Giustizia Tributaria 2008 n. 3

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comitato direttivo Claudio Consolo ordinario di diritto processuale civile Università di Padova Lorenzo del Federico ordinario di diritto tributario Università di Chieti e Pescara Salvatore Sammartino ordinario di diritto tributario Università di Palermo Giuliano Tabet ordinario di diritto tributario Università di Roma - La Sapienza Francesco Tesauro ordinario di diritto tributario Università degli Studi di Milano - Bicocca comitato scientifico Fabrizio Amatucci ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Massimo Basilavecchia ordinario di diritto tributario Università di Teramo Silvia Cipollina straordinario di diritto tributario Università di Pavia Angelo Contrino associato di diritto tributario italiano ed europeo Università di Modena e Reggio Emilia Daria Coppa straordinario di diritto tributario Università di Palermo Roberto Cordeiro Guerra straordinario di diritto tributario Università di Firenze Stefano Fiorentino associato di diritto tributario Università di Salerno Maria Cecilia Fregni [coordinamento] ordinario di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Gianfranco Gaffuri ordinario di diritto tributario Università di Milano Alessandro Giovannini ordinario di diritto tributario Università di Siena Manlio Ingrosso ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Agostino Ennio La Scala associato di diritto tributario Università di Palermo Antonio Lovisolo associato di diritto tributario Università di Genova Alberto Marcheselli associato di diritto tributario Università di Torino Enrico Marello associato di diritto tributario Università di Torino Sebastiano Maurizio Messina ordinario di diritto tributario Università di Verona Salvatore Muleo straordinario di diritto tributario Università della Calabria Mario Nussi associato di diritto tributario Università di Udine Raffaele Perrone Capano ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Federico II Maria Cristina Pierro associato di diritto tributario Università dell’Insubria Francesco Pistolesi straordinario di diritto tributario Università di Siena Roberto Schiavolin ordinario di diritto tributario Università di Padova Loris Tosi ordinario di diritto tributario Università di Venezia - Ca’ Foscari Alessandro Turchi associato di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Giuseppe Zizzo straordinario di diritto tributario Università LIUC - Castellanza comitato di redazione Christian Califano Filippo Cicognani Alessandra Magliaro Annalisa Pace Alessandra Villecco [coordinamento]

Claudio Consolo Lorenzo del Federico Salvatore Sammartino Giuliano Tabet Francesco Tesauro

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hanno collaborato a questo numero Patrizia Alfani cultore di diritto tributario, Università di Siena Laura Baccaglini ricercatrice di diritto processuale civile, Università di Trento Mario Cardillo professore associato di diritto tributario, Università di Foggia Maria Cassano avvocato, Università di Venezia Ca’ Foscari Riccarda Castiglione dottore di ricerca in diritto tributario europeo Enrico Ceriana avvocato in Milano Mario Cermignani dottorando in diritto europeo e comparato dell’impresa e del mercato, Università di Chieti e Pescara Roberto Cordeiro Guerra professore straordinario di diritto tributario, Università di Firenze Francesco Crovato professore associato di diritto tributario, Università di Ferrara Vincenzo D’Agostino dottore di ricerca in fiscalità internazionale e cooperazione amministrativa tributaria, Seconda Università di Napoli Lorenzo del Federico professore ordinario di diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Chiara Di Cola dottoranda di ricerca in diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Chiara Franzon dottore in economia e legislazione d’impresa, Università di Verona Maria Cecilia Fregni professore ordinario di diritto tributario, Università di Modena e Reggio Emilia Stefania Gianoncelli ricercatrice di diritto tributario, Università dell’Insubria Alberto Marcheselli professore associato di diritto tributario, Università di Torino Cristina Marcolongo avvocato in Siena Enrico Marello professore associato di diritto tributario, Università di Torino Maurizio Matteuzzi docente a contratto di diritto processuale tributario, Università di Trento Francesca Miconi dottoranda in diritto europeo e comparato dell’impresa e del mercato, Università di Chieti e Pescara Maria Grazia Ortoleva dottoranda in diritto tributario, Università di Verona Annalisa Pace ricercatrice di diritto tributario, Università di Teramo Elisabetta Rispoli magistrato Giovanni Alduino Ventimiglia dottore di ricerca in diritto tributario, Seconda Università di Napoli Marco Versiglioni professore associato di diritto tributario, Università di Perugia Alessandra Villecco professore a contratto di diritto processuale civile, Università di Verona direttore responsabile Daniela Artioli redazione Maria Pia Petrei stampa Logo (Borgoricco PD) progetto grafico Avenida (Modena) © Gedit edizioni, marzo 2009 via Irnerio 12/5, 40126 Bologna tel. 051 4218740, fax 051 4210565, mail@gedit.com, www.gedit.com ISSN 1590-5381 Abbonamento 12 mesi: 7 160,00 Singolo fascicolo 7 50,00 I materiali per la pubblicazione vanno inviati per posta elettronica a redazione@giustiziatributaria.it oppure via fax al n. 051 4210565. Gli autori devono uniformarsi ai criteri redazionali che possono essere richiesti via e-mail all’indirizzo sopra indicato.


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DOTTRINA SAGGI Imposizione fiscale e accordi preventivi di Francesco Crovato

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L’invalidità dell’accertamento con adesione di Enrico Marello

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Accertamento con adesione, logica e responsabilità della scelta di Marco Versiglioni

446

NOTE A SENTENZA I controlli bancari: il problema dell’equivalenza “prelievo-ricavo (compenso)” nell’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973 di Maria Cassano

464

Il contraddittorio anticipato ex art. 12 dello Statuto del contribuente di Vincenzo D’Agostino

478

Il condono per ritardati od omessi versamenti: lacuna normativa e dubbi interpretativi di Chiara Di Cola

489

Gli impianti eolici nel sistema dell’imposta comunale sugli immobili di Mario Cardillo

502

Il rimborso dei costi di fideiussione secondo lo Statuto del contribuente di Riccarda Castiglione

518

La stabile organizzazione dopo il caso Philip Morris di Enrico Ceriana

529

La cosiddetta esterovestizione al vaglio dei giudici di merito di Roberto Cordeiro Guerra

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Il dies a quo del termine breve per la riproposizione dell’appello di Alessandra Villecco

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Inammissibilità del cd. ricorso collettivo-cumulativo nel processo tributario: la connessione impropria non costituisce presupposto per il cumulo originario di domande nelle liti di imposta di Laura Baccaglini

609

La non punibilità delle violazioni formali nella giurisprudenza delle Commissioni tributarie di Lorenzo del Federico

619

GIURISPRUDENZA ACCERTAMENTO Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. XII, 4 giugno 2007, n. 158 Accertamento - Controlli bancari - Movimenti di conto corrente - Ricavi e compensi - Presunzione relativa - Configurabilità

464

Accertamento - Controlli bancari - Prelievi da conto corrente - Indicazione del beneficiario - Prova liberatoria - Configurabilità Accertamento - Controlli bancari - Natura procedimentale dell’art. 32, D.P.R. 600/1973 Applicazione retroattiva - Configurabilità nota di Maria Cassano Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 18 dicembre 2007, n. 198 Accertamento - Imposte sui redditi - Dichiarazione - Allegati - Documentazione delle ritenute d’acconto - Mancata esibizione della certificazione del sostituto d’imposta - Prova con altra documentazione - Ammissibilità

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Commissione tributaria regionale del Molise, sez. I, 24 gennaio 2008, n. 25 Accertamento - Processo verbale di constatazione - Contraddittorio - Termine di 60 giorni per la produzione di memorie - Emissione dell’avviso di accertamento - Inosservanza del termine - Nullità dell’avviso di accertamento di Vincenzo D’Agostino

478

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXI, 25 gennaio 2008, n. 6 Accertamento - Controlli bancari - Poteri degli uffici - Conti bancari del contribuente - Presunzione di imputazione degli elementi risultanti come ricavi - Prova contraria - Falsità delle firme apposte sui documenti bancari - Disconoscimento di sottoscrizione - Querela di falso - Necessità - Perizia di parte - Insufficienza

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CONDONI E SANATORIE Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. IX, 19 dicembre 2007, n. 167 Condoni e sanatorie - Condono ex art. 9-bis, L. n. 289/2002 - Mancato integrale versamento dei ratei - Conseguenze - Decadenza dai benefici premiali nota di Chiara Di Cola

489

ICI Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 10 maggio 2007, n. 63 Ici - Esenzioni - Fabbricati rurali - Cooperativa agricola - Assoggettamento ad imposta

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Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. IV, 20 agosto 2007, n. 86 Ici - Fabbricati strumentali ad attività agricole - Carattere di ruralità - Esenzione ab origine Diritto al rimborso

500

Commissione tributaria provinciale di Foggia, sez. II, 19 settembre 2007, n. 127 Ici - Impianti eolici - Pale eoliche - Tassabilità - Esclusione

502

Commissione tributaria regionale della Campania, sez. XXIX, 12 novembre 2007, n. 187 Ici - Impianti eolici - Pale eoliche - Tassabilità - Sussistenza nota di Mario Cardillo

503

IMPOSTE E TASSE IN GENERE Commissione tributaria provinciale di Grosseto, sez. IV, 7 dicembre 2007, n. 114 Imposte e tasse in genere - Misure cautelari ex art. 22, D.Lgs. n. 472/1997 - Ipoteca e sequestro - Garanzia crediti per tributi e interessi moratori - Applicabilità

515

Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, sez. I, 15 gennaio 2008, n. 2 Imposte e tasse in genere - Statuto del contribuente (L. n. 212/2000) - Tutela dell’integrità patrimoniale - Costo delle fideiussioni - Rimborso ex art. 8 dello Statuto - Regolamento attuativo Mancata emanazione - Irrilevanza - Diretta applicabilità art. 8 nota di Riccarda Castiglione

518

IMPOSTE SUI REDDITI Commissione tributaria provinciale di Rimini, sez. II, 12 marzo 2008, n. 26 Imposte sui redditi - Stabile organizzazione - Stabile organizzazione materiale - Stabile organizzazione occulta - Fattispecie - Insussistenza

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Imposte sui redditi - Stabile organizzazione - Rete di agenti - Stabile organizzazione personale Insussistenza Imposte sui redditi - Stabile organizzazione - Reddito della stabile organizzazione - Modalità Attribuzione totalità ricavi della casa madre estera - Infondatezza nota di Enrico Ceriana

IRES Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. I, 24 settembre 2007, n. 75 Ires - Residenza fiscale - Società holding - Sede legale all’estero - Esterovestizione - Localizzazione in Italia - Fattispecie - Onere probatorio

541

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. XVI, 13 ottobre 2007, n. 108 Ires - Residenza fiscale - Società controllata con sede legale all’estero - Esterovestizione Localizzazione in Italia - Prevalenza della sede di direzione effettiva

545

Commissione tributaria provinciale di Belluno, sez. I, 14 gennaio 2008, n. 174 Ires - Residenza fiscale - Società sub-holding - Fattispecie - Sede di direzione effettiva in Italia Esterovestizione

549

Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXV, 18 gennaio 2008, n. 61 Ires – Residenza fiscale - Accertamento - Notificazioni - Società con sede legale all’estero Individuazione del domicilio fiscale - Notificazione effettuata presso la sede dell’amministrazione in Italia - Nullità - Efficacia sanante del raggiungimento dello scopo - Condizione

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Ires - Residenza fiscale - Società incorporata in Stato membro UE - Diritto di stabilimento - Limitazione o esclusione per ragioni di evasione o elusione fiscale - Esterovestizione - Fattispecie - Esclusione nota di Roberto Cordeiro Guerra

IRPEF Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. X, 17 ottobre 2007, n. 181 Irpef - Ritenute d’acconto - Enti non commerciali - Associazione attiva nel settore della formazione extrascolastica - Prestazione di servizi rese a favore degli associati - Natura non commerciale Presenza di associati che non usufruiscono delle prestazioni dell’ente - Irrilevanza - Pagamenti effettuati ad educatori - Ritenute d’acconto - Esclusione

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Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. X, 30 gennaio 2008, n. 182 Irpef - Reddito di lavoro dipendente - Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni Italia-Argentina - Nozione di “domicilio” e “centro di interessi” in Italia - Rilevanza - Doppia residenza “fiscale” del percettore - Sussistenza

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Irpef - Reddito di lavoro dipendente - Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni Italia-Argentina - Rimborso delle imposte pagate in Italia - Presupposto - Doppia imposizione effettivamente subita - Prova della tassazione in Argentina - Onere a carico del contribuente

IVA Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XLI, 17 gennaio 2008, n. 463 Iva - Cessione intracomunitaria - Codice identificativo comunitario - Omessa comunicazione al cedente nazionale dell’intervenuta modifica - Indicazione in fattura di un codice errato - Errore formale - Non imponibilità dell’operazione

583

PROCESSO TRIBUTARIO Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXIV, 3 luglio 2007, n. 8 Processo tributario - Sentenza - Errori materiali - Procedimento di correzione ex art. 288 c.p.c. Ammissibilità

586

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XVIII, 10 luglio 2007, n. 117 Processo tributario - Impugnazione - Decorrenza - Termine breve - Notificazione atto d’appello Esclusione nota di Alessandra Villecco

588

Commissione tributaria provinciale di Caserta, sez. XV, 17 settembre 2007, n. 271 Processo tributario - Giurisdizione delle Commissioni tributarie - Fermo amministrativo dei beni mobili registrati - Differenziata natura dei crediti - Irrilevanza - Giurisdizione tributaria - Sussistenza

593

Processo tributario - Atti impugnabili - Preavviso di fermo amministrativo - Omessa iscrizione nei pubblici registri - Impugnabilità - Carenza dell’interesse - Sussistenza Commissione tributaria provinciale di Grosseto, sez. III, 29 ottobre 2007, n. 23 Processo tributario - Ipoteca esattoriale - Impugnazione per crediti non tributari - Rilevanza della natura del credito - Giurisdizione tributaria - Insussistenza - Giurisdizione ordinaria - Sussistenza

603

Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. II, 5 novembre 2007, n. 533 Processo tributario - Ipoteca esattoriale - Impugnazione per crediti non tributari - Contributi previdenziali Inps - Atto dell’esecuzione - Giurisdizione tributaria - Insussistenza - Giurisdizione ordinaria - Sussistenza

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Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez III, 20 febbraio 2008, n. 88 Processo tributario - Ipoteca esattoriale - Natura - Atto dell’esecuzione - Termine annuale inizio espropriazione - Decorso - Necessità notifica intimazione di pagamento - Sussistenza - Nullità dell’iscrizione ipotecaria

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Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 4 dicembre 2007, n. 219 Processo tributario - Ricorso collettivo/cumulativo - Ricorso contro atti distinti, concernenti beni differenti - Comunanza solo di questioni - Litisconsorzio facoltativo originario - Connessione impropria - Inammissibilità nota di Laura Baccaglini

609

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. V, 15 aprile 2008, n. 93 Processo tributario - Diniego disapplicazione disciplina sulle società non operative - Impugnabilità

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Processo tributario - Ricorsi contro provvedimenti della direzione regionale - Competenza territoriale delle Commissioni - Riferimento sede ufficio competente in ragione del domicilio fiscale

SANZIONI AMMINISTRATIVE Commissione tributaria provinciale di Chieti, sez. III, 30 gennaio 2007, n. 157 Sanzioni amministrative - Operazioni Iva intracomunitarie - Violazione obblighi ex artt. 46 e 47, D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427) - Violazione formale Configurabilità - Art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) - Inapplicabilità delle sanzioni

619

Commissione tributaria di I grado di Trento, sez. II, 31 gennaio 2007, n. 85 Sanzioni amministrative - Operazioni Iva intracomunitarie - Violazione obblighi ex artt. 46 e 47, D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427) - Violazione formale Configurabilità - Sanzioni ex artt. 5 e 6, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 - Inapplicabilità ex art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) - Sussistenza

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Commissione tributaria provinciale di Latina, sez. V, 31 gennaio 2007, n. 226 Sanzioni amministrative - Omessi versamenti periodici Iva - Violazione formale - Inconfigurabilità - Esimente ex art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) Inapplicabilità - Fase pagamento del tributo - Violazione sostanziale - Sussistenza - Sanzioni ex art. 13, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 - Applicabilità

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Commissione tributaria provinciale di Genova, sez. XIII, 22 febbraio 2007, n. 34 Sanzioni amministrative - Comunicazione Ici - Obbligo previsto dal regolamento comunale Tardività - Effettiva conoscenza eventi imponibili - Rilevanza - Violazione formale Configurabilità - Sanzione - Inapplicabilità ex art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) - Sussistenza

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Commissione tributaria di II grado di Trento, sez. I, 6 novembre 2007, n. 90 Sanzioni amministrative - Operazioni Iva intracomunitarie - Violazione obblighi ex artt. 46 e 47, D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427) - Violazione formale Configurabilità - Sanzioni ex artt. 5 e 6, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 - Inapplicabilità ex art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) - Sussistenza nota di Lorenzo del Federico

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TRIBUTI LOCALI Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXII, 17 settembre 2007, n. 87 Tributi locali - Tarsu - Denuncia di variazione di destinazione - Nuova liquidazione della tassa Diretta iscrizione a ruolo - Illegittimità - Avviso di accertamento - Necessità

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ATTI E INTERVENTI Sospensione dei termini, sospensione dell’esecuzione e revocazione di Cristina Marcolongo

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Notificazione delle cartelle di pagamento: la Corte costituzionale fa salvo il termine introdotto nella disciplina transitoria di Elisabetta Rispoli

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Indice cronologico delle sentenze

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IMPOSIZIONE FISCALE E ACCORDI PREVENTIVI* di Francesco Crovato 1. Accordi preventivi e diritto tributario: le specificità rispetto al diritto amministrativo - 2. Affinità e differenze tra accordo preventivo e successivo all’autoliquidazione del tributo - 3. Gli accordi preventivi per artigiani e piccoli commercianti: una possibilità logico-strutturale in attesa di risposte normative - 4. Il fisco negoziato in via preventiva come possibile via d’uscita per le questioni di fiscalità specialistica - 5. Alcuni aspetti problematici degli accordi preventivi: dalla possibile lesione del principio della capacità contributiva alla difficoltà di individuare spazi per una tutela giurisdizionale

1. Accordi preventivi e diritto tributario: le specificità rispetto al diritto amministrativo L’accordo è normalmente visto, in particolare nel diritto tributario, come elemento di estinzione delle controversie, piuttosto che come elemento di loro prevenzione. Non c’è da meravigliarsi se si pensa che sotto questo profilo (accordo come elemento di prevenzione di una controversia) l’accordo ha già intuitivamente un ambito di applicazione più ridotto. Vi sono, infatti, questioni, ad esempio lesive dell’ordine pubblico o del buon costume, che l’ordinamento può al limite gestire quando accadono, ma su cui un accordo preventivo è inconcepibile. Se, in linea generale, l’accordo successivo si può concludere tutte le volte che è in essere una controversia, l’accordo preventivo si può raggiungere solo quando una controversia possibile è nell’ambito del lecito. Il diritto amministrativo sugli accordi preventivi è in ogni caso lontano dal diritto penale, perché tratta di questioni sostanzialmente non illecite, anzi addirittura sollecitate dall’ordinamento giuridico. Identico discorso, sotto questo profilo, può, naturalmente, essere fatto per il diritto tributario, dove il pagamento delle imposte è qualche cosa che l’ordinamento auspica, e anzi desi-

* Testo elaborato sulla base della relazione tenuta nell’ambito del III Incontro di studio fra amministrativisti e tributaristi, “Azione amministrati-

dera che sia fatto nel modo più efficiente possibile. Sul piano logico, non vi sono quindi ostacoli ad accordi preventivi in questo settore del diritto, dal momento che pagare le imposte è doveroso oltre che lecito. L’accordo, nel diritto tributario, non riguarda però mai uno scambio per ottenere beni o servizi, ma una modalità di esercizio della funzione amministrativa svolta dal fisco; quindi, deve essere sempre compatibile con i compiti e le prerogative affidate all’attività amministrativa finanziaria. Il rinnovato interesse del diritto tributario verso gli accordi può allora anche essere visto come un aspetto particolare del più ampio passaggio dall’esercizio unilaterale del potere, da parte delle autorità amministrative, a modelli consensuali basati sull’adesione dei privati per il raggiungimento di obiettivi pubblici. Può avere condivisibili riflessi e ricadute anche nel diritto tributario, nella misura in cui esprime, anche in relazione ad un’evoluzione dei rapporti fra amministrazione e cittadini democratica e garantistica dei loro diritti, una tendenza generale a superare anacronistici atteggiamenti autoritari, aprendosi al dialogo, alla trasparenza e recuperando tutti i possibili elementi di consensualità nei rapporti con i contribuenti. Sarebbe tuttavia riduttivo affermare che questa tendenza generale del diritto amministrativo si sia ripercossa nel diritto tributario, e sia la causa dell’insistenza con cui in esso si parla di “modelli consensuali” e di imposizione concordata. Anzitutto, con il ritorno a modelli consensuali, il diritto tributario ha semplicemente recuperato le proprie tradizioni remote; queste ultime del resto si erano protratte fino al recente passato. Nella storia, era piuttosto naturale che di fronte ad elementi di indeterminata individuazione, quantificazione, o comunque controversi (anche se si trattava di questioni ben individuate nell’an), si cercasse un punto di intesa. Anche quando erano

va ed azione impositiva tra autorità e consenso. Strumenti e tecniche di tutela dell’amministrato e del contribuente”, svoltosi in Pescara il 5 ot-

tobre 2007, su iniziativa del Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Chieti-Pescara.


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gli uffici a chiedere le imposte, l’attività “valutativa” che questo ruolo richiedeva offriva, infatti, notevoli margini di accordo, anziché intraprendere una lite dall’incerto esito. Anche oggi, con l’iniziativa del prelievo affidata ai contribuenti e l’attribuzione agli uffici di una funzione di controllo, le incertezze che talvolta circondano la determinazione analitica degli imponibili rendono ipotizzabile una soluzione concordata, analogamente del resto a quanto avviene in altri settori del diritto, non ultimo il patteggiamento nel processo penale. In secondo luogo, proprio perché l’accordo in materia tributaria non si giustifica – come detto – in termini di scambio per ottenere beni o servizi, ma come alternativa all’esercizio dei poteri unilaterali affidati all’amministrazione finanziaria, occorre fare attenzione a trasporre meccanicamente a questo settore del diritto categorie concettuali, sorte con riferimento ad attività amministrative autorizzatorie, concessorie o di sostegno ad attività private, in cui esiste un profilo di scambio di utilità. Si tratta infatti di categorie che possono anche essere riferite ad attività “ablatorie”, come accade del resto nello stesso diritto amministrativo per l’espropriazione o la requisizione sostituite da rapporti paritetici di vendita o di locazione. Ma in genere per i provvedimenti “ablatori” queste contropartite patrimoniali mancano. E mentre persino l’espropriazione può essere talvolta un buon affare per il cittadino, ed essere convenientemente sostituita da un contratto di vendita, il prelievo fiscale non ha contropartite di sorta. Il modello consensuale può riguardare invece modalità più certe, e condivise con il contribuente, di determinazione del prelievo tributario: ad esempio, l’adesione del contribuente ad un accertamento gli assicura una determinazione meno litigiosa, meno rischiosa e meno sanzionata, di quello che rimane pur sempre un sacrificio patrimoniale1; e l’accordo non comporta quindi vantaggi in termini patrimoniali. Altro profilo rilevante di distinzione, rispetto al diritto amministrativo, consiste nel fatto che le definizioni consensuali del diritto tributario non

1 Nel diritto tributario, è infatti presente un trasferimento unilaterale di risorse a favore del fisco. Sottolinea DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, ed. provv., Pescara, 2003, 73, che anche in presenza di una sempre «più accentuata

comportano una variazione del carico tributario in nome di interessi a rilevanza politico-sociale, come l’ambiente, la proprietà, la salute, la sicurezza, il patrimonio culturale, e così via. Il bilanciamento tra interesse al gettito, rispetto della proprietà o dello sviluppo è già stato effettuato in sede legislativa. Restano tuttavia parecchi altri interessi da curare, magari politicamente non qualificati e più sbiaditi, ma di grande importanza nel consesso civile. Si tratta della semplicità, della precisione, della tutela dell’affidamento, della certezza dei rapporti, ecc. Tra questi punti di vista occorre in concreto trovare un compromesso. Gli uffici fiscali devono quindi contemperare al meglio, in relazione alla fondatezza delle rispettive pretese, tutti i vari aspetti, sopra menzionati, ivi compresa l’imparzialità, la snellezza, l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa, con la necessità di effettuare una valutazione di convenienza amministrativa. Anche se l’interesse da perseguire è unico (l’esercizio della funzione pubblica attribuita: in questo caso prelevare imposte e assicurare una certa continuità alle entrate erariali), i modi di realizzarlo sono diversi in relazione alle sfaccettature sopra indicate. L’amministrazione finanziaria non è titolare di una funzione tesa a contemperare l’interesse al gettito e allo sviluppo, o alla sanità e all’istruzione. Ma l’interesse al gettito va pur sempre visto su larga scala, sotto tanti profili, e non grossolanamente come ottusa richiesta della somma più elevata, rilevando quindi tutti i punti di vista che caratterizzano la funzione tributaria. In tutte queste ipotesi emerge quindi una strutturale valutatività, che investe profili ulteriori rispetto alla mera interpretazione, anche se senza giungere al bilanciamento tra diversi interessi economico-sociali. Lo studio e l’approfondimento di questi margini di valutazione, dei criteri con cui gli uffici devono contemperare modalità diverse di considerare un unico interesse, è stato fino ad ora oggettivamente frenato da un recepimento, probabilmente un po’ rigido, delle formule amministrativistiche secondo cui vi è discrezionalità solo quando occorre contemperare “diversi” interessi pubblici e privati, e ha finito per

ricerca del consenso del contribuente nell’effettuazione del prelievo [...] è comunque inconcepibile il superamento della connotazione indefettibilmente autoritativa della potestà impositiva»; ancora lo stesso autore, op. cit., 297, osserva come in materia tri-

butaria non si potrà mai «elidere la connotazione autoritativa della potestà impositiva, che in ultima analisi incide con effetti ablatori e decurtatori nella sfera economica del contribuente, trasferendo unilateralmente risorse nella sfera economica pubblica».


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indurre ad una certa cautela anche la dottrina, specie in tema di accertamento con adesione2. 2. Affinità e differenze tra accordo preventivo e successivo all’autoliquidazione del tributo Chiarite queste differenze, è evidente comunque come l’unilateralità di fondo dell’intervento del fisco si intrecci anche nel diritto tributario, come già avvenuto da tempo nel diritto amministrativo, con una serie di filtri di contraddittorio preventivo e successivo, di tentativi di conciliazione3. Si tratta di filtri amministrativi in cui, naturalmente entro una cornice di vincolatezza (con l’individuazione dei criteri, con l’individuazione delle responsabilità, e via enumerando), l’amministrazione compie valutazioni comparative di vari profili di opportunità amministrativa. Sia nell’accertamento con adesione, sia nella conciliazione giudiziale, l’ufficio deve infatti valutare correttamente il modo in cui contemperare la massimizzazione dell’imposta accertata e la certezza di acquisirne una parte, alla luce delle prospettive del contenzioso, considerando l’economicità dell’azione amministrativa4. L’ufficio è chiamato quindi a svolgere apprezzamenti di opportunità e convenienza, dovendo contemperare una serie di punti di vista confliggenti sotto cui guardare ad un interesse unico, cioè la pronta e perequata percezione dei tributi, in termini di precisione, economia di risorse amministrative, incertezze processuali, previsione del grado di fondatezza della pretesa erariale e delle obiezioni del contribuente. La fondatez-

2 Tra cui si vedano MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000; MOSCATELLI, La disciplina della transazione nella fase della riscossione del tributo, in Riv. Dir. Trib., 2005, I, 483 e Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007. Profili di discrezionalità negli istituti di definizione consensuale della lite tributaria (accertamento con adesione e conciliazione giudiziale) sono stati però già individuati da SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 221 ss.; VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001; LUPI, Società, diritto e tributi, Il Sole 24 Ore, 2005. Contra, per tutti, FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 254, secondo cui tali istituti «non configurano ipotesi di discrezionalità in senso proprio non potendo ponderare né interessi fiscali con interessi extrafiscali dell’ente impositore, né

za sostanziale della pretesa (questione che in sé non comporta valutazioni discrezionali) diventa a questo punto uno tra i parametri da contemperare con le altre esigenze sopra indicate (rapida definizione, eliminazione delle incertezze del contenzioso, ecc.) in un giudizio che invece è strutturalmente discrezionale. La fondatezza della pretesa deve in altri termini essere valutata alla luce delle obiezioni che può muoverle il contribuente e dei tempi, delle prospettive e dei costi di un eventuale contenzioso. Può accadere che l’accertamento sia relativamente più debole sul piano della fondatezza, pur senza giungere ad un livello tale da giustificarne una revoca integrale, in base al principio di autotutela. In tal caso, sarà tanto più giustificato l’interesse ad eliminare le incertezze e le lungaggini del contenzioso, anche rinunciando ad una parte relativamente maggiore della pretesa. I profili da valutare in queste determinazioni consensuali non attengono evidentemente alla meritevolezza sostanziale degli interessi, alla rilevanza sociale dell’attività svolta dal contribuente, alla sua importanza per lo sviluppo, alle eventuali condizioni di bisogno o all’opposto agli interessi erariali al gettito. Si tratta invece di una valutazione di interessi “interna” alla determinazione dell’imposta, che non può quindi tener conto di interessi estranei alla determinazione dell’imposta medesima; e in questo senso si spiega, ed è salvaguardata, la cd. “indisponibilità del credito tributario”5, che attiene appunto al divieto di apprezzare circostanze non attinenti alla determinazione

l’interesse all’imposta corrispondente al presupposto con quelli alla deflazione delle liti, alla non soccombenza, alla rapida acquisizione del gettito». 3 Nel nostro ordinamento l’accordo può intervenire sia prima che dopo l’autoliquidazione del tributo. In via preventiva rispetto all’autoliquidazione, vi sono il ruling internazionale e in prospettiva il concordato preventivo. In via successiva, il D.Lgs. n. 218 del 19 giugno 1997 consente – come noto – di trovare accordi nella fase iniziale della controversia, comunque prima della sentenza del giudice di primo grado con meccanismi comunemente definiti di definizione concordata. 4 In questo senso, si veda per tutti LUPI, Diritto tributario. Parte generale, Milano, 2000, 89; non mancano e anzi sono più numerose le posizioni contrarie, tra le quali MICCINESI, Accertamento con adesione e conciliazione

giudiziale, in AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria, Padova, 1999, 7 e FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 265 e 477, che sottolinea come, a suo avviso, «il consenso delle parti non disponga dell’obbligazione tributaria determinandone l’entità anche attraverso ponderazioni di interessi e elementi esterni al presupposto quali la deflazione delle liti, la rapidità della riscossione, le probabilità di successo, ecc.» Secondo questa parte della dottrina il consenso convergerebbe invece solo «sulla determinazione qualitativa e quantitiva del presupposto conferendo ad essa una particolare stabilità» (FANTOZZI, op. cit., 265). 5 Di indisponibilità del credito tributario si è parlato spesso in accezioni e con significati diversi, raramente in modo diretto. Sull’incertezza che circonda questa espressione, e sulle sfumature differenziali utilizzate dalla dottrina e dalla giurispruden-


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dell’imposta, al rapporto tra prospettive del giudizio e rinuncia a una parte più o meno grande della pretesa. In queste valutazioni si possono così scorgere i tratti tipici delle valutazioni ricorrenti anche nelle determinazioni preventive: se nell’accertamento con adesione si rinuncia, infatti, a un po’ di precisione in nome della certezza e della definizione dei rapporti, perché si elimina così il rischio

za per inquadrarla, si vedano VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario. Contributo allo studio dell’attuazione consensuale della norma tributaria, ed. provv., Perugia, 1996, 252 ss., con ulteriori citazioni e sviluppi del tema nella successiva edizione definitiva del 2001 (Accordo e disposizione nel diritto tributario. Contributo allo studio dell’accertamento con adesione e alla conciliazione giudiziale, Milano, 2001) e REDI, Appunti sul principio di indisponibilità del credito tributario, in Dir. e Prat. Trib., 1995, I, 407 ss. Si può osservare prima di tutto come le uniche disposizioni che si occupano esplicitamente di indisponibilità del credito tributario siano regole di contabilità pubblica, contenute nel regolamento di contabilità generale dello Stato (R.D. 23 maggio 1924, n. 827), il cui art. 49 così dispone: «Nei contratti non si può convenire esenzione da qualsiasi specie di imposte o tasse vigenti all’epoca della loro stipulazione». Questa disposizione riproduce l’art. 13 della legge del registro (R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269), che già formulava divieto al Ministro delle Finanze, ai funzionari da esso dipendenti e a qualsiasi altra autorità pubblica di concedere «alcuna diminuzione delle tasse e sovrattasse stabilite da questa legge, né sospendere dalla riscossione senza divenirne personalmente responsabili». Si tratta di disposizioni collocate nel quadro della tassazione degli atti giuridici, il che fornisce una prima indicazione sulla rispettiva funzione. La collocazione di queste previsioni nell’ambito della tassazione dei contratti consente infatti di ipotizzare che esse si riferiscano alla stipula di appalti, forniture o altri lavori pubblici, in genere vincolati a ben individuati stanziamenti di bilancio degli enti appaltanti, che avrebbero talvolta potuto coincidere con gli stessi enti preposti alla riscossione dei tributi (si pensi ad esempio ad una fornitura destinata al Ministero delle Finanze). La stessa autorità

di proseguire in un lungo contenzioso di esito più o meno dubbio magari perdendolo, nella definizione propriamente preventiva rispetto alla dichiarazione, si stabilizza il dichiarato e si evitano comunque future controversie. Del resto è una tendenza ricorrente in tutti i settori del diritto, che cerca di prevenire le controversie, o di estinguerle consensualmente, ove ce ne sia la possibilità.

pubblica avrebbe potuto essere quella chiamata a farsi carico del tributo, in assenza di disposizioni agevolative relative al trasferimento di beni allo Stato o agli enti pubblici. Si sarebbe quindi potuta fare strada, su queste premesse, una prassi contabile di attenuare la tassazione di determinati atti allo scopo di far rientrare, nei rispettivi capitoli di bilancio, spese che altrimenti non vi avrebbero trovato capienza. È una prassi che avrebbe diminuito la trasparenza dei costi degli appalti e indotto un generale disordine giuridico-contabile. Con riferimento a questa eventualità trovano spiegazione le suddette disposizioni di contabilità pubblica, che sarebbe poco credibile spiegare con il rischio di intromissioni degli uffici amministrativi in valutazioni di meritevolezza politico sociale, consistenti nella concessione di sgravi di tributi in funzione della meritevolezza sociale di determinati soggetti o attività (sviluppo, sanità, assistenza, ecc.). Le disposizioni che precedono non possono quindi essere utilizzate a presidio di una generica e indifferenziata vincolatezza dell’attività degli uffici, come se essi non dovessero effettuare scelte di opportunità e convenienza, anche di vera e propria discrezionalità amministrativa, relative prima di tutto ad aspetti che non riguardano la determinazione del tributo, a partire dall’uso dei poteri istruttori fino all’adozione di provvedimenti cautelari (sequestri o sospensioni di riscossione). Tali disposizioni neppure hanno a che vedere con le scelte di opportunità e convenienza presenti talvolta anche sul piano della determinazione del tributo, rispetto alla quale è talvolta possibile effettuare valutazioni discrezionali, in cui la sostenibilità della pretesa fiscale è giudicata in base ai rischi del contenzioso, all’eventualità di soccombenza con rischi di condanna alle spese: mi riferisco alla possibilità, generalizzata in tutti i sistemi tributari nel tempo e nello

spazio, di cristallizzare, con il consenso del contribuente, in sede di accertamento con adesione o di conciliazione giudiziale e, in prospettiva, potenzialmente anche di accordi preventivi, almeno una parte della pretesa tributaria. Qui ci si scontra però con le preoccupazioni relative al principio di legalità, di cui la “indisponibilità del credito tributario” costituirebbe un aspetto se non addirittura un principio con valenza autonoma su di esso fondato. Queste preoccupazioni vanno evidentemente tenute in debito conto, ma l’indisponibilità del credito può acquisire un significato meno ambiguo proprio se riportata alle origini e alle ragioni fondanti del principio di legalità. A ben vedere, il principio dell’indisponibilità del credito tributario appare strettamente collegato (al pari del principio di legalità) alla ripartizione dell’attività pubblica per funzioni, con la connessa autonomizzazione dei relativi profili di spesa. A seguito dell’articolazione delle varie funzioni pubbliche e della loro soggezione a programmi legislativi, il credito tributario è infatti indisponibile in funzione di profili diversi da quelli affidati all’amministrazione finanziaria, ovvero in funzione di interessi attinenti ai riflessi politici e sociali della determinazione dei tributi. Ma per sancire questa indisponibilità non c’era bisogno di disposizioni specifiche, essendo sufficienti quelle sull’azione dell’autorità fiscale. Se ne ricava quindi che è corretto parlare di indisponibilità della pretesa da parte dell’amministrazione fiscale con riferimento ad atti dispositivi di interessi sostanziali attribuiti ad amministrazioni concorrenti; non sembra invece altrettanto corretto estendere questa conclusione alla disposizione di interessi interni all’esercizio della funzione ad essa affidata. Il che equivale a richiamare l’attenzione sull’individuazione dei compiti dell’autorità fiscale, e sul loro corretto svolgimento.


