Giustizia Tributaria 2008 n. 4

Page 1



00 prime pagine.qxd

10-04-2009

14:26

Pagina 651

comitato direttivo Claudio Consolo ordinario di diritto processuale civile Università di Padova Lorenzo del Federico ordinario di diritto tributario Università di Chieti e Pescara Salvatore Sammartino ordinario di diritto tributario Università di Palermo Giuliano Tabet ordinario di diritto tributario Università di Roma - La Sapienza Francesco Tesauro ordinario di diritto tributario Università degli Studi di Milano - Bicocca comitato scientifico Fabrizio Amatucci ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Massimo Basilavecchia ordinario di diritto tributario Università di Teramo Silvia Cipollina straordinario di diritto tributario Università di Pavia Angelo Contrino associato di diritto tributario italiano ed europeo Università di Modena e Reggio Emilia Daria Coppa straordinario di diritto tributario Università di Palermo Roberto Cordeiro Guerra straordinario di diritto tributario Università di Firenze Stefano Fiorentino associato di diritto tributario Università di Salerno Maria Cecilia Fregni [coordinamento] ordinario di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Gianfranco Gaffuri ordinario di diritto tributario Università di Milano Alessandro Giovannini ordinario di diritto tributario Università di Siena Manlio Ingrosso ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Agostino Ennio La Scala associato di diritto tributario Università di Palermo Antonio Lovisolo associato di diritto tributario Università di Genova Alberto Marcheselli associato di diritto tributario Università di Torino Enrico Marello associato di diritto tributario Università di Torino Sebastiano Maurizio Messina ordinario di diritto tributario Università di Verona Salvatore Muleo straordinario di diritto tributario Università della Calabria Mario Nussi associato di diritto tributario Università di Udine Raffaele Perrone Capano ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Federico II Maria Cristina Pierro associato di diritto tributario Università dell’Insubria Francesco Pistolesi straordinario di diritto tributario Università di Siena Roberto Schiavolin ordinario di diritto tributario Università di Padova Loris Tosi ordinario di diritto tributario Università di Venezia - Ca’ Foscari Alessandro Turchi associato di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Giuseppe Zizzo straordinario di diritto tributario Università LIUC - Castellanza comitato di redazione Christian Califano Filippo Cicognani Alessandra Magliaro Annalisa Pace Alessandra Villecco [coordinamento]

Claudio Consolo Lorenzo del Federico Salvatore Sammartino Giuliano Tabet Francesco Tesauro

www.giustiziatributaria.it


00 prime pagine.qxd

10-04-2009

14:26

Pagina 652

hanno collaborato a questo numero Domenico Ardolino dottorando di ricerca in istituzioni e politiche finanziarie e tributarie, Università di Napoli - Federico II Christian Califano ricercatore di diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Domenico Carnimeo dottore in giurisprudenza Clemente Ciampolillo dottorando di ricerca in diritto tributario delle società, Università LUISS - Guido Carli Lorenzo del Federico professore ordinario di diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Mariella Galano dottoranda di ricerca in diritto dei mercati, Università di Siena Michele Iavagnilio dottore commercialista Laura Letizia ricercatrice di diritto tributario, Seconda Università di Napoli Oriana Lombardi dottoranda di ricerca in diritto tributario, Università di Salerno Luigi Lovecchio professore a contratto di diritto tributario presso la Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze Federico Marengo dottore commercialista in Roma Maria Teresa Moscatelli dottore di ricerca in diritto tributario Annalisa Pace ricercatrice di diritto tributario, Università di Teramo Giovanna Palma dottoranda di ricerca in prospettive giuridiche della finanza e amministrazione europea, Seconda Università di Napoli Giovanna Petrillo ricercatrice di diritto tributario, Seconda Università di Napoli Marta Proietti dottoressa in giurisprudenza, Università LUISS - Guido Carli Piero Sandulli professore associato di diritto processuale civile, Università di Teramo Roberto Schiavolin professore ordinario di diritto tributario, Università di Padova Pietro Selicato professore associato di diritto finanziario e diritto tributario comparato, Università di Roma - La Sapienza Marilena Sireci dottore di ricerca in diritto tributario Giuliano Tabet professore ordinario di diritto tributario, Università di Roma - La Sapienza Fabio Zolea responsabile dell’ufficio normativa di Equitalia S.p.A.

direttore responsabile Daniela Artioli redazione Maria Pia Petrei stampa Logo (Borgoricco PD) progetto grafico Avenida (Modena) © Gedit edizioni, aprile 2009 via Irnerio 12/5, 40126 Bologna tel. 051 4218740, fax 051 4210565, mail@gedit.com, www.gedit.com ISSN 1590-5381 Abbonamento 12 mesi: 7 160,00 Singolo fascicolo 7 50,00 I materiali per la pubblicazione vanno inviati per posta elettronica a redazione@giustiziatributaria.it oppure via fax al n. 051 4210565. Gli autori devono uniformarsi ai criteri redazionali che possono essere richiesti via e-mail all’indirizzo sopra indicato.


01 Sommario.qxd

15-04-2009

13:18

Pagina 653

GiustiziaTributaria

4 2008 653

Le fattispecie consensuali e negoziali nell’attività di accertamento e in quella di riscossione del tributo di Maria Teresa Moscatelli

659

La conciliazione giudiziale tributaria e la teoria germanica della “intesa effettiva” di Giovanna Petrillo

666

La conciliazione giudiziale tributaria: un istituto processuale dalle radici procedimentali di Pietro Selicato

673

Specialità del giudice e specialità del procedimento nel processo tributario riformato di Giuliano Tabet

690

Sommario

DOTTRINA SAGGI

NOTE A SENTENZA Avviso di accertamento motivato per relationem, garanzie del contribuente e posizione del curatore fallimentare di Federico Marengo

714

Le Commissioni tributarie tornano sulla problematica del recupero degli aiuti fiscali nei confronti delle cd. “ex municipalizzate” di Clemente Ciampolillo

733

Il recupero degli aiuti di Stato nei confronti delle ex municipalizzate al vaglio della Consulta di Clemente Ciampolillo

745

Sulla natura dei canoni di concessione demaniale e sulla loro esclusione dall’Iva e dal reddito di impresa di Christian Califano

754

L’autonomia organizzativa nell’Irap: il faticoso sviluppo del “diritto vivente” nella giurisprudenza di merito di Roberto Schiavolin

779

Ancora sull’attribuzione pro quota ai soci dei maggiori utili accertati in capo alla società a ristretta base sociale di Giovanna Palma

795


01 Sommario.qxd

15-04-2009

654

13:18

Pagina 654

GiustiziaTributaria

4 2008

L’esercizio della detrazione Iva nel caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale di Annalisa Pace

800

La nozione di “bene ammortizzabile” ai fini del rimborso dell’Iva relativa all’acquisto di terreni utilizzati per la costruzione di un fabbricato strumentale di Michele Iavagnilio

806

Ancora sulla sospensione cautelare innanzi alle Commissioni tributarie regionali di Marilena Sireci

813

La giurisdizione tributaria in materia di ricorsi avverso i provvedimenti di diniego o revoca della rateizzazione delle somme iscritte a ruolo di Domenico Ardolino

824

In tema di pluralità di parti nel processo tributario di Piero Sandulli

829

Il regime transitorio dei termini di notifica delle cartelle di pagamento di Laura Letizia

835

L’occupazione di suolo pubblico tra beneficio economico e mera utilizzazione materiale dell’area di Luigi Lovecchio

849

Contributi di bonifica e tariffa per il servizio idrico: la legislazione regionale campana di Oriana Lombardi

855

GIURISPRUDENZA ACCERTAMENTO Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. XXIII, 19 febbraio 2008, n. 12 Accertamento - Verifiche fiscali delle Direzioni regionali delle Entrate - Illegittimità - Successivi avvisi di accertamento - Illegittimità

700

Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. XIII, 27 marzo 2008, n. 74 Accertamento - Motivazione per relationem - Processo verbale di constatazione - Omessa notifica al curatore fallimentare - Terzietà del curatore fallimentare - Conseguenze - Illegittimità dell’accertamento nota di Federico Marengo

713

AIUTI DI STATO Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 14 novembre 2007, n. 164 Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Applicazione - Procedura di recupero - Violazione del principio di affidamento e di buona fede del contribuente - Insussistenza Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Ingiunzioni di pagamento - Potestà di accertamento - Termine di decadenza - Inapplicabilità

720


01 Sommario.qxd

15-04-2009

13:18

Pagina 655

GiustiziaTributaria

4 2008 655

Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Applicabilità - Condizioni - Procedura di recupero - Ingiunzione - Motivazione - Necessità Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Applicazione - Procedura di recupero - Ingiunzione - Processo ricostruttivo dell’ammontare delle imposte che sarebbero state versate in assenza dell’aiuto - Necessità Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XX, 21 aprile 2008, n. 91 Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Procedura di recupero - Ingiunzioni di pagamento emesse ai sensi dell’art. 1, D.L. 15 febbraio 2007, n. 10 - Legittimità

727

Commissione tributaria provinciale di Savona, sez. V, 30 giugno 2008, n. 285 Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Decisione Commissione UE 2003/193/CE - Procedura di recupero - Decadenza della potestà accertativa dell’amministrazione finanziaria Art. 43, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 - Applicabilità - Ingiunzioni di pagamento emesse ai sensi dell’art. 1, D.L. 15 febbraio 2007, n. 10 - Termine quinquennale per il recupero - Sussistenza nota di Clemente Ciampolillo

730

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. XIX, (ordinanza) 17 dicembre 2007, n. 96 Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor- Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Decisione Commissione UE 2003/193/CE - Ingiunzioni di pagamento Contrasto con gli artt. 53 e 97 Cost. - Questione di legittimità costituzionale degli artt. 27, L. n. 62/2005 e 1, D.L. n. 10/2007 - Sussistenza nota di Clemente Ciampolillo

742

ICI Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 24 gennaio 2008, n. 247 Ici - Fabbricati rurali - Intassabilità - Fabbricati strumentali all’attività agricola - Requisiti catastali - Redditualità - Attenuazione

751

IMPOSTE SUI REDDITI E IVA Commissione tributaria provinciale di Trieste, sez. IV, 9 aprile 2008, n. 26 Imposte sui redditi - Autorità portuale - Natura pubblicistica - Sussistenza - Canoni di concessione demaniale - Reddito di impresa - Esclusione - Sussistenza

753

Iva - Autorità portuale - Natura pubblicistica - Sussistenza - Canoni di concessione demaniale Esclusione dal presupposto applicativo - Sussistenza nota di Christian Califano

IRAP Commissione tributaria regionale dell’Umbria, sez. V, 26 ottobre 2007, n. 80 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Perito agronomo Insussistenza

763

Commissione tributaria provinciale di Foggia, sez. VII, 26 ottobre 2007, n. 280 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Studio associato di consulenti del lavoro - Insussistenza

764


01 Sommario.qxd

15-04-2009

656

13:18

Pagina 656

GiustiziaTributaria

4 2008

Commissione tributaria provinciale di Ascoli Piceno, sez. I, 25 gennaio 2008, n. 7 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Commercialista senza dipendenti, con beni strumentali di scarso valore e operante per associazioni professionali Insussistenza

766

Irap - Istanza di rimborso - Ufficio competente – Competenza dell’ufficio del domicilio fiscale nel periodo in cui è stato realizzato il valore della produzione Commissione tributaria di II grado di Bolzano, sez. II, 25 febbraio 2008, n. 2 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Commercialista senza dipendenti né beni strumentali significativi e operante in una struttura organizzativa altrui Insussistenza

769

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XXV, 18 marzo 2008, n. 19 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Studio associato Sufficienza della libertà da coordinamento altrui - Sussistenza

770

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XXV, 13 maggio 2008, n. 52 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Onere probatorio a carico dell’ufficio tributario anche in caso di rimborso - Medico operante con autovettura, telefono e altri strumenti Insussistenza

772

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. X, 27 marzo 2008, n. 20 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Avvocato che impiega rilevanti mezzi finanziari - Sussistenza

773

Irap - Richiesta di rimborso - Adesione ad un condono fiscale - Preclusione Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XIV, 11 luglio 2008, n. 76 Irap - Richiesta di rimborso - Adesione ad un condono fiscale - Preclusione

775

Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. LVIII, 12 giugno 2008, n. 94 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Società di persone con attività simile ad un agente di commercio - Necessità di verifica in concreto sull’indipendenza dell’attività dall’apporto dei soci

776

Commissione tributaria provinciale di Mantova, sez. III, 27 marzo 2008, n. 35 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Auto-organizzazione del proprio lavoro da parte del professionista - Sufficienza

777

Irap - Richiesta di rimborso - Adesione ad un condono fiscale - Preclusione Commissione tributaria provinciale di Piacenza, sez. IV, 31 marzo 2008, n. 24 Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Professionista con unica dipendente part time addetta alla pulizia dei locali - Insussistenza nota di Roberto Schiavolin a tutte le sentenze sopra riportate in materia di Irap

779

IRPEF Commissione tributaria regionale della Campania, sez. L, 25 giugno 2007, n. 130 Irpef - Redditi di capitale - Accertamento di utili extracontabili di società di capitali - Ristretta base sociale - Presunzione di distribuzione degli utili ai soci - Ammissibilità - Prova contraria Ammissibilità nota di Giovanna Palma

794


01 Sommario.qxd

15-04-2009

13:18

Pagina 657

GiustiziaTributaria

4 2008 657

IVA Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. IX, 12 ottobre 2007, n. 120 Iva - Detrazione dell’imposta - Detrazione computata in sede di dichiarazioni mensili - Omessa presentazione della dichiarazione annuale - Decadenza del diritto alla detrazione nota di Annalisa Pace

799

Commissione tributaria di I grado di Bolzano, sez. I, 1 aprile 2008, n. 68 Iva - Acquisto di beni ammortizzabili - Rimborso dell’eccedenza detraibile risultante dalla dichiarazione - Iva relativa all’acquisto di terreno edificabile - Ammortizzabilità del terreno utilizzato per la costruzione di un fabbricato strumentale - Spettanza del rimborso nota di Michele Iavagnilio

804

PROCESSO TRIBUTARIO Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XIX, (ordinanza) 4 aprile 2007, n. 19 Processo tributario - Giudizio cautelare - Proponibilità dinanzi al giudice di secondo grado Esecutività dell’atto impugnato - Sospensione - Ammissibilità

812

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XXX, (ordinanza) 20 agosto 2007, n. 47 Processo tributario - Giudizio cautelare - Proponibilità dinanzi al giudice di secondo grado Sospendibilità della sentenza di primo grado - Inammissibilità - Esecutività dell’atto impugnato Sospensione - Ammissibilità nota di Marilena Sireci

813

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 11 dicembre 2007, n. 560 Processo tributario - Atti impugnabili - Istanza di rateizzazione di somme iscritte a ruolo Ammissione alla rateizzazione - Atto di revoca - Impugnabilità ex art. 19, D.Lgs. n. 546/1992 di Domenico Ardolino

821

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXVI, 17 luglio 2008, n. 76 Processo tributario - Pluralità di parti nel processo - Causa inscindibile - Mancata integrazione del contraddittorio nelle fasi di gravame - Nullità della sentenza - Ricorribilità in Cassazione nota di Piero Sandulli

828

RISCOSSIONE Commissione tributaria regionale della Campania, sez. XXVIII, 11 giugno 2007, n. 103 Riscossione - Cartella di pagamento - Notifica - Eccezione di tardività - Applicazione dell’art. 4, D.M. n. 321/1999 - Decadenza dell’iscrizione a ruolo per via telematica - Sussistenza nota di Laura Letizia

831

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. IX, 4 marzo 2008, n. 60 Riscossione - Iscrizione a ruolo di ritenute operate ma non versate - Iscrizione del sostituito Violazione del divieto di doppia imposizione - Illegittimità dell’iscrizione

843

TRIBUTI LOCALI Commissione tributaria provinciale di Genova, sez. XIII, 26 marzo 2007, n. 74 Tributi locali - Cosap - Distributore carburanti - Area sosta veicoli per rifornimento - Superficie stradale ad uso pubblico - Mancanza sottrazione alla collettività - Irrilevanza - Occupazione di fatto - Sussistenza - Conseguenze - Applicazione del canone di Luigi Lovecchio

847


01 Sommario.qxd

15-04-2009

658

13:18

Pagina 658

GiustiziaTributaria

4 2008

Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. XV, 27 giugno 2007, n. 302 Tributi locali - Contributi consortili di bonifica - Tariffa servizio idrico integrato - Contribuente soggetto passivo della tariffa - Esenzione dal contributo di bonifica ex art. 13, comma 3, L.R. Campania 25 febbraio 2003, n. 4, così come modificato dall’art. 11, L.R. Campania 29 dicembre 2005, n. 24 - Configurabilità nota di Oriana Lombardi

853

ATTI E INTERVENTI L’Agenzia delle Entrate si adegua alla Cassazione sul requisito di autonomia organizzativa nell’Irap. Agenzia delle Entrate, Direzione centrale normativa e contenzioso, circolare 13 giugno 2008, n. 45/E

864

Società ex municipalizzate: il recupero degli aiuti di Stato trova giustificazione negli articoli 3 e 117 della Costituzione di Clemente Ciampolillo

873

La fase di chiusura del giudizio di ottemperanza tributaria: verifica dell’operato del commissario ad acta e poteri della parte di Marta Proietti

875

I nuovi poteri degli agenti della riscossione e modifica delle strategie di riscossione coattiva mediante ruolo di Fabio Zolea

879

Indice cronologico delle sentenze

886


02 saggio Moscatelli.qxd

7-04-2009

12:55

Pagina 659

Maria Teresa Moscatelli 4 2008 659

LE FATTISPECIE CONSENSUALI E NEGOZIALI NELL’ATTIVITÀ DI ACCERTAMENTO E IN QUELLA DI RISCOSSIONE DEL TRIBUTO* di Maria Teresa Moscatelli 1. Premessa. Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attività di accertamento e in quella di riscossione del tributo - 2. Il rispetto dei principi costituzionali e, in particolare, il riferimento alla funzione comunitaria della fiscalità come limite all’attività consensuale e negoziale dell’amministrazione finanziaria - 3. Le fattispecie relative all’attività di riscossione

1. Premessa. Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attività di accertamento e in quella di riscossione del tributo Il tema della ricerca del consenso dei soggetti amministrati nell’esercizio delle potestà pubblicistiche, tra quelli di maggiore interesse negli studi del diritto amministrativo, presenta peculiari connotazioni avendo riguardo ai rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente. Se, infatti, nell’agire dell’amministrazione intesa nel suo complesso, le innovazioni legislative, pur esito meditato e consapevole delle elaborazioni teoriche, sono risultate di scarsa portata applicativa, come è significativamente testimoniato dai limitati riscontri giurisprudenziali, nei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente l’interesse teorico per l’argomento è sembrato a tratti seguire la sempre più incidente rilevanza che le fattispecie lato sensu consensuali conoscevano nell’applicazione della norma tributaria. Del resto la ricerca del consenso del contribuente, benché trovi inevitabile presupposto nel nuovo modo di intendere i rapporti tra soggetti amministrati e pubblica amministrazione, basato, come si dirà, sulla rinnovata considerazione del cittadino nella relazione con l’esercizio dei pubblici po-

* Testo elaborato sulla base della relazione tenuta nell’ambito del III Incontro di studio fra amministrativisti e tributaristi, “Azione amministrativa ed azione impositiva tra autorità

teri, è stata spesso intesa nell’assorbente ottica delle ragioni del fisco alla celere e sicura acquisizione del gettito. Invece, la varietà delle fattispecie lato sensu consensuali che la legislazione anche recente non cessa di imporre all’attenzione dell’interprete richiede una più articolata considerazione dell’argomento. Tale varietà induce infatti ad un’analisi che, lungi dal rifugiarsi in una trattazione unitaria degli istituti che si avvalgono del consenso del contribuente, tenti di apprezzarne i diversi aspetti strutturali e funzionali così da affrontare poi, in relazione alle peculiarità delle singole fattispecie, i tradizionali argomenti legati in particolare alla loro ammissibilità. Così, non possono essere accolte sia impostazioni che escludono senz’altro l’ammissibilità delle fattispecie negoziali nell’attuazione della norma tributaria sia ricostruzioni propense in termini generali ad un inquadramento negoziale degli istituti in questione, favorevolmente valutati quali alternativa all’agire unilaterale e pubblicistico dell’amministrazione. D’altro canto, il tema dell’ammissibilità delle fattispecie in cui l’amministrazione finanziaria ricerca il consenso del contribuente nell’attuazione della norma tributaria va affrontato evidenziando come sia riduttiva la loro riconduzione al negozio giuridico e dunque, senz’altro, all’incontro di volontà tra soggetti interessati1. Ritenendo invece che l’idem sentire non necessariamente si manifesta nel compimento di atti di volontà, potendo ricorrere anche per i semplici atti volontari, deve conseguentemente affermarsi che alla concomitanza di prospettazioni può giungersi in relazione al coincidente contenuto di

e consenso. Strumenti e tecniche di tutela dell’amministrato e del contribuente”, svoltosi in Pescara il 5 ottobre 2007, su iniziativa del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’U-

niversità di Chieti-Pescara. 1 Per tale ricostruzione sia consentito rinviare a MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007.


02 saggio Moscatelli.qxd

660

7-04-2009

12:55

GiustiziaTributaria

Pagina 660

4 2008

atti dichiarativi, in cui, come tradizionalmente si osserva, il dichiarante fornisce la propria versione di un fatto del quale ha diretta conoscenza ovvero descrive una situazione presa in esame. In questi termini, ci sembra possibile distinguere tra fattispecie negoziali e moduli consensuali, così da analizzarne le differenze sul piano strutturale e funzionale, nonché da affrontare distintamente il problema della loro ammissibilità nell’agire dell’amministrazione finanziaria volto all’attuazione della norma tributaria. Infatti, ferma restando la necessità di inquadrare l’argomento del consenso del contribuente nella più ampia tematica della funzione che si intende attribuire alla fiscalità, occorrerà collocare le singole fattispecie consensuali e negoziali nelle diverse fasi dell’agire dell’amministrazione finanziaria e in particolare distinguere a seconda che la ricerca del consenso del contribuente inerisca all’agire dell’amministrazione relativo all’accertamento ovvero alla riscossione del tributo. Ripercorrendo le fasi in cui si articola l’attuazione della norma tributaria, la funzione dell’accertamento è rintracciata nella ricostruzione qualitativa e quantitativa del presupposto d’imposta, in modo da individuare la misura alla contribuzione di ciascuno che realizzi l’equo riparto delle pubbliche spese tra consociati, quasi a “concretizzare” la composizione di interessi confliggenti nella collettività operata in via generale e astratta dal legislatore. Benché non si possa negare l’inevitabile ricorrenza di margini di approssimazione insiti in ogni operazione di accertamento, spesso conseguenza di alcuni tratti di disciplina di tale fase dell’agire dell’amministrazione finanziaria2, è dunque necessario avere presente il costante riferimento, ai fini della valutazione nonché dell’applicazione di quei tratti di disciplina, alla funzione cui è deputato tale ambito dell’agire dell’amministrazione finanziaria. Pur alla luce delle innegabili tendenze cui si è fatto sopra cenno, ci sembra non ci si possa esimere dal ravvisare nell’attività di accertamento la funzione di attuazione del tributo «nel caso singolo specificando l’obbligazione tributaria secondo il presupposto realizzato in concreto dal contribuente»3, così da realizzare dunque una quanto

2 L’operazione di ricognizione del presupposto d’imposta, come qualsiasi altra operazione di accertamento, esprime un tentativo di ricostruzione, più o meno puntuale, della realtà, sicché deve inevitabilmente tollerare che gli strumenti di cui si av-

più aderente ricostruzione del presupposto, della cui centralità nella complessiva dinamica del prelievo non sembra ragionevolmente possibile dubitare essendo «l’unico fatto idoneo a giustificare nell’an e nel quantum la definitiva acquisizione del prelievo e il depauperamento del contribuente»4. Diverso profilo funzionale è assegnato alla riscossione del tributo. Nell’attività di acquisizione delle entrate sono già risolti, o comunque non inerenti all’attività esercitata dall’amministrazione, i profili perequativi in cui consiste il proprium della funzione impositiva, e l’agire dell’amministrazione finanziaria ha una funzione meramente satisfattoria delle pretese patrimoniali del fisco. Se compito dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento è quello di definire il quantum dell’imposta dovuta alla luce della ricostruzione del presupposto, all’attività di riscossione vengono invece riferiti i profili prettamente acquisitivi dell’obbligazione tributaria e il complesso degli istituti con cui l’amministrazione realizza il proprio diritto di credito nei confronti del contribuente. Alla luce di tali premesse, molteplici considerazioni inducono ad un atteggiamento prudente circa l’ammissibilità in sede di accertamento del tributo di forme di vera e propria negoziazione aventi ad oggetto l’esercizio del potere impositivo. In particolare, la determinazione dell’agire amministrativo a seguito del negozio concluso con il contribuente potrebbe comportare un’alterazione del riparto tra consociati disciplinato dal legislatore e un fattore di “squilibrio” nella composizione di interessi in cui, come si vedrà, si fa consistere l’essenza della funzione impositiva. Non così, invece, nel caso di adozione di moduli consensuali. Ritenendo infatti che questi debbano essere ricostruiti in termini di coesistenza di coincidenti dichiarazioni provenienti dall’amministrazione e dal contribuente in ordine alla dimensione qualitativa e quantitativa del presupposto di imposta (eventualmente all’esito di un procedimento connotato dalla partecipazione del contribuente), si può affermare che la ricerca del consenso non so-

vale possano influire sulla consistenza dell’obbligazione tributaria. Tale discrepanza si manifesta proprio nella dialettica tra norme sostanziali e norme procedimentali, e nella constatazione che queste ultime consistono nella previsione di moduli che

consentono la ricostruzione, nel miglior modo possibile, dei fatti posti dalla legge a presupposto d’imposta. 3 Così FANTOZZI, Accertamento tributario, in Enc. Giur., Aggiornamento, 2007. 4 Così FANTOZZI, Accertamento tributario, cit.


02 saggio Moscatelli.qxd

7-04-2009

12:55

Pagina 661

Maria Teresa Moscatelli 4 2008 661

lo non si pone in contrasto con la funzione esercitata dall’amministrazione, ma risulta anzi tale da consentirne una migliore realizzazione. È affermazione largamente condivisa nella teoria generale del diritto quella secondo cui l’idem sentire non necessariamente si manifesta nel compimento di atti di volontà, potendo ricorrere anche tra i semplici atti volontari; alla luce di tali considerazioni, deve conseguentemente affermarsi che alla concomitanza di prospettazioni può giungersi in relazione al coincidente contenuto di atti dichiarativi, in cui, come tradizionalmente si osserva, il dichiarante fornisce la propria versione dello svolgimento di un fatto del quale ha diretta conoscenza ovvero descrive i termini di una situazione presa in esame. Sicché nel modulo consensuale, alla volontà non è dato predisporre un autonomo regolamento di interessi, essendo gli effetti della fattispecie stabiliti ex lege e attenendo il consenso, che pure rappresenta elemento costitutivo della complessiva fattispecie, non alla predisposizione del regolamento di interessi quanto piuttosto alla realizzazione di uno degli elementi della fattispecie dalla quale derivano gli effetti previsti ex lege, principalmente consistenti nella coincidente e definitiva prospettazione del presupposto del tributo. Alla coincidenza delle dichiarazioni si giunge anche quando le iniziali posizioni dell’amministrazione e del contribuente risultano non conformi tra loro. Pur partendo infatti da differenti prospettazioni del presupposto, all’esito della partecipazione collaborativa ed a seguito dello scambio di reciproche e successive dichiarazioni, l’amministrazione e il contribuente addivengono, da determinazioni qualitative e quantitative del presupposto distinte tra loro, ad un progressivo avvicinamento delle rispettive posizioni, frutto tuttavia non di reciproche concessioni né, più in generale, di rispettivi atti di disposizione, quanto piuttosto di una graduale soluzione dei profili di incertezza alla luce del contenuto delle reciproche dichiarazioni delle parti. Rispetto a queste, infatti, dal confronto delle rispettive posizioni e con riferimento alle situazioni connotate da incertezza applicativa, può derivare un utile confronto che conduca alla soluzione delle questioni dubbie e all’identità di configurazione del presupposto, in misura conforme alla capacità contributiva, che sia poi versata nelle coincidenti dichiarazioni dell’amministrazione e del contribuente. Alla luce di tale ricostruzione, dunque, la ricerca

del consenso del contribuente si pone non solo non in contrasto con la funzione esercitata dall’amministrazione, ma risulta anzi tale da consentirne una migliore realizzazione. Diverso discorso va fatto con riferimento all’attività di riscossione del tributo. L’essere qui già risolte, o comunque non rilevanti, le questioni attinenti alla composizione tra consociati delle contrapposte istanze coinvolte nel fenomeno impositivo e il ritenere che non è in tale contesto che si manifesta il proprium della funzione impositiva, induce ad una diversa considerazione delle preclusioni alla negoziabilità dei pubblici poteri, di cui si è detto sopra con riferimento all’accertamento tributario. Infatti, la funzione prettamente satisfattoria che qui giustifica l’esercizio dei poteri autoritativi e il loro riferimento all’obbligazione tributaria fa sì che l’interesse cui tende l’amministrazione finanziaria sia quello alla concreta acquisizione delle entrate patrimoniali sicché possono ritenersi attenuati i condizionamenti imposti dalle peculiarità della funzione impositiva e può con maggior facilità ammettersi che, a seguito dell’incontro di volontà con il privato, possa addivenirsi ad una acquisizione patrimoniale con modalità differenti da quelle originariamente stabilite. Questo determina l’attenuarsi delle ragioni di inammissibilità all’utilizzo degli strumenti negoziali legate alle peculiarità della funzione impositiva, e implica che l’indagine venga condotta avendo riguardo alle diverse caratteristiche funzionali da cui è, invece, connotata l’azione amministrativa nella fase di riscossione. Il riferimento dunque dell’agire dell’amministrazione finanziaria all’obbligazione tributaria implica che le ragioni connesse alla tutela del credito possano trovare migliore soddisfazione con il ricorso agli strumenti propri dell’agire dei privati. L’essere il potere autoritativo rivolto finalità prettamente acquisitive consente infatti che l’adozione degli istituti pubblicistici venga “doppiata” dall’utilizzo di fattispecie di diritto privato, laddove si tratta appunto di istituti che regolano il profilo strettamente solutorio del credito. Una tale ricostruzione, del resto, riprende, per l’agire dell’amministrazione finanziaria, le elaborazioni della dottrina amministrativa che ammette l’adozione del negozio giuridico con riferimento agli aspetti patrimoniali conseguenti all’esercizio delle potestà pubblicistiche5.

5 Per tali rilievi si veda CHIRULLI-STELLA RICHTER, Transazione (Dir. amm.), in Enc. Dir., Milano, 1992, XLIV, 867.


02 saggio Moscatelli.qxd

662

7-04-2009

12:55

GiustiziaTributaria

Pagina 662

4 2008

Il problema va tuttavia affrontato riflettendo sul fatto che, anche in sede di riscossione, pur quando l’amministrazione finanziaria cura gli aspetti prettamente patrimoniali dell’attuazione della norma tributaria, regola tuttavia profili egualmente espressivi della funzione pubblica di cui è titolare, rivolta, appunto, ai profili acquisitivi del credito tributario. In questi termini, dunque, l’adozione, delle fattispecie negoziali in sede di riscossione, giustificata appunto dal contenuto della funzione che l’amministrazione finanziaria è in tale fase dell’attuazione della norma tributaria chiamata a compiere, non può portare ad una considerazione meramente privatistica delle ragioni che l’amministrazione è chiamata a soddisfare. Pur adottando il negozio giuridico quale strumento della propria azione, l’agire dell’amministrazione finanziaria non perde il suo connotato di agire funzionalizzato, finalizzato alla cura dell’interesse all’acquisizione del tributo per la cui cura il relativo potere è attribuito ed è retto pertanto dai principi, in primis costituzionali, che regolano l’esercizio della funzione medesima. 2. Il rispetto dei principi costituzionali e, in particolare, il riferimento alla funzione comunitaria della fiscalità come limite all’attività consensuale e negoziale dell’amministrazione finanziaria Il rispetto dei principi che regolano l’agire dell’amministrazione finanziaria, e in primis l’osservanza del principio di capacità contributiva richiede dunque che, anche quando l’amministrazione si allontana dal tradizionale schema unilaterale di azione per adottare le forme consensua-

6 In questo senso si confronti in particolare MOSCHETTI, Profili generali, in AA.VV., La capacità contributiva, Padova, 1993, 19, in cui si afferma che nell’art. 53 Cost. trovano contemporanea e pari tutela costituzionale l’interesse collettivo a che tutti concorrano alle pubbliche spese in ragione della loro capacità contributiva e l’interesse del singolo contribuente a non essere tassato in misura superiore alla propria capacità contributiva, specifica ed effettiva. Nessuna preminenza va riconosciuta, in base all’art. 53 Cost., all’interesse fiscale dello Stato, tanto da poter sacrificare l’interesse di ciascuno ad essere tassato in virtù della propria capacità contributiva; DE MITA,

li nell’ambito dell’attività di accertamento o quelle negoziali in sede di riscossione, queste non alterino il riparto tra consociati delle pubbliche spese fissato dal legislatore. Il vincolo per l’amministrazione è dunque legato alla funzionalizzazione del soggetto pubblico e alle regole che ne disciplinano l’attività, tra cui particolare rilievo assume il principio di capacità contributiva. Tali conclusioni costituiscono corollario del rilievo, abbastanza pacifico almeno su un piano teorico, secondo cui il principio di capacità contributiva deve trovare applicazione nella fase attuativa del prelievo, sia che si abbia riguardo all’attività di accertamento che a quella di riscossione6. Tali rilievi inducono dunque a ritenere che, nelle fattispecie in cui l’amministrazione finanziaria ricerca il consenso del contribuente ai fini dell’attuazione della norma tributaria, le ragioni legate alla celere e sicura acquisizione del tributo non possono essere assunte ad interesse prevalente rispetto all’interesse fiscale della collettività ad un riparto dei carichi pubblici conforme alla capacità contributiva manifestata da ciascun consociato. Infatti, il costante punto di confronto e il limite all’utilizzo dei modelli consensuali e negoziali nell’attuazione del prelievo tributario vanno ricercati nei principi costituzionali che regolano il diritto tributario, tra cui in primis il principio di capacità contributiva7. In tale ottica, le innegabili esigenze legate alla celerità e alla sicurezza nell’acquisizione del prelievo devono trovare composizione con quelle, altrettanto innegabili, alla “giusta” partecipazione dei consociati ai carichi pubblici8. Questo implica, valorizzando il profilo “comuni-

Il principio di capacità contributiva, in Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2006, 48, in cui si afferma «che l’interesse fiscale non può portare alla vanificazione del principio di capacità contributiva: l’uno deve coesistere con l’altro». In proposito si confronti anche Corte cost., sent. n. 11 del 1995 che, nel pronunciarsi sull’ammissibilità del referendum abrogativo degli artt. 23 e 25, comma 1, D.P.R. n. 600 del 1973, ha incluso la disciplina sulla sostituzione tributaria nell’ambito della legge tributaria in quanto partecipe «degli elementi basilari per la qualificazione di una legge come tributaria [...] rappresentati dalla ablazione delle somme con attribuzione delle stesse

ad un ente pubblico e la loro destinazione allo scopo di apprestare mezzi per il fabbisogno finanziario dell’ente medesimo». Parzialmente difforme la posizione di BATISTONI FERRARA, Accertamento con adesione, in Enc. Dir., Aggiornamento, Milano, 1998, II, 28, secondo il quale l’interesse primario dello Stato alla riscossione del tributo trova espressione nell’art. 53 Cost. 7 Così FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 478. 8 Riflessioni in tal senso si trovano in FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 478, dove il problema è affrontato con specifico riferimento all’istituto dell’accertamento con adesione.


02 saggio Moscatelli.qxd

7-04-2009

12:55

Pagina 663

Maria Teresa Moscatelli 4 2008 663

tario” della fiscalità in quanto comportante un obbligo del quale è gravato ciascun consociato quale appartenente alla collettività organizzata, l’imprescindibilità del riparto dei carichi pubblici razionalmente collegato a situazioni espressive della capacità contributiva di ciascuno9, che risulterebbe egualmente “vulnerata” non solo dalla previsione di obblighi di contribuzione non rispondenti alla capacità contributiva, ma anche dalla determinazione della contribuzione in misura ridotta rispetto a quanto dovuto sulla base degli indici fissati normativamente, traducendosi tale decurtazione riguardante il singolo consociato in un aggravio della posizione degli altri appartenenti alla medesima collettività10. Il rispetto del principio di capacità contributiva, inteso dunque come razionale criterio di riparto dei carichi pubblici legato a differenti situazioni degli appartenenti alla collettività, tutte espressive della potenzialità economica di ciascuno11, costituisce allora limite e nel contempo guida per l’amministrazione finanziaria nell’adozione di modalità di attuazione del tributo che si avvalgano del consenso del contribuente, presentando, peraltro, una diversa valenza a seconda che si faccia riferimento ai moduli consensuali ovvero all’adozione di strumenti negoziali. Nel primo caso, infatti, si è detto come siano i caratteri della funzione che l’amministrazione finanziaria esercita in sede di accertamento a porsi in termini di incompatibilità logica ancor prima che giuridica con la possibilità di adottare forme negoziali di esercizio del potere finalizzato alla quanto più aderente possibile individuazione della capacità contributiva espressa dal presupposto. La ricerca della partecipazione collaborativa del contribuente consente invece di sciogliere i profili di incertezza nella ricostruzione del presupposto e di addivenire ad una coincidenza di dichiarazioni in ordine, appunto, alla ricostruzione del

9 FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 23. 10 Secondo l’impostazione che configura il credito tributario come credito di riparto, per cui «come in un grandioso sistema di vasi comunicanti la mancata partecipazione alla contribuzione di taluni membri della platea dei soggetti passivi – beneficiari della rinuncia – automaticamente si converte nella necessità di incrementare, con appropriate modifiche, dell’assetto di uno o più tributi, la quota dovuta dai soggetti

presupposto, con un migliore esercizio della funzione medesima. Pur entro tale ambito, tuttavia, il principio di capacità contributiva si pone come limite interno all’esercizio del potere pubblicistico che l’amministrazione esercita in forma consensuale, dovendo orientare l’agire amministrativo verso definizioni che in concreto esprimano la forza economica espressa dal presupposto. Nel caso in cui, invece, l’amministrazione finanziaria addivenga a definizioni negoziali in sede di riscossione, il rispetto della capacità contributiva costituisce limite esterno, poiché implica la possibilità di adottare solo gli istituti negoziali i cui effetti risultino equivalenti con quelli cui è rivolta l’azione di riscossione, potendo pertanto avere ad oggetto le forme di pattuizione di carattere solutorio, riguardanti le modalità di acquisizione del prelievo e tali da non intaccare il profilo relativo all’an ed al quantum dell’imposta dovuta. 3. Le fattispecie relative all’attività di riscossione Alla luce di tali considerazioni, vanno dunque ricondotti allo schema del modulo consensuale gli accordi ricorrenti nell’attività di accertamento, e in particolare l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale12, mentre è nella fase di riscossione che è possibile rintracciare l’adozione di fattispecie ascrivibili al negozio giuridico. Del resto, in tal senso sembrano orientati gli interventi più recenti del legislatore che, appunto con riferimento all’attività acquisitiva del prelievo, ha previsto per l’amministrazione finanziaria la possibilità di adottare istituti che, già nel nomen, intendono ripetere nei rapporti con il contribuente le forme proprie dell’agire dei privati. Emblematica in tal senso la recente disciplina della transazione fiscale13. Dapprima con il D.L. n. 138 del 2002 relativo alla transazione con riferimento ai tributi iscritti a

che già pagano», così da configurare un interesse individuale appartenente a ciascun soggetto passivo di imposta, fornito di tutela costituzionale, «a che la spesa da ripartire sia perequativamente distribuita a carico di tutti e di ciascuno secondo i criteri fissati, per tutti e per ciascuno, dalla legge racchiudente la disciplina sostanziale dell’imposta». In questi termini si confronti FALSITTA, Profili della tutela costituzionale della giustizia tributaria, in Diritto tributario e Corte costituzionale, collana Cinquan-

ta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana, Napoli, 2006, 91; Id., Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, 259. 11 FEDELE, Appunti dalle lezioni, cit., 23. 12 Per tale ricostruzione sia consentito rinviare a MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali, cit., 156 ss., in cui si riconduce allo schema delle fattispecie consensuali anche l’istituto dell’interpello del contribuente disciplinato dallo Statuto dei diritti. 13 Contenuta nell’art. 182-ter, R.D. n. 267 del 1942.


02 saggio Moscatelli.qxd

664

7-04-2009

12:55

GiustiziaTributaria

Pagina 664

4 2008

ruolo e poi con l’introduzione dell’istituto nel corpus della disciplina fallimentare, è prevista la possibilità per l’amministrazione finanziaria di definire negozialmente gli importi dovuti dal contribuente, anche se non è chiaro se tale possibilità riguardi le sole modalità di acquisizione del prelievo o si estenda anche alla definizione dell’an e del quantum dovuto. La tesi da preferire alla luce di quanto in precedenza osservato in termini di compatibilità degli istituti in questione con i principi costituzionali, e segnatamente con il principio di capacità contributiva, è quella della ricostruzione del negozio concluso tra amministrazione finanziaria e contribuente come negozio solutorio volto alla regolazione pattizia delle modalità di acquisizione del tributo, fermo restando l’an ed il quantum dovuto come stabilito ex lege. Analoghe considerazioni vanno fatte per gli altri istituti che prevedono modalità di adempimento dell’obbligazione tributaria riconducibili agli schemi negoziali propri dell’agire dei privati, come le fattispecie di compensazione tra amministrazione finanziaria e contribuente, di recente consentite anche in materia tributaria, e la cessione di beni culturali in luogo del pagamento delle imposte. 3.1. Segue: anche alla luce delle modifiche apportate alla disciplina della riscossione dalla legge finanziaria per il 2008 e dal cd. decreto milleproroghe Ulteriori riflessioni in argomento possono poi farsi in relazione alle modifiche apportate alla disciplina della riscossione (in particolare, all’art. 19, D.P.R. n. 602 del 1973), dalla legge finanziaria per il 2008 e dal cd. decreto milleproroghe. Con entrambi i provvedimenti sono state introdotte disposizioni che prevedono un incremento degli ambiti di scelta nella concessione di rateazioni di imposta, peraltro non più riservati all’ufficio delle entrate ma estesi all’agente di riscossione. È infatti quest’ultimo, alla luce delle modifiche apportate, a concedere la rateazione delle somme iscritte a ruolo in considerazione della temporanea situazione di difficoltà del contribuente, procedendo ad una determinazione che investe sia l’an della richiesta dilazione che il numero delle rate con cui provvedere al pagamento. Altro profilo di valutazione ai fini della dilazione attiene poi al suo rapporto con l’esecuzione for-

14 In argomento, oltre alla manualistica, si confronti GALLO, Discrezionalità (Dir. Trib.), in Enc. Dir., Aggiorna-

zata, essendo venuta meno la preclusione alla concessione del beneficio per il contribuente nel caso di inizio della procedura esecutiva. Questo implica per l’agente di riscossione la necessità di considerare se ed in che termini la dilazione può consentire al contribuente di adempiere spontaneamente, così da evitare tempi e costi dell’esecuzione forzata. Inoltre, poiché la domanda di rateazione non comporta l’automatica sospensione della procedure esecutive in corso, occorre considerare e “dosare” i tempi dell’abbandono della via giurisdizionale in rapporto alla progressiva soddisfazione rateale del credito ed ai rischi di un possibile mancato adempimento integrale. Seguendo l’impostazione tradizionale, la decisione, ora rimessa all’agente di riscossione, di consentire il pagamento rateale del tributo, va configurata come espressione di valutazione discrezionale essendo necessario contemperare l’interesse pubblico alla celere acquisizione del gettito con gli interessi del contribuente alla dilazione delle somme dovute14. Né a diversa conclusione deve giungersi a seguito dell’attribuzione della competenza a concedere dilazioni non più all’ufficio delle imposte ma all’agente di riscossione. Com’è noto, a seguito della riforma della riscossione, la relativa funzione è ora attribuita a società di capitali miste a prevalente partecipazione pubblica. Riprendendo qui in estrema sintesi le elaborazioni in ambito amministrativo, anche alla luce degli orientamenti comunitari, occorre sottolineare come sia ormai largamente condivisa la tesi della cd. neutralità del modello societario rispetto alle finalità che con lo stesso si intendono perseguire. Tale processo di neutralizzazione si afferma ormai relativo non più soltanto alla causa del contratto, ma anche ai profili genetici, funzionali e organizzativi dell’ente15, così da poter ritenere applicabili ad esso i modelli di azione elaborati per gli enti pubblici intesi in senso tradizionale. Resta da chiedersi se a tale determinazione l’agente di riscossione addivenga sempre in modo unilaterale o se siano possibili anche in tale contesto definizioni consensuali tra amministrazione finanziaria e contribuente. Posto che l’azione amministrativa è retta dal principio di legalità e che, dunque, le modalità di esercizio del potere devono essere fissate ex lege, la scelta di concedere al contribuente il pagamento rateale costituisce una

mento, 1999, III, 536; MOSCATELLI, La discrezionalità nell’accertamento tributario e la tutela del contribuente, in

Rass. Trib., 1997, 1117. 15 Così CARINGELLA, Diritto amministrativo, Milano, 2006.


02 saggio Moscatelli.qxd

7-04-2009

12:55

Pagina 665

Maria Teresa Moscatelli 4 2008 665

delle isolate ipotesi di esercizio discrezionale di potere da parte dell’amministrazione finanziaria, cui occorre verificare l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 11, L. n. 241 del 1990. L’estensione della norma in questione anche ai casi di esercizio, pur discrezionale, di potere da parte dell’amministrazione finanziaria sembra tuttavia da escludere visto che la relativa disciplina è collocata nel capo dedicato alla partecipazione, non applicabile al procedimento tributario per espressa previsione legislativa16. Sciolta in senso positivo la decisione di concedere la dilazione, competeva poi all’ufficio definirne le modalità in particolare con riferimento alla tipo-

16 In argomento, e nel senso della non applicabilità alla materia tributaria, della disciplina sulla partecipazione al procedimento prevista dall’art.

logia di garanzie richieste al contribuente. La disciplina in questione è stata abrogata dal D.L. n.112 del 2008. Esulava tuttavia da tale scelta alcuna valutazione di tipo discrezionale, trattandosi piuttosto di comportamento assimilabile a quello dei contraenti in sede di definizione delle condizioni contrattuali. Su tali punti, si poteva più facilmente ammettere che amministrazione finanziaria e contribuente addivenissero ad una definizione negoziale del relativo contenuto, trattandosi di profili in cui il tratto dispositivo non investiva l’ammontare delle somme dovute, ma la disciplina delle modalità di adempimento del debito tributario.

11, L. n. 241 del 1990, si veda BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi;considerazioni su principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. Dir.

Fin., 2006, 356.


03 saggio Petrillo.qxd

666

9-04-2009

11:44

GiustiziaTributaria

Pagina 666

4 2008

LA CONCILIAZIONE GIUDIZIALE TRIBUTARIA E LA TEORIA GERMANICA DELLA “INTESA EFFETTIVA”* di Giovanna Petrillo 1. Premessa - 2. L’ importanza della definizione dell’oggetto della Tatsaechliche Verstaendigung in ordine all’ammissibilità dell’accordo conciliativo su questioni di diritto - 3. Riflessioni di sintesi in merito alla compatibilità della ricostruzione proposta con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria

1. Premessa La conciliazione giudiziale tributaria ha suscitato l’interesse dei pratici, ma necessita di inquadramento teorico, al fine di cogliere adeguatamente le sue implicazioni rispetto alle problematiche della tradizionale indisponibilità dell’obbligazione tributaria, e dell’accordo su questioni di diritto. È doveroso in via preliminare, pur considerando evidenti esigenze di sintesi, evidenziare alcuni elementi concettuali fondamentali da cui necessariamente prenderà le mosse la presente indagine. Il potere pubblico in quanto duttile ed adattabile alle singole fattispecie si concreta in diversi moduli operativi, non necessariamente autoritativi, senza che con ciò vengano meno quei caratteri di irrinunciabilità e inesauribilità che attengono alla sua intima essenza1. Ragionando in questi termini, la possibilità di stipulare accordi nel diritto tributario non è da collegare all’arbitrarietà nell’ap-

* Testo elaborato sulla base della relazione tenuta nell’ambito del III Incontro di studio fra amministrativisti e tributaristi, “Azione amministrativa ed azione impositiva tra autorità e consenso. Strumenti e tecniche di tutela dell’amministrato e del contribuente”, svoltosi in Pescara il 5 ottobre 2007, su iniziativa del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Chieti-Pescara. 1 In tal senso , v. FORMENTIN, voce Transazione nel diritto amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., 1999, XV, 315. 2 Si veda, sul punto, DE BARROS CARVALHO, Diritto tributario, Padova, 2004, 188. 3 Così, FERRARA, voce “ Intese, convenzio-

plicazione dei tributi, in realtà, la tecnica dell’accordo semplifica l’applicazione del tributo posto che con l’accordo si preparano le condizioni necessarie in vista dell’estinzione dell’obbligo mediante il pagamento2. Il fatto che il sistema amministrativo utilizzi con una sostanziale fungibilità strumenti autoritativi e procedure e mezzi propri dell’azione consensuale non viene a determinare «la cessione e il depotenziamento incondizionato dei profili autoritatitivi e di comando che sono impliciti e coessenziali al sistema dei pubblici poteri negli Stati contemporanei»3, è, infatti, pacifico che l’amministrazione non potrà utilizzare l’autonomia negoziale allo stesso modo del soggetto privato, e ciò nella misura in cui l’opzione fra l’operare per atti amministrativi ovvero per accordi dovrà rispondere a specifiche regole pubblicistiche, al cui puntuale rispetto è tenuto l’ente pubblico4. Anche l’accordo posto in essere dalla pubblica amministrazione, pertanto, come ogni atto amministrativo, non può dissociarsi dal pubblico interesse: l’amministrazione non esercita un potere di disporre in senso privatistico ma solo il potere di valutare e realizzare l’interesse pubblico affidatole5. È fuori di dubbio, come non possa prescindersi dal principio di unitarietà dell’azione amministrativa, azione, da considerare sempre “funzionalizzata”

ni e accordi amministrativi”, in Dig. Disc. Pubbl., VIII, 1993, 546. 4 In argomento si veda CAVALLO, Provvedimenti e atti amministrativi, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da Santaniello, Padova, II, 1993. 5 In questi termini, OPPO, Diritto privato e interessi pubblici, in Riv. Dir. Civ., 1994, I, 29. Si è, in definitiva, compreso che la decisione unilaterale non è quella che ottimizza più di qualsiasi altra gli interessi pubblici e che gli interessi privati non sono più costretti a nascondersi dietro gli interessi pubblici concorrendo, a pieno titolo, nell’esercizio delle funzioni amministrative. Seguendo quest’ordine di

idee «la fenomenologia dell’accordo sembra nel nostro ordinamento connotata da un duplice ordine di fattori: dal fattore che si connette al depotenziamento della funzione ordinatrice svolta dalla legge formale e da un fattore-esigenza di razionalità e di modernità che risponde alla necessità di riformare in senso efficientistico la macchina burocratica» (così si esprime STIPO, Accertamento con adesione, in Rass. Trib., 2000, 6, 1747). Ancora, in argomento, si vedano: MOSCHETTI, Le possibilità di accordo fra amministrazione finanziaria e contribuente nell’ordinamento italiano, in Fisco, 1995, 22, 5331; D’AYALA VALVA, Il


03 saggio Petrillo.qxd

9-04-2009

11:44

Pagina 667

Giovanna Petrillo 4 2008 667

alla realizzazione di scopi di pubblico interesse6. Vero è, infatti, che «atti autoritativi e atti consensuali sono meri strumenti giuridici i quali vanno esaminati in modo oggettivo, in relazione alla loro rispondenza alle finalità che all’amministrazione viene chiesto di raggiungere, tenendo conto dello statuto dell’azione amministrativa che trae i suoi fondamenti dalla Costituzione»7. L’amministrazione ha, dunque, la facoltà di realizzare l’interesse pubblico primario utilizzando uno strumento consensuale (l’accordo, appunto, strumento giuridico duttile ed efficiente ma sempre saldamente ancorato al principio di legalità dell’azione amministrativa) che le permetta di raggiungere lo scopo cui attende nel modo più efficiente, coinvolgendo il privato e realizzando allo stesso tempo, anche l’interesse di questi. In quest’ottica, l’amministrazione dovrebbe aderire all’accordo solo nel momento in cui valuti che l’interesse pubblico possa essere meglio perseguito sulla base di un modulo consensuale piuttosto che in via autoritativa8. Ciò dato, è opportuno innanzitutto operare alcune precisazioni sul potere di imposizione: la discrezionalità amministrativa rimane sempre vincolata nel fine predeterminato legislativamente9, l’amministrazione, dunque, non contempera autonomamente gli interessi coinvolti nel prelievo

6

7

8

9

principio di cooperazione fra amministrazione e contribuente. Il ruolo dello Statuto, in Riv. Dir. Trib., 2001, 10, 1003. Per l’efficace osservazione in base alla quale l’interesse privato e l’interesse pubblico non sono due vicini ostili che possono andare d’accordo solo a condizione di rimanere ciascuno chiuso nei propri confini, si veda CALAMANDREI, L’avvenire dei diritti di libertà, ottobre 1945, ora in Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Firenze, 1995, 191. AICARDI, La disciplina generale e i principi degli accordi amministrativi: fondamento e caratteri, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1997, II, 59. SCOCA, Autorità e consenso, in Autorità e consenso nell’attività amministrativa, Atti del XLVII convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Milano, 2002, 21. In tal senso si veda CUGURRA, La rilevanza della buona fede in tema di accordi ex. art. 11 della L. 7 agosto 1990, n. 241, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, Padova, 2003, 401. Non può non rilevarsi come si vada,

fiscale; la legge predetermina quali interessi vadano tenuti in considerazione, così, la determinazione dell’imposta può essere considerata unitamente ad altri elementi. I valori della capacità contributiva e dell’eguaglianza andranno, pertanto, verificati costantemente in base alle modalità ed ai termini cui, concretamente, risultano improntati i rapporti fra le parti del rapporto di imposta. La violazione dei principi costituzionali di legalità ed uguaglianza non è, allora, determinata dalla forma contrattuale o unilaterale dell’imposizione bensì dal contenuto concreto dell’atto impositivo in quanto ben può anche l’atto amministrativo unilaterale ledere i suddetti principi10. Sempre in vista della fedele applicazione della legge tributaria, l’amministrazione persegue il fine di individuare nella maniera quanto più esatta possibile l’imponibile di ciascun soggetto risultando in definitiva indifferente il fatto che detto obiettivo sia poi raggiunto attraverso la partecipazione volitiva del contribuente11. Argomentando in tal senso l’introduzione di procedure che consentono di concordare il contenuto dell’obbligazione tributaria non costituisce di per sé una sostanziale alterazione della legalità dell’imposizione, sempre che risulti rispettata la ponderazione contenuta nella legge12.

sempre più, a delineare un nuovo concetto di discrezionalità tributaria da intendere quale «scelta in situazioni comunque non definite né altrimenti definibili dalle sole parti della soluzione più economica e più efficiente realizzata attraverso la ponderazione degli esclusivi interessi direttamente coinvolti dalla ricerca di quel particolare livello di definitività del prelievo, riconosciuto dall’ordinamento come il migliore attuabile, rebus sic stantibus» (così, VERSIGLIONI, Prime riflessioni sul prefigurato “concordato triennale preventivo”, in Riv. Dir. Trib., 2002, 4, 391; Id., Accordo e disposizione nel diritto tributario, contributo allo studio dell’accertamento con adesione e della conciliazione giudiziale, Milano, 2001, in specie 382-385). Per completezza, in argomento, v. GALLO, La natura giuridica dell’accertamento con adesione, in Riv. Dir. Trib., 2002, 5, 430, il quale, osserva che la potestà tributaria di cui l’ufficio è investito «mal si colloca in un modello contrattuale caratterizzato dal rapporto paritario fra le parti contraenti per la semplice ragione che la funzione

che essa esprime è connotata dalla nota della doverosità, o se si preferisce, tecnicamente dalla “non discrezionalità”. Dà quindi luogo ad una attività non libera per definizione diversamente dall’autonomia privata nel cui ambito opera invece il contribuente». 10 Così, si esprime EICH, Die tatsaecliche verstaendigung im Steuerverfaren und Steuerstrafverfahren, 1992, 35. Riguardo al principio di eguaglianza in rapporto ai principi di economicità dell’attività amministrativa,v. PUHL, Le procedure e i metodi di accertamento tributario alla luce dei principi costituzionali, in DI PIETRO, L’accertamento tributario nella Comunità europea. L’esperienza della Repubblica federale tedesca, Milano, 1997, 6. 11 In ordine ai vantaggi dell’operatività di un’azione amministrativa cooperativa in materia tributaria, nel senso, in particolare, che l’imposizione consensuale costringe entrambe le parti del rapporto di imposta all’esecuzione dei loro obblighi, v. TIPKE-L ANG, Steuerrecht, 2002, 739. 12 Nel senso che «le condizioni di legittimità costituzionale della legge


03 saggio Petrillo.qxd

668

9-04-2009

11:44

Pagina 668

GiustiziaTributaria

4 2008

Nel contesto di una fiscalità di massa la Finanza non può più far fronte ai suoi compiti senza l’ausilio di forme di imposizione consensuale. L’idea di una potestà amministrativa irrinunciabile e intransigibile che debba necessariamente estrinsecarsi in un atto amministrativo unilaterale in base agli strumenti procedurali allo stato avvertibili, anche nel contesto internazionalistico, risulta sostanzialmente anacronistica: in effetti, rimanere ancorati al dogma della “indisponibilità” significherebbe privare le parti del rapporto di imposta di dirette ed incisive forme di protezione13. La teoria dell’indisponibilità nel diritto tributario è da correlare alle teorie sull’autoritatività del tributo, sulla potestà di imposizione, sull’obbligazione tributaria, sul rapporto di imposta, lungi dal richiamare profili di non commerciabilità e non legittimazione, evoca il profilo pubblicistico o autoritativo del tributo esprimendo l’essenzialità del rapporto vincolatezza-capacità contributiva, che assicura la giustizia dell’imposizione14. Come è noto, sotto il profilo sostanziale non avendo il legislatore esplicitato alcun limite possano formare oggetto dell’istituto conciliativo tutte le controversie tributarie, purché si trovino pendenti, al momento dell’accordo, dinanzi alle commissioni tributarie provinciali. In linea di principio, pertanto, non sussisterebbe-

sul procedimento sono dettate dal fatto il quale rivendica un tipo di procedimento che sia da essa regolato e vanti i requisiti di attendibilità, persuasività e ragionevolezza, idonei a garantire la propria fedele ricostruibilità», si veda AMATUCCI, Il fatto come fonte di disciplina del procedimento tributario, in Riv. Dir. Trib., 1998, 735, il quale, in particolare, sottolineato che «il principio di partecipazione presuppone anche la rappresentazione dei fatti da parte del contribuente, della quale l’amministrazione deve tener conto» e che «la legge deve consentire la collaborazione del contribuente se essa è idonea ad agevolare la conoscenza del fatto», è dell’avviso che «è legittima la legge che stabilisca un procedimento semplificato il quale non comprometta una visione rigorosa dell’obbligazione tributaria e tende conseguentemente a soddisfare anche esigenze di perequazione, di equa ripartizione del carico fiscale, di certezza e di trasparenza che arricchiscono la motivazione del diritto sostanziale tributario».

ro limitazioni alla possibilità di conciliare, pur tuttavia, evidenti risultano le incongruenze e le lacune desumibili dalla formulazione dell’art. 48 D.Lgs. n. 546/1992 ( in particolare in tema di liti di rimborso ed in merito alla conciliabilità delle controversie riguardanti esclusivamente l’applicazione di sanzioni)15. Dal punto di vista oggettivo, sicuramente, l’accordo può investire il quantum dell’obbligazione, più complessa è la problematica per quanto concerne l’an. 2. L’importanza della definizione dell’oggetto della Tatsaechliche Verstaendigung in ordine all’ammissibilità dell’accordo conciliativo su questioni di diritto Di indubbio interesse, al fine della definizione dell’oggetto della conciliazione giudiziale tributaria in ordine alla distinzione fra questioni di fatto e questioni di diritto, è il significativo apporto della dottrina tedesca riguardo all’oggetto della cosiddetta “intesa effettiva” (Tatsaechliche Verstaendigung) istituto, elaborato dalla giurisprudenza, che riguarda tutti i casi di indagine su fatti particolarmente complessi, che vincola le parti che sottoscrivono l’accordo il cui contenuto deve essere recepito nell’atto amministrativo di accertamento. La possibilità di impugnare o modificare “l’intesa effettiva”, in considerazione dello scopo e della

13 In tal senso, v. VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, cit., 542. 14 Così, FANTOZZI, La teoria dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Atti del convegno Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria, Mestre, 2006. 15 Nel senso della conciliabilità di qualsiasi controversia si esprime TOSI, La conciliazione giudiziale, in AA.VV., Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, 854. TERRUSI, La conciliazione giudiziale nel processo tributario, in Giur. di Merito, 1998, 881, contrasta la tesi in virtù della quale il disposto dell’articolo 48, comma 3, esplichi un’efficacia preclusiva in relazione alla conciliabilità delle liti di rimborso. RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 513., si mostra dubbioso sulla possibilità di conciliare le liti aventi ad oggetto solo questioni in tema di sanzioni; in particolare, l’autore osserva che: «a favore della soluzione negativa milita la considerazione, che, altrimenti, si avrebbe l’anomalia consistente in ciò che la

sanzione controversa sarebbe prima oggetto di valutazione in base alla definizione raggiunta e poi oggetto di quella a regime accordata dalla legge». Riguardo all’inapplicabilità dell’istituto della conciliazione alle controversie concernenti le sole sanzioni, v. CAMPEIS-DE PAULI, Il manuale del processo tributario, Padova, 2002, 170. Diffusamente, in ordine ai limiti della conciliazione derivanti da ragioni di ordine sistematico con riguardo alle liti di rimborso, alle liti in materia di sanzioni ed a quelle relative agli atti della riscossione si rinvia alle osservazioni di RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, 210 ss. Per una completa indagine in argomento si veda: BATISTONI FERRARA, Conciliazione giudiziale (Dir. trib.), in Enc. Dir., secondo aggiornamento, Milano, 1998, 229; MENCHINI, in Il nuovo processo tributario, commentario a cura di Baglione-MenchiniMiccinesi, Milano, 2004, sub art. 48, 539 ss; POLANO, La conciliazione giudiziale, in Rass. trib., 2002, 1, 33.


03 saggio Petrillo.qxd

9-04-2009

11:44

Pagina 669

Giovanna Petrillo 4 2008 669

natura dell’istituto, deve essere limitata ad ipotesi eccezionali; l’impugnazione dell’atto amministrativo che ha recepito il contenuto dell’accordo è disciplinata dalle relative norme. Sia l’amministrazione finanziaria che il contribuente devono considerare la misura dell’efficacia dell’accordo: il contribuente ha diritto a che il contenuto dell’accordo sia trasfuso nell’atto amministrativo di accertamento (pacta sunt servanda)16. In via estremamente significativa, la sentenza 5 ottobre 1990 del Bundesfinanzhof conferma l’ammissibilità della Tatsaechliche Verstaendigung, «non solo nel procedimento di stima, ma in sede di discussione conclusiva ogni qualvolta sussista impossibilità assoluta di accertare i fatti, ovvero tale accertamento comporti un irragionevole dispendio di tempi e mezzi»17. Nel sistema delineato dall’Abgabenordnung, infatti, la Finanza deve rinvenire tutti gli elementi probatori per la ricostruzione del credito di imposta, compresi quelli a favore del contribuente, e ciò con discrezionalità riguardo alla scelta dei mezzi di prova da utilizzare. Tale discrezionalità è, tuttavia, limitata dalla portata di principi generali ai sensi dei quali i mezzi di prova devono essere necessari, proporzionati e ragionevoli . Pertanto, nel caso in cui i mezzi di prova risultino sproporzionati o irragionevoli, l’amministrazione si rivolge al contribuente per la definizione consensuale18. Ciò che ai fini della presente indagine risulta op-

16 Sul punto, v. TIPKE-LANG, Steuerrecht, Koln, 2002, 739. Riguardo all’efficacia della Tatsaechliche Verstaendigung nel caso in cui si instauri un procedimento penal-tributario nell’ambito del quale si assuma il contenuto dell’accordo nella fattispecie dell’evasione fiscale si rimanda a SALDITT-NEUWIED, Steuerhinterziehung durch tatsaechliche verstaendigung, in StuW, 1998, 3, 283 ss. 17 Sul punto, cfr. PACILIO, L’accertamento sul presupposto dell’imposta nell’ordinamento tributario della Repubblica federale tedesca, in Riv. Dir. Trib., 1995, 540. 18 Nell’ordinanza del 20 giugno 1973 del Bundesverfassungsgericht si legge che «l’attività di indagine degli uffici finanziari è certamente retta dal principio di legalità ma tale principio può e deve subire una limitazione in base a considerazioni di opportunità svolte dalla Finanza. L’autorità competente dovrà chiedersi di volta in volta se l’accertamento richiede un dispendio di tempo e di mezzi non

portuno evidenziare è che, in pratica, l’accordo pur avendo ad oggetto le sole circostanze di fatto esplica la sua influenza in via indiretta sull’intera fattispecie19. Come efficacemente rilevato dalla migliore dottrina tedesca – posto che l’obbligazione tributaria nasce con il verificarsi del fatto previsto dalla legge – ogni apprezzamento del fatto viene inevitabilmente ad incidere sull’an dell’imposta20 con la conseguenza che non può non considerarsi la notevole influenza delle questioni di fatto sulle questioni di diritto21. I principi di legalità e capacità contributiva presuppongono in uno Stato di diritto un accertamento efficace in funzione delle circostanze di fatto22, ora, è evidente che la situazione di fatto che si è verificata deve essere necessariamente ricostruita così come è, di modo che la legge tributaria persegua effettivamente i propri fini in quanto è applicata solo nel caso in cui il fatto che si realizza viene a coincidere con la fattispecie astratta. Fondamentalmente, infatti, per garantire un effettivo equilibrio fra rapporto pubblicistico-inderogabilità ed efficienza dell’azione amministrativa, la partecipazione del contribuente deve sempre garantire il fedele rispetto della ponderazione contenuta nella legge. Non può essere effettuata una distinzione fra accordo sui fatti (ammesso) e accordo sulle questioni giuridiche (presumibilmente non ammesso) perché un accordo sui fatti avverrà sempre in con-

sostenibile, paragonare tale dispendio al prevedibile risultato in termini di gettito e considerare le probabilità di vittoria nel caso venga istaurato un procedimento contenzioso». 19 SCHICK, Vergleiche und sonstige Vereinbarungen zwischen Staat und Burger im Steuerrecht, C.H. Bech’sche Verlagsbuchhandlung, Munich, 1967, 33 differenzia fra questioni giuridiche volte a considerare principalmente l’interpretazione della legge e questioni giuridiche che hanno riguardo in particolare all’accertamento dei presupposti di fatto. GROSSE, Die Schulssbesprechung-ein orientalischer Bazar?, Die steuerliche Betriebsprufung, 1986, 3, 58, ritiene che l’incertezza su questioni di fatto implichi necessariamente una incertezza secondaria rispetto alle questioni giuridiche evidenziando che la transazione su circostanze di fatto influirà necessariamente sull’applicazione del diritto. In senso conforme si veda anche MILATZ, Die tatsaechliche verstaendigung im Steuerrecht, INF, 1986, 13, 303 ss.

Diversamente SCHICK, Il procedimento nel diritto tributario, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, (Annuario), Padova, 2001, 945, è dell’avviso che «la legittimità dell’azione amministrativa è garantita dall’accertamento che fondamentalmente si caratterizzi in un atto unilaterale (atto amministrativo) nel rispetto delle norme giuridiche». 20 In tal senso, v. EICH, Die tatsaecliche Verstaendigung im Steuerverfaren und Steuerstrafverfahren, Koeln, 1992, 160. Decisamente critico rispetto ad una aprioristica limitazione dell’oggetto dell’accordo alle sole questioni di fatto è, anche, NOVOA, Mecanismos alternativos para la resoluciòn de controversias tributarias su introducciòn en el derecho espanol, in Riv. Dir. Trib. Int., 162. 21 Tale è l’orientamento di OFFERHAUS, Ammerkung an dem BFH-Urteil vom 5 ottobre 1990, in Die Steuerliche Betriebspruefung-StBp, 1991, 17. 22 Così, TIPKE, Die Steuerrechtsordnung, III, Koln, 1993, 1204.


03 saggio Petrillo.qxd

670

9-04-2009

11:44

Pagina 670

GiustiziaTributaria

4 2008

siderazione delle conseguenze giuridiche, in quanto, altrimenti non avrebbe alcuna importanza; ciò che rileva é il contenuto dell’accordo23. Questo limpido insegnamento della dottrina tedesca elaborato in particolare in riferimento alla corretta definizione in sede procedimentale delle cosiddette “intese effettive” è, pertanto, illuminante al fine di rispondere all’interrogativo relativo all’oggetto di istituti, disciplinati nel nostro ordinamento tributario, quali l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale. Considerando in modo specifico l’oggetto della conciliazione giudiziale tributaria, l’utilizzo da parte del legislatore tributario di concetti indeterminati (abitualità, inerenza, rappresentanza) rende pressocché impossibile distinguere fra questioni di diritto e giudizi attinenti al fatto addivenendosi, così, a soluzioni di compromesso in relazione a questioni in cui i profili del giudizio di fatto e di quello di diritto pur concettualmente distinguibili non possono essere separati24. In ogni caso, è di fondamentale importanza che la conciliazione non venga applicata ad ipotesi diverse da quelle per le quali è stata prevista. A titolo esemplificativo si evidenzia che la materia dell’imposizione diretta si presta particolarmente all’applicabilità dell’istituto della conciliazione essendo svariate le norme che consentono agli uffici di emettere atti impositivi sulla base di meri indizi o presunzioni. Quanto più frequentemente risulteranno ammessi accertamenti supportati da prove fondate su pre-

23 BIRK, Diritto tributario tedesco, traduzione a cura di De Mita, Milano, 2006, 125. 24 Così, CONSOLO-GLENDI, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2005, 440. Nel senso che le questioni che si prestano ad essere meglio definite a mezzo dell’accordo sono le stime e le valutazioni di fatto marcatamente presuntive, v. LUPI, Diritto tributario. Parte generale, Milano, 2000, 87. Anche l’evoluzione normativa contrassegnata dalla scomparsa di ogni limitazione espressa alla conciliazione giudiziale si traduce nella sostanziale conciliabilità delle questioni di diritto, tuttavia, sussistono rigidi orientamenti che riconoscono la conciliabilità solo delle questioni di fatto che concernono la quantificazione della base imponibile. Sottolinea, in argomento, RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 514, che «la

sunzioni tanto maggiore risulterà la possibilità che l’ufficio in considerazione di validi argomenti contrari giunga alla conciliazione. Ciò che è importante sottolineare è che la comprensione del diritto e la valutazione della fattispecie concreta coesistono nel momento cognitivo. In sostanza, la giustizia dell’accordo non si identifica con la impossibilità della “concordabilità” delle questioni di diritto25. Ai fini della ricostruzione proposta degno di rilievo, è poi, l’assunto statuito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21325 del 3 ottobre 200626. La conciliazione giudiziale è un vero e proprio atto negoziale; infatti, essa può avere a oggetto, oltre alla determinazione dell’imponibile, anche la misura dell’imposta che, quindi, può essere diminuita. Non si tratta di atto autoritativo cui si aggiunge, in adesione esterna ma senza fondersi con esso, il consenso del contribuente. È, invece, un vero e proprio atto negoziale istituito con l’articolo 48 del D.Lgs. n. 546/1992. Ecco perché la misura dell’imposta può, in sede di conciliazione, risultare diversa, quindi inferiore. Come osserva la Corte, infatti, «l’autonomia delle parti in ordine all’accordo comporta anche la possibilità di concordare un risultato finale complessivo riduttivo dell’entità del prelievo originariamente richiesto dall’amministrazione». 3. Riflessioni di sintesi in merito alla compatibilità della ricostruzione proposta con il principio

conciliazione parziale su singole questioni di diritto è praticamente irrealizzabile, essa trovando invece ampia possibilità di attuazione con riguardo a quelle di valutazione estimativa, in seno alle quali è dato alle parti di raggiungere un accordo conciliativo abbandonando le originarie e contrapposte tesi sostenute al riguardo». FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2003, 642, rileva che «la ratio dell’art. 48 sembra consentire non solo gli accordi che siano strumenti per una imposizione più vicina possibile (come tale riconosciuta dal contribuente stesso) ad una realtà non accertabile con precisione, ma pure quelli che si pongano in una logica transattiva, con riduzioni della pretesa originaria pure quando siano discusse solo questioni di diritto, o con la pura e semplice rinuncia a certi recuperi, in cambio dell’acquiescenza del ricorrente ad altri».

25 In questi termini si esprime MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000, 164-165. L’autore, che non vede alcun impedimento ad un confronto fra fisco e contribuente anche sul piano della normativa applicabile, salva la valutazione del risultato ottenuto, evidenzia in particolare, che «si può giungere ad un concordato ingiusto tanto attraverso l’erronea applicazione delle norme tributarie quanto attraverso l’inesatta quantificazione dei fatti correlati con il presupposto. Sotto questo profilo è irrilevante la distinzione fatto/diritto: è il risultato informativo nel suo complesso che deve rispettare parametri di giustizia». 26 Si veda, Cass., sez. trib., 3 ottobre 2006, n. 21325, annotata da POLANO, Errore di calcolo e rettifica di somme dovute nella conciliazione giudiziale tributaria, in Riv. Giur. Trib., 2007, 3, 226.


03 saggio Petrillo.qxd

9-04-2009

11:44

Pagina 671

Giovanna Petrillo 4 2008 671

di indisponibilità dell’obbligazione tributaria In ordine all’obiezione, connessa al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, limitativa dell’oggetto degli accordi al quantum dell’obbligazione tributaria, è bene considerare alcuni capisaldi concettuali. L’irrinunciabilità della pretesa va intesa nel senso di necessità che le scelte pubbliche avvengano mediante un’ imparziale comparazione degli interessi27. Più che soffermarsi sul concetto di indisponibilità dell’obbligazione tributaria appare dunque opportuno aver riguardo a quello di indisponibilità del pubblico interesse, senza con questo voler assolutamente minimizzare la portata dei fondamentali principi del nostro sistema tributario, anzi, il criterio della “compatibilità” di strumenti di “accordo” con l’azione dell’amministrazione finanziaria soccorre proprio nella delimitazione corretta dell’ambito di operatività degli stessi. L’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, principio non di carattere assoluto ma da conciliare con le esigenze di certezza e di pronta e sollecita riscossione erariale, discende dal principio di capacità contributiva, che impedisce di riconoscere all’amministrazione un potere discrezionale da esercitare nei casi singoli differenziando le imposizioni28: sostanzialmente, a monte, «l’indisponibilità del credito tributario è una ovvietà se la si intende come il

27 Per quanto concerne la tesi della soggezione dell’attività di diritto privato delle pubbliche amministrazioni al principio di legalità, mediante l’osservanza di una sorta di vincolo di scopo, si rimanda alle osservazioni di MARZUOLI, Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1982. 28 Tale è l’orientamento di BATISTONI FERRARA, L’evoluzione del quadro normativo, in Atti del convegno Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Mestre 25 gennaio 2002, il quale in particolare osserva: «il fatto quindi che in funzione di un diverso interesse costituzionalmente protetto, nell’ambito di procedimenti specifici, in funzione di prevenire o definire controversie il legislatore consenta all’amministrazione di disporre del credito tributario, non costituisce negazione della regola dell’indisponibilità». Ancora dello stesso autore, v. L’accertamento con adesione e l’interpello, in Riv. Dir. Trib. Int., 2002, 2, 11.

divieto di rinunciare, in nome di interessi estranei, ad un credito per altri versi non controverso»29, non sussistendo una biunivoca correlazione fra disponibilità della pretesa e forme di accordo30. In questo modo, in particolare in ordine al rapporto vincolatività – indisponibilità, riconoscere che la vincolatezza caratterizza l’attività dell’amministrazione finanziaria solo per quanto attiene all’inconfigurabile potere di rinunciare a priori all’azione impositiva determina il venir meno del rifiuto al riconoscimento di ambiti di discrezionalità nell’esercizio dell’attività impositiva, potendosi, di esclusiva vincolatezza, argomentare solo in relazione e alla ovvia impossibile libertà di scelta fra l’emissione o meno di un provvedimento impositivo, in presenza di una asserita violazione di disposizioni tributarie sostanziali, ed alla altrettanto inesistente libertà di scelta degli effetti giuridici derivanti dall’emissione dei provvedimenti impositivi stessi. Sulla scorta di quanto osservato dal Berliri31, l’indisponibilità è caratteristica della potestà tributaria e non dei poteri d’accertamento e dell’obbligazione tributaria e il problema della disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria in riferimento all’idoneità di tale obbligazione ad essere oggetto di negozi giuridici non va confuso con la problematica della discrezionalità o meno della amministrazione pubblica dinanzi all’obbli-

29 Così, LUPI, Diritto tributario. Parte generale, 2000, 86, il quale rilevato che «la cosiddetta indisponibilità del credito tributario è un indebito e affrettato corollario ricavato dalla mancanza di discrezionalità nella determinazione dell’imposta», sottolinea che non è corretto ritenere che la normativa che regola l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale «consenta all’amministrazione finanziaria di compiere atti dispositivi sul credito tributario che invece per sua natura sarebbe indisponibile: il fatto è che, quando intervengono dette procedure, il credito tributario è ancora sub iudice con la prospettiva di un contenzioso di dubbio esito». Ancora, in argomento, v. VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001, 352. Ancora, sul punto, v. TIPKE-LANG, Steuerrecht, Koln, 2002, 737, nel senso che «l’ufficio finanziario non può rinunciare alla riscossione dell’imposta totale o parziale dovuta per legge , attraverso la strada del concordato fiscale».

30 Così, GARBARINO, La tutela giustiziale tributaria tra procedimento e processo, in Riv. Dir. Trib. Int., 2002, 2, 23. 31 Si veda, BERLIRI, Principi di diritto tributario, Milano, 1957, II, 1, 78 ss. Ancora, in tema, significativamente, ROSEMBUJ, La transaccion tributaria, Barcellona, 2000, 45, rileva che la potestà di imposizione è indisponibile, irrinunciabile, imprescrittibile, mentre, l’esercizio di detta potestà può essere disponibile, rinunciabile e prescrittibile ciò posto, l’amministrazione può disporre liberamente degli strumenti a sua disposizione , nell’ambito della sua potestà sempre che la sua azione sia finalizzata alla lotta contro «la frode fiscal». In particolare, evidenzia l’autore, l’obbligazione di imposta è di diritto pubblico nel senso che i contribuenti non possono essere dispensati dal pagamento della stessa: in virtù della transazione il debitore sarà considerato tale solo nella misura determinata a suo carico a mezzo della transazione tributaria stessa.


03 saggio Petrillo.qxd

672

9-04-2009

11:44

GiustiziaTributaria

Pagina 672

4 2008

gazione tributaria. L’obbligazione tributaria può essere oggetto di dilazione, di riduzione, di modifica ma ciò non ogni qualvolta l’amministrazione lo ritenga opportuno ma solo nei limiti tassativamente stabiliti dalla legge. A prescindere dal lessico impiegato (inderogabilità delle norme tributarie, indisponibilità dell’obbligazione tributaria32) il principio cardine è quello della irrinunciabilità della potestà di imposizione: non è, pertanto, opportuno parlare di rinuncia al credito o di atti di disposizione dello stesso in riferimento ad istituti quali il concordato tributario e la conciliazione giudiziale, posto che si è in una fase del rapporto in cui il credito tributario è incerto sia nella sua esistenza sia nel suo ammontare ed è sottoposto alla eventualità di un contenzioso dall’esito dubbio33. È ben noto che l’attività procedimentale è strumentale rispetto alla legge sostanziale, pertanto l’amministrazione finanziaria deve necessariamente individuare il fatto così com’è. Altrimenti si correrebbe il rischio evidente di applicare una norma tributaria, la quale prevede un presupposto di imposta al cui verificarsi collega la nascita dell’obbligazione tributaria, ad una situazione di

32 In realtà indisponibile non è la norma ma il rapporto (la situazione di interesse protetto) costituito dalla norma; la condizione di indisponibilità può essere posta come qualificazione della norma oppure come qualificazione del rapporto giuridico costituito dalla norma. Per una ampia disamina dei significati ascrivibili alla coppia norma indisponibile-norma inderogabile rispetto alla coppia norma imperativa-norma cogente, v. RUSSO, Norma imperativa, norma cogente, norma inderogabile, norma indisponibile, norma dispositiva, norma suppletiva, in Riv. Dir. Civ., XLVII, 2001, I, 578. 33 Tale è l’orientamento di FALSITTA, Manuale di diritto tributario, cit., 365. Un ulteriore spunto di riflessione sul tema, è offerto della Suprema Corte di Cassazione (v. Cass., sez. trib., 16 marzo 2001, n. 12314, annotata da FANNI, L’indisponibilità del credito tributario quale principio fondamentale salvo tassative deroghe, in Dir. e Prat. Trib.,

fatto diversa da quella del presupposto stesso. In quest’ottica, pur considerando gli indubbi vantaggi dell’operatività di una azione cooperativa in materia tributaria fondamentale è l’importanza rivestita dalla fedele ricostruzione del fatto, al fine di garantire il rispetto dell’applicazione della legge istitutiva del tributo al caso che è previsto con conseguente garanzia di realizzazione degli obiettivi che la legge stessa persegue. Muovendo da tale considerazione la conciliazione deve tendere a riportare l’atto illegittimo verso la legittimità. Da quanto sin qui osservato può desumersi che l’amministrazione è vincolata all’interpretazione della legge sempre che la legge, in base al suo contenuto, riesca effettivamente ad obbligare l’amministrazione a tenere un dato comportamento; nell’ambito di “un margine di sostenibilità” non si vieta all’amministrazione di modificare la propria interpretazione della legge lasciandosi persuadere dall’opinione giuridica del contribuente34. In definitiva, è impossibile realizzare una netta separazione fra accordo sulla situazione di diritto e accordo sulla situazione di fatto in quanto ogni accordo sui fatti di rilevanza fiscale influenza anche la misura della pretesa fiscale35.

2001, 4, 725) nel senso dell’ammissibilità di deroghe al principio dell’indisponibilità della pretesa tributaria, deroghe, tuttavia, legislativamente previste e di stretta interpretazione: in quest’ottica l’indisponibilità della pretesa tributaria intesa quale obiezione alla ammissibilità di istituti sostanzialmente transattivi nel nostro settore di indagine, è, in ogni caso, destinata a venir meno in presenza di una normativa ad hoc che preveda una definizione transattiva in deroga all’indisponibilità suddetta. Può, tuttavia, rilevarsi il limite della suddetta ricostruzione dogmatica: ritenere, infatti, sulla scorta di quanto si verificava in passato, che siano proprio le norme recenti a costituire una deroga espressa, implicitamente, viene a confermare sul piano dell’effettività la forte inerenza alla tematica oggetto di indagine dello stesso principio dell’indisponibilità della pretesa tributaria. 34 In argomento, v. VOGEL, L’interpreta-

zione delle leggi tributarie da parte dell’amministrazione, in L’accertamento tributario nella Comunità europea, cit., 52, il quale ritiene che «vincolatività della legge per le autorità amministrative significa solo che nell’interpretare la legge esse si devono attenere alle tradizionali metodologie interpretative e che i risultati della loro interpretazione devono essere sostenibili devono cioè riscuotere consenso. Nell’ambito di questo margine di sostenibilità non si vieta all’amministrazione di modificare la propria interpretazione della legge e di lasciarsi convincere dall’opinione giuridica del contribuente». Risultano ammissibili, secondo l’autore, accordi su questioni giuridiche nel senso che l’amministrazione può aderire all’opinione giuridica del contribuente anche sulla base di una reciproca concessione in vista del conseguimento della “pace giuridica”. 35 TIPKE-LANG, Steuerrecht, 2002, 738.


04 saggio Selicato.qxd

9-04-2009

11:44

Pagina 673

Pietro Selicato 4 2008 673

LA CONCILIAZIONE GIUDIZIALE TRIBUTARIA: UN ISTITUTO PROCESSUALE DALLE RADICI PROCEDIMENTALI* di Pietro Selicato 1. Introduzione - 2. Legalità, autorità e consenso nell’accertamento tributario (il collante del procedimento) - 3. I precedenti dell’istituto (dalla “definizione preventiva della controversia” alla “conciliazione giudiziale”) - 4. Ambito di applicazione della “nuova” conciliazione giudiziale 5. Conciliazione in udienza e conciliazione fuori udienza (differenze di procedura nell’identità di funzioni) - 6. Gli effetti: conciliazione del tributo o conciliazione della lite?

1. Introduzione Il tema dei rapporti tra principio di autorità dell’imposizione e logiche consensuali nella definizione del tributo, analizzato con grande attenzione nel passato, ritorna con prepotenza alla ribalta in questi anni1. I nuovi modelli consensuali di defini-

* Testo elaborato sulla base della relazione tenuta nell’ambito del III Incontro di studio fra amministrativisti e tributaristi, “Azione amministrativa ed azione impositiva tra autorità e consenso. Strumenti e tecniche di tutela dell’amministrato e del contribuente”, svoltosi in Pescara il 5 ottobre 2007, su iniziativa del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Chieti-Pescara. 1 Gli autori che, nel corso del tempo, hanno analizzato l’intreccio dei rapporti esistenti tra autorità e disposizione nella fase di attuazione della norma tributaria sono numerosi. Tra questi BATISTONI FERRARA, Accertamento con adesione, in Enc. Dir., Aggiornamento, Milano, 1998, II, 22 ss.; Id., Conciliazione giudiziale, ivi, 229 ss.; STEVANATO, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria, Padova, 1996; TOSI, La conciliazione giudiziale, in Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, a cura di Tesauro, Torino, 1998, 885 ss.; DELLA VALLE, Affidamento e certezza nel diritto tributario, Milano, 2001; VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001; PUOTI-SELICATO, Concordato

zione del procedimento tributario di accertamento entrati in funzione da più di un decennio hanno stimolato la dottrina ad approfondire i rapporti tra diritto tributario e diritto amministrativo2. La riflessione su questo tema è stata stimolata dai provvedimenti di straordinaria portata storica approvati con il valore di principi generali dell’ordinamento in entrambi i settori normativi, provvedimenti trovatisi in singolare sintonia tra loro, siccome convergenti nell’attribuire ai privati (e, tra questi, ai contribuenti) nuovi e più ampi diritti di partecipazione al procedimento amministrativo e di definizione del suo iter mediante accordi con la pubblica amministrazione. Tali disposizioni hanno fortemente ridimensionato il ruolo del provvedimento unilaterale di accertamento, costituente un tempo espressione paradigmatica del rapporto fisco-contribuente3.

tributario, in Enc. Giur., Roma, 2002, VII. Per una più recente ed attenta analisi cfr. Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di La Rosa, Milano, 2007. Da ultimo, MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007. Sia consentito, infine, rinviare a SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, in part. VII, 501 ss., ove un’analitica disamina delle diverse modalità di definizione non contenziosa del tributo nell’ottica di una complessiva visione procedimentale del fenomeno dell’accertamento tributario. 2 Per un’analisi dei riflessi sull’accertamento tributario della legge generale sul procedimento amministrativo si veda, ancora, SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, cit., spec. 269 ss., nonché PUOTI-SELICATO, Concordato tributario, cit., spec. par. 4 e par. 5.2.1, in cui si evidenzia che la nuova normativa in materia di accertamento con adesione «si inquadra in un più ampio processo evolutivo che coinvolge ormai ogni profilo della disciplina relativa all’attuazione dei tributi» e si nota che talune norme

del D.Lgs. 218/1997 sono apertamente ispirate alle disposizioni della L. 241/1990 (ivi, 11). 3 Su questi aspetti si veda il recente contributo di RANDAZZO, La partecipazione delle categorie economiche alle attività amministrative tributarie, in Autorità e consenso nel diritto tributario, cit., a cura di La Rosa, 151 ss., e ivi, sul punto, 191 ss., ove si osserva che il processo evolutivo che ha attraversato il rapporto tra pubblica autorità e cittadino «ha fatto registrare il sempre più marcato ridimensionamento del ruolo del provvedimento come espressione unilaterale della potestà, per la spinta e la conseguente affermazione del diritto del singolo o di gruppi organizzati di partecipare alle scelte amministrative e dunque di concorrere alla formazione stessa dell’atto» all’interno di un «modello di partecipazione democratica all’attività amministrativa, nel quale il ruolo del privato nell’iter procedimentale costituisce il momento nevralgico di un giusto e ponderato assetto degli interessi coinvolti, e il confronto dialettico con l’amministrazione lo strumento più idoneo per assicurare il rispetto tanto dei principi fondamentali di buon anda-


04 saggio Selicato.qxd

674

9-04-2009

11:44

Pagina 674

GiustiziaTributaria

4 2008

In particolare, alla disciplina dell’accordo amministrativo introdotta dalla L. 7 agosto 1990, n. 241 (definita come “legge generale” sul procedimento amministrativo), subito recepita nel diritto tributario con l’introduzione dell’accertamento con adesione e della conciliazione giudiziale, deve annettersi nella nostra materia un ruolo determinante nel processo di revisione della disciplina della funzione di accertamento. E, d’altra parte, la riconosciuta fungibilità dei meccanismi di individuazione dell’interesse pubblico realizzato all’interno del procedimento4 porta a confermare la concreta possibilità di scorgere la fondatezza dell’estensione del medesimo carattere procedimentale degli atti della pubblica amministrazione anche alle attività del privato, che proprio nel diritto tributario sembrano avere assunto una rilevanza maggiore di quella propria di altri settori5. In questa sede si incentrerà l’attenzione su un particolare profilo dei rapporti tra diritto amministrativo e diritto tributario: quello concernente il ruolo svolto nel procedimento di definizione consensuale del tributo dalla conciliazione giudiziale, della quale, pertanto, verranno esaminati non tanto gli aspetti processuali quanto quelle che potrebbero essere definite le sue “contaminazioni procedimentali”. In questa particolare prospettiva, infatti, sussisto-

mento ed imparzialità della pubblica amministrazione, quanto degli interessi dei partecipanti coinvolti nell’azione amministrativa» (ivi, 193). Per analoghe conclusioni si veda la nostra precedente disamina in SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, cit., 269 ss. 4 Osserva al riguardo NIGRO, Procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale contro la pubblica amministrazione (il problema della legge generale sul procedimento amministrativo), in AA.VV., L’azione amministrativa tra garanzia ed efficienza, Napoli, 1981, 31, che la mancata predeterminazione normativa dell’interesse pubblico comporta l’ampliamento dei poteri di scelta dell’amministrazione, il cui atto diventa, in luogo della legge, il momento di determinazione di tale interesse: di talché «viene meno quella differenziazione tra disporre e provvedere, che rendeva l’atto amministrativo raffrontabile con un parametro legislativo». 5 Come ha rilevato LUCE, Il procedimento amministrativo e gli accordi tra privati ed amministrazione, in AA.VV., Studi in

no fondate ragioni per ritenere che anche l’istituto in esame, nonostante la sua collocazione all’interno del processo giurisdizionale, possa essere compreso a pieno titolo tra le diverse attività in cui si snoda il procedimento di attuazione del tributo e costituire uno dei diversi moduli di cui esso, alla stregua di un qualsiasi procedimento amministrativo, si compone6. Nel seguito saranno illustrati gli argomenti che, ad avviso di chi scrive, confermano questa tesi nonché gli effetti che dalla stessa discendono sull’interpretazione delle norme che disciplinano l’istituto. 2. Legalità, autorità e consenso nell’accertamento tributario (il collante del procedimento) Prima di affrontare il tema che formerà oggetto specifico di trattazione, è opportuno soffermare l’attenzione sui passaggi che hanno interessato, anche in epoche meno recenti, i profili del nostro sistema normativo che costituiscono il terreno sul quale si sono radicati i nuovi strumenti di definizione consensuale del tributo e, tra questi, anche la conciliazione giudiziale7. A tale proposito va ricordato che nel periodo compreso tra gli anni cinquanta e gli anni settanta del secolo scorso gli studiosi del diritto amministrativo sostennero con forza la necessità di inquadrare ogni rapporto avente come parti la pubblica ammini-

memoria di Franco Piga, Milano, 1992, I, 557 ss., gli accordi in esame «sul piano funzionale non possono che assimilarsi al provvedimento amministrativo di cui sono omologhi, essendo una delle possibili conclusioni del procedimento» (ivi, 577). Analoga classificazione deve essere operata, nel diritto tributario, con riferimento all’atto del privato che concorre con l’amministrazione alla definizione della natura e dell’entità del tributo. Per rilievi simili, cfr. PASTORI, L’amministrazione per accordi nella recente progettazione legislativa, in Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell’amministrazione, a cura di Trimarchi, Atti del convegno Messina-Taormina, 25-26 febbraio 1988, Milano, 1990), 76 ss., ove si osserva che «il contratto, da strumento ausiliare ed esecutivo di amministrazione, diventa così, nella prospettiva delle norme proposte, strumento proprio di decisione amministrativa» (ivi, 80). 6 L’inquadramento dogmatico del momento attuativo dei tributi nello schema del procedimento ammini-

strativo è stato favorito dallo stesso diritto positivo, nel cui ambito l’istituto del procedimento si è sempre presentato in una gamma tipologica molto ampia e articolata. Per una conferma, cfr. GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano, 1970, II, 825, ove si osserva che la cura degli interessi pubblici, dovendo far fronte ad una molteplicità di situazioni, richiede «tipi e specie in misura assai maggiore di quanto non accade nel processo». É dello stesso avviso SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, I, 626, il quale attribuisce la ragione della varietà tipologica dei diversi procedimenti amministrativi disciplinati dalla legge alla molteplicità dei tipi di autorità, alla varietà degli interessi impegnati, alla diversità degli obiettivi da realizzare, alla natura e agli effetti degli atti da porre in essere. 7 Per una ricostruzione unitaria dei diversi istituti di definizione non contenziosa del tributo, compresa la conciliazione giudiziale, si veda SELICATO, L’attuazione del tributo nel diritto amministrativo, Milano, 2001, VII, 501 ss.


04 saggio Selicato.qxd

9-04-2009

11:44

Pagina 675

Pietro Selicato 4 2008 675

strazione da un lato e i privati dall’altro nell’ambito dello schema del procedimento amministrativo. Fondamentale fu in questa direzione il contributo di autorevoli studiosi del diritto amministrativo, tra i quali, oltre a Massimo Severo Giannini e Aldo Maria Sandulli8, va annoverato anche Feliciano Benvenuti9. Questi studiosi, basandosi sui principi di legalità, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione affermati dall’art. 97 della Costituzione, videro nella disciplina legale dell’esercizio della funzione amministrativa il fondamentale strumento di garanzia in favore del privato (considerato la parte debole del rapporto) e la fonte di legittimazione di specifiche censure di illegittimità degli atti emessi dall’ente pubblico in violazione di tali regole. Si arrivò così al punto di teorizzare, nell’ottica del riconoscimento di un più ampio quadro di tutele della posizione dei privati, una sorta di procedimentalizzazione globale del rapporto amministrativo10, comprendendo in tale nozione anche il cosiddetto “atto amministrativo istantaneo”, che veniva esemplificato con il caso di scuola del semaforo, ritenuto anch’esso dotato, sia pure in modo embrionale, di tutti gli elementi necessari ad

8 Per i riferimenti ai contributi di questi autori sul tema del procedimento amministrativo bastino i richiami fatti nella precedente nota 6. 9 Nell’ampia e feconda produzione di questo autore si segnala: BENVENUTI, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1952, 118; Id., Per un diritto amministrativo paritario, in AA.VV., Studi in memoria di F. Guicciardi, Padova, 1965, 809. 10 Fu proprio in quegli anni che GIANNINI, Diritto, cit., poneva in evidenza che, dopo una prima fase critica, le vicende degli istituti della normazione giuridica in materia pubblicistica portarono a far emergere «alcune direttrici, se non nuove, certo più marcate nell’ultimo ventennio: la formazione di un potere amministrativo, la dequotazione delle decisioni politiche dei partiti e degli organi costituzionali, l’ampliamento dell’attività di diritto privato dei pubblici poteri, l’emergere dei procedimenti amministrativi e la differenziata tipizzazione che stanno ricevendo, l’avvicinamento pratico dei diversi sistemi di sindacato giurisdizionale del potere pubblico» (prefazione, VII). Con il rigore scientifico che gli era consueto e con una eccezionale premonizione degli

integrare le caratteristiche di un provvedimento amministrativo, costituente l’esito di un procedimento anch’esso caratterizzato, come ogni procedimento amministrativo, dalle tre fasi tipiche dell’iniziativa, dell’istruttoria e della decisione11. In quegli stessi anni Gian Antonio Micheli ebbe l’intuizione di utilizzare i detti principi nella ricostruzione teorica del rapporto tributario. Partendo dalla constatazione che anche il rapporto tra fisco e contribuente si fonda sulla stessa dicotomia “autorità-soggezione” tipica di ogni rapporto che intercorre tra soggetti privati e pubblici uffici, il Micheli si spinse alla ricerca di spiegazioni nuove e più coerenti a quelle che la dottrina aveva elaborato con riferimento al problema della nascita dell’obbligazione tributaria. All’epoca, come è noto, si fronteggiavano due opposte tesi. Da una parte vi erano i fautori della cd. “teoria dichiarativa”, la quale, in estrema sintesi, si basava sull’individuazione del presupposto del tributo in un dato effettivo della realtà economica, sull’origine legale del debito d’imposta, sull’inquadramento del fenomeno tributario nell’ambito del “rapporto giuridico d’imposta”12 e sull’applicazione al detto rapporto degli schemi civilistici dell’ob-

sviluppi che la nostra legislazione avrebbe subito, l’illustre studioso osservò che «nei Paesi a diritto amministrativo non aventi leggi generali sul procedimento, il procedimento amministrativo esiste come creatura della giurisprudenza e della dottrina», aggiungendo a sostegno che «chi confronti una legge amministrativa dello scorso secolo e una legge di questo secolo, aventi ad oggetto una stessa materia, è colpito dal come la legge contemporanea circondi l’esercizio delle potestà dell’autorità amministrativa di limiti che possono dirsi “procedimentali”» (ivi, II, 820). Per una ancor più risalente teorizzazione della necessaria natura procedimentale delle attività di diritto pubblico, cfr. LAVAGNA, Considerazioni sui caratteri degli ordinamenti democratici, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1956, 392, ove si osserva che la struttura amministrativa di uno Stato di diritto è caratterizzata da una accentuazione delle forme procedimentali dell’azione amministrativa. 11 Sul punto cfr. ancora GIANNINI, Diritto amministrativo, cit., II, 833. Secondo SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, cit., I, 625, «alla delineata partizione di carattere sostanziale degli atti e delle operazioni che

si succedono nel procedimento corrisponde, di massima, un ordine temporale», all’interno del quale possono distinguersi «tre distinte fasi, ciascuna delle quali è caratterizzata, appunto, dalla funzione sostanziale degli elementi che in essa vengono in vita: fase preparatoria, fase costitutiva, fase dell’integrazione dell’efficacia». In senso analogo TEDESCHINI, Procedimento amministrativo, in Enc. Dir., Milano, 1986, XXXV, 872 e 877-878, parla di una «fase di iniziativa», di una «fase istruttoria» e di una «fase di decisione» o «costitutiva». 12 La teoria del rapporto giuridico d’imposta ebbe ingresso quando, agli albori della autonomia scientifica del diritto tributario, il metodo giuridico si affrancò dall’approccio economico-finanziario in allora prevalente. Lo sviluppo più compiuto di questa corrente di pensiero si deve a GIANNINI, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, nonché Id., I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, il quale osservò in proposito che «il rapporto giuridico d’imposta ha un contenuto complesso, in quanto da esso derivano, da un lato, poteri, diritti e anche obblighi dell’autorità finanziaria, a


04 saggio Selicato.qxd

676

9-04-2009

11:44

GiustiziaTributaria

Pagina 676

4 2008

bligazione13. In tale ottica, si disse, la funzione dell’accertamento tributario «non è quella di costituire il rapporto obbligatorio tributario, che nasce col verificarsi dei presupposti astratti previsti dalla norma tributaria, ma quella di dichiarare la nascita del detto rapporto obbligatorio, determinando in concreto il debito d’imposta e rendendo liquida ed esigibile l’obbligazione già sorta»14. A tale schema si contrapponeva quello della cd. “teoria costitutiva”15, che poggiava le sue argomentazioni, da un lato, sulla considerazione che l’atto di accertamento, alla stregua di un qualsiasi provvedimento amministrativo, è il frutto del potere di autorità di cui è dotata l’amministrazione finanziaria e, dall’altro, che esso rappresenta il titolo dal quale, in virtù di tale potere, nasce il credito erariale assistito dal requisito della esecutorietà e dell’autotutela; su queste basi, i sostenitori della “teoria costitu-

cui corrispondono obblighi positivi o negativi, o anche diritti, delle persone soggette alla sua potestà, dall’altro, più specificamente, il diritto dell’ente pubblico di esigere ed il correlativo obbligo del contribuente di pagare la somma equivalente all’ammontare dell’imposta nei singoli casi dovuta», ivi, 125. Nello stesso senso, si vedano altresì VANONI, Elementi di diritto tributario, ora in Id., Opere giuridiche, Milano, 1962, II, 294; PUGLIESE, L’obbligazione tributaria, Padova, 1935, nonché Id., Istituzioni di diritto finanziario. Diritto tributario, Padova, 1937, 121 ss. In questo senso cfr. altresì TESORO, Principi di diritto tributario, Bari, 1938, cit., 39 ss. Significative sul punto paiono le osservazioni di ZINGALI, Obbligazione tributaria, in Nov. Dig. It., Torino, 1965, XI, 685 ss., ad avviso del quale «anche se l’obbligazione tributaria abbia aspetti peculiari, essa ricalca il concetto privatistico di obbligazione, perché dalla legge tributaria scaturiscono per i due soggetti sia diritti che doveri, cioè nello stesso tempo in cui lo jus imperii si manifesta con la legge, finisce con lo sparire per dare luogo ad una situazione di simmetria giuridica tra le due parti» (ivi, 686). Nella medesima corrente dottrinale si colloca il pensiero di JARACH, Il fatto imponibile, traduzione della seconda edizione (Buenos Aires, 1971) a cura di Uckmar, Padova, 1981, 45, per il quale «l’attività amministrativa con cui si riconosce l’esistenza del presupposto di fatto del rapporto giuridico tributario e si determina il tributo corrispondente

tiva” imputavano unicamente a tale atto l’effetto di costituire l’obbligazione tributaria. Dagli studi del Micheli emerse una terza via nella ricostruzione del rapporto tributario, che si basava sulla distinzione tra i suoi aspetti pubblicistici, imperniati sulla cosiddetta “potestà di imposizione”, dai consequenziali profili privatistici, consistenti nel complesso dei fatti costitutivi, modificativi ed estintivi del “diritto di credito” che l’ente impositore esercita sul tributo16. In questa prospettiva, soltanto i profili privatistici del rapporto tributario venivano ricondotti alla nozione dell’obbligazione tributaria mentre la parte del rapporto riguardante la “potestà d’imposizione” era collocata nello schema del procedimento amministrativo. A testimonianza di questo sforzo ricostruttivo, lo stesso Micheli promosse e sviluppò una ricerca Cnr i cui risultati confluirono in un volume da lui stesso

non è che attività di applicazione del diritto tributario materiale». Per i conformi orientamenti di epoca più recente cfr. BATISTONI FERRARA, Obbligazioni nel diritto tributario, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., Torino, 1994, X, 296, cui adde RUSSO, L’obbligazione tributaria, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, Padova, 1994, II, 3. Per una recente ricostruzione della struttura e della funzione del rapporto giuridico d’imposta, non disgiunta da spunti critici, cfr. D’AMATI, Rapporto giuridico d’imposta, in Enc. Giur., Roma, 1991, XXV. 13 RUSSO, L’obbligazione, cit., ha confermato anche recentemente la sua completa adesione alla teoria dichiarativa, evidenziandone i motivi con ampiezza di dettagli (ivi, 6-11). In sintesi, tali motivi si basano: a) sulla riserva pur relativa di legge sancita dall’art. 23 Cost., che precluderebbe all’amministrazione ogni potere di costituire situazioni giuridiche soggettive con i propri atti impositivi; b) sulla qualificazione in termini di diritto soggettivo della posizione giuridica del contribuente; c) sulla natura (di accertamento e non di annullamento) del giudizio davanti alle Commissioni tributarie e delle relative pronunzie; d) sulla giustificazione del potere di accertamento che non potrebbe che scaturire dall’esistenza del presupposto economico. É legato ad una impostazione dogmatica pienamente aderente alla tesi dichiarativa “pura” anche FERREIRO LAPATZA, Gli elementi costitutivi dell’obbligazione tributaria, in Trattato, cit., diretto da

Amatucci, II, 35, il quale, assumendo come riferimento l’art. 28 della Ley General Tributaria spagnola, ritiene che «in rapporto a qualsiasi tipo di tributo, quando si realizza il presupposto (fatto imponibile) nasce l’obbligazione tributaria» (ivi, 43). Hanno aderito alla teoria che individua nella legge la fonte dell’obbligazione tributaria anche GIANNETTA-SCANDALESESSA, Teoria e tecnica nell’accertamento del reddito mobiliare, Roma, 1966, 1-2. 14 Così, anche per i corsivi, COCIVERA, Guida alle imposte dirette, Torino, 1956, 15. 15 Il primo e il più convinto sostenitore di questa tesi fu, indiscutibilmente, ALLORIO, Diritto processuale tributario, Torino, 1962, 60 ss. (in senso conforme alla prima edizione del 1942). Fra i primi ad aderire alle tesi dell’Allorio vi fu BERLIRI, Princìpi di diritto tributario, Milano, 1957, II, I, 180 ss. In epoca successiva, nello stesso senso, FANTOZZI, La solidarietà nel diritto tributario, Torino, 1968, spec. 198 ss.; TREMONTI, Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977, 172 ss. 16 MICHELI, Corso di diritto tributario, Torino, 1989, 161, osserva che «la tradizionale correlazione tra diritto di credito e obbligazione di pagare l’imposta non esaurisce dunque il fenomeno dell’attuazione della norma tributaria e quindi non si può ridurre quest’ultimo alla nozione del rapporto giuridico d’imposta». Per analoghe tesi cfr. MICHELI-TREMONTI, Obbligazioni (Dir. trib.), in Enc. Dir., Milano, 1979, XXIX, spec. 424. In senso adesivo FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 1998, 193 ss.


04 saggio Selicato.qxd

9-04-2009

11:44

Pagina 677

Pietro Selicato 4 2008 677

coordinato17, che include contributi di Antonio Ferdinando Basciu18, Gaspare Falsitta19, Augusto Fantozzi20, Salvatore La Rosa21 e Gian Carlo Moretti22. Non a caso, il punto di partenza da cui mosse la ricerca fu costituito dalle precedenti elaborazioni di quegli studiosi del diritto amministrativo che videro nel procedimento il modello a cui deve uniformarsi il rapporto tra l’ente pubblico e i privati23. Dai diversi saggi, nonostante il fatto che i loro autori si muovessero da posizioni profondamente diverse sul problema della nascita dell’obbligazione tributaria, scaturisce una visione complessiva del fenomeno dell’attuazione del tributo nel cui ambito il procedimento amministrativo assume una posizione di netta preminenza e gli atti che ne sono parte costituiscono il presupposto e il momento genetico dell’obbligazione tributaria. In realtà, lo schema procedimentale non è apparso sempre il necessario modello di riferimento della disciplina in materia di attuazione del tributo24 e la sua struttura è stata configurata di volta in volta in forme diverse, tanto da potersi parlare di una pluralità di “procedimenti” e non di un solo “procedimento”. Ciò nonostante, da quella ricerca scaturì una ricostruzione del fenomeno dell’accertamento tributario basata almeno in grande prevalenza sullo schema del procedimento amministrativo, che identificava il momento di unificazione delle diverse attività volte a realizzare il tributo nel

17 Studi sul procedimento amministrativo tributario, a cura di Micheli, Milano, 1971. 18 BASCIU, Note sulla potestà di imposizione in materia di imposta di successione, in Studi sul procedimento amministrativo tributario, cit., 7. 19 FALSITTA, Struttura della fattispecie dell’accertamento nelle imposte riscosse mediante ruoli, in Studi sul procedimento amministrativo tributario, cit., 37. 20 FANTOZZI, Premesse per una teoria della successione nel procedimento tributario, in Studi sul procedimento amministrativo tributario, cit., 87. 21 LA ROSA, I tributi di concessione governativa nel sistema dei procedimenti impositivi, in Studi sul procedimento amministrativo tributario, cit., 143. 22 MORETTI, Profili del procedimento sanzionatorio in materia tributaria, in Studi sul procedimento amministrativo tributario, cit., 218. 23 Nella sua prefazione al volume Studi sul procedimento amministrativo tributario, cit., 2, il Micheli osservava a questo proposito che «gli studi svolti in diritto amministrativo sul procedi-

profilo funzionale delle medesime. In questa ottica è stato sottolineato che, pur con le peculiarità delle singole sequenze di atti previste dal legislatore, il fine cui esse mirano è sempre quello di realizzare il prelievo fiscale nel rispetto del principio della capacità contributiva. Nondimeno, i principi e le regole del procedimento amministrativo possono trovare applicazione al procedimento tributario soltanto se sono compatibili con il suddetto fine specifico e con il carattere obbligatorio e non discrezionale dell’azione accertatrice25. Di lì a poco tempo le tesi di Gian Antonio Micheli furono riprese da Giovanni Puoti che ritenne di poter confermare, anche dopo l’entrata in vigore della riforma tributaria varata con legge delega 9 ottobre 1971, n. 825, la validità della ricostruzione in chiave procedimentale del rapporto fiscocontribuente elaborata nella vigenza del precedente sistema fiscale26. In questa prospettiva, lo studio del procedimento di attuazione del tributo è stato affrontato partendo dalla convinzione che l’ente impositore fosse dotato di un vero e proprio potere di autorità nei rapporti con il contribuente (potere che si rifletteva non soltanto nella scelta di intraprendere un determinato controllo e di sceglierne strumenti e modalità ma anche nella espressione della supremazia nella conduzione della relativa istruttoria) e che l’emissione dell’atto impositivo finale (o di un “non-

mento, a cominciare dalle indagini ormai classiche del Sandulli, giù giù attraverso le ricerche fondamentali e stimolanti del Giannini M.S. e del Benvenuti, hanno indotto la dottrina ad occuparsi, e a preoccuparsi, di ciò che c’è prima dell’obbligazione certa, liquida ed esigibile di pagare il tributo: alla quale corrisponde, senza ombra di dubbio, il diritto dell’ente impositore di pretendere il pagamento di una certa prestazione pecuniaria. Ma se si risale a monte di questo momento finale, c’è – o meglio c’era – fino ad un po’ di tempo fa – una landa inesplorata se non deserta: anzi popolatissima e fitta di atti, effettuati dalle più diverse persone, di situazioni soggettive ignote o mal studiate. Il considerare inappagante la tradizionale costituzione del rapporto giuridico ha indotto lo studioso ad approfondire anche questa parte dei fenomeni tributari, a voler vedere cosa ci fosse prima che quel rapporto fosse regolarmente instaurato». 24 Secondo Falsitta e La Rosa ciò era

escluso nei casi dei tributi riscossi mediante ruolo e nelle tasse di concessione, per i quali il pagamento esaurisce la vicenda tributaria innestandosi nel procedimento amministrativo per il rilascio della concessione-autorizzazione. 25 Per questo ordine di considerazioni si veda FEDELE, A proposito di una recente raccolta di saggi sul procedimento amministrativo tributario, in Riv. Dir. Fin., 1971, I, 438. Per una recente disamina di questi aspetti si veda RANDAZZO, La partecipazione delle categorie economiche alle attività amministrative tributarie, cit., 151 ss., e sul punto, 184 ss., ove si conclude osservando che «in questi casi il procedimento amministrativo, a mezzo del contraddittorio che si instaura con l’interessato, diventa il luogo più idoneo per quella ponderazione di interessi coinvolti nell’azione amministrativa che costituisce il fulcro della scelta discrezionale» (ivi, 193). 26 PUOTI, Istruzione e prova nel procedimento di imposizione, ed. provv., Roma, 1979.


04 saggio Selicato.qxd

678

9-04-2009

11:44

Pagina 678

GiustiziaTributaria

4 2008

atto”, come alcuni affermarono) costituisse l’unico possibile esito di ogni procedimento. Di conseguenza, la posizione del contribuente nel rapporto tributario era ridotta ad un mero dovere di collaborazione nell’esercizio di una funzione che rimaneva interamente nella sfera dei poteri dell’ente pubblico impositore. Tale situazione è cambiata radicalmente con l’entrata in vigore della legge 7 agosto, n. 241 portante nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, che ha ridisegnato la disciplina del rapporto tra la pubblica amministrazione e il privato basandola sulla trasparenza e sulla parità dei diritti e dei doveri, e qualificando esplicitamente le proprie norme come principi generali del procedimento amministrativo27. Nel rapporto tributario hanno assunto particolare rilievo le norme della “legge generale” che, pur non restando del tutto esenti da implicazioni di carattere sostanziale, dettano regole riguardanti la

27 Sul radicale mutamento di prospettiva delineato con la L. 241/1990, si veda, tra i tanti contributi orientati nella medesima direzione indicata nel testo, CARDI, Procedimento amministrativo, in Enc. Giur., Aggiornamento, Roma, 1995, XXIV; LIGNANI, La disciplina del procedimento e le sue contraddizioni, in AA.VV., Studi in memoria di Franco Piga, Milano, 1992, I, 489; MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli-Pericu-RomanoRoversi Monaco-Scoca, Bologna, 1993, II, 993; TEDESCHINI, Procedimento amministrativo, in Enc. Dir., Aggiornamento, Milano, 1999, III, 872. Per una recente rivisitazione dell’intera materia alla luce delle modifiche introdotte dalle leggi n. 15 e 80 del 2005, si veda La nuova disciplina dell’azione amministrativa, a cura di Tomei, Padova, 2005. 28 Per questi aspetti sia consentito, ancora, rinviare a SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, cit., 269 ss., intero capitolo V. In argomento si veda, altresì, SALVINI, La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo statuto del contribuente ed oltre), in Riv. Dir. Trib., 2000, 13 ss. 29 Già in epoca antecedente alla formazione della Repubblica fu profuso, ad opera del Ministro Thaon di Revel un notevole impegno nella elaborazione di una codificazione tributaria, che avrebbe dovuto portare ad una “Carta della Finanza”, il cui punto di

struttura formale del procedimento e degli atti che ne compongono la sequenza, quali quelle concernenti i principi di legalità, di pubblicità (o trasparenza), di obbligatorietà (o efficacia), e il dovere di motivazione; non di meno (e, anzi, in misura anche maggiore negli ultimi tempi), interessano la nostra materia anche le norme della detta legge che attengono al merito del rapporto amministrativo, disciplinando direttamente i risultati delle attività in parola, quali le prescrizioni in materia di economicità e di imparzialità28. Inoltre, con la legge 27 luglio 2000, n. 212, è stato varato lo “Statuto dei diritti del contribuente”. Il testo dello Statuto ha visto la luce al termine di un articolato iter parlamentare sviluppatosi a seguito della presentazione in differenti legislature di diversi disegni di legge, anche costituzionale, che ha avuto origini in epoca più o meno coincidente con quello dell’inizio del processo che ha portato all’approvazione della legge generale sul procedimento amministrativo29.

arrivo può essere rinvenuto in un progetto di Codice tributario redatto nel 1942 da una commissione presieduta dal Prof. Ezio Vanoni. I testi del progetto e della relazione della commissione redigente sono stati recentemente riportati alla luce e accuratamente commentati da BRACCINI, Un progetto di codice tributario del 1942. La «redazione provvisoria delle norme generali del diritto tributario» dell’Istituto Nazionale di Finanza Corporativa, in Riv. Dir. Fin., 1999, I, 337. Negli anni sessanta, da parte della commissione istituita per lo studio del progetto di riforma tributaria, si osservava che «sembra necessario procedere per tutti i tributi alla emanazione di una serie di testi unici, elaborando altresì alcuni princìpi generali del diritto tributario, evitando riforme parziali e ritocchi a getto continuo». Così Stato dei lavori della commissione per lo studio della riforma tributaria, Milano, 1964, 41. A partire dalla fine degli anni ottanta, sono stati presentati in varie legislature diverse proposte di legge aventi ad oggetto la codificazione dei principi generali della materia e dei diritti fondamentali dei contribuenti. In tal senso, vanno menzionati l’atto Camera n. 5079/90 (proponenti On. Piro e altri), in Corr. Trib., 1990, n. 43, 3035. In argomento, si veda MARONGIU, Contributo alla realizzazione della carta dei diritti del contribuente, in Dir. e Prat. Trib., 1991, I, 585, nonché STEFANI, La costituzione fiscale e la tutela dei contribuenti italiani, in Boll. Trib.,

1994, 1547. Nella relazione ad una successiva proposta di legge costituzionale avente il medesimo oggetto (atto Camera n. 6319/92, proponenti On. Visco e altri, in Corr. Trib., 1992, 15, 1085) si legge testualmente che l’ordinamento versa «in una situazione in cui la prassi legislativa ed amministrativa seguite finiscono per penalizzare gravemente la posizione del cittadino sempre più esposto a incertezze normative, abusi burocratici e pressioni fiscali, spesso ingiustificate». Nello stesso senso si veda, altresì, lo schema di D.D.L. n. 4818 approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta dell’8 agosto 1996, portante norme in materia di “Statuto dei diritti del contribuente”, in Corr. Trib., 1996, 2805. Confidando in una sua sollecita approvazione, il Ministro delle Finanze, con sua direttiva del 25 novembre 1996, in Corr. Trib., 1997, 1286, ha impartito ai propri uffici norme volte a dare anticipata applicazione di alcuni dei suoi principi. I lavori parlamentari relativi al citato disegno di legge si sono protratti per quasi quattro anni e, dopo un arresto a causa di problemi legati alla copertura finanziaria dei maggiori oneri che la sua attuazione richiedeva, hanno finalmente avuto il loro epilogo con l’emanazione della L. 2 luglio 2000, n. 212. Per un analitico commento del D.D.L. n. 4818, cfr. MARONGIU, Contributo alla realizzazione dello “Statuto dei diritti del contribuente”, in Tributi, 1999, 3 ss.


04 saggio Selicato.qxd

9-04-2009

11:44

Pagina 679

Pietro Selicato 4 2008 679

Lo Statuto del contribuente ha fornito in molte delle sue norme un’esplicita conferma della necessità che la parte pubblica si attenga nello sviluppo dell’attività accertatrice a criteri di buona fede, trasparenza e correttezza e ha esplicitamente reso la materia tributaria partecipe del processo di costruzione di un diritto del privato alla partecipazione al procedimento amministrativo in posizione di parità con l’ente pubblico30. Una volta inserito a pieno titolo l’accertamento tributario nello schema proprio del procedimento amministrativo, è risultato agevole guardare alle fasi che lo compongono e, in tale ambito, anche a quelle che fanno capo all’iniziativa del contribuente come alle parti di un disegno che risponde ad uno scopo unitario, in quanto i vari atti compiuti da entrambe le parti (pubblica e privata) rientrano tutti in una nozione di accertamento in senso lato in quanto parimenti rivolti a realizzare il tributo. Si scorge così una linea argomentativa nella quale il procedimento assurge a modo di essere di ogni atto compreso nella sequenza attuativa del prelievo e costituisce, più che un punto di arrivo, la base di partenza di ogni serio tentativo di ricostruzione sistematica unitaria di tutte le figure che in essa sono comprese. Inoltre, la delineata peculiarità del fenomeno tributario e l’evo-

30 Sul punto si veda, ancora, MARONGIU, Contributo alla realizzazione dello “Statuto dei diritti del contribuente, cit., il quale dà atto che le disposizioni in esso contenute soddisfano il diritto del contribuente di essere «informato, assistito e ascoltato», osservando che «conoscibilità e semplificazione devono connotare tutte le fasi del prelievo, come si desume dai successivi precetti» (ivi, 15). Per una più recente e sistematica disamina cfr. Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Fantozzi-Fedele, Milano, 2005 e in part. i commenti agli artt. 6, 7 e 10. 31 Per queste osservazioni sia consentito rinviare ancora a SELICATO, L’attuazione del tributo, cit., 195 ss., ove riflessioni sull’attualità della nozione di procedimento amministrativo in ambito tributario. 32 In questo senso si sono espresse le sezioni unite della Suprema Corte con sent. 25 luglio 2007, n. 16412, nella quale viene formulato il principio per cui «la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determi-

luzione subita dalla sua disciplina nell’arco dell’ultimo ventennio giustifica ancora oggi la configurazione della sequenza secondo uno schema variabile ed in parte diverso da quello elaborato nella teoria classica del procedimento amministrativo31. La giurisprudenza di legittimità è ormai orientata stabilmente ad attribuire natura procedimentale ai rapporti tra l’ente impositore ed il contribuente. La Corte di Cassazione ha ormai definitivamente riconosciuto che i principi generali in tema di attività amministrativa di cui alla L. n. 241/90 si applicano, salva la specialità, anche ai procedimenti tributari32. In piena sintonia con la Cassazione si è pronunciata anche la Corte costituzionale33. Su queste rinnovate basi, la struttura del rapporto tributario, pur restando saldamente ancorata ai principi del procedimento amministrativo, è stata integrata da consistenti elementi di consensualità, estesi a tutte le fasi della sequenza attuativa del tributo. Sono infatti sempre più numerosi gli strumenti (dall’interpello all’accertamento con adesione fino alla conciliazione giudiziale) che il legislatore, a partire dai primi anni novanta, ha introdotto al fine di realizzare la definizione non contenziosa del rapporto tributario e rendere più rapida ed efficace l’applicazione del prelievo fiscale. All’interno del quadro sistematico che si delinea

nati atti». La Corte ha anche sottolineato il carattere inderogabile del vincolo sequenziale precisando che «nella predetta sequenza, l’omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato». Gli stessi principi erano stati già affermati nella sent. 23 gennaio 2006, n. 1236, della sezione tributaria, ove era stato già affermato che anche il procedimento tributario si struttura nel tradizionale schema del procedimento amministrativo, suddiviso nelle fasi dell’iniziativa, dell’istruttoria e della decisione finale e si stabilisce che nell’ultima fase deve essere tenuto conto dei risultati parziali conseguiti nelle fasi precedenti. Dopo la conferma delle sezioni unite rimangono pertanto prive di fondamento le isolate posizioni contrarie espresse da quella parte della dottrina che, annotando criticamente la citata giurisprudenza, sostiene essere «molteplici le ragioni che giustificano un utilizzo molto circoscritto del concetto di procedimento amministrativo in relazione all’essenza giuridica dell’accertamento tri-

butario». Così COMELLI, Sulla non condivisibile tesi secondo cui l’accertamento tributario si identifica sempre in un procedimento amministrativo (speciale), in Dir. e Prat. Trib., 2006, II, 731, che si basa su una concezione ristretta, autoritativa e unilaterale della funzione amministrativa ormai superata dalle norme di legge richiamate nel testo. 33 In questo senso il Giudice delle leggi si è pronunciato più volte. Al riguardo si veda: ord. 13 aprile 2000, n. 117, relativa all’obbligo di motivazione della cartella di pagamento; ord. 5 novembre 2007, con la quale la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, lettera a, della L. n. 212/2000 nella parte in cui impone che (anche) gli atti dei concessionari della riscossione «devono tassativamente indicare» il responsabile del procedimento. In entrambe le pronunce la Corte basa la propria decisione sull’inquadramento procedimentale della funzione tributaria, ritenendo applicabili ai procedimenti tributari le norme della L. n. 241/1990.


04 saggio Selicato.qxd

680

9-04-2009

11:44

Pagina 680

GiustiziaTributaria

4 2008

attraverso la ricostruzione dei diversi aspetti applicativi della disciplina del tributo basata sulla nozione di procedimento amministrativo, la disamina delle fattispecie di definizione consensuale riveste una considerevole importanza. In effetti, il tratto comune di tutte queste figure è costituito dal fatto che a ciascuna di esse viene attribuita la funzione di determinare in modo autonomo e definitivo la natura e la misura della fattispecie tributaria e di concludere il procedimento con la inoppugnabile determinazione di tali elementi prima che un giudizio sia incardinato (o nella fase iniziale di esso) e proprio al fine di evitare l’incertezza, le lungaggini e gli oneri dell’intervento del giudice. In tutti questi strumenti la definizione degli elementi costituenti la fattispecie tributaria viene realizzata nell’ambito di modelli consensuali34 che prevedono la partecipazione in posizioni paritetiche alla funzione tributaria di entrambi i soggetti che intervengono nel procedimento di attuazione del tributo35. Per questo motivo, anche nella conciliazione giudiziale, come in ogni altro strumento di definizione concordata del tributo, deve essere chiarito preliminarmente quale sia il reale oggetto dell’accordo che interviene tra fisco e contribuente onde misurare la legittimità del modello definitorio che essa realizza nel procedimento di accertamento e comprendere se e fino a che punto sia possibile dar vita a modelli accertativi che comportino il sacrificio dei principi della doverosità dell’azione accertatrice e della indisponibilità del credito tributario. Come si dirà più avanti, la soluzione di tali problematiche può essere ricercata proprio ricorrendo allo schema del procedimento amministrativo, che può costituire il mezzo per riportare a logiche unitarie tutti gli strumenti di definizione del tributo basati sull’accordo.

34 Nel corso del tempo la dottrina ha collocato le diverse ipotesi di accordo talvolta nell’ambito di modelli transattivi di matrice privatistica, talaltra all’interno di forme di espressione del consenso realizzate in vista del miglior perseguimento dell’interesse pubblico. Sulla questione si veda, anche per riferimenti bibliografici completi e aggiornati, MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, cit., spec. 74 ss. Da fonti autorevoli, inoltre, si sostiene che l’accordo tra amministrazione e contribuente non avrebbe carattere né transattivo né consensuale ma si ri-

3. I precedenti dell’istituto (dalla “definizione preventiva della controversia” alla “conciliazione giudiziale”) Una puntuale ricostruzione dei contorni strutturali e funzionali della conciliazione giudiziale non può prescindere da un’analisi dei suoi immediati precedenti. In questa ottica deve essere ricordato che nel testo originario dell’art. 48 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 fu introdotto, per la prima volta all’interno del processo tributario, uno strumento di definizione consensuale delle controversie avente contorni ben diversi da quelli della conciliazione giudiziale oggi disciplinata dallo stesso articolo: il procedimento di esame e definizione preventiva della controversia. La prima versione dell’art. 48 non ebbe mai applicazione poiché prima della sua entrata in vigore essa fu sostituita integralmente e dalla definizione preventiva si passò, dopo una serie di non trascurabili aggiustamenti intervenuti in un arco temporale di poco superiore ad un lustro, all’attuale disciplina della conciliazione giudiziale. L’analisi dei cambiamenti intervenuti in un così ristretto lasso di tempo si presenta di notevole utilità nella ricostruzione della normativa oggi in vigore. Nel suo testo originario, la rubrica del capo II del titolo II del D.Lgs. n. 546/1992 era intitolata “I procedimenti cautelare e preventivo”. All’interno di questo capo erano compresi due articoli: l’art. 47, dedicato alla “sospensione dell’atto impugnato” e l’art. 48, intitolato all’”esame e definizione preventiva della controversia”. L’art. 48 fu introdotto al fine di dare attuazione alla specifica direttiva della delega contenuta nell’art. 30, comma 1, lettera b, della L. 30 dicembre 1991, n. 413, che imponeva al legislatore delegato di prevedere «la facoltà di richiedere, in tutto o in parte, l’esame preventivo e la definizione da

solverebbe nella convergenza spontanea di due distinti atti dispositivi. In questo senso LA ROSA, Il giusto procedimento tributario, in Giur. Imposte, 2004, 767 ss.; FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2008, I, 372; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2003, 243. 35 Per una ricostruzione dei modelli definitori basata sulla rivalutazione dell’elemento partecipativo che scaturisce dall’esplicita previsione del contraddittorio procedimentale si veda SELICATO, L’attuazione del tributo, cit., 501 ss., nonché PUOTI-SELICATO, Concordato tributario, cit., 1214. Per ulteriori riferimenti biblio-

grafici in tema, si veda l’accurata ricostruzione di SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento (nelle imposte sui redditi e nell’Iva), Padova, 1990, 111-113. Per una giustificazione dell’applicazione del principio del contraddittorio anche nel procedimento amministrativo sulla base dei principi costituzionali di imparzialità dell’azione amministrativa e di uguaglianza cfr. BENVENUTI, Contraddittorio (Dir. amm.), in Enc. Dir., Milano, 1961, 739, ove si anticipa quanto stabilito molti anni dopo dalla L. 241/1990 in ordine ai principi di pubblicità e motivazione.


04 saggio Selicato.qxd

9-04-2009

11:44

Pagina 681

Pietro Selicato 4 2008 681

parte della Commissione tributaria di primo grado del rapporto tributario con conseguente estinzione dei reati in materia tributaria per i quali è ammessa l’oblazione». Con questa norma, il legislatore intendeva inserire all’interno del processo un rito abbreviato alternativo che realizzasse un sistema di composizione bonaria delle controversie e colmasse, con le garanzie insite nel controllo giurisdizionale, il vuoto lasciato dal concordato tributario soppresso negli anni settanta36. Nell’intenzione del legislatore delegante, il nuovo strumento doveva assolvere, in primo luogo, a scopi deflattivi, assicurati dalla previsione di un provvedimento finale da cui potesse scaturire la “definizione” della controversia. Tale finalità era rafforzata dalla previsione di meccanismi premiali di un certo rilievo, quale la concessione del beneficio dell’estinzione dei reati tributari meno gravi. Ma il tratto peculiare del nuovo istituto era costituito senza dubbio dall’affidamento al giudice di un attivo ruolo di mediazione e di decisione ai fini del perfezionamento della definizione37. Ciò si deduce dal fatto che alla Commissione tributaria provinciale era attribuito il potere di esame preventivo e definizione “del rapporto tributario”, e, pertanto, il giudice, pur se all’interno di un particolare procedimento preventivo e subordinatamente alla manifestazione del consenso dell’ufficio, manteneva pieni poteri di cognizione sul merito della controversia38. D’altra parte, il particolare rito originariamente introdotto dal citato art. 48 si differenziava39: - dal “patteggiamento” di cui all’art. 444 c.p.p. (al

36 Il carattere abbreviato del nuovo rito come soluzione alle necessità di snellimento del processo tributario è stato sottolineato da TESAURO, Osservazioni sulla delega per la riforma del processo tributario, in Boll. Trib., 1992, 1477 e 1480. Per un inquadramento come rito alternativo dell’istituto in esame si veda CONSOLO, Sugli artt. 47 e 48 del nuovo contenzioso tributario. Sospensione cautelare e “definizione preventiva” fra attese coronate e “puzzles” processuali, in Fisco, 1993, 6329. 37 TESAURO, Osservazioni sulla delega per la riforma del processo tributario, cit., 1480, ha subito osservato che con il nuovo rito abbreviato il legislatore delegante ha voluto optare per la “soluzione giurisdizionale”. 38 Anzi, secondo CONSOLO, Sugli artt. 47 e 48 del nuovo contenzioso tributario, cit., 6335, il consenso dell’ufficio impositore sarebbe richiesto soltanto al

quale, peraltro, è stato accostato da alcuni autori40), in quanto l’art. 48 non prevedeva alcuna forma di “applicazione della pena su richiesta delle parti”, poiché non era detto che il contribuente che chiedeva la definizione si dichiarasse sempre responsabile del pagamento del tributo; - dal soppresso “concordato tributario” (disciplinato prima dall’art. 81 del R.D. 11 luglio 1906, n. 560 e poi, sotto la rubrica “adesione del contribuente all’accertamento dell’ufficio”, dagli articoli 34 e seguenti del Testo unico delle imposte dirette 29 gennaio 1958, n. 645), poiché nella “definizione preventiva” l’accordo tra fisco e contribuente non cadeva sulla determinazione dell’imponibile o dell’imposta né sull’entità delle sanzioni41, ma sull’instaurazione di un rito abbreviato, avente carattere alternativo rispetto al processo ordinario e restante pur sempre saldamente incardinato all’interno di esso, sotto il duplice profilo formale (svolgendosi il rito alternativo davanti allo stesso giudice competente per il rito ordinario) e sostanziale (avendo lo stesso giudice il potere esclusivo di valutare la proposta di definizione e, in ultima analisi, di definire la controversia)42. A sgombrare il campo da ogni possibile dubbio in merito al carattere “endoprocessuale” dell’istituto della definizione preventiva delle controversie è intervenuto il legislatore delegato, che ha intitolato l’articolo 48 del D.Lgs. n. 546/1992 “esame preventivo e definizione” della controversia anziché “esame e definizione preventiva” (come invece era indicato nella legge delega), evitando così ogni minimo riferimento alla possibilità di collocare la de-

fine di aderire al particolare rito abbreviato e, soprattutto, ad optare ad una procedura che non consente una impugnazione piena della sentenza pronunciata in primo grado. Su questo aspetto si veda anche quanto osservato da COLLI VIGNARELLI, Esame e definizione preventiva della controversia. Considerazioni critiche, in Fisco, 1993, 7838. Da parte di TESAURO, Osservazioni sulla delega per la riforma del processo tributario, cit., 1480, si annetteva alla necessità che l’ufficio esprimesse il consenso alla definizione un serio impedimento alla efficacia concreta del nuovo istituto. 39 Per l’analisi di tali differenze si veda anche COLLI VIGNARELLI, Esame e definizione preventiva della controversia, cit., 7847 ss. 40 Tra i quali, quanto agli effetti pratici dell’istituto, dallo stesso COLLI VIGNARELLI, Esame e definizione preventi-

va della controversia, cit., in Fisco, 1993, 7838. 41 Secondo CANTILLO, Nuovo processo tributario. I processi cautelare e preventivo, in Fisco, 1993, 35, 8899 ss., l’idea che si volesse reintrodurre il concordato o una sorta di patteggiamento era da respingere decisamente poiché, ad avviso dell’autore, il potere dell’amministrazione di rinunciare alla pretesa tributaria (sostanziale o sanzionatoria), oltre a far sorgere perplessità di ordine costituzionale, avrebbe dovuto quanto meno formare oggetto di una esplicita previsione. 42 CANTILLO, Nuovo processo tributario. I processi cautelare e preventivo, cit., 8904, esprimeva l’avviso che l’istituto avesse le caratteristiche di un «subprocedimento nell’ambito del processo ordinario».


04 saggio Selicato.qxd

682

9-04-2009

11:44

Pagina 682

GiustiziaTributaria

4 2008

finizione in una posizione anticipata ed esterna rispetto alla lite tributaria, come invece avveniva per i ricorsi contro i ruoli formati dai centri di servizio, che venivano fisicamente presentati all’ufficio impositore, il quale aveva a disposizione sei mesi per decidere se accoglierlo avvalendosi del suo potere di autotutela o trasferirlo alla Commissione tributaria e aprire la fase del controllo giurisdizionale43. Le regole dettate nel testo originario dell’articolo 48 per disciplinare il rito abbreviato erano coerenti con il titolo della norma. In primo luogo, la richiesta di definizione doveva essere avanzata alla Commissione dal contribuente, che doveva indicare nel ricorso introduttivo tutti gli elementi necessari per la definizione. Era anche previsto che, ove l’ufficio avesse aderito all’istanza del contribuente (manifestando il proprio assenso nelle controdeduzioni), la Commissione avrebbe dovuto fissare la trattazione del ricorso in camera di consiglio e decidere il giudizio con sentenza. Prima ancora di avere applicazione, l’istituto sollevò consistenti perplessità, alimentate dalla oscurità della stessa legge delega su molti aspetti fondamentali dell’istituto44. La parte più rilevante delle critiche mosse riguardava proprio il carattere equivoco dell’istituto, in quanto era posto a metà strada tra diritto amministrativo e diritto processuale, era scarsamente definito nella disciplina del potere concesso alle parti di contribuire attivamente alla definizione della controversia e restava sostanzialmente privo di incentivi sul piano sanzionatorio45. Al fine di superare tali perplessità ed evitare che rimanessero frustrate le istanze deflattive che con esso si intendeva soddisfare, l’art. 2-sexies del D.L. 30

43 Osserva al riguardo COLLI VIGNARELLI, Esame e definizione preventiva della controversia, cit., 7847, che «nessuna espressione contenuta nell’art. 48 consente di propendere per l’introduzione di un sistema che, sia pure con l’intervento di un organo giurisdizionale, lasci spazio a pattuizioni od accordi tra le parti». 44 Per una disamina in chiave fortemente critica di tali aspetti cfr. CONSOLO, Sugli artt. 47 e 48 del nuovo contenzioso tributario, cit., 6333 ss. Analogo giudizio è espresso anche da COLLI VIGNARELLI, Esame e definizione preventiva della controversia, cit., 7852-7853. A questo proposito va annotata l’opinione controcorrente di CANTILLO, Nuovo processo tributario. I processi cautelare e preventivo, cit., 8905, ad avviso del quale l’isti-

settembre 1994, n. 564, convertito nella L. 30 novembre 1994, n. 656, istituì la conciliazione giudiziale delle liti tributarie introducendo nel D.P.R. n. 636/1972 (all’epoca ancora in vigore) un nuovo articolo 20-bis. In questa prima versione della norma, il legislatore aveva previsto la conciliabilità delle sole controversie tributarie «non risolvibili in base a prove certe». Successivamente, con D.L. 26 settembre 1995, n. 403, conv. nella L. 20 novembre 1995, n. 495, fu previsto che la conciliazione potesse essere esperita nei soli casi in cui era possibile la definizione dell’accertamento con adesione del contribuente. Per la disciplina definitiva dell’istituto si è dovuto attendere, però, l’art. 12, comma 1, lettera d, del D.L. 8 agosto 1996, n. 437, convertito nella L. 24 ottobre 1996, n. 556, con cui il legislatore ha rivisitato l’intera materia ampliandone notevolmente l’ambito applicativo. Un’ulteriore revisione è stata operata, infine, dall’art. 14 del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, emanato dal Governo a seguito della delega contenuta nell’art. 3, comma 120, della L. 23 dicembre 1996, n. 662, con il quale l’art. 48 del D.Lgs. 546/1992 è stato ulteriormente revisionato al fine esplicito di coordinarne la disciplina con quella relativa all’accertamento con adesione e di istituire un sistema di definizione consensuale dei procedimenti tributari avente caratteri, per quanto possibile, omogenei46. In particolare, con la revisione operata dal citato art. 14 è stato eliminato il divieto di utilizzare la conciliazione nelle controversie riferite a rimborsi ed è stata introdotta la possibilità di effettuare il versamento delle somme dovute in forma rateale.

tuto avrebbe potuto «contribuire in misura apprezzabile alla definizione delle controversie in tempi abbreviati», sempreché, tuttavia, l’amministrazione avesse assunto un orientamento poco “burocratico”. 45 Fatto salvo l’equivoco profilo dell’estinzione dei reati oblazionabili, posto in evidenza da CONSOLO, Sugli artt. 47 e 48 del nuovo contenzioso tributario, cit., 6336, nonché da COLLI VIGNARELLI, Esame e definizione preventiva della controversia. Considerazioni critiche, in Fisco, 1993, 7852. In proposito si veda la puntuale analisi di CARACCIOLI, La definizione preventiva della controversia come causa estintiva dei reati tributari, in Fisco, 1993, 9, 2839, che assimilò l’istituto della definizione preventiva a quello della conciliazione amministrativa.

46 Il fatto che accertamento con adesione e conciliazione giudiziale fossero disciplinati come istituti identici quanto alla loro funzione e differenziati solo per la loro diversa collocazione rispetto al contenzioso fu auspicato dalla migliore dottrina prima della definitiva regolamentazione ad opera del D.Lgs. 218/1997. Sul punto LA ROSA, Concordato, conciliazione e flessibilità dell’amministrazione finanziaria, in Dir. e Prat. Trib., 1995, I, 1095; GALLO, Ancora sul neoconcordato e sulla conciliazione giudiziale, in Rass. Trib., 1994, 1493. Dagli elementi desumibili dalla legge delega tale conclusione va data ormai per certa. Sul punto cfr. FRANSONI, Osservazioni sul rapporto tra conciliazione giudiziale ed accertamento con adesione, in Rass. Trib., 2000, 1803 e, sul punto, 1819.


