tributaria e quella penale, in un caso nel quale si contestava l’irregolarità della verifica amministrativa che aveva portato alla acquisizione di documenti e scritture contabili posti alla base della decisione. In particolare, è stato indicato che le irregolarità verificatesi nel corso del procedimento amministrativo se incidono sulla validità dell’accertamento tributario nei confronti del soggetto sottoposto a verifica fiscale non rendono inutilizzabile la notitia criminis che emerge nel corso della verifica stessa; ciò in quanto nel procedimento penale gli elementi raccolti durante gli accessi, le ispezioni e le verifiche compiute dalla Guardia di Finanza per l’accertamento dell’Iva e delle imposte dirette ai sensi del D.P.R. n. 633/1972, art. 52 e del D.P.R. n. 600/1973, art. 33 sono sempre utilizzabili quale notitia criminis non essendo ad essi applicabile, trattandosi di atti amministrativi e non giudiziari, la mancanza o la irregolarità formale dell’autorizzazione che può essere considerata causa di invalidità dell’accertamento fiscale, ma che non riverbera i suoi effetti sull’accertamento penale68. In ultimo, è da segnalare una recentissima sentenza in materia di condono ove si è stabilito che nel caso di amministratore di una società che abbia presentato la domanda di condono non sia applicabile detta causa di esclusione della punibilità laddove l’istanza sia stata proposta dopo che l’amministratore – ossia il soggetto responsabile del reato – abbia avuto formale conoscenza dell’esercizio dell’azione penale nei suoi confronti «e ciò perché in casi del genere la conoscenza dell’imputato si identifica con quella del contribuente ossia della società da lui rappresentata all’epoca del fatto, per il principio della immedesimazione organica tra società ed i suoi rappresentanti69».

to fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formali (TRAVERSI-GENNAI, I nuovi delitti tributari, Milano, 2000, 130) ed in misura tale da rendere possibile una quantificazione dell’imposta evasa in sede penale non congruente od addirittura contrastante con quella avvenuta in sede tributaria (TONCI, Le soglie di punibilità nel diritto penale tributario: la determinazione dell’imposta evasa, in Dir. e Prat. Trib., 2006, 382). 64Cass., sez. III, 26 febbraio-28 maggio 2008, n. 21213, con nota di DE CICCO. 65 Cass., sez. III, 18 dicembre 2007-6 febbraio 2008, n. 5786, con nota di D’AMICO; Cass., sez. III, 15 dicembre 1995, n. 729 del 1996, con nota di HOLBLING, in Riv. Giur. Trib., 1997, 243. 66Cass., sez. III, 21 dicembre 1999, con nota di

ZARBO, in Ced. Cass., n. 215694. 67 Cass., sez. III, n. 32282 del 2007, cit.; anche Cass., sez. III, 24 settembre-21 ottobre 2008, n. 39358, con nota di SERAFINO. 68Cass., sez. III, 7 febbraio-22 marzo 2007, n. 12017, in Riv. Dir. Trib., 2007, 3, 92. 69 Cass., sez. III, 24 settembre-21 ottobre 2008, n. 39358: il tutto ex artt. 9 e 15 legge n. 289 del 2002 ove si esclude la ricorrenza di questa causa di non punibilità laddove il reo abbia già ricevuto l’atto di esercizio dell’azione penale prima della presentazione della istanza di condono; decisione che, in modo esplicito, non risolve, non avendone competenza, la questione sulla ammissibilità – in una tale ipotesi – dal punto di vista tributario, della domanda di condono da parte della società.