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Questi istituti rispondono, perciò, a ben vedere, ad un bisogno di certezza e di sicurezza. La contribuzione alle pubbliche spese, pur essendo lecita e doverosa, crea infatti sempre una situazione di ansietà e di incertezza, sul piano della determinazione dell’imponibile. Se si riesce a stabilizzarla prima, si consente al contribuente di essere più tranquillo e si evita di lasciare il rapporto tributario per troppo tempo nell’incertezza6. Le valutazioni demandate al fisco sono perciò le medesime sia per l’accertamento con adesione “preventivo” rispetto all’atto impositivo, sia per quello “successivo”, sia per la conciliazione, sia per l’accordo anteriore al verificarsi del presupposto (concordato preventivo): le stesse tipologie di valutazioni che nell’accertamento con adesione e nella conciliazione giudiziale vengono utilizzate ex post, negli accordi preventivi vengono collocate ex ante. Con una differenza ricca di implicazioni significative, però. Nell’accertamento con adesione – e a maggior ragione nella conciliazione giudiziale – esiste una controversia attuale e l’istituto presuppone quindi l’esistenza degli elementi minimi che possono portare, se non hanno già portato, all’emanazione di un atto impositivo. L’accertamento con adesione subentra, invero, in sede di controllo e risente perciò di una determinazione analitica che è imposta a monte. Il che non accade negli accordi preventivi rispetto all’autoliquidazione, proprio per questo caratterizzati da una dimensione amministrativa che si disvela senza equivoci7. 3. Gli accordi preventivi per artigiani e piccoli commercianti: una possibilità logico-strutturale in attesa di risposte normative

6 Scriveva QUARTA nel suo Ricchezza mobile, Milano, 1903, II, 348, a proposito del concordato, che «se è desiderabile in genere che le controversie si tronchino, mediante amichevole componimento, desiderabilissimo è che specialmente si tronchino le contestazioni in materia d’imposte, ove, se dall’una parte nell’interesse dell’erario si esige la maggiore possibile speditezza, dall’altra nell’interesse dei contribuenti e della economia sociale non è mai abbastanza raccomandato, che si rechi loro il minor disturbo possibile, e quanto meno è possibile si tengano incerti ed in sospeso i loro rapporti tributari con lo Stato». 7 Mancando quei profili transattivi presenti invece nell’adesione successiva. Un aspetto transattivo, come pure i

Una legge delega per la riforma del sistema fiscale statale (legge n. 80/2003) aveva – come noto – previsto l’introduzione, con disposizioni peraltro definite solo nelle grandi linee, di un concordato preventivo “personalizzato”, che è stato poi sostituito dalla solita determinazione matematico-statistica, che di concordato aveva conservato solo il nome. In un primo tempo, è stato infatti introdotto il cosiddetto “concordato preventivo biennale”, in realtà misura “emergenziale” basata sull’aumento dei redditi dichiarati negli anni precedenti8. Questo istituto non aveva in realtà natura di concordato ma piuttosto di “condono preventivo”, teso a definire il reddito d’impresa e di lavoro autonomo, come dimostrava la previsione di una franchigia del 50% del dichiarato che limitava le possibilità di accertamento negli anni di vigenza del concordato (cioè il 2003 e 2004). Da ultimo, era stata prevista la cosidetta pianificazione fiscale concordata; ma anche in questo caso il concordato si riduceva a un guscio vuoto, perché mancava a ben vedere la materia concordataria e la determinazione dell’imposta dovuta aveva luogo con l’impiego di un metodo matematico-statistico, basato sugli studi di settore. L’art. 3, lettera e, della legge delega 80 del 2003 per la riforma del sistema fiscale, in materia di concordato triennale preventivo, faceva invece immaginare una tassazione in base alla considerazione delle caratteristiche dell’azienda. La disposizione in esame rivelava quantomeno la consapevolezza dell’opportunità di passare, per commercianti e artigiani, dalla determinazione contabile alla determinazione in base a dati strutturali dell’attività, stimando, in contraddittorio con i con-

meccanismi mentali tipici delle transazioni, sono infatti evidenti nell’accertamento con adesione; e per molti versi sono del tutto analoghi a quelli che scattano nelle trattative tra privati. Ma si tratta pur sempre di una transazione posta in essere nell’esercizio di una funzione pubblica. Nell’attività amministrativa pubblica, rivolta per definizione alla cura di interessi altrui, la scelta dispositiva, compresa quella connessa alla definizione di una controversia, deve essere quindi congruamente motivata, con profili di doverosità che nella transazione non sussistono, e con il menzionato divieto di tener conto di interessi che le disposizioni legislative sottraggono all’autorità fiscale (oltre ai consueti interessi economico-sostanziali si pensi all’interesse a prevenire l’evasione da

riscossione). Sotto questo profilo l’assimilazione piena del concordato alla transazione è fuorviante perché evoca una disponibilità piena degli interessi in gioco che gli uffici fiscali non hanno. Anche nelle ipotesi di accordo amministrazione finanziaria-contribuente rimane quindi in pieno presente una connotazione “amministrativistica”. Si potrebbe obiettare al riguardo che nel caso degli accordi entra in gioco anche il consenso del contribuente. Ma si può agevolmente ribattere che si tratta, a ben vedere, di un consenso “coartato”, che tiene conto per forza di cose della possibilità di esercizio di un potere amministrativo. 8 Art. 33, D.L. 269/2003, così come modificato dall’art. 2, comma 10, della legge 350/2003.


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tribuenti, un volume di ricavi predeterminato da cui sottrarre determinati costi strutturali (dipendenti o fitti dei locali); in questo modo si sarebbe potuto probabilmente risolvere la criticità principale di questi soggetti, cioè la difficile verifica dei ricavi. Appare poco consolante osservare come le regolamentazioni legislative di tali accordi (concordato biennale e pianificazione fiscale triennale) abbiano lasciato ancora una volta l’amministrazione finanziaria nel consueto marginale ruolo di controllo ex post, attribuendo al contribuente il compito di autodeterminare l’imposta dovuta in quello che si profilava come un “concordato fiscale preventivo di massa”. Anche questi provvedimenti si innestavano insomma sulla solita autodeterminazione analitico-contabile dei ricavi, in base a parametri difficilissimi da controllare a posteriori e fortemente manipolabili da parte dei contribuenti (acquisti, beni strumentali, ecc.). Da strumento che poteva essere risolutivo dei problemi di determinazione dei redditi dei soggetti in esame, il concordato preventivo è sembrato quindi diventare un escamotage per far cassa nel breve periodo, come la minimum tax, i parametri, i coefficienti, ecc. Non ci sarebbe quindi da dilungarsi oltre se se l’accordo preventivo non fosse invece una via di uscita logico-strutturale per categorie di contribuenti (artigiani e piccoli commercianti) cui l’autodeterminazione analitica si addice assai poco; questo debole segnale normativo, al di là delle sue traduzioni concrete e del suo per ora definitivo abbandono, costituisce infatti un punto di emersione per esigenze latenti nell’evoluzione, dogmatica e normativa, dell’accertamento tributario. Anche se qualsiasi sistema fiscale vede l’intervento dell’amministrazione finanziaria in una posizione centrale, da alcuni decenni questo viene concepito come una funzione – del tutto eventuale – di controllo dissuasivo dal commettere infedeltà, in un’applicazione dei tributi affidata in prima battuta agli stessi contribuenti9. E anche l’accertamento con adesione s’inscrive, a ben ve-

9 Osserva FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 252-253, che l’accertamento non è più una fase necessaria dell’applicazione del tributo, destinata a determinare il quantum della prestazione. L’applicazione delle principali imposte è infatti demandata ai contribuenti e l’intervento dell’amministrazione è diretto a controllare i comportamenti imposti dalla legge ai medesimi e sanzionarne eventuali inadempi-

dere, in questa logica, dal momento che presuppone l’esistenza degli elementi minimi che possono condurre ad un accertamento. Sono tuttavia evidenti le disfunzioni di un sistema – quale quello attuale –, in cui il giudizio delle Commissioni tributarie sugli aspetti di fatto ha – per la sbrigatività del processo – un’intollerabile componente di imprevedibilità. La sbrigatività delle decisioni, su complesse questioni di fatto, colpisce imparzialmente fisco e contribuenti, ma compromette la credibilità complessiva del sistema. Ma ammettiamo pure che le controversie, a causa di una diminuzione generale del contenzioso, o di una ristrutturazione delle Commissioni tributarie, col reclutamento di giudici a tempo pieno e ben retribuiti, fossero approfondite in modo esauriente. Anche in questo roseo scenario sarebbe forse logico che, per trovare un punto di accordo tra fisco e contribuente in ordine a fatti nascosti e sfuggenti, si dovesse attendere l’emanazione dell’avviso di accertamento? Non dimentichiamo, infatti, di trovarci in una fiscalità autogestita dagli stessi contribuenti, dove la certezza delle situazioni giuridiche va perseguita già al momento delle dichiarazioni fiscali. Se ci sono dei contribuenti per i quali si sa già a priori che il terreno di scontro potenziale non è tanto l’analisi della documentazione aziendale (che rimane nel tempo) quanto le caratteristiche esteriori dell’attività, che possono mutare dopo pochi mesi, a che scopo rinviare ad un indeterminato ed eventuale controllo la ricerca di un punto di incontro con l’amministrazione? Ciò giustifica l’embrionale indicazione della legge delega del 2003 nel riposizionare, su categorie di contribuenti cui l’esame documentale si addice poco10, il momento dell’intervento degli uffici fiscali; anticipare questo momento, collocandolo prima dell’autoliquidazione del tributo, avrebbe indubbi vantaggi rispetto all’attuale controllo ex post. A ciò si deve aggiungere che la determinazione concordata in via preventiva tende a dare certezza ai rapporti giuridici e ad eliminare le controversie futu-

menti: in questo senso, vedasi anche TREMONTI, Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977, 155; PERRONE, Evoluzione e prospettive dell’accertamento tributario, in Riv. Dir. Fin., 1982, I, ; e ancora FANTOZZI, I rapporti tra fisco e contribuente nella nuova prospettiva dell’accertamento tributario, in Riv. Dir. Fin., 1984, I, 234 ss. 10 E comunque viene anch’esso “funzionalizzato” non tanto ad una integra-

zione analitica della documentazione contabile, quanto alla ricerca di fonti di presunzione per smentire, nel loro complesso, i ricavi dichiarati (si pensi all’analisi documentale delle fatture delle lavanderie o dell’energia elettrica, per ricostruire indirettamente i ricavi di un albergo o di un parrucchiere).


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re, consentendo al contribuente una determinazione dei tributi più sicura e meno incerta. L’accordo preventivo appare, in questa prospettiva, come un modo più elastico per fronteggiare i problemi di questi contribuenti, rispetto ai criteri basati su sistemi paracatastali o su controlli ex post in base agli studi di settore11. Anche gli studi di settore dimostrano, in fondo, come l’elaborazione in astratto possa essere molto sofisticata, però al tempo stesso poco aderente alla realtà, vista anche la possibilità dei singoli contribuenti di indicare, ai fini degli studi di settore, dati diversi da quelli effettivi. Si tratta, infatti, sicuramente di uno strumento “statisticamente” raffinato, ma ciò non garantisce che i risultati cui conduce nel caso singolo siano plausibili rispetto alla struttura, ad esempio, del negozio di abbigliamento che si ha di fronte12. L’empirismo di un funzionario esperto appare più affidabile, nella misura in cui egli si rende conto della struttura della bottega, delle attrezzature, del numero dei clienti che entrano, e via dicendo. Gli studi di settore e il catasto sono, a ben vedere, istituti ideati per un’applicazione già da parte degli stessi contribuenti e pensati quindi come la tax compliance, non come un accordo. Sono pensati insomma per tener fuori l’amministrazione finanziaria dalle procedure valutative, non per coin-

11 Contrario all’istituzionalizzazione di «pur seducenti “accertamenti di massa”, basati su parametri e coefficienti presuntivi» è, fra gli altri, anche LA ROSA, Concordato, conciliazione e flessibilità dell’amministrazione finanziaria, in Dir. e Prat. Trib., 1995, I, 1091, che tuttavia si dimostra critico anche verso l’introduzione di «forme di determinazione consensuale degli imponibili “ad inizio anno”». 12 Ciò fra l’altro comporta il rischio che il contribuente accetti lo “studio” quando è a lui favorevole e invece lo contesti quando abbia elementi per ritenere eccessivamente elevato il reddito che risulta dalla sua applicazione. 13 Utilizzo il termine accertamento perché non sarebbe azzardato – ed anzi si rivelerebbe forse più appropriato – definire questo tipo di accordi preventivi, più che accordi, “provvedimenti preventivi”, poiché implicherebbero un vero e proprio “potere” di stima. 14 Per la quale sono state però da ultimo ipotizzate alcune originali e innovative ipotesi di soluzione. Rispetto a questo problema LUPI suggerisce, in Società, diritto e tributi, cit., che

volgerla. L’accertamento preventivo13, quale strumento di personalizzazione e confronto tra le “parti”, potrebbe invece in questo scenario acquistare vigore di provvedimento “in senso forte”, anche di cura di interessi pubblici, teso a fronteggiare validamente l’occultamento dei ricavi delle microimprese. Naturalmente non ci si può nascondere che a tal fine occorre fare i conti con la scarsità di forze dell’autorità fiscale, rispetto al numero enorme dei contribuenti coinvolti14. 4. Il fisco negoziato in via preventiva come possibile via d’uscita per le questioni di fiscalità specialistica Vi è anche il problema ancora irrisolto – e sicuramente rilevante per la competitività del nostro Paese – delle imprese di una certa dimensione e dei gruppi multinazionali. Quando un gruppo multinazionale deve prendere una decisione di investimento, se non ha un quadro certo, rinuncia all’investimento o lo localizza in un altro Paese. Non si può ovviamente proporre per la grande impresa o per il gruppo multinazionale una determinazione preventiva dei ricavi, perché la ricchezza prodotta da questa tipologia di contribuenti non si adatta certo ad una misurazione preventiva in via amministrativa.

«un ausiliario del fisco, per certi aspetti simile ai “grandi sostituti d’imposta”, potrebbe essere [...] individuato nelle nuove professioni generate proprio dalla legislazione tributaria. Gli adempimenti fiscali hanno infatti sviluppato centri contabili e piccoli studi di consulenza commerciale, innumerevoli “direttori amministrativi esterni”, per ora non responsabilizzati nella credibilità dei ricavi dichiarati, e che possono fingere di ignorare l’evasione commessa dai clienti». I professionisti potrebbero infatti rappresentare le entità cui istituzionalmente demandare la verifica estrinseca delle potenzialità aziendali, di quelle caratteristiche esteriori che costituiscono il punto di partenza per verificare la credibilità dei ricavi dichiarati, nonché il compito di segnalare al fisco l’assunzione di nuovi dipendenti o l’acquisto di nuovi locali, e via enumerando. Se il fisco ha forze insufficienti per controllare milioni di contribuenti microscopici e sfuggenti, potrebbe investire di un qualche ruolo pubblicistico di controllo di ragionevolezza i professionisti. Sarebbe più semplice, per gli uffici fiscali,

dialogare con centomila commercialisti e affini, che con quattro milioni di negozianti, baristi, parrucchieri, ecc. A questa struttura professionale intermedia, che ormai è collaudata e a cui artigiani e commercianti si sono abituati, dovrebbero essere affidate funzioni in senso ampio “pubblicistiche” di garanzia della credibilità dei dati strutturali dichiarati dai contribuenti. Essendo troppo difficoltoso, vista l’attuale situazione della pubblica amministrazione, affiancare una sorta di “angelo custode fiscale” ad ogni artigiano o piccolo commerciante, sarebbe possibile riconvertire a questo fine i professionisti, che potrebbero rendersi garanti, verso il fisco, della corrispondenza alla realtà dei dati essenziali dichiarati dall’impresa (numero degli addetti, caratteristiche dei beni ammortizzabili, luoghi di conservazione delle merci, ecc.). Tutti quei dati, insomma, che servono a valutare la verosimiglianza dei dati dichiarati. In modo che un barista dichiari sì meno di un impiegato, a parità di reddito, ma si mantenga comunque entro i limiti della decenza, in relazione alle caratteristiche della sua attività.


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Se per questi contribuenti non è quindi ipotizzabile gestire il rapporto tributario con un accordo preventivo sui ricavi, sarebbe invece possibile concordare determinati aspetti controversi per consentire una base di partenza univoca per l’autodeterminazione dei tributi. Anche sulle grandi imprese, infatti, i margini per “trattative” esistono: riguardano punti specifici dell’imponibile suscettibili di valutazioni controverse oppure articolate simmetrie specialistiche del reddito d’impresa, che la legislazione non riesce a disciplinare in modo esauriente e bilanciato. Potrebbero essere, ad esempio, oggetto di accordi preventivi la stima di componenti reddituali (perdite su crediti, ecc.), di valori immobiliari, di prezzi intragruppo e di sofisticate simmetrie fiscali. Si tratta di ipotesi che si collocano su un piano diverso, e meno rilevante, delle scelte politiche sul prelievo fiscale e in cui la scelta di priorità è tra precisione, semplicità e certezza nel caso singolo. La fiscalità specialistica è sempre più difficile da gestire con la previsione legislativa di tutte le situazioni che possono verificarsi. Qualche volta occorrerebbe un’attività ricostruttiva, non solo interpretativa, con qualche giudizio di opportunità in funzione della ratio degli istituti. Approfondiamo qualche area, ove l’accordo preventivo potrebbe giocare un ruolo di grande utilità. In questa prospettiva, la determinazione preventiva potrebbe tornare utile per le questioni attenenti l’individuazione dell’esercizio di competenza delle componenti reddituali. Le controversie sull’imputazione a periodo sono una peculiarità del nostro Paese, con la drammatizzazione, in sede di accertamento e contenzioso, delle questioni ad essa riconducibili, dalla competenza, agli ammortamenti, agli accantonamenti, alla deduzione di costi in un arco pluriennale di periodi di imposta, e via enumerando. Si pensi, in particolare, alle questioni di imputazione a periodo, in cui il mancato rispetto del principio di competenza provoca rilievi giuridico-formali in assenza di qualsiasi sottrazione di materia imponibile all’erario, e addirittura quando le imposte sono state pagate prima del dovuto. Spesso le rigide predeterminazioni legislative vigenti generano in concreto soluzioni irragionevoli ed è difficile per i giudici considerare, per l’anno della rettifica, doppie imposizioni connesse ad annualità successive o imposizioni di redditi al lordo dei costi. Allo stato attuale, infatti, le normative sull’accertamento e sulle sanzioni non sembrano tenere adeguatamente conto delle peculiarità connesse alle rettifiche in tema di imputazione a periodo. Sono infatti notevoli gli interrogativi connessi all’autonomia dei periodi di imposta e ai rilevanti sfasa-

menti temporali tra l’anno di riferimento della rettifica, l’anno in cui l’elemento reddituale avrebbe dovuto essere imputato, l’anno in cui viene emesso l’atto impositivo e quello in cui il medesimo diventa definitivo. Si tratterebbe di far “apprezzare” in via preventiva agli uffici le modalità di imputazione a periodo che si intendono adottare, consentendo all’amministrazione di disporre, contemperandoli nel caso concreto, di interessi come l’autonomia dell’obbligazione tributaria rispetto alla certezza, alla semplicità, all’interesse ad evitare doppie imposizioni e tassazioni di redditi al lordo dei costi. Anche la valutazione degli elementi “certi e precisi” in materia di perdite su crediti potrebbe costituire un’area di applicazione degli accordi preventivi. Il sistema dell’accantonamento per rischi su crediti rivela, infatti, spesso in concreto la sua inadeguatezza, non tanto per la misura delle percentuali di deducibilità (in qualche caso anche eccessivamente favorevoli), quanto per la sua rigidità, che impedisce di tener conto delle categorie di attività (ad esempio, vendite al consumo finale o a dettaglianti) per cui il rischio di insolvenza è maggiore. Una possibile via di uscita è quella di estendere anche alle perdite su crediti gli accordi preventivi. Sarebbe forse indispensabile, al riguardo, una sorta di protocollo d’intesa, tra fisco e singolo contribuente, sulle caratteristiche dei crediti e i parametri di convenienza per il recupero. Visto che la decisione di cedere il credito, o di rimettere il debito per dedurre la perdita, viene adottata dal contribuente non su base documentale, ma su base presuntiva, occorrerebbe esplicitare e condividere, con l’autorità fiscale, i criteri che hanno portato a questa conclusione, un po’ come accade per le critical assumption negli accordi sulla determinazione dei prezzi infragruppo. Una prospettiva da esplorare potrebbe essere quella di un contraddittorio anticipato, con enunciazione all’ufficio imposte, una tantum, della composizione della clientela e dei rischi di insolvenza sopportati dalla singola impresa, seguita da comunicazioni preventive dei crediti di cui si propone la svalutazione, accompagnate da forme di silenzio assenso nell’ambito di parametri orientativi predeterminati. All’autorità fiscale dovrebbero cioè essere messi a disposizione, per ciascun credito, una breve relazione sui parametri tenuti presenti dall’azienda per considerarlo irrecuperabile. Si tratta però in genere di valutazioni la cui credibilità può essere apprezzata solo a ridosso del momento in cui vengono effettuate e che perdono significato dopo il lasso di tempo, comunque non breve, che intercorre tra la dichia-


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razione dei redditi e l’eventuale controllo. Il “fisco negoziato preventivo”, con la condivisione comune di una probabilità di perdita, sembra rappresentare quindi l’unica via di uscita da una situazione di stallo, in cui la cessione del credito a prezzo vile, o la rinuncia, costituiscono inutili formalismi che non garantiscono né la cautela fiscale né la certezza della deduzione. Più in generale, la determinazione concordata in via preventiva potrebbe essere estesa all’ambito della quantificazione analitica dei redditi, in vista della specificazione più efficiente di alcuni aspetti sfuggenti e controversi, in tutti quei casi in cui sono in gioco delicate simmetrie, come accade per la continuità dei valori fiscali, per la deduzione degli interessi passivi in presenza di ricavi esenti, per l’immissione dei beni nel regime d’impresa, per il riporto delle perdite in caso di operazioni straordinarie, e via enumerando. Anche i contribuenti di maggiori dimensioni potrebbero così beneficiare di una determinazione più sicura e univoca del debito tributario. Sicché non appare contro natura attribuire la definizione di molti aspetti collaterali e specialistici di diritto sostanziale non tanto a regolamenti governativi15, ma a determinazioni dell’amministrazione finanziaria in accordo con il contribuente. Sottoporre la situazione incerta all’amministrazione e concordare i vari profili del trattamento fiscale, costituirebbe sicuramente un elemento di efficienza del sistema e consentirebbe ai contribuenti di poter contare su una base di partenza sicura per l’autodeterminazione delle imposte. La procedura del ruling internazionale, recentemente introdotta, va in questa direzione e conferma l’opportunità di creare anche nel nostro ordinamento spazi per una gestione consensuale del rapporto tributario, e non solo sulla valutazione dei prezzi infragruppo. Molte disfunzioni del nostro sistema tributario sono, infatti, frutto di resistenze e inefficienze, collegate ad una sopravvalutazione del ruolo del legislatore e ad un ridimensionamento del ruolo dell’amministrazione, cui sono state progressivamente tolte quasi tutte le scelte di opportunità amministrativa, che hanno sempre caratterizzato il prelievo fiscale. Ciò che ci separa dai sistemi tributari più moderni e funzionali non è tanto, o

15 Che spesso conservano tutte le rigidità della legge primaria. 16 L’espressione è di TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi for-

quantomeno solo, il livello delle aliquote, la pressione fiscale, la complicazione degli adempimenti, e via dicendo, ma soprattutto la scarsa certezza che accompagna i contribuenti nell’autoliquidazione dei propri tributi. Una via d’uscita che non costerebbe nulla sul piano del bilancio pubblico e contribuirebbe a restituire competitività al nostro Paese, è proprio quella di arrivare alla gestione concordata del fisco per tutti gli aspetti dove è proponibile, e anche in via preventiva. 5. Alcuni aspetti problematici degli accordi preventivi: dalla possibile lesione del principio della capacità contributiva alla difficoltà di individuare spazi per una tutela giurisdizionale Una delle principali critiche che vengono mosse al sistema degli accordi preventivi sulla determinazione dell’imposta è che essi contrasterebbero con il canone costituzionale della capacità contributiva. Negli ultimi decenni, man mano che l’iniziativa del prelievo tributario si è spostata sui contribuenti, si è del resto diffusa, nella prassi, una certa confusione fra legalità dell’imposizione e predeterminazione analitico-contabile; questo atteggiamento ha indotto a guardare con sospetto anche le stime e le presunzioni “personalizzate” tipiche degli accordi preventivi. E in ogni caso può apparire singolare che si definisca un presupposto d’imposta prima ancora che venga ad esistenza; e per di più che ciò avvenga tramite un “accordo” tra autorità amministrativa e contribuente. In questa prospettiva, va detto che sicuramente il grado di verosimiglianza di un accordo rispetto alla situazione economica effettiva è un valore da tenere in massima considerazione. Il principio della capacità contributiva, oltre a cristallizzare la patrimonialità del tributo, esprime infatti anche il valore dell’effettività, rivelata «dalle concrete modalità attraverso le quali si manifesta il presupposto in capo al singolo soggetto»16. La capacità contributiva indica quindi che un presupposto valutabile patrimonialmente deve sempre sussistere17. Purtroppo però mentre in un condominio esistono le carature millesimali per ciascun condomino, nel condominio-Stato vi sono delle ricchezze più evidenti e delle ricchezze me-

fettarie, Milano, 1999, 81. 17 «L’idoneità soggettiva a pagare il tributo non può mai prescindere dalla disponibilità degli occorrenti mezzi economici. Questa disponibilità è il nucleo essenziale di ogni presuppo-

sto d’imposta»: così FALSITTA, Il doppio concetto di capacità contributiva, in Riv. Dir. Trib., 2004, 1, 905, che continua sottolineando come la constatazione pare di «una disarmante evidenza lapalissiana».


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no evidenti, con differenze di formazione e di circolazione che non possono essere ignorate e che nessun potere pubblico è in grado di controbilanciare18. Prova ne sia che aver trascurato queste differenze ha portato alla situazione di disorientamento che tutti avvertono e alla stessa deprecabile prassi dei condoni19. Una conclusione diversa che accentuasse il profilo della precisione nei “regimi legali”, fino a perseguire un’equità millimetrica, darebbe luogo a fortissime discriminazioni nei “regimi reali” nella misura in cui gli apparati di controllo non fossero in grado di controbilanciare le diverse possibilità di evasione; ciò con pregiudizio della stessa esigenza di solidarietà di cui la capacità contributiva è espressione20, con difficoltà a reperire le risorse idonee a soddisfare le esigenze collettive, e comunque con profondi squilibri “reali” di fronte ad una “uguaglianza legale”. Tassare in modo uguale ricchezze che solo quantitativamente sono uguali, ma che circolano e si manifestano in modo diverso porta, insomma, ad un risultato concreto più disuguale di quello connesso con regimi legali già in partenza diversi, proprio per tener conto delle differenti caratteristiche dei sottostanti fenomeni economici. In questa prospettiva, il concordato preventivo personalizzato, come del resto altre forme di definizione consensuale del tributo (accertamento con adesione), consentirebbe in alcuni segmenti della fiscalità di avvicinarsi all’effettiva capacità contributiva molto più di quanto sia possibile fare attualmente in un contesto di determinazione analitica. La quantificazione della capacità contributiva soggetta a tributo in relazione agli indizi disponibili, ai suoi tempi di emersione, ai tempi disponibili per le indagini, alle risorse assorbite da un eventuale contenzioso, costituiscono altrettanti profili da considerare all’interno dell’“imposizione concordata” sia successiva che in prospettiva ex ante. Quando c’è contrasto di interessi, con clien-

18 Anche FALSITTA (Il doppio concetto di capacità contributiva, cit., 904) del resto sottolinea che se l’indice di forza economica non può mai mancare «accanto ad esso molteplici fattori possono influenzare la determinazione quantitativa e la stessa esistenza del debito fiscale». È su questo versante che si dispiega in tutta la sua non esigua ma spessa latitudine la così detta «discrezionalità del legislatore ordinario» Sono fattori che portano già, di fatto, a tassare in modo particolare, o addirittura ad

ti o fornitori, o quando alcune caratteristiche specifiche dell’attività rivelano un credibile ordine di grandezza dei ricavi (stanze di un albergo o posti auto di un garage) si potrebbe dare la preferenza a questi elementi personalizzati. In loro assenza potrebbero subentrare le stime, con un ventaglio di stime diversamente attendibili, a seconda delle caratteristiche dell’attività, sia in astratto (codice barrato sulla dichiarazione) sia in concreto (verifica in loco delle condizioni di operatività). In questa prospettiva, l’accordo preventivo personalizzato può giungere a bilanciare in concreto una serie di interessi che la legge da sola non è in grado di contemperare in astratto in modo soddisfacente. Uno degli interessi da rispettare è naturalmente la presenza di capacità contributiva, ovvero di una base patrimoniale per l’imposizione. Altri sono però la certezza, snellezza e controllabilità della quantificazione di questa base patrimoniale, esigenze soddisfatte proprio grazie alla personalizzazione degli accordi preventivi. Naturalmente, per non violare il requisito di effettività della capacità contributiva sacrificandolo irragionevolmente, sarebbe necessario prevedere “vie d’uscita” che escludano una applicazione irrazionale degli accordi, evitando ex post l’imposizione qualora si verifichino patologie particolarmente eclatanti, che addirittura facciano venir meno il reddito. Fatti da tenere in considerazione sarebbero, ad esempio, morte e invalidità del contribuente, eventi naturali che incidano sull’attività esercitata, e via enumerando. Dovrebbero perciò essere previste “vie d’uscita”, come nel catasto si tengono in considerazione le perdite per mancata coltivazione dovuta ad eventi naturali. In assenza di simili fatti “patologici”, in costanza di attività e ferme restando le relative caratteristiche, si dovrebbe dare tuttavia per presupposto che lo scostamento rispetto al concordato in via preventiva non assuma rilevanza. È chiaro che in questo modo il contribuente, ferme restando tut-

escludere da imposizione, fenomeni reddituali più sfuggenti e meno “evidenti”, nonostante siano espressione di capacità contributiva, come accade per le rendite finanziarie, per le plusvalenze su oggetti d’arte, e via dicendo. Orbene, fra questi fattori credo abbia un ruolo non trascurabile la diversa formazione e conoscibilità della ricchezza da tassare. 19 Ivi comprese le recenti versioni di concordato preventivo (biennale per i periodi d’imposta 2003-2004 e pianificazione fiscale concordata per il

triennio successivo), istituti ben lontani dal perseguire una seria personalizzazione del prelievo in accordo col contribuente, come la delega lasciava invece immaginare per la tassazione del piccolo commercio e dell’artigianato. 20 Sull’istanza solidaristica del principio di capacità contributiva, in termini sostanzialmente condivisi dalla dottrina, si veda per tutti MOSCHETTI, Il principio della capacita contributiva, Padova, 1973, 64-71 e 94, e Capacità contributiva, in Enc. Giur., Roma, 1988, V, 3.