04 saggio Selicato.qxd

9-04-2009

11:44

Pagina 683

Pietro Selicato 4 2008 683

4. Ambito di applicazione della “nuova” conciliazione giudiziale L’art. 48, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992 nel testo oggi in vigore prevede che «ciascuna delle parti con l’istanza prevista dall’art. 33 (l’istanza di trattazione in pubblica udienza) può proporre all’altra parte la conciliazione totale o parziale della controversia». Al comma 2 si precisa, inoltre, che «il tentativo di conciliazione può essere esperito d’ufficio anche dalla Commissione». Al comma 5, inoltre, si prevede che «L’ufficio può, sino alla data di trattazione in camera di consiglio, ovvero fino alla discussione in pubblica udienza, depositare una proposta di conciliazione alla quale l’altra parte abbia previamente aderito». Dal confronto tra vecchio e nuovo testo dell’art. 48 emerge chiaramente che, introducendo la conciliazione giudiziale, il legislatore, similmente a quanto successivamente disposto con riferimento all’accertamento con adesione47, ha voluto attribuire alle parti del rapporto tributario un autonomo potere di valutare l’opportunità dell’accordo e

47 RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1996, 304, ravvisa l’esistenza di rilevanti punti di contatto tra questo istituto e quello dell’accertamento con adesione. Pur basandosi su presupposti diversi da quello che si riporta alla natura procedimentale di siffatti strumenti, anche BATISTONI FERRARA, La conciliazione giudiziale, in Riv. Dir. Trib., 1995, I, 1029 ss., esamina gli istituti della conciliazione giudiziale e dell’accertamento con adesione in un’ottica unitaria, considerando entrambi come «atti di disposizione del credito tributario», (ivi, 1030). Nello stesso senso, Id., Conciliazione giudiziale (Dir. trib.), in Enc. Dir., Aggiornamento, Milano, 1998, II, 229. Evidenzia i comuni presupposti negoziali dell’accertamento con adesione e della conciliazione giudiziale anche MOSCHETTI, La possibilità di accordo tra amministrazione finanziaria e contribuente nell’ordinamento italiano, in Fisco, 1995, 5331 ss., osservando, peraltro, che «anche i princìpi di legalità e di capacità contributiva non mi sembrano incompatibili con il dialogo e l’accordo», poiché «se le due parti concorreranno a ricostruire la verità, ne trarranno vantaggio proprio i cennati princìpi costituzionali», mentre «se vorranno mercanteggiare, tali principi saranno violati» (ivi, 5336). In senso analogo, cfr., altresì, VOGLINO, La conciliazione giudiziale in

addivenire alla sua conclusione in piena autonomia dal giudice davanti al quale è pendente la controversia, il quale si limita a verificare l’esistenza dei presupposti previsti dalla legge esercitando una funzione in certo qual modo “notarile”48, diversamente da quanto era stato previsto per la definizione preventiva della controversia, nella quale, come si è visto, sarebbe stato il giudice a decidere sul merito della definizione. D’altra parte, il nuovo art. 48, pur utilizzando un termine già impiegato per definire l’analogo istituto del processo civile, non ha potuto non tenere in debito conto le peculiarità del procedimento di accertamento, soprattutto con riferimento al principio della irrinunciabilità della pretesa tributaria49. Da questo particolare punto di vista, il legislatore ha costruito la nuova normativa ruotando intorno alla ponderazione degli interessi coinvolti nel rapporto tributario ed affidando al procedimento conciliativo la mediazione tra gli interessi pubblici dell’obbligatorietà del prelievo, dell’imparzialità del procedimento e dell’economicità dell’azione accer-

materia tributaria, in Boll. Trib., 1995, 85 ss., ove si esprime l’opinione che l’atto in parola «non rappresenta invero altro che il “riflesso” della volontà che è stata manifestata dalle parti e trasfusa nell’atto costitutivo della conciliazione, il cui contenuto è liberamente determinato dalle parti» (ivi, 95). 48 È questo, in buona sostanza, il ruolo che la stessa Corte costituzionale (sent. 12 ottobre 2000, n. 433) attribuisce alla Commissione tributaria provinciale quando afferma che «l’integrità della funzione» giurisdizionale non è pregiudicata dal fatto che al giudice sia attribuito «un mero controllo di legittimità» consistente nel «compito di accertare se la conciliazione era ammissibile, se rientrava nei casi consentiti e se la relativa procedura è stata correttamente espletata», con esclusione di ogni controllo sul merito. 49 Già da parte di MICHELI-TREMONTI, Obbligazioni (Dir. trib.), in Enc. Dir., Milano, 1979, XXIX, 409 ss., si osservò che nell’azione amministrativa di realizzazione del credito tributario dovesse ritenersi escluso ogni elemento di discrezionalità a causa del «carattere peculiare della funzione, esaurientemente disciplinata per legge» (ivi, 447). Successivamente, FALSITTA, Rilevanza delle circolari interpretative e tutela giurisdizionale del contribuente, in Rass. Trib., 1988, I, 1 ss. e

spec. 12-13, ha osservato che, a prescindere della terminologia adottata per descrivere il fenomeno, «l’amministrazione non può sottrarsi per verun pretesto al dovere di accertare e riscuotere le obbligazioni tributarie»; in senso analogo BERTOLISSI, Circolari nel diritto tributario, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., Torino, 1988, III, 86 ss. e spec. 99-100. Pur aderendo in altre sedi alle tesi che vedono nell’accertamento con adesione un atto transatttivo di carattere privatistico, BATISTONI FERRARA, Obbligazioni nel diritto tributario, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., Torino, 1994, 296, X ha osservato in proposito che, in ragione del principio di indisponibilità del credito tributario, l’estinzione per remissione non può operare se non nei casi disciplinati legislativamente, quali i condoni. Nella sua sent. 6 ottobre 2006, n. 21222, la sezione tributaria della Suprema Corte ha risolto la problematica relativa allo spazio da attribuire agli accordi fiscali nel senso prospettato da Batistoni Ferrara, affermando che la disciplina legislativa conferisce all’accordo piena legittimità. La Corte, tuttavia, ha anche stabilito che la copertura legislativa degli accordi in esame non esclude affatto la necessità che le parti raggiungano accordi limitatamente «all’entità di elementi materiali soggetti ad accertamento e valutazione caso per caso».


04 saggio Selicato.qxd

684

9-04-2009

11:44

Pagina 684

GiustiziaTributaria

4 2008

tatrice, in quanto tra loro contrastanti e correlati ai legittimi interessi del privato al rispetto di tali principi fondamentali50. In questa ottica si ritiene ragionevole ricondurre alla nozione della discrezionalità amministrativa, sia pure nella particolare forma della discrezionalità tecnica, le scelte operate dall’amministrazione finanziaria in ordine alla conclusione di un accordo che accede ad una conciliazione giudiziale51. Pare, in effetti, che anche dopo l’eliminazione del limite alle sole controversie che involgono «questioni non risolvibili in base a prove certe» i casi conciliabili restino circoscritti alle liti in cui le carenze probatorie del procedimento siano tali da non consentire una attendibile ricostruzione degli elementi della fattispecie tributaria e giustificano la scelta congiunta delle parti per forme definitorie basate sull’applicazione concordata di procedure di determinazione degli imponibili di minore intensità probatoria. Di talché viene rimessa alle parti la scelta tra il vantaggio insito nella rapida definizione della controversia e l’aspettativa delle loro originarie pretese. Da questa ponderazione il giudice tributario resta totalmente escluso, essendo affidata

50 Su questi aspetti sia consentito rinviare a Selicato, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, cit., 209 ss. 51 Stante la rilevata identità di funzioni, è possibile analizzare unitariamente il problema della discrezionalità nelle diverse forme di accordo in materia tributaria. Con riferimento all’abolito concordato, PUOTI, Spunti critici in tema di concordato tributario, in Riv. Dir. Fin., 1969, I, 317 ss., ha osservato con estrema chiarezza che «l’emanazione dell’atto amministrativo detto “concordato”, è assolutamente discrezionale, non essendovi alcun obbligo di adottare tale atto di accertamento e non essendo neppure disciplinati dalla legge i criteri che facoltizzano l’ufficio all’adozione di esso» (ivi, 330). Sia pure prestando adesione alla tesi ormai largamente recessiva del concordato come accordo transattivo, anche GAFFURI, Concordato tributario, in Nov. Dig. It., Appendice, Torino, 1981, II, 298 ss., evidenzia che «occorre, in proposito, non perdere di vista che l’accordo transattivo cade esclusivamente sulla valutazione del bene trasferito, per la quale la pubblica amministrazione gode di una discrezionalità tecnica» (ivi, 303). Nello stesso senso Id., Concordato tributario, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., Torino,

unicamente alle parti la valutazione dell’opportunità di chiedere (o aderire) alla conciliazione (o all’accertamento con adesione). La ponderazione, pertanto, si realizza prima ed all’esterno del processo, nell’ambito del (sub)procedimento amministrativo che viene avviato con la comunicazione all’altra parte della proposta di conciliazione. È da sottolineare, inoltre, il fatto che, diversamente dalle norme in materia di accertamento con adesione, l’art. 48 non limita (più) il suo ambito di applicazione a particolari tributi o a particolari atti. Ne deriva che possono formare oggetto di conciliazione tutte le controversie devolute alla giurisdizione delle Commissioni tributarie ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992. Per giunta, con le modifiche apportate dall’art. 14 del D.Lgs. n. 218/1997 è stata eliminata la disposizione che prevedeva la non restituibilità delle somme già versate all’ente impositore. Tale modifica comporta l’applicabilità dell’istituto in esame anche alle controversie relative ai rimborsi, rendendo possibile la restituzione da parte dell’amministrazione finanziaria di quanto già incassato, naturalmente nei limiti degli importi conciliati52. Il progressivo allargamento dell’ambito di appli-

1988, III, 289. Sul punto, tuttavia, va registrata l’opinione contraria di FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 1995, 425, il quale tuttavia precisa che «la transazione poteva avere ad oggetto esclusivamente l’imponibile, attesi i princípi di irrinunciabilitá della potestá di imposizione e di non discrezionalitá». Analoga é la posizione di RUSSO, Manuale di diritto tributario, cit., 302, il quale, con espressione alquanto contraddittoria, osserva che «siamo in presenza di un accordo di liquidazione (della base imponibile) dal quale esula, peraltro, qualsiasi rilevanza della volontá delle parti e, di conseguenza, qualsiasi profilo negoziale». Tali considerazioni, formulate con riferimento alla disciplina ante riforma, possono essere agevolmente riportate al nuovo accertamento con adesione per il quale anche permangono, almeno nei più ristretti limiti della discrezionalità tecnica, ampie facoltà di determinazione negoziale. L’esistenza di una voluntas legis in questo senso può essere rinvenuta nell’eliminazione (ad opera del D.Lgs. 218/1997) del limite oggettivo della definizione, che l’originaria disciplina del nuovo istituto (D.L. 30 settembre 1994, n. 564, conv. nella L. 30 novembre 1994, n. 656 e relativo regolamento di attuazione approvato con

D.P.R. 30 aprile 1996, n. 316) circoscriveva all’esistenza, alla stima, all’inerenza e all’imputazione a periodo dei componenti positivi e negativi. Per un inquadramento dell’istituto nell’ambito dell’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione cfr. LUPI, Diritto tributario. Parte generale, Milano, 1999, 58-59, ove si osserva che «il sistema accetta perciò valutazioni dispositive che attengono anche all’imposta dovuta» e che in questi casi «si tratta di valutazioni in cui la determinazione dell’imposta viene in considerazione assieme ad altri elementi», quali «le prospettive e i rischi di una controversia col contribuente». Anche VERSIGLIONI, Contributo allo studio dell’attuazione consensuale della norma tributaria, ed. provv., Perugia, 1996, 50, osserva che i nuovi istituti (accertamento con adesione e conciliazione giudiziale) sembrano ricercare «un punto di incontro tra autonomia privata e discrezionalità amministrativa». 52 Nota al riguardo TOSI, La conciliazione giudiziale, cit., 912, che «l’evoluzione dei vari provvedimenti normativi che si sono succeduti porterebbe ad evidenziare come l’ordinamento sia approdato a una soluzione che, oggi come oggi, non pone alcun limite testuale alla conciliabilità».


04 saggio Selicato.qxd

9-04-2009

11:45

Pagina 685

Pietro Selicato 4 2008 685

cazione dell’istituto conciliativo53 costituisce, pertanto, un ulteriore elemento a favore del carattere procedimentale (e non giudiziale) dell’accordo poiché lo svincola dalla tipologia del tributo in contestazione, dalle caratteristiche oggettive della materia del contendere e dalle pregresse vicende del credito tributario, lasciando le parti libere di effettuare la descritta ponderazione di interessi in piena indipendenza dal giudice dinnanzi al quale è incardinato il processo da conciliare, utilizzando uno strumento di applicazione generalizzata e completamente estraneo al contesto processuale sottostante54. 5. Conciliazione in udienza e conciliazione fuori udienza (differenze di procedura nell’identità di funzioni) Nemmeno il fatto che all’interno dell’art. 48 siano disciplinate due differenti procedure di conciliazione (quella “ordinaria”, realizzata sotto la direzione del giudice e quella “abbreviata”, realizzata prima e al di fuori del processo) osta al generalizzato riconoscimento del carattere procedimentale dell’istituto, siccome tale carattere è da ritenersi insito nella sua descritta funzione di strumento di ponderazione di interessi comune ad entrambe le forme di definizione della controversia55. In effetti, è in ogni caso da collocare all’interno del procedimento amministrativo di accertamento la “trattativa” tra ufficio e contribuente che porta alla formulazione di una proposta “concordata”. Non può escludersi, invero, che in ossequio al principio costituzionale di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, anche in questa fase debbano essere rispettate le regole di pubblicità e di parità delle parti nel procedimento e che debba essere assicurata la realizzazione di un corretto contraddittorio. Ed in ciò non vi è alcuna differenza tra le due modalità di conciliazione, posto che la decisione dell’ufficio di aderire alla conciliazione, sia essa proposta in udienza, con il rito “ordinario”, o conclusa prima e fuori dall’udienza, con quello “abbreviato” è sicuramente espressione della potestà am-

53 In questo senso si veda quanto osservato nella relazione governativa al decreto legislativo 218 nonché nella circolare n. 235/E del 1997. 54 Depone senz’altro in tal senso la motivazione addotta da Cass. civ., sez. trib., sent. 6 ottobre 2006, n. 21513, in Foro It., 2007, 2507, ove si ritiene legittima la ricostruzione da parte del giudice tributario alla stregua

ministrativa di autotutela (intesa nella più ampia accezione di questo termine), di cui esso è munito in ogni atto rientrante nelle proprie funzioni. Nello specifico, il rito conciliativo “ordinario” può essere promosso tanto dall’ufficio quanto dal contribuente o, addirittura, sollecitato dalla stessa Commissione. Ma nemmeno la previsione di una così ampia possibilità di iniziativa è idonea ad allontanare la conciliazione ordinaria dalla sede procedimentale che le è propria. Infatti, è comunque necessario che la trattazione del ricorso avvenga in pubblica udienza e che, quindi, una delle parti abbia presentato l’istanza di fissazione di cui all’art. 33 del D.Lgs. n. 546/1992 rispettando le modalità ed i termini all’uopo previsti. Tale istanza, che va notificata direttamente all’altra parte, deve contenere la proposta di conciliazione. L’art. 48, tuttavia, non richiede l’indicazione nell’istanza dei presupposti, dei contenuti e dei mezzi di prova posti a sostegno della della proposta, che, pertanto, sfuggono completamente alla cognizione del giudice. L’insieme di queste disposizioni porta a ritenere che, nel periodo compreso tra la data di notificazione dell’istanza di trattazione contenente la proposta di conciliazione e quella in cui sarà celebrata l’udienza, le parti verifichino l’esistenza dei presupposti della conciliazione attraverso un procedimento in contraddittorio dal quale, a seguito della disamina e la ponderazione dei diversi interessi coinvolti, scaturisca l’eventuale accordo da formalizzare davanti al giudice. In fin dei conti, anche per l’adesione alla conciliazione in udienza, è richiesta un’attività di iniziativa, istruttoria e decisione analoga a quella che aveva preceduto l’emissione dell’atto impositivo impugnato. Ciò e confermato dal fatto che, una volta notificata l’istanza alla controparte, la definizione potrebbe essere anche raggiunta prima dell’udienza, nel qual caso l’ufficio impositore è tenuto a depositare nella segreteria della Commissione un atto in cui si attesta che l’accordo è stato raggiunto e formalizzato. Qualora si giungesse all’udienza di discussione senza concludere l’accordo, le parti do-

dei principio del legittimo affidamento, dell’esistenza e dei contenuti di un “accordo fiscale” raggiunto in sede amministrativa tra l’ente impositore e il contribuente. 55 È senz’altro da condividere l’opinione espressa a questo riguardo da FRANSONI, Osservazioni, cit., 1808, il quale nota che la molteplicità e rilevanza delle ipotesi in cui la concilia-

zione si svolge senza la presenza del giudice, attesta inequivocabilmente come la presenza di questi non sia affatto necessaria. Così stando le cose, non può che affermarsi come l’ambiente nel quale si realizza l’accordo non è quello (giurisdizionale) del processo davanti alla Commissione tributaria ma quello (amministrativo) del rapporto fisco-contribuente.


04 saggio Selicato.qxd

686

9-04-2009

11:45

Pagina 686

GiustiziaTributaria

4 2008

vrebbero essere preliminarmente sentite sulla proposta di conciliazione e, nel caso in cui l’accordo fosse raggiunto, dovrebbe essere redatto apposito verbale da cui risultino le somme dovute a titolo di imposte sanzioni e interessi. Tale verbale è distinto da quello dell’udienza e costituisce titolo esecutivo per la riscossione delle somme dovute dal contribuente a seguito dell’accordo intervenuto. Ne consegue che il distacco tra il momento della conclusione e quello della formalizzazione dell’accordo conciliativo non si realizza soltanto sul piano sostanziale dei rapporti tra le parti ma anche sul piano della configurazione formale dell’atto di conciliazione, che viene realizzato comunque (sia quando è redatto in sede amministrativa sia quando è redatto dal giudice) in modo da restare distinto dal verbale di udienza e dal relativo provvedimento che chiude il giudizio a seguito della conciliazione. Come si è accennato, il tentativo di conciliazione può essere esperito dalla stessa Commissione anche in assenza della richiesta di una delle parti. Anche in questo caso la Commissione non ha alcun potere attivo nella definizione della controversia ma si limita a sollecitarla rimettendosi alle determinazioni delle parti56. Nella conciliazione che si realizza prima dell’udienza di trattazione del ricorso, con il cd. rito “abbreviato” l’iniziativa spetta unicamente all’ufficio impositore, che è tenuto a depositare nella segreteria della Commissione tributaria una proposta a cui l’altra parte abbia già aderito. In tal caso, il presidente della Commissione, verificata l’ammissibilità della proposta, dispone con decreto l’estinzione del procedimento per intervenuta conciliazione tra le parti (art. 48, comma 5, D.Lgs. n. 546/1992). Dal tenore letterale della norma citata sembra potersi desumere che anche il ricorrente può assumere la veste di proponente e l’ufficio quella di accettante: è essenziale, però, che sia l’ufficio a depositare materialmente la proposta “concordata”. In questo secondo procedimento il carattere extra-processuale (rectius: pre-processuale) e, in definitiva, procedimentale, della conciliazione è ancor più evidente di quanto non appaia nel rito ordinario. In effetti, la presentazione nella segreteria della Commissione di una proposta di conciliazione cui le parti abbiano “preventivamente” aderito è il segno evidente dello svolgimento della fase

56 Correttamente, pertanto, la Corte costituzionale, con sent. 24 ottobre 2000, n. 433, ha osservato che la

dell’accordo in un ambito diverso e separato da quello del processo. Ambito che, alla luce dei principi generali del procedimento amministrativo codificati nella L. 241/1990 e di quelli speciali (ma pur sempre “fondamentali”) che trovano accoglimento nello Statuto del contribuente, non può che essere regolato nel rispetto dei principi di pubblicità, di partecipazione e del contraddittorio procedimentale. Dall’analisi dei rapporti tra i due procedimenti conciliativi disciplinati all’interno dell’art. 48 emerge un ulteriore motivo per ritenere che esista piena autonomia tra la definizione della pendenza, che si realizza prima e al di fuori del processo, e l’accordo conciliativo, che viene formalizzato davanti al giudice con apposito verbale. Infatti, l’inammissibilità della conciliazione effettuata fuori udienza (o la mancata adesione alla relativa proposta) non preclude alle parti di definire la controversia in udienza secondo il rito “ordinario”, anche su diverse basi: il collegamento tra le due forme di definizione non può che confermare il carattere unitario del percorso procedimentale che porta all’accordo. Un’ulteriore conferma di quanto sopra si ricava, poi, dalla disposizione contenuta al comma 4 dell’articolo in esame, ove si prevede che, nell’ipotesi del mancato raggiungimento dell’accordo nel corso della prima udienza, la Commissione può assegnare un termine, non superiore a sessanta giorni, per la formulazione ed il deposito di una proposta “concordata”, rinviando l’udienza di trattazione. La mancata specificazione, da parte della norma, dei motivi che giustificano il rinvio induce a ritenere che il legislatore abbia voluto rimettere al Collegio giudicante la valutazione della possibilità di concedere alle parti un’ulteriore opportunità per definire la controversia qualora, al momento, vi ostino non soltanto ragioni formali, quali la mancanza del tempo necessario a formalizzare l’accordo, o esigenze di merito, quali la complessità di alcune materie. Anche questa disposizione, come si vede, permette di constatare la pienezza dei poteri e l’autonomia delle parti nella valutazione dell’opportunità di addivenire alla conciliazione giudiziale, valutazione alla quale il giudice, ancora una volta, resta completamente estraneo.

funzione del giudice tributario nella conciliazione deve esprimersi esclusivamente sul piano del processo, re-

stando totalmente estranea al piano “sostanziale”, tutelato dagli artt. 97 e 53 della Costituzione.


04 saggio Selicato.qxd

9-04-2009

11:45

Pagina 687

Pietro Selicato 4 2008 687

Da quanto brevemente esposto si deduce che, a fronte delle diverse alternative offerte dal legislatore per addivenire alla conciliazione della controversia, esiste un unico criterio ispiratore che le riporta tutte sul terreno del rapporto dialettico tra fisco e contribuente e le inquadra con certezza nell’ambito del procedimento (amministrativo) di attuazione del tributo: la comune rispondenza allo scopo di dare attuazione alla pretesa fiscale secondo criteri di razionalità, coerenza ed efficacia della funzione tributaria. 6. Gli effetti: conciliazione del tributo o conciliazione della lite? Al termine di questa disamina sembra, dunque, potersi concludere che la conciliazione giudiziale, più che un istituto processuale con contaminazioni procedimentali, sia da configurare come un istituto procedimentale con (limitate) contaminazioni processuali. La conseguenza di tale assunto si riflette direttamente sul piano degli effetti. Una volta redatto il processo verbale di conciliazione, il contribuente deve provvedere al pagamento delle somme dovute entro venti giorni dalla data del processo verbale (per la conciliazione con il rito ordinario) o dalla data di comunicazione del decreto di estinzione della controversia (per la conciliazione con il rito abbreviato). A questo riguardo l’art. 48, comma 3, stabilisce che la conciliazione “si perfeziona” con il pagamento della somma dovuta (o della prima rata in caso di dilazione). Il versamento dell’unica o della prima rata è, pertanto, condizione di validità e non solo di efficacia della conciliazione: la sua mancata totale o parziale esecuzione impedisce al giudice di decretare l’estinzione della controversia e gli impone di pronunciarsi sul merito. Dall’altro lato, il mancato versamento delle rate successive alla prima non legittima l’ufficio a chiedere la riapertura del processo dopo la pronuncia del decreto di estinzione ma può dar luogo soltanto ad iscrizione a ruolo delle somme non versate. Il fatto che la disciplina degli effetti della conciliazione (conclusa o mancata) attribuisca una posizione centrale al versamento delle somme dovute sulla base del relativo verbale può essere spiegato in vari modi. In primo luogo, esso può essere riportato ad esigenze di certezza in ordine all’effettivo recupero delle somme conciliate. Questa spiegazione risponde di certo alle finalità pratiche di

57 BATISTONI FERRARA, La conciliazione giudiziale, in Riv. Dir. Trib., 1995, I,

ogni strumento deflattivo, costituite dalla certezza e immediatezza del prelievo come contropartita dei vantaggi offerti al contribuente in termini di riduzione del carico tributario e attenuazione delle correlate sanzioni. Ma sul piano sistematico il pagamento può essere inserito nel quadro del dovere di collaborazione del privato al raggiungimento del fine pubblico cui l’istituto è deputato e, dunque, riportarsi anch’esso alla struttura procedimentale della conciliazione. Dopo aver chiarito le modalità con le quali viene perfezionata la conciliazione giudiziale è necessario sviluppare una breve indagine sugli effetti che essa può produrre. A questo riguardo va notato che la conciliazione tributaria mantiene molti dei caratteri essenziali dell’omonimo istituto processualcivilistico (tra questi: l’iniziativa del giudice nell’esperimento del tentativo; la facoltà di autonoma proposizione attribuita ad entrambe le parti; la libertà di adesione della parte che riceve la proposta; la funzione meramente omologante del giudice; l’esecutorietà del verbale redatto in udienza). Tuttavia, con la conciliazione giudiziale le parti non dispongono a titolo transattivo di un loro diritto soggettivo ma, analogamente a quanto avviene per l’accertamento con adesione, si accordano soltanto sulla scelta di un diverso procedimento di determinazione del tributo, dopo aver constatato l’impossibilità di pervenire ad un risultato soddisfacente attraverso gli ordinari rimedi contenziosi. Partendo da questo punto di vista, non può essere neanche condivisa la distinzione tra una conciliazione “transattiva” da una conciliazione “non transattiva”, che viene operata da una parte della dottrina57 rapportandosi unicamente al quantum della pretesa fiscale che forma oggetto di definizione. Secondo tali posizioni, la conciliazione giudiziale avrebbe carattere transattivo soltanto in quei casi in cui l’ufficio e il contribuente conciliano la controversia accordandosi su un tributo di ammontare intermedio tra quello dichiarato e quello risultante dall’accertamento; mentre ne sarebbe priva nei casi in cui, da un lato, l’ufficio desiste completamente dalla propria pretesa annullando l’atto impositivo impugnato e, dall’altro, il contribuente rinuncia al ricorso assoggettandosi all’integrale pagamento delle somme accertate. In questa ottica si attribuisce all’istituto un contenuto “negoziale”, ritenuto «suscettibile, volta a volta, di esprimere una

1029 e TOSI, La conciliazione giudiziale, in Il processo tributario, in Giur. Sist.

di Dir. Trib., diretta da Tesauro, 1998, 885.


04 saggio Selicato.qxd

688

9-04-2009

11:45

Pagina 688

GiustiziaTributaria

4 2008

transazione ove la composizione comporti reciproche concessioni innovatrici, ma anche di risolversi in riconoscimento del diritto altrui»58. Ma, come si è detto, la conciliazione tributaria non può avere mai un carattere transattivo poiché alla base della volontà di definire la controversia non vi è, come previsto dall’art. 1965 c.c., un intento comune delle parti di farsi reciproche concessioni in ordine a diritti soggettivi sui quali hanno pieni poteri di disposizione, ma si realizza la convergenza di due posizioni eterogenee: quella del contribuente (forse più vicina a logiche di carattere transattivo), che tende comunque a realizzare il massimo risparmio di oneri (tributari, sanzionatori ma anche processuali); quella dell’ufficio, rivolta in ogni caso a realizzare nel rispetto dei princìpi costituzionali di legalità, di capacità contributiva, di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa, la corretta pretesa fiscale nei confronti di una fattispecie tributaria in ordine alla quale non sussistono sufficienti elementi di certezza. É da sottolineare che, secondo l’opinione dominante, l’elemento della res dubia, che assume notevole rilievo nella formazione dell’accordo tributario, risulta del tutto irrilevante al fine di individuare la ratio dell’istituto civilistico, essendo questa da rinvenire piuttosto nell’intento delle parti di porre fine alla lite «abdicando ognuna ad una parte della propria pretesa o della propria contestazione»59. Ed è invero pacifico che, pur ammettendosi in linea di massima la praticabilità di accordi tra enti pubblici e privati, la transazione conclusa dai detti enti assume caratteristiche affatto peculiari60. Questo ordine di osservazioni porta a spostare il baricentro degli effetti dell’istituto in una posizione ben più arretrata di quella in cui a prima vista possa essere collocato. Infatti, a dispetto della sua esplicita qualificazione di strumento “giudiziale”, l’accordo in parola emerge da presupposti e si sviluppa in attività collocate con sicurezza nel procedimento amministrativo tributario, posto che il raggiungimento del risultato finale è ottenuto sul-

58 Così, ancora, BATISTONI FERRARA, op. cit. 59 In tal senso MOSCARINI-CORBO, Trascrizione (Dir. civ.), in Enc. Giur., Roma, 1994, XXXI. 60 Sul punto cfr. FERRARI, Transazione (Dir. amm.), in Enc. Giur., Roma, 1994, XXXI ove si afferma che, sebbene dopo l’entrata in vigore della L. 241/1990 possano rinvenirsi all’interno del procedimento amministrativo gli elementi della bilatera-

la base della acquisizione e della valutazione di elementi materiali collocati completamente al di fuori del processo; ed anzi, essendo da escludere che la conciliazione possa comportare deroghe agli ordinari princìpi impositivi della riserva di legge e della capacità contributiva, essa trova pur sempre la sua fondamentale ratio proprio nella carenza di mezzi di prova dotati del requisito della certezza. Ne deriva che anche alla conciliazione giudiziale, al pari dell’accertamento con adesione, deve essere attribuito il ruolo di un procedimento amministrativo di riesame dell’atto, svolto in concomitanza (ma non all’interno) di un processo giurisdizionale in corso e sanzionato dalla omologazione definitiva del giudice tributario. Sia pure nei più ristretti limiti di autonomia in cui l’ufficio si muove nel rispetto di una discrezionalità amministrativa caratterizzata dall’esigenza di inserire nella ponderazione delle proprie scelte anche l’elemento della capacità contributiva (limiti che, come si è detto, le posizioni dottrinali orientate a soluzioni contrattualistiche, ritengono di poter superare facendo riferimento allo schema transattivo), il procedimento di conciliazione giudiziale può portare ugualmente ad una modificazione strutturale della fattispecie tributaria rispetto alle risultanze già scaturite nella precedente fase amministrativa che ha portato all’emissione dell’atto impugnato. Anzi, pare che lo scopo che si propone la parte che ritiene opportuno dare corso a tale riesame sia proprio quello di pervenire ad un simile risultato. Va rilevato, infine, che, in conformità ai criteri che hanno ispirato il suo provvedimento istitutivo, la nuova conciliazione tributaria appare comunque rivolta all’acquisizione immediata, ancorché parziale, dei maggiori tributi accertati, poiché l’art. 48, comma 3, impone al contribuente l’obbligo di eseguire comunque un versamento aggiuntivo, configurando tale obbligo, ancora una volta, in aperta analogia con quanto previsto per l’accertamento con adesione, alla stregua di un elemento costitutivo della fattispecie definitoria61.

lità e dell’accordo, nei rapporti di diritto pubblico questi non vanno intesi «in senso contrattuale» (ovvero come incontro di due manifestazioni di volontà) ma «in senso soltanto di duplice partecipazione – della p.a. e del privato – alla costituzione del rapporto transattivo» (ivi, 7). Si soggiunge, poi, da parte di CHIRULLI-STELLA RICHTER, Transazione (Dir. amm.), in Enc. Dir., Milano, 1992, XLIV, 867 ss., che in questo

caso l’accordo fra le parti «si materializza in un atto della pubblica amministrazione» (ivi, 871, nota 23). 61 Va osservato, peraltro, che tale previsione è apparsa a taluni come una indiretta conferma della impostazione contrattuale-transattiva cui sarebbe ispirato l’istituto. È questa, ad esempio, la posizione di BATISTONI FERRARA, Conciliazione giudiziale, cit., 234, il quale individua nell’obbligo del contribuente di assoggettarsi a


04 saggio Selicato.qxd

9-04-2009

11:45

Pagina 689

Pietro Selicato 4 2008 689

Tutto questo porta a ritenere che con l’istituto in esame il legislatore non abbia inteso offrire alle parti uno strumento negoziale volto a definire con criteri transattivi e remissori i contenuti sostanziali della pretesa tributaria ma uno strumento alternativo per realizzare nell’ambito di un particolare modulo procedimentale la definizione dell’accertamento del presupposto imponibile. Si potrà obiettare che in questa raffigurazione il “contenitore” (ovvero il procedimento) diviene esso stesso “contenuto” (qualificando e quantificando il debito d’imposta). Ma qui il discorso si farebbe più ampio. Si fa pertanto rinvio alle riflessioni ampiamente sviluppate in altra sede62

tali versamenti una concreta presenza di elementi concessori analoghi a quelli indicati nell’art. 1965 c.c. Essa, al contrario, è stata ritenuta da altri in contrasto con i principi costituzionali in materia di ripartizione dei carichi pubblici in quanto legittimerebbe l’applicazione di tributi

per dimostrare che l’accordo che interviene con l’ausilio di questi strumenti di definizione non contenziosa del tributo non può sortire effetti sulla determinazione degli elementi quali-quantitativi della pretesa fiscale ma costituisce soltanto la scelta congiunta delle parti per una particolare forma di definizione (accertamento con adesione o conciliazione) all’interno della quale si sviluppa comunque un’attività istruttoria rivolta, sia pure all’interno di un procedimento speciale, alla ricostruzione degli elementi di fatto e di diritto della pretesa fiscale: in estrema sintesi, alla determinazione del tributo secondo capacità contributiva.

non corrispondenti agli imponibili definiti attraverso la conciliazione. Per un’analisi delle perplessità che tale previsione ha suscitato, si rinvia a TOSI, La conciliazione giudiziale, cit., 907 ss., il quale, ravvisando in essa la medesima «logica del concordato di massa e dei provvedimenti di

condono in genere», osserva che la stessa «appare tuttavia di dubbia legittimità in questo contesto». 62 SELICATO, L’attuazione del tributo, cit., 501 ss. e, per le conclusioni di cui al testo, 550.


05 saggio Tabet.qxd

690

7-04-2009

12:56

Pagina 690

GiustiziaTributaria

4 2008

SPECIALITÀ DEL GIUDICE E SPECIALITÀ DEL PROCEDIMENTO NEL PROCESSO TRIBUTARIO RIFORMATO* di Giuliano Tabet 1. La tutela differenziata del contribuente nell’ultimo scritto di G.A. Micheli - 2. Attualità di detta analisi alla luce dei successivi interventi riformatori del processo tributario. Profili critici in ordine: a) alla specialità del giudice - 3. Segue: b) e alla specialità del procedimento - 4. Gli ulteriori apporti ad opera della giurisprudenza della Corte di Cassazione: a) la rilevanza del principio costituzionale del giusto processo - 5. Segue: b) l’orientamento (eccessivamente) evolutivo, favorevole al superamento del principio di tipicità degli atti impugnabili - 6. Critica alla teoria dell’impugnazione facoltativa degli atti atipici - 7. Spunti conclusivi

1. La tutela differenziata del contribuente nell’ultimo scritto di G.A. Micheli Per una singolare coincidenza, l’ultimo scritto di Gian Antonio Micheli è dedicato al processo tributario, uno dei settori della nostra materia che, per formazione personale, suscitava maggiormente il suo interesse; come testimonia il considerevole numero di saggi pubblicati su tale tematica, solo in minima parte confluiti nel primo libro delle opere di diritto tributario, cosiddette minori, raccolte dai suoi allievi. Oggetto di quello scritto è la tutela differenziata del contribuente nelle controversie tributarie e in esso sono sintetizzati efficacemente i molteplici profili di specialità che connotavano l’ordinamento delle Commissioni allora vigente (D.P.R. 636 del 1972, nella versione non ancora novellata dal D.P.R. n. 739 del 1981) e che ne facevano un unicum rispetto alle altri organi giudiziari. Specialità della situazione soggettiva e del tipo di processo, specialità del giudice e della giurisdizione, specialità del procedimento: in questo intreccio sistematico il nostro maestro individuava i principali elementi della tutela giurisdizionale

* Relazione resa al convegno “Lo sviluppo del diritto tributario e il pensiero di Gian Antonio Micheli a ven-

differenziata del contribuente nei confronti dell’amministrazione finanziaria, mettendo in evidenza le non poche criticità che militavano in senso decisamente contrario alla conservazione del sistema esistente. L’analisi tocca e ripercorre velocemente i principali aspetti critici connessi alla evoluzione degli istituti della giustizia tributaria ed alle varie prospettive di riforma: un approccio – questo –pressoché costante negli studi di Micheli sul contenzioso tributario, sia prima che dopo la riforma del 1972, ai quali (studi) va ascritto il merito di avere associato una valutazione realistica del dato normativo con il suo divenire storico, legato alla progressiva trasformazione delle Commissioni da organi amministrativi a giudici speciali. Non è pensabile di potere qui rievocare le numerose e sottili finestre di dialogo che egli ha aperto sui grandi temi della giustizia tributaria, a partire dalla riforma del 1936-37. Basti solo ricordare, emblematicamente, la prima indagine sulla prova nel processo tributario (in Riv. Dir. Fin., 1940), colto nella sua evoluzione da procedimento contenzioso a procedimento giurisdizionale, ma ancora riconducibile a schemi «ibridi non facilmente incasellabili nelle rigide categorie, costruite avendo presenti tipi di processo più evoluti» e, di lì a poco, il fecondo confronto con l’Allorio, «sugli istituti giuridici che si atteggiano spesso in modo non conforme a quelli che sono gli schemi precostituiti e [...] alla loro storia ideale», sviluppato in un famoso saggio del 1946, dopo la pubblicazione della fondamentale opera di costui sul diritto processuale tributario. È però doveroso sottolineare che la chiave di lettura, essenzialmente storicista, che egli suggeriva di quella lontana riforma delle Commissioni (organi con funzione giurisdizionale e con struttura amministrativa) ha costituito la base di tutte le successive prospettive di rimozione delle contrad-

ticinque anni dalla scomparsa”, tenutosi a Roma il 26 settembre 2008 presso la facoltà di giurisprudenza

dell’Università degli Studi “La Sapienza”.


05 saggio Tabet.qxd

7-04-2009

12:56

Pagina 691

Giuliano Tabet 4 2008 691

dizioni, lacune e imperfezioni di disciplina, al fine di adeguarla agli standard di modelli di processo più evoluti. È stato infatti merito indiscusso di Micheli di avere abbandonato la strada, pur suggestiva, della razionalizzazione del sistema e di avere indicato con decisione quella del completamento logico della riforma, richiamando l’attenzione sulla necessità di adeguare la struttura alla funzione. La specialità del giudice e del procedimento ha difatti rappresentato il dato costante delle riflessioni del nostro maestro sulla giustizia fiscale, ponendola al centro dei grandi temi di teoria generale che animavano in quegli anni gli studi sul processo civile (e poi sul processo amministrativo) e anticipando prospettive che saranno riconosciute e recepite dalla legislazione solo successivamente. Per questi motivi ho ritenuto di incentrare su tale binomio la mia relazione, dedicata al suo essenziale contributo allo studio e all’evoluzione del processo tributario. Passando ora alle sue elaborazioni più recenti, ampiamente stimolate dalla riforma del 1972 e dai possibili modelli alternativi, nonché dalle connesse e delicate questioni di costituzionalità, traspare inoltre che, pur rifuggendo da ricostruzioni dogmatiche aprioristiche ed eccessivamente chiuse, la visione di Micheli del processo interagisce con la sua concezione della posizione del soggetto passivo d’imposta come diritto soggettivo pieno alla legittimità dell’azione amministrativa; diritto soggettivo che discende direttamente dal principio di legalità, ma che si differenzia «dal diritto subiettivo classico alla integrità della propria sfera giuridica, in quanto non mira ad ottenere una certa prestazione o un certo comportamento da parte dell’amministrazione», bensì una tassazione conforme alla volontà della legge; il quale obiettivo è per altro già «connaturato» nella stessa nozione di potestà d’imposizione. Una situazione soggettiva, dunque, che per contenuto e per funzione risulta piuttosto sfumata e che, in una visione essenzialmente pan-processuale, egli è incline a identificare nel potere strumentale del contribuente di chiedere al giudice la riaffermazione delle legge che si assume violata. Vista da tale angolazione, la giurisdizione in materia tributaria, se per un verso «si avvicina» alla giurisdizione sull’atto amministrativo, dall’altro se ne discosta, stante l’operatività di un meccanismo di tutela in cui la lesione del diritto alla giusta imposizione viene eliminata attraverso un sistema «composto e variegato» di sentenze ripristinatorie, le quali possono avere come oggetto, non solo e necessariamente l’atto, ma anche la si-

tuazione di fatto sottostante, «a seconda del contenuto della domanda da parte del contribuente». Sulla base di queste elaborazioni di fondo, Micheli perveniva dunque nel suo ultimo saggio a sistematizzare, nei termini sopra descritti, gli elementi di accentuata differenziazione della tutela giurisdizionale in materia tributaria dalle restanti forme di tutela dei diritti soggettivi, non mancando per altro di riaffermare la sua convinzione dell’esistenza di ragioni storico-evolutive (giurisdizione parzialmente concorrente dell’a.g.o.) e logico-sistematiche (tutela di diritti soggettivi dei singoli) che ostano ad una qualificazione delle Commissioni tributarie come organi di giurisdizione speciale amministrativa. Va ancora soggiunto che dal proseguo dello scritto emerge anche una fondamentale indicazione de iure condendo, che per altro è costante nei suoi molteplici contributi in argomento, resi non solo in sede teorica, ma anche progettuale. Viene, infatti, osservato che, se può ammettersi che la posizione di diritto soggettivo del contribuente ad un dato comportamento jure dell’amministrazione, sia tutelata attraverso forme processuali che sono invece normalmente correlate a posizioni di interesse legittimo (e ciò «in considerazione della particolare rilevanza anche dell’interesse pubblico che riceve in quella sede una sua tutela, per cosi dire generica, attraverso la riconferma del diritto obiettivo [...] violato»); molto più critica è invece la valutazione circa la qualità della tutela stessa rispetto a quella assicurata «attraverso il normale processo civile». E ciò a motivo della specialità della struttura ordinamentale e della disciplina processuale, che costituiscono «i mali cronici» di questo settore della giurisdizione, relegato «alla parte della cenerentola nel quadro delle istituzioni fondamentali». E, tra i molti profili critici che egli annotava, meritano di essere ricordati in particolare: la riforma dell’ordinamento delle nuove Commissioni attuata mediante revisione di quelle preesistenti (revisione che certamente non era immune da pesanti sospetti di incostituzionalità; né aveva risolto in modo adeguato la problematica concernente la autonomia, indipendenza e preparazione tecnica dei giudici); l’illogica presenza di una pluralità di sistemi di contenzioso relativi a differenti tributi e l’irrazionale differenziazione del regime delle prove in ciascun ambito di giudizio; l’anomalo rapporto di alternatività tra il gravame proponibile davanti alla Commissione centrale e alla Corte di appello; il non pieno rispetto del principio del contraddittorio e l’irragionevole posizione privilegiata dell’amministrazione finanziaria.


05 saggio Tabet.qxd

692

7-04-2009

12:56

Pagina 692

GiustiziaTributaria

4 2008

2. Attualità di detta analisi alla luce dei successivi interventi riformatori del processo tributario. Profili critici in ordine: a) alla specialità del giudice A distanza di oltre un quarto di secolo, quella lucida analisi conserva ancora molteplici e importanti aspetti di viva attualità, nonostante i successivi interventi legislativi che, in esecuzione della nota teoria della Corte costituzionale sulla “revisionabilità perpetua” hanno più volte modificato l’assetto ordinamentale e la disciplina del processo tributario. Infatti, giudice e procedimento, anche revisionati, erano e restano pur sempre caratterizzati da una marcata specialità. Tali si configuravano infatti tanto nella formulazione originaria della prima revisione ad opera del D.P.R. n. 636 del 1972, quanto nella versione novellata dal D.P.R. n. 739 del 1981 (che Micheli non riuscì a vedere); tali si configurano ancora oggi dopo la “seconda revisione organica” del 1991-1992 e le successive integrazioni del 2002, 2005 e 2006. In questo continuum si interpone però il riformulato art. 111 Cost. che, nella regola del giusto processo, ha compendiato il catalogo delle garanzie costituzionali inerenti alle modalità attuative della funzione giurisdizione, specificandone le regole primarie nella terzietà/imparzialità del giudice e nel contraddittorio e parità tra le parti. In effetti, il lungo iter riformatore, se da un lato ha segnato la definitiva uscita di scena del giudice ordinario da tutte le liti d’imposta, incrinando così il principio dell’unicità della giurisdizione (almeno per chi vede nell’oggetto del processo la tutela di posizioni di diritto soggettivo) e comunque alterando la preesistente linea di confine tra giudice ordinario e giudice speciale (F. Moschetti, E. De Mita), dall’altro, non ha avuto la determinazione e la forza di trasformare – come auspicato più volte da Micheli – in una giurisdizione anche “togata” i revisionati organi di giurisdizione speciale. Il giudice è finalmente divenuto generale e (tendenzialmente) esclusivo per tutte le liti che coinvolgono uno specifico rapporto di imposta; ma non è ancora né un giudice professionale, perché non a tempo pieno e non reclutato per concorso; né un giudice specializzato, perché i “tecnici” non togati non sono sempre forniti di titoli idonei. Esso è sopravvissuto, invece, come giudice speciale, nella duplice configurazione soggettiva e oggettiva: soggettiva, in quanto figura estranea all’ordinamento giudiziario e alle altre magistrature nominate in Costituzione; oggettiva, in quanto titolare, per una determinata materia, di una parte preponde-

rante di giurisdizione che spetterebbe in linea di principio ad un altro giudice, sia esso poi quello ordinario o quello amministrativo, a seconda delle ricostruzioni teoriche che si ritiene di seguire in ordine alla natura delle situazioni soggettive che si contrappongono alla funzione impositiva. Per altro, con riferimento a questo secondo profilo, non è inutile ricordare che, se si escludono le questioni di pura estimazione, ormai largamente recessive sul terreno del diritto positivo, l’asserita specialità della materia non è stata mai sufficientemente chiarita sul piano teorico (onde consentire di poterla concettualmente tenere distinta dalla mera specificità od autonomia); né è mai stato persuasivamente dimostrato che detta specialità/specificità imponga poi ex se di privilegiare la permanenza di una giurisdizione speciale, sia pure “revisionata” ai sensi della VI disp. trans. Cost., piuttosto che attribuire la competenza ad una sezione specializzata, interna ad una delle istituzioni giudiziarie previste in Costituzione, secondo il modello indicato dall’art. 102, comma 2, Cost. Inoltre, sempre a proposito della specialità, è necessario evidenziare che, se è vero che per quanto riguarda il mantenimento in vita delle Commissioni può riconoscersi – secondo la tesi ormai dominante – una pur “stiracchiata” copertura costituzionale (copertura che per altro deriva unicamente dalla loro preesistenza alla Carta); è anche vero che una diversa e più radicale conclusione deve invece trarsi con riferimento all’assetto ordinamentale, in punto di indipendenza, competenza e professionalità dei giudici, anche e soprattutto dopo la riforma costituzionale dell’art. 111 Cost. cost. e l’introduzione della clausola generale del giusto processo. Sono note le elusive e deludenti risposte che la Corte costituzionale ha dato nel passato alle numerose questioni di legittimità sollevate con riferimento alla mancanza di indipendenza delle Commissioni come giudice speciale (e su questa tematica resta indelebile il ricordo delle lucide e motivate critiche di Micheli), sia per quanto riguarda il sistema di nomina e lo status dei loro membri, sia per quanto riguarda l’assenza di garanzia circa l’idoneità a svolgere la funzione giurisdizionale, così come previsto invece per i giudici togati appartenenti alle altre magistrature “speciali”, alias “ordinarie per materia”, ma non regolate dalle norme sull’ordinamento giudiziario (secondo la lettura del combinato degli artt. 102, 103 e 108 Cost., suggerita da G. Guarino). E se quelle sentenze, ormai storicizzate, possono essere ora riguardate come il prodotto di una giurisprudenza «necessitata» (E. Allorio), deve però escludersi la possibilità di una riconferma a Co-


05 saggio Tabet.qxd

7-04-2009

12:56

Pagina 693

Giuliano Tabet 4 2008 693

stituzione variata, pur dopo i non lievi miglioramenti introdotti nell’assetto ordinamentale delle Commissioni dal D.Lgs. n. 545 del 1992. Questa conclusione si impone perché i principi di imparzialità e terzietà del giudice, che connotano il giusto processo, quale forma di attuazione esclusiva della funzione giurisdizionale in qualunque settore dell’ordinamento, sono esclusivamente assicurati da una magistratura togata, selezionata tramite un concorso pubblico per esami che accerti la competenza e la idoneità tecnica della persona abilitata all’esercizio della funzione. Come acutamente è stato osservato (F. Tesauro), «se una giurisdizione può essere esercitata anche da giudici onorari, è difficile ammettere che possa essere esercitata solo da giudici onorari». Né meno esplicito è stato il monito del Presidente della neo costituita sezione tributaria della Cassazione (G. Prestipino), laddove ha autorevolmente rilevato che «pienamente libero e non condizionato dalla (prevalente) diversa professione esercitata può essere, in via di principio, soltanto colui che dedica all’attività giudiziaria, in via esclusiva, tutto il suo impegno professionale». In conclusione, piena conferma ha ricevuto dal novellato art. 111 Cost. la tesi, anticipata da Micheli e seguita dalla dottrina dominante, che la giustizia tributaria dovesse essere amministrata da un corpo di magistrati di carriera e a tempo pieno, forniti di una adeguata “cultura del processo”, oltre che di competenza specifica tanto di diritto tributario sostanziale, quanto di economia aziendale, i quali siano reclutati per concorso e abbiano uno status comune a tutte i membri degli organi di giurisdizione, ordinari e speciali, previsti in Costituzione. A ciò può anche aggiungersi che le aperture, da più parti auspicate, a favore del parziale superamento dei limiti interni che segnano gli attuali confini della giurisdizione delle Commissioni e la prospettiva di introdurre una ulteriore e immediata tutela di altre situazioni soggettive anche soltanto connesse all’azione di prelievo e non direttamente collegate alla quantificazione dell’obbligo tributario (es. controllo sugli atti istruttori endoprocedimentali), possono evidentemente trovare un terreno fertile solo se ed in quanto la funzione giurisdizionale nell’amministrazione dei tributi sia garantita dalla presenza di un giudice non tanto speciale, quanto specializzato e cioè fornito di cultura e di titoli idonei per assolvere tali nuovi e più impegnativi compiti. 3. Segue: b) e alla specialità del procedimento Ma, ammettendo pure la specialità del giudice,

può codesta specialità giustificare la specialità del procedimento? L’opinione dominante lo nega decisamente, osservando che la funzione garantista del giusto processo non tollera deroghe o limitazioni (V. Caianiello) in conseguenza dello spostamento della competenza giurisdizionale su determinate controversie ad un giudice diverso da quello che sarebbe il giudice naturale. E, in tale quadro teorico, si è di recente acutamente affermato (M. Basilavecchia). che «non è utile stabilire se le Commissioni tributarie siano giudici di diritti, di interessi o di entrambi», atteso che la qualità della tutela che il processo è finalizzato a garantire non è influenzata dall’una o dall’altra qualificazione, unico discrimine essendo solo la tecnica della tutela con riferimento ai diritti e agli interessi. Anche sotto tale aspetto emerge l’importanza e l’attualità del pensiero di Micheli, quando evidenziava che nel processo tributario la forma e l’oggetto della tutela diverge da ogni altra controversia civile, essendo incentrata esclusivamente sull’atto espressione di potere amministrativo, sottolineando nel contempo il particolarismo di una disciplina processuale che si atteggia in modo sostanzialmente identico, qualunque sia il contenuto della domanda di tutela del contribuente, che «sembra esaurirsi sempre nella richiesta di rimozione dell’atto impositivo illegittimo, mentre in certi casi coinvolge l’intera situazione giuridica che investe tanto il soggetto passivo quanto l’ente impositore». (Per un successivo sviluppo, si veda la suggestiva analisi di C. Consolo, il quale evidenzia il «singolare connubio tra pubblico e privato» in cui «si cala» il processo tributario e «della cui funzionalità esso è al servizio», tale da renderlo «tertium» rispetto al «conio» civilistico e a quello amministrativistico). E tuttavia, se nel pensiero di Micheli la tutela differenziata del contribuente trova, almeno parzialmente, una ragione nel bilanciamento dei contrapposti interessi che sono coinvolti nella funzione di prelievo, è però indubbio che il confronto tra la giurisdizione delle Commissioni e il modello delle giurisdizioni ordinamentali è stato da lui condotto sempre privilegiando, anzi esaltando, la funzione garantistica di qualunque tipo di processo; funzione che egli già considerava immanente al nostro sistema costituzionale anche prima della riformulazione dell’art. 111 Cost. Di qui la serrata denuncia in tutti i suoi scritti del deficit di tutela offerto dalle Commissioni, in relazione alla quale egli ha costantemente escluso ogni temperamento dovuto alla specialità del giudice o alla protezione dell’interesse fiscale.


05 saggio Tabet.qxd

694

7-04-2009

12:56

Pagina 694

GiustiziaTributaria

4 2008

La cronaca registra che proprio su tale profilo ha invece fatto essenzialmente leva la copiosa giurisprudenza della Corte costituzionale per giustificare la “non irragionevole” difformità del rito e le “attenuate” forme di tutela davanti alle Commissioni, sopratutto in tema di poteri del giudice e di parità delle parti, rispetto agli tipi di processo. Il richiamo alla tutela differenziata è stato quindi utilizzato dalla Corte alla rovescia: non già per parificare una giurisdizione minore alle giurisdizioni ordinarie contermini, civile o amministrativa; ma per legittimare la discrezionalità del legislatore «nel modulare e diversificare le modalità della tutela giurisdizionale a seconda dei contesti processuali ed in considerazione della loro peculiarità» (E. Manzon ). Questa giurisprudenza si è sviluppata tra la prima e la seconda revisione della disciplina del processo tributario e, come stato opportunamente messo in luce (E. Manzon), ha riguardato quattro filoni per importanza e quantità: la difesa tecnica, l’istruzione probatoria, le spese di giudizio e la tutela cautelare:tutte questioni decise con pronunce di rigetto che hanno applicato la teoria della tutela differenziata. E se è vero che i decreti del 1992 hanno cercato di risolvere, alla meno peggio, le più spinose questioni che erano state in precedenza eluse dalla Corte (e che Micheli aveva già evidenziato in un lucido saggio del 1975 dal titolo “Il contraddittorio nel contenzioso tributario”), è pur vero che anche dalla seconda revisione è emerso una disciplina processuale notevolmente imperfetta, talora anche contraddittoria, sospesa tra il modello del processo civile e quello del processo amministrativo, permeata di «difetti strutturali, arcaismi ideologici ed aporie tecniche» (F. Tesauro), ai quali la Corte, salvo rarissimi casi (v. sent. n. 274/2005, in tema di condanna alla spese) ha continuato a non porre rimedio. Esattamente allora da più parti si è osservato che gli standard minimi di garanzia richiesti dal sopraggiunto modello costituzionale del giusto processo impongono un radicale ripensamento in ordine alla legittima sopravvivenza di molti istituti del processo ispirati dall’interesse fiscale e che la Corte ha sin ora salvaguardato in omaggio alla teoria della “spiccata specificità” del rito, assumendo che detto interesse possa giustificare discipline processuali diverse da quelle comuni ad altri processi e tutele attenuate del contribuente. Così è da dire per il divieto di prova testimoniale e più in generale delle limitazioni del diritto alla prova, il difetto di tutela cautelare nelle fasi di gravame, la mancanza di esecutività delle sentenze di condan-

na dell’amministrazione non passate in giudicato (giudicata dalla Corte cost., con la recente ord. n. 316 del 2008, «non costituzionalmente necessitata»), il difetto di previsione del rimedio della rimessione in termini del contribuente, la mancanza di garanzia di adeguata difesa tecnica nel processo.(P. Russo, F. Gallo, F. Tesauro). 4. Gli ulteriori apporti ad opera della giurisprudenza della Corte di Cassazione: a) la rilevanza del principio costituzionale del giusto processo Le serrate critiche della dottrina alle numerose norme processuali ispirate al favor fisci e le deludenti risposte provenienti, parte dalla Consulta e parte dallo stesso Parlamento, hanno indubbiamente contribuito a sensibilizzare ed orientare in senso maggiormente garantista la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, avendo essa tratto ispirazione dalla regola costituzionale del contraddittorio e della parità delle parti. Vero è, infatti, che il novellato art. 111 Cost. ha trovato una pronta e feconda accoglienza dalla sezione tributaria, la quale non ha esitato a farne diretta applicazione, estraendo alcuni principi che sono stati utilizzati per risolvere delicate questioni di rito, sottoposte al suo esame. È stato così deciso che: - il principio di parità delle parti nel processo osta all’utilizzo ad opera delle Commissioni dei poteri istruttori previsti dall’art. 7, comma 3 (ora abrogato) in funzione non meramente integrativa, ma esonerativi dell’onere probatorio che incombe sulle parti (Cass. n. 8439/2004, 10267/2005, 12262/2007, 10513/2008); - nel processo tributario, come è ammesso che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente (trattandosi di mezzi di prova diversi rispetto alla prova testimoniale), va, del pari, necessariamente riconosciuto anche al contribuente l’identico potere di introdurre dichiarazioni, rese da terzi in sede extraprocessuale a suo favore. Tale riconoscimento si palesa doveroso, in quanto è finalizzato a dare concreta attuazione ai principi del giusto processo e dell’effettività del diritto di difesa (Cass. n. 4269/2002, 5957/2002, 4423/2003, 16032/2005, 11221/2007, 9958/2008); - è ammessa l’emendabilità della dichiarazione Iva nel termine quadriennale stabilito per la rettifica da parte dell’ufficio, nel contesto del principio di parità fra le parti e di bilanciamento delle posizioni (Cass. n. 4236/2004; 21944/2007); - se nella fase amministrativa dell’accertamento e della riscossione dei crediti tributari la legge riconosce all’amministrazione poteri sopraordinati ri-


05 saggio Tabet.qxd

7-04-2009

12:56

Pagina 695

Giuliano Tabet 4 2008 695

spetto alle controparti, e in questo quadro si collocano i vari istituti che consentono alla amministrazione di tutelare i propri crediti adottando direttamente misure cautelari, quando si entra nell’ambito del processo le parti, ex art. 111 Cost., devono essere collocate in condizioni di parità davanti a un giudice terzo e imparziale. Questa parità sarebbe lesa ove l’amministrazione potesse continuare a godere di una garanzia a fronte di una pretesa che sia stata disattesa e dichiarata illegittima dal giudice. In applicazione di tale fondamentale principio, qualora la Commissione tributaria abbia accolto il ricorso proposto dal contribuente, annullando l’atto impositivo, ancorché con pronunzia non ancora passata in cosa giudicata, deve essere revocato il fermo amministrativo disposto a norma dell’art. 69, R.D. n. 2440 del 1923 (Cass. n. 20526/2006, che ha meritevolmente anticipato una tematica ripresa e sviluppata da Corte cost. n. 109/2007). - è applicabile il principio costituzionale di ragionevole durata del processo anche al processo tributario, senza che incontri ostacoli nelle peculiarità proprie di detto processo, quali il carattere eminentemente documentale dell’istruttoria e la ritenuta non applicabilità in materia della disciplina di equa ripartizione per la non ragionevole durata del processo. Il suddetto principio, infatti, si rivolge non soltanto al giudice quale soggetto processuale, in funzione acceleratoria, ma anche e soprattutto al legislatore ordinario ed al giudice quale interprete della norma processuale, rappresentando un canone ermeneutico imprescindibile per una lettura costituzionalmente orientata delle norme che regolano il processo, nonché a tutti i protagonisti del giudizio, ivi comprese le parti, le quali, soprattutto nei processi caratterizzati dalla difesa tecnica, debbono responsabilmente collaborare a circoscrivere tempestivamente i fatti effettivamente controversi(Cass. n. 1540/2007); - l’intervento del legislatore (rectius: dell’amministrazione in veste di legislatore) con disposizioni di carattere interpretativo (sempre pro fisco) che incidono sulle controversie in corso fra l’amministrazione finanziaria ed il privato pone un problema di compatibilità con il principio della parità delle parti di cui all’ art.111 della Costituzione (Cass. n. 25505/2006); - non è manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 111 Cost., sollevata avverso la L. n. 592/1985 in quanto demanda all’amministrazione, che è istituzionalmente parte nel processo tributario, il potere di disporre la proroga dei termini anche processuali «qualora gli uffici finanziari non siano in gra-

do di funzionare regolarmente a causa di eventi di carattere eccezionale»(Cass. n. 1603/2008); - non è manifestamente infondata la eccezione di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 111 Cost. sollevata avverso la L. n. 592/1985, nel testo in vigore fino al 20 marzo 2001, in quanto consentiva la proroga dei termini anche processuali qualora gli uffici finanziari non fossero in grado di funzionare regolarmente a causa di eventi di carattere eccezionale «quando tali eventi fossero” riconducibili a disfunzioni organizzative dell’amministrazione finanziaria»(Cass. n. 1603/2008 cit.). 5. Segue: b) l’orientamento (eccessivamente) evolutivo, favorevole al superamento del principio di tipicità degli atti impugnabili Se l’attenzione dimostrata dalla Cassazione nei confronti del principio del giusto processo è senz’altro lodevole e «si colloca nel più ampio disegno di rendere paritario in sede processuale un rapporto nato diseguale in sede sostanziale» (così M. Cicala) e se del pari è apprezzabile la sensibilità dimostrata dal giudice di legittimità verso un’interpretazione comunitariamente orientata della normativa nazionale (ampi riferimenti in M. Scuffi), notevoli perplessità ha invece suscitato l’atteggiamento troppo condiscendente nei confronti del legislatore, quando esso ha cercato di “forzare” il principio della unitarietà della giurisdizione speciale, disancorando dalla natura tributaria del rapporto l’attribuzione della materia riservata alle Commissioni. Particolarmente apprezzabile si è rivelato pertanto il recente duplice intervento della Consulta (sent. n. 64 e 130 del 2008), la quale ha segnato un decisivo restraint alle «ardite estensioni» (C. Glendi) della giurisdizione tributaria: prodotto di una normativa che aveva finito per snaturare l’oggetto stesso della sua attribuzione. Senza potere indugiare su tale tematica (oggetto di un’altra relazione), debbo però osservare – per la rilevanza che ne consegue sul piano del procedimento – che non poche perplessità ha generato la più recente tendenza delle sezioni unite della Cassazione a enfatizzare più del dovuto il principio della sopravvenuta unitarietà della giurisdizione tributaria, traducendo la generalità orizzontale dell’attribuzione al giudice speciale in generalità anche verticale, riferita ad ogni tipologia di lite, comunque relativa alla materia tributaria e pervenendo così al risultato di considerare superato il principio di tipicità, inteso come predeterminazione normativa degli atti autonomamente impugnabili.


05 saggio Tabet.qxd

696

7-04-2009

12:56

Pagina 696

GiustiziaTributaria

4 2008

Questa conclusione risulta infatti notevolmente dirompente sul piano sistematico, stante la ben nota posizione di centralità che gli atti impositivi occupano nell’ambito di una giurisdizione di annullamento, quale quella tributaria, e le ulteriori implicazioni teoriche e pratiche che ne derivano in ordine alla identificazione delle situazioni giuridiche tutelate nel processo, del tipo di azioni esperibili e dei poteri decisori del giudice. In breve, può osservarsi che la fine del principio di tipicità comporterebbe non solo lo spalancarsi delle porte di accesso alla giurisdizione, ma anche la trasformazione del tipo di tutela che questa fornisce. Per vero, al tendenziale superamento del principio di tipicità, le sezioni unite della Cassazione sono pervenute sulla base di due ordini di argomenti strettamente connessi, ma pur sempre distinti: - la novella del 2001 ha trasformato quella tributaria in una giurisdizione generale nell’ambito suo proprio e questa trasformazione comporta anche una modifica al sistema chiuso dell’art. 19, comma 1, del D.Lgs. n. 5467/1992, in quanto ogni tipo di controversia in siffatta materia è ora azionabile davanti al giudice speciale, quando l’amministrazione manifesti la convinzione che il rapporto tributario deve essere regolato in termini che il contribuente intende contestare (sez. un., n. 16776/2005); - la stretta tipicità degli atti impugnabili è stata costruita sulla base delle caratteristiche dei singoli atti attraverso i quali poteva manifestarsi la pretesa del fisco o del contribuente con riferimento ai soli tributi all’epoca giudicabili dal giudice tributario; detta tipicità va pertanto adeguata al nuovo assetto della giurisdizione tributaria, in riferimento alla varietà dei nuovi tributi e all’evoluzione dei diritti del contribuente, sempre però nell’alveo di rapporti concreti (sez. un., n. 20318/2006). Se le due massime, ispirate al canone dell’interpretazione evolutiva, possono essere in linea di principio condivise, notevoli perplessità ha però suscitato l’ampia applicazione che ne è stata fatta, non tanto per il riconoscimento della natura fiscale di talune controverse figure di prestazioni imposte, quanto per l’indicazione del regime giuridico dell’atto attraverso il quale si manifesta la pubblica pretesa; e ciò con specifico riguardo ai casi in cui l’atto stesso non sia assimilabile, per funzione o per effetti, alla tipologia di quelli normativamente predeterminati. La questione si è posta, dapprima, per gli atti di natura discrezionale, espressione del potere di autotutela tributaria e, successivamente, per gli atti di natura paritetica e per quelli di natura preparatoria; da molte pronunce essendosi indistin-

tamente argomentato, con riferimento ad ogni tipo di atto, che la rimozione dei limiti esterni alla giurisdizione speciale avrebbe comportato la rimozione anche di quelli interni. Senonché, se la portata della clausola generale con la quale si è radicata la speciale giurisdizione per materia può autorizzare – come già si è detto – la conclusione della sua generalità ed esclusività; se quindi può riconoscersi che la tutela di interessi legittimi correlati ad un atto discrezionale, quale quello di autotutela, sia è stata, in certi limitati casi, attribuita alla giurisdizione tributaria, divenuta ormai, ratione materiae, unica ed autonoma in ambito ordinamentale, «indipendentemente dal tipo di atto impugnato» (sez. un., n. 7388/2007) non meno condivisibile era però la prudenza che la Suprema Corte aveva inizialmente manifestato nel sottolineare che il radicamento della giurisdizione non risolveva il problema della ammissibilità del ricorso avverso il diniego di autotutela, dovendo la relativa questione essere risolta alla stregua del principio di tipicità, seppure in una visione allargata o, più esattamente, «sistematicamente interpretato in modo compatibile alla piena espansione della competenza giurisdizionale» (M. Basilavecchia). Applicata, come è stata, dalla successiva giurisprudenza di legittimità anche nei confronti degli atti paritetici e di quelli endoprocedimentali, questa apertura ha però compromesso la coerenza del disegno teorico sulla cui base è edificato il sistema del processo tributario; e ciò in quanto. il riconoscimento della impugnabilità di tali atti che, per funzione ed effetti non hanno natura provvedimentale, presuppone in effetti una radicale trasformazione del tipo di azione e di tutela esperibili in quel giudizio, il quale viene così a configurarsi come di accertamento positivo o negativo della pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria. Esattamente si è, infatti, osservato (E. Sepe) che costituisce un’autentica forzatura attribuire alla fattura natura di atto amministrativo per rimanere fedeli all’assunto che la via della giurisdizione è condizionata dalla pretesa espressa attraverso un atto autoritativo i cui effetti devono essere rimossi. Più semplice e logico, è infatti rimuovere la premessa secondo cui l’interesse all’azione è canonizzato della lesione prodotta da predeterminati atti di natura provvedimentale e pervenire in tal modo alla conclusione che la giurisdizione speciale si è trasformata, da giurisdizione di (solo) annullamento, a giurisdizione di accertamento di tutti i conflitti relativi al rapporto d’imposta. E ugualmente forzata, in quanto non adeguata-


05 saggio Tabet.qxd

7-04-2009

12:56

Pagina 697

Giuliano Tabet 4 2008 697

mente argomentata, ma soltanto condizionata dallo stesso programma – volto a ricomprendere nella generalità verticale della giurisdizione tutti i conflitti, anche solo potenziali – si connota la recente svolta delle sezioni unite (16293 e 16428/2007) le quali hanno qualificato le comunicazioni (alias “inviti bonari”) – che possono precedere la notifica della cartella nella nuova forma di riscossione spontanea mediante ruolo – come avvisi di accertamento o di liquidazione, al fine precipuo di predicarne l’immediata giustiziabilità; senza per altro ancora mettere in discussione la collocazione sequenziale dell’atto generatore della lite negli ambiti disegnati dall’art. 19. Analizzando tale modulo sembra allora chiaro che la comunicazione assolve soltanto la funzione di dare un’informale notizia dell’avvenuta iscrizione a ruolo, senza che si producano gli effetti propri della notifica della cartella e ciò al preciso scopo di stimolare l’adempimento spontaneo, qualora le somme richieste siano esatte ovvero, in caso di emissione di cartella errata, la sua correzione in sede di autotutela , evitando un inutile contenzioso. Se ci si colloca su questo terreno e si utilizza una logica funzionale, non pare che gli inviti bonari di cui trattasi divergano poi troppo dalle comunicazioni di irregolarità previste a seguito dei controlli cartolari della dichiarazione ex artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600/1972 e 54-bis del D.P.R. n. 633/1972. Trattasi, infatti, di misure introdotte che, pur con differenti sequenze, assolvono la comune funzione di “raffreddare” la funzione di prelievo nei casi in cui essa sfocia necessariamente nelle iscrizione a ruolo, senza che la pretesa impositiva sia prima formalizzata in un autonomo atto a rilevanza esterna. Più precisamente, questi atti mirano ad introdurre una fase di contraddittorio anticipato in ambito endoprocedimentale rispetto alla iscrizione a ruolo o alla notifica della cartella, come momento di mediazione tra le esigenze di tutela del contribuente e di speditezza della fase di accertamento quando questa è direttamente inglobata nel primo atto della riscossione. Come esattamente è stato osservato (R. Schiavolin), essi anticipano i contenuti, ma non gli effetti degli atti impugnabili, che sono – in questo caso – solo quelli esattivi: essi sono cioè concepiti per rallentare e non già per anticipare l’accesso alla giurisdizione. E se è vero che l’esigenza di anticipare il contraddittorio si avverte maggiormente nelle comunicazioni ex artt. 36-bis e 36-ter rispetto agli avvisi bonari che possono precedere la notifica della cartella, perché solo le prime, correggendo un preventivo adempimento del contribuente (come ora im-

pone l’art. 6, comma 5, dello Statuto del contribuente), operano nell’ambito di un conflitto già potenzialmente in atto; non per questo sembrerebbe fondato concludere che i secondi servono solo a raffreddare il ruolo, ma non anche ad attivare il contraddittorio, argomentando che di questa mediazione non vi sarebbe bisogno, dal momento che si riscuote comunque solo sulla base del dichiarato. Anche nella riscossione spontanea mediante ruolo, infatti, l’esigenza del contraddittorio preventivo è ben presente e dipende dalla circostanza che tale modulo prevede che la liquidazione dell’imposta sia sempre inglobata nell’iscrizione a ruolo, senza che il contribuente abbia avuto alcuna parte attiva. Così evidenziata funzione, meglio si colorano allora i motivi per cui l’impugnazione di questi tipi di avvisi deve considerarsi inammissibile: da un lato, è certamente vero che la pretesa che essi esprimono non si veste ancora di forme autoritative e non è quindi suscettibile di produrre effetti preclusivi in caso di inerzia del contribuente; dall’altro, è pur vero che l’impugnazione immediata contraddirebbe l’intima ratio deflazionistica che li sorregge: che è quella di cercare di risolvere fuori del processo potenziali conflitti che siano originati soltanto da un deficit di collaborazione tra le parti del rapporto tributario. In definitiva, non si vedono le ragioni teoriche e pratiche di predicarne la giustiziabilità, salvo postulare aprioristicamente che l’esercizio del potere di riscossione debba necessariamente e costantemente essere preceduto da uno specifico atto della funzione di accertamento che sia autonomamente impugnabile (tesi già respinta da Corte cost. 430/1988, con riferimento alle iscrizioni a ruolo ex art. 36-bis). 6. Critica alla teoria dell’impugnazione facoltativa degli atti atipici Va tuttavia dato atto che una recente pronuncia della Cassazione (21045/2007) ha avvertito l’esigenza di chiudere il cerchio sotto il profilo teorico e, ispirandosi ad alcune minoritarie posizioni dottrinarie (R. Lupi), ha precisato che il ricorso avverso l’atto atipico non costituisce un onere, ma una mera facoltà; ciò in quanto l’allargata tutela non deve tradursi in un danno per il contribuente, al quale l’amministrazione possa opporre la cristallizzazione della sua pretesa in caso di mancata impugnazione. Conseguentemente, l’omissione non costituisce un fatto preclusivo della successiva impugnazione dell’atto tipico, all’interno del quale deve essere successivamente reiterata la medesima pretesa.


05 saggio Tabet.qxd

698

7-04-2009

12:56

Pagina 698

GiustiziaTributaria

4 2008

È ben evidente che i motivi di attenzione nei confronti di questo successivo passaggio sono molti. In termini generali, non può negarsi che per questa via vengono espressamente introdotte, nelle trame dell’attività impositiva, delle vere e proprie azioni preventive a contenuto negativo; azioni che la Cassazione ha da sempre e fondatamente giudicate estranee al tipo di processo scaturito dalla riforma del 1972. Infatti, anche aderendo alla tesi della natura soltanto formalmente impugnatoria del meccanismo di tutela introdotto ed anche a volere superare il «rigido teorema»(R. Lupi) tra l’impugnabilità dell’atto e la sua attitudine a consolidarsi se non impugnato, resta però incontestabile che il sistema di diritto positivo è un sistema chiuso, decisamente orientato nel senso di concentrare la tutela sugli atti finali, espressivi di una pretesa compiuta e giuridicamente efficace, mentre tale connotazione non può riconoscersi ad atti che anticipano solo i contenuti, ma non gli effetti di atti autonomamente impugnabili. Vero è che da autorevole dottrina (E. Capaccioli, P. Russo, V. Caianiello ) si è sostenuto che l’azione di mero accertamento non può essere legittimamente negata in materia di diritti soggettivi e che, anzi, la sottrazione al giudice naturale della giurisdizione per la loro tutela e lo spostamento al giudice speciale non tollera in termini costituzionali una limitazione dei mezzi di tutela e delle garanzie che avrebbero potuto essere fatte valere davanti al primo giudice. È però pur vero che alla introduzione di questa forma di tutela nell’ambito della funzione impositiva si oppone il suggestivo rilievo (E. Allorio) che prima dell’imposizione non vi sarebbero rapporti giuridici da accertare, ma solo una potestà di imposizione che non può essere oggetto di accertamento preventivo. Né può essere ignorato che la stessa Corte costituzionale assume direttamente gli elementi strutturali del processo amministrativo a fondamento delle proprie valutazioni di costituzionalità sulla disciplina del processo tributario (v. la fine analisi condotta da M. Basilavecchia). Non è tuttavia necessario prendere partito sulla dibattuta questione circa la natura dell’interesse sostanziale del contribuente al bene della vita che viene leso dall’ atto di imposizione illegittimo; e, di riflesso, sulle situazioni soggettive tutelate nel processo tributario, per avvalorare la conclusione che un doppio regime impugnatorio per gli atti intermedi si profila intrinsecamente contraddittorio, vuoi perché la previsione espressa di tutela differita vale ad escludere quella immediata, sia pure facoltativa; vuoi perché anche una richiesta di tutela preventiva davanti al a.g.o. contro un atto insu-

scettibile di produrre effetti concretamente pregiudizievoli per il suo destinatario è considerata, sempre dalla Cassazione (sez. un., n. 2400/2007) improponibile per carenza di interesse ad agire. Né, in senso contrario, è producente invocare il regime degli atti impugnabili e non notificati, perché anche in questo caso il principio regolatore è quello dell’impugnazione differita e non dell’impugnazione facoltativa; opzionale – in questo caso – è solo la scelta tra l’impugnazione dell’atto consequenziale per vizio procedimentale derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, ovvero l’impugnazione congiunta anche di quest’ultima per vizi di merito (sez. un., n. 16421/2007). Non sembra dunque che colga nel segno la tesi che riconosce al contribuente un interesse all’azione anche prima che la pretesa tributaria si esprima attraverso un atto autoritativo; ciò equivale infatti a negare che il legislatore del processo tributario abbia canonizzato l’interesse al ricorso puntualizzandolo in atti tipici, senza lasciare all’interprete il compito di scrutinare quando l’interesse alla tutela sia attuale e quando no (C. Glendi). Per giungere a siffatta conclusione si dovrebbe in effetti concludere che il diritto vivente si stia progressivamente orientando in senso conforme al primitivo schema di riforma del processo: quello cioè ha preceduto il decreto delegato del 1972, ove l’azione generale di accertamento coesisteva con l’azione di impugnazione, sottoposta a termine decadenziale, nei confronti di atti nominati, considerati tuttavia non tassativi, ma esemplificativi. È questa tuttavia una conclusione estrema alla quale la giurisprudenza non è ancora pervenuta e alla quale è lecito dubitare che difficilmente potrà pervenire, non solo per gli ostacoli insuperabili rappresentatati dai limiti interni alla giurisdizione posti dal diritto positivo, ma soprattutto per l’intima filosofia che ha ispirato il processo tributario, concepito come processo semplificato e di massa, ove le occasioni di tutela non sono rimesse alla valutazione dell’attualità dell’interesse concreto al ricorso, ma sono ancorate alla predeterminazione normativa degli atti considerati oggettivamente lesivi della situazione soggettiva del contribuente. Ciò non significa, peraltro, che debbano considerarsi ormai chiusi gli spazi di completamento delle forme di tutela nel nostro processo. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alle azioni cautelari ancora così imperfette ( si veda in proposito la recente ordinanza della Corte cost. n. 316 del 2008 cit.); a quelle d’istruzione preventiva e a quelle risarcitorie consequenziali. Non sembra però realistico ipotizzare che a decretare la fine del principio di tipicità si possa ef-


05 saggio Tabet.qxd

7-04-2009

12:56

Pagina 699

Giuliano Tabet 4 2008 699

fettivamente arrivare per via interpretativa, perché questo significherebbe introdurre un nuovo modello di processo ed un nuovo tipo di giurisdizione. Meglio sarebbe allora investire la Corte costituzionale, prospettando una possibile violazione dell’art. 24 Cost. da parte della norma che prevede la tutela differita, onerandosi però della (ardua) dimostrazione che nel caso delle comunicazioni ed avvisi bonari tutela differita equivale a mancanza di tutela. 7. Spunti conclusivi In conclusione, il lungo iter evolutivo del processo tributario, sempre seguito con particolare attenzione critica e lungimiranza dal nostro mae-

stro, è ben lungi da potersi considerare concluso. È stata superata (e con fatica) la questione pregiudiziale della legittimità della revisione, ma la giurisdizione è tuttora alla ricerca della propria identità, vuoi sotto il profilo della giustificazione razionale della sua specialità, vuoi per la indeterminatezza della nozione di controversia tributaria che delimita il suo oggetto. Parimenti, il giudice è ancora ben lontano dall’avere conseguito la propria professionalità, mentre il procedimento, in assenza di radicali e coraggiose riforme legislative, sta cercando di guadagnare lentamente la soglia del giusto processo, sotto l’impulso della dottrina e giurisprudenza di legittimità, nel solco tracciato da Gian Antonio Micheli.


06 Accertamento.qxd

700

7-04-2009

12:57

Pagina 700

GiustiziaTributaria

4 2008

ACCERTAMENTO 94

Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. XXIII, 19 febbraio 2008, n. 12 Presidente: Ruta - Relatore: Delia Accertamento - Verifiche fiscali delle Direzioni regionali delle Entrate - Illegittimità - Successivi avvisi di accertamento - Illegittimità (D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-sexies; D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 62; D.P.R. 26 marzo 2001, n. 107, art. 23) Le Direzioni regionali delle Entrate non hanno competenze operative in materia di verifiche fiscali e, pertanto, sono illegittimi i processi verbali di constatazione redatti dai loro funzionari, come sono illegittimi i consequenziali avvisi di accertamento. In data 31 luglio 2007, M.P., in qualità di rappresentante legale della società C. S.p.A., rappresentata e difesa dall’avv. C.C., presentava ricorso avverso l’avviso di accertamento n.[...], notificato l’8 marzo 2007, emesso dall’Agenzia delle Entrate ufficio di Bari 2, con il quale veniva rettificata la dichiarazione modello Unico 2004 per l’anno d’imposta 2003, presentata dalla società ricorrente ai fini Irpeg, Irap e Iva. In base a tale rettifica veniva determinata una maggiore imposta Irpeg di euro 7.720.119,00, una maggiore imposta Irap di euro 335.121,00 e una maggiore imposta Iva per euro 4.492,00; venivano di conseguenza irrogate sanzioni per euro 8.065.256,00 e interessi maturati alla data del 28 febbraio 2007, per euro 596.342,59. La rettifica traeva origine dalla lettura del processo verbale di constatazione del 15 aprile 2005, redatto dai funzionari della Direzione regionale della Puglia. Copia del ricorso veniva depositata, in data 7 agosto 2007, nella segreteria della Commissione tributaria provinciale di Bari. Prima della notifica dell’avviso di accertamento, la società ricorrente aveva depositato, in data 13 giugno 2005, ai sensi dell’art. 12, comma 7, legge 212/2000, presso l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2, osservazioni sul Pvc del 15 aprile 2005, tese a dimostrare l’infondatezza e l’illegittimità di gran parte dei rilievi svolti dai verificatori. Rilievi tutti riferibili al contratto di cessione del complesso aziendale X.X. e successive modifiche di esso nonché ai rapporti in essere con la controllata al 100% N.S. S.r.l., di cui la C. S.p.A. è socio unico.

In sintesi: a) vicende correlate alla mancata consegna del ramo d’azienda denominata V.S.C.; b) vicenda giuslavoristica. Di tutte le osservazioni, l’ufficio impositore non ne teneva conto ed emanava l’avviso di accertamento. Prima della produzione del presente ricorso, in data 3 aprile 2007, la società presentava istanza di accertamento con adesione, che non aveva buon esito. Con avviso di accertamento l’ufficio aveva recuperato a tassazione, ai fini Irpeg e Irap, 1) l’importo di euro 89.512,84, ai sensi dell’art. 55, comma 3, lett. a, D.P.R. n.917/1986 (sopravvenienza attiva) derivante da risarcimento danni per maggiori oneri sostenuti; 2) l’importo di euro 6.721.155,97, corrispondente all’indennità risarcitoria per ricavi non conseguirti, ai sensi dell’art. 55, comma 3, lett. a, del T.U.I.R. e dell’art. 75, comma 1, T.U.I.R., ciò perché il Collegio arbitrale aveva stabilito tale risarcimento in data 1 agosto 2003, quindi tale somma avrebbe dovuto concorrere alla formazione del reddito imponibile del 2003, come sopravvenienza attiva, e non doveva essere contabilizzato, come ha fatto la ricorrente società al 31 dicembre 2002, cioè come reddito del 2002; 3) l’importo di euro 18.932.534,27, corrispondente all’indennità risarcitoria per pretese avanzate nei suoi confronti, da dipendenti o ex dipendenti delle X.X. Tale importo veniva calcolato con una riduzione del debito residuo della C. S.p.A..(riduzione del prezzo di trasferimento). La società ricorrente contabilizzava tale importo con la svalutazione delle immobilizzazioni acquisite con il contratto di trasferimento; mentre l’ufficio precisava che l’arbitraggio del 18 luglio 2003, non aveva inteso rideterminare il valore dei cespiti e il relativo prezzo di cessione, ma aveva determinato i maggiori oneri che la C. S.p.A. aveva sostenuto o sosterrà; quindi recupero effettuato ai sensi dell’art. 55, comma 3, lett. a, del T.U.I.R. (sopravvenienza attiva). L’ufficio recuperava ancora a tassazione, ai fini Irpeg e Irap, per violazione degli artt. 67 e 75, comma 2, lett. b, del T.U.I.R., la somma di euro 60.000,00, relativa alla fattura n. 140 del 15 dicembre 2003, contabilizzata dalla società fra i co-


06 Accertamento.qxd

7-04-2009

12:57

Pagina 701

Accertamento 4 2008 701

sti di esercizio. Il recupero derivava dal fatto che la fattura riguardava l’acquisto di un nuovo impianto di condizionamento e la manutenzione dell’impianto esistente. Pertanto il nuovo impianto andava contabilizzato fra le immobilizzazioni materiali in quanto trattasi di un bene strumentale e poiché alla data del 31 dicembre 2003 non era ancora entrato in funzione, non poteva essere dedotta la quota di ammortamento nell’anno 2003. Recuperava ancora a tassazione l’importo di euro 35.138,63, corrispondente al costo del lavoro sostenuto per la dott.ssa D.E., in quanto non inerente l’attività d’impresa della C. S.p.A., ai sensi dell’art. 75, comma 5, del T.U.I.R. (la dott.ssa D. curava la gestione contabile e amministrativa di un magazzino, utilizzato come farmacia della società N.S. S.r.l.). Recuperava a tassazione le somme di euro 23.490,49 e di euro 647.862,00, irregolarmente portate in deduzione ai fini della determinazione del reddito d’impresa imponibile per l’anno 2003 (svalutazioni di partecipazioni della società N.S. S.r.l.). Ai sensi dell’art. 75, comma 1, del T.U.I.R., recuperava a tassazione, ai fini Irpeg, l’importo degli interessi passivi contabilizzati in euro 32.719,73 in quanto non risultava essere stato erogato il relativo mutuo. Va precisato che la C. S.p.A. aveva acquistato in data 7 marzo 2002 il controllo totalitario della società N.S. S.r.l. Infine recuperava a tassazione la sopravvenienza passiva di euro 191.964,75 in considerazione della concreta manifestazione e obiettiva determinazione nell’esercizio 2004 e non nell’esercizio 2003. La società ricorrente eccepiva: l) l’illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato per illegittimità dell’atto istruttorio (Pvc) da cui promana. Illegittimità del Pvc per illegittimità dell’accesso di cui all’autorizzazione del 25 febbraio 2005. Incompetenza della Direzione regionale della Puglia a effettuare accessi, ispezioni e verifiche. Non c’è nessuna disposizione di legge che giustifichi la verifica fiscale effettuata da funzionari della Direzione regionale della Puglia. Al contrario la legge dispone in modo chiaro e preciso che le ispezioni, gli accessi e verifiche sono affidate agli uffici periferici e solo in caso di inerzia di questi, può intervenire la Direzione regionale, che deve motivare le ragioni di tale intervento; 2) l’illegittimità del Pvc, per violazione di legge: a) omesso rapporto al P.M. per Direzione indagini; b) omessa autorizzazione del giudice per trasmissione dati all’ufficio finanziario. Conseguente nullità dell’accertamento tributario.

La verifica fiscale era iniziata il 28 febbraio 2005 ed era terminata il 15 aprile 2005. Durante la verifica, veniva contestato alla ricorrente violazioni di rilevanza penale. I verificatori invece di notiziare subito il Pubblico Ministero del reato fiscale, rinviavano tale comunicazione alla fine della stesura del Pvc. La ritardata iscrizione nel registro degli indagati comporta che il contribuente non può avvalersi delle prerogative difensive che il codice di procedura penale riserva ai soggetti indagati e ciò comporta la nullità del Pvc. L’art. 220 delle disposizioni di attuazione e coordinamento al codice di procedura penale, stabilisce che quando in una attività amministrativa emergono indizi di reato, tutti i successivi atti devono essere compiuti con l’osservanza delle disposizioni del c.p.p. Quindi, nel caso di specie, non è stato osservato il comma 1 dell’art. 347 c.p.p. (obbligo di riferire la notizia di reato) e il comma 2-bis dello stesso art. 347 (se sono stati compiuti atti per i quali è prevista l’assistenza del difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, la comunicazione della notizia di reato è trasmessa al più tardi entro quarantotto ore). È stato anche violato l’art. 349 del c.p.p., che prevede che i verificatori, una volta contestato il reato fiscale e data notizia di reato, devono procedere alla identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini. È stato anche violato il comma 2 dell’art. 50 del c.p.p. (l’azione penale è esercitata di ufficio). 3) Inutilizzabilità degli elementi probatori irritualmente acquisiti. L’illegittimità degli atti istruttori comporta l’illegittimità dell’avviso di rettifica. Vengono citate varie sentenze della Corte di Cassazione; 4) Nullità dell’accertamento per mancanza di motivazione, in violazione di legge. Poiché il Pvc è illegittimo e non avendo l’ufficio accertatore motivato le proprie richieste con ulteriori informazioni, legittimamente acquisite, (infatti l’accertamento è motivato per relationem al Pvc), l’atto impugnato risulta privo di motivazione per violazione dell’art. 7 legge 212/2000, dell’art. 42, D.P.R. 600/1973 e dell’art. 56 D.P.R. 633/1972; 5) Illegittimità dell’accertamento per difetto di competenza funzionale - violazione dell’art. 2697 c.c. (onere della prova). L’ufficio ha il dovere di svolgere un’autonoma valutazione critica del materiale istruttorio da porre a fondamento dell’accertamento. Nel caso di specie, ciò non è avvenuto in quanto la motivazione è per relationem e, di conseguenza, si ha il di-


06 Accertamento.qxd

702

7-04-2009

12:57

Pagina 702

GiustiziaTributaria

4 2008

fetto di competenza funzionale dell’atto accertativo de quo, che è stato emesso dall’ufficio delle Entrate di Bari 2 solo nella forma, mentre nella sostanza promossa da un organo al quale la legge non attribuisce alcun potere di rettifica delle dichiarazioni; 6) Illegittimità dell’attività istruttoria posta in essere dall’ufficio; conseguente nullità dell’avviso di accertamento. Ai sensi del comma 7 dell’art. 12 legge 212/2000, la società ricorrente aveva, con nota del 13 giugno 2005, formulato numerose osservazioni volte a dimostrare l’illegittimità del Pvc, unica base dell’accertamento. L’ufficio ha completamente ignorato le osservazioni presentate dalla società senza tuttavia fornire motivazione alcuna e violando, in tal modo, anche l’art. 3 della legge 241/1990. Violando l’art. 12, comma 7, legge 212/2000 e, con esso l’art. 3 delle L. 241/1990, l’ufficio ha violato il principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente; 7) Nullità dell’avviso di accertamento perché non sottoscritto in violazione dell’art. 42 del D.P.R. 600/1973. Poiché l’atto impugnato non risulta sottoscritto dal capo dell’ufficio, è da ritenersi nullo, anche perché manca la prova, da parte dell’amministrazione, dell’esistenza della delega al funzionario firmatario dell’atto e dell’appartenenza dello stesso alla carriera direttiva; 8) Illegittimità in diritto e nel merito dei rilievi n. 1.1, n. 1.2, n. 1.3.1, n. 1.3.2, n. 1.3.3, n. 1.3.4, n. 4, n. 4.1 e n. 4.2 di cui all’avviso di accertamento. La società ricorrente dimostra da un punto di vista contabile che i recuperi a tassazione fatti dall’ufficio delle Entrate di Bari 2, sono illegittimi. In data 1 ottobre 2007, la società ricorrente presentava istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato e in data 15 novembre 2007, a seguito di notifica della cartella di pagamento, contenente l’iscrizione provvisoria delle imposte accertate, nella misura del 50%, presentava nuove repliche per la richiesta di sospensione, concessa con ordinanza del 27 novembre 2007, con la quale veniva anche stabilito l’esame del merito della controversia all’udienza odierna. Prima dell’udienza di sospensione, in data 14 novembre 2007, si costituiva l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2, mediante l’ufficio del contenzioso della Direzione regionale della Puglia, depositando le proprie controdeduzioni, con le quali precisava: 1) che i funzionari dell’Agenzia delle Entrate, Direzione regionale della Puglia, erano nel pieno diritto di effettuare la verifica fiscale, ai sensi del

D.Lgs. 300/1999 e del regolamento dell’Agenzia delle Entrate; 2) circa la denunzia di reato, l’art. 347 c.p.p. riguarda la polizia giudiziaria, mentre per i pubblici ufficiali, caso di specie, trova applicazione l’art. 331 c.p.p., e la trasmissione della notizia di reato viene fatta al termine delle operazioni di verifica; 3) circa la carenza di motivazione (per relationem) essa è legittima in quanto l’ufficio ha condiviso le conclusioni del Pvc; 4) circa l’illegittimità dell’avviso di accertamento per violazione delle disposizioni contenute nell’art. 12, comma 7, dello Statuto dei diritti del contribuente, precisava che tale norma non contiene l’espressa previsione di nullità dell’avvio di accertamento se l’ufficio non risponde alle doglianze del contribuente; 5) circa la mancata sottoscrizione dell’atto impugnato, esso è stato, invece, sottoscritto dal direttore dell’ufficio, dott. A.M. e dal capo area controllo, responsabile del procedimento; 6) circa, infine l’esame del merito della controversia, l’ufficio ripete le motivazioni dell’avviso di accertamento. Pertanto chiedeva il rigetto del ricorso con vittoria delle spese processuali. In data 22 gennaio 2008, la società ricorrente depositava delle memorie illustrative, con le quali ribadiva le motivazioni del ricorso introduttivo e a sostegno delle proprie eccezioni precisava che la Dir. reg. aveva rigettato la stessa posizione assunta dall’ufficio delle Entrate di Bari 2, titolare del potere di accertamento, in relazione alla manifestata infondatezza ed illegittimità dei maggiori rilievi formulati dai verificatori della Dir. reg. Puglia. Infatti , in data 7 giugno 2007, la società ricorrente aveva presentato, ai sensi dell’art. 24 legge 241/1990, richiesta di accesso ai documenti e agli atti inerenti il procedimento che aveva portato all’emissione dell’atto accertativo. La richiesta veniva rigettata, ma a seguito sentenza del T.A.R. Puglia del 30 ottobre 2007, tale diniego veniva annullato. Dall’esame della documentazione richiesta all’ufficio impositore appariva del tutto evidente la ragione del diniego. Infatti dalla lettura della documentazione emergeva che l’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2, nell’esaminare l’atto istruttorio della Dir. reg. (Pvc), aveva affermato testualmente che «questo ufficio dopo aver analizzato e valutato il Pvc, nonché le osservazioni di parte, ritiene non tutte condivisibili le determinazioni dei verificatori e sottopone al parere di codesta Dir. reg. le motivazioni per le quali intende desistere da alcuni dei propri recuperi a tassazione».


06 Accertamento.qxd

7-04-2009

12:57

Pagina 703

Accertamento 4 2008 703

In particolare, fra i rilievi del Pvc che l’ufficio locale ha ritenuto non condivisibili, vi era anche quello quantitativamente più rilevante, relativo alla «sopravvenienza attiva per risarcimento a seguito del trasferimento del rischio giuslavoristico pari a euro 17.763.011,51». Inoltre l’ufficio impositore non condivideva anche il recupero a tassazione delle somme di euro 674.862,00 e di euro 23.490,00. L’ufficio locale, pertanto aveva integralmente condiviso quanto sostenuto dalla società ricorrente nei propri scritti difensivi. Con ciò ribadendo la correttezza dell’operato giuridico-contabile della società ricorrente e la conseguente illegittimità dei rilievi contenuti nel Pvc della Direzione regionale della Puglia posto a base dell’avviso di accertamento de quo. Inoltre dalla documentazione esaminata, a seguito di quanto predetto, l’ufficio di Bari 2, aveva chiesto il parere della Dir. reg. Puglia con il seguente oggetto: «Richiesta di parere per autotutela parziale in ordine ad alcuni rilievi contenuti nel Pvc, redatto nel 2005 da parte dei funzionari della Dir. reg. Puglia». Quindi, nel merito la rettifica operata dai verbalizzanti della Dir. reg. era stata ritenuta infondata dall’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2. Inoltre la ricorrente eccepiva l’inammissibilità della costituzione in giudizio della Direzione regionale Puglia perché mancante di delega da parte del direttore dell’ufficio locale. Tale richiesta di assistenza, inoltre deve essere data entro 15 giorni dalla notifica del ricorso. In data 28 gennaio 2008, la società ricorrente depositava istanza di discussione pubblica. In data 8 febbraio 2008, l’Agenzia delle Entrate, Direzione regionale Puglia, depositava delle memorie illustrative, con le quali precisava , in riferimento alla mancata delega del direttore dell’ufficio locale, da allegare agli atti di causa, che l’art. 11 del D.Lgs. 546/1992, al comma 2 prevede espressamente, che l’ufficio locale sta in giudizio direttamente o mediante l’ufficio del contenzioso della Direzione regionale. Circa l’altro motivo, inerente i rilievi posti dall’ufficio locale e la richiesta per autotutela, di accettare tali rilievi, precisava che la richiesta di autotutela rientra fra i poteri normativamente attribuiti alla Direzione regionale. Pertanto il parere dell’ufficio locale non può essere inteso quale impedimento a effettuare un’autonoma valutazione delle risultanze del Pvc. All’udienza del 19 febbraio 2008, erano presenti il difensore della società ricorrente, che si riportava al ricorso e insisteva per il suo accoglimento, e il rappresentante dell’ufficio di Bari 2, il quale preliminarmente chiedeva l’inammissibilità della

discussione della controversia in pubblica udienza in quanto l’istanza relativa era stata notificata all’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2 e non alla Direzione regionale, parte regolarmente costituita, e in subordine si riportava alle proprie controdeduzioni, chiedendo il rigetto del ricorso. Preliminarmente va esaminata l’eccezione sollevata dei funzionari della Direzione regionale delle Entrate della Puglia, difensori e rappresentanti dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2, circa l’irritualità della richiesta della discussione della controversia in udienza pubblica in quanto tale richiesta, prodotta dalla ricorrente, non era stata notificata alla Direzione regionale, parte regolarmente costituita. Il Collegio giudicante, dopo attento esame dell’eccezione preliminare sollevata in udienza, la rigetta in quanto, ai sensi dell’art. 10 D.Lgs. 546/1992, la parte costituita è l’ufficio delle Entrate di Bari 2, che, ai sensi dell’art. 11 dello stesso D.Lgs., invece di stare in giudizio direttamente, si è fatta rappresentare dall’ufficio del contenzioso della Direzione regionale. Pertanto, legittimamente l’istanza di discussione pubblica è stata notificata all’ufficio delle Entrate di Bari 2, il quale, essendo parte della stessa amministrazione finanziaria della Puglia, poteva trasmettere tale istanza all’ufficio del contenzioso della Direzione regionale. D’altronde, la presenza in udienza dei rappresentanti della Direzione regionale della Puglia sana tale eccezione preliminare. A questo punto, la Commissione, esaminati tutti gli atti della causa, accoglie il ricorso per il seguente motivo di diritto e di merito. Seguendo l’ordine logico delle censure mosse dalla società ricorrente, si ritiene di dover esaminare, in via preliminare, quella relativa all’illegittimità dell’avviso di accertamento per illegittimità dell’atto istruttorio (Pvc) da cui promana, redatto da organo incompetente (Direzione regionale della Puglia). Per valutare tale eccezione, vanno attentamente lette e interpretate le disposizioni di legge in materia, e precisamente il D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma del Governo e del Ministero delle Finanze), il regolamento di amministrazione e lo Statuto dell’Agenzia delle Entrate. Prima di esaminare le predette disposizioni di legge, va ricordato che la disposizione in base alla quale la Direzione regionale poteva eseguire verifiche per l’accertamento dei tributi e comunicare quindi i risultati agli uffici competenti per l’accertamento (art. 62-sexies, comma 2, del D.L. 30 agosto 1993, n. 331) è stata esplicitamente abrogata dall’art. 23 del D.P.R. 26 marzo 2001, n. 107, lett. p.


06 Accertamento.qxd

704

7-04-2009

12:57

Pagina 704

GiustiziaTributaria

4 2008

Tanto premesso, vengono esaminate le seguenti disposizioni: - l’art. 62, comma 1, del D.Lgs. n.300/1999, invocato dall’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bari 2, stabilisce testualmente che «all’Agenzia delle Entrate sono attribuite tutte le funzioni concernenti le entrate tributarie erariali che non sono assegnate alla competenza di altre agenzie, amministrazioni dello Stato[...], con il compito di perseguire il massimo livello di adempimento degli obblighi fiscali sia attraverso l’assistenza ai contribuenti, sia attraverso i controlli diretti a controllare gli inadempimenti e l’evasione fiscale». La lettura del predetto comma non consente, a parere di questo Collegio, di affermare che alle Direzioni regionali spetti il compito di effettuare ispezioni e verifiche, tanto è vero che il comma 3 dell’art. 62 stabilisce testualmente che «in fase di prima applicazione il Ministro delle Finanze stabilisce con decreto i servizi da trasferire alla competenza dell’agenzia»; - l’art. 2 del regolamento di amministrazione (struttura organizzativa) prevede testualmente al comma 2, che «l’Agenzia si articola in uffici centrali e regionali, con funzioni prevalenti di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo, e in uffici locali, con funzioni operative»; - l’art. 4, comma 3, del regolamento di amministrazione invocato dall’ufficio delle Entrate di Bari 2 a sostegno della propria tesi per cui i funzionari della Direzione regionale erano legittimamente investiti del potere di poter eseguire verifiche fiscali, prevede che la Dir. reg. svolge un’attività operativa sulla gestione dell’accertamento. È parere di questo Collegio giudicante che il contenuto di tale articolo va letto e interpretato anche in funzione degli altri articoli del regolamento (vedi il predetto art. 2) e il seguente art. 5; - l’art. 5, infatti, al comma 1, dispone testualmente che «le funzioni operative dell’Agenzia sono svolte da uffici locali di livello dirigenziale. Essi curano, in particolare, l’attività di informazione ed assistenza ai contribuenti, la gestione dei tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del contenzioso». A questo punto appare quanto mai opportuno chiarire che allorché si parla delle attribuzionipoteri-compiti degli Uffici i termini “funzioni” e “attività” non possono essere considerati sinonimi. La distinzione tra funzioni e attività, resa esplicitamente dalla norma in questione, secondo il parere di questo Collegio, non abbisogna di ulteriori interpretazioni: l’attività si svolge nell’ambito delle funzioni attribuite. Quindi il comma 3 dell’art 4 deve essere interpretato nel senso che le

attività operative che fanno capo alle Direzioni regionali nel campo dell’accertamento, della riscossione e del contenzioso vanno definite in relazione alle funzioni ad esse Direzioni previamente attribuite, che ne costituiscono la base e, al tempo stesso, i limiti. In altri termini, la Dir. reg. svolge, ai sensi del citato comma 3 dell’art. 4, un’attività operativa sulla gestione dell’accertamento e non la funzione che è propria degli uffici. Più semplicemente, basterà osservare che, tra le attività operative, è stata inserita la riscossione (l’inserimento è successivo alla emanazione del regolamento: vedi delibera del Comitato direttivo n. 167 del 18 febbraio 2004); ebbene, ciò non significa che le Dir. reg. possano sostituirsi agli agenti della riscossione nelle attività ai medesimi demandate. A sostegno di quanto suddetto, il Collegio giudicante pone l’attenzione alle disposizioni di cui all’art. 11 dello Statuto dell’Agenzia delle Entrate, che al comma 1, lett. c, prevede testualmente che «i dirigenti dell’Agenzia dirigono, controllano e coordinano l’attività degli uffici che da essi dipendono e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con poteri sostituitivi in caso di inerzia». Quindi è di tutta evidenza che la Direzione regionale avrebbe potuto intervenire, solo nel caso di inerzia dell’ufficio. Inerzia, che, nel caso di specie, non si è verificata in quanto il periodo di imposta 2003, poteva formare oggetto d’accertamento fino al 31 dicembre 2008. Di conseguenza non essendosi verificata inerzia da parte dell’ufficio in quanto l’accesso (la verifica fiscale) è stato disposto tre anni prima del 31 dicembre 2008 (il 15 aprile 2005), la verifica non poteva effettuarsi neanche ai sensi dell’art. 11 dello Statuto dell’Agenzia delle Entrate. Comunque, al di là della dimostrata inconsistenza delle eccezioni svolte dalla Dir. reg., va osservato che, malgrado il sopravvenuto D.P.R. n. 107/2001 (successivo sia alla istituzione delle agenzie, sia allo Statuto, sia al regolamento e sia al D.Lgs. n. 300/1999), il legislatore non ha inteso abrogare l’unica norma viviscente in materia (il comma 13 dell’art. 7 della L. 29 ottobre 1991, n. 358) che tuttora statuisce: «le attività di verifica e di ispezione nei confronti dei contribuenti sono attribuite all’esclusiva competenza degli uffici indicati nel comma 10 e dei reparti della Guardia di Finanza [...]». Infine va detto che gli uffici “indicati nel comma 10 dell’art. 7” altro non sono che gli ex uffici delle Entrate; e, dato che l’articolazione interna all’Agenzia delle Entrate in uffici centrali e periferici corrisponde a quella in cui era strutturato il


06 Accertamento.qxd

7-04-2009

12:57

Pagina 705

Accertamento 4 2008 705

soppresso Dipartimento delle Entrate, agli ex uffici delle Entrate corrispondono, a partire dal 1 gennaio 2001, i nuovi “uffici locali” dell’Agenzia delle Entrate. Ne è conferma il contenuto del comma 1 dell’art. 13 (principi generali di organizzazione e di funzionamento) dello Statuto dell’Agenzia delle Entrate, approvato con delibera del comitato direttivo n. 6 del 13 dicembre 2000. A sostegno di quanto sopra rilevato, il Collegio giudicante fa presente che è la stessa amministrazione centrale ad aver chiarito, con circolare n. 32/E del 19 ottobre del 2006, che gli organi legittimati a formulare richieste di informazioni, ad effettuare accessi e verifiche sono: - gli uffici centrali della Direzione centrale dell’Agenzia delle Entrate; - gli uffici locali dell’Agenzia delle Entrate; - la Guardia di Finanza; - le Commissioni tributarie. Nell’elenco non risulta compresa la Direzione regionale. Per quanto suddetto il Collegio giudicante accoglie la prima eccezione sollevata dalla società ricorrente, cioè quella relativa all’illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato per illegittimità dell’atto istruttorio (Pvc) da cui promana; atto istruttorio (Pvc) effettuato da organo incompetente. Avendo accolto la principale censura mossa dalla ricorrente, appare del tutto superfluo esaminare le altre, ma per completezza di indagine, il Collegio giudicante ritiene giusto esaminare le eccezioni di merito sollevate dalla ricorrente, cioè quelle inerenti le varie somme recuperate a tassazione. Rilievo 1.2: recupero di euro 6.721.155,97. L’ufficio impositore recupera l’importo di euro 6.721.155,97, corrispondente all’indennità risarcitoria per ricavi non conseguiti, ai sensi dell’art. 55 comma 3 lett. a del T.U.I.R. e dell’art. 75, comma 1, T.U.I.R., perché il Collegio arbitrale aveva stabilito tale risarcimento in data 1 agosto 2003. Pertanto, secondo l’ufficio, tale somma avrebbe dovuto concorrere alla formazione del reddito imponibile nell’anno 2003, come sopravvenienza attiva e non doveva essere contabilizzato al 31 dicembre 2002, cioè come reddito 2002. La ricorrente, invece eccepiva l’illegittimità di tale recupero per errata interpretazione degli artt. citati. Va premesso, prima di esaminare le eccezioni della ricorrente, che i rilievi svolti dai funzionari verificatori riguardano vicende intervenute successivamente alla stipula del contratto di compravendita del complesso aziendale X.X. (26 giugno 2000) e precisamente: a) vicende correlate alla mancata consegna del ra-

mo d’azienda denominata V.S.C.; interessate dai rilievi sub 1.1. e 1.2. b) vicenda giuslavoristica; interessata dal rilievo sub 1.3. Tornando ora al rilievo 1.2, il Collegio giudicante parte dal fatto che il Collegio arbitrale, nel lodo pronunciato il 1 agosto 2003, aveva quantificato in euro 6.721.155,97, il danno subito da C. S.p.A.,vuoi per danno emergente, che per mancato guadagno. L’ufficio impositore recuperava a tassazione la predetta somma in quanto la società ricorrente aveva violato il dispositivo dell’art. 55, comma 3, lett. a del T.U.I.R. e dell’art. 75, comma 1 T.U.I.R. Il dispositivo del comma 3, lett. a, art. 55 del T.U.I.R. prevede testualmente che «sono inoltre considerate sopravvenienze attive: a) le indennità conseguite a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, di danni diversi da quelli considerati alla lettera d del comma 1 dell’art. 53 e alla lettera b del comma 1 dell’art. 54». Tale norma, quindi prevede che sono da considerare sopravvenienze attive le indennità diverse da quelle di cui all’art 53, comma 1, lett. d (sono considerati ricavi le indennità conseguite a titolo di risarcimento anche in forma assicurativa, per la perdita o il danneggiamento dei beni indicato alla lett. a del comma 1 e cioè, tra gli altri, i corrispettivi delle prestazioni dei servizi e delle cessioni di beni). Nel caso di specie, la somma percepita di euro 6.721.155,97, corrispondeva ad una indennità risarcitoria per mancati ricavi non conseguiti, cioè mancati proventi inerenti la perdita di prestazioni di servizi di cui all’art. 53 comma 1 lett. d. Pertanto tale somma non poteva essere recuperata a tassazione e la società ricorrente, poiché tale perdita di fatturato (euro 6.721.155,97) si riferiva agli anni 2000/2001/2002, tenendo presente il principio di competenza che vige per le imprese, ha correttamente contabilizzato e suddiviso tale importo nei tre anni predetti. Anche l’art. 75, comma 1 del T.U.I.R., invocato dall’ufficio impositore, a parere di questo Collegio, appare inconsistente in quanto, esso art. 75, comma 1 recita «i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme del presente capo non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni». Tale comma, quindi stabilisce, ai fini della redazione del bilancio di esercizio, che «si deve tener


06 Accertamento.qxd

706

7-04-2009

12:57

Pagina 706

GiustiziaTributaria

4 2008

conto dei proventi e degli oneri competenza dell’esercizio stesso, indipendentemente dalla data dell’incasso e del pagamento»; e in tal modo ha operato la società ricorrente, che solo nel maggio 2002 (a seguito di sentenza del T.A.R. e del Consiglio di Stato e conseguentemente revoca definitiva della Regione Puglia) veniva irrimediabilmente e definitivamente meno il passaggio del ramo d’azienda (V.S.C.) e il mancato passaggio ha dato luogo alla determinazione dell’importo di euro 6.721.155,97, quale ristorno della perdita di fatturato (nelle annualità 2000, 2001 e 2002) inerente l’impossibilità di utilizzo di tale struttura, utilizzo contrattualmente previsto nel contratto di compravendita del 26.06.2000. Pertanto, per quanto suddetto il recupero a tassazione di euro 6.721.155,97 è infondato e illegittimo. Rilievo 1.1: recupero di euro 89.512,84. L’ufficio impositore recupera a tassazione l’importo di euro 89.512,84 ai sensi dell’art. 55, comma 3, lett. a, D.P.R. n. 917/1986 (sopravvenienza attiva) derivante da risarcimento danni per maggiori oneri sostenuti dalla C. S.p.A. Anche questo recupero è errato e quindi illegittimo per gli stessi motivi esposti per il rilievo n.1.2. Rilievo 1.3: recupero di euro 17.763.011,51. L’ufficio impositore recupera a tassazione l’importo di euro 17.763.011,51 ai sensi dell’art. 55, comma 3 lett. a del T.U.I.R. (sopravvenienza attiva). La società ricorrente eccepisce l’illegittimità di tale recupero in quanto infondato sotto il profilo dell’art. 55, comma 3, lett. a del T.U.I.R. Preliminarmente si rende opportuno riepilogare gli aspetti essenziali dell’intera vicenda al fine di puntualizzare i profili civilistici e fiscali. La società C. S.p.A. aveva acquistato il complesso aziendale (X.X.) in data 29 giugno 2000. In tale contratto, tra l’altro, veniva stabilito che la C. S.p.A. si impegnava ad assumere n. 981 dipendenti in forza alla X.X., la quale, prima della stipula del contratto, procedeva, in data 11 maggio 2006, al licenziamento collettivo di n. 1965 dipendenti. Dopo appena cinque giorni dalla stipula del contratto, il 4 luglio 2000, la X.X. revocava i licenziamenti dell’11 maggio 2000 e di tale revoca la C. S.p.A. non veniva in alcun modo informata. I dipendenti, i cui licenziamenti erano stati revocati, proponevano ricorso al giudice del lavoro, convenendo in giudizio la X.X. e la C. S.p.A. per sentire dichiarare l’illegittimità dei licenziamenti dell’11 maggio 2000. Il giudice del lavoro stabiliva il ripristino ex tunc del rapporto di lavoro con la X.X. e la responsabilità della C. S.p.A., in solido con la X.X., di tut-

ti i crediti che i lavoratori avevano al tempo del trasferimento. Pertanto la C. S.p.A. veniva condannata alla reintegrazione nel posto di lavoro dei dipendenti licenziati, nonché al risarcimento del danno mediante il versamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale dal giorno del licenziamento fino alla effettiva reintegrazione, nonché al versamento dei dovuti contributi. È del tutto evidente che questa vicenda (la condanna subita) ha stravolto i contenuti patrimoniali del complesso aziendale trasferito. In effetti, essendo stata la C. S.p.A. costretta ad accollarsi il “rischio giuslavoristico” che viceversa le parti avevano, nell’originaria formazione contrattuale, espressamente e inequivocamente escluso (rappresentando tale esclusione motivo determinante per la presentazione dell’offerta d’acquisto, per la quantificazione della stessa e la conclusione del contratto), con ciò mutando sostanzialmente uno degli elementi qualificanti del rapporto contrattuale, l’esborso complessivo affrontato dalla C. S.p.A. (per il trasferimento del complesso aziendale), non poteva non mutare. Ciò si sarebbe ottenuto con la riduzione del quantum da corrispondere alla X.X. e di conseguenza doveva essere rideterminato il patrimonio del complesso aziendale ceduto. Pertanto nasceva una forte conflittualità tra la C. S.p.A. e la X.X., conclusasi con una nomina di un arbitratore, che doveva, in coerenza con quanto disposto dall’art. 1349 c.c., determinare l’indennità risarcitoria per le pretese avanzate dagli ex dipendenti della X.X., in rapporto con il prezzo offerto da C. S.p.A. e con la correlata riduzione di prezzo cui la stessa C. S.p.A. aveva diritto in conseguenza delle predette vicende giuslavoristiche. Tanto premesso, è parere di questo Collegio che le determinazioni assunte dall’arbitratore non rappresentano, come sostiene l’ufficio impositore, un’autonoma e distinta obbligazione rispetto a quelle principali derivanti dal contratto di compravendita d’azienda, ma sono un tutt’uno con esso. Di conseguenza, doveva essere rideterminato il prezzo equo che la C. S.p.A. avrebbe offerto al 29 giugno 2000 se fosse stata portata a conoscenza delle iniziative adottate dalla X.X. (revoca licenziamenti e rischi correlati). Quindi le somme determinate dall’arbitratore, ammontanti complessivamente ad euro 17.763.011,51 (corrispondente all’indennità risarcitoria per pretese avanzate nei confronti della C. S.p.A. da dipendenti o ex dipendenti della X.X.), sono state portate in riduzione del debito residuo della C. S.p.A. (riduzione del prezzo di trasferimento). Ciò ha com-


06 Accertamento.qxd

7-04-2009

12:57

Pagina 707

Accertamento 4 2008 707

portato, di conseguenza, ad una modifica del contenuto patrimoniale del complesso aziendale trasferito un minor valore di carico dell’attività patrimoniali) e la società ricorrente, legittimamente, ha contabilizzato tale importo (euro 17.763.011,51) in parte con la svalutazione delle immobilizzazioni acquisite con il contratto di trasferimento ed in parte con l’iscrizione di un fondo per rischi ed oneri futuri. Pertanto, tale somma non poteva essere recuperata a tassazione, come sopravvenienza attiva ai sensi dell’art. 55, comma 3, lett. a del T.U.I.R. in quanto la lett. a del comma 3, si preoccupa di attrarre alla base imponibile soltanto le indennità conseguite a titolo «di risarcimento danni diversi da quelli subiti per la perdita di corrispettivi e riferiti ai beni di cui all’art. 53 e per la perdita di beni di cui all’art. 54», mentre, nel caso di specie, si è di fronte ad una vera permutazione patrimoniale, cioè a variazioni permutative nella composizione del patrimonio di C. S.p.A., senza immediate conseguenze a livello di conto economico, e quindi senza rilevanza ai fini fiscali, della determinazione del reddito d’impresa. Infine, il Collegio fa presente, dovendo seguire la tesi dell’ufficio impositore, che solo nel 2004, le parti decidono di ottemperare alla decisione dell’arbitratore; pertanto, l’ufficio avrebbe dovuto rinviare all’anno 2004 e non all’anno 2003, il recupero a tassazione della pretesa sopravvenienza attiva di euro 17.763.011,51 in quanto è in tale esercizio che la decisione dell’arbitratore assumerebbe carattere di definitività e certezza. Per tutto quanto suddetto, il recupero a tassazione della somma di euro 17.763.011,51, è illegittimo e di conseguenza l’eccezione della società ricorrente, in merito a tale recupero, va accolta. Rilievo n. 4.1 e 4.2: recupero di euro 23.490,49 e di euro 647.862,00. L’ufficio impositore recupera a tassazione gli importi di euro 23.490,49 e di euro 647.862,00 in quanto irregolarmente portate in deduzione ai fini della determinazione del reddito d’impresa per l’anno 2003, ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 61, comma 3, lett. b del T.U.I.R.. La società ricorrente, invece, eccepiva l’errata interpretazione, da parte dell’ufficio impositore delle disposizioni di cui all’art. 61, comma 3, lett. b del D.P.R. 917/1986. Questi rilievi riguardano la svalutazione della partecipazione in N.S. S.r.l., pertanto si rende opportuno descrivere il quadro storico della ricorrente riguardante la partecipazione in N.S. S.r.l.. In data 7 marzo 2002, la società C. S.p.A. rilevava il 100% delle quote sociali della S.r.l. N.S. per

il prezzo di euro 6.215.659,00, che veniva rilevato nelle scritture contabili di C. S.p.A. tra le immobilizzazioni finanziarie. Per effetto di tale acquisto la C. S.p.A. assumeva lo status di unico socio di tale società. Il bilancio al 31 dicembre 2001 della N.S. S.r.l., anteriore alla data della cessione in favore di C. S.p.A., evidenziava un deficit patrimoniale di euro 1.531.195,00 e nel corso dell’esercizio 2002, la società controllata subiva ulteriori perdite, una al 31 maggio 2002, pari ad euro 462.173,69 e un’altra al 31 dicembre 2002, pari ad euro 3.374.310,00. Pertanto la perdita complessiva della società N.S., nell’esercizio 2002, ammontava ad euro 3.836.483,69. Con la perdita accertata al 31 maggio 2002 (euro 462.173,69), il patrimonio netto di segno negativo risultava essere pari ad euro 1.993.368,53 dato dal deficit patrimoniale al 31 dicembre 2001 (euro 1.531.195,00) e dalla perdita al 31 maggio 2002 (euro 462.173,69). In data 13 giugno 2002, a seguito della perdita dell’intero capitale sociale, l’assemblea dei soci della S.r.l.. N.S. (rappresentata dal socio unico C. S.p.A.) deliberava: - l’azzeramento del capitale sociale di euro 10.329,00; - la copertura delle perdite accertate per euro1.933.368,00; - ricostituzione del capitale sociale per un ammontare pari ad euro 500.000,00. A seguito di queste operazioni, la C. S.p.A. iscriveva, nelle proprie scritture contabili, ad incremento della partecipazione, l’importo di euro 500.000,00. Pertanto il costo delle partecipazioni in N.S. diventava di euro 6.715.659,00 (euro 6.215.658,70 + euro 500.000,00). Il bilancio al 31 dicembre 2002 della S.r.l.. N.S., approvato il 24 luglio 2003, evidenziava una ulteriore perdita di complessivi euro 3.374.310,00, che determinava nelle scritture contabili della C. S.p.A. una svalutazione di partecipazione per complessivi euro 5.367.678,53. La C. S.p.A., per quanto concerne la deduzione della predetta svalutazione delle partecipazioni, pari ad euro 5.367.678,53, si atteneva alle disposizioni di cui all’art. 61, comma 3, lett. b del D.P.R. 917/1986 nonché alle disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lett. b del D.L. 209/2002, convertito nella legge n. 265/2002, che prevedono, le prime, di ridurre il valore delle partecipazioni non negoziate nei mercati regolamentati in misura proporzionalmente corrispondente alle diminuzioni patri-


06 Accertamento.qxd

708

7-04-2009

12:57

Pagina 708

GiustiziaTributaria

4 2008

moniali risultanti dal confronto fra l’ultimo bilancio regolarmente approvato dalle partecipate anteriormente alla data di acquisto delle stesse e l’ultimo bilancio o, se successive, le deliberazioni di riduzione del capitale per perdite, le seconde, che la svalutazione delle partecipazioni è deducibile in quote costanti nell’esercizio in cui è stata iscritta e nei quattro successivi. Infatti la società C. S.p.A. ha determinato la svalutazione fiscalmente deducibile, operando il confronto tra l’ultimo bilancio approvato (bilancio al 31 dicembre 2002) e il bilancio ante acquisto della partecipazione (bilancio al 31 dicembre 2001). Da un attento esame degli atti processuali, il Collegio giudicante ritiene che l’operato della società ricorrente è stato legittimamente corretto, mentre l’ufficio impositore ha male interpretato le disposizioni di cui all’art. 61, comma 3, lett. b del previgente T.U.I.R. Prima di illustrare il perché l’ufficio ha male interpretato la predetta norma, il Collegio fa presente, che nel prospetto all. sub 24 al Pvc, sono accolti i conteggi svolti da C. S.p.A. e che hanno condotto a quantificare in euro 5.367.678,53 la svalutazione complessivamente ammessa in deduzione, da rateizzare in 5 esercizi , giusta quanto contemplato dal citato D.L. 209/2002, con rate costanti dell’importo di euro 1.073.536,00. Torniamo, ora, al rilievo n. 4.1, esso riguarda l’operazione del 13 giugno 2002, inerente la copertura delle perdite complessivamente accertate in capo alla società partecipata. Operazione che ha generato una svalutazione della partecipazione pari a complessivi euro 1.993.368,53. L’ufficio impositore ha ritenuto invece che, fiscalmente, tale svalutazione sia deducibile in misura pari ad euro 1.875.916,07, in quanto, ai seni dell’art. 61, comma 3, lett. b del D.P.R. 917/1986, ha tenuto presente, come confronto, l’ultimo bilancio (al 31 dicembre 2001) approvato dalla S.r.l.., ante acquisto della partecipazione da parte di C. S.p.A. e la situazione patrimoniale al 31 maggio 2002, redatta per la delibera della copertura perdite. Così operando emergeva una percentuale di degrado pari al 30,18% da cui discendeva la quantificazione dell’importo deducibile per come operata dai verificatori. Ma è del tutto evidente l’errore commesso dai verificatori e quindi dall’ufficio impositore, in quanto, da una attenta lettura dell’art. 61, comma 3, lett. b, D.P.R. 917/1986, il secondo termine di confronto deve essere rappresentato solo ed esclusivamente dall’ultimo bilancio approvato della partecipata al 31 dicembre 2002). La ridetta situazione patrimoniale al 31 maggio 2002 non può essere in alcun modo considerata

un bilancio, tanto che essa non contiene il conto economico e non è stata approvata dalla assemblea dei soci; mentre la società ricorrente, legittimamente ha calcolato la percentuale di degrado, determinata in base al confronto tra il bilancio della partecipata al 31 dicembre 2001 (ante acquisizione) e quello al 31 dicembre 2002 (ultimo bilancio approvato). Circa il rilievo n. 4.2, esso è riferito alla ulteriore svalutazione della partecipazione, pari ad euro 3.374.310,00, conseguente all’ulteriore perdita accertata nel bilancio della S.r.l.. N.S. al 31 dicembre 2002. L’ufficio recupera a tassazione la quota della svalutazione di euro 3.374.310,00 (quindi euro 674.867,00 pari a 1/5 portato tra le variazioni in diminuzione del modello Unico) sostenendo che la società non avrebbe contabilizzato una riduzione di valore della partecipazione che risultava iscritta in bilancio per l’importo di euro 6.715.659,00. Ciò non corrisponde al vero in quanto detto importo risulta rettificato con l’iscrizione in un apposito fondo nel passivo dello stato patrimoniale. L’ufficio impositore per giustificare il recupero a tassazione sostiene che: «sotto il profilo fiscale per effetto dell’articolo 75, comma 4, del T.U.I.R., la svalutazione, ai fini della deducibilità avrebbe dovuto essere imputata al conto economico e contestualmente portata a riduzione del valore patrimoniale del cespite, operando pertanto una rettifica di valore effettuata esclusivamente in applicazione di norme tributarie». La ritenuta previsione normativa della contestuale riduzione del valore patrimoniale del cespite non è prevista dall’art.75, comma 4, del previgente T.U.I.R. Infatti tale comma 4 dispone testualmente che: - i componenti negativi di reddito sono deducibili se sono imputati al conto economico dell’esercizio di competenza; - sono deducibili, anche se non imputati al conto economico, i componenti negativi deducibili per disposizione di legge e quelli imputati al conto economico di fin esercizio precedente, e la deduzione è stata rinviata in conformità alle norme che dispongono consentono il rinvio; - sono deducibili i componenti negativi che risultano da elementi certi e precisi, anche se non imputati al conto economico. Nessuna disposizione prevede, dunque, la contestuale riduzione del valore patrimoniale del cespite. Nel caso di specie, invece, sono presenti tutte le condizioni previste dalla citata norma ai fini della deducibilità della svalutazione. Infatti:


06 Accertamento.qxd

7-04-2009

12:57

Pagina 709

Accertamento 4 2008 709

- la svalutazione è stata imputata al conto economico dell’esercizio di competenza (esercizio 2002) ed è stata dedotta in quote ai sensi del D.L. 209/2002, art. 1, comma 1, lett. b; - la svalutazione è deducibile per espressa previsione di legge (art. 61 del T.U.I.R.); - la svalutazione risulta da elementi certi e precisi. Per quanto suddetto, anche l’eccezione della ricorrente sull’errato recupero a tassazione, da parte dell’ufficio, della quota di svalutazione, pari ad euro 674.867,00 merita accoglimento. Rilievo n. 5: recupero interessi passivi per euro 32.719,73. L’ufficio recupera tale importo di euro 32.719,73 a tassazione, perché si riferiva ad un’operazione di finanziamento simulato con la partecipata N.S. S.r.l. Questa affermazione circa la simulazione dell’operazione non viene, però, validamente motivata né correttamente argomentata. Si afferma semplicemente che «la fattispecie sarebbe riconducibile alle previsioni degli artt. 1414 e seguenti del c.c.». È parere di questo Collegio, invece, che il contratto di finanziamento di euro 3.300.000,00 posto in essere tra C. S.p.A. e N.S. S.r.l.. sia valido. Infatti: a) si è in presenza di finanziamento infra-gruppo posto in essere, così come consentito dall’art. 1, lett. a della tariffa parte II, D.P.R. 131/1986, mediante corrispondenza commerciale; b) tale corrispondenza, avente data certa e regolarmente protocollata agli atti della società (cfr. allegato n. 27 al Pvc), contiene le condizioni tutte che regolano il finanziamento concesso, tra le quali la previsione di interessi da determinarsi in base ai tassi debitori praticati dalle banche alla società finanziatrice controllata al 100% S.r.l.. N.S.; c) la pattuizione di interessi nella misura sopra specificata risponde a logiche di corretta gestione di impresa, in quanto finalizzata a remunerare e, quindi, a neutralizzare il costo per interessi sopportati da N.S. S.r.l.. a fronte di risorse utilizzate nell’ambito del gruppo; d) è del tutto irrilevante la circostanza che gli interessi non fossero stati ancora corrisposti nell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2003; infatti gli interessi passivi di cui trattasi assumono rilevanza fiscale a prescindere dall’effettiva corresponsione/percezione di essi (si rammenta che il legislatore ha previsto il criterio di cassa soltanto per gli interessi moratori, e ciò, peraltro a decorrere dal 2004); e) diversamente da quanto sostenuto dai funzionari verificatori e di conseguenza dall’ufficio di Bari 2, la C. S.p.A. non ha tratto alcun vantaggio dalla deduzione degli interessi passivi in esame.

Essi, infatti, hanno rappresentato proventi regolarmente tassati in capo alla controllata al 100% N.S. S.r.l.., con la conseguenza che, a livello di tassazione di gruppo, l’addebito o il non addebito di tali interessi è totalmente ininfluente; f) la proposta di recuperare a tassazione ai fini Irpeg i ridetti interessi passivi, oltre a porsi in evidente contrasto con le logiche sottese alle realtà dei gruppi di impresa, viola il divieto sancito dall’art. 67 del D.P.R. 600/1973, nonché dall’art. 127, T.U.I.R. (divieto della doppia imposizione), determinando un ingiustificato arricchimento dell’erario: infatti, detti interessi hanno regolarmente concorso alla formazione del reddito imponibile 2003 della controllata al 100%, S.r.l.. N.S. Pertanto il recupero a tassazione degli interessi su finanziamento da N.S. S.r.l., effettuato dall’ufficio impositore, a parere di questo Collegio, è illegittimo. Rilievo n.2: recupero di euro 60.000. Il recupero a tassazione di euro 60.000 è relativo alla manutenzione impianti su immobili propri per violazione degli artt. 67 e 75, comma 2, lett. b del T.U.I.R. e riguarda la fattura n. 140 del 15 dicembre 2003. La società ricorrente eccepisce la violazione e falsa applicazione dell’art. 75, comma 2, lett. b del T.U.I.R. Dall’esame della fattura incriminata, risulta che essa riguardava: a) l’acquisto di un nuovo impianto di condizionamento estivo invernale a servizio del reparto dialisi del I e II piano per complessivi euro 105.915,30; b) la manutenzione straordinaria impianto esistente della clinica S.R. in Bari per complessivi euro 21.007,31. Dalla lettura della fattura appare del tutto evidente che il recupero operato dall’ufficio di euro 60.000,00 è illegittimo in quanto l’importo richiesto dalla ditta L. riguardava l’acquisto di un nuovo impianto di condizionamento e la manutenzione straordinaria di impianto già esistente e non su quello nuovo acquistato con la fattura n. 140 del 15 dicembre 2003. Inoltre, va anche evidenziato che l’ufficio impositore ha male interpretato la norma di cui all’art. 75, comma 2, lett. b del T.U.I.R., che recita testualmente: «le spese di acquisizione si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni si considerano ultimate». Bisogna però sottolineare che la ricorrente società doveva portare in deduzione fra i costi di esercizio 2003 solo la somma di euro 21.007,31, somma corrispondente alla manutenzione dell’impianto già esistente. Pertanto, per quanto suddetto anche questa eccezione della ricorrente va accolta.


06 Accertamento.qxd

710

7-04-2009

12:57

Pagina 710

GiustiziaTributaria

4 2008

Rilievo n. 3: recupero di euro 35.138,63. L’ufficio impositore recupera a tassazione l’importo di euro 35.138,63, corrispondente al costo del lavoro dipendente della dott.ssa D.E., sostenuto dalla C. S.p.A., in quanto non inerente l’attività d’impresa della stessa, ai sensi dell’art. 75, comma 5, del T.U.I.R. La ricorrente eccepiva la violazione e falsa applicazione dell’art. 75, comma 5, del T.U.I.R. Tale recupero deriverebbe dalla circostanza che il dipendente (dott.ssa D.) veniva impiegata nella gestione contabile ed amministrativa del magazzino farmaci della controllata al 100% N.S. S.r.l. Il Collegio giudicante non è dello stesso parere dell’ufficio in quanto bisogna considerare il contesto in cui tale tipo di operazione è stata posta in essere. Tale operazione deve essere inquadrata nella complessa fenomenologia avente ad oggetto le realtà dei gruppi societari, laddove l’articolazione di due distinti soggetti giuridici (C. S.p.A. e N.S. S.r.l..) realizza, come nel caso di specie, una evidente unità, sia economica che giuridica, dell’impresa di gruppo. Infatti, nel caso di specie, tale unità è data: 1) dalla perfetta coincidenza dell’attività di cui all’oggetto sociale di entrambe le società; 2) dalla pressoché totale identità dell’organo amministrativo e del management di entrambe le società; 3) dalla evidente interdipendenza della attività gestionale tipica di entrambe le società, considerata sia sotto l’aspetto squisitamente sanitario, sia sotto l’aspetto organizzativo, contabile e amministrativo (come è stato peraltro accertato dagli stessi funzionari verificatori); 4) dai rischi che la controllante C. S.p.A. ha assunto quale socio unico della S.r.l. N.S. Le due società, quindi, attraverso integrazioni, decentramento di funzioni ecc., realizzano l’obiettivo di razionalizzazione del modello organizzativo, nell’ambito di una politica imprenditoriale che trascende gli obbiettivi della singola società partecipante. Quanto detto trova autorevole conferma anche in alcune sentenze della Cassazione, secondo le quali «la società di gruppo che agisce nell’interesse di altra società del medesimo gruppo, realizza un proprio interesse mediato ed indiretto. Questo modo indiretto e mediato di realizzare l’interesse sociale altro non è, a ben guardare, se non un modo di attuare l’oggetto sociale: quel modo mediato e indiretto di realizzare l’oggetto sociale che, come si è rilevato, caratterizza le società del gruppo. I due discorsi – quello dell’interesse e quello

sull’oggetto sociale – si coordinano tra loro: se attraverso la controllante la controllata soddisfa, in modo mediato ed indiretto, un proprio interesse, ciò è perché attraverso la controllata essa svolge, sempre in modo mediato ed indiretto, una propria attività economica» (Cass., n. 3150 del 1976; n. 2001 del 1996). Alla stregua delle predette considerazioni, appare arduo sostenere che la gestione del magazzino farmaci, effettuata dalla controllante nell’interesse della controllata e al fine di realizzare sinergie ed economie di gruppo, non soddisfi il principio dell’inerenza di cui all’art. 75, comma 5, T.U.I.R. Si deve, inoltre considerare che al maggior carico tributario Irpeg di C. S.p.A. sarebbe conseguito un risparmio di imposta, di pari importo, in capo alla controllata N.S. S.r.l. Per cui il recupero a tassazione del costo di euro 35.138,63 riferito alla dipendente D., per come proposto dai funzionari verificatori, si pone in palese contrasto con il divieto contenuto dall’art. 67 del D.P.R. 600/1973, nonché dall’art. 127, T.U.I.R. (divieto della doppia imposizione), determinando un ingiustificato arricchimento dell’erario. Per quanto sopra, il rilievo n. 3 risulta illegittimo ed infondato. In ultimo, va rilevato che l’importo de quo è stato recuperato anche ai fini Irap, in violazione dell’art. 5 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, in base al quale la base imponibile è determinata dalla differenza tra il valore della produzione di cui alla lettera a del comma 1 dell’art. 2425 c.c., e i costi della produzione di cui alla lettera b, ad esclusione delle perdite su crediti e delle spese per il personale dipendente. Ora, poiché il costo per il personale non ha concorso negativamente alla formazione della base imponibile, in quanto non deducibile dal valore della produzione, il recupero ai fini Irap è palesemente illegittimo. Rilievo n.6: recupero di euro 191.964,75. Infine l’ufficio impositore recuperava a tassazione la sopravvenienza passiva di euro 191.964,75 derivante da transazione con la E. S.r.l., di competenza di esercizio successivo (2004) ai sensi dell’art. 75, comma 1, T.U.I.R. La società ricorrente eccepiva la violazione la falsa applicazione dell’art. 75, comma 1, del T.U.I.R. (ante riforma). L’Agenzia delle Entrate ha recuperato la sopravvenienza passiva di euro 191.964,75, in considerazione della pretesa “manifestazione e obiettiva determinazione” della stessa nell’esercizio 2004. La ricorrente aveva acquistato in data 7 marzo 2002 il controllo totalitario della società N.S. S.r.l.. con tre distinte scritture private autenticate


06 Accertamento.qxd

7-04-2009

12:57

Pagina 711

Accertamento 4 2008 711

dai seguenti soggetti (precedenti soci della N.S.): M. S.r.l. 30% E. S.r.l. 30% G. N.O. e N.O. 40% I predetti atti prevedevano, tra l’altro, che la C. S.p.A. fosse tenuta indenne da sopravvenienza passiva, insussistenze ecc. della N.S. S.r.l. correlate ad eventi e/o circostanze riconducibili a periodi antecedenti a quello nel quale era stata perfezionata la cessione. Successivamente all’acquisizione delle quote si verificarono alcuni degli eventi riconducibili alle sopra esposte circostanze, per cui, a fronte del prodursi in capo alla N.S. di sopravvenienze passive, la ricorrente procedeva contestualmente a rilevare delle sopravvenienze attive nel conto “Recupero sopravvenienze passive N.S. S.r.l.”. In particolare, con riferimento al rapporto C. S.p.A./E. S.r.l.. la ricorrente aveva maturato un credito pari ad euro 191.964,75, contabilizzato nel corso del 2003 come “sopravvenienza attiva”. In data 11 marzo 2004, e quindi successivamente alla chiusura dell’esercizio 2003, ma prima che intervenisse l’approvazione del bilancio da parte dell’assemblea, la C.S.p.A. e la E. S.r.l.. addivenivano ad un accordo, con il quale venivano regolati definitivamente, alcuni rapporti pendenti fra di loro e fra questi veniva stabilito che la società ricorrente rinunciava al credito di euro 191.964,75 vantato nei confronti della E. S.r.l. Veniva pertanto, correttamente rilevato dalla ricorrente nel bilancio ai 31 dicembre 2003 una sopravvenienza passiva pari ad euro 191.964,75, a fronte dell’azzeramento del predetto credito. I funzionari verificatori e di conseguenza l’ufficio impositore, hanno ritenuto errata tale rilevazione in quanto solo nell’esercizio 2004, si sarebbero verificate le condizioni di certezza ed oggettiva determinabilità (la scrittura privata dell’11 marzo 2004). È parere di questo Collegio giudicante che anche questo recupero è illegittimo ai sensi degli artt.75,

comma 1, del T.U.I.R. e 14 del D.P.R. 600/1973. Infatti l’art. 14, D.P.R. 600/1973 prevede testualmente che «le società e gli enti il cui bilancio o rendiconto è soggetto per legge o per statuto all’approvazione dell’assemblea o di altri organi possono effettuare nelle scritture contabili gli aggiornamenti consequenziali all’approvazione stessa fino al termine stabilito per la presentazione della dichiarazione». E l’art. 75, comma 1, del T.U.I.R. stabilisce, inoltre, che ai fini della determinazione del reddito di un determinato esercizio hanno valore i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi che si verificano nell’esercizio stesso e tutti i fatti che il contribuente viene a conoscenza prima della approvazione del bilancio. In caso di specie, in chiusura di bilancio la C. S.p.A. era già a conoscenza della circostanza della insussistenza del suddetto credito, per cui legittimamente ha proceduto alla eliminazione di tale credito con contestuale rilevazione di una sopravveniva passiva. Infine, a sostegno dell’accoglimento del ricorso, in riferimento alle eccezioni di merito, il Collegio giudicante fa presente che lo stesso ufficio delle Entrate di Bari 2, titolare del potere di accertamento, nell’esaminare l’atto istruttorio della Dir. reg. (Pvc), aveva affermato testualmente che «questo ufficio dopo aver analizzato e valutato il Pvc nonché le osservazioni di parte, ritiene non tutte condivisibili le determinazioni dei verificatori e sottopone al parere di codesta Dir. reg. le motivazioni per le quali intende desistere da alcuni dei propri recuperi a tassazione». Quindi, nel merito, tutta la rettifica operata dai verificatori della Dir. reg. era stata ritenuta, per la maggior parte dei recuperi a tassazione, infondata dall’Agenzia delle Entrate , ufficio di Bari 2. Circa le spese di giudizio, la Commissione ritiene giusto che esse siano interamente compensate fra le parti costituite.

Nota

hanno competenza in materia di accessi, ispezioni o verifiche fiscali, pertanto, non possono legittimamente redigere un Pvc, con la conseguenza che sono ugualmente illegittimi, per vizio derivato, i conseguenti atti impositivi. Osserviamo, preliminarmente, che i giudici baresi si sono pronunciati anche sulla (in)fondatezza nel merito della pretesa impositiva in contestazione, tuttavia, in sede di commento, non esamineremo questa parte della decisione, attenendo a questioni già trattate in numerosi precedenti giurisprudenziali.

La sentenza in commento pone all’attenzione degli studiosi una questione di grande interesse, e cioè se siano legittimi o meno i Processi verbali di constatazione redatti dai funzionari delle Direzioni regionali delle Entrate e, di conseguenza, se siano legittimi o meno gli avvisi di accertamento che da quegli atti istruttori traggono fondamento. La conclusione alla quale è pervenuto il Collegio barese è che i funzionari delle Dir. reg. E. non


06 Accertamento.qxd

712

7-04-2009

12:57

Pagina 712

GiustiziaTributaria

4 2008

La vicenda processuale trae origine dall’impugnazione di un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate a seguito di una verifica dei funzionari della Dir. reg. E. Puglia relativamente all’anno d’imposta 2003. La ricorrente eccepiva, preliminarmente, la «illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato per illegittimità dell’atto istruttorio (Pvc) da cui promana», essendo la Dir. reg. E. della Puglia un organo incompetente ad eseguire gli accessi, le ispezioni e le verifiche strumentali all’attività di accertamento, visto che nessuna disposizione di legge o regolamentare le attribuisce espressamente tale competenza. L’Agenzia delle Entrate si costituiva in giudizio contestando, sul punto, che in base alle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 300/1999 e nel regolamento dell’Agenzia delle Entrate, i funzionari delle Dir. reg. E. sono legittimati ad effettuare le verifiche fiscali. Al fine di verificare se, come aveva eccepito la ricorrente, l’atto impugnato fosse illegittimo, per illegittimità dell’atto istruttorio ad esso presupposto, il Collegio ha esaminato le disposizioni del D.Lgs. n. 300/1999, del regolamento di organizzazione del Ministero delle Finanze e dello Statuto dell’Agenzia delle Entrate. All’esito di tale esame, i giudici hanno concluso che non esiste una norma che attribuisca alle Dir. reg. E. poteri in materia di verifiche fiscali, se non in via sostitutiva, ovvero nelle ipotesi di inerzia degli uffici locali. Quanto all’art. 4, comma 3, del regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate, la Commissione ha osservato come la disposizione stabilisca che a livello periferico costituiscono strutture di vertice le Direzioni regionali, con sede nel capoluogo di ogni regione (comma 1) e che quegli organi «esercitano, nell’ambito della rispettiva regione o provincia, funzioni di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo nei confronti degli uffici, curano i rapporti con gli enti pubblici locali e svolgono attività operative di particolare rilevanza nei settori della gestione dei tributi, dell’accertamento, della riscossione e del contenzioso» (comma 3). Ebbene, hanno rilevato i giudici, è vero che le Dir. reg. E. possono svolgere “attività operative”, ma possono legittimamente farlo soltanto nell’ambito delle “funzioni” ad esse espressamente attribuite dalla legge, poiché quando «si parla delle attribuzioni-poteri-compiti degli Uffici i termini “funzioni” e “attività” non possono essere considerati sinonimi». In sintesi, l’attività operativa nel settore dell’ac-

certamento è legittima soltanto se svolta “nell’ambito delle funzioni attribuite” dalla norma. Invero, a nostro parere, la distinzione tra “funzioni” ed “attività” attribuite alle Dir. reg. E. non è del tutto risolutiva per stabilire se i funzionari delle stesse siano o meno legittimati ad eseguire verifiche fiscali. La legittimazione ed il potere di svolgere «attività operative di particolare importanza nel settore dell’accertamento» è prevista espressamente dal richiamato art. 4, è incondizionata e, soprattutto, è autonoma rispetto alle funzioni precedentemente individuate dalla disposizione regolamentare. Il problema è di stabilire se nelle suddette attività operative, che il regolamento certamente attribuisce alla competenza delle Dir. reg. E., rientrino o no le “verifiche fiscali”. In altri termini, il sintagma «attività operative di particolare importanza nel settore dell’accertamento» dice troppo e troppo poco. Dice troppo perché non è pensabile che le Dir. reg. E., per esempio, possano redigere e notificare gli avvisi di accertamento, tipico atto conclusivo dell’attività di accertamento. Dice troppo poco se, viceversa, la si interpreta come una previsione priva di contenuto concreto o, come ha sostenuto la Commissione barese, legittimante attività operative soltanto nell’ambito delle funzioni espressamente attribuite ad esse (programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo nei confronti degli uffici). Più decisive appaiono, invece, le considerazioni che i giudici baresi hanno fatto rispetto alle sorti di due disposizioni normative, l’art. 62-sexies del D.L. n. 331/1993 e l’art. 7 della legge n. 358/1991, entrambe attinenti specificamente all’attività di verifica e controllo ed entrambe parzialmente abrogate dall’art. 23 del D.P.R. n. 107/2001 (Regolamento di organizzazione del Ministero delle finanze). Il comma 2, dell’art. 62-sexies, del D.L. n.331/1993, prima che fosse abrogato dall’art. 23 del D.P.R. n. 107/2001, prevedeva espressamente che «la Direzione centrale e i servizi per l’accertamento e la programmazione del Dipartimento delle Entrate e i servizi per l’accertamento e la programmazione delle Direzioni regionali delle Entrate eseguono, sulla base di piani annuali o in via straordinaria, controlli e verifiche per l’accertamento dei tributi devoluti alla competenza del Dipartimento delle Entrate, avvalendosi di tutti i poteri di indagine previsti dalle singole leggi d’imposta [...]». Oggi, si ripete, questa disposizione non è più in


06 Accertamento.qxd

7-04-2009

12:57

Pagina 713

Accertamento 4 2008 713

vigore e, ovviamente, se la sua abrogazione si è resa necessaria perché occorreva ridistribuire le competenze amministrative che in precedenza facevano capo tutte al Ministero delle Finanze, ripartendole tra le nuove agenzie fiscali e il nuovo dipartimento delle Entrate, è altrettanto vero che nel precedente assetto organizzativo dell’amministrazione finanziaria quella disposizione di legge attribuiva espressamente alle Direzioni regionali (del dipartimento) delle Entrate il potere di svolgere attività di «controllo e verifica per l’accertamento dei tributi», mentre oggi non c’è una disposizione di legge che attribuisca espressamente alle Direzioni regionali (dell’Agenzia) delle Entrate lo stesso potere. Quanto all’art. 7 della legge n. 358/1991, dopo le modifiche introdotte dall’art. 23 del D.P.R. n. 107/2001, restano attualmente vigenti i soli commi 7, 8 e 13. Il comma 7, in particolare, stabilisce che «le Direzioni regionali delle Entrate, sulla base delle direttive emanate dai dipartimenti [...] predispongono annualmente il piano degli accertamenti e formulano i criteri cui dovranno attenersi gli uffici finanziari compresi nel territorio della regione e i servizi operativi della G. di F [...]». Il comma 13, poi, precisa che «le attività di controllo e di ispezione nei confronti dei contribuen-

ti sono attribuite all’esclusiva competenza degli uffici indicati nel comma 10 e dei reparti della Guardia di Finanza». Come ha osservato il Collegio, gli uffici indicati nell’abrogato comma 10 dell’art. 7 sono gli ex uffici del preesistente Dipartimento delle Entrate, e dato che l’articolazione interna all’Agenzia delle Entrate in uffici centrali e periferici corrisponde a quella in cui era strutturato quel dipartimento, agli ex uffici delle Entrate corrispondono, a partire dal 1 gennaio 2001, i nuovi “uffici locali” dell’Agenzia delle Entrate. Così, se il richiamato comma 13 dell’art. 7 continua a prevedere una competenza “esclusiva” degli uffici indicati nel comma 10 nelle «attività di verifica e di ispezione dei contribuenti», vuol dire che il legislatore, ha voluto attribuire soltanto ai suddetti uffici, e non anche alle nuove Direzioni regionali delle Entrate, i poteri istruttori in materia di accertamento. La riflessione conclusiva che possiamo fare sulla sentenza annotata è che le verifiche fiscali eseguite dalle Dir. reg. E. riguardano, generalmente, le imprese di grandi dimensioni. È facile immaginare, pertanto, che lo scontro sulla legittimità di quelle verifiche sarà molto aspro, salvo che, a dirimere la questione, non intervenga tempestivamente il legislatore.