Atti e interventi 1 2009 135

8. La confisca per equivalente Nel richiamare quanto già scritto su questa rivista in ordine alla introduzione della confisca per equivalente anche in materia di diritto penale tributario70, devono segnalarsi le prime decisioni intervenute sul punto ed aventi ad oggetto la decorrenza di questa forma di confisca. Nella prima decisione di merito nota71 si è sostenuto come questa forma di confisca – in assenza di una norma transitoria – possa trovare applicazione anche in relazione alle condotte criminose commesse prima della sua entrata in vigore. Ciò in quanto, il principio di irretroattività della legge penale, sancito dagli artt. 2, c.p. e 25, comma 2, Cost., è operante nei riguardi delle norme incriminatrici ma non rispetto alle misure di sicurezza sicché la confisca può essere disposta anche in riferimento a reati commessi nel tempo in cui essa non era legislativamente prevista ovvero era diversamente disciplinata quanto a tipo, qualità e durata. Il tutto tenendo conto che l’art. 200, comma 1, c.p. – secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al momento della loro applicazione – deve essere interpretato nel senso che, mentre non può applicarsi una misura di sicurezza per un fatto che al momento della sua commissione non costituiva reato, è possibile la suddetta applicazione per un fatto di reato per il quale originariamente non era prevista detta misura, atteso che il principio di irretroattività della legge penale riguarda le norme incriminatrici e non le misure di sicurezza, che per loro natura sono correlate alla situazione di pericolosità attuale del reo. Si è, tuttavia, aggiunto, in questa decisione, come questa retroattività determini la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale – allo stato ancora pendente dinanzi alla Corte costituzionale – con riferimento all’art. 117 Cost. in relazione all’assunta violazione dell’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo72 per come interpretata, proprio in materia di confisca, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in data 9 febbraio 1995 (nel procedimento: Welch c. Regno Unito)73. In senso diverso, sempre in sede di merito, si è sostenuta la natura non retroattiva di questa disposizione affermandosi come una lettura costituzionalmente orientata del divieto di retroattività della norma penale, per come sancito dagli artt. 2 c.p. e 25 Cost., renda questa operante anche in una tale ipotesi tenendosi conto del carattere sanzionatorio della confisca per equivalente che, allora, potrà essere applicata solo per il futuro74. Il tutto tenendo conto che la Corte costituzionale (sent. n. 29 del 1961 e n. 46 del 1964) ha, da tempo, distinto, la confisca in relazione alla sua concreta funzione potendo questa avere, tra l’altro, la funzione di pena per la quale, allora, troverà applicazione l’art. 25 Cost. sopra richiamato75. In questo contesto, sono intervenute due decisioni della Suprema Corte76 con le quali si è stabilito come la confisca per equivalente sia applicabile unicamente ai reati commessi a partire dal 1

70 SOANA, Introdotta la confisca per equivalente anche nel diritto penale tributario, in questa rivista, 1, 2008, 8 ss. 71 G.U.P. Trib. Trento, ord. 12 febbraio 2008, in Fisco, 2008, 1814; questione sollevata a seguito di sollecitazione da parte del P.M. con memoria del 10 gennaio 2008, in Fisco, 2008, 1251. 72 Ove si prevede «che non possa essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso». 73 Decisione ove la Corte europea dei diritti dell’uomo ha indicato come nella interpreta-

gennaio 2008 (giorno dell’entrata in vigore dell’art. 1 comma 143 della legge n. 244/2007 che ha introdotto questa confisca anche per i reati tributari). In particolare, si è sostenuta detta irretroattività in quanto, stante, comunque, la natura eminentemente sanzionatoria di questa forma di confisca77, una diversa interpretazione porterebbe sia ad una violazione dell’art. 7 sopra citato sia dell’art. 25, Cost., con riferimento a quanto indicato dalla Corte costituzionale (n. 19 del 1974) in relazione alla applicazione di questa norma alle ipotesi di confisca avente una tale natura. 9. Considerazioni conclusive In conclusione si evidenzia come da quanto appena indicato emerga che gli interventi più significativi in materia si sono avuti, anche dal punto di vista numerico, con riferimento ai delitti di cui agli artt. 2, 8 e 10 del D.Lgs. n. 74 del 2000: fattispecie presenti già nella vigenza della legge n. 516 del 1982 (con una parziale diversa formulazione per l’art. 2) e che costituiscono – per come individuate dallo stesso legislatore delegato – quelle di maggiore allarme sociale. In questo ambito, un suo originale e particolare sviluppo hanno avuto le frodi carosello, soprattutto in materia di Iva comunitaria, che vengono così a costituire il settore ove, in maniera più rilevante, si sono avute quelle condotte illecite frutto, non già di una decisione estemporanea, ma di una condotta programmata e organizzata (con il coinvolgimento, peraltro, di più soggetti). Inoltre, particolare incidenza ha avuto la nuova fattispecie di cui all’art. 11 in materia di sottrazione al pagamento delle imposte. Con ciò evidenziandosi come il superamento dei vincoli formali presenti nel precedente art. 97 D.P.R. n. 602 del 1973 – che di fatto avevano reso inapplicabile ed inapplicata questa fattispecie – ha avuto esito positivo avendo acquisito rilevanza penale tutte quelle, numerose, condotte di sottrazione dei beni alla esecuzione esattoriale che fino al 2000 di fatto erano prive di copertura penale. Nessun intervento significativo, invece, è emerso con riferimento alle nuove fattispecie – introdotte nel 2006 e nel 2007 – di cui agli artt. 10-bis (in materia di ritenute), 10-ter (in materia di mancato pagamento dell’Iva) e 10-quater (in materia di indebite compensazioni) essendo, evidentemente, passato troppo poco tempo dal loro inserimento nel nostro ordinamento penale. In ultimo, si osserva come le due recenti decisioni della Suprema Corte di materia di decorrenza della confisca per equivalente – introdotta dalla finanziaria per l’anno 2008 – determinano uno slittamento della portata, fortemente innovativa e particolarmente rilevante dal punto di vista repressivo, di questo tipo di intervento che, a mezzo dell’immediato sequestro preventivo di somme equivalenti a quelle oggetto di evasione, può avere effetti realmente dissuasivi e repressivi in questa materia.