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te le suddette vie d’uscita, potrebbe, al limite, essere tassato su una capacità contributiva inesistente; ma il privato mette in preventivo questo rischio, ed entro certi limiti (quelli dei suddetti eventi patologici) è disposto ad accettarlo. Il contribuente mette in preventivo, cioè, che l’eventuale scostamento negativo, ovvero un reddito inferiore rispetto a quello concordato, sia tutto sommato insignificante rispetto al beneficio che ne deriva in termini di certezza21. La facoltatività dell’adesione al concordato preventivo farebbe probabilmente sfumare ulteriormente il dubbio di una tassazione illegittima: il singolo contribuente, che scegliesse di aderire, sarebbe tendenzialmente in grado di valutare la lesione dell’effettività e l’eventuale disparità di trattamento nei suoi riguardi, visto che avrebbe condiviso la determinazione preventiva e avrebbe liberamente scelto di assoggettarvisi. L’interesse alla certezza, e alla preventiva conoscenza dell’imponibile, possono perciò anche prevalere su quello ad evitare di essere tassati, in parte, su una capacità contributiva superiore a quella reale. D’altro canto, è appena il caso di ricordare che, in queste valutazioni, gioca anche la favorevole prospettiva contraria, cioè quella di essere tassati su una capacità contributiva inferiore a quella reale. È infatti relativamente difficile che una tassazione su una ricchezza inesistente si verifichi. In tutte le forfettizzazioni è più probabile l’esenzione di presupposti effettivamente prodotti piuttosto che la tassazione di redditi o di presupposti non prodotti. In genere, proprio perché la realtà non si conosce fino in fondo, e si vuole

21 Su questo tema della facoltatività dell’adesione si pronuncia, con riferimento alle predeterminazioni normative, anche lo studio di TOSI, già citato, 118-119, che conclude tuttavia al riguardo ritenendo che questa sia una «visione individualistica del problema» che, continua l’autore, «potrebbe, dunque, rivelarsi parziale e cogliere soltanto un profilo del principio di effettività, connesso in definitiva all’art. 3 Cost., che porta probabilmente ad escludere l’irragionevolezza e l’arbitrarietà di un regime asseritamente discriminatorio purché subordinato alla volontà di chi lo subisce, ma pare inadeguata ad esprimere la complessità della ratio sottesa all’art. 53 Cost. Come ho già osservato a proposito dell’emergenza finanziaria e organizzativa, laddove si è visto come l’intervento legislativo possa giustificarsi in ter-

essere sicuri di non tassare una capacità contributiva inesistente, la tendenza del sistema è di attestarsi su forfetizzazioni relativamente basse. Invero, quanto più scende la base imponibile, tanto più aumenta la probabilità che quest’ultima sia stata realizzata. Il rischio teorico che si paghi su qualcosa che non si è guadagnato è quindi ampiamente compensato prima di tutto dalla prospettiva di non pagare su qualcosa che si è guadagnato. In secondo luogo, nella struttura delle stime preventive, si tratta di possibilità in genere ridotte al minimo. La tassazione di una capacità contributiva fittizia rischia perciò di ridursi in queste ipotesi ad una sterile petizione di principio, perché è altamente improbabile che si verifichi. All’opposto, reali problemi di capacità contributiva sorgono per la prospettiva che alcuni contribuenti paghino su un imponibile che esprime solo per difetto la capacità contributiva effettivamente realizzata. Si tratta insomma, a ben vedere, di problemi di coerenza di trattamento rispetto ai titolari di altre tipologie reddituali22, il cui imponibile è spesso rilevabile fino all’ultimo centesimo23, e che proprio per questo non saranno mai ammessi ad un concordato preventivo. Questo rappresenta indubbiamente un grave problema sul piano dell’equità e della parità di trattamento. Ma sta nella realtà delle cose e occorre prenderne atto col pragmatismo che dovrebbe caratterizzare il prelievo fiscale. A parità di reddito potenziale, se non esistono strumenti praticabili per determinare con affidabilità il reddito del commerciante, è inevitabile effettuarne una de-

mini di ragionevolezza eppure contrastare col principio di effettività, tale disposizione ha una valenza autonoma rispetto al generale principio di uguaglianza e poggia direttamente su quel dovere di solidarietà che in ogni caso impone di realizzare il fine comune mediante forme di contribuzione che realizzino il criterio di effettività. Se così è ci troveremmo di fronte ad un’ulteriore divaricazione tra gli artt. 3 e 53 Cost., sicché potrebbe non essere affatto sufficiente responsabilizzare i singoli contribuenti in ordine al regime tributario applicabile nei loro confronti perché il principio di effettività possa dirsi rispettato». Si veda, invece, RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2002, 55, che, a proposito di metodi o criteri forfettari o basati su indici medio-ordinari, ritiene svanisca ogni dubbio

di tassazione illegittima quando «siffatti metodi o criteri, alla stregua di previsioni ragionevoli e al fine di semplificare la disciplina applicativa del tributo, si risolvano in un trattamento non penalizzante per il contribuente, e salve altresì le ipotesi in cui i medesimi divengano operanti solo per scelta volontaria degli interessati (o, ciò è lo stesso, sia contemplata la facoltà per il contribuente di sottrarsi alla determinazione forfettaria in virtù di sua opzione)». 22 Più esattamente, si tratta di problemi che si collocano sul piano del principio di uguaglianza. 23 Ad esempio, mentre il reddito del dipendente di una grande impresa difficilmente sfugge al prelievo, quello del piccolo commerciante è sconosciuto. Ne deriva una difformità che va messa in preventivo, ma che si deve cercare di contenere.


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terminazione più approssimativa, che sarà di solito vantaggiosa per l’interessato per i motivi suesposti (i redditi forfettizzati si forfettizzano al minimo, cioè su basi tendenzialmente basse), ma anche più verosimile di quella oggi scaturente dall’autodichiarazione24. Sicuramente, si può – e si deve – perciò fare molto in termini di efficienza amministrativa; ed è questo il terreno cruciale su cui si gioca la credibilità degli accordi preventivi sulla determinazione dell’imponibile. I redditi concordati dovrebbero essere forfettizzati su informazioni preventive molto forti, su indagini de visu. Il concordato preventivo dovrebbe basarsi, insomma, su un’indagine documentale, di prezzi, “ambientale”, approfondita. La stima degli imponibili risulterebbe così più accurata. Sarebbe inevitabile per le ragioni sopra esposte un assestamento al ribasso; però il ribasso riguarderebbe una cifra già più approfonditamente determinata, più personalizzata. I problemi sopra segnalati sono invece molto meno rilevanti per eventuali accordi preventivi (nella gran parte dei casi non ancora previsti dalla legge) sul transfer pricing, sull’imputazione a periodo o sulle spese di rappresentanza, ove gli accordi sono molto più accurati per loro natura, perché si muovono (o si muoverebbero) nell’ambito di dati conosciuti. Ad esempio, un accordo sull’ammortamento finanziario di un determinato cespite si riferirebbe ad una fattispecie dove il costo è conosciuto. In questo caso, non verrebbe risolta l’incertezza sull’ammontare degli incassi, ma verrebbe risolta l’incertezza sulla distribuzione (temporale) di un costo. Lo stesso avviene dopotutto per gli accordi sul transfer price, che vengono conclusi su una documentazione comunque molto analitica. I veri problemi riguardano perciò gli accordi preventivi sul reddito di artigiani e commercianti, ove nessuno (neppure il contribuente) è in grado di quantificare un risultato economico previsionale con assoluta “precisione”; ed è giocoforza effettuarne una determinazione più approssimativa, con i sopra indicati bilanciamenti fra precisione e semplicità. Queste valutazioni, dal lato degli uffici finanziari, non sono tuttavia ispirate solo all’interesse processuale come potrebbero esserlo per il privato, ma devono rispondere alla legalità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Carta costi-

24 Scrive DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2002.: «I criteri di forfetizzazione quando sono ragionevoli e fondati sulla comune espe-

tuzionale. È, in questo senso, proprio l’articolo 97 della Costituzione ad essere – a ben vedere – il vero canone costituzionale di riferimento per la gestione degli accordi fisco-contribuenti. Col riferimento al buon andamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione, questa disposizione costituzionale presuppone, infatti, l’esercizio di un potere discrezionale e impone una doverosa e sindacabile valutazione comparativa degli interessi in gioco. In altri termini, impone all’amministrazione di esercitare il potere discrezionale in modo da effettuare la scelta più rispondente agli obiettivi prefissati e agli interessi coinvolti. Ne discendono doveri di imparzialità, trasparenza e cooperazione nei confronti dei contribuenti, molto più penetranti di quelli esistenti nei rapporti interprivati. Si tratta di “presidi” alla trasparenza di un’azione amministrativa che fanno da contrappeso (in un ordinamento democratico) ai poteri autoritativi che per sua natura la caratterizzano. Detti doveri sono concettualmente applicabili, secondo le regole generali, dove esistono profili di discrezionalità, intesa come valutazione comparativa di vari profili di opportunità amministrativa (quindi anche in materia tributaria nella sospensione della riscossione, nelle misure cautelari e, nell’impostazione accolta in questo contributo, anche nell’accertamento con adesione e negli altri tipi di accordo fisco-contribuente). Queste ultime notazioni richiamano, infine, l’attenzione su un ulteriore aspetto problematico, cioè il tema della sindacabilità delle valutazioni di “interessi” compiute nei moduli consensuali. Non sembra che le scelte effettuate dagli uffici in questi ambiti possano essere considerate per definizione “giuridicamente irrilevanti”, in quanto ricadenti esclusivamente nella sfera giuridica “disponibile” di chi le effettua, e siano perciò sprovviste di tutela. Queste valutazioni sono, infatti, certamente difficilmente sindacabili in concreto. Ma non sono “libere”, perché interferiscono con posizioni dei contribuenti che hanno interesse a che il bilanciamento fra prospettive della lite e fondatezza della pretesa nell’accertamento con adesione (o fra precisione e semplicità, certezza, cautela fiscale, imparzialità, tutela dell’affidamento, ecc., in ipotizzabili accordi preventivi sulla determinazione del tributo per alcune categorie di contribuenti) avvenga cor-

rienza sembrerebbero non contraddire il principio di capacità contributiva. La forfetizzazione quando è fondata nella realtà è elemento di

certezza sia per il contribuente che per lo Stato; difatti essa viene praticata in molti Paesi dove il sistema tributario è più evoluto».


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rettamente e nel rispetto delle norme e dei principi che regolano l’attività dell’amministrazione finanziaria ed i suoi rapporti con il contribuente. Pur nell’ambito di amplissimi margini di scelta, le valutazioni compiute possono perciò dar luogo ad abusi giuridicamente rilevanti; e non solo ai fini dei giudizi disciplinari e di responsabilità davanti alla Corte dei Conti25. Esse consistono, infatti, in un bilanciamento di vari profili, tra i quali c’è anche l’interesse del contribuente alla correttezza di un’azione amministrativa volta – come si dice spesso – alla “pronta e perequata” o “giusta” imposizione. In questi termini, l’interesse (legittimo) del contribuente verrebbe tutelato come riflesso di una indagine sulla ragionevolezza dei modi in cui l’amministrazione finanziaria ha contemperato i vari profili sotto cui considerare, nel caso concreto, quell’interesse alla giusta imposizione del quale essa è stata investita26. Del resto, se si riconosce come sindacabile il modo in cui l’amministrazione contempera diversi interessi pubblici e privati, non si comprende perché si dovrebbe concludere diversamente circa il modo con cui l’amministrazione contempera diversi modi di considerare l’unico interesse alla “giusta

25 Si pensi alla investigazione della “colpa grave”, in cui deve essere approfondita proprio la valutazione comparativa della fondatezza della pretesa fiscale, le prospettive del processo e delle basi su cui si è stato raggiunto l’accordo. 26 Per questa ipotesi di studio si veda

imposizione”, quando valuta profili squisitamente interni all’applicazione dei tributi. Così, ad esempio, negli accordi con i contribuenti, la valutazione pragmatica di tutti i profili interni alla determinazione dell’imposta prima ricordati, può portare in concreto a difformità dovute alla diversa sensibilità dei funzionari, alla diversa disponibilità di tempo, ecc. Ma esiste un’esigenza di imparzialità del comportamento della pubblica amministrazione, incompatibile con criteri assolutamente disomogenei e casuali nel concreto raggiungimento dell’intesa. La diversità di valutazione può, cioè, diventare anche un elemento di discriminazione ascrivibile a negligenze, deresponsabilizzazioni, accanimenti. Rispetto a queste situazioni appare aprioristico negare pregiudizialmente al contribuente un interesse a far valere l’anomalia di eventuali inspiegabili divergenze di comportamento o la considerazione nell’“accordo” di profili diversi da quelli valutabili e quindi la presenza di un eccesso di potere, di un suo sviamento rispetto ai fini istituzionali. Su questi profili, che in questa sede è possibile solo delineare brevemente, occorrerà naturalmente ritornare.

LUPI, voce Discrezionalità, in Enc. Dir., che osserva come «La mancata sindacabilità di molti di questi comportamenti dipende, più che da una loro generale “non discrezionalità”, dal fatto che essi si sono mantenuti all’interno dei margini, pur vasti, consentiti per l’esercizio della fun-

zione; oppure dal fatto che mancavano gli elementi per dimostrare l’abuso davanti a un giudice. Insomma, sono attività non sindacabili finché si mantengono nei limiti dei compiti di chi deve decidere, e la loro utilizzazione non rende manifesto un esercizio anomalo, per fini impropri».


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L’INVALIDITÀ DELL’ACCERTAMENTO CON ADESIONE* di Enrico Marello 1. Introduzione al tema - 2. Vizi sostanziali - 3. Vizi degli elementi essenziali - 4. Vizi formali - 5. Vizi procedimentali e residuali - 6. Vizi derivati - 7. Azioni proponibili. Riesame - 8. Conclusioni 1. Introduzione al tema 1.1 Da un’analisi retrospettiva emerge chiaramente come dal nodo della (in)validità del concordato si siano dipanate le diverse teorie che da un secolo si contendono il primato nell’interpretazione dell’istituto. L’invalidità costituisce il terreno privilegiato su cui hanno potuto confrontarsi gli interpreti, per verificare quanto le differenti sistemazioni concettuali sulla natura dell’istituto possano misurare effettive e reali distanze nella considerazione della efficacia dell’atto1. Ancora oggi, le principali divergenze che si constatano tra le diverse scuole di pensiero sono proprio date dalla descrizione della fase dialogica (e quindi dei doveri di informazione delle parti)2 e dalla descrizione delle invalidità dell’atto, cui specificamente è dedicato questo breve studio. Proprio per dare conto di questa costante e rilevante attenzione ai vizi del concordato e al loro trattamento, merita accennare brevemente alla rilevanza offerta ai vizi del concordato in tre momenti cruciali per l’evoluzione dell’istituto: primo, il periodo compreso tra il 1880 e il 1930, secondo, il progetto di Codice Vanoni e terzo, infine, il Testo unico delle imposte dirette. I. È noto come la giurisprudenza della Commissione centrale delle imposte abbia posto per circa cinquant’anni, compresi tra il 1880 e il 1930, soli-

* Testo elaborato sulla base della relazione tenuta nell’ambito del III Incontro di studio fra amministrativisti e tributaristi, “Azione amministrativa ed azione impositiva tra autorità e consenso. Strumenti e tecniche di tutela dell’amministrato e del contribuente”, svoltosi in Pescara il 5 ottobre 2007, su iniziativa del Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Chieti-Pescara. 1 Per questa visione cfr. le pagine di BERLIRI, Principi di diritto tributario, Milano, 1964, III, 178 ss. La letteratura inerente l’accerta-

de basi alla identificazione tra concordato e transazione. Dal 1880 la Commissione centrale afferma che il concordato è un contratto, istituendo immediatamente un nesso tra l’identificazione della natura e il trattamento dei vizi: «il concordato è una transazione e come tale può impugnarsi quando sia stato l’effetto di un errore di fatto, del dolo e della violenza» (Comm. centr., 5 dicembre 1880, n. 62849)3. Tra questa pronuncia e la decisione della Comm. centr., 24 aprile 1928, n. 84128 che ribadisce «Il concordato che un contribuente stipula con la Finanza produce tutti gli effetti di una transazione. Il medesimo può, quindi, essere oggetto di un’azione di nullità quando concorrano i casi tassativamente preveduti dall’art. 1773 del Codice civile»4 si colloca un reticolo di decisioni in cui l’assimilazione del concordato ad una transazione è proprio il mezzo per giungere a delineare un regime dei vizi chiaro e autorevole, perché derivato dall’esperienza civilistica. II. Il progetto di Codice Vanoni del 19425 costituisce, in relazione al concordato, un documento di sintesi dell’elaborazione interpretativa pregressa. Ammettendo all’art. 79 l’impugnazione per dolo, violenza ed errore secondo le regole del Codice civile, il progetto di Codice rende onore alla corposa giurisprudenza della Commissione centrale, pur offrendone una variante che trascende l’impugnabilità della transazione per avvicinarsi a quella del contratto in generale. Per altro verso, il progetto risente pure dell’influsso della nuova giurisprudenza della Cassazione, quando ritiene che il concordato sia uno dei modi dell’accerta-

mento con adesione è ampia e stratificata. Limitandoci alle opere più recenti si segnalano: BATISTONI FERRARA, Accertamento con adesione, in Enc. Dir., Aggiornamento, Milano, 1998, II, 22 ss.; MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000; VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001; GARBARINO, Imposizione ed effettività nel diritto tributario, Padova, 2003. 2 Come noto, la legislazione da sempre tace intorno alla configurazione della fase “interna” dell’istituto, ossia intorno a quella parte del proce-

dimento che porta alla quantificazione del presupposto per come concordato. Sul punto cfr., se si vuole, MARELLO, voce Concordato tributario, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di Cassese, Milano, 2006, II, 1134. 3 In VANNUCCINI, La giurisprudenza delle imposte dirette, Roma, 1929, 1865. 4 In VANNUCCINI, op. cit., 1888. 5 Sul progetto di Codice del 1942 si vedano la completa ricostruzione e l’inquadramento contenuti in BRACCINI, Un progetto di Codice tributario del 1942, in Riv. Stor. Dir. It., 1998, 1 ss.


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mento. Ne emerge un quadro di sintesi, di mediazione, da cui scaturisce un regime delle invalidità con spiccati caratteri di ibridismo: tendenzialmente contrattuale nell’individuazione dei vizi, con rimedi processuali omogenei a quelli concessi ordinariamente agli atti impositivi (per ciò che concerne forme e termini dell’impugnazione). Il progetto di Codice Vanoni pare di un certo interesse nella prospettiva dei vizi, perché dal punto di vista metodologico attua un’inversione rispetto al modus operandi della Commissione centrale: non muove dalla natura per dedurre il regime dei vizi, ma piuttosto cerca di fornire il regolamento dell’invalidità su base analitica, senza assumere una posizione netta intorno alla questione della collocazione dell’istituto. III. Con il T.U.I.D., che per il concordato recepisce le linee normative della legge Tremelloni, abbiamo la puntualizzazione degli elementi dell’atto necessari a pena di “nullità”: data, identificazione delle parti, motivazione, dispositivo, sottoscrizione (art. 34). I vizi riferibili a questi elementi dell’atto dovevano essere fatti valere entro un termine di decadenza asimmetrico, assai più ampio per l’amministrazione, mentre l’ultimo comma dell’art. 34, precludendo ogni altra impugnazione diversa da quella tesa a far valere i vizi sugli elementi essenziali, pareva voler evitare lo sviluppo di nuova giurisprudenza – di matrice transattiva – sul tema dell’errore. In questo caso l’atteggiamento del legislatore, probabilmente più vicino alle tesi sviluppate dalla Corte di Cassazione che a quelle della Commissione centrale, pare indicare la ricerca di soluzioni ai vizi per un atto che si ritiene espressione del potere di accertamento, con una sottesa marginalizzazione dei modelli civilistici. Se questo poteva essere l’intento, va notato come esso sia stato frustrato nel ventennio successivo, anteriormente alla “grande rimozione” del 19711973, poiché, nonostante l’indirizzo espresso dal T.U.I.D., la giurisprudenza di quel periodo, pur affermando genericamente la natura unilaterale dell’istituto, tendeva a risolvere le questioni inerenti i vizi del concordato, mediante il richiamo di norme espressione del Codice civile. Il che, se si vuole, segna la dissoluzione di questo

6 Già l’art. 34 del T.U.I.D. del 1958 recitava: «Quando l’imponibile è stato definito con l’adesione del contribuente, questi non può ricorrere contro l’accertamento salvo il disposto del comma precedente; se il ricorso è stato già proposto il giudizio si estingue». Eppure, come indicato

movimento in tre tempi: nel primo periodo indicato, la concezione dell’istituto determina ricadute sul regime dei vizi; nel secondo periodo, si tenta di determinare il trattamento dei vizi omettendo la presupposizione della natura; nel terzo periodo la decisione intorno all’invalidità dell’atto viene assunta con una dissociazione tra ciò che si afferma in premessa e l’effettiva regola applicata. 1.2 Venendo all’ordinamento odierno, potrebbe sembrare che un ostacolo quasi insormontabile alla trattazione della invalidità del concordato sia dato dal dettato dell’art. 2, comma 3, D.Lgs. 218/1997, che preclude l’impugnazione dell’atto. Peraltro, come noto, così non è, poiché la norma disciplina una preclusione storicamente continua, ma costantemente elusa da dottrina e giurisprudenza che hanno elaborato più di un’area di impugnazione del concordato6. Pure l’innovazione normativa del D.Lgs. 218/1997, che ha ricollegato il perfezionamento al versamento di quanto concordato (o della prima rata) entro un termine decadenziale, non ha posto nel nulla il dibattito sull’invalidità dell’atto di accertamento con adesione, ma anzi ha creato lo spazio per l’individuazione di nuove fattispecie vizianti. In questa trattazione si è scelto di presentare una sorta di atlante dei vizi che possono toccare il concordato, ordinandoli in cinque categorie, individuate prevalentemente per il pregio espositivo, mettendo in luce le divergenze emerse nelle diverse teoriche. Da ultimo, è stato dedicato un breve paragrafo ai modi di rilevazione dell’invalidità e dei vizi. Si è scelto non tanto di proporre soluzioni analitiche al trattamento dei vizi (che sono già contenute in altri lavori, anche di chi scrive)7, quanto di rivedere la sistemazione degli stessi, ipotizzando punti critici anche nei rapporti con il diritto amministrativo “generale”. 2. Vizi sostanziali È sicuramente arduo definire la consistenza dei vizi sostanziali, anche in diritto tributario: si dovrebbe assumere problematicamente una posizione intorno all’opposizione forma/sostanza, in un procedimento, quale quello tributario, assai formalizza-

nel testo, dottrina e giurisprudenza da sempre si sono interrogate sull’invalidità del concordato e sul trattamento dei vizi: per riferimenti ci si consenta il rinvio a MARELLO, L’accertamento con adesione, cit., 23 ss. 7 Cfr. in particolar modo: BATISTONI FERRARA, voce Accertamento con adesio-

ne, cit., 30 ss.; MARELLO, L’accertamento con adesione, cit., 202 ss.; VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, cit., 528 ss.; MARELLO, Note intorno all’atto di accertamento con adesione carente di forma o di sottoscrizione, in Rass. Trib., 2006, 2116 ss.


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to, dove forma dat esse rei. Peraltro, a fini espositivi, si assume qui un’accezione minimale di vizi sostanziali, come quei vizi che incidono direttamente sulla funzione decisoria dell’atto e quindi sulla corretta determinazione del debito di imposta. Questa classe di vizi, attinente alla parte cognitiva del concordato, appare non solo strettamente correlata alla teoria prescelta intorno alla natura dell’istituto, ma anche una delle espressioni delle maggiori difformità tra i risultati raggiunti, forse per il portato dell’esperienza maturata nella prima parte del secolo scorso. Tale tipologia di vizi sarà quindi qui trattata meno approfonditamente, in quanto sul punto il dibattito è ormai maturo e le opposte posizioni difficilmente consentono ulteriori contributi. Se si preferisce adire ad una delle tesi che propugnano l’essenza transattiva del concordato8, la prospettiva emergente in questo frangente è quella del dualismo tra errore di fatto ed errore di diritto, con l’ulteriore bipartizione tra caput controversum e caput non controversum, in ossequio al dettato dell’art. 1969 c.c. (tralasciando per il momento il dolo e la violenza). L’area di vizi rilevanti sarebbe quindi ristretta al caso dell’errore di diritto sul caput non controversum e in parte all’errore di fatto9; l’errore di diritto sul caput controversum sarebbe invece coperto dalla preclusione normativa e recuperabile solo tramite una istanza di rimborso (infra, par. 7). I pregi di tale impostazione sono evidenti nel riportare un sistema delle invalidità (quale quello della transazione) autorevole e dettagliato. Per contro, qualche dubbio può sorgere in primo luogo nella frattura che si crea tra l’ammissibilità piena della concordabilità delle questioni di diritto e la presenza di aree che consentono l’elisione di efficacia per la rilevanza attribuita all’errore di diritto sul caput non controversum e in secondo luogo nella difficoltà di armonizzare questa articolata regolamentazione del vizio sostanziale con il potere amministrativo di integrazione del concordato ex art. 2, D.Lgs. 218/1997.

8 Per alcune recenti affermazioni della natura transattiva dell’istituto v., con sfumature differenti, RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2002, 325 ss.; BATISTONI FERRARA, voce Accertamento con adesione, cit., 26 ss.; VERSIGLIONI, Accordo e disposizione, cit., 479 ss. 9 Per questa opinione: VERSIGLIONI, Accordo e disposizione, cit., 534 ss. Nella giurisprudenza civilistica vedi poi Cass., 3 aprile 2003, n. 5141, in ban-

Se invece si condividono le tesi che vedono nel concordato uno dei modi (tradizionali) dell’accertamento10, l’istituto va avvicinato all’atto impositivo divenuto definitivo, per cui l’erronea rappresentazione del presupposto (che ha il proprio tramite nel vizio della motivazione) non può essere fatta valere dal contribuente a seguito del perfezionamento11. Il pregio di tale ricostruzione è quello di creare un’area di omogeneità sistemica tra i diversi atti che definiscono l’obbligazione tributaria; per contro, è stato imputato a questa tesi di accedere ad una razionalizzazione vicina a quella transattiva, pur con conseguenze inaccettabili in prospettiva civilistica. 3. Vizi degli elementi essenziali 3.1 La gerarchizzazione dei componenti di un atto, nella formazione del modello di validità, esercita da lungo tempo un’influenza non piccola. A partire dalla lezione di Pothier, assimilata diffusamente nel diritto civile europeo, tanto da poter essere considerata common core, sino alla recente normazione amministrativa che recepisce un’affermata giurisprudenza del Consiglio di Stato, è ritenuto possibile individuare gli elementi caratterizzanti l’atto, la cui carenza determina un regime delle invalidità più grave rispetto a quello conseguente alle altre deviazioni dal modello perfetto. Questo cenno al vizio di elementi essenziali come causa di nullità ci porta incidentalmente dinanzi ad una traccia di riflessione intorno ai rapporti tra diritto amministrativo e diritto tributario. La lontananza tra le due materie nell’individuazione dei tipi delle invalidità e del correlato trattamento non pare essere stata risolta: esiste una sorta di non comunicabilità tra amministrativisti e tributaristi che crea terreno fertile per equivoci e fraintendimenti bilaterali. Il tributarista difficilmente ha valorizzato il dibattito, antecedente la L. 15/2005, intorno ai rapporti tra sistemi ternari (inesistenza-nullità-annullabilità) e sistemi binari (nullità-annullabilità; inesistenza-annullabilità), non riuscendo a controllare il proprio lessico: ogni

ca dati Jurisdata, sull’errore di diritto concernente una questione oggetto di controversia sulle parti; Cass., 14 gennaio 2005, n. 690, ivi, per l’irrilevanza dell’errore sul fatto non conosciuto, anche se essenziale; Cass., 3 aprile 2003, n. 539, in Foro it., 2003, I, 3047, sull’irrilevanza tout court dell’errore di fatto su questioni oggetto della controversia. 10 La tesi si ritrova, con diverse varianti, in MICCINESI, Accertamento con ade-

sione e conciliazione giudiziale, in Commento agli interventi di riforma tributaria, a cura di Miccinesi, Padova, 1999, 1 ss.; MARELLO, L’accertamento con adesione, cit.; GALLO, La natura giuridica dell’accertamento con adesione, in Riv. Dir. Trib., 2002, I, 425 ss. 11 Per un’esposizione di tale linea argomentativa: MARELLO, L’accertamento con adesione, cit., 205.


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qual volta – tra tributaristi – si parla di nullità occorre precisare a quale regime dei vizi si stia facendo riferimento. La stessa normativa tributaria recente adopera la figura della “nullità” in senso che appare debole, creando lo spazio per gli equivoci cennati sopra: in diversi luoghi della dottrina amministrativa si riporta come fattispecie di nullità “testuale” ex art 21-septies, L. 241/1990 l’invalidità comminata dall’art. 11, L. 212/2000 all’atto impositivo o sanzionatorio che contrasti con la risposta fornita all’interpello12; il che è ermeneuticamente comprensibile nella prospettiva dell’amministrativista, ma dubbio nella prospettiva del tributarista che non necessariamente ritiene che questa “nullità” sia di grado diverso rispetto a quelle dettate dall’art. 42, comma 3, D.P.R. 600/197313. Il sistema di invalidità degli atti di imposizione è così incertamente dibattuto tra coloro che individuano un sistema monista delle invalidità (per cui l’unico vizio risulta essere quella che nel diritto comune è l’annullabilità) e coloro che invece propugnano un sistema binario (nullità-annullabilità, spesso denominate inesistenza-nullità) fondato sul dualismo (opposizione?) dei criteri che si ritrovano nella dottrina e nella giurisprudenza amministrativa, quindi talvolta facendo riferimento agli elementi essenziali e talvolta alla carenza di potere. Se anche prima della L. 15/2005 era difficile individuare una giurisprudenza prevalente sul tema, lo stato delle cose pare essersi aggravato dopo le modifiche alla L. 241/1990, in quanto è ancora dibattuta l’applicabilità generale di questa legge al procedimento tributario e alle invalidità derivanti da esso14. 3.2 Si comprende così che vi sono due ordini di difficoltà da risolvere: in primo luogo l’incertezza nel delineare gli elementi essenziali dell’accertamento con adesione e, in secondo luogo, la labilità dell’associazione del vizio ad uno specifico regime di invalidità. L’operazione di elencazione degli elementi essenziali è di sicuro interesse in un rapporto che non è

12 P.e. cfr. VIPIANA, Gli atti amministrativi: vizi di legittimità e di merito, cause di nullità ed irregolarità, Padova, 2003, 443. 13 I non piccoli problemi interpretativi che pongono le norme tributarie che sanciscono la “nullità”, se lette nel prisma della riforma della L. 241/1990, sono analizzati in TESAURO, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 2005, 1445 ss.;

solo binario amministrativo-tributario, ma ternario: amministrativo-tributario-civile. Il catalogo delle nullità espresso da Cons. di Stato 166/199815 e che ha trovato eco nell’art. 21-septies, L. 2411990 è accusato di aver operato una commistione di elementi civilistici e pubblicistici non necessariamente armonizzabili16. È stato teorizzato come i vizi attinenti a soggetto, oggetto e causa siano riportabili a incompetenza e carenza di potere17 e come la forma abbia un ruolo marginale, per l’assenza in diritto amministrativo di una regola generale che imponga la forma scritta ad substantiam, fronteggiata peraltro da un numero assai elevato di norme che impongono forme specifiche18. Ciò senza contare che l’individuazione degli elementi essenziali potrebbe avvenire in chiave funzionale, portando ad emersione le funzioni primarie dell’atto e ricavando in via analitica gli elementi essenziali. 3.3 In questa prospettiva, un catalogo forse condivisibile – per ciò che concerne l’accertamento con adesione – potrebbe comprendere l’identificazione delle parti, la sottoscrizione dell’ufficio (o del contribuente non seguita da versamento), la forma scritta e la liquidazione dell’imponibile e dell’imposta. In tali ipotesi, manca la riferibilità ai soggetti e la funzione di determinazione dell’obbligazione. A seconda della tesi prescelta, si può poi dedurre l’inclusione tra gli elementi essenziali la motivazione o il versamento. Individuati gli elementi essenziali secondo il percorso ritenuto più coerente sistematicamente (Codice civile, difetto di attribuzione, analisi funzionale) e prima di definire un trattamento per gli stessi, occorrerebbe poi comprendere se si debba differenziare tra vizio dell’elemento o carenza dello stesso. Il che, in termini di teoria generale, dischiuderebbe tematiche che in questo ristretto spazio non si possono affrontare, ma che in chiave pragmatica possono essere eluse, in quanto coloro che adottano tesi di orientamento civilistico fanno riferimento alla “carenza”, per rispetto del

per una puntuale dimostrazione della nullità in senso proprio che deriverebbe dalle disposizioni dello Statuto v. poi BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi; considerazioni su principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. Dir. Fin., 2006, I, 356 ss. 14 Su cui v. di recente PIANTAVIGNA, Osservazioni sul “procedimento tributario” dopo la riforma della legge sul procedimento amministrativo, in Riv. Dir. Fin.,

2007, I, 93 ss. 15 Cons. di Stato, 13 febbraio 1998, n. 166, in Foro Amm., 1998, 420. 16 Per tali osservazioni cfr. BARTOLINI, Nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 155 ss. 17 Cfr. CAVALLO, Provvedimenti e atti amministrativi, Padova, 1993, 300 ss. 18 V. BARTOLINI, Nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, cit., 168 ss.