AVVISO DI ACCERTAMENTO MOTIVATO PER RELATIONEM, GARANZIE DEL CONTRIBUENTE E POSIZIONE DEL CURATORE FALLIMENTARE 95

Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. XIII, 27 marzo 2008, n. 74 Presidente: Tomasicchio - Relatore: De Vincentis

Svolgimento del processo

Accertamento - Motivazione per relationem Processo verbale di constatazione - Omessa notifica al curatore fallimentare - Terzietà del curatore fallimentare - Conseguenze - Illegittimità dell’accertamento (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, comma 2, ultimo periodo, e comma 3; L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1)

La curatela del fallimento [...] S.r.l., in persona del curatore fallimentare avv. [...], rappresentato e difeso dall’avv. [...], con atto depositato in data 25 giugno 2007, ricorre avverso l’avviso di recupero del credito di imposta previsto per gli investimenti in aree svantaggiate n. [...], notificato il 19 marzo 2007, con il quale l’Agenzia delle Entrate di Bari 2 ha chiesto il pagamento della somma di euro 58.919,00 oltre interessi e sanzioni per mancanza dei presupposti e dei requisiti necessari per usufruire delle agevolazioni previste dalla legge 23 dicembre 2000, n. 388, utilizzate nell’anno 2004 per aver ceduto prima del quinquennio previsto dalla legge un fabbricato acquisito con i benefici di detta legge 388/2000. Nel proprio ricorso la curatela fallimentare eccepiva

In caso di fallimento il fisco deve provvedere a notificare il Pvc alla base dell’avviso di accertamento motivato per relationem anche al curatore fallimentare, giacché questi non può essere considerato un mero sostituto del fallito, bensì terzo rispetto ai rapporti patrimoniali fra il debitore fallito e i suoi creditori.


06 Accertamento.qxd

714

7-04-2009

12:57

Pagina 714

GiustiziaTributaria

4 2008

la violazione dell’art. 7 della legge 212/2000 in quanto la motivazione dell’avviso di recupero impugnato richiamava il processo verbale di constatazione redatto il 19 maggio 2006, senza allegarlo e desumendo da tale fatto la nullità dell’atto impositivo. Eccepiva, inoltre, in via subordinata la circostanza che nell’avviso di recupero, a fronte di una precisa indicazione circa i dati relativi all’acquisto del fabbricato in regime di agevolazione fiscale, non veniva fornito alcun elemento atto ad identificare gli estremi della “cessione”. L’ufficio si costituiva ritualmente respingendo le eccezioni della curatela fallimentare ricorrente precisando che il Pvc, non era stato allegato all’avviso di recupero in quanto lo stesso era stato regolarmente notificato all’amministratore unico della società [...] S.r.l., che aveva partecipato costantemente e quotidianamente a tutta la verifica fiscale operata dai funzionari dell’ufficio sottoscrivendolo in data 19 maggio 2006; e che il fabbricato acquisito nel Comune di [...] in data 23 dicembre 2002, godendo delle agevolazioni fiscali di cui all’art. 8 della legge 388/2000 era stato ceduto in data 12 gennaio 2006 in violazione del disposto del comma 7 dello stesso art. 8 della citata legge 388/2000. La curatela fallimentare replicava con memorie illustrative depositate il 28 febbraio 2008, rimarcando quanto eccepito nell’atto introduttivo e insistendo sull’accoglimento del ricorso.

Nota di Federico Marengo La sentenza barese affronta due temi: il primo di diritto tributario formale1, la motivazione dell’avviso di accertamento; il secondo di diritto tributario sostanziale, lo status del curatore fallimentare nei rapporti tra fallito e amministrazione finanziaria. Sul tema della motivazione per relationem del-

1 Secondo la tradizionale dicotomia operata nell’ambito del diritto tributario tra disciplina sostanziale, intesa come complesso delle norme che stabiliscono la struttura di un tributo (presupposto, esenzioni, soggetti passivi, ecc.), e disciplina formale, ossia quel corpus normativo che prevede l’attuazione dei tributi da parte dei contribuenti e dell’amministrazione (TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2006, 1, 12-13 e 99;

Motivi della decisione La Commissione ritiene che le ragioni del Curatore fallimentare ricorrente circa la mancata allegazione all’avviso di recupero del Pvc siano da accogliere. Infatti l’argomentazione dell’ufficio circa la notifica di detto Pvc all’amministratore unico della società in bonis non è valutato motivo sufficiente in quanto la figura del curatore fallimentare non deve essere intesa quale sostituto del fallito, bensì quella di terzo rispetto ai rapporti patrimoniali tra il debitore fallito ed i suoi creditori, come da consolidata giurisprudenza della Suprema Corte (Cass., sez. I, 4 giugno 2003, n. 8914). Inoltre, quando i verbali oggetto di relatio riguardano un soggetto diverso, l’amministrazione deve dimostrare, sia pure, eventualmente, tramite presunzioni, l’effettiva e tempestiva conoscenza dei documenti da parte del contribuente, non essendo sufficiente il riferimento ad un atto del quale il contribuente stesso possa semplicemente “procurarsi conoscenza”, poiché ciò comporterebbe una più o meno accentuata e non giustificata riduzione del lasso di tempo a lui concesso per valutare la fondatezza dell’atto impositivo, con indebita menomazione del diritto di difesa (Cass., 4 maggio 2007, n. 10270). La mancata allegazione del Pvc all’avviso di recupero, ritenuta valida giustificazione per l’accoglimento del ricorso è assorbente degli altri motivi. La particolarità della questione impone la compensazione integrale delle spese processuali.

l’avviso di accertamento, la Commissione investita della controversia ritiene non ammissibile2 la motivazione per relationem dell’avviso di accertamento quando l’atto oggetto della relatio, nel caso di specie il processo verbale di constatazione, è stato notificato ad un soggetto diverso dal destinatario dell’avviso di accertamento (i.e. contribuente fallito). A meno che, ed è questa la soluzione positiva, l’amministrazione riesca a dimo-

FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, 80 ss.). 2 Concorde Cass., 30 gennaio 2007, n. 1905, in www.fiscoetasse.it; Cass., n. 15842/2006, in www.cortedicassazione.it/Documenti/RC2006.doc; Cass., 7 febbraio 2005, n. 6201, in www.tributimpresa.it/documenti; Cass., 26 marzo 2003, n. 4430, in Notiziario fiscale dell’Agenzia delle Entrate. Per la recente giurisprudenza di merito, Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sez. I, 16

maggio 2008, n. 57, sic: «[...] Nel caso in cui dell’atto richiamato sia riprodotto il contenuto essenziale, deve comunque essere data la possibilità al contribuente di verificare la rispondenza di tale contenuto con l’originale. Conseguentemente, solo se l’atto richiamato sia un atto pubblico, conoscibile dal contribuente, potrà farsi a meno di allegarlo all’accertamento [...]».


06 Accertamento.qxd

7-04-2009

12:57

Pagina 715

Accertamento 4 2008 715

strare, anche attraverso delle presunzioni, che il soggetto cui l’atto di accertamento è diretto abbia avuto “l’effettiva e tempestiva conoscenza” del documento richiamato nell’avviso3, non essendo sufficiente l’astratta possibilità per il contribuente di procurarsi nel tempo la conoscenza della relatio4. Difatti, questa ipotetica conoscenza potrebbe verificarsi in un arco temporale tale da ridurre il termine concesso al contribuente per valutare la fondatezza dell’atto impositivo, con conseguente menomazione del diritto di difesa5. Il secondo tema, che in punto di diritto è prodromico alla risoluzione del primo, concerne la qualificazione giuridica del curatore fallimentare qualora egli sia il destinatario dell’atto conclusivo di un procedimento di istruttoria avviato nei confronti dell’imprenditore dichiarato fallito. L’indirizzo accolto riprende quanto precisato dall’orientamento consolidato dei giudici di legittimità e da prevalente dottrina: il curatore del fallimento non è “sostituto” del fallito, ma è “terzo” rispetto alle vicende a contenuto patrimoniale intercorrenti tra il debitore e i suoi creditori. Ne consegue che, in quanto “terzo”, al curatore l’amministrazione deve notificare l’avviso di accertamento indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione, prescindendo dalla circostanza che l’imprenditore al tempo in cui era ancora in bonis abbia partecipato personalmente alle verifiche e abbia sottoscritto il processo verbale di constatazione. Osservazioni introduttive Nel ricorso promosso dalla curatela avverso l’atto di accertamento dell’amministrazione il ricorrente ha eccepito la violazione dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente e contestato altresì, quale conseguenza, la validità dell’atto, poiché la motivazione dell’avviso di accertamento impugnato richiamava il processo verbale di constatazione senza tuttavia allegarlo.

3 Nella motivazione della sentenza la Commissione usa l’espressione generica di “contribuente”, sebbene il curatore, che nella fattispecie esaminata è il destinatario dell’avviso di recupero, non sia né contribuente di diritto, né contribuente di fatto, come si dirà nel prosieguo di questo scritto. 4 Come ad esempio la possibilità di recarsi presso gli uffici dell’amministrazione per prendere visione delle risultanze dell’istruttoria.

Per dirimere la questione sottoposta alla sua attenzione la Commissione ha affrontato in via preliminare la natura della posizione giuridica del curatore fallimentare dinnanzi ad atti emessi dal Ministero nei confronti dell’imprenditore fallito, e poi si è occupata della causa petendi (assenza di motivazione) per poter decidere in merito al petitum, nel caso di specie la pronuncia (costitutiva) di nullità dell’atto. Pertanto, seguendo l’iter logico-ricostruttivo adottato dai giudici di merito, procediamo dapprima con l’esame della “soggettività” della curatela e della correlata “soggettività fiscale” del fallito; successivamente analizziamo l’eccezione di legittimità sollevata dal ricorrente circa il difetto di motivazione per mancata allegazione dell’atto oggetto di relatio quale vizio che rende invalido l’avviso di accertamento per violazione dell’art. 7, comma 1, secondo periodo, L. 212/20006. Status della curatela fallimentare nei rapporti tra fisco e imprenditore fallito L’argomento sul quale si fonda la tesi dell’amministrazione – non accolta dai giudici – è che il processo verbale di constatazione non è stato allegato all’avviso di accertamento poiché la funzione partecipativa nei confronti del contribuente era già stata estrinsecata quando l’amministratore sociale aveva sottoscritto il verbale al tempo in cui la società era ancora in bonis. È evidente quindi che il Ministero abbia elaborato le proprie conclusioni sull’inciso dell’art. 42, comma 2, secondo periodo, D.P.R. 600/1973, che subordina l’obbligo per l’amministrazione di allegare l’altro atto richiamato soltanto qualora di questo ulteriore atto, del quale si fa riferimento nella motivazione dell’avviso, il contribuente non ne abbia avuto conoscenza o ricezione7. Se successivamente alla sottoscrizione del verbale non fosse sopraggiunta alcuna dichiarazione di fallimento, la prospettiva dell’amministrazione sarebbe stata del tutto fondata. Ma poiché tra la

5 Conformi Cass., 29 gennaio 2008, n. 1906, in www.ricercagiuridica.com; Cass., 4 maggio 2007, n. 10270 in www.ricercagiuridica.com; Cass., 30 gennaio 2007, n. 1905, cit. 6 Violazione rispetto alla quale in materia di imposte sui redditi l’art. 42, comma 3, D.P.R. 600/1973, commina la sanzione della nullità dell’atto, sic: «L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui all’ul-

timo periodo del secondo comma». 7 Art. 42, comma 2, ultimo periodo, D.P.R. 600/1973, così come novellato dall’art. 1, D.Lgs. 32/2001, per evitare ripetizioni e favorire l’interpretazione e l’applicazione dello Statuto del contribuente: «[...] Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale».


06 Accertamento.qxd

716

7-04-2009

12:57

Pagina 716

GiustiziaTributaria

4 2008

sottoscrizione del verbale ad opera dell’amministratore unico e la notifica dell’avviso di accertamento alla curatela è intervenuta una declaratoria di fallimento, si tratta di individuare lo status del curatore nei rapporti tra fisco e imprenditore fallito. Come precisato dalla Commissione di Bari, che rinvia al prevalente orientamento della Suprema Corte, la figura del curatore «non deve essere intesa quale sostituto del fallito, bensì quella di terzo rispetto ai rapporti patrimoniali tra il debitore fallito ed i suoi creditori [...]». Andando oltre la breve e atecnica proposizione semantica dei giudici nella parte in cui si è usata la locuzione “sostituto”, volendo in realtà intendere che il curatore non è un “mandatario” del fallito, in termini più esplicativi, occorre non confondere la “soggettività impositiva” del fallito con la “soggettività formale” della curatela, “soggettività formale” che scaturisce dall’effetto principale della sentenza di fallimento in capo al fallito: lo spossessamento dei beni. Procediamo con ordine. Il verificarsi del fatto imponibile determina un rapporto giuridico8 – cd. rapporto d’imposta – dal quale scaturiscono situazioni giuridiche soggettive attive e passive in capo al contribuente (diritti, obblighi e legittimazioni) e in capo all’amministrazione finanziaria (potestà, obblighi e legittimazioni). Soffermiamoci sulla soggettività passiva del contribuente. Gli obblighi d’imposta si distinguono in: (i) obbligo sostanziale, ossia l’obbligazione tributaria tout

8 Dato che delle due teorie sulla genesi del rapporto tributario – dichiarativa e costitutiva –, viene in questo scritto accolta quella dichiarativa per cui il verificarsi del fatto imponibile produce automaticamente la relazione fisco-contribuente. 9 Sic: «[...] la figura del curatore non deve essere intesa quale “sostituto” del fallito [...]». 10 In giurisprudenza: Cass., 22 dicembre 1994, n. 11047, in Corr. Trib., 1995, 8, 526; Cass., 14 settembre 1991, n. 9606, in I quattro codici della riforma tributaria Big; Cass., 28 ottobre 1980, n. 5777, in Corr. Trib., 1981, 6, p. 264; Trib. Macerata, 30 aprile 1975, in I quattro codici della riforma tributaria Big; Trib. Milano, 19 dicembre 1974, in I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. I grado Bergamo, 21 agosto 1984, n. 521, in

court che trova la sua causa in un fatto economico assunto dalla legge come manifestazione di capacità contributiva (il “presupposto d’imposta”); (ii) obblighi formali, l’adempimento dei quali è strumentale alla piena attuazione del tributo. Si tratta degli obblighi contabili, dichiarativi e di versamento. In merito all’obbligo sostanziale, in caso di fallimento l’imprenditore non perde la capacità di essere titolare del lato passivo del rapporto giuridico con l’amministrazione finanziaria. Egli, e soltanto egli, è il soggetto titolare dell’obbligazione tributaria. Tra imprenditore fallito e curatore non è configurabile né un rapporto di solidarietà paritaria (il curatore non è coobbligato del fallito), né un rapporto di solidarietà dipendente (il curatore non è responsabile d’imposta), né infine un rapporto successorio nel debito d’imposta. Inoltre fino al 3 luglio 2006, nel silenzio normativo una vexata quaestio era rappresentata dalla circostanza che tra fallito e curatela potesse configurarsi un rapporto di “sostituzione soggettiva”: in altri termini la questione riguardava se il curatore potesse essere qualificato “sostituto d’imposta” del fallito (quindi “sostituto” non nel senso utilizzato dalla Commissione nella sentenza in commento9). L’orientamento dottrinale e giurisprudenziale prevalente10 era favorevole a negare questa possibilità, mentre l’amministrazione11, la giurisprudenza12 e la dottrina13 minoritaria sostenevano la tesi che il curatore fosse obbligato agli adempimenti propri del sostituto d’imposta.

I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. I grado Treviso, 12 gennaio 1983, n. 42, in I quattro codici della riforma tributaria Big. Per la dottrina, SOLLINI, Il curatore fallimentare, Napoli, 2006, 387; ZENATI-MANDRIOLI, I tributi nel fallimento, Milano, 2000, 178 ss.; BRIGHENTI, Adempimenti tributari e responsabilità del curatore fallimentare, Torino, 1996, 103; ANNI, Sostituto d’imposta e curatore fallimentare, in Fallimento, 1992, 1, 9; D’AMORA, Il curatore fallimentare non è sostituto d’imposta, in Dossier fiscale, 1992, 2, 21; LUPI, Diritto tributario. Parte speciale, Milano, 1992, 248; APICE, Responsabilità e obblighi fiscali del curatore del fallimento, in Fallimento, 1988, 173. 11 Ris. min. 25 novembre 1982, n. 15/3644, in I quattro codici della riforma tributaria Big; ris. min., 14 marzo

1979, n. 8/856, in I quattro codici della riforma tributaria Big; ris. min., 3 marzo 1976, n. 8/190, in I quattro codici della riforma tributaria Big. 12 Comm. trib. centr., 14 maggio 1991, n. 3847, in I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. I grado Reggio Emilia, 5 giugno 1984, n. 2366, in I quattro codici della riforma tributaria Big. 13 GRASSI, Il curatore fallimentare e gli obblighi del sostituto d’imposta, in Fisco, 1999, 1, 20; ZAFARANA, Manuale tributario del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1999, 153, era nel senso che il curatore assumesse il ruolo di sostituto d’imposta nell’esercizio provvisorio come soluzione pragmatica alla questione; MICCINESI, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, 282.


06 Accertamento.qxd

7-04-2009

12:57

Pagina 717

Accertamento 4 2008 717

Il legislatore è intervenuto14 sulla materia ponendo fine alla disputa e prevedendo espressamente che il curatore fosse sostituto d’imposta, facendo pertanto prevalere la tesi secondo la quale nel fallimento l’impresa continua ad erogare redditi rispetto ai quali il meccanismo della sostituzione d’imposta ha fondamento di applicarsi per le funzioni che assolve in ordine all’accertamento e alla riscossione. Salvo quindi la novella entrata in vigore il 4 luglio 2006 che contempla il curatore come sostituto d’imposta, in termini di soggettività sostanziale il curatore assume la qualificazione di terzo rispetto ai rapporti patrimoniali tra fallito e il fisco. Con riferimento invece agli altri obblighi disciplinati per l’attuazione della norma tributaria, in virtù dell’incarico assunto e dello spossessamento dei beni che per il fallito deriva quale conseguenza giuridicamente rilevante della declaratoria di fallimento, sul curatore gravano gli obblighi formali di determinazione del reddito d’impresa che non viene più imputato al fallito ma alla curatela, gli obblighi di dichiarazione e di versamento del quantum debeatur15. Sempre per l’effetto spossessorio, al curatore spetta la legittimazione all’esercizio dei diritti sostanziali e processuali di azione e di difesa dei quali rimane tuttavia titolare esclusivo il fallito. In altri termini, il curatore ha la veste giuridica, è qualificato ad estrinsecare i diritti dei quali il fallito continua ad essere unico titolare. Ne consegue che il curatore è legittimato ad essere partecipato mediante notifica di un avviso di accertamento potenzialmente suscettibile di intaccare la massa attiva fallimentare, poiché mediante la notificazione potrà esercitare il diritto di difesa giudiziale. Non solo, ma a tenore di un consolidato indirizzo giurisprudenziale di legittimità16, l’avviso di accertamento deve essere altresì notificato al fallito,«il qua-

14 L’art. 37, comma 1, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, ha introdotto le figure del curatore fallimentare e del Commissario liquidatore nell’elenco dei soggetti che sono sostituti d’imposta ai sensi dell’art. 23, D.P.R. 600/1973. 15 Art. 5, D.P.R. 322/1998, sic: «1. [...] 2. (abrogato) 3. [...] 4. Nei casi di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa, le dichiarazioni iniziali e finali sono presentate, anche se si tratta di imprese individuali, dal curatore o dal commissario liquidatore [...]». 16 Cass., 15 marzo 2006, n. 5671, in

le non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario e resta esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, che conseguono alla “definitività” dell’atto impositivo», sicché il fallito, «nell’inerzia degli organi fallimentari, ravvisabile ad esempio nell’omesso esercizio da parte del curatore fallimentare del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto impositivo, è eccezionalmente abilitato a esercitare egli stesso tale tutela alla luce dell’interpretazione sistematica del combinato disposto degli articoli 43 della legge fallimentare e 16 del D.P.R. 636/1972, conforme ai principi, costituzionalmente garantiti (art. 24, commi 1 e 2, Cost.), del diritto alla tutela giurisdizionale e alla difesa17». Ecco dunque che la ratio della formulazione semantica dell’art. 42, comma 2, ultimo periodo, D.P.R. 600/1973, nella parte in cui usa l’espressione «contribuente»18, è favorire il pieno esercizio del diritto di difesa avverso gli atti espressione del potere di imposizione dell’amministrazione finanziaria da parte del soggetto che è legittimato a ricevere tali atti perché sul suo patrimonio si riflettono. Nel caso specifico del fallimento, allora, ci troviamo dinnanzi al fallito, contribuente di diritto unico soggetto passivo del rapporto obbligatorio “eccezionalmente”19 legittimato ad impugnare l’avviso di accertamento in subordine alla preventiva inerzia degli organi della procedura, e alla curatela, qualificata ad amministrare e gestire i beni della massa fallimentare nell’interesse dei creditori e del fallito, e quindi, legittimata ad essere destinataria di tutti gli atti potenzialmente lesivi del compendio patrimoniale destinato alla liquidazione satisfattiva. Mancata allegazione dell’oggetto della relatio, conoscenza effettiva Negli atti dell’amministrazione finanziaria motivati per relationem20, l’atto cui si fa riferimento nel-

www.fiscooggi.it; Cass., 24 febbraio 2006, n. 4235, in www.eius.it/giurisprudenza/2006; Cass., 14 maggio 2002, n. 6937, Notiziario fiscale dell’Agenzia delle Entrate. 17 In tal senso è Cass., 15 marzo 2006, n. 5671, cit. 18 Art. 42, comma 2, ultimo periodo, D.P.R. 600/1973: «[...] Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale». 19 Cass., 15 marzo 2006, n. 5671, sic:

«[...] alla dichiarazione di fallimento consegue, per il fallito, una perdita della capacità processuale che ha carattere non assoluto ma relativo e può essere eccepita solo dal curatore nell’interesse della massa dei creditori. Ne deriva che, se, nell’inerzia del curatore, agisce in giudizio per la società fallita il suo rappresentante legale, il difetto di capacità processuale non può essere rilevato né su eccezione della controparte né d’ufficio». 20 Sulla motivazione per relationem si rinvia a MICELI, La motivazione per relationem, in Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Fantozzi-Fedele,


06 Accertamento.qxd

718

7-04-2009

12:57

Pagina 718

GiustiziaTributaria

4 2008

la motivazione deve essere allegato all’avviso che lo richiama, pena la nullità di quest’ultimo21. L’atto e l’allegato oggetto di relatio vanno pertanto entrambi notificati al destinatario interessato dagli effetti dell’atto impositivo, nel caso di specie il curatore del fallimento e il fallito. Sulla necessità di questa indefettibile partecipazione della curatela, e più in generale del contribuente, la Commissione va oltre, affermando che l’amministrazione può paralizzare l’istanza di nullità dell’avviso di accertamento motivato per relationem qualora riesca a provare “l’effettiva e tempestiva conoscenza” da parte del contribuente dei documenti ivi richiamati. L’utilizzo di questi due aggettivi “effettiva e tempestiva”, unitamente al sostantivo “conoscenza”, offrono qualche spunto di riflessione. La disciplina positiva prevede che nel caso fisiologico di assenza di vizi genetici, il procedimento di formazione dell’avviso di accertamento si concluda con la funzione partecipativa mediante notificazione dell’atto conclusivo al contribuente. Per l’ordinamento non è rilevante che il contribuente abbia avuto conoscenza effettiva (nel rilievo semantico di mutamento della coscienza, di apprendimento dell’intelletto) dell’atto ad esso destinato, perché ciò che importa è che l’amministrazione abbia seguito le varie fasi di formazione dell’atto sino alla sua notificazione, dato che per il diritto la notificazione produce l’effetto della conoscenza legale (che è diversa dalla conoscenza effettiva). Al solo fatto giuridico della notificazione si ricollega l’effetto della ricezione dell’atto da parte del suo destinatario, indipendentemente dalla circostanza che quest’ultimo ne sia o meno venuto effettivamente a conoscenza. Per l’ipotesi di iter patologico di formazione del-

Milano, 2005, 316 ss.; BEGHIN, La motivazione dell’avviso di accertamento, in Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Marongiu, Torino, 2004, 19 ss.; BRUZZONE, Motivazione per relationem: il revirement della Suprema Corte, in Corr. Trib., 2002, 872 ss.; VOGLINO, Plauso al nuovo corso giurisprudenziale sull’obbligo di allegare all’accertamento la documentazione richiamata per relationem, in Boll. Trib., 2002, 570 ss.; GALLO, Motivazione e prova nell’accertamento tributario: l’evoluzione nel pensiero della Corte, in Rass. Trib., 2001, 1089 ss. 21 In materia di imposte dirette la nullità dell’atto impositivo per difetto di motivazione è contemplata dall’art.

l’avviso di accertamento perché ad esempio, come nel caso in esame, affetto da un vizio genetico – il difetto di motivazione –, la giurisprudenza de qua, assumendo una posizione garantista, dà rilevanza alla fattispecie della conoscenza “effettiva e anche tempestiva”. Difatti, nella controversia che ha formato oggetto di questa decisione dei giudici di merito di Bari, l’amministrazione, per paralizzare la domanda del ricorrente-curatore, avrebbe dovuto dimostrare la conoscenza effettiva e non la “conoscibilità”, ossia l’ipotetica possibilità che nel tempo il contribuente avrebbe potuto “procurarsi conoscenza” dei documenti richiamati ma non allegati, perché la conoscibilità postula l’estrinsecazione di un’attività di ricerca e un dispendio di tempo tali da pregiudicare il pieno e consapevole esercizio del diritto di difesa il quale richiede invece un tempo ragionevolmente congruo per analizzare la fondatezza dell’atto impositivo e decidere se azionare o meno il rimedio della difesa giudiziale22. L’amministrazione avrebbe dovuto pertanto controdedurre, anche mediante elementi probatori di presunzioni, che il curatore aveva avuto conoscenza effettiva, ovvero non la conoscenza quale implicazione giuridica che la legge riconnette alla notificazione, ma la reale presa di coscienza dei documenti richiamati nella motivazione dell’atto, perché in tal caso, in deroga al principio generale per cui ciò che rileva giuridicamente è la ricezione legale del documento da parte di chi ne sia il destinatario, ciò che prevale è che la conoscenza abbia due requisiti sostanziali: sia effettiva (mutamento della coscienza) e sia tempestiva per consentire il libero e consapevole esercizio del diritto di difesa, facendo valere anche delle eccezioni di merito.

42, comma 3, D.P.R. 600/1973, mentre con riferimento agli altri tributi è stato opportunamente rilevato che «tali conclusioni (i.e. la nullità per assenza di motivazione) partono dalla premessa che non incida sul regime della motivazione degli atti la recente modifica introdotta dall’art. 14 della L. 11 febbraio 2005, n. 15 (che ha integrato la L. n. 241/1990 con l’art. 21-octies, comma 2), a norma del quale “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da

quello in concreto adottato”. La natura sostanziale della motivazione porta, infatti, a non poter qualificare la sua assenza quale vizio formale. Inoltre, seppure in ambito amministrativo si potesse arrivare ad una soluzione del genere per alcuni provvedimenti vincolati, non si ritiene che questo sia possibile nella materia tributaria dove con l’art. 3 dello Statuto del contribuente si è affermata la necessaria motivazione degli atti vincolati» (MICELI, La motivazione per relationem, cit., 337-338, nota 49). 22 Anche Cass., 29 gennaio 2008, n. 1906, cit.; Cass., 4 maggio 2007, n. 10270, cit.; Cass., 19 gennaio 2007, n. 1905, cit.a


06 Accertamento.qxd

7-04-2009

12:57

Pagina 719

Accertamento 4 2008 719

Conclusioni La decisione della Commissione barese si pone in perfetta aderenza con la giurisprudenza di legittimità dominante ribadendo: - il principio secondo cui il curatore non è né mandatario, né coobbligato, né responsabile d’imposta, né successore nei rapporti tributari e più in generale in tutti i rapporti giuridici a contenuto patrimoniale del fallito, ma è terzo, ossia un soggetto giuridico distinto e separato dal fallito e dai suoi creditori e debitori, che in forza dell’incarico giudiziale di pubblico ufficiale deve amministrare e liquidare il patrimonio del fallito in funzione satisfattiva dei propri creditori; - il principio secondo cui il vizio genetico di difetto di motivazione dell’avviso di accertamento può essere sanato fornendo la prova, anche attraverso delle presunzioni, della conoscenza effettiva e tempestiva dell’atto oggetto di relatio. Conoscenza effettiva che quindi, in virtù

della più ampia norma di tutela costituzionale del diritto di difesa, viene derogabilmente fatta prevalere sul principio dei procedimenti partecipativi e della conoscenza legale quale regola generale caratterizzante il formarsi dei rapporti giuridici in genere. Quindi nel caso di specie, la conseguenza del ragionamento seguito dalla Commissione è che l’avviso di accertamento privo di motivazione è comunque valido se il contribuente ha conoscenza effettiva e tempestiva della motivazione dell’avviso, giacché poco importa che tale motivazione non sia stata partecipata giuridicamente al destinatario, in quanto comunque, attraverso la provata conoscenza non solo effettiva, ma anche tempestiva, il contribuente avrebbe avuto tutto il tempo per esercitare in modo pieno e consapevole il proprio diritto di difesa, che quindi rimane garantito.


07 Aiuti di Stato.qxd

720

14-04-2009

16:10

GiustiziaTributaria

Pagina 720

4 2008

AIUTI DI STATO LE COMMISSIONI TRIBUTARIE TORNANO SULLA PROBLEMATICA DEL RECUPERO DEGLI AIUTI FISCALI NEI CONFRONTI DELLE CD. “EX MUNICIPALIZZATE” I 96

Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 14 novembre 2007, n. 164 Presidente: Iadecola - Relatore: Papa Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Applicazione - Procedura di recupero - Violazione del principio di affidamento e di buona fede del contribuente - Insussistenza (Trattato CE, art. 87, par. 1; dec. Commissione CE 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 66, comma 14, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427; L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 70) Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Ingiunzioni di pagamento - Potestà di accertamento - Termine di decadenza - Inapplicabilità (Trattato CE, art. 87, par. 1; dec. Commissione CE 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 66, comma 14, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427; L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 70; D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, art. 1) Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Applicabilità - Condizioni - Procedura di recupero - Ingiunzione - Motivazione Necessità (Trattato CE, art. 87, par. 1; dec. Commissione CE 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 66, comma 14, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427; L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 70) Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e specia-

li trasformate in S.p.A. - L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22 - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Applicazione - Procedura di recupero - Ingiunzione - Processo ricostruttivo dell’ammontare delle imposte che sarebbero state versate in assenza dell’aiuto - Necessità (Trattato CE, art. 87, par. 1; dec. Commissione CE 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 66, comma 14, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427; L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 70) I provvedimenti di recupero emessi in attuazione della decisione n. 2003/193/CE con cui la Commissione europea ha stabilito che l’esenzione triennale dall’imposta sul reddito a favore di società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria è aiuto di Stato, non violano il principio di buona fede e legittimo affidamento dal momento che il citato regime di benefici, non essendo stato previamente notificato ai sensi dell’art. 93 (ora: art. 88), par. 3 del Trattato, deve essere considerato “illegale”. L’azione di recupero delle misure dichiarate aiuto di Stato dalla decisione della Commissione europea n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002 non soggiace ai termini decadenziali di cui all’art. 43 D.P.R. 600/1973: la normativa comunitaria, infatti, impone che il recupero sia “immediato ed effettivo e l’applicazione di siffatta disposizione interna vanificherebbe l’azione di reintegro imposta dalle istituzioni comunitarie. La corretta applicazione della decisione della Commissione europea n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002 esige che ciascun caso specifico debba essere ricondotto alla fattispecie legale ivi delineata (cfr.: punto 126 della decisione de qua) . Ne consegue che grava sull’amministrazione finanziaria dare conto nell’ingiunzione, attraverso idonea motivazione, dell’indagine puntualmente effettuata nel caso concreto, non essendo sufficiente che la società raggiunta dall’azione di recupero sia riconducibile al novero delle S.p.A. ex lege n. 142/1990.


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 721

Aiuti di Stato 4 2008 721

Il recupero degli aiuti di stato svolto in attuazione della decisione della Commissione europea n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002 avendo funzione ripristinatoria, deve essere limitato ai benefici effettivamente ed indebitamente fruiti. Il recupero deve quindi passare attraverso un processo ricostruttivo delle imposte che sarebbero state concretamente applicabili in assenza delle disposizioni di aiuto, sulla base delle regole ordinariamente vigenti all’epoca dei fatti e con piena applicazione delle varie disposizioni agevolative esistenti ratione temporis (Dit, normativa cd. “Tremonti”, ecc.). Risulta quindi illegittima un’ingiunzione che si limiti ad applicare le aliquote nominali dei tributi omessi, senza tenere conto delle imposte che sarebbero state effettivamente pagate dalla società beneficiaria in assenza delle agevolazioni poi risultate incompatibili. Svolgimento del processo Lo Stato italiano, a seguito dell’ordinanza delle Commissione europea C-27/99 del 2002 e poi della condanna da parte della Corte di Giustizia europea, seguita al mancato rispetto dell’ordinanza medesima, ha emanato il D.L. 10/2007 convertito in L. 46/2007, con il quale ha disciplinato il recupero degli aiuti di stato concessi alle società municipalizzate, nel periodo tra il 1993/1999, attraverso la cd. moratoria fiscale, demandando tale compito all’Agenzia delle Entrate. L’odierna ricorrente, quindi, con il ricorso proposto contesta il recupero attuato nei suoi confronti da parte dell’Agenzia delle Entrate di Teramo, fondato appunto sul presupposto che la stessa essendo una municipalizzata dovesse restituire le somme attinenti al periodo 1996/1999, poiché considerati aiuti di stato. La ricorrente, in via preliminare, eccepisce la carenza di motivazione dell’atto. Sostiene infatti che l’avviso notificato non riporta le motivazioni effettive che avrebbero portato l’ufficio a ritenere applicabile anche alla medesima il recupero de quo, fondandosi tale pretesa unicamente su una comunicazione proveniente dal Comune di Teramo e sul fatto che la stessa è stata costituita con la L. 142/1990, elementi che a giudizio del deducente, non sono sufficienti a giustificare il recupero poiché, chiarisce che l’Ordinanza della Commissione europea è atto generale, che rimette poi al legislatore nazionale, l’obbligo di verificare quali tra le municipalizzate effettivamente, avendo goduto della cd. moratoria triennale, a causa dell’attività svolta, aveva ottenuto quel beneficio economico tale, da arrecare una distorsione della concorrenza ai sensi dell’art. 93 del Trattato della Comunità europea.

Il contribuente, quindi sostiene che l’unico motivo, su cui il recupero si fonda è la comunicazione proveniente dal Comune, comunicazione che in realtà non risulta mai essere stata inoltrata dal Comune medesimo. L’operato dell’ufficio e quindi il recupero, venuta meno tale comunicazione effettivamente, si basano, solo sul fatto che la ricorrente è stata costituita ai sensi della L. 142/1990, se con violazione del disposto dell’art. 3 dello Statuto del contribuente. Inoltre, la deducente afferma che la stessa, non può rientrare nella fattispecie de quo, poiché pur essendo stata costituita ai sensi della L. 142/1990 per la ricerca del partner privato aveva svolto una gara di appalto internazionale, con pubblicazione sul GUCE del bando di gara, come da copia allegata, di conseguenza siccome il recupero si basava sul presupposto che gli aiuti erogati, avessero favorito economicamente le società municipalizzate, distorcendo così la concorrenza, nel caso di specie l’indizione di una regolare gara di appalto internazionale, ha arginato tale pericolo, poiché qualunque imprenditore italiano o estero poteva entrare a far parte della compagine sociale, partecipando alla gara di appalto. Contestava, inoltre, la nullità dell’atto impugnato perché emanato, in vigenza del decreto legge n. 10/1997, senza tenere conto delle modifiche ad esso apportate in sede di conversione, che avevano reso il recupero meno oneroso per il contribuente, rispetto a quello prefigurato nel D.L. ante conversione. Riteneva, pertanto, che trattandosi di diritto supervenies l’ufficio avrebbe dovuto annullare l’atto oggetto d’impugnazione e notificarne uno nuovo. Contestava, inoltre, l’errata quantificazione della somma ingiunta, poiché la somma recuperata era pari all’imposta secca, senza tenere conto delle agevolazioni o delle detrazioni d’imposta di cui il contribuente avrebbe potuto godere, se non avesse avuto goduto della cd. moratoria fiscale, quale lo scomputo degli interessi attivi bancari, Dit, ed altri, e ciò nonostante il contribuente, a seguito di invito formulato dall’agenzia delle entrate nel 2005, avesse prodotto tutti i documenti contabili della società, comprese le dichiarazione dei reddito per gli anni 1996/1999 come da copia del verbale di consegna allegata in atti, per cui il recupero de quo rappresentava un’ulteriore violazione ed errata interpretazione della norma, laddove prevedeva che l’ufficio liquidasse le somme dovute sulla base degli elementi comunque acquisiti. Contestava, oltre all’errata applicazione della norma e di conseguenza l’errata quantificazione della somma da recuperare, anche errori materiali di calcolo relativamente agli interessi richie-


07 Aiuti di Stato.qxd

722

14-04-2009

16:10

GiustiziaTributaria

Pagina 722

4 2008

sti, come da conteggi che allegava nel fascicolo di produzione documentali. Eccepiva inoltre, l’inammissibilità del recupero per violazione del principio della buona fede e dell’affidamento sancito dall’art. 10 dello Statuto del contribuente, poiché evidenziava che lo stesso aveva agito nel rispetto della norme all’epoca vigente, per cui il recupero derivato successivamente dalla dichiarazione d’illegittimità dello stesso per contrasto con l’art. 93 del Trattato della Comunità europea, andava a ledere sia il principio dell’affidamento che quello della buona fede, costituzionalmente garantiti. A ciò aggiungeva l’intervenuta decadenza del recupero poiché chiariva, che la decisione della Commissione europea, era intervenuta nel 2002, sulla base del regolamento Comunitario n. 659/1999 che aveva disciplinato il recupero degli aiuti di stato per violazione dell’art. 93 del Trattato, in modo retroattivo, poiché il regolamento era entrato in vigore solo nel 1999, per cui almeno per gli anni 1996, 1997, non si poteva applicare alcun recupero, e se pure fosse stato possibile, era intervenuta la prescrizione decennale a rendere illegittimo il recupero Stesso, oltre alla violazione dei determini decadenziali di cui all’art. 43 D.P.R. 660/1973, trattandosi, comunque, di un recupero di natura tributaria. A tutto ciò aggiungeva, inoltre, che l’attività svolta dalla contribuente era per la maggior parte controllata dal Comune ed era di pubblico interesse, per cui richiamando la sentenza della Corte di Giustizia europea, emessa a favore dei comuni olandesi, riteneva, che anche questo motivo, uniti a tutti i precedenti rendevano illegittimo, l’operato dell’ufficio. Proprio relativamente al fatto che il maggior azionista della società era il Comune, sosteneva, infine, che la distribuzione degli utili effettuata a favore dello stesso in qualità di soci, tenuto conto che i medesimi utili distribuiti “incorporavano” il costo figurativo delle imposte non pagate, portava a ritenere che tale distribuzione corrispondendo alle imposte non versate, non generava alcuna distorsione di concorrenza, risolvendosi in una mera reimmissione nel circuito pubblico e quindi rendevano ancora più infondato il recupero. Concludeva, pertanto, chiedendo l’accoglimento del ricorso con annullamento dell’atto impugnato. Si costituiva l’ufficio il quale in merito all’eccezione d’illegittimità dell’atto per carenza di motivazione la riteneva infondata, perché faceva presente che l’ufficio aveva agito sulla base della comunicazione fatta dal Comune di Teramo. Relativamente all’inesistenza della stessa, sostenuta dal contribuente, l’ufficio negli atti di controdeduzio-

ne, sosteneva che la sua mancanza rappresentava una grave violazione amministrativa da parte del Comune, comunque non forniva alcuna prova circa la sua effettiva esistenza. Nonostante ciò, riteneva, comunque, che l’atto era motivato, in quanto la società era nata sulla base della L. 142/1990, e quindi era soggetto al recupero de quo, perché aveva goduto della cd. moratoria fiscale, e richiamava a sostegno alcune sentenze giurisprudenziali provenienti dalla Corte di Giustizia europea. Circa l’errata interpretazione della norma che avrebbe portato, l’ufficio ad operare un recupero più alto di quello effettivamente dovuto. L’ente sosteneva la correttezza del medesimo, in quanto faceva presente che il contribuente non avendo inviato le prescritte dichiarazioni dei redditi richieste con la legge del 2005, richiamata nel D.L. 10/2007, aveva impedito all’ufficio di potere operare l’esatta quantificazione della somma da recuperare. In merito poi al fatto che l’ufficio non aveva decurtato dal recupero totale, gli interessi bancari attivi, faceva presente che ciò non era stato possibile, perché il contribuente aveva presentato a suo tempo istanza di rimborso di tali somme, per cui non poteva ora richiederle anche a scomputo dell’imposta recuperata. Come pure non poteva lamentare la non considerazione degli eventuali benefici tributari di cui avrebbe potuto godere in base alla normativa dell’epoca, poiché non aveva presentato le prescritte dichiarazioni dei redditi. Circa l’eccessiva quantificazione del recupero, perché effettuato sulla base del D.L., ante conversione, ritenendo appunto che si trattava di ius supervenies, sosteneva che ciò non obbligava l’agenzia a notificare un nuovo atto, a causa delle norme più favorevoli contenute nella legge di conversione, poiché quello notificato in vigenza del D.L. era perfettamente valido. In merito agli errori di conteggio evidenziati in perizia, li riteneva minimali rispetto al quantum recuperato. Relativamente poi all’invocata violazione del principio di buona fede e affidamento, sulla base di cospicua giurisprudenza comunitaria, la riteneva del tutto infondata, poiché sosteneva che il diritto interno, fosse recessivo dinanzi a quello comunitario, soprattutto nel caso di specie in cui si doveva ripristinare una situazione che aveva creato violazione del diritto di concorrenza. Come pure riteneva infondata l’eccezione di prescrizioni sollevate dal contribuente, non solo per gli stessi motivi dedotti per la mancata violazione del principio di affidamento, ma anche perché a parere dell’ufficio il recupero de quo non aveva natura tributaria, ma natura risarcitoria ed era soggetto al termine


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 723

Aiuti di Stato 4 2008 723

prescrizionale lungo, come previsto dal regolamento della Comunità europea n. 659/99. In merito al fatto che la maggior parte dei dividendi erano stati distribuiti al Comune, socio di maggioranza e per questo potevano essere equiparati alle imposte non versate, faceva presente che la modifica dell’art. 14 del T.U.I.R. era intervenuta solo nel 2000, con l’introduzione del comma 1-bis, per cui all’epoca dei fatti non poteva essere applicata. Come pure infondato riteneva il tentativo di far passare la società de quo, per una società di pubblica utilità. L’ufficio infine lamentava, che il contribuente nelle memorie illustrative depositate dopo l’istanza di sospensiva, aveva introdotto argomenti nuovi rispetto a quelli tracciati nell’atto di ricorso, sul punto il contribuente in sede di pubblica udienza ribadiva, che tutti gli argomenti meglio illustrati nelle memorie depositate dopo la discussione per la sospensiva erano stati individuati tutti nel ricorso, la memoria aveva chiarito solo alcuni aspetti anche in relazione alla deduzioni depositate dall’ufficio in sede di costituzione. L’ufficio, concludeva sia le memorie scritte che la discussione in pubblica udienza chiedendo il rigetto del ricorso. La parte, concludeva la pubblica udienza chiedendo in via preliminare l’accoglimento integrale del ricorso, per tutte le eccezioni preliminari formulate, in via meramente subordinata che si riconoscesse errato il recupero perché basato sull’imposta secca, in luogo di quella reale. Motivi della decisione Prima di esaminare il merito della causa bisogna chiarire come si articola il procedimento di controllo degli aiuti di Stato. Tale procedimento, tenuto conto della sua ratio generale, è un procedimento avviato dalla Commissione europea nei confronti dello Stato membro responsabile, alla luce dei suoi obblighi comunitari, della concessione dell’aiuto e non è, quindi, un’azione diretta nei confronti del beneficiario o dei beneficiari dell’aiuto, anche se questi alla fine del procedimento saranno i soggetti incisi dal recupero dell’aiuto medesimo. Infatti, il principale obiettivo cui è finalizzato il rimborso di un aiuto di Stato illegittimamente concesso è quello di eliminare la distorsione della concorrenza causata dal vantaggio concorrenziale determinato dall’aiuto stesso. La Commissione, quindi, in conformità al diritto comunitario, qualora constati che taluni aiuti non sono compatibili con il mercato comune, può ingiungere allo Stato membro che li ha versati di recuperarli presso i beneficiari. La soppressione di

un aiuto illegittimo attraverso il recupero è la logica conseguenza dell’accertamento della sua illegittimità ed è intesa al ripristino dello “status quo ante”. Siffatto obiettivo è raggiunto quando gli aiuti in parola, eventualmente maggiorati degli interessi, siano stati restituiti dal beneficiario cioè dalle imprese che ne hanno tratto effettivo vantaggio. Per effetto di tale restituzione, il beneficiario è infatti privato del vantaggio di cui aveva fruito sul mercato rispetto ai suoi concorrenti e la situazione esistente prima della corresponsione dell’aiuto è ripristinata (causa T-111/01). Il decreto legge n. 10/2007 nasce, proprio, per fissare definitivamente le procedure di recupero degli aiuti di Stato dichiarati illegittimi dalla Commissione europea nei confronti delle aziende “ex municipalizzate” trasformate in società per azioni, relativamente al periodo di imposta che va dal 1996 al 1999; e questo perché le direttive della Commissione europea non hanno una portata generale, come i regolamenti, ma vincolando al perseguimento degli obiettivi in essa contenuti solo gli Stati membri a cui si rivolgono, normativamente hanno efficacia indiretta e ciò rende necessario, per la loro attuazione in ambito nazionale, l’emanazione di provvedimenti di recepimento da parte degli Stati. In caso di mancato recepimento ed esecuzione della direttiva ai sensi dell’art. 5 del Trattato, l’inadempienza dello Stato membro può essere sanzionata da parte della Corte di Giustizia europea, come è accaduto per l’Italia. Il legislatore italiano, infatti, ebbe ad emanare la legge n. 62 del 18 aprile 2005, ma tale provvedimento subì una battuta d’arresto quanto alla disciplina delle modalità di recupero delle somme dovute, in relazione alle quali fu demandando all’emanazione di un regolamento interministeriale l’individuazione dei casi specifici di non applicazione delle norme di recupero. A causa, però, della condanna da parte della Corte di Giustizia europea, intervenuta medio tempore, il legislatore nazionale è stato costretto ad accelerare il recupero adottando lo strumento del decreto legge, per dare un’esecuzione più celere alla direttiva internazionale. Ciò detto, bisogna analizzare se la situazione delineata in premessa si possa contestare all’attuale ricorrente, e la relativa valutazione è rimessa dalla normativa internazionale al giudice nazionale, poiché il recupero di un aiuto illegittimo deve avvenire, in linea di principio, nel rispetto delle pertinenti norme del diritto nazionale, a patto però che dette norme vengano applicate in modo da non rendere praticamente impossibile il recupero de quo, anche alla luce delle disposizioni co-


07 Aiuti di Stato.qxd

724

14-04-2009

16:10

GiustiziaTributaria

Pagina 724

4 2008

stituzionali degli artt. 11 e 117. In particolare, bisogna tenere presente l’interesse della Comunità quando si tratta di applicare una disposizione che subordina la revoca di un atto amministrativo viziato alla valutazione dei vari interessi coinvolti, tenendo però sempre conto sia della logica ripristinatoria che del principio di proporzionalità che sottostà al provvedimento medesimo (vedi causa riunite C-278/92, C-279/92, C-280/92). In via preliminare, quindi, bisogna verificare la fondatezza della questione relativa alla violazione del principio della buona fede e dell’affidamento sollevato dal contribuente per l’eccessivo ritardo con il quale lo Stato italiano ha provveduto a dare esecuzione alla decisione emessa dalla Commissione europea, nonché per il lungo lasso di tempo intercorso dal momento in cui l’aiuto è stato erogato sino al momento in cui è stato dichiarato illegittimo. A tale riguardo, sebbene la legislazione nazionale che garantisce la tutela del legittimo affidamento e della certezza del diritto in materia di ripetizione non contrasti con l’ordinamento giuridico comunitario, non si può non tenere conto del carattere imperativo attribuito all’opera di controllo che la Commissione svolge sugli aiuti di stato ai sensi dell’art. 93 del Trattato. Quindi, qualora a causa dell’inosservanza della procedura prevista dall’art. 93 del Trattato, da parte dello Stato membro, attraverso la mancata notifica preventiva dell’irrogazione dell’aiuto di Stato, questo poi venga dichiarato illegittimo, tale decisione dovrà trovare applicazione a livello nazionale, anche nella misura in cui la revoca appaia, nei confronti del beneficiario dell’aiuto, contraria al principio di buona fede, poiché il beneficiario dell’aiuto non può aver riposto, a causa dell’inosservanza della procedura prevista dall’art. 93 del Trattato, alcun legittimo affidamento nella regolarità dell’aiuto medesimo. Né può considerarsi fondata la doglianza sollevata circa l’applicazione retroattiva agli anni 1997 e 1996, del regolamento 659/99 di attuazione dell’art. 93 del Trattato, perché entrato in vigore nel 1999, poiché lo stesso ha provveduto semplicemente a codificare l’iter procedimentale, creato anni dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea sulla base dell’art. 93 del Trattato esistente sin dalla formazione della Comunità europea. In relazione all’invocata prescrizione del recupero per decadenza dei termini, occorre osservare come, a livello internazionale, l’unica norma che si occupa della prescrizione e quindi impone un termine decadenziale è quella attinente all’operato di controllo svolto dalla Commissione, stabilito dal-

l’art. 15 del regolamento 659/99, che fissa in dieci anni il termine affinché la stessa possa operare il recupero di un aiuto erogato illegittimamente. Quindi, se in base al principio generale, per cui in tema di recupero valgono le norme interne dello Stato, l’eccezione formulata dal contribuente sembrerebbe fondata, in realtà, siccome i termini di prescrizioni interni si incrociano con interessi sopranazionali, per il cd. principio di effettività gli stessi diventano inapplicabili, poiché vanificherebbero l’azione di recupero, essendo il diritto interno recessivo dinanzi a quello comunitario. Di conseguenza non può trovare accoglimento neppure la doglianza di decadenza, collegata al fatto che lo Stato pur avendo avuto la possibilità, sin dal 2002, di procedere al recupero de quo, sulla base delle norme tributarie, ha lasciato trascorre detti termini, decadendo, pertanto, dall’azione di recupero per violazione dell’art. 43, D.P.R. 600/1973, poiché la Corte di Giustizia europea ha affermato che l’aiuto dichiarato incompatibile deve essere recuperato, anche qualora lo Stato abbia lasciato scadere il termine a tal fine previsto dal diritto nazionale a tutela della certezza del diritto (causa C-24/95). Il rigetto di tale eccezione non assorbe, però, la problematica circa la natura da attribuire a tale recupero, cioè se lo stesso abbia carattere tributario, come sostenuto dal ricorrente, oppure no come sostenuto, seppure in modo discontinuo, da parte dell’ufficio. Sul punto, la Commissione osserva che il recupero da un punto di vista sostanziale ha natura risarcitoria e ripristinatoria, poiché lo scopo è quello di eliminare gli effetti distorsivi della concorrenza e, quindi di ripristinare una situazione giuridica lesa a causa degli aiuti erogati dallo Stato italiano e dichiarati illegittimi per violazione dell’art. 93, Trattato dalla Comunità europea. Da un punto di vista formale, però, la quantificazione e gli strumenti utilizzati per approntare tale recupero sono di natura tributaria, ciò lo si deduce “in primis” dall’organo giudiziario dichiarato competente, dal D.L. n. 10/2007, a derimere le questioni che possono sorgere al momento dell’applicazione pratica della norma, e cioè le Commissioni tributarie, che ex lege sono competenti unicamente in tale materia. Inoltre, le fonti utilizzate per determinare l’effettiva somma da recuperare sono quelle contenute nel T.U.I.R. e quelle ad esse sottostanti. Infine, perché in altri casi di recupero di aiuti, vedi ad esempio quello relativo alle agevolazioni concesse agli S.C. autotrasportatori, quando il legislatore ha voluto qualificare il recupero non come entrata tributaria, ma come entrata patrimoniale ha utilizzato una procedura diversa da


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 725

Aiuti di Stato 4 2008 725

quella attuale, fondata sul R.D. di 639/1910 che prevede una esecuzione coattiva diversa da quella prevista nel codice di rito tributario, attribuendo la competenza in caso di controversia alla magistratura civile e la riscossione delle somme a organi diversi dall’Agenzia delle Entrate. Entrando più nel merito della questione relativa alla carenza di motivazione dell’atto sollevata dal contribuente, la Commissione la ritiene fondata, dato che l’ufficio ha basato il recupero su una comunicazione del Comune in realtà inesistente e sulla unica considerazione che essendo la società nata in base alla L. 142/1990, per tale motivo fosse soggetta al recupero. Risulta evidente che, venuta meno la comunicazione del Comune per i fatti esposti in premessa, il recupero si fonda realmente solo sull’inquadramento normativo della società ricorrente, né l’ufficio ha evidenziato altri elementi a supporto del preteso recupero. Poiché, come più volte ribadito, il recupero disposto dalla Commissione europea ha come finalità riscontrata incompatibilità dell’aiuto irrogato con il mercato comune, in riferimento non alla sua natura fiscale bensì all’incidenza che esso possa avere avuto sugli scambi intracomunitari creando un effetto distorsivo della concorrenza ivi esistente, l’ufficio avrebbe dovuto dimostrare “in primis”, in base a quali elementi concreti la società rientrasse in tale ambito poiché, nel caso di specie, la ricorrente ha dimostrato che la ricerca del partner privato è stata effettuata con una gara di appalto ad evidenza internazionale, con regolare pubblicazione sul GUCE, per cui da parte sua è stato fatto quanto possibile per permettere sia a operatori stranieri che italiani di entrare a far parte della nuova compagine e quindi di beneficiare successivamente degli eventuali aiuti, anche di natura fiscale, collegati alla medesima. Se nessun operatore economico estero ha deciso di partecipare a tale gara, non potrebbe oggi addebitarsi al contribuente, a giudizio della Commissione, gli effetti di un comportamento scorretto in realtà inesistente. Tale situazione pone la società al di fuori dello schema generale tracciato dalla Commissione nei punti 77 e seguenti della decisione, ove è esplicitato che gli aiuti di stato sono stati considerati illegittimi, tra l’altro, in quanto la Commissione stessa ha ritenuto che con la trasformazione delle municipalizzate in S.p.A., in effetti non vi fosse stata la nascita reale di un nuovo soggetto giuridico ed economico ma solo una nascita apparente, poiché in realtà la S.p.A. e la municipalizzata erano la stessa entità economica operante con forma giuridica diversa. La ricorrente, invece, attraverso la predisposizione di un gara di appalto internazionale per la selezio-

ne del socio privato, ha dimostrato concretamente di aver voluto costituire un soggetto giuridico ed economico nuovo e diverso dalla società municipalizzata eventualmente ad essa preesistente e, quindi, di non costituire semplicemente una trasformazione solo apparente di un ente già esistente. Per cui la motivazione che sottende l’operato dell’ufficio e quindi il recupero, a fronte di quanto dimostrato dal contribuente e non smentito dall’ente, è solo apparente e viola il principio dell’art. 3 dello Statuto del contribuente che prevede che gli atti della pubblica amministrazione debbano essere adeguatamente motivati. Relativamente poi all’eccezione di illegittimità dell’atto, perché emanato dall’ufficio sulla base di un decreto legge, poi modificato in sede di conversione con misure più favorevoli al contribuente, bisogna verificare se, come affermato dall’ufficio, tale variazione migliorativa, rappresentando ius superveniens, non potesse inficiare la portata dell’atto impugnato, oppure se, come sostenuto dal contribuente trattandosi appunto di ius superveniens, si rendesse in realtà obbligatorio l’annullamento dell’atto e l’emissione di una nuova ingiunzione di pagamento. Sul punto la Commissione ribadisce come il decreto legge in oggetto sia nato per fissare definitivamente le procedure di recupero degli aiuti di Stato dichiarati illegittimi dalla Commissione europea e, quindi, per dare un’esecuzione più celere alla direttiva internazionale, a fronte della condanna inflitta allo Stato Italiano per l’eccessivo ritardo con cui aveva dato esecuzione a tale atto. Atteso che il decreto legge è provvedimento normativo disciplinato dall’art. 77, Cost., e rappresenta una deroga al potere legislativo ordinario esercitato dal Parlamento, unico organo sovrano per diritto costituzionale di tale potere, se esso non viene convertito in legge dal Parlamento, entro 60gg dalla sua pubblicazione decade perdendo efficacia ex tunc. Tanto premesso, si tratta ora analizzare se l’atto emanato dall’Agenzia delle Entrate sulla base del decreto legge, rimanga valido, considerato che lo stesso in sede di conversione è stato emendato con varie modifiche tra cui quella dell’art. 1, comma 2, dove al secondo periodo dopo la parola «aiuti» è stata inserita la frase «nella misura della loro effettiva fruizione». Da un punto di vista di tecnica legislativa,cioè, bisogna verificare, quale validità e di conseguenza quale riflesso abbiano, sugli atti emessi in vigenza del decreto legge, ma prima della sua conversione, gli emendamenti apportati al decreto legge in sede di conversione dello stesso. Orbene l’emen-


07 Aiuti di Stato.qxd

726

14-04-2009

16:10

GiustiziaTributaria

Pagina 726

4 2008

damento legislativo è stato introdotto perché nella formulazione originale il decreto legge non aveva tenuto conto di un principio essenziale di diritto internazionale in materia di recupero di aiuti illegittimi, quello di proporzionalità, secondo cui il recupero deve essere limitato ai benefici effettivamente ed indebitamente fruiti, quale ne sia stata la forma poiché la funzione del recupero è essenzialmente ripristinatoria (Tribunale di prima istanza, 2 maggio 2005, causa T-111/01 e T133/01, par. 113; Corte Giustizia, 15 dicembre 2005, C-148/04, par. 117). Quindi, nel momento in cui il legislatore avesse convertito il decreto legge senza l’introduzione dell’emendamento richiamato, avrebbe operato un recupero indebito, che avrebbe legittimato non solo l’avvio di azioni di ripetizione e risarcimento, ma avrebbe potuto esporre, lo stesso Stato ad ulteriori iniziative comunitarie per i pregiudizi arrecati alla concorrenza, configurandosi evidentemente il recupero de quo come un prelievo discriminatorio e suscettibile di alterare il funzionamento del mercato a danno delle società tenute a restituire l’aiuto, nonché per violazione dell’artt. 3 e 53 della nostra Costituzione. Conseguentemente, l’emendamento de quo è intervenuto sulla disposizione di diritto interno al fine di adeguarla alle norme di rango comunitario, modificando il senso della disposizione contenuta nel decreto legge. La modifica ha attuato una parziale abrogazione dello stesso con efficacia ex tunc, da cui consegue che l’atto emesso dall’ufficio in vigenza del decreto ante conversione, o doveva essere annullato in autotutela ovvero adeguato al nuovo dettato normativo, atteso che la modifica introdotta incideva sul provvedimento emanato, non tanto perché si configurava come una forma di ius superveniens, ma in quanto, avendo modificato il senso della norma, aveva prodotto un’abrogazione parziale del decreto legge originale con efficacia ex tunc. Ne scaturisce che l’atto risulta viziato da errori di quantificazione della somma da restituire, poiché, con riferimento ad aiuti erogati attraverso riduzioni fiscali, il recupero effettuato sulla base del decreto legge ante conversione risulta riferito alla imposte astrattamente dovute mediante l’applicazione dell’aliquota nominale del tributo, mentre, per i motivi dedotti in precedenza e anche per costante giurisprudenza della Corte Giustizia, causa C148/04, par. 119, il recupero deve avvenire tenendo conto, attraverso un processo ricostruttivo, delle imposte che sarebbero state concretamente applicabili nelle particolari circostanze in assenza delle disposizioni dell’aiuto, sulla base delle rego-

le ordinariamente in vigore all’epoca dei fatti. A titolo indicativo, una società beneficiaria di un aiuto – in assenza delle disposizioni censurate dalla Commissione – avrebbe potuto avere accesso a disposizioni di favore fiscale quale la Dit, la normativa “Tremonti” sulle assunzioni, lo scomputo degli interessi attivi bancari, a cui non aveva a suo tempo potuto fare ricorso appunto perché beneficiaria di normative più favorevoli poi ritenute incompatibili. Si è anche evidenziato dalla ricorrente, sia in sede di atti scritti che di discussione, come l’ufficio abbia operato il recupero sulle imposte astrattamente dovute non solo perché ha utilizzato un decreto legge solo parzialmente convertito, ma anche a causa di una serie di errate interpretazioni della norma, che hanno avuto riflessi non solo contabili ma anche motivazionali sull’atto emanato. Di fatto, la quantificazione del recupero è scorretta poiché sorta sull’errata interpretazione data dall’ufficio alla nonna, avendo il medesimo ritenuto che, non avendo la ricorrente presentate le dichiarazioni dei redditi di cui alla L. 62/2005, come richiamato nel D.L. 10/2007, ciò gli dava la facoltà di operare il recupero astratto dell’imposta, non tenendo però in conto la disposizione successiva, (introdotta dal legislatore memore delle decisioni della Corte di Giustizia europea sul punto e del più volte invocato principio di proporzionalità), con la quale era stato previsto che, in caso di una mancata presentazione delle suddette dichiarazioni, l’ufficio avrebbe dovuto liquidare le somme da recuperare sulla base degli elementi direttamente acquisti. Tali elementi, pare alla Commissione, non siano in alcun modo mancati nel caso di specie, visto tutta la documentazione contabile prodotta dalla deducente, in data 3 novembre 2005, a seguito degli inviti n. 10041/2005,100342/2005, 100343/ 2005, 100344/2005 formulati dall’agenzia delle entrate, di cui la parte ricorrente ha allegato copia al fascicolo documentale. In questi termini, la corretta azione di recupero che l’ufficio avrebbe dovuto porre in essere sarebbe stata quella di verificare e conteggiare le imposte che il contribuente avrebbe dovuto in concreto versare, se non ci fosse stato il regime di aiuti, mentre in realtà l’ufficio ha operato un recupero delle imposte – come già sottolineato – astrattamente dovute, mediante applicazione dell’aliquota nominale del tributo; cosa incorrendo in un’errata applicazione della norma e di conseguenza in una errata quantificazione della somma da recuperare (oltre ad un errato conteggio degli interessi, come dimostrato dalla perizia tec-


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 727

Aiuti di Stato 4 2008 727

nica depositata in atta dal contribuente e non confutata). Tutto ciò rende fondata anche l’eccezione dell’errata quantificazione dell’imposta recuperata, che va pertanto accolta. Per quanto riguarda l’aspetto legato alla problematica che la maggior parte dell’attività svolta dalla ricorrente era a favore del Comune, (il che porterebbe ad inquadrare detta attività nella cd. clausola di salvaguardia prevista dall’art. 86 paragrafo 2 del Trattato CEE, la quale prevede che «le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente Trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata», con conseguente esclusione dell’applicabilità del recupero in oggetto a tali società, poiché non soggette alle regole di concorrenza di cui all’art. 93 del Trattato) la Commissione osserva che, sebbene da un punto di vista di diritto meramente teorico, anche alla luce della sentenza della Corte di Giustizia europea, causa C-295/05 del 19 aprile 2007, cd. causa Targsa, nonché della causa C-340/04, Carbotermo S.p.A. e Consorzio Lisei contro Comune di Busto Arsizio, tale affermazione potrebbe apparire condivisibile, ma non lo è avuto riguardo alla particolarità del caso concreto. Ed infatti la contribuente, sul punto, non ha fornito una prova chiara sull’esistenza di quei requi-

siti necessari a dimostrare che essa è un organismo di diritto pubblico in senso comunitario (ad esempio in relazione al tipo di attività svolta, alla preponderante destinazione della stessa a beneficio del Comune o all’impossibilità di fissare autonomamente i prezzi perché le prestazioni effettuate, essendo rivolte a favore della collettività, non venivano determinati su basi commerciali). Mancando tale prova concreta, quindi, non si ritiene possibile applicare la cd. clausola di salvaguardia, sicché l’eccezione non può essere accolta. Come pure deve essere rigettata l’eccezione sollevata dall’ufficio, secondo il quale la parte avrebbe introdotto nuovi motivi attraverso la memoria illustrativa, depositata dopo la discussione dell’udienza di sospensiva, poiché, a parere di quest’organo, tutti i motivi dedotti in memoria rappresentano un approfondimento di quelli che erano i motivi di doglianza già presenti nell’atto introduttivo e una confutazione dei fatti addotti dall’ufficio nella propria memoria di costituzione. Concludendo, quindi, la commissione accoglie il ricorso, riconoscendo l’illegittimità dell’atto per carenza di motivazione, nonché per l’errata quantificazione delle somme da recuperate, derivate da errata interpretazione e applicazione della norma da parte dell’ufficio, e quindi per violazione del principio internazionale della proporzionalità che sorregge la logica ripristinatoria a cui il recupero deve essere ispirato. Vengono compensate le spese del giudizio stante la novità e la complessità degli argomenti trattati.

II 97

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XX, 21 aprile 2008, n. 91 Presidente: Golia - Relatore: Longaretti Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Procedura di recupero - Ingiunzioni di pagamento emesse ai sensi dell’art. 1, D.L. 15 febbraio 2007, n. 10 - Legittimità (Trattato CE, art. 87, par. 1; dec. Commissione CE 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 66, comma 14, conv. con L. 29 ottobre 1993, 427; L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 70) Le ingiunzioni emesse per il recupero dei benefici fruiti dalle società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria, in attuazione della decisione della Commis-

sione europea n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002, sono legittime e giustificate quanto ai termini e ai modi di emanazione in quanto fondate sull’art. 1 del D.L. n. 10 del 2007. Svolgimento del processo Il giorno 14 giugno 2007 la società [...] presentava i ricorsi qui riuniti avverso le comunicazioniingiunzioni notificate il 28 marzo 2007 dall’Agenzia delle Entrate di Milano ai fini del recupero dell’aiuto di stato fruito nei periodi d’imposta 1997, 1998 e 1999. Detto recupero seguiva la decisione della Commissione delle Comunità europee n. 2003/19/CE del 5 giugno 2002 che dichiarava incompatibile il regime di esenzione fiscale con il mercato comune la legge nazionale del 28 dicembre 1995, n. 549, art.


07 Aiuti di Stato.qxd

728

14-04-2009

16:10

GiustiziaTributaria

Pagina 728

4 2008

3, comma 70, e dell’art. 66, comma 14 del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, in legge n. 427 del 29 ottobre 1993. L’esenzione favoriva le società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria esercenti servizi pubblici locali costituite ex art. 22 della legge 8 giugno1990, n. 142. In attuazione della decisione della Commissione europea veniva emanato il D.L. 15 febbraio 2007 con cui veniva disciplinato il recupero dell’aiuto fiscale fruito con particolare riferimento al comma 2 dell’art. 1. In sostanza detto recupero riguardava le imposte non corrisposte con gli interessi connessi a seguito dell’esenzione fiscale ottenuta nei periodi d’imposta succitati. Le comunicazioni-ingiunzioni notificate evidenziavano il calcolo delle imposte Irpeg e Ilor che si sarebbero dovute liquidare sulla base delle dichiarazioni dei redditi presentate dalla società per le tre annualità in questione, unitamente al calcolo degli interessi con applicazione dei tassi in vigore all’epoca. Il recupero per ciascuna annualità veniva così determinato: - anno 1997 somma capitale euro 169.666,42 interessi 112.495,33; - anno 1998 somma capitale euro 360.067,04 interessi 204.952,44; - anno 1999 somma capitale euro 331.905,16 interessi 166.348,07. La parte ricorrente nel suo ricorso, dopo un excursus sull’inquadramento normativo in cui si collocava la vertenza de qua, osservava quanto segue: - nullità della notifica delle comunicazioni-ingiunzioni per il mancato rispetto della procedura ex art. 60, comma 1, lett. b- bis del D.P.R. 600/1973 (notifica eseguita da un messo speciale autorizzato dall’Agenzia anziché da un ufficiale giudiziario) oltre al fatto di consegnare il provvedimento a persona diversa dal legale rappresentante della società; - illegittimità della pretesa tributaria per decorrenza dei termini in materia di accertamento trattandosi di annualità d’imposta i cui termini ai fini delle rettifiche delle dichiarazioni erano largamente scaduti (art. 43, D.P.R. 600/73); - inapplicabilità della decisione della Commissione europea alle società a partecipazione pubblica totalitaria come appunto era il caso della ricorrente; - solo nel caso si sia verificata effettivamente una distorsione della concorrenza l’aiuto poteva dirsi incompatibile con il mercato comune e quindi recuperato ma questo non era il caso di aziende comunali o aziende speciali e municipalizzate con servizi pubblici locali ben delimitati;

- la società [...] agiva quale ente strumentale del Comune di [...], come azienda speciale senza violare le regole comunitarie con controlli comunali analoghi a quelli eseguiti su altri servizi; - era il Consiglio comunale di [...] che approvava e deliberava sull’andamento gestionale della società il cui Consiglio di amministrazione era composto da possessori di azioni di categoria A (enti pubblici) con il 98% del capitale sociale e il 2% appartenente ad altro ente locale; - l’attività veniva svolta solo nel territorio comunale (v. delibera dell’11 maggio 1998); - illegittimità dei provvedimenti impugnati in quanto la società [...] S.p.A. non aveva fruito effettivamente dell’agevolazione fiscale; - nullità dei provvedimenti per carenza di motivazione; - non debenza dell’imposta sul patrimonio netto in quanto la norma la prevede solo con riferimento ai redditi; - errata determinazione dell’Irpeg per la mancata applicazione della Dit (dual income tax) per il periodo d’imposta 1997; - prescrizione del credito sugli interessi ingiunti fino all’anno 2001 ex art. 2948, comma 1, n. 4, c.c. - rinvio della questione alla Corte di Giustizia europea. In data 8 febbraio 08 presentava memoria aggiunta in cui insisteva sui motivi già espressi nel ricorso principale. In conclusione la parte ricorrente, per quanto sopra, chiedeva la condanna dell’amministrazione al rimborso di quanto sino ad oggi versato in relazione alle comunicazioni-ingiunzioni notificate; in subordine di tener conto e di provvedere al ricalcolo per quanto attiene l’imposta sul patrimonio, la Dit non considerata e gli interessi oltre a considerare la prescrizione del credito degli interessi maturati sino al 2001 e per differenza rimborsare l’eccedenza versata oltre interessi anche anatocistici. Con vittoria di spese di giudizio. Allegava documentazione con deposito del 31 gennaio 2008. L’Agenzia delle Entrate di Milano si costituiva in giudizio con deduzioni del 14 giugno 2007 in cui sosteneva quanto segue: - il procedimento di recupero, avente natura speciale, scaturiva dall’applicazione della legge n. 10 del 15febbraio 2007, art. 1, comma 1, a seguito della decisione della Commissione comunitaria; - la notifica è stata fatta regolarmente secondo quanto previsto dalle norme in materia (ex art. 60 D.P.R. 600/1973 e art. 137 e seguenti c.p.c. con particolare riferimento all’art. 145); - nessuna violazione della legge in tema di accer-


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 729

Aiuti di Stato 4 2008 729

tamenti vi era stata in quanto gli atti notificati rappresentavano provvedimenti diversi dagli avvisi di accertamento e pertanto non soggetti a decadenza o prescrizione; - il calcolo delle maggiori imposte era stato fatto sulla base di quanto dichiarato con i mod. Unico per le dichiarazioni dei redditi senza alcuna rettifica; - l’art. 27 della legge 62/2005 non specifica che il recupero non compete per le società a partecipazione pubblica totalitaria; - la concessione dell’aiuto fiscale aveva turbato la situazione concorrenziale per cui era corretto il recupero per tutte quelle società che ne avevano usufruito; - no comment sul fatto di non aver effettivamente fruito dell’agevolazione, decisione assunta all’epoca dalla società ricorrente in maniera autonoma; - anche per il calcolo dell’Irpeg e della Dit le comunicazioni-ingiunzioni non presentavano alcun vizio in quanto le imposte erano state determinate in base alle dichiarazioni dei redditi presentate dalla società. In conclusione chiedeva la conferma dei provvedimenti impugnati e quindi il rigetto dei ricorsi riuniti con condanna alla rifusione delle spese di giudizio. La Commissione si riservava la decisione, sciolta in data 17 aprile 2008. Motivi della decisione A scioglimento della riserva in data 17 aprile 2008 il Collegio assume l’infondatezza delle domande di cui ai ricorsi riuniti. Prima di entrare nel merito della vicenda in causa occorre dare risposta in via pregiudiziale alle richieste formulate nel ricorso e confermate in udienza da parte attrice. Richiesta: nullità della comunicazione-ingiunzione per difetto assoluto della notificazione. La Commissione ritiene la notifica eseguita mediante messo speciale incaricato dall’Agenzia in armonia con quanto prevede l’art. 60 del D.P.R. 600/1973 effettuata presso la società ex art. 145 c.p.c. come da documentazione in atti. Richiesta: accertare l’avvenuto decorso dei termini previsti a pena di decadenza in materia di accertamento. La Commissione rileva che per il triennio in questione la società non si era assoggettata alle imposte Irpeg ed Ilor per cui non può evidenziarsi la decadenza ex art. 43, D.P.R. 600/1973, come invocato da parte attrice. Richiesta: illegittimità per carenza di motivazione.

La Commissione ritiene che l’ingiunzione ai fini del recupero fiscale trovi fondamentalmente la sua motivazione e giustificazione nell’art. 1 del D.L. attuativo 15 febbraio 2007, n. 10, e che i ponderosi atti di difesa hanno dimostrato di conoscere perfettamente i termini della vertenza. Richiesta: illegittimità nella parte in cui richiede l’imposta sul patrimonio netto in quanto non dovuta. La Commissione conferma la validità del recupero anche di questa imposta perché la norma all’art. 1 del D.L. 10/2007 fa riferimento a «[...] imposte non corrisposte [...]» comprendendo in tal modo tutti quegli imponibili assoggettabili fiscalmente. Richiesta: illegittimità per errata considerazione dell’agevolazione Dit ai fini dell’Irpeg e prescrizione delle somme chieste per interessi. La Commissione rileva che le somme chieste a recupero rappresentano il risultato fiscale di quanto evidenziato nelle dichiarazioni dei redditi del triennio. Anche per gli interessi vedi art. 3 del D.L. attuativo con riferimento all’art. 24, sub 3 della legge 25 gennaio 2006, n. 29. Si ritiene valido il periodo decennale della prescrizione in quanto trattasi di obbligazione tributaria connessa (Cass., 18432/2005). Sul punto si richiama anche in via analogica la sentenza n. 21657 della Corte di Cassazione del 16 novembre 2004 in materia di rimborsi di crediti d’imposta che si è pronunciata per il diritto generale di prescrizione decennale e quindi al caso de quo si ritiene applicabile l’art. 2946 del c.c. Richiesta: rinviare ex art. 234 del Trattato CE alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee la soluzione delle questioni (S.p.A. a partecipazione pubblica totalitaria – S.p.A. cd. in house). Il Collegio sostiene che la decisione della Commissione europea (2003/193/CE) può essere applicata anche alla fattispecie de qua in quanto ammette che il mercato delle concessioni dei servizi pubblici locali è aperto alla concorrenza comunitaria e l’aiuto a favore di una S.p.A. ex legge 142/1990 disincentiva i Comuni ad affidare ad altre società questi servizi. Si ritiene quindi non necessario il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea. Nel merito si ritiene in primis di esporre il concetto di aiuto di stato secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee che come noto rappresenta ormai l’indirizzo diretto e prevalente su quella degli Stati membri europei. Occorre risalire al Trattato che ha istituito la Comunità europea (Trattato CE) per il quale la Comunità deve vigilare affinché vi sia «un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata dal mercato interno» (art. 3, lett. g). Tra le re-


07 Aiuti di Stato.qxd

730

14-04-2009

16:10

GiustiziaTributaria

Pagina 730

4 2008

gole di concorrenza vi sono quelle relative agli aiuti concessi dagli Stati. Le principali disposizioni sono contenute negli artt. 87 e 89 ed in particolare per il caso de quo nell’art. 86 (servizi d’interesse generale). Le deroghe ex art. 87 al principio assoluto dell’incompatibilità con il mercato comune sono dirette ad aiuti di carattere sociale concessi a singoli consumatori, per risolvere danni arrecati da calamità naturali, per eventi eccezionali, per lo sviluppo di alcune regioni, per altre specifiche ragioni tra cui servizi d’interesse economico generale. Le regole comunitarie riguardano non solo la concorrenza tra imprese private ma anche attività commerciali e industriali svolte da imprese pubbliche che devono essere trattate alla stessa stregua delle imprese private. Un’impresa pubblica che svolge attività economiche non potrebbe quindi essere autorizzata a ricevere aiuti salvo che non possa rientrare nella deroga prevista dall’art. 86 del Trattato CE. Occorre quindi considerare se la società [...], municipalizzata del Comune di [...], rientra o meno tra quelle società che operano nell’interesse generale. Pare che nel caso in questione l’area d’influenza economica sia stata limitata al territorio comunale, circoscritta all’area sud-ovest di Milano, per cui l’attività esercitata non poteva rientrare nel concetto di “interesse generale” contenuto nell’art. 86, sub 2 del Trattato CEE, bensì in quello d’interesse particolare del Comune di [...], a cui faceva capo il bilancio della società e gli utili relativi. Le deroghe al principio assoluto della libera concorrenza dettato dal Trattato e seguito dalla Commissione europea appaiono quindi escludere casi come quello di cui trattasi dove l’impresa fornisce servizi a livello locale. Rimane comunque il fatto che la costituzione di queste società municipali ha indubbiamente impedito di rilasciare concessioni secondo procedure aperte. Altra osservazione della società ricorrente riguarda la situazione societaria a maggioranza totalitaria pubblica che giustificava l’esenzione fiscale derivante dall’aiuto di stato; sul punto si ritiene

irrilevante la composizione societaria se l’aiuto fiscale impedisce di fatto la libera concorrenza. In sostanza è convinzione di questa Commissione che l’esenzione fiscale accordata nel triennio oggetto del recupero sia incompatibile con le norme del Trattato CEE e con la decisione assunta dalla Corte di Giustizia della Comunità europea. Appare quindi corretta l’applicazione del D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, art. 1, in esecuzione della sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, resa in data 1 giugno 2006 nella causa [...]. Attuazione della decisione 2003/193/CE della Commissione del 5 giugno 2002. Procura d’infrazione ex art. 228 del Trattato CEE n. 2006/2456 che recupera le imposte non corrisposte e degli interessi relativi. Questo decreto attuativo supera e conclude una serie di decisioni e direttive comunitarie iniziate con la Direttiva 96/92/CE che ha dato inizio alla liberalizzazione del settore energetico, sino alla decisione della CEE del 5 giugno 2002 con cui decideva di contrastare gli aiuti di Stato accordati dall’Italia alle aziende municipalizzate italiane (imprese di servizi pubblici di proprietà di enti locali); riteneva cioè incompatibile con il libero mercato l’esenzione di tasse e tributi in capo a imprese di servizi pubblici a prevalente capitale pubblico. In sostanza la Commissione europea nella sua decisione imponeva allo Stato italiano il recupero di quei tributi e tasse non pagati che nel caso in trattazione si riferiscono agli anni 1997, 1998 e 1999. Lo Stato italiano con la legge 18 aprile 2005, n. 62, art. 27, sub 5, ne pretende il recupero, unitamente agli interessi, consentendo il rimborso in 24 rate mensili (v. decisione Agenzia delle Entrate dell’1 giugno 2005). Il decreto attuativo succitato dà esecutività a questa legge. Deriva decisione di conseguenza. Quanto alle spese di giudizio, la sostanziale novità degli argomenti sottoposti alla cognizione di questo giudice, ricorrendo giusti motivi, consentono di dichiarare la loro compensazione tra le parti in causa.

III 98

Commissione tributaria provinciale di Savona, sez. V, 30 giugno 2008, n. 285 Presidente: Pellegrini - Relatore: Idola Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Decisione Commissione UE 2003/193/CE -

Procedura di recupero - Decadenza della potestà accertativa dell’amministrazione finanziaria - Art. 43, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 - Applicabilità - Ingiunzioni di pagamento emesse ai sensi dell’art. 1, D.L. 15 febbraio 2007, n. 10 - Termine quinquennale per il recupero - Sussistenza


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 731

Aiuti di Stato 4 2008 731

(Trattato CE, art. 87, par. 1; dec. Commissione CE 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 66, comma 14, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427; L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 70) L’azione di recupero degli aiuti concessi dal nostro Stato alle società costituite ex legge 142/1990 è soggetta all’ordinario termine decadenziale di cui all’art. 43, D.P.R. 600/1973. Sono pertanto illegittime le ingiunzioni notificate dall’amministrazione finanziaria ai sensi del D.L. 10/2007. Svolgimento del processo La [...] S.p.A., con sede in [...] in persona del Presidente del Consiglio di amministrazione e legale rappresentante pro tempore [...] presentava all’agenzia delle Entrate, ufficio di Savona istanza di applicazione esenzione de minimis ex art. 1, comma 4, 9, e 10 del D.L. 15 febbraio 2007 respingeva ex comma 5 della L. n. 10/2007, avendo superato nell’anteriore triennio la soglia comunitaria di 100.000 Ecu. Avendo inoltre tale ufficio notificato alla società suddetta comunicazione-ingiunzione in data 10 maggio 2007, provvedimento del 20 aprile 2007, prot. n. [...] relativo ad Irpeg e Ilor e interessi sanzionatori per l’anno di imposta 1993, la notificatoria contro tale diniego e l’atto ingiuntivo de quo inoltrava ricorso all’ufficio e a questa Comm. trib. prov. in data 9 luglio 2007, costituendosi in giudizio il 12 luglio 2007 tramite i difensori [...] e [...], commercialista nell’Ordine di Savona, con studio in via [...] ove agli effetti del presente procedimento eleggeva domicilio. Con il ricorso de quo chiedeva l’annullamento dell’atto notificato previa sospensione dello stesso e eccepiva e contestava l’operato dell’agenzia delle Entrate, ufficio di Savona, in ordine ai seguenti punti di diritto. 1) In via pregiudiziale. Decadenza del termine di accertamento e conseguente violazione dell’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, poiché atto notificato oltre il 31 dicembre del quarto anno successivo e applicabile anche al diniego di aiuti comunitari. 2) Difetto di legittimazione passiva, avendo individuato quale destinatario dall’atto il sig. [...] in luogo del legale rappresentante, determinando quindi l’invalidità dell’atto. 3) Assenza delle condizioni legittimanti il recupero dell’aiuto. Violazione del principio comunitario di tutela del legittimo affidamento e totale assenza di pregiudizio alla concorrenza comunitaria. 4) Violazione della disciplina comunitaria relativa

agli aiuti de minimis, poiché per l’anno di imposta 1993 con l’atto impugnato richiede alla ricorrente l’importo di euro 75.196,00 pari all’ammontare dell’aiuto di Stato, equivalente alle imposte non corrisposte in conseguenza del regime fiscale di esenzione fruito dalla società predetta, oltre interessi, stante l’attuale soglia minima di euro 200.000. 5) Violazione degli artt. 42 del D.P.R. n. 600/1973 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 per duplice errore di motivazione, vuoi per la non esplicazione della decisione della Commissione europea che si ritenga applicabile alla società, vuoi per la decadenza dell’accertamento con riferimento all’esimente de minimis. 6) Erronea determinazione delle imposte e degli interessi, non avendo dedotto l’Ilor dall’Irpeg, dando così luogo ad una duplice tassazione esclusa dall’ordinamento tributario e conseguente errore anche nel calcolo degli interessi. 7) Inapplicabilità degli interessi sanzionatori. Violazione dell’art. 10, comma 2 della L. 212 del 27 luglio 2000 e dell’art. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 472 del 18 dicembre 1997, legalmente non applicabile in quanto norma entrata in vigore successivamente alla normativa in materia del recupero di aiuti di Stato. 8) Illegittimo computo degli interessi, poiché a tasso composto e anatocistico, contrariamente a quello semplice indicato dalla Commissione in caso di recupero di aiuti illegali (2003/C 100/08). 9) In via di estremo subordine, compensazione con diritto al risarcimento dello Stato e all’azione di ripetizione nei confronti dei Comuni, come da giurisprudenza comunitaria. 10) In via pregiudiziale, sospensione dell’esecuzione del provvedimento sussistendo il duplice requisito del fumus boni iuris e del periculum in mora essendo l’ufficio incorso in errore di calcolo con l’esimente de minimis, considerata anche la rilevanza dell’importo richiesto. Chiedeva in conclusione previa sospensione cautelare dell’atto, l’annullamento integrale dello stesso, poiché illegittimo, in subordine dichiarare non dovuti gli interessi o almeno riliquidarli in misura di legge, sempre subordinatamente con riduzione delle imposte avuto riguardo all’esimente de minimis, con vittoria di spese, diritti ed oneri. Replicava i motivi e le richieste esposte in ricorso con memoria depositata l’11 ottobre 2007. Per la parte opposta, con nota dell’8 ottobre 2007, prot. n. 2007/70987, depositata il 12 ottobre 2007, si costituiva in giudizio l’agenzia delle Entrate, ufficio di Savona, con proprie controdeduzioni, previa esposizione sommaria dei fatti già


07 Aiuti di Stato.qxd

732

14-04-2009

16:10

GiustiziaTributaria

Pagina 732

4 2008

indicati dalla ricorrente, avversava il ricorso stesso esponendo che: con decisione n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002, ex art. 3; la Commissione europea avesse dichiarato i regimi agevolativi di cui trattasi aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune, determinando gli stessi una disparità di trattamento tra i soggetti passivi tributari in violazione dei principi di libertà di concorrenza e della libera circolazione dei servizi o dei capitali, imponendone il recupero presso i beneficiari secondo le procedure del diritto nazionale. Il titolo del recupero trovasse la sua fonte negli artt. 87 e 88 del Trattato regolamento CE n. 659/1999, con la competenza delle agenzie delle Entrate attribuita dall’art. 27 della L. 18 aprile 2005, n. 62, come modificato dall’art. 1 della L. 23 dicembre 2007 n. 266 e dal D.L. 15 febbraio 2007, n. 10 e che quest’ultimo stabilisse l’ambito oggettivo del recupero individuandolo negli «aiuti equivalenti alle imposte non corrisposte e dei relativi interessi calcolati ai sensi dell’art. 3, comma 3, della decisione della Commissione europea 200/193 del 5 giugno 2002, in relazione a ciascun periodo d’imposta in cui l’aiuto fosse stato fruito». Che l’ufficio nel termine dei 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge avesse proceduto all’emissione dell’ingiunzione, ricalcolando le imposte e interessi, attenendosi allo norme oltre che nazionali anche del diritto comunitario, prioritario a quello nazionale anche secondo recenti pronunce sia della Corte costituzionale (cfr. sent. n. 170/1984) che della Cassazione (cfr. sez. lavoro sent. n. 3841 del 15 marzo 2002), motivo per cui avesse disapplicato l’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, presunto violato dall’ufficio secondo la ricorrente, attuando le scelte del legislatore e definendo l’atto notificato non avviso di accertamento ma bensì comunicazione ingiunzione (scelta terminologica non casuale, non trattandosi di accertamento di cui l’ufficio fosse titolare di tale potere bensì della pura e semplice riscossione di un credito vantato dall’erario, nei confronti della contribuente per imposte non pagate, fruite come aiuti di Stato e indicate nella dichiarazione dei redditi). Che gli interessi non avessero natura sanzionatoria (come sostenuto dalla ricorrente), ma dilatatoria in termini di utilizzo del denaro di cui all’aiuto fruito. Quanto all’esimente de minimis si fosse già espressa con la nota prot. 22111/2007 del 14 giugno 2007, che l’Irpeg e l’Ilor fossero state solo liquidate e non assolte. Chiedeva in conclusione il rigetto del ricorso, la conferma della comunicazione ingiunzione impugnata, nonché il provvedimento di rigetto dell’istanza di applicazione esenzione de minimis; la

condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio come da nota allegata. La richiesta sospensione cautelare veniva accolta a cura di questa sezione, con differente composizione collegiale con ordinanza n. 149 nell’udienza del 7 agosto 2007, con rinvio per la trattazione sul merito all’udienza odierna. All’odierna udienza la ricorrente insiste come da ricorso e memoria, mentre la rappresentante dell’ufficio insiste come da controdeduzioni, rimettendosi infine le parti al Collegio per la decisione in camera dl consiglio. Motivi della decisione Preliminarmente questo Collegio fa notare che la società ricorrente è stata costituita a prevalente capitale pubblico di Comuni per il servizio raccolta rifiuti. Che nella sua qualità abbia fruito degli aiuti di minimus di Stato sino alla soglia di euro 100.000. In esenzione dal versamento delle imposte Irpeg/Ilor nel triennio 1993/1994/1995 di cui all’art. 1, comma 4, 9, 10 del D.L. n. 10 del 15 febbraio 2007. In seguito a istanza della ricorrente all’agenzia delle Entrate di Savona per fruire di tali benefici ne seguiva il diniego, anzi dopo aver effettuato una verifica presso la sede della società notificava comunicazione ingiunzione qui tempestivamente impugnata, per revoca dei suddetti benefici. La ricorrente ne invoca la decadenza dell’ufficio da qualsiasi opera accertatrice per effetto dell’art. 43 del D.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973, che dispone il termine del 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di riferimento del periodo di imposta, e, per violazione di altre norme in precedenza indicate come da ricorso, chiedendo previa sospensione cautelare dell’atto impugnato l’annullamento sia per imposte che per interessi, sostenendone l’illegittimità e vizi propri inerenti gli importi pretesi conseguenti a errori di liquidazione. Il ricorso è fondato e dev’essere accolto. L’ufficio è infatti fuori termini da qualsiasi azione accertatrice essendo spirato il termine quadriennale dall’esercizio di riferimento. Non soltanto per questo motivo ma anche supposto che un sopravveniente diritto comunitario successivo ai periodi di cui la società ricorrente abbia fruito dell’esenzione di imposta de minimis, una norma non può essere applicata contro il principio generale del diritto costituzionalmente garantito di vigenza ratione temporis di cui all’art. 25, comma 2 della Costituzione e dell’art. 3 della L. 27 luglio 2000 n. 212 sull’inefficacia retroattiva della norma.


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 733

Aiuti di Stato 4 2008 733

Il fatto che abbia denominato l’atto impugnato comunicazione ingiuntiva poco cambia la sostanza, concretizzandosi in una pretesa tributaria di un aiuto goduto in termini di esenzione d’imposta e che per il fatto che una norma successiva lo metta in condizioni di pretendere. L’ufficio definisce il proprio atto di non essere espressione di potere di accertamento di cui lui è titolare, bensì pura e semplice riscossione di un credito vantato dall’erario nei confronti del con-

tribuente. In poche parole e apertis verbis sembra volersi sostituire al concessionario della riscossione. Ma questo non può e non deve sussistere nel modo più assoluto e in controverso non essendovi una norma che a ciò lo autorizzi. Sussistono obiettive e fondate ragioni, in considerazione della normativa e giurisprudenza sopravvenute; per compensare tra le parti le spese di giudizio.

I - III

grado di soddisfare le condizioni de minimis, oppure in virtù di altri specifici regolamenti comunitari di esenzione.

Nota di Clemente Ciampolillo L’applicazione delle decisioni comunitarie di recupero di aiuti di Stato e, nel caso concreto, della decisione 2003/193/CE – emessa in relazione all’esenzione triennale dalle imposte sul reddito a favore delle S.p.A. a partecipazione pubblica maggioritaria affidatarie di servizi pubblici locali in outsorcing – non trova ostacoli sostanziali nelle norme procedurali di fonte interna. Non possono quindi essere invocate dalle società contribuenti raggiunte dalle ingiunzioni di recupero ex D.L. 10/2007 (quanto meno, con speranze di accoglimento) eccezioni di decadenza della potestà accertativa delle autorità nazionali, il principio di legittimo affidamento e di certezza del diritto, la totalità di partecipazione pubblica della società beneficiaria, nonché ogni altra possibile contestazione che miri a disattendere l’ordine incondizionato delle istituzioni comunitarie a ristabilire lo status quo ante. L’unica possibile causa di esclusione invocabile dai destinatari delle ingiunzioni di recupero sembra potersi riscontrare, in termini concreti, nell’ipotesi di aiuti erogati a singole imprese in

1 Comm. trib. prov. Lucca, sez. I, sent. 28 gennaio 2008, n. 172; Comm. trib. prov. Novara, sez. I, sent. 3 ottobre 2007, n. 80; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sent. 17 luglio 2007, n. 439, tutte con commento di CERMIGNANI, Primi orientamenti sul recupero degli aiuti di Stato fiscali relativi alle società per la gestione dei servizi pubblici locali (cd. “ex municipalizzate”), in questa rivista, 2008, 1, 79 ss. La sentenza dei giudici di prime cure di Reggio Emilia è stata commentata anche da SERRANÒ, in Boll. Trib., 2008, 261 ss., mentre quella di Milano ha trovato una breve recensione da parte di SETTEMBRE su Fiscaltax, 2008, 9, 1260 ss. 2 Cfr. Corte di Giustizia CE, causa C-

Dopo le pronunce dei giudici tributari di Lucca, Novara e Reggio Emilia1, si arricchisce il panorama giurisprudenziale in materia di recupero di aiuti di Stato concessi dal nostro legislatore alle ex aziende municipalizzate trasformate in S.p.A. ex lege 142/1990. Senza soffermarci troppo sulla vicenda, che ha visto il nostro Paese nuovamente condannato dalla Corte di Giustizia europea per mancata ottemperanza alle decisioni comunitarie2, le sentenze in commento offrono l’occasione di analizzare alcuni aspetti del delicato equilibrio che sussiste tra l’autonomia processuale degli Stati membri (da un lato) e l’efficacia del diritto comunitario (dall’altro). Le decisioni comunitarie in materia di aiuti di Stato Com’è noto, i Trattati delle Comunità europee hanno – volutamente – sottratto alla discrezionalità degli Stati il sistema dei controlli sulle misure potenzialmente in grado di creare distorsioni alla concorrenza interna affidandolo alla competenza

207/05, sent. 1 giugno 2006. Si ricorda che la Repubblica italiana era già stata condannata dai giudici di Lussemburgo – a seguito di distinti «ricorsi per inadempimento» promossi dalla Commissione europea ex art. 88, n. 2 del Trattato CE, id est per mancata esecuzione di sue decisioni di recupero – in relazione alle agevolazioni contributive concesse in relazione ai contratti di formazione e lavoro (sent. 1 aprile 2004, causa C-99/02), per i crediti d’imposta erogati agli autotrasportatori (sent. 29 gennaio 1998, causa C-280/95), nonché per gli aiuti concessi all’Alfa Romeo (sent. 4 aprile 1995, causa C348/93). Al di là delle – non condivi-

sibili – censure sostenute da BRIcirca la decisione dell’esecutivo comunitario (cfr. Fisco, 2005, 33, Ex-municipalizzate, comuni e fisco: moratoria illegittima, Irpeg da versare: e poi? e ivi, 2006, 14, Ex-municipalizzate: sanata con un obolo la moratoria fiscale bocciata dall’Europa), si segnala l’aspra critica fatta dall’autrice nei confronti delle nostre autorità nazionali in relazione al modus – sicuramente poco attento – con il quale hanno affrontato l’ultima procedura di analisi (rectius: “indagine formale” ex art. 6 del regolamento n. 659/1999) delle misure di aiuto (prima) e il (non) ottemperamento dell’ordine di recupero (poi). GHENTI


07 Aiuti di Stato.qxd

734

14-04-2009

16:10

Pagina 734

GiustiziaTributaria

4 2008

esclusiva delle istituzioni comunitarie, soggetti idealmente super partes e in grado di guardare agli interessi di tutti, senza soffermarsi su quelli particolari delle singole Comunità nazionali3. Nel sistema normativo delineato dalla prassi decennale della Commissione, avvalorato in toto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e ora cristallizzato nel regolamento n. 659/19994, l’esecutivo comunitario è pienamente legittimato, allorquando ritenga che un determinato sussidio, contributo e agevolazione presenti i requisiti previsti dall’art. 87, paragrafo 1 del Trattato CE e non rientri nelle deroghe di cui ai successivi paragrafi 2 e 3 dello stesso articolo, a disporne la soppressione o la sua modifica entro un termine prefissato. Ciò premesso, la diatriba tra precetti normativi nazionali (Statuto del contribuente, termini di decadenza della potestà accertativa, obblighi di motivazione, ecc.), a volte anche di rango costituzionale, e quelli connessi alla nostra convivenza nella Comunità europea, questione sollevata spesso al momento dell’esecuzione delle decisioni di recupero provenienti delle istituzioni comunitarie,

3 Si ricorda che l’art. 88, paragrafo 1 del Trattato CE attribuisce in modo espresso alla Commissione europea il compito di esaminare e monitorare le misure di aiuti di Stato a favore delle imprese. 4 Regolamento del Consiglio europeo n. 659/1999 del 22 marzo 1999, in vigore dal 16 aprile 1999 e recante «modalità di applicazione dell’art. 93 (ora art. 88, n.d.a.) del Trattato CE». 5 Dedicato alle «norme comuni sulla concorrenza, sulla fiscalità e sul ravvicinamento delle legislazioni». La disciplina sugli aiuti di Stato rappresenta uno degli assi portanti della normativa comunitaria in materia di concorrenza. Essa costituisce la seconda sezione del capo I del titolo VI, relativa alle regole di concorrenza indirizzate agli Stati membri. La precedente sezione dello stesso capo contiene previsioni rivolte direttamente alle imprese e finalizzate a realizzare la cd. disciplina antitrust. L’intera normativa soggiace al principio statuito nell’art. 3, lett. g, del Trattato CE, secondo il quale l’azione della Comunità deve instaurare un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno. È infatti pacifico che tale azione non debba riguardare soltanto gli attori principali del mercato (le imprese), ma possa inci-

deve tenere ben presenti – in un’ottica comparativa – quelli che sono i valori sottostanti alla disciplina comunitaria degli “aiuti concessi dagli Stati” contenuta nel titolo VI del Trattato CE5. La valenza della decisione di recupero della Commissione Deve anzitutto sgomberarsi il campo da ogni dubbio circa la rilevanza assoluta degli atti de quibus, anche e soprattutto in considerazione del fatto che – nel sistema delle fonti del diritto comunitario codificato nell’art. 249 del Trattato CE – una decisione della Commissione europea «è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati» (comma 4)6. Sui principi-cardine di convivenza del nostro ordinamento giuridico nazionale con quello comunitario non sembra necessario dilungarsi7. Quel che è invece opportuno rimarcare, è il grado di valori che la specifica normativa esistente a livello comunitario sugli aiuti di Stato intende tutelare. Allorquando l’intervento statale in economia viene percepito in senso negativo, e cioè come uno stru-

dere anche sulle stesse politiche economiche degli Stati membri. Cfr. STROZZI, Gli aiuti di Stato, in Diritto dell’Unione europea, a cura di Strozzi, parte speciale, 2000, 311 ss. 6 Sulla diretta applicabilità nel nostro ordinamento nazionale delle decisioni negative dell’esecutivo europeo in materia di aiuti di Stato, si rinvia ai contenuti della sentenza della Corte di Cassazione 10 dicembre 2002, n. 17564. In sintesi, il nostro massimo organo giurisdizionale ha ritenuto che siffatta tipologia di provvedimento presenti un contenuto idoneo a spiegare effetti diretti nel nostro assetto giuridico (quindi, senza necessità di alcun atto normativo interno costituzionalmente legittimato a recepirne l’ordine), sia nella parte in cui essa dispone la soppressione degli aiuti incompatibili, sia nella parte in cui ne sancisce il recupero. 7 Premesso che l’art. 10, comma 1 della nostra Carta costituzionale è laconico nello statuire che: «l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto» il cd. principio del “primato” del diritto comunitario è oramai accolto pacificamente: le norme di rango sovranazionale si presentano gerarchicamente sovra-ordinate rispetto a quelle di diritto interno degli Stati

membri e prevalgono su qualsiasi altra norma collidente, di ogni ordine e grado, anteriore o successiva alla prima. Ad esso si associa, generalmente, il principio cd. “degli effetti diretti”: le norme giuridiche prodotte da fonti di diritto comunitario, primarie (Trattati) o derivate (regolamenti, direttive e decisioni), devono essere considerate dagli Stati membri – dal punto di vista strettamente giuridico – come “diritto nazionale”, id est come immediatamente costitutive di situazioni giuridiche soggettive tutelabili dinanzi al giudice nazionale, al pari di quelle costituite sulla base delle norme di diritto nazionale. Si tratta del punto di arrivo di una produzione giurisprudenziale decennale della Corte di Giustizia CE, accolta pacificamente anche da una dottrina sterminata. Cfr., per tutti: TESAURO, Processo tributario e aiuti di Stato, in Corr. Trib., 2007, 45, 3665 ss., nonché FURCINITI e PALLARIA, Illegittimità degli aiuti concessi mediante agevolazioni di natura fiscale: principali problematiche applicative dell’azione di recupero, su Fisco, 2005, 5, 696 ss. Si segnala altresì l’ottima disquisizione operata dall’avvocato generale D.R.Colomer, contenuta nelle sue conclusioni presentate il 18 maggio 2006 in relazione alla causa C232/05 (parte B).


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 735

Aiuti di Stato 4 2008 735

mento (potenzialmente) distorsivo della libertà degli scambi intracomunitari e, quindi, dello sviluppo naturale del mercato, il divieto di concessione di aiuti di Stato ex art. 87 del Trattato CE, nelle sue varie sfaccettature – dall’obbligo degli Stati membri di comunicare preventivamente alla Commissione «i progetti diretti a istituire o modificare aiuti» a quello di standstill, dall’obbligo di recuperare gli aiuti concessi illegalmente a quello di procedere «senza indugio» – tende a collocarsi ben oltre un interesse particolare della Comunità europea, ponendosi – al contrario – come un corollario degli stessi obiettivi istitutivi del Trattato CE8. Secondo alcuni studiosi9, se è vero che la promozione e la salvaguardia del regime di libera concorrenza rappresenta uno dei pilastri portanti della politica economica comunitaria, sembra altresì inconfutabile che detta (libera) concorrenza non costituisca un obiettivo a sé stante, autonomo, autosufficiente. Il divieto di concedere aiuti di Stato, infatti, non è finalizzato esclusivamente al rispetto e alla salvaguardia della concorrenza sui singoli mercati nazionali, né l’azione delle istituzioni comunitarie può dirsi orientata al raggiungimento di tale (unico) fine10. In ambito comunitario, infatti, la concorrenza rappresenta il motore principale per l’accomunamento dei mercati nazionali dei singoli Stati e per

8 Come osservava la Commissione europea nella sua lettera SG(80) D/9538 del 31 luglio 1980, «nello spirito del Trattato, le disposizioni in questione trovano il loro fondamento in una ragione ben precisa – riconosciuta in linea di principio da tutti gli interessati – e cioè che gli aiuti accordati ad un’impresa possono determinare disoccupazione in un’altra impresa». Ancora più chiara era stata la Corte di Giustizia: «quando un’impresa opera in un settore caratterizzato da sovraccapacità produttive, nel quale viene esercitata un’effettiva concorrenza da parte di vari produttori di Stati membri, qualsiasi aiuto che essa riceva dalle autorità pubbliche è idoneo a incidere sugli scambi intra-comunitari e a pregiudicare la concorrenza, in quanto la sua conservazione sul mercato impedisce ai concorrenti di accrescere la loro quota di mercato e diminuisce la loro possibilità di incrementare le esportazioni» (sent. 21 marzo 1991, C-305/89, Alfa Romeo). 9 PERSIANI, Le fonti e il sistema istituzionale, in Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di Salvini, 2007, 27 ss. Del

la loro trasformazione in un unico mercato sovranazionale. Lo sviluppo e il mantenimento di strutture economiche concorrenziali viene vista come un’azione funzionale al perseguimento di obiettivi ulteriori: quelli (ambiziosi e generali) enunciati dall’art. 2 del Trattato CE. Principi che la Comunità può meglio realizzare in presenza di assetti economici concorrenziali diffusi all’interno degli Stati membri. La politica della concorrenza, che di fatto connota fortemente l’intera azione comunitaria, deve dunque essere inquadrata nelle più generali finalità perseguite dalla Comunità europea nel suo insieme11. Enucleati i principi ispiratori della normativa de qua e assegnato il giusto valore agli interessi sottostanti ad una decisione comunitaria di recupero di aiuti incompatibili, possiamo dunque entrare nel merito delle problematiche affrontate in concreto dai giudici tributari nazionali. Le società ex-municipalizzate Com’è noto, prima dell’introduzione dell’attuale «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» (D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), l’attività di gestione dei servizi pubblici da parte degli enti locali aveva subito una profonda revisione a mezzo della legge 14 dell’8 giugno 199012.

tutto concordi: BUZZACCHI, Gli aiuti di Stato tra politica della concorrenza e politica sociale, in Dir. Econ., 2004, 629; PINOTTI, Gli aiuti di Stato alle imprese nel diritto comunitario della concorrenza, Padova, 2000, 5 ss. 10 Si segnalano i contenuti dell’ordinanza della Corte di Giustizia CE 18 ottobre 2002, causa C-232/02, Technische Glaswerkr Ilmenau Gmbh, punto 20: «[...] l’interesse generale in forza del quale la Commissione esercita le funzioni ad essa attribuite dell’art. 88, par. 2 CE e dall’art. 7 del Regolamento n. 659/1999 [...] è di particolare importanza. Di conseguenza, l’interesse comunitario deve generalmente, se non quasi sempre, prevalere su quello del beneficiario dell’aiuto di evitare l’esecuzione di un obbligo di rimborso [...]». 11 Giova all’uopo ricordare che l’art. 4, paragrafo 1 del Trattato dispone a chiare lettere che, al fine di perseguire gli obiettivi enunciati dal precedente art. 2 («elevato livello di occupazione e protezione sociale, parità tra uomini e donne, il miglioramento del tenore e della qualità della vi-

ta, la coesione economica e sociale»), «[...] l’azione degli Stati membri e della Comunità comprende [...] l’adozione di una politica economica [...] condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e di libera concorrenza». Per approfondimenti sul quadro generale dei valori espressi nei Trattati, all’interno del quale è collocata la materia degli aiuti di Stato: DEL FEDERICO, Agevolazioni fiscali nazionali ed aiuti di Stato, tra principi costituzionali ed ordinamento comunitario, in Riv. Dir. Trib. int., 2006, 3, 19. 12 Come osservato da RACIOPPI (Principali tipologie di aiuti fiscali, in Aiuti di Stato in materia fiscale, cit., 471 ss.), fin dalla legge 19 marzo 1903 (ripresa dal T.U. 15 ottobre 1925, n. 2578, in vigore – senza sostanziali modifiche – sino all’emanazione della legge 142/1990), le cd. aziende municipalizzate avevano costituito un importante strumento di imprenditorialità locale attraverso il quale i Comuni espletavano servizi pubblici in via diretta, in alternativa al tradizionale sistema della concessione.


07 Aiuti di Stato.qxd

736

14-04-2009

16:10

GiustiziaTributaria

Pagina 736

4 2008

Di fianco agli strumenti tradizionali (in primis, la costituzione di aziende speciali13 o il rilascio di concessioni), la riforma del 1990 aveva introdotto e incentivato la possibilità di gestire i servizi pubblici essenziali attraverso vere e proprie imprese esterne alle amministrazioni comunali, aventi piena autonomia imprenditoriale e obiettivi di ottimizzazione degli utili. Le nuove aziende si presentavano legittimate ad agire sul libero mercato alla stregua di ogni altro imprenditore privato, con strutture societarie di natura capitalistica (società per azioni a prevalente capitale pubblico, con possibilità – ex art. 12 legge n. 498 del 1992 – di costituire società a partecipazione pubblica minoritaria)14. Il problema si poneva dal punto di vista tributario: dal momento che gli enti locali erano stati esclusi – sin dal 1 gennaio 1991 – da imposizione diretta per tutte le attività svolte, commerciali e non, il procedimento di esternalizzazione dei servizi pubblici mediante la costituzione di società commerciali – per quanto a prevalente capitale pubblico – finiva con l’essere penalizzato e disincentivato, essendo queste ultime assoggettate alle normali regole impositive nazionali previste per le società di capitali15. L’esclusione prevista dall’art. 88 del T.U.I.R. ante D.Lgs. n. 344/2003, ora interamente riprodotta nell’art. 74, T.U.I.R., era infatti di natura soggettiva, non oggettiva. Di conseguenza, la scelta di espletare i servizi pubblici locali in economia avrebbe consentito al Comune di poter godere di agevolazioni (rectius: esclusioni) tributarie; la scelta, parimenti legittima e anzi incoraggiata dal legislatore del 1990, di gestire gli stessi servizi pub-

13 Mi si permetta di discordare dall’assunto sostenuto dalla decisione n. 2003/193/CE (punto 77) e ripreso integralmente dalla sentenza n. 164/07 della Comm. trib. prov. di Teramo. L’“azienda speciale” disciplinata dall’art. 114, TUEL (norma che recepisce le disposizioni dell’art. 23 della legge 142/1990) si presentava, a mio giudizio, come una struttura organizzativa profondamente diversa dalla “azienda municipalizzata” prevista dalla normativa anteriore al 1990. A differenza delle prime, attualmente dotate di personalità giuridica, autonomia patrimoniale, un proprio statuto, un proprio capitale e organi societari autonomi, le aziende municipalizzate preesistenti alla riforma non vivevano di vita propria, se non nell’ambito di una limitata

blici attraverso aziende dotate di personalità giuridica, formalmente autonome rispetto all’ente locale di appartenenza, avrebbe invece visto l’assoggettamento ad Irpeg ed Ilor dei relativi utili. Il legislatore nazionale, pertanto, consentì – attraverso l’art. 66, comma 14 del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito con legge 29 ottobre 1993, n. 427 – alle aziende speciali e alle società per azioni a prevalente capitale pubblico l’applicazione delle disposizioni tributarie di favore previste per le amministrazioni di origine, con lo scopo – dichiarato – di applicare anche nei confronti di detti soggetti autonomi le norme di favore previste dall’art. 88, T.U.I.R. Questa scelta di politica economica nazionale, comunque diretta a facilitare la privatizzazione dei servizi pubblici essenziali al fine di razionalizzarne ed economizzarne la gestione, finì ben presto sotto l’occhio della Commissione europea per la denunciata violazione delle regole comunitarie sugli aiuti di Stato16. Sebbene le istituzioni europee avessero sempre favorito le operazioni di privatizzazione delle public companies, in quanto propedeutiche all’apertura alla concorrenza di settori tradizionalmente monopolistici e, quindi, considerate come il primo passo verso la liberalizzazione di attività economiche per troppo tempo riservate allo Stato17, la creazione di quelli che una parte della dottrina arrivò a definire «veri e propri mostri istituzionali»18 finì con il travalicare il limite che gli stessi organismi comunitari avevano fissato per evitare che uno Stato potesse entrare (e permanere) sul mercato a condizioni privilegiate rispetto ad altri possibili imprenditori, discriminando in tal modo

autonomia organizzativa e contabile. Prive di personalità giuridica, gli atti che emanavano erano da riferirsi direttamente agli enti dei quali facevano parte, mentre la loro autonomia era limitata a ristretti ambiti organizzativi e contabili. 14 Come riportato anche nella decisione della Commissione C-27/99 del 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE, punto 14, la stessa Corte di Cassazione nazionale (sez. unite, sent. 6 maggio 1995, n. 4989) aveva già osservato in precedenza che «le società per azioni istituite in virtù della legge n. 142/1990 non sono limitate, per legge, ad un territorio o attività prestabiliti e in generale svolgono la loro attività come normali entità commerciali, soggette alle regole di diritto privato e commerciale».

15 Per approfondimenti sulla soggettività tributaria delle società miste ai fini delle imposte dirette, cfr. MICELI, Società miste e diritto tributario: le questioni aperte, in Rass. Trib., 2006, 3, 798 ss. 16 Tale normativa di favore è stata poi rinnovata dall’art. 3, comma 70 della legge finanziaria 2006, legge 28 dicembre 1995, n. 549, la quale è stata oggetto della decisione comunitaria citata. 17 Cfr. PINOTTI, Gli aiuti di Stato alle imprese nel diritto comunitario della concorrenza, 2000, 82 ss.; ROBERTI, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario, 1997, 83 ss. 18 Cfr. SCOTTI CAMUZZI, Sotto processo gli aiuti di Stato alle aziende municipalizzate trasformate in S.p.A., in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2000, 1, 265 ss.


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 737

Aiuti di Stato 4 2008 737

qualsiasi organismo che avesse voluto iniziare la medesima attività19. D’altronde, l’art. 87 del Trattato CE «non distingue gli interventi statali a seconda della loro causa o del loro scopo, ma li definisce in funzione dei loro effetti»20. Instaurato il procedimento di indagine formale ex art. 88, n. 2 del Trattato CE (1997), l’esecutivo comunitario qualificò dette misure agevolative come «aiuti di Stato» con decisione n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002, ritenendole incompatibili con il mercato comune. Da ciò, l’ordine incondizionato rivolto alle nostre autorità nazionali di procedere al recupero delle stesse «senza indugio», secondo le procedure del diritto nazionale e «semprechè queste consentano l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione».21 Il recupero degli aiuti e il “legittimo affidamento” delle aziende beneficiarie Allo stato attuale, e fintantoché non verrà deciso il ricorso presentato dallo Stato italiano (e, separatamente, da alcune società beneficiarie) avverso la decisione 2003/193/CE, tuttora pendente innanzi al Tribunale di primo grado CE (procedura T-222/04), gli aiuti concessi dal nostro legislatore alle società costituite ex lege 142/1990 si configurano, dal punto di vista comunitario, sic et simpliciter come «aiuti illegali» in quanto «attuati in violazione dell’art. 88, paragrafo 3 del Trattato», ex art. 1, lett. f del regolamento di procedura. Tali misure, infatti, sono state “erogate” (sotto forma di agevolazioni tributarie e prestiti a tassi di favore) senza rispettare l’obbligo di notifica alla Commissione e senza rispettare la clausola di standstill. Esse sono state poi dichiarate “incom-

19 Ci si riferisce al cd. “principio dell’investitore privato nell’economia”, adottato quale strumento per vagliare quali interventi dello Stato siano qualificabili come aiuti. Cfr. MICELI, op. cit., 802 ss. 20 Orientamento assolutamente consolidato in seno alla Corte di Giustizia CE. Cfr., ad es., sent. 2 luglio 1974, C173/73, Italia c. Commissione, punto 27. 21 Il precetto contenuto nell’art. 3 della decisione de qua, citato poc’anzi e formalizzato nell’art. 14, comma 3 del regolamento n. 659/1999, viene regolarmente utilizzato dalla Commissione in tutte le sue decisioni di recupero di aiuti di Stato incompatibili. 22 Sentenza 2 febbraio 1989, causa 94/87. Detto principio è stato ribadito e ampliato nella sentenza 20 set-

patibili” con il mercato comune dallo stesso esecutivo europeo, per cui devono essere restituite – e «senza indugio» – in quanto (già) ritenute lesive dei (citati) principi basilari del nostro ordinamento comunitario. La qualifica di “misure illegali” dovrebbe togliere ab origine ogni dubbio circa l’inapplicabilità, al caso concreto, degli invocati precetti costituzionali di “buona fede” e “legittimo affidamento”, la cui violazione risulta invece sollevata nella quasi genericità delle controversie tributarie di merito citate all’inizio del presente intervento. La Corte di Giustizia CE, infatti, sin dalla 198922, ha precisato che il legittimo affidamento non può essere invocato per eludere l’esecuzione di una decisione della Commissione in materia di aiuti di Stato, dovendosi ricondurre a circostanze eccezionali che possano giustificare il mantenimento di una situazione che l’istituzione europea ha già ritenuto incompatibile con il mercato comune, in quanto distorsiva della concorrenza ed in grado di incidere sugli scambi intracomunitari. Inoltre, fermo restando che il principio di legittimo affidamento richiede – in ambito comunitario – requisiti specifici alquanto stringenti23, gli stessi giudici europei hanno escluso tout court la possibilità, per le imprese beneficiarie di aiuti statali, di poter fare legittimo affidamento sulla regolarità degli stessi allorquando “illegali”, id est concessi in violazione della procedura di cui all’art. 88, paragrafo 3 CE. Secondo i giudici comunitari, cioè, il fatto che la misura sia stata erogata senza il rispetto della normativa sugli aiuti di Stato esclude che il beneficiario possa aver riposto un “legittimo affidamento” sulla regolarità degli stessi.

tembre 1990, causa C-5/89. In tale controversia, la Repubblica di Germania aveva invocato, come motivo di impossibilità assoluta di dare esecuzione ad una decisione di recupero di aiuti illegittimi, la peculiare normativa interna attinente al principio del legittimo affidamento di cui all’art. 48 della Verwartungverfahrensgesetz (legge sulla procedura amministrativa) del Land Baden-Württemberg, applicabile al caso concreto. La risposta della Corte di Giustizia è stata laconica: uno Stato membro non può eccepire norme, prassi o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per sottrarsi all’esecuzione degli obblighi ad esso incombenti in base al diritto comunitario (punto 18).

Il principio è stato poi ribadito in altre sentenze (cfr., ad es., sent. 23 febbraio 2006, cause riunite C-346/03 e C-529/03, Atzeni e altri, punto 64), e anche allorquando invocato dalla singola impresa beneficiaria (cfr. Tribunale di I° grado, sent. 5 giugno 2001, causa T-6/99, Esf Elbe). Per approfondimenti circa la valenza delle pronunce dei giudici comunitari sul nostro ordinamento nazionale, si rinvia a NUCERA, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia ed il loro impatto sul sistema tributario, in Rass. Trib., 2006, 4, 1136 ss., con ampio repertorio di dottrina. 23 Mi si consenta il rinvio ai contenuti del mio intervento: Incompatibilità e recupero degli aiuti, in Aiuti di Stato in materia fiscale, cit., 378 ss.


07 Aiuti di Stato.qxd

738

14-04-2009

16:10

Pagina 738

GiustiziaTributaria

4 2008

Questi, dunque, non potrà opporre alcuna eccezione nel momento in cui gli verrà chiesto di restituirli24. Il problema si presenta in tutta la sua attualità in quanto la normativa processuale comunitaria non lascia margini di sospensione dell’esecutività di decisioni delle istituzioni comunitarie25, mentre l’intervento del giudice nazionale (tributario o meno) deve limitarsi, nel caso di esistenza di una decisione della Commissione e, quindi, di un ordine rivolto alla nostra Repubblica - in tutte le sue articolazioni, anche giurisdizionali26 - ad ottemperare ai contenuti della stessa nel più breve tempo possibile, ex art. 14 del regolamento di procedura n. 659/1999. Tuttavia, il principio esposto sembra ormai cristallizzato: «il recupero di un aiuto concesso in violazione della procedura prevista dall’art. 88, n. 3 CE costituisce un rischio prevedibile per l’operatore che ne trae vantaggio» (Corte di Giustizia CE, sent. 15 dicembre 2005, causa C-148/04, Unicredit, punto 109). La decadenza del potere accertativo Quasi tutte le sentenze in commento affrontano problematiche sostanzialmente analoghe: decadenza della potestà accertativa da parte delle amministrazioni nazionali incaricate del recupero27;

24 Giova ricordare che la Commissione europea, sin dalla sua lettera del 3 novembre 1983, rubricata Aiuti versati illegalmente, aveva introdotto la prassi di pubblicare nella GUCE, «non appena venuta a conoscenza del fatto che uno Stato membro ha instaurato degli aiuti senza aver rispettato gli obblighi di cui all’art. 93, paragrafo 3 del Trattato» un avvertimento specifico, rivolto ai potenziali beneficiari, del carattere precario dell’aiuto illegale ricevuto. 25 L’unico rimedio che l’impresa beneficiaria può esperire a fronte di un aiuto dichiarato incompatibile è costituito dalla proposizione di un ricorso di annullamento dinanzi al Tribunale di primo grado ex art. 230 CE, con possibilità di chiedere al giudice (comunitario) dell’urgenza – e soltanto in tale sede – provvedimenti provvisori diretti ad evitare il recupero, dimostrando i requisiti richiesti dall’art. 242 CE per la concessione di tale sospensione. Il diritto comunitario esclude a priori ogni possibile azione del giudice nazionale, eventualmente adito dall’impresa in sede di conte-

errata applicazione di norme tributarie più favorevoli vigenti ratione temporis; obbligo di motivazione dell’ingiunzione con la quale viene disposto il recupero; necessità di individuazione di criteri oggettivi per l’applicazione, al caso concreto, della decisione n. 2003/193/CE. La prima questione, che – come si è visto – inizia a proporre soluzioni opposte nella nostra giurisprudenza tributaria di merito (Savona ha accolto il ricorso della società contribuente proprio per questo motivo, Milano e Teramo sono invece andate oltre) si allaccia, a mio avviso, alla nota problematica afferente alla natura delle somme esatte nei provvedimenti di recupero degli aiuti incompatibili (in specie, le comunicazioni-ingiunzioni emanate ai sensi del D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito con legge 6 aprile 2007, n. 46). La diatriba nasce essenzialmente dal tipo di procedure utilizzate dalle nostre autorità per il recupero degli aiuti concessi, se di carattere tributario (D.P.R. 600/1973 per l’accertamento e D.P.R. 602/1973 per la riscossione) o meno, la cui scelta si riflette immediatamente sulla possibile applicazione di due diverse norme – tra loro antitetiche – comunque dirette ad apporre un limite temporale all’azione di recupero: una di rango nazionale (l’art. 43 del D.P.R. 600/1973), l’altra di fonte comunitaria (art. 15 del regolamento n. 659/1999).

stazione dell’atto di recupero emesso dallo Stato membro in attuazione a tale decisione (secondo le modalità previste dalla specifica normativa nazionale), di poter contestare la legittimità della decisione comunitaria o di chiederne – anche soltanto – una sospensione. Cfr. Corte di Giustizia CE, sent. 23 febbraio 2006, cause riunite C-346/03 e C-529/03, Atzeni e altri, punto 31: «ammettere, in simili circostanze, che l’interessato possa, dinanzi al giudice nazionale, opporsi all’esecuzione di una decisione eccependo l’illegittimità di quest’ultima nei suoi confronti equivarrebbe a riconoscergli la possibilità di eludere il carattere definitivo della decisione nei suoi confronti dopo la scadenza dei termini per il ricorso (v. sent. 9 marzo 1994, causa C-18/92 TDW Textilwerke Deggendorf, punti 17 e 18)». Lo stesso principio è affermato nella sentenza 30 gennaio 1997, causa C178/95, Wiljo, punto 21. 26 Cfr. Corte di Giustizia CE, sent. 30 settembre 2003, causa C-224/01, punto 31, i cui principi sono stati ripresi nella sentenza Traghetti del Mediterra-

neo, C-173/03 del 13 giugno 2006. 27 Come osservato da D’AMARIO e D’ALIBERTI in Study on the enforcement of State aid law at national level, Part II (recovery of unlawful State aid: enforcement of negative Commission decisions by the member States), coordinated by Allen & Overy, 2006, nel nostro Paese – oltre all’assenza di una normativa comunitaria organica – manca completamente un’autorità nazionale cui sia stata devoluta la competenza esclusiva ad ottemperare alle decisioni negative della Commissione europea in materia di aiuti di Stato, così come mancano leggi apposite che garantiscano uniformità d’azione e certezza nelle procedure. Secondo DEL FEDERICO: «va radicalmente censurato il comportamento del legislatore italiano, che invece tende ad emanare di volta disposizioni appositamente dedicate al recupero di ogni specifico aiuto. Tale comportamento risulta pernicioso e illegittimo sotto diversi punti di vista»; cfr. Recupero degli aiuti di Stato fiscali, procedure applicabili e principi di equivalenza ed effettività, in questa rivista, 2008, 1, 199 ss.


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 739

Aiuti di Stato 4 2008 739

Non è un caso che la prima disposizione introdotta dal nostro governo per dare seguito all’ordine di recupero della Commissione europea28 sia stata modificata nel giro di qualche mese29 proprio per eliminare all’origine ogni possibile discussione e ostacolo al perseguimento dell’obiettivo imposto dalla decisione di recupero: il ripristino della situazione concorrenziale preesistente (status quo ante). Non è un caso, altresì, che il D.L. 10/1997 – all’uopo introdotto dal nostro legislatore a seguito della sentenza di condanna per inadempimento della Corte di Giustizia CE – dichiari apertis verbis che le somme oggetto di restituzione non sono “imposte”, bensì «aiuti equivalenti alle imposte non corrisposte», quasi ad escludere immediatamente che l’obbligazione di restituzione possa avere natura tributaria e non già meramente ripristinatoria. La questione, compiutamente analizzata nella sentenza n. 164/2007 della Comm. trib. prov. di Teramo, era stata sollevata da un’attenta dottrina30 e poteva costituire un serio problema per le nostre autorità: se l’obbligazione che sorgeva al momento della restituzione manteneva la stessa natura del provvedimento attraverso il quale l’aiuto era stato erogato, il conseguente recupero sarebbe dovuto avvenire secondo gli ordinari strumenti previsti dalla legislazione tributaria, con tutti i limiti ivi imposti (in primis, la decadenza quinquennale prevista dall’art. 43 del D.P.R. 600/1973). Il nostro legislatore, dunque, è tornato sui suoi pas-

28 art. 27 della legge 18 aprile 2005, n. 62. 29 Cfr. art. 1, comma 132 della legge finanziaria 2006, legge 23 dicembre 2005, n. 266. 30 Cfr. RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi comunitari in materia di aiuti di Stato, in Rass. Trib., 2003, 1-bis, 330 ss.; TESAURO, op. cit., 3667 ss.; GALLO, Inosservanza delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato e sue conseguenze nell’ordinamento fiscale interno, nonché FANTOZZI, Problemi di adeguamento dell’ordinamento fiscale nazionale alle sentenze della Corte di Giustizia e alle decisioni della Commissione CE, entrambe in Rass. Trib., 2003, 6-bis, rispettivamente 2279 ss. e 2265 ss. Si richiamano altresì le riflessioni di CERMIGNANI nella nota alle sentenze citate in precedenza. 31 Cfr. D.L. 20 marzo 2002, n. 36, in materia di restituzione dei crediti d’imposta per gli autotrasportatori, la cui procedura era stata affidata al Ministero dei Trasporti motivando

si adottando una formula procedurale già utilizzata in precedenti provvedimenti di recupero di aiuti di Stato incompatibili31 e investendo dell’attività accertativa anche il Ministero degli Interni. In realtà, la problematica – a mio giudizio32 – non avrebbe dovuto porsi neanche nel caso di mancata adozione di specifichi atti normativi del legislatore (come invece avvenuto nel caso concreto, a dirimere ogni dubbio33) in considerazione del fatto che il “titolo del recupero”, indipendentemente da nomenclatura utilizzata, dall’autorità preposta alla sua attuazione e dalla tipologia di procedure seguite per il ripristino dello status quo ante, trova fondamento in fonti legislative comunitarie di carattere primario (artt. 87 e 88 del Trattato) e derivato (regolamento n. 659/1999 e specifica decisione della Commissione europea) le quali, oltre ad essere prevalenti in termini di efficacia sulla normativa interna, sono finalizzate a tutelare un interesse (extra-fiscale) di rango comunitario: quello della libera concorrenza. In altri termini, il recupero viene disposto in applicazione di una normativa “superiore” rispetto a quella interna che la disciplina comunitaria rimette, sì, alla procedure interne dello Stato membro destinatario dell’ordine di recupero (cfr.: art. 14 regolamento n. 659/1999), ma comunque «a condizione che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione»34. La realizzazione della restituito in integrum costituisce, in tal senso, diretta espressione di quel

tale scelta per la natura dichiaratemene patrimoniale e non tributaria dell’obbligazione di restituzione; D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, relativo al recupero delle agevolazioni riconosciute dal nostro Paese alle istituzioni bancarie nell’ambito della cd. “riforma Ciampi” del 1999. È solo il caso di osservare che tale procedura è stata poi perpetuata in sede di recupero delle successive agevolazioni previste per la partecipazione espositiva di prodotti in fiere all’estero (art. 15, comma 2, lett. b, legge 25 gennaio 2006, n. 29) e per quelle introdotte a favore delle imprese che avevano realizzato investimenti nei comuni colpiti dagli interventi calamitosi del 2002 (art. 24, comma 2, lett. c, legge 25 gennaio 2006, n. 29). 32 Sembrano concordare con tale tesi anche FURNICITI e PALLARIA, cit. 33 Secondo FANTOZZI, sarebbe opportuno distinguere il caso in cui il ripristino della concorrenza, distorta da aiuti illegittimi, avvenga su iniziativa del

contribuente o dell’amministrazione finanziaria, nel qual caso non vi sarebbe motivo per mutare la natura giuridica (tributaria) delle somme restituite, oppure in forza a specifici provvedimenti normativi del legislatore (ad hoc introdotti), nel qual caso occorrerebbe verificare – in concreto – la definizione data, in tali atti, alle somme dovute in funzione del reintegro. Secondo l’autore, la normativa tributaria potrebbe operare legittimamente nel solo caso in cui, a prescindere dalle modalità formali del recupero, la natura di restituzione dei tributi all’erario prevalga sulla natura di reintegrazione delle somme dovute. 34 Si ricorda che l’art. 10 (ex art. 5), paragrafo 1 del Trattato CE impone a tutti gli Stati membri di adottare «tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente Trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità».


07 Aiuti di Stato.qxd

740

14-04-2009

16:10

Pagina 740

GiustiziaTributaria

4 2008

principio di primautè che abbiamo definito in precedenza come immanente anche nel nostro ordinamento nazionale. Logico corollario di quanto esposto poc’anzi (e, trattandosi in questa sede di aiuti “illegali”, anche in forza alle considerazioni del paragrafo precedente) è, dunque, che l’azione di recupero di misure riconosciute come «aiuti di Stato incompatibili» ex art. 87, paragrafo 1 del Trattato dovrebbe intendersi sempre soggetto alla prescrizione decennale di cui all’art. 15 del regolamento n. 659/1999; termine, tra l’altro, interrotto da «qualsiasi azione intrapresa dalla Commissione o da uno Stato membro nei confronti dell’aiuto illegale» (così: art. 15, par. 2). Le altre questioni Non convincono del tutto – ma si presentano estremamente interessanti – le considerazioni fornite dai giudici di Teramo a sostegno della loro decisione di ritenere errata la quantificazione delle somme costituenti l’“importo corrispondente all’aiuto vietato” da parte dell’amministrazione finanziaria nell’ingiunzione impugnata. In primis, la dedotta violazione del cd. principio (comunitario) di “proporzionalità”, richiamato proprio dai giudici tributari di Teramo con riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia CE C-148/04 (sentenza 15 dicembre 2005, Unicredit) dovrebbe comunque tenere in considerazione il quadro generale fornito dagli stessi giudici comunitari nei punti 113-119 di detta sentenza, con particolare riferimento all’assunto secondo il quale: «gli importi da restituire non possono essere determinati riferendosi alle possibili alternative che le imprese avrebbero potuto effettuare se non avessero optato per la forma di operazione cui si accompagnava l’aiuto. La scelta di beneficiare di aiuti illegittimi (e salvo i casi di “affidamento legittimo”) viene infatti compiuta nella consapevolezza del rischio di recupero degli aiuti concessi in violazione del procedimento di cui all’art. 88, paragrafo 3 CE. Le imprese, quindi, sono in grado di evitare tale rischio optando immediatamente

35 I punti 56-58 della decisione indicano chiaramente le modalità di calcolo del beneficio ricevuto dalle società ex lege n. 142/1990, individuando il tasso di riferimento da utilizzare. 36 Nel caso concreto, la Commissione aveva messo immediatamente le mani avanti: essa infatti riteneva «[...] che sarebbe stata tenuta a valutare casi individuali unicamente nel

per operazioni diversamente strutturate». Ma a parte ciò, se sembra inconfutabile il fatto che la quantificazione dell’importo da restituire non possa adagiarsi sul quantum risultante dalla mera applicazione dell’aliquota nominale del tributo alla base imponibile del periodo (decisamente più semplici sembrano le modalità di quantificazione dell’aiuto di Stato nel caso di prestiti a tasso agevolato concessi dalla CDDPP35), non dovrebbe dimenticarsi che la specifica normativa introdotta per il recupero degli aiuti alle ex-municipalizzate prevedeva la presentazione di un’apposita dichiarazione tributaria da parte delle società beneficiarie (prima con l’abrogato art. 27, comma 2 della legge 62/2005, poi con l’art. 1, comma 2 del D.L. 10/2007), le quali – in autonomia – sarebbero state in tal modo legittimate a determinare ed applicare qualsivoglia agevolazione loro spettante ratione temporis. Onere che, a quel punto, risulta praticamente impossibile addossare all’amministrazione finanziaria. L’aspetto centrale dell’intera questione sembra, in realtà, quello afferente alla riferibilità, alla specifica azienda costituita ai sensi della legge 142/1990, dell’ordine di recupero comunitario. Problematica che, si vedrà immediatamente, si presenta strettamente connessa all’obbligo di motivazione dell’ingiuzione di recupero. La decisione n. 2003/193/CE ha ritenuto che due dei tre “regimi di aiuto” analizzati erano contrari alle norme sulla concorrenza comunitaria, potenzialmente o effettivamente distorsivi del mercato e, in ultima analisi, dannosi per i fini perseguiti dalla Comunità. Tuttavia, la Commissione – sin dal momento di avvio del procedimento di indagine – aveva preso atto che: 1) le nostre autorità fiscali non avevano concesso aiuti su base individuale (id est, a singole imprese pre-individuate): le leggi messe sotto osservazione, infatti, erano dirette a procurare vantaggi a tutte le aziende che avessero soddisfatto le condizioni stabilite nei regimi in questione (ossia, le S.p.A. ex lege n. 142/1990)36; 2) data la «natura ampia ed astratta della legislazione in esame», «la sua analisi verte

caso in cui le autorità nazionali ne avessero fatto richiesta e se avessero fornito alla Commissione tutte le informazioni necessarie per poter effettuare simile valutazione, ossia tutte le informazioni che di norma avrebbero dovute essere fornite alla Commissione nell’ambito di una notificazione completa di un aiuto individuale ai sensi dell’art. 88, para-

grafo 3 del Trattato[...]. Se ritenevano che, in alcuni casi particolari, date le loro specifiche caratteristiche, dovevano essere valutati su base individuale, le autorità italiane avrebbero dovuto informare la Commissione in merito a tali caratteristiche e a fornirle tutte le informazioni necessarie ai fini di una valutazione individuale». (così, testualmente, deci-


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 741

Aiuti di Stato 4 2008 741

sui regimi di aiuti istituiti nelle misure descritte, e non sulle singole misure individuali di aiuto concesse alle singole imprese». Sembra questo l’aspetto centrale sul quale, nelle sentenze che verranno in futuro, verteranno i termini sostanziali della controversia. Premesso che una definizione normativa volta a cogliere la differenza tra “aiuto di carattere generale” e “aiuto individuale” è contenuta nell’art. 1, lett. d ed e del regolamento di procedura n. 659/199937, l’applicazione pratica delle argomentazioni affrontate in via teorica dalla Commissione europea si riassumono in quello che, probabilmente, è il precetto principale della decisione de qua (punto 126). Il recupero riguarda due misure (rectius due “regimi”) di aiuti, congiuntamente ai relativi aiuti individuali concessi in base ai medesimi; tuttavia, «una decisione relativa a regimi di aiuto non pregiudica la possibilità che aiuti individuali siano considerati, interamente o parzialmente, compatibili con il mercato comune per ragioni attinenti al caso specifico (per esempio, per il fatto che la concessione individuale di aiuto rientri nelle regole de minimis, oppure nel contesto di una decisione futura della Commissione o in virtù di un regolamento di esenzione)». Le indicazioni della Commissione europea sembrano piuttosto chiare: i due regimi di aiuti (esenzione triennale dalle imposte sui redditi e prestiti conces-

sione di recupero, punto 45). Essa aveva altresì appena specificato (cfr. punto 44) che: «non conosce(va) il numero esatto, né l’identità dei beneficiari delle misure in esame, e non dispone(va) di tutte le informazioni pertinenti, né conosce(va) l’ammontare dell’aiuto concesso nei singoli casi». 37 I “regime di aiuti” (rectius, “aiuti a carattere generale”) configurano atti normativi nazionali che, senza necessità di ulteriori misure attuative, consentono alle imprese di beneficiare di singole misure di aiuto definite in linea generale e astratta. Essi, dunque, introducono nell’ordinamento degli interventi di favore di ampio respiro, che poi possono essere goduti dalle singole imprese al verificarsi delle previsioni ivi contenute. Logico corollario di siffatta nozione è che la Commissione europea, una volta esaminato ed approvato il regime generale di aiuti, non deve procedere all’esame di ogni singola applicazione dello stesso. Gli “aiuti individuali”, per definizio-

si a tassi agevolati dalla CDDPP) sono incompatibili con il mercato comune e costituiscono oggetto dell’ordine di recupero; tuttavia, proprio in quanto “aiuti di carattere generale” e non già “aiuti individuali”, sarà compito dei giudici nazionali il verificare, caso per caso, se i singoli vantaggi conseguiti dalle singole S.p.A. ex lege n. 142/1990 possano, o meno, rientrare nel coacervo delle imprese destinatarie del “regime” ritenuto incompatibile dalle istituzioni comunitarie. Il tutto, secondo gli ordinari precetti del nostro ordinamento giuridico.38 Nel concreto, se non sembra cogliere molto nel segno il tentativo dei giudici di Milano di risolvere la questione limitandosi a valutare se la S.p.A. raggiunta dall’ordine di recupero «rientri o meno tra quelle che operano nell’interesse generale» ex art. 86, paragrafo 2 del Trattato CE, si dovrebbe invece tenere conto che la Commissione europea, nella suddetta decisione, ha già operato le proprie considerazioni in sede di valutazione della compatibilità con il mercato comune delle misure accordate dal nostro Paese, come step successivo all’avere accertato che dette misure sono “aiuti di Stato” ai sensi dell’art. 87, paragrafo 1 del Trattato CE. In altri termini, una volta che l’esecutivo europeo abbia ritenuto che le misure della cd. “moratoria fiscale” siano, in termini astratti e generici, 1) “concesse mediante risorse statali”, 2) “dirette a favore talune imprese e/o produzioni”, 3) in gra-

ne non concessi nel quadro di un regime di aiuti, sono invece quelli che sono concessi ad una o più imprese in modo specifico, senza essere legato a progetti generali rivolti alla generalità dei consociati. Per approfondimenti: COTTANI, La procedura di controllo, in Aiuti di Stato in materia fiscale, cit., 322 ss.; PINOTTI, op. cit., 192 ss. 38 In tal senso, aspetto interessante potrebbe porsi circa il soggetto sul quale graverebbe l’onere della prova. A primo acchito, la risposta dovrebbe indirizzarsi nei confronti dell’amministrazione pubblica (Agenzia delle Entrate e/o Ministero degli Interni, ex D.L. 10/1997), in qualità di soggetto attivo dell’obbligazione – pacificamente non tributaria – scaturente dall’atto autoritativo comunitario; il tutto, in piena conformità ai canoni del nostro diritto nazionale (art. 2697, c.c.). In direzione opposta dovrebbe però deporre la considerazione che, nella fattispecie concreta, il soggetto che ha ritenuto di avere diritto ad un’agevolazione (tributa-

ria e/o finanziaria, a seconda della tipologia di norma applicata) e, in particolare, ha omesso la presentazione dell’ordinaria dichiarazione dei redditi in quanto auto-ritenutosi esente da imposizione diretta ex art. 88 T.U.I.R., è comunque la società che viene raggiunta dall’atto di recupero. Se di principi generali trattiamo, non può sfuggire allora quello che impone – sempre in considerazione della disposizione di diritto comune statuita nel comma 1 dell’art. 2697, c.c. – al soggetto che invoca l’applicazione di una norma agevolativa a proprio favore, di dimostrare i fatti posti a fondamento della sua pretesa. La questione, in realtà, sembrava risolversi nel chiaro tenore letterale dell’art. 27, comma 5 della legge n. 62/2005, che tuttavia è stata abrogata dal citato D.L. 10/1997; prima di tale abrogazione, era direttamente la legge a specificare che la comunicazione-inginzione doveva «indicare le ragioni per le quali la decisione è applicabile nei confronti del destinatario».