zione dell’art. 7 la medesima «deve essere libera di andare al di là delle apparenze e di valutare essa stessa se una data misura costituisca una pena ai sensi della norma». Il tutto per poi concludere per la natura di pena di una confisca di beni prevista in materia di traffico di stupefacenti. 74 G.I.P. Trib. Rieti, dott. Arturi, ord. 2 luglio 2008, con nota di SIMONELLI. 75 Trib. Rieti, Pres. Canè, Rel. Fanelli, ord. 29 luglio 2008, con nota di SIMONELLI; in dottrina: CAPOLUPO, Finanziaria 2008: estesa ai reati

fiscali la confisca per equivalente, in Fisco, 2008, 585; BRICCHETTI, Confisca anche per i vecchi reati tributari, in Guida Dir., 6, XXXI. 76 Cass., sez. III, 24 settembre 2008-20 ottobre 2008, n. 39172, con nota di CANISTO; Cass., sez. III, 24 settembre 2008-20 ottobre 2008, n. 39173, con nota di TIRABOSCHI. 77 Cfr. Cass. pen., sez. un., 25 ottobre 2005, n. 41936, con nota di MUCI, in Guida Dir., 2005, 47, 52; Cass., sez. II, 21 febbraio 2007, con nota di ALFIERI.


136

GiustiziaTributaria

1 2009

Indice cronologico delle sentenze

Commissione tributaria di II grado di Bolzano, sez. II, 17 maggio 2007, n. 7

101

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. I, 6 novembre 2007, n. 90

72

Commissione tributaria provinciale di Venezia, sez. XII, 8 febbraio 2008, n. 1

104

Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. IX, 18 febbraio 2008, n. 2

75

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. I, 20 febbraio 2008, n. 7

72

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. IX, 6 marzo 2008, n. 28

64

Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna, Parma, sez. XXI, (ordinanza) 12 marzo 2008, n. 4

88

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. VI, 14 marzo 2008, n. 27

70

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. IX, 18 marzo 2008, n. 55

95

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. X, 19 marzo 2008, n. 95

40

Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, sez. XI, 26 marzo 2008, n. 9

45

Commissione tributaria provinciale di Latina, sez. V, 8 aprile 2008, n. 50

106

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 16 maggio 2008, n. 55

59

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. III, 21 maggio 2008, n. 26

69

Commissione tributaria regionale del Molise, sez. II, 21 maggio 2008, n. 39

115

Commissione tributaria provinciale di Chieti, sez. II, (ordinanza) 27 maggio 2008, n. 277

90

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 33

71

Commissione tributaria provinciale di Isernia, sez. III, (ordinanza) 9 giugno 2008, n. 43

76

Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 126

117

Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. XI, 20 novembre 2008, n. 134

123

Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. XVI, 20 gennaio 2009, n. 12

119




Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.