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dettato dell’art. 1418 c.c., e a conseguenze identiche si giunge anche per coloro che danno una razionalizzazione del concordato come modo dell’accertamento (in osservanza di ragioni analitiche e sistemiche). La scelta del regime da attribuirsi al vizio che tocchi gli elementi essenziali discende dal filtro adottato nella individuazione degli stessi e quindi – di relato – dalle tesi sulla natura. Se si accede ad una teoria che privilegia la funzione ordinaria di accertamento, ci si attende che al vizio venga associata la nullità dell’atto, quindi azioni e autotutela di tipo dichiarativo, nessuna preclusione in capo alle parti, rilevabilità d’ufficio. A conclusioni analoghe si giunge però anche seguendo il percorso transattivo, per l’applicabilità degli artt. 1418 ss. c.c. Se ne desume, quindi, che la categoria dei vizi su elementi essenziali consente di differenziare le scuole di pensiero nella fase di individuazione degli stessi, mentre intorno al trattamento della conseguente invalidità le teorie vengono sostanzialmente ricomposte. 4. Vizi formali Anche la categoria dei vizi formali presenta una ricchezza di spunti problematici che trascende l’ambito di questo intervento, ma che merita accennare, per evitare che la tassonomia offra rassicurazioni che non possiede (a meno di voler cadere nell’erronea rigida identificazione del vizio formale con l’irregolarità formale: la prima espressione indica una tipologia di vizi, mentre la seconda un trattamento per taluni tipi di vizio). In diritto tributario non è ancora assodata la funzione della forma nell’ambito del procedimento di imposizione, sia per quanto riguarda gli atti di manifestazione del potere impositivo, sia per quanto riguarda gli atti provenienti dal privato. Venendo ai più recenti sviluppi, il tributarista non sempre valorizza i molti e approfonditi studi compiuti nel diritto amministrativo intorno ai vizi formali (tanto in prospettiva interna che in prospettiva comparata, nella riflessione concernente l’analisi dei modelli tedesco e francese di approccio ai vizi formali); lo stesso art. 21-octies, comma 2, che associa taluni vizi formali ad un regime di irregolarità, non ha ancora dato vita all’ampio dibattito che probabilmente meriterebbe nel nostro settore19. Precisato ciò, possiamo restringere – in via mera-

19 Sebbene siano già comparse alcune pregevoli ricostruzioni, tra cui su tutte cfr. DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica

mente stipulativa – la categoria dei vizi formali, in negativo, a quei vizi dell’atto che non incidono sul dispositivo, né sugli elementi essenziali dell’atto. Pare allora che le fattispecie rilevanti di vizi formali in relazione all’accertamento con adesione possano essere solamente due. In primo luogo, va considerata la carenza di sottoscrizione del contribuente. Se tale omissione è seguita dal versamento, si integra una difformità rispetto al modello astratto suscettibile di essere considerata una mera irregolarità: non si può infatti dubitare della riconducibilità dell’atto al contribuente e quindi della volizione degli effetti tipici dell’istituto; l’atto esplicherà i propri effetti tipici e non sussisterà alcun interesse alla rilevazione del vizio in capo alle parti. Se invece la carenza di sottoscrizione non è seguita dal versamento e viene eccepita dal contribuente, l’atto va ritenuto nullo in quanto non è possibile riferirlo al soggetto (potendo essere ricompreso tra gli atti difettosi di un elemento essenziale). In secondo luogo, si può prendere in esame la carenza della motivazione, ove non si voglia accedere alla tesi che vi ravvisa una causa di nullità, peculiare dell’accertamento con adesione20. La carenza assoluta della parte motiva dell’atto potrebbe allora essere decisa seconde le regole ordinarie per l’accertamento, che vedono una prevalenza di opinioni secondo cui l’avviso di accertamento è annullabile (e non nullo): quindi anche tale vizio diverrebbe irrilevante nel concordato, considerato l’effetto preclusivo che l’avvicina all’atto impositivo divenuto definitivo. 5. Vizi procedimentali e residuali 5.1 I vizi del procedimento o riconducibili all’estensione o all’esercizio del potere possono essere riportati a cinque fattispecie: il mancato concordato per errore procedimentale dell’ufficio, l’incompetenza, l’esercizio del potere oltre il termine decadenziale, il mancato perfezionamento, il concordato con funzione atipica. La prima ipotesi da considerare è data dall’istanza del contribuente ex art. 6, D.Lgs. 218/1997, cui non sia seguito l’invito dell’ufficio (vuoi per mera omissione, vuoi perché l’amministrazione ritenga erroneamente che lo specifico procedimento non può seguire le vie del concordato). In tale frangente, comunque si analizzi il vizio, sembra che es-

europea, Pescara, 2003, 83 ss. e MULEO, Motivazione degli atti impositivi e (ipotetici) riflessi tributari delle modifiche alla legge n. 241/1990, in Dialoghi

Dir. Trib., 2005, 535 ss. 20 Tesi sostenuta in MARELLO, L’ accertamento con adesione, cit., 209.


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so debba essere considerato solo causa di irregolarità. Infatti, il contribuente, nella prospettiva dei modi dell’accertamento potrebbe lamentare in giudizio solo il mancato abbuono sanzionatorio, poiché il concordato non comporta una riduzione dell’obbligazione tributaria, mentre in prospettiva transattiva sarebbe comunque impossibile individuare il punto di incontro consensuale delle parti (e quindi provare il pregiudizio subito dal contribuente). Quanto alla competenza, l’analisi dei vizi può essere limitata alla incompetenza territoriale, fattispecie di una certa frequenza nella fase di accertamento. Come noto, parte della dottrina tributaria ha sostenuto che tale vizio induce la nullità degli atti impositivi21. Non appare stupefacente che le tesi che vedono nel concordato uno dei modi dell’accertamento tendano allora ad applicare anche all’accertamento con adesione concluso con ufficio incompetente la sanzione della nullità22. Le tesi che propendono per l’accordo sostitutivo risultano invece più garantiste dell’affidamento del contribuente, sostenendo l’applicabilità dei principi generali sulla rappresentanza senza potere ex artt. 1398 e 1399 c.c.23 Lungo la medesima direttrice e quindi con le stesse opposizioni nei risultati possiamo vedere la fattispecie dell’esercizio del potere oltre il termine decadenziale: di nuovo si fronteggiano la nullità (per esaurimento del settore temporale del potere) e applicazione di norme civilistiche, in questo caso ridotte all’art. 1398 c.c.24 (la ratifica amministrativa, ipotizzata ex art. 1399 non potrebbe ovviamente avere luogo, a causa dell’esaurimento del potere). Poiché il D.Lgs. 218/1997 ha ricollegato il perfezionamento al versamento – con una disposizione assai criticata in dottrina – pure la carenza di versamento costituisce una deviazione dal modello di validità. La chiara formulazione letterale dell’art. 9 impedisce di ritenere che l’atto, sottoscritto dalle parti, possa esplicare gli effetti tipici dell’istitu-

21 V. ad es. MANZONI, Potere di accertamento e tutela del contribuente, Milano, 1993, 77 ss.; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, 8a ed., Torino, 2003, I, 224 22 Cfr. MARELLO, L’accertamento con adesione, cit., 208. 23 Per l’applicazione di tali norme codicistiche v. VERSIGLIONI, Accordo e disposizione, cit., 534. 24 A mente del quale, «Colui che ha contrattato come rappresentante senza averne i poteri o eccedendo i limiti

to. Così, si sono proposte diverse linee interpretative: dalla quasi completa irrilevanza del concordato non perfezionato nelle tesi transattive, al recupero di alcuni diversi effetti in altre tesi, con variazioni che vanno dalla iscrivibilità a ruolo di quanto indicato nell’accertamento con adesione, alla rilevanza ai fini dell’autotutela o dell’esercizio della potestà impositiva. Da ultimo, va considerata la fattispecie in cui il concordato subisca una deviazione funzionale, comportando vuoi la corruzione del p.u.25, vuoi il generico utilizzo dello strumento di accertamento per finalità di semplice definizione dell’obbligazione, senza riferimenti concreti alla dimensione cognitiva del presupposto. Ci sembra peraltro che tale vizio possa trovare un univoco regime, indipendentemente dalla prospettiva adottata intorno alla natura: nella visione del concordato come modo dell’accertamento, avremmo una nullità per carenza di potere, mentre in ambito transattivo avremmo nullità per violazione di norme imperative ex artt. 1418 e 1345 c.c.26 o per specifica applicazione dell’art. 1972, comma 1, c.c.27 5.2 Oltre alle cinque ipotesi ora delineate, possono poi essere riportate ad un vizio procedimentale, concernente l’esercizio del potere “antecedente” il concordato, in primo luogo, l’omissione negli atti impositivi dell’indicazione secondo cui il contribuente può proporre istanza di accertamento con adesione o, in secondo luogo, l’espressa (erronea) indicazione secondo cui il contribuente non può presentare l’istanza. Alcune pronunce di merito, avallate da parte della dottrina, hanno ricollegato a questi vizi, uniti o meno al rifiuto dell’ufficio di procedere a concordato, l’annullabilità dell’atto impositivo28. Tale conclusione, per vero, non pare giustificata, in quanto, in primo luogo, non sembra rispettosa dei principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa, che offre rilevanza solo alle fattispecie in cui vi può essere un qual-

delle facoltà conferitegli, è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto». 25 Cfr. Corte dei Conti Reg. Sicilia, 16 marzo 2005, n. 512, in Boll. Trib., 2006, 345 ss. 26 Come sostiene BATISTONI FERRARA, voce Accertamento con adesione, in Enc. Dir., Aggiornamento, Milano, 1998, II, 31. 27 Come noto, l’art. 1972 c.c. sancisce al primo comma la nullità della transa-

zione relativa ad un contratto illecito e al secondo comma aggiunge che «negli altri casi in cui la transazione è stata fatta relativamente a un titolo nullo, l’annullamento di essa può chiedersi solo dalla parte che ignorava la causa di nullità del titolo». 28 Comm. trib. prov. Siracusa, 21 maggio 2004, n. 289, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov. Trento, 28 novembre 2003, n. 95, ivi.; in dottrina GARBARINO, Imposizione ed effettività nel diritto tributario, cit., 181 ss.


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che margine di incertezza cognitiva nelle forme di tutela29 e, in secondo luogo, pare non incidere direttamente, come già notato sopra, sulla tutela offerta al contribuente (come anche richiesto da Cons. di Stato 5725/200630). 6. Vizi derivati Un profilo che non è ancora venuto all’attenzione della giurisprudenza, ma che pure sembra di un certo interesse, è quello dell’accertamento con adesione che abbia luogo dopo la notifica di un atto impositivo viziato. In particolare, non è in discussione l’atto impositivo annullabile, ma l’atto impositivo nullo. L’irrilevanza dell’annullabilità del precedente atto di imposizione sembra infatti emergere in qualunque prospettiva la si consideri: per le tesi transattive per la stringenza del dettato dell’art. 1972 c.c., mentre per le tesi che vedono nel concordato un istituto dell’accertamento, perché ciò risponde ad esigenze sistemiche (in generale, l’atto impositivo divenuto inoppugnabile consolida i propri effetti anche se affetto da vizi causa di annullabilità) e a coerenza rispetto al dettato normativo del D.Lgs. 218/1997 (che prevede proprio che l’accertamento pregresso possa essere affetto da vizi sostanziali). Peraltro, si può notare che per coloro che credono che nella nostra materia esista solo l’eventualità dell’annullabilità, il punto diventa del tutto insignificante, poiché non esiste vizio pregresso in grado di invalidare il concordato. Non irrilevante appare, invece, in un sistema duale delle invalidità, il vizio causa di nullità dell’atto impositivo pregresso. Il ragionamento interno sull’efficacia degli atti pare debba farci concludere per la nullità derivata del concordato su atto di imposizione nullo. Infatti, è nello stessa natura della nullità la preclusione alla stabilizzazione degli effetti dell’atto viziato, il che contempla anche l’impossibilità per l’atto nullo di giungere ad una qualche stabilizzazione per il tramite di convalida, sanatoria o di un procedimento che abbia come condizione legittimante

29 Come chiaramente indicato da Cons. di Stato, 31 gennaio 2007, n. 400, in www.giustizia-amministrativa.it, ove l’istituto dell’errore scusabile viene limitato alle ipotesi di una «situazione normativa obiettivamente non conoscibile o confusa, comportante un’obiettiva incertezza, in ragione della difficoltà d’interpretazione di una norma, della particolare complessità di una fattispecie concreta,

proprio l’efficacia dell’atto invalido. Non sembra ragionevole credere che l’atto impositivo nullo possa validamente avviare il procedimento di accertamento con adesione, orientandolo, e, per questo tramite, giungere alla formalizzazione di un atto efficace fondato su presupposto nullo. Più articolata sembra la soluzione cui si dovrebbe accedere sulla base delle tesi transattive, per l’applicabilità dell’art. 1972 c.c. Infatti, escluse le fattispecie nominate al primo comma (riferibile al concordato “illecito”), il secondo comma della norma in questione sancisce l’annullabilità della transazione, rilevabile solo dalla parte che ignorava la causa di nullità del titolo. Un’eventuale nullità dell’atto impositivo pregresso, per carenza degli elementi essenziali, condurrebbe quindi solo ad annullabilità31, anche se sembra difficile che nel concreto si possa configurare nel procedimento tributario l’ignoranza della causa di nullità del precedente accertamento (applicando criteri di ordinaria diligenza, come richiesto dalla Cassazione per la rilevanza dell’ignoranza): l’esito ordinario appare piuttosto quello della permanenza degli effetti del concordato perfezionato su precedente atto impositivo affetto da nullità. Tutto ciò a patto di rispettare il presupposto secondo cui il concordato è riportabile al genus della transazione novativa, poiché in caso contrario la nullità del titolo potrebbe invece portare la nullità o addirittura l’inesistenza del concordato32. 7. Azioni proponibili. Riesame Tipologia delle azioni proponibili e dinamica processuale delle azioni stesse non sono così lontane, qualsiasi sia la tesi prescelta (diverso, come visto, è invece lo spazio concesso ai vizi legittimanti l’azione). Infatti, nei sistemi binari dell’invalidità, l’azione di annullamento è generalmente connessa ad un termine decadenziale per l’esercizio della stessa e alla sola rilevabilità di parte, mentre l’azione di nullità presenta i noti caratteri della imprescrittibilità e della rilevabilità ex officio. Questo lascia sullo

dell’esistenza di contrasti giurisprudenziali o di comportamento equivoco dell’amministrazione». 30 Cons. di Stato, 2 ottobre 2006, n. 5725, in Riv. Giur. Edilizia, 2007, 211 ss., ove «l’omessa indicazione, nel provvedimento impugnato, del termine per impugnare e dell’autorità a cui ricorrere, non si risolve in vizio del provvedimento ed è improduttiva di effetti nel caso in cui [...] l’inte-

ressato non risulti in alcun modo leso nei sui diritti di tutela». 31 V. Cass., 27 agosto 1994, n. 7553, in Giur. It., 1995, I, 1, 1248, riferita specificamente al titolo nullo per carenza di elementi essenziali. 32 Sul punto v. Cass., 10 luglio 1998, n. 6703, in Giust. Civ., 1999, I, 1776 e App. Torino, 26 gennaio 2007, in Giur. di Merito, 2007, 2904.


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sfondo le difficoltà non piccole, che stanno dibattendo gli amministrativisti e che già altre volte sono affiorate nella nostra materia, intorno alla suscettibilità di un processo costruito come giudizio di impugnazione-annullamento a produrre una sentenza dichiarativa sulla nullità dell’atto. Quanto alla giurisdizione, sebbene il tema non sia ancora stato profondamente indagato e quindi la conclusione vada assunta in via dubitativa, sembra che il dettato dell’art. 2, D.Lgs. 546/1992, demarcando rigidamente la sfera di attribuzione del giudice speciale tributario sulla base dell’oggetto della controversia, sia comunque idoneo ad attrarre anche le controversie in cui si dibatta della nullità dell’atto, prevalendo sul criterio tradizionale fondato sulla posizione soggettiva. Piuttosto, va notato che, a differenza che in passato, le recenti decisioni di legittimità sembrano adottare una lettura restrittiva dell’art. 2, comma 3, ponendosi in contrasto con un certo orientamento dottrinale. Infatti, il meccanismo di perfezionamento, ricollegato al versamento come nei modelli condonistici, ha fatto sì che parte della dottrina ritenesse esperibile un’azione susseguente l’eventuale diniego di rimborso da parte del contribuente, in maniera complementare rispetto alla possibilità di impugnare direttamente l’atto33. La pronuncia di Cass. 18962/200534, avente proprio a riferimento un diniego di rimborso di quanto versato per perfezionare il concordato, ha definito in maniera piuttosto tranchant la questione, sancendo che «il reddito definito con adesione non può successivamente essere mai rimesso in discussione», senza spendere argomenti a sostegno della tesi. La regola espressa in questa decisione non sembra stupefacente, se letta con l’ausilio dei principi generali dell’accertamento e alla luce della prospettiva secondo cui il concordato condivide molti dei

33 In relazione agli errori sul caput controversum, v. VERSIGLIONI, Accordo e disposizione, cit., 538; più in genere RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 109 configura il rimborso come rimedio ai vizi del concordato. 34 Cass., 28 settembre 2005, n. 18962, in banca dati Jurisdata. 35 Da ultimo v. Cass., 15 gennaio 2007, n. 672, in banca dati Jurisdata, ove «in

caratteri e degli effetti tipici dell’atto impositivo definitivo. Infatti, questa decisione della Corte di Cassazione deve essere rapportata a quell’altro orientamento della Suprema Corte, alla luce del quale l’istanza di rimborso proposta per ripetere il pagamento di quanto versato sulla base di un titolo impositivo divenuto definitivo non dà luogo ad un rifiuto impugnabile35. Quindi, come non è ripetibile quanto pagato a titolo di un accertamento inoppugnabile per decorso dei termini o ove sia stata prestata acquiescenza, così il pagamento effettuato nel perfezionamento del concordato non può condurre ad una nuova lite concernente an e quantum dell’obbligazione. Quanto infine al riesame del concordato, in dottrina non si dubita della esperibilità dell’annullamento d’ufficio36, anche se appaiono differenze nette se si guarda all’oggetto dello stesso: da una parte le tesi “unilaterali” sono propense ad ammetterlo ampiamente, sulla scorta di quanto avviene per l’accertamento ordinario pure se divenuto inoppugnabile37, mentre le tesi transattive limitano l’oggetto dell’annullamento ai vizi non sostanziali38. 8. Conclusioni Se si rimane nella magistrale prospettiva di Berliri39 e si individua nel trattamento dei vizi del concordato uno dei più significativi indici di comparazione tra le diverse teoriche inerenti l’istituto, si può dedurre che queste, pur condividendo alcuni profili di vicinanza, rimangono in larga parte lontane, perpetuando quella opposizione dogmatica che percorre l’ordinamento tributario da più di un secolo. Né appare all’orizzonte qualche elemento che possa ricondurre ad unità questa feconda dialettica: anche nel prossimo futuro ci si può ragionevolmente attendere che permanga il contrasto intorno alla collocazione sistemica dell’accertamento con adesione e al conseguente trattamento dei vizi.

tema di contenzioso tributario, la valorizzazione del silenzio-rifiuto dell’amministrazione al fine di individuare un atto impugnabile da parte del contribuente si giustifica solo nei casi in cui il versamento o la ritenuta del tributo non siano stati preceduti da un atto di imposizione suscettibile di impugnazione diretta». L’assunto è generalmente accolto in dottrina: FREGNI, voce Rimborso, in Dig. Comm.,

Torino, 1996, XII, 499 ss.; BASILAvoce Rimborso, in Enc. Giur., Roma, 2002, XXVII, 2, ove si vede anche una variazione in caso di presentazione di istanza di autotutela. Cfr. ex multis RUSSO, op. cit., 109. MARELLO, L’accertamento con adesione, cit., 227. VERSIGLIONI, Accordo e disposizione, cit., 399. Citata supra, alla nota 1. VECCHIA,

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ACCERTAMENTO CON ADESIONE, LOGICA E RESPONSABILITÀ DELLA SCELTA* di Marco Versiglioni 1. Premessa - 2. “Indisponibilità tributaria rovesciata”, “discrezionalità tributaria” e responsabilità del funzionario dell’amministrazione finanziaria - 3. Nozione e disciplina giuridica dell’accertamento con adesione - 4. Conclusioni

1. Premessa Sono particolarmente grato al Prof. Massimo Basilavecchia e al Prof. Lorenzo del Federico per avermi invitato a intervenire sul tema dell’accertamento con adesione. Non potrebbe esistere occasione più propizia di quest’incontro di studio fra amministrativisti e tributaristi per testare l’idea che tale strumento di “attuazione consensuale della norma tributaria” sia plasmato sulla matrice dogmatica degli accordi amministrativi (naturalmente sostitutivi) di cui all’art. 11 della L. 241/19901.

* Testo elaborato sulla base della relazione tenuta nell’ambito del III Incontro di studio fra amministrativisti e tributaristi, “Azione amministrativa ed azione impositiva tra autorità e consenso. Strumenti e tecniche di tutela dell’amministrato e del contribuente”, svoltosi in Pescara il 5 ottobre 2007, su iniziativa del Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Chieti-Pescara. 1 Per la formulazione di tale idea (rispetto alle novità legislative introdotte nel 1994), può vedersi VERSIGLIONI, Contributo allo studio dell’attuazione consensuale della norma tributaria, Perugia, 1996. 2 In merito alla distinzione tra “discrezionalità amministrativa” e “discrezionalità tributaria”, nei termini che saranno utilizzati nel prosieguo, può vedersi VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario. Contributo allo studio dell’accertamento con adesione e della conciliazione giudiziale, Milano, 2001, 382 ss. 3 Per un inquadramento storico-evolutivo del dogma dell’indisponibilità nel diritto tributario e per la teorizzazione di una specifica forma di “di-

L’ipotesi è che l’accertamento con adesione costituisca un segno sia dell’esistenza di aree comuni (al diritto amministrativo e al diritto tributario) in cui convivono i principi pacta sunt servanda e rebus sic stantibus, sia dell’esistenza di ponti logico-giuridici che collegano (soltanto) concetti diversi e peculiari ai due settori, perciò giustamente destinati a vivere in ambiti differenti (ad es. “discrezionalità amministrativa” e “discrezionalità tributaria”2). Tenterò, insomma, di difendere l’ammissibilità dogmatica e normativa dell’“accordo amministrativo tributario” e la sua compatibilità con un’inedita nozione tipologica dell’“indisponibilità tributaria” (che intenderebbe sostituirsi al tradizionale concetto unitario che, invece, vede in essa la puntuale negazione della “discrezionalità amministrativa”3). Tutto ciò mantenendo ferma la premessa, fissata dalla Costituzione, che il diritto tributario è un “di-

screzionalità tributaria”, se si vuole, si veda ancora VERSIGLIONI, Accordo e disposizione, cit., 303 ss., e ivi numerose citazioni di lavori precedenti sul tema. Successivamente, sul dogma dell’indisponibilità, oltre al nostro Prova e studi di settore, Milano, 2007, 57 ss., 88 ss. e 138 ss., si vedano GALLO, La natura giuridica dell’accertamento con adesione, in Riv. Dir. Trib., 2002, 426; FANTOZZI, La teoria dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria?; TOSI, Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, entrambe in Adesione, conciliazione ed autotutela: disponibilità o indisponibilità dell’obbligazione tributaria?, Padova, 2007; FANNI, L’indisponibilità del credito tributario quale principio fondamentale, salvo tassative deroghe, in Dir. e Prat. Trib., 2002, II, 725; LUPI, Sull’impossibilità del Comune di rinunciare alla Tarsu nel quadro di una convenzione per lo svolgimento di un servizio pubblico. A proposito di disponibilità del credito tributario, in Dialoghi Dir. Trib., 2004, 21; PETRILLO, Profili sistematici della conciliazione giudiziale tributaria, Milano, 2006, 94 ss.; FALSITTA, Relazione al convegno “Gli ottanta anni di

Diritto e pratica tributaria”, in Gli ottanta anni di Diritto e pratica tributaria, 2007, 35.; Id., Natura e funzione dell’imposta con speciale riguardo al fondamento della sua «indisponibilità», in Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, a cura di LA ROSA, Milano, 2008, 45 ss.; RUSSO, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, ivi, 89 ss.; FEDELE, Autonomia negoziale e regole privatistiche nella disciplina dei rapporti tributari, ivi, 121 ss.; TOSI, Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazione fiscale, in questa rivista, 2008, 1, 25 ss.; CUVA, Conciliazione giudiziale ed indisponibilità dell’obbligazione tributaria, Padova, 2007; MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 121 ss.; GUIDARA, Gli accordi nella fase della riscossione, in Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di La Rosa, Milano, 2007, 352 ss. Per quanto concerne la discrezionalità nel diritto tributario, si rinvia a PERRONE, Discrezionalità amministrativa (Dir. trib.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da Cassese, Milano, 2006, 2002 ss.


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ritto con verità” e non un “diritto senza verità”4. Cercherò poi di cogliere i segni peculiari dell’accertamento con adesione sia dall’interno, individuando il suo oggetto (rectius: il suo presupposto di legittimità sostanziale e comportamentale), sia dall’esterno, segnando la sua posizione nell’ambito della categoria degli “accordi amministrativi tributari” (tra i quali dovrebbero annoverarsi, a mio avviso, altre figure con “codice genetico” consensuale e precisamente, sia gli accordi attuativi di norme – la conciliazione giudiziale, l’acquiescenza, l’autotutela da istanza, l’interpello –, sia quelli attuativi di obbligazioni – rateizzazione, sospensione, garanzia, compensazione, accollo e transazione)5. Questo percorso dovrebbe consentire di evidenziare, infine, la natura e la disciplina giuridica dell’istituto (disciplina tributaria o comune, quest’ultima se e in quanto compatibile e non derogata da quella tributaria). Ma prima di iniziare, nella speranza di dar continuità al discorso complessivo, è forse opportuna una precisazione destinata ad esprimere i termini del collegamento tra l’argomento specifico di cui parlerò e i temi generali trattati dalle autorevoli relazioni che mi hanno preceduto. Lo studio dell’accertamento con adesione implica l’esame delle sole forme di ragionamento adottate dal contribuente o dal fisco nel limitato ambito dell’“attuazione incerta della norma tributaria”. Sicché (intendo riferirmi alle basi dogmatiche appena illustrate dal Prof. Girolamo Sciullo), la “disposizione” e la “discrezionalità” di cui parlerò tra poco, da tributarista, hanno in quest’ambito (penso all’alveo concettuale delineato dal Prof. Massimo Basilavecchia e dal Prof. Salvatore La Rosa) un

4 Sul concetto di diritto tributario inteso come “diritto con verità” (e non come “diritto senza verità”), per il quale cioè è imposto al legislatore di trovare soluzioni che rendano vere le equazioni o le proporzioni logiche fissate dalla Costituzione (ad es.: “presupposto del tributo = capacità contributiva”; “prova del presupposto del tributo = massima di comune esperienza”; “presupposto del tributo: capacità contributiva = prova : massima di comune esperienza”, ecc.) può vedersi Versiglioni, Prova e studi di settore, cit.; Id., Logiche, regole e principi del ‘ragionamento giuridico tributario (tra autorità e consenso), in AA.VV., Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di La Rosa, Milano, 2007, 117 ss.; Id., Sull’uomo giuridico

campo di applicazione (l’incertezza = la res litigiosa) diverso da quello cui si riferiscono gli amministrativisti quando si occupano degli stessi temi, poiché essi osservano la “disposizione” e la “discrezionalità” nella loro differente (e ben più ampia) attitudine a “regolamentare nel concreto gli interessi in gioco”. 2. “Indisponibilità tributaria rovesciata”, “discrezionalità tributaria” e responsabilità del funzionario dell’amministrazione finanziaria 2.1 Accertamento con adesione e “temi” del ragionamento giuridico tributario Partirò dal dogma dell’indisponibilità. Infatti, tale dogma costituisce il presupposto logico-giuridico di qualsiasi approccio, passato o recente, alla natura giuridica del concordato tributario (recte: della conciliazione e dell’adesione). E poiché da questa natura derivano nessi logici indispensabili per risolvere numerose questioni teoriche e pratiche, il tema dell’“indisponibilità tributaria” e quello, ad esso complementare, della “discrezionalità tributaria” divengono momenti necessari del discorso ricostruttivo da compiere in ordine all’accertamento con adesione. In specie se, come in questa sede, s’intenda almeno lambire il profilo della responsabilità del funzionario dell’amministrazione finanziaria “tenuto” ad applicare tale strumento. L’evoluzione di questi concetti testimonia come sul secolare tema dell’indisponibilità (intesa quale negazione della discrezionalità), la dogmatica di settore abbia, di fatto, stratificato una spessa serie di accezioni. Tuttavia, rispetto all’adesione (e alla conciliazione), qualunque sia l’accezione condivisa, il dogma dell’indisponibilità sembra “inconsistente” o “inconferente”6. Anzi, nel ristretto e fisiologi-

tributario, in Economia e concezione dell’uomo, a cura di Grasselli, Milano, 2007, 351 ss. 5 L’ipotesi ricostruttiva della categoria degli “accordi amministrativi tributari” può vedersi, eventualmente, in VERSIGLIONI, Accordi amministrativi (Dir. trib.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da Cassese, Milano 2006, 91 ss. 6 Rispetto all’accertamento con adesione e alla conciliazione giudiziale, il dogma dell’indisponibilità è inconsistente sia quando di esso si parla nel senso di “inaccessibilità in campo tributario del negozio civilistico” (poiché in senso opposto depongono l’introduzione della conciliazione giudiziale e la sua riconosciuta costituzionalità anche in assenza di nor-

me che, ai fini dell’estinzione del giudizio, attribuiscano al giudice un potere di controllo in ordine al merito dell’accordo), sia quando di esso si coglie il significato di “alterità delle posizioni occupate rispettivamente dall’amministrazione finanziaria e dal contribuente” (poiché il rivolgimento del quadro del procedimento amministrativo, disposto dalla L. 241 del 1990 ha, finalmente introdotto, tra l’altro, il riconoscimento della possibilità di svolgere una funzione pubblica “per consenso”). Di poi, sempre rispetto all’accertamento con adesione e alla conciliazione giudiziale, il dogma dell’indisponibilità è inconferente se considerato nell’accezione di “irrinunciabilità al credito tributario”, poiché


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co ambito di operatività (validità e liceità) dell’accertamento con adesione, cioè nell’“attuazione incerta della norma tributaria”, sembra palesarsi, piuttosto, la “discrezionalità tributaria”, quale nuovo modus agendi degli uffici fiscali (ben differente dalla “discrezionalità amministrativa” e dalla “discrezionalità tecnica”) e, precisamente, quale ambi-

l’ambito in cui opera fisiologicamente l’accertamento con adesione è quello, e soltanto quello, dell’“attuazione incerta”, ove confliggono la pretesa dell’amministrazione e il diritto alla contestazione del contribuente (e ove, pertanto, il credito tributario è controverso). Infine (ponendo in disparte la questione dell’accettabilità o meno del discutibile concetto del “potere amministrativo d’imposizione”), il dogma dell’indisponibilità è parimenti inconferente nell’accezione di “irrinunciabilità al potere amministrativo di imposizione”, in quanto l’accertamento con adesione non implica concettualmente, anche se riguardato in una visione transattiva, rinuncia ai poteri che la legge attribuisce all’amministrazione finanziaria per l’accertamento del tributo (anzi, esso ne è affermazione, dato che implica il preventivo svolgimento da parte del Fisco di tutte le normali attività di controllo ad esso propedeutiche). Per un approfondimento dei temi e degli argomenti qui sintetizzati, può vedersi VERSIGLIONI, Accordo e disposizione, cit., 303 ss. 7 FALSITTA, Commento su La Storia, in Gli ottanta anni di Diritto e pratica tributaria. Raccolta di interventi preparatori, 46-48; Id., Lotta ad oltranza della piaga dell’evasione fiscale ma senza moratoria delle garanzie costituzionali, in Corr. Giur., 2007, 5 ss., riferendosi al nostro Accordo e disposizione e ad un lavoro successivo, in cui si è fatto solo cenno al problema dell’indisponibilità (VERSIGLIONI, Prime riflessioni sul concordato triennale preventivo, in Riv. Dir. Trib., 2002, 373 ss.), ha ravvisato in tali lavori un «verdetto di condanna» del principio di indisponibilità; tale verdetto, afferma l’autore, sarebbe inaccettabile dato che «non ha basi logiche, come direbbe Antonio De Viti De Marco». L’autore correla il principio dell’indisponibilità del credito di imposta ai principi costituzionali sulla giustizia nella ripartizione del carico fiscale, i quali, secondo la logica del De Viti De Marco, garantirebbero la «perequata» imposizione, impedendo che

to di scelte non predeterminate, concernenti sia il “se accordarsi”, sia il quantum dell’accordo. Queste conclusioni hanno formato oggetto di osservazioni critiche, mosse da recente autorevole dottrina7. Tali osservazioni non sembrano condivisibili8 e, soprattutto, invitano a formulare un’ipotesi su cosa, in positivo, sia l’indisponibilità. Volendo