07 Aiuti di Stato.qxd

742

14-04-2009

16:10

Pagina 742

GiustiziaTributaria

4 2008

do di “minacciare e falsare la concorrenza” e 4) in grado di “incidere sugli scambi intracomunitari”, verificato i requisiti contenuti nell’art. 87, paragrafo 1 CE (punti 46-75) ed abbia altresì operato una valutazione di “compatibilità con il mercato comune” di tali misure (già) qualificate come aiuti di Stato, ai sensi dei commi 2 e 3 dello stesso art. 87 (punti 94-122), l’unica possibile causa di esclusione sembra potersi riscontrare, in termini concreti, in quanto previsto nel punto 72 della stessa decisione, vale a dire nell’ipotesi di aiuti erogati a singole imprese in grado di soddisfare le condizioni de minimis, oppure in virtù di altri specifici regolamenti comunitari di esenzione39. Non è un caso, in tal senso, che il decreto previsto dall’art. 27, comma 11 della legge n. 62/200540 riconduca le ipotesi di esclusione dall’ambito di operatività della decisione n. 2003/193/CE ai soli casi di società beneficiare di piccole dimensioni, in grado – in tal modo – di non poter “incidere sul commercio” (punti 65-75) nel senso di ledere la concorrenza, concorrenza che si manifesta – nel caso specifico – nel gareggiare per l’aggiudicazione delle forniture di servizi pubblici essenziali in un determinato territorio. Nel momento in cui, invece,

una S.p.A. destinataria di aiuti di Stato superi determinate dimensioni, essa dovrebbe essere individuata immediatamente come in grado di danneggiare imprese straniere partecipanti a gare per concessioni locali in Italia, quindi in grado di creare un ostacolo agli operatori economici d’oltralpe che intendano installarsi o vendere i loro servizi nel nostro Paese e, in ultima analisi, di incidere sugli scambi intracomunitari. In tale contesto dovrebbe, a mio giudizio, valutarsi la riferibilità o meno della decisione n. 2003/193/CE ai singoli casi di società ex lege 142/1990. Mentre – per riferirsi al caso concreto affrontato a Teramo – non dovrebbe assumere alcuna rilevanza il fatto che il partner privato di una di queste società ex-municipalizzare fosse stato (o meno) selezionato in forza a procedure di evidenza pubblica tali per cui «qualunque imprenditore italiano o estero poteva entrare a far parte della compagine sociale», in quanto tale aspetto non incide sulla possibile capacità di tale società, indipendentemente da come strutturata al suo interno, di presentarsi su un mercato concorrenziale come quello dei servizi pubblici locali in antitesi a qualsivoglia altro operatore economico41.

IL RECUPERO DEGLI AIUTI DI STATO NEI CONFRONTI DELLE EX MUNICIPALIZZATE AL VAGLIO DELLA CONSULTA 99

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. XIX, (ordinanza) 17 dicembre 2007, n. 96 braio 2007, n. 10, art. 1, conv. con L. 6 aprile 2007, n. 46)

Presidente e Relatore: Bocciolini Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor- Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Decisione Commissione UE 2003/193/CE - Ingiunzioni di pagamento Contrasto con gli artt. 53 e 97 Cost. - Questione di legittimità costituzionale degli artt. 27, L. n. 62/2005 e 1, D.L. n. 10/2007 - Sussistenza (Cost., artt. 53 e 97; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; L. 18 aprile 2005, n. 62, art. 27; D.L. 15 feb-

39 In specie, quelli adottati dalla Commissione secondo le procedure di cui all’art. 8 del regolamento n. 994 del 7 maggio 1998 del Consiglio europeo. Tale causa di esclusione era stata inserita anche nel comma 4 dell’originario art. 27, legge n. 62/2005, poi abrogato. 40 Decreto 21 luglio 2006 del Ministe-

È rilevante e non manifestamente infondata con riguardo agli artt. 53 e 97 della Costituzione la questione di legittimità costituzionale degli artt. 27, L. n. 62 del 2005, e 1, D.L. n. 10 del 2007, che disciplinano il recupero dei benefici fruiti dalle cd. ex municipalizzate, in relazione al mancato rispetto della correlazione temporale che deve necessariamente sussistere tra la norma impositiva e il momento di manifestazione del fatto

ro degli Interni, per l’appunto rubricato «determinazione dei criteri e delle modalità procedimentali per la corretta valutazione dei casi individuali di non applicazione totale o parziale del recupero degli aiuti di Stato, disposto dalla decisione delle Comunità europee n. 2001/193/Ce del 5 giugno 2002».

41 Decisione n. 2003/192/CE, punto 68: «il mercato delle concessioni dei cosiddetti “servizi pubblici locali” è un mercato aperto alla concorrenza comunitaria, aperto a tutte le imprese della Comunità e soggette alle regole del mercato».


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 743

Aiuti di Stato 4 2008 743

assunto quale presupposto d’imposta, il che pregiudica, conseguentemente, il buon andamento e l’efficienza dell’operato dell’amministrazione finanziaria. La Commissione tributaria provinciale ha emesso la seguente ordinanza sul ricorso n. [...] depositato il 21 maggio 2007, avverso comunicazione n. [...] Irpeg + Ilor 1995, contro Agenzia Entrate ufficio Firenze 1, proposto dal ricorrente: P. S.p.A. [...]; sul ricorso n. [...], depositato il 21 maggio 2007, avverso altro n. [...] Irpeg + Ilor 1996, contro Agenzia Entrate ufficio Firenze 1, proposto dal ricorrente: P. S.p.A. [...]; sul ricorso n. [...], depositato il 21 maggio 2007, avverso comunicazione n. [...] Irpeg + Ilor 1997, contro Agenzia Entrate ufficio Firenze 1, proposto dal ricorrente: P. S.p.A. [...]; sul ricorso n. [...], depositato il 21 maggio 2007, avverso comunicazione n. [...] Irpeg 1998, contro Agenzia Entrate ufficio Firenze 1, proposto dal ricorrente: P. S.p.A. [...]. Con quattro diversi ricorsi, poi riuniti, depositati il 21 maggio 2007, la P. S.p.A., in persona del legale rappresentante V.C., rappresentata e difesa dalla dott.ssa C.G., proponeva impugnazione avverso la comunicazione-ingiunzione emessa dall’Agenzia delle Entrate di Firenze-ufficio Firenze 1, per gli anni 1995, 1996, 1997 e 1998, e la conseguente iscrizione al ruolo, chiedendo nel contempo la sospensione, che veniva concessa con ordinanza 2 luglio 2007. Gli argomenti posti a sostegno dell’impugnazione scaturiscono essenzialmente da vizi procedurali in cui sarebbe incorsa l’amministrazione finanziaria, da ricondursi a difficoltà interpretative riconducibili a successioni di leggi nel tempo in correlazione a statuizioni degli organi comunitari in una materia particolarmente complessa quale quella delle esenzioni fiscali-aiuti statali. Costituendosi in giudizio il 20 luglio 2007 l’Agenzia delle Entrate chiedeva il rigetto dei ricorsi affermando la legittimità degli atti impositivi in quanto adottati in perfetta sintonia con le disposizioni legislative succedutesi nel tempo. Fatto e diritto Premesso che il nostro ordinamento giuridico tributario prevede che gli enti pubblici territoriali non sono soggetti all’imposta sui redditi né agli altri adempimenti connessi (art. 88, T.U. n. 917/1986 come modificato dall’art. 4, comma 3bis, D.L. n. 310/1990) va osservato quanto segue. La materia dell’erogazione di servizi pubblici in ambito locale era rimessa ai comuni fino al momento in cui con la riforma di cui alla legge n. 142

del 1990 non fu prevista la possibilità di costituire, da parte degli enti pubblici territoriali, apposite aziende organizzate anche in società per azioni. Il legislatore del 1993, recependo indicazioni e pressioni provenienti dagli ambiti locali in cui si stavano costituendo aziende consortili per erogazione e gestione servizi pubblici quali distribuzioni acqua e erogazione gas, onde agevolarne la messa a regime, statuì che sarebbero state applicabili a teli aziende le medesime disposizioni tributarie applicabili agli enti territoriali di appartenenza “fino al termine del terzo anno dell’esercizio successivo a quello di acquisizione della personalità giuridica” (art. 66, comma 14, D.L. n. 331/1993 conv. con modificazioni in legge n. 427/1993). Tale regime fiscale di favore fu ulteriormente confermato dall’art. 3, comma 70, della legge finanziaria del 1995 (n. 549) che addirittura lo estese fino al 31 dicembre 1999. L’Unione europea si è occupata di questa vicenda con la decisione 5 giugno 2002 che ha ritenuto di poter e dover qualificare l’esenzione dalle imposte per il periodo quadriennale di cui sopra come un sostanziale aiuto dello Stato, con ciò contrario ai principi del mercato comune, conseguentemente ordinando all’Italia di prendere tutti i provvedimenti necessari per recuperarlo. Il nostro legislatore con la legge n. 62 del 2005 dispose, in attuazione della decisione della Commissione europea, il recupero degli importi delle imposte non corrisposte da effettuarsi secondo i principi e le ordinarie procedure di accertamento di riscossione dei tributi, prevedendo una procedura che passava attraverso gli uffici delle imposte che avrebbero dovuto emettere, a seguito di dichiarazione dei redditi che sarebbero state presentate dalle aziende interessate, gli atti di accertamento. In seguito l’art. 1, comma 132 della legge n. 266/2005 effettuò dei mutamenti nominalistici, trasformando le “imposte” in “aiuti equivalenti alle imposte”, e sostituì alcune competenze attribuite all’Agenzia delle Entrate con il Ministero dell’Interno. Nonostante i soggetti interessati avessero provveduto a presentare, con riserva, le dichiarazioni dei redditi richieste, per gli anni in cui avevano goduto dell’esenzione, lo Stato italiano non assunse iniziative concrete dirette ad escutere i soggetti che avevano beneficiato, secondo la Commissione europea, degli aiuti di Sato, cosicché il 1 giugno 2006, intervenne la sentenza della Corte di Giustizia europea che contestò alla Repubblica italiana di non avere adottato i provvedimenti necessari a recuperare gli aiuti, condannandola di conseguenza.


07 Aiuti di Stato.qxd

744

14-04-2009

16:10

GiustiziaTributaria

Pagina 744

4 2008

A seguito di tale sentenza veniva emanato il D.L. n. 10 del 2007 convertito con legge n. 46/2007 con il quale si disponeva che l’Agenzia delle Entrate recuperasse attraverso l’emissione di apposite comunicazioni ingiunzioni e conseguenti iscrizioni a ruolo basate sulle dichiarazioni presentate in precedenza dalle aziende interessate, “gli aiuti equivalenti alle imposte non corrisposte”. É proprio avverso questo provvedimento che la Publiservizi S.p.A. ha proposto impugnazione. La questione giuridica che viene in evidenza è quella della irretroattività delle leggi tributarie. La Corte costituzionale si è non di rado occupata della questione affermando, con pronunce consolidate, che «è da escludere l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 11 delle disposizione preliminari del Codice civile» in quanto la norma non ha una corrispondente disposizione nella Costituzione, posto che in essa il divieto della retroattività è posto esclusivamente con riferimento alla legge penale, anche se la questione può porsi, con riferimento all’art. 53 della Costituzione allorquando la legge tributaria retroattiva comporta violazione del principio della capacità contributiva, assumendo a presupposto della prestazione richiesta al contribuente un fatto o una situazione passati ovvero mediante innovazione, che estende i suoi effetti al passato, di elementi dai quali la prestazione trae i suoi caratteri essenziali, poiché spezza il rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità contributiva (sentenza n. 44/1996). La stessa Corte ha anche affermato che «il problema della irretroattività della legge tributaria sorge non soltanto quando la legge ponga a base della prestazione un fatto verificatosi nel passato, ma anche quando essa alteri, modifichi o trasformi con effetto retroattivo gli elementi essenziali dell’obbligazione tributaria e i criteri di valutazione che vi sono connessi, quali risultano da una precedente normativa» (sentenza n. 45/1964). Principi questi di cui è stata riaffermata l’attualità e fondatezza anche con riferimento all’art. 3, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto del contribuente) in quanto non ha essa stessa valenza costituzionale, ancorché da considerarsi “legge quadro”. L’eventuale retroattività di una disposizione tributaria, non interpretativa, potrebbe però porsi in contrasto con l’art. 97 della Costituzione in quanto violando i principi posti dallo “Statuto del contribuente” pregiudicherebbe “il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” (sent. n. 180/2007). Nel caso sottoposto al giudizio di questa Commissione tributaria abbiamo un S.p.A., la Publi-

servizi, che, acquisita personalità giuridica il 2 giugno 1995, in ossequio alle norme all’epoca vigenti, non redasse e non presentò alcuna dichiarazione dei redditi, né per il 1995 né per i 3 anni successivi a tale esercizio. Orbene dal combinato disposto degli artt. 27, L. n. 62/2005 e 1, D.L. n. 10/2007 deriva che il reddito, cioè il risultato positivo dell’esercizio dell’attività d’impresa concretizzatosi negli anni 1995, 1996, 1997 e 1998 dovrebbe oggi essere assoggettato all’Irpeg. Ciò appare in contrasto con gli artt. 53 e 97 della Costituzione. Con riferimento all’art. 53 appare evidente, a parere di questa Commissione, che la “capacità contributiva”, cioè quell’insieme delle attività di cui dispone il contribuente, che, se si sono incrementate nel corso dell’esercizio, gli consentono di concorrere alle spese pubbliche sotto forma di “pagamento delle imposte”, è strettamente correlata alla contiguità temporale fra momento in cui si crea il reddito e momento in cui si devono corrispondere le imposte, anzi, con il momento in cui è possibile determinarne l’ammontare (che per avventura il versamento delle quali potrà eventualmente essere differito nel tempo per contingenze anche normative particolari). Avendo la consapevolezza di non essere soggetto passivo di imposte sul reddito organizzerò per il futuro la mia attività di impresa secondo scelte di investimenti o di mobilizzazioni in modo adeguato alla situazione contabile e finanziaria che in quel momento ho. A distanza di dieci anni è non soltanto interrotto, ma addirittura inesistente, il rapporto fra le imposte che oggi vengono affermate esistenti e quindi richieste e la mia capacità contributiva. Con riferimento all’art. 97 della Costituzione l’aver adottato in violazione del principio secondo cui «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo» (art. 3, comma 1, L. n. 212/2000) appare compromettere il principio costituzionale di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione poiché le norme in argomento non si limitano a fissare obblighi di comunicazione a pena di decadenza degli aiuti di Stato già ricevuti, ma dispongono per il passato, cioè sottopongono a imposta ciò che all’epoca in cui è stato realizzato non lo era. La ritenuta non manifesta illegittimità costituzionale degli artt. 27, L. n. 62/2005 e 1, D.L. n. 10/2007 è indubbiamente rilevante nella questione sottoposta a giudizio di questa Commissione tributaria poiché da essa direttamente discende l’iscrizione a ruolo conseguente alla comunicazione-ingiunzione oggetto di impugnazione e quindi dell’obbligo di corrispondere le imposte, di entità tutt’altro che modeste, riferite ad esercizi vecchi di dieci anni.


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 745

Aiuti di Stato 4 2008 745

Nota di Clemente Ciampolillo Il principio di capacità contributiva impone una stretta correlazione (anche temporale) tra manifestazioni di ricchezza e applicazione di prestazioni tributarie. Tuttavia, gli insegnamenti della nostra Corte costituzionale lasciano intendere che non è preclusa al legislatore ordinario la possibilità di introdurre norme dirette a incidere su situazioni giuridiche pregresse, allorquando tali disposizioni siano finalizzate ad ottemperare a precisi obblighi comunitari in quanto “ragionevoli” e “prevedibili”. Nel caso concreto, poiché gli aiuti ricevuti dalle S.p.A. costituite ai sensi della legge 142/1990 si configurano come “illegali” in quanto attuati, dal nostro governo, in violazione delle norme procedurali previste dal diritto comunitario, sembra anche esclusa l’invocazione del principio di affidamento da parte delle società beneficiarie. La questione sollevata dalla Commissione fiorentina è stata trattata dalla Corte costituzionale e decisa con l’ordinanza n. 36/2009. Gli strumenti normativi utilizzati dalle nostre autorità nazionali per il recupero degli aiuti concessi alle società ex-municipalizzate passa al vaglio del Giudice delle leggi1: nel momento in cui impongono di «corrispondere imposte, di entità tutt’altro che modeste, riferite ad esercizi vecchi di dieci anni», detti strumenti violano gli artt. 53 e 97 della nostra Carta costituzionale, non essendo più ravvisabile alcun legame temporale tra il momento di produzione del reddito e quello in cui si verifica il prelievo.

1 In argomento si veda CIAMPOLILLO, Società ex municipalizzate: il recupero degli aiuti di Stato trova giustificazione negli articoli 3 e 117 della Costituzione, infra, 873. 2 In relazione a tali profili si segnala: Comm. trib. prov. Teramo, sez. III, 14 novembre 2007, n. 164; Comm. trib. prov. Milano, sez. XX, 21 aprile 2008, n. 91; Comm. trib. prov. Savona, sez. V, 30 giugno 2008, n. 285, tutte con commento di CIAMPOLILLO, Le Commissioni tributarie tornano sulla problematica del recupero degli aiuti fiscali nei confronti delle cd. “ex municipalizzate”, supra, 720; Comm. trib. prov. Lucca, sez. I, sent. 28 gennaio 2008, n. 172; Comm. trib. prov. Novara, sez. I, sent. 3 ottobre 2007, n. 80; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sent. 17 luglio 2007, n. 439, queste ultime con com-

Con l’ordinanza in commento2, viene aggiunto un nuovo tassello alla nota problematica degli aiuti erogati dal legislatore alle società costituite dai nostri enti pubblici territoriali nella seconda metà degli anni ‘90 per la gestione di servizi locali in outsourcing. Per quanto i principi costituzionali invocati dall’ordinanza de qua siano due (capacità contributiva, da un lato, buon andamento e imparzialità della P.A., dall’altro), le questioni sottostanti toccano aspetti delicati in quanto – inevitabilmente – legati ad un duplice equilibrio che il nostro ordinamento stenta a delineare con chiarezza: da un lato, l’equilibrio applicativo che occorre raggiungere tra gli ordini di recupero (emanati dalle istituzioni comunitarie) di aiuti di Stato ritenuti pregiudizievoli all’attuazione del mercato comune, e le procedure (nazionali) adottate di volta in volta dalle nostre autorità per eseguire concretamente tale ordine3; dall’altro, l’equilibrio sostanziale intercorrente tra la tutela di situazioni giuridiche soggettive maturate in capo ai singoli operatori economici nel momento dell’erogazione degli aiuti, e l’applicazione del diritto comunitario, istituzionalmente diretto a salvaguardare i principi sottostanti ai Trattati comunitari stessi.4 La retroattività in materia tributaria Per i giudici di Firenze, la questione centrale attiene alla “irretroattività delle leggi tributarie”. Nel momento in cui una disposizione di legge nazionale – per quanto introdotta ad hoc per ottemperare ad una decisione della Commissione europea in materia di aiuti di Stato5 – finisce per l’imporre ad un contribuente il pagamento di imposte (rectius: “aiuti equivalenti alle imposte”, per

mento di CERMIGNANI, Primi orientamenti sul recupero degli aiuti di Stato fiscali relativi alle società per la gestione dei servizi pubblici locali (cd. “ex municipalizzate”), in questa rivista, 2008, 1, 79 ss. 3 Si ricorda che l’art. 14, comma 3 del regolamento del Consiglio CE del 22 marzo 1999, n. 659/1999 (recante «modalità di applicazione dell’art. 93 del Trattato CE», ora art. 88) dispone che: «il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dello Stato interessato». Per la critica alla mancata realizzazione di un sistema normativo organico nazionale rivolto ad assicurare il rispetto delle decisioni comunitarie di recupero: DEL FEDERICO, Recupero degli aiuti di Stato fiscali, procedure applicabili e principi di equivalenza ed effettività, in questa rivista,

2008, 1, 199 ss. Per un’approfondita analisi delle procedure di recupero attuate in Italia negli ultimi anni: AA.VV., Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di Salvini, 2007, 397 ss. 4 Per approfondimenti sui principi comunitari interessati dalla normativa sugli aiuti di Stato di cui al titolo VI del Trattato CE: DEL FEDERICO, Agevolazioni fiscali nazionali ed aiuti di Stato, tra principi costituzionali ed ordinamento tributario, in Riv. Dir. Trib. int., 2006, 3, 19 ss.; STROZZI, Gli aiuti di Stato, in Diritto dell’Unione europea, a cura di Strozzi, parte speciale, 2000, 311 ss. 5 Ai sensi dell’art. 249, par. 4 del Trattato CE, una decisione della Commissione europea «è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati». Sull’applicazione dei principi del cd. “primato” e dei


07 Aiuti di Stato.qxd

746

14-04-2009

16:10

Pagina 746

GiustiziaTributaria

4 2008

utilizzare la nomenclatura utilizzata dal nostro legislatore nelle più recenti leggi di recupero di aiuti di Stato incompatibili) in un momento successivo a quello in cui si è manifestato l’indice di capacità contributiva costituente il presupposto, si viola tanto l’articolo 53 quanto (in via correlata) l’articolo 97 della nostra Costituzione. Da un punto di vista formale, le osservazioni dei giudici di Firenze non sembrano prive di fondamento. Com’è noto, il nostro ordinamento giuridico non contiene un divieto specifico all’applicazione di prestazioni tributarie su fatti verificatisi prima dell’entrata in vigore della relativa legge.6 In particolare manca, a livello costituzionale, una disposizione che disponga l’irretroattività di una norma tributaria, non potendosi applicare alla materia de qua il principio statuito nell’art. 25, comma 2, Cost., per le leggi penali. Tuttavia, il nostro sistema prevede diverse disposizioni normative che, ictu oculi, sembrano escludere categoricamente l’applicazione retroattiva di leggi impositive: all’art. 11, comma 1 delle “disposizioni sulla legge in generale” (cd. preleggi del Codice ci-

cd. “effetti diretti” del diritto comunitario nel nostro ordinamento in materia di aiuti di Stato, si rinvia ai contenuti della nota sentenza della Corte di Cassazione, sez. trib., n. 17564 del 10 dicembre 2002, i cui principi si presentano tuttora applicabili e condivisibili. 6 Tesi pacificamente accolta in dottrina: LUPI, Diritto tributario, parte generale, 2005, 19 ss.; LA ROSA, Principi di diritto tributario, 2006, 12; FANTOZZI, Il diritto tributario, 2003, 200 ss., cui si rimanda anche per una dettagliata elencazione degli studi più antichi, da Allorio a Manzoni, da Amatucci a Tipke. 7 Discorso diverso vale per le norme di carattere interpretativo e, in particolare, per quelle cd. di interpretazione autentica, id est quegli atti normativi legislativi con i quali lo stesso legislatore dà la propria interpretazione di una precedente norma, contenuta in una legge o in un altro atto avente efficacia di legge. In questi casi, il legislatore sceglie una tra le più interpretazioni che sono state affacciate, sotto il vigore della norma precedente, dando perciò ad essa un valore normativo con l’esercizio del potere legislativo (cfr.: MICHELI, Corso di diritto privato, 1984, 62 ss.). Al di là della disposizione introdotta ad hoc dallo Statuto del contribuente in quello stesso articolo 1 destinato

vile), secondo cui «la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo», il nuovo millennio ha aggiunto il precetto contenuto nell’art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente, legge 27 luglio 2000, n. 212, per il quale «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo».7 Nonostante alcuni tentativi della nostra Corte di Cassazione8 di conferire una sostanziale “superiorità” alle (più recenti) norme dello Statuto, con particolare riferimento a quelle contenenti principi ritenuti “immanenti” nel nostro ordinamento giuridico (quali, per l’appunto, i principi di irretroattività della norma e di tutela dell’affidamento), non risulta che nessun autore si sia spinto fino a disattendere il sistema della gerarchia delle fonti nazionale comunque codificato9, prendendo atto – al contrario – del limite formale insito proprio nella natura di legge ordinaria dello Statuto10 e delle cd. preleggi. Retroattività e capacità contributiva Non essendoci grandi novità sostanziali, la problematica sembra dunque ricondursi a passi già calca-

ad accoglierne i “principi generali” (comma 2: «l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica»), è la stessa natura e ratio di siffatta tipologia di legge a consentirne l’efficacia retroattiva. La sua forza retroattiva è, tra l’altro, riconosciuta espressamente dallo Statuto (art. 3, comma 1, legge 212/2000). Restano comunque validi i paletti fissati dalla Corte costituzionale anche nell’ambito delle norme qualificate “di interpretazione autentica”: secondo il Giudice delle leggi, (anche) tali disposizioni non possono contrastare con l’affidamento dei cittadini nella certezza giuridica (Corte cost., sent. 525/2000). Si ricordano altresì i principi contenuti nella sentenza n. 25506 del 28 novembre 2006, pronunciata dalla Corte di Cassazione a sezioni unite: «l’emanazione di norme interpretative che incidono su procedimenti in corso, nei quali l’amministrazione finanziaria è parte in causa, può essere in contrasto con l’art. 111, Cost.». 8 Ci si riferisce, in particolare, alle note sentenze n. 17576 del 10 dicembre 2002, n. 7080 del 14 aprile 2004 e n. 21513 del 22 giugno 2006. È solo il caso di osservare che la Corte

Suprema (cfr., ad esempio: sent. 27 agosto 2001, n. 11274; 4 settembre 2001, n. 11366) ha operato un “distinguo” tra norme di natura sostanziale (del rapporto tributario) e norme di carattere procedurale (in materia di accertamento), ritenendo applicabili in modo retroattivo le disposizioni di legge di carattere procedurale anche a rapporti sostanziali anteriori all’entrata in vigore delle norme stesse. 9 Cfr., ad esempio: DE MITA, Statuto alla prova della “gerarchia”, in Il Sole 24 Ore del 9 giugno 2004; SERRANÒ, Sulla sostanziale superiorità della fonte statutaria nella sentenza della Corte di Cassazione n. 7080/2004 in Boll. Trib., 2004, 18, 1293 ss.; GRASSI, I reiterati interventi del giudice di legittimità sulla tematica concernente lo Statuto dei diritti del contribuente con particolare riguardo al principio dell’affidamento, in Fisco, 2005, 32, 4943 ss.; ONIDA, Leggi e fisco, tutti i limiti alla retroattività, in Il Sole 24 ore del 4 settembre 2007. 10 Per quanto le norme dello Statuto rivestano carattere prioritario nell’ambito della materia tributaria e per quanto esse prevedano una clausola cd. di autorafforzamento, in forza della quale le sue disposizioni possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali (art. 1, comma 1, legge 212/2000), anche la dottrina costituzionalistica si presenta pressoché concorde nel rico-


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 747

Aiuti di Stato 4 2008 747

ti da oltre cinquant’anni, considerando ancora del tutto attuali gli insegnamenti della nostra Corte costituzionale: «pur non essendo costituzionalmente sancito alcun divieto espresso, le norme tributarie retroattive possono risultare costituzionalmente illegittime per violazione del principio di capacità contributiva, laddove non risultino sorrette da una ragionevole presunzione di persistenza attuale della capacità economica passata».11 Il principio si presenta assolutamente condivisibile: la capacità contributiva, nella sua tipica funzione garantistica di vietare tributi che non si colleghino a indici rivelatori di ricchezza, deve esistere nel momento in cui si verifica il prelievo e costituisce, perciò, un limite ai tributi retroattivi. Si tratta di un requisito che la dottrina tributaria chiama comunemente della “attualità”, generalmente coesistente con gli altri requisiti della “effettività” e della “certezza” della potenzialità economica cui deve ricollegarsi la partecipazione alle spese pubbliche. Il limite alla teorica illimitatezza della retroattività – cd. impropria12 – in materia tributaria è quindi (ancora) rinvenibile nel principio di capacità contributiva espresso dall’art. 53, comma 1, Cost.: la capacità contributiva deve essere attuale, cioè esistere nel momento in cui la norma espri-

noscere ed esse un carattere prettamente ermeneutico, restando pienamente operanti nel solo caso di leggi che non ne dispongano ex professo la deroga o la modificazione. Così: FANTOZZI, cit., 200 ss. Particolarmente interessanti si presentano le considerazioni di STUFANO, Statuto del contribuente: la clausola di “resistenza passiva” delle norme di principio, in Corr. Trib., 2001, 34, 2548 ss., sulla valenza (unicamente) interpretativa di tali disposizioni in rapporto all’art. 15 delle preleggi, ponendo a base delle proprie argomentazioni i contenuti della relazione illustrativa all’originario disegno di legge dello Statuto. Anche LA ROSA, cit., 24, propugna per una valenza di canone interpretativo della disposizione in commento, id est da far valere nei casi dubbi, più che di una vera e propria regola della successione delle leggi nel tempo. Tutte le tesi poc’anzi esposte coincidono, a ben vedere, con gli insegnamenti forniti della Corte costituzionale (sent. 111/1997): “le clausole di rafforzamento valgono quali criteri interpretativi”. 11 Oltre alla sentenza n. 44/1966, citata anche dalla Commissione tributaria di Firenze, gli stessi contenuti so-

me la sua efficacia. Il tutto, come affermato dai giudici tributari di Firenze. Ciò premesso, negli ultimi quarant’anni13 la Consulta è intervenuta sovente per pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di disposizioni di legge dirette a dare rilevanza giuridica a fatti o accadimenti che avevano avuto luogo prima dell’entrata in vigore delle leggi stesse. Il postulato di fondo, consolidatosi nella sua giurisprudenza senza lasciare spazio ad equivoci di sorta14, afferma che: «al legislatore nazionale non è inibito, al di fuori della norma penale, di emanare norme con efficacia retroattiva, a condizione che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori o interessi costituzionalmente protetti»15 (così testualmente: sentenze n. 432/1997, 416 e 229 del 1999, nonché n. 419/2000 e 285/2004). A fronte di tale regola generale, incentrata – come visto – sui principi della “ragionevolezza”16 e degli altri principi “costituzionalmente protetti”, primo tra tutti quello – strettamente connaturato ad uno Stato di diritto – dell’“affidamento” legittimamente sorto nei soggetti economici17, uno degli aspetti maggiormente significativi che si sono evidenziati nel corso degli anni afferiscono a quello della “prevedibilità” dell’imposizione, elevato dalla Consulta

no stati riproposti nella sentenza n. 75/1969 ed in numerose altre sentenze successive (cfr.: infra). 12 FANTOZZI, cit., distingue – in materia tributaria – tra retroattività “propria”, la quale ricorre quando sia la fattispecie impositiva che i suoi effetti si collocano nel passato rispetto alla legge tributaria (l’esempio scolastico è quello delle norme che prorogano l’efficacia di esenzioni o agevolazioni scadute), e retroattività “impropria”, la quale invece si ha quando la legge collega un tributo, da corrispondere dopo la sua entrata in vigore, a fatti verificatisi anteriormente alla legge stessa. Quest’ultima ipotesi, dunque, costituisce un (affatto raro) tentativo del legislatore di recuperare a tassazione manifestazioni di capacità contributive sfuggite nel passato. Si tratta di considerazioni che erano state sviluppate sin dai grandi maestri del nostro diritto tributario moderno (cfr., ad esempio: MICHELI, cit., 60 ss.). 13 Sul requisito di attualità la Corte costituzionale si è espressa in numerose occasioni. Cfr. sentenze n. 44/1966; 77/1967; 75/1969; 143/1982; 155/1990; 314/1994; 315/1994; 14/1995; 376/1995;

14

15

16

17

410/1995; 432/1997; 7/1999; 229/1999; 416/1999; 419/2000; 341/2000; 525/2000; 285/2004; 297/2004. VILLANI, La giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di retroattività delle norme tributarie e violazione del principio di affidamento, in Il commercialista telematico, 2004. Secondo la sentenza n. 376/1995, tra i limiti per l’emanazione di disposizioni retroattive sono presenti: 1. la ragionevolezza della scelta; 2. il divieto di ingiustificata disparità di trattamento; 3. la coerenze e la certezza del diritto; 4. il rispetto del potere giudiziario. Per approfondimenti sulle varie sfaccettature del concetto di “ragionevolezza” espresso dalla nostra Corte costituzionale nel corso degli anni: MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, 2007. Cfr.: Corte cost., sent. n. 390/1995 e 16/2002. Secondo il Giudice delle leggi, la retroattività «frustra in modo del tutto inaspettato l’affidamento del contribuente nella sicurezza giuridica, giacché colpisce una situazione non ritenuta in precedenza espressione di capacità contributiva».


07 Aiuti di Stato.qxd

748

14-04-2009

16:10

Pagina 748

GiustiziaTributaria

4 2008

a requisito «significativo ai fini della permanenza della capacità contributiva».18 Secondo i giudici costituzionali, la “prevedibilità” del tributo – concetto già di per sé stesso antitetico a quello di “affidamento” – rappresenta un elemento in grado di legittimare l’incisione di situazioni giuridiche soggettive poste in essere da leggi precedenti. Al pari della “ragionevolezza”, detto requisito elimina alla fonte ogni dubbio di possibile arbitrarietà dell’intervento del legislatore sopravvenuto ed è in grado di giustificare la “retroattività” di leggi d’imposta sopraggiunte in relazione a fatti, atti o accadimenti verificatisi anche diversi anni prima. Se la giurisprudenza della Corte costituzionale lascia, dunque, già di per sé stessa ampi margini alla possibile adozione di norme retroattive dirette a istituire (più o meno nuove) prestazioni imposte a determinati soggetti beneficiari di una precedente normativa di favore (di fatto, revocata), i principi esposti possono essere facilmente traslati nella specifica problematica affrontata dai giudici tributari di Firenze, cioè nell’ambito di una legge ordinaria dello Stato volta ad istituire una procedura di recupero di aiuti erogati diversi anni prima, ma dichiarati incompatibili con il mercato comune dalle istituzioni comunitarie (la decisione n. 2003/193 della Commissione CE prima, la sentenza della Corte di Giustizia CE nella causa C207/05 poi). Partendo dal punto di arrivo di una produzione giurisprudenziale ultra-decennale del massimo Collegio di tutela dei nostri valori di convivenza civile e osservando che – in passato – la Consulta si

18 Postulato affermato ripetutamente dalla nostra Corte costituzionale; cfr.: sentenze n. 75/1969, 341/2000 e, soprattutto, n. 315/1994. Per approfondimenti (e relative critiche) alla nota vicenda della tassazione delle plusvalenze da esproprio, prevista retroattivamente dall’art. 11, comma 9 della legge 413/1991 e salvate dalla Consulta nella sentenza da ultimo citata: RUSSO, Riflessioni in tema di tassazione retroattiva delle plusvalenze realizzate a seguito dell’esproprio di terreni o della cessione volontaria dei medesimi in seno a procedure ablative, in Rass. Trib., 1995, 1, 37 ss.; FALSITTA, L’illegittimità costituzionale delle norme retroattive imprevedibili, la civiltà del diritto e il contribuente Nostradamus, in FALSITTA, Per un fisco civile, 1996, 69 ss. 19 Sul principio del “primato” del diritto comunitario non sembra necessario soffermarsi granché. Si tratta di un postulato non contemplato

è già espressa nel senso di una legittima proliferazione di disposizioni retroattive da parte del legislatore ordinario, purché giustificabili sul piano della ragionevolezza (id est, non meramente arbitrarie) ed avallando comunque le norme recanti prestazioni imposte “prevedibili” da parte dell’operatore economico diligente, non si vede come possa obiettarsi della legittimità costituzionale di una procedura di recupero che – si ricorda – trova la propria fonte nella normativa degli “aiuti concessi dallo Stato” di cui al titolo VI del Trattato CE e configura gli aiuti erogati alle società ex lege 142/1990 come “illegali” in quanto “attuati in violazione dell’art. 88, par. 3 del Trattato”, ex art. 1, lett. f del regolamento di procedura n. 659/1999. Il punto centrale sembra proprio questo: quando si parla di aiuti di Stato concessi alle società exmunicipalizzate si discute di agevolazioni che il nostro legislatore ha introdotto ed erogato in violazione di precise disposizioni procedurali statuite dal diritto comunitario, a partire dall’art. 88, par. 3 del Trattato CE a finire con le norme contenute nel regolamento del Consiglio n. 659/1999 (dall’obbligo di comunicare preventivamente alla Commissione i «progetti diretti ad istituire o modificare aiuti» a quello di standistill, di cui all’ultimo periodo dell’art. 88, par. 3 del Trattato). Ci si deve chiedere allora: può intendersi “ragionevole” una richiesta legislativa di restituzione di sovvenzioni/agevolazioni erogate diversi anni prima, allorché questa richiesta trovi fondamento in un ordine incondizionato giunto al nostro governo da autorità sovranazionali?19 Era “prevedibile”, per un

negli originari Trattati CE e UE, essendo stato introdotto dalla Corte di Giustizia con sentenza del 15 luglio 1964, Flaminio Costa contro Ente Nazionale per l’Energia Elettrica (Costa contro Enel). In questa sentenza la Corte dichiarava, per la prima volta, che: «a differenza dei comuni trattati internazionali, il Trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del Trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare». Richiamandosi allo spirito e alla lettera del Trattato, la Corte ritenne che il primato del diritto comunitario limitasse il margine discrezionale degli Stati membri, impedendo loro di produrre norme in contraddizione con quelle delle istituzioni comunitarie. Da allora, si è andata consolidando l’opinione (assolutamente pacifica e con-

fermata anche da numerose sentenze della nostra Corte costituzionale, dalla nota sentenza n. 170/1984 alle successive 47 e 48/1985, 113/1985 e 389/1989. Cfr., altresì: Cass., sez. unite, sent. 6 luglio 2006, n. 26948) secondo la quale gli Stati membri non possono applicare una norma nazionale anche se anteriore a un atto comunitario, allorquando in contraddizione con questo. La Corte costituzionale ha poi specificato che il principio del primato si applica a tutte le norme di diritto comunitario, sia primario che derivato (cfr.: sent. 168/1991 per il dettaglio delle varie pronunce). Il principio de quo ha trovato riconoscimento normativo nel Trattato di Roma dell’ottobre 2004 (“Trattato di adozione di una Costituzione per Europa”), nell’art. I-VI: «la Costituzione ed il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione nell’esercizio


07 Aiuti di Stato.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 749

Aiuti di Stato 4 2008 749

operatore economico diligente, la possibilità di considerare detta sovvenzione/agevolazione come “precaria” e, quindi, era prevedibile la possibilità di dover restituire – nel 2007 – aiuti ricevuti sotto forma di agevolazioni fiscali negli anni 1993-1999? In quest’ottica, la capacità contributiva ravvisabile in capo alle società costituite ex lege 142/1990 è irrimediabilmente svanita nel tempo oppure, essendo prevedibile una possibile richiesta di restituzione per violazione della normativa comunitaria sugli aiuti di Stato, detta capacità contributiva è rimasta intatta? Il legittimo affidamento Un secondo punto debole dell’iter argomentativo seguito dai giudici di Firenze sembra l’inciso in cui questi affermano che: «avendo la consapevolezza di non essere soggetto passivo di imposte sul reddito, il contribuente è libero di organizzare – per il futuro – la sua attività d’impresa secondo scelte di investimenti in modo adeguato alla situazione contabile e finanziaria che ha in quel momento». Le tesi interpretative esposte in precedenza si rinnovano in questa sede: siamo proprio sicuri che la società beneficiaria della normativa della cd. moratoria fiscale di cui agli artt. 66, comma 14 del D.L. 331/1993 e dell’art. 3, comma 70 della legge 549/1995 avesse “la consapevolezza” di poter beneficiare legittimamente di un aiuto di Stato (in specie, l’esenzione triennale da Irpeg e Ilor)? Siamo altrettanto sicuri che tale consapevolezza, tale “affida-

delle competenze a questo attribuite prevalgono sul diritto degli Stati membri». La disposizione in questione, come altre nel Trattato, codifica un principio già vigente nell’ordinamento comunitario, supportata chiaramente anche dalla “Prima Dichiarazione allegata al Trattato”, ai sensi della quale: «la Conferenza constata che l’art. I-VI rispecchia la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia delle Comunità europee e del Tribunale di primo grado». 20 La Corte di Giustizia CE, sin dalla sentenza 2 febbraio 1989, causa 94/87 (i cui principi sono stati ribaditi nella sentenza 20 settembre 1990, causa C-5/89), ha precisato che il legittimo affidamento – pur configurandosi come un postulato riconosciuto e tutelato anche in ambito comunitario – non può essere comunque invocato per eludere l’esecuzione di una decisione della Commissione in materia di aiuti di Stato. Si accenna soltanto al fatto che il principio de quo richiede – in ambito

mento”, possa dirsi meritevole di tutela giuridica?20 Il problema sembra ricondursi, inevitabilmente, all’esistenza, o meno, in capo ai singoli operatori economici di un obbligo (rectius: onere) di conoscenza delle competenze che il Trattato assegna alle specifiche autorità nell’ambito degli aiuti di Stato. In altri termini, la problematica si trasferisce sul piano dell’applicazione del diritto comunitario. Il punto centrale è questo: una società costituita ai sensi della legge 142/1990 e, più in generale, qualsiasi operatore economico che si veda riconoscere una qualche forma di agevolazione, sovvenzione, vantaggio21 dal nostro legislatore nazionale può riporre un “legittimo affidamento” nella legge ordinaria del nostro Stato (e soltanto in questa)? Oppure è tenuto anche a conoscere norme procedurali e sostanziali gerarchicamente collocabili al di sopra dei confini nazionali? In altri termini, le imprese nazionali sono tenute, oppure non sono tenute ad immaginare che tali sovvenzioni, agevolazioni, vantaggi ecc. sono, in realtà, esposte al vaglio delle (sovraordinate) istituzioni comunitarie le quali possono, legittimamente, disattendere quanto disposto dal singolo Stato membro ed ordinare comunque il recupero del tutto? Premesso che l’art. 88, par. 1 del Trattato CE attribuisce in modo espresso alla Commissione europea il compito di esaminare e monitorare le misure di aiuti di Stato a favore delle imprese, l’opinione prevalente è quella ben espressa dal prof. Fantozzi: «in materia di aiuti di Stato, al vertice della

comunitario – requisiti specifici alquanto stringenti e che gli stessi giudici europei hanno escluso tout court la possibilità, per le imprese beneficiarie di aiuti statali, di poter fare legittimo affidamento sulla regolarità degli stessi allorquando “illegali”, id est concessi in violazione della procedura di cui all’art. 88, par. 3, CE. In sintesi, i requisiti richiesti in sede comunitaria per il riconoscimento di un affidamento “legittimo” sono: 1) un comportamento, un atto o una condotta di istituzioni comunitarie in grado di avere ingenerato tale affidamento. In tal senso, affinché l’affidamento sia ritenuto meritevole di tutela, deve rientrarsi nell’ambito di “assicurazioni precise” (cfr.: Corte di Giustizia CE, sent. 15 luglio 2004, causa C-459/02, Gerekens-Procola, punto 29); 2) una vera e propria “percezione di irrevocabilità” da parte dell’interessato, intesa come impossibilità di prevedere un cambiamento nella linea di condotta seguita sino a quel momento dall’am-

ministrazione comunitaria. Infatti, «l’operatore economico prudente ed accorto non può legittimamente invocare il principio di tutela del legittimo affidamento nei casi in casi in questi era comunque in grado di prevedere, in un futuro più o meno prossimo, l’adozione di un provvedimento comunitario idoneo a ledere i suoi interessi» (Corte di Giustizia CE, sent. 15 luglio 2004, cause C37/02 e C-38/02, Di Leonardo Dilexport e Vemw, punto 70); 3) la ponderazione degli interessi in gioco, da valutare caso per caso: l’interesse perseguito dal provvedimento dell’autorità comunitarie non deve prevalere sull’interesse del singolo operatore economico alla conservazione che questi poteva ritenere legittimamente acquisita. Per approfondimenti: Aiuti di Stato in materia fiscale, cit., 378 ss. 21 Per la nozione di “aiuto di Stato” riconducibile all’art. 87, par. 1 del Trattato CE: Aiuti di Stato in materia fiscale, cit.


07 Aiuti di Stato.qxd

750

14-04-2009

16:10

Pagina 750

GiustiziaTributaria

4 2008

piramide istituzionale siede la Commissione [...] è in cima a tale piramide che l’operatore economico diligente dovrà fare legittimamente affidamento sulla validità di una agevolazione».22 In tale contesto, la dottrina nazionale sembra aver cambiato opinione nel corso del tempo. Se i primi autori che si occuparono della questione23 criticarono l’impostazione che negava ogni forma di tutela all’operatore che non fosse stato accorto nella valutazione dell’aiuto che gli veniva concesso dal proprio legislatore (con particolare riferimento all’iter procedurale), gli studi più recenti24 sembrano indirizzarsi nel senso opposto. Gli ultimi autori sembrano, tra l’altro, essersi indirizzati in modo ancora più convinto verso una sostanziale responsabilizzazione del singolo operatore economico, sia esso il piccolo artigiano di bottega o la grande multinazionale25: «la linea di equilibrio tra esigenza di tutela dell’affidamento e riconoscimento della prevalenza del diritto comunitario è del tutto sbilanciata a favore del secondo. Come può farsi valere l’affidamento [...] rispetto a quanto la normativa comunitaria dispone, se in concreto il giudice nazionale si vede impossibilitato a tutelarlo, perché questo significherebbe accedere ad un’interpretazione del diritto interno difforme da quello comunitario? La vecchia regola dell’ignorantia legis non excusat, in crisi negli ordinamenti statuali a causa della complessità della legislazione, torna dunque ad imperare a proposito delle norme giuridiche provenienti da ordinamenti comunitari, e si traduce in un onere di preventiva conoscenza (e valutazione dei rischi) della disciplina derivante dal diritto comunitario».26

22 FANTOZZI, Problemi di adeguamento dell’ordinamento fiscale nazionale alle sentenze della Corte di Giustizia e alle decisioni della Commissione CE, in Rass. Trib., 2003, 6-bis, 2265 ss. La stessa Corte di Giustizia CE ha avuto, in passato, orientamenti non del tutto univoci: sebbene la giurisprudenza comunitaria sia quasi interamente indirizzata nel senso di responsabilizzare i singoli soggetti economici dell’ordinamento, non ammettendo ignoranza delle normative (anche) soprannazionali pena l’impossibilità di invocare – con speranze di accoglimento – il principio del legittimo affidamento, nella sent. 11 luglio 1996, causa C-39/94, Sfei, Lussemburgo affermò che «il sistema di controllo e di esame degli aiuti di Stato istituito dall’art. 93 non impone al beneficiario dell’aiu-

Conclusioni Nel caso – alquanto improbabile – di appurata “illegittimità costituzionale” del D.L. 10/2007, ci si potrebbe chiedere cosa succederebbe alle procedure in corso e alle somme eventualmente già versate dalle varie società beneficiarie dell’aiuto de quo. Secondo i principi generali del nostro ordinamento giuridico nazionale, le disposizioni dichiarate incostituzionali cessano di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della relativa sentenza (art. 136, Cost.). La violazione di norme di rango costituzionale, dunque, si traduce in una caducazione ex nunc della disposizione subordinata, non già in una qualche forma di “nullità” della norma stessa. La dichiarazione di incostituzionalità lascia, quindi, impregiudicate – in nome della stabilità delle vicende giuridiche – le situazioni ormai definite (cd. “rapporti esauriti”), lasciando margini operativi soltanto alle controversie ancora in corso27. L’effetto pratico del principio appena esposto è che, semmai la Consulta dovesse ravvisare una qualche forma di violazione dei precetti costituzionali scaturenti dagli artt. 53 e 97 Cost. e dichiarare “incostituzionale” la procedura di recupero introdotta dal nostro legislatore per ottemperare alla decisione n. 2003/193/CE, tale pronuncia non avrebbe comunque effetto su eventuali sentenze di merito (nel frattempo) passate in giudicato in relazioni ad ingiunzioni regolarmente notificate, contestate ma comunque dichiarate legittime, così come detta sentenza non potrebbe giustificare azioni di rimborso conseguenti ad atti di recupero non impugnati nelle forme di rito (art. 21, D.Lgs. 546/1992).

to alcun obbligo specifico». La questione, dunque, si presenta meno pacifica di quel che possa sembrare. 23 Cfr., ad esempio: ORLANDI, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario, 1995, 551 ss.; PINNA, Gli aiuti di Stato alle imprese, in Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario, a cura di Bariatti, 1998, 59 ss. 24 Oltre al citato intervento di Fantozzi, si richiama quello di GALLO, Inosservanza delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato e sue conseguenze nell’ordinamento fiscale interno”, sempre in Rass. Trib., 2003, n. 6-bis, 2279 ss. 25 In realtà, si ricorda che vengono considerati inidonei ad incidere (negativamente) sul commercio intracomunitario gli aiuti erogati alle imprese che rientrino nella cd. regola del de minimis di cui al regolamento CE 12 gennaio 2001, n. 69, relativo (per

l’appunto) agli «aiuti di minore importanza». 26 BASILAVECCHIA, L’influenza delle interpretazioni della Corte di Giustizia, in Riv. Giur. Trib., 2008, 1, 51 ss. Il commento finale del professore è laconico: «in definitiva, oggi il diritto interno è applicabile soltanto previa valutazione di conformità all’ordinamento comunitario». Per ulteriori approfondimenti: MICELI-MELIS, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia delle Comunità europee nel diritto tributario: spunti dalla giurisprudenza relativa alle direttive sull’imposta sui conferimenti e sull’Iva, in Riv. Dir. Trib., 2003, 2. 27 LUPI, voce Capacità contributiva in Enc. Giur., 2007, II, 683 ss.; Id., Diritto tributario, cit., 18; nonché FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 204 ss., con ampio repertorio di dottrina e giurisprudenza.


08 ICI.qxd

14-04-2009

16:10

Pagina 751

Ici 4 2008 751

ICI 100

Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 24 gennaio 2008, n. 247 Presidente: Nardi - Relatore: Mottola Ici - Fabbricati rurali - Intassabilità - Fabbricati strumentali all’attività agricola - Requisiti catastali - Redditualità - Attenuazione (D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, conv. con L. 29 novembre 2007, n. 222, art. 42-bis; D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, artt. 1 e 2) I fabbricati rurali non sono tassabili nel sistema dell’Ici, in quanto ai fini di tale tributo rileva il dato catastale e non quello reddituale; tale interpretazione è confortata dall’art. 42-bis, D.L. 1 ottobre 2007, n. 159 (conv. con L. 29 novembre 2007, n. 222) che, per quanto riguarda i requisiti catastali, anche per i fabbricati strumentali all’attività agricola attenua i profili reddituali. Con tempestivi ricorsi, riuniti per connessione, il signor M.G. adiva questa Commissione in opposizione agli avvisi di accertamento Ici emessi dal Comune di Mirandola per gli anni 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005, chiedendone l’annullamento. Il Comune di Mirandola con gli avvisi impugnati contesta l’omessa dichiarazione e l’omesso versamento Ici per un fabbricato di categoria D/7, utilizzato per attività di allevamento maiali ma che, esaminati i registri di carico e scarico degli animali allevati e ritenuto che i prospetti sono stati compilati erroneamente, stabilisce che l’attività di allevamento svolta nel fabbricato eccede i limiti quantitativi previsti dall’art. 29, ora 32 del T.U.I.R. e, pertanto, non può più essere considerata agricola ma industriale. Quindi ritenuto che trattasi di fabbricato che non presenta i requisiti della ruralità accerta l’Ici e per la liquidazione formula a norma dell’art. 5 del D.Lgs. 504/1992 rendita presunta che allega all’avviso di accertamento. Parte ricorrente, invece, afferma, che l’attività di allevamento non eccede i limiti quantitativi stabiliti dal T.U.I.R. ed anche l’eventuale superamento di tali limiti comunque non fa perdere il requisito della ruralità, in quanto i limiti quantitativi sono fissati ai soli fini delle imposte dirette e non rilevano ai fini del riconoscimento della ruralità, non essendo previsti nell’art. 9, comma 3-bis, del D.L. 557/1993.

Si costituiva in giudizio il Comune di Mirandola che chiede la conferma del proprio operato e il rigetto del ricorso. Il ricorso è fondato e pertanto va accolto. La Commissione ha esaminato con particolare interesse le considerazioni svolte dal Comune dì Mirandola circa la natura dell’attività svolta nel fabbricato in contestazione per dimostrarne la tassabilità ai fini Ici ed anche tutto lo studio effettuato circa il conteggio dei maiali sulla base del registro di carico e scarico per determinare l’esatto numero degli animali “normalizzati”. Non di meno sono state apprezzate le considerazioni ed i conteggi di parte ricorrente per confutare la tesi del Comune. Ma al di là di tutte le pregevoli considerazioni e i conteggi sviluppati dalle parti, questo Collegio ritiene che, a tutt’oggi, il Comune non può mutare la natura di un reddito regolarmente dichiarato al fisco. Il potere accertatore circa la dichiarazione di un reddito appartiene unicamente all’amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 600/1973. Il Comune in quanto soggetto attivo del tributo Ici – che sul piano generale si presenta come un tributo privo di accertamento – si deve limitare ad applicare l’aliquota su una base imponibile determinata da un soggetto terzo qual’è l’Agenzia del Territorio. Non può certamente – sua sponte – trasformare da agricola ad industriale o commerciale un’attività e un reddito di allevamento così dichiarato. La legge istitutiva dell’Ici ha fissato due principi non suscettibili di deroga: che la base imponibile dell’imposta va commisurata alla rendita risultante in catasto e che il soggetto competente ad attribuire la rendita e a decidere su eventuali rettifiche da apportare è l’Agenzia del Territorio. Anche la Corte di Cassazione con la sentenza 22943 del 20 ottobre 2004 ha stabilito che l’amministrazione comunale nell’applicazione dell’Ici non può che attenersi alle risultanze catastali. Il Comune deve controllare, ai fini Ici, che la dichiarazione del contribuente sia corretta in relazione ai beni posseduti e dichiarati, che la rendita sia quella catastalmente risultante, che i conteggi siano esatti e laddove le dichiarazioni risultino omesse, incomplete, infedeli o inesatte è suo


08 ICI.qxd

14-04-2009

752

16:10

Pagina 752

GiustiziaTributaria

4 2008

dovere emettere i conseguenti atti ma certamente non può, come nel caso in esame, negare la ruralità, trasformando ai propri fini un reddito da agricolo ad industriale. Solo – ad abundantiam – il Collegio osserva circa l’attività di allevamento svolta, che l’art. 9, comma 3-bis, del D.L. 557/1993 riconosce carattere rurale «alle costruzioni strumentali alle attività agricole di cui all’art. 29,ora 32, T.U.I.R.», e a proposito di allevamento di animali, ritiene che le strutture destinate a tale funzione quali le stalle mantengono il requisito della ruralità anche in presenza di allevamento eccedentario rispetto alla potenzialità del fondo stante la ratio della norma tesa a qualificare la natura giuridica e non anche il rispetto dei parametri. Se prima si voleva distinguere tra una definizione

di attività agricola più selettiva ai fini fiscali da quella dettata dal Codice civile, l’art. 42-bis del decreto legge 1 ottobre 2007 n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222 ha modificato l’art. 9, comma 3-bis, stabilendo: «Ai fini fiscali deve riconoscersi carattere di ruralità alle costruzioni strumentali allo svolgimento dell’attività agricola di cui all’articolo 2135 del Codice civile [...]» cioè ha disposto la sostituzione dell’art. 29, ora 32, del T.U.I.R. con l’art. 2135 del Codice civile e quindi con una definizione di attività agricola riguardo ai fabbricati strumentali che non concede più alcuna interpretazione restrittiva. Di conseguenza non può che annullare gli avvisi di accertamento impugnati. La particolarità della questione induce il Collegio ad un’equa compensazione delle spese di lite.

Nota

tasto con rendita autonoma, e in Corr. Trib., 2008, 2683, con nota critica di POGGIOLI, Fabbricati rurali e presupposto Ici). Tale orientamento è stato assunto in numerose e consolidanti pronunce, che però non hanno potuto affrontare la disciplina di cui all’art. 42-bis del D.L. n. 159/2007 (Cass., sez. trib., 30 luglio 2008, n. 2036, n. 20637 e n. 20639; Cass., sez. trib., 6 agosto 2008, n. 21163; Cass., sez. trib., 7 agosto 2008, n. 21272, n. 21273, n. 21278 e n. 21279; Cass., sez. trib., 15 settembre 2008, n. 2397). La sentenza della Commissione provinciale di Modena valorizza correttamente la concezione catastale dell’Ici, ma senza giungere a ritenere tassabile il fabbricato iscritto nel catasto fabbricati (cat. D/7), come invece ha fatto la Corte di Cassazione nel corso del 2008. Nel suo iter argomentativo la Commissione evoca poi l’art. 42-bis cit., senza prendere posizione sulla sua portata, innovativa o interpretativa, ma attribuendogli comunque rilievo a conforto dell’intassabilità dei fabbricati rurali nell’Ici. In argomento la Comm. trib. prov. Parma, 12 marzo 2008, n. 4, e la Comm. trib. prov. Chieti, 27 maggio 2008, n. 277, hanno sollevato due questione di legittimità, censurando l’art. 2, comma 4, L. 24 dicembre 2007, n. 244, che pone limiti al rimborso e tende ad attribuire natura interpretativa all’art. 42-bis (entrambe le ordinanze verranno pubblicate prossimamente in questa rivista con commento di DEL FEDERICO).

Il problema dell’applicabilità dell’Ici ai fabbricati rurali è da tempo dibattuto (v. MARINI, L’imposta comunale sugli immobili. Le agevolazioni per il settore agricolo: la normativa interna sui fabbricati rurali, la nozione di imprenditore agricolo a titolo principale, le compatibilità dettate dalla normativa comunitaria, in Finanza loc., 2004, 39; DEL FEDERICO, I fabbricati rurali nell’Ici, ibidem, 2006, 49; RICCI, Cooperative agricole ed Ici sui fabbricati rurali: una questione ancora aperta, in Riv. Dir. Trib., 2006, II, 205). Tuttavia nel corso del 2008 la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è decisamente espressa in favore di una concezione dell’Ici come tributo a base catastale, affermando che la tesi dell’intassabilità dei fabbricati rurali di proprietà delle cooperative agricole è da rigettare in quanto fondata su una logica reddituale estranea all’Ici; tesi questa priva di pregio in quanto escludere «l’assoggettabilità a tale imposta del fabbricato della cooperativa in base alla irrilevante considerazione della natura agricola dell’attività svolta dalla stessa nell’immobile [...] non [...] considera [...] che l’iscrizione (quand’anche nella categoria D/10) di quel fabbricato in catasto (già “urbano”, poi “dei fabbricati”), con attribuzione di autonoma rendita, costituisce presupposto (necessario ma anche) sufficiente» per la tassazione ai fini Ici (Cass., sez. trib., 10 giugno 2008, n. 15321, in Riv. Giur. Trib., 2008, 790, con nota critica di CATTELAN, Soggetto ad Ici il fabbricato rurale iscritto in ca-


09 imposte sui redditi.qxd

9-04-2009

11:52

Pagina 753

Imposte sui redditi e Iva 4 2008 753

IMPOSTE SUI REDDITI E IVA SULLA NATURA DEI CANONI DI CONCESSIONE DEMANIALE E SULLA LORO ESCLUSIONE DALL’IVA E DAL REDDITO DI IMPRESA

101

Commissione tributaria provinciale di Trieste, sez. IV, 9 aprile 2008, n. 26 Presidente: Perna - Relatore: Brajnik Imposte sui redditi - Autorità portuale - Natura pubblicistica - Sussistenza - Canoni di concessione demaniale - Reddito di impresa - Esclusione - Sussistenza (D.P.R. 22 dicembre 1986, artt. 73 e 74; L. 28 gennaio 1994, n. 84, art. 6, commi 2 e 6; L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 993) Iva - Autorità portuale - Natura pubblicistica Sussistenza - Canoni di concessione demaniale Esclusione dal presupposto applicativo - Sussistenza (Direttiva CEE 17 maggio 1977, n. 388, art. 4, par. 5; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 4, comma 2, n. 2; L. 28 gennaio 1994, n. 84, art. 6, comma 2; L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 993) Il rilascio di concessioni demaniali da parte dell’autorità portuale rientra tra le prestazioni aventi carattere di natura “pubblicistico-autoritativa”, come si desume dalla legge 28 gennaio 1994, n. 84, istitutiva di tali enti; conseguentemente, i corrispettivi percepiti dall’autorità portuale a fronte del rilascio di concessioni demaniali non sono riconducibili al reddito di impresa. Il rilascio di concessioni demaniali da parte dell’autorità portuale rientra tra le prestazioni aventi carattere di natura “pubblicistico-autoritativa”; conseguentemente, l’attività di gestione dei beni demaniali non è soggetta ad Iva. La ricorrente chiede l’annullamento dell’avviso di accertamento in premessa sostenendo la non assoggettabilità a tassazione dei corrispettivi relativi alle concessioni demaniali incassate e la non imponibilità delle stesse agli effetti Iva. L’ufficio nella memoria aggiuntiva presentata riconosce la non imponibilità dei corrispettivi agli effetti Iva, richiamandosi alla legge n. 296 del 27 dicembre 2006 e comunica di aver provveduto allo sgravio di quanto iscritto a ruolo. Insiste però sull’assoggettamento dei canoni agli effetti dell’Irpeg e conclude con la richiesta di condan-

na della parte al rimborso delle spese di giudizio. Il sede di discussione il relatore espone la problematica soffermandosi sulla tesi della prestazione pubblicistica da parte dell’autorità portuale e di conseguenza sulle tesi del ricorso sulla non imponibilità dei corrispettivi. Sia i difensori sia i rappresentanti dell’ufficio insistono nell’accoglimento di quanto riportato nel ricorso ovvero nella costituzione a giudizio. La Commissione riprende in esame la problematica in camera di consiglio. Nel prendere atto che la problematica attinente l’imponibilità delle concessioni demaniali agli effetti dell’Iva è stata risolta dalla legge 296/2006 si sofferma sulla problematica della assoggettabilità delle stessa agli effetti Irpeg. A parere della Commissione gli incassi delle concessioni demaniali effettuati dall’autorità portuale rientrano tra le prestazioni di carattere pubblicistico e di conseguenza come tali non assoggettabili agli effetti fiscali. I numerosi richiami in tal senso contenuti nel ricorso e nella memoria aggiuntiva confermano, a parere della Commissione, la prevalenza delle attività delle autorità portuali quali prestazioni di pubblici servizi. Tale attività “di pubblico interesse” delle autorità portuali viene suffragata ulteriormente dalla legge istitutiva delle stesse. Non in ultimo la Commissione ritiene legittime e fondate le numerose sentenze – allegate in copia agli atti del ricorso – già emesse in merito alla stessa controversia da altre Commissioni tributarie che hanno accolto le tesi difensive delle ricorrenti sulla non assoggettibilità agli effetti dell’Irpeg dei corrispettivi relativi alle concessioni demaniali incassati dalle autorità portuali, ritenendo che l’attività viene svolta delle stesse in veste pubblicistico-autoritativa. Si evidenzia inoltre che nel ricorso non viene minimamente contestato il mancato riconoscimento delle ritenute d’acconto da parte dell’ufficio e di conseguenza la ripresa a tassazione delle stesse è del tutto fondata. Stante l’incertezza della problematica esaminata, sussistono motivi per la compensazione delle spese.


09 imposte sui redditi.qxd

754

9-04-2009

11:52

GiustiziaTributaria

Pagina 754

4 2008

Nota di Christian Califano La questione attiene alla problematica relativa alla qualificazione giuridica dei canoni di concessione demaniale rilasciati, a fronte di un corrispettivo, da parte delle autorità portuali e della loro imponibilità ai fini dell’Iva e del reddito d’impresa. La pronuncia assume significativa rilevanza in quanto, recependo le novità normative recentemente introdotte dall’art. 1, comma 993, della L. 27 dicembre 2006, n. 296, relativamente alla qualificazione giuridica delle attività di gestione dei beni demaniali, anticipa, di pochi giorni, le conclusioni cui l’Agenzia delle Entrate è poi pervenuta con la circolare 41/E del 21 aprile 2008. Attraverso tale circolare, infatti, l’Agenzia ha invitato gli uffici periferici a riesaminare, in virtù del nuovo quadro normativo, il contenzioso pendente in materia e, se del caso, a provvedere al relativo abbandono. Trova, dunque, conferma l’indirizzo interpretativo che si era andato sviluppando nella giurisprudenza di merito e in dottrina, basato sulla particolare natura giuridica dell’autorità portuale come ente pubblico non economico e sul carattere pubblicistico dell’atto di concessione demaniale. Premessa La sentenza della Commissione tributaria di Trieste offre l’occasione per fare il punto su una problematica che, solo di recente, grazie ad un intervento normativo e al conseguente adeguamento della prassi, ha trovato un assetto che supera i dubbi interpretativi generati, in passato, da un precedente giurisprudenziale della Corte di Cassazione. La vicenda processuale trae origine da una verifica effettuata nei confronti dell’autorità portuale di Trieste ove l’amministrazione finanziaria ha accertato, ai fini Iva e Irpeg, il valore dei corrispettivi percepiti dall’ente a fronte del rilascio di con-

1 L’art. 6, comma 1, L. 84/1994 stabilisce che all’autorità portuale siano conferiti i seguenti compiti: «a) indirizzo, programmazione, coordinamento, promozione e controllo delle operazioni portuali di cui all’articolo 16, comma 1, e delle altre attività commerciali e industriali esercitate nei porti, con poteri di regolamentazione e di ordinanza, anche in riferimento alla sicurezza rispetto a

cessioni sui beni demaniali marittimi, constatando che l’ammontare dei predetti canoni non era stato incluso né fra le operazioni imponibili Iva, né fra i ricavi quali componenti positivi del reddito di impresa. I giudici triestini, al contrario, pur in maniera succinta affermano che l’attività delle autorità portuali deve essere inquadrata nello svolgimento di «prestazioni di pubblici servizi» e che, pertanto, il corrispettivo incassato dalle stesse per il rilascio di concessioni demaniali non dà luogo ad attività commerciale, esulando quindi dai presupposti applicativi dell’Iva e del reddito di impresa. La pronuncia in rassegna nel giungere a siffatte conclusioni, che pur si pongono nel solco di altri precedenti di merito, per prima (a quanto consta) accoglie la qualificazione delle attività di gestione dei beni demaniali del porto contenuta nell’art. 1, comma 993, della legge finanziaria del 2007, in (apparente) contrasto con le indicazioni offerte dalla Corte di Cassazione. La qualificazione giuridica dell’autorità portuale come ente pubblico non economico e riflessi sulla natura del canone di concessione demaniale La Comm. trib. prov. Trieste argomenta la propria decisione sostenendo che la peculiare natura giuridica dell’autorità portuale caratterizza le prestazioni di tale ente come pubblicistiche. Tali corretti assunti trovano conferma, in primo luogo, nel dato normativo: l’autorità portuale è stata, infatti, istituita con la legge 28 gennaio 1994, n. 84 sul “Riordino della legislazione in materia portuale”, ove all’art. 6, comma 2, conferisce espressamente all’autorità portuale personalità giuridica di diritto pubblico. Oltre alla classificazione giuridica fornita dalla norma, la natura dell’autorità portuale quale ente pubblico si trae dal complesso di attribuzioni di programmazione, coordinamento e controllo assegnate alla stessa dalla legge istitutiva1.

rischi di incidenti connessi a tali attività e alle condizioni di igiene del lavoro in attuazione dell’art. 24; b) manutenzione ordinaria e straordinaria delle parti comuni nell’ambito portuale, ivi compresa quella per il mantenimento dei fondali, previa convenzione con il Ministero dei Lavori pubblici che preveda l’utilizzazione dei fondi all’uopo disponibili sullo stato di previsione della mede-

sima amministrazione; c) affidamento e controllo delle attività dirette alla fornitura a titolo oneroso agli utenti portuali di servizi di interesse generale, non coincidenti né strettamente connessi alle operazioni portuali di cui all’articolo 16, comma 1, individuati con decreto del Ministro dei Trasporti e della Navigazione da emanarsi entro trenta giorni dalla data di entrata in


09 imposte sui redditi.qxd

9-04-2009

11:52

Pagina 755

Imposte sui redditi e Iva 4 2008 755

L’autorità portuale, dunque, nella ratio legis, è senza dubbio deputata al conseguimento di fini istituzionali nella cura degli interessi e delle esigenze della collettività, quali lo sviluppo dei traffici portuali e di tutela del corretto svolgimento delle attività portuali. Individuata la natura di ente pubblico dell’autorità portuale, è necessario ora stabilire se, alla stessa, possa essere riferito il carattere dell’economicità, oppure se la medesima debba essere qualificata quale ente pubblico non economico. A tal fine, è utile prendere le mosse dalla definizione di concetto di enti pubblici economici, definito, ex L. 20 maggio 1970, n. 300, come enti, comunque denominati, operanti nel campo della produzione e dediti ad attività esclusivamente o prevalentemente economica. La giurisprudenza, sul punto, ha elaborato criteri interpretativi che hanno individuato, come elemento tipizzante degli enti pubblici economici il perseguimento, da parte dell’ente, di fini di lucro e di economicità propri dell’attività imprenditoriale. Il giudice di legittimità, infatti, ha costantemente affermato che «l’indagine rivolta a stabilire se un ente pubblico sia o meno economico deve essere compiuta tenendo presente la disciplina legale e statutaria che ne regola l’attività con riferimento agli scopi dell’ente medesimo» con la conseguenza che è ente pubblico non economico quello che «ha prevalentemente scopi e modalità operative che trascendono l’attività meramente imprenditoriale»2. In particolare, con riferimento al settore portuale, la Suprema Corte ha stabilito che «una attenta valutazione di tutti i dati disponibili permette comunque di affermare che l’ente possa essere definito certamente “pubblico economico” quando

vigore della presente legge». Al successivo comma 5, si precisa, inoltre, che «l’esercizio delle attività di cui al comma 1, lettere b e c, è affidato in concessione dall’autorità portuale mediante gara pubblica». 2 Così Cass., sez. un, 7 dicembre 2002, n. 18015, in Giust. Civ. Mass., 2002, 2207; in questi termini si v. anche Cass., sez. un., 9 agosto 2001, n. 10968, in Giust. Civ. Mass., 2001, 1578; Cass., sez. un., 2 marzo 2001, n. 75, in Giust. Civ., 2001, I,1517. 3 Cass., 24 ottobre 1983, n. 6279, in Giust. Civ. Mass., 1983, 9. 4 A sostegno della ricostruzione della qualificazione giuridica dell’autorità portuale quale ente pubblico non economico, può essere richiamata la decisione del T.A.R. del Friuli Vene-

[...] così venga qualificato dall’atto costitutivo e svolga in concreto un’attività imprenditoriale»3. Alla luce di quanto esposto, emerge come non vi sia alcuna ragione che consenta di attribuire all’autorità portuale la qualificazione di ente pubblico economico: l’art. 6, comma 6, della L. 84/1984, sancisce, infatti, il cd. “principio di separatezza”, in ragione del quale «le autorità portuali non possono esercitare, né direttamente né tramite la partecipazione di società, operazioni portuali e attività ad esse strettamente connesse». Il Consiglio di Stato con la sentenza 1 settembre 2000, n. 4656, ha riconosciuto tale principio, affermando come «ai sensi della L. 84/1994, art. 6, comma 6 e 16, comma 1, è assoluto il divieto per le autorità portuali di esercitare la gestione delle operazioni portuali, sia direttamente sia attraverso la costituzione o la partecipazione a società, affinché alle autorità predette competano soltanto compiti neutrali di regolazione e della gestione delle attività portuali»4. La tesi della riconducibilità dell’autorità portuale nel novero degli enti pubblici non economici ha, in effetti, recentemente trovato accoglimento anche da parte dell’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 40 del 16 marzo 20045: «Conformemente al parere del Consiglio di Stato», l’Agenzia delle Entrate ha precisato che «le autorità portuali istituite dalla legge n. 84 del 1994, sono riconducibili tra gli enti non commerciali in quanto enti pubblici preposti al prevalente esercizio di funzioni statali. Conseguentemente, è da ritenersi superato l’orientamento espresso nella risoluzione n. 19 del 7 febbraio 2001, nella quale la scrivente aveva ricondotto le autorità portuali nella categoria degli enti commerciali».

zia Giulia che, con sentenza n. 146 del 26 febbraio 1999 (in www.giustizia-amministrativa.it), ha affermato che «è indubbio che l’autorità portuale sia una pubblica amministrazione e non un ente pubblico economico, dal momento che l’art. 6, comma 2, della L. 28 gennaio 1994, n. 84 esplicitamente le riconosce personalità giuridica di diritto pubblico». E ancora, tale indirizzo è stato confermato dal Consiglio di Stato che, con parere 9 luglio 2002, n. 1641 (in www.giustizia-amministrativa.it) che ha evidenziato la natura pubblicistica dell’autorità portuale. In particolare, ha rilevato che le attribuzioni conferite dalla L. n. 84/1994 implicano «anche l’esercizio di poteri autoritativi, riguardando prevalentemente at-

tività di supervisione e di controllo sul corretto funzionamento del porto e delle sue strutture operative» assumendo «una specifica connotazione di carattere pubblicistico». Ciò posto, il Consiglio di Stato ha evidenziato che «le autorità portuali, sia per la configurazione formale ad esse attribuita dalla legge, sia per l’attività svolta, sia, ancora, per le modalità di finanziamento, svolgono funzioni che [risultano] [...] nel complesso, preordinate al perseguimento di specifiche finalità di pubblico interesse, secondo quanto espressamente stabilito dalle sopra richiamate norme di legge», con ciò riconoscendo alle autorità portuali la natura di enti pubblici non economici. 5 In www.finanze.it.


09 imposte sui redditi.qxd

756

9-04-2009

11:52

GiustiziaTributaria

Pagina 756

4 2008

Sotto altro profilo occorre, altresì, analizzare quali siano le tipologie delle entrata per le autorità portuali previste dalla legge n. 84/1994: tali entrate sono tipicamente pubblicistiche, in quanto derivanti da proventi non ricavati da servizi d’impresa, posto il divieto a carico delle autorità portuali di svolgere attività economico-imprenditoriali in ambito portuale. Sul punto, la giurisprudenza tributaria di merito si è espressa nel senso che «dalla lettura dell’art. 6 la legislazione precedente risulta superata anche per quanto riguarda i meccanismi di finanziamento dei nuovi enti che, nella nuova formulazione, obbediscono a canoni prettamente pubblicistici. Inoltre l’art. 13 della citata legge 84/1994, alle lettere a-b-c-d-e, precisa in maniera chiara e inequivocabile le voci relative alle entrate dei nuovi enti: canoni demaniali; proventi sulla cessione di impianti; tasse portuali sulle merci sbarcate e imbarcate; contributi delle Regioni, degli Enti locali e di altri enti e organismi pubblici; entrate diverse. La natura delle entrate suddette dimostra ancora una volta come sia preminente, per i nuovi enti, l’attività pubblica, peraltro espletata sotto la vigilanza del Ministero dei Trasporti e della Navigazione (art. 12, L. 84/1994) e sotto il controllo contabile della Corte dei Conti»6. Il canone di concessione demaniale come entrata di diritto pubblico e non come corrispettivo di natura privatistica Tra le attribuzioni che vengono conferite all’autorità portuale dalla L. 84/1994 è compresa quella relativa al rilascio delle concessioni di aree o banchine demaniali utili per lo svolgimento delle operazioni portuali da parte di soggetti privati. In dottrina l’orientamento prevalente e consolidato ritiene che il canone di concessione demaniale non rappresenti, in alcun modo, un corrispettivo di natura privata (quale è, per esempio, il canone di locazione o d’affitto) quanto, piuttosto, un’entrata di diritto pubblico. In particolare, è stato sostenuto che «in considerazione della na-

6 Comm. trib. prov. La Spezia, 16 dicembre 2004, n. 108, in www.giustiziatributaria.it. 7 Così VIRGA, Diritto amministrativo, Milano, 2001, 1, 361. 8 GRECO-MURRONI, Demanio marittimo, zone costiere, assetto del territorio, Bologna, 1980, 251. 9 In tali termini BERLIRI, Corso istituzionale

tura pubblica del rapporto fra concedente e concessionario», il canone deve qualificarsi «come “contributo di diritto pubblico”, trattandosi di una somma che il privato è tenuto a corrispondere in forza di una disposizione legislativa per il fatto di avere chiesto e ottenuto di trarre uno speciale vantaggio dal bene demaniale»7. In senso analogo, con specifico riferimento al demanio marittimo, si è affermato che «il canone demaniale dovuto dal concessionario che riceve in uso esclusivo una porzione del demanio marittimo non costituisce in principio il corrispettivo di tale uso, ma il segno tangibile e scandito nel tempo del riconoscimento da parte del concessionario medesimo del dominio eminente e assoluto dello Stato sulla porzione di terreno concessogli in uso»8. Sul punto, autorevole dottrina tributaria ha sostenuto che «il godimento di beni demaniali può, sia pure eccezionalmente, formare oggetto di veri e propri contratti di affitto e dà quindi luogo ad entrate di diritto privato; di qui la necessità di discriminare tali casi da quelli in cui a fronte del godimento del bene demaniale sta un’entrata di diritto pubblico. Ora, tale discriminazione in alcuni casi appare facile: sono sicuramente di diritto privato quelli nascenti da un contratto di locazione; sono altrettanto sicuramente di diritto pubblico quelli che nascono da una concessione unilaterale con la quale l’ente pubblico fissa discrezionalmente il canone dovutole, ove è tipico il caso della concessione di un tratto di lido marino da parte del capitano di porto o del Ministro della Marina. Il provvedimento amministrativo è il titolo costitutivo sia del diritto del singolo all’uso del bene demaniale che di quello dell’amministrazione alla percezione del canone»9. Tali conclusioni sono poi state ulteriormente confermate da altra attenta dottrina che ha escluso «la pura e semplice natura di corrispettivo di diritto privato» del canone di concessione demaniale, riconducendolo, invece, nell’alveo delle entrate di diritto pubblico10. Anche la giurisprudenza di merito, con specifico riferimento al settore

di diritto tributario, Milano, 1985, 95-96. 10 DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, 271; cfr. anche BASILAVECCHIA, Natura giuridica del canone nelle concessioni demaniali marittime, in Rass. Trib., 1998, 2, 355. Sul punto si v. anche gli spunti di VERRIGNI, In tema di imposta regionale sulle concessioni statali di beni del de-

manio e patrimonio indisponibile, in Finanza loc., 2002, 625; PACE, Ancora negata la giurisdizione tributaria sui canoni di concessione demaniale, nota a Cass., sez. un., 14 gennaio 2005, n. 604, in Boll. Trib., 2005, 10, 796 ss., di ANGELONE, Subingresso e subconcessione nel demanio marittimo, in Dir. Marittimo, 2007, 1, 245 ss.


09 imposte sui redditi.qxd

9-04-2009

11:52

Pagina 757

Imposte sui redditi e Iva 4 2008 757

portuale, ha riconosciuto la natura di entrata di diritto pubblico del canone demaniale11. Tali conclusioni sono state, peraltro, accolte recentemente anche in sede ministeriale, ove è stato espressamente dichiarato che «il versamento dei canoni da parte degli operatori portuali per l’utilizzo dei beni demaniali non è in alcun modo riconducibile alla tipologia del versamento a titolo di locazione dal momento che i canoni per le concessioni demaniali non sono assimilabili a quelli fondiari essendo privi del necessario presupposto della disponibilità del bene da parte dell’ente a titolo di proprietà o altro diritto reale e, quindi, non possono in alcun modo configurarsi come corrispettivo da cui possa scaturire la produzione di un reddito: si tratta, infatti, di entrate spettanti allo Stato e da questo attribuite all’ente per il raggiungimento dei suoi fini istituzionali»12. Né, d’altro canto, al fine di superare le conclusioni sopra prospettate, può valere l’orientamento espresso dalla pronuncia della Corte di Cassazione, sez. trib., 25 luglio 2001, n. 1009713, in quanto le argomentazioni poste alla base di detta pronuncia vengono svolte facendo riferimento ad un quadro normativo superato a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 84/1994: la Corte di Cassazione, infatti, afferma che i rapporti tra l’ente e «gli utilizzatori dei beni del demanio portuale, pur non toccando l’appartenenza dei beni stessi allo Stato, non sono riconducibili nello schema della concessione pubblicistica di diritto di uso esclusivo su immobili demaniali, perché si ricollegano ad atti che sono di pertinenza soltanto del consorzio, in veste di consegnatario e gestore, e che esprimono un momento tipico delle sue incombenze di natura imprenditoriale. Il passaggio del godimento dell’area, dell’edificio e dell’impianto portuale dal consorzio al singolo operatore è dunque atto inerente all’esercizio d’impresa, va equiparato alla locazione, e come tale è soggetto all’Iva». Tali affermazioni, tuttavia, devono essere lette alla luce della riforma dell’ordinamento portuale introdotta, appunto, con la L. 84/1994, che ha profondamente mutato la natura e le funzioni dei soggetti pubblici competenti in materia portuale.

11 La Comm. trib. prov. Genova, 11 maggio 2005, n. 110, in www.giustiziatributaria.it, ha affermato che «sia gli atti di concessione a terzi dell’uso degli immobili demaniali e delle relative entrate, sia gli atti di concessione so-

Queste peculiari differenze sono state colte dalla giurisprudenza tributaria di merito: la Commissione tributaria provinciale di Ravenna14, infatti, ha accolto il ricorso con il quale l’autorità portuale aveva impugnato un avviso di accertamento mediante il quale la locale Agenzia delle Entrate aveva ritenuto (analogamente a quanto avvenuto nel caso oggetto della pronuncia in commento) che i proventi derivanti dalla riscossione dei canoni demaniali marittimi dovessero essere assoggettati ad Iva e alle norme sul reddito di impresa. Nelle motivazioni della suddetta sentenza si legge che «nello sforzo di superare l’evidente contrasto con il citato art. 6 che al comma 6 vieta alle autorità portuali l’esercizio di attività di impresa, l’Agenzia pone la sentenza della Corte di Cassazione 25 luglio 2001, n. 10097». Al riguardo, si afferma chiaramente che «la sentenza della Cassazione è del tutto inconferente perché si riferisce al Consorzio autonomo del Porto di Genova cioè ad uno degli enti portuali antecedenti all’istituzione delle autorità portuali, come riconosciuto d’altronde dall’Agenzia, che tuttavia ritiene di potere giocare la valenza del principio affermato dalla detta sentenza anche per le autorità portuali in quanto consente di connotare in senso oggettivo l’attività di gestione dei beni del demanio portuale a prescindere dalla natura commerciale o meno dell’ente. Dimentica, però, che in ogni caso (anche cioè ritenendo possibile la traslazione in capo alle autorità portuali di un principio sancito con riferimento ad un ente diverso) la decisione della Corte di Cassazione si fonda sul ritenuto presupposto espressamente indicato tanto in massima che in motivazione, dello svolgimento prevalente di attribuzioni di carattere imprenditoriale». Il che, evidentemente, non è sostenibile con riferimento alle autorità portuali. I canoni di concessione non possono, dunque, essere ricondotti ad un contesto di tipo privatistico, attraverso una loro equiparazione al canone che il locatore impone al conduttore nell’ambito del contratto di locazione di immobili, ma debbono, viceversa, essere configurati quali strumenti differenti, in considerazione della loro specifica destinazione, che è sempre rivolta al soddisfacimento di un interesse pubblico15.

no necessariamente regolati dal diritto pubblico amministrativo e i canoni vanno considerati “entrate di diritto pubblico”». 12 Nota del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 6 luglio 2004, in

www.infrastrutture.gov.it. 13 In Giust. Civ. Mass., 2001, 1457. 14 Comm. trib. prov. Ravenna, 12 luglio 2006, n. 69, www.giustiziatributaria.it. 15 In linea con tali osservazioni CASANOVA, L’azienda balneare del litorale ge-


09 imposte sui redditi.qxd

758

9-04-2009

11:52

GiustiziaTributaria

Pagina 758

4 2008

Il regime istituzionale dell’attività di gestione del demanio portuale e di riscossione del relativo canone ai fini del reddito di impresa e dell’Iva Acclarata la natura di ente pubblico non economico dell’autorità portuale, è necessario analizzare la disciplina tributaria relativa a tale categoria di soggetti. Nel caso di specie, l’autorità portuale può sicuramente considerarsi un soggetto escluso ai fini del riconoscimento della soggettività passiva (art. 73, T.U.I.R.) in quanto non svolge, per espresso vincolo di legge, attività commerciale (art. 74, T.U.I.R.) poiché ente pubblico non economico che esercita, invece, attività istituzionale. L’art. 73, primo comma, lettera b, T.U.I.R., infatti, assoggetta a tassazione «gli enti pubblici e privati, diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali» e quelli (lett. c) «che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali». Al comma 4 dello stesso articolo viene, poi, affermato che «l’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata». In base al successivo comma 4bis, qualora manchi un atto costitutivo o uno statuto in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata, l’oggetto principale dell’ente è determinato in base all’attività effettivamente esercitata. In espressa deroga a tale norma generale, il successivo art. 74, comma 1, dispone che «gli organi e le amministrazioni dello Stato, compresi quelli ad ordinamento autonomo, anche se dotati di personalità giuridica, i Comuni, i consorzi tra enti locali, le associazioni e gli enti gestori di demani collettivi, le comunità montane, le Province e le

novese proposte per lo sviluppo, in Dir. Maritt., 1991, 238, il quale rileva che «sarebbe errato porsi, allorquando si parla di canone demaniale, in una ottica di tipo privatistico facendo riferimento alla locazione di immobili. La concessione demaniale [...] è strumento diverso proprio per la presenza dell’interesse pubblico». Conformemente si è espresso AVANZI, Canoni demaniali, natura, determinazione, riscossione, in Tributi, 1990, 114, secondo cui «l’impossibilità di inquadrare il canone demaniale nella categoria dei canoni locatizi sta

Regioni non sono soggetti all’imposta». In particolare, come dispone il secondo comma del suddetto articolo, non costituisce attività commerciale «l’esercizio di funzioni statali da parte di enti pubblici», delineandosi, in tal modo, una esclusione di tipo sia soggettivo che oggettivo in capo a quest’ultima categoria di soggetti. Anche sulla base delle considerazioni già svolte, pare, infatti, pacifico che l’esercizio di attività istituzionale da parte dell’autorità portuale escluda che si possa intravedere una “commercialità” in presenza di un atto concessorio da parte di un ente pubblico non economico che non svolge attività commerciale limitandosi, al contrario, a espletare funzioni pubblicistiche, anche nella considerazione che la percezione del canone avviene in assenza di una specifica organizzazione all’uopo costituita. L’autorità portuale, infatti, si limita semplicemente a individuare un concessionario idoneo, a riscuotere il canone e a vigilare, com’è d’obbligo nei rapporti concessori, che si faccia buon uso, in relazione ai principi di pubblica utilità, del bene demaniale. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la gestione del demanio possa configurarsi quale pubblica funzione: tale principio deriva da quello più generale in base al quale è la natura propria del demanio – e in particolare di quello marittimo – ad individuarne la intrinseca destinazione, sempre diretta al soddisfacimento di interessi pubblici. A tal proposito in dottrina è stato affermato che «per demanio marittimo si intende il complesso di beni destinati a soddisfare gli interessi pubblici riguardanti la navigazione e il traffico marittimo [...]. I beni che fanno parte del demanio marittimo [...] si definiscono per un atteggiamento specifico della demanialità: essa trova la sua peculiare ragione [...] nell’essere codesti beni immancabilmente collegati con i pubblici usi del mare»16.

nel titolo, cioè nella concessione, perché l’interesse perseguito dal concedente in sede di emanazione del provvedimento amministrativo ha una valenza diversa da quella che l’interesse assume nel contratto di locazione». 16 Così QUERCI, voce Demanio marittimo, in Enc. Dir., 1964, 92-93). Sul punto occorre evidenziare che c’è concorde orientamento nel ritenere che la gestione del demanio possa configurarsi quale pubblica funzione: secondo GRECO-MURRONI, Demanio marittimo, zone costiere, assetto del territorio, Bolo-

gna, 1980, 23, «il legislatore ha prescelto come presupposto e vincolo della gestione del demanio marittimo la sua essenziale destinazione a servire i “pubblici usi del mare”, storicamente individuati [...], essenzialmente e riassuntivamente, nella navigazione». La suddetta pubblica funzione, connaturata al concetto di bene demaniale, nonché di gestione dello stesso, ha indotto ad evidenziare la natura di atto di diritto pubblico, in quanto autoritativo, della concessione demaniale: la dottrina amministrativistica ritiene, infatti, che le


09 imposte sui redditi.qxd

9-04-2009

11:52

Pagina 759

Imposte sui redditi e Iva 4 2008 759

In questi termini si è anche autorevolmente espresso, in due pronunce, il Consiglio di Stato, affermando chiaramente che «l’amministrazione pubblica, nel gestire un bene del proprio patrimonio indisponibile (o del demanio) emana atti non negoziali ma amministrativi»17 e che, «l’amministrazione ha il potere – dovere di utilizzare i beni pubblici perseguendo l’interesse pubblico e compie una scelta amministrativa (attraverso atti non negoziali ma autoritativi) [...] quando dà un proprio bene in concessione»18. Questo indirizzo appare, peraltro, in linea con l’orientamento accolto dalla Corte costituzionale con la sentenza 21 luglio 1995, n. 343 la quale ha ritenuto funzione pubblica «l’utilizzazione speciale del demanio marittimo attraverso [...] una vera e propria concessione di suolo pubblico»19. Alla luce di quanto esposto può affermarsi che l’autorità portuale, allorquando rilascia concessioni a soggetti privati, attribuisce ai medesimi la facoltà di utilizzare parti del demanio portuale per fini privati (esercizio di operazioni portuali), che rimangono, tuttavia, inquadrabili all’interno della categoria degli usi pubblici: invero, l’autorità portuale, come già più volte ribadito, rilascia concessioni demaniali (e non atti di diversa natura) per l’utilizzo di parti del demanio portuale nell’adempimento di un compito istituzionalmente attribuitole dal legislatore quale ente pubblico regolatore del porto. A ciò si aggiunga che il rilascio dell’atto di concessione da parte dell’autorità portuale non può in alcun modo qualificar-

concessioni amministrative «sono espressioni di una potestà pubblica e tendono quindi al conseguimento di fini pubblici», come evidenziato da SILVESTRI, voce Concessione amministrativa, in Enc. Dir., Milano, 1961; in altri termini, come sostiene VALLARIO, Il demanio marittimo, Milano, 1970, 130, «con la concessione lo Stato, nell’ambito dell’esplicazione della sua potestà di imperio, favorisce e stimola l’attività dei privati volta in determinate direzioni e preordinate a fini che coincidono con l’interesse pubblico e di cui i risultati andranno a ricadere ed a completare l’insieme degli interventi dello Stato a beneficio della collettività. A questa prima caratterizzazione della concessione si deve aggiungere una seconda particolarità della stessa: con essa si conferiscono ai privati nuove facoltà sulla base di una situazione [...] di diritto pubblico». È stato, poi, autorevolmente segnalato ad opera di ACQUA-

RONE,

si come «incombenza di natura imprenditoriale», essendo la medesima autorità preposta al perseguimento di fini pubblici legati al settore della navigazione, anche realizzabili attraverso l’utilizzo di aree e banchine demaniali da parte delle rispettive imprese concessionarie. Alla luce di quanto argomentato, del tutto erronea appare la valutazione effettuata dall’Agenzia delle Entrate nella citata risoluzione n. 40 del 16 marzo 2004, in cui si è affermato che l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 10097 del 2001 «vale a connotare in senso oggettivo l’attività di gestione dei beni del demanio portuale». A conclusione di quanto sopra esposto deve, dunque, escludersi che la gestione del demanio marittimo, da parte dell’autorità portuale, mediante il rilascio della concessione demaniale possa in qualche modo connotarsi in termini privatistici ed imprenditoriali. Ciò, peraltro, è stato confermato dalla Commissione tributaria provinciale di La Spezia, che ha ritenuto che «dal complesso normativo della legge n. 84/1994 l’attività svolta dalle autorità portuali non sembra certo riconducibile alla fattispecie di attività imprenditoriale»20. Deve, quindi, evincersi che l’attività in questione viene svolta dall’autorità portuale, non nella veste privatistico-commerciale, ma in quella pubblicistico-autoritativa, conclusioni, queste, condivise anche dalla giurisprudenza tributaria di merito21.

Demanio marittimo e porti, in Dir. Maritt., 1983, 89, che l’ente gestore di un bene demaniale «ha per suo obbligo istituzionale quello di perseguire nel miglior modo l’interesse pubblico, e che, conseguentemente, il miglior uso del bene demaniale è quello che maggiormente corrisponde a tale interesse. [...] Operata la valutazione dell’interesse pubblico, potrà essere liberalmente concesso l’uso del bene del demanio marittimo a chi si proponga di utilizzarlo conformemente a siffatto interesse». La natura pubblicistica e non imprenditoriale dell’attività di rilascio delle concessioni risulta, da ultimo, suffragata dalla posizione assunta da autorevole dottrina la quale, persino con riferimento all’attività al riguardo svolta dagli oramai soppressi enti portuali, ha rilevato che, nella ipotesi di «gestione del demanio marittimo e degli spazi acquei, in particolare mediante l’istituto della concessione nell’ambi-

to della disciplina dettata dal Codice della navigazione [...] l’ente portuale esplica una attività che si concreta nella produzione di atti giuridici: attività di amministrazione e non certamente attività economica», in questi termini PERICU, voce Porto (navigazione marittima), in Enc. Dir., 1985, 445. 17 Cons. di Stato, 3 ottobre 1997, n. 1103, in www.giustizia-amministrativa.it. 18 Cons. di Stato, 14 novembre 1997, n. 1302, in www.giustizia-amministrativa.it. 19 In Dir. e Prat. Trib., 1996, II,1022. 20 Comm. trib. prov. La Spezia, 16 dicembre 2004, n. 108; conforme Comm. trib. prov. Savona, 27 luglio 2004, n. 194, entrambe in www.giustiziatributaria.it. 21 La Comm. trib. prov. Genova, 28 aprile 2005, n. 99, in www.giustiziatributaria.it, dopo avere riconosciuto la natura pubblicistico istituzionale dell’attività di gestione del demanio maritti-


09 imposte sui redditi.qxd

760

9-04-2009

11:52

GiustiziaTributaria

Pagina 760

4 2008

Alla luce di quanto argomentato, pertanto, non può che condividersi la posizione assunta dalla Comm. trib. prov. Trieste che, sebbene in termini laconici, ha, a ragion veduta, affermato che il rilascio della concessione demaniale, nonché la consequenziale riscossione del relativo canone da parte dell’autorità portuale, sono da annoverarsi tra le funzioni di pubblica autorità, comportando ciò l’esclusione da imposizione dell’autorità portuale «agli effetti dell’Irpeg». Ai fini Iva, invece, la questione pare di più agevole inquadramento, a seguito del recente intervento operato dal legislatore con l’art. 1, comma 993, della L. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007). Partendo dal dato normativo, si può osservare come il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, relativo all’istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto, al suo art. 4, comma 2, n. 2, prevede che «si considerano in ogni caso effettuate nell’esercizio di imprese: [...] le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte da [...] enti pubblici [...] che abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali». Argomentando a contrariis, si può sostenere che per gli enti pubblici, che non abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, si considerano effettuate nell’esercizio di impresa soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi espressione di attività commerciale. Da ciò discende che le attività istituzionali degli enti pubblici, ancorché consistano in un’attività economica, sono sempre escluse dal campo di applicazione dell’Iva, purché tale attività sia svolta in un regime esclusivo di diritto amministrativo, cioè nell’esercizio dei compiti di pubblica autorità. Gli enti pubblici risultano, invece, soggetti passivi Iva ove pongano in essere, anche nella loro veste pubblicistica, rapporti commerciali di natura privatistica. È dato rilevare che le autorità portuali sono enti pubblici titolari di compiti e funzioni che si pongono come espressione ed esercizio di un pubblico potere sotto il profilo istituzionale: in ragione di ciò, il rilascio della concessione demaniale, nonché la consequenziale riscossione del relativo canone da parte dell’autorità portuale, sono da

mo svolta dalle autorità portuali, facendone discendere la carenza del presupposto soggettivo rilevante agli effetti Iva, afferma che l’assunto è «valevole – quanto ai principi espressi –

annoverarsi tra le funzioni di pubblica autorità, istituzionalmente attribuite all’autorità portuale quale ente regolatore del porto dalla L. 84/1994. Sul punto, la direttiva CEE del 17 maggio 1977, n. 388, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri in tema di Iva (VI direttiva Iva) all’art. 4, par. 5, dispone che «gli Stati, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri organismi di diritto pubblico non sono considerati soggetti passivi per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità, anche quando, in relazione a tali attività od operazioni, percepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni». Dalla normativa di fonte comunitaria, si evince che sono escluse dal campo di applicazione dell’Iva le attività degli enti pubblici che siano regolate da norme di diritto pubblico. In altri termini, quindi, l’ente pubblico non è soggetto a Iva qualora eserciti attività in veste di pubblica autorità, nell’ambito del suo peculiare regime; viceversa, ove l’ente vada a collocarsi sullo stesso piano (e quindi operi con gli stessi strumenti e nello stesso regime) degli operatori economici privati dovrà essere assoggettato ad Iva secondo i criteri ordinari. Ne deriva, pertanto, che ciò che rileva al fine di valutare la riconducibilità dell’esercizio di attività od operazioni da parte di un ente pubblico all’art. 4, par. 5, della VI direttiva Iva, è «esclusivamente il regime pubblicistico dell’attività» da esso svolta22. In ambito comunitario, dunque, si è ritenuto necessario operare una distinzione netta tra le attività poste in essere dall’ente nella qualità di pubblica autorità (che esulano dal campo di applicazione dell’Iva) e le attività inquadrabili nella nozione di attività commerciale, come tali rilevanti ai fini dell’applicazione del tributo. L’elemento discriminante è, dunque, da individuare nel carattere dell’autoritatività, che connota le attività esercitate dagli enti pubblici. Al fine di individuare la corretta interpretazione di tale concetto, si deve richiamare il consolidato orientamento formulato in proposito dalla Corte di Giustizia CE, la quale ha più volte ribadito che «le attività esercitate in quanto pubbliche autorità, ai sensi dell’art. 4, n. 5, primo comma, della VI direttiva, sono quelle svolte dagli enti pubblici.

anche ai fini delle imposte Irpeg e Irap». La Commissione tributaria provinciale di Genova perviene a tale conclusione richiamando anche il parere del Consiglio di Stato del 9 luglio

2002 (cit.); conforme Comm. trib. prov. Ravenna, 12 luglio 2006, n. 69, in www.giustiziatributaria.it. 22 Così DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, cit., 143.


09 imposte sui redditi.qxd

9-04-2009

11:52

Pagina 761

Imposte sui redditi e Iva 4 2008 761

nell’ambito del regime giuridico loro proprio, escluse le attività da essi svolte in base allo stesso regime cui sono sottoposti gli operatori economici privati»23. Come si evince dalla medesima sentenza, affinché una determinata attività resa da un ente pubblico possa dirsi esercitata nella veste di pubblica autorità, occorre avere riguardo alle modalità di svolgimento della medesima attività previste dall’ordinamento nazionale, al fine di stabilire se tale attività sia esercitata nell’ambito del regime giuridico proprio degli enti pubblici o se, viceversa, essa sia svolta alle stesse condizioni giuridiche degli operatori economici privati24. In tema di concessioni demaniali la giurisprudenza comunitaria si è poi recentemente espressa con la sentenza 25 ottobre 2007, nella causa C174/0625; qui la Corte osserva che «dalla decisione di rinvio risulta che il consorzio è un ente pubblico a carattere economico il quale opera, rispetto alla gestione dei beni del demanio che gli sono affidati, non in nome e per conto dello Stato, che rimane titolare della proprietà, ma in nome proprio, in quanto amministra tali beni, in particolare adottando decisioni autonome. Per quanto concerne il consorzio, non sono quindi soddisfatti i requisiti cumulativi necessari affinché possa operare la regola dell’esenzione di cui all’art. 4, n. 5, primo comma, della VI direttiva, vale a dire l’esercizio di attività da parte di un ente pubblico e l’esercizio di attività in veste di pubblica autorità (v., in questo senso, sentenza 14 dicembre 2000, causa C-446/98, Fazenda Pública, racc. I-11435, punto 15)». La soluzione adottata in tale caso dalla CGCE, che conclude per l’assoggettabilità ad Iva dei canoni di concessione demaniale, poggia, evidentemente, sulla diversa qualificazione del consorzio autonomo del Porto di Genova (su cui si v., infra, Cass., 25 luglio 2001, n. 10097) rispetto all’attuale e diversa veste giuridica assunta delle autorità portuali a seguito dell’entrata in vigore della L. 84/1994. In questo quadro di riferimento è poi intervenuta da ultimo l’art. 1, comma 993, della L. 296/2006 che ha fugato, in via di interpretazione autentica, ogni dubbio circa la corretta modalità di applicazione delle norme già vigenti, peraltro in maniera

23 CGCE, 14 dicembre 2000, causa C446/1998, in Fisco, 1992, 4079. 24 Cfr. Cass., 24 maggio 2004, n. 17871, in Giust. Civ. Mass., 2004, 9. 25 CGCE, 25 ottobre 2007, causa C174/06, in www.curia.europa.eu, spec.

del tutto conforme al già citato univoco orientamento andatosi a formare sul punto, ribadendo una volta per tutte la natura non commerciale delle attività svolte dalle autorità portuali. Il fondamentale principio ribadito dal legislatore con la menzionata norma è chiarissimo: le autorità portuali hanno «natura giuridica non economica». Dalla conferma della natura giuridica non economica delle attività svolte dalle autorità portuali discendono una serie di conseguenze, direttamente esplicitate nella suddetta disposizione: l’unica imposta alla quale possono essere assoggettati i canoni demaniali marittimi è l’imposta di registro. L’espresso riconoscimento di una siffatta natura giuridica delle autorità portuali apre la strada alla ineluttabile conseguenza della non imponibilità ai fini del reddito di impresa dei proventi derivanti dai canoni demaniali marittimi. Di tali conseguenze ha, infine, preso atto anche l’Agenzia delle Entrate che, con la recente circolare 41/E del 21 aprile 2008, ha anch’essa definitivamente riconosciuto che l’autorità portuale, svolgendo compiti riguardanti prevalentemente attività di supervisione e di controllo sul corretto funzionamento delle attività portuali, esercita attività implicanti l’esercizio di poteri autoritativi che assumono una connotazione di carattere pubblicistico26. La conseguenza che la stessa amministrazione finanziaria, poi, trae nella citata circolare è che l’esclusione delle attività di gestione dei beni demaniali dal presupposto dell’Iva, «fondata sulla natura giuridica di enti pubblici non economici delle autorità portuali e sulla natura non commerciale dell’attività svolta nell’esercizio di funzioni statali», determina «per ragioni di simmetria, che la medesima attività non sia neppure produttiva di reddito di impresa»27, allineandosi (con notevole ritardo) all’indirizzo interpretativo da tempo invocato da dottrina e giurisprudenza. Osservazioni conclusive La sentenza della Commissione provinciale di Trieste va certamente condivisa in quanto, pur in maniera concisa, coglie nel segno nell’affermare la connotazione di carattere pubblicistico dell’e-

par. 24 e 25. 26 Sul punto si v. CENTORE, “Dietrofront” sull’imponibilità Iva dei canoni marittimi, in Corr. Trib., 2008, 1807 ss. 27 Da notare che la circolare 41/E afferma che se da un lato l’attività

pubblicistica delle autorità portuali non rilevano sotto il profilo del reddito di impresa, possono assumere rilievo tutt’al più – e ricorrendone i presupposti, «come redditi di natura fondiaria» (pagina 3).


09 imposte sui redditi.qxd

762

9-04-2009

11:52

GiustiziaTributaria

Pagina 762

4 2008

sercizio dei poteri autoritativi da parte dell’autorità portuale, stante la sua natura di ente pubblico non economico. Viene dunque superato dalla Comm. trib. prov. Trieste l’equivoco interpretativo basato su un precedente della Suprema Corte, secondo cui le prestazioni rese dall’ente portuale sarebbero connotate dallo svolgimento prevalente di attribuzioni di carattere imprenditoriale. Il che, evidentemente, nel mutato quadro normativo, non è più sostenibile con riferimento all’attuale struttura giuridica delle autorità portuali. Invero, come visto, il precedente della Cassazione concerne un contenzioso originatosi in relazione a canoni di concessione rilasciati dal preposto ente (consorzio del porto) prima dell’intervento della L. 84/1994. Tale norma, innovando radicalmente il precedente assetto, ha istituito le autorità portuali che sono ora preposte al perseguimento di fini pubblici nell’adempimento dei compiti istituzionali quali enti pubblici regolatori

del porto; in tale veste, rilasciano concessioni per l’utilizzo di parti del demanio portuale. In quest’ambito, il rilascio dell’atto di concessione da parte dell’autorità portuale a fronte di un corrispettivo, non può in alcun modo qualificarsi come attività di natura imprenditoriale, ma implica esclusivamente esercizio di poteri di natura pubblicistica. La sentenza recepisce appieno, dunque, il contenuto dell’intervento operato dalla legge finanziaria 2007 che ha definitivamente confermato la natura giuridica delle autorità portuali e il loro vincolo istituzionale a non porre in essere attività commerciale. Da notare che tale norma, pur riferendosi esplicitamente solo all’Iva, deve comunque essere interpretata, come conclude la Comm. trib. prov. Trieste, estensivamente anche in relazione al reddito di impresa, sulla base degli stessi presupposti che hanno indotto anche l’Agenzia delle Entrate, nella circolare 41/E del 2008, a pervenire alle medesime conclusioni adottate nella pronuncia in esame.


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 763

Irap 4 2008 763

IRAP L’AUTONOMIA ORGANIZZATIVA NELL’IRAP: IL FATICOSO SVILUPPO DEL “DIRITTO VIVENTE” NELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO I 102

Commissione tributaria regionale dell’Umbria, sez. V, 26 ottobre 2007, n. 80 Presidente: Zanetti - Relatore: Quarchioni Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Perito agronomo Insussistenza (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) Un’attività professionale (nel caso di specie, di perito agronomo) svolta senza beni strumentali significativi e senza dipendenti né collaboratori non realizza il presupposto Irap in quanto manca di autonomia organizzativa, intesa come idoneità a svincolare, almeno potenzialmente, la produzione di reddito dall’attività diretta del professionista. Svolgimento del processo B.F., esercente l’attività di perito agronomo in Gualdo Tadino ricorre avverso il mancato accoglimento da parte dell’Agenzia delle Entrate di Terni, della richiesta di rimborso Irap per la imposta versata per gli anni 2000 per un totale di [...]. Chiede, in base alla recente sentenza della Corte costituzionale, di voler riconoscere il diritto alla esclusione dell’imposta regionale sulle attività produttive per mancanza di una qualsiasi struttura organizzata autonoma. Riferisce di aver esercitato l’attività professionale in modo del tutto personale, incentrandosi l’attività e l’opera anche intellettuale, sulla propria figura professionale, senza dipendenti, con modesti mezzi strumentali (un computer fisso, un computer portatile e una autovettura) e modesti redditi, senza quindi una organizzazione di natura imprenditoriale, producendo a sostegno documentazione contabile e dichiarazioni dei redditi per gli anni in questione. L’Agenzia delle Entrate si costituisce in giudizio l’ufficio, chiedendo di respingere il ricorso con vittoria di spese diritti e onorari. Pur condividendo la precisazione della Corte costituzionale, non condivide la conseguenza che ne

trae il ricorrente al caso di specie. Nell’attività del professionista, infatti, “l’organizzazione”, se pur minima, si ravvisa direttamente nell’attività stessa perché è caratterizzata da specifiche conoscenze e da speciale qualificazione professionale. Ritiene che l’attività svolta dal ricorrente, in quanto attività professionale non occasionale e in quanto caratterizzata da autonomia organizzativa per essere svolta senza il coordinamento e il controllo da parte di altri soggetti, sia soggetta al tributo Irap. In proposito segnala numerose sentenze favorevoli in merito. I giudici di primo grado, accoglievano il ricorso, compensandone le spese. Nel merito, accoglievano il ricorso, essendo il ricorrente un semplice perito agrario e ritenendo che sono state evidenziate negli atti, circostanze di fatti che depongono per la carenza del presupposto impositivo in mancanza di elementi organizzativi. Si appella l’Agenzia delle Entrate, chiedendo la riforma della sentenza impugnata dichiarando inesistente il diritto al rimborso Irap richiesto. Ritiene infatti che il presupposto impositivo ricorra anche in caso di auto-organizzazione, senza la presenza necessariamente di personale dipendente o beni strumentali di qualsivoglia tipo, come nel caso del contribuente in oggetto. In proposito cita una serie di sentenze favorevoli sent. n. 120/200 della Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sent. n. 35/16/2004 della Comm. trib. prov. Milano. Nel merito osserva comunque, anche se in via del tutto subordinata, il fatto che la parte ricorrente non abbia sufficientemente adempiuto all’onere di provare che l’esercizio della propria attività avviene senza il supporto di un’autonoma e apprezzabile organizzazione. Si costituisce in giudizio di appello il contribuente, chiedendo la riconferma della sentenza e ribadendo sostanzialmente quanto già riferito nel ricorso, rilevando in risposta all’ufficio che lamentava di non aver prodotto prove a sostegno della sua tesi, che diversamente è stata prodotta copia


10 Irap.qxd

10-04-2009

764

15:54

Pagina 764

GiustiziaTributaria

4 2008

del registro dei strumentali e quanto altro per provare la modesta entità dell’attività professionale così come l’impiego di beni strumentali strettamente necessari (autovettura e computer) per lo svolgimento dell’attività medesima.

2001, n. 156, ha chiarito e messo in evidenza che, mentre ha dato per scontato l’applicazione dell’imposta Irap che colpisce il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate quali le attività imprenditoriali in generale, non altrettanto ha dato per scontato l’applicazione dell’imposta alle attività di lavoro autonomo e professionale ed in mancanza di specifiche disposizioni normative per quest’ultime, ha voluto lasciare ai giudici di merito, “la questione di mero fatto” per l’accertamento degli “elementi organizzativi” in assenza dei quali l’imposta non e dovuta. Anche la suprema Corte di Cassazione, pronunciatasi recentemente nel febbraio 2007 su numerose sentenze, riguardanti liberi professionisti, ripercorre questa linea e analisi interpretativa. Dal quadro complessivo, non sembra pertanto esistere, per il caso in discussione, una autonoma organizzazione, per l’attività svolta e comunque l’esistenza di una componente strumentale significativa e l’inesistenza di dipendenti e collaboratori, tale da poter svincolare, almeno potenzialmente, l’attività diretta del professionista nel produrre reddito, facendo venir meno i requisiti per l’assoggettamento del contribuente all’Irap. Esiste pertanto, la condizione per il contribuente in questione, il diritto al rimborso Irap di quanto pagato a tale titolo. La non completa uniformità giurisprudenziale sull’argomento, giustifica la compensazione delle spese.

Motivi della decisione Il Collegio, esaminata la documentazione agli atti, ritiene che l’appello dell’ufficio non merita accoglimento sul piano giuridico in quanto basato su generiche posizioni di principio, senza alcuna analisi e considerazione del caso specifico, circa la consistenza “organizzativa” dell’attività, anche se nella disponibilità documentale e di verifica dello stesso ufficio, ai fini dell’analisi dettagliata e specifica del caso, attraverso la dichiarazione Unico 2000 presentato dal contribuente. Se è pur vero che il contribuente non ha abbondato nell’onere della prova, circa l’inesistenza di elementi organizzativi nell’espletamento dell’attività resta pur vero che, la modesta richiesta di rimborso relativa all’anno 2000, denota un modesto volume di affari e reddito professionale, così come l’impiego di modesti beni strumentali per l’attività (computer e autovettura) così come si evince anche dal libro degli ammortamenti allegato al ricorso, senza alcuna smentita dall’ufficio e a prova contraria dello stesso. La stessa Corte, con la sentenza del 21 maggio

II 103

Commissione tributaria provinciale di Foggia, sez. VII, 26 ottobre 2007, n. 280 Presidente: Bortone - Relatore: Palazzo Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Studio associato di consulenti del lavoro - Insussistenza (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) Anche rispetto ad uno studio associato di professionisti (nella specie, consulenti del lavoro) il requisito dell’attività autonomamente organizzata, necessario per realizzare il presupposto dell’Irap, va verificato in linea di fatto, intendendolo come contesto creato dall’esercente l’attività, capace di fornire un apporto qualitativo e quantitativo alle prestazioni rese, a prescindere dai requisiti professionali attribuibili al titolare: l’organizzazione può risultare pertanto dall’apporto lavorativo di soggetti diversi da quest’ultimo, dall’uso di strumenti ed attrezzature che implementano la qualità e la quantità del lavoro, dalla collaborazione di altri professionisti che concorrono in maniera sinergica al risultato finale dell’attività.

Lo studio di consulenti del lavoro associati I.G., I.A. e B.G., con sede in Foggia in via [...], ricorre avverso cartella di pagamento [...] emessa a seguito iscrizione a ruolo da parte di Agenzia delle Entrate di Foggia per Irap anno d’imposta [...] e chiede che venga dichiarata l’illegittimità della pretesa fiscale. Contestualmente, stante l’evidente fumus boni iuris, chiede la sospensione della riscossione della cartella impugnata. Argomenta sulla decorrenza dei termini, sia per la liquidazione dell’imposta, che sarebbe scaduta alla data del 1 gennaio 2003, sia per la notificazione della cartella, i cui termini sarebbero scaduti al 31 dicembre 2004. Si sofferma, poi, sull’inesistenza del presupposto della obbligazione tributaria, in quanto l’attività professionale si svolge in assenza di una “organizzazione autonoma”. Conclude, infine sul contrasto della D.Lgs. 15 dicembre 97, n. 446, con le norme comunitarie ed in particolare con l’art. 33


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 765

Irap 4 2008 765

della VI direttiva CEE, in quanto essa è nei suoi caratteri essenziali uguale all’Iva, come riconosciuto dalla stessa Corte di Giustizia europea con sentenza del 1992 emessa in merito alla imposta danese, del tutto simile a quella italiana. L’Agenzia delle Entrate di Foggia si costituisce regolarmente in giudizio e contesta le eccezioni relative alla scadenza dei termini della liquidazione e della notifica della cartella, precisando che i termini richiamati dal ricorrente riguardano le dichiarazioni presentate dal 2004, mentre per quelle del 2002, come è il caso che ci occupa, l’iscrizione a ruolo e la notifica della cartella devono avvenire entro il 31 dicembre 2006. Contesta le argomentazioni del ricorrente in ordine alla pretesa illegittimità della imposta Irap rispetto alla direttiva CEE, art. 33, e si riporta alla difesa espressa dall’avvocatura generale dello Stato, che rappresenta il governo italiano nel giudizio dinanzi alla Corte di Giustizia UE. Chiarisce che, comunque, le sorti dell’invocata restituzione del tributo sono da ricollegare agli effetti dell’emananda decisione della Corte di Giustizia europea e che la stessa Commissione europea, su istanza del Governo italiano, si è dichiarata favorevole alla non retroattività degli effetti della eventuale sentenza di incompatibilità. Le prospettive di rimborso sono pertanto attualmente legate agli effetti temporali che la Corte di Giustizia attribuirà alla propria pronuncia. Nulla dice riguardo all’eccezione sulla mancanza del presupposto della obbligazione tributaria per mancanza di una “organizzazione autonoma”. Conclude con il rigetto del ricorso perché giuridicamente infondato, con conseguente condanna di controparte al pagamento delle spese di giudizio. Nel corso della odierna pubblica udienza la parte in rappresentanza dell’ufficio segnala che la Corte di Giustizia europea in data 3 ottobre 2006 si è pronunciata in favore del Governo italiano sulla questione sollevata dalla Banca Popolare di Cremona di incompatibilità tra le imposte Irap e Iva, affermando la piena legittimità dell’Irap rispetto all’art. 33 della VI direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE. Il ricorrente fa presente che lo studio associato non ha una organizzazione che possa considerarsi produttiva di un reddito aggiuntivo ed esibisce il quadro RE della denunzia dei redditi 2002. Il Collegio al termine della discussione si riserva. Il Collegio, riunito in camera di consiglio, sciogliendo la riserva, osserva: le eccezioni avanzate dal ricorrente in ordine alla decadenza dei termini non hanno pregio, infatti, come sostenuto dall’ufficio nella propria costituzione in giudizio, per il

caso in esame, detti termini scadono al 31 dicembre 2006 e, quindi, sia la iscrizione a ruolo che la notifica della cartella avvenuta il 12 aprile 2006, risultano effettuate nei termini. Anche in ordine al contrasto sollevato tra il D.Lgs. n. 466/1997 e l’art. 33 della VI direttiva Iva 77/388 CEE del 17 maggio 1997, si ritiene che le ragioni della parte resistente siano state confermate dalla sentenza della Corte di Giustizia europea del 3 ottobre 2006, che ha risolto in favore del Governo italiano la questione di incompatibilità tra le imposte Irap ed Iva. Rimane la questione relativa alla locuzione “attività autonomamente organizzata” usata dal legislatore (art. 2, D.Lgs. 446/1996). La Corte costituzionale con sentenza n. 156/2001, nella parte in cui ha evidenziato la necessità di individuare situazioni di fatto incidenti sulla qualificazione di attività autonomamente organizzata, al fine di identificare i soggetti ai quali applicare l’Irap, ha praticamente elevato ad elemento discriminante il livello organizzativo dell’attività svolta per decidere se il contribuente – professionista lavoratore autonomo – sia da considerarsi soggetto passivo dell’Irap e, in caso affermativo, quale sia il presupposto oggettivo che legittimi la pretesa erariale. Il nodo centrale della questione è la portata concettuale della locuzione “attività autonomamente organizzata” usata dal legislatore. Va anche considerato che tale formulazione è il risultato di una modifica al testo originario, infatti le parole “autonomamente organizzata” sono state aggiunte dall’art. 1 del D.Lgs. 10 aprile 1998, n. 137, dal che si desume una ulteriore ponderazione del legislatore nel processo di individuazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi del tributo, nella consapevolezza della tipicità dell’Irap rispetto all’Irpef e nella conseguente ricerca di una base imponibile sicuramente distinta dalla produzione del reddito. Fatta questa premessa il punto di partenza non può che essere la stessa sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 21 maggio 2001. Il primo insegnamento che si ricava è la piena legittimità costituzionale del D.Lgs. 446/1997 e che il contributo in questione non è una imposta sul reddito, ma una imposta reale che colpisce il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate. Ma tale sentenza ha tracciato anche le linee guida per la interpretazione dell’art. 2 del citato D.Lgs., laddove chiarisce che l’esame della controversia costituisce questione di mero fatto. In altri termini quando e da parte di chi si realizza quella attività autonomamente organizzata, che indipendentemente dal reddito e al di fuori dei tradizionali fattori di produzione, assurge ad autonomo requisito per la determinazione della base imponibile su cui applicare l’imposta. A tal proposito,


10 Irap.qxd

10-04-2009

766

15:54

Pagina 766

GiustiziaTributaria

4 2008

mentre sembra sufficientemente chiaro che l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non si può dire per le attività di lavoro autonomo, nel senso che è possibile ipotizzare una attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali e lavoro altrui. In questo caso si potrebbe escludere l’applicabilità dell’Irap. Ma l’insegnamento che si ricava dalla sentenza della Corte costituzionale è che l’attività autonomamente organizzata va valutata quale elemento autonomo rispetto alla organizzazione dei fattori di produzione così da prescindere dalla redditività dell’attività stessa anche se a questa connessa e funzionale. Quindi l’attenzione deve essere spostata sull’esame dei requisiti soggettivi in stretta connessione con il presupposto dell’imposta. Non si ritiene possa seguirsi l’opinione di una aprioristica esclusione di tutte le attività professionali protette il cui esercizio è condizionato dalla iscrizione in ordini o albi e che non possono prescindere dalla presenza del professionista abilitato ad esercitarla. Se così fosse il legislatore avrebbe potuto facilmente individuare i soggetti da escludere dalla applicazione dell’Irap. Non lo ha fatto e quindi alla condizione di lavoratore autonomo, quale requisito soggettivo genericamente individuato, va aggiunto un requisito oggettivo che necessariamente deve essere individuato nel concetto di organizzazione non nel senso di elemento della produzione, che ci porterebbe alla individuazione di esercizio di impresa, escluso dal legislatore e dalla Corte costituzionale, ma quale apporto alla quantità ed alla qualità dell’attività svolta, quel valore aggiunto di cui parla il giudice delle leggi, quale elemento autonomo rispetto ai tradizionali fattori della produzione. Da queste considerazioni si giunge alla conclusione che l’elemento determinante per interpretare il significato della locuzione “attività autonomamente organiz-

zata”, dato per scontato che non possa intendersi la non soggezione a scelte e schemi organizzativi imposti da altri, vada ricercata in un contesto creato e voluto dallo stesso libero professionista, ma capace di fornire un apporto qualitativo e quantitativo alle prestazioni professionali, in forma autonoma ed a prescindere dai requisiti professionali attribuibili al soggetto titolare dell’attività stessa. Ogni altra interpretazione, consapevoli delle difficoltà di addivenire ad una definizione sorretta dalla dottrina e confortata dalla giurisprudenza, che presenta invece un fronte ancora diviso a parere di questo Collegio sembra non essere in linea con l’indirizzo dato dalla Corte costituzionale: se la controversia costituisce una questione di mero fatto, i parametri vanno necessariamente ricercati nel modello organizzativo adottato per attribuire allo stesso quelle peculiarità che lo rendono autonomo rispetto all’attività professionale. Il confine tra i due concetti di organizzazione, quell’intrinseca ad ogni attività lavorativa autonomamente svolta e quella a cui fa riferimento il legislatore dell’Irap e la Corte costituzionale quale autonomo elemento che prescinde dai fattori della produzione, vanno ricercati comunque in quei dati di fatto che tradizionalmente connotano qualsiasi modello organizzativo: l’apporto lavorativo di soggetti diversi dal titolare, l’uso di strumenti ed attrezzature che implementano la qualità e la quantità del lavoro, la collaborazione di altri professionisti che concorrono in maniera sinergica al risultato finale dell’attività. La valutazione di questi elementi, rilevati dal quadro RE della dichiarazione dei redditi del 2002 per l’anno 2001, ha, nel caso in esame, portato alla conclusione che il ricorso sia meritevole di accoglimento, con il conseguente annullamento dell’atto qui impugnato. Si ritiene che a causa della controversa materia sussistano validi motivi per la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

III 104

Commissione tributaria provinciale di Ascoli Piceno, sez. I, 25 gennaio 2008, n. 7 Presidente: Di Fortunato - Relatore: De Rubertis Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Commercialista senza dipendenti, con beni strumentali di scarso valore e operante per associazioni professionali - Insussistenza (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) Irap - Istanza di rimborso - Ufficio competente - Competenza dell’ufficio del domicilio fiscale

nel periodo in cui è stato realizzato il valore della produzione (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38; D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 25) L’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997, ai fini del presupposto Irap richiede un’organizzazione del tutto sganciata dall’apporto professionale, cioè in grado di produrre da sola valore aggiunto, a prescindere dalla prestazione intellettuale del professionista che organizza l’insieme di capitali e lavoro coordinati: non è tale il caso di un dot-


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 767

Irap 4 2008 767

tore commercialista senza dipendenti, con beni strumentali di valore inferiore a euro 516,45 cadauno ed operante non in nome e per conto proprio, ma a favore di associazioni professionali, quindi sottoposto al coordinamento e controllo altrui. L’ufficio territorialmente competente per ricevere l’istanza di rimborso Irap non è quello in cui il contribuente aveva il domicilio fiscale al momento di presentazione di quest’ultima, ma quello in cui aveva domicilio fiscale nel periodo in cui è stato prodotto il valore aggiunto. Svolgimento del processo Il ricorso è diretto nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di San Benedetto del Tronto, avverso il silenzio rifiuto sulla istanza, presentata in data 12 aprile 2005, di rimborso dell’Irap versata negli anni dal 1998 al 2003. II ricorrente eccepisce: di aver presentato in data 12 aprile 2005 alla Agenzia delle Entrate di San Benedetto del Tronto istanza per il rimborso dell’Irap versata per gli anni dal 1998 al 2003, senza ottenere alcuna risposta entro il termine di novanta giorni e che, di conseguenza, si è formato il cosiddetto silenzio-rifiuto; che il ricorrente esercita la libera professione di dottore commercialista in via esclusivamente personale, senza avvalersi, pertanto, di alcun dipendente e con l’ausilio di beni strumentali pressoché inesistenti se si considera che le quote di ammortamento si riferiscono all’acquisto di beni di valore inferiore a euro 516,45. Dalla sentenza n. 156/2001 della Corte costituzionale si evince che: 1) il presupposto dell’Irap è il «valore aggiunto prodotto da ogni tipo di attività autonomamente organizzata sia essa di carattere imprenditoriale che professionale»; 2) che possono esistere attività di lavoro autonomo prive di organizzazione di capitali e di lavoro; 3) che se vengono meno gli elementi dell’organizzazione viene meno il presupposto dell’Irap; 4) che la predetta sentenza della Corte ha ammesso la verifica in concreto dell’esistenza dell’organizzazione nell’ambito del lavoro professionale al fine di accertare la sussistenza del presupposto per l’assoggettamento del reddito all’Irap. Nel caso specifico manca un’organizzazione autonoma di fattori produttivi che dia origine ad un valore aggiunto e diverso dal reddito scaturente dal semplice esercizio di una attività professionale. Viene rilevato che l’attività viene svolta in assenza di lavoratori dipendenti e con beni strumentali essenzialmente inesistenti se si considera che le

quote di ammortamento si riferiscono all’acquisto di beni strumentali di importo inferiore a euro 516,45 cadauno (relativo alle spese di abbonamento a riviste e ad acquisto di materiale scientifico di aggiornamento professionale), che non esistono canoni di locazione finanziaria per l’acquisto di immobili e che, oltretutto l’attività viene svolta non in nome e per conto proprio, ma a favore di associazioni professionali e quindi sottoposta al coordinamento e controllo altrui. Ne discende di conseguenza che l’attività professionale svolta dal ricorrente, essendo priva dei presupposti (“attività autonomamente organizzata” diretta alla produzione di un valore aggiunto) previsti, non è assoggettabile ad Irap. Chiede che sia disposto il rimborso delle somme richieste ed indebitamente versate. L’ufficio controdeduce: in via pregiudiziale la inammissibilità del ricorso in quanto l’istanza di rimborso andava presentata, ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. n. 602/1973 all’ufficio territorialmente competente in base al domicilio fiscale del contribuente che, alla data del 12 aprile 2005, era a Foggia; in via di mero tuziorismo che il ricorrente risulta svolgere un’attività professionale autonomamente organizzata, sia pure con capitali e beni strumentali modesti, idonea a procurarsi clientela e a produrre quel valore aggiunto che, secondo quanto ribadito dalla Corte costituzionale, è l’oggetto precipuo dell’imposizione Irap. Chiede sia dichiarata la inammissibilità del ricorso perché presentato ad un ufficio territorialmente incompetente, rilevando, comunque, la tardività della richiesta di rimborso con riferimento ai versamenti effettuati fino al 2001. Motivi della decisione In relazione alla pregiudiziale di inammissibilità perché il ricorso risulta presentato ad un ufficio territorialmente incompetente la Commissione precisa quanto segue: l’art. 2, comma 1, dell’art. 38 del D.P.R. 602/1973, così dispone: «il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare all’intendente di finanza nella cui circoscrizione ha sede il concessionario presso la quale è stato eseguito il versamento, istanza di rimborso, entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento». Appare evidente che l’ufficio territorialmente competente non è quello del domicilio fiscale al momento di presentazione della istanza di rim-


10 Irap.qxd

10-04-2009

768

15:54

Pagina 768

GiustiziaTributaria

4 2008

borso, ma quello del domicilio fiscale esistente al momento della produzione del reddito assoggettato ad imposizione Irap che, negli anni 2002 e 2003, era San Benedetto del Tronto dove appunto il ricorrente risiedeva al viale [...]. L’istanza di rimborso avanzata dal ricorrente va quindi esaminata solo con riferimento all’Irap versata sul reddito prodotto allorché lo stesso ricorrente risiedeva a San Benedetto del Tronto. Nel merito si precisa che gli artt. 2 e 3 del D.Lgs. n. 446 del 15 dicembre 1997 dispongono quanto segue: art. 2 «presupposto dell’imposta è l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. L’attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto di imposta»; art. 3, lett. c, «le persone fisiche, le società semplici e quelle ad esse equiparate a norma dell’art. 5, comma 3, del predetto Testo unico esercenti arti e professioni di cui all’art. 49, comma 1, del medesimo Testo unico». La Corte costituzionale con la sentenza 156 del 21 maggio 2001 ha precisato che: 1) «nel caso dell’Irap il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, ha individuato quale nuovo indice di capacità contributiva, diverso da quelli utilizzati ai fini di ogni altra imposta, il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate» e, pertanto, detta imposta 2) «colpisce con carattere di realtà un fatto economico espressivo di capacità contributiva in capo a chi, in quanto organizzatore dell’attività, è autore di scelte dalle quali deriva la ripartizione tra i diversi soggetti che, in diversa misura, concorrono alla sua creazione», 3) «come si verifica per qualsiasi altro costo (anche di carattere fiscale) gravante sulla produzione, l’onere economico dell’imposta potrà essere trasferito sul prezzo dei beni e servizi prodotti, secondo le leggi del mercato». 4) «È tuttavia vero che mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa dell’impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di capitali o di lavoro altrui». «Ma è evidente che in caso di un’attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione – il cui accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto – risulterà mancante il presupposto stesso dell’imposta sulle attività pro-

duttive, per l’appunto rappresentato, secondo l’art. 2 dall’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata (diretta alla produzione di o allo scambio di beni o alla prestazione di servizi), con la conseguente inapplicabilità dell’imposta stessa». Occorrerà quindi accertare se, nel caso di specie, esiste quella organizzazione di capitali o lavoro altrui, che, recita la sentenza, «costituisce questione di mero fatto». Per definizione, il requisito dell’organizzazione è assente nell’attività professionale, essendo prerogativa dell’attività imprenditoriale, ad essere assoggettata a tassazione è, tuttavia, l’attività professionale di lavoro autonomo “organizzata”. Si deve trattare di un’organizzazione del tutto sganciata dall’apporto professionale. Tale organizzazione, da sola, a prescindere dall’attività intellettuale del professionista, dovrebbe essere in grado di produrre quella ricchezza atta a giustificare l’applicazione dell’imposta che colpisce come precisato dalla Corte costituzionale il «valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate». E ciò a prescindere dalla prestazione intellettuale del professionista che organizza tali risorse. Ci deve essere un insieme di capitali e lavoro che coordinati e organizzati siano in grado di creare «valore aggiunto all’apporto personale del professionista». Entrando nel merito il ricorrente esercita l’attività di dottore commercialista in assenza di lavoratori dipendenti e con beni strumentali essenzialmente inesistenti se si considera che le quote di ammortamento si riferiscono all’acquisto di beni strumentali di importo inferiore a euro 516,45 cadauno (relativo alle spese di abbonamento a riviste e ad acquisto di materiale scientifico di aggiornamento professionale), che non esistono canoni di locazione finanziaria per l’acquisto di immobili e che, oltretutto, l’attività viene svolta non in nome e per conto proprio, ma a favore di associazioni professionali e quindi sottoposta al coordinamento e controllo altrui. Appare evidente che nel caso di specie manca qualsiasi organizzazione di capitali e di lavoro, tali da produrre quel valore aggiunto presupposto per l’applicazione dell’imposta. Il ricorso va, pertanto, accolto limitatamente all’imposta versata sui redditi prodotti negli anni della residenza a San Benedetto del Tronto. Dichiara inammissibile il ricorso con riferimento alla richiesta di rimborso della imposta versata sui redditi prodotti in domicili fiscali diversi. Sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio.


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 769

Irap 4 2008 769

IV 105

Commissione tributaria di II grado di Bolzano, sez. II, 25 febbraio 2008, n. 2 Presidente e relatore: Bruccoleri Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Commercialista senza dipendenti né beni strumentali significativi e operante in una struttura organizzativa altrui Insussistenza (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) L’attività autonomamente organizzata richiesta dall’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 ai fini del presupposto Irap non sussiste quando il professionista sia privo di significativi beni strumentali e di propri dipendenti e collaboratori, e tanto più se operi, in forza di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, nello studio di altro professionista, avvalendosi di strutture organizzative altrui di cui non abbia la responsabilità. Svolgimento del processo H.R., dottore commercialista, ha ritualmente impugnato innanzi alla Commissione tributaria di I grado di Bolzano tre distinti avvisi di accertamento, con i quali l’Agenzia delle Entrate ufficio di Bolzano ha determinato in complessivi euro 61.179,49 (sanzioni pecuniarie e interessi inclusi) l’Irap dalla stessa dovuta per le annualità di imposta 2000, 2001 e 2002. La H., dopo aver premesso che nei tre anni in questione essa aveva esercitato in via esclusiva la propria attività professionale nell’ambito di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa con lo studio del dottore commercialista R.R. di Bolzano, del quale era divenuta socio solo a partire dall’anno 2003, senza disporre di una struttura organizzativa propria e avvalendosi di quella dell’anzidetto studio, espressamente e gratuitamente messale a disposizione, deduceva: - che l’Irap si pone in contrasto con l’ordinamento comunitario ed in particolare con l’art. 33 della VI direttiva del Consiglio in data 17 maggio 1977 (77/388/CEE); - che l’imposta non è comunque applicabile alle professioni “protette”, nelle quali l’aspetto professionale è assolutamente prevalente su quello organizzativo; - che essa ricorrente, come risultava dal libro dei cespiti, disponeva esclusivamente di un’autovettura e di un telefono cellulare, ossia di un supporto organizzativo insignificante e contenuto nel minimo indispensabile, e che, essendo inserita in una struttura organizzativa altrui, difettava il presup-

posto stesso di applicabilità dell’imposta, costituito da un’organizzazione autonoma. L’Agenzia delle Entrate resisteva al ricorso. Con sentenza n. 109/2/07 in data 18 maggio - 29 ottobre 2007, la Commissione di I grado, pur dando atto che secondo la più recente e prevalente giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, non è soggetta ad Irap l’attività professionale supportata da beni strumentali che non eccedano il minimo indispensabile per il suo svolgimento, e riconoscendo che la H. disponeva di mezzi strumentali personali non significativi, respingeva il ricorso sul rilievo che essa aveva comunque di fatto profittato della struttura organizzativa dello studio nel quale era inserita, operando peraltro «senza vincolo di dipendenza e quindi con facoltà di organizzare il proprio lavoro in piena autonomia», restando irrilevante che non avesse la responsabilità diretta dell’organizzazione. Concludeva osservando che una diversa interpretazione finirebbe per favorire facili comportamenti elusivi da parte dei professionisti. Ha proposto appello la H. ribadendo, da un lato, di non avere alcuna struttura organizzativa propria eccedente il minimo indispensabile, e dall’altro di essere stata nei tre anni in questione fuori del campo di applicazione dell’Irap, siccome inserita in un’organizzazione di terzi, della quale non aveva alcuna diretta responsabilità. L’Agenzia delle Entrate ha chiesto la conferma dell’impugnata sentenza richiamandosi agli argomenti svolti in primo grado. Motivi della decisione 1. Non sono state riproposte in appello, e devono aversi quindi per abbandonate ex art. 56, D.Lgs. 546/1992, la questione dell’affermata incompatibilità dell’Irap con l’ordinamento comunitario, risolta nel frattempo dalla sentenza della Corte europea di Giustizia in data 3 ottobre 2006, e quella della dedotta inapplicabilità dell’imposta alle professioni protette. Tesi questa inaccettabile, in quanto il D.Lgs. 446/97 «non contrappone affatto alcune professioni ad altre, ma si limita a distinguere fra chi si serve di un’organizzazione e chi invece ne fa a meno» (cfr. Cass., sent. 3677/2007), sul quale aspetto si è soffermata incidentalmente, ma in termini significativi la Corte costituzionale nella sentenza 156/2001. 2. La sentenza di primo grado viene censurata per avere disatteso con incoerente motivazione un compatto indirizzo interpretativo formatosi nella


10 Irap.qxd

10-04-2009

770

15:54

Pagina 770

GiustiziaTributaria

4 2008

giurisprudenza di legittimità a seguito della richiamata sentenza della Corte costituzionale, che pur non chiarendo che cosa debba intendersi per «attività autonomamente organizzata», ha offerto un significativo contributo all’esegesi dell’Irap. La censura è fondata. Dal nuovo indirizzo giurisprudenziale (si citano, fra le altre, Cass., sent. n. 3674/2007, 3675/2007, 3678/2007, 3680/2007) si possono trarre due fondamentali enunciati: - non rileva ai fini Irap l’attività professionale svolta con un supporto organizzativo che non superi il minimo indispensabile al suo esercizio; - resta esclusa dal campo di applicazione dell’imposta, per difetto del requisito dell’autonoma organizzazione, l’attività svolta dal professionista che sia inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità e interesse. In ordine al primo aspetto, si rileva che nell’impugnata sentenza si dà esplicitamente atto che la H. era priva di «significativi beni strumentali e di propri dipendenti e collaboratori» e un tanto sarebbe stato sufficiente per l’accoglimento del ricorso. In relazione al secondo aspetto, si osserva che non è stato messo in discussione dall’ufficio che nei tre anni che qui rilevano l’appellante, come emerge dal dimesso contratto, fosse legata allo studio R. da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, avvalendosi in tal modo di strutture organizzative altrui. Nondimeno i primi giudici hanno considerato irrilevante la circostanza che la respon-

sabilità di tale struttura non fosse a lei riferibile, e ciò in quanto la H. poteva organizzare in assoluta autonomia il proprio lavoro. Tale affermazione rivela un vistoso errore di interpretazione della locuzione “autonomamente organizzata” (aggiunto dall’art. 1, comma 10, D.Lgs. 10 aprile 1998, n. 137), dal momento che l’autonomia viene riferita all’attività svolta dal professionista, che delle professioni intellettuali è connotato intrinseco, anziché come pacificamente dovrebbe essere all’organizzazione che la supporta. Quanto all’accenno ai cospicui introiti realizzati dall’appellante, è evidente l’irrilevanza dell’argomento. In relazione, infine, al pericolo paventato nella sentenza impugnata che l’interpretazione prospettata dall’appellante e che riflette la nuova tendenza giurisprudenziale potrebbe favorire facili elusioni da parte dei professionisti, è doveroso annotare che è compito dell’operatore del diritto interpretare la legge in senso costituzionalmente orientato e in conformità alla sua ratio, senza preoccuparsi di eventuali riflessi negativi, di ordine sociale, economico o d’altro genere, che ne potrebbero derivare. In conclusione l’appello va incondizionatamente accolto. Sussistono giusti motivi per compensare le spese anche del presente grado. Cautela impone che l’indirizzo giurisprudenziale formatosi a seguito della sentenza 156/2001 della Corte costituzionale si consolidi.

V 106

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XXV, 18 marzo 2008, n. 19 Presidente: Rizzo - Relatore: Maiorana Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Studio associato Sufficienza della libertà da coordinamento altrui - Sussistenza (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) L’attività autonomamente organizzata richiesta dall’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997, ai fini del presupposto Irap è quella svolta in regime di autonomia, ossia libera da controlli e coordinamento di altri soggetti: non occorre né lavoro altrui, né un pur minimo capitale, bastando la capacità di ottenere credito o di procurarsi clienti. Svolgimento del processo Con atto depositato in data 19 dicembre 2002 lo studio associato [...] ricorreva il silenzio rifiuto su

istanza inerente la richiesta di rimborso Irap versata per gli anni 1998, 1999, 2000 e 2001, emesso dall’ufficio di Palermo 2 in data 11 ottobre 2002 e notificato il 15 ottobre 2002, sostenendo che si tratta di studio associato in cui l’attività professionale è svolta da quattro professionisti, titolari del ricorrente studio associato, essenzialmente con l’impiego delle proprie risorse intellettuali personali. L’ufficio delle Entrate di Palermo 2 chiede il rigetto del ricorso rilevando che nell’attività professionale esiste comunque un substrato organizzativo che giustifica l’imposizione. La Commissione tributaria provinciale di Palermo, con la sentenza n. 162/04/2006 del 05 aprile 2006 ha rigettato il ricorso compensando le spese di giudizio. Avverso tale decisione il contribuente ha proposto tempestivo appello notificato all’Agenzia delle Entrate, ufficio di Palermo 2, in data 16 febbraio


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 771

Irap 4 2008 771

2007; depositato presso la segreteria della Comm. trib. prov. Palermo in data 19 febbraio 2007 e depositato presso la segreteria di questa Commissione tributaria regionale in data 19 febbraio 2007, chiedendone la riforma e, in accoglimento dell’appello che venga dichiarato il diritto dell’appellante al rimborso dell’Irap indebitamente pagata per gli anni dal 1998 al 2001, oltre gli interessi di legge, con vittoria delle spese di giudizio. L’ufficio si è costituito in giudizio con atto depositato in data 11 aprile 2007 e, controdeducendo ha chiesto il rigetto dell’appello con conferma della sentenza impugnata e con vittoria delle spese. All’udienza del 19 febbraio 2008, la controversia veniva discussa in pubblica udienza. Motivi della decisione Il presupposto impositivo dell’Irap (imposta regionale sulle attività produttive) è individuato nell’art. 2 del decreto legislativo n. 446/1997 istitutivo dell’imposta: «l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o scambio di beni ovvero alla produzione di servizi». L’art. 3 individua i soggetti passivi dell’imposta, indipendentemente dalla forma giuridica, e tra di essi rientrano, senza dubbio, ai sensi della lett. c, i professionisti dello studio associato [...] (esercenti arti e professioni di cui all’art. 49, comma 1 del T.U.I.R.) iscritti ad un albo professionale. L’appellante studio associato sostiene che, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 21 maggio 2001, non è più dovuta l’imposta nel caso del professionista, la cui presenza è indispensabile allo svolgimento della propria attività, non sussistendo il requisito della organizzazione autonoma richiesto dall’art. 2 del D.Lgs. 446/1997. Inoltre ritiene che l’avviso di diniego sia mancante di motivazione, ribadendo che per la professione esercitata dagli appellanti, come per tutte quelle per le quali è richiesta l’iscrizione ad un albo o ordine professionale, non potendosi svolgere senza la presenza personale del professionista, all’organizzazione per quanto ampia non potrà riconoscersi il requisito qualificante richiesto dalla norma. L’ufficio, costituitosi in giudizio, ritenendo legittimo il proprio operato, chiede la conferma della sentenza impugnata con la conseguente convalida del diniego del rimborso Irap, perché imposta dovuta. La Commissione osserva di non aver motivo, nella fattispecie, di discostarsi dalla propria giurisprudenza in tema di Irap ed in casi analoghi, favorevoli all’amministrazione finanziaria, onde

l’appello va rigettato. Si rileva che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 156 del 10 maggio 2001, depositata il 21 maggio, ha rigettato per inammissibilità o per infondatezza le questioni sollevate dalle molte Commissioni tributarie e ha, di conseguenza, sancito la legittimità della disciplina dell’imposta rispetto ai principi costituzionali. Sancita l’inammissibilità delle varie questioni di legittimità concernenti l’intero D.Lgs. n. 446/1997, dichiara specificatamente infondate le questioni di legittimità degli artt. 2, 3, comma 1, lettera c, 4, 8, 11, 36 e 76 dello stesso decreto, che concernono direttamente o indirettamente il lavoro autonomo artistico o professionale (cfr. lettera d) del dispositivo. Nella parte motiva essa si sofferma a lungo proprio sulla questione di costituzionalità relativa all’assoggettamento a Irap del lavoro autonomo (cfr. n. 9): dopo aver espressamente dichiarato infondate le questioni di legittimità della normativa sull’equiparazione tra redditi d’impresa e quelli di lavoro autonomo (cfr. n. 9.1), spiega che l’assoggettamento all’Irap del valore aggiunto prodotto da ogni tipo di attività autonomamente organizzata, sia essa imprenditoriale o professionale, è pienamente conforme ai principi di uguaglianza e di capacità contributiva «[...] identica essendo, in entrambi i casi, l’idoneità alla contribuzione ricollegabile alla nuova ricchezza prodotta; né appare in alcun modo lesivo della garanzia costituzionale del lavoro» (n. 9.2, terzo periodo). Subito dopo, però, osserva che l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione d’impresa, mentre è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui. L’espressione “attività autonomamente organizzata” è fungibile con quella di “attività svolta in regime di autonomia”. Dunque l’elemento organizzativo è già elemento costitutivo ed essenziale del concetto di impresa e, analogamente, caratteristico di chi esercita abitualmente una attività di artista o professionista. Ciò che rileva, pertanto, è che l’attività abituale deve essere organizzata in modo da svolgersi autonomamente, cioè in maniera stabile e non occasionale e che venga svolta in regime di autonomia, libera da subordinazione, da controlli, da coordinamento di altri, che sia “attività autonomamente organizzata”. Per produrre valore aggiunto, dunque, non sono sempre indispensabili quantità anche minime di capitale o lavoro altrui, ma può bastare la capacità di ottenere credito o la possibilità di procurarsi la clientela, essendo irrilevante l’elemento patrimoniale. Tale aspetto viene chiarito dall’interpretazione dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 446/1997, che individua il


10 Irap.qxd

10-04-2009

772

15:54

Pagina 772

GiustiziaTributaria

4 2008

presupposto dell’imposta nell’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla produzione di servizi. Con il rigetto dell’appello l’impugnata sentenza va

confermata, tuttavia, avendo ad oggetto, la controversia, una questione molto dibattuta e sulla quale non si è ancora formato nemmeno un indirizzo con carattere di netta prevalenza, le spese del giudizio vanno interamente compensate tra le parti.

VI 107

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XXV, 13 maggio 2008, n. 52 Presidente: Rizzo - Relatore: D’Amato Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Onere probatorio a carico dell’ufficio tributario anche in caso di rimborso - Medico operante con autovettura, telefono e altri strumenti - Insussistenza (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) L’attività autonomamente organizzata di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 sussiste quando un’entità produttiva di ricchezza possa funzionare sino quasi a prescindere dall’opera del professionista: tale situazione va negata quando un medico operi soltanto con un’autovettura, un telefono cellulare e altri strumenti, in mancanza di prova contraria da parte dell’ufficio riguardo alla presenza dell’organizzazione di tipo imprenditoriale richiesta dal legislatore. L’ufficio di Agrigento dell’Agenzia delle Entrate grava di appello la decisione di primo grado al medesimo sfavorevole e con la quale il giudice a quo aveva dichiarato la legittimità della domanda di rimborso delle somme versate a titolo di Irap per gli anni 1998-2000 dal contribuente C.D. ed illegittimo il silenzio rifiuto oppostole dall’organo finanziario competente. La materia del contendere, sostenuta anche in questa sede con identiche prospettazioni dalle parti in lite, attiene all’assoggettabilità ad Irap dei redditi prodotti dal Professionista esercente attività di medico. I primi giudici, sia sulla scorta della decisione della Corte costituzionale che della giurisprudenza radicatasi in materia, avevano dato ragione al contribuente. Ad avviso di questo Collegio la decisione impugnata non è censurabile e va assolutamente confermata nonostante le nuove prospettazioni di parte appellante e le decisioni prodotte a sostegno della tesi propugnata. Anzitutto la Commissione non può disconoscere il contenuto della giurisprudenza monocorde della Suprema Corte di Cassazione (ex plurimis Cass., sez. trib. 21203/2004) per cui va escluso che possa assog-

gettarsi ad Irap il professionista che, pur in presenza di beni strumentali e persino di occasionali compensi a terzi, non si avvalga di una struttura organizzativa stabile come, ad esempio,utilizzando collaboratori subordinati o parasubordinati. Né è d’ostacolo a tale indirizzo la decisione 156 della Corte costituzionale che l’ufficio con lodevole sforzo interpretativo assume a proprio favore. Ad avviso di questo Collegio, invece, quella Corte ha inteso riferire l’obbligo fiscale ad una attività autonomamente organizzata quale indice di capacità contributiva ed entità produttiva di ricchezza autonomamente funzionante sino a quasi prescindere dall’opera del professionista. Nel caso in esame l’apporto fisico e intellettuale del professionista medico, in assenza di prova contraria, costituiscono sia l’esclusiva attività produttiva che i soli strumenti attraverso i quali si produce il reddito che, conclusivamente, non può esser assoggettato ad Irap. L’Irap è una imposta che colpisce un fatto economico diverso dal reddito, il valore aggiunto prodotto da attività autonomamente organizzate. E, dunque, gli indicatori della imposta sono costituiti dall’autonomia e dall’organizzazione; l’imposta non colpisce, pertanto,i lavoratori autonomi, i collaboratori coordinati e continuativi, i professionisti dipendenti mentre colpisce lavoratori autonomi e, per quel che ne occupa, gli esercenti attività professionali che si avvalgano di quella autonoma apprezzabile organizzazione cui possa esser collegato quel valore aggiunto che la legislazione istitutiva dell’imposta de qua valuta assoggettabile autonomamente a tassazione a prescindere dalla altrettanto autonoma tassabilità (Irpef) del reddito da attività professionale. Pur, conclusivamente, non potendosi ignorare che siano rarissime o quasi inesistenti le situazioni in cui il professionista oggi operi in assenza di segretaria, di idonei locali, di strumenti informatici ed elettronici, di biblioteca e di collaboratori, non può con altrettanta evidenza negarsi che l’onere probatorio insista in capo all’ufficio che nella fattispecie de qua ha del tutto omesso alcun so-


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 773

Irap 4 2008 773

stegno probatorio in ordine al tipo di organizzazione del professionista appellato limitandosi a collegare l’imposta pretesa quasi esclusivamente alla autonomia del contribuente e non anche (e contestualmente) all’organizzazione. Peraltro, ha ritenuto di trarre elementi dalla produzione avversaria inducendoli erroneamente a

proprio favore; il possesso di tre autovetture ma non contemporaneamente, di un telefono cellulare e di altri strumenti non è affatto idoneo a costituire l’organizzazione imprenditoriale pretesa dal legislatore. Va, dunque, rigettato l’appello mentre il regolamento delle spese segue la soccombenza.

VII 108

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. X, 27 marzo 2008, n. 20 Presidente: Meloncelli - Relatore: Moroni Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Caso di specie - Avvocato che impiega rilevanti mezzi finanziari - Sussistenza (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) Irap - Richiesta di rimborso - Adesione ad un condono fiscale - Preclusione (L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 7) L’attività autonomamente organizzata di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 sussiste quando un avvocato operi con rilevante impiego di capitali e mezzi finanziari, come risulta dall’entità dei costi dedotti. L’adesione a sanatorie fiscali che rendano definitivi gli imponibili risultanti dalla dichiarazione originaria preclude il rimborso dell’Irap indebitamente versata. Con ricorso depositato il 18 marzo 2004 il sig. Za.St.Ma. che esercitava l’attività di avvocato si opponeva al silenzio-rifiuto all’istanza di rimborso volta ad ottenere il rimborso della somma complessiva di euro 24.451,08 versata a titolo Irap negli anni dal 1998 al 2003 con l’aggiunta degli interessi maturati e maturandi. Eccepiva il ricorrente il diritto al rimborso ritenendo di non avere i requisiti richiesti dalla legge 446/97, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 156/2001 precisando che ricorrevano nella fattispecie le condizioni di illegittimità per l’applicazione dell’Irap. Chiedeva, pertanto, l’accoglimento del ricorso con il riconoscimento del diritto al rimborso, con vittoria di spese ed onorari. L’ufficio si costituiva in giudizio e faceva presente che non gli competeva il giudizio sulle eccezioni di incostituzionalità e che poteva dare corso al richiesto rimborso solo a fronte di una specifica normativa o di un giudizio di incostituzionalità della norma. Chiedeva, quindi di respingere il ricorso con vittoria di spese ed onorari di giudizio. La Commissione tributaria provinciale di Roma,

sez. XLI, con sentenza n. 199 del 22 maggio 2006 accoglieva il ricorso e condannava l’amministrazione a rimborsare al ricorrente la somma di euro 24.451,08, oltre interessi di legge; compensava tra le parti le spese di lite. Secondo i primi giudici dalla documentazione prodotta in giudizio emergeva l’insussistenza di una organizzazione dei fattori della produzione aggiuntiva a quella dell’apporto personale alla prestazione d’opera. In particolare non si ravvisava nella fattispecie una attività autonomamente organizzata intesa come organizzazione di fattori della produzione diversi dal mero apporto personale, né era riscontrabile l’autonomia funzionale di quanto coordinato ed organizzato rispetto alla personale capacità produttiva del professionista. Avverso tale decisione si appellava l’Agenzia delle Entrate - ufficio di Roma 1, ribadendo quanto già sostenuto in prima sede e rilevando che presupposto dell’imposta era l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione e allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi; organizzazione che era la base imponibile in quanto capace di generare un reddito, il cosiddetto “valore aggiunto” scelto dal legislatore come indice di capacità contributiva e che, quindi, andava tassato. L’ufficio ribadiva che l’amministrazione finanziaria non era legittimata alla restituzione di un tributo pagato in osservanza delle vigenti disposizioni tributarie, ancorché ritenuto non conforme alla normativa costituzionale, fintanto che non fosse sopravvenuta una sentenza della Consulta che ne dichiarasse espressamente l’incostituzionalità. L’ufficio, inoltre, osservava che la Corte costituzionale con sentenza n. 156 del 21 maggio 2001, emessa in materia di Irap, ai fini della corretta individuazione della fattispecie imponibile, parlava di “esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata”, ponendo l’accento non tanto sull’elemento organizzativo (tipicamente minimale nell’esercizio delle professioni liberali) quanto sul fattore dell’autonomia dell’attività, in quanto eser-


10 Irap.qxd

10-04-2009

774

15:54

Pagina 774

GiustiziaTributaria

4 2008

citata con carattere di continuità e in forma autonoma, con evidente esclusione di fenomeni di collaborazione nell’altrui attività. L’ufficio perveniva alla conclusione che anche nel caso in cui l’attività professionale fosse svolta nella propria abitazione, senza l’impiego di beni strumentali, né con l’ausilio di collaboratori o dipendenti, la stessa doveva, comunque, considerarsi come attività professionale autonomamente organizzata e, come tale, soggetta ad imposizione Irap. Inoltre, nel caso di specie, dalla documentazione presentata dal ricorrente a sostegno del proprio ricorso risulta che lo Za. era in possesso di una organizzazione professionale idonea a integrare il presupposto impositivo Irap. Infine, faceva presente che il contribuente aveva aderito a sanatorie fiscali e, pertanto, non poteva chiedere il rimborso dell’Irap che riteneva indebitamente versata. Pertanto chiedeva la riforma della sentenza impugnata e l’accoglimento dell’appello con la condanna della parte al pagamento delle spese di giudizio. Il sig. Za. non si costituiva in giudizio. La Commissione, esaminata la documentazione inserita nel fascicolo, ritiene l’appello fondato e meritevole di accoglimento. Per quanto riguarda la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 446 del 1997 la Commissione rileva che contestualmente all’entrata in vigore dell’Irap diverse Commissioni tributarie emettevano ordinanze di remissione alla Corte costituzionale lamentando soprattutto l’assoggettamento all’Irap dei lavoratori autonomi che in tal modo venivano illegittimamente equiparati all’impresa. La Consulta, con sentenza n. 156 del 10 maggio 2001 aveva rigettato per inammissibilità o per infondatezza le questioni sollevate da molte Commissioni tributarie e ha, conseguentemente, sancito la legittimità della disciplina dell’imposta rispetto ai principi costituzionali. La Corte costituzionale con la suddetta sentenza aveva affermato che, nel caso dell’Irap il legislatore aveva individuato quale nuovo indice di capacità contributiva il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate; cioè di quella attività abituale e, quindi stabile e non occasionale o temporanea che fosse svolta in regime di autonomia libera da controlli e, quindi autonomamente organizzata. Spettava al contribuente provare di non aver svolto quella attività presa in considerazione dalla legge se non occasionalmente, oppure di aver operato in regime di subordinazione o, comunque, di non aver svolto attività autonomamente organizzata, ma eterodiretta. Infatti, dimostrare che la propria attività lavorativa si basava sull’in-

tuitus personae non esclude che il contribuente non fosse soggetto passivo Irap; anzi si ritiene che l’apporto personale del professionista è irrilevante poiché, l’art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997 richiede solo l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata. Anche la circolare n. 141/1998 del Ministero delle Finanze, uscita all’indomani della pubblicazione del decreto legislativo introduttivo dell’imposta, ha escluso dall’ambito applicativo dell’imposta solamente alcune attività che pur potendosi astrattamente ricondurre all’esercizio dell’impresa, arte o professione, non sono esercitate mediante un’organizzazione autonoma da parte del soggetto interessato, ad esempio, le attività rese dai collaboratori coordinati e continuativi svolte senza impiego di mezzi propri, oppure, le attività di lavoro autonomo rese in via occasionale; ciò significa che le attività di lavoro autonomo che sicuramente si basano sull’intuitus personae rese abitualmente sono assoggettabili all’Irap, se sussistono i presupposti su individuati. È da rammentare, infine, che la Corte costituzionale aveva considerato una eccezione che riguarda i lavoratori subordinati che, indubbiamente, per definizione, svolgono una attività priva del connotato rappresentato dalla autonomia organizzativa del lavoro svolto. L’ufficio finanziario, nel caso in questione, ha operato legittimamente applicando la normativa vigente; infatti, lo stesso non ha il potere di rimborsare alcun tributo legittimamente e doverosamente pagato dal contribuente, secondo il dispositivo delle leggi tributarie italiane, se non interviene una specifica prescrizione normativa che lo preveda o una sentenza della Corte costituzionale che assuma a fondamento le ragioni esposte nell’istanza, dichiarando illegittima la normativa precedente. La Corte di Cassazione con sentenze n. 3672/2007 e n. 3682/2007 dell’8 febbraio 2007 ha definitivamente sciolto i dubbi interpretativi che erano sorti sull’applicabilità dell’Irap ai professionisti dopo la sentenza n. 156/2001 del 21 maggio 2001 della Corte costituzionale ritenendo che la presenza di una attività professionale svolta avvalendosi di strutture altrui, senza l’ausilio di personale dipendente e con beni strumentali minimi non è idonea a configurare un assoggettamento passivo all’Irap. Nel caso di specie, però, il contribuente svolge la propria attività professionale tramite il rilevante impiego di capitali e mezzi finanziari e, quindi, la sua attività non è sprovvista di una organizzazione rilevante ai fini Irap. Infatti, da una lettura delle sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione il giorno 8 febbraio 2007 emerge chiaramente che i


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 775

Irap 4 2008 775

professionisti a cui è stato riconosciuto il diritto all’esenzione si trovavano tutti nella situazione di avere una organizzazione minima o addirittura inesistente; hanno, quindi, diritto al rimborso delle somme corrisposte soggetti che si trovavano ad esercitare la propria professione nella propria abitazione, senza dipendenti e con l’impiego di beni strumentali minimi. Nel caso di che trattasi non si è in presenza di una organizzazione minima tant’è che dalla documentazione allegata emergono costi inerenti all’attività svolta che, anno dopo anno, sono cresciuti fino a pervenire alla somma di euro 39.655,00 nel solo anno 2002.

Infine si rammenta che la Corte di Cassazione con sentenza n. 3682/2007 dell’8-02-07 ha espressamente riconosciuto che il professionista non strutturato che ha aderito a sanatorie fiscali non può chiedere il rimborso dell’Irap che ritiene indebitamente versata. Pertanto, il Sig. Za. che si è avvalso per gli anni dal 1998 al 2001 della definizione automatica prevista dall’art. 7 della legge n. 289/2002 ha reso definitivi gli imponibili esposti nella dichiarazione originaria e, di riflesso, ha rinunciato ad eventuali clausole di esclusione e, di conseguenza, ad ogni contenzioso derivante da esse.

VIII 109

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XIV, 11 luglio 2008, n. 76 Presidente: L’Abbate - Relatore: Gurrado Irap - Richiesta di rimborso - Adesione ad un condono fiscale - Preclusione (L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 7) L’adesione a sanatorie fiscali che rendano definitivi gli imponibili risultanti dalla dichiarazione originaria preclude il rimborso dell’Irap indebitamente versata. Svolgimento del processo L’ing. D.V. il 28 giugno 2006 ricorreva avverso il silenzio rifiuto dell’amministrazione in ordine all’istanza di rimborso dell’imposta Irap regolarmente versata per gli anni d’imposta 2002, 2003 per la complessiva somma di euro 10.555,61 avanzata in data 1 marzo 2005. Evidenziava il ricorrente che nel caso di specie mancava una autonoma organizzazione, secondo il significato specificato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 156 del 21 maggio 2001, per cui mancava il presupposto dell’imposta sulle attività produttive con la conseguenza della sua inapplicabilità. Chiedeva, pertanto, la condanna dell’amministrazione al rimborso dell’intera somma oltre gli interessi a far data dal momento della domanda fino all’effettivo soddisfo nonché al pagamento delle spese di giudizio. L’amministrazione il 31 luglio 2006 si costituiva in giudizio ed evidenziava, fra l’altro, che il ricorrente per gli anni d’imposta, oggetto della richiesta di rimborso, aveva usufruito della definizione automatica degli anni pregressi mediante autoliquidazione, ai sensi dell’art. 7 della L. n. 282/2002 e, pertanto, con il condono gli imponi-

bili esposti nella dichiarazione originaria erano diventati definitivi con la conseguente rinuncia da parte del contribuente a contestazioni sugli stessi in considerazione di quanto stabilito dal comma 9 del citato art. 7. La Comm. trib. prov. il 29 novembre 2007 rigettava il ricorso. In motivazione dopo aver evidenziato che il condono, effettuato nel caso di specie, aveva posto il contribuente di fronte ad una libera scelta tra due comportamenti distinti: insistere nella controversia secondo i modi ordinari, conseguendo eventualmente i rimborsi delle somme indebitamente pagate, oppure corrispondere quanto dovuto per la definizione agevolata, rinunciando ad ogni possibile controversia riteneva che il principio in base al quale l’adesione del contribuente alle sanatorie fiscali previste dalla L. n. 289/2002 era ostativa alla prosecuzione del giudizio di rimborso Irap che si assumeva indebitamente versata e tanto in virtù della recente sentenza n. 3682/2007 della Cassazione. Riteneva ogni altra questione assorbita dall’accoglimento di tale eccezione preliminare dell’Agenzia. L’ing. D. proponeva appello in quanto a suo dire il condono non comportava la rinuncia alla prosecuzione della pretesa del rimborso, ma solo l’irrepetibilità delle somme pagate dal contribuente a titolo di condono fiscale in quanto tali somme erano state involontariamente versate dal contribuente al fine di evitare accertamenti da parte del fisco indipendentemente dalla circostanza che egli abbia o meno già adempiuto alle obbligazioni fiscali per gli anni per i quali chiede il condono. Precisava che la Cassazione, con la sentenza n. 36/1982 del 16 febbraio 2007, richiamata dalla Commissione, aveva deciso in merito al condono


10 Irap.qxd

10-04-2009

776

15:54

Pagina 776

GiustiziaTributaria

4 2008

lidata giurisprudenza della Cassazione (n. 7729 del 21 marzo 2008, n. 25239 del 3 dicembre 2007, n. 3682 del 16 febbraio 2007, n. 20741 del 25 settembre 2006, n. 10536 dell’8 maggio 2004 e n. 15569 dell’11 dicembre 2000) che si è aggiunta a quelle delle Comm. trib. reg. (Liguria, n. 7 del 17 gennaio 2006; Umbria, sez. VI, n. 41 del 3 marzo 2005; Lombardia n. 5 del 27 gennaio 2005) e delle Comm. trib. prov. (Parma, n. 70 del 23 aprile 2000 e Forlì, sez. I, n. 41 del 14 marzo 2007). In merito alla sentenza della Comm. trib. reg. Emilia Romagna del 27 ottobre 2004 citata dall’appellante e non allegata si evidenzia che anche predetta Comm. trib. reg. con una giurisprudenza consolidata si è espressa sempre per l’inammissibilità della richiesta di rimborso in presenza di condono (sez. VIII, n. 96 del 29 ottobre 2007, n. 30 del 17 aprile 2007, n. 114 del 27 ottobre 2006). Tanto assorbe ogni altra questione sulla assoggettabilità dell’attività del D. all’Irap. Vi sono giustificati motivi per compensare le spese di causa anche in questa fase di giudizio.

ex art. 9 della L. 27 dicembre 2002, n. 289, cd. condono tombale e non menzionava l’art. 7 che riguarda il cd. concordato per coloro per i quali sussistevano determinati requisiti. Sottolineava che le somme versate a titolo di Irap precedentemente al condono, se non dovute, potevano invece essere richieste dal contribuente in quanto il condono, di per sé, cristallizzava solo l’entità del reddito ma non impediva la restituzione di quanto in radice non dovuto. Menzionava al riguardo la decisione della Comm. trib. reg. dell’Emilia Romagna, sez. XXXIV del 27 ottobre 2004. Ribadiva la non assoggettabilità all’Irap della sua attività. L’ufficio controdeduceva. Motivi della decisione Anche questa Comm. trib. reg. al pari dei primi giudici ritiene che il condono L. n. 289/2002 ostacola la richiesta di rimborso Irap che si assume indebitamente versata e tanto in virtù di una conso-

IX 110

Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. LVIII, 12 giugno 2008, n. 94 Presidente: Romano - Relatore: Roberti Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Società di persone con attività simile ad un agente di commercio - Necessità di verifica in concreto sull’indipendenza dell’attività dall’apporto dei soci (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) Anche per una società di persone l’applicabilità dell’Irap richiede la sussistenza in concreto di un’organizzazione tale da rendere l’attività indipendente dall’apporto e dalla professionalità dei soci: per un’impresa societaria il cui oggetto è l’intermediazione nell’importazione ed esportazione di merci, l’avere un insieme di beni strumentali modesto rispetto al valore aggiunto prodotto e costi del venduto pari al 90% dei ricavi, l’avvalersi di collaborazioni di terzi solo saltuarie e per ridotti importi, mentre tutti i soci appartengono alla base familiare della società, fa ritenere insussistente un’organizzazione strutturata in modo da essere autonoma dall’apporto dei soci. Svolgimento del processo Con ricorso depositato in data 7 aprile 2005 la ricorrente indicata in epigrafe si opponeva al silen-

zio-rifiuto da parte dell’ufficio su istanza datata 26 novembre 2004 volta ad ottenere il rimborso Irap pari all’importo di euro 14.511,00 quale indebito versamento per l’anno 2000. Sosteneva l’inapplicabilità alla fattispecie dell’imposta Irap in quanto trattasi di attività prodotta da società personale a base familiare di intermediazione nell’esportazione, importazione e commercio di materie prime e secondarie per conto e presso terzi, operante alla stregua di un agente di commercio svolta in assenza di elementi di organizzazione, con i soli beni strumentali indispensabili per l’esercizio dell’attività, senza l’utilizzo di dipendenti e di collaboratori professionali(solo collaborazioni esterne per modesti importi) ed imperniata sul rapporto fiduciario con i clienti derivante dalla professionalità acquisita nel tempo dal fondatore della società personale; aggiungeva che l’accertamento della sussistenza dell’imposta andava fatto caso per caso, non potendovi essere una presunzione assoluta di assoggettamento all’Irap per chi svolge attività professionale e di impresa; che nella fattispecie risultava l’assenza di un’organizzazione di beni e di persone strutturata al punto tale da rivelarsi autonoma dall’apporto dei soci, in particolare dal socio di maggioranza. Chiedeva, dunque, il rimborso di quanto indebi-


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 777

Irap 4 2008 777

tamente versato in quanto esente da Irap. Con vittoria di spese. L’ufficio provvedeva a costituirsi, in data 14 febbraio 2008, chiedendo il rigetto del ricorso. All’udienza pubblica del 25 febbraio 2008, presenti i rappresentanti delle parti, esposti fatti e questioni oggetto di controversia, il collegio si ritirava in camera di consiglio ed emanava la seguente decisione.

tervenuta, chiarendo quali siano i requisiti per ritenere applicabile l’Irap alle attività autonomamente organizzate, pronunciando in materia una serie di sentenze emesse in data 8 febbraio 2007, depositate in data 16 febbraio 2007. Nella fattispecie, esaminata anche la documentazione prodotta dall’opponente comprensiva della dichiarazione dei redditi presentata per l’anno in questione, considerati soprattutto i requisiti della modesta dimensione dei beni strumentali rispetto al valore della produzione totale, dei rilevanti costi sostenuti (pari a quasi il 90% dei ricavi per acquistare prodotti poi rivenduti) e della mancanza di collaboratori professionali e di dipendenti (salvo saltuarie collaborazioni esterne per il solo importo pari al controvalore in euro di lire 9.950.000), elementi che, globalmente considerati, possono ritenersi attendibili circa una valutazione del caso concreto, si ravvisano gli elementi per ritenere la ricorrente non assoggettabile ad Irap, non essendovi i presupposti per la sussistenza della struttura organizzativa nella fattispecie (nel senso di organizzazione strutturata in modo da essere autonoma dall’apporto dei soci, peraltro tutti appartenenti alla stessa base familiare nella fattispecie), così come sostenuto nel ricorso e ampiamente documentato, in aderenza ai principi introdotti dalla giurisprudenza della Cassazione in materia nel febbraio 2007 Pertanto la ricorrente ha diritto al rimborso richiesto. Sussistono giustificati motivi, dato il recente intervento giurisprudenziale in materia di esenzione Irap, per compensare le spese di lite.

Motivi della decisione Osserva la Commissione che il ricorso va accolto, essendo stati forniti dalla ricorrente elementi concreti ed esaustivi atti a dimostrare l’assenza nella fattispecie della “organizzazione di capitali o lavoro altrui”, circostanza che costituisce questione di mero fatto, da valutare caso per caso ai sensi della sentenza n. 156/2001 della Corte costituzionale. Pur essendo in astratto possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione, la previsione va riferita a casi marginali da verificare di volta in volta; comunque, la prevalenza dell’attività intellettuale del professionista, nel senso di linea di demarcazione ai fini della non debenza del tributo, non può essere esaustiva in quanto tale requisito è connaturato all’attività professionale cd. protetta. Parimenti va accertato di volta in volta se l’organizzazione di una piccola impresa societaria sia o meno autonoma e, comunque, tale da rendere l’attività produttiva indipendente dall’apporto e dalla professionalità dei soci. La Suprema Corte al riguardo è recentemente in-

X 111

Commissione tributaria provinciale di Mantova, sez. III, 27 marzo 2008, n. 35 Presidente: Cangelosi - Relatore: Dell’Aringa Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Auto-organizzazione del proprio lavoro da parte del professionista - Sufficienza (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) Irap - Richiesta di rimborso - Adesione ad un condono fiscale - Preclusione (L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 7)

dei fattori produttivi organizzati: anche l’uso per rendere le prestazioni professionali solo di un computer e di un’autovettura appaiono sufficienti a realizzare quel valore aggiunto, nuovo indice di capacità contributiva che è colpito dal tributo. L’adesione a sanatorie fiscali che rendano definitivi gli imponibili risultanti dalla dichiarazione originaria preclude il rimborso dell’Irap indebitamente versata. [Omissis]

L’attività autonomamente organizzata richiesta dall’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 ai fini del presupposto Irap sussiste per il mero svolgimento dell’attività in maniera auto-determinata, a prescindere dalla qualità e quantità

Motivi della decisione Il ricorso va respinto in quanto infondato.


10 Irap.qxd

10-04-2009

778

15:54

Pagina 778

GiustiziaTributaria

4 2008

In via preliminare va osservato che l’intervenuta definizione da parte del ricorrente delle pendenze fiscali ex art. 7, 9, L. 289/2002 per l’anno 2001 impedisce allo stesso di richiedere il rimborso dell’imposta per il suddetto anno (Comm. trib. reg. Toscana, n. 15/01/04, del 4 maggio 2004). Sempre in via preliminare va rilevata la decadenza del diritto al rimborso per i versamenti relativamente ai quali è trascorso il termine dei 48 mesi di cui all’art. 38 del D.P.R. n. 602/1973. Indipendentemente dall’esame del merito, essendo la domanda rivolta ad ottenere il rimborso, l’intervenuto condono per l’anno 2001 preclude la possibilità stessa di ottenere il predetto rimborso. Infatti l’istanza di condono contiene in sé la volontà di estinguere il rapporto in ogni senso, anche con riferimento agli eventuali crediti vantati; pertanto appare preclusiva del rimborso richiesto. In definitiva l’intervenuta definizione da parte del ricorrente delle pendenze fiscali ex artt. 7, 9, L. 289/2002 preclude il diritto al rimborso. Infatti l’art. 7, comma 13 e l’art. 9, comma 9 della L. 27 dicembre 2002 n. 289 stabiliscono che la definizione automatica, limitatamente a ciascuna annualità, rende definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento alla spettanza di deduzioni ed agevolazioni indicate dal contribuente o all’applicabilità di esclusioni. In mancanza di deduzioni e agevolazioni o di esclusioni indicate dal contribuente, le liquidazioni esposte nelle dichiarazioni del contribuente sono intangibili e i versamenti effettuati su quelle basi per l’Irap non possono dar luogo a rimborsi (sent. Comm. trib. reg. Lombardia, n. 12/9/04 del 23 giugno 2004). Non sono soggetti all’Irap solo quei lavoratori autonomi che prestano la loro attività professionale con carattere di occasionalità e che, pertanto, non abbisognano di quel minimo di organizzazione che invece caratterizza quelle professioni, come quella di dottore commercialista, che vengono svolte autonomamente e abitualmente (non occorre la continuità ed esclusività). L’esistenza pur minima del requisito della organizzazione (cd. auto-organizzazione) è una condizione tipica del lavoro autonomo per professione abituale (Comm. trib. reg. Veneto, 10 ottobre 2002, n. 82); per cui, per produrre valore aggiunto non sono sempre indispensabili quantità anche minime di capitali o lavoro altrui, ma può bastare la capacità di ottenere credito o la possibilità di procurarsi clientela.

Ai fini dell’Irap è attività autonomamente organizzata anche quella caratterizzata dall’organizzazione del lavoro proprio, fuori da una struttura organizzativa (Comm. trib. prov. Rovigo, 16 novembre 2001, n. 222). Solo i professionisti totalmente sprovvisti di propria organizzazione sfuggono all’Irap (Comm. trib. prov. Milano, 30 aprile 2004, n. 35). D’altra parte tali considerazioni si traggono anche dalla sentenza n. 156 della Corte costituzionale nei riguardi delle attività professionali di cui all’art. 49, comma 1, del T.U.I.R. Ai fini dell’imposizione appare, perciò, sufficiente che l’esercente arte o professione svolga attività in maniera auto-determinata, prescindendo dalla quantità e qualità dei fattori produttivi organizzati (vedi anche la ris. n. 32/E del 31 gennaio 2002 e la circ. n. 141/E del 4 giugno 1998). Si ritiene, quindi, che l’accento, ai fini della assoggettabilità o meno all’Irap debba porsi: nell’esercizio abituale di un’attività professionale che sia svolta in regime di autonomia, vale a dire autodiretta e non eterodiretta, libera da subordinazione, da controlli e da coordinamento con altri. Per cui una minima organizzazione in tal tipo di attività (nella fattispecie commercialista, libero professionista) quali l’uso del computer, l’utilizzo di procedure informatiche anche nei rapporti con i pubblici uffici, l’utilizzazione di una vettura per uso professionale unita alla prestazione di servizi appare sufficiente per l’assoggettamento ad Irap; tale attività, infatti, pur svolta prevalentemente attraverso la capacità intellettuale del professionista, realizza quel valore aggiunto di cui parla l’imposta, nuovo indice di capacità contributiva. Pertanto, in definitiva, il minimum di un’attività professionale autonomamente organizzata realizza il presupposto per l’applicazione dell’Irap. La Corte di Giustizia europea si è già pronunciata sulla direttiva n. 388/77 della CEE, in materia di armonizzazione della legislazione degli Stati membri relativa alle imposte sulla cifra d’affari, ritenendo la compatibilità tra Irap ed Iva (sent. della Corte del 3 ottobre 2006). Le presenti considerazioni appaiono preclusive ed assorbenti di ogni altra valutazione nel merito e in diritto. Per le sopra esposte considerazioni il ricorso va rigettato. Sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite.


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 779

Irap 4 2008 779

XI 112

Commissione tributaria provinciale di Piacenza, sez. IV, 31 marzo 2008, n. 24 Presidente e Relatore: Sforza Fogliani Irap - Presupposto - Attività autonomamente organizzata - Professionista con unica dipendente part time addetta alla pulizia dei locali - Insussistenza (D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2) L’attività autonomamente organizzata richiesta dall’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 ai fini del presupposto Irap non sussiste per il professionista che si avvalga solo di pochi beni strumentali e di un’unica dipendente part time addetta alla pulizia dei locali e quindi non funzionale all’esercizio della professione. Si ricorre avverso cartella di pagamento Irap. Il primo motivo di ricorso deve essere respinto, risultando la cartella regolarmente notificata, come da documentazione prodotta dalla parte resistente E.P. Al pari, devono essere respinte le osservazioni svolte in via pregiudiziale all’Agenzia delle Entrate, attesa l’impossibilità – all’epoca esistente – di presentare la dichiarazione dei redditi senza la compilazione della parte relativa all’Irap.

I - XI Nota di Roberto Schiavolin Dal 2007 la Corte di Cassazione svolge un’incisiva azione nomofilattica riguardo ai criteri per l’accertamento del carattere di “autonomia organizzativa” di un’attività, richiesto dall’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997, per la soggezione all’Irap: tuttavia, specie per chi non si avvalga di “lavoro altrui”, essa ha potuto fissare solo dei criteri di massima. Con la circ. n. 45/2008 l’Agenzia delle Entrate ha indirizzato i comportamenti degli uffici in relazione a detta giurisprudenza, traendone però sviluppi non sempre ineccepibili. Quanto alle Commissioni tributarie, l’adeguamento di esse alle indicazioni della Cassazione appare faticoso: alcune sentenze rimangono su posizioni superate dalla Suprema Corte, altre citano quest’ultima ma non vi si conformano completamente, da

1 Oltretutto aggiunta a posteriori dal D.Lgs. n. 137/1998, onde superare i sospetti di non conformità del testo originario all’art. 3, comma 144, lett. b, della legge delega n. 662/1996,

Nel merito, il ricorso deve essere accolto. La Corte costituzionale ha dichiarato la legittimità dell’Irap, rilevando peraltro che il presupposto stesso dell’imposta sulle attività produttive risulta mancante nel caso in cui un’attività di lavoro autonomo venga svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui, come da tempo ritenuto anche dalla Cassazione (sez. trib., sent. 5 novembre 2004, n. 21203) con indirizzo poi confermato. Ed è proprio la fattispecie di cui alla presente controversia, nella quale parte ricorrente ha fatto presente – nulla in contrario contestando l’ufficio e tantomeno provando (Commissione tributaria provinciale Ancona 18 ottobre 2004) – di esercitare la propria attività senza dipendenti e con il solo ausilio di pochi beni mobili strumentali nonché di una sola dipendente part time con la qualifica di operaia V livello addetta alla pulizia dei locali (dipendente, dunque, non funzionale all’esercizio dell’attività professionale del ricorrente). Il ricorso deve quindi essere accolto, con conseguente condanna dell’amministrazione resistente al pagamento delle spese, liquidate in via equitativa come da dispositivo. altre ancora emerge come quei criteri lascino tanto spazio alla discrezionalità del giudice di merito da non assicurare la necessaria omogeneità nell’applicazione dell’imposta. L’evoluzione dell’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 Come è noto, il problema più tormentato in materia di Irap è rappresentato dalla definizione dell’attività “autonomamente organizzata”, che l’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 richiede affinché sia realizzato il presupposto del tributo. L’ambiguità di detta formula1, specie se correlata all’elencazione dei soggetti passivi di cui all’art. 3, ove si fa genericamente riferimento ad esercenti attività come definite ai fini delle imposte sui redditi, e la difficoltà di identificare in modo appagante la ratio da cui dovrebbe essere giustificata in termini di capacità contributiva2 avevano provocato l’emer-

laddove prevede l’applicazione dell’imposta in relazione all’esercizio di una “attività organizzata” per la produzione di beni o servizi. 2 Ci sia permesso rinviare, per i riferi-

menti dottrinali, a SCHIAVOLIN, L’imposta regionale sulle attività produttive, Milano, 2007, spec. 244 ss.


10 Irap.qxd

10-04-2009

780

15:54

Pagina 780

GiustiziaTributaria

4 2008

sione nella giurisprudenza di merito di indirizzi interpretativi assai divergenti riguardo al significato stesso di tale requisito organizzativo, ed in particolare ai criteri per verificarne la sussistenza in concreto3. L’apporto fondamentale per superare l’equivocità dei dati normativi è venuto da Corte cost., 21 maggio 2001, n. 1564. Questa, infatti, nel respingere le censure di incostituzionalità sollevate riguardo alla tassazione dei professionisti5, ha affermato che non realizzerebbe il presupposto Irap «un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui» e che l’accertamento di detta situazione, «in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto». L’Agenzia delle Entrate, invero, continuava a sostenere, pur dopo tale sentenza, che «l’esistenza pur minima del requisito dell’organizzazione» sarebbe «connotazione tipica del lavoro autonomo» e dunque sarebbero da considerarsi autonomamente organizzate tutte le attività ad esso riconducibili6. La giurisprudenza di merito si divideva invece in vari filoni, cui conviene qui accennare non solo per spiegare l’intervento della Cassazione, ma an-

3 Si veda ancora SCHIAVOLIN, L’imposta regionale sulle attività produttive, cit., 255 ss.; nonché, da ultimo, PROCOPIO, L’imposta regionale sulle attività produttive. Rassegna di giurisprudenza, in Dir. e Prat. Trib., 2008, II, 527 ss. 4 In Rass. Trib., 2001, 833 ss., con nota di BATISTONI FERRARA, Prime impressioni sul salvataggio dell’Irap; in Riv. Giur. Trib., 2001, 985, con nota di MARONGIU, La Consulta “salva” l’Irap dalle censure di incostituzionalità; in Dir. e Prat. Trib., 2001, II, 659 ss., con nota di MARONGIU, Irap, lavoro autonomo e Corte costituzionale: le possibili conseguenze pratiche; in Riv. Dir. Trib., 2003, II, 1 ss., con nota di COCIANI, Attività autonomamente organizzata e Irap; in Giur. It., 2001, 1979 ss., con nota di SCHIAVOLIN, Prime osservazioni sull’affermata legittimità costituzionale dell’imposta regionale sulle attività produttive. 5 A tal fine, la Corte costituzionale ha osservato come il «valore aggiunto prodotto da ogni tipo di attività autonomamente organizzata, sia essa di carattere imprenditoriale o professionale», esprima un’identica idoneità alla contribuzione, ed ha superato la censura per cui, «mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto ri-

che perché indirizzi da quest’ultima disattesi riemergono tuttora in varie sentenze. Secondo un primo indirizzo, un lavoratore autonomo avrebbe svolto un’attività “autonomamente organizzata” anche in caso di semplice auto-organizzazione, a prescindere dalla disponibilità di beni strumentali o di collaboratori, per il mero fatto di non essere inserito nell’organizzazione di un altro soggetto7. Per un altro indirizzo, l’attività non era “autonomamente organizzata” anche se esercitata avvalendosi di un’organizzazione di mezzi e di lavoratori ampia e sofisticata, purché non potesse svolgersi a prescindere dal lavoro personale del titolare: dunque, l’Irap si sarebbe applicata a situazioni simili all’esercizio d’impresa, ove il titolare svolge un ruolo di coordinatore di fattori produttivi, piuttosto che all’immagine classica del professionista. Alcune sentenze, peraltro, nel decidere i casi sottoposti al loro giudizio, desumevano aprioristicamente l’imprescindibilità del coinvolgimento personale del titolare dalla necessità di apposita abilitazione per l’esercizio della professione8, altre dall’intuitus personae proprio di tali attività e dall’obbligo di eseguire personalmente l’incarico, stabilito dall’art. 2232, c.c.9

guarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità», affermando che nel caso di attività professionale svolta in assenza di elementi di organizzazione mancherebbe il presupposto stesso dell’imposta sulle attività produttive, individuato appunto dall’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 nell’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. 6 Cfr. Agenzia delle Entrate, ris. 31 gennaio 2002, n. 32, in Corr. Trib., 2002, 1172. 7 Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XV, 23 ottobre 2002, n. 120, in Giur. Imposte, 2003, 239 con nota di ASTOLFI, L’Irap a carico dei professionisti nella giurisprudenza di merito, e in Riv. Giur. Trib., 2003, p. 80 ss., con nota di FICARI, Brevi note su lavoro autonomo autonomamente organizzato e lavoro autonomo coordinato e continuativo nel presupposto dell’Irap; Comm. trib. reg. Veneto, 10 ottobre 2002, n. 82, in Riv. Giur. Trib., 2003, 81 ss., con nota di FICARI, Brevi note su lavoro autonomo, cit.; Comm. trib. prov. Rovigo, sez. I, 16 novembre 2001, n. 222, in Fisco, 2002, I, 1857; Comm. trib. prov. Ravenna, sez. II, 24 marzo

2003, n. 13, Comm. trib. prov. Ravenna, sez. I, 28 marzo 2003, n. 33 e Comm. trib. prov. Ravenna, sez. V, 31 marzo 2003, n. 11, in Fisco, 2003, I, 4935 ss.; Comm. trib. prov. Pescara, sez. III, 21 maggio 2003, n. 55, in Fisco, 2003, I, 4154. 8 Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XXXV, 13 marzo 2003, n. 11, in Corr. Trib., 2003, 1717 ss. con commento di BODRITO, I professionisti sono sempre esclusi dall’Irap?; nonché in Boll. Trib., 2003, 552, con nota di FICARI, Irap ed attività lavorative “protette” ed “auto-organizzate”: le strade si separano; Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XXXV, 18 marzo 2003, n. 26; Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XXXV, 2 aprile 2003, n. 320, in Fisco, 2003, I, 2823; Comm. trib. reg. Piemonte, sez. XII, 20 maggio 2003, n. 5. 9 Cfr. Comm. trib. I grado Trento, sez. II, 10 dicembre 2001, n. 83/2/2001; Comm. trib. prov. Lucca, sez. I, 4 aprile 2002, n. 357, in Fisco, 2002, I, 7718; Comm. trib. prov. Alessandria, sez. VI, 23 gennaio 2002, n. 229, in Riv. Giur. Trib., 2003, 82; Comm. trib. prov. Bologna, sez. I, 21 agosto 2003, n. 421, in Fisco, 2003, I, 5249; Comm. trib. prov. Brescia, sez. I, 22 luglio 2003, n. 134, ibidem.


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 781

Irap 4 2008 781

Un altro indirizzo riteneva necessario verificare in concreto se gli elementi organizzati (beni strumentali, dipendenti, collaboratori) fossero semplicemente mezzi necessari al titolare onde esplicare la sua opera personale, comunque essenziale per poter rendere alla clientela ciascuna prestazione10. In pratica, l’attività non sarebbe stata autonomamente organizzata se il lavoro del titolare fosse “prevalente” sui mezzi impiegati e mancasse una struttura “di rilievo”, cioè non vi fossero dipendenti e si utilizzassero solo i beni strumentali tipicamente ritenuti indispensabili per operare nel settore (ad es. mobili e macchine d’ufficio, un’autovettura, uno studio in locazione)11. Un ulteriore indirizzo, considerando l’Irap giustificata sul piano della capacità contributiva dal po-

10 Cfr. Comm. trib. reg. Toscana, sez. XXII, 28 maggio 2003, n. 15, in Fisco, 2003, I, 5102; Comm. trib. reg. Veneto, sez. XXXIII, 28 febbraio 2005, n. 8; Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XXXV, 3 novembre 2003, n. 34; Comm. trib. reg. Emilia Romagna, 9 dicembre 2003, n. 39; Comm. trib. prov. Milano, 20 dicembre 2001, n. 278, in Boll. Trib., 2002, 556; Comm. trib. reg. Lazio, sez. VII, 17 luglio 2003, n. 50 in Fisco, 2003, I, 5234. 11 Cfr. Comm. trib. prov. Aosta, sez. IV, 6 novembre 2001, n. 34, in Fisco, 2002, I, 3348; Comm. trib. prov. Terni, sez. IV, 27 dicembre 2001, n. 288; Comm. trib. prov. Milano, sez. V, 20 dicembre 2001, n. 278; Comm. trib. prov. Mantova, sez. I, 17 gennaio 2002, n. 98; Comm. trib. prov. Terni, sez. II, 18 gennaio 2002, n. 1 e 2, in Rass. Trib., 2002, 1123 ss.; Comm. trib. prov. Parma, sez. VI, 28 febbraio 2002, n. 8; Comm. trib. prov. Milano, 5 marzo 2002, n. 38; Comm. trib. prov. Lecco, sez. III, 11 marzo 2002, n. 21; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sez. V, 25 marzo 2002, n. 96; Comm. trib. prov. Parma, 10 aprile 2002, n. 19; Comm. trib. prov. Como, 11 aprile 2002, n. 70; Comm. trib. prov. Roma, 19 luglio 2002, n. 328; Comm. trib. prov. Parma, sez. IV, 30 dicembre 2002, n. 123, in Boll. Trib., 2003, 1267; Comm. trib. prov. Piacenza, sez. IV, 23 gennaio 2003, n. 1, in Fisco, 2003, I, 1394; Comm. trib. prov. Taranto, sez. VI, 7 febbraio 2003 n. 679, in Fisco, 2003, I, 2667; Comm. trib. prov. Parma, sez. VIII, 13 giugno 2003, n. 30; Comm. trib. prov. Macerata, sez. III, 24 giugno 2003, n. 21; Comm. trib. prov. Bologna, sez. II, 3 luglio 2003, n. 329; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sez.

tere di coordinamento dei fattori produttivi, giudicava sufficiente per l’autonomia organizzativa l’impiego di lavoro altrui, ancorché direttamente strumentale all’opera del professionista12. La giurisprudenza della Corte di Cassazione Dopo un primo intervento, non idoneo a spiegare una particolare efficacia nomofilattica13, dal 2007 la sezione tributaria della Corte di Cassazione ha emanato una cospicua serie di sentenze, da cui si ricava un nitido indirizzo giurisprudenziale riguardo al significato del concetto di attività “autonomamente organizzata”14. La Suprema Corte ha dichiarato di condividere, tra gli orientamenti emersi nella giurisprudenza di merito, in quanto «più si attaglia alla ratio impositiva alla luce del ri-

VI, 6 giugno 2003, n. 16; Comm. trib. prov. Siracusa, sez. III, 25 settembre 2003, n. 133; Comm. trib. reg. Lazio, n. 50/2003, cit.; Comm. trib. reg. Lombardia, sez. XLI, 10 ottobre 2003, n. 46; Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XXXIII, 14 gennaio 2004, n. 62; Comm. trib. prov. Verona, sez. II, 21 marzo 2005, n. 49, in Riv. Giur. Trib., 2005, 1129 ss. 12 Cfr. Comm. trib. I grado Trento, sez. I, 10 gennaio 2002, n. 135; Comm. trib. prov. Parma, sez. I, 9 giugno 2003, n. 50. 13 Ci riferiamo a Cass., sez. trib., 5 novembre 2004, n. 21203, in Riv. Giur. Trib., 2005, 21, con nota di BODRITO, La prima pronuncia della Corte di Cassazione sull’“Irap professionisti”, la quale, limitandosi a sindacare la motivazione della sentenza impugnata, aveva lasciato intendere che non avesse autonomia organizzativa un professionista privo di dipendenti, collaboratori e finanziamenti esterni, ma non aveva enunciato un’interpretazione dell’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997, idonea a fornire criteri applicativi generali. 14 Tra le numerosissime decisioni, le prime pubblicate sono state le sent. 8-16 febbraio 2007, n. 3672-3682, in Fisco, 2007, 1, 1314 ss. Tra le successive, ad es., Cass., sez. trib., 5 marzo 2007, n. 5009, 5010 e 5015, in Boll. Trib., 2007, 670; Cass., sez. trib., 2 aprile 2007, n. 8177, in Riv. Giur. Trib., 2007, 471, con nota di MARONGIU, È autonomamente organizzato ai fini Irap il professionista che si avvale del lavoro altrui; Cass., sez. trib., 13 giugno 2007, n. 13810 e 13811, in Boll. Trib., 2007, 1241 ss.; Cass., sez. trib., 28 luglio 2007, n. 17210, in Boll. Trib., 2008,

270; Cass., sez. trib., 21 marzo 2008, n. 7734, in Boll. Trib., 2008, 768; Cass., sez. trib., 10 luglio 2008, n. 19138, in Corr. Trib., 2008, 2534. Tra i commenti dottrinali, v. BASILAVECCHIA, L`istanza di condono preclude il rimborso Irap ai professionisti, in Corr. Trib., 2007, 991 ss.; COCIANI, L’“autonoma organizzazione” ai fini Irap, in Rass. Trib., 2007, 584 ss.; COLLI VIGNARELLI, Il Dies Irap è giunto. La nozione di “attività autonomamente organizzata” (art. 2, D.Lgs. n. 446/1997), in Boll. Trib., 2007, 501 ss.; DELLA VALLE, Non scontano l`Irap i professionisti dotati di mezzi strumentali minimi, in Corr. Trib., 2007, 885; MARINO, Irap e lavoratori autonomi: prime impressioni sul recentissimo orientamento della Corte di Cassazione, in Fisco, 2007, 1, 1226 ss.; TINELLI, Non è rimborsabile l’Irap “condonata”, in Riv. Giur. Trib, 2007, 301; SCUFFI, Irap: dalla Corte di giustizia UE alla Corte di cassazione, in Corr. Trib., 2007, 1847 ss.; ID., Irap: dopo la Corte di Giustizia il punto della Corte di Cassazione, in Fisco, 2007, 1, 1218 ss.; RICCIONI, Irap e lavoratori autonomi: i più recenti orientamenti della Cassazione e le problematiche non ancora affrontate, in Fisco, 2007, 3095 ss.; PERRUCCI, L`Irap professionisti. La parola alla Corte di Cassazione, in Boll. Trib., 2007, 426; PAPA-LUPI-PROCOPIO, “Irap professionisti” nelle sentenze della Corte di Cassazione, in Dialoghi Dir. Trib., 2007, 785 ss.; D’ALFONSO, Ancora in tema di Irap sulle attività di lavoro autonomo, in Rass. Trib., 2007, 1229 ss.; PROCOPIO, Il (falso) problema dell’autonoma organizzazione nell`Irap, in Dir. e Prat. Trib., 2007, I, 563 ss.; sia permesso inoltre il rinvio a SCHIAVOLIN, L’imposta regionale sulle attività produttive, cit., 264 ss.


10 Irap.qxd

10-04-2009

782

15:54

Pagina 782

GiustiziaTributaria

4 2008

cordato intervento costituzionale» quello «intermedio» secondo il quale l’Irap va applicata nei casi in cui il lavoratore autonomo «si avvalga di una significativa o non trascurabile organizzazione di mezzi od uomini in grado di ampliarne i risultati profittevoli, atteggiandosi come contesto potenzialmente autonomo rispetto all’apporto personale rivolto ad un ruolo di indirizzo, coordinamento e controllo»15. Pertanto, l’Irap si applica quando il lavoratore autonomo «impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che secondo l’id quod plerumque accidit costituiscono nell’attualità il minimo indispensabile per l’esercizio» della professione, «oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui»; non si applica, invece, quando esso «operi con un minimo di mezzi materiali ma senza l’ausilio di dipendenti, collaboratori e procuratori di ogni tipo, esterni od interni e consistenti beni strumentali»16. Aspetto parimenti necessario del requisito di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997, è che l’esercente sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, cioè non sia «inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse»17. Dunque, l’imposta si applica alle situazioni ordinarie dei professionisti, che per questo sono inseriti tra i soggetti passivi nell’art. 3, D.Lgs. n. 446/1997, senza distinzioni e specificazioni, mentre la mancanza di organizzazione rappresenta un caso eccezionale. La Cassazione ha fondato tale conclusione proprio sulle indicazioni fornite da Corte cost. n. 156/2001, benché questa non abbia efficacia vincolante per gli altri giudici, «se non altro per l’autorevolezza della fonte» e l’assenza di una «valida ragione» per discostarsene, assumendo trattarsi di interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2 e 3, D.Lgs. n. 446/1997, disattendere la quale esporrebbe la disciplina a sospetti di illegittimità costituzionale18. Peraltro, poiché la Corte costituzionale non aveva dato indicazioni riguardo al contenuto dell’autonoma organizzazione, «rinviando puramente alla nozione obiettiva di un “coinvolgimento coordinato” di capitale o lavoro altrui da accertare di volta in volta», è stata la Cassazione ad assumersi il compito di definire la struttura organizzativa “esterna” di cui occorre verificare l’utilizzo da parte del professionista. A tal fine, essa è partita dalla constatazione che «il risultato produttivo

15 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3678/2007. 16 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3673, 3676, 3677, 3678, 3680/2007. 17 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3680/2007.

[...] può essere o meno influenzato dalla quantità e dalla qualità dei fattori (capitale e lavoro)» impiegati, ritenendo la soggezione ad Irap giustificata da «un surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa che coadiuva ed integra il professionista nelle incombenze ordinarie»: dunque, mentre «la ricchezza prodotta dall’impiego coordinato delle proprie facoltà mentali, attitudini e spirito di iniziativa costituisce profitto esclusivamente derivante dalla capacità del professionista che come tale non può essere ritassato dopo aver scontato l’Irpef quale reddito di lavoro autonomo», l’Irap colpirebbe «l’incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività autoorganizzata del solo lavoro personale» grazie ad «un’organizzazione di capitali o lavoro altrui affiancata al lavoratore autonomo ma da lui distinta (sia sostituibile o meno) e che interagisce nella produzione del profitto riconducibile all’organizzazione in quanto tale e non al singolo suo componente»19. L’autonomia organizzativa del lavoratore autonomo risulterebbe dunque da un «complesso di fattori [...] che per numero ed importanza sono suscettibili di creare valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al suo know-how», quelli cioè costituenti «mero ausilio della sua attività personale» e dei quali abitualmente dispongono anche i lavoratori dipendenti o collaboratori20: può trattarsi «di beni strumentali – mobili (diversi dagli strumenti indispensabili per l’esercizio dell’attività) o immobili (ad esempio, lo studio professionale), a qualsiasi titolo posseduti – e/o di lavoro altrui (non necessariamente nella forma del lavoro dipendente), organizzati in modo da accrescere in modo apprezzabile la capacità di guadagno del lavoratore autonomo»21. Secondo altre sentenze, è sufficiente «un apparato che non sia sostanzialmente ininfluente, ovverosia [...] un quid pluris che secondo il comune sentire [...] sia in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista [...]. un qualcosa in più la cui disponibilità non sia, in definitiva, irrilevante perché di regola capace, come lo studio o i collaboratori, di rendere più efficace o produttiva l’attività», anche se «nell’attuale realtà, è quasi impossibile esercitare l’attività senza l’ausilio di uno studio e/o di uno o più collaboratori o dipendenti» e «proprio per questo [...] il D.Lgs. n. 446/1997 ha inserito gli autonomi fra i soggetti passivi”22.

18 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3678, 3676, 3677 e 3680/2007. 19 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3676, 3677, 3678 e 13810/2007.

20 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3672/2007. 21 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3680/2007. 22 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 5019 e 5020/2007.


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 783

Irap 4 2008 783

Posto dunque che «l’impiego, non occasionale, di lavoratori dipendenti o collaboratori» è di per sé sufficiente a configurare l’autonoma organizzazione23, in assenza di questi occorre valutare se i beni impiegati, eccedendo «per quantità o valore, il minimo comunemente ritenuto indispensabile per l’esercizio dell’attività»24, forniscano un apporto “apprezzabile”. Secondo la Corte di Cassazione, a tal fine il giudice di merito dovrebbe effettuare una valutazione di tipo qualitativo, «di natura non soltanto logica ma anche socio-economica», sull’esistenza o meno di una siffatta organizzazione, non già un giudizio quantitativo sull’esiguità degli elementi da cui sia composta: l’Irap, pertanto, non è dovuta se l’insieme di mezzi in concreto impiegati abbia «incidenza marginale e non richieda necessità di coordinamento (in genere pochi mobili d’ufficio, fotocopiatrice, fax, computer, cellulare, materiale di cancelleria, vettura)»25, ovvero (ferma restando l’assenza di dipendenti o collaboratori) non vi sia «impiego di beni strumentali al di là di quelli indispensabili alla professione e di normale corredo del lavoratore autonomo»26. Anche se un criterio siffatto può apparire troppo generico, laddove rimette alla discrezionalità dei giudici di merito la valutazione su quali siano i mezzi “indispensabili” e “di normale corredo” del professionista, da alcune sentenze risultano indicazioni utili per decidere sulle situazioni più frequenti. Per esempio, per la suddetta valutazione di indispensabilità si fa riferimento soltanto a beni mobili, lasciando così intendere che il possesso – anziché la mera locazione – di un fabbricato adibito in via esclusiva a studio professionale sia tendenzialmente superiore alla soglia dell’indispensabile27; per tale valutazione vanno considerati anche «i canoni di locazione finanziaria e non» e i «compensi comunque elargiti a terzi», quindi pure le prestazioni ricevute da altri lavoratori autonomi28.

23 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3676, 3677, 3678, 3680/2007; da ultimo, per la sufficienza anche di un solo collaboratore, Cass., sez. trib., sent. 11 dicembre 2008, n. 29146. 24 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3673/2007. 25 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3680/2007; Cass., sez. trib., sent. 13810/2007. 26 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3678/2007. Inoltre, occorre separare un’eventuale attività svolta parallelamente a quella professionale, senza impiegare l’organizzazione funzionale a quest’ultima, ancorché entrambe producano reddito di lavoro autonomo (come nel caso di un dottore com-

27 28 29

30

La valutazione è vieppiù delicata quando la professione sia esercitata in forma associata, giacché di regola un’associazione professionale è «dotata di strutture e mezzi (immobili, mobili, arredamenti, macchinari, servizi, collaboratori), ancorché non di particolare onere economico» e si ritiene che «lo scopo della pattuizione dell’esercizio associato di una professione intellettuale sia anche quello di avvalersi della reciproca collaborazione e competenza, ovvero anche della sostituibilità nell’espletamento di alcune incombenze»: ciò basterebbe a dar luogo ad un’autonoma organizzazione oggettiva dell’attività, idonea a potenziare la produzione di ricchezza a vantaggio degli associati, salvo che nel caso concreto sia data un’idonea prova contraria29. In ogni caso, la Commissione tributaria deve riconoscere o negare l’autonoma organizzazione in base ad un apprezzamento globale delle caratteristiche specifiche dell’attività concretamente svolta, non bastando rilevare la presenza di certi elementi considerati tipicamente sufficienti o insufficienti (ad es. auto, fotocopiatrice, locali appositi, ecc.). La Cassazione, infatti, si limita a verificare se l’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito sia adeguatamente motivato: quindi, in una determinata controversia una Commissione tributaria potrebbe (congruamente motivando) considerare insufficiente a realizzare l’autonomia organizzativa la disponibilità di certi mezzi che in altri casi, senza incorrere nella censura della Suprema Corte, fossero stati giudicati idonei allo scopo (o viceversa). La sentenza sarà invece cassata quando il giudice di merito non spieghi a sufficienza la sua valutazione: per esempio, occorrono prove specifiche, ed una motivazione apposita, per ciascun anno cui si riferisce la controversia, in quanto la situazione di fatto ben potrebbe mutare da un periodo d’imposta all’altro30. D’altra parte, è principio consolidato che nelle controversie di rimborso l’onere della prova gra-

mercialista che sia amministratore di una società: cfr. Cass., sez. trib., 9 maggio 2007, n. 10594). Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3680/2007. Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3678/2007. Cfr. Cass., sez. trib., 11 giugno 2007, n. 13570; Cass., sez. trib., 10 luglio 2008, n. 19138. Per esempio, Cass., sez. trib., 12 marzo 2008, n. 6726, ha rinviato alla Commissione tributaria regionale l’accertamento sull’autonomia organizzativa di un avvocato, riconosciuta con una formulazione astratta riferita ad un «investimento di sufficienti capitali»; Cass., sez. trib., ord.

27 maggio 2008, n. 19860, ha rinviato alla Commissione tributaria regionale l’accertamento sull’autonomia organizzativa di un programmatore informatico che ne era stato considerato privo benché dalla dichiarazione risultassero spese per consumi, ammortamenti e acquisto di beni strumentali. Per la necessità di un accertamento compiuto distintamente per ciascun anno cui si riferisca la controversia, cfr. Cass., sez. trib., 23 gennaio 2008, n. 1414, in Boll. Trib., 2008, 269 ss. e Cass., sez. trib., 11 ottobre 2007, n. 21421.


10 Irap.qxd

10-04-2009

784

15:54

Pagina 784

GiustiziaTributaria

4 2008

vi sul ricorrente, ed in materia di autonoma organizzazione ciò significa necessità di dimostrare come in concreto si svolga la sua attività, affinché il giudice possa verificare la mancanza di detto requisito31. La Cassazione ha considerato una base sufficiente per la decisione la dichiarazione tributaria, dalla quale si possano rilevare l’esistenza e la struttura dei costi inerenti all’attività, ovvero una certificazione dell’anagrafe tributaria sui contenuti di essa32, ma i fatti rilevanti ai fini di una specifica pretesa di rimborso potrebbero in concreto essere ricavabili soltanto dalle scritture contabili o da determinati documenti. Inoltre, secondo la Suprema Corte, l’adesione ad un condono fiscale escluderebbe in ogni caso il diritto al rimborso, perché tale istituto avrebbe lo scopo di “definire transattivamente” la controversia sull’esistenza del presupposto d’imposta33. La giurisprudenza di legittimità non appare tuttavia univoca in ogni aspetto. In specie, le prime sentenze ricollegavano all’affermazione di Corte cost. n. 156/2001 per cui «l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa» l’irrilevanza di una verifica sul carattere autonomamente organizzato delle attività d’impresa commerciale, giacché per queste esso sarebbe «connaturato [...] alla persona fisica», mentre «rispetto all’attività di lavoro autonomo in cui la prestazione personale del contribuente è di norma essenziale» detto elemento si presenterebbe «in termini propri e distinti da quelli caratterizzanti l’impresa»34. Sicché, per esempio, un agente di commercio è stato considerato soggetto ad Irap in quanto esercente un’attività commerciale ai sensi dell’art. 2195, c.c.35 Tuttavia, la Corte ha altresì respinto un ricorso contro una sentenza che aveva negato l’applicabilità dell’Irap ad un agente di commercio privo di elementi di organizzazione, perché la Commissione tributaria aveva qualificato il suo reddito come di lavoro autonomo, senza contestazione da parte dell’Agenzia

31 Cfr. ad es. Cass., sez. trib., 5 marzo 2007, n. 5012. 32 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3678/2007, 3675/2007 e 13810/2007. 33 Cfr. ad es. Cass., sez. trib., sent. 3682 e 8178/2007. Le sentenze sopra riportate aderiscono a questo indirizzo ormai consolidato (Comm. trib. reg. Lazio, n. 20/2008; Comm. trib. reg. Puglia, n. 76/2008; Comm. trib. prov. Mantova, n. 35/2008); per la necessità di distinguere secondo la disciplina dello specifico condono, sia permesso rinviare a SCHIAVOLIN,

delle Entrate36, e in altra occasione ha riconosciuto esplicitamente che l’agente di commercio possa essere inquadrato, a seconda dei casi, come imprenditore o lavoratore autonomo37. Sicché l’ulteriore esame di dette questioni da parte della Sezione tributaria è stato rinviato fino a pronuncia delle sezioni unite38. Inoltre, non sembra del tutto chiaro il coordinamento tra il criterio per cui non configura autonomia organizzativa l’uso dell’apparato «minimo comunemente ritenuto indispensabile per l’esercizio dell’attività» e quello per cui realizza invece detto requisito un’organizzazione «tale da accrescere in modo apprezzabile la capacità di guadagno del lavoratore autonomo», ovvero «di regola capace, come lo studio o i collaboratori, di rendere più efficace o produttiva l’attività». Il primo, infatti, parrebbe implicare un confronto tra la situazione del professionista ricorrente ed una figura “marginale” della stessa categoria, per capire se gli strumenti in concreto impiegati siano la “dotazione di partenza” per fornire i servizi tipici dell’attività di cui trattasi; il secondo criterio sembrerebbe postulare invece una valutazione sull’utilità effettiva degli strumenti impiegati per “potenziare” la sua capacità di guadagno39. I due criteri ci sembrano armonizzabili riferendo l’incremento di produttività consentito dal secondo non già al lavoro svolto dal professionista in concreto, ma a quello che egli potrebbe ipoteticamente svolgere se impiegasse soltanto un apparato minimale (cioè nella situazione contemplata dal primo criterio). Tuttavia, questa costruzione giurisprudenziale sembra resa meno convincente, sia dall’esclusione a priori che il lavoro altrui possa rientrare nel “minimo indispensabile” (dovuta, verosimilmente, alla convinzione che la gestione di esso richieda inevitabilmente un’attività “organizzativa”), sicché la ricostruzione di detta situazione risulta sfasata rispetto alla realtà effettiva; sia dalla possibilità di attività professionali non

L’imposta regionale sulle attività produttive, cit., 312 ss., nota 360. 34 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 3678/2007. 35 Cfr. Cass., sez. trib., sent. 30 marzo 2007, n. 7899. 36 Cass., sez. trib., ord. 5 febbraio 2008, n. 2702, in Boll. Trib., 2008, 526, sulla quale COLLI VIGNARELLI, Irap: una possibile “apertura” per gli imprenditori non organizzati?, in Boll. Trib., 2008, 453 ss.; anche Corte cost., ord. 21 giugno 2007, n. 227 ha considerato inammissibile una questione sollevata in materia, per difetto di motiva-

zione, in quanto la Commissione tributaria non aveva chiarito se l’agente di commercio di cui si trattava svolgesse attività di impresa o professionale. 37 Cfr. Cass., sez. trib., 21 marzo 2008, n. 7734. 38 Cass., sez. trib., ord. 20 giugno 2008, n. 16888. 39 Sostiene pertanto la presenza nella giurisprudenza di legittimità di due indirizzi, uno “rigorista” ed uno “liberale”, RICCIONI, Irap e lavoratori autonomi, cit., 3096 ss.


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 785

Irap 4 2008 785

esercitabili senza degli apparati di beni strumentali molto rilevanti sul piano economico, anche quando si pensino ridotti all’indispensabile (ad es. dentista, radiologo): in tali casi, il recupero dei costi di impianto e manutenzione potrebbe assumere un peso preponderante nella determinazione dei prezzi di mercato delle relative prestazioni, rispetto al lavoro manuale ed intellettuale del titolare. Ci sembra comunque preferibile in questa sede, anziché indugiare sulle posizioni dei giudici di legittimità, passare a verificare come la funzione nomofilattica della Cassazione stia effettivamente operando, riflettendosi sulle strategie processuali dell’Agenzia delle Entrate e sulle decisioni delle Commissioni tributarie. In effetti, con la circ. 13 giugno 2008, n. 45/E40, l’Agenzia delle Entrate ha al fine preso atto dell’infondatezza della tesi da essa sostenuta, per cui qualsiasi attività professionale sarebbe stata “autonomamente organizzata” semplicemente in quanto non soggetta ad un altrui potere di coordinamento, informando gli uffici sugli indirizzi della Suprema Corte e invitandoli ad adeguare ad essi le proprie difese; tuttavia, nella circolare si traggono da quella giurisprudenza alcune conseguenze non sempre convincenti. Dedicheremo ora alcune considerazioni a queste ultime interpretazioni, nonché ai passaggi delle sentenze annotate a nostro avviso di maggior interesse. Gli indirizzi applicativi dell’Agenzia delle Entrate e quelli emergenti dalle sentenze annotate: a) l’impiego di lavoro altrui Si è detto che secondo la Cassazione anche un solo dipendente o collaboratore coordinato e continuativo sembra comportare l’autonomia organizzativa, a prescindere da valutazioni sull’essenzia-

40 V. nella sezione “Atti e interventi”, infra, 864. Sulla medesima circolare cfr. COLLI VIGNARELLI, L’Agenzia delle Entrate si pronuncia ancora in tema di rilevanza del requisito organizzativo in materia di Irap, in Boll. Trib., 2008, 1125 ss.; FERRANTI, Commento, in Corr. Trib., 2008, 2196 ss.; Id., I requisiti per l`esclusione dall`Irap dei “piccoli studi professionali”, in Corr. Trib., 2008, 2251 ss. 41 Per quanto in dottrina vi sia chi legge in alcune sentenze l’implicita ammissione della possibilità che un solo dipendente non sia sufficiente a configurare l’autonomia organizzativa, giacché non enunciano il principio

lità o meno del suo apporto per l’esercizio dell’attività41. Secondo la circ. 13 giugno 2008, n. 45/E, l’impiego di «lavoro altrui» potrebbe realizzarsi anche tramite «l’affidamento a terzi, in modo non occasionale, di incombenze tipiche dell’attività artistica o professionale, normalmente svolte all’interno dello studio», mentre non avrebbero rilievo le prestazioni di terzi per attività estranee a quella svolta (ad es. di consulenza fiscale al professionista), ovvero la presenza di un tirocinante, la quale sarebbe «in sostanza funzionale alle esigenze formative» di questi. Riguardo al primo punto, l’Agenzia ci sembra riferirsi, in un’ottica di interpretazione antielusiva, a forme di “esternalizzazione” di fasi preparatorie o esecutive dell’attività, le quali di regola vengono tenute sotto il controllo del professionista (ad es. funzioni di segreteria, assistenza per ricerche, rapporti con organi pubblici e clienti), per ipotizzare che lo stabile affidamento di esse a certi soggetti, pur formalmente indipendenti, possa assicurare nella sostanza un apporto simile a quello offerto da collaboratori coordinati e continuativi. Ma questo ovviamente richiede un apposito accertamento, giacché non è affatto anomalo per un professionista conferire, anche frequentemente, incarichi a colleghi onde ottenerne delle prestazioni “tipiche dell’attività”, senza per questo inquadrarli nella propria organizzazione. Per esempio, un avvocato può avvalersi di codifensori o domiciliatari o chiedere pareri ad altri professionisti legali, senza che questo infici la loro indipendenza. Le attività “estranee”, che non porrebbero questi problemi, andrebbero dunque intese come diverse da quelle normalmente compiute in quel tipo di studi (e non solo dalle prestazioni generalmente da essi rese alla clientela).

di diritto anche con riferimento al lavoro altrui, o dispongono il rinvio al giudice d’appello nonostante risultasse dalla narrativa in fatto la presenza di un lavoratore: cfr. RICCIONI, Irap e lavoratori autonomi, cit. Nella giurisprudenza di merito, ad es., Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sez. I, 16 ottobre 2007, n. 493, ritiene che non occorra valutare se l’apporto di lavoro altrui sia o no modesto; Comm. trib. prov. Ferrara, sez. I, 26 novembre 2007, n. 171, ritiene invece non configurare autonomia organizzativa la presenza di un solo lavoratore, se «indispensabile per colmare deficit cognitivi o handicap

fisici del professionista» (peraltro consistenti, se abbiamo ben compreso il caso di specie, nell’incapacità tecnica, e non fisica, di usare quel computer che la giurisprudenza di Cassazione ricomprende tra gli strumenti indispensabili, sicché secondo la Commissione tributaria provinciale lo sarebbe pure un collaboratore addetto all’inserimento e all’elaborazione dei dati: soluzione che lascia perplessi, se si assume invece come termine di paragone una figura di professionista tecnicamente in grado di “fare da solo” almeno l’essenziale per far funzionare la sua attività).


10 Irap.qxd

10-04-2009

786

15:54

Pagina 786

GiustiziaTributaria

4 2008

Si può osservare come il principio così riferito alle prestazioni di altri lavoratori autonomi sia stato applicato in giurisprudenza con riferimento ad un dipendente, con esiti che lasciano perplessi: Comm. trib. prov. Piacenza, n. 24/2008, ha infatti ritenuto irrilevante ai fini dell’autonomia organizzativa l’apporto di una dipendente part time addetta alla pulizia dei locali perché «non funzionale all’esercizio dell’attività professionale». Orbene, prescindendo dalle eventuali peculiarità del caso concreto, ci sembra che la sentenza non sia condivisibile, se intende affermare il principio della rilevanza dei soli dipendenti e collaboratori le cui mansioni siano direttamente funzionali a rendere prestazioni alla clientela (ad es. segretarie, infermiere, ausiliari addetti a ricerche preparatorie o ad elaborazione dati). Infatti, anche mantenere un certo decoro degli ambienti rientra nelle necessità di uno studio professionale: se ad un livello minimale (gettare le proprie cartacce, passare un aspirapolvere portato da casa, ecc.) può provvedere direttamente il titolare, con episodici apporti di terzi o di familiari per le situazioni più gravi, l’assumere un dipendente ad hoc42 parrebbe realizzare un atto di “organizzazione”, inteso a lasciare libero il professionista di dedicarsi per intero al lavoro intellettuale (allo stesso modo dell’assumere una segretaria, per liberarsi dalle incombenze rimesse a questa), e implicare una successiva attività direttiva (l’esperienza insegna che spesso è necessario precisare volta per volta dove e come occorra pulire). Tornando alla circ. n. 45/2008 dell’Agenzia delle Entrate, questa richiede una precisazione laddove assume l’irrilevanza di un rapporto di tirocinio, in quanto “funzionale alle esigenze formative” del tirocinante. Questo infatti non esclude a priori che un abile tirocinante, dopo una fase di avvio, possa fornire al professionista un apporto utile al pari di quello di un collaboratore: dunque, anche se non basta l’esistenza di un rapporto siffatto per considerare applicabile l’Irap al lavoratore autonomo, tuttavia l’amministrazione finanziaria potrebbe provare che ad esso si è sovrapposta nel tempo una collaborazione rilevante ai fini del tributo (salvo poter dedurre le relative spese ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. a, n. 5, D.Lgs. n. 446/1997). In conclusione, anche rapporti aventi natura diversa dal lavoro dipendente o dalla collaborazione coordinata e continuativa, dunque non tipica-

mente finalizzati ad inserire “lavoro altrui” nell’organizzazione, potrebbero, per il loro contenuto effettivo, assicurare al professionista un potere organizzativo e direttivo su altri soggetti: ma per affermare l’esistenza di un’attività autonomamente organizzata occorre un’indagine minuziosa sul modo in cui concretamente si atteggiano siffatti rapporti. Così, se un professionista si fa fornire “in esclusiva” servizi di segreteria da un’impresa (magari la stessa da cui prende in locazione l’immobile arredato adibito a suo studio), con il potere di specificare in qualsiasi momento il contenuto delle prestazioni dei lavoratori a tale compito adibiti onde adeguarla in via immediata alle sue esigenze, può ben apparire che questi siano in effetti “ai suoi ordini”. Se si tratta invece di una società la quale fornisca a più lavoratori autonomi un servizio centralizzato specifico (ad es. di segreteria e front office), con orari e contenuti prefissati, è più probabile che l’organizzazione rimanga sotto il controllo di essa e non dei singoli committenti; ci si potrebbe semmai chiedere se il servizio così reso a ciascun committente valga ad aumentare le rispettive capacità di guadagno, allo stesso modo di un rilevante apparato di beni strumentali (v. infra). Segue: b) le associazioni professionali Un terreno di prova dei principi elaborati dalla giurisprudenza in esame è offerto dai problemi in materia di associazioni tra professionisti. Come si è detto, la stessa Cassazione ritiene giustificata la presunzione che tali figure incrementino la produttività dell’attività, rispetto al mero lavoro personale degli associati, grazie all’impiego in comune di dipendenti e beni da esse organizzati e, anche a prescindere da questo, per la possibilità di collaborazione tra gli associati mediante consultazioni reciproche o sostituzioni. Quindi, non è il singolo associato come tale ad avere un potere organizzativo sugli altri, ma è l’associazione (contemplata quale soggetto passivo Irap dall’art. 3, lett. c, D.Lgs. n. 446/1997) a potersi configurare sub specie di organizzazione di persone, la quale, almeno di regola, “potenzia” il lavoro dei singoli associati pur quando non vi sia un’attività svolta in comune. La circ. 13 giugno 2008, n. 45, al par. 8, cita la giurisprudenza di legittimità in materia, ma ritiene altresì applicabile l’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997,

42 Ancorché part time: avere un lavoratore a tempo pieno per queste incombenze parrebbe superfluo persino per uno studio professionale medio-grande.


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 787

Irap 4 2008 787

laddove considera in ogni caso presupposto Irap «l’attività esercitata dalle società e dagli enti». Tuttavia, laddove la Cassazione nega che l’associazione professionale sia un centro di interessi dotato di autonomia funzionale, sottintende non trattarsi di un “ente”: resta così necessario verificare se l’attività da essa svolta sia in concreto autonomamente organizzata. D’altra parte, tra le sentenze sopra riportate, quelle che si sono occupate di associazioni professionali sono un esempio eloquente della difficoltà della giurisprudenza di merito ad adeguarsi in modo omogeneo agli indirizzi elaborati dalla Cassazione. Così, Comm. trib. reg. Sicilia, n. 19/2008, nel decidere su un’associazione di quattro professionisti, si dedica ad un’ampia ricostruzione in punto di diritto, priva tuttavia di riferimenti alla giurisprudenza della sezione tributaria; pur citando Corte cost. n. 156/2001, la Commissione tributaria conclude considerando non indispensabili «quantità anche minime di capitale o lavoro altrui», giacché per l’autonomia organizzativa basterebbero «la capacità di ottenere credito o la possibilità di procurarsi la clientela»: opinione, questa, in chiaro contrasto con quelle della Cassazione e della Corte costituzionale, ancorché in astratto rispettabile e compatibile con il dato normativo. Comm. trib. prov. Foggia, n. 280/2007 si diffonde sul significato dell’autonomia organizzativa, quale «contesto creato e voluto dallo stesso libero professionista, ma capace di fornire un apporto qualitativo e quantitativo alle prestazioni professionali, in forma autonoma e a prescindere dai requisiti professionali attribuibili al soggetto titolare», precisando come la realizzi anche la «collaborazione di altri professionisti che concorrono in maniera sinergica al risultato finale dell’attività»: tuttavia, al cospetto di un’associazione di tre consulenti del lavoro, anziché dar conto nella motivazione di un’analisi in concreto sullo svolgimento di detto rapporto associativo, volta a verificare la sussistenza o meno di una siffatta sinergica collaborazione, afferma semplicemente che «la valutazione di questi elementi, rilevati dal quadro RE della dichiarazione dei redditi», non farebbe riconoscere nel caso di specie un’attività autonomamente organizzata. Nemmeno Comm. trib. prov. Ascoli Piceno, n. 7/2008 accenna alla giurisprudenza della Cassa-

43 Anche se appare corretta l’affermazione di insufficienza, per determinare l’autonomia organizzativa, dei

zione, ed in effetti appare ben lontana dalle posizioni di questa l’interpretazione del concetto di “attività autonomamente organizzata”, quale organizzazione concretizzata da «un insieme di capitali e lavoro» che «da sola, a prescindere dall’attività intellettuale del professionista, dovrebbe essere in grado di produrre quella ricchezza atta a giustificare l’applicazione dell’imposta»43. L’aspetto da segnalare è però la negazione di autonomia organizzativa del ricorrente, in quanto svolge la sua attività “non in nome e per conto proprio, ma a favore di associazioni professionali” e quindi opera sotto il “coordinamento e controllo altrui”. In effetti, la Commissione tributaria provinciale non chiarisce se il professionista operasse come associato ovvero come mero collaboratore di studi associati (e l’uso del plurale aumenta l’ambiguità della motivazione): ma se fosse vera la prima ipotesi, la sentenza assimilerebbe gli associati a prestatori di lavoro, sicché l’autonomia organizzativa delle associazioni professionali sarebbe in re ipsa. Una siffatta impostazione non pare tuttavia conforme né alla più complessa e varia natura di quelle figure, né all’indirizzo della Cassazione, secondo la quale l’associazione può dimostrare che i beni e servizi utilizzati in comune e le modalità di svolgimento del rapporto associativo non comportino un quid pluris significativo, rispetto alla produttività del lavoro individuale degli associati. Più in dettaglio, se è normale (e quindi è lecito presumere, in assenza di elementi in contrario) che un’associazione di professionisti svolga un’attività nella quale confluiscono gli apporti lavorativi degli associati (tale dunque da imputare ad essa la produzione del valore aggiunto) e lo faccia mediante un’organizzazione autonoma, tuttavia non è esclusa la possibilità di dimostrare come, in concreto, l’accordo associativo abbia invece una funzione di mero riparto di costi comuni ai partecipanti, ognuno dei quali svolga distintamente la propria attività. In quest’ultimo caso occorrerebbe accertare specificamente se ciascun professionista, combinando mezzi propri e mezzi e servizi comuni, risulti avvalersi di un’organizzazione tale da incrementare la produttività del suo lavoro fino a renderlo autonomamente organizzato (con l’ulteriore esigenza di distinguere un’attività individuale eventualmente svolta separatamente da quella comune).

mezzi propri del professionista di cui si parla nella sentenza, cioè abbonamenti a riviste e materiale scientifico

di aggiornamento professionale.


10 Irap.qxd

10-04-2009

788

15:54

Pagina 788

GiustiziaTributaria

4 2008

Segue: c) l’inserimento del professionista in un’organizzazione altrui Si è visto or ora come Comm. trib. prov. Ascoli Piceno, n. 7/2008, pur con significative ambiguità e, a nostro avviso, generalizzando ove occorre distinguere, sembri negare ai professionisti associati la componente soggettiva dell’autonomia organizzativa, consistente (secondo la formula usata dalla Cassazione) nel non essere «inseriti in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse». Un altro caso del genere è quello del professionista il quale presti la sua opera nell’ambito di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa. Dal testo dell’art. 50, lett. c-bis, T.U.I.R., risulta che tali rapporti producono redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente se le collaborazioni non rientrino nell’oggetto dell’arte o professione esercitata dal contribuente: dunque, in tale ultimo caso, il reddito è assorbito da quello professionale44. Ma la logica interna dell’Irap ci sembra richiedere distinzioni più complesse, per salvaguardare il requisito dell’autonomia organizzativa: occorre guardare, dunque, non tanto alla qualificazione del reddito ai fini Irpef, quanto alla situazione del professionista sotto detto profilo. Un esempio è offerto da Comm. trib. II grado di Bolzano, n. 2/2008, la quale ha ritenuto sufficiente a escludere l’applicazione dell’Irap ad una commercialista appunto il fatto che questa operasse esclusivamente nell’ambito di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa con lo studio di un altro dottore commercialista. La sentenza non prende nemmeno in considerazione il problema se il riconoscimento dell’attività come collaborazione coordinata e continuativa potesse essere ostacolato dall’inquadramento quale professione protetta. Si cura invece delle concrete modalità di esercizio, osservando come non abbiano rilievo la possibilità per la professionista di avvalersi delle strutture di quello studio e di auto-organizzare il proprio lavoro, né l’entità degli introiti realizzati. Né il giudice doveva farsi influenzare da considerazioni sul rischio di “facili elusioni da parte dei professionisti”, ma limitarsi ad applicare la legge secondo i corretti canoni interpretativi, prescindendo dagli eventuali riflessi socio-economici della disciplina. Se abbiamo ben inteso, l’elusione paventata riguarda la possibilità di sottrarre all’Irap la quota

44 Sia permesso rinviare sul punto a SCHIAVOLIN, L’imposta regionale sulle attività produttive, cit., 194 ss.

di valore aggiunto prodotta in uno studio professionale dall’attività di soggetti operanti in esso in forza di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa con il titolare, in quanto i primi non sono soggetti passivi, ma non è prevista l’indeducibilità dei loro compensi. Tuttavia, se tali rapporti effettivamente escludono l’autonomia organizzativa dei collaboratori (ferma la possibilità che l’Agenzia delle Entrate provi il contrario), il problema riguarda l’interpretazione dell’art. 11, comma 1, lett. b, n.3, D.Lgs. n. 446/1997, laddove dichiara indeducibili «i costi per prestazioni di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 49, comma 2, lettera a, e 3, del citato Testo Unico delle imposte sui redditi». Detta norma rinvia tuttora ad una disposizione abrogata dalla L. 342/2000, la quale, quando la collaborazione non solo aveva «contenuto intrinsecamente artistico o professionale», ma rientrava nell’oggetto dell’arte o professione esercitata dal contribuente, la escludeva dalla sua previsione, come oggi l’art. 50, lett. c-bis, T.U.I.R., ne esclude l’assimilazione ai redditi di lavoro dipendente. Occorre dunque concludere che, se un soggetto esercita una professione, lo svolgimento di “alcuni incarichi” tipici di questa con modalità in astratto riconducibili alla collaborazione coordinata e continuativa non ne sottrae i compensi al regime Irap dell’attività principale (essi saranno perciò tassabili in capo all’esercente, se autonomamente organizzato, e deducibili comunque per il committente)45. Invece, quando un soggetto, sia pure iscritto ad un albo professionale, operi “esclusivamente” come collaboratore di un altro professionista, ci sembra che il suo reddito sia assimilabile al lavoro dipendente, in quanto la disciplina in materia di imposte sui redditi parrebbe presupporre come necessaria ai fini dell’assorbimento nel reddito professionale un’arte o professione esercitata in via principale con modalità diverse dalla collaborazione, in questo caso mancante. Risulterebbe dunque applicabile l’indeducibilità sancita dall’art. 11, comma 1, lett. b, n. 3, D.Lgs. n. 446/1997, e ciò dovrebbe bastare a dissuadere dalla stipulazione di contratti di collaborazione a scopo elusivo dell’Irap, perché l’indeducibilità per il committente dell’intero compenso è più onerosa della tassazione in capo al collaboratore del solo valore della produzione netta.

45 Come si è detto, Cass., sez. trib., n. 10594/2007, ha ritenuto che ciò non avvenga per l’attività di amministra-

tore di società svolta da un dottore commercialista senza usare l’organizzazione del proprio studio.


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 789

Irap 4 2008 789

Segue: d) l’impiego di beni strumentali non indispensabili Riguardo alla soglia di beni strumentali eccedente il minimo indispensabile per lo svolgimento dell’attività, secondo la circ. n. 45/2008 dell’Agenzia delle Entrate, dalla giurisprudenza di legittimità risulterebbe la sufficienza di “uno studio attrezzato” per avere un’autonoma organizzazione; la disponibilità di beni strumentali avrebbe rilievo «anche qualora non vengano acquisiti direttamente, ma siano forniti da terzi, a qualunque titolo», e anche se il costo di essi fosse stato già interamente dedotto. Quanto al primo punto, la posizione dell’Agenzia delle Entrate sulla rilevanza di un qualsiasi “studio attrezzato” sottintende che sia soggetto ad Irap chiunque disponga di mezzi superiori a quelli di cui potrebbe disporre “a casa propria” un lavoratore dipendente od un collaboratore46. Risalendo agli esempi fatti nella giurisprudenza di legittimità, essenziali sarebbero un’autovettura, un computer, una stampante e mobili da ufficio. In questo modo, l’Agenzia delle Entrate sembra presupporre che il “livello base” delle attività professionali debba ricercarsi in forme di mera consulenza o assistenza, realizzabili attingendo essenzialmente alla preparazione e alle energie psicofisiche del lavoratore autonomo, salva la possibilità di spostarsi quanto serva a svolgere le prestazioni richieste e di dare una leggibile forma scritta ai risultati dell’attività. In questa logica, per esempio, un medico potrebbe campare facendo solo visite a domicilio, anziché attrezzarsi uno studio, o se specialista potrebbe limitarsi a consulti con i colleghi; un avvocato potrebbe semplicemente sostituirne altri in udienza o fornire pareri, e così via. A parte il dubbio sulla possibilità di individuare per qualsiasi tipo di attività di lavoro autonomo una modalità di esercizio “senza studio”, inteso come locali appositi distinti dall’abitazione, la Cassazione non ci sembra avere esplicitamente dichiarato che possa sfuggire all’Irap solo chi non abbia uno “studio attrezzato”, bensì che “lo studio o i collaboratori” “di regola” rendono “più efficace o produttiva l’attività”. In questa logica, la

46 Criterio utilizzato in effetti, ad es., da Cass., sez. trib., n. 3672/2007. 47 Critiche ad una lettura tale da considerare soggetto ad Irap chiunque impieghi un qualsiasi locale sono mosse da COLLI VIGNARELLI, L’Agenzia delle Entrate si pronuncia ancora in tema di rilevanza del requisito organizzativo in

Commissione tributaria ben potrebbe giudicare rientrante nel “minimo comunemente ritenuto indispensabile per l’esercizio dell’attività” anche la disponibilità di appositi ambienti, in quanto imprescindibili per “poter lavorare”, e quindi considerare i locali in concreto impiegati dal ricorrente insufficienti a renderlo autonomamente organizzato, giacché in mancanza di essi non potrebbe trarre il minimo guadagno dalla sua mera capacità lavorativa47. Il secondo punto enunciato dalla circolare, riguardante la rilevanza ai fini dell’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 anche di beni forniti da terzi a qualsiasi titolo, appare condivisibile, purché quanto così ottenuto sia in concreto tale da realizzare il requisito dell’autonoma organizzazione. In effetti, la differenza tra chi “si organizza” acquistando beni strumentali e chi, per esempio, li prenda in locazione concerne, oltre ai profili giuridici, l’entità dei capitali investiti nell’attività, mentre per riconoscere se la capacità di guadagno dipendente dal mero lavoro personale sia potenziata o meno da quei beni occorre guardare alle caratteristiche di essi. Quanto alla varietà delle forme giuridiche prospettabili, si è accennato sopra alla disponibilità derivante da rapporti di associazione professionale ed alla possibilità di contratti con imprese che forniscano, per esempio, servizi di segreteria e attrezzature. In tale ultimo caso, come si è detto, sembra necessario verificare se, per ciascun professionista fruitore di questi servizi, i medesimi, assieme agli altri beni, consentano un incremento rilevante dei guadagni rispetto a quanto permettono le sue energie lavorative. Non è nemmeno escluso che in concreto il fornitore dia al fruitore un “potere organizzativo”, consentendogli di adeguare alle proprie esigenze del momento il contenuto della prestazione (per esempio, richiedendo in via occasionale l’uso di particolari strumenti o lo svolgimento di determinate incombenze o la modifica degli orari), ma l’essenza dell’attività di organizzazione da parte del professionista si può riconoscere anche nella semplice stipulazione di siffatti accordi, non apparendo sufficiente per considerarli irrilevanti il fatto in sé che simili strutture siano “organizzate” da altri48.

materia di Irap, cit., 1127 ss., che porta come esempio la differenza tra l’uso di una stanza della propria abitazione e di una pluralità di locali appositi, e da FERRANTI, I requisiti per l`esclusione dall`Irap dei «piccoli studi professionali», cit., 2252, che nota la vaghezza della formula “studio at-

trezzato” e l’incoerenza con l’esclusione dei “contribuenti minimi”. 48 Cfr. SCHIAVOLIN, L’imposta regionale sulle attività produttive, cit., 312; FERRANTI, Commento, cit., 2200; mentre RICCIONI, Irap e lavoratori autonomi, cit., considera non rilevante la fruizione di strutture organizzate da altri.


10 Irap.qxd

10-04-2009

790

15:54

Pagina 790

GiustiziaTributaria

4 2008

Nulla quaestio, in terzo luogo, sulla rilevanza di beni il cui costo fosse stato interamente dedotto o ammortizzato in anni precedenti: ciò non ridurrebbe di per sé l’utilità di essi, ma semplicemente potrebbe escludere che risultino dalla dichiarazione del periodo d’imposta cui si riferisce la controversia, sollevando dunque un problema di ordine probatorio, del quale si dirà al prossimo paragrafo. Passando ora dalla posizione dell’Agenzia delle Entrate a quella della giurisprudenza di merito, quale emerge dalle sentenze sopra riportate, conviene osservare come l’indirizzo della Cassazione non sembri ancora uniformemente recepito: allineate ad esso risultano Comm. trib. prov. Foggia, n. 280/2007, e Comm. trib. II grado Bolzano, n. 2/2008; invece, Comm. trib. prov. Ascoli Piceno, n. 7/2008, Comm. trib. reg. Sicilia, n. 52/2008, e Comm. trib. reg. Umbria, n. 80/2008, restano legate all’idea che l’organizzazione rilevante sia quella tendenzialmente capace di produrre la ricchezza tassata “quasi a prescindere” dall’attività intellettuale del professionista, ovvero di «svincolare, almeno potenzialmente, l’attività diretta del professionista nel produrre reddito»; per converso, Comm. trib. reg. Sicilia, n. 19/2008, e Comm. trib. prov. Mantova, n. 35/2008, continuano a reputare sufficiente un’auto-organizzazione del professionista, considerandolo soggetto ad Irap anche in mancanza di «una quantità pur minima di capitale o lavoro altrui», ovvero «a prescindere dalla qualità e quantità dei fattori produttivi organizzati» (ad es. anche se utilizzi solo un computer e un’autovettura); mentre Comm. trib. reg. Lazio, n. 20/2008, si appaga di un «rilevante impiego di capitali e mezzi finanziari», desunto dall’entità dei costi dedotti, senza approfondire il ruolo svolto da ciascun costo nell’esercizio dell’attività. Pur volendo credere che in breve tempo le indicazioni della Cassazione saranno recepite in modo omogeneo e corretto dai giudici di merito, ci pare significativo come in vari casi essi, senza dissentire esplicitamente, abbiano fatto una scelta interpretativa nel segno della continuità con l’uno o l’altro dei precedenti indirizzi, disattesi dalla Suprema Corte con ampie argomentazioni, ma forse più semplici da applicare in pratica. In effetti, i criteri elaborati

49 Cfr. COCIANI, L’“autonoma organizzazione” ai fini Irap, cit., 596 ss. 50 Sia permesso rinviare a SCHIAVOLIN, L’imposta regionale sulle attività produttive, cit., 270 ss. 51 Che cioè l’apparato di beni non sia tale da incrementare la produttività

dai giudici di legittimità per riconoscere se i beni utilizzati diano luogo ad un’autonoma organizzazione possono apparire vaghi, suscettibili di produrre conseguenze irrazionali e discriminatorie49 e opinabili quanto al fondamento concettuale da cui dovrebbero essere giustificati50. Non è escluso dunque che, se vi è davvero un dissenso tra i giudici di merito, possa permanere e svilupparsi fino ad influenzare lo stesso legislatore. Intanto, è significativo che l’esigenza di semplicità applicativa si sia manifestata nella scelta della circ. n. 45/2008, par. 5.4.2, di invitare gli uffici a considerare non autonomamente organizzato il professionista rientrante nei limiti individuati dall’art. 1, commi 96 ss., L. n. 244/2007 per l’applicabilità del regime dei “contribuenti minimi”, anche se esso non se ne avvalga e pure con riferimento al passato (ferma restando, per chi non vi rientri, la valutazione in concreto sulla sussistenza o meno dell’organizzazione). Considerato come detti requisiti, a parte l’assenza di dipendenti e collaboratori, siano definiti solo sul piano quantitativo (con riferimento all’ammontare di compensi e di acquisti di beni strumentali), prescindendo dai criteri indicati dalla Cassazione e comunque dal sostrato concettuale di essi51, la ragione per sostituire i primi ai secondi sembra esaurirsi nell’esigenza di ridurre le controversie e semplificarne la gestione, superando i delicati problemi di accertamento in fatto che sarebbero necessari alla luce della giurisprudenza della Suprema Corte. L’unico aggancio sistematico di questo indirizzo operativo potrebbe essere reperito nell’esenzione da Irap, prevista dall’art. 1, comma 104, L. n. 244/2007 per chi effettivamente si avvalga del regime dei “minimi”, se si assume che il legislatore consideri quei soggetti “economicamente marginali” e tale inquadramento possa restare valido anche se essi optino per il regime ordinario. Tuttavia, si è osservato in dottrina come la circ. n. 45/2008 non segua una siffatta impostazione, giacché per gli esercenti attività d’impresa nega la possibilità di escludere l’autonomia organizzativa allorché si trovino nella stessa situazione52, in quanto l’esenzione da Irap sarebbe un aspetto di detto regime, volto solo a semplificare gli adempimenti fiscali53. Al di là del-

rispetto al lavoro personale e non richieda un’apposita attività organizzativa. 52 Ossia, pur rientrando nei limiti del regime dei minimi, abbiano optato per la tassazione ordinaria. 53 Cfr. COLLI VIGNARELLI, L’Agenzia delle

Entrate si pronuncia ancora in tema di rilevanza del requisito organizzativo in materia di Irap, cit., 1129 ss, che ravvisa pertanto una violazione del principio di uguaglianza.


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 791

Irap 4 2008 791

l’incoerenza nell’individuare la ratio dell’esenzione, se il riferimento della circ. n. 45/2008 ai presupposti per il regime dei “minimi” va inteso soltanto come criterio operativo per semplificare la gestione delle controversie, si può comprendere perché la direttiva così fornita si limiti alle situazioni in cui l’Agenzia delle Entrate ritiene necessario un accertamento ed un contraddittorio sulla situazione di fatto, cioè alle attività professionali. Ma proprio perché non si può dare ai requisiti per tale regime il valore di una regola sostanziale che si sovrapponga all’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997, l’indicazione della Circolare dovrebbe essere intesa dagli uffici nel senso di non contestare la pretesa del contribuente provvisto di detti requisiti, purché non dispongano di prove decisive dell’esistenza di un’organizzazione autonoma. Su quest’ultimo aspetto conviene tuttavia tornare dopo aver accennato alle questioni probatorie. Segue: e) l’onere della prova Ovviamente, se il contribuente non si è dichiarato soggetto ad Irap, l’onere della prova riguardo alla realizzazione della fattispecie di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 grava sull’Agenzia delle Entrate che procede ad accertamento54; se, invece, ha dichiarato dovuta l’imposta senza versarla, o se ne ha chiesto il rimborso, deve chiarire nel ricorso le ragioni, rispettivamente, dell’illegittimità dell’iscrizione a ruolo o del diniego espresso o tacito di rimborso, e poi dimostrare in giudizio di aver errato nella dichiarazione, perché in effetti egli non svolge un’attività autonomamente organizzata. Peraltro, trattandosi di provare un fatto negativo, il ricorrente rischia di essere alle prese con una probatio diabolica, ove l’ufficio tributario contesti le sue affermazioni e la sufficienza delle prove da lui prodotte. Riguardo in particolare alle controversie di rimborso, la circ. n. 45/2008, alla luce della giurisprudenza della Cassazione secondo la quale la Commissione tributaria può far riferimento ai costi dedotti nella dichiarazione per riconoscere gli eventuali elementi organizzativi impiegati, invita gli uffici tributari, al par. 5.5, a svolgere indagini per conoscere gli elementi di cui il contribuente effettivamente disponga (onde, se del caso, contestare le sue affermazioni) e al par. 10 a porre in luce l’eventuale mancata dimostrazione da parte del con-

54 Cfr. COLLI VIGNARELLI, Il “dies Irap” è giunto, cit. 55 Per l’insufficienza come prova della

tribuente dell’assenza di autonoma organizzazione, per esempio, per non avere prodotto le scritture contabili o per non aver fornito distintamente detta prova per ciascun anno di cui si discute. Dunque, la prova richiesta al contribuente consiste nella dimostrazione delle specifiche modalità di svolgimento della sua attività, che starà alla Commissione tributaria valutare per decidere se sia o no autonomamente organizzata55. Qualora l’amministrazione finanziaria scopra beni, servizi o rapporti giuridici da esso non indicati, potrà produrre i documenti in suo possesso (per esempio, estratti delle dichiarazioni degli anni precedenti e degli studi di settore) dai quali emergano tali fatti, toccando allora al ricorrente l’ulteriore onere di dimostrare che nemmeno tenendo conto di questi nuovi elementi sia superata la soglia dell’autonomia organizzativa. Dalle sentenze sopra riportate, in effetti, appare che spesso le Commissioni si appagano della documentazione prodotta dal contribuente, qualora non sia contestata in modo convincente dall’amministrazione finanziaria. Comm. trib. reg. Sicilia, n. 52/2008, afferma addirittura che l’onere probatorio graverebbe sull’ufficio “che nella fattispecie de qua ha del tutto omesso alcun sostegno probatorio in ordine al tipo di organizzazione del professionista” e considera perciò soltanto gli elementi indicati da quest’ultimo (tre autovetture non possedute contemporaneamente, un telefono cellulare e altri strumenti), giudicandoli insufficienti a costituire un’organizzazione “imprenditoriale”. Anche Comm. trib. prov. Piacenza, n. 24/2008, sembra confidare nelle mere affermazioni del ricorrente, «nulla in contrario contestando l’ufficio e tantomeno provando». Comm. trib. reg. Umbria, n. 80/2008 pur riconoscendo «che il contribuente non ha abbondato nell’onere della prova, circa l’inesistenza di elementi organizzativi nell’espletamento dell’attività» considera non sussistente l’autonomia organizzativa per la modesta entità del volume di affari, del reddito professionale e dei beni impiegati (computer e autovettura) risultanti dal libro degli ammortamenti, «senza alcuna smentita dall’ufficio e prova contraria dello stesso», giacché quest’ultimo non si sarebbe dedicato, come avrebbe dovuto, ad «analisi e considerazioni» sul caso di specie. Al di là delle opinabili enunciazioni di principio, sem-

mera rappresentazione dei dati esposti nel quadro E della dichiarazione dei redditi, da cui risultino co-

sti e compensi significativi, cfr. Comm. trib. reg. Campania, 18 gennaio 2008, n. 240.


10 Irap.qxd

10-04-2009

792

15:54

Pagina 792

GiustiziaTributaria

4 2008

bra chiaro che i ricorrenti avessero descritto in modo plausibile come si svolgesse la loro attività e l’ufficio tributario non avesse contestato i fatti indicati, né dimostrato l’esistenza di altri elementi suscettibili di far superare la soglia dell’autonomia organizzativa. D’altronde, per l’Agenzia delle Entrate è assai oneroso dedicarsi ad indagini dettagliate per ogni controversia di rimborso Irap, alla ricerca di eventuali elementi di organizzazione non segnalati dal ricorrente. Si può intendere in questa logica, come si è detto, la direttiva della circ. n. 45/2008 di considerare non autonomamente organizzati i soggetti ammessi al regime dei contribuenti minimi, ancorché abbiano optato per quello ordinario. Poiché, infatti, i presupposti di tale regime sono facilmente verificabili in base alle dichiarazioni, gli uffici possono evitare di sprecare la loro capacità operativa per ricerche sproporzionate rispetto agli importi in contestazione; ma se dei fatti ulteriori fossero già conosciuti, potrebbero essere sottoposti alla Commissione tributaria per la valutazione dell’eventuale superamento della soglia dell’autonomia organizzativa. Segue: f) Le attività d’impresa e delle società La circ. n. 45/2008 condivide la giurisprudenza di legittimità secondo la quale sarebbe irrilevante, quando un’attività sia produttiva di reddito d’impresa, come nel caso degli agenti di commercio, verificare se in concreto sia svolta senza dipendenti né mezzi significativi, ma dà atto che alcune sentenze ritengono doversi qualificare simili attività come impresa o lavoro autonomo a seconda delle modalità organizzative. Anche nella giurisprudenza di merito si contrappongono questi due indirizzi56. Su una posizione estrema si colloca Comm. trib. prov. Roma, n. 94/2008, sopra riportata, in quanto considera necessario l’accertamento in concreto sulle caratteristiche dell’organizzazione addirittura per una S.a.s. Infatti, l’art. 2 D.Lgs. n. 446/1997, mentre non prevede alcuna differenza di trattamento tra imprese individuali e lavoratori autonomi sotto il profilo dell’autonomia organizzativa, dispone chiaramente che «l’attività esercitata dalle so-

56 Per la necessità di un accertamento in concreto sull’autonomia organizzativa di un artigiano, cfr. Comm. trib. prov. Pistoia, 27 giugno 2007, n. 98, in Giust. Trib., n. 4/2007, 708, che ha ritenuto non esservi ragione per far discendere un diverso tratta-

cietà [...] costituisce in ogni caso presupposto di imposta»: pertanto, il legislatore considera una struttura societaria per definizione “autonomamente organizzata”. Inoltre, la sentenza dichiara di aderire ai principi introdotti dalla Cassazione nel 2007, ma in realtà ritiene necessaria un’organizzazione «autonoma dall’apporto dei soci, peraltro tutti appartenenti alla stessa base familiare nella fattispecie», in contrasto con l’indirizzo dei giudici di legittimità per cui rileva anche un apparato che semplicemente incrementi la produttività del lavoro personale dell’esercente l’attività. La sentenza, inoltre, esclude nel caso concreto l’esistenza di tale organizzazione per l’assenza di dipendenti e collaboratori, la modesta entità dei beni strumentali rispetto al valore della produzione netta, la rilevanza dei costi rispetto ai ricavi, ma in questo modo trascura le indicazioni fornite dalla Suprema Corte riguardo alla collaborazione nelle associazioni professionali, alla funzione dei mezzi impiegati come mero supporto alla capacità di lavoro del titolare, all’esigenza che i costi non siano significativi in valore assoluto. Essa si segnala dunque come una conferma della difficoltà di corretta recezione nella giurisprudenza di merito dell’indirizzo elaborato dalla Cassazione. Peraltro, a noi non sembra convincente la limitazione del vaglio sull’esistenza in concreto dell’autonomia organizzativa alle attività che producano reddito di lavoro autonomo, fondata dalla Suprema Corte meramente sull’affermazione di Corte cost. n. 156/2001 per cui «l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa». La Corte costituzionale infatti non si è riferita alle fattispecie le quali producono reddito d’impresa ai sensi dell’art. 55, T.U.I.R., bensì ad un concetto generale, presupposto anche dall’art. 2082, c.c., laddove richiede appunto un’attività economica “organizzata” per riconoscervi una “impresa”, mentre la disciplina Irpef prescinde da tale requisito quando l’oggetto dell’attività sia commerciale. Poiché i criteri elaborati dalla Cassazione si reggono sulla posizione assunta dalla Corte costituzionale, è comprensibile che si vogliano evitare contraddizioni con quanto affermato nella sentenza n. 156/2001. Per questo, ci sembra, anche le decisioni della Suprema Corte aperte ad un accertamento in

mento di soggetti egualmente privi di elementi di organizzazione dal mero inquadramento di essi tra i professionisti o tra i piccoli imprenditori; analogamente, per un agente di commercio, cfr. Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XI, 16 gen-

naio 2008, n. 81; contra, per agenti di commercio, Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. XIX, 19 febbraio 2008, n. 105 e Comm. trib. reg. Lazio, sez. XXII, 15 febbraio 2008, n. 3.


10 Irap.qxd

10-04-2009

15:54

Pagina 793

Irap 4 2008 793

concreto sul livello organizzativo degli agenti di commercio si esprimono in termini di qualificabilità di essi come lavoratori autonomi ai fini Irap, qualora non siano autonomamente organizzati. Emerge così uno schema concettuale simile a quello utilizzato per l’Ilor da Corte cost., 14 aprile 1986, n. 87, laddove ritenne che, per rispettare la ratio di detto tributo, ai fini di esso dovessero considerarsi d’impresa non tutti i redditi qualificati come tali ai fini Irpef, bensì solo quelli derivanti da una fonte patrimoniale. Ma a nostro avviso, poiché l’art. 2, D.Lgs. n. 446/1997 non fa distinzioni tra attività di impresa e professionali, nemmeno l’interprete dovrebbe farne ai fini dell’accertamento sull’esistenza o meno dell’autonomia organizzativa: dunque, se si ritiene quest’ultima esclusa per chi operi usando soltanto le proprie energie lavorative, un vaglio in concreto dovrà essere fatto anche per le attività contemplate nell’art. 55, T.U.I.R. Conclusioni La recezione dell’indirizzo della Cassazione in materia di autonomia organizzativa da parte della giurisprudenza di merito presenta un panorama differenziato e pieno di sfumature: alcune sentenze ne fanno fedele applicazione, altre sembrano ignorarlo, altre ancora lo citano genericamente ma si rifanno piuttosto a criteri da esso divergenti. Pare ovvio che occorra del tempo per assistere, a livello delle Commissioni tributarie, al formarsi di orientamenti diffusi e consolidati conseguenti ad un nuovo indirizzo dei giudici di legittimità. Tuttavia, le sentenze in materia di Irap hanno avuto una tale notorietà, anche giornalistica, da far pensare che il problema sia non tanto un’inadeguata informazione dei giudici tributari, quanto il contenuto stesso del principio da applicare. La Cassazione, infatti, se ha disatteso interpretazioni che comportavano un ampio margine di incertezza (ad es. l’autonomia come possibilità di prescindere dal coinvolgimento personale del titolare, la valutazione sulla rilevanza in concreto del lavoro altrui), ha indicato ai giudici di merito cosa dovrebbero verificare utilizzando comunque categorie concettuali non molto nette, tali da lasciare un’ampia “zona grigia”: si pensi, per esempio, al rilievo dato alle caratteristiche socio-economiche di ciascun genere di attività, alla necessità di apprezzare l’indispensabilità dei beni impiegati ovvero l’idoneità di essi a rafforzare la produttività del mero lavoro del professionista o

a produrre un valore aggiunto (criterio tanto più fumoso giacché quest’ultimo può sussistere anche in caso di perdita e, sul piano economico, senza bisogno di un’organizzazione). Corte cost. n. 156/2001 aveva affermato che «in mancanza di specifiche disposizioni normative», l’accertamento costituisce questione di mero fatto da verificare caso per caso. Tuttavia, la certezza del diritto richiede che le Commissioni tributarie facciano riferimento a regole chiare per giudicare in questa materia, e prima ancora esse servono per ridurre la conflittualità tra contribuenti ed amministrazione finanziaria. In realtà, oggi assistiamo al graduale sviluppo di queste regole in via pretoria, in base ai criteri posti dalle sentenze della Cassazione ed attraverso la sedimentazione nella giurisprudenza di merito di certi standard comunemente accettati come soglia dell’irrilevanza Irap per i vari tipi di attività. È questo un esempio interessante di costruzione del diritto ad opera della giurisprudenza, ove le massime della Suprema Corte, riguardando criteri di apprezzamento dei fatti, operano come spunti da sviluppare attraverso la valutazione dei singoli casi concreti, anziché in guisa di regole puntuali. Ma sul piano pratico converrebbe disporre di criteri legislativi nitidi, applicabili dai contribuenti con tranquillità ai fini della loro dichiarazione, anziché di una disciplina tale da richiedere, anno per anno, un accertamento giudiziale sulla soggezione ad Irap dell’attività. Il riferimento della circ. n. 45/2008 alla sufficienza dei requisiti dei contribuenti minimi, a prescindere dalla scarsa coerenza di esso con la logica dei criteri individuati dalla Cassazione, manifesta la convinzione dell’impossibilità di gestire un contenzioso di massa applicando fedelmente detti criteri. Se le Commissioni tributarie si convinceranno che essi debbono essere estesi anche ad esercenti attività produttive di reddito d’impresa, pure la Suprema Corte potrebbe essere indotta ad un ripensamento: ma tale (condivisibile) soluzione amplierebbe di molto il numero delle controversie. Sul piano pratico, non tutto il male verrebbe per nuocere, se ciò servisse a sollecitare un intervento legislativo che si è fatto già troppo attendere, inteso ad esonerare dal tributo le situazioni al di sotto di una certa soglia, definita in base a criteri astratti, applicabili dai contribuenti nella dichiarazione senza incertezze. Sempre che per la stessa Irap non arrivi prima la soppressione tante volte data per imminente.


11 Irpef.qxd

7-04-2009

794

12:59

Pagina 794

GiustiziaTributaria

4 2008

IRPEF ANCORA SULL’ATTRIBUZIONE PRO QUOTA AI SOCI DEI MAGGIORI UTILI ACCERTATI IN CAPO ALLA SOCIETÀ A RISTRETTA BASE SOCIALE

113

Commissione tributaria regionale della Campania, sez. L, 25 giugno 2007, n. 130 Presidente: Vacca - Relatore: Schiappa Irpef - Redditi di capitale - Accertamento di utili extracontabili di società di capitali - Ristretta base sociale - Presunzione di distribuzione degli utili ai soci - Ammissibilità - Prova contraria Ammissibilità (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 5, comma 1 e 41) Nel caso di accertamento di utili non contabilizzati a carico di società di capitali a ristretta base azionaria, opera la presunzione di distribuzione pro quota degli utili ai soci, salvo la prova contraria che i maggiori utili siano stati accantonati o reinvestiti. Svolgimento del processo Con atto notificato l’8 novembre 2006 l’Agenzia delle Entrate – ufficio Napoli 3 – ha proposto appello alla sentenza n. 342 emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli – sez. 30 – depositata il 30 settembre 2005 con la quale, in accoglimento del ricorso proposto dal sig. X, veniva annullato l’avviso di accertamento emesso dallo stesso ufficio per maggiore imposta Irpef dovuta per l’anno 1999. L’appellante chiede la riforma della sentenza appellata per errata applicazione dell’art. 41 del T.U.I.R. n. 917/1986, per errata interpretazione dei fatti e per error in judicando; deduce che la società di capitale Beta S.r.l., composta da appena 3 soci, era da considerare a “ristretta base azionaria” e pertanto l’onere della prova sull’accantonamento o reinvestimento degli utili, nel caso di mancata distribuzione ai soci, gravava esclusivamente su questi ultimi, così come da giurisdizione richiamata dalla Corte Suprema di Cassazione. L’appellato si è costituito e ha impugnato l’atto di appello chiedendone il rigetto perché infondato; preliminarmente eccepisce l’inammissibilità dell’appello perché proposto oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c. decorrente dalla consegna materiale di una copia della stessa sentenza all’ufficio per

chiedere ed ottenere lo sgravio del tributo; nel merito deduce che l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società Beta S.r.l. non è stato a tutt’oggi dichiarato legittimo per cui non vi è certezza di quanto contestato al socio appellato, il quale, peraltro, non avrebbe avuto potere decisionale nella società e non partecipava alla gestione della stessa. In data 14 maggio2007 l’appellato ha depositato memorie esplicative delle proprie difese. Il ricorso è stato trattato come da verbale. Motivi della decisione La doglianza dell’ufficio è fondata e va accolta. Preliminarmente va rigettata l’eccezione d’inammissibilità dell’appello così come sollevata dall’appellato in quanto la semplice consegna di una copia non conforme della sentenza, ai fini di ottenere lo sgravio amministrativo delle somme iscritte a ruolo, non fa decorrere il termine ai fini dell’impugnazione. Tale termine, infatti, decorre o dalla formale notifica della sentenza, conforme all’originale, effettuata dall’ufficio giudiziario nelle forme di cui all’art. 137 ss. c.p.c., oppure dalla data di deposito della sentenza presso la segretaria della Commissione provinciale tributaria, con la differenza che nel primo caso il termine per proporre appello è di 60 giorni decorrenti da tale notifica mentre nel secondo caso (ovvero sentenza non notificata) il termine è di un anno e 46 giorni (art. 327 c.p.c.), stante la sospensione dei termini nel periodo feriale. Nel caso di specie la sentenza non era stata notificata a cura del sig. X per cui l’appello notificatogli in data 8 novembre 2006 è tempestivo rispetto al deposito della sentenza avvenuta il 30 settembre 2005. Quanto al merito l’appello è fondato e va accolto nei limiti della presente motivazione. È incontestato che la società di capitale Beta S.r.l., di cui il contribuente X risulta essere socio azionista, sia considerata “a ristretta base azionaria”, perché costituita soltanto da n. 3 quotisti che detengono ciascuno il 33,33% del capitale sociale sottoscritto. La Corte di Cassazione, con numerose senten-


11 Irpef.qxd

7-04-2009

12:59

Pagina 795

Irpef 4 2008 795

ze (cfr. ex plurimis n. 16885/2003) ha affermato: «è jus receptum il principio secondo il quale, nel caso di società di capitali a ristretta base azionaria, in caso di accertamento di utili non contabilizzati, (come nel caso di specie), opera la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili stessi, salvo la prova contraria che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti». Trattasi di presunzione semplice per cui l’onere della prova, al contrario di quanto deciso ed affermato dai primi giudici, grava esclusivamente sulla parte, la quale era tenuta a dimostrare che i maggiori ricavi erano stati accantonati o reinvestiti. «Né occorre», prosegue la Corte di legittimità, «che l’accertamento degli utili extracontabili in capo alla società sia definitivo, stante l’indipendenza del giudizio relativo all’accertamento del reddito del socio» tale prova non è stata fornita. All’uopo va dichiarato inammissibile perché nuovo e proposto soltanto in sede di appello il rilievo del contribuente circa l’assenza del vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, atteso che in primo grado la difesa era focalizzata esclusivamente sull’inesistenza di utili extracontabili e quindi mai distribuiti.

Lo stesso contribuente si dichiara a conoscenza che presso la Comm. trib. prov. di Roma pende il ricorso proposto dalla società Beta S.r.l. avverso l’avviso di accertamento del reddito d’impresa (accertate lire 1.361.921.000), così come enunciato anche dall’ufficio appellante. Poiché esiste un nesso di consequenzialità tra il contenzioso attinente all’accertamento dei redditi di una società e quello riguardante l’accertamento dei redditi di partecipazione da imputarsi al socio, è inevitabile che il giudice investito a statuire sull’ultimo contenzioso di prendere atto della decisione intervenuta nella prima controversia (reddito societario), come affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 14056 del 16 giugno 2006. Pertanto ne consegue, una volta affermato il principio che il socio X è tenuto al pagamento delle imposte sugli utili extracontabili accertati in capo alla società di cui è socio, che le stesse imposte devono essere determinate in proporzione agli utili che saranno accertati in sede del contenzioso proposto dalla stessa società Beta S.r.l., una volta divenuto definitivo. In tali termini va accolto l’appello mentre ricorrono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.

Nota di Giovanna Palma

rietà e di reciproco controllo che la giurisprudenza di legittimità ritiene esistente in tale tipo di società, finendo quindi con l’invertire l’onere della prova e col pretendere dai singoli soci la diabolica dimostrazione (quale prova negativa) della mancata percezione dei maggiori utili ipotizzati. Nonostante il rigoroso orientamento della Corte di Cassazione, e della prevalente giurisprudenza, la problematica è quantomai aperta in quanto la giurisprudenza di merito è ancora fluida.

La sentenza si sofferma sull’annosa problematica riguardante la presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili accertati in capo ad una società di capitali a ristretta base partecipativa, che, per quanto vivacemente criticata dalla dottrina, viene costantemente avallata dalla giurisprudenza di legittimità. Nella concreta fattispecie si è ritenuto legittimo che l’accertamento di maggiori utili non contabilizzati in capo ad una società caratterizzata da una ristretta compagine sociale possa giustificare la presunzione che tali utili siano stati effettivamente distribuiti ai suoi soci in considerazione del carattere familiare e del preteso vincolo di solida-

1 Sullo stesso argomento si vedano Comm. trib. prov. Pistoia, sez. I, 22 gennaio 2007, n. 2, in questa rivista, 2008, 1, 136 ss. e Comm. trib. reg. Puglia, sez. XXIII, 13 aprile 2007, n. 66, con nota di LOVECCHIO, Accertamento delle società a ristretta base e “resistenze” della giurisprudenza di merito, ivi, 138 ss. 2 Cass., sez. I, 4 febbraio1980, n. 780, in Giust. Civ. Mass., 1980, 2; Cass., sez. trib., 14 febbraio 1980, n. 1072 e 1073, ibidem; Cass., sez. trib., 11 di-

Il caso affrontato dalla sentenza Il caso pratico affrontato dalla pronuncia in commento1 riguarda l’ormai nota disputa che vede nettamente contrapposte fra loro la giurisprudenza di legittimità2 e la dottrina3 in ordine alla

cembre 1990, n. 11785, in Boll. Trib., 1991, 467; Cass., sez. trib., 10 marzo 1992, n. 2870, in Boll. Trib.,1993, 1401; Cass., sez. trib., 26 novembre 1994, n. 10059, in Boll. Trib., 1995, 706; Cass., sez. trib., 25 maggio 1995, n. 5729, in banca dati fisconline; Cass., sez. trib., 2 giugno 1995, n. 6225, ibidem; Cass., sez. trib., 15 giugno 1995, n. 6743, ibidem; Cass., sez. trib., 26 gennaio 1995, n. 7215, ibidem; Cass., sez. trib., 3 marzo 2000, n. 2390, ibi-

dem; Cass., sez. trib., 20 marzo 2000, n. 3254, ibidem; Cass., sez. trib., 30 ottobre 2003, n. 16340, in Fisco, 2002, 5989; Cass., sez. trib., 4 dicembre 2006, n. 25688, in banca dati fisconline; Cass., sez. trib., 26 maggio 2008, n. 13485, ibidem; Cass., sez. trib., 29 gennaio 2008, n. 1606, ibidem; Cass., sez. trib., 15 febbraio 2008, n. 3896, in Fisco, 2008, 1609. 3 BEGHIN, L’occulta distribuzione dei dividendi nell’ambito delle società di capitali


11 Irpef.qxd

7-04-2009

796

12:59

Pagina 796

GiustiziaTributaria

4 2008

presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili accertati a capo delle società di capitali a ristretta base familiare o azionaria, che la prima tralatiziamente ritiene legittima4, e che la seconda, invece, contesta con argomentazioni efficaci e persuasive. Nel caso affrontato dai giudici napoletani si discuteva dell’attribuibilità, pro quota, ad uno dei tre soci di una società a responsabilità limitata, dei maggiori utili accertati in capo alla stessa società, e al riguardo, ribaltando l’esito del giudizio di primo grado, la Commissione regionale della Campania si è uniformata al richiamato orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, secondo il quale, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa e dell’accertamento a suo carico di utili non contabilizzati, opera la presunzione di attribuzione di tali utili pro quota ai singoli soci, salvo la prova contraria che i maggiori ricavi siano stati accantonati, reinvestiti o destinati ad altri impieghi. Nel pervenire a tale verdetto, peraltro, la sentenza in commento ha considerato inammissibile il rilievo del contribuente circa l’assenza dei presunti vincoli di solidarietà e di reciproco controllo che avvilupperebbero i soci in considerazione del divieto di jus novorum in grado d’appello, trattandosi di tesi difensiva non svolta col ricorso originario, e, di fronte alla contestazione della non definitività dell’accertamento operato in capo alla società, ha statuito che l’utile da attribuirsi a ciascun socio debba comunque essere proporzionale a quanto definitivamente accertato a carico della società partecipata.

a ristretta base tra automatismi argomentativi e prova per presunzioni, in Riv. Giur. Trib., 2004, 433; MARINO, Le società di capitali a base azionaria ristretta o familiare e la presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori ricavi accertati, in Boll. Trib., 1998, 623; NAPOLITANO, Il maggior reddito accertato alla società non significa distribuzione di utili, in Corr. Trib., 1994, 2435; PAPARELLA, La presunzione di distribuzione degli utili nelle società di capitale a ristretta base sociale in Dir. e Prat. Trib., 1995, II, 435; PINO, L’accertamento societario legittima la presunzione di distribuzione ai soci?, in Riv. Giur. Trib., 1994, 1207 ss.; VOGLINO, Appunti critici sulla presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili accertati a carico delle società a ristretta base azionaria, in Boll. Trib., 1996, 476; Id., Ancora sulla presunzione di

Le tesi in contrasto Come detto, la questione della operatività della presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili accertati in capo ad una società di capitali a ristretta base azionaria o familiare ha da tempo posto in contrasto la dottrina e la giurisprudenza di legittimità. Inizialmente sono stati avanzati fondati dubbi circa l’esistenza del fatto noto dal quale ricavare il fatto ignoto, qualora – come accade di frequente – la sussistenza degli utili occulti in capo alla società non risulti definitivamente accertata e, quindi, costituisca a propria volta un «fatto tutt’altro che noto»5. In tal caso, quindi, sempre secondo tale orientamento dottrinario, la presunzione de qua finirebbe col risalire da un fatto assolutamente incerto, anziché «noto», ad un fatto altrettanto incerto, e perciò risulterebbe illegittima in base al famoso brocardo praesuptum de praesumpto non admittitur6. A tale osservazione la giurisprudenza di legittimità ha replicato specificando invece che a suo parere la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati non violerebbe il divieto di presunzione di secondo grado, «poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale»7. In sostanza, l’imputazione degli utili ai soci costituirebbe, nell’ormai consolidato indirizzo della Suprema Corte, il fatto «ignoto», basato «su di una regola di esperienza secondo cui, anche nelle so-

distribuzione degli utili non contabilizzati etc., in Boll. Trib., 1035; Id., Ancora su alcuni persistenti “luoghi comuni” in tema di presunzione di distribuzione degli utili non contabilizzati etc., in Boll. Trib., 1993, 1402; Id., Brevi notazioni a margine di un condivisibile orientamento giurisprudenziale in tema di presunzione di distribuzione di utili occulti etc., in Boll. Trib., 1994, 808; Id., Brevi osservazioni a margine dell’ennesimo contrasto giurisprudenziale in tema di distribuzione di utili occulti ai soci etc., in Boll. Trib., 1995, 706. 4 Al punto tale da far parlare di vero e proprio jus receptum non solo da parte dell’annotata sentenza, ma, prima ancora, da parte della stessa dottrina: cfr. in tal senso, da ultimi, GAVELLI-VERSARI, Società di capitali a ristretta base societaria, presunzione di distribuzione di utili, in Fisco, 2008,

6612, che però sembra non tener conto della strenua resistenza che la giurisprudenza di merito continua ad opporre. 5 Come osservato da VOGLINO, Appunti critici, cit., 476, il quale aveva già precedentemente ritenuto non legittimo il ricorso ad una presunzione di secondo grado, con la quale da un fatto incerto si pretenda di risalire sempre presuntivamente ad un fatto altrettanto incerto. Cfr. inoltre MULEO, Si presumono distribuiti ai soci gli utili extracontabili di società a ristretta base azionaria, in Riv. Giur. Trib., 2008, 714. 6 Cfr. VOGLINO, La presunzione di distribuzione degli utili non contabilizzati accertati a carico delle società di capitali a ristretta base familiare od azionaria, in Boll. Trib., 1991, 468. 7 Così Cass., sez. trib., 8 agosto 2005, n. 16729, in Fisco, 2005, 1, 13620.


11 Irpef.qxd

7-04-2009

12:59

Pagina 797

Irpef 4 2008 797

cietà di capitali in cui i partecipanti costituiscono un gruppo ristretto, tanto più se uniti da vincoli più o meno stretti di solidarietà familiare, nella normalità dei casi si può ragionevolmente ritenere che gli utili occultati siano stati distribuiti proporzionalmente ai singoli soci così come avviene per tutti gli utili nelle società di persone, per i quali il principio di imputabilità dei profitti ai soci indipendentemente dalla loro effettiva percezione è sancito legislativamente dall’art. 5, comma 1, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917»8. La dottrina, però, oltre a rilevare che la presunzione in esame è in contraddizione con la stessa funzione storica per la quale sono state concepite e disciplinate le società di capitali9, e ad evidenziare l’inesistenza normativa di una specifica nozione di «società a ristretta base sociale»10, ha fermamente contestato la pretesa valenza presuntiva che la Corte di Cassazione riconosce alle società a ristretta base sociale azionaria o familiare, ritenendo che la «complicità», costituente l’asserito fatto noto dal quale si dovrebbe ricavare l’avvenuta distribuzione ai soci degli utili societari extrabilancio «secondo l’esperienza comune», ben possa mancare nelle società a ristretta base familiare o azionaria e, viceversa, ben possa determinarsi in società a larga o diffusa base azionaria11, in guisa da rendere palese la più che dubbia legittimità della presunzione in esame, la quale finisce per far gravare sul contribuente un onere dimostrativo chiaramente diabolico, perché concernente la prova negativa di non avere mai percepito i pretesi proventi occulti12. Il necessario requisito della complicità ai fini presuntivi I giudici napoletani si sono sbrigativamente ade-

8 Cfr. in tal senso Cass., sez. trib., 7 novembre 2005, n. 21573, in Fisco, 2005, 16886, che ha anche ritenuto che il procedimento presuntivo si baserebbe, tra l’altro, anche sulla valutazione che in una società a ristretta base sociale ciascuno dei soci disporrebbe di un controllo sufficiente dell’effettivo andamento dell’azienda e che, comunque, sussisterebbe una sostanziale lealtà di fondo, nell’interesse comune, all’interno del gruppo ristretto. 9 Come sostenuto da MULEO, op. cit., 714, secondo il quale «le società a responsabilità limitata sono state concepite e continuano ad essere contemplate per l’esercizio in comune dell’attività imprenditoriale da parte di un nucleo ristretto di perso-

guati all’interpretazione data dalla Corte di legittimità13 in senso favorevole alla piena operatività della presunzione di distribuzione dei maggiori utili societari ai soci della società a responsabilità limitata a ristretta base partecipativa, anche perché l’eccezione dell’inesistenza di concreti e specifici rapporti di solidarietà e di controllo tali da giustificare la presunzione in questione sarebbe stata proposta solo nel giudizio di appello in modo, quindi, da dover essere considerata inammissibile a norma dell’art. 57 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e dell’art. 345 c.p.c. Tale orientamento, però, non può risultare appagante, quanto meno laddove la criticata presunzione viene applicata in maniera automatica sulla sola base dell’esistenza di una società a ristretta base sociale, senza richiedere, invece, quel quid pluris consistente nella «complicità» che deve necessariamente sussistere (ed essere concretamente riscontrato) affinché si possa presumere la distribuzione degli utili ai soci (la quale deve essere comunque effettiva, e non puramente “virtuale”), indipendentemente dalla più o meno ampia composizione sociale della società, e che, perciò, necessita di una concreta dimostrazione, non potendo essere desunto dal solo numero dei soci. Parzialmente diversa, in proposito, può apparire la posizione di una società a base familiare, nella quale la «complicità» potrebbe astrattamente costituire una più lineare (ma non scontata) conseguenza del vincolo familiare, rispetto alla posizione di una società, anch’essa a ristretta base sociale, nella quale tuttavia la presenza dei soci potrebbe essere semplicemente sintomatica di una loro mera partecipazione agli utili, senza necessariamente implicare l’esistenza di un rapporto confi-

ne, senza interferenze di tipo gestionale da parte delle stesse». 10 Cfr. in tal senso MARINO, op. cit., 624 e RECCA, Utili occulti e società di capitale su base familiare, in Boll. Trib., 1984, 428. 11 Come efficacemente osservato da VOGLINO, Appunti critici, cit., 477, secondo il quale «nelle società a diffusa base azionaria può facilmente accadere che un ristretto numero di soci riesca a dominare le sorti della società grazie al controllo degli organi di amministrazione, alle quote possedute, ed alla polverizzazione delle rimanenti partecipazioni sociali fra un elevato numero di piccoli azionisti così come, per converso, pure nelle società a ristretta base sociale possono verificarsi conflitti di

interessi tali da escludere qualsiasi complicità tra i soci». 12 Come da ultimo rilevato da LOVECCHIO, Accertamento delle società, cit., in questa rivista, 2008, 141. 13 Diversamente dalle tante pronunce di merito che, invece, in passato avevano sposato la tesi difensiva del contribuente, tra le quali si ricordano: Comm. trib. centr., sez. X, 11 maggio 1994, in Boll. Trib., 1994, 1682; Comm. trib. II grado Parma, 26 settembre 1990, n. 430, in Boll. Trib., 1991, 400; Comm. trib. I grado Bari, 16 febbraio 1994, n. 6354, in Boll. trib., 1994, 807; Comm. trib. I grado Roma, 12 maggio1994, n. 185, in Fisco, 1994, 8219; Comm. trib. reg. Lazio, 4 maggio 2006, n. 94, in I quattro codici della riforma tributaria Big.


11 Irpef.qxd

7-04-2009

798

12:59

Pagina 798

GiustiziaTributaria

4 2008

denziale, o meglio di quel vincolo di solidarietà e di reciproco controllo che è necessario per l’operatività della presunzione in discorso14. Ma ciò, beninteso, fermo restando che tanto nell’uno quanto nell’altro caso appare comunque indispensabile la prova, da parte dell’ufficio impositore, degli imprescindibili elementi su cui deve poggiare la presunzione stessa, i quali devono essere addotti e riscontrati in concreto, senza poter consentire sbrigative ed assiomatiche conclusioni suscettibili di scadere in vero e proprio arbitrio a danno dei contribuenti interessati, di fatto assoggettati ad una probatio diabolica impossibile da fornire. In definitiva, quindi, sia pure dando atto che l’annotata sentenza va ad inserirsi in un filone giurisprudenziale consolidato in sede di legittimità proclive a ritenere legittima la presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili accertati a carico della società a ristretta base azionaria o familiare da essi partecipata, non si può fare a meno di mantenere più di un dubbio sulla discutibile opinione di ritenere che la ristretta base sociale possa giustificare la presunzione di percezione degli utili extracontabili anche quando non sia stata rigorosamente dimostrata la sussistenza di quel quid pluris che deve evidenziare la stretta «complicità» e compartecipazione intercorrente fra i singoli soci, su cui (unicamente) viene poggiata l’illazione induttiva e convenire, invece, con quelle pronunce di merito che coraggiosamente resistono al monolitico orientamento della Suprema Corte15.

14 Come rilevato da BECCALLI, Utili societari non contabilizzati: presunzione di distribuzione in caso di ristretta base societaria, in Fisco, 2006, 59, secondo il quale più ci si allontana dalla struttura a strettissima base familiare, più è necessario per l’ufficio finanziario reperire elementi idonei a sostenere l’esistenza di quella «complicità» posta alla base del rapporto distributivo. Secondo tale autore, in particolare, «una società formata da un numero non ridottissimo di soci potrebbe apparire, ai fini della presunzione [...] un valido fatto notorio tutte le volte che l’ufficio illustri, a completamento di presupposti orientati al recupero in capo ai singoli, che i suddetti titolari di quote, ancorché non parenti e in numero un po’ più nutrito del solito, abbiano comunque stretti legami derivanti, ad esempio, da rapporti di buon vicinato, dalla condivisione di momenti ludici o di impegno sociale,

Da ultimo, giova evidenziare, per mero scrupolo di completezza, due ulteriori questioni che la sentenza in commento non ha affrontato, probabilmente perché non eccepite dal ricorrente, e che in passato sono state generalmente rigettate dal giudice di legittimità in maniera non del tutto convincente, malgrado esse rivestano grande interesse nell’ambito della tematica sopra tratteggiata. La prima, anzitutto, riguarda la violazione del divieto della doppia imposizione suscettibile di derivare (almeno nel sistema precedente alla riforma della tassazione dei dividendi societari) dall’attribuzione pro quota ai soci dei maggiori utili accertati a carico della società di capitali, nel momento in cui tali utili, già tassati in capo alla società, vengano nuovamente assoggettati ad imposta sul reddito senza il riconoscimento di un credito d’imposta che serva ad evitare la doppia tassazione sullo stesso presupposto di imposta. Mentre la seconda, riguarda l’esercizio finanziario di corretta imputazione del reddito accertato in capo ai singoli soci, apparendo infatti del tutto inverosimile che i maggiori utili accertati a carico della società in un determinato esercizio siano stati effettivamente distribuiti ai soci in quello stesso esercizio. Com’è agevole comprendere, si tratta di delicate questioni che, assieme a quella specificamente sopra trattata, continuano ancora ad attendere un’appagante soluzione da parte della giurisprudenza di vertice16.

da comuni esperienze lavorative o da altri indici capaci di evidenziare non solo la negazione di un fascio di rapporti inquadrabili nel modello delle società di capitali ma addirittura la granitica unità d’intenti dei soci, gruppo coeso dentro e fuori l’impresa. All’ufficio potrebbe essere sufficiente, al fine di essere sollevato dall’onere di provare l’avvenuto accordo e la successiva ripartizione di utili occulti, far comprendere come quei soci siano capaci, lungi da convocazioni e formalismi di ogni sorta, di prendere qualsivoglia decisione in qualsiasi istante». 15 Come nel caso di Comm. trib. reg. Puglia, sez. XXIII, 13 aprile 2007, n. 66, in questa rivista, 1, 2008, 138, che censura il fatto che dalla ristretta base azionaria si faccia discendere sia la presunzione di complicità fra i soci che quello di effettiva distribuzione di utili ai soci stessi nello stesso anno di produzione e nella stessa porzione di

partecipazione al capitale sociale, «in una concatenazione di presunzioni che mostra i suoi gravi limiti sia nel fatto che nulla esclude che possa esservi stata alcuna distribuzione, ovvero che vi possa essere stata una diversa misura di distribuzione di tali utili o che la distribuzione possa essere avvenuta in esercizi diversi da quello al quale vengono riferiti». 16 In attesa della quale sembra del tutto condivisibile ed estremamente efficace sotto il profilo difensivo la tesi espressa da LOVECCHIO, Accertamento delle società, cit., in questa rivista, 2008, 144, secondo il quale per il contribuente «potrebbe rivelarsi più proficuo lavorare sugli elementi fattuali della vicenda controversa, evidenziando, ad esempio, la natura non ristretta della compagine sociale oppure valorizzando circostanze concrete che possano denotare l’estraneità di taluni soci rispetto agli aspetti gestionali della società».


12 Iva.qxd

10-04-2009

16:00

Pagina 799

Iva 4 2008 799

IVA L’ESERCIZIO DELLA DETRAZIONE IVA NEL CASO DI OMESSA PRESENTAZIONE DELLA DICHIARAZIONE ANNUALE 114

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. IX, 12 ottobre 2007, n. 120 Presidente: Amodio - Relatore: Belloni Iva - Detrazione dell’imposta - Detrazione computata in sede di dichiarazioni mensili - Omessa presentazione della dichiarazione annuale Decadenza del diritto alla detrazione (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 28, 30 e 55) Ai sensi degli artt. 28,30 e 55 del D.P.R. n. 633 del 1972 il diritto alla detrazione dell’Iva sorge solo se sia stato computato nei mesi di competenza e indicato nella dichiarazione annuale; pertanto, il contribuente che abbia omesso la dichiarazione annuale decade dal diritto alla detrazione, anche qualora lo abbia indicato nella dichiarazione relativa al mese di competenza e nella prima dichiarazione annuale successiva, correttamente presentata. L’Ufficio di Roma 1 procedeva alla rettifica della dichiarazione Iva relativa all’anno 1996 ed escludeva la detraibilità del credito di imposta maturato dalla società U., rilevando come preclusiva la mancata presentazione della dichiarazione annuale dei redditi inerente a tale anteriore annualità (1995). Contro tale atto di rettifica, ricorre la società deducendo l’illegittimità del medesimo avviso sotto un duplice profilo: - sotto un primo profilo, per aver l’a.f. illegittimamente escluso la detraibilità del credito d’imposta maturato, a causa della mancata presentazione della dichiarazione Iva, pur risultando il credito dalle registrazioni e liquidazioni periodiche; - sotto il secondo profilo, per non aver l’amministrazione preventivamente esercitato il potere di accertamento induttivo prima di procedere alla rettifica. In accoglimento del ricorso proposto dalla società. la Comm. trib. prov. statuiva con sentenza 183/66506 del 23 maggio 2006 nel modo seguente: «la Commissione, condividendo un consolidato orientamento giurisprudenziale, rileva che l’omessa presentazione della dichiarazione annuale Iva, nella specie per l’anno 1995, non realizza, contrariamente all’assunto dell’ufficio, i necessari presupposti per l’operata rettifica della dichiara-

zione annuale 1996 e l’esclusione della detraibilità del credito d’imposta maturato nel 1995 che va pertanto riconosciuto in quanto la sua sussistenza trova riscontro dalla fatturazione e registrazione nelle relative fatture». L’appello è proposto dall’ufficio che insiste nella legittimità del proprio operato in quanto la società non ha presentato la dichiarazione relativa all’anno 1995 e tale mancato compimento ha comportato la decadenza del diritto stesso della detraibilità del credito d’imposta. Questa Commissione ritiene l’appello meritevole di accoglimento. Le disposizioni contenute nel D.P.R. 633/1972 negli articoli 28 e 30 nonché nel D.P.R. 633/1972 art. 37, dettano precise regole in merito alle detrazioni spettanti ai contribuenti; tale diritto sorge con la concorrenza di due eventi: computo nei mesi di competenze e presentazione della dichiarazione nell’anno successivo e la detrazione si perde quindi, in mancanza di uno di essi. Ne consegue, che una valida dichiarazione con l’indicazione dell’eccedenza da accreditarsi, appare requisito costitutivo della facoltà di utilizzare l’eccedenza stessa nell’anno successivo. Detta eccedenza rappresenta un’entità attiva non autonoma, valorizzabile unicamente nell’ambito del rapporto di conto che il contribuente intrattiene con il fisco. La fattispecie costitutiva del credito non si è realizzata neanche nei suoi elementi formali come richiesti dalla normativa sopra citata, di conseguenza, non può correlativamente parlarsi neanche di un diritto soggettivo di credito. Secondo la normativa richiamata, l’ufficio ha proceduto legittimamente a non riconoscere il credito d’imposta in quanto non risulta presentata la dichiarazione relativa all’anno 1995. L’omissione compiuta dal contribuente, o meglio il mancato compimento di un atto che gli avrebbe consentito l’esercizio di un diritto, ha comportato la decadenza del diritto stesso e il venir meno di quella tutela giuridica che gli era riconosciuta attraverso quell’azione di contenuto positivo costituita dalla presentazione della dichiarazione.


12 Iva.qxd

10-04-2009

800

16:00

Pagina 800

GiustiziaTributaria

4 2008

La Cassazione (sent. n. 9554/1992) ha sentenziato testualmente: «in tema di rimborso d’imposta a seguito di errore nella dichiarazione di redditi, il contribuente con il procedimento di rimborso di cui all’art. 38, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 non può dedurre fatti non segnalati nella dichiarazione originaria, atteso che per la dichiarazione dei redditi sono dalla legge dettate specifiche prescrizioni di forma e di tempo (artt. 8 e 9 del D.P.R. 600/1973), le quali sarebbero vanificate da un regime di emen-

dabilità non ancorato al carattere materiale e alla testuale riconoscibilità dell’errore. Occorre inoltre evidenziare che l’avviso di rettifica comprende anche il mancato versamento dell’imposta dovuta per l’anno 1996, risultante liquidata dalla società ricorrente in dichiarazione e mai versata e mai ha formato oggetto di specifica contestazione con l’atto introduttivo del giudizio. Nella sussistenza di giusti motivi, le spese di giustizia vanno compensate tra le parti».