«chi paga meno del dovuto scarichi quel meno su altri contribuenti». Trattasi di uno sviluppo in chiave logica della tesi che l’autore formula nella sua (quinta) edizione del Manuale (Id., Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, 155), ove è affermato che «è incostituzionale per violazione degli articoli 3 e 53 ogni legge che attribuisca all’amministrazione finanziaria il potere di disporre dell’esistenza e dell’ammontare dell’imposta mediante trattamenti privilegiati da accordarsi a singoli contribuenti con atti di rinuncia, rimessione, transazioni, concordati, sconti, abbuoni e così via». 8 Sul piano logico, sembra opportuno segnalare che, limitando l’analisi – come si è fatto nei lavori criticati da Falsitta – alla sola attuazione della norma in situazioni di incertezza, la concezione del De Viti De Marco, pur incontestabile in linea di principio, non appare idonea a sostenere la critica, poiché non sembra in grado di accedere (né tanto meno di offrire soluzione) al problema insito nell’accertamento, in situazioni incerte, del «chi paga meno» e del «meno del dovuto». Infatti, tale logica presuppone una situazione di certezza, vale a dire una situazione opposta rispetto a quella costituente la premessa dei citati lavori e quindi delle ipotesi in essi formulate. Sul piano giuridico, appare preferibile la tesi che non estende l’ambito di applicazione dell’art. 53 Cost. né alla genesi delle norme diverse da quelle sostanziali, né all’attuazione delle norme di imposta al caso concreto. Si ha infatti il timore che la tesi opposta (la quale amplia l’operatività dell’art. 53 Cost. alla genesi delle norme strumentali e all’attuazione delle norme di imposta al caso concreto) rischierebbe di annacquare e quindi di indebolire la forza deontologica della funzione svolta dal principio di capacità contributiva, sia che lo si osservi in un’ottica razionale, sia che lo si osservi in un’ottica solidaristica. Ma soprattutto, forse, una siffatta concezione finirebbe proprio per violare il principio di indisponibilità che (ex

art. 23 Cost.) impone all’operatore del diritto di applicare la legge e non le norme costituzionali – tra le quali, particolarmente, l’art. 53. D’altro canto, la decisa e recente critica rivolta da FALSITTA ai lavori del 2001 e del 2002 (che raccolgono idee prefigurate in un precedente lavoro, VERSIGLIONI, Contributo allo studio dell’attuazione consensuale della norma tributaria, Perugia, 1996) invita a precisare (oltre ai limiti) i contenuti delle ipotesi ricostruttive cui si pervenne. In tali studi la rivisitazione della dogmatica tributaria, in particolare dell’indisponibilità, non è svolta in un’ottica generale, ma nella prospettiva della sola attuazione incerta finalizzata al componimento (e non all’accertamento) che concerne le situazioni litigiose o potenzialmente litigiose sorte in sede di applicazione della norma tributaria al caso concreto. Nei limiti di quelle indagini, non si è potuto pervenire a conclusioni circa l’essenza dell’indisponibilità nel diritto tributario (né si è inteso escludere in toto che esista il principio dell’indisponibilità o dell’irrinunciabilità del credito di imposta – principio peraltro più volte recentemente rimodellato da un legislatore sempre più attento all’efficienza dell’agere pubblico). Si è invece limitatamente osservato che l’introduzione legislativa della conciliazione giudiziale (peraltro seguita dalla previsione di numerose altre fattispecie di analoga matrice concettuale) e l’accertamento della sua legittimità costituzionale svolto dalla Corte, hanno reso “inconsistenti” (cioè cedevoli) le basi normative del dogma inteso come “inaccessibilità in campo tributario del negozio civilistico”. Parimenti, si è notato che, sul piano logico-giuridico, nell’“attuazione incerta finalizzata al componimento” (e non all’accertamento), il dogma dell’indisponibilità nella sua accezione di “irrinunciabilità del credito tributario” appare inconferente. L’osservazione trova la sua base logica nel concetto aristotelico, più volte richiamato anche nel successivo Prova e studi di settore, cit., se-


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lasciare in disparte i profili attinenti alle invalidità (questioni di cui si è approfonditamente occupato e di cui ci parlerà tra poco il Prof. Enrico Marello), l’ipotesi definitoria potrebbe essere “testata” sul “banco” dell’eventuale responsabilità del funzionario dell’amministrazione finanziaria “tenuto” a servirsi dell’adesione (o della conciliazione). In primo luogo, non sembra che il dogma dell’indisponibilità possa essere contestato, almeno nella sua configurazione puntuale (= ideale); semmai, può discutersi l’argomento mediante il quale la sua esistenza giuridica (puntuale = ideale) debba essere provata9. Tale dogma, però, se si muove, come detto, dal presupposto che il diritto tributario è un “diritto con verità”, non può prescindere dalla verità (effettività) in cui deve concretarsi l’attuazione della norma tributaria, né può prescindere dal fatto che

condo cui, nel dubbio, di fronte all’incapacità di conseguire il bene idealmente inteso, l’uomo «deve scegliere il male minore». Insomma, le conclusioni raggiunte circa l’inconsistenza e l’inconferenza del dogma dell’indisponibilità rispetto alle questioni poste dalla conciliazione giudiziale e dall’accertamento con adesione, nonché a quelle poste dal prefigurato concordato preventivo triennale, dimostrano, da sole, che è ferma e mai dubitata convinzione di chi scrive che l’indisponibilità, intesa come vincolo precettivo, esiste, ma è consistente e conferente rispetto ad altro ordine di questioni: quelle in cui l’ordinamento considera imprescindibile il fine dell’accertamento della “verità puntuale” o di un suo surrogato equivalente (“verità = corrispondenza” o “verità = coerenza” o “verità = correttezza procedurale”). La conciliazione giudiziale persegue una soluzione negoziata della controversia, in una logica di componimento, senza possibilità per il giudice di una valutazione del merito dell’accordo. L’accertamento con adesione è volto a definire consensualmente l’accertamento a prescindere dall’esistenza di criteri predeterminati di indirizzo delle decisioni funzionali all’accordo, e produce effetti preclusivi più forti di quelli della transazione civilistica (la cd. “zona franca” non suscettibile di subire il potere di integrazione). Entrambi gli istituti operano all’interno di un quadro premiale che si perfeziona con una modalità tipica dei contratti reali. Tutti questi elementi sono sembrati inconfutabili segni dell’avvenu-

questa verità (effettività) implica ragionamenti giuridici umani e che, talvolta, tali ragionamenti devono essere svolti per superare l’incertezza che sorge dalla potenzialità10 o dall’attualità della lite (come avviene nell’adesione e nella conciliazione). Insomma, la specificità dell’attuazione della norma tributaria (la determinazione delle obbligazioni, non dell’obbligazione, e l’esercizio, non la titolarità, della funzione di accertamento) è che essa, nel suo svolgersi tra autorità e consenso, se può (per lo più deve) prescindere dal volere, non può invece prescindere dalle forme del ragionamento, quindi dall’ineludibile “debolezza”, dell’homo iuridicus, poiché queste rappresentano il presupposto logico, prima che giuridico, di quelle attività. E questa prospettiva di indagine sembra ineludibile anche focalizzando la particolare natura (pubblica) di una delle parti. Infatti, se si rimanesse anco-

ta scelta legislativa (e costituzionale) del «male minore», cioè di un surrogato di talune forme di verità (“verità = corrispondenza”, “verità = coerenza”, “verità = correttezza procedurale”), ottenuto mediante un alternativo (“verità = consenso”). Ebbene, in questo ristretto ambito, appare perciò logicamente inconsistente e/o inconferente l’indisponibilità tradizionalmente intesa (= negazione o limitazione della discrezionalità). 9 Sebbene in dottrina gli indirizzi prevalenti focalizzino l’art. 53 (e l’art. 3) Cost., come si vedrà, sembra invece preferibile riferire il dogma (se e in quanto inteso nella concezione tipologica qui ipotizzata e non già considerato nella figura tradizionale unitaria) all’art. 23 Cost. (indisponibilità “puntuale” o “in pratica puntuale”) e agli articoli 24, 97 e 111 Cost. (“indisponibilità intervallare” e “indisponibilità rovesciata”). 10 Così, è fisiologica l’incertezza connessa alla potenzialità della lite che si delinea a fronte di una pretesa avanzata avendo tenuto conto di tutti i dati del problema raccolti con l’efficienza richiesta a chi è tenuto a ottimizzare nel concreto il rapporto certezza/giustizia. La relatività della decisione pubblica rispetto alla qualità e alla quantità dei dati reperiti con indagini efficienti (= disponibili) è ben colta dalla recente dottrina che, mentre osserva come debba ritenersi indisponibile il potere d’indagine dell’amministrazione finanziaria (nel senso che questa «non può deviare, quando determinati elementi siano affiorati»), segnala, però, che l’eserci-

zio di tale potere deve seguire i criteri che promanano dal principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. (così MULEO, Il consenso nell’attività di indagine amministrativa, in Autorità e consenso, cit., 110). Da questa premessa, che pare condivisibile (in tal senso, se si vuole, possono vedersi le idee espresse in VERSIGLIONI, Accordo e disposizione, cit., 353 ss., spec. 357) se precisata nei termini qui indicati nel testo, non sembra sia possibile trarre, invece, la conclusione cui giunge l’autore quando così assolutizza: «per la parte pubblica non si può quindi ipotizzare la disponibilità della materia del consenso». Posto, infatti, che ovviamente non sarebbe legittimo – né teorizzabile – un «accordo tributario che implichi una rinunzia al prelievo» in situazione di certezza sull’attuazione della norma (o dei diritti), l’intero ragionamento svolto dall’autore, riguardante l’esercizio dei poteri di indagine, sembra invece inconferente rispetto a quello da farsi a proposito della fase successiva, laddove, avendo la parte pubblica svolto «al meglio» i poteri/doveri di indagine, ad essa appaiano però incerti gli «elementi affiorati» – considerato che proprio l’incertezza è il presupposto imprescindibile della disponibilità tributaria ipotizzata limitatamente all’accertamento con adesione e alla conciliazione giudiziale e osservata, più in generale, rispetto alla categoria degli “accordi amministrativi tributari”. Per un approfondimento, se si vuole, oltre ai lavori Accordo e disposizione, cit., e Prova e studi di settore, cit., può vedersi anche VERSIGLIONI, Accordi amministrativi, cit., 91 ss.


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rati alla visione intransigente, monolitica, e idealmente puntuale, dell’indisponibilità (cioè alla visione che la concettualizza trascurando l’incertezza giuridica), l’agere dell’homo iuridicus publicus sarebbe afflitto da invalidità e responsabilità tali da rendere irrealizzabili, logicamente prima che giuridicamente, i fini delle attività allo stesso demandate (rendere “effettive” la legalità, astratta, dell’obbligazione e la titolarità, astratta, della funzione). Tanto che, paradossalmente, proprio quel modo assolutizzante di osservare l’indisponibilità, quale puntuale (ideale) garanzia della giustizia tributaria nel riparto dei carichi pubblici11, finirebbe per divenire la negazione a priori della concreta possibilità di rendere vere nel concreto (effettive) la legalità dell’obbligazione e la titolarità della funzione, continuando ad alimentare l’improprio svilimento moderno dello homo burocraticus. Se, pertanto, si muove dall’idea che quello tributario è un “diritto con verità”, e se a quest’idea si associa quella secondo cui l’agere dell’homo iuridicus publicus non può prescindere in toto dal dubbio insito nella lite (potenziale o attuale), può comprendersi che, per definire in positivo l’indisponibilità, è necessario fissare alcuni concetti preliminari, quali quelli di verità e di effettività. Peraltro, l’esame di questi concetti presuppone l’approfondimento della nozione di “giudizio” (di diritto e di fatto), e quindi delle “forme di ragionamento” dell’“uomo giuridico tributario” posto dinanzi alle diverse forme di verità di volta in volta perseguite dal legislatore nel fissare la fattispecie astratta, “temi”, e nel predisporre strumenti, “veicoli”, per l’esercizio della funzione. Iniziando a svolgere il discorso sul “giudizio” dalla prospettiva offerta dai “temi” del ragionamento giuridico, sembra possibile distinguere due differenti tipologie: le “verità scientifiche” e le “verità etiche”. “Verità scientifiche” possono considerarsi quelle

11 Ragionando dal punto di vista dell’obbligazione di riparto – particolarmente focalizzata da coloro che fondano l’indisponibilità sull’art. 53 Cost. –, se per ipotesi, mutatis mutandis, si pensasse ad un regolamento condominiale che escludesse gli usuali criteri di riparto (notoriamente ancorati a “fatti scientificamente determinabili”) e che adottasse, invece, criteri di riparto legati a “fatti eticamente determinabili” – come avviene, ad esempio, quando la legge fa riferimento al valore normale o al totale, sinteticamente inteso, dei ricavi im-

perseguite da leggi che selezionano “temi” (= equazioni) che ammettono “una sola” soluzione o “in pratica una sola soluzione” – in questo secondo caso giacché l’approssimazione è giuridicamente irrilevante – (ad es.: i cavalli fiscali di un’autovettura, la superficie di un terreno edificabile, come fatti; la parentela, come diritto) Trattasi, quindi, di “verità puntuali” o “in pratica puntuali” costituenti “codici genetici” di leggi qualificate dalle logiche della “verità = corrispondenza” o della “verità = identità”. “Verità etiche” possono considerarsi quelle perseguite da leggi che selezionano “temi” (= equazioni) che ammettono “più di una” o “infinte” soluzioni, oppure quella individuata nell’alternativo dominio del consenso, non esistendo una soluzione predeterminata perseguibile unilateralmente (ad es.: il concetto di suw, il valore venale del terreno edificabile, come fatti; la grave incongruenza, come diritto). Trattasi, quindi, di “verità intervallari” costituenti “codici genetici” di leggi qualificate dalle logiche della “verità = coerenza”, della “verità = correttezza procedurale” e della “verità = consenso”. Quanto, poi, al concetto di “effettività”, ragionando nel ristretto quadro dell’accertamento con adesione, esso sembra consistere nell’attitudine di una soluzione concreta (in fatto o in diritto) a rendere vere le equazioni poste dalla legge (rispettivamente, “presupposto del tributo = prova del presupposto del tributo = massima di comune esperienza” e “fattispecie tributaria astratta = fattispecie tributaria concreta”), in termini “puntuali” o “in pratica puntuali” o “intervallari”, in funzione dello specifico fine di verità (“codice genetico”) che di volta in volta la legge persegue. Più in generale, in quanto concetto misurabile (“puntuale” o “in pratica puntuale” o “intervallare”), l’“effettività” può contribuire ad esprimere la distanza (se c’è) tra i “diritti soggettivi” e gli “inte-

ponibili di un imprenditore –, in quel condominio maturerebbero certamente nuove ragioni di litigiosità. E dinanzi alle prevedibili ulteriori contestazioni che i condomini potrebbero muovere in ordine alle quantificazioni delle singole quote, anche l’amministratore, in vista del superiore interesse condominiale, dovrebbe disporre dell’incertezza, individuando la miglior soluzione tra certezza e giustizia. Se non lo facesse, se cioè rinviasse puntualmente tutte le liti alla giurisdizione senza cercare di comporle al meglio, egli, nell’eventualità

che si producessero danni alle parti comuni dovute alla mancanza di fondi, incorrerebbe nelle responsabilità derivanti dal mandato e connesse al comportamento inefficiente (da valutarsi non già ex post, per non essere egli riuscito a comporre le liti potenziali, ma ex ante, stante l’inefficienza insita nel non aver diligentemente cercato la composizione). L’ipotesi di classificazione che distingue i “fatti scientificamente determinabili” dai “fatti eticamente determinabili” può vedersi in VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, cit., 113 ss.


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ressi legittimi”, tra l’“efficacia dichiarativa” e l’“efficacia costitutiva” (intendo riferirmi alle fondamentali osservazioni svolte poco fa dal Prof. Salvatore La Rosa), tra la “vincolatezza” e la “discrezionalità” (per richiamare i concetti appena espressi dal Prof. Stefano Civitarese e dal Prof. Gianluca Gardini), tra la “legalità astratta” e la “legalità concreta” (penso a quanto illustrato dal Prof. Marco Dugato), ecc. Fissate queste ipotesi, e recependo l’indisponibilità nella concezione tradizionale che vede in essa la negazione, posta da una norma, all’esercizio di un potere o di una facoltà, emerge che il concetto di “indisponibilità tributaria” trova le sue fonti negli articoli 23, 24, 97 e 111 Cost. e possiede una natura tipologica, dato che si presenta con forme e contenuti cangianti secondo il tipo di verità “puntuale”, “in pratica puntuale” o “intervallare” che nel caso specifico la legge di imposta persegue (“verità = corrispondenza” o “verità = identità” e surrogati ad esse equivalenti, cioè “verità = coerenza” o “verità = correttezza procedurale”). Tale dogma, se di esso si preserva detta concezione tradizionale, perde consistenza sino a divenire logicamente inconferente nei casi in cui il legislatore indirizza il soggetto titolare del potere o della facoltà verso un surrogato alternativo al vero ideale (“verità = consenso”), in ciò giustificato da una correlata sottrazione di efficacia giuridica al potere o alla facoltà (proprio ciò che accade nell’accertamento con adesione, ove il potere dell’amministrazione non è in grado, da solo, di produrre alcun effetto). A. “Attuazione certa”. Se l’attuazione della norma è caratterizzata da certezza (assenza di contestazioni), l’indisponibilità tributaria implica, presupponendola, una dimensione logico-tecnica (non congetturale) nella quale si tratta solo e soltanto di porre in essere, incondizionatamente, la soluzione puntuale data ex ante come giusta, ossia idonea a rendere puntualmente vera l’equazione posta dalla legge (si pensi, ad esempio, all’attuazione di una legge che collega l’effetto ad un fatto notorio o ad un fatto definitivamente accertato o ad un fatto non contestato e non più contestabile). L’indisponibilità, in questo caso “puntuale”, si presenta, quindi, come specificazione ideale dell’effettività, o meglio, come effettività ideale (“indisponibilità tributaria ideale”). B. “Attuazione incerta”. Laddove, invece, l’attuazione della norma è caratterizzata da incertezza, l’homo iuridicus non può prescindere, fisiologicamente parlando, da un passaggio logico congetturale che implica il preliminare ricorso alle regole disciplinanti il tipo del ragionamento (“scientifi-

co” o “etico”). Tali regole, prima ancora che si ponga il problema del merito, impongono di adottare una forma di ragionamento, cioè un metodo di ricerca della soluzione, conforme al tipo di verità (= “codice genetico”) perseguito dal legislatore in quella circostanza. Perciò, si dovranno distinguere due ipotesi e, nell’ambito della seconda ipotesi, due ulteriori sottoipotesi. B.1 “Attuazione incerta puntuale”. Se l’incertezza dipende da una questione giuridica risolvibile “scientificamente” (mediante una soluzione “in pratica puntuale”), l’indisponibilità tributaria è consistente e conferente e impone a colui che deve scegliere razionalmente (experimentum) la ricerca dell’unica soluzione; essa presenta quindi una configurazione assai simile a quella operante in situazioni di certezza, vista la pratica predeterminazione ex ante della soluzione (si pensi alla questione sorta sul numero dei cavalli fiscali di un’autovettura, sulla superficie del terreno edificabile, sulla parentela). L’indisponibilità, insomma, si presenta in questo caso quale specificazione “in pratica puntuale” dell’effettività (“indisponibilità tributaria in pratica puntuale”). B.2 “Attuazione incerta intervallare”. Se, d’altro canto, l’incertezza scaturisce da una questione giuridica risolvibile solo “eticamente” (cioè non puntualmente), all’operatore del diritto tenuto ad adottare la forma del ragionamento ragionevole (argumentum), spetta distinguere i casi in cui il fine perseguito a priori dalla legge sia comunque quello dell’accertamento (della verità, ancorché “intervallare”: “verità = coerenza”, “verità = correttezza procedurale”) dai casi in cui il fine prescelto dal legislatore, per necessità o anche per mera opportunità, sia piuttosto quello del componimento dei conflitti (“verità = consenso”). B.2.i “Attuazione incerta intervallare accertativa”. Infatti, nel primo caso, ove il “fatto etico” è indeterminato e la determinazione è unilateralmente possibile, il fine accertativo impone una scelta tra soluzioni poste all’interno di un intervallo confinato dalla “verità = coerenza” e dalla “verità = correttezza procedurale” (si pensi, ad esempio, al redditometro, che quantifica il reddito coerentemente alle spese relative al godimento di certi beni o servizi e subordinatamente al rispetto dei presupposti procedurali). In tale evenienza, l’indisponibilità tributaria perde consistenza e da quell’input unitario che era, in cui s’identificavano contenuto e contenente, si trasforma nel solo contenente entro cui sono collocate le più o le infinite soluzioni di merito, perciò discrezionali. Quindi, l’indisponibilità, quale limite di operatività posto alla “discrezionalità tributaria”, si presenta in quest’i-


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potesi come specificazione “intervallare” dell’effettività (“indisponibilità tributaria intervallare”). B.2.ii “Attuazione incerta intervallare compositiva”. Diversamente, nel secondo caso, in cui il fatto etico unilateralmente inteso non esiste (cioè non è possibile, in quanto mancano soluzioni predeterminate), il fine compositivo impone una scelta tra soluzioni poste in un ambito confinato dall’aristotelico «dovere di scelta del male minore». Gli effetti di questa scelta, però, sono subordinati al consenso alla composizione della lite, dato che una soluzione unilaterale sarebbe impossibile da trovare (si pensi alla lite sul concetto di suw o sul valore venale del terreno edificabile o sulla grave incongruenza). In questo caso, in assenza di soluzioni predeterminate, diviene inconferente l’indisponibilità, sempreché la s’intenda tradizionalmente come negazione o limitazione della discrezionalità. In realtà, a ben vedere, essa si presenta anche in quest’ipotesi, ma in un’inedita forma “rovesciata” che afferma (“impone”) la discrezionalità, cioè il “dovere” di cercare dialetticamente una soluzione (condivisa) nei casi in cui questa non si presenta possibile adottando una forma di ragionamento interiore (recte: unilaterale). Ciò, indipendentemente dal fatto che poi l’accordo si concluda o no12 (“indisponibilità tributaria rovesciata”). In conclusione, alla luce delle regole che disciplinano le forme di ragionamento dell’operatore del diritto rispetto all’adesione (e alla conciliazione), l’“indisponibilità tributaria” può definirsi il principio tipologico, relativo e non già assoluto, che

12 Come si è avuto modo di anticipare supra, nel testo, nel ristretto e fisiologico ambito di operatività (validità e liceità) dell’accertamento con adesione, cioè nell’“attuazione incerta della norma tributaria”, si afferma la “discrezionalità tributaria”, quale nuovo modus agendi degli uffici fiscali (ben differente dalla “discrezionalità amministrativa” e dalla “discrezionalità tecnica”) e, precisamente, quale ambito di scelte non predeterminate, concernenti sia il se accordarsi, sia il quantum dell’accordo. Trattasi, in particolare, dello spazio di scelta che è confinato dai canoni normativi di efficienza, efficacia ed economicità, a loro volta derivati dal principio costituzionale del buon andamento. In tale ambito, il singolo funzionario o dipendente è tenuto a ricercare “la” soluzione più opportuna in ordine al se accordarsi e in ordine al quantum dell’accordo, laddove la prima scelta si presenta

vincola in vario modo l’uomo o al rispetto della (ideale) verità data a priori (ad es. il cd. fatto notorio) o al rispetto del fine di ricercare una delle “verità” (ora “praticamente puntuale”, ora “intervallare”) comunque predeterminate, ovvero al rispetto del fine di cercare (“al meglio”) la composizione (priva di verità predeterminate)13. Essa, quindi, nella ristretta prospettiva dell’attuazione della norma, consiste in una mutevole specificazione (“scientifica” o “etica”) dell’effettività delle obbligazioni (o dei diritti), o meglio, in una mutevole specificazione (“scientifica” o “etica”) della loro giustizia. Tale mutevolezza dipende dal “codice genetico” (“scientifico” o “etico”) che ciascuna norma (sostanziale o strumentale) porta con sé, talvolta impedendo (o limitando) la “discrezionalità tributaria” (= “indisponibilità tributaria”), talvolta imponendola (= “indisponibilità tributaria rovesciata”). Il mancato rispetto, da parte del funzionario dell’amministrazione finanziaria, di uno di questi differenti e opposti tipi di indisponibilità (una negatoria e una affermativa della “discrezionalità tributaria”) è fonte di distinte responsabilità dovute a comportamento inefficiente. Infatti, anche l’inefficienza, pur in questo ristretto ambito, sembra presentare due distinte forme (una “scientifica” e una “etica”), rispetto alle quali sono ravvisabili due distinte ragioni di insorgenza. I. “Tema scientifico e ragionamento etico”. Nel primo caso, quello del funzionario che adotti un ragionamento “etico” (cioè retorico-dialettico-argo-

inscindibilmente legata (in via logica prima che giuridica) alla seconda. Tale ricerca non implica una ponderazione tra interessi differenti, ma soltanto una ponderazione tra fini diversi (“certezza” o “giustizia”) all’interno dello stesso (e unico) interesse fiscale, perseguito dall’amministrazione finanziaria. D’altro canto, ammettere questa “discrezionalità tributaria” nella prospettiva aperta dall’accertamento con adesione non significa in alcun modo, stante l’inconferenza di cui si è detto, introdurre rischi di incostituzionalità delle norme in argomento, né rispetto agli articoli 3 e 53 Cost. (presi a riferimento dalla dottrina prevalente, qui non condivisa per i motivi sintetizzati supra, alla nota 8), né rispetto all’art. 23 Cost. (da cui più propriamente discende, nell’ottica qui proposta, l’indisponibilità “puntuale” o “in pratica puntuale”), né, infine, rispetto agli artt. 24, 97 e

111 Cost. (nei quali può invece individuarsi, sempre nell’ordine di idee qui prospettato, il fondamento dell’“indisponibilità intervallare” e dell’“indisponibilità rovesciata”, e dunque, della “discrezionalità tributaria”). Per l’approfondimento degli argomenti a sostegno dell’osservazione indicata nel testo, può vedersi, ancora, VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, cit. 13 Con ciò non si vuol dire, si badi, che l’“indisponibilità tributaria rovesciata” imponga al funzionario dell’amministrazione finanziaria di cercare la composizione “migliore” intesa come quella che risulti tale a seguito di una valutazione ex post avente ad oggetto il merito delle scelte “tributariamente discrezionali” adottate dal funzionario. Infatti, tali scelte, se metodologicamente corrette, appaiono insindacabili nel merito. Profilo, questo, che sarà meglio precisato nei paragrafi che seguono.


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mentativo) laddove, per converso, la legge ha come “codice genetico” un “tema scientifico”, l’inefficienza andrà valutata non già ex post, sindacando il merito (in ipotesi, la mancata realizzazione del fine di verità “in pratica puntuale” che la norma, in quel caso, persegue in astratto14), ma andrà valutata, invece, ex ante, sindacando il metodo adottato, per essere stata inefficiente la scelta del ragionamento (visto che è inutilmente dispendioso cercare chissà dove ciò che è a portata di mano). II. “Tema etico e ragionamento scientifico”. Nel secondo caso, quello del funzionario che adotti un ragionamento “scientifico” (cioè razionale-probabilistico) laddove, invece, la legge ha come “codice genetico” un “tema etico”, (in specie quando la legge, in assenza di soluzioni – verità – predeterminate, impone di cercare la composizione e non l’accertamento15), l’inefficienza andrà anche qui valutata non già ex post, sindacando il merito (in ipotesi, la mancata composizione, nel concreto, della lite potenziale), ma ex ante, quale inefficienza insita nell’aver adottato una forma di ragionamento inidonea a cercare “al meglio” la composizione. 2.2. Segue: accertamento con adesione e “veicoli” del ragionamento giuridico tributario Osservando l’accertamento con adesione nel suo carattere interiore, cioè esaminando i “temi” che ne possono formare oggetto, si è notato che l’“indisponibilità tributaria rovesciata” e la connessa forma di “responsabilità etica” impongono (e non soltanto rafforzano) l’ipotesi dell’“accordo tributario”16. Ma analoga prospettiva sembra aprirsi quando si scruta l’adesione nel suo habitat esteriore, vale a dire nell’area di operatività dei “veicoli” del ragionamento giuridico (= “accordi amministrativi tributari”) attuativi di norme, ossia l’interpello, l’autotutela negativa – da istanza –, l’adesione, la conciliazione e l’acquiescenza. Gli istituti attuativi di norme, in quanto “veicoli” delle “logiche” del ragionamento giuridico, presentano una natura mutevole, dipendente dalla

14 Per quanto detto, visto che «le parole, come la musica, arrivano ovunque, anche dove la matematica non può arrivare» non può logicamente escludersi – ex ante – che un ragionamento “etico” (retorico-dialettico-argomentativo) possa condurre, nel merito, ad un verità “in pratica puntuale”. Ma ciò appare irrilevante ai fini della valutazione della illiceità del comportamento, poiché, nel caso considerato, il vizio dell’agere non

loro cangiante attitudine genetica a trasportare l’una o l’altra ovvero entrambe le “logiche” (“etica” o “scientifica”) connesse ai “temi” del ragionamento (quaestio facti e/o quaestio iuris). Riferendoci alle sole ipotesi di attuazione bilaterale (consensuale) della norma, ove la natura dei “veicoli” implica ontologicamente il convincimento della controparte, sembrano presenti “veicoli bilaterali monovalenti”, vale a dire predestinati, in via esclusiva, o all’accertamento “puntuale” o “in pratica puntuale”, oppure a quello “intervallare”, ovvero alla composizione; talvolta, per contro, i veicoli attuativi sono “bivalenti”, in quanto atti a perseguire, a seconda dei casi, due differenti finalità (recte: a trasportare due differenti logiche). A. “Veicoli bilaterali monovalenti di tipo accertativo” possono considerarsi l’autotutela (da istanza) e l’acquiescenza; qui, il giudizio che, rispettivamente, oggettiva l’antigiuridicità ovvero la giuridicità dell’atto emanato dagli uffici tributari, riguarda necessariamente “temi scientificamente determinabili”, da accertare, perciò, con una “logica scientifica”, cioè finalizzata ad una soluzione “puntuale” o “in pratica puntuale”. B. “Veicolo bilaterale bivalente” sembra essere, invece, l’interpello, dato che questo (prescindendo dai casi della cd. disapplicazione e da quelli – solo latamente – compositivi), pur presentando una funzione monotona di accertamento, mostra un’indole cangiante, potendo l’accordo consistere in un accertamento consensuale circa la qualificazione di fatti in situazioni di incertezza, o in un accertamento convenzionale volto ad eliminare ogni eventuale problema probatorio futuro, o, infine, in un mezzo per fissare concordemente elementi fattuali della fattispecie imponibile. Sicché, tale “veicolo” si presta, in realtà, a trasportare tanto una “logica scientifica”, quando proteso ad una soluzione “puntuale” o “in pratica puntuale”, quanto una “logica etica”, quando finalizzato ad una soluzione “intervallare”. C. “Veicoli bilaterali monovalenti di tipo compositivo” possono qualificarsi l’accertamento con ade-

sembra ravvisabile nella scelta di merito, ma nel metodo adottato dal pubblico dipendente (inefficiente, cioè ex ante inefficace). 15 Per una sintesi ricognitiva di taluni elementi identificativi dei concetti di “tema etico” e di “veicolo etico”, si vedano l’ultima parte della precedente nota 8 e il prossimo paragrafo 2.2. 16 Infatti, come si è visto, tale strumento, che può essere usato se la res litigiosa riguarda “temi etici” (mentre

non può essere usato se la res litigiosa verte su “temi scientifici”), deve essere informato alla logica della controversia (“attuazione incerta intervallare compositiva”). Si pensi, tanto per fare un esempio, a quanto accade nell’“adesione da studi di settore”, laddove la presenza del “tema etico” e l’assenza di una massima di comune esperienza implicano il rifiuto legislativo della “attuazione incerta intervallare accertativa”.