Nota di Annalisa Pace

modifica normativa che ha portato alla abrogazione dell’art. 28 del D.P.R. n. 633, e alla sua sostituzione con l’art. 8 del D.P.R. n. 322/1998, che alla integrale riformulazione dell’art. 19 disciplinante il diritto di detrazione1. In particolare, la disposizione contenuta nell’art. 28 nella formulazione vigente all’epoca dei fatti recitava: «il contribuente perde il diritto alla detrazione non computata per i mesi di competenza né in sede di dichiarazione annuale». La giurisprudenza pronunciatasi sul punto chiarì che le due condizioni non erano alternative dovendo ricorrere tanto il mancato computo della detrazione nel mese di competenza quanto l’omessa presentazione della dichiarazione annuale per concretizzarsi la decadenza, differenziandosi, così, l’ipotesi dell’omessa registrazione dei documenti contabili da quella in cui, alla regolare effettuazione delle detrazioni di legge nelle dichiarazioni periodiche di competenza, non aveva fatto seguito la presentazione della dichiarazione annuale2. Una conferma circa l’esattezza della conclusione – sempre secondo l’orientamento richiamato – si riteneva potesse rinvenirsi nel disposto dell’art. 55 ai sensi del quale «se il contribuente non ha presentato la dichiarazione annuale l’ufficio dell’Iva può procedere in ogni caso all’accertamento dell’impo-

I giudici romani hanno negato il diritto di detrazione al contribuente sul falso presupposto che la detrazione debba essere esercitata in dichiarazione. In verità fatto impeditivo all’esercizio della detrazione Iva è che essa non sia stata operata nei mesi di competenza, a nulla rilevando che la stessa non risulti dalla dichiarazione annuale (relativa all’annualità in cui il diritto è maturato) che è stata omessa, conclusione cui del resto la stessa a.f. è pervenuta nella risoluzione n. 74 del 19 aprile 2007. Il thema decidendum della controversia fa riferimento al caso di un soggetto passivo che, pur avendo operato la detrazione nel mese di competenza, non ha provveduto alla presentazione della dichiarazione annuale, derivandone, secondo quanto sostenuto dall’ufficio e confermato dalla sentenza in commento, la decadenza dal diritto di detrazione dell’Iva a credito. La fattispecie va innanzi tutto correttamente inquadrata ratione temporis. Il credito d’imposta in contestazione, infatti, era relativo alla annualità 1995 e la dichiarazione oggetto di rettifica riguardava il 1996: annualità antecedenti sia alla

1 Va rammentato che il meccanismo della detrazione è stato oggetto di importanti modifiche ad opera del D.Lgs. n. 313 del 2 settembre 1997, decreto emanato in attuazione dei principi contenuti nell’art. 3, comma 66, della L. n. 662 del 1996, nella prospettiva di attuare più correttamente le disposizioni contenute negli artt. 17 ss. della VI direttiva. Sulla riformulazione della citata disposizione e sulle novità che hanno caratterizzato i termini e le modalità di esercizio del diritto di detrazione si consenta di rinviare a PACE, Il diritto di detrazione, in L’imposta sul valore aggiunto, in Giurisprudenza sistematica di diritto

tributario, a cura di Tesauro, Torino, 2001, 299 ss. 2 In tal senso Comm. trib. I grado Siracusa, 11 gennaio 1980, in Boll. Trib., 1980, 639; Comm. trib. I grado Firenze, 23 ottobre 1980, in Boll. Trib., 1982, 166; Comm. trib. centr., 17 maggio 1986, n. 4249, in Boll. Trib., 1987, 511; Cass., 20 gennaio 1997, n. 544, in Boll. Trib., 1997, 22, 1748 e in Riv. Giur. Trib., 1997, 8, 711, con nota adesiva di COMELLI, La detrazione dell’Iva in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale. In senso conforme anche Cass., 28 gennaio 2002, n. 1029; Cass., 28 agosto 1998, n. 8583 e Cass., 25 febbraio 1998, n. 2063,

tutte in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; contra, però, Cass., 23 agosto 2005, n. 17158, in Boll. Trib. online, che, in una fattispecie coeva a quella in esame, ha ritenuto che la dichiarazione Iva presentata tardivamente non può mai costituire titolo valido per operare la detrazione d’imposta in quanto assimilabile alla dichiarazione omessa. Estremamente critico sulle conclusioni raggiunte dalla Corte in questa sentenza è MARINI la cui nota di commento Esercizio del diritto di detrazione nell’imposta sul valore aggiunto, si può leggere in Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, 2005, 11, 413.


12 Iva.qxd

10-04-2009

16:00

Pagina 801

Iva 4 2008 801

sta dovuta indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità. In tal caso [...] sono computati in detrazione soltanto i versamenti eventualmente eseguiti dal contribuente e le imposte detraibili ai sensi dell’art. 19 risultanti dalle liquidazioni prescritte dagli artt. 27 e 33». Il legislatore, pur legittimando l’ufficio a procedere in via induttiva nei confronti del contribuente che ha omesso di presentare la dichiarazione annuale, nega che in quella sede possa essere disconosciuta la detrazione dell’imposta a credito se questa risulta dai versamenti eseguiti e dalle liquidazioni periodiche effettuate. Dalla norma emergerebbe, quindi, l’importanza che ai fini del corretto esercizio della detrazione hanno le liquidazioni periodiche, risultando invece irrilevante la tempestiva presentazione della dichiarazione annuale considerato il carattere meramente riepilogativo che la stessa presenta3. La stessa Suprema Corte, nell’esaminare l’art. 28 cit., ha segnalato che «la sanzione della decadenza non può essere estesa alla diversa fattispecie in cui la detrazione sia stata regolarmente operata nel mese di competenza e non risulti, invece, dalla dichiarazione annuale, della quale sia stata omessa la presentazione, poiché, nel caso di accertamento induttivo l’ufficio Iva deve computare in detrazione non solo i versamenti eseguiti dal contribuente, ma anche le imposte detraibili, risultanti dalle dichiarazioni mensili, come prescrive l’art. 55 del citato decreto, sicché il diritto alla detrazione viene meno solo per i crediti d’imposta relativi a operazioni non registrate o, comunque, non risultanti dalle dichiarazioni periodiche, sia pure per mera omissione o per errore materiale; in tal caso, del resto, non può farsi valere neppure il diritto al rimborso che ha per suo presupposto la sussistenza di un eccedenza d’im-

3 Secondo la Cassazione (cfr. sent. 24 luglio 1991, n. 8265 e 2 ottobre 1996, n. 8602, quest’ultima in Boll. Trib., 1997, 3, 239) l’utilizzo dell’avverbio «soltanto» sanziona l’omissione della denuncia annuale solo con la perdita dei crediti che non siano compresi nelle liquidazioni periodiche che, «nel’ambito di un tributo rigorosamente ancorato ad adempimenti contabili» quale è l’Iva, rappresentano l’unica forma di documentazione riconosciuta. Si rammenta che sulla legittimità della previsione, laddove appunto prevede l’indetraibilità dell’Iva che pure risulti da fatture regolari (portate a conoscenza dell’ufficio che le ha uti-

posta, risultante dalla dichiarazione annuale»4. Alla luce di quanto si è venuti fin qui chiarendo, appaiono tutt’altro che condivisibili le conclusioni cui pervengono i giudici romani nella sentenza in commento laddove affermano che il diritto alla detrazione sorge con la concorrenza di due eventi: computo nei mesi di competenza e presentazione della dichiarazione nell’anno successivo, con la conseguenza che «una valida dichiarazione con l’indicazione dell’eccedenza da accreditarsi appare requisito costitutivo della facoltà di utilizzare l’eccedenza stessa nell’anno successivo». Come è emerso dall’esame dell’impostazione prevalente, in verità, il requisito formale indefettibile al quale è subordinato l’esercizio del diritto alla detrazione è la previa annotazione nel registro degli acquisti del documento giustificativo. Infatti, l’art. 25 del D.P.R. n. 633 del 1972 richiede la numerazione progressiva dei documenti giustificativi e la loro registrazione, nel mese successivo a quello in cui il contribuente ne è entrato in possesso (così fino a tutto il 1996), ovvero anteriormente alla liquidazione periodica o alla dichiarazione annuale, nella quale il diritto alla detrazione viene esercitato (nella formulazione oggi vigente). Ebbene, è con il possesso della fattura e con la sua successiva registrazione che sorge il diritto alla detrazione e solo nel caso di fatture di acquisto non registrate il contribuente non può esercitare il diritto di detrazione; in tale ipotesi, infatti, l’adempimento formale acquista carattere sostanziale in linea con l’esigenza di assicurare i controlli da parte degli uffici e prevenire i tentativi di evasione: mancando, infatti, l’esposizione del credito d’imposta non può essere riconosciuta alcuna detrazione né nel mese di competenza né nella dichiarazione annuale che sia stata regolarmente presentata.5

lizzate per la ricostruzione induttiva del volume d’affari del soggetto passivo), che non sono state, però, regolarmente inserite nelle dichiarazioni periodiche, perché omesse, è intervenuta la Corte costituzionale che ha respinto l’eccezione di incostituzionalità; cfr. ord. 26 gennaio 1988, n. 108, in Fisco, 1988, 14, 2257. 4 Si tratta sempre di Cass., n. 544/1997 citata nella nota n. 2. 5 In tal senso cfr. Comm. centr. 15 dicembre 1997, n. 6298, in Codice tributario online e Cass., 20 gennaio 1997, n. 544, cit. Né argomenti contrari sembra possano desumersi dalla normativa comunitaria. Ai sensi dell’art.

18 della VI direttiva la regola generale per l’esercizio della deduzione (rectius detrazione) è che il soggetto passivo sia in possesso della fattura mentre il paragrafo quarto rimette agli Stati membri la facoltà di scegliere gli strumenti più adeguati per consentire il riporto dell’eventuale credito nel periodo d’imposta successivo. Sull’operatività del meccanismo rivalsa - detrazione anche relativamente ad operazioni inesistenti si veda da ultimo Comm trib. reg. Veneto, 18 gennaio 2007, n. 119, in questa rivista, 2007, 2, 343, con ulteriori riferimenti in nota. In senso analogo Comm. trib. prov. Salerno, 18 ottobre 1999, n. 161, in Dir. e Prat. Trib., 2000, II, 558.


12 Iva.qxd

10-04-2009

802

16:00

Pagina 802

GiustiziaTributaria

4 2008

Si appalesa diversa l’ipotesi in cui, registrato tempestivamente il documento giustificativo, il contribuente non esercita il diritto di detrazione per aver omesso di presentare la dichiarazione annuale, considerato che quest’ultima ha una funzione meramente riepilogativa dei versamenti effettuati in corso d’anno che, se effettivi e correttamente formalizzati, non possono essere disconosciuti6. I giudici di merito hanno, invece, negato autonomo rilievo ad una tale eccedenza giungendo addirittura a negare che possa parlarsi, in mancanza degli elementi formali richiesti dalla normativa, di un diritto soggettivo di credito azionabile autonomamente. In verità, contrariamente a quanto affermato dalla commissione regionale nella decisione in commento, è proprio il meccanismo applicativo del tributo – che mira ad assicurare quel principio di neutralità che dovrebbe permeare l’intera disciplina del tributo – a far ritenere corretta la ricostruzione opposta7: in questi casi, anche ove si dubiti della possibilità di computare l’eccedenza in detrazione nell’anno successivo a quello in cui il credito è maturato, perché la dichiarazione annuale del periodo di imposta in cui il credito è maturato è stata omessa, va comunque riconosciuta la possibilità di recuperare il credito attraverso gli strumenti comuni al di fuori, cioè, della logica attuativa del tributo: ad esempio, attraverso un’istanza di rimborso ai sensi dell’art. 21 del D.Lgs. n. 546 del 1992 8. Queste conclusioni sono state oramai condivise dalla stessa amministrazione finanziaria che di recente è intervenuta a fornire chiarimenti sulla decadenza della detrazione dei crediti Iva sia nel caso di mancato riporto nelle dichiarazioni annuali successive a quella nel cui periodo d’imposta so-

6 In tal senso concordemente la dottrina: tra gli altri si veda FICARI, La dichiarazione, in Giur. Sist. di Dir. Trib., L’imposta sul valore aggiunto, a cura di Tesauro, Torino, 2001, 461; LUPI, Diritto Tributario, I, Milano, 2000, 142; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 1998, 157 ss. 7 Il recupero dell’eccedenza va comunque assicurato anche quando il contribuente erra nell’utilizzo degli strumenti che legislativamente gli assicurano l’esercizio dell’opzione per il rimborso «se non si vuole vanificare il credito sostanziale». In tal senso si veda LA ROSA, Rettifica dell’opzione per il rimborso e neutralità dell’Iva, in Riv. Dir. Trib., 2004, I, 679.

no maturati che nel caso di mancata o tardiva presentazione della relativa dichiarazione annuale, aderendo alla ricostruzione giurisprudenziale illustrata9. Interpellata da Direzioni regionali dipendenti, la Direzione centrale normativa e contenzioso ha chiarito quelle che devono essere le linee guida cui gli uffici dovranno informare la propria attività di controllo quando sia in discussione il computo in detrazione dell’eccedenza di credito Iva. In particolare, con riferimento alla fattispecie che è stata qui oggetto di esame, la citata Direzione ha richiamato le conclusioni raggiunte sul punto dal Supremo Collegio nella sentenza n. 544 del 1997, recependone gli argomenti interpretativi e solo precisando che l’accertamento induttivo, cui la stessa Cassazione si richiamava, è strumento indefettibile per il riconoscimento dell’eccedenza in discussione. In definitiva, se secondo quanto ritenuto dalla Cassazione è proprio il richiamo a questa norma che consente di avallare l’opinione che nega la decadenza dal diritto alla detrazione del credito che, pur risultando dalle dichiarazioni mensili, non emerge da quella annuale, nell’impostazione seguita dall’organo amministrativo essa viene elevata a condizione indefettibile perché il diritto alla detrazione venga ammesso: come si legge nella risoluzione citata «occorre, tuttavia, chiarire che il diritto alla detrazione è, in ogni caso, subordinato all’accertamento dell’esistenza del credito relativo all’anno per il quale la dichiarazione Iva risulta omessa, a norma dell’art. 55 del D.P.R. n. 633 del 1972. In altri termini il diritto alla detrazione è ammesso purché l’esistenza del credito Iva sia accertata dall’ufficio a seguito dell’attività di controllo dell’annualità per la quale la dichiarazione sia stata omessa»10.

8 Del resto, secondo un diffuso orientamento dello stesso Supremo Collegio, in tali casi il credito poteva essere fatto valere solo attraverso la procedura di rimborso cd. anomalo già prevista nell’art. 16 del D.P.R. n. 636 del 1972 e ora dall’art. 21, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, e non già computandolo in detrazione nella dichiarazione relativa all’anno successivo: in tal senso si veda Cass., 17 maggio 2006, n. 11584; Cass., 20 agosto 2004, n. 16477; Cass., 9 febbraio 2001, n. 1823, Cass., 28 agosto 1998, n. 8083, tutte in I quattro codici della riforma tributaria Big. L’utilizzabilità di meccanismi comuni per l’esercizio del credito

Iva si è di recente arricchito di un ulteriore strumento: il meccanismo della compensazione orizzontale disciplinato dall’art. 17 del D.Lgs. n. 241 del 1997 su cui si rinvia alle ampie considerazioni di BASILAVECCHIA, Situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo, Pescara, 2000, ed. provv., 83. 9 Così con ris. 19 aprile 2007, n. 74, in Corr. Trib., n. 23/2007, 1919, con nota di commento di LODI. 10 Così ris. n. 74/2007, cit.; si veda anche la ris. 18 aprile 2006, n. 161/E, in I quattro codici della riforma tributaria Big, che consente la detrazione dell’Iva accertata anche se non fatturata.


12 Iva.qxd

10-04-2009

16:00

Pagina 803

Iva 4 2008 803

Un cenno, infine, va doverosamente fatto al sistema oggi vigente. Come si è già accennato l’art. 28 è stato sostituito dall’art. 8 del D.P.R. n. 322 del 199811 e l’art. 19 è stato integralmente riformulato dal D.Lgs. n. 313 del 199712. L’art. 8 cit. prevede che le detrazioni sono esercitate entro il termine stabilito dall’art. 19, comma 1, secondo periodo, e, cioè, al più tardi nella dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto13, ma, al fine di evitare che i contribuenti ottengano indebiti vantaggi, restano valide le condizioni esistenti al momento in cui il diritto è venuto ad esistenza. Inoltre, a seguito della modifica apportata dal D.Lgs. n. 56 del 1998, l’esercizio del diritto alla detrazione è stato nuovamente subordinato all’adempimento formale della previa annotazione nel registro degli acquisti del documento giustificativo. Infatti, ai sensi dell’art. 25, D.P.R. n. 633/1972 il contribuente deve operare la registrazione degli acquisti «anteriormente alla liquidazione periodica, ovvero alla dichiarazione annuale, nella quale è esercitato il diritto alla detrazione della relativa imposta». Ne discende che se il possesso della fattura e la sua successiva registrazione segnano il momento in cui

11 Il regolamento, emanato in base alla delegificazione operata con il comma 136 dell’art. 3 della L. n. 662 del 1996 per la semplificazione e la razionalizzazione degli adempimenti, all’art. 8 disciplina la dichiarazione annuale Iva e all’art.9, comma 9, ha previsto l’abrogazione dell’art. 28 del D.P.R. n. 633 del 1972. 12 Si rinvia a quanto già precisato nella nota 1. 13 La disposizione, si osservò all’indomani della sua introduzione, attua correttamente quanto previsto dall’art. 18, par. 3, della VI direttiva, sia al fine «di non penalizzare il contribuente per un mero, ragionevole ritardo nell’esercizio del diritto di detrazione» (così SALVINI, La detrazione Iva nella sesta direttiva, cit., 1070), sia per «evitare che l’omessa detrazione

il soggetto passivo acquisisce il credito in cui si sostanzia il diritto alla detrazione, questo non potrà essere esercitato in difetto di registrazione. D’altro canto, nella diversa ipotesi in cui il documento giustificativo sia tempestivamente registrato, ma sia vanamente trascorso il termine fissato dall’art. 19 per esercitare il diritto di detrazione, va comunque confermata la ricostruzione già vista che ritiene che il credito possa essere esercitato attraverso gli strumenti comuni, al di fuori, cioè, del meccanismo applicativo dell’imposta14. In margine deve rammentarsi che con il D.P.R. 10 novembre 1997, n. 443, è espressamente prevista la possibilità di computare in detrazione il credito scaturente da provvedimenti di diniego della richiesta di rimborso anche se non riportato nella dichiarazione annuale. Come è stato chiarito dalla stessa amministrazione finanziaria15, con tale norma si è stabilito che anche in presenza di un diniego di rimborso il credito non si perde per il solo fatto che il contribuente non lo ha riportato nella dichiarazione annuale relativa ad una annualità successiva, consentendo agli uffici di riconoscere l’esistenza del credito e al contribuente di recuperarlo successivamente con il meccanismo della detrazione16.

possa essere fatta valere a tempo indeterminato, con un inevitabile pregiudizio in relazione alla certezza delle situazioni soggettive» (così COMELLI, Iva comunitaria e Iva nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, 709). D’altro canto, proprio di recente la Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi sulla sua compatibilità con gli artt. 17, 18, n. 2 e 3, nonché 21, n. 1, lett. b, della VI direttiva come modificata dalla direttiva n. 2001/17/CE. La pregiudiziale, sollevata dalla Commissione tributaria di Genova è stata risolta dalla Corte con sentenza 8 maggio 2008 (cause riunite C-95/07 e C-96/07), in Boll. Trib. online, nella quale l’organo di giustizia comunitario se da un lato sottolinea che il termine fissato dal

legislatore italiano per l’esercizio della detrazione è ragionevole per garantire l’esercizio del diritto, dall’altro, però, segnala che l’effetto rivendicato dall’amministrazione nel caso di mancato rispetto del termine medesimo (e, cioè, l’indetraibilità dell’Iva) appare sproporzionato. 14 In tal senso si rinvia alla giurisprudenza citata nella nota 8. Si veda per tutti FAZZINI, Il diritto di detrazione nel tributo sul valore aggiunto, Padova, 2000, 61, 95. 15 Circ. 28 maggio 1998, n. 134/E, in Boll. Trib., 1998, 11, 937. 16 Rileva BASILAVECCHIA, Situazione creditorie, cit., 68, come la norma abbia sancito il definitivo tramonto della «incompatibilità assoluta tra credito e rimborso» che da sempre aveva contrassegnato l’utilizzo del credito Iva.


12 Iva.qxd

10-04-2009

804

16:00

Pagina 804

GiustiziaTributaria

4 2008

LA NOZIONE DI “BENE AMMORTIZZABILE” AI FINI DEL RIMBORSO DELL’IVA RELATIVA ALL’ACQUISTO DI TERRENI UTILIZZATI PER LA COSTRUZIONE DI UN FABBRICATO STRUMENTALE 115

Commissione tributaria di I grado di Bolzano, sez. I, 1 aprile 2008, n. 68 Presidente: Fliri - Relatore: Abram Iva - Acquisto di beni ammortizzabili - Rimborso dell’eccedenza detraibile risultante dalla dichiarazione - Iva relativa all’acquisto di terreno edificabile - Ammortizzabilità del terreno utilizzato per la costruzione di un fabbricato strumentale - Spettanza del rimborso (Direttiva 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, art. 183; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 30, comma 3) Agli effetti del rimborso dell’eccedenza Iva detraibile, ammesso limitatamente all’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni ammortizzabili, deve considerarsi “bene ammortizzabile” un terreno utilizzato per la costruzione di un fabbricato strumentale, posto che non è necessario che il bene sia immediatamente ammortizzabile ma che esso acquisisca tale qualifica al momento della realizzazione; né a tale conclusione sono di ostacolo le disposizioni contenute nel decreto legge n. 223/2006, con cui è stata sancita l’irrilevanza, ai fini delle imposte dirette, degli ammortamenti sui terreni, tenuto conto che il citato decreto legge riguarda le imposte dirette e non l’Iva e che comunque le disposizioni in esso contenute sono innovative e non interpretative. Svolgimento del processo Con ricorso depositato in data 12 novembre 2007, la F.Z. S.r.l. con sede in Bolzano in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dai dottori commercialisti P.C. ed E.L., impugna il provvedimento di diniego dell’Agenzia delle Entrate, ufficio di Bolzano notificato in data 23 luglio 2007 relativamente all’istanza di rimborso del tributo Iva presentata in data 6 febbraio 2003 ai sensi dell’art. 30, comma 3, lett. c, D.P.R. 633/1972 per un importo complessivo pari a euro 12 milioni. Detto credito d’imposta trae origine dall’acquisto – effettuato in data 20 dicembre 2002 – da parte della ricorrente, di un terreno edificabile di circa 45.000 mq al prezzo di 72 milioni di euro (di cui 12 milioni di Iva), sito nel Comune di Milano, terreno sul quale è stato realizzato in base a una concessione edilizia rilasciata in data 30 luglio 2003

(lavori iniziati nel settembre 2003 e terminati nel mese di novembre 2006) un immobile strumentale classificato nella categoria catastale D8. Come primo motivo di ricorso la difesa della contribuente lamenta carenza di motivazione posto che il provvedimento di diniego non recherebbe le ragioni che sottendono la decisione dell’ufficio di negare il rimborso (in forma accelerata). Suppone comunque che dette ragioni vadano ricercate nel fatto che il terreno acquistato non costituisca un bene ammortizzabile così come richiesto dal citato art. 30, lettera e, della legge Iva. Sul punto asserisce che, nel caso specifico, al terreno non possa essere attribuita una natura autonoma posto che esso forma un tutt’uno e si confonde con il complesso immobiliare strumentale che insiste sullo stesso. Precisa che tra i beni ammortizzabili possono essere ricompresi anche quelli in fieri vale a dire quelli che saranno assoggettati al processo di ammortamento una volta ultimati i lavori. Cita a supporto della propria tesi giurisprudenza della Commissione tributaria centrale (decisione 4194 dell’11 agosto 1997), della Suprema Corte di Cassazione (n. 14371 del 9 marzo 2007), della Commissione regionale del Piemonte (sentenza n. 16 del 13 aprile 2001) e, per quanto riguarda il principio di neutralità del tributo Iva, della Corte di Giustizia europea (sentenza 25 ottobre 2001, causa C-78/00). Conclude chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato e «l’immediata erogazione del predetto rimborso a favore della ricorrente, oltre agli interessi maturati e maturandi dovuti per legge». Con vittoria di spese di giudizio. L’Ufficio di Bolzano dell’Agenzia delle Entrate, nella propria costituzione in giudizio avvenuta con atti controdeduttivi depositati in data 28 agosto 2006, chiede di dichiarare non dovuto il rimborso o in subordine – nell’ipotesi di spettanza – di dichiararlo dovuto nei limiti degli importi determinati dall’ufficio. Fa presente relativamente all’eccepita carente motivazione dell’atto, che il contribuente avrebbe compreso perfettamente le ragioni del diniego e quindi non ci sarebbe stata alcuna lesione del diritto di difesa. Nel merito as-


12 Iva.qxd

10-04-2009

16:00

Pagina 805

Iva 4 2008 805

serisce che, in base ai principi contabili dei ragioneri e dottori commercialisti e alle risoluzioni del Ministero delle Finanze 11 luglio 1996, n. 113 e 24 ottobre 1996, n. 238, i terreni non sarebbero beni ammortizzabili in quanto si tratterebbe di cespiti la cui utilità non si esaurisce nel tempo. All’udienza pubblica in data odierna i rappresentanti delle parti si richiamavano e ribadivano sostanzialmente quanto esposto nelle rispettive difese scritte. Motivi della decisione Sulla questione pregiudiziale sollevata dalla ricorrente riguardante il contestato difetto di motivazione dell’atto, la Commissione ritiene che le motivazioni riportate, ancorché sintetiche, siano comunque sufficienti e tali comunque da non impedire o comprimere il diritto di difesa che la ricorrente ha potuto ampiamente dispiegare. Il reclamo di parte sul punto appare pertanto infondato. Per quanto riguarda le questioni di merito il Collegio osserva. L’articolo 30, comma 3, lettera c, del D.P.R. 633/1972 stabilisce che il contribuente è legittimato a chiedere il rimborso dell’eccedenza detraibile (anziché computare detta eccedenza in detrazione nell’anno successivo), «limitatamente all’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni ammortizzabili». Il Collegio è pertanto chiamato a valutare se, nel caso specifico, l’Iva pagata in sede di acquisto del terreno edificabile sul quale è stato realizzato un insediamento produttivo, possa considerarsi bene ammortizzabile e quindi essere detraibile e rientrare nella previsione di cui al citato art. 30. Al riguardo, illuminanti e condivisibili da parte della Commissione, sono i principi contenuti nella sentenza della Suprema Corte n. 14371 del 9 marzo 2007 in cui si ritiene corretta la tesi secondo la quale: «[...] il costo di acquisto di un terreno può essere ammortizzabile, se detto bene cessa di avere tale natura, in sé non deperibile né consumabile e perciò non includibile nella nozione di bene ammortizzabile ai sensi dell’art. 67 del D.P.R. 917/1986, e diviene invece strumentale all’esercizio dell’impresa mediante la costruzione su di essa di un fabbricato funzionale a detto esercizio». Secondo la Corte di Cassazione, in tema di Iva «[...] l’inerenza all’esercizio dell’impresa affinché il bene, anche immobile, possa rientrare nella nozione di bene strumentale – sussiste anche quando l’acquisto di esso si collochi in una fase preparatoria rispetto all’impiego produttivo, purché il contribuente dia la dimostrazione del-

l’effettiva connessione dell’acquisto con l’espletamento della progettata attività imprenditoriale [...]». Applicando detti principi al caso concreto, il Collegio rileva come la parte abbia dato dimostrazione di aver destinato il terreno ad attività produttiva, avendo realizzato su di esso (lavori ultimati nel mese di novembre 2006), in base a una concessione edilizia rilasciata pochi mesi dopo l’acquisto, un complesso immobiliare classificato catastalmente come strumentale (cat. D8). L’articolo 5 del D.M. 13 febbraio 1992 (in Gazzetta Ufficiale n. 38 del 15 febbraio 1992 - Modalità di attuazione delle disposizioni tributarie in materia di rivalutazione dei beni immobili delle imprese) precisa che per le unità immobiliare classificate nelle categorie catastali D ed E, il costo è comprensivo dell’area in cui insiste il fabbricato stesso. A supportare la tesi di parte ricorrente soccorre anche la ratio della particolare procedura di rimborso (accelerato) prevista dal citato articolo 30, ratio che è quella di non penalizzare gli investimenti produttivi che altrimenti, con la procedura normale della detrazione rivalsa – nel caso specifico – comporterebbe un recupero dell’imposta solo nel lungo periodo (7-10 anni secondo le stime della parte) e quindi, addosserebbe al contribuente, anche se solo parzialmente, l’onere dell’Iva, violando in tal modo il principio della neutralità del tributo. Detto principio è stato peraltro più volte ribadito in sede comunitaria come dimostra, non solo la sentenza della Corte di Giustizia europea richiamata dalla parte, ma anche le conclusioni, recenti, dell’avvocato generale nella causa C-25/07 (che vedeva opposto un contribuente polacco alla sua amministrazione fiscale), in cui si sostiene che spetta al giudice nazionale accertare e verificare se le eventuali misure nazionali che ritardino i rimborsi (per effettuare verifiche su possibili frodi) siano o meno compatibili con i principi di neutralità, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione contraria del diritto interno. Per quanto riguarda l’accenno, fatto dall’ufficio – per la verità in modo poco convinto – alle disposizioni contenute nel D.L. 223/2006 con il quale è stata sancita l’irrilevanza, ai fini delle imposte dirette, degli ammortamenti sui terreni, si tratta, a parere del Collegio, di eccezioni irrilevanti, tenuto conto che il citato decreto legge riguarda le imposte dirette e non l’Iva e che comunque le disposizioni in esso contenute sono innovative e non interpretative (e quindi esplicano efficacia solo in un periodo largamente successivo rispetto alla data di acquisto dell’immobile oggetto della controversia).


12 Iva.qxd

10-04-2009

806

16:00

Pagina 806

GiustiziaTributaria

4 2008

In conclusione, per le considerazioni sopra esposte, ritiene il Collegio che il ricorso debba essere accolto. Quanto alle spese di lite, ricorrono giusti motivi legati al fatto che il testo letterale del più

volte citato art. 30, lettera c, D.P.R. 633/1972, sembrerebbe supportare la tesi del diniego sostenuta dall’ufficio, per compensarle interamente tra le parti.

Nota di Michele Iavagnilio

art. 30, comma 3, lett. c, D.P.R. n. 633/1972 –, oggetto del contenzioso davanti alla Commissione tributaria di I grado di Bolzano, che consente il rimborso dell’eccedenza detraibile, in luogo del riporto in avanti, «limitatamente all’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni ammortizzabili». Più precisamente, la questione sottoposta ai giudici di primo grado riguarda l’acquisto di un terreno sul quale la società ha poi costruito un fabbricato strumentale “per natura” di categoria D8. Sono sorte, quindi, almeno due questioni principali sulle quali si è pronunciata la Commissione tributaria: 1. se il terreno su cui insiste l’immobile strumentale possa essere considerato quale parte integrante di un “bene ammortizzabile” unitario; 2. se, in caso di risposta positiva, da quale momento il terreno, ai fini Iva, diventa (parte di) un “bene ammortizzabile” consentendo, per l’effetto, il rimborso dell’imposta relativa all’acquisto.

Ai fini del rimborso Iva “accelerato” per l’acquisto di beni ammortizzabili, l’amministrazione finanziaria ha sempre accolto l’interpretazione secondo cui la nozione di “beni ammortizzabili” debba essere desunta dalle disposizioni in materia di imposizione diretta. Ne consegue che l’Iva corrisposta sull’acquisto di terreni, su cui vengono realizzati fabbricati strumentali, non potrebbe essere oggetto di rimborso alla luce delle modifiche normative introdotte dal D.L. 223/2006. Tale orientamento restrittivo, tuttavia, non appare conforme alle omologhe disposizioni comunitarie che prevedono la diversa nozione, più ampia, di “beni d’investimento”, e nemmeno alla ratio della disposizione contenuta nell’art. 30, comma 3, D.P.R. 633/1972, volta a non penalizzare gli investimenti e che, in applicazione del principio comunitario di neutralità del tributo, esige che il rimborso dell’imposta avvenga in tempi ragionevoli in modo da non addossare al soggetto passivo, anche parzialmente, l’onere dell’Iva. Inquadramento normativo e questioni sottoposte al giudice di primo grado La sentenza che si annota offre lo spunto per alcune considerazioni in merito alla portata dell’art. 183 della direttiva 2006/112/CE, secondo cui «Qualora, per un periodo d’imposta, l’importo delle detrazioni superi quello dell’Iva dovuta, gli Stati membri possono far riportare l’eccedenza al periodo successivo, o procedere al rimborso secondo modalità da essi stabilite». Da tale principio, invero, sembrerebbe discendere, per gli Stati membri, la facoltà di stabilire quali acquisti o quali posizioni soggettive siano meritevoli di un rimborso immediato e quali, invece, non lo siano, con la conseguenza di dover riportare in avanti l’eccedenza detraibile che non abbia trovato compensazione con i relativi debiti Iva in un medesimo periodo d’imposta. In tale contesto si inserisce la norma nazionale –

La nozione di bene ammortizzabile nelle imposte sui redditi L’amministrazione finanziaria ha in diverse occasioni precisato che si considerano “beni ammortizzabili”, ai fini del rimborso Iva, quei beni per i quali le disposizioni in materia di imposizione diretta prevedono la deduzione del costo per quote di ammortamento1. È bene sin d’ora precisare che tale collegamento: bene ammortizzabile ai fini delle imposte dirette-rimborsabilità immediata del credito Iva, non pare trovare una logica sistematica se non quella di semplificare il criterio di accesso al rimborso mediante un riscontro oggettivo dei beni ammortizzabili, per i quali, contabilmente, ma soprattutto, sotto il profilo fiscale, viene attuato un processo di ammortamento. Tuttavia, se il rinvio alle disposizioni tributarie in materia di imposte dirette fosse corretto bisognerebbe trarre l’ulteriore conclusione, per quanto riguarda il caso sottoposto ai giudici di Bolzano, che in ambito fiscale il terreno forma(va) un tutt’uno e si confonde(va) con il complesso immobiliare strumentale che insiste sullo stesso, con

1 Nota n. 353998 del 16 febbraio 1983; risoluzione n. 445585 del 2 dicembre 1991; risoluzione n. 909-24940 del 12 maggio 2003; risoluzione n. 179/E del 27 dicembre 2005.


12 Iva.qxd

10-04-2009

16:00

Pagina 807

Iva 4 2008 807

cui costituisce un unico bene ammortizzabile. Tale conclusione appare avallata dagli elementi qui di seguito indicati, alcuni dei quali evidenziati dai giudici di primo grado. In sede di commento alle disposizioni in materia di incentivi agli investimenti (legge “Tremontibis”) è stato chiarito che i terreni, pur essendo esclusi dall’agevolazione in quanto privi del requisito della strumentalità, possono comunque farsi rientrare nel campo di applicazione del beneficio qualora incorporino, per accessione, un fabbricato strumentale per natura2. A favore dell’ammortizzabilità fiscale dei terreni su cui insistono fabbricati strumentali, depone, inoltre, l’art. 5, comma 5, del D.M. 13 febbraio 1992, attuativo della legge n. 413/1991, nella parte in cui stabilisce che il costo su cui calcolare la rivalutazione per gli immobili classificati nelle categorie catastali D ed E è da assumersi al lordo del costo dell’area sulla quale insiste il fabbricato. Di conseguenza, il successivo ammortamento sul bene rivalutato sarebbe stato computato sul valore lordo (terreno + fabbricato), anziché netto. Tuttavia, l’elemento principale su cui poggia tale interpretazione, ma che non è stato rilevato nella sentenza in commento, risiede nell’analisi delle vicende parlamentari che hanno portato all’approvazione dell’originario art. 67 del D.P.R. 917/1986, articolo che conteneva la disciplina fiscale degli ammortamenti. Invero, la Commissione parlamentare decise esplicitamente di non inserire nel testo definitivo della norma l’inciso che stabiliva che il costo dei fabbricati strumentali doveva essere «assunto al netto del costo delle aree occupate dalla costruzione e di quelli che ne costituiscono pertinenza»3. L’ammortizzabilità fiscale del terreno su cui insiste il fabbricato strumentale deve essere, pertanto, considerata legittima almeno fino alle modifiche introdotte dalle disposizioni contenute nell’art. 36, comma 7, del D.L. n. 226/2006 che, con effetto dal periodo in corso al 4 luglio 2006, ha stabilito la non ammortizzabilità dei terreni su cui insistono fabbricati strumentali. Tali disposizioni, infatti, come rilevato dai giudici di primo grado,

2 Cfr. circolare 90/E del 17 ottobre 2001. 3 Su tale ricostruzione a favore dell’ammortizzabilità sul valore lordo e sugli elementi sopra indicati cfr. Barosso-Fornero, Contabilizzazione e ammortamento dei terreni sui quali insistono fabbricato industriali e commerciali,

rivestono carattere innovativo4. Ed è proprio per tale ragione che si può ulteriormente sostenere che il cambio normativo intervenuto sia esso stesso una indiretta conferma della correttezza delle conclusioni raggiunte rispetto alla normativa fiscale previgente. La nozione di bene ammortizzabile nei principi contabili V’è da notare, dunque, che in relazione all’ammortamento dei terreni, su cui insistono fabbricati strumentali, fino al periodo d’imposta 2006 esisteva uno scollamento tra disposizioni fiscali e disposizioni civilistiche così come interpretabili alla luce dei principi contabili, sia nazionali che internazionali. Più precisamente sia lo Oic 16 che lo Ias 16 condividono il principio secondo cui «nel caso in cui il valore dei fabbricati incorpori anche quello dei terreni sui quali essi insistono, il valore dei terreni va scorporato ai fini dell’ammortamento sulla base di stime». Occorre stigmatizzare, infine, come i principi contabili, secondo la relazione che riporta i pareri delle Commissioni parlamentari per l’introduzione nelle disposizioni civilistiche delle direttive comunitarie sul bilancio, assumono «un ruolo tecnico di criterio integrativo ed interpretativo delle norme di legge che disciplinano la formazione ed il contenuto dei documenti contabili»5. Dal 2006 il suddetto scollamento civilistico-fiscale riguardante l’ammortizzabilità dei terreni su cui insistono i fabbricati non esiste più. Di conseguenza, non essendo più ammortizzabile il valore del terreno ne conseguirebbe che, ai fini dell’applicazione dell’art. 30, comma 3, lett. c, D.P.R. n. 633/1972, l’Iva corrisposta all’acquisto non sarebbe più rimborsabile anche nell’ipotesi di successivo utilizzo del terreno per la costruzione di un fabbricato strumentale. La nozione di bene ammortizzabile nella normativa Iva Il semplice rimando alle disposizioni concernenti l’ammortamento fiscale6 (ed oggi anche civilistico) produrrebbe l’effetto di impedire, dal 2006 in

in Pratica Fiscale, 2006, 19, 13. 4 Cfr. punto 9.1. della circolare ministeriale n. 11/E del 16 febbraio 2007. 5 Cfr. principio contabile nazionale n. 11 - Bilancio d’esercizio - finalità e postulati. 6 Trattasi dell’interpretazione da parte

dell’amministrazione finanziaria ed evidenziata in nota 1, secondo cui la nozione di bene ammortizzabile evoca la necessaria presenza di un processo di ammortamento rilevante ai fini fiscali, per mezzo della deducibilità delle quote annuali.


12 Iva.qxd

10-04-2009

808

16:00

Pagina 808

GiustiziaTributaria

4 2008

avanti, le richieste di rimborso per l’Iva corrisposta sull’acquisto di terreni su cui sono poi costruiti fabbricati strumentali. Tuttavia tale orientamento, fatto proprio dall’amministrazione finanziaria, non appare giustificato da alcun elemento interpretativo, alla luce delle considerazioni qui di seguito riportate. In primo luogo, invero, occorre osservare che la nozione di beni ammortizzabili non esiste nell’ambito della direttiva 77/388/CE e nemmeno nel testo rifuso nella direttiva 2006/112/CE. Le norme comunitarie fanno sempre riferimento ai “beni d’investimento”. Di qui potrebbe essere tratta una prima conclusione: l’utilizzo della nozione “beni ammortizzabili” nella normativa domestica deve essere intesa quale “beni d’investimento”. È pur vero che l’art. 183 della direttiva 2006/112/ CE lascia un certo margine di discrezionalità quanto alle modalità di rimborso, tuttavia non pare ipotizzabile che nel medesimo testo normativo (D.P.R. n. 633/1972) la nozione di beni ammortizzabili debba essere diversamente interpretata a seconda che si tratti di norme che comportano una diretta trasposizione di disposizioni comunitarie (si pensi al comma 2 dell’art. 19-bis2 - rettifica della detrazione) ovvero di norme che, in sede attuativa (art. 30, comma 3, lett. c), fanno ricorso a principi più generali (appunto l’art. 183 della direttiva 2006/112/CE). Per dirla in altri termini, non è pensabile che ai sensi delle disposizioni sulla detrazione (articoli 19-bis e 19-bis2, D.P.R. n. 633/1972) la nozione di beni ammortizzabili debba essere intesa quale “beni d’investimento” così come interpretata dalla Corte di Giustizia, mentre per il rimbor-

7 Ad esempio il punto 27 della sentenza relativa alla causa C-28/95, LeurBloem, così chiarisce: «In applicazione di questa giurisprudenza, la Corte si è ripetutamente dichiarata competente a statuire su domande di pronuncia pregiudiziale vertenti su disposizioni comunitarie in situazioni in cui i fatti della causa principale si collocavano al di fuori dell’ambito d’applicazione del diritto comunitario ma nelle quali tali disposizioni di diritto erano state rese applicabili o dal diritto nazionale o in forza di semplici disposizioni contrattuali (v. per quanto riguarda l’applicazione del diritto comunitario da parte del diritto nazionale, sentenze Dzodzi e Gmurzynska-Bscher, sopramenzionate; 26 settembre 1985, causa 166/84, Thomasdünger, racc. 3001; 24 gennaio 1991, causa C-384/89, Tomatis e Fulchiron, racc. I-127, e, per

so ex art. 30 la nozione di beni ammortizzabili debba essere intesa come “beni ammortizzabili ai fini delle imposte sui redditi”. Se il testo nazionale richiama una nozione di diritto comunitario senza espressamente limitarla, tale nozione comunitaria dovrebbe essere immediatamente applicabile. Siffatta conclusione, come sancito dalla Corte di Giustizia, è certamente valida per disposizioni che richiamano norme comunitarie ma che si pongono al di fuori del diritto comunitario7. A fortiori , quindi, dovrebbe valere per nozioni comunitarie richiamate nell’ambito del decreto nazionale di attuazione della direttiva Iva. Ciò premesso, è bene evidenziare che la nozione di “beni d’investimento”, così come interpretata dalla Corte di Giustizia, è una nozione di carattere più economico che contabile. Sono d’investimento quei beni che vengono durevolmente utilizzati nell’attività produttiva e, pertanto, “normalmente” non sono contabilizzati come spese correnti, bensì ammortizzati in più esercizi finanziari8. Tuttavia, mentre il processo di ammortamento costituiva un elemento importante nell’ambito della definizione di beni d’investimento nella seconda direttiva Iva9, ai fini della vigente direttiva esso appare meno incisivo10. Anzi, l’ammortamento in sé non pare possa rivestire carattere determinante11. Ad esempio, è stato ritenuto che i beni ceduti dalle società di leasing al termine del contratto di locazione finanziaria, benché ammortizzati dalle stesse società nel corso del contratto, non costituiscono “beni d’investimento” ai fini Iva, ma beni merce12. Ciò in quanto la vendita costituisce parte integrante

quanto riguarda l’applicazione del diritto comunitario da parte di clausole contrattuali, sentenze 25 giugno 1992, causa C-88/91, Federconsorzi, racc. I-4035, e 12 novembre 1992, causa C-73/89, Fournier, racc. I-5621, in prosieguo: la “giurisprudenza Dzodzi”). Infatti, in queste sentenze, le disposizioni, sia nazionali sia contrattuali, che riportano le disposizioni comunitarie non avevano manifestamente limitato l’applicazione di queste ultime». 8 Sentenza 15 dicembre 2005, causa C63/04, punto 55: «Per quanto riguarda i beni di investimento, l’art. 20 della VI direttiva prevede un regime speciale di rettifica. A questo proposito, occorre rilevare che, nell’ambito della seconda direttiva del Consiglio 11 aprile 1967, 67/228/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni

9 10 11 12

degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari - Struttura e modalità d’applicazione del sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (G.U. 1967, 71, 1303), la Corte ha considerato che il regime speciale riservato da quest’ultima direttiva ai beni d’investimento si spiega e si giustifica con l’uso prolungato di detti beni ed il concomitante ammortamento dei loro costi d’acquisto (v., in tal senso, sentenza 1 febbraio 1977, causa 51/76, Verbond van Nederlandse Ondernemingen, racc. 113, punti 12 e 13)». Direttiva del Consiglio 11 aprile 1967, 67/228/CEE. Cfr. sentenza 6 marzo 2008, causa C-98/07, punto 28. Cfr. sentenza 6 marzo 2008, causa C-98/07, punto 29. Cfr. sentenza 6 marzo 2008, causa C-98/07.


12 Iva.qxd

10-04-2009

16:00

Pagina 809

Iva 4 2008 809

dell’attività di impresa volta a locare (prima) e a cedere (poi) detti beni. In buona sostanza così come per una società che esercita la compravendita di immobili tali beni non sono considerati d’investimento13, analogamente per le società di leasing i beni oggetto dei contratti, ordinariamente ceduti al termine della locazione, non dovrebbero essere considerati beni d’investimento, ancorché una disposizione fiscale in tema di imposizione diretta ne consenta l’ammortamento. Probabilmente la definizione più calzante di beni d’investimento, ai fini Iva, sarebbe quella di beni strumentalmente utilizzati a supporto dell’attività tipica, che partecipano alla produzione in più cicli economici e che, di conseguenza, possono essere ammortizzati se deperibili14. Tuttavia, il fatto che un bene sia o meno ammortizzato ai fini delle imposte dirette può essere un indice circa la classificazione come bene d’investimento ai fini Iva ma non può essere considerato il fattore determinante. Ciò implica, ulteriormente, che potremmo trovarci al cospetto di beni di investimento che non vengono ammortizzati (ad esempio i terreni su cui insistono fabbricati strumentali) e beni non di investimento pur in presenza di un processo di ammortamento (ad esempio i beni concessi in locazione finanziaria da parte delle società di leasing). Tale interpretazione, peraltro, appare pienamente coerente con la ratio sottesa all’art. 30, comma 3, lett. c, D.P.R. n. 633/1972, volta a «non penalizzare gli investimenti»15 e a consentire «un più sollecito recupero dell’Iva assolta sui beni acquistati, evitando, in tal modo, un aggravio dell’esposizione finanziaria del contribuente»16. Come lucidamente esposto dai giudici di primo grado, la ratio sopra richiamata deve essere intesa come un’applicazione del principio comunitario di neutralità dell’imposta, assunto che esso verrebbe infranto qualora il recupero dell’Iva assolta sul-

13 Cfr. sentenza Corte di Cassazione n. 3518 del 17 febbraio 2006. 14 Sull’argomento cfr. FRANSONI, Il concetto di strumentalità Iva è lo stesso delle imposte sui redditi, in Riv. Dir. Trib., II, 62-64, il quale rileva che «[...] le esigenze sistematiche proprie dell’imposta sul valore aggiunto possono imporre di attribuire ai termini impiegati dal legislatore significati anche sensibilmente diversi da quelli comunemente accolti». 15 Nota n. 353996 del 16 febbraio 1983. 16 Risoluzione n. 392/E del 28 dicembre 2007.

l’acquisto da parte del soggetto passivo risultasse difficoltosa tale da esporlo ad un aggravio finanziario17. Se, dunque, la ratio, conformemente al principio di neutralità, è quella di evitare una esposizione finanziaria ed un più rapido recupero dell’Iva corrisposta su beni che non vengono ordinariamente rivenduti ma che vengono utilizzati strumentalmente per un periodo più lungo, non si comprende per quale logica l’acquisto di un’area edificabile su cui costruire un fabbricato strumentale non possa essere considerata un bene d’investimento (rectius ammortizzabile), mentre l’acquisto di un impianto lo sarebbe. In entrambi i casi, invero, saremmo di fronte ad una esposizione finanziaria “straordinaria” che la ratio della norma sul rimborso dovrebbe essere in grado di tutelare, evitando una penalizzazione degli investimenti ed un’infrazione del principio di neutralità del tributo. In tale contesto, quindi, risulta del tutto condivisibile la sentenza qui in commento nel punto in cui afferma che le disposizioni contenute nel D.L. 223/2006 riguardanti il processo di ammortamento dei terreni sono da riferirsi esclusivamente alle imposte dirette non già all’Iva. Ma v’è di più. Ai fini della rettifica della detrazione (e solo a tali fini18) agli Stati membri è consentito definire il concetto di beni d’investimento, ai sensi dell’art. 189, lett. a, direttiva n. 2006/112/CE. L’Italia, anche in questo caso, ha fatto riferimento, erroneamente, ai “beni ammortizzabili”, anziché ai beni d’investimento. Nell’esercizio di tale facoltà, ad esempio, non si considerano beni ammortizzabili quelli di costo inferiore ad euro 516,46 e quelli il cui coefficiente di ammortamento è superiore al 25%, ai sensi dell’art. 19-bis2, comma 5, D.P.R. n. 633/1972. Si considerano, invece, assimilate ai beni ammortizzabili le aree fabbricabili, secondo quanto pre-

17 Tale principio è stato chiarito dalla Corte di Giustizia europea con la sentenza del 25 ottobre 2001, causa C78/00, la quale ha affermato «dato che il rimborso dell’eccedenza di Iva costituisce uno degli elementi fondamentali a garanzia dell’applicazione del principio della neutralità del sistema comune dell’Iva, le modalità stabilite dagli Stati membri non possono essere tali da ledere detto principio, facendo sopportare al soggetto passivo, in tutto o in parte, gli oneri dell’Iva [...]. Da quanto sopra consegue che le modalità di rimborso del-

l’eccedenza di Iva che uno Stato membro stabilisce devono consentire al soggetto passivo di recuperare, in condizioni adeguate, la totalità del credito risultante da detta eccedenza di Iva. Questo implica che il rimborso sia effettuato, entro un termine ragionevole, mediante pagamento con somme liquide di denaro o in un modo equivalente. Comunque, il sistema di rimborso adottato non deve far correre alcun rischio finanziario al soggetto passivo». 18 Cfr. sentenza 6 marzo 2008, causa C-98/07.


12 Iva.qxd

10-04-2009

810

16:00

Pagina 810

GiustiziaTributaria

4 2008

visto dall’art. 19-bis2, comma 8, D.P.R. n. 633/197219. L’area fabbricabile, dunque, è, per espressa disposizione normativa, un bene d’investimento ai fini della rettifica della detrazione20. Deduzione e rimborso per beni d’investimento in fieri L’ulteriore elemento essenziale, cui la Commissione tributaria di I grado di Bolzano fa riferimento, riguarda il momento in cui sorge il diritto alla detrazione e, quindi, il diritto al rimborso. In via di principio, secondo la Corte di Giustizia, chi ha l’intenzione, confermata da elementi obiettivi, di avviare un’attività economica ed effettua a tal fine le prime operazioni di acquisto imponibili dev’essere considerato come soggetto passivo che agisce in quanto tale e ha il diritto di detrarre immediatamente l’Iva pagata sulle spese sostenute in vista delle operazioni imponibili che intende effettuare, senza dover aspettare l’inizio dell’esercizio effettivo dell’attività e anche qualora, di fatto, tale attività non venga avviata21. Sotto questo profilo, quindi, il richiamo dei giudici di primo grado anche alla recente pronuncia della Corte di Cassazione22, aiuta a comprendere che il requisito della strumentalità va valutato anche per i beni in corso di realizzazione, prima che questi siano ultimati e possano partecipare al processo produttivo. Si consideri infine che, anche secondo le autorità fiscali, tra i beni ammortizzabili sono comunque da comprendersi quelli in fieri, assoggettabili al processo di ammortamento solo una volta entrati in funzione. Sostiene infatti l’amministrazione finanziaria che: «sono da comprendere fra i beni ammortizzabili non solo quelli per i quali la procedura di ammortamento è immediatamente attuabile, come nel caso di acquisto di un prodotto finito, ma anche per quelli per i quali la procedura stessa è potenzialmente attuabile, nel senso che

19 Secondo la circolare n. 328/E del 24 dicembre 1997 «Le ipotesi e le modalità di rettifica delle detrazioni evidenziate per i beni ammortizzabili, valgono anche relativamente ai fabbricati e alle aree fabbricabili, che la legge equipara, a tali fini, ai beni ammortizzabili». 20 Peraltro tale “attrazione” alla nozione di “beni ammortizzabili” appare più una esigenza di ricondurre tale nozione a quella di beni d’investimento piuttosto che di ampliare tale ultimo concetto fino a ricompren-

la procedura di ammortamento sarà applicabile all’atto della realizzazione»23. Sotto questo profilo, quindi, non v’è dubbio che il periodo d’imposta cui riferire il rimborso è quello dell’acquisto dell’area edificabile ancorché la realizzazione del bene strumentale, al momento della richiesta, potrebbe essere ancora in fieri. Conclusioni Con riguardo all’acquisto di terreni utilizzati per la costruzione di beni strumentali, dall’esame delle disposizioni sul rimborso per l’Iva corrisposta all’acquisto, si evince, innanzitutto, la piena legittimità delle richieste avanzate prima dell’entrata in vigore dell’art. 36, comma 7, del D.L. n. 226/2006, conformemente alla nozione di “beni ammortizzabili” accolta dall’amministrazione finanziaria. Per il futuro esiste un problema di interpretazione della nozione domestica di “beni ammortizzabili” a cui corrisponde la nozione comunitaria di “beni d’investimento”. In altri termini, potrebbe essere ritenuto, anche sotto il profilo letterale, che l’Italia abbia erroneamente trasposto la direttiva, tenuto conto, come sopra evidenziato, che non sempre un bene ammortizzabile può essere considerato d’investimento e viceversa. L’applicazione uniforme del diritto comunitario esige, invero, che nell’intera Comunità la stessa nozione sia interpretata nella medesima maniera. A ciò fa eccezione la facoltà concessa agli Stati membri di definire il concetto di beni d’investimento (non di beni ammortizzabili) ai soli fini della rettifica della detrazione, per la quale lo Stato italiano ha esplicitamente incluso le aree fabbricabili; facoltà, quest’ultima, che non sarebbe consentita per le altre disposizioni che contemplano la nozione di “beni d’investimento” (ad esempio per il calcolo del pro rata)24. Per queste

dervi beni che di investimento non sono. In altri termini, le aree fabbricabili, qualora destinate ad accogliere fabbricati strumentali per l’attività di impresa, dovrebbero essere considerate oggettivamente quali beni d’investimento, a prescindere dalla espressa definizione legislativa, valevole esclusivamente ai fini della rettifica della detrazione, di cui al citato art. 19-bis2, comma 8, D.P.R. n. 633/1972. 21 Cfr. le sentenze Rompelman (sentenza 14 febbraio 1985, causa 268/83,

INZO (sentenza 29 febbraio 1996, causa C-110/94), Ghent Coal Terminal (sentenza 15 gennaio 1998, causa C37/95), Gabalfrisa (sentenza 21 marzo 2000, cause riunite da C-110/98 a C-147/98), Schloßstraße (sentenza 8 giugno 2000, causa C-396/98) e Breitsohl (sentenza 8 giugno 2000, causa C-400/98). 22 Sent. n. 14371 del 9 marzo 2007 (dep. il 20 giugno 2007). 23 Nota n. 353998 del 16 febbraio 1983. 24 Cfr. sentenza 6 marzo 2008, causa C-98/07.


12 Iva.qxd

10-04-2009

16:00

Pagina 811

Iva 4 2008 811

ultime, invero, non v’è dubbio che occorra riferirsi alla definizione comunitaria, così come interpretata dalla Corte di Giustizia, indipendentemente dal dato testuale utilizzato nell’ambito del D.P.R. 633/1972. Si comprende, quindi, che nel caso di specie le ulteriori complessità derivano dal fatto che la disposizione comunitaria sul rimborso, contenuta nell’art. 183 della direttiva 2006/112/CE, non fissa dei limiti particolari né, esplicitamente, richiama il concetto di beni d’investimento. Tuttavia, il riferimento nell’art. 30, comma 3, lett. c, D.P.R. n. 633/1972 alla nozione di “beni ammortizzabili”, in assenza di ulteriori precisazioni e limitazioni normative, potrebbe ben essere inteso come un rinvio alla nozione comunitaria di “beni d’investimento”, così come avviene per le altre disposizioni del D.P.R. n. 633/1972 che recepiscono direttamente tale nozione. Con riferimento al caso concreto, i giudici della Commissione tributaria di primo grado di Bolzano hanno accolto l’istanza del contribuente applicando i principi stabiliti dalla Suprema Corte25, poiché l’acquisto dell’area e la realizzazione del fabbricato si erano verificati prima dell’entrata in vigore dell’art. 36, comma 7, del D.L. n. 226/2006, per cui il terreno risultava, in ogni caso, includibile nella nozione di bene ammortizzabile ex art. 67 del D.P.R. n. 917/1986. Peraltro, i giudici hanno altresì fatto riferimento,

25 Cfr. nota 22.

correttamente, all’ulteriore elemento della specificità dell’Iva rispetto all’imposizione diretta. Tale indicazione della Commissione tributaria di primo grado di Bolzano risulta di fondamentale importanza poiché contribuisce a svincolare la nozione di bene ammortizzabile (rectius bene d’investimento) ai fini Iva rispetto all’accezione accolta ai fini delle imposte dirette, così come fino ad oggi interpretata dall’amministrazione finanziaria. Di qui si comprende l’ulteriore passaggio, che consente di interpretare le disposizioni nazionali sia con riferimento alla ratio dell’art. 30, comma 3, lett. c, D.P.R. n. 633/1972, volta a non penalizzare gli investimenti, sia alla luce delle disposizioni comunitarie che richiamano la nozione di beni d’investimento. In particolare, per quanto riguarda la suddetta ratio, l’ulteriore elemento che risulta pienamente condivisibile e rafforza l’interpretazione qui avanzata, è il richiamo, nella sentenza annotata, ai principi comunitari di pari trattamento e di neutralità del tributo, in conformità all’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, che esigono che il recupero del credito Iva debba avvenire entro un periodo di tempo ragionevole. Per cui, anche in tale ottica, non sarebbe ammissibile in campo Iva una discriminazione tra beni d’investimento ammortizzabili e beni d’investimento non ammortizzabili, secondo una definizione valevole esclusivamente ai fini delle imposte dirette.


13 Processo Tributario.qxd

812

10-04-2009

16:01

GiustiziaTributaria

Pagina 812

4 2008

PROCESSO TRIBUTARIO ANCORA SULLA SOSPENSIONE CAUTELARE INNANZI ALLE COMMISSIONI TRIBUTARIE REGIONALI I 116

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XIX, (ordinanza) 4 aprile 2007, n. 19 Presidente: Di Vitale - Relatore: Lionti Processo tributario - Giudizio cautelare - Proponibilità dinanzi al giudice di secondo grado Esecutività dell’atto impugnato - Sospensione Ammissibilità (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 47 e 61; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n.472, art. 19) Nonostante il potere di sospensione cautelare previsto dall’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992 si riferisca univocamente al processo di primo grado, non si può escludere che dello stesso potere sia dotato il giudice di appello, in quanto, ai sensi dell’art. 61, nel procedimento di appello si osservano tutte le norme che nel decreto n. 546/1992 sono dettate per il procedimento di primo grado, ivi compresa quella contenuta nell’art. 47 che prevede la sospensione dell’atto impugnato. La Commissione sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 17 gennaio 2007; vista l’istanza di sospensione dell’atto impugnato ex art. 47 del D.Lgs. 546/1992, presentata dalla [...] di [...] Vincenzo & C. S.a.s., avverso la sentenza, n. 147/01/2006, della Commissione tributaria provinciale di Agrigento, depositata il 12 giugno 2006; - sentite le parti che hanno insistito per l’accoglimento delle proprie richieste; - considerato che non vi è dubbio che l’art. 47 contenga la disciplina della sospensione dell’atto impugnato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale. Ed infatti: a) il comma 1 di tale articolo nomina la Commissione tributaria provinciale, quale organo al quale il ricorrente può chiedere la sospensione dell’atto impugnato; b) il comma 7 dispone che la sospensione cessa con la pubblicazione della sentenza di primo grado. Tali atti normativi che univocamente si riferiscono al procedimento di primo grado non escludono però che dello stesso potere sia dotato il giudice di appello il quale non ha poteri menomati rispetto a quelli del giudice di primo grado, dato che, a norma dell’art. 61, nel procedimento di appello si osservano le medesime norme che, nel

decreto n. 546, sono dettate per il procedimento di primo grado. L’art. 61 non richiama specificamente le norme nel capo primo del titolo secondo del D.Lgs. 546 (artt. 18-46), ma richiama, in generale, tutte le norme dettate per il procedimento di primo grado; e tale dizione comprende, indubbiamente, anche quelle dettate, per il primo grado, nel capo secondo; - tenuto conto che, ai sensi del comma 1 dell’art. 47, cit., la richiesta di sospensione di cui all’art. 19, comma 2, è subordinata alla esistenza di un danno «grave ed irreparabile» derivante dall’esecuzione della sanzione; - avuto riguardo alla prevalente dottrina secondo la quale si ha: danno «grave» nell’ipotesi in cui vi sia una sproporzione molto rilevante fra il pregiudizio che deriva alla parte che la subisce ed il vantaggio che invece deriva alla parte che effettua l’esecuzione; danno «irreparabile» quando l’esecuzione cagioni conseguenze irreversibili e/o non suscettibili di ripristino della situazione antecedente; - considerato che l’entità del tributo e il tipo di attività commerciale svolta rendono evidente il pericolo per il contribuente del verificarsi di conseguenze irreversibili e/o non suscettibili di ripristino della situazione antecedente; - considerato che in primo grado non è stato esaminato il merito della questione a causa del fatto che secondo la Commissione tributaria provinciale non era stata allegata agli atti la copia dell’avviso di accertamento impugnato, mentre l’appellante dichiara di averla prodotta, giusta ricevuta rilasciata dalla segreteria della suddetta commissione in data 12 luglio 2005; - tenuto altresì conto del rischio attuale per la società di procedimenti esecutivi, di importi molto rilevanti, basati su di una sentenza che, per i problemi sopra evidenziati, non ha esaminato il merito della questione; - considerati i danni che potrebbero derivare alla società appellante dalle procedure esecutive; sospende l’esecuzione dell’atto impugnato e fissa la discussione dell’atto di appello all’udienza del 20 giugno 2007 alle ore 10.


13 Processo Tributario.qxd

10-04-2009

16:01

Pagina 813

Processo tributario 4 2008 813

II 117

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XXX, (ordinanza) 20 agosto 2007, n. 47 Presidente: Zingale - Relatore: Piepoli Processo tributario - Giudizio cautelare - Proponibilità dinanzi al giudice di secondo grado Sospendibilità della sentenza di primo grado Inammissibilità - Esecutività dell’atto impugnato - Sospensione - Ammissibilità (C.p.c., artt. 283 e 337; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 47 e 49; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 19) Nel giudizio cautelare dinanzi alla Commissione tributaria regionale, la sospensione delle sentenze, disciplinata dall’art. 283 c.p.c., deve ritenersi preclusa dall’art. 49 del D.Lgs. n. 546/1992, che non ammette l’applicabilità dell’art. 337 c.p.c. nel quale è richiamato il citato art. 283 c.p.c., tuttavia, al fine di assicurare la tutela cautelare in entrambi i gradi del giudizio di merito del processo tributario, deve ritenersi ammissibile anche nel giudizio di appello la sospensione dell’atto impugnato, sia per le sanzioni che per i tributi. La Commissione, letta l’istanza, contestuale al ricorso in appello depositato l’8 giugno 2007, di sospensione degli effetti delle sentenze appellate n. 75/09/2006, 76/09/2006, 77/09/2006, 78/09/2006, tutte pronunciate in data 24 gennaio 2006, con le quali la Commissione tributaria provinciale di Palermo, sezione IX, aveva rigettato i ricorsi proposti dal [...] avverso gli avvisi di accertamenti emessi dall’ufficio relativamente agli anni 1999, 2000, I - II Nota di Marilena Sireci Sulla scia delle osservazioni già formulate su questa rivista1 in tema di applicabilità della tutela cautelare nei gradi di giudizio successivi al primo, appare opportuno segnalare le recenti ordinanze pronunciate da due sezioni della Commissione tributaria regionale di Palermo che, seppure con argomentazioni diverse, si inseriscono nell’alveo di quell’orientamento che ammette la possibilità per il contribuente di ottenere la sospensione cautelare innanzi alle commissioni regionali. Come è noto, il dibattito dottrinale e giurispru-

2001 e 2002 per il recupero delle imposte dovute sui ricavi e sui redditi derivati dal commercio in nero di carburanti, visti gli artt. 283 del c.p.c., 19, comma 2 del D.Lgs. n. 472/1997 e 47 del D.Lgs. n. 546/1992, ritenuto preliminarmente che l’applicazione dell’art. 283 del c.p.c. sia preclusa nel processo tributario per effetto di quanto disposto dell’art. 49 del D.Lgs. n. 546/1992 il quale prevede che alle impugnazioni delle sentenze delle Commissioni tributarie non si applichi l’art. 337 del c.p.c. nel quale è richiamato l’art. 283, riconosciuta tuttavia all’art. 19 del D.Lgs. n. 472/1997 natura meramente ricognitiva del generale potere di sospensione stabilito dall’art. 47 deI D.Lgs. n. 546/1992 nell’intento di realizzare la tutela cautelare in entrambi i gradi del giudizio di merito del processo tributario, stabilito pertanto che anche nel giudizio di appello presso le Commissioni tributarie regionali è ammessa la richiesta di sospensione dell’atto impugnato sia per le sanzioni sia per i tributi, esaminati gli atti e i documenti di causa, sentite le parti in camera di consiglio, rilevato che la vicenda rappresentata a questa Commissione riguarda questioni che nel merito non consentono ad un primo sommario esame in questa fase cautelare e senza gli approfondimenti che saranno operati nella fase ordinaria del giudizio di ritenere sussistente il fumus boni juris, considerato che tanto basta ad escludere la possibilità che la richiesta di sospensiva possa essere accolta, P.Q.M. rigetta l’istanza di sospensione proposta. denziale si incentra, nelle sue linee essenziali, sulla possibilità di ottenere o meno la tutela cautelare nei gradi di giudizio successivi al primo e, in caso positivo, di stabilire se essa debba avere ad oggetto l’atto originariamente impugnato oppure la sentenza sottoposta a gravame. I giudici siciliani, tanto nella prima quanto nella seconda ordinanza, giungono ad affermare che oggetto della sospensione cautelare debba essere l’atto originariamente impugnato piuttosto che la sentenza di primo grado. Considerazioni preliminari Prima di analizzare le due ordinanze, appare op-

1 PATUMI, Il punto sulla tutela cautelare nel giudizio tributario d’appello, in questa rivista, 2007, 1, 178; MARCOLONGO, Considerazioni sull’applicabilità della sospensione cautelare nel giudizio di appello tributario, in questa rivista, 2007, 3, 616.


13 Processo Tributario.qxd

814

10-04-2009

16:01

GiustiziaTributaria

Pagina 814

4 2008

portuno ripercorrere, seppure sinteticamente, i termini della questione. L’orientamento prevalente in dottrina esclude che si possa ottenere la sospensione dell’atto impugnato nei gradi successivi al primo2. Anche in numerosi provvedimenti dei giudici di merito si legge che la sospensione cautelare non è ammissibile nel processo tributario3. Taluni autori, invece, sorretti anche da una interpretazione giurisprudenziale favorevole, ritengono che, in forza di alcuni richiami normativi, sia possibile applicare al processo tributario le norme sul processo civile relative alla sospensione4. Infine, vi è chi ritiene che, alla luce delle norme vigenti, la sospensione cautelare delle sentenze impugnate sia da escludere ma che, tuttavia, ciò sia in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione5. In quest’ultimo orientamento si collocano prevalentemente le ordinanze delle Corti di merito che, nel tempo, hanno promosso diversi giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 47 e 49 del

2 GLENDI, La tutela cautelare oltre il primo grado non è costituzionalmente garantita, in Corr. Trib., 2000, 1893 ss.; COLLI VIGNARELLI, Considerazioni in tema di tutela cautelare nel processo tributario, in Rass. Trib., 1996, 575; MAGNANI, La sospensione della riscossione dei tributi fra autotutela amministrativa e tutela cautelare, in Studi in onore di V. Uckmar, Padova, 1997, 839; MUCCARI-NAPOLITANO, La sospensione delle sentenze tributarie al vaglio della Corte costituzionale, in Boll. Trib., 1999, 1013; TOSI, L’azione cautelare dopo la riforma del processo tributario, in Boll. Trib., 1993, 792. 3 Per la giurisprudenza, cfr. tra le altre, Comm. trib. reg. Emilia Romagna, sez. I, ord. 28 giugno 1996, n. 1; Comm. trib. reg. Marche, sent. 24 febbraio 1997, n. 1, in Dir. e Prat. Trib., 1998, II, 429; Comm. trib. reg. Umbria, sent. 17 ottobre 1998, in Boll. Trib., 1998, 1915. 4 FALCONE, La sospensione tributaria e l’opera dell’interprete, in Fisco, 1996, 6106. Per l’interpretazione giurisprudenziale, cfr. Comm. trib. reg. Molise, sent. 27 luglio 1998, in Boll. Trib., 1999, 431; Comm. trib. reg. Liguria, 28 maggio 1999, in Riv. Giur. Trib., 1999, 1043; Comm. trib. reg. Friuli, 16 dicembre 1999, in Guida normativa, 2000, 24, con nota di GLENDI, Un’interpretazione forse più giusta che corretta. 5 CANTILLO, La sospensione dell’atto im-

D.Lgs. n. 546/1992, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non consentono, nel processo tributario, la sospensione ope iudicis della esecutività della sentenza di primo grado6. Il quadro normativo di riferimento e il dibattito dottrinale e giurisprudenziale Al fine di comprendere la ratio che sorregge i diversi orientamenti che si contrappongono, occorre analizzare il quadro normativo di riferimento che, essendo complesso, si presta a interpretazioni diversificate. Come è noto, la disciplina della sospensione cautelare emerge dalla lettura, in combinato disposto, di più norme del decreto sul processo tributario, alcune delle quali, peraltro, richiamano il Codice di procedura civile. L’art. 47 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in attuazione della delega specifica di cui alla legge n. 413/1991, secondo la quale si doveva introdurre «un procedimento incidentale ai fini della so-

pugnato, in AA.VV., Il nuovo processo tributario, Milano, 1996, 263; MULEO, La tutela cautelare, in AA.VV., Il processo tributario, Torino, 1998, 882883; GALLO, Sullo stato attuale della riforma del contenzioso tributario, in Rass. Trib., 2000, 18-19. 6 Comm. trib. reg. Umbria, ord. 10 settembre 1998, in G.U., prima serie speciale, 1998, 48, 58; 10 giugno 1999, in G.U., prima serie speciale, 1999, 38, 52; 8 luglio 1999, in G.U., prima serie speciale, 1999, 42, 111; 30 agosto 1999 in G.U., prima serie speciale, 2000, 3, 88. I giudici perugini segnalavano, in relazione all’art. 3 Cost., l’ingiustificata disparità di trattamento tra i contribuenti conseguente alla previgente distribuzione della giurisdizione tra il giudice tributario e il giudice ordinario atteso che solo innanzi al secondo, e non davanti al primo, poteva invocarsi la tutela cautelare nelle fasi di gravame. Con riguardo all’art. 24 Cost., la Commissione evidenziava la lesione del diritto di difesa che, ammettendosi la sospensione solo in primo grado, non sarebbe stato garantito in ogni fase del giudizio tributario. Tali ordinanze hanno dato luogo alla nota sentenza del 31 maggio 2000, n. 165 (in Corr. Trib., 2000, 1893 ss.) con la quale la Corte costituzionale, pur affermando che «la disponibilità di misure cautelari costituisce componente es-

senziale della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24 della Costituzione», finalizzata a evitare che la durata del processo danneggi il ricorrente che abbia ragione, ha ritenuto la questione non fondata sostenendo, tra l’altro, che «la garanzia costituzionale della tutela cautelare debba ritenersi imposta solo fino al momento in cui non intervenga, nel processo, una pronuncia di merito che accolga – con efficacia esecutiva – la domanda, rendendo superflua l’adozione di ulteriori misure cautelari, ovvero la respinga, negando in tal modo, con cognizione piena, la sussistenza del diritto dunque il presupposto stesso della invocata tutela. Con la conseguenza che la previsione di mezzi di tutela cautelare nelle fasi di giudizio successive a siffatta pronuncia, in favore della parte soccombente nel merito, deve ritenersi rimessa alla discrezionalità del legislatore». Non può tacersi, tuttavia, che accogliere tale tesi significa sminuire il ruolo che riveste il giudizio di appello quale revisio prioris istantiae. Nello stesso senso, cfr. Corte cost., ord. n. 217 del 2000 e n. 325 del 2001. Da ultimo vedi Comm. trib. reg. Veneto, ordinanza dell’8 maggio 2006 (in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big) cui è seguita l’ordinanza della Corte cost., 21 marzo 2007, n. 119.


13 Processo Tributario.qxd

10-04-2009

16:01

Pagina 815

Processo tributario 4 2008 815

spensione dell’esecuzione dell’atto impugnato», ha previsto che il ricorrente, qualora possa derivargli un danno grave ed irreparabile dalla esecuzione dell’atto impugnato, può richiedere alla Commissione tributaria provinciale competente la sospensione dello stesso con istanza motivata nel ricorso o separatamente. Il comma 7 del medesimo articolo specifica, poi, che «gli effetti della sospensione cessano alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado». Il successivo art. 49 prevede che alle impugnazioni delle sentenze delle Commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del Codice di procedura civile, escluso l’art. 3377 e fatto salvo quanto disposto nello stesso decreto n. 546/1992. Occorre infine considerare l’art. 68 del medesimo decreto che disciplina il pagamento dei tributi in pendenza del processo tributario dopo che sia stata emessa la sentenza, prevedendo un sistema articolato di riscossione provvisoria differenziato in relazione al grado del giudizio8. Da una prima lettura delle norme indicate, sembrerebbe che siano inibite tanto la sospensione dell’atto impugnato nei gradi di giudizio successivi al primo quanto la sospensione dell’efficacia delle sentenze. I sostenitori9 di tale tesi si basano sulla lettera delle norme: l’esplicito riferimento in seno all’art. 47 alla possibile sospensione degli effetti dell’atto impugnato, da richiedere con istanza da presentare davanti alla Commissione tributaria provinciale e con efficacia temporale fino alla pubblicazione della sentenza di primo grado, costituireb-

7 L’art. 337, comma 1, c.p.c., rubricato “Sospensione dell’esecuzione e dei processi”, così dispone: «L’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa, salve le disposizioni degli artt. 283, 373, 401 e 407». Gli articoli richiamati si riferiscono alla possibilità di chiedere al giudice competente la sospensione cautelare delle sentenze impugnate in appello, in Cassazione, con revocazione e, infine, con opposizione di terzo. 8 Specificamente, l’art. 68, comma 1, parte prima, così dispone: «Anche in deroga a quanto previsto nelle singole leggi d’imposta, nei casi in cui è prevista la riscossione frazionata del tributo oggetto di giudizio davanti alle commissioni, il tributo, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere pagato: a)

be espressione della chiara volontà del legislatore di limitare al primo grado di giudizio la sospensione, escludendo radicalmente che possa chiedersi nei gradi successivi al primo. Inoltre, sosterrebbero tale ricostruzione l’esplicita esclusione dell’operatività dell’art. 337 c.p.c. nonché la previsione dell’apposito regime di riscossione provvisoria di cui all’art. 68: in sostanza, in nessuno dei processi d’impugnazione previsti dalle norme sul processo tributario sarebbe esperibile la sospensione dell’esecuzione della sentenza10. Le stesse norme, però, a sostegno della tesi contrapposta, vengono interpretate in maniera diversa, affermandosi che l’inapplicabilità dell’art. 337 c.p.c. non implicherebbe, necessariamente, anche la non applicabilità delle norme in esso richiamate (artt. 283, 373, 401 e 407) e ciò in forza del generale rinvio alle norme del Codice di procedura civile. In particolare, secondo alcuni autori11, la cui tesi si condivide pienamente, l’inapplicabilità dell’art. 337 c.p.c. è stata precisata in seno al decreto sul processo tributario al solo fine di sgomberare il campo da possibili confusioni derivanti dal rapporto tra il regime di immediata esecutività delle sentenze di primo grado, tipico del processo civile, e quello della riscossione frazionata che opera nel processo tributario. In sostanza, il divieto di applicazione dell’art. 337 c.p.c., sancito dall’art. 49 del D.Lgs. n. 546/1992, si limiterebbe a segnalare che nel processo tributario la sentenza non è immediatamente e totalmente efficace atteso che l’art. 68 dello stesso decreto disciplina in maniera autonoma l’esecutività

per i due terzi, dopo la sentenza della Commissione tributaria provinciale che respinge il ricorso; b) per l’ammontare risultante dalla sentenza della Commissione tributaria provinciale, e comunque non oltre i due terzi, se la stessa accoglie parzialmente il ricorso; c) per il residuo ammontare determinato nella sentenza della Commissione tributaria regionale». 9 COLLI VIGNARELLI, Considerazioni in tema di tutela cautelare nel processo tributario, in Rass. Trib., 1996, 565; MAGNANI, La sospensione della riscossione dei tributi fra autotutela amministrativa e tutela cautelare, in Studi in onore di V. Uckmar, Padova, 1997, 817; NAPOLITANO-MUCCARI, La sospensione delle sentenze tributarie al vaglio della Corte costituzionale, in Boll. Trib., 1999, 1013; MATTARELLI, La tutela cautelare

dinanzi alla Commissione tributaria regionale: il dibattito è ancora vivo, in Boll. Trib., 2002, 1408. 10 Tale orientamento è stato condiviso, oltre che dalla giurisprudenza già richiamata (v. nota 3), anche dall’amministrazione finanziaria con la circolare del Ministero delle Finanze del 23 aprile 1996, n. 98/E il cui contenuto è stato ribadito nella successiva circolare del 31 luglio 2001, n. 73/E, in Fisco, 2001, 10653, con nota di BECCALLI, La sospensione cautelare nel rito tributario tra prassi e giurisprudenza costituzionale, in Fisco, 2001, 11758. 11 RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 514 nonché MATTARELLI, La tutela cautelare dinanzi alla Commissione tributaria regionale: il dibattito è ancora vivo, in Boll. Trib., 2002, 1409.


13 Processo Tributario.qxd

816

10-04-2009

16:01

GiustiziaTributaria

Pagina 816

4 2008

delle sentenze, prevedendo la riscossione frazionata del tributo12. Ne consegue che sussisterebbe una incompatibilità solo tra la regola processualcivilistica dell’immediata e integrale efficacia esecutiva delle sentenze, seppure impugnate, dettata dall’art. 337 c.p.c., e la disciplina in tema di esecutività delle sentenze tributarie di cui all’art. 68 del D.Lgs. n. 546/199213. Pertanto, non ci sarebbe alcuna incompatibilità tra le norme del processo tributario e le singole disposizioni che incidentalmente vengono richiamate in seno al citato art. 337 c.p.c. Del resto, se non ci fosse l’esclusione dettata dall’art. 49, si apprezzerebbe l’incompatibilità tra l’art. 337 c.p.c. e l’art. 68, ma non ci sarebbe alcuna incompatibilità tra il decreto n. 546/1992 e gli artt. 283, 373, 401 e 407 del Codice di rito, singolarmente considerati. In questo senso si è anche espressa parte della giurisprudenza di merito, affermando che «la disposizione dell’art. 49 del richiamato D.Lgs n. 546 del 1992 è finalizzata solo a sancire l’inapplicabilità al processo tributario della regola che attribuisce immediata e diretta efficacia alle sentenze civili, non già ad escludere l’operatività delle norme sulla sospensione che quella efficacia esecutiva presuppongono» (Comm. trib. reg. Lazio, sez. I, 22 novembre 2006, n. 45)14. È stato osservato che, mancando nel D.Lgs. n. 546/1992 un esplicito richiamo all’inapplicabilità degli artt. 283, 373, 401 e 407 c.p.c., l’interprete è legittimato, in virtù del generale richiamo alle norme del c.p.c. di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, a ritenere interamente applicabile al processo tributario la disciplina cautelare prevista dal Codice di procedura civile15. In sostanza, atteso che nessuna norma del processo tributario nega espressamente la sospensione della sentenza di primo grado o di appello, la disciplina prevista dal Codice di procedura civile sa-

12 Cfr. sul punto Comm. trib. reg. Friuli, ord. 16 dicembre 1999, n. 15 (in Guida normativa 2000, 92, 24) ove così si legge: «Il fatto stesso che nel sistema processual-tributario l’efficacia delle sentenze delle commissioni trovi una sua specifica regolamentazione nell’art. 68 del D.Lgs. n. 546 del 1992 dimostra che l’eccezione prevista dall’art. 49 nei confronti dell’art. 337 c.p.c. non fa altro che esplicitare – sul piano formale – una deroga alle regole processualcivilistiche in tema di esecutorietà che è

rebbe agevolmente e interamente applicabile non essendo apprezzabile alcuna incompatibilità16. La soluzione adottata dai giudici siciliani Nelle due ordinanze in commento, i giudici siciliani sostengono la possibilità di ottenere la tutela cautelare nei gradi successivi al primo attraverso la sospensione degli effetti dell’atto impugnato nel primo grado di giudizio anziché della sentenza. In particolare nella prima ordinanza, dopo aver riconosciuto espressamente che il più volte citato art. 47 contiene «la disciplina della sospensione dell’atto impugnato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale», i giudici hanno ritenuto che le disposizioni richiamate, pur riferendosi letteralmente al procedimento di primo grado «non escludono che dello stesso potere sia dotato il giudice di appello». I giudici siciliani fondano il proprio convincimento sull’art. 61 secondo il quale «nel procedimento di appello si osservano le medesime norme che, nel decreto n. 546, sono dettate per il procedimento di primo grado» atteso che il detto articolo «non richiama specificamente le norme del capo primo del titolo secondo del D.Lgs. n. 546 ma richiama, in generale, tutte le norme dettate per il procedimento di primo grado» comprese anche quelle dettate nel capo secondo, tra le quali rientra l’art. 47. In sostanza i giudici hanno fatto proprio quell’orientamento17 secondo cui non consentire l’applicabilità dell’art. 47 al secondo grado di giudizio, limiterebbe senza alcuna giustificazione i poteri del giudice del gravame che, proprio ai sensi dell’art. 61 del D.Lgs. n. 546/1992, deve poter applicare al giudizio di appello tutte le norme del giudizio di primo grado che non siano incompatibili. I giudici, pertanto, valutata la sussistenza tanto del fumus boni iuris quanto del periculum in mora hanno ritenuto di poter concedere alla società

già insita appunto – nei suoi termini sostanziali – nella disciplina dettata dall’art. 68». Nello stesso senso Comm. trib. reg. Liguria, ord. 31 maggio 1999, in Riv. Giur. Trib., 1999, 1043. 13 RANDAZZO, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano, 2003, 186. 14 Nello stesso senso cfr. Comm. trib. reg. Friuli, sez. X, 16 dicembre 1999, n. 1798. 15 FALCONE, La sospensione tributaria e l’opera dell’interprete, in Fisco, 1996, 6106. Nello stesso senso, BUSCEMA-

DI GIACOMO, Il processo tributario, Milano, 2004, 423. 16 GALLO, Applicazione anomala della sospensione cautelare, in Rivista della Guardia di Finanza, 2002, 2237. 17 TESAURO, La tutela cautelare nel procedimento di appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale, in Boll. Trib., 1999, 1735. Nello stesso senso CONIGLIARO-PETRUCCI, Applicabile in appello la sospensione cautelare per le imposte e le sanzioni, in Corr. Trib., 2002, 3620.


13 Processo Tributario.qxd

10-04-2009

16:01

Pagina 817

Processo tributario 4 2008 817

contribuente la sospensione cautelare dell’atto impugnato nel primo grado di giudizio, condividendo così la tesi di quanti ritengono che, in diritto tributario, l’esecutività non riguardi la sentenza ma l’atto18. Anche nella seconda ordinanza i giudici siciliani, pur rigettando l’istanza cautelare perché nella fattispecie esaminata mancherebbero i due noti requisiti, ammettono astrattamente la possibilità che il giudice di secondo grado possa concedere la chiesta sospensione dell’atto impugnato nel primo grado, ritenendo quindi che non sia possibile sospendere l’esecuzione della sentenza emessa dai giudici di primo grado. In particolare i giudici ritengono preliminarmente che «l’applicazione dell’art. 283 del c.p.c. sia preclusa nel processo tributario per effetto di quanto disposto dall’art. 49 del D.Lgs. n. 546/1992» e, riconoscendo all’art. 19 del D.Lgs. n. 472/1997, che prevede la sospensione delle sanzioni amministrative, «natura meramente ricognitiva del generale potere di sospensione stabilito dall’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992 nell’intento di realizzare la tutela cautelare in entrambi i gradi del giudizio di merito del processo tributario» affermano in maniera inequivocabile che «anche nel giudizio di appello presso le Commissioni tributarie regionali è ammessa la richiesta di sospensione dell’atto impugnato sia per le sanzioni sia per i tributi». Nonostante entrambe le ordinanze siano apprezzabili per la chiarezza con cui affermano la possibilità di concedere la tutela cautelare nel secondo grado di giudizio, non si può non rilevare che le stesse si pongono in evidente contrasto con quell’orientamento, condiviso da chi scrive, che ravvisa la possibilità di sospendere la sentenza di primo grado e non l’atto impugnato.

18 Sul punto vedi infra. Cfr. altresì Comm. trib. reg. Puglia, ord. 22 agosto 2001. 19 RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 514 nonché RANDAZZO, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano, 2003, 186. FALCONE, La sospensione tributaria e l’opera dell’interprete, in Fisco, 1996, 6106. Nello stesso senso, BUSCEMA-DI GIACOMO, Il processo tributario, Milano, 2004, 423. 20 Secondo RANDAZZO, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano, 2003, 188, infatti, la circostanza secondo cui l’art. 47 si riferisce indubbiamente al giudizio di primo grado, è una conseguenza della sua collocazione nel corpo normativo più che l’espressione della volontà del legislatore di li-

Sospensione dell’atto o della sentenza? A parere di chi scrive, la sospensione pronunciata dai giudici di secondo grado, ha per oggetto la sentenza e non l’atto impugnato. Invero la sospensione delle sentenze impugnate non solo, come sostenuto da autorevole dottrina19, non è incompatibile con le norme del Codice di procedura civile, ma trova fondamento anche su un’altra considerazione. È innegabile, infatti, che, mentre in primo grado l’atto da cui può derivare al contribuente un danno grave e irreparabile è solo l’atto impositivo impugnato, giustificandosi così la collocazione dell’art. 47 nel capo I relativo al primo grado di giudizio e il chiaro riferimento solo all’atto impugnato20, nel secondo grado di giudizio gli effetti pregiudizievoli derivano anche dalla sentenza che, se non si sostituisce all’atto impugnato, innegabilmente ne condiziona l’efficacia. Invero l’atto sub iudice è privo di una efficacia integrale e immediata, atteso che opera la riscossione provvisoria in pendenza di giudizio21: finché non viene emessa la sentenza di primo grado, l’atto dispiega un’efficacia parziale. Solo a seguito dell’emissione della sentenza l’atto viene riconosciuto conforme alla legge e può espandere la sua efficacia, seppure nei limiti dettati dall’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992. In sostanza è come se la sentenza, pur non sostituendosi all’atto, da cui continua a discendere l’esecutività, lo legittimasse e, dunque, dalla sua emissione può derivare per il contribuente un danno grave e irreparabile nuovo e più esteso, anche se nei limiti dettati dall’art. 68, rispetto a quello apprezzabile nelle more del processo di primo grado22. Peraltro, potrebbe anche verificarsi il caso che la riscossione in pendenza del primo grado di giu-

mitare l’utilizzo dell’istituto al primo grado di giudizio. Invero, continua l’autore, «quando il legislatore ha voluto effettivamente circoscrivere al solo primo grado di giudizio l’applicazione di un istituto, lo ha fatto in modo espresso» come è accaduto con la conciliazione giudiziale per la quale nell’art. 48 si prevede espressamente che può aver luogo “solo” davanti alla commissione provinciale. 21 L’art. 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 dispone che le imposte corrispondenti agli imponibili accertati dall’ufficio ma non ancora divenuti definitivi, sono iscritti a titolo provvisorio nei ruoli, dopo la notifica dell’atto di accertamento per la metà degli ammontari corrispon-

denti agli imponibili o ai maggiori imponibili accertati. Ai sensi dell’art. 23 del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, tale disposizione si applica anche in materia di Iva. 22 Conforta questa ricostruzione la tesi di RANDAZZO, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano, 2003, 188, il quale richiama a sostegno della propria posizione le osservazioni di LA ROSA, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, 127 e voce Riscossione delle imposte, in Enc. Giur., 2001, IX, 3. In particolare RANDAZZO precisa che la disciplina della sospensione andrebbe intesa come «posta a tutela dell’amministrazione finanziaria, nel senso che a seguito dell’impugnazione dell’atto


13 Processo Tributario.qxd

818

10-04-2009

16:01

GiustiziaTributaria

Pagina 818

4 2008

dizio non rechi il periculum che, invece, potrebbe manifestarsi dopo la sentenza di primo grado. Del resto non può tacersi che solo con il passaggio in giudicato della sentenza, il suo dictum diviene definitivo e, fino a quel momento, l’esecuzione (seppure parziale) della sentenza può comportare un vulnus non pienamente giustificabile. Pertanto, mentre in primo grado non può che richiedersi la sospensione dell’atto, in secondo grado è sostenibile una sospensione della sentenza che, ai sensi dell’art. 68, estende l’efficacia del provvedimento, con riguardo alla riscossione provvisoria, rispetto a quella apprezzabile in pendenza del primo grado di giudizio. Né può negarsi che quando un atto è sub iudice, la sua efficacia rimane condizionata fino a quando non viene emessa la sentenza che ne conferma la validità e da cui trae nuovo fondamento e legittimità. Pur condividendosi l’orientamento secondo cui la sentenza non si sostituisce all’atto, appare sostenibile che la sentenza ne ampli l’efficacia. Mentre in primo grado, in presenza dell’atto esecutivo nei limiti di cui all’art. 15 del D.P.R. n. 602/ 1973, non può che farsi ricorso all’art. 47, in secondo grado, in presenza di una sentenza che «legittima» l’atto e consente la riscossione in misura più ampia, ai sensi dell’art. 68, la sospensione attiene alla sentenza e il relativo giudizio può essere attuato secondo le norme del Codice di procedura civile. Si renderebbero così applicabili gli artt. 283, 373, 401 e 407 c.p.c. e verrebbe superato l’ostacolo letterale dell’art. 47.

è l’efficacia esecutiva che normalmente lo accompagna a venire sospesa; e che la legge, a cautela delle ragioni dell’amministrazione finanziaria e contemperandole con le istanze di giustizia del ricorrente stabilisce, a seconda dei momenti, una specifica disciplina gradata dei presupposti e dei limiti di esercitabilità del potere di riscossione. Contro questo potere di riscossione, legittimato dalla norma, viene rivolta in giudizio la domanda di sospensione cautelare ex art. 47». Muovendo da tale assunto l’autore afferma che, dopo la sentenza di primo grado, l’efficacia dell’atto impugnato torna ad essere governata dal regime legale di efficacia esecutiva gradata, con il conseguente superamento della sospensione giudiziale dell’atto che fino a quel momento aveva avuto efficacia. In sostanza, la sospensione giudiziale cessa con la sentenza semplicemente perché la legge ricollega

Tale ricostruzione, peraltro, trova conforto nelle pronunzie di alcune Commissioni tributarie regionali che hanno disposto la sospensione cautelare delle sentenze impugnate23. Va segnalato che le conclusioni suesposte si pongono in evidente contrasto con la tesi della dottrina maggioritaria che, come già anticipato, esclude in radice la possibilità di applicare al processo tributario le norme del Codice di procedura civile in materia di sospensione cautelare delle sentenze. Secondo autorevole dottrina24, infatti, per comprendere pienamente la questione, occorre in primo luogo sgomberare il campo da un vizio di fondo in cui è facile incorrere. In diritto tributario, l’esecutività non è collegata alla sentenza ma all’atto originariamente impugnato25 per cui l’eventuale sospensione non potrebbe che riguardare tale atto26. È stato altresì precisato che il giudizio tributario ha per oggetto la verifica della conformità dell’atto impugnato alle norme che attribuiscono il potere di emetterlo per cui la sentenza che conclude il processo, se accoglie il ricorso, annulla in tutto o in parte l’atto, mentre, se lo rigetta, «lascia [...] inalterata sul piano sostanziale la realtà giuridica dell’atto e non si sostituisce ad esso nel dar titolo all’obbligazione d’imposta»27. Le norme del Codice di procedura civile, invece, si riferiscono espressamente all’esecuzione e alla sospensione dell’esecuzione delle sentenze, che costituiscono titoli esecutivi e, pertanto, tali norme non sarebbero applicabili al processo tributa-

ad essa la nascita di un nuovo regime di efficacia dell’atto che è quello disciplinato dall’art. 68. Di conseguenza, conclude l’autore, «l’eventuale nuova richiesta di sospensione al giudice di gravame, comporterà da parte sua una valutazione del tutto nuova ed autonoma rispetto a quella svolta dal giudice di prime cure», atteso che avrà ad oggetto il contemperamento tra l’interesse pubblico al mantenimento dell’efficacia dell’atto e l’interesse del privato alla sospensione, tenuto conto di una situazione sostanziale differente in ragione del diverso grado di efficacia dell’atto che deriva dall’art. 68. 23 Cfr. tra le altre, Comm. trib. reg. Lazio, sez. XXVIII, ord. 29 marzo 2006, n. 5, nonché sez. I, ord. 22 novembre 2006, n. 45; Comm. trib. reg. Puglia, sez. XXVIII, ord. 15 giugno 2005, n. 31, in Corr. Trib., 2005, 2861; Comm. trib. reg. Friuli, sez. X, ord. 16 dicembre 1999, n.

24

25

26

27

1798. Cfr. altresì sul punto, RUSSOFRANSONI nel commento all’ord. n. 325 del 12 luglio 2001 della Corte cost., in Fisco, 2001, 10976. GLENDI, La tutela cautelare oltre il primo grado non è costituzionalmente garantita, in Corr. Trib., 2000, 1899 ss.; TESAURO, La tutela cautelare nel procedimento di appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale, in Boll. Trib., 1999, 1733. Sul punto vedi altresì Corte cost., ord. n. 217 del 19 giugno 2000 e 325 del 27 luglio 2001 su cui vedi infra, nonché Comm. trib. reg. Puglia, Lecce, ord. 22 agosto 2001, in Boll. Trib., 2002, 1408, nella quale così si legge: «Il titolo esecutivo è costituito non già dalla sentenza di rigetto del ricorso, bensì dall’atto impugnato». GLENDI, La tutela cautelare deve trovare spazio anche nel giudizio di appello, in Corr. Trib., 2005, 2863. RANDAZZO, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano, 2003, 187.


13 Processo Tributario.qxd

10-04-2009

16:01

Pagina 819

Processo tributario 4 2008 819

rio. Si sostiene che gli artt. 283 e 373 c.p.c. presuppongono l’impugnazione di un provvedimento qualificabile come titolo esecutivo quale è, nel processo civile, la sentenza. Conseguentemente, trattandosi nel processo tributario di sospensione di atti dell’amministrazione, la questione rimarrebbe regolata dall’art. 47, e non resterebbe che valutare la possibilità di estendere la sospensione dell’atto di cui all’art. 47 oltre il primo grado di giudizio28. Ma, secondo l’orientamento dottrinario maggioritario, il dato testuale escluderebbe la possibilità che il giudice di secondo grado possa applicare l’art. 47 sospendendo l’efficacia dell’atto. Va rilevato che anche la posizione della Corte costituzionale, manifestata in più occasioni29, si colloca all’interno di tale orientamento. In particolare la Corte costituzionale, nel rigettare le questioni di incostituzionalità della disciplina cautelare limitata al solo primo grado di giudizio, ha precisato che nel processo tributario, diversamente che nel processo civile, l’esecutività non è un attributo della sentenza ma dell’atto impugnato, al quale soltanto può essere riferita – come dispone l’art. 47 – la sospensione dell’esecuzione, i cui effetti sono destinati a cessare con la sentenza di primo grado. Pertanto, «oggetto del provvedimento di sospensione non potrebbe mai essere la sentenza che ha respinto l’impugnazione, bensì semmai il provvedimento impositivo la cui impugnazione è stata rigettata in primo grado»30. Nonostante il chiaro dettato della Corte costituzionale, diverse Corti di merito sembrano invece orientarsi verso la concessione della sospensione cautelare delle sentenze. In particolare, appare interessante richiamare l’ordinanza della Commissione tributaria regionale della Puglia la quale ha ritenuto che, nonostante l’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992 si riferisca soltanto al giudizio di primo grado e l’art. 49 del medesimo decreto escluda l’applicabilità al processo tributario dell’art. 337 c.p.c., deve ritenersi ammissibile, nel giudizio di appello davanti alla Commissione tribu-

28 GLENDI, La tutela cautelare deve trovare spazio anche nel giudizio di appello, in Corr. Trib., 2005, 2864. 29 Corte cost., sent. n. 165/2000, ord. n. 217 del 19 giugno 2000 (in Giur. Cost., 2000, 1727) e 325 del 27 luglio 2001 (in Fisco, 2001, 10972 con commento di RUSSO e FRANSONI) nonché, più di recente, ord. del 21 marzo 2007, n. 119. 30 Per un commento sulla ordinanza ri-

taria regionale, l’istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza di primo grado31. Invero, secondo i giudici pugliesi, l’art. 47 si riferisce espressamente solo alla possibilità di ottenere tutela cautelare con riguardo all’atto impositivo e non può essere esteso alla materia della sospensione delle sentenze che, pertanto, resterebbe disciplinata dal Codice di procedura civile. Ancora, appare significativo quanto affermato dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, secondo cui «la Commissione, esaminata la materia della sospensione e tenuto conto anche della copiosa giurisprudenza in materia, ritiene che l’istituto della sospensione sia applicabile anche al processo tributario in base al disposto degli artt. 1, comma 2, 47, 49 e 62 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n.546 e a quanto previsto dagli artt. 119, 283, 373, 401 e 407 del Codice di procedura civile» (sez. XXVIII, ordinanza del 29 marzo 2006, n. 5). Non può comunque tacersi che i ripetuti interventi delle Corti di merito a favore della sospensione cautelare nei gradi successivi al primo, si pongono in netto contrasto con il già richiamato orientamento restrittivo della Corte costituzionale, recentemente confermato nell’ordinanza n. 119/2007. Tuttavia, come già evidenziato da autorevole dottrina, tale ordinanza sembra del tutto dimenticare l’efficacia dei principi del giusto processo che ormai «devono fungere da unico parametro per la valutazione della costituzionalità delle norme processuali»32. Invero negli ultimi anni diversi istituti processuali sono stati rivisti proprio alla luce dei principi del giusto processo33. Del resto, come è stato precisato da autorevole dottrina34, è necessario individuare una soluzione che dia una risposta all’esigenza, particolarmente avvertita, di tutela cautelare che può manifestarsi anche dopo il giudizio di primo grado. Note conclusive A parere di chi scrive, i tempi sono ormai maturi per rivedere, alla luce del giusto processo, il tema della

chiamata, v. MANCUSO, È anacronistico il divieto di sospensione dell’efficacia delle sentenze di primo grado nel processo tributario, in Fisco, 2007, 6817. 31 Comm. trib. reg. Puglia, ord. 15 giugno 2005, n. 31, in Corr. Trib., 2005, 2861 con commento di GLENDI. Nello stesso senso cfr. anche Comm. trib. reg. Friuli, sez. X, ord. 16 dicembre1999, n. 1798, pubbl. in Riv. Giur. Trib., 2000, 815 con commento di VULLO.

32 MESSINA, La tutela cautelare oltre il primo grado di giudizio, in Corr. Trib., 2007, 3084. 33 Si pensi, ad es., alla sentenza dichiarativa di incostituzionalità dell’art. 46 nella parte in cui prevedeva la regola fissa della compensazione delle spese del giudizio nell’ipotesi di ritiro dell’atto in autotutela. 34 RANDAZZO, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano, 2003, 190.


13 Processo Tributario.qxd

820

10-04-2009

16:01

GiustiziaTributaria

Pagina 820

4 2008

sospensione cautelare nei gradi successivi al primo. Tra l’altro, ciò consentirebbe di eliminare la grave incoerenza dell’attuale disciplina caratterizzata dalla espressa possibilità di ottenere, anche in grado di appello, la sospensione delle sanzioni amministrative35. Non può tacersi che autorevole dottrina36, pur muovendo dall’assunto che «anche nel processo tributario l’attribuzione dei rimedi inibitori è essenziale ai fini dell’effettività della tutela giurisdizionale», non ha esitato ad affermare che, per risolvere la diatriba, si presentano all’interprete due sole alternative alla luce del sistema processuale complessivo disegnato dall’art. 111 Cost.: o proporre un’interpretazione estensiva e adeguatrice delle norme, ritenendo gli articoli del Codice di procedura civile comunque applicabili, oppure continuare a sollevare questioni di costituzionalità innanzi al giudice delle leggi. Lo stesso autore, tuttavia, riconosce le difficoltà di una interpretazione adeguatrice delle norme, se non altro perché ad essa osta il chiaro dato letterale dell’art. 47 che si riferisce alla sospensione dell’atto impugnato con efficacia fino alla sentenza di primo grado. Rimane, quindi, la via obbligata del giudizio di costituzionalità. Nel rispetto del disegno complessivo del giusto

35 Ai sensi degli artt. 18, comma quarto, e 19, comma secondo, del D.Lgs. n. 472/1997, recante disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, le decisioni delle Commissioni tributarie in materia di sanzioni sono immediatamente esecutive e la Commissione regionale ha il potere di sospendere l’esecuzione delle sanzioni secondo le disposizioni dell’art. 47 D.Lgs. n. 546/1992. Non è mancato chi ha sottolineato che la innegabile asimmetria del sistema non è irragionevole in quanto è legittimo accordare una maggiore tutela nella riscossione delle sanzioni rispetto alla riscossione del tributo (MARCHESELLI, Il giusto processo tributario in Italia. Il tramonto dell’interesse fiscale?, in Dir. e Prat. Trib., 2001, I, 821). È stato altresì rilevato da GLENDI, Riscossione frazionata delle sanzioni tributarie, in Corr. Trib., 1999, 1941, che le sanzioni di regola hanno esecuzione solo dopo la sentenza di primo grado, per cui il giudizio di appello in effetti costituisce, dal punto di vista della tutela cautelare, il primo grado di giudizio e, quindi, è perfettamente ragionevole che la Commissione

processo si dovrebbe valutare seriamente l’opportunità, se non addirittura la necessità, di un intervento legislativo volto a modificare la disciplina della sospensione cautelare37. Del resto non può tacersi che la soluzione della questione in esame andrebbe trovata nell’ambito del diritto tributario e non anche attraverso il rinvio a norme che regolano altre giurisdizioni perché, come è stato rilevato38, ciò comporterebbe maggiori incoerenze rispetto all’introduzione di uno strumento ad hoc. Ad avviso di chi scrive, solo attraverso un intervento legislativo si potrebbe superare l’ostacolo posto da quella parte della dottrina che ritiene inconferente il riferimento ad una sospensione della sentenza atteso che, in ambito tributario, l’esecutività e la corrispondente sospensione possono riguardare solo l’atto originariamente impugnato. In attesa di un intervento normativo, ben vengano le ordinanze, come quelle dei giudici siciliani, a tutela del contribuente. In definitiva, al di là delle possibili ricostruzioni interpretative, appare urgente estendere le garanzie del contribuente in tema di tutela cautelare, atteso che è innegabile che egli possa subire un danno grave e irreparabile anche nelle more del secondo grado di giudizio.

tributaria regionale possa esercitare il potere di sospensione cautelare sulle sanzioni. Al contrario, GALLO, Verso un “giusto processo tributario”, in Rass. Trib., 2003, 24, ha affermato che «non si intravedono valide ragioni giustificative della diversità di trattamento fra le statuizioni riguardanti il tributo e quelle concernenti le sanzioni, e cioè tra statuizioni che possono rinvenirsi nella stessa sentenza e sono accomunate dalle stesse modalità di riscossione». In sostanza, condividere la tesi dell’inapplicabilità della tutela cautelare in grado di appello, comporterebbe la possibilità di sollevare questione di illegittimità costituzionale degli artt. 47 e 49 del D.Lgs. n. 546/1992 per violazione dell’art. 3 della Costituzione in riferimento agli artt. 18, comma 4, e 19, comma 2, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. Invero, come precisato da MULEO (La tutela cautelare, in AA.VV., Il processo tributario, a cura di Tesauro, Torino, 1998, 883) si verificherebbe una ingiustificata diversità di trattamento tra il primo e il secondo grado di giudizio nell’applicazione delle norme relative ai tributi e di quelle relative alle sanzioni: si consentirebbe, infatti, la

sospensione in primo grado per l’intera materia sottoposta al giudice tributario e in secondo grado solo per le sanzioni. 36 GALLO, Verso un “giusto processo tributario”, in Rass. Trib., 2003, 24. 37 In questo senso GLENDI, La tutela cautelare deve trovare spazio anche nel giudizio di appello, in Corr. Trib., 2005, 2868. 38 MESSINA, La tutela cautelare oltre il primo grado di giudizio, in Corr. Trib., 2007, 3085-3086. L’autore rileva che se anche è ipotizzabile l’utilizzo, innanzi al giudice ordinario, dello strumento cautelare previsto dall’art. 700 c.p.c., che inciderebbe sulla esecutorietà dell’atto, si porrebbe poi il problema della «corretta individuazione del provvedimento di merito da chiedere al giudice successivamente allo svolgimento della fase cautelare». In sostanza, secondo l’autore, «si dovrebbe chiedere al giudice del merito la cessazione dell’efficacia di quell’atto la cui esecutorietà è già stata cautelarmene sospesa. Ma se così fosse, dovrebbe essere richiesto all’a.g.o. l’annullamento di un atto di natura tributaria, con i conseguenti riflessi sulla evidente carenza di giurisdizione».


13 Processo Tributario.qxd

10-04-2009

16:01

Pagina 821

Processo tributario 4 2008 821

LA GIURISDIZIONE TRIBUTARIA IN MATERIA DI RICORSI AVVERSO I PROVVEDIMENTI DI DINIEGO O REVOCA DELLA RATEIZZAZIONE DELLE SOMME ISCRITTE A RUOLO 118

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 11 dicembre 2007, n. 560 Presidente: Montanari - Relatore: Crotti Processo tributario - Atti impugnabili - Istanza di rateizzazione di somme iscritte a ruolo - Ammissione alla rateizzazione - Atto di revoca - Impugnabilità ex art. 19, D.Lgs. n. 546/1992 (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 19; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19) La revoca del provvedimento che accoglie l’istanza di rateizzazione di somme iscritte a ruolo è atto impugnabile dinanzi alle Commissioni tributarie, ai sensi dell’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992. Svolgimento del processo Il sig. S.G. grava, con separati ricorsi: 1) Decreto di revoca di provvedimento di maggior rateazione prot. n. emesso dall’Agenzia delle Entrate; 2) Provvedimento di iscrizione ipotecaria prot. n. emesso dalla R. S.p.A. - agente della riscossione per la Provincia di Reggio Emilia. Con provvedimento del 3 novembre 2000 l’ufficio delle entrate di Reggio Emilia concedeva al ricorrente, sig. S.G., una maggiore rateazione su di un ruolo emesso per insufficiente versamento d’Iva relativo all’anno d’imposta 1995 e ammontante ad euro 24.182,06; nel corso del pagamento delle rate interveniva l’approvazione dell’art. 12 della legge n. 289/2002, “Definizione dei carichi di ruolo pregressi”, che concedeva la possibilità di estinguere il debito mediante il pagamento di una somma pari al 25% dell’importo iscritto a ruolo: la norma prevedeva che i concessionari della riscossione informassero i debitori della suddetta possibilità, i quali potevano sottoscrivere apposito atto con il quale dichiaravano di avvalersi della stessa versando, contestualmente, l’80% dell’importo, mentre il residuo avrebbe dovuto essere versato entro un termine successivo indicato dalla norma; il concessionario competente informò, mediante apposita comunicazione, il ricorrente della citata possibilità precisando che il suo debito residuo ammontava ad euro 18.195,14 mentre la norma citata gli consentiva di estinguerlo mediante il pa-

gamento di euro 3.341, 83 da versare entro il 16 aprile 2003 e per il restante importo, quanto ad euro 835,44, entro il 16 aprile 2004: il ricorrente aderì alla possibilità concessa dalla norma citata sottoscrivendo l’apposita dichiarazione di adesione e versando, altresì, nei termini, la prima rata; per quanto attiene alla seconda, la stessa, causa, asserisce il ricorrente, la confusione originata dalle varie proroghe intervenute, non fu versata nei termini ma è stata versata, in via di ravvedimento operoso, in data 22 gennaio 2007, con maggiorazione di sanzioni e interessi: di detto versamento risulta essere stata data comunicazione all’agente della riscossione; l’Agenzia delle Entrate, con il provvedimento di cui in epigrafe, datato 22 dicembre 2006, spedito per posta ordinaria e ricevuto dal ricorrente in data 9 gennaio 2007, vista la nota del 26 ottobre 2006, con cui il concessionario della riscossione comunicava «il mancato pagamento delle rate concesse» con il provvedimento di maggior rateazione di cui in narrativa, lo revocava con effetto immediato «e riscuotibile in un’unica soluzione per l’importo complessivo di euro 14.109,41»; l’agente della riscossione, con il provvedimento di cui in epigrafe, datato 12 dicembre 2006, spedito per posta ordinaria e ricevuto dal ricorrente in data 15 dicembre 2006, comunicava di aver iscritto ipoteca sugli immobili dello stesso a tutela del proprio credito, ammontante ad euro 25.488,73, «per le cartelle descritte nell’allegato prospetto», che comprendeva, oltre all’importo suddetto vantato dall’Agenzia delle Entrate, somme vantate da altri enti per infrazioni al Codice della strada e per contributi previdenziali. Ricorre il sig. S.G. avverso i suddetti atti. Quanto al primo il ricorrente eccepisce l’illegittimità dell’atto impugnato: - in via pregiudiziale, per violazione dell’art. 19, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, in quanto, trattandosi di un atto qualificabile quale revoca di un’agevolazione e, dunque, espressamente richiamato dalla lett. h) del comma 1 della norma citata, lo stesso avrebbe dovuto contenere l’indicazione del termine entro il quale il ricorso avrebbe dovuto essere proposto e della Commissione tributaria competente, nonché delle relative forme da osservare;


13 Processo Tributario.qxd

822

10-04-2009

16:01

GiustiziaTributaria

Pagina 822

4 2008

- nel merito, per l’assoluta carenza di motivazione dello stesso non riuscendo a comprendersene la causa, posto che il ricorrente si era avvalso del disposto dell’art. 12 cit. e che, dunque, era da considerarsi completamente estinto il debito di cui al citato ruolo rateizzato. Controdeduce l’Agenzia eccependo: - in via pregiudiziale, l’inammissibilità del ricorso posto che l’atto de qua non sarebbe impugnabile ai sensi dell’art. 19 cit. in quanto non sarebbe da qualificarsi quale provvedimento di revoca di un’agevolazione posto che il decreto con cui viene concessa la maggior rateazione non può qualificarsi come un provvedimento agevolativo posto che, per tale, deve intendersi un provvedimento che riconosce «esenzioni da imposte, riduzioni di aliquote e simili» che il contribuente ha diritto ad ottenere, in presenza delle condizioni volute dalla norma, e che l’Agenzia ha obbligo di concedere, mentre, nel caso, si sarebbe in presenza di un atto puramente discrezionale come desumibile dalla “letteralità” della norma, l’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973, che prevede, altresì, la decadenza automatica dal beneficio del termine nel caso di mancato pagamento di due rate; non prevedendo questa norma un diritto soggettivo del contribuente ad ottenere la maggior rateazione, il suo rigetto non sarebbe impugnabile come non lo sarebbe la revoca: si verterebbe, insomma, in punto di interessi legittimi e non di diritti soggettivi che sarebbero le uniche posizioni giuridiche tutelabili nel processo tributario; la mancata indicazione, poi, di quanto richiesto dall’art. 19, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, non sarebbe una dimenticanza ma un sintomo della sua inimpugnabilità; - nel merito, che la revoca del provvedimento di rateazione sarebbe conseguente alla mancata definizione di cui all’art. 12 cit. posto che il mancato versamento della seconda rata, nei termini, avrebbe impedito il perfezionamento della definizione stessa che, a sua volta, avrebbe fatto “rivivere” il ruolo già rateizzato e che, comunque, alla stessa definizione rimarrebbe estranea l’Agenzia concretizzandosi, la stessa, in un rapporto intercorrente, unicamente, tra ricorrente e Concessionario e che, pertanto, questo tipo di doglianze andrebbero rivolte a quest’ultimo con conseguente sua carenza di legittimazione passiva; presenta memoria aggiunta il ricorrente con cui ribadisce le proprie doglianze e sottolinea come abbia gravato l’unico atto notificatogli dall’Agenzia posto che questo era l’unico strumento di difesa concessogli contro le infondate pretese erariali e come, con separato ricorso, abbia «citato»

anche l’Agente della riscossione confidando che il Giudice dichiarasse, almeno, uno dei due il legittimato passivo. Quanto al secondo il ricorrente eccepisce l’illegittimità dell’atto impugnato, chiedendone l’annullamento, e svolgendo le proprie doglianze sulla falsariga di quelle riportate prima per il ricorso avverso il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate che, pertanto, in questa sede, mutatis mutandis, vanno integralmente richiamate; l’agente della riscossione controdeduce chiedendo che venga dichiarata la propria carenza di legittimazione passiva in quanto l’unica parte processuale, sia in ordine alle doglianze pregiudiziali che di merito, sarebbe l’Agenzia delle Entrate. Motivi della decisione La Commissione osserva. I due ricorsi appaiono connessi e vanno, pertanto, riunificati. L’art. 19, comma 1, lett. h, del D.Lgs. n. 546/1992 prevede, tra gli atti espressi impugnabili avanti le Commissioni tributarie: «il diniego o la revoca delle agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari»; sostiene l’Agenzia, le cui eccezioni sul punto vanno logicamente, prioritariamente affrontate, che il decreto di revoca della maggior rateazione non sarebbe un atto impugnabile ai sensi della norma citata; la tesi risulta infondata, infatti: - per “agevolazioni” devono intendersi non solo quelle attinenti l’an e il quantum del tributo ma, anche, il quomodo, essendo evidente che il versare una somma in 50 rate, come nella fattispecie, invece che in un’unica soluzione è, innegabilmente, un’agevolazione; - il decreto di concessione della maggior rateazione, ex art. 19 del D.P.R. n. 602/1973, non è un atto meramente discrezionale, ma un atto vincolato, nel senso che in presenza delle condizioni previste dalla norma l’agevolazione deve essere concessa, pena la violazione di un preciso diritto soggettivo del contribuente di cui lo stesso può dolersi avanti il giudice tributario; - non ha, comunque, alcun pregio la prospettata carenza di giurisdizione delle Commissioni tributarie in punto di interessi legittimi essendo la loro «una giurisdizione a carattere generale competente ogni qualvolta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario» (Cass., sez. un., n. 16776/2005); - l’automatica decadenza dal beneficio del termine, in caso di morosità del contribuente, art. 19 cit., comma 3, non muta certo la natura dell’atto


13 Processo Tributario.qxd

10-04-2009

16:01

Pagina 823

Processo tributario 4 2008 823

non essendone minimamente sintomatica; l’atto de quo, concretizzandosi in un atto di revoca di un’agevolazione, è, pertanto, un atto impugnabile ai sensi dell’art. 19, lett. h, cit. Passando ora alle eccezioni del ricorrente: - risulta infondata quella esposta in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 9, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992: pacifica sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte (ex plurimis: n. 12070/2004; n. 3865/2002), da cui non vi è motivo di discostarsi in questa sede, secondo cui la carenza, nell’atto impugnato, dell’indicazione della Commissione tributaria da adire e del termine per farlo non è causa di nullità dell’atto stesso; - risulta anche infondata l’eccezione di carenza di motivazione dell’atto impugnato: sia pure stringata, ma il decreto di revoca dell’agevolazione della maggiore rateazione contiene una chiara motivazione dello stesso con riferimento alla nota del Concessionario della riscossione. Nel merito le doglianze del ricorrente risultano, invece, fondate: lo stesso aveva, infatti, aderito alla definizione agevolata, perché tale è da definirsi a tutti gli effetti, di cui all’art. 12 cit. e, dunque, non vi era alcun motivo per far “rivivere” il “ruolo originario”, ormai definito, risultando del tutto infondata la tesi dell’Agenzia delle Entrate che condiziona la validità dell’adesione alla definizione de qua al pagamento di quanto richiesto dalla norma citata: questa, infatti, non prevede, assolutamente, tale versamento a pena di nullità dell’adesione (a parte il fatto che il versamento, sia pure in ritardo per la seconda rata, risulta compiutamente effettuato); in altre parole l’Agenzia delle Entrate ha emesso un atto illegittimo avendo fatto “rivivere” un ruolo ormai “definito”: l’atto impugnato, in accoglimento del ricorso, va pertanto annullato; va comunque aggiunto come l’atto impugnato presupponesse, logicamente, la nullità della definizione de qua e di come, pertanto, l’Agenzia delle Entrate, più correttamente, avrebbe dovuto notificare al ricorrente un atto di rigetto di definizione agevolata di rapporti tributari essendo questo logicamente il prius della riviviscenza del ruolo definito e, dunque, dell’atto di revoca dell’agevolazione di maggior rateazione; né, da ultimo, ha pregio il tentativo dell’Agenzia delle Entrate di, per così dire, “smarcarsi”, chiedendo che venga dichiarata, sul punto, la propria carenza di legittimazione passiva, vertendo il rapporto di cui al cit. art. 12 solo tra il ricorrente e il concessionario della riscossione: tesi palesemente infondata sussistendo il rapporto “sostanziale” di debito/credito tra il contribuente e l’era-

rio: parte, nel presente giudizio, è e rimane, inequivocabilmente, l’Agenzia delle Entrate. Passando ora all’analisi delle doglianze in ordine alla legittimità, per quanto attiene al credito vantato dall’Agenzia delle Entrate, dell’atto di iscrizione ipotecaria impugnato, va detto che questo appare irrimediabilmente viziato da nullità essendo stato iscritto in base ad un credito inesistente posto che il relativo ruolo era stato definito: ne manca, insomma, la causa; la nullità, peraltro, va dichiarata non, o meglio, non solo quale conseguenza dell’annullamento dell’atto di revoca della maggior rateazione di cui ante, ma per un vizio suo proprio: l’agente della riscossione era perfettamente a conoscenza, essendogli stato inviato l’originale della dichiarazione di adesione ex art. 12 della legge n. 289/2002, dell’intervenuta definizione agevolata e dunque della decadenza del ruolo de quo ma, nonostante ciò, l’agente della riscossione ha proceduto ad iscrivere ipoteca prima che l’Agenzia delle Entrate gli comunicasse il suddetto atto di revoca della maggior rateazione dichiarando, altresì, riscuotibile in un’unica soluzione l’importo complessivo di euro 14.109,41: infatti questo risulta datato «23 dicembre 2006», mentre l’atto di iscrizione ipotecaria porta la data «12 dicembre 2006»; a tutto ciò consegue la nullità dell’atto impugnato; a ciò, anche, consegue che l’agente della riscossione, nella fattispecie dedotta in giudizio, non è carente di legittimazione passiva ma è parte a pieno titolo. Va peraltro precisato che la nullità del suddetto atto di iscrizione ipotecaria va dichiarata solo per quanto attiene al credito vantato dall’Agenzia delle Entrate posto che, in ordine alle altre tipologie di crediti a cui l’agente della riscossione fa riferimento nel suddetto atto d’iscrizione ipotecaria, la Commissione deve declinare la propria giurisdizione; invero questo giudice è ben a conoscenza del dibattito giurisprudenziale e dottrinario sorto in ordine alla novella di cui alla lett. e-bis dell’art. 19, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992, introdotta dall’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 223/2006, ma ritiene che una corretta e logica lettura del combinato disposto dell’art. 10 cit. e dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992 non possa che portare alla conclusione che gli atti d’iscrizione ipotecaria a cui fa riferimento la lett. ebis cit. siano solo quelli connessi e conseguenti ai tributi di cui al cit. art. 2; ne deriva, come detto, che per quanto attiene alla legittimità del suddetto atto in ordine ai crediti non tributari, (sanzioni per violazione del Codice della strada e contributi previdenziali), la Commissione deve declinare la propria giurisdizione; sarà cura del ricorrente,


13 Processo Tributario.qxd

824

10-04-2009

16:01

GiustiziaTributaria

Pagina 824

4 2008

se lo vorrà, riassumere il giudizio per questa parte del contenzioso avanti al giudice competente (Cass., sez. un., n. 4109/2007).

Le spese di giudizio, quantificate come da note spese del difensore del ricorrente, seguono la soccombenza.

Nota di Domenico Ardolino

del ricorso, contestando che il provvedimento impugnato potesse essere sussunto tra gli agevolativi, sostenendo che dovrebbero intendersi tali solo quelli che riconoscono esenzioni da imposte, riduzioni di aliquota e simili; aggiungeva, infine, che l’atto impugnato era puramente discrezionale e dunque rifletteva una situazione di interesse legittimo del contribuente, non tutelabile dinanzi il giudice tributario. La sentenza raggiunge una soluzione complessivamente condivisibile – laddove afferma l’autonoma impugnabilità dinanzi le Commissioni tributarie del provvedimento di revoca della dilazione di pagamento – sulla base di argomentazioni che tuttavia necessitano di alcune specificazioni, alla luce dell’ultima giurisprudenza in materia di limiti della giurisdizione tributaria2. In giudizio l’ufficio aveva riproposto la tesi del riparto duale, fondata sulla natura della situazione giuridica di cui si chiede la tutela, utilizzata dai giudici amministrativi nell’affermare la loro competenza residuale in materia tributaria. Tale schema si regge sulla ricostruzione del processo tributario quale impugnazione-merito, per cui le Commissioni tributarie sono associate all’a.g.o. quali giudici di diritti soggettivi3, in contrapposizione all’a.g.a., giudice esclusivo degli interessi legittimi: i giudici amministrativi hanno così affermato la loro giurisdizione su ricorsi avverso atti discrezionali, pur emanati nell’ambito di un rapporto tributario ma non strettamente di determinazione o liquidazione dell’imposta, considerati non di competenza delle Commissioni

La soluzione interpretativa prescelta dalle sezioni unite della Cassazione sugli effetti della riformulazione dell’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992 (modificato dall’art. 12, L. n. 448/2001 e dall’art. 3-bis, D.L. n. 203/2005, così come convertito con L. n. 248/2005), da cui si è inteso ricostruire una giurisdizione tributaria non solo generalizzata, allargata alle controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, ma anche esclusiva, cioè estesa a tutti gli atti comunque incidenti sul rapporto tributario, anche se espressivi di un potere discrezionale, impone l’adozione di un criterio di riparto per materia e un’interpretazione estensiva e adeguatrice dell’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992. Appare perciò condivisibile la decisione di considerare impugnabili dinanzi alle Commissioni tributarie i provvedimenti di diniego o revoca di rateizzazione delle somme iscritte a ruolo, qualificandoli come revoca di agevolazione ai sensi dell’art. 19, lett. h, D.Lgs. n. 546/1992. Premessa Nella concreta fattispecie il contribuente ricorreva contro il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate di revoca della rateizzazione delle somme iscritte a ruolo, concessa ai sensi dell’art. 19, D.P.R. n. 602/19731, qualificandolo come revoca di un’agevolazione, autonomamente impugnabile ex art. 19, lett. h, D.Lgs. n. 546/1992. L’ufficio si difendeva eccependo l’inammissibilità

1 Secondo l’art. 19, D.P.R. n. 602/1973 nella formulazione vigente ratione temporis, l’amministrazione finanziaria poteva concedere una dilazione del pagamento degli importi iscritti a ruolo, nell’ipotesi di temporanea situazione di obbiettiva difficoltà economica del contribuente. La titolarità è stata spostata in capo all’agente per la riscossione, a decorrere dall’1 marzo 2008, dall’art. 36, comma 2-bis, D.L. n. 248/2007, il quale ha riformulato la norma, ulteriormente rimaneggiata dall’art. 83, comma 23, D.L. n. 112/2008. 2 Le modifiche che in questi anni hanno interessato l’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992 (riformulato dall’art. 12, L.

n. 448/2001 e dall’art. 3-bis del D.L. n. 203/2005, così come convertito con legge n. 248/2005) e anche l’art. 19 del medesimo D.Lgs. (la legge n. 248/2006, di conversione del D.L. n. 223/2006, ha aggiunto le lettere e-bis ed e-ter, inserendo nell’elenco degli atti impugnabili l’iscrizione di ipoteca sugli immobili e il fermo di beni mobili registrati) hanno creato un imponente dibattito in dottrina, soprattutto con riferimento alle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità sul raccordo tra una giurisdizione considerata generalizzata, allargata alle controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, e infine anche

esclusiva, e i suoi limiti interni, ancorati all’enumerazione dell’art. 19 cit.; si vedano TESAURO, Gli atti impugnabili ed i limiti della giurisdizione tributaria, in questa rivista, 2007, 1, 9 ss.; FIORENTINO, I nuovi limiti interni della giurisdizione tributaria alla stregua dei recenti orientamenti della Corte di Cassazione, in questa rivista, 2008, 2, 223, e, con riferimento alle peculiarità degli atipici atti di accertamento e liquidazione propri della fiscalità locale, AMATUCCI, Le prestazioni patrimoniali locali ed ampliamento della giurisdizione tributaria, in Rass. Trib., 2007, 2, 365 ss. 3 Il confine tra le due giurisdizioni è segnato dall’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992.


13 Processo Tributario.qxd

10-04-2009

16:01

Pagina 825

Processo tributario 4 2008 825

tributarie perché concretizzavano richieste di tutela di posizioni di interesse legittimo, per le quali continuerebbe a valere l’art. 7, L. n. 212/2000, secondo cui la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti4. Sulla base di queste argomentazioni alcuni T.A.R. hanno affermato la loro giurisdizione anche in liti riguardanti dinieghi di rateizzazione.5 La ricostruzione non è più sostenibile alla luce della posizione assunta dal giudice del riparto di giurisdizione nel 20076; tuttavia, la Commissione giudicante mostra di restare ancorata a questo schema argomentativo perché, per rigettare l’eccezione della parte resistente e dichiarare la propria giurisdizione, precisa che l’atto impugnato non è meramente discrezionale «ma un atto vincolato, nel senso che in presenza delle condizioni previste della norma l’agevolazione deve essere concessa, pena la violazione di un preciso diritto soggettivo del contribuente di cui lo stesso può dolersi avanti il giudice tributario». Si dissente da tale opinione, ritenendo viceversa che la concessione o il diniego della rateizzazione siano atti discrezionali7; su questo aspetto si tornerà nel prosieguo, tuttavia la questione appare irrilevante ai fini della decisione sulla giurisdizione. La compatibilità del provvedimento di diniego o revoca di rateizzazione della riscossione con

4 Si veda Cons. di Stato, sez. IV, 9 novembre 2005, n. 6269, in Dialoghi Dir. Trib., 2006, 3, 305-313, che ha affermato la giurisdizione amministrativa in materia di impugnazione del diniego di sospensione della riscossione ex art. 19, D.P.R., n. 602/1973; per una rassegna completa della dottrina in materia di riparto tra Commissioni tributarie e a.g.a. si rimanda a DEL FEDERICO, La giurisdizione, in Il processo tributario, diretto da Tesauro, Torino, 1999, 68-72. 5 Si vedano T.A.R. Lazio, sez. II, 20 ottobre 2006, n. 10685; T.A.R. Campania, sez. I, 11 febbraio 2008, n. 683 e 684, in materia di soggetti abilitati a rilasciare la polizza fideiussoria richiesta dalla norma. Contra, T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 25 febbraio 2003, n. 86 che, anticipando l’orientamento delle sezioni unite della Cassazione, osserva come il legislatore con la riforma del 2001 abbia voluto concentrare dinanzi le Commissioni tributarie tutte le liti con il fisco anteriori all’esecuzione forzata e che il diniego di rateizza-

gli atti enumerati dall’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992 Aderendo alla tesi del ricorrente, i giudici qualificano l’atto impugnato come revoca di agevolazione, osservando che tale è anche quella che investe (oltre l’an e il quantum) il quomodo del rapporto tributario. La ricostruzione è condivisibile, in sintonia con la dottrina che definisce l’agevolazione come una deroga alla disciplina generale, giustificata da esigenze o finalità extrafiscali, che dà luogo ad un vantaggio quale l’esonero totale o parziale del tributo, la riduzione dell’imponibile o dell’imposta, l’assoggettamento ad aliquote di favore e anche il rinvio temporale della tassazione8. Tale conclusione è corroborata dall’evidenza testuale dell’art. 19, D.P.R. n. 602/1973 che, nelle sue diverse formulazioni, ha sempre utilizzato il termine «beneficio»; inoltre, la stessa amministrazione finanziaria considera gli atti in parola come «provvedimenti a carattere eccezionale»9 volti ad accordare ai contribuenti «speciali agevolazioni nel pagamento dei tributi»10. Inquadrata la revoca della rateizzazione nel genere degli atti di diniego o revoca di agevolazione, la Commissione tributaria avrebbe potuto affermare in via immediata la sua giurisdizione, essendo a ciò sufficiente la riconduzione in via interpretativa della lite de quo alle ipotesi espressamente previste dall’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992,

zione è autonomamente impugnabile dinanzi il giudice tributario ai sensi dell’art. 19, lett. h, D.Lgs. n. 546/1992; nello stesso senso Commissione tributaria provinciale di Rieti, 26 gennaio 2008, n. 150. 6 Sulla questione si tornerà nel terzo paragrafo. 7 Nello stesso senso BUSICO, Impugnabile in sede tributaria il provvedimento di revoca della maggior rateazione dei ruoli, in Corr. Trib., 2008, 22, 1764. 8 Si veda LA ROSA, voce Esenzioni ed agevolazioni tributarie, in Enc. Giur., XIII, 1-5 e Id., voce Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, Padova, 1994, I, I, 406; in dottrina si dibatte sulle figure delle esenzioni ed esclusioni e se quest’ultima sia una fattispecie di delimitazione negativa del presupposto di imposta piuttosto che una specificazione della categoria delle agevolazioni; per tutti si veda FICHERA, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, 1 ss. Può essere considerata agevolazione anche una modalità di riscossione dell’imposta più

favorevole a quella generale: si veda BASILAVECCHIA, Agevolazioni esenzioni ed esclusioni (Dir. trib.), in Rass. Trib., 2002, 2, 426: «la categoria generale delle agevolazioni comprenderebbe ogni forma di attenuazione della tassazione, che conduce o ad una diminuzione sostanziale dell’entità del prelievo, o quanto meno all’applicazione di modalità e schemi semplificati di attuazione del tributo»; tuttavia, utilizzando un approccio basato sulla valutazione della natura della norma (cioè se rispondente o meno a finalità estranee alla logica del tributo, extrafiscali, prevalenti su quelle fiscali), si potrebbe concludere che la concessione della rateizzazione risponde principalmente all’interesse erariale a riscuotere il dovuto anche in caso di temporanea difficoltà del contribuente e quindi non avrebbe natura agevolativa. 9 Min. Finanze, circ. 31 ottobre 1997, n. 284/E/II/3/6852. 10 Circ. n. 284/E/II/3/6852, cit.; Min. Finanze, circ. 5 novembre 1998, n. 260/E/98/157582.


13 Processo Tributario.qxd

826

10-04-2009

16:01

GiustiziaTributaria

Pagina 826

4 2008

secondo l’autorevole insegnamento per cui il riparto di giurisdizione non è fondato sulla natura della situazione soggettiva di cui si chiede tutela, ma sul tipo di atto impugnabile11. Tale ricostruzione – nella parte in cui valorizza l’art. 19 cit. ai fini della delimitazione della competenza delle Commissioni tributarie, radicata in via immediata o differita per i soli atti direttamente incidenti sulle modalità di regolazione del rapporto tributario, rispetto a quella dei giudici amministrativi, residualmente competenti per il sindacato sui provvedimenti estranei al sistema dell’art. 19 – sembrerebbe non conciliabile con l’attuale orientamento della giurisprudenza di legittimità12 ma non per il profilo che qui interessa, essendo invece a maggior ragione confermata l’attribuzione alle Commissioni tributarie delle liti riguardanti atti, anche se correlati a posizioni di interesse legittimo, sussumibili nell’elencazione dell’art. 19 cit., il quale perciò conserva inalterata la sua funzione di delimitazione delle liti concretamente introitabili dinanzi la giurisdizione tributaria. Perciò, i giudici avrebbero potuto dichiarare la loro competenza osservando, da un lato che il provvedimento impugnato è assimilabile ad uno degli atti enumerati dall’art. 19 e, dall’altro, che è irrilevante la questione della posizione soggettiva da tutelare visto che, secondo giurisprudenza costituzionale costante13, non esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore dell’a.g.a. L’esclusività della giurisdizione tributaria, indifferente alla situazione soggettiva da tutelare Quest’ultimo aspetto è comunque sottolineato nella sentenza in commento, laddove i giudici os-

11 Cfr. TESAURO, Gli atti impugnabili, cit., 10 ss.: «il riparto di giurisdizione tra giudice tributario e giudice amministrativo [...] non è fondato sulla natura della situazione soggettiva di cui si chiede tutela, ma sul tipo di atto impugnabile. È questo un dato di diritto positivo, che si trae dall’art. 19 [...]. Come già notato, l’art. 19 non si limita ad indicare un numero chiuso di atti autonomamente impugnabili ma ammette l’impugnazione di qualsiasi atto lesivo, che sia seguito da un atto impugnabile. Residuano gli atti che non sono mai impugnabili, perché non lesivi; o non sono impugnabili dinanzi alle commissioni, perché sono estranei al sistema dell’art. 19». L’autore reputa il diniego di rateizzazione estraneo alla logica dell’art. 19

servano ad abundantiam che non ha alcun pregio la prospettata carenza di giurisdizione delle Commissioni tributarie in punto di interessi legittimi, essendo la loro una giurisdizione a carattere generale, come affermato delle sezioni unite della Cassazione con sentenza n. 16776/2005. Anche questo capo della sentenza necessita di precisazioni perché si ritiene che l’indifferenza della situazione giuridica di cui si chiede la tutela dinanzi il giudice tributario14 sia un corollario non già dei principi fissati dalle sezioni unite nella sentenza 10 agosto 2005, n. 16776, richiamata dai giudici de quo, ma di una successiva evoluzione giurisprudenziale che ha declinato dalla generalità della giurisdizione tributaria un’ulteriore caratteristica: l’esclusività. La sentenza n. 16776/2005 aveva valorizzato la modifica dell’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992 ad opera dell’art. 12, L. n. 448/2001, affermando la giurisdizione a carattere generale delle Commissioni tributarie per ogni controversia su uno specifico rapporto tributario o su sanzioni inflitte dall’amministrazione finanziaria e quindi necessariamente avverso atti anche ulteriori a quelli enumerati nell’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992; in dottrina è stato sottolineato che la pronuncia si inseriva in una linea evolutiva tendente verso il riparto per materia, cioè verso una giurisdizione tributaria generale e tendenzialmente esclusiva15. In realtà, l’interpretazione letterale del novellato art. 2, D.Lgs. n. 546/1992 indicava semplicemente un incremento delle materie devolute ai giudici tributari ed il corollario affermato dalle sezioni unite, cioè la necessaria modifica dell’art. 19, poteva essere inteso, complice anche una poco felice formulazione dell’enunciato16, anche in senso meno ra-

(Gli atti impugnabili, cit., 14) ma l’opinione è espressa prima dell’evoluzione giurisprudenziale (a partire da Cass., sez. un., 27 marzo 2007, n. 7388) che oggi “impone” per quanto possibile una riconduzione, tramite interpretazione estensiva, dell’atto tributario concretamente lesivo (e non impugnabile neanche in via differita) nelle categorie enumerate dall’art 19; e infatti FIORENTINO, I nuovi limiti interni, cit., afferma che, diversamente dall’impostazione tradizionale, appare oggi necessaria l’attrazione nella giurisdizione tributaria dell’impugnativa avverso il diniego o revoca di rateizzazione o di sospensione trattandosi di atti incidenti su di un rapporto tributario, potenzialmente lesivi, e per i quali non è oggettivamente

esperibile tutela differita. 12 Che dalla generalizzazione della giurisdizione tributaria ha declinato l’ulteriore caratteristica dell’esclusività; la questione è affrontata nel paragrafo successivo. 13 Cfr. Corte cost., ord. n. 165 e 414 del 2001 e sent. n. 240 del 2006. 14 Sempre che si ragioni, come fanno i giudici de quo, nello schema del giudizio tributario come impugnazione-merito; la specificazione non ha senso per chi ricostruisce il processo in chiave costitutiva. 15 Per un riepilogo delle varie tesi si rimanda a MUSCARÀ, La giurisdizione (quasi) esclusiva delle Commissioni tributarie nella ricostruzione sistematica delle sezioni unite della Cassazione, in Riv. Dir. Trib., 2006, II, 33-53.


13 Processo Tributario.qxd

10-04-2009

16:01

Pagina 827

Processo tributario 4 2008 827

dicale, facendo salva la configurazione del contenzioso tributario quale processo limitato alle impugnazioni contro i soli atti (anche diversi da quelli dell’art. 19 cit.) ma di determinazione concreta della pretesa tributaria17. Perciò i principi affermati dalle sezioni unite si prestavano a diverse letture ed erano ancora compatibili con le tesi della competenza residuale dell’a.g.a. per le liti sugli atti estranei alla logica dell’art. 19, D.Lgs. n. 546/199218 o sugli atti discrezionali19. In altri termini e restando nello schema dell’impugnazione-merito, affermare la generalità della giurisdizione tributaria sugli atti direttamente incidenti sulle modalità di regolazione del rapporto tributario non implicava necessariamente il dover dichiarare una competenza anche in caso di interessi legittimi perché l’allargamento delle materie attribuite alle Commissioni tributarie, che finiscono con l’assorbire i tributi di ogni specie o genere, va ad incidere sul riparto tra queste ultime e a.g.o., non necessariamente su quello tra a.g.a. e giudice tributario. Tuttavia il quadro è cambiato ancora una volta a

16 Affermano le sezioni unite che «la riforma del 2001 ha poi necessariamente comportato una modifica dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992; l’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi, comporta, infatti, la possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta l’amministrazione manifesti […] la convinzione che il rapporto tributario […] debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare». 17 Cfr. FIORENTINO, I nuovi limiti interni, cit. 18 Secondo la tesi che fonda il riparto sull’atto impugnabile (cfr. TESAURO, Gli atti impugnabili, cit., 9-19). 19 Che rifletterebbero posizioni di interesse legittimo, di competenza dell’a.g.a. secondo la ricostruzione del riparto in base alla natura della situazione soggettiva di cui si chiede tutela. 20 In Dialoghi Dir. Trib., 2007, 7-8, 960963. 21 Resterebbero fuori dalla giurisdizione tributaria solo gli atti dell’esecuzione forzata (di competenza dell’a.g.o.) e quelli generali (impugnabili dinanzi l’a.g.a.). Pur aderendo a tale impostazione tradizionale, FIORENTINO (I nuovi limiti interni, cit.) sottolinea provocatoriamente che, se non è più sostenibile una giurisdizione residuale

partire dalla sentenza Cass., sez. un., 27 marzo 2007, n. 738820: in essa si afferma con parole nette che dalla generalizzazione consegue anche l’esclusività della giurisdizione, attribuendo una portata molto più ampia di quanto si potrebbe desumere dalla semplice interpretazione letterale alle modifiche legislative dell’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992, la cui riformulazione, secondo le sezioni unite, va intesa non solo come devoluzione di ulteriori rapporti di imposta già di competenza del giudice ordinario ma come ridefinizione di una giurisdizione radicata per materia, estesa a tutti gli atti21 comunque incidenti sul rapporto obbligatorio tributario anche se espressivi di un potere discrezionale e quindi determinanti situazioni soggettive di interesse legittimo22. Alla luce di questo ulteriore sviluppo giurisprudenziale, che è in via di consolidamento23 e sembrerebbe incontrare precisi limiti costituzionali solo con riferimento a liti non aventi ad oggetto rapporti tributari in senso stretto24, appare corretta la decisione de quo sulla giurisdizione delle Commissioni tributarie anche avverso atti discre-

dell’a.g.a. per gli atti tributari lesivi ma estranei all’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, si può affermare che esulano con certezza dalla tutela dinanzi le Commissioni tributaire solo le liti relative alla fase dell’esecuzione forzata (perché specificamente attribuite all’a.g.a. dall’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992), non anche quelle riguardanti i regolamenti e altri atti generali, attribuiti alla giurisdizione amministrativa ma non oggetto di un’espressa devoluzione normativa. 22 «Indipendentemente dalla natura e contenuto dell’atto impugnato, laddove il rapporto controverso verta in materia di tributi di qualunque genere e specie, la cognizione è affidata alla giurisdizione delle Commissioni tributarie ratione materiae. L’allargamento della giurisdizione tributaria include – attesa l’insussistenza di una riserva assoluta al giudice amministrativo della tutela degli interessi legittimi – il sindacato del giudice circa il corretto esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione finanziaria prima ancora dell’esistenza dell’obbligazione tributaria», Cass., n. 7388/2007, cit. 23 Nella successiva sentenza 15 maggio 2007, n. 11082, le sezioni unite ribadiscono che «la lettera della legge dimostra chiaramente che quella loro riservata è una giurisdizione esclusiva, non circoscritta ad alcuni aspetti sol-

tanto, ma generale, ovverosia estesa ad ogni questione relativa all’an o al quantum del tributo. La giurisdizione delle Commissioni tributarie, cioè, è totalmente indifferente al contenuto della domanda e si arresta unicamente di fronte agli atti dell’esecuzione forzata tributaria»; si veda anche Cass., sez. V, 8 ottobre 2007, n. 21045. 24 Si vedano le sentenze della Corte costituzionale n. 64/2008, in Corr. Trib., 2008, 18, 1445 ss., con commento di GLENDI, Limiti costituzionali all’espansione «extra moenia» della giurisdizione tributaria, e n. 130/2008, in Corr. Trib., 2008, 25, 2021 ss., con commento di GLENDI, Stop della Consulta alla giurisdizione tributaria sulle sanzioni per il lavoro nero, che hanno dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992 nella parte in cui aveva attribuito alle Commissioni tributarie la giurisdizione in materia, rispettivamente, di Cosap (che secondo l’orientamento della Cassazione è una prestazione patrimoniale non tributaria) e di sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria; la Cassazione si è adeguata a decorrere dall’ordinanza a sez. un. 5 giugno 2008, n. 14831. In commento a quest’ultima giurisprudenza si vedano VIGNOLI-LUPI, Giurisdizione tributaria e provvedimenti


13 Processo Tributario.qxd

828

10-04-2009

16:01

GiustiziaTributaria

Pagina 828

4 2008

zionali, correlati a posizioni di interesse legittimo, quali il diniego o la revoca di rateizzazione. La natura discrezionale del provvedimento di concessione della rateizzazione Infine, il provvedimento di concessione della dilazione di pagamento sembrerebbe avere natura discrezionale, diversamente da quanto affermato dai giudici de quo. In dottrina si ritiene che gli atti che concedono agevolazioni25 siano in linea generale espressione di attività vincolata, perché il beneficio sorge quasi sempre con il perfezionarsi della fattispecie prevista dalla norma; tuttavia non si manca di segnalare alcune eccezioni, tra le quali le dilazioni di pagamento26. Infatti, pur volendo tralasciare l’accertamento della «temporanea situazione di obiettiva difficoltà»27, il provvedimento di rateizzazione scaturisce da una valutazione tipicamente discrezionale da parte dell’amministrazione: è soppesata la meritevolezza dell’interesse del contribuente che chiede la dilazione, per tutelare valori costituzionalmente pro-

tetti (iniziativa economica, lavoro, famiglia ecc.), in contrapposizione a quello erariale alla riscossione. Tutto ciò trova conferma nella formulazione testuale della norma28 e nella prassi ministeriale che ha dedicato particolare attenzione ai criteri in base ai quali concedere l’agevolazione29; la discrezionalità investe sia l’an dell’agevolazione, sia la sua determinazione concreta, ad es. in ordine al numero di rate, all’eventualità di accordare anche la sospensione della riscossione per un anno, ecc.30 In conclusione, si ritiene che il provvedimento che concede la rateizzazione sia espressione di attività discrezionale e non vincolata. Come si è argomentato nei paragrafi precedenti, la questione appare ininfluente ai fini dell’attrazione della lite nella giurisdizione tributaria, ma è invece rilevante ai fini dell’attività difensiva concretamente esperibile dal ricorrente, il quale potrà eccepire l’illegittimità dell’atto impugnato non solo per violazione di legge ma anche per eccesso di potere sotto tutti i suoi svariati profili, quali lo sviamento, l’erronea valutazione dei fatti, l’illogicità o contraddittorietà dell’atto, la disparità di trattamento.