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sione e la conciliazione giudiziale, concernenti esclusivamente “temi eticamente determinabili”; questi mezzi, in quanto finalizzati alla composizione, possono ontologicamente ospitare soltanto la “logica etica”, poiché il loro fine precipuo è quello di conseguire il convincimento (recte: il consenso) della controparte per trovare dialetticamente una soluzione non perseguibile (cioè impossibile) mediante l’accertamento. Per quanto osservato in merito all’indisponibilità, l’uso non corretto, da parte del funzionario dell’amministrazione finanziaria, di uno di questi differenti “veicoli” è fonte di distinte responsabilità dovute a comportamento inefficiente. Anche in questo caso, parallelamente a quanto esaminato rispetto ai “temi”, l’inefficienza sembra presentare due distinte forme (una “scientifica” e una “etica”), rispetto alle quali sono ravvisabili due distinte ragioni di insorgenza. I. “Veicolo etico, tema scientifico e ragionamento scientifico”. Il primo caso è quello del funzionario che erroneamente attivi l’indole rhetorica, vale a dire che, trovandosi dinanzi ad un “tema scientifico”, svolga correttamente un ragionamento “scientifico” (cioè razionale-probabilistico), ma si serva, tuttavia, di un “veicolo” che la legge ha marcato con un “codice genetico” di tipo “etico”. In tal caso, l’inefficienza andrà valutata non già ex post, sindacando il merito (in ipotesi, la mancata realizzazione del fine di verità “in pratica puntuale” che la norma, in quel caso, persegue in astratto), ma andrà valutata, invece, ex ante, sindacando il metodo adottato, per essere stata inefficiente la scelta del “veicolo” (visto che è inutilmente dispendioso e rischioso avvalersi di strumenti elastici quando la soluzione va, per converso, rigidamente perseguita in via puntuale, esistendo essa in rerum natura). II. “Veicolo scientifico, tema etico e ragionamento etico”. Il secondo caso è quello del funzionario che erroneamente si affidi all’indole burocratica, vale a dire che, posto di fronte ad un “tema etico”, adotti sì un ragionamento “etico” (cioè retoricodialettico-argomentativo), ma si serva, peraltro, di un “veicolo” che la legge ha marcato con un “codice genetico” di tipo “scientifico”, (in specie quando la legge, in assenza di soluzioni – verità – predeterminate, impone di cercare la composizione e non l’accertamento). Pure in questo caso l’inefficienza andrà valutata non già ex post, sinda-

17 Sono queste le conclusioni dapprima delineate in VERSIGLIONI, Contributo allo studio dell’attuazione consensuale

cando il merito (in ipotesi, la mancata composizione, nel concreto, della lite potenziale), ma andrà valutata ex ante, quale inefficienza insita nell’aver adottato un mezzo improprio (poiché è inutilmente dispendioso e pericoloso cercare con strumenti rigidi una soluzione – in specie se consensuale – che può essere trovata soltanto con strumenti elastici, non esistendo essa, puntualmente, in rerum natura). 3. Nozione e disciplina giuridica dell’accertamento con adesione 3.1 L’accordo (= “veicolo etico”) Su queste peculiari basi dogmatiche (interiori ed esteriori) possono svolgersi la ricostruzione della nozione e l’individuazione della disciplina giuridica (propria o mutuata) dell’accertamento con adesione. Rispetto a quest’ultimo profilo, la logica dogmatica (dell’accordo amministrativo) che assomma la disciplina privatistica a quella pubblicistica serve al fine di elaborare i criteri di compatibilità attraverso cui individuare le disposizioni “comuni” applicabili all’istituto, se e in quanto non derogate da quelle fiscali (le quali, evidentemente, mantengono la loro primazia). Come dicevo, l’ipotesi è che l’accertamento con adesione consista in un “accordo” (procedimentale amministrativo) frutto della fusione (e non della somma) di due volontà finalizzate a gestire le conseguenze dell’incerto obiettivo (la lite), per ottenere effetti preclusivi e/o premiali17. Le critiche rivolte a quest’ipotesi traggono spunto principalmente dal carattere non privato di una delle parti, ma nessuna di esse sembra in grado di minarne le basi o di indebolirne la forza ermeneutica. L’ordinamento giuridico ammette espressamente l’attuazione consensuale in via alternativa (o equivalente) rispetto al giudicato, e anzi “obbliga” talvolta i soggetti non privati sia a verificare la percorribilità di tale via, sia ad adottare la “logica etica” della controversia, imponendo di individuare, così, la scelta migliore (come “risultato”) in base alla valutazione ex ante del rapporto costi/benefici (efficienza = efficacia predeterminabile ex ante). Così, a titolo esemplificativo, tali osservazioni non possono che rinverdire tutte le perplessità già manifestate intorno alle impostazioni che scorgevano (e che scorgono) nell’accertamento con adesione la sommatoria – e non già la fusione – di due atti

della norma tributaria, cit., poi sviluppate e approfondite in Id., Accordo e disposizione, cit., e quindi sintetizzate

in via sistematica in Id., Accordi amministrativi (Dir. trib.), cit.


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(cioè del provvedimento di autotutela condizionato nell’efficacia dalla rinuncia all’impugnazione del contribuente): e ciò, preme sottolineare, non soltanto perché le ragioni vere dell’elaborazione di tali teorie fossero da reperire nella estrema valorizzazione del dogma dell’indisponibilità inteso nella sua visione tradizionale, invero apparsa, qui, inconsistente o inconferente18. Sono infatti numerosi gli argomenti contrari a dette impostazioni rilevabili nella tradizione normativa del precedente accertamento con adesione. Penso a quelli legati alla necessaria contestualità delle manifestazioni di consenso, all’improponibilità di una rinuncia preventiva rispetto ad un atto non ancora nato e all’altrimenti inspiegabile effetto preclusivo posto a carico dell’ufficio. Ebbene, sembra fuor di dubbio che questi argomenti risultano senz’altro rafforzati sia dall’attuale disciplina concernente i requisiti di forma e di perfezionamento dell’accordo, sia dall’esistenza dell’autonomo e distinto regime dell’acquiescenza, sia, infine, dalla necessaria presenza di un “incontro” evidentemente teso all’individuazione di una soluzione condivisa. Da ultimo, neppure la recente introduzione, ad opera della L. 15/2005, di una “determinazione preventiva” rispetto alla conclusione dell’accordo amministrativo, sembra in grado d’infirmare questi rilievi, né tanto meno l’impostazione dogmati-

18 Per una rassegna critica delle tesi indicate nel testo, può vedersi VERSIGLIONI, Contributo allo studio dell’attuazione consensuale della norma tributaria, cit., e Id., Accordo e disposizione, cit. Invece, per un approfondimento teso a valorizzare dette impostazioni dogmatiche (cioè quelle derivate dall’idea plasmata da Giannini recuperando talune massime della Cassazione di fine anni trenta), può vedersi MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000, il quale, dopo aver criticato i tentativi di adattamento di schemi civilistici e processuali e dopo aver illustrato le distorsioni cui condurrebbe l’applicazione di modelli tratti dal diritto amministrativo, ricostruisce l’accertamento con adesione come istituto autonomo del diritto tributario, basato sull’“equilibrio informativo” ottenuto tramite la somma delle conoscenze derivanti dai “flussi informativi” provenienti, rispettivamente, dal contribuente e dall’amministrazione, e destinati a confluire, poi, nella prescritta fase dialogica. Una recente sintesi delle tesi elaborate intorno al-

ca dell’accertamento con adesione qui riproposta. Infatti, appare chiaro che la “nuova” determinazione, mentre rappresenta un elemento fisiologico dell’accordo amministrativo tout court (giustificato, soprattutto, dall’ontologica presenza di terzi interessati), risulta invece estranea alla matrice dogmatica utilizzata per l’elaborazione della figura dell’“accordo amministrativo tributario”, per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo non esistono, in ambito fiscale, terzi interessati nell’accezione amministrativistica, dato che il tema dell’accordo riguarda soltanto le due parti coinvolte dalla lite potenziale o in atto (e che le ipotesi di rilevanza plurisoggettiva sono disciplinate specialmente dal legislatore tributario)19. In secondo luogo, l’altra preminente esigenza collegabile alla “nuova” determinazione, cioè la trasparenza dell’efficienza dell’agere pubblico quale strumento di accesso alle valutazioni sulle responsabilità, nella nostra materia è appagata dalla specifica disciplina della procedimentalizzazione degli incontri (obbligo di verbalizzazione) e, soprattutto, dall’obbligo di motivazione degli accordi amministrativi tributari. Semmai, sono proprio gli argomenti sviluppati a proposito dell’“attuazione incerta della norma tributaria” sul “banco” della possibile responsabilità del funzionario dell’amministrazione finanziaria (inteso quale parte imprescindibile dell’esercizio –

la natura dell’accertamento con adesione è svolta da MOSCATELLI, Moduli, cit., 156 ss. 19 Per quanto già detto, non sembrano pienamente condivisibili i prevalenti e autorevoli orientamenti dottrinali, quando criticano l’ipotesi qui sostenuta (vale a dire quella dell’“accordo tributario” con funzione compositiva ed efficacia preclusiva), prefigurando un contrasto con l’art. 53 Cost. e assumendo ad argomento logico che quanto pagato “in meno” dal contribuente che aderisce dovrebbe essere pagato “in più” da tutti gli altri contribuenti (i quali non beneficerebbero di alcuna rinuncia). Oltre agli argomenti esposti nelle precedenti note n. 7, 8, 9, 10 e 11, tesi ad evidenziare che tali orientamenti trascurano il presupposto dell’ipotesi (l’incertezza giuridica), può inoltre osservarsi che, qualora si permanga sul piano del fisiologico funzionamento dell’“accordo tributario”, l’“indisponibilità tributaria rovesciata” poco sopra ipotizzata dovrebbe essere (seppur di fatto) anche garanzia del rispetto del principio di

parità di trattamento sostanziale (3 e 53 Cost.), in quanto essa dovrebbe logicamente condurre la parte pubblica ad adottare la scelta più opportuna e, quindi, l’unica (rispetto ai canoni di efficienza e di efficacia) nel senso voluto dal legislatore. L’embrione di quest’ulteriore argomento, che raccoglieva gli insegnamenti della dottrina amministrativistica, può vedersi in VERSIGLIONI, Accordo e disposizione, cit., 395 ss. Una recente autorevole critica nei confronti degli orientamenti che valorizzano l’articolo 53 Cost. per preservare l’essenza e l’unitarietà del dogma dell’indisponibilità ed escludere la natura compositiva dell’accertamento con adesione, è stata puntualmente esposta e argomentata anche da RUSSO, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, cit. 110 ss., nel senso che, rispetto agli artt. 23 e 53 Cost., sono legittimamente sostenibili le ricostruzioni teoriche che limitano l’efficacia dell’accertamento con adesione al piano dell’eliminazione dell’incertezza, FEDELE, Autonomia negoziale, cit., 132.


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non della titolarità – della “funzione”, cioè quale homo iuridicus publicus tenuto al rispetto di precise regole di ragionamento giuridico, ora “scientifiche”, ora “etiche”) a conferire ulteriori argomenti al dibattito; ma ognuno di essi, sia rispetto ai “temi”, sia rispetto ai “veicoli” del ragionamento giuridico, appare coerente con l’ipotesi dell’“accordo tributario”. Osservato rispetto ai “temi” che ne possono formare oggetto, l’accertamento con adesione, quale mezzo di “attuazione incerta intervallare compositiva”, può vertere esclusivamente su un “tema etico” selezionato da una norma il cui fine (“codice genetico”) è quello della “verità = consenso”, non esistendo nel dominio delle soluzioni unilaterali una soluzione possibile. D’altro canto, analizzato nel sistema dei “veicoli” bilaterali attuativi di norme, l’accertamento con adesione costituisce specificazione della categoria degli “accordi amministrativi tributari” essendo, differentemente da (e compatibilmente con) “gli altri”, un “veicolo etico” procedimentale finalizzato alla composizione, cioè formalmente allestito per traghettare la “logica etica” volta alla “verità consensuale”. 3.2 Segue: ... non contrattuale (limitato a “temi etici”) Anche a voler prescindere (ma non si può prescindere) dal fatto che il concetto di “accordo” costituisce il risultato cui è finalmente giunto l’iter della legge generale sul procedimento amministrativo, emerge, innanzi tutto, che tale concetto può rappresentare in modo più opportuno il fenomeno qui studiato rispetto a quello di “contratto”. Infatti, pur essendo la fusione delle volontà un elemento essenziale di entrambi, quello può, tuttavia, non identificarsi necessariamente con questo e, quindi, evitare di trascinare con sé un vasto numero di problemi dogmatici ed ermeneutici. Del resto, uno strumento con limitata capacità di regolamentazione è senza dubbio più adatto a ricostruire una categoria giuridica ove la “disposizione”, a differenza di quanto avviene nel diritto amministrativo, concerne soltanto un conflitto circa l’attuazione di una norma inderogabile, ed è limitata, quindi, a conseguire la “messa fuori contestazione”, o meglio, un particolare livello di definitività e di premialità. In specie se si considera che, stante l’inconferenza della distinzione tra questioni di fatto e questioni di diritto (entrambe genericamente definibili),

l’oggetto dell’“accordo”, come si è detto, deve essere confinato in modo tassativo ai soli “temi etici” (di fatto o di diritto o misti) che non ammettono alcuna soluzione nel dominio dell’accertamento (unilaterale). 3.3 Segue: ... negoziale-transattivo (compositivo e non accertativo) Nell’“accordo” andrebbero comunque ravvisati i contenuti tipici del “negozio”. Infatti, se è vero che la disciplina degli effetti preclusivi e di quelli premiali è nella legge, appare però assorbente e decisiva la circostanza per cui, nell’addivenire all’accertamento con adesione, le parti vogliano proprio conseguire tali effetti (disponendo, del resto, anche del potere di determinarne l’entità nel caso specifico). Il legislatore tributario ha preso atto che, anche in questo settore, un processo solutorio della contestazione, attribuito esclusivamente al giudice o protratto oltre un certo limite, non si pone come necessitato dai vincoli costituzionali, poiché si risolverebbe in un onere eccessivo sia per la collettività, sia per i singoli. In specie quando, come accade nell’accertamento con adesione, l’operatore del diritto si trova dinanzi ad un’equazione che non ammette soluzioni predeterminate individuabili unilateralmente (“temi etici”). In quest’ottica, sembra che il legislatore abbia voluto offrire la regolamentazione astratta di certi effetti in grado di stabilizzare situazioni contenziose. Di tale regolamentazione, che l’amministrazione è tenuta a prendere in considerazione, le parti, se vogliono, possono servirsi20. In definitiva, se è indubitabile che costituiscono negozi giuridici la transazione e la conciliazione, i cui effetti definitori sono previsti dalla legge, non si vede come potrebbe altrimenti teorizzarsi per l’accertamento con adesione (atto non dovuto e privo di effetti senza il consenso del privato), al quale il diritto tributario collega analoghi effetti estintivi (e, come si è detto, con maggior forza definitoria). Infatti, il risultato conseguito si realizza qui, come là, non perché sia astrattamente correlato ad un dato comportamento, comunque voluto, ma perché, come detto, le parti si comportano in un certo modo in quanto vogliono conseguire proprio quel risultato. Ma la logica di chi vuole conseguire un particolare livello di definitività e un risultato premiale, de-

20 Fermo rimanendo che, in tali situazioni, il pubblico funzionario è comunque tenuto ad aprire il proprio ragionamento giuridico alla dialettica retorico-argomentativa e ad abbandonare la logica burocratica.


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finendo l’accertamento ed evitando il processo, non può prescindere da connotazioni “compositive”, nel senso di “non accertative”. Tanto che, come meglio si vedrà tra breve, ritenendosi preferibile optare per le tesi volte alla mera efficacia preclusiva, sarebbe comunque poco giovevole studiare nel dettaglio la possibilità di servirsi in alternativa del “negozio di accertamento”, nozione che, al di là della sua giuridica ammissibilità, non sarebbe in grado di condurre ad alcun concreto vantaggio interpretativo; specie in un settore, come quello tributario, ove la ricerca negoziale ex ante del “vero” in situazioni incerte potrebbe coincidere con il volere della norma solo in casi diversi (“temi scientificamente determinabili”) da quelli

21 In altre parole, una volta compreso come il negozio (atto) di accertamento non sia sembre in grado, di per sé, di assicurare il “vero presupposto” in termini assoluti, il problema diventa più in particolare quello di adottare uno schema i cui effetti possano non subire, nelle situazioni fisiologiche, le conseguenze dell’invalidità per le cd. ipotesi di divergenza rispetto alla situazione preesistente. In questo senso, soltanto la logica transattiva può consentire di non perdere gli effetti e, quindi, la funzione che l’ordinamento riconosce all’accertamento con adesione. Del resto, l’ottica transattiva emerge già nella fase pre-negoziale, e non certo quale portato di una visione meramente pragmatica della realtà, bensì quale riscontro ermeneutico delle norme positive, le quali non solo depongono a favore dell’ottica transattiva, ma anzi, la consacrano come l’unica in grado di bilanciare la finalità deflativa degli istituti con la concreta tutela delle parti che solo tale ottica è in grado di offrire (il procedimento-contradditorio fissato dalle norme, in quanto relazionato a temi etici, è necessariamente retorico-dialettico-argomentativo). Inoltre, durante l’incontro, l’amministrazione finanziaria, dovendosi attenere ai canoni di efficienza, economicità ed efficacia dettati dalla L. 241/1990, di fronte alla consapevolezza dell’esistenza di una situazione di obiettiva incertezza, o meglio, di latente litigiosità, non potrebbe legittimamente porre in essere la scelta più “opportuna”, cioè la più performante secondo il rapporto costi/benefici che tale legge impone, se non decidendo strategicamente e valutando con discrezionalità la via mi-

in cui può legittimamente operare l’accertamento con adesione21. Pertanto, nella ratio dell’adesione, l’accertamento della “verità puntuale” (= corrispondenza; = identità) o della “verità intervallare” (= coerenza; = correttezza procedurale) è ininfluente, non perché necessariamente prevaricato (anzi, esso è di solito perseguito), ma perché, allo stato delle conoscenze acquisite con la normale diligenza, le parti, secondo buona fede, lealtà e correttezza, lo giudicano irrangiungibile. La giustezza di tale giudizio dipende dalla natura del “tema” che l’ordinamento offre agli operatori del diritto nel singolo caso concreto, dato che solo i “temi etici”, per i quali non esistono una o più soluzioni predeter-

gliore per ricercare il consenso preclusivo della controparte. Tale ragionamento, mutatis mutandis, è perfettamente collimante con quello che si riscontra nel privato convinto dell’insicurezza delle proprie tesi difensive. Ma soprattutto, entrambe le logiche presentano tutti i connotati tipici di quelle che si ravvisano nelle parti, quando liberamente si accingono a concludere una transazione. In terzo luogo, ove infine si prenda atto che, in modo condivisibile, la norma lascia libero il contraddittorio preliminare da irrazionali condizionamenti di tipo contenutistico e/o preclusivo, deferendolo implicitamente al (solo) piano della buona fede, della lealtà e della correttezza, appare evidente che la ratio di tali incontri liberi non possa essere equiparata a quella degli inviti obbligatori a comparire, questi sì aventi palesi finalità istruttorie. In definitiva, quindi, tutti e tre i profili legislativi esaminati possono assumersi a riscontri idonei a dimostrare che, interpretando la procedura preliminare all’accertamento con adesione secondo la logica tipica delle “trattative”, si consegue la duplice finalità di rispecchiare la realtà fenomenica e di attenersi al significato delle norme. Qualora si volesse prescindere da questi chiari referenti e, rivolgendosi alle costruzioni avverse (particolarmente, a MARELLO, Accertamento con adesione, cit.) che fanno appello ad un ipotetico dovere del contribuente di dichiararsi certo (dovere che invece non sembra prospettabile in questa fase – per le relative argomentazioni, v. VERSIGLIONI, Accordo e disposizione, cit.), si ritenesse che ciascuna parte, pur cogliendo la latenza della lite,

ciononostante dia tutto il proprio possibile contributo alla ricerca del “vero”, si aprirebbero due alternativi scenari, in realtà entrambi compatibili con la tesi che si va qui sostenendo e, tutto sommato, neppure utili a dette impostazioni contrarie. Uno, costituito dalla permanenza, a causa dell’“umana debolezza”, dell’obiettiva incertezza sulla situazione preesistente: in questo caso, la stabilizzazione convenuta non conseguirebbe ad una completa chiarificazione, ma risulterebbe dalla convergenza d’intenti preclusivi, sorta dalla comune coscienza dell’incapacità di fugare, con i dati e le notizie reciprocamente acquisiti e manifestati, l’incertezza rivelatasi atta a sfociare altrimenti nel contenzioso. Un altro, invece, costituito dalla totale eliminazione della res dubia e dall’acclaramento del “vero”: qui ricorrerebbero, in realtà, i presupposti delle diverse e concomitanti normative dedicate ad istituti deflativi non a carattere compositivo. In altri termini, in questo caso si verserebbe al di fuori dell’ambito di applicazione dell’istituto di cui si parla, dato che, mancando la contrapposizione tra pretesa e contestazione, le vie percorribili, se volute, sarebbero esclusivamente quelle della rinuncia all’impugnazione e dell’autotutela negativa. Onde, proprio la concomitante presenza nell’ordinamento tributario di questi istituti concorre indubbiamente a costruire in positivo la funzione giuridica e sociale dell’accertamento con adesione come “accordo” in cui le parti, nell’intento (compositivo) di far cessare la lite, individuano un quid medium tra le iniziali prospettazioni, su cui conseguire, ed al tempo stesso subire, effetti preclusivi.


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minate, possono formare oggetto di adesione. In tali casi, l’unica via che rende possibile evitare o far cessare la lite è quella di individuare, passo dopo passo, un percorso fatto di probabili e progressive concessioni reciproche, le quali hanno come termine di riferimento non già l’obbligazione tributaria nella sua configurazione astratta, che rimane ignota, bensì le proprie pretese quali risulteranno, rispettivamente, dalla dichiarazione (dell’una) e dai risultati dell’istruttoria (svolta dall’altra). Ma tale percorso, come dimostrano le norme procedurali (si considerino l’obbligo della motivazione trasparente, il dovere di lealtà e correttezza e la sensibilità alla sopravvenienza) è sempre marcato da un fine di verità (“verità = consenso”). In conclusione, lo sviluppo storico del concordato tributario e l’evoluzione normativa recente dovrebbero, da soli, convincere che la “causa giuridica” dell’accertamento con adesione è quella deflativa del contenzioso (compositiva), secondo una logica di premialità che prescinde dall’accertamento della fattispecie controversa. Più in particolare, le norme positive di che trattasi, specie se lette nel quadro dei rivolgimenti complessivi dell’ordinamento amministrativo, palesano chiare e inconfutabili tonalità transattive, in parte ereditate dal passato (forma, premialità e disposizione preclusiva della ricorribilità), in parte introdotte ex novo (identificazione de residuo del campo di operatività nella “lite”, coincidenza tra perfezionamento e adempimento, non modificabilità, soglia di indifferenza al principio rebus sic stantibus, sinteticità dell’oggetto); tonalità che, peraltro, né storicamente, né di recente sono state mai opacizzate dalle tesi avverse della dottrina e della giurisprudenza e che oggi, invece, risultano addirittura riaccese dall’inedito e più coraggioso modo di osservare quest’istituto, fatto proprio dalla stessa amministrazione finanziaria. Pertanto, la raffigurazione negoziale-transattiva dell’“accordo” appare quella più di ogni altra idonea a rappresentare il fenomeno, sotto tutti gli angoli visuali ove normalmente può operare l’indagine giuridica, sia che lo si analizzi negli aspetti statici, sia che lo si osservi nei profili dinamici22. Se si osservasse ancor più in profondità, allora potrebbe notarsi che,

22 Seguendo un tale ordine di idee, non sembra possibile prescindere dal considerare quali “trattative precompromesso” gli incontri dialettici posti dal legislatore tributario a mezzo imprescindibile per l’attuazione consensuale della norma in casi “liti-

proprio muovendo dalla natura compositiva di questo “accordo tributario”, potrebbe forse rimeditarsi anche la plurisecolare bipartizione tra strumenti equivalenti (accertativi) e strumenti alternativi (transattivi) alla giurisdizione. Se infatti si condividesse l’ipotesi qui formulata, la natura equivalente o alternativa della disposizione attuata fuori dal giudizio non verrebbe a dipendere soltanto, come si tramanda, dal tipo del “veicolo”, ma deriverebbe anche dal tipo di “tema”. Sicché, analizzando, ad esempio, le “adesioni da studi di settore” – che hanno ad oggetto “temi etici” non predeterminabili (cioè fissati da equazioni prive di soluzioni unilateralmente individuabili) e che non si appoggiano ad una massima di comune esperienza –, si scoprirebbe che esse, a differenza di quanto potrebbe dedursi seguendo l’impostazione classica, costituiscono un “equivalente” e non un “alternativo” alla giurisdizione. Infatti, qualora le parti non riuscissero a trovare una soluzione condivisa e la lite fosse devoluta al giudice, questi dovrebbe, ex lege (“indisponibilità tributaria rovesciata”), similmente astenersi dall’accertare (rectius: dall’inutile tentativo di accertare) e dovrebbe, sempre ex lege, comporre (cioè “volere”, anziché “trovare”). In ciò è, infatti, la giustizia (effettività) degli strumenti legali e delle loro singole attuazioni che realizzano il fine “verità=consenso”. 3.4 Segue: ... preclusivo (né dichiarativo, né costitutivo) Occorre ora soffermarsi sul profilo dell’efficacia, poiché l’intuitiva problematicità concettuale di un’obbligazione tributaria creata, modificata ovvero estinta negozialmente, suscita da sempre molte perplessità. Sciolto il nodo dell’indisponibilità, occorre guardare al tema dell’efficacia sviluppandolo sul piano normativo e dogmatico-civilistico. Il risalente dubbio circa la tipologia degli effetti da collegare all’accertamento con adesione trae origine e s’identifica in un equivoco indotto già dai primissimi sostenitori delle tesi unilaterali, i quali, per conferire maggior spessore ai propri convincimenti, identificarono la nozione proposta dagli antagonisti nella tipologia “novativa”, evidentemente più agevole da criticare (peraltro anche la

giosi”. Sicché, le dichiarazioni rese nelle fasi preliminari, non seguite dal perfezionamento dell’accordo, non possono avere alcun valore probatorio (confessorio) né per la parte privata, né per la parte pubblica. D’altro canto, l’accertamento con

adesione non può costituire un precedente sul quale l’amministrazione possa poi fondare automaticamente accertamenti successivi o il contribuente proporre istanze di rimborso per altre annualità o altri presupposti uguali.


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recente giurisprudenza – sul punto specifico non condivisibile – sottolinea il carattere novativo dell’accordo conciliativo). L’ipotesi qui prospettata intende evidenziare che l’argomento critico può rivelarsi inefficace nella prospettiva di un accordo transattivo non contrattuale (cioè a co-regolamentazione limitata e non piena), teso a conseguire gli effetti preclusivi e quelli premiali predeterminati dalla legge, e in grado di disporre solo dell’entità della pretesa e del diritto di ottenerne l’accertamento giurisdizionale, ma non certo di sostituirsi alla fonte dell’obbligazione. In quest’ottica, lo schema transattivo ordinario rende automaticamente superfluo quello novativo. Infatti, se i fini dell’individuazione della natura dell’accertamento con adesione sono anche e soprattutto quelli di comprendere e completarne il regime giuridico, l’ultroneità della connotazione novativa discende dalla constatazione che il principale tratto differenziale (tra transazione ordinaria e transazione novativa) è già risolto dal legislatore tributario collegando il perfezionamento all’adempimento23. D’altro canto, non può non osservarsi che proprio la scelta di accedere alla figura dell’“accordo negoziale transattivo” consente anche di evitare le insidie celate nel dibattito tributario sulla natura effettuale della “transazione” che, per troppo tempo, hanno ingiustamente favorito le tesi avverse, le quali potevano traslare in quest’ambito una qualunque, la più conveniente, delle numerose accezioni che quel nomen porta inevitabilmente con sé. Al riguardo, come si è in parte già accennato, va forse ribadito che qui non sembrano automaticamente recepibili i termini del dibattito civilistico sulla natura della transazione, stante l’inconferenza della stragrande maggioranza delle problematiche da esso coinvolte. In altri termini, le tesi privatistiche, se possono ritenersi coerenti, in sé considerate, con un negozio che si ponga il fine di risolvere il contrasto sorto sull’attuazione di un precedente contratto, frutto anch’esso dell’autono-

23 Qualora, poi, si volesse contrastare la tesi transattiva muovendo dalla preliminare accettazione delle teorie che, pure nel modulo non novativo, la ricostruiscono assegnandole efficacia costitutiva ovvero attitudine modificativa, sorgerebbero comunque idonee ragioni di replica. Infatti, da un lato andrebbe evidenziato che tali impostazioni appaiono tutt’altro che pacifiche già nel settore di appartenenza; dall’altro, soprattutto, an-

mia, appaiono invece verosimilmente estranee all’istituto qui in esame, laddove indagano su potenzialità già in nuce escluse dalla norma, quali quelle di creare, modificare o estinguere liberamente l’obbligazione, e non si limitano, invece, a spiegare la regolamentazione negoziale delle reciproche pretese (contestate). Vedendo nell’“accordo tributario” un’efficacia (transattiva) meramente preclusiva, si conseguirebbe sia il fondamentale risultato cui tendeva la metodologia prefissata (il risolvere le questioni di compatibilità, generale e particolare, situate a monte), sia il non trascurabile vantaggio di proteggere neutralmente l’obbligazione “negoziata” dagli ineludibili attacchi provenienti da entrambe le dogmatiche tributaristiche (dichiarativa e costitutiva). Per contro, seguendo la teoria dichiarativa si sarebbe giunti a considerare invalidi pressoché tutti gli accertamenti con adesione, giacché l’invalidità di tali accordi sarebbe emersa tutte le volte in cui (come sempre avviene) le parti avessero dichiarato l’esistenza di una situazione diversa da quella preesistente. D’altro canto, optando per la tesi costitutiva, si sarebbe giunti a considerare invalidi tutti gli accertamenti con adesione, non già a causa della divergenza tra la situazione disposta e quella preesistente (divergenza anzi caratterizzante il tipo di efficacia in discorso), bensì per via dell’esclusività – costituzionalmente sancita – della potestà impositiva, la quale non avrebbe mai potuto consentire che la definizione dell’accertamento discendesse da atti non propriamente o non pienamente riconducibili all’esercizio della funzione. Quindi, come del resto si riscontra anche nelle posizioni della più recente e autorevole dottrina, si (ri)conferma l’opportunità di avvalersi degli affidabili risultati conseguiti da chi sostenne il tipo di connotazione effettuale preclusivo (ovviamente il riferimento è alla magistrale tesi elaborata dal Prof. Angelo Falzea). Questi insegnamenti, in specie se integrati con quanto si è detto in merito alle “logiche” del ra-

drebbe osservato che, per la maggior parte dei casi, gli asseriti effetti “innovativi” attingono i soli termini della controversia (pretesa e contestazione), rimanendo invece sempre incerto il rapporto conteso, in quanto volutamente non accertato (né validamente accertabile, essendo necessariamente coinvolto un “tema etico”). Anche in questo caso, insomma, non si scorgerebbe, plausibilmente, alcun invalicabile ostacolo all’ipotesi rico-

struttiva formulata; l’“innovatività” di cui parla buona parte dei civilisti appare un concetto che, se riferito alla “situazione preesistente” e non alla “lite”, potrebbe riscontrarsi, nell’eventualità, solo ex post; potendo semmai reagire sull’impugnabilità dell’accordo per effetto di quei meccanismi che si preoccupano, per fortuna, di evitare abusi a danno di una parte, ovvero la comune finalità di disporre in frode alla legge.


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gionamento giuridico tributario, appaiono in grado di assecondare, meglio di tutti gli altri, le esigenze peculiari di settore, trovando l’“accordo tributario” il suo presupposto logico e giuridico nell’inesistenza ex ante di una sola o di più soluzioni predeterminate ex lege. Con la conseguenza che della sua eventuale efficacia costitutiva o dichiarativa potrebbe, in ipotesi, discutersi solo ex post, quando il sopravvenire della conoscenza della situazione preesistente divenisse “giuridicamente rilevante”. 3.5 Segue: ... sensibile alla “sopravvenienza” (tributaria e/o comune) Un secondo profilo problematico normalmente usato contro l’ipotesi transattiva, e invero utile a precisare i tratti salienti della figura che si va proponendo, è quello, antico, concettualmente legato alla prevista possibilità di scardinare unilateralmente l’effetto preclusivo dell’accordo (mediante una disciplina che ricorda quella dell’art. 11, L. 241/1990). Richiamando la normativa che ammette espressamente la possibilità di un’integrazione ex post da parte del fisco, e riproponendo, mutatis mutandis, le eccezioni poste in vigenza del precedente art. 43, T.U.I.R.M. n. 4021 del 1877 (che consentiva un valutazione da parte del giudice in ordine al merito dell’accordo), si tende a far emergere l’incompatibilità concettuale di tale regime con la vincolatività che andrebbe necessariamente riconosciuta, invece, ad un “accordo negoziale”. A tale riguardo, va subito notato che il rilievo appare posto con minor spessore rispetto a quanto avveniva in passato, se non altro perché il “potere di riapertura” appare oggi fortemente limitato sia per quanto concerne l’amministrazione, sia per quanto riguarda il contribuente. Ma soprattutto, detta perplessità sembra oggi inconsistente rispetto alla figura dell’accertamento con adesione giacché appare evidente: primo, che la stessa transazione civilistica subisce il principio rebus sic stantibus (tanto che in quel settore il dogma della immutabilità della transazione è recessivo); secondo, che il grado di immutabilità della transazione appare per certi aspetti inferiore a quello dell’accertamento con adesione; terzo, che se è vero che il legislatore tributario ha ammesso l’ulteriore esercizio dell’ulteriore azione accertatrice, ha però, allo stesso tempo, escluso il potere di integrazione o di modificazione, così come ha escluso l’impugnabilità dell’accertamento con adesione; quarto, che il legislatore ha previsto una “zona franca di definitività” in cui neppure il potere di ulteriore azione accertatrice può essere esercitato; quinto, che il legislatore non ha previsto, invece, alcun potere di

ulteriore accertamento per l’accertamento con adesione in materia di imposte indirette diverse dall’Iva. Sicché, la critica che tradizionalmente viene dal settore in cui si collocano gli unilateralisti appare davvero flebile. Ma proprio il motivo di sottofondo, che comunque rimane, induce, per minima completezza, ad estendere l’ambito dell’analisi al fine di verificare se davvero la “sopravvenienza”, intesa come valore giuridico fondamentale, debba necessariamente assumersi a preclusione concettuale della tesi transattiva anche per l’“accordo tributario”. Occorre, cioè, interrogarsi sulle modalità con cui l’ordinamento apprezza, in termini di effetti giuridici, le conoscenze che insorgono in tempi successivi a quelli in cui è avvenuta una data regolamentazione di situazioni giuridiche, laddove quest’ultima, sebbene certa, viene però a rivelarsi ex post ingiusta, in base a canoni ritenuti insuperabili. Da questo punto di vista, basta allargare un po’ il campo d’indagine per convincersi che la circostanza per cui la definizione consensualmente raggiunta in sede di adesione può essere disattesa in via unilaterale non suscita, in realtà, imbarazzi teorici, poiché, come si è detto, anche gli accordi amministrativi (qui assunti a paradigmi dogmatici) sono soggetti a “simili vie di fuga” dall’effetto vincolante, quando questo si riveli ingiusto (ancorché il canone di ingiustizia sia sensibilmente differente da quello tributario; si pensi: primo, all’istantaneità dell’atto di accertamento del tributo, secondo, all’assoluta limitatezza delle ipotesi di revoca nel nostro settore, terzo, al diverso modo in cui, in sede tributaria, si atteggiano l’interesse pubblico – unico e immutabile nel tempo – e la cura dell’interesse pubblico nel concreto – ove l’unica ponderazione ammessa è quella tra il “fine di certezza” e il “fine di giustizia”). Né può trascurarsi come, in alcuni casi, questi sistemi reattivi siano fortemente affini ai rimedi di derivazione processuale che si muovono nella stessa direzione e che, soprattutto, acquistano rilievo anche per l’accertamento con adesione, ove si è di fronte all’estinzione di una lite o all’eliminazione della sua potenzialità. E allora, se in casi analoghi l’ordinamento ha trovato ammissibili fenomeni di “revisione” giustificati anche da nuove conoscenze, non si vede come e perché tale profilo dovrebbe porsi qui come pregiudiziale incompatibilità logico-interpretativa. Ma v’è di più. Il valore attribuito alla “sopravvenienza conoscitiva” (in specie in sede civile, ove è lasciata libera di fluttuare secondo le regole generali offerte da ciascun ramo del diritto), anche in questa ristretta portata, ben si allinea ai “principi”


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in materia di obbligazioni e contratti, da ritenere, similmente a quanto previsto in sede amministrativa, applicabili all’“accordo tributario”. Come le separate prevalenti dottrine osservano, queste “valvole” si risolvono in legittime reazioni a violazioni dell’”affidamento” e della “buona fede”, i quali devono caratterizzare le “trattative” al fine di porre le parti su una posizione di uguaglianza sostanziale nello svolgimento di qualsiasi negozio (anche compositivo) e di evitare errori che possano viziare la formazione della volontà (indirizzata a definire o a prevenire la lite secondo un certo assetto). In definitiva, quindi, la tesi dell’“accordo tributario”, cogliendo e facendo propri i segni dell’ossequio che tutti i settori coinvolti (tributario, amministrativo, privatistico) mostrano, pur con diverso tenore, al valore della “sopravvenienza”, non appare per nulla incompatibile con la disciplina dettata dal D.Lgs. 218/1997. Anzi, estremizzando un po’, pur rimarcando l’incoerenza di vincoli che, fuori da ogni schema comune, impediscono il libero fluttuare del principio rebus sic stantibus, ciò che interessa è che possibili rimedi alle distorsioni che ne derivano (e che legittimerebbero la declaratoria di incostituzionalità della norma) sono reperibili proprio sul versante privatistico. Infatti, qualora non si ritenesse sufficiente limitarsi ad auspicare una rimeditazione legislativa sul punto, ma si volesse agire in via interpretativa, si potrebbero proficuamente utilizzare le norme sulla transazione e le relative specificazioni dottrinali e giurisprudenziali. In questo modo, potrebbero cogliersi essenziali particolarità effettuali promananti dalla legge d’imposta, distinguendo ciò che è esterno da ciò che è interno alla controversia, e quivi, ulteriormente, il caput controversum dal caput non controversum. E dunque, potrebbero desumersi interessanti strumenti per aggredire la definitività insita nella zona franca non discussa e non formate oggetto dell’accordo. La figura, per come impostata, ben si presta, infatti, a subire gli effetti della sopravvenienza, e pertanto, in questo senso, potrebbe ammettere conclusioni dogmatiche anche non necessariamente bloccate dal significato apparente delle norme e desumibile dalla mera lettera. In altri termini, la “non impugnabilità”, la “non modificabilità” e la “non integrabilità” dell’accordo paiono limitate alla sola area del caput controversum e per questa via possono non considerarsi un ostacolo a

successivi accertamenti su questioni non controverse ovvero del tutto estranee alla lite, pur se di importo compreso nella soglia di cui all’art. 2, comma 4, lett. a, D.Lgs. 218/1997, oltre la quale, soltanto, è legittimato l’esercizio dell’ulteriore azione accertatrice. Potendo ciò consentire, peraltro, un avvicinamento teorico-sistematico tra il regime che caratterizza l’accordo sulle imposte indirette diverse dall’Iva e quello previsto per le imposte sui redditi. Insomma, l’accertamento con adesione concretizza un “accordo tributario compositivo”, nel quale un veicolo procedimentale di tipo “etico” funge da involucro rispetto a un contenuto sostanziale costituito da un accordo bilaterale unitario di tipo negoziale, con funzione transattiva ed efficacia preclusiva, sensibile alla sopravvenienza. 3.6 Segue: ... civilisticamente disciplinabile (con norme compatibili e non derogate) Da ciò discende, sul piano formale (quello del “veicolo”), l’applicabilità delle norme di tipo pubblicistico che attengono agli atti dell’amministrazione finanziaria, con particolare riguardo alle disposizioni che, in detto ambito, regolano la patologia degli stessi. Peraltro, in virtù dell’inquadramento proposto, non sembrano proponibili né il tema dell’eccesso di potere, né quello dei vizi di merito; quindi, la tematica dei possibili vizi attinenti solo all’elemento pubblicistico e non sostanziale dell’atto appare di non rilevante consistenza (del resto, entrambe le parti, se di buona fede, hanno precipuo interesse a non incorrere in situazioni che, altrimenti, potrebbero far venire meno gli effetti preclusivi e premiali voluti e conseguiti). Quanto, invece, al contenuto dell’“accordo tributario”, ad esso sembrano applicabili le norme e i principi in materia di obbligazioni e contratti in genere, in quanto compatibili e non derogati dalla normativa tributaria. In tale prospettiva, pare sin d’ora possibile riferirsi a numerose disposizioni comprese nel libro IV del codice civile; peraltro, se si prospetta assai limitata l’utilizzabilità delle disposizioni del titolo I, con l’eccezione della sezione dedicata alle obbligazioni in solido, risulta invece più che plausibile la compatibilità di numerose norme del titolo II (sempre se non derogate), tra cui, senza cura di esaustività, quelle preliminari e quelle concernenti i requisiti, l’interpretazione, l’illiceità, la frode alla legge, la rappresentanza, la nullità e l’annullabilità24.

24 Per l’approfondimento di questi temi, faccio ancora rinvio alla Relazione del Prof. Enrico Marello, il quale si è particolarmente dedicato allo studio delle invalidità nel diritto tributario.


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Ciò detto in relazione ai principi generali, le particolari caratteristiche della natura dell’“accordo tributario compositivo” sin qui proposte rendono applicabili ad esso le norme sulla transazione, allorché non derogate e in quanto compatibili (con la sua natura “etica”). Peraltro, anche qui, se è impensabile svolgere in questa sede una prospettazione analitica compiuta, sovviene quell’antica giurisprudenza che ebbe sempre a cuore i problemi dell’oggetto, dei documenti sopravvenuti e, soprattutto, dei vizi della volontà, tra i quali la medesima spesso tentò di distinguere, pur senza unanimità di indirizzi, l’errore di diritto dall’errore di fatto. Del resto, le profonde mutazioni che il settore tributario, quello amministrativo, nonché l’ordinamento in genere hanno subito, sembrano consentire di poter meglio affrontare, rispetto al passato, il conflitto tra il fine deflativo del contenzioso (“certezza”) e quello che, preso atto della “debolezza umana” nella ricerca della verità “puntuale” o “intervallare”, più concretamente si preoccupa di evitare distorsioni macroscopiche, frutto della mala fede di una delle parti, oppure frutto della congiunta volontà di agire in frode alla legge (“giustizia”). Conflitto che, nel quadro “etico” in cui si colloca l’istituto, dovrà necessariamente porsi a fondamento del preliminare giudizio di compatibilità da riferire sia alle norme civilistiche astrattamente considerate, sia alle elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza sviluppate in quel settore. Così, tanto per fare un esempio, se da un lato potrà apparire naturale condividere qui la fermezza, solitamente là riscontrabile, circa l’irrilevanza dell’errore di diritto sul caput controversum nel quale, ricorrendo lealtà e correttezza, sia caduta una delle parti (stante la comune necessità di far prevalere la funzione compositiva), dall’altro, però, dovranno con ogni probabilità recepirsi con maggior diffidenza le sempre più frequenti posizioni che traggono analoghe conclusioni per l’errore di fatto (stante la superiore esigenza posta da un “diritto con verità”, come quello tributario, ove anche la composizione “deve” incardinarsi sull’uguaglianza “verità = consenso”). D’altronde, le norme generali indicano le vie da perseguire per ottenere tutela. 3.7 Segue: ... e postulante, a pena di responsabilità, l’efficienza del funzionario dell’amministrazione finanziaria, tenuto metodologicamente ad attivare l’indole “etico-compositiva” (“verità = consenso”) Infine, restando in tema di tutele latamente intese, ponendo in disparte, per quanto detto, le problematiche connesse alle invalidità (vedi Marello), occorre svolgere un veloce test dell’ipotesi, osservandone gli effetti sul piano delle responsabilità

configurabili in capo al funzionario dell’amministrazione finanziaria per l’uso non corretto dell’accertamento con adesione. Ma prima di scendere nel particolare, vorrei evidenziare, in estrema sintesi, come la scelta discrezionale sul “se accordarsi” e sul quantum dell’accordo: primo, integri in ogni caso un comportamento (e giammai un provvedimento), secondo, del quale occorrerà vagliare la liceità (e non la legittimità o l’opportunità), terzo, mediante un giudizio improntato alla prevedibilità (ex ante e non già ex post) degli eventi da parte dell’uomo medio dotato delle medesime conoscenze dell’agente, quarto, il quale deve ricercare nel dominio dell’efficienza la soluzione di un’equazione data ex lege come impossibile da un legislatore che ha “giustamente” parificato “efficienza” ed “effettività”. Infatti, tale giudizio non potrà che assumere, quale primario se non esclusivo criterio di riferimento, quel principio di efficienza che è ormai canone normativo di comportamento per tutti i pubblici dipendenti, e che, rispetto all’accertamento con adesione, condurrà a ritenere lecite le scelte – tributariamente discrezionali – congrue e coerenti in relazione ai probabili sbocchi contenziosi del singolo affare fiscale, e per contro illecite quelle non coincidenti, in termini di obiettiva prevedibilità, col “male minore” per l’amministrazione finanziaria. Ciò significa, come si è detto a livello generale, che il funzionario dell’amministrazione finanziaria sarà tenuto ad attivare l’indole “etica” compositiva (“verità = consenso”); indipendentemente dal fatto che, poi, l’accordo si concluda o no. Se poi, in particolare, si recuperano le premesse dogmatiche sopra ipotizzate (cd. “responsabilità etica”), può completarsi il discorso sul metodo della scelta pubblica. Da questo punto di vista sembra opportuno esaminare distintamente: primo, il caso in cui sussista una semplice incoerenza tra il tipo di “tema” e il tipo di “ragionamento giuridico tributario” adottato; secondo, il caso in cui, invece, l’illecito si appunti su un’incoerenza tra il tipo di “tema” e di “ragionamento giuridico tributario”, da un lato, e il tipo di “veicolo” utilizzato, dall’altro. I) Incoerenza “tema”/“ragionamento giuridico”. Dovrà considerarsi illecito (in quanto inefficiente = ex ante inefficace) il comportamento del funzionario dell’a.f. che abbia formulato la proposta di adesione e/o che abbia perfezionato il relativo atto nei casi in cui il “tema” litigioso era di tipo “scientifico” o nei casi in cui, rispetto ad un (corretto) “tema etico”, il funzionario abbia adottato un “ragionamento giuridico tributario scientifico” per determinare la scelta sul “se accordarsi” e sul quantum dell’accordo.


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II) Incoerenza “tema = ragionamento giuridico”/“veicolo”. Sarà altresì da ritenere illecito (pure in questo caso perché inefficiente = ex ante inefficace) il comportamento del funzionario dell’a.f. che abbia utilizzato l’accertamento con adesione nei casi in cui il “tema” litigioso e il “ragionamento giuridico tributario” erano di tipo “scientifico” o che, in senso opposto, non abbia utilizzato l’accertamento con adesione (e magari abbia fatto ricorso, invece, all’autotutela) nei casi in cui il “tema” litigioso e il “ragionamento giuridico tributario” erano di tipo “etico” (e il “codice genetico” del “tema” implicava la composizione e non l’accertamento). 4. Conclusioni Nell’attuale contesto generale l’evoluzione legislativa invita quanto mai la dottrina a ridiscutere i termini attuali di antiche distinzioni tra categorie di “pubblico” e “privato” e ad interrogarsi sulla decifrabilità dei segni della sempre più manifesta tendenza a sovrapposizioni e invasioni di campo ove si configurano spazi “comuni”. Questo convegno ne costituisce mirabile testimonianza. Ora, è naturale che la prospettiva – a questo punto direi l’esperienza – della mutuazione di istituti privatistici e della loro utilizzazione come strumenti di conseguimento di finalità pubblicistiche (ma è vero anche l’inverso) non possa avvenire senza un attento vaglio di “compatibilità” e/o di

“adeguatezza”, appunto per evitare indebite trasmigrazioni di istituti (si pensi, ad esempio, alla “discrezionalità amministrativa”). Tuttavia, probabilmente, risulterebbe vano pensare di arrestare i movimenti sempre più veloci tra “placche” ordinamentali, frapponendo ad esse frammenti di antichi “principi non scritti” non solo inconferenti e inconsistenti (“indisponibilità = negazione della discrezionalità”), ma addirittura logicamente contraddetti da canoni inversi (l’“indisponibilità tributaria rovesciata = affermazione della discrezionalità” = esimente delle “responsabilità etiche” derivanti dall’agere pubblico efficiente, cioè ex ante efficace). Sicché, a mio avviso sarebbe triste perdere la chance offerta dall’“accordo tributario”, figlio dogmatico dell’“accordo amministrativo”, di rendere il diritto tributario partecipe della realizzazione di quelle “aree comuni” ove l’abbattimento dei costrutti divisori permetta di assecondare il divenire del diritto e, nel contempo, consenta di evitare ingiustificabili e inopportune fratture con la realtà fenomenica. Da ciò – e concludo davvero – traggo l’auspicio, che qui posso finalmente rivolgere ai patroni della materia amministrativistica, di rimeditare il significato e l’attualità della portata dell’art. 13, comma 2, della L. 241/1990, giacché questa norma, almeno in relazione agli aspetti esaminati, appare superata dalle modificazioni del diritto tributario ad essa sopravvenute.


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ACCERTAMENTO I CONTROLLI BANCARI: IL PROBLEMA DELL’EQUIVALENZA “PRELIEVORICAVO (COMPENSO)” NELL’ART. 32, COMMA 1, N. 2, D.P.R. N. 600/1973 61

Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. XII, 4 giugno 2007, n. 158 Presidente e Relatore: Martinelli Accertamento - Controlli bancari - Movimenti di conto corrente - Ricavi e compensi - Presunzione relativa - Configurabilità (C.c., artt. 2727 ss.; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2) Accertamento - Controlli bancari - Prelievi da conto corrente - Indicazione del beneficiario Prova liberatoria - Configurabilità (C.c., artt. 2727 ss.; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2) Accertamento - Controlli bancari - Natura procedimentale dell’art. 32, D.P.R. 600/1973 - Applicazione retroattiva - Configurabilità (C.c., artt. 2727 ss.; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2) Il disposto del n. 2 del primo comma dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 pone una presunzione relativa secondo cui – ai fini delle imposte sui redditi – le operazioni sui conti correnti si considerano ricavi o compensi recuperati a tassazione in atti di rettifiche e accertamenti. La mera indicazione del soggetto beneficiario del prelevamento (o la prova che le movimentazioni bancarie effettuate riguardano ricavi e/o compensi di cui il contribuente ha tenuto conto nella determinazione del reddito soggetto ad imposta) supera la presunzione e integra la prova liberatoria per il soggetto sottoposto a verifica; conseguentemente, spetta all’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare l’inattendibilità delle dichiarazioni del contribuente. La natura procedimentale dell’art. 32, così come novellato dalla L. 311/2004, ne consente l’applicazione anche per l’accertamento di periodi di imposta anteriori all’entrata in vigore della novella. Svolgimento del processo Con rituale ricorso D. B., esercente la professione

di consulente aziendale, impugnava l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate di Bologna 4 accertava un maggiore reddito imponibile ai fini Irpef (e relative addizionali), Iva e Irap a seguito di indagini bancarie esperite ai sensi degli artt. 32, D.P.R. n. 600/1973 e 51, D.P.R. n. 633/1972. Lamentava il ricorrente, in particolare, l’assurdità delle disposizioni – contenute nelle due norme citate – secondo cui i prelievi non giustificati possono essere considerati come compensi non dichiarati; inoltre, il ricorrente lamentava la retroattività applicativa delle disposizioni in questione. Il contribuente concludeva quindi, in via pregiudiziale, per la dichiarazione di incostituzionalità (recte: il promuovimento di incidente di costituzionalità) dell’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 nella parte novellata dalla L. n. 311/2004 per violazione del principio di capacità contributiva e per violazione del diritto alla difesa. Nel merito, chiedeva l’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato. Si costituiva ritualmente l’Agenzia delle Entrate sostenendo, in diritto, l’infondatezza del ricorso della parte privata; in fatto, l’ufficio riconosceva come giustificata la somma di allora lire 11.000.000 (euro 5,681,02), derivante da due prelevamenti bancari effettuati tramite due assegni emessi sul c/c del contribuente. La causa veniva discussa e decisa all’udienza del 7 maggio 2007. Motivi della decisione 1. La disciplina normativa L’art. 32, primo comma, n. 2, secondo periodo, del D.P.R. n. 600 del 1973 dispone che, al fine delle imposte sui redditi, i versamenti o le operazioni (attive) con istituti di credito (e, in genere, con gli intermediari finanziari) «sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad impo-


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sta o che non hanno rilevanza allo stesso fine»; parallelamente, la stessa norma prevede che i prelievi – che sono quelli che, per la più parte, interessano la presente causa – «sono posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche e accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili». 2. Meccanismo presuntivo dei prelievi In sintesi, la presunzione, concernente i prelevamenti bancari, che il contribuente è onerato di superare si articola in questo modo: I) la presunzione riguarda tanto gli imprenditori quanto i professionisti; II) le operazioni passive (prelievi, pagamenti) si presumono ricavi o compensi (ma ai soli fini delle imposte sui redditi). Il contribuente – per vincere la presunzione che su di lui grava – è ammesso a provare che le operazioni passive (prelievi, pagamenti): a) o sono state registrate in contabilità; b) oppure sono state effettuate in favore di un determinato beneficiario di cui occorre fornire i dati identificativi. 3. La prova contraria in giudizio relativa alle operazioni di prelevamento Per quanto riguarda le operazioni dì prelievo, si è detto che la prova della loro irrilevanza ai fini reddituali può essere fornita o attraverso la registrazione in contabilità ovvero mediante l’indicazione dei beneficiario. Qui occorre prestare attenzione: la norma stabilisce l’alternatività della prova contraria che deve fornire il contribuente; in altri termini il contribuente o fornisce la prova dell’indicazione in contabilità del prelievo (e allora la questione probatoria si chiude) ovvero, in mancanza della registrazione contabile, il contribuente può indicare le generalità del beneficiario. A questo proposito si deve tenere conto che, in tema di prelievi, il meccanismo presuntivo prelievi = compensi viene vinto alla semplice condizione che il contribuente si limiti a fornire le generalità del beneficiario della somma; in altre parole, la prova contraria idonea per vincere la presunzione è qui rappresentata dalla mera indicazione del nominativo dell’accipiens. La norma è inequivocabile: basta l’indicazione del beneficiario e null’altro. Se il contribuente indica tra i percettori di reddito un famigliare, un parente o un amico (o un’amica), ha adempiuto, e con successo, all’onere probatorio che su di lui gravava; la norma, infatti, è chiara: per superare la presunzione, nel caso di mancata indicazione nelle scritture contabili, è

sufficiente la mera indicazione del percettore delle somme. A questo punto, l’onere probatorio si sposta sull’ufficio. Se l’ufficio ritiene che la circostanza non sia vera, potrà invitare il percettore e chiedergli conto delle ragioni o del titolo dell’erogazione della somma da parte del contribuente; potrà chiedergli, anche, di fornire la documentazione della dazione del denaro, le modalità esecutive della stessa, ecc. Insomma, una volta che il contribuente abbia comunicato le generalità del percettore delle somme da lui erogate, l’ufficio è onerato di provare che non corrisponde a verità quanto dichiarato dal contribuente; e se l’ufficio non riesce a dimostrare che il contribuente ha detto il falso (il che potrebbe accadere, ad esempio, se il contribuente Tizio indica come beneficiario di una certa somma pagata brevi manu, ad esempio, un’amica; l’amica, tuttavia, invitata dall’ufficio a confermare la circostanza, la nega, riferendo di un avere mai ricevuto denaro da Tizio), il giudice dovrà annullare la pretesa tributaria. Naturalmente, l’ufficio può contestare – sia pure in maniera più difficoltosa e sdrucciolevole – l’erogazione di denaro da parte del contribuente ad un famigliare (o parente o amico) attraverso la prova logica, cioè mediante presunzioni. Il giudice – se la contestazione dell’ufficio prosegue in giudizio – è quindi tenuto a valutare la ragionevolezza delle somme erogate in favore dei famigliari o dei parenti ovvero degli amici che il contribuente ha indicato come percettori delle somme prelevate. Diversi sono i parametri cui il giudice può attenersi; ad esempio, l’entità del reddito dichiarato (se il professionista Caio o l’imprenditore Mevio dichiarano un reddito di 200.000 euro è normale pensare che la somma di euro 40.000 possa essere erogata in favore dei famigliari; non sarebbe normale, invece, che la stessa somma di euro 40,000 sia erogata da chi ha un reddito di 50.000 euro). Ma non mancano altri parametri. Ad esempio, il numero dei componenti della famiglia; la loro età; il loro stato di salute; gli eventi (anche di natura eccezionale, come gravi malattie, decessi, matrimoni, l’apertura di un’attività del figliò divenuto maggiorenne, ecc.) che hanno caratterizzato le vicende famigliari nel periodo di imposta verificato (ovviamente, se il soggetto beneficiario indicato dal contribuente è un fornitore, sarà invece normale pensare che il prelievo sottenda un acquisto “in nero”). In definitiva, questa sembra l’unica interpretazione costituzionalmente accettabile: stiamo infatti


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discutendo di somme di denaro che provengono da una lecita fonte di reddito e che sono già state sottoposte e regolare imposizione e che formano oggetto di una spesa da parte del contribuente, il che deve indurre ad estrema cautela nel considerare compensi ricchezza già tassata, perché, altrimenti si determinerebbe un inaccettabile vulnus al principio della capacità contributiva. La stessa amministrazione finanziaria si rende conto dell’impervia sostenibilità in giudizio di questa presunzione e provvede ad annacquarla invitando gli uffici periferici alla cautela: «si ritiene opportuno che gli uffici procedenti, sotto il profilo operativo, si astengano da una valutazione degli elementi acquisiti – non solo dei conti correnti ma di qualsiasi altro rapporto od operazione oggi suscettibili di indagine – particolarmente rigida o formale, tale da trascurare le eventuali dimostrazioni, anche di natura presuntiva, che trattasi di spese non aventi rilevanza fiscale sia per la loro esiguità, sia per la loro occasionalità e, comunque, per la loro coerenza con il tenore di vita rapportato al volume di affari dichiarato» (vedi circ. Agenzia delle Entrate n. 32/E del 19 ottobre 2006, in Fisco, n. 40/2006, 2, 6026). 4. Il ricorso del contribuente: a) i prelievi Il contribuente ha dato al ricorso, in tema di presunzioni legate ai prelievi bancari, un’impostazione errata. Alla pagina 2 dell’atto introduttivo, il ricorrente lamenta che «è stata estesa anche ai professionisti la presunzione in base alla quale, a fronte di un prelievo che non trova riscontro nelle scritture contabili, si presume un compenso non dichiarato». L’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 non dice affatto questo, la norma, come abbiamo visto, pone a carico del contribuente un onere probatorio alternativo: o il contribuente prova di avere registrato il prelievo in contabilità, ovvero indica le generalità del beneficiario del denaro dal contribuente stesso prelevato. Solo se non assolve nessuno di questi due oneri probatori allora il meccanismo presuntivo, invitto, fa prova contro il contribuente. Nella fattispecie per cui è causa, il contribuente si è limitato a sostenere che il prelievo non annotato equivale a compenso; questa errata impostazione concettuale gli ha impedito di indicare altri beneficiari (come i famigliari) delle somme prelevate, fallendo così l’onere della prova che su di lui incombeva. 5. Segue: i versamenti Per quanto riguarda i versamenti – e qui occorre dire che la presunzione ha una forza assai maggiore rispetto a quella relativa ai prelievi – il ri-

corrente non ha adeguatamente giustificato il deposito sul proprio conto corrente della complessiva somma (di allora) lire 9.800.000; la ripresa a tassazione dell’ufficio, pertanto, appare corretta. 6. L’eccepita incostituzionalità dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 Il ricorrente chiede a questo giudice di dichiarare incostituzionale l’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 nella parte novellata dalla L. n. 311 del 2004. Ovviamente, il Collegio interpreta questa richiesta come invito a sollevare incidente di costituzionalità (essendo riservato solo alla Corte costituzionale il potere di cancellare le norme di legge). La questione, tuttavia, non appare non manifestamente infondata. Secondo la granitica giurisprudenza del giudice delle leggi, infatti, il giudice è tenuto a sollevare incidente di costituzionalità solo quando non sia possibile una lettura costituzionalmente conservativa della norma censurata; lettura che qui è possibile, come si è illustrato supra. In effetti, l’equivalenza prelievi compensi può essere superata dalla prova, di non difficile assolvimento, dell’indicazione del beneficiario delle somme prelevate; e tra i beneficiari delle somme prelevate, ovviamente, non vi sono preclusioni soggettive, quindi possono essere indicati i famigliari, i parenti, altri terzi, ecc. Una volta indicato il percettore, spetterà all’ufficio dimostrare (anche per presunzioni) che la circostanza non è vera; quindi, non è vero che il contribuente non abbia modo di difendersi né che sia vulnerato il canone della capacità contributiva. D’altra parte, è ragionevole addossare sul contribuente l’onere di indicare il soggetto cui ha dato il denaro prelevato (la circostanza è infatti conosciuta solo da lui); spetterà poi all’ufficio dimostrare che il soggetto beneficiario nulla ha percepito. Sembra pertanto al Collegio che la ripartizione degli oneri probatori tra le parti – come supra delineata – sia equilibrata e non vulneri né il diritto di difesa né il parametro della capacità contributiva. In definitiva, non si ravvisa alcun profilo di incostituzionalità della norma in questione. 7. Oneri probatori retroattivi Secondo il diritto vivente, l’onere probatorio che il contribuente è chiamato ad assolvere per vincere la prova presuntiva prelievi = compensi non ha carattere sostanziale, ma natura procedimentale; con la conseguenza che si applica anche retroattivamente, cioè a periodi di imposta anteriori all’entrata in vigore della norma che la prevede. Per il ricorrente, questa retroattività non consen-


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te il diritto di difesa. In realtà non è cosi, perché nulla vieta che la prova necessaria e sufficiente a superare la presunzione in discorso possa essere anche fornita a mezzo di presunzioni. Tuttavia, se il contribuente non se ne avvale, non può lamentare l’irragionevolezza della norma. Ora, siccome le presunzioni muovono da un fatto noto per risalire ad un altro ignoto, il contribuente avrebbe dovuto provare in causa fatti e circostanze che avrebbero potuto giustificare, anche per il passato, le somme prelevate. Ad esempio, uno stato di invalidità, la pratica di hobbies dispendiosi, il matrimonio di un figlio, una malattia le cui terapie non sono a carico, totale o par-

ziale, del servizio sanitario, sono tutti eventi o fatti che possono indurre a far ritenere giustificati prelevamenti di denaro. Tuttavia, il contribuente non solo non ha provato, ma neppure detto nulla in proposito, abdicando, in pratica, ad esercitare il diritto di difendersi provando. 8. Decisione Il ricorso, pertanto, salvo che per la somma di euro 5.681,02, che l’ufficio ha riconosciuto come prelievo giustificato, non può trovare accoglimento. Le spese del giudizio, stante la assoluta peculiarità della fattispecie, possono essere integralmente compensate.

Nota di Maria Cassano

mulazione attuale, in vigore dall’1 gennaio 2005. Contestava in subordine «[...] l’assurdità del disposto secondo il quale i prelievi non giustificati possono considerarsi come compensi non dichiarati». In particolare veniva contestato nel merito il sistema delle presunzioni previsto dall’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, cd. prelevamenti = ricavi o compensi, secondo il quale: «sono posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche e accertamenti (rectius quelli previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41, D.P.R. n. 600/1973), se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti o operazioni». La Commissione provinciale di Bologna, investita di una questione particolarmente spinosa e di indubbia rilevanza per le implicazioni che comporta, ha inteso, in un’ottica di semplificazione, chiarire l’applicazione delle presunzioni introdotte dal legislatore, delimitando sia il contenuto della prova liberatoria a carico del contribuente per superare l’efficacia probante della presunzione iuris tantum, sia, in presenza di essa, la particolare posizione dell’amministrazione finanziaria. Se, in altri termini, l’art. 32 citato considera un prelevamento, purché non debitamente annotato nelle scritture contabili (art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973: «sempreché non risultino dalle scritture contabili»), come ricavo o compenso oggetto di rilievo, spetta al contribuente superare la presunzione iuris tantum, indicando il soggetto beneficiario (un’amica, un familiare, un parente). In tal caso, secondo i giudici bolognesi, sarà onere dell’amministrazione finanziaria contestare quanto asserito dal contribuente, dimostrando che l’assunto è mendace e non rispondente al vero.