IN TEMA DI PLURALITÀ DI PARTI NEL PROCESSO TRIBUTARIO 119

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXVI, 17 luglio 2008, n. 76 Presidente: Santoro - Relatore: Brunetti Processo tributario - Pluralità di parti nel processo - Causa inscindibile - Mancata integrazione del contraddittorio nelle fasi di gravame - Nullità della sentenza - Ricorribilità in Cassazione (Cost., art. 24; C.p.c., artt. 32, comma 2, 327, comma 2, 331 e 358; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) Ove siano stati proposti due distinti atti di gravame avver-

non tributari dell’amministrazione finanziaria, in Dialoghi Dir. Trib., 2008, 4, 40-48 e GLENDI, Ricomposto il contrasto tra sezioni unite e Corte costituzionale sui limiti della giurisdizione tributaria, in Corr. Trib., 2008, 29, 2353 ss. 25 Sempre che la legge istitutiva richieda l’accertamento specifico e preventivo dei presupposti per poter usufruire del beneficio. Infatti in altri casi manca un provvedimento vero e proprio di concessione dell’agevolazione che è usufruita dal contribuente in via automatica; in quest’ultima ipotesi il controllo della sussistenza dei requisi-

so la medesima pronuncia, seppur non riuniti, la decisione che per prima è stata resa costituisce giudicato vincolante ostativo ad un ulteriore esame delle medesime questioni; la parte che lamenti la mancata integrazione del contraddittorio e, quindi, la nullità della sentenza emanata senza la sua necessaria partecipazione, potrà dedurre tale vizio esclusivamente attraverso il ricorso in Cassazione. Il Collegio, rileva che avverso la sentenza n. 874/41/2002 l’ufficio Roma 5 aveva proposto ap-

ti è spostato nell’eventuale fase dell’accertamento “ordinario”. 26 Si vedano FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 189; MACCAGNANI, Commento all’art. 19, D.P.R. n. 602/1973, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo-Glendi, Padova, 2005, 679; LA ROSA, Esenzioni ed agevolazioni tributarie, cit., 5. 27 Che potrebbe demandare ad una discrezionalità tecnica e non amministrativa in senso stretto (cioè intesa come comparazione di interessi contrapposti). 28 Secondo l’art. 19, D.P.R. n. 602/1973

l’Agenzia delle Entrate (ora l’agente per la riscossione) “può” (e non “deve”) concedere la rateizzazione. 29 Si veda, ad es., la circolare n. 284/1997 cit. circa la tutela dei soggetti per i quali sussiste la comprovata necessità di mantenere i livelli occupazionali e di assicurare il proseguimento delle attività produttive e degli enti territoriali e delle aziende che svolgono servizi pubblici essenziali o attività socialmente necessarie per la collettività. 30 MACCAGNANI, Commento all’art. 19, cit., 679.


13 Processo Tributario.qxd

10-04-2009

16:01

Pagina 829

Processo tributario 4 2008 829

pello sia nei confronti degli I.F.O., acquirenti dell’ospedale, che dell’ospedale S.R. S.r.l. Rileva, altresì, che detto appello era stato già deciso con la sentenza 11/13/2004 senza la partecipazione degli I.F.O. Il Collegio, pertanto, preso atto che lo stesso appello portato all’esame del Collegio è stato già deciso con la sentenza n. 874/41/2002 rileva che, detta decisione, costituisce giudicato vincolante ostativo ad un ulteriore esame in questa sede delle medesime questioni. Resta salva, ovviamente, per l’I.F.O. – ove dimostri di non aver avuto conoscenza del procedimento di appello conclusosi con la sentenza n. 874/41/2002 senza che fosse stata comunicata al medesimo l’udienza di trattazione – , la possibilità di far valere ove ne ricorrano i presupposti, le violazioni del contraddittorio entro il termine speciale di cui all’art. 327, comma 2, c.p.c., termine che decorre dal-

la data di notificazione della presente decisione, in quanto indicati, solo in questa, gli estremi della prima sentenza (n. 874/41/2002). In buona sostanza, essendosi formato il giudicato sull’appello proposto dall’ufficio e notificato sia al venditore che all’acquirente, ove quest’ultimo lamenti la mancata integrazione del contraddittorio e, quindi, la nullità della sentenza emanata senza la sua necessaria partecipazione, potrà dedurre tale vizio con lo strumento all’uopo previsto che, nella specie, è il ricorso per cassazione. Alla luce delle considerazioni che precedono, il Collegio rileva che l’appello dell’ufficio essendo già stato deciso con sentenza passata in giudicato non può essere più esaminato in questa sede. Quanto all’appello incidentale sulle spese proposte dall’I.F.O. lo stesso, ovviamente, è assorbito dall’intervenuto giudicato che ha accolto l’appello principale proposto dall’ufficio.

Nota di Piero Sandulli

con due distinti atti di gravame, i quali, erroneamente non riuniti, in palese violazione dell’art. 335 c.p.c., venivano separatamente portati alla attenzione della Commissione tributaria regionale. I giudici tributari del gravame, non rilevando la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di una delle parti ricorrenti nel primo giudizio, accoglievano il ricorso presentato nei confronti di una sola parte, senza disporre, come avrebbero dovuto, l’ integrazione del giudizio nei confronti dell’altro destinatario dell’avviso di liquidazione che aveva dato vita al contenzioso. Invero, la decisione n. 2333/2003, del 3 agosto 2004, è stata resa nei soli confronti di una delle due parti del giudizio di prime cure senza che fosse stata verificata, in alcun modo, la posizione dell’altra, pur nella piena consapevolezza (espressa nella parte in fatto della decisione) che il ricorso dell’ufficio era diretto nei confronti dell’intera decisione di accoglimento resa dalla Commissione tributaria provinciale. Pertanto, la decisione emanata – non preoccupandosi affatto del diritto alla difesa dell’altra parte – prendeva in esame la sola doglianza espressa dall’ufficio nei confronti di una parte, non curandosi della circostanza che si versasse in presenza di una causa inscindibile e non ricordando, quindi, di dover prendere (a norma del dettato dell’art. 331 del Codice di rito civile, che trova applicazione nel giudizio tributario) i provvedimenti idonei a garantire, all’altro soggetto interessato all’accertamento, nonché parte del giudizio tributario di prime cure, il proprio diritto alla difesa. Invero, a quest’ultimo non solo non è

La decisione in esame non ha rimediato all’errore, in precedenza posto in essere con la decisione 11/13/2004 ma ha, invece, ottenuto il risultato contrario a quello pronosticato nella parte motiva, di far passare in giudicato la decisione di prime cure, con la quale è stato annullato l’accertamento posto in essere dall’ufficio e ha, definitivamente, posto nel nulla qualsiasi ulteriore doglianza in merito all’annullamento di detto accertamento. Posizione del problema La decisione della Commissione tributaria regionale di Roma, resa in data 17 luglio 2008, con numero 76/36/2008, offre lo spunto per operare alcune brevi riflessioni relative al tema della pluralità di parti nel processo e agli effetti della mancata integrazione del contraddittorio nelle fasi di gravame. La fattispecie dedotta in giudizio può così essere riassunta. Avverso l’avviso di liquidazione dell’Agenzia delle Entrate di Roma, con il quale si chiedeva il pagamento di una imposta supplementare di registro, i due diversi intimati proponevano, tempestivamente, due distinti separati ricorsi, l’ufficio si costituiva, in entrambi i casi, resistendo. Con la decisione resa in data 14 ottobre 2002 la quarantunesima sezione della Commissione tributaria provinciale di Roma disponeva, preliminarmente, la riunione dei ricorsi e, nel merito, accoglieva gli stessi. L’ufficio, rimasto soccombente, ha impugnato la decisione resa dai giudici tributari di prime cure,


13 Processo Tributario.qxd

830

10-04-2009

16:01

GiustiziaTributaria

Pagina 830

4 2008

stata data alcuna comunicazione relativa alla fissazione dell’udienza, in un giudizio nel quale si era costituito, ma neppure gli è stata data la possibilità di partecipare all’udienza. La decisione resa dai giudici del gravame ha visto l’accoglimento della tesi svolta dall’ufficio nei confronti di uno soltanto dei soggetti colpiti dall’accertamento che aveva dato vita al ricorso di primo grado, la cui decisione, favorevole ai ricorrenti, ha dato luogo all’annullamento dell’avviso di accertamento. Analisi critica La pronuncia depositata il 17 luglio 2008 dalla Commissione tributaria regionale, nel definire la questione presa in decisione all’udienza del 5 marzo 2007, tradisce il travaglio dei giudici del gravame, i quali, finalmente, rilevano come la prima decisione è stata presa nel corso di un giudizio al quale non hanno partecipato tutte le parti che avrebbero dovuto esservi legittimamente presenti, nel corretto esercizio del diritto alla difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione. Nell’esaminare la pronuncia occorre muovere dall’analisi del dispositivo il quale ha dichiarato inammissibile il gravame rigettando, ad un tempo, sia la impugnazione principale che quella incidentale. Va, al riguardo, necessariamente, rilevato che la conseguenza che se ne ricava appare in palese contrasto con quanto ha ritenuto di affermare, nella sua parte motiva, la decisione in commento. Invero, dall’analisi del dettato dell’articolo 358 c.p.c. (che trova applicazione nel caso di specie in base al comma 2, art. 1, D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992, in vigore dal 1996) si deduce che la impugnazione dichiarata inammissibile dal giudice d’appello non fa altro che produrre il passaggio in giudicato (art. 324 c.p.c.) della decisione resa dei giudici tributari in primo grado, non essendo possibile ricavare alcuna altra conseguenza da detta pronuncia1, in quanto – come è noto – ciò che passa in giudicato è quanto si contiene nel dispositivo della decisione2. Esame della parte motiva La Commissione tributaria regionale nel rilevare la circostanza che la precedente sentenza, resa dal medesimo organismo giudiziario, non avesse tenuto nel dovuto conto la normativa che regola il principio del contraddittorio nelle fasi di gravame, espressa dall’art. 331 c.p.c., e non avesse, pertanto, provveduto a dettare i provvedimenti idonei a de-

1 Cass. civ., sez. III, 21 giugno 2005, n. 13325, in Giur. It. Mass., 2005.

terminare l’integrazione del contraddittorio, ha ritenuto che l’errore nel quale era incorsa la prima Commissione tributaria regionale, nell’esaminare la doglianza proposta dall’ufficio, nei confronti dell’ospedale S.R. S.r.l., decisa con la sentenza n. 11/13/2004, potesse dar luogo all’ipotesi prevista dal comma 2, art. 327 del Codice di rito, il quale, nell’individuare il termine lungo, oltre il quale non possono essere proposti mezzi di impugnazione ordinari, ricorda che tale disposizione «non si applica quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa o per nullità degli atti di cui all’art. 292 c.p.c.». Invero, detta norma non può trovare applicazione nel caso di specie, sia perché la parte rimasta assente nel precedente giudizio, svolto nei confronti di uno solo dei contraddittori, non solo aveva avuto notizia dell’esistenza del gravame promosso dall’ufficio, ma anzi avverso detto gravame, aveva tempestivamente operato le proprie difese scritte, sia perché non può, in alcun modo, affermarsi che la parte erroneamente pretermessa sia rimasta soccombente all’esito della pronuncia resa con la decisione che si commenta. È noto, infatti, che il potere di impugnare è dato esclusivamente alla parte soccombente e poiché – come si è ricordato in precedenza – la dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione non può che determinare, a norma dell’art. 358 c.p.c. l’ impossibilità di riproporre l’appello, con l’ulteriore conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, nella quale la parte rimasta assente nel giudizio, deciso con la sentenza n. 11/13/2004, era risultata vittoriosa, anche per tale ragione non può, nel caso in esame, essere impugnata ad opera dell’I.F.O., la sentenza che si commenta per l’evidente carenza del requisito, essenziale per impugnare, della soccombenza. Conclusioni In conclusione, la decisione resa dalla Commissione tributaria regionale, non ha rimediato all’errore, in precedenza posto in essere dalla sua consorella, con la decisione n. 11/13/2004, ma ha invece, con la propria decisione, ottenuto il risultato contrario a quello pronosticato nella parte motiva, di far passare in giudicato la decisione di prime cure, con la quale è stato annullato l’accertamento posto in essere dall’ufficio e ha, definitivamente, posto nel nulla qualsiasi ulteriore doglianza in merito all’annullamento di detto accertamento.

2 TARZIA-FONTANA, Sentenza (civile), in Enc. Giur., XXVIII, 4; inoltre Cass.,

sez. trib., 17 luglio 2000, n. 9415, in Giur. It. Mass., 2005.


14 riscossione.qxd

7-04-2009

12:59

Pagina 831

Riscossione 4 2008 831

RISCOSSIONE IL REGIME TRANSITORIO DEI TERMINI DI NOTIFICA DELLE CARTELLE DI PAGAMENTO

120

Commissione tributaria regionale della Campania, sez. XXVIII, 11 giugno 2007, n. 103 Presidente: De Palma - Relatore: Sapignoli Riscossione - Cartella di pagamento - Notifica Eccezione di tardività - Applicazione dell’art. 4, D.M. n. 321/1999 - Decadenza dell’iscrizione a ruolo per via telematica - Sussistenza (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, comma 1; D.M. 3 settembre 1999, n. 321, art. 4; D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193, art. 1) In mancanza di prova contraria da parte del concessionario, la consegna del ruolo deve intendersi avvenuta entro il termine del giorno 10 del mese successivo a quello di esecutorietà e contestuale trasmissione al concessionario, ai sensi dell’art. 4 del D.M. n. 321/1999, con la conseguenza che la cartella di pagamento deve essere notificata entro «l’ultimo giorno del quarto mese successivo a quello di consegna del ruolo al concessionario»; il computo del dies a quo per la notifica della cartella di pagamento rispetto ai rapporti pendenti ante D.Lgs. n. 193/2001 deve quindi tener conto dell’attività propedeutica delle fasi di formazione e consegna del ruolo. Svolgimento del processo A.M.L. impugnava una cartella di pagamento notificata il 18 gennaio 2005 con la quale il concessionario della riscossione di Isernia richiedeva il contributo al Servizio sanitario nazionale, oltre interessi ed accessori, anno 1996, per l’importo complessivo di euro 881,59, sulla base del ruolo formato dall’Agenzia delle Entrate di Nola e reso esecutivo in data 27 dicembre 2000. A fondamento dell’impugnazione, la contribuente sosteneva essere intervenuta la decadenza dell’iscrizione a ruolo in violazione dell’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 193/2001, in base al quale la cartella di pagamento doveva essere notificata «entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo a quello di consegna del ruolo». Riteneva, altresì, che ai fini dei computo del dies a quo dal quale far partire il termine di notifica della

cartella e, quindi, per individuare il termine di consegna dei ruolo, si dovesse tenere conto del disposto del decreto 3 settembre 1999, n. 321 in base ai quale l’ufficio doveva consegnare il ruolo “informatizzato” al concessionario telematicamente e, quindi, contestualmente alla esecutorietà dei ruoli, ovvero nei termine massimo di giorni dieci successivi alla trasmissione al consorzio nazionale concessionari. Chiedeva l’annullamento della cartella e la condanna alle spese dell’a.f. Resisteva l’Agenzia delle Entrate, deducendo l’infondatezza del rilievo formulato dalla contribuente in ordine alla decadenza, atteso che alla data della notifica dell’atto impugnato non era previsto alcun termine per la notifica delle cartelle di pagamento per effetto delle modifiche apportate all’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973 dal D.Lgs. n. 193/2001, in base al quale la notifica della cartella poteva avvenire sine die al contribuente. Evidenziava che la posizione della contribuente era stata interessata dalla formazione di due avvisi bonari emessi a seguito di sgravio parziale del ruolo, che avrebbero determinato il prolungamento dei termini per notificare la cartella. Chiedeva il rigetto dei ricorso e la vittoria delle spese di giudizio. Il concessionario della riscossione si costituiva nel giudizio, evidenziando preliminarmente la propria carenza di legittimazione passiva a resistere nel merito dell’iscrizione a ruolo, che era di competenza dell’ufficio impositore. Riteneva, quindi, fondato in diritto il proprio operato e ribadiva l’avvenuta emissione degli avvisi bonari, sulla base di un ruolo già sottoscritto, che avrebbe comportato la notifica della cartella di pagamento solo se il contribuente non avesse provveduto al pagamento nei termini individuati dalla norma, ovvero l’ufficio non avesse annullato l’iscrizione a ruolo. Contestava, inoltre, l’individuazione di un termine per la consegna dei ruoli «entro i primi giorni del mese di gennaio» secondo l’interpretazione del decreto n. 321/1999 fornita dalla ricorrente, atteso che quel termine che non è indicato


14 riscossione.qxd

832

7-04-2009

12:59

Pagina 832

GiustiziaTributaria

4 2008

nella cartella di pagamento riguardava l’attività interne tra l’ufficio e il concessionario. Chiedeva il rigetto del ricorso con vittoria di spese. Con memorie, la ricorrente ribadiva la decadenza dell’iscrizione della notifica con riferimento all’art. 25 nel testo in vigore al momento dell’iscrizione a ruolo, e precisava che, dovendosi tener conto del disposto dell’art. 4 del decreto 3 settembre 1999, n. 321, il quale prevede che la consegna al concessionario dei ruoli trasmessi al Cnc tra il giorno 16 e l’ultimo giorno del mese, si intende effettuata il giorno 10 del mese successivo, la consegna del ruolo, a fronte della esecutorietà resa il 27 dicembre 2000, doveva considerarsi effettuata entro il 10 gennaio 2001, e la notifica della cartella doveva avvenire «entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo» vale a dire entro il 31 maggio 2001. La Commissione adita, con sentenza n. 365/32/05 del 7 ottobre-2 novembre 2005, accoglieva il ricorso e annullava la cartella opposta per decadenza del diritto alla riscossione, riconoscendo la fondatezza dell’eccezione di tardività della notifica, in violazione dell’art. 25, D.P.R. n. 602/1973. Stabiliva la Commissione che la fattispecie riguardava la vigenza e la natura del termine contenuto nel comma 1 dell’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973 che regola i rapporti che intercorrono tra il concessionario della riscossione e i contribuenti. Osservava, quindi: «il suddetto articolo nel corso degli anni ha subito diverse modifiche a seguito delle quali il termine in esso contenuto è stato prima modificato e poi eliminato. In primo luogo, va ribadito che questa Commissione non ha alcun dubbio circa la natura perentoria del termine contenuto nel più volte richiamato articolo (Cass., 27 gennaio 2005, n. 1634; Cass. 5 agosto 2004, n. 15059; Cass. 7 gennaio 2005, n. 10), ma la controversia in esame richiede la verifica dell’applicabilità o meno dei termini di cui all’art. 25 nel testo antecedente alle modifiche introdotte dall’art. 11, D.Lgs. 46/1999, con efficacia a partire dall’1 luglio 1999 e poi dall’art. 1, comma 1, lett. b, del D.Lgs. n. 193/2001, con efficacia a partire dal 29 giugno 2001. Nella specie, il ruolo ere stato reso esecutivo in data 27 dicembre 2000 e, quindi, nel periodo in cui era entrato in vigore il testo dell’art. 25 che prevedeva che la notifica del ruolo dovesse avvenire “entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo a quello di consegna del ruolo”, con la conseguenza che la notifica della cartella doveva essere eseguita perentoriamente entro il 31 maggio 2001, mentre la stessa veniva notificata solo in data 18 gennaio 2005, dopo oltre cinque anni dal suddetto termine di decadenza».

Interpone appello l’Agenzia delle Entrate di Nola, censurando l’operato dei primi giudici che ritiene non legittimo e non conforme alle disposizioni di legge. Osserva che l’art. 17 del D.P.R. n. 602/1973, precedente alla modifica apportata dal D.Lgs. n. 46/1999, disponeva che l’iscrizione a ruolo doveva avvenire entro i termini di cui al primo comma dell’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, cioè entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui era stata presentata la dichiarazione. Pertanto l’iscrizione a ruolo entro il 27 dicembre 2000 è nei termini a fronte della dichiarazione presentata nel 1997. Osserva, poi, che l’art. 9 della legge n. 448 del 23 dicembre 1998 ha disposto la proroga dei termini al 31 dicembre 2000 per il controllo delle dichiarazioni presentate negli anni dal 194 al 1998 ai fini delle imposte dirette e negli anni dal 1995 al 1998 ai fini Iva. Evidenzia, inoltre, che l’art. 28 della legge n. 449 del 27 dicembre 1997 dispone che il primo comma dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973 deve essere interpretato nel senso che il termine in esso indicato, avendo carattere ordinatorio, non è stabilito a pena di decadenza. Sostiene, quindi, che l’iscrizione a ruolo è comunque nei termini per essere stati rispettati i tempi previsti dalla legge. Per quanto concerne la consegna del ruolo al concessionario, l’ufficio fa presente che l’art. 24 del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dall’art. 10 del D.Lgs. n. 46 del 26 febbraio 1999, non prevede alcun termine per detto adempimento. Pertanto nulla può essere eccepito perché la consegna del ruolo è avvenuta il 25 maggio 2001. Sulla notifica della cartella di pagamento avvenuta nel 2005, di cui è stata eccepita l’intervenuta decadenza, l’ufficio sostiene che a seguito della modifica disposta dall’art. 1, comma 1, lett. c del D.Lgs. n. 193/2001, in vigore dal 9 giugno 2001, nessun termine per la notifica della cartella di pagamento da parte del concessionario è previsto, se non quello decennale di cui all’art. 2946 c.c. Aggiunge che i termini previsti dall’art. 25 per la notifica della cartella di pagamento sono ritenuti dalla giurisprudenza di natura ordinatoria e non perentoria in quanto non influiscono sul rapporto fisco contribuente ma riguardano prevalentemente il rapporto fisco esattore, avendo la sola funzione di esortazione per accelerare la riscossione, pena la perdita del diritto al discarico delle quote iscritte a ruolo. Sostiene, infine, che le disposizioni di cui all’art. 1, comma 417, lett. c, della legge finanziaria n. 311/2004 (notifica della cartella entro l’ultimo giorno del dodicesimo mese successivo a quello di


14 riscossione.qxd

7-04-2009

12:59

Pagina 833

Riscossione 4 2008 833

consegna del ruolo, in vigore dall’1 gennaio 2005) e quelli della legge n. 156 del 31 luglio 2005, riguardanti i nuovi termini perentori per la notifica delle cartella di pagamento, in vigore dal 10 agosto 2005, non disciplinano il caso in oggetto che è precedente all’entrata in vigore delle disposizioni richiamate. L’Agenzia conclude facendo rilevare che le doglianze avverso l’art. 25 attengono al concessionario e chiede la riforma della sentenza di primo grado con la conferma del proprio operato e la vittoria delle spese di giudizio. Si costituisce la contribuente sollevando «eccezione preliminare di inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle Entrate per carenza di legittimazione e di interesse ad agire», in quanto osserva, le doglianze del ricorso non attenevano alla decadenza dell’iscrizione a ruolo bensì alla notifica della cartella ex art. 25, D.P.R. n. 602/1973, doglianze che interessano il concessionario della riscossione, come dall’ufficio stesso rilevato. Insiste quindi nella intervenuta decadenza della notifica in virtù della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dal D.Lgs. n. 193/2001, da parte della Corte costituzionale e, di conseguenza, l’applicabilità dell’art. 25 nella formulazione antecedente alle suddette modifiche, secondo il quale la notifica della cartella doveva avvenire entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo a quello di consegna del ruolo. Osserva che la cartella di pagamento è da considerarsi notificata oltre il termine di decadenza anche applicando le disposizioni introdotte dal D.L. n. 106/2005, convertito nella legge n. 156 del 31 dicembre 2005, che la Corte di Cassazione, con sentenze n. 26105/2005, 21779/2005 e 1435/2006 ha ritenuto applicabili ai rapporti ancora pendenti alla data di entrata in vigore della richiamata legge. Nel qual caso, la cartella di pagamento sarebbe notificata dopo oltre otto anni dall’anno di presentazione della dichiarazione, laddove la nuova legge prevede il termine per la notifica, a pena di decadenza, della cartella di pagamento, del 31 dicembre del quinto anno successivo. Chiede il rigetto dell’appello con vittoria di spese del doppio grado di giudizio. Non si costituisce il concessionario della riscossione. Motivi della decisione L’appello dell’Agenzia delle Entrate non può trovare accoglimento. L’appello è certamente infondato laddove l’ufficio si sofferma sull’ipotetico mancato rispetto dei termini per l’iscrizione a

ruolo ex art. 17 del D.P.R. n. 602/1973, atteso che tale eccezione non era stata sollevata dalla contribuente nel ricorso introduttivo, né si desume dagli altri atti di causa e che la sentenza di prime cure ha, senza dar adito a dubbi, fondato la propria pronunzia sul mancato rispetto del termine per la notifica della cartella di pagamento al contribuente ai sensi dell’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973. L’appello è infondato, poi, nella parte in cui censura la sentenza di primo grado affermando tempestività della notifica della cartella di pagamento per inesistenza di un termine di notificazione diverso ed inferiore a quello decennale di prescrizione. Per la definizione della presente controversia sul punto, occorre riportarsi all’esegesi logica e sistematica dell’intero quadro normativo a seguito delle numerose modifiche legislative e dei ripetuti interventi interpretativi da parte sia della Corte costituzionale, sia della Corte di Cassazione, sul termine di decadenza per la notifica della cartella di pagamento, ai sensi dell’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973 medesimo decreto. Secondo l’ufficio, la notifica avvenuta nel 2005 sarebbe legittima perché l’art. 25 del D.P.R. n. 602/1073, a seguito della modifica disposta dall’art. 1, comma 1, lett. c, del D.Lgs. n. 193 del 24 luglio 2001, in vigore dal 9 giugno 2001, non prevedeva alcun temine per la notifica della cartella di pagamento da parte del concessionario, se non quello decennale di cui all’art. 2946 del codice civile. Detta tesi è infondata alla luce degli interventi della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione e dell’intervento legislativo che è seguito nel 2005. Già con le ordinanze della Corte costituzionale n. 107/2003 e 352/2004 era stata individuata una esigenza di limitazione dell’arco temporale entro il quale il fisco poteva utilizzare i propri poteri autoritativi nella peculiare procedura di liquidazione di quanto dichiarato dal contribuente ex art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973, affermando, in linea di principio, che il contribuente non poteva «restare indefinitamente soggetto all’azione del fisco» e che mediante «l’interpretazione adeguatrice» delle norme vigenti, dovevano individuarsi i termini per assicurare la conoscenza in tempi certi della pretesa tributaria da parte del contribuente, tempi che non erano assicurati dall’applicazione del termine di prescrizione ordinaria, atteso che «l’eccessiva distanza tra il fatto e la contestazione rende inevitabilmente inefficace ogni strumento difensivo» (ord. Corte cost. n. 107/2003). La posizione assunta dalla Corte costituzionale ha portato a due interventi legislativi, a poca distan-


14 riscossione.qxd

834

7-04-2009

12:59

Pagina 834

GiustiziaTributaria

4 2008

za l’uno dall’altro, che hanno modificato l’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973. Il primo è quello disciplinato dall’art. 1, comma 417, lett. c, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, in vigore dal 10 gennaio 2005, in base al quale la notifica della cartella di pagamento doveva avvenire «entro l’ultimo giorno del dodicesimo mese successivo alla consegna del ruolo al concessionario» e l’altro, che ha fatto seguito alla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 25, nel testo successivo alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lett. b, del D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193, ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 15 luglio 2005, n. 280, secondo il quale: «Al fine di garantire l’interesse del contribuente alla conoscenza, in termini certi, della pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni e di assicurare l’interesse pubblico alla riscossione dei crediti tributari» per la conclusione del procedimento attraverso la notifica della cartella di pagamento indirizzata al contribuente: «la notifica delle relative cartelle di pagamento è effettuata, a pena di decadenza: a) entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, con riferimento alle dichiarazioni presentate a decorrere dal 10 gennaio 2004; b) entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, con riferimento alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003; c) entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, con riferimento alle dichiarazioni presentate fino al 31 dicembre 2001». Orbene, va detto che la Corte di Cassazione, in numerosi arresti, ha ritenuto che la disciplina transitoria introdotta dalla novella del 2005 vada applicata a tutti i rapporti ancora pendenti quando questi riguardino ruoli resi esecutivi dopo l’1 ottobre 1999 (Cass., 21 luglio 2006, n. 16826, già espresso in Cass., 30 novembre 2005, n. 26104 e confermato in Cass., 25 gennaio 2006, n. 1435 e Cass., 20 dicembre 2006, n. 27216). La Cassazione afferma l’applicabilità dei termini della novella del 2005 anche alle fattispecie pregresse in ragione del fatto che l’intervento legislativo in parola rappresenta un intervento “additivo di principio” suscettibile di incidere sui rapporti in corso. In tal modo, ritiene la Cassazione, il giudice deve avere riguardo a che la notificazione delle cartelle di pagamento sia avvenuta entro i termini del novellato art. 25, eliminando ogni interesse e attenzione in ordine alle attività “interne” come quelle riguardante la formazione del ruolo e la sua consegna all’esattore-concessionario, consi-

derate prive di rilievo nella dialettica del rapporto d’imposta. Da ultimo, però, la Cassazione è andata di contrario avviso, affermando l’applicabilità del termine decadenziale di quattro mesi dalla consegna del ruolo stabilita dall’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973, come novellato dall’art. 1 del D.Lgs. n. 46/1999, per la notifica di cartelle di pagamento riproduttive di ruoli consegnati al concessionario prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 193/2001 (Cass., 15 gennaio 2007, n. 667). In tale prospettiva, ritornerebbe in gioco l’attività propedeutica relativa alle fasi di formazione e consegna del ruolo che con la nuova normativa si è inteso abbandonare. Circa la formazione del ruolo, bisognerebbe pertanto tenere conto del termine entro il quale il ruolo, a pena di decadenza, doveva essere reso esecutivo, ai sensi dell’art. 17 del D.P.R. n. 602/1973 (abrogato dalla normativa del 2005), mentre per la consegna del ruolo andrebbe ricercato nella normativa vigente anteriormente alle modifiche del D.Lgs. n. 193/2001, un termine che possa rappresentare il dies a quo dal quale far cominciare a decorrere il termine di decadenza. Va tenuto presente che la riforma del 1999 aveva modificato anche l’art. 24 del D.P.R. n. 602/1973 eliminando i termini di consegna del ruolo ivi previsti, dichiarati perentori dalla giurisprudenza di legittimità (ord. Corte cost. n. 107/2003; Cass., 7 gennaio 2004, n. 10; Cass., 5 ottobre 2004, n. 19865), oggi prevedendo che i termini di consegna siano stabiliti da un decreto ministeriale. Il termine di consegna del ruolo al concessionario è disciplinato, dopo la riforma del 1999, dal D.M. 3 settembre 1999, n. 321, e segnatamente l’art. 4, rubricato “data di consegna dei ruoli”, dispone che «per i ruoli trasmessi al Cnc fra il giorno 1 e il giorno 15 del mese, la consegna al concessionario si intende effettuata il giorno 25 dello stesso mese; per i ruolo concessionario si intende effettuata il giorno 10 del mese successivo». I termini fissati da questa normativa secondaria disciplinano i rapporti interni tra concessionario ed ente creditore, non ammettendo però deroghe all’operatività dei limiti temporali stabiliti dall’abrogato art. 17, D.P.R. n. 602/1973. I termini predetti, stabiliti dalla normativa appena citata, non sono perentori e rimangono ignoti al contribuente. Tuttavia, per risolvere il problema secondo “l’interpretazione adeguatrice” delle norme vigenti ben si sarebbe potuto estendere l’operatività del termine per l’esecutorietà dei ruoli alla consegna dei ruoli al concessionario. La disciplina regolamentare, infatti, sembra supporre la contestualità


14 riscossione.qxd

7-04-2009

12:59

Pagina 835

Riscossione 4 2008 835

degli adempimenti, agevolata dall’utilizzo di strumenti telematici. Nei confronti del contribuente, la data di sottoscrizione del ruolo, da presumersi contestuale alla trasmissione al concessionario, avrebbe potuto individuare il dies a quo ai fini della decorrenza del termine per la notifica della cartella di pagamento. Sarebbe gravato sul concessionario l’onere di provare l’intervenuta consegna del ruolo in una data successiva rispetto alla sottoscrizione, ma anteriore, in ogni caso alla scadenza dei termini decadenziali determinati dall’art. 17 del D.P.R. n. 602/1973. L’orientamento appena citato, condivisibile da questo Collegio, coincide con quello della sentenza impugnata e ne determina il fondamento e quindi la conferma. In mancanza di prova contraria da parte del concessionario, la consegna del ruolo deve intendersi avvenuta entro il termine del giorno 10 del mese successivo a quello di esecutorietà e trasmissione contestuale del ruolo al concessionario, ai sensi dell’art. 4 del D.M. n. 321/1999, e quindi entro il 10 gennaio 2001, a fronte dell’esecutorietà resa il 27 dicembre 2000, con la conseguenza che la cartella di pagamento doveva essere notificata entro «l’ultimo giorno del quarto mese successivo a quello di consegna del ruolo al concessionario» e cioè entro il 31 maggio 2001. Non è condivisibile l’orientamento giurisprudenziale che ammette l’applicabilità dell’art. 25, come modificato dalla legge n. 156 del 2005 anche ai ruoli resi esecutivi anteriormente al 9 giugno

2001, cioè prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate dal D.Lgs n. 193/2001, perché prima di allora il termine per la notifica della cartella di pagamento era ricavabile dalle norme di diritto vigenti. La sentenza di prime cure non è censurabile da parte di questo Collegio perché la decisione dei primi giudici trova rispondenza nella normativa vigente all’epoca della formazione del ruolo. In ogni caso, tenuto conto che il giudizio è iniziato prima dell’emanazione della normativa che ha modificato l’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973 (la legge n. 156/2005), un’altra soluzione che vedrebbe comunque soccombere l’amministrazione finanziaria sarebbe l’applicazione al caso di specie dell’orientamento che vede la normativa del 2005 applicabile ai giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore. La cartella di pagamento in oggetto, infatti, contravviene al disposto dall’art. 1, comma 5-bis, del D.L. 17 giugno 2005, convertito nella legge 31 luglio 2005, n. 156, perché la cartella di pagamento risulta notificata oltre il termine del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, atteso che il tempo intercorso tra la presentazione della dichiarazione e la notifica della cartella di pagamento è di circa otto anni. La sentenza di prime cure deve essere, pertanto, in ogni caso, confermata. In ragione della sopravvenuta legislazione sopravvenuta e del contrasto giurisprudenziale citato, sussistono i motivi per la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

Nota di Laura Letizia

ratterizza per originalità di interpretazione, vi è il riconoscimento di un ruolo rilevante per l’attività propedeutica delle fasi di formazione e consegna del ruolo, con esplicito disconoscimento della nuova disciplina.

La sentenza riguarda l’interpretazione del termine indicato nell’art. 25, comma 1, D.P.R. 602/1973, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. 193/2001. L’occasione è proficua per verificare l’ancora persistente difformità di orientamento rispetto alla disciplina da applicare ai rapporti pendenti sorti prima dell’entrata in vigore della L. 156/2005. In tale contesto la Comm. trib. reg. ha ritenuto, ratione temporis, di poter richiamare i termini indicati dall’art. 4 del D.M. n. 321/1999 che, pur se non perentori e ignoti al contribuente, non ammettono deroghe all’operatività dei limiti temporali indicati nell’(abrogato) art. 17, D.P.R. n. 602/1973. A fondamento del decisum, che si ca-

1 Il concessionario della riscossione, in prime cure, aveva richiesto alla ricorrente il versamento del contributo al

Premessa Le considerazioni che seguono traggono origine da una decisione della Commissione regionale tributaria della Campania su un appello proposto dall’Agenzia delle Entrate e attengono all’interpretazione sulla vigenza e alla natura del termine indicato nel comma 1, art. 25, D.P.R. n. 602/1973, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 193/2001. Il decisum del Collegio, confermando la sentenza di primo grado1 e riconoscendo le ragioni addot-

Ssn, oltre interessi e accessori per l’anno 1996, in virtù di un ruolo formato dall’Agenzia delle Entrate, reso esecu-

tivo il 27 dicembre 2000. La relativa cartella era stata notificata alla contribuente in data 18 gennaio 2005.


14 riscossione.qxd

836

7-04-2009

12:59

Pagina 836

GiustiziaTributaria

4 2008

te dalla resistente sull’intervenuta decadenza dell’iscrizione a ruolo per via telematica della cartella di pagamento ha ritenuto applicabile, al caso di specie, il disposto dell’art. 4, D.M. n. 321/19992 collocandosi in senso contrario – rispetto al prevalente orientamento, anche di legittimità – volto ad affermare la piena efficacia retroattiva, anche per le liti pendenti, del “regime transitorio” dei termini di decadenza per l’esercizio del potere impositivo di riscossione. In particolare, i giudici tributari hanno ritenuto fondata l’eccezione, denunciata dalla contribuente, relativa alla tardività della notifica, rafforzata, tra l’altro, dalla considerazione che per il computo del dies a quo dal quale iniziare a far decorrere il termine di consegna del ruolo, l’Agenzia delle Entrate era tenuta a consegnarlo al concessionario contestualmente all’esecutorietà ovvero entro i dieci giorni successivi alla trasmissione al Cnc. Tale decisione3, pertanto, considera con rinnovato rilievo l’attività propedeutica della formazione e della consegna del ruolo discostandosi, in maniera evidente, dalle intenzioni che il legislatore intendeva realizzare con la nuova normativa e si conforma, per tale via, ad una peculiare interpretazione della Corte di Cassazione4.

2 Tale norma prevede che la consegna al concessionario dei ruoli emessi al Cnc tra il giorno 16 e l’ultimo giorno del mese, si intende effettuata entro il giorno 10 gennaio 2001. La notifica della cartella doveva avvenire, pertanto, a giudizio della contribuente: «entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo», ovvero: «entro il 31 maggio 2001». 3 Comm. trib. reg. Campania, sez. 28, sentenza n. 103 dell’11 giugno 2007. In senso opposto e recentemente, Comm. trib. reg. Campania, sez.I, sentenza n. 177 del 23 aprile 2007. 4 Cass., sent. n. 677 del 15 gennaio 2007. 5 Cass. civ., sez. V, sent. n. 26104/2005 e 26105/2005. Il ruolo rappresenta tradizionalmente l’atto impositivo alla cui base, anche per buona parte dei sostenitori delle tesi “costitutiviste”, vi è un’obbligazione di carattere tributario in relazione alla quale tutte le attività e i relativi comportamenti discendenti sono: «meramente attuativi od esecutivi». Così, BASILAVECCHIA, Il ruolo e la cartella di pagamento: profili evolutivi della riscossione dei tributi, in Dir. e Prat. Trib., 2007, 1, 127-148. In ogni caso, tale

Dopo un breve excursus sull’evoluzione legislativa che ha interessato i termini di decadenza per la notifica delle cartelle esattoriali sino a giungere all’attuale disciplina, si trarranno – non trascurando l’analisi di taluni profili di criticità individuati dalla dottrina e gli orientamenti giurisprudenziali difformi della Suprema Corte – talune conclusioni che consentono di sostenere come, nella prassi, persistano ancora difformità di orientamento rispetto all’applicazione retroattiva del “regime transitorio” ex art. 1, L. n. 156 del 15 giugno 2005. Evoluzione legislativa e giurisprudenza costituzionale La notifica della cartella di pagamento al contribuente ad opera del concessionario rappresenta l’atto finale “esterno” dell’articolato procedimento che segue l’attività dell’amministrazione finanziaria per la liquidazione delle imposte in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti d’imposta, la cui fase conclusiva, di carattere “interno”, prevede, prima della notificazione, la consegna del ruolo esecutivo al concessionario5. Nel divenire più recente, l’atto conclusivo “esterno” è stato ricondotto dal legislatore ad atti diversi e variabili (dalla dichiarazione fiscale del contri-

interpretazione, come precisa l’autore, non può essere ritenuta esaustiva in quanto le opinioni della dottrina e della giurisprudenza divergono tanto sull’unicità o pluralità di obbligazioni che sull’individuazione del momento temporale in cui identificare la nascita del diritto di credito. Un’impostazione costitutivista, tra l’altro, appare compatibile sia: «con il ripudio assoluto della nozione di obbligazione, sia con il ricondurre la nascita di quest’ultima all’avviso di accertamento, ovvero proprio e soltanto all’iscrizione a ruolo» mentre, al contrario «nell’impostazione dichiarativista, pur restando netta la diversità funzionale tra atti di accertamento e atti di riscossione, il problema del rapporto con il diritto di credito non si pone, essendo questo geneticamente collegato al presupposto, a prescindere dagli atti». Sugli effetti giuridici del ruolo per il contribuente, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2006, I, 288, che ne sottolinea la duplicità pur precisando, comunque, che tale aspetto non è rilevabile per i ruoli basati sulla dichiarazione dei redditi: «da un lato, dal ruolo sorge, per il soggetto iscritto, un obbligo di

pagamento; dall’altro, se l’obbligo non è adempiuto, l’iscrizione a ruolo legittima l’esecuzione forzata [...]». Tali effetti sicuramente si realizzano: «quando il ruolo è fondato sull’avviso di accertamento, perché l’iscrizione a ruolo rende esigibile l’obbligazione che scaturisce dall’avviso di accertamento. In tali ipotesi, l’iscritto non può adempiere prima del ruolo. Il ruolo, quindi, produce un effetto definibile in termini di esigibilità. Invece, nel caso di ruolo fondato sulla dichiarazione dei redditi, non è il ruolo che determina l’esigibilità dei crediti del fisco, perché l’esigibilità preesiste al ruolo [...]. In questo caso, dunque, il ruolo non crea ex novo ma reitera l’obbligo di versamento nascente dalla dichiarazione: la differenza sta in ciò, che all’inadempimento dell’obbligo della dichiarazione sorge il ruolo ma all’inadempimento dell’obbligo da ruolo segue l’esecuzione forzata». Sull’esecutorietà del ruolo, tra gli altri, LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2002, 608; RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2002, 375; FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003,548.


14 riscossione.qxd

7-04-2009

12:59

Pagina 837

Riscossione 4 2008 837

buente all’iscrizione nei – o alla consegna dei – ruoli esecutivi all’esattore concessionario) nonché a limiti temporali incerti rispetto alle attività procedimentali ad esso connesse caratterizzate, a loro volta, da molteplici fattori eterogenei6. Il termine perentorio per la notifica delle cartelle esattoriali7, infatti, previsto in origine dall’art. 25, comma 1, D.P.R. n. 602/19738, ha subito diversi interventi normativi che hanno tentato, con risultati non del tutto efficaci, di correggere il quadro della procedura di riscossione attraverso il ricorso a provvedimenti di carattere settoriale che ne hanno, di fatto, snaturato la funzione. Dapprima nel 1999 e, poi, nel 2001, due diversi decreti legislativi hanno introdotto disposizioni integrative e correttive alla disciplina: l’art. 11 del decreto n. 467/1999 – in vigore dall’1 luglio dello stesso anno – previde, infatti, che il concessionario fosse tenuto a notificare l’atto pervenutogli: «entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo a quello di consegna del ruolo»; l’art. 1, comma 1, lett. b, del decreto n. 193/2001 dispose, a sua volta, che: «nell’art. 25, comma 1, concernente la cartella di pagamento, le parole da “entro” a “del

6 Corte cost., sent. n. 280/2005, 3.1. Per la Corte di Cassazione, si rinvia alla nota n. 5. 7 Sul tema, in dottrina, BASILAVECCHIA, I termini decadenziali per la liquidazione delle imposte, in Corr. Trib., 2005, 1, 44; ALLENA, I termini per la formazione dei ruoli, la loro consegna al concessionario e la notifica della cartella di pagamento, in Riv. Dir. Trib., 2005, 6, 386 ss.; GASTALDO-RAGGI, Il termine per la notifica della cartella di pagamento, in Dir. e Prat. Trib., 2005, 5, 1111 ss.; VANTAGGIO, Il termine per la notifica della cartella esattoriale come strumento per verificare la tempestività dell’iscrizione a ruolo a seguito della liquidazione delle dichiarazioni, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 3, 353 ss. Per la giurisprudenza di merito, ex pluribus, Comm. trib. reg. Lazio, sez. XX, sent. 5 febbraio 2001, n. 120; Comm. trib. prov. Pordenone, sez. II, sent. 14 febbraio 2001, n. 21; Comm. trib. reg. Lazio, sez. VI, sent. 17 gennaio 2002, n. 108; Comm. trib. prov. Torino, sez. X, sent. 14 febbraio 2002, n. 77; Comm. trib. reg. Lazio, sez. VII, sent. 19 dicembre 2002, n. 128; Comm. trib. reg. Lazio, sez. I, sent. 28 gennaio 2003, n. 6; Comm. trib. prov. Roma, sez. LXIII, sent. 29 gennaio 2003, n. 705; Comm. trib. reg. Lazio, sez.

ruolo” sono soppresse», con effetti a decorrere dal 9 giugno 20019. Questa ultima norma, però, mostrò – con tutta evidenza – l’assenza di un limite temporale certo entro cui l’interessato doveva venire a conoscenza della pretesa erariale e, ponendosi in palese violazione, tra l’altro, del principio che impedisce di esporre il contribuente sine die all’esercizio dei poteri autoritativi dell’amministrazione finanziaria venne, conseguentemente, dichiarata incostituzionale. Parametri costituzionali di un sistema di riscossione evoluto implicano, infatti, il rispetto del principio di uguaglianza inteso quale ragionevolezza dei termini; l’esplicazione dell’esercizio del diritto di difesa da parte del debitore non oltre il termine per la conservazione dei documenti probatori; l’attualità della capacità contributiva, nel senso che la discrezionalità del legislatore deve esercitarsi con l’osservanza del limite della ragionevolezza rispetto al legame temporale intercorrente tra il momento in cui si manifesta la forza economica che si vuole sottoporre ad imposizione fiscale e il momento in cui è incisa la sfera econo-

XXV, sent. 14 aprile 2003, n. 14; Comm. trib. prov. Bologna, sez. XVI, sent. 23 febbraio 2004, n. 14. Per la Corte di Cassazione, si ricordano, le sentenze n. 7662 del 19 luglio 1999; n. 7093 del 9 maggio 2003; n. 10 del 7 gennaio 2004; n. 22939 del 30 ottobre 2007. Tra l’altro, nella sentenza n. 19865 del 2004 la Suprema Corte ha affermato che la piena e incondizionata applicabilità dello Statuto del contribuente deve essere intesa quale punto di riferimento per l’interpretazione delle norme tributarie con la conseguenza che un allungamento sine die dei tempi dell’azione di accertamento deve considerarsi: «illogico oltre che ingiustificatamente vessatorio per il contribuente, ponendosi in palese contrasto con il principio di conoscenza effettiva degli atti». Per i commenti a tale decisione si rinvia a CARINCI, Termini di notifica della cartella di pagamento e funzione del ruolo: perplessità applicative e dubbi sistematici in merito al nuovo art. 25 del D.P.R. n. 602/1973, in Rass. Trib., 2005, 48, 1669, nonché a TINELLI, in Riv. Giur. Trib., 2005, 2, 103 e GLENDI, in Corr. Trib., 2005, 4, 298. Più in generale, per i principi dello Statuto, MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008.

8 Nella sua originaria formulazione l’art. 25, comma 1, D.P.R. n. 602/1973, disponeva che l’esattore fosse tenuto a notificare la cartella: «non oltre il giorno cinque del mese di scadenza della prima rata successiva alla consegna dei ruoli»; in seguito, l’art. 13, comma 3, D.P.R. n. 787/1980, con effetti a decorrere dall’1 gennaio 1981, dispose che tale compito dovesse, invece, essere adempiuto: «entro il giorno successivo a quello nel corso del quale il ruolo» gli era stato consegnato. 9 «La norma in parola, da un lato, espunge dall’art. 25 il termine de quo avvalorando la teoria della sua irrilevanza; dall’altro, invece, ha la sembianza del solito intervento ad adiuvandum del legislatore, in soccorso di un apparato dello Stato incapace di assolvere i compiti istituzionali demandatigli». Così, LA ROSA, I termini per la notificazione delle cartelle di pagamento, tra accertamento e riscossione, in Riv. Sc. Sup. Econ. Fin., 2004, 3. In argomento, cfr., anche COLONNA, Notifica della cartella esattoriale: verso una soluzione definitiva, in Fisco, 2005, 15, nonché CAPOLUPO, La riscossione dei tributi: la zona apparentemente grigia tra formazione dei ruoli e notifica al contribuente della cartella di pagamento, in Fisco, 2005, 33.


14 riscossione.qxd

838

7-04-2009

12:59

Pagina 838

GiustiziaTributaria

4 2008

mica del contribuente10; la “buona amministrazione”, nel senso che l’azione amministrativa per poter effettivamente tutelare l’interesse fiscale e, conseguentemente, l’interesse della collettività, deve svolgersi in modo celere dal momento che tempestiva riscossione dei crediti tributari: «concorre ad assicurare il regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato»11. In verità, già prima della normativa attualmente in vigore12 e direttamente conseguente, come cennato, alla pronuncia di incostituzionalità, la Consulta si era espressa per la tutela dei principi suddetti e, in ottemperanza a i suoi moniti13, il legislatore era intervenuto per ripristinare il necessario dies ad quem. L’art. 1, comma 417, lett. c, della legge n. 311/2004 previde, pertanto, che la consegna della notifica della cartella di pagamento al debitore dovesse avvenire, a pena di decadenza: «entro l’ultimo giorno del dodicesimo mese successivo a quello di consegna del ruolo ordinario; ovvero, l’ultimo giorno del sesto mese successivo a quello di consegna del ruolo straordinario». Tutto ciò, però, non incise in alcun modo sull’indeterminatezza dei termini essendo previsti per la sola notifica impedendo, di fatto, che la procedura di riscossione si svolgesse nell’ambito di circoscritti e ben definiti periodi temporali dall’insorgere del fatto generatore. In buona sostanza, permase sia la carenza di termini ex lege inerenti allo svolgimento della fase

10 Cfr. Comm. trib. reg. Campania, ord. n. 47/2002. In dottrina, sul requisito di attualità, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, cit., 75, che sottolinea come esso rappresenti un aspetto del principio di effettività e FANTOZZI, Corso di diritto tributario, Torino, 2003, 24, che ne specifica l’applicabilità tanto per i tributi collegati a presupposti verificatisi prima dell’entrata in vigore della norma impositrice che per i prelievi anticipati rispetto al verificarsi del presupposto. 11 RUSSO, Manuale di diritto tributario, cit., 59-60. Per la relazione che intercorre tra interesse fiscale e capacità contributiva, BORIA, L’interesse fiscale, Torino, 2002; DE MITA, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2006; Id., Razionalità e certezza della tassazione, in AA.VV., La Costituzione economica a quarant’anni dall’approvazione della Carta costituzionale, Atti del convegno, 6 e 7 maggio 1988, Mila-

centrale dell’intero procedimento (“consegna del ruolo al concessionario”) che il rischio per il contribuente di essere sottoposto, per un tempo indefinito, all’azione esecutiva dell’amministrazione finanziaria14. Occorreva, dunque, che fosse esattamente individuato un termine di decadenza per la notifica della cartella esattoriale con decorrenza dall’anno di presentazione della dichiarazione dei redditi o dalla consegna del ruolo da parte dell’amministrazione finanziaria15. Con la sentenza n. 280/2005 la Corte costituzionale, quadrando il cerchio aperto dalle sue due precedenti (e note) ordinanze16, sottolineò l’indefettibile esigenza di una nuova normativa e precisò, in particolare, che il criterio per individuare la ragionevolezza del termine andava strettamente ricollegato alla considerazione relativa al carattere estremamente elementare (“procedure automatizzate”) dell’attività di liquidazione ex art. 36-bis e della successiva attività di iscrizione nei ruoli. Per tale via, pertanto, la Consulta giunse a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 25, D.P.R. n. 602 (come modificato dal D.Lgs. n. 193), sostenendo, peraltro, che alla medesima conclusione sarebbe pervenuta anche nel caso in cui avesse valutato la norma nel testo successivo alla legge (L. n. 321/2004), dal momento che: «a nulla giova un termine finale se non vi è certezza sul dies a quo in cui esso inizi a decorrere». Esprimendosi, infine, sull’ermeneuticità dell’art. 17, D.P.R. n. 602 (“ese-

no, 1990, 403 ss; ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritto costituzionale, Milano 1996, 251 ss. 12 Ci si riferisce alla L. n. 156/2005, i cui artt. 5-bis e 5-ter riscrivono i tempi per la notifica delle cartelle di pagamento oggetto di analisi nel par. 3. 13 Cfr. ord. n. 107/2003. 14 «Termini non eccessivi e irragionevoli sono la caratteristica precipua del procedimento tributario affinché il diritto di difesa del contribuente non sia leso cosa che, invece, accade ogniqualvolta viene esercitato per questioni risalenti nel tempo, oltre ogni ragionevole limite dell’onere di conservazione di documenti». Corte cost., ord. n. 107 dell’1 aprile 2003. La Corte di Cassazione, peraltro, con la sentenza n. 19865 del 5 ottobre 2004 ha ribadito che la consegna dei ruoli all’esattore deve avvenire nell’ambito di un termine massimo a carattere decadenziale, in quanto, in caso contrario, si por-

rebbe in contrasto con le norme costituzionali e, in particolare, con l’art. 24 Cost. Tale decisione, discostandosi dal precedente orientamento e conformandosi al giudizio espresso dalla Corte costituzionale con l’ordinanza richiamata, sostiene, tra l’altro, che le procedure fiscali in questione devono essere sottoposte a temimi più ristretti rispetto ai quelli indicati nelle norme del codice civile altrimenti il diritto alla difesa del contribuente, come cennato nel testo, rischierebbe di venir leso dalla necessità di contraddire in ordine a questioni risalenti nel tempo oltre ogni ragionevole limite dell’onere di conservazione di documenti probatori. 15 DE MITA, La notifica “certa” tutela i contribuenti, in Dir. e Prat. Trib., 2004, 2, II, 117. 16 All’ordinanza n. 107/2003, infatti, seguì conforme l’ordinanza n. 325 del 2004.


14 riscossione.qxd

7-04-2009

12:59

Pagina 839

Riscossione 4 2008 839

cutività del ruolo”), negò espressamente che il termine assegnato all’amministrazione finanziaria per lo svolgimento di un’“attività interna” potesse assumere valore anche per la consegna al concessionario e per la notificazione al contribuente, “atto a rilevanza esterna”17. Da ultimo, con la sentenza n. 11/2008 del 14 gennaio 200818, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate da una sezione della Commissione tributaria provinciale di Bologna volte a sostenere l’irragionevolezza del termine quinquennale previsto per la notifica delle cartelle relative alle dichiarazioni presentate sino al 31 dicembre 2001 ed è intervenuta anche per ragionare, più in generale, sulla “disciplina transitoria”. Più in dettaglio, i giudici costituzionali hanno sottolineato nuovamente le ragioni dell’intervento legislativo il cui obiettivo è stato quello di garantire: «non solo l’interesse del contribuente a non essere assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato, ma anche l’interesse dell’erario – parimenti meritevole di tutela – di evitare che, nella fase transitoria, un termine decadenziale eccessivamente ristretto possa precludere e ostacolare la notificazione delle cartelle relative alle dichiarazioni presentate anteriormente all’entrata in

17 Tale interpretazione, com’è noto, creò un contrasto con le sezioni unite della Corte di Cassazione che esprimevano una posizione assolutamente divergente: i ruoli formati a seguito di liquidazione delle imposte devono essere portati a conoscenza del destinatario entro il termine previsto dall’art. 17, D.P.R. n. 602/1973. Cfr. Cass., sent. n. 21498 del 12 novembre 2004. Per la dottrina, in particolare, BASILAVECCHIA, I termini decadenziali, cit., ha sottolineato come nella legge finanziaria del 2005 il legislatore abbia dovuto effettuare una scelta tra due soluzioni divergenti pur se rivolte entrambe verso lo stesso obiettivo privilegiando, con le conseguenti implicazioni e qualificazioni, la tesi sostenuta dalla Corte costituzionale (nonché dalla sez. trib. della Corte di Cassazione). 18 Corte cost., dec. 14 gennaio 2008, in G.U., 30 gennaio 2008. Per la Comm. trib. rimettente, l’art. 1, comma 5-bis, lett. c, D.L. n. 106/2005 (la norma «denunciata») avrebbe violato il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) prevedendo, per la notificazione delle cartelle emesse all’esito di semplici operazioni di liquidazione delle som-

vigore della legge di conversione n. 156/2005, pregiudicando, quindi, la riscossione dei tributi»19. Di conseguenza: «se il termine decadenziale triennale fissato per la disciplina a regime fosse stato previsto anche per le cartelle relative alle dichiarazioni presentate fino al 2003, l’erario avrebbe perso la possibilità o di notificare tempestivamente dette cartelle o di fruire di un lasso di tempo adeguato per la notificazione delle stesse»20. L’applicazione del termine a regime anche ai rapporti pendenti alla data di entrata in vigore della legge del 2005, dunque, determinerebbe l’effetto di esaurire, in tutto o in gran parte, il termine decadenziale di notificazione della cartella prima ancora dell’entrata in vigore della stessa legge che proprio tale termine introduceva. Ne consegue, pertanto, a giudizio della Corte la non irragionevolezza non solo: «di una disciplina transitoria dei termini di decadenza per la notificazione delle cartelle, divergente da quelle a regime» ma anche la non irrazionalità del fatto: «che il termine decadenziale previsto in via transitoria dalla disposizione censurata per la notificazione delle cartelle relative alle dichiarazioni presentate fino al 31 dicembre 2001 sia superiore a quello quadriennale stabilito, per la notificazione degli avvisi di ac-

me dovute in base alle dichiarazioni, un termine decadenziale (quinquennale) superiore a quello (quadriennale) previsto, dall’art. 43, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973, per la notificazione degli avvisi di accertamento, emessi all’esito di un ben più complesso procedimento. Ad avviso del giudice a quo, inoltre, la norma non avrebbe rispettato la sentenza della Corte costituzionale n. 280/2005 nella parte in cui non indicava un termine di decadenza entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate in base alla dichiarazione. La disposizione avrebbe violato, ancora, gli artt. 24 e 97 Cost., vanificando il diritto di difesa dei contribuenti che sarebbero rimasti assoggettati alla previsione di un termine di decadenza “molto ampio” rispetto a quello previsto per la notificazione delle cartelle emesse per la liquidazione delle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003 (termine quadriennale) ovvero successivamente (termine triennale). La difesa erariale, a sua volta, aveva eccepito l’inammissibilità delle questioni, rilevando che il legislatore avesse pienamente rispettato l’indicazione

(di cui alla sentenza n. 280) di tener conto del termine per la notificazione degli avvisi di accertamento prevedendo decadenze differenziate per la notificazione delle cartelle di pagamento ex art.. 36-bis, D.P.R. n. 600/1973. In particolare, per l’Avvocatura dello Stato, la normativa era da considerarsi ragionevole sia per la disciplina “a regime”, fissando termini di notificazione inferiori a quelli previsti per gli avvisi di accertamento, sia per quella “transitoria”, contemperando, da un lato: «l’esigenza di prevedere un unico termine perentorio per la notificazione della cartella» e, dall’altro, quella di concedere agli uffici un termine tale da impedire «l’immediata perdita per l’erario di somme dovute sulla base della dichiarazione di contribuenti». Per un commento della sentenza, CATANIA, Controlli automatici. Cartelle transitorie senza censura, in Fisco oggi, 21 marzo 2008. 19 Cfr. paragrafo 5.1 della sentenza. 20 Il primo riferimento è per le cartelle di pagamento concernenti le dichiarazioni presentate fino al 31 dicembre 2001; il secondo attiene alle cartelle relative alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003.


14 riscossione.qxd

840

7-04-2009

12:59

Pagina 840

GiustiziaTributaria

4 2008

certamento, dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, termine al quale fanno riferimento i rimettenti richiamando a sostegno la sentenza 280/2005. Un termine quadriennale non sarebbe stato adeguato perché l’amministrazione finanziaria avrebbe avuto a disposizione, per la notificazione di dette cartelle» un lasso temporale troppo breve21. Vi è, poi, un richiamo operato dai rimettenti al dettato della sentenza n. 280/2005 ritenuto inammissibile dai giudici costituzionali; più precisamente, il sostenere che il legislatore, nel fissare il termine per la notificazione delle cartelle emesse ai sensi dell’art. 36-bis, D.P.R. n. 600/1973: «non potrà non considerare che il vigente art. 43, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973 prevede che l’avviso di accertamento – quale atto conclusivo di un ben più complesso procedimento – sia notificato a pena di decadenza entro il 31 dicembre del quarto anno successivo alla presentazione della dichiarazione» non è da condividere. Difatti, la Suprema Corte precisa che il suddetto termine non era riferibile alla “disciplina transitoria” ma esclusivamente alla “disciplina a regime” essendo previsto, tra l’altro, l’invito al legislatore a provvedere anche riguardo ai rapporti ancora pendenti e imponendogli di integrare la prima disciplina con una ragionevole normativa transitoria volta a contemperare i contrapposti interessi del contribuente e dell’erario nella fase di passaggio dalla normativa dichiarata illegittima all’altra caratterizzata dalla fissazione di termini decadenziali decorrenti da un preciso dies a quo. Tale conclusione si pone in linea con l’orientamento della stessa Corte in virtù del quale la discrezionalità del legislatore deve essere particolarmente ampia quando è chiamato ad intervenire per dettare disposizioni di carattere transitorio22. Disciplina vigente La disciplina attualmente in vigore è prevista, dunque, dalla legge n. 156 del 2005 di conversione, con modificazioni, del D.L. n. 106/2005.

21 Cfr. paragrafo 5.2 della sentenza. 22 Sul punto, tra le altre, Corte costituzionale, sentenze n. 217/1998, 413/2002, 21/2005 nonché ordinanze n. 131/1988, 66/1994. 23 DE MITA, Rispettati i paletti della Consulta, in Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2005; LUCARIELLO, Incostituzionalità dell’art. 25 del D.P.R. n. 602/1975, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. b, del D.Lgs. n. 193/2001: gli effetti della sentenza della Consulta, in Finan-

Le nuove regole, introdotte per porre riparo al vuoto normativo di cui si è trattato, sono state previste per tutelare l’interesse del contribuente alla conoscenza, in termini certi, della pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni assicurando, nel contempo, la soddisfazione dell’interesse pubblico alla pronta riscossione dei pertinenti crediti. Il nuovo sistema di riferimento è caratterizzato, come precisato, da un duplice intervento normativo essendovi, infatti, una “disciplina a regime” ed una “disciplina transitoria”. Rispetto alla prima – riferibile alle dichiarazioni delle imposte sui redditi e Iva presentate a decorrere dall’1 gennaio 2004 – il legislatore, riformando la procedura di riscossione, ha offerto al contribuente un “unico termine certo” entro cui circoscrivere la potestà impositiva erariale, con pieno rispetto delle indicazioni della Consulta23. A fronte del riconoscimento del carattere meramente “interno” all’amministrazione procedente delle varie fasi in cui si articola la riscossione è stato fissato, infatti, un termine perentorio per l’esecuzione dell’intera procedura che individua il dies a quo nel limite temporale previsto per la presentazione della dichiarazione e il dies ad quem nella notifica della corrispondente cartella esattoriale24. I vincolanti e tassativi termini “a regime” previsti per la notificazione delle cartelle si evincono dagli artt. 25, comma 1, D.P.R. n. 602/1973 e 36, comma 2, D.Lgs. n. 46/1999, nei testi sostituiti dal comma 5-ter. Il “regime transitorio”, invece, disciplinato nel comma 5-bis attiene alle cartelle di pagamento notificate fino al 9 agosto 2005 e prevede una diversa graduazione temporale per la notifica delle somme dovute ai sensi dell’art. 36-bis, D.P.R. n. 600/1973, in relazione alla data di presentazione delle dichiarazioni dei redditi al fine di non ledere in modo stringente l’interesse pubblico alla riscossione dei crediti erariali. I differenziati termini decadenziali, peraltro, pre-

za & Fisco, 2005, 30. Cfr,. anche, IANNACCONE, Termini certi per le cartelle esattoriali, il monito della Consulta diventa legge, in Diritto e Giustizia, 2000, 33; BIONDO, Notificazione della cartella di pagamento: evoluzione legislativa e nuova previsione introdotta dal D.L. 17 giugno 2005, n. 106, in Dir. e Prat Trib, I, 2006, 589 ss.; GLENDI, È incostituzionale l’assenza di termini decadenziali per la notifica delle cartelle, in Corr. Trib., 2005, 33, 2613.

24 Il termine per la notifica della cartella di pagamento, in virtù delle indicazioni fornite dalla sentenza n. 280/2005 è stato peraltro rimodulato in funzione del tipo di controllo fiscale che, essendo più breve rispetto ad attività di carattere elementare, ammette il ricorso a procedure automatizzate. Sul punto, si v. DI MARTINO, Termine per la notifica delle cartelle. Irretroattività del regime transitorio, in Fisco oggi, 22 maggio 2006.


14 riscossione.qxd

7-04-2009

12:59

Pagina 841

Riscossione 4 2008 841

vedono – rispetto alle dichiarazioni presentate a decorrere dall’1 gennaio 2004 – una sovrapposizione tra il “regime transitorio” e il “regime ordinario” essendo disposto che la notifica della cartella esattoriale debba avvenire «entro il 31 dicembre del terzo anno successivo» a quello di presentazione della dichiarazione. Per le dichiarazioni, invece, effettuate entro il 31 dicembre 2001, la notifica deve avvenire «entro il quinto anno successivo» a quello della presentazione; infine, se riferite agli anni 2002 e 2003, essa deve essere effettuata «entro il quarto anno successivo»25. Contrasti interpretativi e conseguenti difformità di orientamento giurisprudenziale attengono proprio a tali disposizioni di cui qui di seguito si tratta26. Orientamenti della Corte di Cassazione La Corte di Cassazione, sez. V, ha statuito con la sentenza n. 20843 del 20 giugno 2005 e ribadito con la sentenza n. 24964 del 25 novembre 2005 che la riforma del sistema della riscossione coattiva esplica la sua efficacia dal giorno della sua entrata vigore intendendo, in tal modo, che la relativa disciplina non può essere applicata ai processi tributari in corso aventi ad oggetto l’impugnazione di cartelle esattoriali notificate in data anteriore.

25 In base alla suddetta previsione normativa, dunque, la notifica delle cartelle, è effettuata, a pena di decadenza, entro la fine: «del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, con riferimento alle dichiarazioni presentate dall’1 gennaio 2004; dal quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003; dal quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le dichiarazioni presentate sino al 31 dicembre 2001». Sulla decadenza e prescrizione delle pretese tributarie, cfr. AMATUCCI, Le modifiche introdotte all’art. 25 del D.P.R. 602/1973, relazione La riscossione a mezzo ruolo alla luce della normativa vigente, Napoli, 18 maggio 2006, in www.gestline.it. Per rappresentare, più in generale, la frattura tra il potere impositivo e, almeno parzialmente, la funzione esattiva, si rinvia ancora a BASILAVECCHIA, Il ruolo e la cartella di pagamento, cit., 128, che richiama, concordando, Micheli: «nella fase di applicazione della norma tributaria si presentano prevalentemente termi-

In particolare, con la prima decisione menzionata, è stata espressamente negata la retroattività di applicazione del D.Lgs. n. 106 sul presupposto che il carattere “fortemente innovativo” della nuova disciplina non ammette la riferibilità per le cartelle notificate dal concessionario posteriormente alla sua entrata in vigore. Questa interpretazione, rispettosa del principio tempus regit actum, conseguentemente sostiene che le disposizioni di cui all’art. 1 devono essere applicate – esclusivamente – ai procedimenti avviati dopo l’entrata in vigore della legge e che, pertanto, è necessario che ciascun atto della serie procedimentale sia uniformato alla disciplina vigente al momento della sua adozione. Ne discende, dunque, che tanto i presupposti di fatto che di diritto richiesti dalle norme vigenti devono sussistere nel momento in cui si perfeziona l’atto conclusivo del procedimento (“notificazione della cartella”) e, che, per le disposizioni di tipo procedurale non è ammissibile riferirsi alla sopraggiunta disciplina occorrendo piuttosto richiamare – per la già conclusa fase procedimentale – quella previgente27. A conclusioni opposte, la Suprema Corte perviene in altre sentenze: si pensi, ad es., alle decisioni n. 26421 del 27 ottobre 2005 e n. 26104 e

ni di decadenza che sono stabiliti per dare un certo ritmo al procedimento tributario, mentre di prescrizione si può parlare quando il diritto di credito dell’ente impositore è ormai liquido ed esigibile, ha cioè un contenuto identico a quello di qualsiasi diritto di credito [...] è solo in quest’ultimo caso che si deve parlare di prescrizione del diritto medesimo [...] rispetto, invece, a tutti gli altri poteri di iniziativa che si riportano al potere di imposizione non si deve parlare di prescrizione, bensì di decadenza [...]. Per poter procedere all’esecuzione forzata, la finanza deve creare il titolo esecutivo [...] e, cioè, deve fare a pena di decadenza». Cfr. MICHELI, Corso di diritto tributario, Torino, 1986, 282. 26 Appare opportuno ricordare che il D.L. n. 106/2005 lasciava senza regole i tributi locali la cui riscossione coattiva era soggetta a decadenza. Tale aspetto, messo in evidenza da LOVECCHIO, Riscossione locale in bilico; mancano i termini per la notifica delle cartelle dei tributi, in Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2005 e CARINCI, op. cit., 1684, è stato, almeno in parte, risolto. L’art. 1 della L. 27 dicembre 2006,

n. 296 (L.F. 2007), infatti, ha previsto che il relativo titolo esecutivo deve essere notificato al contribuente, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo (comma 163). La norma si applica ai rapporti di imposta pendenti all’1 gennaio 2007, data di entrata in vigore della legge (comma 171). 27 I giudici di legittimità, in entrambe le sentenze, giungono a sostenere che il “regime transitorio” di cui alla L. n. 156/2005 non sia applicabile agli atti oggetto delle controversie su cui sono stati chiamati ad esprimersi e che essi, piuttosto, devono essere sottoposti al termine per la consegna del ruolo ex art. 17, D.P.R. n. 602/1973 nel testo vigente ratione temporis. A medesime conclusioni giunge la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21799 del 21 ottobre 2005. Cfr. BUSCEMA, Cartelle esattoriali, nuovi termini retroattivi per la notifica al contribuente, in Diritto&Diritti, 5 gennaio 2006, nonché ANTICO, Le nuove regole per la notifica delle cartelle di pagamento e i poteri dell’amministrazione finanziaria, in Fisco, 2006, 20.


14 riscossione.qxd

842

7-04-2009

12:59

Pagina 842

GiustiziaTributaria

4 2008

26105 del 30 novembre 2005 che sostengono la piena efficacia retroattiva del “regime transitorio” di cui si discute28. L’ampia ricostruzione normativa e giurisprudenziale che caratterizza le decisioni ora menzionate, consente ai giudici, tra l’altro, di sostenere che: «la natura additiva di principio dell’intervento della Consulta e la sua necessaria integrazione a mezzo della legge, con la fissazione di specifici termini di notifica della cartella esattoriale, comportano l’applicazione di quegli stessi termini e di quelli dettati in via transitoria ai rapporti ancora pendenti, come se l’azione amministrativa tributaria fosse stata regolata dagli stessi ab initio»29. Dunque, in virtù di tali considerazioni, l’intervento della Corte costituzionale volto a reintrodurre il termine di notifica ex art. 25 (nel testo anteriore alle modifiche del D.Lgs. n. 193/2001) è inteso come un atto avente “efficacia temporanea” in attesa della predisposizione di (“del”) nuovo termine ad opera del legislatore. Conseguentemente, in tale valenza, il “regime transitorio” assume una piena efficacia retroattiva e ulteriore conferma di tale interpretazione perviene dalla sentenza n. 1435 del 2 dicembre 2005, laddove, tra l’altro, si legge che: «la norma ha un chiaro ed unico valore transitorio, quindi, come tale applicabile non solo alle situazioni tributarie anteriori alla sua entrata in vigore ancora pendenti presso l’ente impositore ma anche a quelle situazioni [...] ancora sub iudice», in ossequio al principio costituzionale che non ammette l’esposizione indefinita del contribuente all’azione impositiva con conseguente indicazione di termini ragionevoli. La peculiare posizione della Commissione tributaria regionale della Campania A questo punto appare opportuno confrontare i risultati dell’indagine finora compiuta con la recente decisione della Commissione tributaria regionale di Napoli segnalata in premessa30, le cui conclusioni richiedono necessarie puntualizzazioni per poter rendere agevolmente comprensibile l’iter argomentativo che la supporta.

28 In argomento, cfr., tra gli altri, BRUZZONE, La Cassazione applica le norme transitorie nei termini di notifica delle cartella, in Corr. Trib., 2006, 7, 537. 29 Per sostenere le affermazioni contenute nelle sentenze, i giudici compiono, peraltro, un’accurata lettura della sentenza della Corte costituzionale n. 280/2005, sostenendo che: «dal chiaro self restreint della Consulta quanto

In tale sentenza, i giudici tributari hanno negato l’applicabilità sia del regime transitorio che, in via esclusiva, del termine decennale di prescrizione ex art. 2946 c.c. per la fattispecie sottoposta al loro esame, attribuendo un particolare rilievo «all’attività propedeutica delle fasi di formazione e consegna del ruolo» e sostenendo, in particolare, che la notifica della cartella alla contribuente andava effettuata entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo a quello di consegna del ruolo in applicazione dell’art. 4, D.M. n. 321/1999. Rispetto alla prima fase (“formazione del ruolo”), pertanto, il Collegio ha ritienuto che occorreva prendere in considerazione il termine entro il quale il ruolo, a pena di decadenza, doveva essere reso esecutivo ai sensi dell’(abrogato) art. 17, D.P.R. n. 602/1973; rispetto alla seconda fase (“consegna del ruolo”), invece, il termine andava ricercato nella normativa in vigore prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 193/2001, rappresentando il dies a quo dal quale iniziare a far decorrere i termini di decadenza. Tuttavia, avendo la riforma del 1999 eliminato i termini di consegna del ruolo (art. 24, D.P.R. n. 602) dichiarati perentori dalla giurisprudenza di legittimità, tale decisione sostiene il necessario richiamo dell’art. 4, D.M. n. 321/1999 (“data di consegna del ruolo”) che disciplina i rapporti “interni” tra concessionario ed ente creditore, i cui termini però sono ignoti al contribuente nonostante l’inammissibilità di deroghe all’operatività dei limiti temporali indicati nell’abrogato art. 17. Conseguentemente, in mancanza di prova contraria, la consegna del ruolo doveva avvenire, per la fattispecie esaminata, entro il giorno 10 del mese successivo a quello dell’esecutorietà con trasmissione contestuale del ruolo al concessionario e, dunque, la cartella di pagamento in contestazione andava notificata entro il 31 maggio 2001. Tale decisione, in buona sostanza, respingendo l’appello dell’Agenzia delle Entrate, ha ritenuto inammissibile l’eccezione sollevata circa il mancato rispetto dei termini per l’iscrizione a ruolo ex art. 17, D.P.R. n. 602/1973 e ha ritenuto infonda-

all’individuazione di un termine per la notificazione della cartella, si desume che il termine ricavabile dall’art. 17, D.P.R. n. 602/1973, nel testo vigente ratione temporis, non possa limitare l’efficacia retroattiva del regime transitorio della L. n. 156/2005. Quanto, invece, alle versioni precedentemente vigenti dell’art. 25, D.P.R. n. 602/1973, la Corte di Cas-

sazione dà opportuno risalto al tipo di intervento abrogativo-manipolativo della Consulta». In tema, cfr. DIMARTINO, Termine per la notifica delle cartelle. Irretroattività del regime transitorio, in Fisco oggi, 16 giugno 2006. 30 Comm. trib. reg. Campania, sent. n. 103/28/07, cit.


14 riscossione.qxd

7-04-2009

12:59

Pagina 843

Riscossione 4 2008 843

ta la censura sollevata dall’appellante di aver provveduto tempestivamente a notificare la cartella di pagamento per applicazione, in via esclusiva, del termine di prescrizione ex art. 2946 c.c. Il Collegio, ancora, rispetto alla necessità di individuare limiti temporali certi entro cui il fisco possa esplicare il suo potere autoritativo nelle procedure di liquidazione relative alle dichiarazioni dei contribuenti, ha richiamato le ordinanze n. 107/2003 e 352/2004 della Corte costituzionale e, pur attribuendo indubbio valore alle numerose pronunce della Cassazione che hanno ritenuto applicabile la disciplina transitoria non solo ai rapporti ancora pendenti (ruoli ancora esecutivi dopo l’1 ottobre 1999) ma anche alle fattispecie pregresse, mette in primo piano l’attività propedeutica delle fasi di formazione e consegna del ruolo. Il conformarsi all’orientamento che ammette l’operatività della L. n. 156/2005 ai giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore (10 agosto 2005) non consente, in ogni caso, a giudizio della Comm. trib. reg. Campania, all’amministrazione finanziaria di far valere le sue pretese in quanto: «la cartella di pagamento è stata notificata oltre il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione con violazione dell’art. 1, comma 5-bis, D.L. 17 giugno 2005». Conclusioni L’orientamento giurisprudenziale ora richiamato non appare condivisibile ritenendosi, piuttosto, che l’addizione del termine finale enunciato nella sentenza n. 280 della Corte costituzionale abbia, inequivocabilmente, sottolineato la centralità del

121

rapporto tra il contribuente e il fisco con conseguente marginalità delle attività interne di formazione del ruolo e di consegna all’esattore-concessionario che non insistono, in maniera diretta, nel rapporto di imposta condividendosi, in definitiva, l’interpretazione secondo cui la notifica della cartella esattoriale deve avvenire entro il termine inderogabile previsto per rapporti pendenti nel nuovo testo del comma 2, art. 36, D.Lgs. n. 46/1999. Appare, in ogni caso, opportuno sottolineare che fondamentali principi relativi alla decadenza del potere impositivo, nonostante l’intervento legislativo, rimangono fermi e che, conseguentemente, il termine di decadenza sostanziale in favore del contribuente non può essere rilevato d’ufficio ex art. 2969 c.c., così come l’eccezione di decadenza non sottoposta ad esame in primo grado, in quanto non proposta sulla base dell’allora vigente normativa sostanziale, impedisce una sua prima formulazione in sede di appello – ex art. 57, D.Lgs. n. 546/1992 – in virtù dell’asserita retroattività della L. n. 156/200531. In definitiva, le decisioni della Corte di Cassazione che hanno sostenuto la retroattività delle norme transitorie di cui alla legge n. 156 in tema di regolamento dei termini di riscossione dei tributi, devono trovare applicazione anche nelle controversie pendenti inerenti gli avvisi di mora non preceduti dalla presupposta cartella di pagamento e, dunque, la disciplina introdotta dai commi 5-bis e 5-ter dell’art. 1 del D.L. n. 106/2005 va richiamata non solo per le situazioni tributarie anteriori alla sua entrata in vigore e ancora pendenti presso l’ente impositore ma anche per le situazioni sub iudice.

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. IX, 4 marzo 2008, n. 60 Presidente: Fiorella - Relatore: Guglielmo Riscossione - Iscrizione a ruolo di ritenute operate ma non versate - Iscrizione del sostituito Violazione del divieto di doppia imposizione Illegittimità dell’iscrizione (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 67; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 22 e 163; D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 4, comma 6-ter) Il sostituito che abbia subito le ritenute ha diritto di scomputarle per il solo fatto che siano state operate, an-

che in assenza di certificazione, per cui in tal caso è illegittima, per violazione del divieto di doppia imposizione, l’iscrizione a ruolo del sostituito per ritenute operate dal sostituto e non versate. Il dottor M.A. addì 10 gennaio 2007 proponeva ricorso avverso l’annullamento dell’iscrizione a ruolo e della relativa cartella di pagamento relativa a Irpef, oltre interessi e sanzioni, emessa a seguito di controllo formale, ex art. 36-ter del D.P.R. n. 600/1973, della dichiarazione Unico 2003, per il periodo d’imposta 2002.

31 Cfr. BUSCEMA, Cartelle esattoriali, nuovi termini retroattivi per la notifica al contribuente, cit.


14 riscossione.qxd

844

7-04-2009

12:59

Pagina 844

GiustiziaTributaria

4 2008

Eccepiva preliminarmente il ricorrente l’illegittimità del provvedimento impositivo per assoluta carenza di motivazione stante la mancanza delle ragioni, dei motivi e del percorso logico-giuridico sotteso alla rettifica sostanziale dei dati dichiarati e posti a base della pretesa fiscale. Nel merito sollevava obiezione circa l’illegittimità della cartella di pagamento per infondatezza dell’iscrizione a ruolo relativamente alla presunta indetraibilità delle spese di ristrutturazione sostenute negli anni 2000 e 2001 relativamente all’immobile adibito a civile abitazione del nucleo familiare del ricorrente detenuto dallo stesso in virtù di contratto di comodato stipulato con la proprietaria e la moglie, sig.ra A.; affermava, difatti, che sussistevano tutti i requisiti formali e sostanziali normativamente richiesti ai fini di un corretto esercizio del diritto alla detrazione delle suddette spese, tra i quali la preventiva comunicazione per la detrazione del 36% ai fini Irpef al centro servizi di Bari nonché l’avviso di inizio lavori alla Asl di Lecce con conseguente autorizzazione per l’esecuzione di opere edilizie, rilasciata dall’ufficio tecnico del Comune di Lecce. In subordine e ancora nel merito appariva infondata e pretestuosa anche la presunta indetraibilità delle spese effettivamente sostenute e documentate per la manutenzione, protezione e/o restauro di beni soggetti a regime vincolistico, così come testimoniato e certificato dal Decreto del Ministero per i Beni culturali e ambientali laddove veniva attestato che l’immobile «ha interesse importante ai sensi della legge 1 giugno 1939, n. 1089», in quanto trattasi di «tratti delle mura di cinta di Carlo V secolo XVI». Ancora in subordine lamentava il ricorrente la supposta indetraibilità di parte delle ritenute relative a redditi di lavoro autonomo, regolarmente operate da sostituti d’imposta, così come documentato da fatture prodotte dallo stesso; specificava altresì, che le certificazioni delle ritenute non abbiano una piena ed esclusiva valenza probatoria, atteso che tali documenti assolvono principalmente alla funzione di liberare il sostituto, limitatamente all’importo della ritenuta subita, dall’obbligazione fiscale. Eccepiva, infine, l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo relativamente alle sanzioni e concludeva chiedendo in via principale l’annullamento della cartella di pagamento. Con controdeduzioni del 19 febbraio 2007 si costituiva nel presente giudizio l’Agenzia delle Entrate sostenendo la legittimità del proprio operato ai dettami previsti dalla legge. In particolare, segnalava che, nell’ipotesi in cui le

ritenute non fossero state pagate, il sostituito non avrebbe potuto ritenersi come liberato dal fatto che egli potesse dimostrare con qualsiasi documento di aver subito le ritenute contestate, rimanendo obbligato solidale al pagamento dell’imposta evasa. Specificava, altresì, che non poteva essere riconosciuto il premio per assicurazione sulla vita perché non documentato né tanto meno potevano essere garantite le spese sostenute per la manutenzione, protezione e restauro dei beni soggetti a regime vincolistico in quanto la certificazione della soprintendenza era stata rilasciata a persona diversa dal dichiarante. Con particolare riguardo alle spese di ristrutturazione, controdeduceva l’ufficio che non era stato in alcun modo rispettato il disposto del regolamento sulle modalità per poter fruire, in maniera regolare, della detrazione, ovverosia il bonifico bancario utilizzato per il pagamento doveva contenere, a pena di decadenza, la causale del versamento con riferimento alla norma agevolativa, il codice fiscale del beneficiario della detrazione, la detrazione Iva o il codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è stato effettuato. Concludeva per il rigetto del gravame. All’udienza del 16 ottobre 2007 la Commissione, rilevato che ricorrevano i presupposti di cui all’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992, accoglieva l’istanza di sospensione proposta dal ricorrente disponendo la riunione del gravame con il ricorso [...]. Questa Commissione, alla luce delle documentazioni fornite e prodotte dalle parti e delle motivazioni addotte dalle stesse, ritiene il ricorso meritevole di accoglimento. In ordine al primo motivo di censura, va rilevato che alla cartella di pagamento devono ritenersi applicabili i principi di ordine generale indicati per ogni provvedimento amministrativo dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (poi recepiti, per la materia tributaria, dall’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212), ponendosi una diversa interpretazione in insanabile contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione. Pertanto anche nella cartella di pagamento, l’ente impositore ha l’obbligo di chiarire, sia pure succintamente, le ragioni – intese come indicazione sia della mera causale che della motivazione vera e propria – dell’iscrizione nel ruolo dell’importo dovuto, in modo tale da consentire al contribuente un non eccessivamente difficoltoso esercizio del diritto di difesa. L’ art. 7 dello Statuto del contribuente richiede che gli atti devono essere motivati, secondo quanto prescritto dall’art. 3 della legge n. 241/1990, e im-


14 riscossione.qxd

7-04-2009

12:59

Pagina 845

Riscossione 4 2008 845

pone l’obbligo di allegazione dell’atto richiamato cui si fa riferimento nella motivazione. In quest’ultima devono essere indicati anzitutto i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Nella indicazione delle ragioni giuridiche non è sufficiente un mero richiamo alle norme, ma occorre individuare anche la portata e l’applicazione di esse al caso concreto. La legge, difatti, richiede che tale elemento sia contenuto nel ruolo, quale titolo esecutivo, che è atto dell’amministrazione e non già del concessionario. La cartella del pagamento è meramente riproduttiva del ruolo. Ne consegue che, essendo ogni atto autonomamente impugnabile per vizi propri, in caso di impugnativa per difetto di motivazione, l’unico soggetto legittimato a contraddire nel giudizio tributario è l’amministrazione, la quale deve essere in causa, al fine di contrastare le richieste del contribuente. In riferimento alle lagnanze circa l’indetraibilità delle spese effettivamente sostenute e documentate per la manutenzione, protezione e/o restauro dell’immobile, è evidente come il diritto alla detrazione dall’imposta lorda degli importi, riconosciuto legittimo dall’ufficio con riferimento ai periodi d’imposta 2003 e 2004, non può in alcun modo essere disconosciuto dal medesimo Ufficio con riferimento al solo periodo d’imposta 2002, trattandosi, altrimenti, di un comportamento, da parte dell’amministrazione finanziaria, irragionevole, essendo unici i requisiti cui è subordinato l’esercizio del diritto alla detrazione nei diversi periodi di imposta. Come ampiamente documentato dal ricorrente con memorie illustrative, l’immobile oggetto di ristrutturazione, di proprietà di un familiare con lui convivente, è tuttora detenuto dall’istante a titolo di comodato, stipulato in data 21 marzo 2000 tra lo stesso e la proprietaria mediante scrittura privata regolarmente registrata in data 28 marzo 2000 presso l’ufficio del registro ed i lavori di ristrutturazione sono stati regolarmente preceduti da autorizzazione per l’esecuzione di opere edilizie, rilasciata dal competente ufficio tecnico del Comune. Difatti, in relazione alla somma di euro 6.485,00 recuperata a tassazione per il mancato riconoscimento della quota detraibile, nell’anno 2002, delle spese di ristrutturazione, sostenute negli anni 2000 e 2001 ed alla somma di euro 1.711,00 recuperata a tassazione per il mancato riconoscimento della quota detraibile nell’anno 2002 delle spese sostenute negli anni 2000 e 2001 per la manutenzione, protezione e restauro dell’immobile, soggetto a regime vincolistico, lo stesso uffi-

cio, a seguito del controllo formale-riliquidazione, come stabilito dall’art. 36-ter D.P.R. n. 600/1973, del modello Unico 2004, relativo al periodo d’imposta 2003, ha considerato assolutamente esatta e regolare e dettagliatamente documentata e giustificata la detrazione dell’imposta lorda delle suddette somme. Infine, appare infondata anche l’iscrizione a ruolo relativa alla presunta indetraibilità di parte delle ritenute subite con riferimento a redditi di lavoro autonomo, atteso che, dalle fatture prodotte in giudizio, si evince che trattasi di ritenute correttamente effettuate da parte dei sostituti di imposta. Il testo dell’art. 22 del T.U.I.R. così recita: «dall’imposta [...] si scomputano [...] le ritenute alla fonte a titolo di acconto, operate, anteriormente alla presentazione della dichiarazione dei redditi [...]». Dalla lettera della norma si desume che il presupposto alla base del diritto a scomputare le ritenute è rappresentato dal fatto che queste siano state operate da parte del sostituto, ossia decurtate dal compenso erogato al percettore-sostituito, a prescindere dal fatto che siano state non solo certificate, ma addirittura versate. Tali argomentazioni sono avvalorate anche da un’ampia giurisprudenza tendente a disconoscere valore probatorio alla suddetta certificazione, anche alla luce del principio generale che sancisce il divieto di doppia imposizione di cui all’art. 163 del T.U.I.R. ai sensi del quale «la stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi». La Corte di Cassazione, con sentenza n. 3725/1979, ha ritenuto che «il mancato rilascio della dichiarazione attestante l’avvenuta ritenuta da parte di colui che ha effettuato la ritenuta medesima non può comportare per il contribuente (che ha subito la ritenuta) l’obbligo di pagare nuovamente l’imposta», aggiungendo che «non essendovi solidarietà nel debito le stesse norme non possono essere richieste anche al sostituto stante il divieto di doppia imposizione». È oramai pacifico in giurisprudenza che la certificazione non fornisce la prova dell’avvenuto pagamento delle ritenute; essa non costituisce la conditio sine qua non per lo scomputo delle ritenute medesime ed il mancato riconoscimento da parte dell’amministrazione finanziaria delle ritenute operate ma non certificate implica, invece, una violazione del divieto di doppia imposizione, poiché in corrispondenza della stessa ricchezza prodotta, l’erario effettuerebbe un duplice prelievo, prima in capo al sostituto e dopo in capo al sostituito. D’altro canto, la circostanza secondo cui la certifi-


14 riscossione.qxd

846

7-04-2009

12:59

Pagina 846

GiustiziaTributaria

4 2008

cazione non ha valore probatorio, oltre che dalla portata letterale della norma, è ulteriormente avvalorata dalla considerazione che, in caso contrario (cioè, se si riconoscesse valenza probatoria alla certificazione), si verificherebbe un’incoerenza

da parte del legislatore fiscale, il quale da un lato vieta espressamente la doppia tassazione, ma dall’altro, implicitamente, la legittima. Sussistono fondati motivi per compensare le spese di lite.

Nota

plessivo, nonché dall’art. 4, comma 6-ter, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, ai sensi del quale la certificazione del sostituto assolve unicamente alla funzione di indicare il complessivo ammontare delle ritenute operate. Tale orientamento, oltre che trovare conferma in altre pronunce della Cassazione (cfr. Corte di Cassazione, sez. I, 28 febbraio 2000, n. 2212 e Corte di Cassazione, sez. trib., 2 aprile 2003, n. 5020, in banca dati Ipsoa) nelle quali il sostituito era stato considerato obbligato solidale di imposta soltanto nella diversa ipotesi di ritenuta non effettuata e non versata da parte del sostituto, secondo quanto previsto dall’art. 35, D.P.R. 602/1973, appare coerente con il divieto di doppia imposizione di cui agli artt. 163, T.U.I.R. e 67, D.P.R. 600/1973. È evidente, infatti, che, qualora la certificazione venisse considerata quale conditio sine qua non per lo scomputo delle ritenute, la doppia imposizione risulterebbe essere formalmente vietata ma, di fatto legittimata: il contribuente, infatti, a fronte di uno stesso presupposto, si troverebbe a subire una prima imposizione al momento della ritenuta effettuata sulle somme erogategli dal sostituto ed una seconda imposizione al momento dell’iscrizione a ruolo da parte dell’Agenzia delle Entrate delle ritenute concretamente effettuate (e risultanti dalle fatture rilasciate al sostituito) ma non certificate.

La sentenza in rassegna affronta il tema della detraibilità delle ritenute a titolo di acconto effettivamente operate dal sostituto di imposta, che non siano state versate né certificate (cfr. Comm. trib. prov. Milano, sez. XII, 2 maggio 2007, n. 99, con nota di GAFFURI, Note in tema di solidarietà nella sostituzione a titolo d’acconto, in questa rivista, 2007, 4, 800 ss.) L’impostazione qui accolta dalla Commissione tributaria ribalta il precedente orientamento della Corte di Cassazione (cfr. sentenza Cassazione, 12 giugno 2006, n. 14033, in Corr. Trib., 2006, 33) che, andando oltre la lettera dell’art. 64, D.P.R. 600/1973, aveva stabilito che “anche” (e non “solo”, come invece si evince chiaramente dal dettato normativo) il sostituito è obbligato al pagamento dell’imposta e che, pertanto, è legittimo il disconoscimento, da parte dell’Agenzia delle Entrate, delle somme portate in detrazione dal sostituito ma non certificate né versate dal sostituto di imposta. I giudici di Lecce, invece, hanno accolto l’istanza del ricorrente sottolineando che la natura della certificazione delle ritenute effettuate dal sostituto è meramente dichiarativa e non costitutiva, come si ricava dall’art. 22 del T.U.I.R., in base al quale dall’imposta devono essere scomputate le ritenute alla fonte a titolo di imposta operate sui redditi che concorrono a formare il reddito com-


15 tributi locali.qxd

7-04-2009

13:00

Pagina 847

Tributi locali 4 2008 847

TRIBUTI LOCALI L’OCCUPAZIONE DI SUOLO PUBBLICO TRA BENEFICIO ECONOMICO E MERA UTILIZZAZIONE MATERIALE DELL’AREA

122

Commissione tributaria provinciale di Genova, sez. XIII, 26 marzo 2007, n. 74 Presidente e Relatore: Delucchi Tributi locali - Cosap - Distributore carburanti Area sosta veicoli per rifornimento - Superficie stradale ad uso pubblico - Mancanza sottrazione alla collettività - Irrilevanza - Occupazione di fatto - Sussistenza - Conseguenze - Applicazione del canone (D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, artt. 38 e 39; D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 63) È assoggettabile a Cosap (canone di occupazione suoli ed aree pubbliche) l’occupazione effettuata da un gestore d’impianto di distribuzione del carburante, in eccesso rispetto all’area autorizzata, relativa alla superficie appartenente al sedime stradale, destinata alla sosta per il rifornimento dei veicoli, risultando irrilevante la circostanza che l’area stessa non sia sottratta all’uso pubblico. Svolgimento del processo Con l’avviso di pagamento notificato in data 2 gennaio 2001 il Comune di G. invitava la E.I. S.r.l. a pagare relativamente all’anno 1999 l’importo di euro 3.621,39 quale saldo del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui ad un elenco allegato. Avverso tale avviso proponeva ricorso in questa sede la E.I. eccependo: a) violazione di legge - difetto di motivazione mancata partecipazione al procedimento. Art. 51, D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507 e art. 3, L. 7 agosto 1990, n. 241; e ciò nella considerazione che: - l’atto non indicava le ragioni dell’assoggettamento degli spazi al canone richiesto, e quindi era del tutto privo di motivazione in ordine ai criteri di determinazione del canone stesso (in particolare il tipo di occupazione, la durata, l’ampiezza, la qualificazione dell’area pubblica occupata); - l’atto non riportava l’atto presupposto al quale faceva riferimento; cioè il regolamento comunale del 12 marzo 2001 b) violazione di legge - difetto dei presupposti artt. 63, D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 e 38,

D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507 - art. 158, comma 2, lett. a, D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 258; e ciò sul rilievo che erano state ritenute suscettibili di occupazione le piazzole di sosta per i veicoli di cinque impianti di distribuzione carburanti siti in alcune zone cittadine, coincidenti con la sede stradale ove per naturale destinazione scorre il traffico e solo occasionalmente la clientela si sofferma per il tempo strettamente necessario per effettuare le operazioni di rifornimento; spazi per i quali non poteva parlarsi di occupazione con conseguente esclusione dal pagamento di canone alcuno non risultando esser stati sottratti alla collettività. Il Comune, costituitesi, eccepiva preliminarmente l’inammissibilità del ricorso. Premesso che la E.I. aveva proposto ricorso al T.A.R. Liguria avverso l’avviso di pagamento qui impugnato e che quel Tribunale aveva trattenuto la causa in decisione in data 9 febbraio 2006; che peraltro per altri avvisi relativi allo stesso canone concernenti altre annualità il T.A.R. aveva respinto altrettanti ricorsi della controparte, eccepiva l’inammissibilità del gravame sia per la pendenza del giudizio amministrativo, sia per difetto di giurisdizione della Commissione tributaria nella soggetta materia (giurisdizione attribuita alle Commissioni tributarie solo con L. 2 dicembre 2005, n. 248, entrata in vigore il 3 successivo, e quindi estranea all’atto in esame, notificato nel 2002), sia infine perché relativamente all’atto notificato erano abbondantemente trascorsi i 60 giorni previsti per dalla legge per provvedere alla sua tempestiva impugnazione. La E.I. replicava con memoria depositando copia della sentenza del T.A.R. richiamata dal Comune, nel frattempo emessa. Quindi all’udienza odierna, uditi i rappresentanti delle parti, la presente vertenza è stata trattenuta in decisione e definitiva come da dispositivo. Motivi della decisione 1. Nell’ordine logico delle questioni sottoposte all’esame della Commissione priorità d’esame va concessa all’articolata eccezione di inammissibi-


15 tributi locali.qxd

848

7-04-2009

13:00

Pagina 848

GiustiziaTributaria

4 2008

lità del gravame sollevata dal Comune di G. che va in parte accolta nei limiti di cui in appresso. 1.1 Va premessa una breve ricognizione del quadro normativo relativo al tributo ed ai mezzi di difesa esperibili attraverso atti ad esso relativi. L’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 che definisce i limiti della giurisdizione tributaria è stato, come è noto, prima sostituito integralmente dall’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001 e, poi, modificato dall’art. 3-bis, comma 1, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, conv. con modif. in legge 2 dicembre 2005, n. 248. Il testo originario elencava tutte le imposte e i tributi le cui controversie rientravano nella giurisdizione tributaria anche tutte le controversie concernenti «ogni altro attribuito dalla legge alla competenza giurisdizionale delle Commissioni tributarie» (art. 2, comma 1, lett. l) del testo originario. L’art. 2 è stato sostituito dall’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 418; ed il nuovo testo, in vigore dall’1 gennaio 2002, ha abbandonato il metodo della elencazione dei singoli tributi per individuare le controversie rientranti nella giurisdizione tributaria ed ha stabilito, in linea di principio, che appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali. Sulla base di tale aspetto normativo, la S.C. aveva sostenuto che le questioni relative al canone per l’occupazione di spazi di aree pubbliche esulavano dalla giurisdizione delle Commissioni tributarie per rientrare nell’ambito della competenza giurisdizionale del giudice ordinario a mente dell’art. 5 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, come modificato dall’art. 33 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (poi sostituito dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205; cfr. sez. un., 14864/2006; Cass., 1239/2005; Cass., 12167/2003). Recentemente, però, l’art. 2 è stato ancora modificato in forza dell’art. 3-bis del D.L. 203/2005, conv. con modif. in legge 248/2005, in vigore dal 3 dicembre 2005, che ha aggiunto al comma 2 la seguente proposizione: «Appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla degenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni»; con il quale la competenza giurisdizionale nella soggetta materia appartiene, dal 3 dicembre 2005, al giudice ordinario. 1.2 Detto questo osserva la Commissione che il T.A.R. Liguria, con sentenza depositata in copia dalla ricorrente in tempi recenti, presumibilmente

divenuta inoppugnabile (nessuna osservazione in proposito hanno formulato le parti, interessate sotto diversi aspetti a contestarne la definitività) ha in parte rigettato, in parte dichiarato irricevibile altro ricorso precedentemente proposto dalla stessa ricorrente avverso lo stesso atto qui impugnato. Uno dei motivi di censura che la E. aveva sottoposto all’esame del giudice amministrativo riguardava proprio il difetto di motivazione dell’avviso a pagamento che anche in questa sede costituisce il primo argomento di doglianza; motivo che il T.A.R. non ha accolto ritenendolo infondato. Sul punto pertanto (e cioè sulla sufficienza della motivazione dell’atto impositivo) si è formato il giudicato; giudicato tra l’altro rilevabile di ufficio, che preclude la proponibilità della stessa questione dinanzi ad altra autorità giurisdizionale (cfr. sez. un., 27 aprile 2005, n. 8692) e segnatamente dinanzi alle Commissioni. Il motivo deve quindi essere dichiarato inammissibile. 1.3 Sul secondo, invece, il T.A.R. ha riconosciuto (implicitamente) il proprio difetto di giurisdizione poiché le ulteriori questioni sollevate dalla E. (del tutto analoghe alle attuali) attenevano ad una pretesa carenza di potere in capo alla p.a. a fronte della quale sussisteva, secondo quel Tribunale, una posizione di diritto soggettivo non tutelabile dinanzi al giudice amministrativo. E su tali questioni sussiste sicuramente la giurisdizione della Commissione, pur avendo riguardo alla risalenza dell’avviso di pagamento impugnato. Non vale addurre che l’atto è stato tardivamente impugnato poiché al momento in cui avrebbe potuto (e dovuto) proporsi l’impugnativa, non sussisteva ancora la giurisdizione delle Commissioni (sussisteva solo quella dell’a.g.o. – non sull’atto ma sul rapporto – soggetta al termine prescrizionale ordinario); giurisdizionale che, come è noto, ha preso avvio il 3 dicembre 2005, giorno successivo a quello di pubblicazione sulla G.U. della L. 248 del 2005. Poiché il ricorso è stato proposto nel termine dei sessanta giorni decorrente dalla entrata in vigore della nuova disciplina, lo stesso deve ritenersi formulato entro i termini indicati nell’atto, dilatati per effetto dell’attribuzione della giurisdizione alle Commissioni; e quindi deve considerarsi tempestivo tenuto conto che nessun giudicato sulla sua (il)legittimità risulta essersi nelle more formato e che quindi l’atto ha seguitato e seguita a produrre i suoi effetti (negativi nei confronti della società). Ogni contraria interpretazione si porrebbe in contrasto con il diritto di difesa del contribuente perché lo priverebbe di ogni tutela nei confronti di un atto di fatto inattaccabile; e quin-


15 tributi locali.qxd

7-04-2009

13:00

Pagina 849

Tributi locali 4 2008 849

di colliderebbe con il criterio ermeneutico secundum constitutionem (per il quale tra più significati attribuibili ad una norma deve essere privilegiato quello conforme ai principi costituzionali). 1.4 Detto questo, nella parte di merito che residua all’esame di questa commissione il ricorso è infondato e va disatteso. La E. si duole in sostanza che il Comune abbia ritenuto applicabile il canone di occupazione suolo pubblico, relativamente ai propri punti vendita di carburanti e lubrificanti, anche a quelle parti di strada pubblica non direttamente concesse, ma immediatamente adiacenti a quelle concesse, sulle quali l’utenza automobilistica si ferma temporaneamente per rifornire il proprio auto/motoveicolo. Su detti spazi – obietta – non sussiste alcun proprio uso esclusivo (che costituisce il fondamento del tributo); uso che invece permane a favore di tutti i cittadini i quali continuano ad utilizzare percorrendolo il sedime facente parte della strada pubblica. Non potrebbe quindi pretendersi – conclude la E. – canone alcuno per difetto di concessione di un’area che resta a disposizione della cittadinanza e degli utenti della strada. Ma la giurisprudenza della S.C. – dalla quale la Commissione non ravvisa motivo alcuno per discostarsi – ha già avuto occasione di precisare, con riferimento alla Tosap (che presenta aspetti del tutto similari alla Cosap) che il tributo è dovuto e non soltanto in relazione alla limitazione o sottrazione all’uso normale e collettivo di parte di suolo pubblico, ma anche in relazione all’utilizza-

zione particolare ed eccezionale che un soggetto privato sia ammesso a fare di quel suolo, di cui il tributo rappresenta il corrispettivo indipendentemente quindi da ogni limitazione per la collettività; per una pura e semplice correlazione, cioè con l’utilità particolare garantita all’occupante, in contrapposizione all’uso consentito alla generalità (cfr. Cass., 4 dicembre 2003, n. 18550); essendo ininfluente la natura dell’occupazione se si considera che l’imposizione (Tosap) colpisce anche le occupazioni senza titolo (Cass., 27 febbraio 2002, n. 2890; Cass., 22 febbraio 2002, n. 2555). Nello specifico è indubbio che i punti vendita di carburante della E.I. utilizzano il sedime stradale nella parte latistante alle colonnine di distribuzione poiché le operazioni di rifornimento costituenti il cuore dell’attività aziendale non possono svolgersi se non utilizzando il sedime stesso. L’utilizzazione viene di fatto consentita solo a coloro che si recano presso i distributori della ricorrente la quale di tali spazi finisce quindi per fruire ai fini aziendali in forma esclusiva. La posizione di vantaggio economico connessa ad una utilizzazione del suolo pubblico per fini particolari così come individuata dalla S.C. (occupazione de facto) è nella sostanza equiparabile ad una occupazione jure; e come tale è suscettibile di essere assoggettata al tributo di che trattasi. Il ricorso dovrà quindi essere disatteso. Giusti motivi costituiti dalla novità delle questioni trattate suggeriscono di dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese di giudizio.

Nota di Luigi Lovecchio

peraltro ulteriori perplessità che attengono alla specificità della situazione controversa. È dubbio infatti che si possa imputare all’esercente una occupazione abusiva di suolo pubblico che non si traduca in una utilizzazione materiale dell’area effettuata dall’operatore economico, considerato che si trattava di sedime stradale sul quale perdurava il pubblico utilizzo da parte della generalità dei conducenti dei veicoli.

La pronuncia, nell’affrontare un caso di applicazione del Cosap nei riguardi di un distributore di carburanti, esamina una questione che appartiene da sempre ai fondamentali del prelievo correlato all’occupazione di un suolo pubblico. Si tratta, in particolare, di stabilire se, ai fini della integrazione del presupposto, sia sufficiente la mera occupazione materiale dell’area oppure occorra la compresenza della sottrazione di spazi alla collettività. La giurisprudenza della Cassazione appare, sul punto, piuttosto oscillante. Se si guarda, tuttavia, alla disciplina di legge, relativa tanto alla Tosap che al canone sostitutivo di questa, ci si imbatte in precisi riferimenti al beneficio economico ritratto dalla occupazione del suolo e al pregiudizio subito dalla collettività in conseguenza dell’utilizzazione particolare effettuata dal privato. Nel caso risolto dalla Commissione provinciale emergono

Una pronuncia che, con il senno di poi, possiamo registrare nella gestione “a stralcio” delle controversie Cosap da parte della giustizia tributaria. Dopo il perentorio arresto della sentenza 14 marzo 2008, n. 64 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 2, D.Lgs. n. 546/1992, le liti in materia di canone di occupazione di suoli pubblici sono infatti ritornate al giudice ordinario. Al riguardo, vale ricordare, in via del tutto preliminare, come si tratti di un prelievo disciplinato nell’articolo 63, D.Lgs. n.


15 tributi locali.qxd

850

7-04-2009

13:00

Pagina 850

GiustiziaTributaria

4 2008

446/1997, che i Comuni e le Province possono istituire, con atto regolamentare, in sostituzione della Tosap (artt. 38-57, D.Lgs. n. 507/1993). Il presupposto applicativo sostanzialmente coincide con quello della tassa. La questione affrontata dai giudici di Genova involge un aspetto strettamente processuale ed un problema che attiene ai fondamentali del prelievo sull’occupazione di suoli ed aree pubbliche. L’approfondimento oggetto della presente nota riguarda questa seconda tematica. Il fatto Un gestore di un impianto di distribuzione di carburante veniva raggiunto da un avviso di accertamento con il quale il Comune contestava l’occupazione di una zona di suolo pubblico più ampia di quella assentita con autorizzazione amministrativa. Il contribuente impugnava il suddetto avviso davanti al T.A.R., eccependo tra l’altro la carenza di motivazione e l’infondatezza della pretesa comunale. Il T.A.R., con sentenza divenuta definitiva, rigettava l’eccezione di carenza di motivazione sollevata dal ricorrente e per il resto disattendeva tutti i motivi di doglianza della parte, sulla base della osservazione che si trattava di posizioni di diritto soggettivo non tutelabili davanti al giudice amministrativo. Con successivo ricorso, il medesimo esercente si rivolgeva alla Commissione tributaria, sostanzialmente riproponendo le medesime eccezioni svolte davanti alla giustizia amministrativa. Il Comune si è costituito sollevando innanzitutto l’obiezione di inammissibilità del ricorso, in quanto proposto oltre i termini. Su tale argomento pregiudiziale, la Commissione tributaria ha ritenuto, da un lato, che all’epoca della statuizione del T.A.R. fossero ancora pendenti i termini (di prescrizione decennale) per l’impugnativa davanti al giudice ordinario, dall’altro, che il ricorso davanti al giudice tributario era stato inoltrato entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della novella di cui all’articolo 3-bis, D.L. n. 203/2005, convertito con modificazioni nella legge n. 248/2005, che aveva per l’appunto attribuito alle Commissioni la cognizione in materia di Cosap, e dunque dovesse considerarsi tempestivo. Il merito della vicenda Il problema centrale scrutinato dai giudici attiene

1 Sull’argomento, sia consentito rinviare a LOVECCHIO, Tassa occupazione spazi ed aree pubbliche, in BENCIVEN-

invece alla determinazione della superficie da assoggettare a canone. In particolare, mentre l’esercente aveva chiesto ed ottenuto una autorizzazione ad occupare, si immagina, la sola area di stretta afferenza alle colonnine di erogazione del carburante, il Comune pretendeva di tassare anche la superficie circostante utilizzata per il transito e la fermata dei veicoli interessati a rifornirsi presso il medesimo esercente. L’operatore economico si è difeso sostenendo che l’area controversa appartiene in realtà al sedime stradale e conserva la destinazione d’uso a vantaggio della generalità dei cittadini, di tal che non si realizzerebbe l’uso esclusivo in favore del privato, sotteso al presupposto applicativo del canone. Questa contrapposizione interpretativa appartiene, come sopra anticipato, ai fondamentali della Tosap, e quindi oggi anche del canone, ed è alimentata da una giurisprudenza di Cassazione non sempre lineare, formatasi essenzialmente in materia di tassa di occupazione. Il punto, in particolare, consiste nello stabilire se, ai fini della integrazione del presupposto, sia sufficiente il mero fatto materiale della occupazione oppure se a questa debba accompagnarsi la sottrazione di spazio ai danni della collettività1. È evidente come l’adozione dell’uno o dell’altro criterio interpretativo non sia affatto indifferente ai fini dell’applicazione concreta dell’entrata. Si pensi ad esempio alle occupazioni realizzate all’interno di mercati coperti. Se fosse prevalente il fatto concreto dell’utilizzazione del suolo pubblico, la conseguenza logica sarebbe nel senso della piena imponibilità; se invece è decisiva la sottrazione dello spazio alla disponibilità della collettività, è evidente che, nella specie, questa manca, poiché lo spazio occupato è già stato previamente sottratto alla cittadinanza dalla scelta dell’ente locale di realizzare il mercato coperto. La Suprema Corte ha risolto la questione, affermando l’intassabilità delle occupazioni di specie, in numerose occasioni2. Nella sentenza 14 gennaio 1998, n. 253, si legge ad esempio che «l’iniziale destinazione al pubblico transito dell’area edificata è stata irreversibilmente rimossa per effetto» della decisione dell’ente impositore. In sintonia con tale indirizzo interpretativo si pone anche la sentenza 9 luglio 2004, n. 12714, che aveva ad oggetto l’occupazione di suolo pubblico effettuata per il tra-

GA-DE VICO-LOVECCHIO-URICCHIO, Manuale dei tributi locali, Santarcangelo di Romagna, 2007, 336 ss.

2 Si vedano ad esempio le sentenze 14 gennaio 1998, n. 253; 22 marzo 2002, n. 4124 e 18 agosto 2004, n. 16108.


15 tributi locali.qxd

7-04-2009

13:00

Pagina 851

Tributi locali 4 2008 851

mite di pensiline installate in coincidenza con le fermate dei mezzi pubblici di trasporto. Di nuovo, se si fosse data prevalenza alla circostanza “brutale” dell’utilizzo del suolo pubblico, sarebbe stata inevitabile la conclusione nel segno dell’applicazione del prelievo. La Cassazione, invece, nella sentenza suddetta ha affermato l’intassabilità delle occupazioni di specie poiché, avendo la funzione di riparo dagli agenti atmosferici, le stesse non sottraggono spazio alla disponibilità della collettività, ma al contrario favoriscono l’uso pubblico dello spazio medesimo. Si sarebbe forse potuto spostare l’accento sulla carenza di una utilità particolare del privato, ma non è da escludere che questi abbia invece ritratto un proprio tornaconto utilizzando le pensiline come supporto per informazioni pubblicitarie. Portando alle logiche conseguenze la tesi della necessaria compresenza della sottrazione di aree alla collettività, si dovrebbe inoltre giungere a ritenere irrilevanti le utilizzazioni di suolo pubblico che non dipendano dalla volontà del privato. Questo perché mentre la mera occupazione si risolve in un fatto materiale in relazione al quale appare irrilevante l’evento causale, la sottrazione di spazi alla disponibilità della generalità delle persone dovrebbe tradursi in un quid pluris determinato dalla consapevole iniziativa del privato3. Senonché, con la pronuncia 28 giugno 2005, n. 13942, la Corte di Cassazione ha ravvisato l’imponibilità delle occupazioni d’urgenza, effettuate per motivi d’ordine pubblico. Eppure, in questa situazione non è propriamente configurabile una riduzione delle possibilità di circolazione del pubblico ascrivibile al privato, poiché si è in presenza di superfici il cui utilizzo è per l’appunto vietato alla collettività per interessi di rango superiore. Nella sentenza 9 luglio 2004, n. 12717, la Cassazione ha inoltre confermato la tassazione di un’area adibita a parcheggio, data in concessione ad un privato, osservando come non rilevi il fatto che non vi sia sottrazione alla pubblica disponibilità, poiché ciò che è necessario e sufficiente ai fi-

3 Si tratta, in realtà, di una considerazione che emergerà con maggior risalto una volta introdotto il principio del beneficio economico dell’occupazione, esaminato nel paragrafo successivo. 4 Proprio il richiamo al principio del beneficio è implicitamente alla base della dottrina favorevole all’inquadramento del tributo tra le imposte, anziché tra le tasse: TESAURO, Natu-

ni dell’applicazione del prelievo è il mero fatto oggettivo della occupazione. Le disposizioni legislative Sin qui la giurisprudenza di vertice. Per tentare di ricomporre un quadro il più possibile unitario, occorre tuttavia prendere in esame le disposizioni di riferimento. Sempre restando in ambiente Tosap, a mente della norma di delegazione contenuta nell’articolo 4, comma 1, lett. b, n. 1, legge n. 421/1992, che ha dato origine al D.Lgs. n. 507/1993, la rimodulazione delle tariffe della tassa avrebbe dovuto assicurare «una più adeguata rispondenza al beneficio economico ritraibile» dall’occupazione. Il riferimento al beneficio economico evoca, in linea di principio, l’idea della riconducibilità dell’utilizzazione del suolo pubblico ad un comportamento volontario del privato, mosso da interessi personali economicamente apprezzabili4. Riesce infatti difficile ravvisare un beneficio economico in un’occupazione imposta dall’autorità. Ne consegue che, già alla luce delle previsioni della legge delega, non sembra corretto ricostruire il presupposto della Tosap in termini di mera occupazione materiale di un suolo pubblico. La situazione non cambia se si guarda ai principi recepiti nel D.Lgs. n. 507/1993, attuativo per l’appunto della delega contenuta nella legge n. 421/1992. Nell’articolo 39 del suddetto decreto legislativo si legge infatti che la tassa è dovuta «in proporzione alla superficie effettivamente sottratta all’uso pubblico». In definitiva, dunque, il combinato delle disposizioni istitutive della tassa rende senz’altro preferibile la tesi secondo cui ai fini della integrazione del presupposto di legge non è sufficiente il fatto materiale dell’occupazione, ma occorre altresì la sottrazione di spazio alla collettività, dalla quale il privato ritragga una utilità particolare. Se poi si esamina la disciplina di riferimento del canone sostitutivo della tassa, le conclusioni sopra raggiunte appaiono vieppiù rafforzate. In particolare, a mente della norma di delegazione di cui

ra giuridica e coesistenza della tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche e del canone di concessione, in Finanza loc., 1994, 1201 ss., il quale ravvisa nella Tosap un prelievo per «lo svolgimento su suolo pubblico di attività produttive». In giurisprudenza, l’orientamento della Corte di Cassazione è oscillante, anche se la tesi maggioritaria sembra in linea con la dottrina più accreditata. Nel sen-

so della qualificazione tra le imposte, si sono espresse le sentenze 19 maggio 1998, n. 4976; 14 gennaio 1998, n. 253 e 8 luglio 1998, n. 6666, argomentando dalla circostanza che il prelievo non è in alcun modo correlato ai servizi resi dall’ente impositore. In favore della classificazione tra le tasse, si veda invece la sentenza 9 novembre 1995, n. 11665.


15 tributi locali.qxd

852

7-04-2009

13:00

Pagina 852

GiustiziaTributaria

4 2008

all’articolo 3, comma 149, lett. h, legge n. 662/1996, l’entità del canone deve tener conto del valore economico della disponibilità dell’area e del «sacrificio imposto alla collettività con la rinuncia all’uso pubblico dell’area stessa». L’articolo 63, D.Lgs. n. 446/1997, attuativo della suddetta delega, al comma 2, lett. c, riproduce puntualmente il criterio sopra riportato, stabilendo per l’appunto che il regolamento istitutivo del canone debba determinare la tariffa in ragione del valore economico dell’area e del pregiudizio subito dalla collettività. Vi sono dunque elementi più che sufficienti per ribadire come anche, e forse a maggior ragione, nel contesto formale relativo al Cosap, ai fini dell’applicazione del prelievo occorra la necessaria coesistenza della occupazione del suolo pubblico e della sottrazione di superfici alla disponibilità della generalità delle persone, cui si accompagni la fruizione di un vantaggio economico, con i corollari sopra evidenziati5. Certo, vi possono essere casi in cui l’utilità ritratta dal privato non si accompagni alla sottrazione di spazio all’uso pubblico. Sono emblematici al riguardo proprio i casi delle occupazioni in mercati coperti e l’affidamento in concessione di aree previamente adibite a parcheggio pubblico. Per riequilibrare i rapporti con l’ente concedente, occorrerà in tali ipotesi determinare un canone di locazione oppure far leva sul canone di cui all’articolo 27, D.Lgs. n. 285/1992. Il caso deciso dalla Commissione tributaria provinciale Al di là di quanto sopra considerato in ordine ai fondamentali del prelievo, lascia tuttavia perplessi la soluzione fornita dai giudici di primo grado in ragione delle peculiarità del caso concreto. Si trattava di decidere, vale ribadire, se applicare il canone su un’area eccedente quella formalmente concessa, sulla quale «l’utenza automobilistica si ferma temporaneamente per rifornire il proprio veicolo» (così, testualmente, la ricostruzione operata in sentenza). Il suolo in questione, inoltre, apparteneva al sedime stradale. In altri termini, si discuteva della configurabilità di una occupazione abusiva di suolo pubblico. Vale infine ricor-

5 Ovverossia, la volontarietà dell’utilizzo del suolo pubblico. Sui connotati ibridi del Cosap, in parte entrata di diritto pubblico, in parte entrata privatistica, si veda DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, 272 ss., il qua-

dare che l’occupazione abusiva è pesantemente sanzionata, ai sensi dell’articolo 63, comma 2, lettere g e g-bis, D.Lgs. n. 446/1997, con l’applicazione di una indennità e di una sanzione amministrativa, variabile tra il 100% e il 200% dell’indennità. Quanto appena riportato dovrebbe essere sufficiente per dedurre che: a) si era in presenza di una ipotesi di violazione di legge; b) la violazione, sulla base dei principi generali dell’ordinamento punitivo6, non può che essere ascritta alla persona che ha materialmente realizzato il comportamento illecito. Le conclusioni appena rassegnate valgono, a evidenza, tanto ai fini dell’applicazione dell’indennità di occupazione quanto ai fini della irrogazione della penalità di legge. In ambito Tosap, le occupazioni abusive sono puntualmente disciplinate nell’articolo 39, D.Lgs. n. 507/1993, a mente del quale, in assenza di atto autorizzativo, la tassa è dovuta dall’«occupante di fatto». Stando così le cose, non è chiaro a quale titolo sia stata addebitata al gestore dell’impianto di distribuzione di carburante l’obbligazione afferente all’indennità di occupazione. Questi, invero: a) non è titolare di alcun atto autorizzativo sull’area; b) non è colui che occupa di fatto il sedime stradale, pur traendone obiettivamente beneficio, poiché l’utilizzazione materiale dell’area è semmai riferibile ai singoli conducenti dei veicoli. Potrà, al più, ravvisarsi una disponibilità di fatto dell’area, resa possibile dal comportamento altrui7, che tuttavia non pare sufficiente a integrare l’illecito dell’occupazione abusiva. A tale situazione di sostanziale estraneità all’ambito di applicazione del canone fa da contraltare la carenza di qualsivoglia mezzo di tutela nei confronti dell’utilizzo della suddetta superficie da parte della generalità dei conducenti, ivi inclusi quelli non interessati ai servizi del distributore. E invero, mentre l’occupante di fatto sottrae fisicamente spazio al pubblico uso, l’esercente in questione non impedisce che altri facciano utilizzo degli spazi di cui si discute. Probabilmente, la questione avrebbe dovuto essere risolta a monte, in sede di rilascio dell’atto di concessione. Occorreva in particolare contemperare le esigenze dell’esercente e quelle relative al-

le peraltro conclude nel senso della qualificazione come entrata pubblica di diritto privato speciale. 6 Si veda ad esempio l’articolo 3, legge n. 689/1981. Sull’applicazione del principio di personalità nel diritto punitivo Comune, si rinvia al fonda-

mentale lavoro di DEL FEDERICO, «Le sanzioni amministrative nel diritto tributario», Milano 1993, 64-65. 7 Id est, la fermata dei veicoli per il rifornimento del carburante.


15 tributi locali.qxd

7-04-2009

13:00

Pagina 853

Tributi locali 4 2008 853

l’ordinato flusso del traffico, assentendo (e imponendo) una occupazione più ampia rispetto allo spazio strettamente riferito alle colonnine di distribuzione del carburante. Proprio allo scopo di risolvere tali questioni applicative, la disciplina relativa alla Tosap ha adottato una soluzione di tipo convenzionale e forfetario. L’articolo 48, D.Lgs. n. 507/1993, prevede infatti che nei riguardi dei distributori di carburante la tassa sia commisurata alla capacità dei serbatoi.

L’ammontare del tributo così determinato ricomprende l’occupazione del suolo e del sottosuolo stradale, afferente alle colonnine montanti dei distributori e ai relativi serbatoi sotterranei, nonché l’occupazione corrispondente ad un chiosco non superiore a quattro metri quadrati. Sul punto, la Corte di Cassazione8 ha avuto occasione di precisare che qualunque occupazione eccedente quelle sussunte nella tassazione forfetaria è soggetta alla Tosap secondo le regole ordinarie.

CONTRIBUTI DI BONIFICA E TARIFFA PER IL SERVIZIO IDRICO: LA LEGISLAZIONE REGIONALE CAMPANA 123

Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. XV, 27 giugno 2007, n. 302 Presidente: Lupi - Relatore: Flora Tributi locali - Contributi consortili di bonifica - Tariffa servizio idrico integrato - Contribuente soggetto passivo della tariffa - Esenzione dal contributo di bonifica ex art. 13, comma 3, L.R. Campania 25 febbraio 2003, n. 4, così come modificato dall’art. 11, L.R. Campania 29 dicembre 2005, n. 24 - Configurabilità (R.D. 13 febbraio 1933, n. 215; L.R. Campania 25 febbraio 2003, n. 4, art. 13, comma 3, così come modificato dall’art. 11, L.R. Campania 29 dicembre 2005, n. 24) Al contribuente assoggettato al pagamento della tariffa per il servizio idrico integrato, in virtù di quanto previsto dall’art. 13, comma 3, L.R. Campania 25 febbraio 2003, n. 4, così come modificato dall’art. 11, L.R. Campania 29 dicembre 2005, n. 24 è riconosciuta l’esenzione dal versamento del contributo consortile di bonifica. Ai fini della decisione della controversia, relativa a ricorso avverso le cartelle esattoriali indicate in epigrafe, con cui si contesta la legittimità di queste e il diritto dell’ente impositore Consorzio di bonifica a richiedere i contributi ivi esposti, occorre evidenziare i criteri di giudizio comunemente ritenuti applicabili alla fattispecie. Vanno, innanzitutto, disattese le eccezioni formali circa i dati contenuti nella cartella, atteso che il contribuente è stato, comunque, posto nelle condizioni di affrontare tutte le questioni di rito e di

8 Sent. 1 gennaio 2004, n. 19690.

merito dimostrando di avere conoscenza della natura della pretesa e di avere potuto articolare le proprie difese per contrastarne il fondamento (arg. ex multis in genere sulla motivazione che assicuri il duplice risultato di delimitare l’ambito delle ragioni dell’ufficio e di consentire al contribuente l’esercizio giudiziale del diritto di difesa Cass., sez. un., sent. 8351 del 17 agosto 1990). In ogni caso, si rammenta che la cartella non costituisce un vero e proprio atto amministrativo, come tale espressione dell’esercizio di attività discrezionale dell’amministrazione quanto piuttosto un vero e proprio titolo esecutivo che, come tale, non necessita se non di quella motivazione imposta dal D.Lgs. 311/1999 e dall’art. 25, D.P.R. 603/1972 relativamente all’indicazione sintetica degli elementi sulla base dei quali è stata effettuata l’iscrizione a ruolo. Del resto, nello specifico dei ruoli consortili, la cui azionabilità ad opera dei Consorzi di bonifica è prevista dagli artt. 21 e 63, R.D. 13 febbraio 1993, n. 215 e 69, D.P.R. 28 gennaio 1998, n. 43 oltre che dall’art. 17, ultimo comma, D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 – con ciò intendendosi rigettata anche l’eccezione relativa alla impossibilità per l’ente di potere ricorrere a questo tipo di riscossione – la motivazione dell’obbligo contributivo è nella stessa delibera annuale, sottoposta a controllo della Giunta regionale, con cui l’ente approva i ruoli e stabilisce anche le aliquote contributive. In carenza di espresso rinvio, neanche risulta pertinente il richiamo alle disposizioni di cui agli


15 tributi locali.qxd

854

7-04-2009

13:00

Pagina 854

GiustiziaTributaria

4 2008

artt. 17 e 25, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, salvo restando il regime della prescrizione. A tale proposito deve tuttavia essere rilevato che, ricorrendo l’ipotesi di contributi da pagarsi periodicamente, risulta applicabile il termine quinquennale di cui all’art. 2948 c.c. da rapportarsi, nello specifico, al quinquennio successivo all’anno di contribuzione. Anche la questione relativa all’eventuale preliminare notifica dell’avviso di accertamento o di liquidazione risulta infondata atteso che, ai sensi degli artt. 29 e 30, L.R. Campania 25 febbraio 2003, n. 4 (già artt. 21 e 22, L.R. 11 aprile 1985, n. 23), l’atto impositivo, e cioè la delibera di approvazione del piano di classifica del territorio per il riparto delle contribuente, è reso noto mediante pubblicazione nell’albo consortile, depositato presso la sede del Consorzio e pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione stessa. Resta, ovviamente, salvo il potere-dovere della Commissione tributaria, ex art. 7, D.Lgs. 546/1992, di disapplicare siffatto atto generale, ove se ne rilevi la illegittimità. Ciò posto, quanto al merito, deve innanzitutto premettersi che la pretesa tributaria in questione non può che inerire quegli immobili – senza esclusione di quelli siti in un contesto urbano – inclusi nel perimetro consortile di competenza che risultino avere un beneficio immediato e diretto a seguito del compimento di attività istituzionali dell’ente pubblico economico in questione: ed è, quindi, questo soggetto che, in ipotesi di contestazione, deve dimostrare siffatto beneficio, secondo l’ordinaria regola dell’onere della prova (arg. ex multis Comm. trib. reg. Campania, n. 15 del 10 febbraio 2005; Cass., 8957/1996; Cass., 8960/1996; ad ultimo Cass., sez. trib., 26 ottobre 2004, n. 22694). È chiaro che il vantaggio potrebbe anche essere generale, in quanto inerente un insieme rilevante di immobili perimetrali che ricavano tutti un beneficio, ma giammai potrebbe essere generico ovvero presunto, per il solo fatto che ne abbiano risentito anche gli altri immobili ricadenti nella stessa zona. Ed anzi, al proposito si rammenta una coerente e condivisibile giurisprudenza espressa da Cass., 8 luglio 1993 e Cass., 5 luglio 1993, n. 7322 secondo cui la sussistenza del vantaggio specifico e diretto deve essere individuata prima di procedere all’applicazione e alla quantificazione del contributo, senza che possa supplirsi a tale lacuna attraverso accertamenti tecnici in sede giudiziaria. In tale contesto, anche l’attuale destinazione del fondo e la sua eventuale mutata destinazione rileva significativamente, atteso che vi sono opere

che, per loro natura, si possono esclusivamente riferire a fondi a destinazione agricola, restando, di converso, insignificanti in ipotesi di fondi urbani, in particolare se utilizzati a fini edificatori. Per come ha allegato la sezione XVI di questa Commissione tributaria con sentenza in data 17 maggio 2005 «si pensi, ad esempio, alle opere di irrigazione che se possono dirsi assolutamente essenziali ai fini di una maggiore utilizzazione dei fondi agricoli, in nulla incidono su quella dei fondi urbani o addirittura sugli immobili di questo tipo. Diversamente laddove si tratti di miglioramento che possa incidere sulla salubrità dell’ambiente in cui ricade l’immobile beneficiando coloro che lo occupano». Alla Commissione, invero, non sfugge quel diverso orientamento giurisprudenziale espresso sin da Cass., sez. un. civili, 30 gennaio 1998, n. 968 e poi ripreso anche da Cass. civ., sez. V, sent. n. 19509 del 29 settembre 2004 secondo cui l’obbligo contributivo presuppone la sola qualità di proprietario di un immobile sito nel comprensorio del Consorzio e che la adozione del relativo perimetro di contribuenza ha solo la funzione di esonerare la amministrazione dall’onere di provare il beneficio in favore degli immobili stessi. Tale interpretazione prescinde, tuttavia, dal considerare che vertendosi in ipotesi di tributo (sulla natura giuridica di questi contributi che, ai sensi del R.D. 13 febbraio 1933, n. 215 e successive modificazioni configurano prestazioni patrimoniali di natura pubblicistica rientranti nella categoria dei tributi si ricorda Cass., sez. I civ., 1 febbraio 2000, n. 1092; Cass., sez. un., 23 settembre 1998, n. 9493), alla prestazione richiesta deve necessariamente corrispondere l’erogazione di un qualche servizio o l’adempimento di una qualche prestazione istituzionale ad opera del soggetto impositore. La potestà di quantificazione e riscossione in questione, tra l’altro operata per delega del legislatore, opera, infatti, significativamente in base al principio della corrispondenza e proporzionalità rispetto al beneficio conseguito o conseguibile, ad ulteriore significato della natura particolare del beneficio medesimo. Contributi questi che con la legge regionale n. 4 del 25 febbraio 2003, il legislatore ha definito «oneri reali sugli immobili», con ciò intendendo fare espresso riferimento a quella ambulatorietà del debito tipica di queste obbligazioni reali. Proprio di recente, oltre che con questa legge ad ultimo citata anche con l’art. 35 della L.R. 22 gennaio 2007 la materia è stata interessata da importanti interventi legislativi.


15 tributi locali.qxd

7-04-2009

13:00

Pagina 855

Tributi locali 4 2008 855

Oltre che definire le finalità (cfr. art. 1, L.R. n. 4) e la griglia delle competenze istituzionali degli enti consortili (cfr. art. 12, med. legge), nonché il procedimento per la adozione dei due strumenti generalmente impositivi, ovverosia il piano generale di bonifica, da adottare entro 24 mesi dall’entrata in vigore della stessa legge, e il conseguente piano di classifica per il riparto della contribuenza (cfr. artt. 6 e 12), è stato, infatti, espressamente previsto che l’obbligazione contributiva competa ai soli «proprietari di beni immobili che conseguono benefici dalle opere pubbliche» realizzate dal Consorzio (cfr. art. 12, med. L.R.) da quantificare proprio sulla base dei benefici tratti in concreto dall’immobile stesso. Risulta ulteriormente specificato che anche per ciò che concerne l’utilizzazione dei canali consortili come recapito di scarichi, l’obbligazione contributiva deve essere «in proporzione del beneficio ottenuto» (cfr. art. 13, n. 2, med. L.R.). Ovvio, quindi, che per ciò che inerisce le attività di bonifica integrale e di scolo, il beneficio deve necessariamente essere, anche sotto tale aspetto, immediato e diretto. Più specificamente per ciò che inerisce questo ultimo servizio di raccolta e collettamento degli scarichi nei canali consortili, a fronte della specifica eccezione dispiegata dal ricorrente, il legislatore regionale, all’art. 11 della legge regionale 24/2005 di modifica al n. 3 dell’art. 13 della menzionata legge regionale n. 4/2003, ha ritenuto di dovere ulteriormente precisare che «non hanno l’obbligo al pagamento del tributo di cui al comma 2 – per l’appunto quello di scolo e scarico – i proprietari di immobili assoggettati alla tariffa del servizio idrico intergrato, ai sensi dell’art. 14, L. 5 gennaio 1994, n. 36, comprensiva della quota per il servizio di pubblica fognatura» con l’ulteriore specificazione operata dal sopra menzionato art. 35 delle legge regionale 7/2007 che «l’articolo 13 della legge regionale 25 febbraio 2003, n. 4, così come modificato dall’art. 11, comma 1, della legge regionale 29 dicembre 2005, n. 24, è autenticamente interpretato nel senso che restano esclusi dal

tributo anche tutti gli immobili o suoli agricoli che non sono direttamente serviti da opere di bonifica realizzate dagli enti consortili». Ed è appena il caso di notare che la disposizione ad ultimo riportata, a prescindere dalla questione se sia effettivamente di interpretazione autentica, non fa altro che aderire a quell’orientamento giurisprudenziale sopra evidenziato cui ha aderito questa Commissione. Pertanto, anche a fronte di siffatta eccezione dispiegata dal contribuente, in quanto assoggettato alla menzionata tariffa per il servizio idrico integrato di pubblica fognatura, sarebbe precipuo onere del Consorzio allegarne, invece, la eventuale esenzione. Ovvio che tale questione prescinde dal connesso aspetto meramente civilistico afferente il concreto pagamento della prestazione medesima. Del resto, si rammenta che, secondo la pacifica giurisprudenza, ad ultimo espressa da Cass., sez. trib., 4 gennaio 2005, n. 96 «in base alla legge 5 gennaio 1994, n. 36, il canone per i servizi di depurazione delle acque reflue è dovuto indipendentemente non solo dalla effettiva utilizzazione del servizio, ma anche dall’istituzione di esso o dall’esistenza dell’allacciamento fognario ad esso della singola utenza». In conclusione, quindi, nel caso di specie, il Consorzio non ha provato l’esistenza di alcun beneficio che fosse in rapporto di derivazione causale con le opere di bonifica eseguite né ha provato un beneficio complessivo derivante dalle opere stesse né eventualmente un diretto vantaggio alla proprietà del ricorrente che prima della esecuzione dei lavori si fosse trovato in condizioni o in un ambiente antigienico e che le opere di bonifica eseguite abbiano rimosso tali condizioni. Per ciò che inerisce il tributo consortile deve, quindi, concludersi, in carenza di una qualunque derivazione causale dell’opera di bonifica, per l’insussistenza del presupposto del relativo potere impositivo del Consorzio, nel mentre per ciò che inerisce la quota relativa al servizio di scarico e collettamento non risulta che il contribuente ne sia esente.

Nota di Oriana Lombardi

zio idrico integrato e il legislatore della Regione Campania ha previsto in tal caso l’esenzione dal pagamento del contributo di bonifica. Desta poi alcune perplessità il percorso motivazionale in base al quale l’esenzione dovrebbe essere provata dal Consorzio, laddove in base alla regola in materia di onere della prova, deve essere la parte che intende giovarsene ad eccepirla e provarla.

Nella concreta fattispecie il Consorzio aveva posto in essere un’attività di bonifica integrale e di scolo, pur non avendo provato l’esistenza del vantaggio, in rapporto di derivazione causale con l’attività eseguita. Ma soprattutto – ed è questo il profilo di interesse – il contribuente risultava già assoggettato alla tariffa per il servi-


15 tributi locali.qxd

856

7-04-2009

13:00

Pagina 856

GiustiziaTributaria

4 2008

Premessa La sentenza interviene su una materia, i contributi di bonifica, sovente oggetto di controversie. Nel caso di specie il ricorrente contesta la legittimità delle cartelle esattoriali e il diritto del Consorzio di bonifica a richiedere i contributi di bonifica. La Commissione evidenzia come, nello specifico dei ruoli consortili, l’azionabilità ad opera dei Consorzi di bonifica è prevista dagli artt. 21 e 63, R.D. 13 febbraio 1993, n. 215 e 69, D.P.R. 28 gennaio 1998, n. 43 oltre che dall’art. 17, ultimo comma, D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, per poi passare ad esaminare i criteri di giudizio ritenuti applicabili alla fattispecie. Secondo i giudici, infatti, la pretesa tributaria in questione non può che riguardare quegli immobili – senza esclusione di quelli siti in un contesto urbano – inclusi nel perimetro consortile di competenza che risultino avere un beneficio immediato e diretto a seguito del compimento di attività istituzionali dell’ente pubblico economico in questione: ed è, quindi, questo soggetto che, in ipotesi di contestazione, deve dimostrare siffatto beneficio, secondo l’ordinaria regola dell’onere della prova. Si sottolinea, inoltre, come il vantaggio potrebbe anche essere generale, in quanto inerente ad un insieme rilevante di immobili perimetrali che ricavano tutti un beneficio, ma giammai potrebbe essere generico ovvero presunto, per il solo fatto che ne abbiano risentito anche gli altri immobili ricadenti nella stessa zona. A tal proposito si rammenta una coerente e condivisibile giurisprudenza secondo cui la sussistenza del vantaggio specifico e diretto deve essere individuata prima di procedere all’applicazione e alla quantificazione del contributo, senza che possa supplirsi poi ad un’eventuale inerzia dell’attività probatoria di parte attraverso accertamenti tecnici in sede giudiziaria. Alla Commissione, invero, non sfugge quel diverso orientamento giurisprudenziale, al quale ritiene di non aderire, secondo il quale l’obbligo contributivo presuppone esclusivamente la qualità di proprietario di un immobile sito nel comprensorio del Consorzio e che l’adozione del relativo perimetro di contribuenza ha solo la funzione di esonerare l’amministrazione dall’onere di provare il beneficio in favore degli immobili stessi. Contributi, questi in commento, che il legislatore della Regione Campania, con legge n. 4 del 25 febbraio 2003, ha definito «oneri reali sugli immobi-

1 Cass., sent. 2847/1984.

li», con ciò intendendo fare espresso riferimento a quella ambulatorietà del debito tipica di queste obbligazioni reali; ne ha delineato, nello stesso testo legislativo, le finalità (art. 1); ha espressamente previsto che l’obbligazione contributiva competa ai soli «proprietari di beni immobili che conseguono benefici dalle opere pubbliche» realizzate dal Consorzio (art. 12) da quantificare proprio sulla base dei benefici tratti in concreto dall’immobile stesso, ribadendo che anche per ciò che concerne la utilizzazione dei canali consortili come recapito di scarichi, l’obbligazione contributiva deve essere «in proporzione del beneficio ottenuto» (art. 13). Opportunamente si evidenzia nella sentenza in epigrafe come, per ciò che inerisce specificamente il servizio di raccolta e collettamento degli scarichi nei canali consortili, il legislatore regionale, all’art. 11 della legge regionale 24/2005 di modifica al n. 3 dell’art. 13 della menzionata legge regionale n. 4/2003, ha ritenuto di dover precisare che «non hanno l’obbligo al pagamento del tributo di cui al comma 2» – per l’appunto quello di scolo e scarico – «i proprietari di immobili assoggettati alla tariffa del servizio idrico intergrato, ai sensi dell’art. 14, L. 5 gennaio 1994, n. 36, comprensiva della quota per il servizio di pubblica fognatura». Con riferimento a tale tariffa, si sostiene nella pronuncia che, «anche a fronte di specifica eccezione dispiegata dal contribuente, in quanto assoggettato alla menzionata tariffa per il servizio idrico integrato di pubblica fognatura, sarebbe precipuo onere del Consorzio allegarne, invece, l’eventuale esenzione». Con riguardo al contributo di bonifica, invece, si evidenzia come l’ente impositore, in spregio all’onere della prova sullo stesso incombente, «non ha provato l’esistenza di alcun beneficio che fosse in rapporto di derivazione causale con le opere di bonifica eseguite». Per tali ragioni, i giudici concludono per l’insussistenza del presupposto del potere impositivo del Consorzio, nel mentre «per ciò che inerisce la quota relativa al servizio di scarico e collettamento, non risulta che il contribuente ne sia esente». Il quadro normativo di riferimento I Consorzi di bonifica sono enti economici di diritto pubblico1, istituiti allo scopo di curare l’esecuzione e la manutenzione di opere di bonifica, così da garantire, con la loro presenza, una effica-


15 tributi locali.qxd

7-04-2009

13:00

Pagina 857

Tributi locali 4 2008 857

ce funzione di presidio e di tutela del territorio. La loro attività trova fondamento nell’art. 44 della Costituzione, a norma del quale, «al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le Regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà». La disciplina della materia è contenuta nel libro terzo del Codice civile2 (l’art. 860, in particolare, stabilisce che «i proprietari dei beni situati entro il perimetro del comprensorio sono obbligati a contribuire nella spesa necessaria per l’esecuzione, la manutenzione e l’esercizio delle opere in ragione del beneficio che traggono dalla bonifica») e nel R.D. 13 febbraio 1933, n. 215 (“Nuove norme per la bonifica integrale”) che costituisce a tutt’oggi il riferimento principale, definendo i principi generali sulla bonifica e sull’obbligo di contribuzione. Per lo svolgimento della loro attività istituzionale, infatti, i Consorzi, come previsto dall’articolo 858 del c.c., sono tenuti a rispettare le norme dettate dal R.D. L’articolo 59 di tale R.D.3, in particolare, conferisce loro il potere di imporre contributi ai proprietari degli immobili ricadenti nel comprensorio di competenza, da quantificare e ripartire tra i singoli consorziati ai sensi dell’articolo 11 della citata legge4, ovvero «in ragione dei benefici conseguiti per effetto delle opere di bonifica» realizzate. Sono subentrate, poi, in materia leggi regionali, in virtù del trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni (art. 117 Cost.) e, in particolare, la Regione Campania è intervenuta sulla materia con la legge n. 4 del 25 febbraio 2003.

2 Codice civile, libro III “Della proprietà”, titolo II, capo II, sezione III “Della bonifica integrale”. 3 Art. 59 del R.D. n. 215 del 13 febbraio 1933: «I Consorzi di bonifica sono persone giuridiche pubbliche e svolgono la propria attività entro i limiti consentiti dalle leggi e dagli statuti. Per l’adempimento dei loro fini istituzionali essi hanno il potere d’imporre contributi alle proprietà consorziate, ai quali si applicano le disposizioni dell’art. 21». 4 Art. 11 del R.D. n. 215 del 13 feb-

I contributi consortili di bonifica Per l’adempimento dei propri fini istituzionali, i Consorzi hanno il potere di imporre contributi che rappresentano la quota dovuta da ciascun consorziato ai fini della ripartizione delle spese sostenute per la realizzazione e la manutenzione delle opere, nonché per il funzionamento degli stessi enti consortili. Il potere impositivo attribuito dalla legge ai Consorzi ha per oggetto tutti gli immobili che traggono beneficio dalla bonifica, qualunque sia la destinazione degli stessi (agricola o extragricola) per il semplice motivo che l’espressione generica “immobili”, introdotta per la prima volta dal R.D. n. 215 del 1933 in luogo di quella più specifica “terreni”, adottata dal precedente R.D. n. 368 del 19045, comprende anche gli edifici urbani. In tal senso, anche la Corte di Cassazione, ha stabilito che: «[...] la natura agricola od extragricola del fondo è ininfluente ai fini della legittimità dell’imposizione. Invero la contraria opinione si basa su fragili basi testuali e su una concezione della bonifica intesa come inerente soltanto alla valorizzazione agricola dei suoli, che è sicuramente da ripudiare, perché non è possibile - nell’assetto del territorio del comprensorio di bonifica - distinguere gli immobili a seconda che essi abbiano destinazione agricola o meno, quasi che un argine od un canale di scolo (ad esempio) siano destinati a difendere dall’eccesso di acque solo gli immobili agricoli e non quelli che (magari originariamente tali) sono stati poi convertiti in immobili a destinazione industriale o civile [...]»6. Il contributo de quo è un onere reale7 e non personale, deducibile dal reddito lordo da denunciare ai fini fiscali, ai sensi dell’art. 10, lettera a, del D.P.R. 917/1986. Il contributo, infatti, ha origine dal rapporto inscindibile tra l’opera realizzata e il fondo (o immobile che dir si voglia), ed è da intendersi gravante sugli immobili, in virtù dei be-

braio 1933: «La ripartizione della quota di spesa tra i proprietari è fatta, in via definitiva, in ragione dei benefici conseguiti per effetto delle opere di bonifica di competenza statale o di singoli gruppi, a sé stanti, di esse; e in via provvisoria sulla base di indici approssimativi e presuntivi del beneficio conseguibile. La ripartizione definitiva e gli eventuali conguagli hanno luogo dopo accertato il compimento dell’ultimo lotto della bonifica, a termini dell’art. 16. I criteri di ripartizione sono fissati ne-

gli statuti dei Consorzi o con successiva deliberazione, da approvarsi dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste. Non esistendo Consorzi, sono stabiliti direttamente dal Ministero». 5 “Regolamento sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi”. 6 Cfr. Cass., sez. un., sent. n. 8960 del 14 ottobre 1996, ma anche Cass., sent. n. 4144 del 14 maggio 1996; Cass., sez. un., sent. n. 7511 dell’8 luglio 1993; Cass., sent. n. 11018 del 9 ottobre 1992. 7 R.D. n. 215/1933, art. 21.


15 tributi locali.qxd

858

7-04-2009

13:00

Pagina 858

GiustiziaTributaria

4 2008

nefici che vi arreca, e non sulle singole persone fisiche, eventualmente comproprietarie. Conseguentemente non è possibile provvedere alla ripartizione della quota di proprietà, frazionando il tributo, in quanto il bene immobile è considerato, in questo caso, bene giuridicamente indiviso. Si tratta quindi di un’obbligazione indivisibile regolata, ai sensi dell’art. 1317 del Codice civile, dalle stesse norme disciplinanti le obbligazioni solidali, con la conseguenza che ogni debitore è obbligato ad eseguire per intero la prestazione al creditore (con la possibilità, per colui che ha pagato l’intero di ripetere dagli altri condebitori, la parte spettante a ciascuno di essi, ex art. 1299 del Codice civile). Questione importante è anche il riconoscimento a questi contributi della natura di entrata tributaria8. La giurisprudenza, così come la pronuncia in commento, qualifica i contributi imposti dai Consorzi di bonifica, ai sensi degli artt. 864 del c.c. e 54 del R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, prestazioni di natura tributaria9. A tal fine non si può prescindere dai criteri elaborati dalla Corte costituzionale per qualificare come tributarie le entrate erariali; criteri che consistono nella «doverosità della prestazione» e nel «collegamento di questa alla pubblica spesa»10. Tale impostazione fornisce una nozione di tributo “onnicomprensiva”, nel senso che vi sarebbero incluse imposte, tasse, contributi e monopoli fiscali.

8 Sull’argomento si veda CHINETTI, I contributi a favore dei Consorzi di bonifica, in Corr. Trib., 1998, 33, 2465 ss.; MONTANARI F., Ancora sulla “natura tributaria” dei contributi consortili, in Riv. Dir. Trib., 2002, 7-8, 496. 9 In tal senso, Cass., sez. un., sent. n. 4081 del 18 giugno 1986; sez. un., sent. n. 4542 del 14 luglio 1986; sez. un., sent. n. 1501 del 12 febbraio 1988; sez. un., sent. n. 2852 del 10 marzo 1992; sez. un., sent. n. 1396 del 4 febbraio 1993; sez. un., sent. n. 11608 del 24 novembre 1993; sent. n. 9534 del 29 settembre 1997; sez. un., sent. n. 9493 del 26 giugno 1998; sent. n. 1092 dell’1 febbraio 2000; sez. trib., sent. n. 1936 del 10 febbraio 2001; sez. trib., sent. n. 12027 del 25 settembre 2001; sez. trib., sent. n. 2735 del 24 febbraio 2002; sez. trib., n. 3422 dell’8 marzo 2002; sez. un., sent. n. 14863 del 28 giugno 2006. La Suprema Corte, solo per citare una recente pronuncia, ha ribadito che «i contributi spettanti ai Consorzi di bonifica e di miglioramento fondiario rientrano nella categoria generale dei

La Cassazione, inoltre, ha ribadito in più occasioni la natura tributaria dei contributi di bonifica. Secondo tale orientamento, la struttura e le finalità di pubblico interesse che dominano lo svolgimento dell’attività istituzionale dei Consorzi di bonifica, denotano come il relativo obbligo contributivo, derivante dalla legge, non possa avere natura contrattuale, onde «i contributi in parola, esigibili mediante ruoli di contribuenza e con le norme e i privilegi stabiliti dall’imposta fondiaria, rientrano nell’ambito dell’art. 23 Cost., non rilevando, in senso contrario, che la contribuzione sia commisurata ai benefici derivanti ai proprietari, collettivamente o individualmente, dalle opere di bonifica». Il Supremo Collegio, tuttavia, ha in questa stessa occasione11 ingenerato delle perplessità in merito, laddove, seguendo l’iter logico giuridico dettato precedentemente dalla Corte costituzionale12, ha concluso nel senso che i contributi consortili, pur non avendo «identica natura» rispetto ai tributi erariali sono comunque «assimilabili» alle entrate tributarie13. L’orientamento consolidato della giurisprudenza14, però, interviene a fugare le perplessità che queste isolate pronunce potrebbero suscitare: i contributi spettanti ai Consorzi di bonifica e imposti ai singoli proprietari per le spese di esecuzione, manutenzione ed esercizio delle opere di

tributi e non in quella dei corrispettivi di diritto privato». Così Cass., sez. trib., 18 gennaio 2002, n. 521, in Giur. Imposte, 2002, 474. Comm. trib. prov. Padova, sez. I, sent. n. 174 del 21 gennaio 1997; Trib. Firenze, sent. n. 4003 del 24 dicembre 1997; Comm. trib. reg. Toscana, sez. X, sent. n. 128 del 31 maggio 1999. 10 Ex multis: Corte cost., sent n. 73 del 2005; sent. n. 334 del 2006; sent. n. 64 del 2008. Quest’ultima pronuncia, in particolare, proprio in virtù di quei criteri identificativi del tributo, ha sancito «la natura non tributaria del Cosap». 11 Cass., sez. trib., sent. n. 4337 del 26 marzo 2002. 12 Corte cost., sent. n. 26 del 26 febbraio 1998: nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 21, comma 2, del R.D. 13 febbraio 1933, n. 215 nella parte in cui, rinviando alla normativa riguardante le imposte dirette, non consentiva all’autorità giudiziaria ordinaria di sospendere l’esecuzione dei ruoli esattoriali relativi

ai contributi di bonifica, afferma che «[...] i contributi in questione non sono configurabili, per caratteri ontologici, come prestazioni patrimoniali aventi la identica natura giuridica dei tributi erariali e non rientrano quindi integralmente nel sistema disciplinare delle imposte dirette, cosicché al massimo si può riscontrare una loro assimilazione alle entrate tributarie, peraltro solo parziale e limitata, per quanto qui interessa, ai profili procedimentali della riscossione coattiva». 13 In linea con queste isolate pronunce si segnala: Cass., sent. n. 5443 del 15 maggio 1991 dove si era affermato che, «pur dovendosi collocare le prestazioni patrimoniali in questione nell’area applicativa dell’art. 23 della Costituzione, l’assimilazione dei contributi consortili ai tributi erariali non si profila come assoluta, ma limitata piuttosto a taluni fondamentali aspetti, tra cui quello dell’esazione». 14 Cass., sez. trib., sent. n. 5261 del 15 marzo 2004.


15 tributi locali.qxd

7-04-2009

13:00

Pagina 859

Tributi locali 4 2008 859

bonifica e miglioramento fondiario rientrano nella categoria generale dei tributi. Sebbene una parte minoritaria della dottrina ritenga15 che i contributi consortili siano riconducibili a schemi privatistici, in particolare all’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento, istituto disciplinato dall’art. 2041 ss. c.c.16, la dottrina maggioritaria, al contrario, nega la natura privatistica dei contributi consortili, essendo «indubbia l’assenza di assetti sinallagmatici nella dinamica del rapporto che viene ad instaurarsi tra Consorzio di bonifica e proprietario del fondo incluso nel comprensorio, mancando qualunque vincolo di corrispettività tra versamenti imposti e benefici ritratti»17. Tali conclusioni hanno un immediato riflesso su quanto concerne la giurisdizione delle Commissioni tributarie18, dato che il testo novellato dell’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, così come modificato dall’art. 12 della L. 28 dicembre 2001, n. 448 (Finanziaria 2002), ha attribuito, a partire dall’1 gennaio 2002, alla giurisdizione delle Commissioni tributarie le controversie in tema di «tributi di ogni genere e specie». Tale ultima espressione rende palese che il legislatore ha inteso al riguardo recepire la tradizionale e risa-

15 GUARINO, Natura giuridica dei contributi di bonifica, in Arch. Civ., 1998, 1., tesi peraltro sostenuta da BRUNETTI, Giurisdizione e competenza per le controversie sui contributi di bonifica, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1998, 598. 16 In senso contrario, ex multis, Cass., sez. trib., sent. n. 521 del 18 gennaio 2002, in Giur. Imposte, 2002, 474, dove è ribadita la natura pubblicistica dei contributi. 17 Così MICCINESI-VIGORITI, Sulla natura dei contributi consortili e sulla giurisdizione del Tribunale in ordine alle relative controversie, in Dir. e Prat. Trib., 1999, I, 815 ss.; DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, 181 ss. 18 Per una panoramica sull’evoluzione normativa e sui recenti orientamenti giurisprudenziali in materia di giurisdizione tributaria e atti impugnabili, si veda FIORENTINO, I nuovi limiti “interni” della giurisdizione tributaria alla stregua dei recenti orientamenti della Corte di Cassazione, in questa rivista, 2008, 2, 223 ss. 19 Così RUSSO, I nuovi confini della giurisdizione delle commissioni tributarie, in Rass. Trib., 2002, 415. Sul punto si veda anche MANZON, Legge finanziaria 2002: le Commissioni tributarie verso l’apoteosi. È vera gloria?, in Riv. Dir. Trib., 2002, 171; VALAORI, Art. 12 del-

lente nozione comprensiva oltre che delle imposte, anche dei contributi o tributi speciali19, individuando un criterio di riparto per materia. In stretta continuità logica con tali mutamenti può essere considerata la recente aggiunta (art. 3bis, comma 1, lett. a, D.L. 30 settembre 2005, n. 203) delle parole «comunque denominati» che completa l’art. 2 in questione. Di conseguenza, per effetto delle modifiche legislative intervenute, a partire dal primo gennaio 2002 le controversie in materia di contributi spettanti ai Consorzi di bonifica dovrebbero essere devolute al giudice tributario e non più al Tribunale ordinario20. I presupposti di imponibilità del contributo Dopo questa breve panoramica sui contributi consortili di bonifica, occorre soffermarsi sulla prima questione affrontata dalla Commissione: l’esigibilità dei contributi in parola sotto il profilo dei presupposti di imponibilità. In merito sono rinvenibili due diversi orientamenti giurisprudenziali che anche la pronuncia in commento individua, per poi aderire ad uno in particolare.

la Finanziaria 2002 e Testo unico n. 215/1933: al giudice tributario la bonifica dei siti consortili inquinati, in Fisco, 2002, 3294. Sul punto anche la circ. 21 marzo 2002, n. 25/E. Per un commento a tale circolare: DI GIACOMO, La nuova giurisdizione delle Commissioni tributarie. Le spiegazioni dell’amministrazione finanziaria, in Fisco, 2002, 3312. 20 In particolare, con la recente sent. n. 14863 del 28 giugno 2006, le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno statuito che «secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte i contributi spettanti ai Consorzi di bonifica ed imposti ai proprietari per le spese di esecuzione, manutenzione ed esercizio delle opere di bonifica e di miglioramento fondiario, rientrano nella categoria generale dei tributi, con la conseguenza che la domanda di restituzione delle somme versate a tale titolo, proposta dopo il primo gennaio 2002, è devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie, in applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, nel testo modificato dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 12, il quale ha esteso la giurisdizione tributaria a tutte le controversie aventi ad oggetto tributi di ogni genere e specie (sez. un., 10703/2005; conf. 14937/2005)».

Cass., sez. trib., n. 5261 del 15 marzo 2004: «I contributi spettanti ai Consorzi di bonifica ed imposti ai proprietari per le spese di esecuzione, manutenzione ed esercizio delle opere di bonifica e di miglioramento fondiario, rientrano nella categoria generale dei tributi, con la conseguenza che, con riferimento alla legge vigente al momento della proposizione della domanda, la competenza per materia a conoscere della domanda con la quale il contribuente chiede la restituzione delle somme versate a tale titolo spetta al Tribunale ordinario ai sensi dell’art. 9, comma 2, c.p.c., non essendo stata attribuita dalla legge alla giurisdizione delle commissioni tributarie con il D.Lgs. n. 546 del 1992 e restando ininfluenti sui processi in corso, a norma dell’art. 5 c.p.c., le modifiche legislative introdotte dall’art. 12, L. 28 dicembre 2001, n. 448 che, a partire dall’1 gennaio 2002, hanno trasferito la controversia in materia di contributi consortili dalla cognizione del giudice ordinario a quello tributario»; Cass., sez. un., sent. n. 10703 del 23 maggio 2005; Cass., sez. trib., sent. n. 5261 del 15 marzo 2004; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, sent. n. 6046 del 28 luglio 2005; T.A.R. Lazio, sent. n. 6045 del 28 luglio 2005.


15 tributi locali.qxd

860

7-04-2009

13:00

Pagina 860

GiustiziaTributaria

4 2008

È necessario preliminarmente precisare che con l’espressione “comprensorio di bonifica” si allude genericamente ad una zona geografica dove si svolgono le attività del Consorzio; il “perimetro di contribuenza”, invece, è riferito ad una parte di territorio più contenuta e limitata rispetto a quella del comprensorio e quindi ad una platea di soci contribuenti più limitata. A tal riguardo, il R.D. 215/1933, agli artt. 3,4,5 e 10 prevede che con apposito decreto ministeriale venga definito il suddetto perimetro di contribuenza21. Alla Commissione non sfugge quell’orientamento22, dal quale poi prende le distanze, secondo il quale l’emanazione del decreto di determinazione del perimetro di contribuenza ha la funzione di esonerare l’amministrazione finanziaria dall’onere di provare il beneficio in favore degli immobili in esso compresi. In mancanza, invece, di detta delimitazione del perimetro, il Consorzio è gravato dall’onere di provare l’esistenza di concreti benefici derivanti dalle opere eseguite, non desumibili dalla semplice inclusione degli immobili nel comprensorio ed aventi quindi il requisito della specificità necessario per l’esazione del contributo. I sostenitori di tale tesi fanno leva su dati testuali, quali l’art. 10, comma 1, del R.D. laddove è stabilito – con una norma sostanzialmente ripresa dall’art. 860 c.c. – che alla spesa delle opere di competenza statale che non siano a totale carico dello Stato sono tenuti a contribuire i proprietari degli immobili del comprensorio che traggono beneficio dalla bonifica. L’art. 17, comma 1, inoltre, prevede che la manutenzione e l’esercizio delle opere di competenza statale, sono a carico dei proprietari degli immobili situati entro il perimetro di contribuenza, a partire dalla data della dichiarazione di compimento di ciascun lotto. Da questi dati normativi emergerebbe che la delimitazione del perimetro di contribuenza è attività ulteriore rispetto a quella di classificazione dei comprensori di bonifica, presupponendo un esa-

21 Art. 3: «Alla classificazione dei comprensori di bonifica di prima categoria si provvede con legge; a quelli dei comprensori di seconda categoria con decreto del Presidente della Repubblica. In ogni caso, la proposta di classificazione è fatta dal Ministro delle Politiche agricole e forestali, di concerto con i Ministri delle Finanze e dei Lavori pubblici, sentito uno speciale comitato, costituito con decreto del Presidente della Repubblica, promosso dal Ministro delle Poli-

me particolareggiato delle condizioni ambientali, impossibile, o comunque malagevole, in sede di emanazione del provvedimento di carattere generale. Il decreto di contribuenza, dunque, non si presenta come imprescindibile, ove si consideri che i presupposti per il sorgere dell’obbligo di contribuzione sono costituiti dall’inclusione degli immobili nel comprensorio e dal beneficio tratto dalla bonifica e che per l’adozione del decreto ministeriale non è previsto alcun termine. Ai sensi del R.D. 13 febbraio 1933 n. 215, dunque, la mancata emanazione del decreto ministeriale di determinazione del perimetro di contribuenza non esclude l’obbligo di contribuzione nei confronti dei proprietari degli immobili siti nel comprensorio di bonifica, che abbiano tratto un vantaggio dall’attività di bonifica; in caso di emanazione di un provvedimento di delimitazione del perimetro di contribuenza, invece, sussisterebbe una presunzione di beneficio per gli immobili. L’emanazione di questo atto avrebbe, così, la funzione di delimitare la platea dei contribuenti e di esonerare il Consorzio dall’onere di provare il beneficio derivato in favore dei proprietari degli immobili in esso compresi. Altra giurisprudenza, però, e anche la pronuncia in commento, si è polarizzata sul diverso avviso secondo il quale, non è sufficiente la mera inclusione dell’immobile nel perimetro di contribuenza, perché si possa presumere il beneficio in favore del contribuente. Per poter assoggettare a contribuzione detti beni è, infatti, necessario accertare in concreto che gli stessi, oltre ad essere ricompresi nel perimetro di contribuenza, conseguano un beneficio dall’esecuzione delle opere di bonifica23. Anche per tale tesi, non mancano appigli testuali ai quali rifarsi: il R.D. 215/1933, infatti, all’art. 3 stabilisce che «deve procedersi alla delimitazione del perimetro di contribuenza» e all’art. 10 che «la ripartizione della quota di spesa, tra i proprietari è fatta, in via definitiva, in ragione dei be-

tiche agricole e forestali. Alla classificazione dei terreni di prima categoria si provvede, sentito anche il commissariato per le migrazioni interne e la colonizzazione. Con decreto del Ministro delle Politiche agricole e forestali, si provvede alla delimitazione del comprensorio soggetto agli obblighi di bonifica di cui all’art. 2 e del territorio gravato dall’onere di contributo nella spesa delle opere di competenza statale, quando la spesa stessa non sia a totale carico dello

Stato, a sensi del primo comma dell’art. 7 del presente decreto». 22 Cass., sez. un., sent. n. 968 del 30 gennaio 1998 e da ultimo sent. n. 19509 del 29 settembre 2004. 23 Cass., sent. n. 19509 del 29 settembre 2004; Cass., sez. un., sent. n. 8960 del 1996; Comm. trib. reg. Lazio, sent. n. 57 del 14 febbraio 2005; Cass., sent. n. 7511 dell’8 luglio 1993. GIACALONE, Presupposti per la contribuzione ai Consorzi di bonifica, in Giust. Civ., 1996, 12, 3135.


15 tributi locali.qxd

7-04-2009

13:00

Pagina 861

Tributi locali 4 2008 861

nefici conseguiti». Da tali dati testuali si ricava che l’obbligo di contribuire alle opere eseguite da un Consorzio di bonifica e, quindi, l’assoggettamento al potere impositivo di quest’ultimo postulano, ai sensi delle norme succitate la proprietà di un immobile che sia incluso nel perimetro consortile e che tragga vantaggio da quelle opere. Il beneficio derivante dalle opere di bonifica, dunque, non può costituire oggetto della presunzione derivante dall’avvenuta delimitazione del perimetro di contribuenza, ma deve essere, di volta in volta, dimostrato in concreto. Al fine, dunque, di un legittimo esercizio del potere impositivo da parte dei Consorzi, è necessario che i beni in questione, oltre ad essere ricompresi nel perimetro di contribuenza, ricevano un “beneficio particolare” dall’esecuzione delle opere di bonifica, dovendo derivare agli immobili un incremento di valore direttamente riconducibile alle opere di bonifica e/o alla loro manutenzione24. Il beneficio, infatti, pur potendo essere potenziale o futuro25, non potrebbe in nessun modo derivare dalla pura e semplice inclusione del bene nel perimetro di contribuenza, perché non deve riguardare il territorio nel suo complesso, ma il bene specifico di cui si tratta. Il vantaggio può essere generale, e cioè riguardante un insieme rilevante di immobili, ma non può essere generico, in quanto altrimenti sarebbe perduta l’inerenza al fondo beneficato, la quale è assicurata soltanto dal carattere particolare (anche se ripetuto per una pluralità di fondi) del vantaggio stesso e altrimenti verrebbe meno il carattere di onere reale che l’assoggettamento a contribuzione obbligatoria riveste26. Nota con puntualità la sentenza, in proposito, che occorre un incremento di valore dell’immobile soggetto a contributo, in rapporto di derivazione causale con le opere di bonifica (e con la loro manutenzione), dovendo essere il beneficio, conseguito o conseguibile a causa della bonifica, e cioè tradursi in una “qualità” del fondo27. Non rileva, dunque, il beneficio derivante dall’esecuzione delle opere di bonifica, destinate a fine di interesse generale; non rileva il miglioramento complessivo dell’igiene e della salubrità dell’aria:

24 Cass., sez. un., sent. n. 9857 del 14 ottobre 1996. 25 Cass., sent. n. 877 del 1984. 26 Comm. trib. reg. Umbria, sez. I, sent. n. 12 del 24 marzo 2005. 27 SCALINI, Beneficio della bonifica e contributi consortili, in Riv. Dir. Agr.,

il beneficio deve essere diretto, specifico, conseguito o conseguibile e tradursi in una qualità del fondo. Proprio in ragione di ciò si comprende come, con riferimento alla durata nel tempo del beneficio e in particolare al caso di opere effettuate dal Consorzio una tantum che per la loro natura non consentono benefici duraturi nel tempo, il contributo consortile non può essere pagato in eterno, come spesso, invece, pretenderebbero i Consorzi. La Commissione sottolinea, inoltre, come l’obbligazione contributiva deve essere «in proporzione del beneficio ottenuto», richiamando il rapporto di diretta proporzionalità e di corrispondenza che deve sussistere tra interesse del singolo, che il Consorzio soddisfa, e ammontare dei contributi, secondo un accertamento da condursi in concreto ovvero secondo gli indici previsti dalla legge28. La richiesta del contributo da parte dei Consorzi, dunque, deve trovare un giusto equilibrio tra contributo richiesto e corrispondente beneficio fondiario prodotto attraverso le opere, le manutenzioni e quant’altro programmato, senza trasformarsi in un’indiscriminata imposta fondiaria per tutti i soci consortili, evitando, così, che la contribuenza si risolva, in una mera patrimoniale, una “seconda Ici”, come molti l’apostrofano29. L’esenzione dal pagamento del contributo di bonifica: la legislazione regionale campana e la tariffa per il servizio idrico integrato Nella fattispecie concreta il ricorrente risultava assoggettato alla tariffa per il servizio idrico integrato, ai sensi dell’art. 14 della legge n. 36 del 5 gennaio 1994, il cui comma 1 statuisce che «la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi [...]». In base a tale legge, l’attività di depurazione delle acque reflue costituisce un servizio pubblico irrinunciabile, che gli enti gestori sono tenuti ad istituire per legge. Gli utenti, anche potenziali, sono chiamati a contribuire tramite il versamento di un apposito canone sia alle spese di gestione ordina-

1972, II, 113. 28 MIELE STUNCANELLI, Consorzi amministrativi, in Enc. Dir., IX, Milano 1961, 413. 29 È da ritenersi illegittima, pertanto, la cartella esattoriale con la quale un Consorzio ha richiesto il contributo

di bonifica ripartendo le spese sostenute tra i consorziati senza tener conto del diverso beneficio conseguito da ciascuno di essi a seguito dell’attività di risanamento compiuta. Cfr. Comm. trib. reg. Lazio, sez. X, sent. n. 57, del 14 febbraio 2005.


15 tributi locali.qxd

862

7-04-2009

13:00

Pagina 862

GiustiziaTributaria

4 2008

ria che a quelle di istallazione e completamento, comprese quelle per il collegamento fognario delle singole utenze, con la precisazione, evidenziata anche nella pronuncia in commento, che il relativo canone è dovuto indipendentemente non solo dall’effettiva utilizzazione del servizio, ma anche dalla istituzione di esso, o dall’esistenza dell’allacciamento fognario ad esso della singola utenza30. Con più specifico riferimento al caso che ci occupa, il legislatore regionale della Campania all’art. 13, comma 3, della legge n. 4 del 2003, così come modificato dall’art. 11 della legge regionale n. 24 del 2005, ha precisato che «non hanno l’obbligo del pagamento del contributo di cui al comma 2 [per l’appunto quello di scolo e di scarico nei canali consortili, ndr] i proprietari di immobili assoggettati alla tariffa del servizio idrico intergrato, ai sensi dell’art. 14 della legge 5 gennaio 1994 n. 36, comprensiva della quota per il servizio di pubblica fognatura»31. L’art. 14 della legge n. 36 del 1994, al comma 2 stabilisce che «gli utenti tenuti all’obbligo di versamento della tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura, di cui al comma 1, sono esentati dal pagamento di qualsivoglia altra tariffa eventualmente dovuta al medesimo titolo ad altri enti». Costituisce ius receptum32, in proposito, che spetta all’amministrazione finanziaria, nel quadro dei generali principi che governano l’onere della prova, dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della pretesa tributaria azionata, mentre il contribuente, il quale intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti, oppure sostenere l’esistenza di circostanze che riducono o elidono il tributo, deve a sua volta dimostrare gli elementi sui quali le sue eccezioni si fondano. Quando si discute, dunque, dell’applicazione di una esenzione o di una norma agevolativa, grava sul contribuente l’onere di provare i fatti dai quali dipende l’applicazione della norma di favore in quanto fatto impeditivo o estintivo dell’obbligazione tributaria.

30 Ex multis: Cass., sez. trib., sent. n. 96 del 4 gennaio 2005. 31 L’art. 13, comma 3, della legge regionale n. 4 del 2003, prima della modifica legislativa, così recitava: «Gli utenti tenuti all’obbligo di pagamento della tariffa dovuta per il servizio di pubblica fognatura, ai sensi della legge n. 36/1994, sono esentati dal pagamento del contributo di bonifica connesso ai servizi di raccolta, collettamento, scolo e allontanamento delle acque meteori-

Tra i fatti costitutivi è preminente, nella specie, in virtù dell’art. 10, R.D. 215/1933, l’esistenza del beneficio derivante dalla bonifica, che, pertanto, in caso di contestazione, deve essere provato dal Consorzio. Correttamente, dunque, la Commissione, nella pronuncia che si commenta, conclude sottolineando la «carenza di una qualunque derivazione causale dall’opera di bonifica, per la insussistenza del presupposto del relativo potere impositivo del Consorzio», non avendo il Consorzio «provato l’esistenza di alcun beneficio che fosse in rapporto di derivazione causale con le opere di bonifica eseguite né [...] un beneficio complessivo derivante dalle opere stesse, né eventualmente un diretto vantaggio alla proprietà del ricorrente che prima della esecuzione dei lavori si fosse trovato in condizioni o in un ambiente antigienico e che le opere di bonifica eseguite abbiano rimosso tali condizioni». Dalla pronuncia in esame emerge, inoltre, che il ricorrente, in ossequio ai principi generali in materia di onere della prova, abbia dispiegato specifica eccezione, asserendo di essere già assoggettato alla tariffa per il servizio idrico, e quindi invocando la specifica esenzione di cui ai già citati articoli 13, comma 3, della legge n. 4 del 2003 e 14, comma 2, della legge n. 36 del 1994. In luce di ciò, non è del tutto condivisibile la pronuncia in commento nella parte in cui asserisce che «sarebbe precipuo onere del Consorzio allegarne la eventuale esenzione», laddove è il contribuente tenuto a dimostrare l’assoggettamento alla tariffa del servizio idrico integrato da cui discende l’esenzione dal pagamento del contributo. Si precisa, infine, come, il canone per il servizio di fognatura e depurazione sino al 3 ottobre 2000 integrava un tributo comunale, mentre, a far capo proprio da tale data, non costituisce più un’entrata avente natura tributaria33.

che fermo restando gli altri obblighi contributivi ove dovuti per bonifica integrale». 32 Cass., sent. n. 738 del 3 febbraio 1990; Cass., sent. n. 6312 del 2005; Cass, sez. V, sent. n. 905 del 2006; Cass. n. 7439 del 2003. 33 Per una panoramica sul delicato tema della giurisdizione tributaria, si veda: TESAURO, Gli atti impugnabili ed i limiti della giurisdizione tributaria, in questa rivista, 2007, 1, 9 ss.; RAGUCCI, La giurisdizione tributaria in mate-

ria di canoni, tariffe, imposte e diritti locali, alla luce del riformato art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, in Finanza loc., 2007, 1; DEL FEDERICO, La giurisdizione, in AA.VV., Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, a cura di Tesauro, Torino, 1998, 32 ss. e di recente FICHERA, L’oggetto della giurisdizione tributaria e la nozione di tributo, in Rass. Trib., 2007, 1074 ss.; FIORENTINO, I nuovi limiti “interni” della giurisdizione tributaria, cit. Più in generale, sulle pecu-


15 tributi locali.qxd

7-04-2009

13:00

Pagina 863

Tributi locali 4 2008 863

Il canone in parola, più in particolare, integrava un tributo comunale34, sulla scorta delle disposizioni dettate in materia, prima, dall’art. 17-ter della legge n. 319 del 1976 e poi, dopo l’abrogazione di tale norma, dall’ultimo comma dello stesso art. 1735. Solo a partire dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 258 del 2000, e cioè dal 3 ottobre 200036

liarità del processo tributario sia rispetto al modello del processo civile, sia rispetto a quello del processo amministrativo: CONSOLO, Processo e accertamento fra responsabilità contributiva e debito tributario, in Riv. Dir. Proc., 2000, 1035 ss.; GLENDI, Rapporti tra nuova disciplina del processo tributario e Codice di procedura civile, in Dir. e Prat. Trib., 2000, I, 1700 ss.; PERRONE, I limiti della giurisdizione tributaria, in Rass. Trib., 2006, 707 ss. 34 A partire dalla metà degli anni novanta, infatti, si è delineata la tendenza ad una “defiscalizzazione” di taluni prelievi tributari, che ha determinato la loro sostituzione con tariffe, canoni, prezzi pubblici o corrispettivi di diritto privato. Nell’ambito proprio di tale fenomeno rientra la trasformazione dell’originario tributo comunale in canone per il servizio di pubblica fognatura, così come si pensi al canone per l’occupazione di spazi ed aree pubblici (Cosap, che si applica in alternativa alla Tosap), alla tariffa di igiene ambientale (Tia, che progressivamente sostituirà la Tarsu), al canone per l’instal-

si applica l’innovazione introdotta dall’art. 31, comma 28, della legge n. 448 del 1998, la quale, abrogando l’art. 17, ultimo comma, della legge n. 319 del 1976, ha stabilito che il canone in questione è una quota tariffaria, componente del corrispettivo dovuto dall’utente al servizio idrico, e, quindi, non più un tributo comunale37.

lazione dei mezzi pubblicitari che ha affiancato l’imposta sulla pubblicità. Sull’argomento si veda: DEL FEDERICO, Tributi paracommutativi e finanziamento dei servizi pubblici. Caso italiano e prospettive europee, in Riv. Dir. Fin., 2003, 2, 255 ss. L’autore sottolinea come da tale defiscalizzazione «trapela comunque una preoccupazione politica: si ritiene meno impegnativo parlare di canoni, tariffe, diritti, prezzi pubblici ecc., invece che di tributi, di imposte o di tasse; la ratio è evidentemente quella di una complessiva manovra ispirata a fini di illusione fiscale, in cui si tenta di utilizzare meccanismi di prelievo a scarsa visibilità impositiva [...]. Nell’insieme il sistema attuativo di queste nuove entrate è quanto mai lacunoso [...]. Si riscontra comunque la presenza di significativi tratti strutturali e funzionali propri del tributo, particolarmente marcati per il canone di installazione dei mezzi pubblicitari e per la tariffa rifiuti [...]. La via italiana alla surrettizia introduzione dei prezzi pubblici, segnata dalla fuga dalle categorie giuridiche tributarie,

risulta del tutto insoddisfacente, giacché la mancanza di parametri normativi di riferimento finirà con il vanificare ogni proficuità della defiscalizzazione perseguita dai contingenti interventi normativi. Invero allo stato attuale la mancanza di un regime giuridico dei prezzi pubblici non lascia alternative: a seconda dei casi prevarrà la connotazione tributaria del prelievo, ovvero la sua natura civilistica (quand’anche caratterizzata da un particolare regime di diritto privato speciale). Soltanto l’elaborazione di un vero e proprio sistema giuridico dei prezzi pubblici potrebbe risolvere quest’impasse». 35 Comma inserito dall’art. 2, comma 3-bis, del D.L. n. 79 del 1995, convertito nella legge n. 172 del 1995. 36 Data, questa, frutto dalle modifiche introdotte in materia, che hanno fatto slittare l’entrata in vigore del mutamento della natura dell’entrata in questione, inizialmente fissata all’1 gennaio 1999. 37 Cfr. Cass., sez. un., sent. n. 11188 del 17 luglio 2003; Cass., sez. un., sent. n. 6418 del 25 marzo 2005.


16

Atti e interv.qxd

864

9-04-2009

11:56

Pagina 864

GiustiziaTributaria

4 2008

ATTI E INTERVENTI L’AGENZIA DELLE ENTRATE SI ADEGUA ALLA CASSAZIONE SUL REQUISITO DI AUTONOMIA ORGANIZZATIVA NELL’IRAP Agenzia delle Entrate, Direzione centrale normativa e contenzioso, circolare 13 giugno 2008, n. 45/E

Oggetto: Irap - Assoggettabilità all’imposta degli esercenti arti e professioni - Giurisprudenza della Corte di Cassazione - Istruzioni operative 1. Premessa Con la sentenza n. 156 del 21 maggio 2001 la Corte costituzionale ha dichiarato che l’assoggettamento all’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) «del valore aggiunto prodotto da ogni tipo di attività autonomamente organizzata, sia essa di carattere imprenditoriale o professionale, è [...] pienamente conforme ai principi di eguaglianza e di capacità contributiva [...] essendo, in entrambi i casi, l’idoneità alla contribuzione ricollegabile alla nuova ricchezza prodotta [...]». Tuttavia la Corte costituzionale, mentre ha ritenuto l’elemento organizzativo connaturato alla nozione di impresa, ha precisato che «[...] è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui». L’accertamento di tale condizione, «in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto [...]» da verificare caso per caso. A seguito della pronuncia della Corte costituzionale si è posto il problema di individuare per i lavoratori autonomi la nozione di attività autonomamente organizzata. 2. Prassi amministrativa Con circolare n. 141/E del 4 giugno 1998 l’amministrazione finanziaria ha fornito chiarimenti in ordine alla disciplina dell’Irap, specificando, in particolare, che all’imposizione della stessa non sono attratte quelle attività che, pur potendosi astrattamente ricondurre all’esercizio di arte o professione, non sono esercitate mediante un’organizzazione autonoma da parte del soggetto interessato, come ad esempio l’attività di collaborazione coordinata e continuativa, all’epoca normativamente inquadrata nell’ambito del lavoro autonomo.

Successivamente alla sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 2001, con risoluzione n. 32/E del 31 gennaio 2002, è stato confermato che l’autonomia organizzativa sussiste tutte le volte in cui si è in presenza di lavoro autonomo ai sensi dell’articolo 53, comma 1 (all’epoca, articolo 49, comma 1) del Testo Unico delle imposte sui redditi (T.U.I.R.) di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, mentre restano escluse, ad esempio, le attività svolte occasionalmente. In essa è stato poi sottolineato come l’esistenza, pur minima, del requisito dell’organizzazione sia una connotazione tipica del lavoro autonomo. Gli uffici sono stati inoltre invitati a prestare attenzione alle controversie relative a periodi d’imposta per i quali i contribuenti si sono avvalsi della definizione automatica dei redditi di impresa e di lavoro autonomo, di cui all’articolo 7 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (finanziaria 2003), o della definizione automatica per gli anni pregressi, di cui all’articolo 9 della medesima legge. Con le circolari n. 7/E del 5 febbraio 2003 e n. 18/E del 25 marzo 2003 è stato infatti precisato che la presentazione di una dichiarazione di condono ai sensi della citata legge n. 289 del 2002 ha, tra i suoi effetti, anche la rinuncia implicita all’eventuale istanza di rimborso Irap successiva alla presentazione della dichiarazione. Ulteriori istruzioni operative per la gestione del contenzioso in esame sono state impartite con nota prot. n. 2004/212298 del 28 dicembre 2004, in cui è stata evidenziata, fra l’altro, l’opportunità che gli uffici, oltre a trattare le questioni di diritto, prendano posizione su tutti i motivi dedotti dal ricorrente e sollevino tutte le eccezioni processuali e di merito del caso. 3. Giurisprudenza delle Commissioni tributarie Sulla questione le commissioni tributarie non hanno assunto un orientamento univoco, attestandosi sostanzialmente su tre diversi indirizzi. Nell’ambito della giurisprudenza di merito si è formato un orientamento minoritario secondo cui


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 865

Atti e interventi

l’attività di lavoro autonomo non integra il presupposto dell’Irap per carenza di autonoma organizzazione, atteso che la presenza del professionista è indispensabile ai fini dello svolgimento dell’attività e l’eventuale struttura organizzativa, più o meno complessa, non può operare autonomamente. Seguendo un diverso orientamento, anch’esso minoritario, le commissioni tributarie hanno affermato, in conformità con la posizione dell’amministrazione finanziaria, che un’attività di lavoro autonomo è sempre autonomamente organizzata, se è svolta abitualmente e senza il coordinamento e il controllo da parte di altri soggetti. In base all’indirizzo giurisprudenziale più diffuso, invece, l’autonoma organizzazione di un’attività di lavoro autonomo deve essere valutata caso per caso, attraverso l’esame dei fattori produttivi ed organizzativi utilizzati nell’esercizio dell’attività stessa. 4. La sentenza della Corte di Cassazione n. 21203 del 5 novembre 2004 La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21203 del 5 novembre 2004 ha confermato la sentenza di secondo grado che aveva escluso l’assoggettamento ad Irap di un professionista, per mancanza del requisito dell’attività autonomamente organizzata. Con una motivazione prevalentemente in fatto, la prima pronuncia della Corte di Cassazione non ha fissato principi di diritto che garantissero l’uniforme interpretazione della norma in esame. Ha tuttavia respinto la tesi dell’Agenzia secondo cui l’esistenza anche minima del requisito dell’organizzazione è una connotazione tipica delle attività professionali. 5. Le sentenze della Corte di Cassazione del 2007 e del 2008 L’8 febbraio 2007 la sezione tributaria della Corte di Cassazione ha deliberato circa 80 sentenze in materia di Irap, concernenti per la maggior parte la questione dell’assoggettamento a tale imposta degli esercenti arti e professioni, enunciando alcuni importanti principi ai fini dell’individuazione dell’attività autonomamente organizzata di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, secondo cui: «presupposto dell’imposta è l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi». Numerose altre sentenze sono state deliberate in date successive. Con la presente circolare si analizzano i principi fondamentali che emergono dalle sentenze della

4 2008 865

Corte di Cassazione e, conseguentemente, si forniscono istruzioni per la gestione del contenzioso pendente, anche sulla base del parere reso dell’avvocatura generale dello Stato con nota n. 29126P del 6 marzo 2007. 5.1 Legittimità costituzionale dell’Irap applicata ai lavoratori autonomi Occorre innanzitutto rilevare come per la Corte di Cassazione non appaia «lecito porre ulteriormente in dubbio, più o meno surrettiziamente, la legittimità costituzionale dell’Irap applicata ai lavori autonomi – dovendo aversi ormai per pacifico che tale imposta colpisce un fatto economico diverso dal reddito rappresentato dal valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate – ciò che occorre valutare, al fine di escludere, eventualmente, l’assoggettabilità in concreto all’Irap degli esercenti arti e professioni cui fa riferimento l’art. 3, comma 1, lettera c, del D.Lgs. n. 446 del 1997, è se la loro attività professionale sia svolta in assenza di elementi di autonoma organizzazione di capitale o lavoro altrui” (cfr. Cass., n. 3680 del 16 febbraio 2007). Precisa la Corte di Cassazione che la Corte costituzionale, con un fondamentale contributo ermeneutico, «ha in definitiva affermato che l’Irap può e, anzi, deve essere applicata pure ai lavoratori autonomi, tenendo però presente che non si tratta di una regola assoluta, ma solo dell’ipotesi ordinaria, nel senso che l’assoggettamento all’imposta costituisce la norma per ogni tipo di professionista, mentre l’esenzione rappresenta l’eccezione valevole soltanto per quelli privi di qualunque apparato produttivo» (cfr. Cass., n. 3676 e n. 3677 del 16 febbraio 2007). Sulla base di tali orientamenti vanno pertanto adeguatamente contrastate le eccezioni sollevate dal contribuente in ordine alla legittimità costituzionale dell’applicazione dell’Irap nei confronti degli esercenti arti e professioni. 5.2 Necessità dell’autonoma organizzazione ai fini dell’assoggettamento a Irap La Corte di Cassazione ha affermato che il requisito dell’autonoma organizzazione è imprescindibile perché un’attività sia soggetta ad Irap. Ha infatti precisato che detto requisito non può essere inteso in senso meramente soggettivo, ma deve essere inteso «necessariamente in senso oggettivo, non solo perché l’elemento dell’autonomia, se recepito in senso soggettivo, si risolve in una mera tautologia (il professionista è autonomamente organizzato perché è un soggetto capace di organizzazione autonoma), che non avrebbe richiesto


16

Atti e interv.qxd

866

9-04-2009

11:56

Pagina 866

GiustiziaTributaria

4 2008

un apposito intervento legislativo di precisazione; ma soprattutto perché è l’unica interpretazione “costituzionalmente orientata”, quindi obbligatoria (Corte cost., ord. n. 452/2005, 361/2005, 283/2005, 433/2004; sent. n. 198/2003, 107/2003, 316/2001, 113/2000)». Peraltro, «se la norma fosse accolta nel senso di ritenere applicabile l’imposta anche nel caso d’inesistenza del suddetto elemento oggettivo, risulterebbero violati i principi di eguaglianza e di capacità contributiva, garantiti appunto dall’equiparazione dell’attività di carattere professionale a quella imprenditoriale sul filo dell’autonoma organizzazione, connaturata a quest’ultima e soggetta ad accertamento nella prima» (cfr. Cass., n. 3673 e, conforme, n. 3674 del 16 febbraio 2007). Preso atto dell’orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione, non è ulteriormente sostenibile la tesi interpretativa dell’assoggettamento generalizzato ad Irap degli esercenti arti e professioni. 5.3 Nozione di autonoma organizzazione Preso atto dell’orientamento della Corte di Cassazione secondo cui l’autonoma organizzazione costituisce presupposto per l’assoggettamento a Irap degli esercenti arti e professioni, occorre individuarne gli elementi costitutivi. Con la sentenza n. 3676 del 2007 è stato evidenziato che «Per far sorgere l’obbligo di pagamento del tributo basta [...] l’esistenza di un apparato che non sia sostanzialmente ininfluente, ovverosia di un quid pluris che secondo il comune sentire, del quale il giudice di merito è portatore e interprete, sia in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista». «Si deve cioè trattare di un qualcosa in più la cui disponibilità non sia, in definitiva, irrilevante perché capace, come lo studio o i collaboratori, di rendere più efficace o produttiva l’attività». Peraltro, con la sentenza n. 3674 del 2007, si esclude che l’Irap sia «dovuta solo quando l’apparato organizzativo raggiunga un grado di autonomia tale da eclissare la figura e l’opera dell’esercente arti o professioni responsabile e titolare dell’organizzazione produttiva», ritenendo che il verificarsi di tale ipotesi sia «improbabile, se non impossibile, date le caratteristiche intrinseche del lavoro professionale [...], e peraltro non riconducibile ad alcuna specifica disposizione normativa» (nello stesso senso, Cass., n. 3673 del 2007 e 5012 del 5 marzo 2007). Ai fini dell’assoggettamento o meno al tributo, in breve, non ha pregio l’indagine volta a riscontrare il rapporto di autonomia dell’organizzazione rispetto all’opera dell’esercente un’arte o una professione.

Con la sentenza n. 3678 del 16 febbraio 2007, che si può ritenere riassuntiva dei concetti espressi nelle altre pronunce e che risulta particolarmente interessante perché fissa parametri di carattere generale per individuare l’autonoma organizzazione, la Corte di Cassazione osserva che il «tributo colpisce una capacità produttiva “impersonale e aggiuntiva” rispetto a quella propria del professionista perché, se è innegabile che l’esercente una professione intellettuale concepisce il proprio lavoro con il contributo determinante della propria cultura e preparazione professionale, producendo in tal modo la maggior parte del reddito di lavoro autonomo, è altresì vero che quel reddito complessivo spesso scaturisce anche dalla parte aggiuntiva di profitto che deriva dal lavoro dei collaboratori e dipendenti, dal numero e grado di sofisticazione dei supporti tecnici e logistici, dalle prestazioni di terzi, da forme di finanziamento diretto e indiretto, eccetera». Con la citata pronuncia, la Corte di Cassazione ritiene che occorre attenersi ai seguenti principi di diritto: «l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diversa dall’impresa commerciale costituisce – secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata elaborata dalla Corte costituzionale – presupposto dell’Irap qualora si tratti di attività “autonomamente organizzata”». «Il requisito dell’“autonoma organizzazione” dell’attività di lavoro autonomo il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, sussiste tutte le volte in cui il contribuente che eserciti l’attività di lavoro autonomo: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità e interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che secondo l’id quod plerumque accidit costituiscono nell’attualità il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui». Sempre nella stessa sentenza si specifica che «esemplificativamente il giudice del merito potrà ricercare i dati di riscontro del presupposto impositivo attraverso l’autodichiarazione del contribuente ovvero la certificazione dell’anagrafe tributaria in possesso dell’amministrazione finanziaria, soffermandosi sul dettaglio riportato nelle pertinenti sezioni del quadro RE (riguardante la determinazione del reddito di lavoro autonomo ai fini Irpef) che specifica la composizione dei costi (righi


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 867

Atti e interventi

da 6 a 18) riportando – tra gli altri – le quote di ammortamento dei beni strumentali (con tipologia ricavabile dal registro dei cespiti ammortizzabili o dal registro dei pagamenti), i canoni di locazione finanziaria e non, le spese relative agli immobili, le spese per prestazioni di lavoro dipendente, per le collaborazioni e di compensi comunque elargiti a terzi, gli interessi passivi». 5.4 Elementi che individuano l’autonoma organizzazione A giudizio della Suprema Corte, «il rimborso dell’Irap non spetta agli esercenti arti o professioni, indicati dall’art. 49, comma 1, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (richiamato dall’art. 3, comma 1, lettera c, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446), responsabili in qualsiasi forma dell’organizzazione – esclusi gli esercenti arti o professioni inseriti in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità e interesse, originariamente esenti dall’imposta – quando essi si avvalgano, in modo non occasionale, di lavoro altrui, o impieghino nell’organizzazione beni strumentali eccedenti, per quantità o valore, il minimo comunemente ritenuto indispensabile per l’esercizio dell’attività: eccedenza di cui è indice, fra l’altro, l’avvenuta deduzione del costo ai fini dell’Irpef o dell’Iva» (cfr. Cass. n. 3673 del 2007; conforme n. 8374 del 31 marzo del 2008). Sussiste, quindi, autonoma organizzazione quando ricorre almeno uno dei seguenti presupposti, da valutare caso per caso: a) impiego, “in modo non occasionale, di lavoro altrui”; b) utilizzo di “beni strumentali eccedenti, per quantità o valore”, le necessità minime per l’esercizio dell’attività. 5.4.1 Impiego, in modo non occasionale, di lavoro altrui L’impiego, non occasionale, di lavoratori dipendenti o collaboratori nell’esercizio dell’attività professionale è indice della sussistenza di autonoma organizzazione (Cass., n. 3676, 3677, 3678, 3680 del 2007; n. 5019, 5020 e 5021 del 5 marzo 2007 e n. 8166 del 2 aprile 2007), anche se assunti secondo modalità riconducibili a un progetto, programma di lavoro o fase di esso. Al riguardo la Cassazione, con la sentenza n. 8971 del 16 aprile 2007, ha affermato che «l’organizzazione dell’attività va ravvisata tutte le volte che, per lo svolgimento della stessa, il titolare si avvalga [...] di lavoro altrui, non necessariamente prestato come lavoro dipendente» (in senso conforme Cass., n. 3680 e 8166 del 2007). È da ritenere che l’affidamento a terzi, in modo

4 2008 867

non occasionale, di incombenze tipiche dell’attività artistica o professionale, normalmente svolte all’interno dello studio, deve essere valutato ai fini della sussistenza dell’autonoma organizzazione. Non rileva invece l’eventuale prestazione fornita da terzi per attività estranee a quelle professionali o artistiche (ad esempio, consulenza ed assistenza tributaria ai fini dell’assolvimento degli obblighi fiscali di un artista). Non rileva altresì lo svolgimento presso il professionista di un tirocinio, in quanto lo stesso è in sostanza funzionale alle esigenze formative del tirocinante. 5.4.2 Utilizzo di beni strumentali eccedenti, per quantità o valore, le necessità minime per l’esercizio dell’attività Ai fini della verifica dell’autonoma organizzazione rileva comunque la disponibilità di beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per lo svolgimento dell’attività, anche qualora non vengano acquisiti direttamente, ma siano forniti da terzi, a qualunque titolo. Particolare attenzione deve essere dunque posta dagli uffici all’analisi dei beni strumentali, la cui individuazione è determinante ai fini della sussistenza dell’autonoma organizzazione. Si ritiene che i beni strumentali utilizzati rilevano anche qualora il loro costo sia stato già interamente dedotto. I giudici di legittimità hanno in più occasioni affermato che sussiste autonoma organizzazione qualora il professionista disponga di uno studio attrezzato (cfr. Cass., n. 3676, 3677, 3678, 3680, 5019, 5020, 5021 e 8166 del 2007). «L’indagine sull’esistenza di tale qualcosa in più costituisce senza dubbio un accertamento di fatto che il giudice di merito dovrà compiere caso per caso sulla base di una valutazione di natura non soltanto logica, ma anche socio-economica perché l’assenza di una struttura produttiva non può essere intesa nel senso radicale di totale mancanza di qualsiasi supporto, ma neppure in quello di particolare rilevanza o, peggio, di prevalenza dei beni e/o del lavoro altrui su quello del titolare». «Per far sorgere l’obbligo di pagamento del tributo basta, infatti, l’esistenza di un apparato che non sia sostanzialmente ininfluente, ovverosia di un quid pluris che secondo il comune sentire, del quale il giudice di merito è portatore ed interprete, sia in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista». «Si deve cioè trattare di un qualcosa in più la cui disponibilità non sia, in definitiva, irrilevante perché di regola capace, come lo studio o i collabora-


16

Atti e interv.qxd

868

9-04-2009

11:56

Pagina 868

GiustiziaTributaria

4 2008

tori, di rendere più efficace o produttiva l’attività». «Non varrebbe in contrario replicare che così ragionando si giunge a fare dei professionisti una categoria indefettibilmente assoggettata all’Irap perché, nell’attuale realtà, è quasi impossibile esercitare l’attività senza l’ausilio di uno studio e/o di uno o più collaboratori o dipendenti». «È infatti proprio per questo che il D.Lgs. n. 446/1197 ha inserito gli autonomi fra i soggetti passivi dell’imposta, in quanto anche essi si avvalgono normalmente di quella struttura organizzativa che costituisce il presupposto dell’imposta». «Ed è sempre per lo stesso motivo che, come già detto in precedenza, il D.Lgs. n. 446/1997 ha, fra l’altro, abrogato l’Iciap, essendo l’Irap destinata normalmente a colpire coloro che in precedenza pagavano l’Iciap che, a sua volta, gravava sui professionisti indipendentemente dalla consistenza della organizzazione da essi predisposta» (cfr. Cass., n. 5019 del 2007; nello stesso senso n. 5020 del 2007). In mancanza di parametri normativi, si pone il problema di individuare concreti criteri per orientare e uniformare l’operato degli uffici. Ai fini dell’individuazione del requisito di autonoma organizzazione, in assenza di altri più significativi elementi, può tornare utile la disciplina dei cd. “contribuenti minimi” di cui all’articolo 1, commi da 96 a 117, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008). Il comma 96, in particolare, dispone che «si considerano contribuenti minimi le persone fisiche esercenti attività di impresa, arti o professioni che, al contempo: a) nell’anno solare precedente 1) hanno conseguito ricavi ovvero hanno percepito compensi, ragguagliati ad anno, non superiori a euro 30.000; 2) non hanno effettuato cessioni all’esportazione; 3) non hanno sostenuto spese per lavoratori dipendenti o collaboratori di cui all’articolo 50, comma 1, lettere c e c-bis, del Testo Unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, anche assunti secondo la modalità riconducibile a un progetto, programma di lavoro o fase di esso, ai sensi degli articoli 61 e seguenti del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, né erogato somme sotto forma di utili da partecipazione agli associati di cui all’articolo 53, comma 2, lettera c, dello stesso Testo Unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986; b) nel triennio solare precedente non hanno effettuato acquisti di beni strumentali, anche mediante contratti di appalto e di locazione, pure finan-

ziaria, per un ammontare complessivo superiore a euro 15.000». Ciò premesso, si ritiene che gli uffici possano considerare non sussistente il presupposto dell’autonoma organizzazione e, quindi, non coltivare il contenzioso nei casi in cui l’artista o il professionista possa considerarsi “contribuente minimo” ai sensi del citato comma 96 dell’articolo 1 della legge finanziaria 2008, a prescindere dalla circostanza che lo stesso si sia avvalso o meno del relativo regime fiscale. Resta inteso che il regime dei “minimi” ovviamente non esaurisce le ipotesi caratterizzate dall’assenza di autonoma organizzazione, la quale deve essere valutata caso per caso dagli uffici, sulla base dei criteri enunciati nella presente circolare, anche in presenza di parametri che esprimano valori superiore a quelli utilizzati per la definizione dei “contribuenti minimi”. Questi ultimi parametri possono essere utilizzati dagli uffici anche per i periodi di imposta antecedenti all’applicazione del nuovo regime dei “contribuenti minimi”. 5.5 Modalità per l’individuazione dell’autonoma organizzazione Premesso che l’onere della prova ricade generalmente sul contribuente – come illustrato al successivo punto 10 – ai fini dell’individuazione degli elementi che connotano l’autonoma organizzazione si forniscono le seguenti istruzioni. In primo luogo, gli uffici esaminano le dichiarazioni, con specifico riguardo al contenuto del quadro concernente i redditi di lavoro autonomo, al fine di verificare la fondatezza della richiesta del contribuente e di contrastare, ricorrendone i presupposti, le eccezioni sollevate in giudizio circa la mancanza del requisito dell’autonoma organizzazione. Come già accennato al punto 5.3, la Corte di Cassazione ha rilevato come la circostanza che il contribuente abbia compilato il quadro relativo ai redditi di lavoro autonomo, con indicazione di costi afferenti l’attività svolta, può fornire elementi utili ai fini della valutazione dell’esistenza dell’autonoma organizzazione (cfr. Cass., n. 1414 del 23 gennaio 2008). Vanno, inoltre, esaminati i modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore, che integrano la dichiarazione dei redditi. Vanno analizzati, in particolare, i quadri relativi al personale addetto all’attività, all’unità locale destinata all’esercizio dell’attività e ai beni strumentali. Ulteriori elementi utili potrebbero essere desunti,


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 869

Atti e interventi

in caso di insufficienza delle informazioni ricavate dalle dichiarazioni, da altre informazioni presenti nel sistema informativo dell’agenzia e nella documentazione di cui dispone l’ufficio, comprese le informazioni emerse nell’attività di controllo a carico del ricorrente o anche di terzi. Ad esempio, si possono effettuare ricerche attraverso l’analisi dei contratti registrati. Per quanto concerne l’utilizzazione di beni strumentali, va, infine, valutata l’opportunità di richiedere l’esame del registro dei beni ammortizzabili o, in mancanza, del registro delle fatture d’acquisto o del registro cronologico dei componenti di reddito e delle movimentazioni finanziarie. È, infine, necessario che un tale accertamento sia compiuto con riferimento ai singoli periodi d’imposta controversi, atteso che il professionista o l’artista può ovviamente modificare nel tempo la struttura organizzativa di cui si avvale. 6. Professionisti iscritti ad un albo professionale La sentenza n. 3675 del 16 febbraio 2007 ha escluso che l’iscrizione ad un albo professionale valga di per sé ad escludere il professionista dall’applicazione dell’Irap, atteso che l’attività è da ritenersi imponibile se presenta «un contesto organizzativo esterno anche minimo, derivante dall’impiego di capitali e/o di lavoro altrui, che potenzi l’attività intellettuale del singolo». Deve essere sempre valutata, dunque, l’esistenza effettiva dell’autonoma organizzazione sulla base dei criteri desumibili dalle sentenze della Cassazione, contestando in ogni caso le eventuali richieste di esclusione dall’applicazione dell’Irap aprioristicamente fondate sull’esercizio di un’attività che presuppone l’iscrizione ad un albo professionale. 7. Attività d’impresa La Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 156 del 2001, precisa che «l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa». La sentenza n. 3678 del 2007 della Cassazione evidenzia, tra l’altro, che «la giurisprudenza elaborata negli ultimi anni dai giudici di secondo grado ha determinato una drastica contrazione dell’area di inapplicabilità dell’Irap nei primi tempi estesa dalle giurisdizioni di primo grado anche a categorie ontologicamente estranee a quelle di lavoro autonomo, uniche incise dal dictum della Consulta, quali gli agenti di commercio (rientranti nel paradigma dell’art. 2195 del codice civile richiamato dall’art. 51 del T.U.I.R.) e le società di persone minime coinvolte nella diversa vicenda inerente all’Ilor».

4 2008 869

È dunque «pacifico che i redditi derivanti dallo svolgimento dell’attività di agente o rappresentante di commercio, riferendosi ad un’attività commerciale secondo la previsione dell’art. 2195 c.c., sono per questa sola circostanza qualificabili come redditi di impresa» (Cass., n. 7899 del 30 marzo 2007); conseguentemente l’autonoma organizzazione risulta connaturata all’attività di agente o rappresentante di commercio. Per tutte le attività d’impresa «[...] (nelle quali vanno fiscalmente inquadrati anche i soggetti che operano in contabilità semplificata redigendo il Quadro G della dichiarazione dei redditi) il requisito dell’autonoma organizzazione è intrinseco alla natura stessa dell’attività svolta (art. 2082 del codice civile) e dunque sussiste sempre il presupposto impositivo idoneo a produrre VAP tassabile. A maggior ragione per le società per le quali l’attività esercitata [...] costituisce presupposto di imposta (art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997)» (Cass. n. 3678 del 2007). Il principio è stato ulteriormente ribadito dalla sentenza n. 13811 del 13 giugno 2007. Al riguardo si ribadisce che la produzione di reddito d’impresa implica l’assoggettamento ad Irap. Tale posizione va confermata anche a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 1, comma 104, della legge finanziaria 2008, secondo cui «i contribuenti minimi sono esenti dall’imposta regionale sulle attività produttive di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446». Per effetto di tale disposizione, i contribuenti minimi – sia esercenti arti e professioni che attività d’impresa – che, a partire dal 1 gennaio 2008 si avvalgono del regime semplificato di cui ai commi 96 e seguenti dell’articolo 1 della finanziaria 2008, sono esenti dall’Irap. Trattandosi di un’esenzione, i contribuenti minimi che producono reddito d’impresa e che optano per il regime fiscale ordinario sono soggetti passivi Irap. La circolare n. 7/E del 28 gennaio 2008 ha, infatti, chiarito che «l’esenzione costituisce, dunque, una delle caratteristiche di questo regime, volto alla semplificazione degli adempimenti fiscali. L’esenzione non opera, pertanto, quando i contribuenti optano per il regime ordinario ai fini dell’imposta sul valore aggiunto e delle imposte sul reddito, con la conseguenza che gli stessi, qualora in ragione delle caratteristiche dell’attività svolta, verificabili di volta in volta dagli organi preposti al controllo, siano soggetti passivi Irap, saranno tenuti ai relativi adempimenti». Per quanto riguarda specificamente gli agenti di commercio, occorre precisare ulteriormente che gli stessi non possono essere assimilati ai lavoratori


16

Atti e interv.qxd

870

9-04-2009

11:56

Pagina 870

GiustiziaTributaria

4 2008

autonomi ai fini Irap, anche a seguito dell’esame delle più recenti pronunce della Suprema Corte. L’ordinanza n. 2702 del 5 febbraio 2008, nel confermare la pronuncia della Commissione tributaria regionale che aveva ritenuto legittima l’istanza di rimborso presentata da un agente di commercio rilevando «il difetto, in concreto, di una organizzazione autonoma [...]», non ha inteso affermare il principio che i titolari di reddito d’impresa non dotati di autonoma organizzazione siano esclusi dall’ambito applicativo dell’Irap, in quanto, nel caso di specie, la questione non aveva formato oggetto di specifica censura. Infatti la Suprema Corte ha osservato che non è stata mossa alcuna contestazione in merito alla «qualificazione del reddito prodotto dal contribuente e alla sua qualificazione come provento di lavoro autonomo, diverso da quello d’impresa». Successivamente, con la sentenza n. 7734 del 21 marzo 2008, è stato evidenziato che, trattandosi di una figura «di discussa qualificazione giuridica, sembra subire la conformazione del concreto atteggiarsi dell’attività, tra i poli estremi di quella autonoma e di quella dell’impresa». Nello stesso senso si pone la sentenza n. 8177 del 2 aprile 2007, che con riferimento ad un promotore finanziario afferma che l’attività non costituisce necessariamente esercizio d’impresa e che il giudice di merito deve accertare caso per caso se l’operatore disponga di una struttura organizzata che giustifichi l’imposta. In senso contrario si pongono altre pronunce. In particolare, la già citata sentenza n. 7899 del 2007 afferma che il requisito dell’autonoma organizzazione è presupposto necessario per l’applicazione dell’Irap agli esercenti arti e professioni, mentre i titolari di reddito d’impresa sono di per se stessi assoggettati all’Irap. Va tenuto presente che la Cassazione ha in più occasioni qualificato gli agenti di commercio come imprenditori commerciali ai sensi degli articoli 2082 e 2195 del codice civile. Con sentenza della I sezione civile n. 9102 del 6 giugno 2003, rifacendosi a propri orientamenti consolidati, la Suprema Corte ha affermato che gli elementi identificativi dell’impresa commerciale, ai sensi dell’articolo 2082 del codice civile, sono la professionalità e l’organizzazione, «intese come svolgimento abituale e continuo dell’attività e sistematica aggregazione di mezzi materiali e immateriali, al di là della scarsezza dei beni predisposti, tanto più quando l’attività, come quella dell’agente di commercio, non necessiti di mezzi materiali e personali rilevanti (Cass. 5589/1983; 6395/1981; 6151/1978)».

La sentenza n. 10673 dell’11 ottobre 1991 della III sezione civile chiarisce che l’attività dell’agente assicuratore rientra, al pari delle altre attività indicate dall’articolo 2195 del codice civile, tra quelle commerciali, essendo caratterizzata, come quella delle altre categorie degli agenti di commercio, dall’esercizio professionale di una attività economica organizzata in una impresa ausiliaria e riconducibile, quindi, alla categoria delle attività imprenditoriali, e non a quella delle professioni intellettuali. Su questa scia si colloca anche la risoluzione della scrivente n. 254/E del 14 settembre 2007, che, in relazione alla figura del promotore finanziario, ha affermato che «il requisito dell’organizzazione è connaturato alla nozione stessa di impresa, come del resto può evincersi dal contenuto stesso della richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 2001, la quale ipotizza solo con riferimento alle prestazioni professionali che l’attività possa essere svolta in assenza di organizzazione di capitali, e non anche in relazione alla attività d’impresa». In giudizio va quindi sostenuta la natura imprenditoriale dell’attività degli agenti di commercio e dei promotori finanziari non legati da un rapporto di lavoro dipendente e, di conseguenza, l’assoggettamento all’Irap. In subordine occorre comunque dedurre, così come per i lavoratori autonomi, in ordine all’esistenza dell’autonoma organizzazione. 8. Esercizio in forma associata dell’attività Nel caso di esercizio in forma associata della professione, i giudici di legittimità hanno evidenziato che è «da presumere che l’associazione, atteso lo scopo della medesima, sia dotata di strutture e mezzi (immobili, mobili, arredamenti, macchinari, servizi, collaboratori), ancorché non di particolare onere economico» e che «è da ritenere che lo scopo della pattuizione dell’esercizio associato di una professione intellettuale sia anche quello di avvalersi della reciproca collaborazione e competenza, ovvero anche della sostituibilità nell’espletamento di alcune incombenze (Cass., 6636/1987), con l’effetto di escludere l’autonomia organizzativa meramente soggettiva e personale di qualsiasi esercente una professione intellettuale, e di configurare invece quell’autonoma organizzazione oggettiva dell’attività abitualmente esercitata (D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, comma 1; Corte Cost., 156/2001) idonea a far presumere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio, bensì di detta organizzazione asso-


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 871

Atti e interventi

ciativa, costituita proprio per potenziare la produzione di ricchezza (VAP) a vantaggio degli associati, presupposto dell’Irap» (Cass., n. 13570 dell’11 giugno 2007). Da ultimo con ordinanza n. 2715 del 5 febbraio 2008 la Corte di Cassazione ha precisato che gli studi associati «sono soggetti ad Irap quando l’esercizio in comune della attività professionale pur non configurando un centro di interessi dotato di autonomia funzionale (stante il carattere strettamente personale e fiduciario dell’esercizio delle professioni) dia luogo ad un insieme di strutture (immobili, mobili, macchinari, servizi, collaboratori) ancorché non di particolare onere economico, di guisa che il reddito da sottoporre ad Irap sia stato almeno potenziato e derivato dalla struttura, e non derivi dal solo lavoro professionale dei singoli (Cass. 13570/2007)». Più in generale, si ricorda che, ai sensi dell’articolo 2 del D.Lgs. n. 446 del 1997, «L’attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto di imposta». 9. L’assenza di autonoma organizzazione può essere fatta valere solo nel ricorso La deduzione secondo cui l’imposta non è dovuta per difetto di autonoma organizzazione deve essere contenuta nel ricorso in primo grado e non può essere introdotta in giudizio successivamente. L’articolo 24, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, prevede che l’integrazione dei motivi del ricorso è consentita solo quando sia «resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione» (in tal senso, Cass., n. 19000 del 10 settembre 2007; n. 24970 del 25 novembre 2005; n. 6416 del 22 aprile 2003). Ne consegue, pertanto, l’impossibilità da parte del contribuente di modificare la domanda mediante la proposizione di motivi integrativi di quelli già esposti nel ricorso introduttivo del giudizio. A maggior ragione la deduzione dell’assenza di autonoma organizzazione costituisce domanda nuova nel giudizio di appello, improponibile ai sensi dell’articolo 57 del D.Lgs. n. 546 del 1992. In proposito, con la sentenza n. 3681 del 16 febbraio 2007 la Corte di Cassazione ha affermato che «non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio». In particolare, «come questa Corte ha più volte chiarito (cfr. la sentenza n. 10864 del 2005), si ha domanda nuova, improponibile nel giudizio d’appello ex art. 57 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n.

4 2008 871

546 [...], quando il contribuente, nell’atto di appello, introduce, al fine di ottenere l’eliminazione [...] dell’atto impugnato, una causa petendi diversa, fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, sicché risulti inserito nel processo un nuovo tema di indagine». Non trattandosi di un’eccezione in senso stretto, la stessa è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio. 10. Onere della prova La sentenza n. 3678 del 2007 ribadisce un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui «costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta allegare la prova dell’assenza delle condizioni sopraelencate». (Cfr. anche Cass., n. 3673, 3676, 3677, 3680 e 5012 del 2007; 1414 del 2008). In altre parole, sul contribuente che agisce per il rimborso ricade l’onere di descrivere l’organizzazione della sua attività e provare l’assenza dei presupposti per l’assoggettamento all’imposta, in coerenza con le scritture contabili tenute e con le dichiarazioni presentate. Per documentare le proprie affermazioni il contribuente ha l’onere di esibire copia delle dette scritture contabili. A titolo di esempio, il contribuente che svolge un’attività artistica, dichiarando di non avvalersi di collaboratori, agenti o procuratori, ha l’onere di dimostrare come concretamente organizzi la sua attività e i molteplici rapporti con i suoi interlocutori. Spetta all’ufficio evidenziare l’eventuale mancata dimostrazione da parte del contribuente dell’assenza di autonoma organizzazione; in tal caso peraltro non viene introdotta in giudizio un’eccezione in senso proprio, ma una mera specificazione dei presupposti per l’assoggettamento all’imposta, considerato che, in presenza di richiesta di rimborso, spetta al contribuente dimostrare i requisiti necessari per ottenerlo e al giudice accertarne la sussistenza prima di accogliere la domanda del contribuente. All’ufficio è quindi consentito introdurre anche nel giudizio di appello gli elementi di cui è in possesso per contestare l’assunto del contribuente del difetto di autonoma organizzazione. Peraltro, la preclusione della possibilità di sollevare eccezioni nuove in appello, di cui all’articolo 57 del D.Lgs. n. 546 del 1992, non comporta l’impossibilità di illustrare con nuovi argomenti eccezioni già formulate, laddove non venga violato il divieto di ampliamento in appello del thema decidendum, al rispetto del quale è funzionale il limite


16

Atti e interv.qxd

872

9-04-2009

11:56

Pagina 872

GiustiziaTributaria

4 2008

imposto dalla legge (cfr. Cass., n. 8995 del 16 aprile 2007 e 15646 del 12 agosto 2004). Il processo tributario ha natura dispositiva quanto all’allegazione dei fatti e pertanto spetta esclusivamente alle parti la delimitazione del thema decidendum della controversia. Residua in capo al giudice tributario la possibilità di disporre d’ufficio di tutti i mezzi istruttori che ritiene necessari per una piena comprensione della materia del contendere, nei limiti dei fatti dedotti dalle parti. L’esercizio di tali poteri costituisce una facoltà discrezionale, che ha una valenza meramente integrativa dell’onere probatorio delle parti (cfr. Cass., sez. V, 28 ottobre 2003, n. 16161; 9 maggio 2003, n. 7129) e pertanto non può costituire un rimedio alle lacune probatorie del giudizio né tanto meno espediente per una rideterminazione del thema decidendum della controversia (cfr. Cass., 24 novembre 2000, n. 15214; 15 giugno 2001, n. 8134; 4 maggio 2004, n. 8439; 11 gennaio 2006, n. 366; 20 gennaio 2006, n. 1134). Tali considerazioni evidenziano ancora di più quanto sia importante nella gestione delle controversie di cui si tratta che gli uffici producano in giudizio tutti gli elementi rilevanti in ordine alla sussistenza dell’autonoma organizzazione e provvedano, se del caso, a contestare i fatti dedotti dalla controparte, in modo da offrire quel supporto fattuale e probatorio che consenta al giudice di decidere o che lo legittimi a esercitare i poteri istruttori di cui dispone. 11. Effetti preclusivi del condono L’adesione del contribuente ad uno dei diversi condoni previsti dalla legge n. 289 del 2002 è ostativa alla prosecuzione del giudizio per il rimborso dell’Irap che si assume indebitamente versata. Con la sentenza n. 3682 del 16 febbraio 2007 viene confermato l’orientamento (in particolare, cfr. Cass., n. 195 del 10 gennaio 2004) secondo cui il condono «pone il contribuente di fronte ad una libera scelta fra trattamenti distinti e che non si intersecano fra loro: o coltivare la controversia nei modi ordinari, conseguendo, ove del caso, i rimborsi di somme indebitamente pagate, oppure corrispondere quanto dovuto per la definizione agevolata ma senza possibilità di riflessi o interferenze con quanto già eventualmente corrisposto sulla linea del procedimento ordinario» [...]. «È errata l’affermazione che l’utilizzo della sanatoria non preclude ex lege istanze di rimborso di

imposte inapplicabili per assenza di presupposto impositivo, poiché il condono ha, tra l’altro, proprio lo scopo di definire “transattivamente” la controversia sulla esistenza [...] di tale presupposto». Risulta così confermata la posizione assunta dalla scrivente al riguardo con le circolari n. 7/E e n. 18/E del 2003. La relativa questione può essere rilevata d’ufficio dal giudice (Cass., n. 8178 del 2 aprile 2007; n. 25240 del 3 dicembre 2007 e n. 7729 del 21 marzo 2008) e, quindi, l’ufficio può sollecitarne l’esame in ogni stato e grado del giudizio. 12. Conclusioni Preso atto dell’orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione, non è ulteriormente sostenibile la tesi interpretativa dell’assoggettamento generalizzato ad Irap degli esercenti arti e professioni. Si intendono quindi superate le istruzioni precedentemente fornite in contrasto con l’orientamento della Suprema Corte. Sulla scorta delle indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione, gli uffici devono fondare la propria linea difensiva, oltre che su ogni altra questione sostenibile nello specifico caso, in particolare sull’esistenza di fattori organizzativi utilizzati nell’esercizio dell’attività stessa, che confermino l’autonoma organizzazione, con conseguente assoggettamento ad Irap, fermo restando, come ricordato al punto 10, che è onere del ricorrente inserire fra i motivi del ricorso e provare la carenza del requisito dell’autonoma organizzazione. L’assolvimento di tale onere probatorio, in modo puntuale ed esaustivo, costituisce elemento fondamentale ai fini dell’esito della controversia. Ciò posto, si invitano gli uffici a riesaminare caso per caso, secondo i criteri esposti nella presente circolare, il contenzioso pendente concernente la materia in esame e, nei casi in cui si riscontri l’assenza dell’autonoma organizzazione, a provvedere – se del caso previa esecuzione del rimborso richiesto – al relativo abbandono secondo le modalità di rito. L’ufficio, nel chiedere che venga dichiarata la cessazione della materia del contendere, prende motivatamente posizione anche sulle spese di giudizio e fornisce al giudice elementi che possano giustificare la compensazione delle spese. Le direzioni regionali vigileranno affinché le istruzioni fornite e i principi enunciati con la presente circolare vengano puntualmente osservati dagli uffici.


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 873

Atti e interventi

4 2008 873

SOCIETÀ EX MUNICIPALIZZATE: IL RECUPERO DEGLI AIUTI DI STATO TROVA GIUSTIFICAZIONE NEGLI ARTICOLI 3 E 117 DELLA COSTITUZIONE di Clemente Ciampolillo

Come era logico attendersi1, la Consulta2 acclara - senza troppe remore - la piena legittimità delle procedure d’urgenza adottate dal legislatore nazionale per ottemperare agli ordini comunitari di recupero di aiuti di Stato concessi, nella prima metà degli anni ‘90, alle società cd. ex municipalizzate3 per l’esercizio in outsourcing di servizi pubblici essenziali locali. Sebbene l’ordinanza de qua si limiti a dichiarare la «manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale» delle procedure d’urgenza adottate dal nostro governo, nel 2007, a seguito dell’ennesima condanna per inerzia pronunciata dalla Corte di Giustizia CE contro il nostro Paese4, essa si presenta di assoluto interesse e fornisce

1 Si rimanda alle considerazioni espresse nella precedente nota (supra, 720) a commento dell’ordinanza di rimessione della Comm. trib. prov. Firenze del 17 dicembre 2007. 2 Corte cost., 26 gennaio-6 febbraio 2009, ordinanza n. 36. 3 Ai sensi del combinato disposto degli artt. 66, comma 14, D.L. 30 agosto 1993, n. 331, conv. con modificaz. dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, e 3, comma 70, della legge 28 dicembre 1995, n. 549. 4 Corte di Giustizia CE, sent. 1 giugno 2006, causa C-207/05. La condanna per inadempimento era stata promossa dalla Commissione europea dopo i (vani) solleciti che l’istituzione comunitaria aveva comunicato al nostro Paese per l’attuazione della sua decisione cd. “negativa” del 5 giugno 2002. 5 Come è stato ben ricostruito dai giudici costituzionali, le esenzioni fiscali triennali che il nostro Stato aveva concesso alle S.p.A. costituite ex legge 8 giugno 1990, n. 142, erano state qualificate come “aiuti di Stato” ai sensi dell’art. 87, paragrafo 1 del Trattato CE dalla decisione della Commissione europea n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002. Il combinato disposto degli artt. 14, comma 3 del Regolamento del Consiglio CE del 22 marzo 1999, n. 659/1999 («il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dello Stato inte-

insegnamenti che vanno al di là delle disposizioni di legge sulle quali si è pronunciata5. Anzitutto, l’ordinanza della Consulta assume estrema importanza in un sistema giuridico come il nostro, caratterizzato dalla mancanza di un’autorità nazionale cui sia devoluta la competenza (esclusiva) a coordinare il nostro ordinamento giuridico con gli obblighi derivanti dall’appartenenza alle comunità internazionali6, dall’estrema varietà di aiuti concessi nel corso degli anni ai soggetti beneficiari più disparati, nonché – e di riflesso – dalle diverse modalità che il nostro legislatore ha adottato, di volta in volta, per realizzare la restitutio in integrum e il ripristino dello status quo ante7. In tale contesto, sembra evidente che una pronun-

ressato») e 249, par. 4 del Trattato CE («la decisione della Commissione europea è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati») avrebbe dovuto imporre al nostro governo un’attuazione immediata – ed incondizionata – dell’ordine di recupero degli aiuti concessi illegalmente, avvalendosi degli usuali strumenti normativi previsti dal sistema giuridico nazionale che, nel caso concreto e dopo diverse leggi rimaste di fatto inapplicate, si erano concretizzati nell’emanazione di apposite ordinanze-ingiunzioni disciplinate dal D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, conv. con modificaz. nella legge 6 aprile 2007, n. 46. Nonostante la condanna per inadempimento pronunciata dai giudici comunitari nel giugno 2006, detto recupero è avvenuto comunque a rilento per il comportamento affatto univoco avuto dalla nostra giurisprudenza di merito, di volta in volta investita delle più disperate contestazioni promosse dalle società beneficiarie. In tal senso, non sembra aver avuto effetto neanche l’introduzione, nel nostro diritto processual-tributario, dell’art. 47-bis, D.P.R. 31 dicembre 1992, n. 546 (rubricato Sospensione degli atti volti al recupero di aiuti di Stato e definizione delle relative controversie) ad opera dell’art. 2 del D.L. 8 aprile 2008, n. 59, conv. in legge 6 giugno 2008, n. 101, anche dopo il provvedimento

d’urgenza del 2007, infatti, il nostro legislatore, ha dovuto adottare l’ennesimo decreto legge (art. 24, D.L. 29 novembre 2008, n. 185) per tentare di fornire un minimo di credibilità di fronte agli impegni comunitari e accelerare il recupero presso le società ex municipalizzate. 6 In materia di aiuti di Stato, si rimanda a: DEL FEDERICO, Recupero degli aiuti di Stato fiscali, procedure applicabili e principi di equivalenza ed effettività, in questa rivista, 2008, 1, 199 ss., per approfondimenti circa la mancata realizzazione di un sistema normativo organico nazionale rivolto ad assicurare il rispetto delle decisioni comunitarie di recupero. Recenti studi (cfr. D’AMARIO-D’ALBERTI, Study on the renforcement of State aid law at national level, Part. II. Recovery of unlawful State aid: enforcement of negative Commission decisions by the member States, coordinated by Allen & Overy, 2006) hanno appurato che soltanto alcuni Paesi europei (es. Francia, con il suo Ministero del Tesoro, o Germania, attraverso il Ministero Federale delle Finanze) sono dotati di un ente centrale in grado di controllare e sovraintendere il riottenimento degli aiuti. 7 Per un’approfondita panoramica sulle procedure di restituzione di aiuti di Stato adottate dal nostro governo negli ultimo anni: AA.VV., Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di Salvini, 2007, 397 ss.


16

Atti e interv.qxd

874

9-04-2009

11:56

Pagina 874

GiustiziaTributaria

4 2008

cia della Corte che avesse, in qualsiasi modo, ravvisato lesioni di precetti costituzionali in una procedura di recupero la cui fonte è comunque riconducibile al diritto internazionale (dal Trattato CE alle sue fonti derivate, in primis il regolamento n. 659/1999) avrebbe creato problemi immensi al nostro Paese. In particolare, la problematica si sarebbe potuta estendere, a tappeto, su qualsiasi altra legge adottata dal nostro Stato per il recupero di aiuti di Stato dichiarati incompatibili con il mercato comune (purtroppo sempre leggi ad hoc, senza regole pre-stabilite neanche in relazione al Ministero responsabile di attuare l’ordine comunitario), determinando conseguenze estremamente negative anche al di fuori delle azioni di recupero instaurate nei confronti delle società cd. ex municipalizzate costituite ai sensi della legge 142/1990. In realtà, le argomentazioni addotte a sostegno dell’ordinanza di rigetto si presentano estremamente sottili, non entrando minimamente nel merito della (nota) disquisizione sulla “natura” – tributaria oppure squisitamente civilistica – dell’obbligazione scaturente dal provvedimento di recupero8, sollevata anche in tale controversia dall’avvocatura generale dello Stato, ma configurando i provvedimenti nazionali attuativi degli ordini comunitari (le leggi ordinarie n. 62/2005 e n. 266/2005, nonché il D.L. n. 46/2007) come strumenti di fonte sovra-nazionale, in diretta applicazione di quel principio cd. “del primato” del diritto comunitario fortemente sostenute dalla miglio-

8 Cfr., ad es., FANTOZZI, Problemi di adeguamento dell’ordinamento fiscale nazionale alle sentenze della Corte di Giustizia e alle decisioni della Commissione CE, in Rass. Trib., 2003, 6-bis, 2266 ss.; RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi comunitari in materia di aiuti di Stato, in Rass. Trib., 2003, 1-bis, 330 ss. 9 Cfr., per tutti, TESAURO, Processo tributario e aiuti di Stato, in Corr. Trib., 2007, 45, 3665 ss. In estrema sintesi, il postulato afferma che le norme di rango sovranazionale devono considerarsi gerarchicamente sovra-ordinate a quelle di diritto interno degli Stati membri e prevalgono su qualsiasi altra norma collidente, di ogni ordine e grado, anteriore o successiva alla prima. Il principio ha trovato accoglimento anche presso la nostra Corte costituzionale (cfr., ad es., la sentenza 389/1989) ed espresso riconoscimento nell’art. 117, comma 1

re dottrina9. Con il corollario, immediato e sostanziale, di una immediata disapplicazione delle norme interne incompatibili. In secondo luogo, la Corte Costituzionale abbraccia in toto alcune considerazioni che proprio il redattore della sentenza de qua, prof. Gallo, aveva espresso in un suo scritto del 200310: anche prima di una pronuncia espressa della Commissione europea sulla compatibilità, o meno, di un determinato “regime di aiuti”11 con il mercato comune, il diritto comunitario – e, specificamente, la normativa sugli “aiuti concessi dagli Stati” contenuta nel titolo VI del Trattato CE – impone anche al singolo operatore (e non soltanto al giudice nazionale e all’amministrazione dello Stato membro) il potere/dovere di accertare il rispetto della procedura comunitaria prevista per la concessione degli aiuti di Stato, con conseguente obbligo di astenersi dalla fruizione di benefici accordati dalle autorità nazionali, allorquando riconducibili alla nozione comunitaria di cui ai paragrafi 1 e 2 dell’art. 87 del Trattato. Tale interpretazione, comunque non del tutto pacifica12, troverebbe la propria fonte normativa nell’art. 88, paragrafo 3 del Trattato CE (e nel conseguente art. 3 del regolamento attuativo n. 659/1999) e nel cd. obbligo di standstill ivi statuito che, in parole povere, si dovrebbe tradurre in un divieto generalizzato – direttamente applicabile a qualunque soggetto – di dare esecuzione all’aiuto fino alla decisione (positiva o negativa che sia) della Commissione europea13.

dell’attuale Carta costituzionale. 10 GALLO, Inosservanza delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato e sue conseguenze nell’ordinamento fiscale interno, in Rass. Trib., 2003, 6-bis, 2276 ss. Secondo il professore, qualora lo Stato medesimo non abbia disposto formalmente la sospensione di un atto normativo configurabile come “aiuto di Stato”, il singolo operatore economico interno deve, al pari dell’organo giurisdizionale eventualmente adito e della pubblica amministrazione, operare una valutazione autonoma per stabilire se la misura di diritto interno sia riconducibile o meno alla nozione comunitaria statuita nel’art. 87 del Trattato CE e, semmai detta verifica desse esito positivo, astenersi dalla sua applicazione medio tempore, attendendo la decisione dell’unica istituzione cui è devoluta la valutazione di tale misura (la Commissione europea), anche ai fini di una sua eventuale ammissibilità in quanto rientrante

nelle deroghe discrezionali del paragrafo 3 dello stesso articolo 87. 11 O “aiuti individuali”, nelle definizioni fornite dall’art. 1 del regolamento CE n. 659/1999. 12 Anche nel mio precedente intervento a commento dell’ordinanza di rimessione della Comm. trib. prov. di Firenze avevo citato i contenuti della sentenza della Corte di Giustizia CE dell’11 luglio 1996, causa C-39/94, Sfei (comunque precedente). Per approfondimenti sulle due teorie, si rimanda ai contenuti di tale contributo. 13 Si ricorda che l’art. 88, paragrafo 1 del Trattato CE attribuisce in modo espresso alla Commissione europea il compito di esaminare e monitorare le misure di aiuti di Stato a favore delle imprese. Per ulteriori approfondimenti: FANTOZZI, Problemi di adeguamento dell’ordinamento fiscale nazionale alle sentenze della Corte di Giustizia e alle decisioni della Commissione CE, in Rass. Trib., 2003, 6-bis.


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 875

Atti e interventi

Su questa piattaforma interpretativa e sulla combinata applicazione del principio del primato del diritto comunitario (da un lato) e della responsabilizzazione (anche) del singolo operatore economico in materia di aiuti di Stato (dall’altro), la Corte opera la comparazione delle disposizioni normative ad hoc introdotte dal legislatore nazionale per il recupero degli aiuti concessi (in modo illegale, id est senza il rispetto della procedura comunitaria) alle società cd. ex municipalizzate, rispetto ai precetti costituzionali. Il giudizio è sintetico, ma estremamente chiaro: nel momento in cui l’esenzione fiscale triennale è stata concessa dal nostro Paese ad alcuni operatori in sfregio ad altri, creando quindi una lesione dei prin-

4 2008 875

cipi di libera circolazione dei capitali e di libera concorrenza che sono tra i cardini del Trattato stesso della CE (art. 3), era proprio la normativa agevolativa del 1993 a determinare una violazione dell’art. 3 della Costituzione e del principio fondamentale di eguaglianza. I provvedimenti di recupero, quindi, non soltanto si presentano ossequiosi degli articoli 3 e 117 della Costituzione, ma parimenti non scalfiscono gli ulteriori precetti scaturenti dagli artt. 53 e 97 della stessa Carta, non potendosi ravvisare come “nuove” imposte in grado di non consentire al contribuente di “programmare le proprie scelte di investimenti”, configurandosi quali semplici strumenti di riscossione di imposte già esistenti, dovute e non assolte a tempo debito.

LA FASE DI CHIUSURA DEL GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA TRIBUTARIA: VERIFICA DELL’OPERATO DEL COMMISSARIO AD ACTA E POTERI DELLA PARTE di Marta Proietti

Tra le molteplici questioni giuridiche nate dall’introduzione del giudizio di ottemperanza in ambito tributario ad opera dell’art. 70 del D.Lgs. 546 del 19921, particolare interesse suscita quella dei poteri (e dunque della tutela) spettanti alla parte di fronte all’inerzia del commissario ad acta nominato dal Collegio ai sensi del comma 7 del suddetto articolo. È il caso in cui il commissario non provveda ad emettere e ad eseguire i provvedimenti necessari per l’ottemperanza in luogo dell’ufficio ed in particolare non dia corso, laddove

1 Sul tema, tra gli altri, BELLÈ, Riflessioni sul giudizio di ottemperanza, in Riv. Dir. Trib., 1998, II, 219 ss.; BASILAVECCHIA, Il giudizio di ottemperanza, in AA.VV., Il processo tributario in Giur. Sist. di Dir. Trib., diretta da Tesauro, 1998, 929 ss.; FABBROCINI, Profili applicativi del giudizio di ottemperanza nel processo tributario, in Rass. Trib., 2000, 1455 ss.; PESSINA-PITTALUGA, Il giudizio di ottemperanza, in Fisco, 2004, 4329 ss.; DI GIACOMO, Il giudizio di ottemperanza: disciplina dell’istituto nel giudizio amministrativo e nel giudizio tributario, in Fisco, 2007, 6154 ss. Per una completa bibliografia RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 332-333. 2 Tale procedura è prevista al comma 2 dell’art. 14, rubricato «Esecuzione

l’amministrazione sia stata condannata al rimborso di somme di denaro indebitamente riscosse, alla procedura del cd. “pagamento in conto sospeso”2. Il legislatore dell’art. 70, pur sforzandosi di prevedere una disciplina dettagliata, nella consapevolezza peraltro delle lacune che da sempre hanno caratterizzato il giudizio di ottemperanza in ambito amministrativo, non affronta espressamente la questione dei poteri/doveri del commissario ad acta né dà conto del rapporto intercorrente tra le due fasi del giudizio di ottemperanza stesso (la

forzata nei confronti di pubbliche amministrazioni», del D.L. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30, nel testo modificato da ultimo dall’art. 44 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito a sua volta dalla L. 24 novembre 2003, n. 326. Il primo comma di detto articolo statuisce che «le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo del pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla

notifica di atto di precetto»; il comma 2 che «nell’ambito delle amministrazioni dello Stato, nei casi previsti dal comma 1, il dirigente responsabile della spesa, in assenza di disponibilità finanziarie nel pertinente capitolo, dispone il pagamento mediante emissione di uno speciale ordine di pagamento rivolto all’istituto tesoriere, da regolare in conto sospeso. La reintegrazione dei capitoli avviene a carico del fondo previsto dall’articolo 7 della legge 5 agosto 1978, n. 468, in deroga alle prescrizioni dell’ultimo comma. Con decreto del Ministro del Tesoro sono determinate le modalità di emissione nonché le caratteristiche dello speciale ordine di pagamento previsto dal presente comma».


16

Atti e interv.qxd

876

9-04-2009

11:56

Pagina 876

GiustiziaTributaria

4 2008

prima, cosiddetta di cognizione e la seconda, cosiddetta attuativa e di controllo3), limitandosi a prevedere ai commi 7 e 8 dell’articolo in commento che «il Collegio sentite le parti in contraddittorio ed acquisita la documentazione necessaria, adotta con sentenza i provvedimenti indispensabili per l’ottemperanza in luogo dell’ufficio del Ministero delle Finanze o dell’ente locale che li ha omessi e nelle forme amministrative per essi prescritti dalla legge, attenendosi agli obblighi risultanti espressamente dal dispositivo della sentenza e tenuto conto della relativa motivazione»; che «il Collegio, se lo ritiene opportuno, può delegare un proprio componente o nominare un commissario al quale fissa un termine congruo per i necessari provvedimenti attuativi e determina il compenso a lui spettante secondo le disposizioni della legge 8 luglio 1980, n. 319, e successive modificazioni»; infine, che «il Collegio, eseguiti i provvedimenti di cui al comma precedente e preso atto di quelli emanati ed eseguiti dal componente delegato o dal commissario nominato, dichiara chiuso il procedimento con ordinanza». Non è dunque chiarito in che modo, in che misura e di fronte a chi sia ammesso un controllo sugli atti del commissario4. Ciò lascia aperta la strada dell’interpretazione, in particolare in ordine a quale possa essere la reazione di fronte ad un commissario che non provveda a dare esecuzione alla sentenza, per il qual compito è stato nominato. Due sono i rilievi che devono precedere una riflessione in merito: in primo luogo un chiarimento circa il ruolo svolto dalla fase di attuazione e controllo nell’ambito del giudizio di ottemperanza delineato dall’art. 70, e dunque una valutazione di quali poteri permangono in capo al Collegio una volta delegato per l’esecuzione un suo componente ovvero un commissario; in secondo luogo, un’analisi di quali poteri spettino in tale fase alla parte che abbia promosso l’ottemperanza e in che modo siano azionabili.

3 Così RANDAZZO, Osservazioni sul giudizio di ottemperanza in materia tributaria, in Riv. Dir. Trib., 1999, I, 904-907 e 917-918, il quale pone l’accento sull’articolazione del giudizio di ottemperanza in due distinte fasi, la prima delle quali, cui sembrerebbe possibile assegnare appunto una natura cognitiva (stante la sua assimilabilità alla disciplina processul-civilistica dell’opposizione agli atti esecutivi, su cui sarebbe modellata), che si svolge in contraddittorio tra le parti e viene

Secondo una prima ricostruzione, che si affida alla lettera della legge, secondo la quale il Collegio «prende atto» dei provvedimenti emanati ed eseguiti dal proprio componente o dal commissario ad acta, la seconda fase del giudizio di ottemperanza tributaria dovrebbe considerarsi deputata esclusivamente a dichiarare chiuso il processo per intervenuta esecuzione del giudicato. Tuttavia, come osservato dalla più attenta dottrina5, il giudizio di ottemperanza non può evidentemente dirsi chiuso laddove non sia stata ancora espletata l’attività esecutiva necessaria per l’ottemperanza stessa, sicché la soluzione legislativamente adottata non escluderebbe momenti di verifica dell’operato del soggetto delegato ad ottemperare in luogo dell’amministrazione successivi alla nomina di questo. Sussisterebbe dunque la possibilità che la sentenza con la quale il Collegio ha adottato i provvedimenti per l’ottemperanza preveda un’ulteriore data per una trattazione post sententiam, al fine di verificarne l’attuazione, così come, a prescindere da ciò, esisterebbe la facoltà di fissare d’ufficio o su istanza della parte interessata una successiva trattazione. Né sarebbe da escludersi un’ordinanza di chiusura del giudizio ex officio, conformemente alla lettera della norma, qualora non resti che prendere atto dell’avvenuta piena esecuzione della sentenza senza necessità di altro luogo a provvedere6. La prospettabilità di tali alternative assume rilievo laddove ci si renda conto del fatto che un controllo del Collegio sull’attività posta in essere dai soggetti delegati all’esecuzione è insito nella stessa natura del giudizio di ottemperanza, volto a dare esecuzione ad una sentenza passata in giudicato che sia rimasta disattesa dall’amministrazione soccombente in giudizio. In tal senso la fase di verifica risulterebbe ineludibile laddove si rendesse necessario il compimento di ulteriori atti d’impulso per superare gli ostacoli che si frappongono all’esecuzione (quali possono essere, appunto, il

definita con sentenza (art. 70, comma 7); la seconda, in apparenza priva di contraddittorio, deputata alla verifica del compimento dell’esecuzione e che si chiude con una ordinanza conclusiva dell’intero procedimento. 4 Come rileva CLARICH, Il giudizio di ottemperanza nel nuovo processo tributario, in Dir. e Prat. Trib., 1997, I, 68. 5 RANDAZZO, op. cit., 917 e GLENDI, Giudizio di ottemperanza (dir. trib.), in Enc. Giur., Aggiornamento, Roma, 2000, 10.

6 Così GLENDI, ibidem, secondo il quale, in tal modo ricostruita la fase di controllo del giudizio, la soluzione legislativamente adottata (chiusura del giudizio con ordinanza) sarebbe perfettamente razionale né senza precedenti, come invece affermato da VILLATA, Il giudizio di ottemperanza, in AA.VV., Il nuovo processo tributario, Milano, 1996, 253, stante, ad es., quanto previsto dall’art. 39, comma 1, c.p.c.


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 877

Atti e interventi

ritardo oltre misura dell’adempimento da parte del commissario, o la sua sostituzione per sopravvenuto impedimento), nel qual caso graverebbe sul Collegio il compito di disciplinare la prosecuzione del processo, ordinando gli ulteriori atti e provvedimenti necessari7. In tale prospettiva, dunque, la seconda fase del processo di ottemperanza, ancor prima di sancire la fine del giudizio, avrebbe la finalità di assicurare il controllo del giudice su ogni fase attuativa dell’esecuzione, con potere (rectius dovere) per quest’ultimo di risolvere, con provvedimenti esecutivi non impugnabili, tutte le difficoltà emerse nel corso dell’adempimento8. Tale conclusione sembrerebbe peraltro avvalorata dalla stessa natura del provvedimento di chiusura del giudizio di ottemperanza nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza. L’ordinanza di chiusura, infatti, secondo i giudici di legittimità «non è priva di contenuto decisorio, quanto meno nella parte in cui [...] ha formulato un giudizio di conformità tra il decisum e la sua esecuzione. Infatti, pur utilizzando la formula impropria della “presa d’atto”, la Commissione regionale, prima di dichiarare chiuso il procedimento, ai sensi del comma 8 del ripetuto art. 70, prende posizione (e quindi decide) sulla questione della corretta esecuzione dei giudicati»9. Ciò conferma l’orientamento dottrinario da ultimo richiamato, che peraltro, in ragione del carattere peculiare della fase di controllo, evidenzia la necessità che in ordine alla chiusura del procedimento sia assicurata l’instaurazione del contraddittorio tra le parti10. Il che porta ad affrontare il secondo punto sopra individuato, quello dei poteri della parte ricorrente e della loro azionabilità, ciò al fine di verificare se la sopra prospettata configurabilità di un’ulteriore trattazione anche su richiesta di parte, possa essere o meno confermata.

7 Così in giurisprudenza Comm. trib. prov. di Trieste, 22 aprile 1997, n. 307, in Riv. Dir. Trib., 1999, II, 10. Tutte le pronunce giurisprudenziali citate sono consultabili su banca dati fisconline. 8 Così GLENDI, op. cit., 10 e RANDAZZO, op. cit., 917. In senso conforme RUSSO, op. cit., 330, il quale afferma che «si deve peraltro considerare che il giudice tributario dell’ottemperanza dichiarerà chiuso il procedimento con la relativa ordinanza solo ove l’esecuzione disposta nella sentenza abbia avuto pacificamente attuazione, mentre in caso di contestazioni in merito all’esecuzione il giudice

4 2008 877

Se da un lato l’art. 70 del D.Lgs. 546 del 1992 non dà conto del ruolo che la parte ricorrente assuma in detta seconda fase del giudizio, dall’altra, neppure la giurisprudenza, né di merito né di legittimità, ha mai affrontato espressamente la questione. A fronte di pronunce che affermano il permanere dei poteri di controllo e sostituzione in capo al Collegio nei riguardi del soggetto delegato all’esecuzione, non si trova infatti riscontro di come debba procedersi alla verifica del suo operato, per lo meno nel caso di inerzia dello stesso. Secondo recente Cassazione «il commissario ad acta, quale ausiliario del giudice di ottemperanza, deve eseguire il proprio compito sotto il continuo controllo e l’assidua vigilanza di quest’ultimo al fine di assicurare l’esatta rispondenza della sua attività al comando contenuto nella sentenza, della cui esecuzione si tratta, assicurando al cittadino il conseguimento di quanto riconosciutogli in sede di cognizione e rimanendo, quindi, del tutto irrilevante il rapporto organico che lo lega all’ente al cui ufficio è preposto. Peraltro, ha anche la facoltà di rivolgersi al giudice che gli ha conferito l’incarico e del quale costituisce la longa manus per ottenere chiarimenti e suggerimenti circa i concreti provvedimenti da adottare in caso di dubbio o di contrasto con la parte richiedente. Il privato che ha ottenuto l’ottemperanza del provvedimento disatteso dall’ente, inoltre, ha a sua volta il potere di reclamare gli atti del commissario, se ritenuti in contrasto con le disposizioni ricevute, davanti allo stesso giudice di ottemperanza»11. Ne emerge che la Commissione può, rectius deve, esercitare i propri poteri di controllo e, se del caso, di sostituzione del commissario, apparendo quest’ultima soluzione evidentemente possibile, se non necessaria, quantomeno nel caso fosse promossa un’azione di responsabilità nei suoi confronti per danno erariale12.

potrà emanare, contrariamente a quanto disposto per il giudizio ordinario dall’art. 35, comma 3 del D.Lgs. n. 546/1992, nuove sentenze; il che pone peraltro il problema se l’impugnazione a norma del decimo comma debba riguardare congiuntamente le molteplici sentenze eventualmente emanate o possa invece proporsi autonomamente per ciascuna di esse». 9 Così Cass., 21 febbraio 2005, n. 3435, in Giur. It., 2005, 2214 ss. 10 Sul punto NICASTRO, op. cit., 255 ss. Nello stesso senso PENNELLA, Il giudizio per l’ottemperanza delle sentenze delle Comm. trib. tra oggetto, modalità

d’esecuzione ed impugnazione, in Rass. Trib., 2004, 293-294, per il quale «sebbene non previsto, il contraddittorio tra le parti non risulta escluso allorquando quella di esse che non si ritenga ancora soddisfatta dalle attività esplicate fino a quel momento [anteriore all’ordinanza di chiusura] può chiedere ulteriori interventi del Collegio da deliberare in una successiva Camera di Consiglio». 11 Così Cass., sent. n. 14648, del 22 giugno 2007. 12 Per quanto attiene al profilo della responsabilità, infatti, il commissario ad acta è assoggettato alla giurisdizione della Corte dei Conti in


16

Atti e interv.qxd

878

9-04-2009

11:56

Pagina 878

GiustiziaTributaria

4 2008

Chiarito dunque che l’attività del commissario si fonda sulla statuizione contenuta nella sentenza di ottemperanza alla quale è legata da uno stretto nesso di strumentalità 13; che il suo precipuo compito è la cura dell’interesse pubblico all’esatto adempimento del decisum della Commissione tributaria; che, come è stato puntualmente rilevato dalla Commissione provinciale tributaria di Trieste, 22 aprile 1997, n. 307, la sua attività altro non è che «quella stessa che il giudice dell’ottemperanza avrebbe potuto svolgere direttamente, con conseguenza che tutti gli atti del commissario sono sindacabili sempre ed in via esclusiva dal giudice dell’ottemperanza», essendo peraltro ciò dimostrato dall’espresso riconoscimento normativo – art. 70, commi 8 e 9 – anche ai suoi provvedimenti della stessa efficacia immediatamente esecutiva riconosciuta agli atti del Collegio14; chiarito dunque tutto questo, la questione che si pone è cosa fare laddove atti impugnabili non ve ne siano perché il commissario nulla ha provveduto a fare, considerando che generalmente è proprio il commissario e non le parti, a dare comunicazione alla Commissione tributaria competente del fatto che tutti i provvedimenti del caso sono stati emanati ed eseguiti al fine della successiva dichiarazione di chiusura del procedimento con ordinanza15. Ancorché non avvalorata né dalla lettera della norma né dalla giurisprudenza, la via delle istanze di parte, ai fini del controllo dell’operato di colui che il Collegio abbia delegato ai fini dell’esecuzione della sentenza, appare la naturale e necessaria conseguenza dell’eccessiva indeterminatezza dell’art. 70.

tema di responsabilità amministrativo-contabile (Cass, sez. un., 19 marzo 1999, n. 166, in Riv. Corte Conti, 1999, 2, 107 ss.) in quanto, agendo in sostituzione dell’amministrazione inadempiente, egli instaura un’occasionale rapporto di servizio, ciò dal momento che la sua attività, pur fondandosi sul decisum del giudice dell’ottemperanza, è la stessa che avrebbe dovuto essere prestata dall’amministrazione. Ne deriva la sussistenza di tutti gli elementi tipici (rapporto di servizio e gestione di pubbliche risorse nell’esercizio di una funzione pubblica) che determinano l’assoggettamento alla giurisdizione del giudice contabile. In particolare, secondo Comm. trib. prov. di Pesaro, sez. II, sent. n. 94, 14 maggio 1999, il giudice tributario, nominato il commissario ad acta, i cui oneri gra-

Sembrerebbe così potersi affermare la possibilità di presentare una istanza di fissazione di un’udienza di verifica dell’operato del commissario ad acta, ovvero, più conformemente alla lettera della suddetta disposizione (che nella fase cd. attuativa del giudizio non accenna ad udienza alcuna), una istanza di chiusura del giudizio stesso, stante la natura in parte decisoria dell’ordinanza (come affermato dalla citata Cass., 21 febbraio 2005, n. 3435), dovendosi peraltro ritenere sussistente, al contempo, la facoltà di proporre, più semplicemente, un’istanza di sostituzione del commissario ad acta inadempiente. Ma quando sussiste l’inadempienza? E come si presenta l’istanza di verifica dell’operato del commissario ovvero di sostituzione di quest’ultimo? Un primo problema si pone nel caso in cui il Collegio con la sentenza di nomina del commissario ad acta non abbia fissato un termine per l’adempimento, sorgendo in questo caso il dubbio che il commissario possa davvero considerarsi inadempiente. Tuttavia non sembra che l’inerzia possa negarsi laddove la parte abbia intimato il commissario ad adempiere rimanendo la richiesta insoddisfatta, ciò nella considerazione che altrimenti si svuoterebbe di sostanza lo stesso istituto dell’ottemperanza. Un ulteriore profilo attiene poi al caso in cui, rimanendo inerte l’amministrazione condannata al rimborso di quanto indebitamente riscosso, neppure il commissario ad acta provveda ad azionare la procedura del cd. “pagamento in conto sospeso”. In tal caso, a volersi sostenere la doverosità di detto procedimento anche in capo al commissario, come fa la giurisprudenza di merito16 17,

vano solidalmente sull’amministrazione inadempiente e sul funzionario responsabile, in presenza di una persistente inottemperanza, può ben disporre la trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei Conti per l’accertamento di eventuali responsabilità amministrative, nonché al Procuratore della Repubblica per l’accertamento di responsabilità penali, qualora sussistano gli estremi del reato di cui all’art. 328, c.p., «Rifiuto d’atti d’ufficio. Omissione». 13 Sulla natura del commissario ad acta quale ausiliare/collaboratore della Commissione tributaria, tra gli altri, DE GREGORIO, Il giudizio di ottemperanza nel nuovo processo tributario, in Rass. Trib., 1998, 53 ss.; NICASTRO, Giudizio di ottemperanza nel processo tributario: esperibilità, limiti e modalità, in Riv. Dir. Trib., 2000, I, 255 ss.;

14 15

16

17

NAPOLETANO, Il giudizio di ottemperanza nel contenzioso tributario, in Boll. Trib., 2000, 405 ss. Così GLENDI, op. cit., 10, che richiama DE GREGORIO, op. cit., 58-59. Come rilevano VILLANI, Processo tributario: il commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza. Funzioni e responsabilità, in Fisco, 2002, 4370 ss. e PESSINA-PITTALUGA, op. cit., 4334. Si sostiene in giurisprudenza (sent. n. 1 del 29 gennaio 2001, dep. il 19 marzo 2001, della Comm. trib. reg. di Roma, sez. IV) che al commissario nominato dal Collegio, per rapidità di esecuzione, sarebbe fatto obbligo del ricorso alla procedura del conto sospeso. Va ricordato che è pacifico che il commissario ad acta possa emettere per adempiere le obbligazioni pecuniarie, onde addivenire all’emissione del


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 879

Atti e interventi

l’inadempienza sussisterebbe anche in mancanza del termine di cui sopra, ciò legittimando l’impulso di parte affinché il Collegio, accertata l’inerzia tanto dell’amministrazione tanto del commissario, provveda a quanto necessario per l’esecuzione della sentenza di condanna. Rimane il dubbio circa le forme processuali dell’istanza, apparendo prospettabile, nel silenzio della legge, sia il deposito della stessa in duplice originale presso la segreteria della Commissione adita per l’ottemperanza ai fini della successiva notifica ad opera della segreteria stessa all’amministrazione – in analogia con quanto accade per l’introduzione del giudizio –, sia più semplicemente il deposito di un’istanza indirizzata al Presidente della Commissione per la fissazione della

4 2008 879

data della trattazione, di cui sarebbe da darsi comunicazione alle parti almeno 10 giorni liberi prima a cura della segreteria, come previsto dal comma 6 dell’art. 70. In entrambi i casi non sarebbe garantita la presenza del commissario, non essendo egli parte del giudizio, ma ciò non dovrebbe escludere la possibilità (rectius, in ragione di quanto sopra emerso, il dovere) per la Commissione, preso atto dell’inadempienza del suo ausiliare, nel contraddittorio tra le parti, di prendere i provvedimenti necessari ai fini dell’esecuzione della sentenza, dunque della soddisfazione degli interessi di parte che in tal caso coincidono con l’interesse pubblico all’esatto adempimento che eviti ulteriori aggravi di oneri per l’amministrazione.

I NUOVI POTERI DEGLI AGENTI DELLA RISCOSSIONE E MODIFICA DELLE STRATEGIE DI RISCOSSIONE COATTIVA MEDIANTE RUOLO di Fabio Zolea

Negli ultimi anni, la disciplina dell’attività di riscossione coattiva dei crediti tributari e degli altri crediti pubblici è stata oggetto di importanti trasformazioni, che hanno significativamente ampliato gli strumenti a disposizione di tali

mandato di pagamento, anche gli atti necessari previsti dai procedimenti disciplinati dalle norme di contabilità pubblica, provvedendo a tutti gli adempimenti indispensabili compresi eventuali storni dai capitoli di spesa ovvero eventuali modificazioni delle poste dei capitoli stessi, fino a giungere all’emissione del mandato di pagamento a favore del contribuente. Ben potrebbe ricorrere, dunque, alla procedura del conto sospeso, anche in ragione del fatto che la sentenza di cui si chiede l’ottemperanza deve essere necessariamente passata in giudicato. Tale ultimo rilievo esclude infatti quei problemi di coordinamento con il sopra richiamato art. 14, comma 1 del D.L. n. 669/1996 – che fa riferimento a «provvedimenti giurisdizionali [...] aventi efficacia esecutiva» – che si pongono invece in relazione alla possibilità che sia l’Agenzia delle Entrate a procedere al pagamento in conto sospeso quando la somma risulti da una sentenza di Commissione tributaria priva di for-

società per combattere il grave fenomeno dell’“evasione da riscossione”. Evidentemente, le ragioni di tale ampliamento devono, almeno in parte, essere ricondotte al passaggio ad Equitalia, di proprietà pubblica, della

mula esecutiva che non sia passata in giudicato (peraltro la soluzione di consentire detta procedura anche in quest’ultimo caso avrebbe l’effetto di anticipare l’emissione dell’ordine di pagamento, permettendo così di evitare gli oneri sia per il compenso spettante al commissario ad acta sia per le spese di lite). L’amministrazione è giunta comunque ad ammettere con la circ. n. 5/E del 4 febbraio 2003, Agenzia delle Entrate, direzione normativa e contenzioso. Giudizi di ottemperanza nel processo tributario, la legittimità degli ordini in conto sospeso emessi dal commissario ad acta (a commento BUSCEMA, Giudizio di ottemperanza: poteri ed obblighi del commissario ad acta alla luce di recenti orientamenti giurisprudenziali, in Fisco, 2001, 12808 ss., il quale osserva come la ratio del procedimento in conto sospeso sia di evitare gli aggravi di spesa inerenti la procedura esecutiva). Il punto che qui maggiormente interessa, tuttavia, è se tale possibilità non sia piuttosto un dovere, ciò incidendo sulla prospetta-

bilità di un’inadempienza censurabile del commissario. In tal senso LUCARIELLO, Brevi note sull’utilizzo dello speciale ordine di pagamento in conto sospeso per i rimborsi dei tributi, in Fisco, 2006, 1983, secondo cui «in presenza di sentenza esecutiva, ossia spedita in forma esecutiva ai sensi dell’art. 69 del D.Lgs. n. 546/1992, o di sentenza di ottemperanza immediatamente esecutiva ex art. 70, comma 9, del D.Lgs. n. 546/1992, il rimborso deve essere comunque disposto “in conto sospeso” per evitare ulteriori aggravi di oneri. Non è superfluo precisare che l’adozione del procedimento “in conto sospeso” costituisce un atto dovuto, qualora ne ricorrano i presupposti di legge, per superare la mancanza di fondi; l’inerzia può comportare per l’amministrazione maggiori oneri patrimoniali e la conseguente responsabilità amministrativa e penale del funzionario preposto all’esecuzione concreta della sentenza di condanna al rimborso a favore del contribuente».


16

Atti e interv.qxd

880

9-04-2009

11:56

Pagina 880

GiustiziaTributaria

4 2008

gestione della riscossione mediante ruolo. Questo passaggio, infatti, ha spinto il legislatore ad una maggiore fiducia nella correttezza dell’esercizio dei nuovi poteri da parte delle società del gruppo Equitalia, i cd. “agenti della riscossione”. Tra le misure di più recente introduzione, può essere ricordata, anzitutto, la compensazione tra i debiti derivanti da cartelle di pagamento ed i crediti d’imposta. Si tratta di una previsione (art. 28-ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602) inserita nell’ordinamento dall’articolo 2 del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286), e le cui modalità di attuazione sono state recentemente individuate, con il provvedimento del 29 luglio 2008 del direttore dell’Agenzia delle Entrate, di cui sono in corso di predisposizione le attività di natura strettamente esecutiva. Com’è noto, la suddetta previsione consente, al debitore iscritto a ruolo beneficiario di un credito d’imposta, di effettuare il pagamento delle cartelle utilizzando in compensazione tale credito. Il procedimento di compensazione si avvia, ai sensi del citato art. 28-ter, “in sede di erogazione” del rimborso d’imposta, vale a dire nel momento in cui è stata già accertata l’effettiva spettanza dello stesso rimborso. Non è, quindi, possibile fruire della compensazione in esame con riferimento a semplici “aspettative” di rimborso; ciò al fine, evidentemente, di evitare che le obbligazioni derivanti dalle iscrizioni a ruolo possano essere assolte utilizzando crediti d’imposta dichiarati dall’interessato, ma che ancora devono essere valutati dall’amministrazione finanziaria. All’atto, dunque, dell’erogazione del rimborso, l’Agenzia delle Entrate verificherà con Equitalia Servizi S.p.A. (società di servizi del gruppo Equitalia) se il beneficiario è iscritto in ruoli formati non ancora saldati (sempre che non siano sgravati, sospesi o rateizzati) e, qualora l’esito della verifica sia positivo, la stessa Agenzia trasferirà le somme oggetto del rimborso, con un vincolo di destinazione, ad una contabilità speciale intestata all’agente della riscossione. Quest’ultimo sospende le azioni di recupero e rivolge una proposta di compensazione al contribuente, che può accettare entro il termine di silenzio – rigetto di sessanta giorni. In caso di rifiuto espresso o tacito della proposta, ai sensi dell’allegato n. 2, lett. b, punto g, n. 1, del predetto Provvedimento del 29 luglio 2008, le somme destinate al rimborso restano sulla contabilità speciale dell’agente della riscossione coattiva, “ai fini dello svolgimento delle attività di riscossione coattiva”. Ne deriva che il rifiuto della

proposta trasforma, di fatto, in obbligo l’originaria facoltà di compensazione tra il debito da ruolo e il credito d’imposta. Del resto, tale scelta, da un lato, è una diretta conseguenza del meccanismo previsto dalla legge (vale a dire il trasferimento dei fondi sulla contabilità intestata all’agente della riscossione) e, dall’altro, trova un valido supporto ermeneutico nella relazione tecnica all’articolo 2 del decreto legge n. 262/2006 (con il quale è stato introdotto il citato art. 28-ter del D.P.R. n. 602/1973), relazione che recita testualmente: “anche in mancanza di adesione da parte del contribuente, [...] gli importi da rimborsare verranno immediatamente sottoposti a pignoramento da parte degli agenti della riscossione”. Risulta, poi, di particolare importanza l’istituto della sospensione dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni ai soggetti iscritti a ruolo morosi. L’art. 48-bis del D.P.R. n. 602/1973 prevede in materia che le pubbliche amministrazioni e le società interamente pubbliche, prima di erogare somme di importo superiore a 10.000,00 euro, devono verificare se il beneficiario del pagamento è o meno moroso nell’adempimento delle obbligazioni derivanti dalla notifica di cartelle e, in caso affermativo, sospendono l’esecuzione dello stesso pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione territorialmente competente. Così delineato, il funzionamento del nuovo istituto poteva risultare estremamente macchinoso, con riferimento sia alle modalità di effettuazione della verifica della morosità, sia alla successione dei passaggi (richiesta di verifica dalla p.a. all’agente della riscossione - risposta dell’agente della riscossione alla p.a. - segnalazione della p.a. all’agente della riscossione) della procedura di sospensione del pagamento. Al riguardo il regolamento di attuazione dell’art. 48-bis citato, approvato con il D.M. 18 gennaio 2008, n. 40, ha, tuttavia, offerto delle soluzioni che hanno consentito un notevole snellimento delle fasi applicative del nuovo istituto. In particolare, tale decreto ministeriale ha stabilito che: - la verifica della morosità avviene in via telematica (art. 4), mediante una richiesta rivolta dalle p.a. e dalle società a totale partecipazione pubblica (complessivamente denominate “soggetti pubblici”) ad Equitalia Servizi S.p.A. (società di servizi del gruppo Equitalia), attraverso un apposito link del sito internet della Consip (artt. 2 e 4); - Equitalia Servizi deve riscontrare la richiesta entro 5 giorni lavorativi (art. 2, comma 2); - in caso di accertata morosità del beneficiario del pagamento, è la stessa richiesta telematica di veri-


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 881

Atti e interventi

fica ad assumere il valore di segnalazione all’agente della riscossione, per effetto della fictio iuris recata dall’art. 3, comma 2, e la durata della successiva sospensione del pagamento è limitata a 30 giorni (art. 3, comma 4). È evidente che tali previsioni evitano pesanti aggravi procedurali, suscettibili di dilatare eccessivamente i tempi di chiusura della verifica. In proposito, è sufficiente ricordare gli imponenti flussi cartacei che nacquero nell’agosto 2007 – con conseguente paralisi dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni – allorché il Dipartimento della ragioneria generale dello Stato prospettò l’esecuzione con modalità manuali delle verifiche di cui all’art. 48-bis del D.P.R. n. 602 del 1973. In particolare, poi, la limitazione a 30 giorni della durata della sospensione temporale del pagamento in caso di morosità consente di contenere in tempi ristretti la situazione di incertezza che si determina a seguito dell’esito della verifica. Se, infatti, l’agente della riscossione non procede entro questa data al pignoramento presso terzi, il soggetto pubblico deve provvedere ad effettuare il pagamento al beneficiario (art. 3, comma 6). Naturalmente – poiché l’art. 50, comma 2, del D.P.R. n. 602/1973 non può che applicarsi anche alle attività esecutive scaturenti dalle verifiche operate ex art. 48-bis dello stesso D.P.R. n. 602 del 1973 – l’agente della riscossione, qualora in precedenza abbia lasciato trascorrere più di un anno dalla notifica della cartella di pagamento senza svolgere attività espropriative, dovrà, prima del pignoramento presso terzi e sempre rispettando il citato termine finale di trenta giorni, notificare al contribuente un’apposita intimazione. Più precisamente, l’intimazione deve essere notificata almeno sei giorni prima dell’atto di pignoramento, tenuto conto che, in conformità a quanto previsto dal citato art. 50, comma 2, al destinatario della stessa intimazione devono essere concessi almeno cinque giorni prima dell’avvio dell’esecuzione. È bene, poi, precisare che – sin dall’avvio (marzo 2008) dell’operatività della procedura delineata dal D.M. n. 40/2008 e ancora prima, dunque, delle precisazioni dettate al riguardo dalla circolare n. 22 del 29 luglio 2008 della ragioneria generale dello Stato – i meccanismi di verifica messi a punto dal gruppo Equitalia non considerano inadempienti i soggetti iscritti a ruolo che hanno beneficiato di provvedimenti di rateazione (naturalmente, a condizione che le scadenze del piano di ammortamento siano rispettate) ovvero con riferimento ai quali gli agenti della riscossione hanno ricevuto provvedimenti di sospensione (sia giudi-

4 2008 881

ziale che amministrativa) o, a maggior ragione, di sgravio per indebito. Per espressa previsione dell’art. 3, comma 6, del D.M. n. 40/2008, il pignoramento presso terzi con il quale si conclude, se positiva, la verifica di morosità di cui all’art. 48-bis del D.P.R. n. 602/1973 viene effettuato con le specifiche modalità contemplate dall’art. 72-bis dello stesso D.P.R. n. 602, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 2, comma 6, del decreto legge 3 ottobre 2006 (convertito dalla legge 24 novembre 2006, n. 286) all’originaria formulazione contenuta nell’art. 3, comma 40, lett. b, del decreto legge 30 settembre 2005, n. 203 (convertito dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248). In virtù di quanto previsto dallo stesso art. 72-bis, l’agente della riscossione può effettuare il pignoramento presso terzi rivolgendo al terzo l’ordine di pagargli il credito direttamente: - nel termine di 15 gg., per le somme per le quali è già scaduto il diritto alla percezione; - alle rispettive scadenze, per le restanti somme. Le modalità in parola, peraltro, possono essere utilizzate dagli agenti della riscossione per effettuare il pignoramento presso terzi di tutti i crediti del debitore moroso, salvo quelli pensionistici, in alternativa alla modalità “tradizionale” di cui agli art. 543 ss., c.p.c. Si tratta, evidentemente, di un vero e proprio “pignoramento stragiudiziale”, che – come avviene per altre procedure del processo di riscossione mediante ruolo dei crediti pubblici – ha carattere derogatorio rispetto alla disciplina del codice di procedura civile. In particolare, nel pignoramento presso terzi di cui all’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 non sono previsti la citazione del terzo pignorato e il conseguente passaggio dal giudice dell’esecuzione e lo stesso terzo è tenuto a effettuare il versamento in base all’atto ricevuto dall’agente della riscossione, senza che vi sia un’ordinanza di assegnazione dell’autorità giudiziaria. In mancanza di diversa previsione del legislatore, deve necessariamente ritenersi che non sia, comunque, in alcun modo escluso né compresso il diritto del debitore a contestare l’esecuzione in via giurisdizionale. Ciò, fermo restando, naturalmente, il vincolo posto – con riferimento a tutte le procedure espropriative degli agenti della riscossione – dall’art. 57 del D.P.R. n. 602 del 1973, che limita la proponibilità delle opposizioni di cui agli artt. 615 ss., c.p.c., ammettendo, in concreto, soltanto quelle relative alla pignorabilità dei beni. A quest’ultimo proposito, peraltro, è opportuno


16

Atti e interv.qxd

882

9-04-2009

11:56

Pagina 882

GiustiziaTributaria

4 2008

ricordare che, ai sensi dell’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 46/1999, tale limitazione riguarda esclusivamente le entrate tributarie, in quanto, per tali entrate, il riconoscimento della possibilità di contestare il diritto a procedere all’espropriazione a fronte di un atto esecutivo: - da un lato, si tradurrebbe nell’elusione del termine decadenziale posto dall’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992 per il ricorso contro la cartella di pagamento; - dall’altro, violerebbe la riserva di giurisdizione prevista in materia a favore delle Commissioni tributarie. Com’è noto, sono state sollevate contestazioni sul carattere derogatorio degli strumenti di recupero coattivo introdotti negli ultimi anni in materia di riscossione mediante ruolo rispetto a quelli che regolano il recupero dei crediti privati. Tali deroghe, secondo una parte della dottrina, determinerebbero un’inammissibile violazione del principio di uguaglianza, per effetto del diverso trattamento riservato al debitore iscritto a ruolo rispetto a quello “ordinario”, che deve essere escusso secondo le normali regole processualcivilistiche. In realtà, la costante giurisprudenza della Corte costituzionale ha chiarito che la presenza, nel settore della riscossione a mezzo ruolo, di una disciplina «diversa e differenziata rispetto a quella prevista per la comune esecuzione forzata non è di per sé irragionevole o lesiva del principio di uguaglianza, potendo trovare giustificazione nelle specifiche finalità del procedimento di esecuzione esattoriale e nella diversità di condizione del credito fiscale e di posizione dei soggetti coinvolti nella riscossione coattiva delle imposte» (ordinanze n. 351 del 1998 e 455 del 2000). In effetti, «il procedimento amministrativo di riscossione coattiva delle imposte non pagate, improntato a criteri di semplicità e speditezza, risponde all’esigenza di pronta realizzazione del credito fiscale a garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato» (ordinanza n. 217 del 2002). Naturalmente, ciò non significa che l’interesse alla rapida esazione dei crediti pubblici legittimi il legislatore a porre qualunque deroga ai principi ordinari della procedura civile. Ad esempio, la stessa Consulta, nelle sentenze n. 358/1994 e 444/1995, dichiarò correttamente illegittime norme che prevedevano presunzioni assolute di appartenenza al debitore iscritto a ruolo di beni di cui poteva oggettivamente essere provato il diritto di proprietà di terzi, poiché esse recavano, di fatto, una preclusione assoluta alla proponibilità, da parte del terzo, di un’opposizione all’autorità

giudiziaria tendente a dimostrare l’esistenza di tale diritto. Sotto questo profilo, le disposizioni speciali contenute nell’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 – le più criticate – non risultano assimilabili a quelle oggetto di censura nelle sentenze da ultimo citate, poiché, come si è visto, tali disposizioni non precludono le opposizioni, se non nella stessa misura in cui queste ultime non sono consentite neppure quando l’esecuzione presso terzi è effettuata dall’agente della riscossione nelle forme “tradizionali” contemplate dagli art. 543 ss., c.p.c. L’art. 72-bis citato, pertanto, non incide sul diritto dell’esecutato a presentare opposizione, ma è diretto esclusivamente a rendere più snello il processo esecutivo in tutti i casi (decisamente i più frequenti) in cui il debitore non intende contestare la regolarità dell’esecuzione. In tale contesto, la mancata previsione di un intervento preventivo dell’autorità giudiziaria in fase di assegnazione trova un suo fondamento sul piano dei valori costituzionali – oltre che nell’esigenza di garantire l’effettività della tutela del principio di capacità contributiva – anche in quella di evitare effetti inflattivi del contenziosi civile. È, infatti, evidente che, data la diffusione del fenomeno dell’evasione da riscossione – e, quindi, l’elevatissimo numero dei debitori morosi iscritti a ruolo – se i pignoramenti presso terzi degli agenti della riscossione dovessero svolgersi tutti con le modalità stabilite dal codice di procedura civile, l’intervento sistematico del giudice dell’esecuzione nella fase “fisiologica” di tali pignoramenti (cioè non soltanto in sede di opposizione) potrebbe determinare rilevanti effetti negativi per il sistema della giustizia civile. Di nuovo: non si intende qui sostenere che l’obiettivo di evitare questi effetti giustifichi il sacrifico del diritto di difesa del debitore, ma, semplicemente, che tale obiettivo e le esigenze di celerità del recupero dei crediti pubblici (anch’esse, come riconosciuto dal giudice delle leggi, di preminente rilevanza costituzionale) permettano – in un’ottica di corretta ponderazione normativa tra interessi costituzionalmente rilevanti – di considerare pienamente legittima una norma che, senza pregiudicare il diritto dell’esecutato di proporre opposizione nei confronti del pignoramento presso terzi, permette all’agente della riscossione di effettuare tale pignoramento con modalità diverse da quelle individuate dal codice di procedura civile. Nel 2008 all’ampliamento dei poteri utilizzabili dalle società del gruppo Equitalia nell’attività di riscossione mediante ruolo si è accompagnato il


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 883

Atti e interventi

trasferimento a tali società della facoltà di dilazionare la rateazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo. Com’è noto, tale trasferimento è avvenuto con l’art. 36, comma 2-bis e 2-ter, del decreto legge 31 dicembre 2007, n. 248 (convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31), che ha modificato l’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973 e l’art. 26 del D.Lgs. n. 46/1999, provvedendo, altresì, a rimuovere la condizione ostativa alla rateazione precedentemente rappresentata dall’avvio delle azioni esecutive e ad aumentare da 60 a 72 il numero massimo di rate concedibili al debitore. Successivamente, l’art. 83, comma 23, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 (convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), è nuovamente intervenuto sulla disciplina della materia, al fine soprattutto di eliminare il preesistente obbligo di garanzia fideiussoria o ipotecaria per la rateazione degli importi superiori a euro 50.000,00. Evidentemente, i cambiamenti così apportati dal legislatore all’istituto della dilazione di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 602 del 1973 sono di vasta portata, ma è opportuno sottolineare che non è da meno la rilevanza che deve attribuirsi al contenuto delle diverse direttive emanate in materia da Equitalia S.p.A. Tali direttive hanno, anzitutto, inquadrato la procedura di rateazione nell’ambito dei procedimenti amministrativi, fornendo una serie di dettagliate prescrizioni che le aziende del gruppo Equitalia devono seguire per assicurare la conformità della loro attività in materia alla disciplina generale dettata dalla legge n. 241 del 1990, con particolare riferimento alla comunicazione di avvio del procedimento, all’individuazione del responsabile del procedimento, alla motivazione dei provvedimenti di rigetto ed alla necessità di far precedere questi ultimi dall’invio della comunicazione di cui all’art. 10 della citata legge n. 241/1990, contenente l’indicazione dei motivi che ostano all’accoglimento della richiesta. Si tratta, naturalmente, di adempimenti doverosi, ma l’indicazione di precise regole di azione al riguardo costituisce, comunque, una positiva novità nella prassi applicativa preesistente, oltre che la manifestazione di una volontà di agire con trasparenza e, sempre in termini di trasparenza, un importante contributo è stato arrecato dalla direttiva n. 17 del 2008, che ha fissato criteri uniformi per la valutazione del presupposto (la “temporanea situazione di obiettiva difficoltà”) richiesto dalla legge per la concessione della rateazione.

4 2008 883

In effetti, pur essendo evidenti i rischi di arbitrarietà e di disparità di trattamento che derivano dalla mancanza di uniformità in tale valutazione, è questa la prima volta – nella sia pur non brevissima storia dell’istituto della dilazione delle somme iscritte a ruolo – che alle strutture operative investite del compito di esaminare le istanze di dilazione vengono fornito dettagliate istruzioni da seguire. Più precisamente, tali istruzioni configurano due distinti modelli decisionali, uno per le persone fisiche e uno per le società e gli altri soggetti (fondazioni, associazioni, comitati, ecc.) diversi dalle persone fisiche. Per le persone fisiche, la valutazione della situazione economica del debitore è incentrata sul rapporto tra il valore dell’Indicatore della situazione economica equivalente (Isee) del nucleo familiare di appartenenza dello stesso debitore e l’entità della somma da rateizzare. L’Isee è un indicatore della capacità reddituale e patrimoniale utilizzata ormai da tempo nel nostro ordinamento (è stato, infatti, introdotto dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 109) per l’erogazione di prestazioni di diritto pubblico e – pur presentando, ovviamente, delle imperfezioni – ha, comunque, un carattere oggettivo e presenta il vantaggio di essere quantificato presso i Comuni, l’Inps e i Caaf, ossia con modalità facilmente accessibili. Nella metodologia adottata da Equitalia, una volta individuate classi di Isee. dell’ampiezza di euro 5.000, a ciascuna di esse corrisponde un importo, che esprime la soglia di debito (cd. “soglia di accesso”) a partire dalla quale il contribuente che ha un Isee. rientrante in quella classe è considerato non in condizione di adempiere in unica soluzione ed è, perciò, ammesso alla dilazione. Al crescere della classe Isee di appartenenza, l’ammontare della soglia di accesso aumenta non soltanto – com’è ovvio – in termini assoluti, ma anche in termini relativi, in quanto il rapporto classe Isee/soglia di accesso è dato da una funzione continua crescente di tipo esponenziale, costruita secondo un principio di progressività. Ciò, sul presupposto che, al crescere dell’Isee del debitore, cresce anche la sua capacità di assolvere in unica soluzione l’obbligazione iscritta a ruolo. L’Isee ha un periodo di riferimento annuale e, stante la scadenza mensile prevista dalla legge per il pagamento delle rate, in corrispondenza di ogni classe di Isee, una volta stabilito che il contribuente è in temporanea situazione di obiettiva difficoltà, si divide per 12 il valore della soglia di accesso e si individua così l’importo (cd. “rata indicativa”) il cui onere può essere sopportato mensilmente dal debitore.


16

Atti e interv.qxd

884

9-04-2009

11:56

Pagina 884

GiustiziaTributaria

4 2008

Subito dopo, dividendo il debito da rateizzare per l’importo della rata indicativa, si ottiene, approssimativamente, il numero massimo di rate concedibili, determinato applicando il metodo di ammortamento francese a rate costanti, fermo restando, comunque, che il numero massimo di rate concedibili per legge è 72 e che – al di là di particolari situazioni di comprovata indigenza – l’importo minimo della rata è stato fissato in euro 100. Alle persone fisiche sono assimilate le ditte individuali che si trovano in regimi fiscali semplificati. Al riguardo, è opportuno sottolineare che la ditta individuale è una forma di esercizio dell’attività d’impresa indifferentemente adottata per aziende di dimensioni assai diversificate. Pertanto, la decisione di valorizzare – ai fini dell’assimilazione alle persone fisiche e dell’adozione del “modello Isee” – l’opzione a favore di tali regimi dipende dalla circostanza che essi possono essere scelti soltanto da parte di piccole imprese, con riferimento alle quali prevale l’elemento personale e familiare ed appare, pertanto, ragionevole la scelta di utilizzare un parametro (l’Isee) che misura la capacità reddituale del contribuente e della sua famiglia (e che, peraltro, considera anche il reddito d’impresa), piuttosto che ricorrere all’esame del bilancio aziendale. Per i soggetti diversi dalla persone fisiche e dalla ditte individuali in contabilità ordinaria, Equitalia ha, invece, ritenuto di dover fare riferimento alla capacità o meno del contribuente di assolvere ai debiti iscritti a ruolo scaduti con la propria liquidità, immediata e differita, misurata con l’indice di liquidità (liquidità immediata + liquidità differita/passività correnti). Se il valore dell’indice di liquidità è uguale o superiore a 1, la richiesta di rateazione non viene accolta. Se è inferiore a 1, accanto all’indice di liquidità viene valutato un altro indice – denominato “indice alfa” e pari a (debito complessivo/valore della produzione “rettificato”) x 100 – e tenendo conto del valore di quest’ultimo, si decide se ammettere o meno il debitore alla dilazione e, in caso affermativo, si individua il numero massimo di rate, in base ad un’apposita tabella. Resta ferma, comunque, la facoltà del debitore di documentare la sussistenza di eventi straordinari (ad es., un’improvvisa e oggettiva crisi del mercato di riferimento), che non possono trovare espressione nei due indici citati, ma che, nonostante ciò, sono idonei a dimostrare l’impossibilità di assolvere in unica soluzione l’obbligazione iscritta a ruolo. In sostanza, per le persone fisiche il parametro per valutare la sussistenza della “temporanea

situazione di obiettiva difficoltà” di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973 è stato individuato nella capacità reddituale e patrimoniale del richiedente (che trova espressione nell’Isee), mentre per gli altri soggetti tale parametro consiste nella capacità dello stesso soggetto di fare fronte all’obbligo di pagamento derivante dalla cartella con le disponibilità liquide. Del resto, si tratta di una scelta che appare ragionevole, non essendo evidentemente possibile valutare con le stesse modalità la situazione economica di una persona fisica e quella di una società. Sempre in tema di dilazione, ritengo che il sindacato di legittimità dei provvedimenti di diniego delle istanze di rateazione spetti al giudice amministrativo, diversamente da quanto recentemente affermato dal T.A.R. Friuli Venezia Giulia, secondo il quale, se il debito iscritto a ruolo è tributario, la giurisdizione spetta alle Commissioni tributarie, in quanto la controversia riguarda “diritti e obblighi di soggetti passivi di rapporti tributari”. In realtà, il provvedimento di rigetto di un’istanza di rateazione è emanato sulla scorta di valutazioni che prescindono totalmente dal contenuto del rapporto giuridico sottostante all’iscrizione a ruolo. Infatti, secondo quanto disposto dall’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973, l’agente della riscossione, su richiesta del contribuente, può concedere la dilazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo “nelle ipotesi di temporanea situazione di obiettiva difficoltà dello stesso”. Pertanto, il presupposto previsto dalla legge per la concessione della rateazione è la sussistenza di una situazione di obiettiva difficoltà, che, evidentemente, non ha alcuna attinenza con il rapporto giuridico dal quale sorge il credito iscritto a ruolo. La posizione del contribuente che presenta un’istanza di rateazione ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 602/1972 è, dunque, di interesse pretensivo alla corretta valutazione della propria situazione economica ai fini di cui allo stesso articolo 19. Conseguentemente, l’agente della riscossione, al quale viene sottoposta un’istanza di dilazione, deve esercitare la discrezionalità amministrativa che gli è attribuita dalla legge, verificando esclusivamente se esiste o meno il citato presupposto e, in tale sede, gli è preclusa ogni valutazione circa il rapporto sottostante all’iscrizione a ruolo. Ne deriva che, a sua volta, il giudice investito di un ricorso avente ad oggetto un provvedimento di diniego di rateazione non è chiamato a compiere valutazioni sulla debenza delle somme iscritte a ruolo, ma deve, invece, accertare esclusivamente se, nella fattispecie sottoposta al suo esame, l’a-


16

Atti e interv.qxd

9-04-2009

11:56

Pagina 885

Atti e interventi

gente della riscossione abbia esercitato correttamente il suo potere discrezionale ed abbia, quindi, adeguatamente valutato la sussistenza del presupposto per concedere la dilazione stessa (cioè la temporanea situazione di obiettiva difficoltà). Ad ulteriore conferma della spettanza della giurisdizione in materia al giudice amministrativo è opportuno evidenziare, inoltre, che il contribuente può chiedere la dilazione di somme iscritte a ruolo da enti creditori diversi (ad esempio Agenzia delle Entrate e Inps), in base a rapporti giuridici di natura differente. Se – come prospettato dal T.A.R. del FriuliVenezia Giulia – si individuasse il giudice competente in materia di rateazione sulla base della natura del rapporto giuridico sottostante l’iscrizione a ruolo, l’impugnativa dell’eventuale provvedimento di diniego della rateazione dovrebbe evidentemente essere proposta, per ciascuna tipologia di credito, dinanzi al singolo giudice titolare della giurisdizione sul merito della pretesa. Si perverrebbe, così, alla paradossale conseguenza che, pur in mancanza di un’espressa previsione

4 2008 885

legislativa in tal senso, il contribuente, a fronte di un unico provvedimento di rigetto della sua istanza, dovrebbe istaurare una pluralità di giudizi distinti. In tal modo, il vaglio della legittimità del medesimo provvedimento di rateazione sarebbe affidato ad una pluralità di giudici, con il rischio, ovviamente, che essi emettano pronunce contrastanti. In proposito, del resto, si può ancora evidenziare che – nonostante la rateazione dei debiti tributari iscritti a ruolo sia un istituto tipico e risalente nel tempo – nessuna disposizione normativa relativa alla giurisdizione tributaria (il D.P.R. n. 636/1972 prima e il D.Lgs. n. 546/1992 poi) ha mai indicato i provvedimenti di diniego di rateazione di tali debiti tra quelli impugnabili dinanzi alle suddette Commissioni tributarie. Tale circostanza, se unita alle considerazioni che precedono, rafforza, a mio avviso, la conclusione che il legislatore, con riferimento alla concessione della dilazione di pagamento, non ha mai attribuito rilevanza al contenuto del rapporto giuridico dal quale è scaturita l’iscrizione a ruolo.


17 Indice Crono

10-04-2009

886

16:01

Pagina 886

GiustiziaTributaria

4 2008

Indice cronologico delle sentenze

Commissione tributaria provinciale di Genova, sez. XIII, 26 marzo 2007, n. 74

847

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XIX, (ordinanza) 4 aprile 2007, n. 19

812

Commissione tributaria regionale della Campania, sez. XXVIII, 11 giugno 2007, n. 103

831

Commissione tributaria regionale della Campania, sez. L, 25 giugno 2007, n. 130

794

Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. XV, 27 giugno 2007, n. 302

853

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XXX, (ordinanza) 20 agosto 2007, n. 47

813

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. IX, 12 ottobre 2007, n. 120

799

Commissione tributaria regionale dell’Umbria, sez. V, 26 ottobre 2007, n. 80

763

Commissione tributaria provinciale di Foggia, sez. VII, 26 ottobre 2007, n. 280

764

Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 14 novembre 2007, n. 164

720

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 11 dicembre 2007, n. 560

821

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. XIX, (ordinanza) 17 dicembre 2007, n. 96

742

Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 24 gennaio 2008, n. 247

751

Commissione tributaria provinciale di Ascoli Piceno, sez. I, 25 gennaio 2008, n. 7

766

Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. XXIII, 19 febbraio 2008, n. 12

700

Commissione tributaria di II grado di Bolzano, sez. II, 25 febbraio 2008, n. 2

769

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. IX, 4 marzo 2008, n. 60

843

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XXV, 18 marzo 2008, n. 19

770

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. X, 27 marzo 2008, n. 20

773

Commissione tributaria provinciale di Mantova, sez. III, 27 marzo 2008, n. 35

777

Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. XIII, 27 marzo 2008, n. 74

713

Commissione tributaria provinciale di Piacenza, sez. IV, 31 marzo 2008, n. 24

779

Commissione tributaria di I grado di Bolzano, sez. I, 1 aprile 2008, n. 68

804

Commissione tributaria provinciale di Trieste, sez. IV, 9 aprile 2008, n. 26

753


17 Indice Crono

10-04-2009

16:01

Pagina 887

GiustiziaTributaria 4

2008 887

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XX, 21 aprile 2008, n. 91

727

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XXV, 13 maggio 2008, n. 52

772

Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. LVIII, 12 giugno 2008, n. 94

776

Commissione tributaria provinciale di Savona, sez. V, 30 giugno 2008, n. 285

730

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XIV, 11 luglio 2008, n. 76

775

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXVI, 17 luglio 2008, n. 76

828


18 Finito stampare

7-04-2009

13:09

Pagina 888


18 Finito stampare

7-04-2009

13:09

Pagina 889


18 Finito stampare

7-04-2009

13:09

Pagina 890

Finito di stampare nel mese di aprile 2009 presso Logo, Borgoricco - Padova




Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.