La sentenza in commento risulta di particolare interesse per la rigorosa applicazione della lettera dell’art. 32, comma 1, n. 2 del D.P.R. n. 600/1973. Se il legislatore tributario, infatti, ha inteso introdurre, come sistema procedimentale, il meccanismo delle presunzioni, secondo il quale un prelievo effettuato dal titolare di un conto corrente, non debitamente annotato, vale come ricavo e/o compenso in nero, è da riconoscersi, in ogni caso, al contribuente la possibilità di fornire una prova liberatoria. Essa consiste nella semplice indicazione del beneficiario della dazione, spettando all’amministrazione finanziaria, in piena aderenza al principio immanente della prova (art. 2697 c.c.), dimostrare che trattasi di base imponibile sottratta a legittima tassazione. La vicenda tributaria e la soluzione dei giudici di merito L’avviso di accertamento con il quale per l’anno d’imposta 2001 l’Agenzia delle Entrate determinava un maggiore reddito imponibile ai fini Irpef, Iva e Irap a carico di un consulente aziendale, veniva ritualmente impugnato con formulazione di due censure. Il contribuente, considerato che l’attività di controllo era fondata sulle risultanze di indagini bancarie svolte ai sensi degli art. 32, comma 1, D.P.R. n. 600/1973, come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a, numero 1, della L. 30 dicembre 2004, n. 311, in via pregiudiziale sollevava questione di legittimità costituzionale della disposizione citata per violazione degli artt. 24 e 53 della Cost., stante l’applicazione retroattiva della for-


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La prova liberatoria fornita dal contribuente e l’insistenza dell’ufficio che in via giudiziale conferma e ratifica le risultanze bancarie a fondamento dell’accertamento in contestazione rimettono ai giudici la soluzione della querelle. Il Collegio potrà trovare una soluzione conforme al dettato normativo solo valutando in termini di ragionevolezza e compatibilità il prelievo in discussione. L’indicazione del beneficiario può in via definitiva comportare la soccombenza del recupero fiscale quando i giudici considerino perfettamente compatibile l’ammontare del prelievo (rectius dazione) con la posizione reddituale dichiarata dal ricorrente. «Diversi» – si legge testualmente nella parte motiva della sentenza in commento – «sono i parametri a cui il giudice può attenersi: l’entità del reddito dichiarato; il numero dei componenti della famiglia; la loro età; il loro stato di salute; gli eventi, anche di natura eccezionale, come gravi malattie, decessi, matrimoni, avvio di attività, che, sarà invece normale pensare hanno caratterizzato le vicende familiari nel periodo d’imposta verificato». A tale interpretazione della norma, ritenuta dal Collegio giudicante conforme al dettato costituzionale, si pone un importante limite: «ovviamente» – cita la sentenza – «se il soggetto beneficiario indicato dal contribuente è un fornitore sarà invece normale pensare che il prelievo sottende un acquisto in nero». Tralasciando l’esito del giudizio di non accoglimento del ricorso introduttivo per la genericità dei motivi addotti dal ricorrente non confortati dalla prova liberatoria nei termini suddetti, la sentenza de qua è di indubbia rilevanza, in quanto richiama l’attenzione dell’interprete sulla portata del disposto dell’art. 32 citato e sul regime delle presunzioni applicato ai prelevamenti effettuati, come nel caso di specie, da un soggetto che non opera nell’esercizio d’impresa. L’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973 e il sistema delle presunzioni L’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/19731 prevede precisi poteri istruttori, di cui l’amministrazione finanziaria può ragionevolmente avvalersi

1 In argomento si veda Comm. trib. prov. Milano, sez. XXI, 25 gennaio 2008, n. 6, infra, 486. 2 TOSI, Segreto bancario: irretroattività e portata dell’art. 18 della legge n. 413 del 1991, in Rass. Trib., 1995, 9, 1396 ss. 3 In senso critico alla posizione di

al fine di ricostruire la posizione reddituale del contribuente sottoposto a controllo, evidenziando eventuali differenze con quanto da lui dichiarato. In particolare, nel rispetto del diritto alla previa informativa di cui all’art. 18 della L. n. 413 del 1991 e del diritto al contraddittorio cd. “anticipato”, l’ufficio è chiamato a valutare le movimentazioni bancarie per le quali il contribuente non è stato in grado di fornire un’adeguata giustificazione. La norma, nel suo dato letterale, non sembra comportare, in deroga ai principi generali dell’art. 2697 c.c., un’inversione dell’onere della prova, operando come presunzione legale. Nello stabilire, infatti, che i prelevamenti non giustificati siano da considerarsi come ricavi si contravviene ad una normale logica ricostruttiva, secondo la quale l’eventuale esistenza di ricavi porterebbe ad accreditamenti e non a prelievi, volti generalmente a sostenere voci di costo. Qualificare tale disposto come presunzione appare opinabile se si considera che tale strumento probatorio ricorre quando dal fatto noto possa risalirsi al fatto ignoto secondo un criterio di verosimiglianza (in specie di tipo economico) in contrasto con una normale logica interpretativa. Si ritiene, dunque, seguendo l’orientamento espresso sul punto da autorevole dottrina, che la norma in disamina, non basandosi su un rigido criterio di verosimiglianza economica, posto a fondamento di un procedimento presuntivo, abbia una connotazione indirettamente sanzionatoria, «volta a dissuadere i contribuenti dall’effettuare acquisti in nero mediante la tassazione di tutti gli addebitamenti di cui non venga indicato il beneficiario»2. La natura della norma (di tipo sanzionatorio), secondo la costruzione dogmatica sopra evidenziata, evita di ritenere che essa introduca nell’ordinamento vigente il sistema della doppia presunzione, ossia considerare i versamenti come ricavi e i prelevamenti non giustificati come costi in nero a loro volta produttivi di ricavi non dichiarati. Il meccanismo della doppia imposizione, infatti, si esporrebbe ad un elevato grado di incertezza nell’ambito di una ricostruzione dei ricavi che si vuole improntata a rigore logico3. Chiarita in premessa la natura della norma in disa-

quanti considerano l’art. 32 citato come norma che introduce un sistema della “doppia presunzione”, TOSI, op. cit, 1397, ove evidenzia che gli addebitamenti effettivamente destinati all’acquisto di merce in nero, poi successivamente rivenduta, pos-

sono con il medesimo grado di verosimiglianza di quanto sovra sostenuto rappresentare un prelievo di utili destinato a spese personali dell’imprenditore, inficiando le risultanze probanti della presunzione operata.


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mina è necessario procedere all’individuazione dell’ambito applicativo e dell’esatta portata precettiva. Appare utile, a chi scrive, operare una distinzione tra il primo e il secondo periodo dell’art. 32, comma 1, n. 2, citato e nell’ambito di ciascuno di essi porre a raffronto il testo attuale, come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a, n. 1, della L. 30 dicembre 2004, n. 311, con la lettera previgente4. Tale criterio sistematico di disamina ha un’unica finalità: individuare i soggetti investiti delle presunzioni de quibus, l’oggetto della presunzione e della prova liberatoria, unitamente all’ambito temporale di applicazione del disposto nella sua formulazione attuale. L’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, in vigore sino al 31 dicembre 2004, precisava che «i singoli dati ed elementi risultanti dai conti (la cui copia risulti acquisita in fase istruttoria ai sensi del n. 7 del medesimo articolo o rilevati in sede di accessi verifica e ispezioni) sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti di cui agli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra di averne tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche e accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario, i prelevamenti annotati negli stessi conti e non risultanti dalle scritture contabili». L’ambito applicativo della norma, a seguito dell’abrogazione dell’art. 35 del D.P.R. n. 600/19735,

4 CAPOLUPO, Le novità in materia di segreto bancario, in Fisco, 2005, 4, 465, secondo il quale è «anacronistica» la permanenza della presunzione normativa che continua a considerare ricavi i versamenti e i prelevamenti, dovendosi tra l’altro rinviare qualsiasi giudizio sulla validità delle innovazioni introdotte a decorrere dall’1 gennaio 2005 dalla legge 30 dicembre 2004, n. 311 all’uso che in pratica sarà fatto dello strumento giuridico in disamina. 5 Norma abrogata dall’art. 18, comma 1, lett. h, della legge 30 dicembre 1991, n. 413. La disposizione previgente ammetteva le indagini bancarie solo quando il contribuente non avesse presentato la dichiarazione e l’ufficio fosse in possesso di elementi sulla base dei quali poteva presumere un’evasione di importi superiori ai cento milioni di lire, ovvero

risulta sin dal 1991 particolarmente ampio, considerato che il legislatore del tempo, a fronte di un dilagante fenomeno di evasione, ha inteso garantire un regime impositivo rispettoso dell’adempimento ai doveri di solidarietà sociale, primo fra tutti quello di ciascun cittadino di concorrere alle spese pubbliche (artt. 2, 3 e 53 Cost.) anche a scapito della riservatezza dei dati bancari6. È stata, dunque, rimessa al legislatore quella scelta di contemperamento tra la tutela delle libertà fondamentali (artt. 13, 14 e 15 Cost) su cui sono destinati a incidere i mezzi coattivi di indagine dell’amministrazione finanziaria e la necessità per la stessa di svolgere un’adeguata attività di controllo sulla partecipazione del singolo alla spesa pubblica7. In ogni caso le scelte operate discrezionalmente dal legislatore potranno essere sottoposte al vaglio del giudice delle leggi sotto il profilo della “ragionevolezza”8, dando luogo a pronunciamenti di incostituzionalità delle norme procedimentali sia nel caso in cui i poteri istruttori risultino così residuali da inficiare l’esercizio della funzione impositiva, sia nel caso in cui prevedano poteri così penetranti da eliminare o comprimere fortemente posizioni individuali costituzionalmente garantite9. La norma di modifica (rectius L. 30 dicembre 1991, n. 413) ha sollevato in sede processuale non poche doglianze in merito all’applicazione retroattiva della riforma attuata, in particolare sull’estensione dei poteri di controllo, svincolati dai limiti dell’art. 35 della legge citata, ad annualità antecedenti rispetto all’entrata in vigore della nuova lettera legi-

quando il contribuente avesse omesso la tenuta di scritture contabili o ne fosse accertata l’inattendibilità. 6 Per la disamina degli aspetti sostanziali dell’imposizione, cfr. MOSCHETTI, Evoluzione e prospettive dell’accertamento dei redditi determinati su base contabile, in Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo, a cura di Preziosi, Roma-Milano, 1996, 122; RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, 62; TINELLI, Riflessioni sulla prova per presunzioni nell’accertamento del reddito d’impresa, in Riv. Dir. Fin., 1986, I, 476; Id., Istituzioni di diritto tributario, Padova, 2003, 216. Sul punto si rinvia alla pronuncia della Corte costituzionale del 3-18 febbraio 1992, n. 51, in Riv. Dir. Fin., II, 1992, 59-61. 7 VIOTTO, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2002, 30 ss., «[...] ne discende che la potenzia-

lità di espansione di siffatti poteri – di per sé illimitata [...] ove si consideri l’intima connessione degli stessi con la realizzazione del dovere di solidarietà nel concorso equo e generalizzato alle spese collettive – deve essere circoscritta per tener conto delle contrapposte esigenze di garanzia del rispetto delle libertà costituzionali». 8 NUZZO, Poteri di polizia tributaria, segreto bancario e repressione degli illeciti fiscali nella cd. legge La Torre, in Giur. Comm., 1984, I, 522-523. 9 Si intende far riferimento a tutte quelle sentenze in cui la Corte costituzionale è stata chiamata ad effettuare il cd “scrutinio di ragionevolezza del potere legislativo” (da ultimo e sull’argomento in disamina, cfr. Corte cost. 8 giugno 2005, n. 225). Sul punto, amplius, VIOTTO, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, cit., 37.


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slativa10. Sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte ha, con orientamento che attualmente può dirsi costante, chiarito che «l’utilizzazione dei poteri riconosciuti da tale norma ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi e/o sul valore aggiunto relative ad annualità precedenti la sua entrata in vigore non integra alcuna applicazione retroattiva», in quanto non determina una modifica sostanziale della posizione soggettiva del contribuente, regolata dalle disposizioni in vigore al tempo della dichiarazione, ma consente esclusivamente una pregnante forma di controllo, in particolare sull’acquisizione della prova11. La dottrina, dal canto suo, aveva già ritenuto che la riforma attuata dall’art. 18 della L. n. 413/1991, non investendo aspetti esclusivamente procedimentali, ma «riconoscendo l’inesistenza del segreto bancario nei rapporti tra istituti di credito e cliente, consente di valorizzare incondizionatamente tutti i conti che quest’ultimo intrattiene con la prima, e in questo modo si delinea come norma sulle prove», non può ragionevolmente trovare applicazione per annualità pregresse all’entrata in vigore. In caso contrario si finirebbe per violare l’affidamento del cittadino sulla tutela accordata dal legislatore alla riservatezza dei conti intrattenuti con la banca e per esporre il contribuente all’onere probatorio dell’esibizione di una documentazione giustificativa che non riteneva al tempo necessario conservare12. La Corte costituzionale13 ha, inoltre, escluso che possano evidenziarsi profili di incostituzionalità per asserita violazione del principio di uguaglianza dell’art. 3 Cost., in quanto il diritto alla difesa del contribuente (art. 24 Cost.) di cui vengono acquisite copie dei relativi conti, risulta pienamente tutelato, potendo egli dar contezza dell’assoluta conformità delle risultanze dei conti con quanto indicato in dichiarazione sia in sede amministrativa, sia in sede giurisdizionale. Non può d’altra parte sottacersi che se la finalità della norma è quella di far emergere l’effettiva capacità contributiva del contribuente ciò esclude qualsiasi forma di contrasto con la previsione dell’art. 53 Cost. Ponendo, ora, a raffronto il trattamento fiscale

10 Art. 81, L. n. 413/1991, «[...] la presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana». 11 Ex pluribus, Cass., sez. V, 14 ottobre

dei “versamenti” e dei “prelevamenti” appare evidente come il legislatore prima del 2004 (data dell’ultima modifica) abbia operato un distinguo: se, infatti, un versamento, indipendentemente dalla qualifica soggettiva del contribuente, e in base all’id quod plerumque accidit, può lasciar ragionevolmente ipotizzare l’esistenza di ricavi o compensi in nero, fatta salva la possibilità che venga prestata prova liberatoria (considerazione nella determinazione del reddito dichiarato o irrilevanza dello stesso ai fini imponibili), un prelevamento annotato sui conti, ma non contabilizzato lascia presumere ricavi oggetto di rettifica o accertamento, salva l’indicazione del soggetto beneficiario. Se, dunque, il trattamento fiscale dei versamenti è unitario indipendentemente dalla circostanza che il contribuente sia o meno tenuto all’obbligo delle scritture contabili, per i prelevamenti la presunzione di ricavi in nero, stante il chiaro dettato normativo e l’utilizzo del solo termine “ricavi”, è operante esclusivamente per coloro che esercitano attività di impresa14. La riforma del 2004 ha inteso estendere la disciplina dei “prelevamenti” anche ai lavoratori autonomi, stabilendo che «i prelevamenti o gli importi riscossi di cui il contribuente non indichi il beneficiario e sempreché non risultino da scritture contabili sono posti come ricavi o compensi alla base delle stesse rettifiche e accertamenti». La norma richiede che concorrano due precise condizioni: - i prelevamenti e gli importi riscossi non devono risultare dalle scritture contabili; - il contribuente deve astenersi dall’indicare il soggetto beneficiario. La presunzione, cioè, può applicarsi solo quando trattasi di un prelevamento non rinvenibile nelle scritture contabili; in caso contrario la norma in disamina non può essere utilizzata in sede di accertamento. Se del prelievo, dunque, non si ritrova alcuna traccia nella contabilità del contribuente, dalla presunzione che esso costituisca un ricavo e/o compenso in nero è possibile sottrarsi solo indicando il soggetto beneficiario della dazione (cd. accipiens). Parte della dottrina15 ha evidenziato una sorta di contraddizione in termini quando il legislatore,

2005, n. 19947; Id., 13 maggio 2003, n. 7329 e 7344; Id., 19 luglio 2002, n. 10598; Id, 29 marzo 2002, n. 4601. 12 TOSI, op. cit., 1388 ss. 13 Corte cost., sent. 6 luglio 2000, n. 260. 14 In tal senso, INGRAO, Ancora sull’uti-

lizzo dei prelevamenti negli accertamenti bancari, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 11, 1445. 15 DELLA CARITÀ, Ampliati i poteri di accertamento: per i professionisti i prelevamenti bancari non giustificati danno


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utilizzato il termine “compensi”, ha chiaramente esteso il regime delle presunzioni ai lavoratori autonomi, richiedendo al contempo quale presupposto di applicabilità che trattasi di «un prelevamento non risultante dalle scritture contabili». La considerazione suindicata ha portato a ritenere che la norma riguardi solo coloro che operano in contabilità ordinaria, lasciando fuori i soggetti esercenti attività di impresa e i lavoratori autonomi in contabilità semplificata, nonché coloro che per legge sono esonerati dalla tenuta di scritture contabili. La questione potrebbe ritenersi superata se si considera che la norma opera proprio nei confronti di questi ultimi che, in quanto non tenuti all’osservanza di alcun obbligo contabile, possono incorrere in prelevamenti non annotati di cui dar spiegazione in sede di accertamento. Autorevole dottrina ha cercato di superare le criticità sovra esposte, precisando che l’art. 32, comma 1, n. 2, non concorre all’enunciazione di regole determinative del reddito, ma disciplina esclusivamente il profilo probatorio, introducendo l’importante sistema delle presunzioni16. Al riguardo si è rammentato che la norma non si applica ai soggetti il cui reddito risulta determinato in via forfetaria non tanto per l’inoperatività della presunzione, ma per l’irrilevanza del fatto ignoto (ricavi), desunto dal fatto noto (prelevamenti). Al più, potrebbe servire a determinare il superamento della soglia che consente di determinare forfetariamente i ricavi stessi17. Con circolare del 19 ottobre 2006, n. 32/E, par. 5.4, l’Agenzia delle Entrate ha avuto modo di precisare che l’estensione soggettiva voluta dalla legge intende «attestare che i prelevamenti per i quali non

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origine a compensi imponibili, in Fisco, 2006, 28, 4356; ROCCO-LUPI, Novità apparenti e problemi strutturali in tema di accertamenti bancari, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 7-8, 521. BENAZZI, Accertamenti bancari ed equiparazione a ricavi di versamenti e prelevamenti: i problemi ancora aperti, in questa rivista, 2008, 1, 254. FRANSONI, La presunzione di ricavi fondata sui prelevamenti bancari nell’interpretazione della Corte costituzionale, in Riv. Dir. Trib., 2005, 971. TOSI, op. cit., 1396, 29. DEL FEDERICO, Sanzioni improprie ed imposizione tributaria, in Diritto tributario e Corte Costituzionale, a cura di Perrone-Berliri, collana Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica Italiana, Napoli, 2006, 531 ss. In

si può (illegali perché utilizzati per il pagamento di tangenti) o non si vuole fornire l’indicazione del beneficiario sono da considerarsi costi in nero che hanno ragionevolmente generato compensi non contabilizzati», sia che trattasi di imprese, di lavoratori autonomi o di professionisti. Individuati i soggetti interessati dalla presunzione è essenziale chiarire sia cosa l’amministrazione finanziaria possa ragionevolmente presumere sulla base di prelevamenti non annotati in contabilità, ma risultanti da indagini bancarie, sia la prova liberatoria che consenta di superare le risultanze probatorie. L’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo esprime un’equivalenza: prelevamenti = ricavi e/o compensi. In generale un prelievo secondo la logica comune è decurtazione della materia imponibile; con la norma in commento, invece, è come se il legislatore avesse voluto dimostrare di conoscere il fenomeno degli acquisti in nero, operati con prelevamenti, e finalizzati a conseguire del pari ricavi in nero18. In altri termini, attraverso il prelievo il contribuente sostiene un costo in nero finalizzato al conseguimento di un bene o di un servizio che, ceduto ad un terzo, è esso stesso produttivo di un ricavo o di un compenso parimenti in nero. La costruzione non è andata esente da critiche sia di ordine generale sia più analitiche. L’utilizzo, infatti, dei prelevamenti, unitamente ai versamenti per le rettifiche del reddito, integra più una sanzione cd. “impropria”19 che una semplice regola procedimentale di agevolazione dell’onere della prova20, tanto più per la difficoltà del contribuente di ricostruire la vicenda e di fornire anche a distanza di tempo la prova liberatoria.

tale contributo l’autore, nell’affrontare la tematica della compatibilità del sistema sanzionatorio con i precetti costituzionali, addiviene ad una compiuta nozione delle sanzioni improprie, definite come quel «coacervo di strumenti di reazione alla violazione del precetto, non qualificati né disciplinati dal legislatore come sanzioni, e purtuttavia aventi funzione affittiva-punitiva, concorrente con altre funzioni e non prevalente». La particolare natura di tali sanzioni comporta la necessità di «porre attenzione all’ambigua tecnica legislativa di sanzionare in modo occulto, senza le garanzie indefettibili del diritto punitivo, comportamenti illeciti che dovrebbero essere più correttamente puniti con strumenti naturalmente e

tipicamente preordinati alla repressione dell’illecito». 20 LUPI, Prelevamenti uguale ricavi: l’assurdità di una presunzione contronatura, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 7-8, 521. Id., Si allo strumento, ma le presunzioni devono cadere, in Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2006, 22, che così commenta «[...] questa generalizzazione delle indagini bancarie pone il problema delle anacronistiche presunzioni di redditività dei versamenti e dei prelevamenti, che sopravvivono, per forza d’inerzia, dai tempi in cui l’accertamento bancario era una specie di misura punitiva per chi si era reso colpevole di gravi inadempienze o di frodi. Se oggi l’accertamento bancario si generalizza e si sdrammatizza, non ha più senso presumere che tut-


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Inoltre le regole succitate si espongono ad una duplice censura: - non risulta debitamente valorizzata la circostanza che ad un ricavo, individuato in via presuntiva, sottende un costo che ne riduce l’entità e di cui in sede di recupero fiscale non si tiene debitamente conto21; - si finisce per incorrere nel rischio di tassare nuovamente la medesima entità numerica, prima come versamento di “ricavi” (art. 32, comma 1, n. 2, primo inciso, D.P.R. n. 600/1973) poi come “prelevamento” di “ricavi” supposti attraverso la presunzione, dell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo inciso, D.P.R. cit.22 Sul punto pare opportuno rinviare alla sentenza della Corte costituzionale del 6 giugno 2005, n. 22523 che, investita della questione di legittimità costituzionale con ordinanza della Commissione tributaria regionale di Torino del 4 novembre 2002 per asserito contrasto del sistema della doppia presunzione con i principi di uguaglianza e di capacità contributiva (ex artt. 3 e 53 Cost.) l’ha ritenuta non fondata, ritenendo che: - l’indeducibilità delle componenti negative del maggior reddito d’impresa accertato in base alle norme impugnate, risulta smentito dalla giurisprudenza di legittimità che in sede di accertamento induttivo ha consentito la valorizzazione dell’incidenza percentuale dei costi relativi che vanno detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati; - l’ammissione di prova contraria attraverso l’indicazione del beneficiario del prelievo evidenzia la compatibilità dell’art. 32 citato con il disposto dell’art. 53 Cost.; - non risulta violato il canone di ragionevolezza

ti i versamenti siano ricavi e – peggio ancora – lo siano anche i prelevamenti; quest’ultima è una presunzione contro natura, che si pone contro il senso comune, secondo cui il prelevamento è associato non già ad un ricavo, ma ad un costo. In questo quadro di interventi di razionalizzazione, la maggior parte dei quali a vantaggio del fisco, ne è mancato uno a favore del contribuente che riportasse a ragionevolezza questo esagerato sistema di presunzioni» (dello stesso autore Si ad indagini rapide, ma stop alle vecchie presunzioni, in Il Sole 24 Ore, 15). GALLO, Il dilemma reddito normale o reddito effettivo: il ruolo dell’accertamento induttivo, in Rass. Trib., 1989, I, 459. 21 DEOTTO, Nella presunzione sui conti

enunciato nell’art. 3 Cost., considerato che un prelievo ingiustificato effettuato dall’imprenditore può, detratti i costi, integrare una voce di reddito imponibile. In altri termini, i prelievi effettuati dall’imprenditore e non adeguatamente giustificati nelle loro finalità, possono consentire di presumere che siano costi di pari ammontare a loro volta produttivi di ricavi. Nell’interpretazione costituzionalmente orientata, dunque, l’art. 32, comma 1, n. 2, consente di presumere che il prelevamento integri un ricavo non dichiarato, al contempo voce di costo produttiva del medesimo ricavo. La dottrina più attenta, pur mostrando alcune perplessità sulle risultanze della Corte costituzionale, ha ritenuto che la finalità del giudice delle leggi consista nel considerare legittimo il sistema delle presunzioni ogni qual volta il legislatore ordinario consenta la possibilità della prova contraria, fermo restando il limite della “non manifesta arbitrarietà”24. In merito, poi, alla prova liberatoria consistente nella indicazione del soggetto beneficiario del prelievo, alcuni autori, censurati per le difficoltà a cui tale tesi espone il “verificato”, hanno ritenuto necessario quanto meno che il contribuente dimostri che in via effettiva tali somme siano state da questi percepite25. Altri hanno ritenuto necessario, in un’ottica di forte collaborazione con il fisco26, non solo che il contribuente fornisca l’indicazione del soggetto beneficiario, ma che dia unitamente prova dell’assoluta irrilevanza reddituale del prelevamento effettuato. Da ultimo, una tesi di favore verso il contribuente ha sostenuto sufficiente la mera indicazione del

bancari occorre considerare l’incidenza dei relativi costi, in Corr. Trib., 2006, 19, 1463. 22 MARCHESELLI, Presunzioni fondate su accertamenti bancari e difesa del contribuente, in Giur. Trib., 2006, 5, 453 ss. L’autore, in tale sede, opera un sillogismo di indubbio rigore logico: «Il prelevamento dal conto corrente costituisce il prelievo di un ricavo versato su di esso. In realtà, l’art. 32, già consente di recuperare a tassazione il versamento originario, che corrisponde al ricavo. La norma che consente di qualificare come ricavo il prelievo successivo della relativa provvista o è abusiva duplicazione (lo stesso ricavo si presume tassabile due volte) o è inutile». E ancora: «il prelevamento corrisponde ad un costo, a

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sua volta produttivo di ricavo [...]» che nelle risultanze della norma appaiono di pari ammontare con la conseguenza alquanto discutibile che da un costo consegue un ricavo di pari entità, privo del margine di utile. Tra i primi commenti, si veda FRANSONI, La presunzione di ricavi fondata sui prelevamenti bancari nell’interpretazione della Corte costituzionale, cit.; POMELLI, L’accertamento bancario tra principio di uguaglianza e principio di capacità contributiva, in Giur. Trib., 2005, 9, 805. FRANSONI, op. cit, 978. INGRAO, Ancora sull’utilizzo dei prelevamenti negli accertamenti bancari, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 11, 1450. MARCHESELLI, Presunzioni fondate su accertamenti bancari e difesa del contribuente, cit., 454.


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soggetto beneficiario senza che quanto asserito trovi un puntuale riscontro documentale27. La soluzione pragmatica offerta dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna: riflessioni e conclusioni La soluzione offerta dai giudici tributari è volta a chiarire, in un’ottica di semplificazione, l’ambito di operatività dell’ art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973. Secondo uno schema lineare la Commissione di merito individua l’esatta posizione delle parti in causa, delimitando i rispettivi limiti probatori. Nell’ordinamento italiano è immanente il principio espresso dall’art. 2697 c.c secondo il quale «chi vuol far valere un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento» (onus probandi incumbit ei qui dicit, non ei qui negat). Al di fuori delle ipotesi tassative di inversione dell’onere della prova, l’attore deve, dunque, provare il fondamento delle asserzioni e della pretesa avanzate in giudizio. In taluni casi la prova dei fatti posti a sostegno di una pretesa (in sede tributaria il fondamento di un’attività di rettifica o di accertamento) viene facilitata dalle presunzioni (art. 2727 c.c.) ovvero da argomentazioni logiche, disposte ex lege o rimesse al giudice, attraverso le quali è possibile risalire ad un fatto ignoto partendo dalla conoscenza di un fatto noto. Tra le presunzioni c.d. legali, perché la legge stabilisce in modo imperativo le conseguenze che si debbono trarre dalla provata esistenza di determinati fatti, è necessario distinguere le presunzioni relative o iuris tantum e le assolute, iuris et de iure, a seconda che ammettano o meno prova contraria. L’art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973 prevede un sistema di presunzioni legali relative quando consente all’amministrazione procedente sulla base dei risultati di indagini bancarie di considerare i versamenti o i prelievi, annotati ma non contabilizzati, come voci di ricavi o compensi non dichiarati e dunque sottratti alla tassazione ordinaria. La Commissione tributaria di Bologna nella sentenza in commento ha sottolineato, in premessa, che la presunzione può aver luogo solo quando trattasi di prelievi non risultanti da scritture contabili.

27 SCHIAVOLIN, Appunti sulla nuova disciplina delle indagini bancarie, in Riv. Dir. Trib., I, 1992, 40: l’autore afferma che la legge dovrebbe ammettere «che l’indicazione del beneficiario dei prelevamenti non richieda una prova rigorosa e per quelli destinati ad esigenze personali sia sufficiente la parola del contribuente, quando

La regolare annotazione degli stessi esclude in via assoluta il rinvio alla norma de qua. Se, invece, trattasi di prelievi non contabilizzati la presunzione che essi valgano come ricavi o compensi in nero trova automatica applicazione. Ad essa il contribuente può sottrarsi indicando come soggetto beneficiario un parente, un amico o un familiare. La prova liberatoria, così costruita, potrebbe apparire come una soluzione eccessivamente semplicistica, in quanto finirebbe: 1) per vanificare in parte l’efficacia probante del sistema legale delle presunzioni, superabile, come sembra, da parte del contribuente attraverso la mera indicazione del soggetto beneficiario del prelievo; 2) per esporre l’Agenzia delle Entrate ad una probatio diabolica (l’ufficio dovrebbe contestare l’indicazione del beneficiario resa dal contribuente attraverso una prova di falsità della dichiarazione talvolta difficilmente conseguibile); 3) per rimettere al Collegio giudicante un apprezzamento in termini di ragionevolezza e/o congruità del prelievo rispetto all’entità dei redditi sino a quel momento dichiarati dal contribuente (la decisione, in altri termini, sarebbe fondata su una valutazione in fatto alquanto arbitraria e non ancorata a dati oggettivi). In realtà la soluzione offerta dai giudici di merito risulta del tutto conforme ai principi generali previsti in tema di prova. Il sistema vigente, infatti, consente all’amministrazione finanziaria di presumere che prelevamenti non giustificati, eseguiti dall’imprenditore su conti correnti, siano utilizzati per il conseguimento di ricavi di pari ammontare. Tale risultanza è superabile attraverso l’indicazione, da parte del contribuente, del soggetto beneficiario e il sistema probatorio viene ricondotto nell’impianto ordinario secondo il quale chi intende far valere un diritto (in specie alla riscossione di maggiori imposte) deve provarne i fatti che ne costituiscono il fondamento (base imponibile sottratta a legittima tassazione). Nella parte motiva della sentenza, però, il “soggetto beneficiario” che può “liberare” il contribuente dalla presunzione, può essere un parente, un amico, un familiare, escludendosi a priori che

tale utilizzo appaia verosimile». STUFANO, Accertamenti bancari e strumenti di difesa del contribuente, in Corr. Trib., 1994, 34, 2235. L’autore, pur condividendo l’impostazione garantista espressa da altri, ha ritenuto di ribadire l’assoluta possibilità per l’amministrazione finanziaria di poter procedere con mezzi idonei all’ac-

certamento della veridicità di quanto dichiarato dal contribuente. A tale conclusione sono pervenuti anche i rappresentanti della direzione regionale delle entrate del Piemonte e della Guardia di Finanza nella riunione tenutasi a Torino in data 16 aprile 1988.


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possa essere un fornitore, in quanto tale dazione, prestata nell’ambito di un rapporto di tipo commerciale, ragionevolmente potrebbe condurre a ritenere che essa rappresenti il corrispettivo per un acquisto in nero. Viene del tutto sottaciuta l’ipotesi non rara che il professionista effettui un prelevamento in favore di se stesso, anche attraverso un assegno intestato “a me medesimo”, per soddisfare esigenze personali di cui non riesca a dare contezza in sede istruttoria28. In ogni caso la precisazione sulla persona del beneficiario in particolare posizione rispetto al soggetto “sotto controllo”, appare ultra legem, non ritrovandosi nella norma, voluta dal legislatore come regola di ordine generale, alcuna apparente eccezione e non certo nei termini indicati in sentenza. Forse l’impostazione voluta dai giudici e il tentativo di elencare in modo non tassativo ma esemplificativo il “soggetto beneficiario” pare trovare una sua logica nel collegamento tra l’indicazione suddetta e l’enunciazione dei parametri a cui l’organo giudicante deve attenersi nel valutare la ragionevolezza del prelievo contestato rispetto alla posizione reddituale dichiarata. Vengono, infatti, richiamate vicende relative ad una particolare familiarità tra il contribuente e l’accipiens (il numero dei componenti del nucleo familiare, l’età anagrafica, lo stato di salute o altri eventi di natura eccezionale: matrimoni, malattie, decessi, avvio di attività per un figlio maggiorenne). Ma anche questa razionalità di ricostruzione non va esente da critiche. Tanto più che la presunzione dettata ex lege risulta, nell’intento dei giudici, facilmente superabile attraverso l’indicazione di un beneficiario che per i vincoli di familiarità può essere correo della forma di evasione contestata. Di converso l’amministrazione, per conseguire le finalità della propria attività di controllo, risulta onerata della prova della falsità della dichiarazione resa. Il configurarsi in giudizio di posizioni contrapposte (il contribuente con l’indicazione del soggetto beneficiario e l’ufficio impositore con la contestazione della dichiarazione resa) e conflittuali sembra trovare un contemperamento nella valutazione di merito rimessa al Collegio giudicante. Tale soluzione opera come una sorta di correttivo

28 Sul punto si rinvia a: BORRELLI, Le indagini bancarie su esercenti arti e professioni, in Corr. Trib., 2005, 11, 841; SERINO, La controversa questione dei prelevamenti nelle indagini bancarie, in Fisco, 2006, 34, 5262.

alla rigida interpretazione della norma, risolvendosi, però, essa stessa in una presunzione, potenzialmente lesiva della posizione di entrambe le parti in causa senza alcuna garanzia in termini di certezza del diritto. La censura, da ultimo, in merito all’applicazione retroattiva e illegittima della norma, riformulata nel 2004, anche per l’anno 2001, nella vigenza, dunque, del testo ante riforma dell’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, viene agevolmente superata con la natura non sostanziale, ma procedimentale della norma citata. In quanto tale, poiché regola l’esercizio della potestà di controllo in fase istruttoria, non incidendo direttamente sulla determinazione e qualificazione del reddito, può applicarsi retroattivamente anche per annualità pregresse rispetto alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2005). Il ricorrente, infatti, può in ogni caso fornire prova liberatoria anche per mezzo di presunzioni, non potendo lamentare la violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost). L’orientamento giurisprudenziale espresso nella sentenza in disamina ha il pregio di garantire, attraverso un’interpretazione letterale della disciplina delle presunzioni in materia di prelevamenti, una certa tutela della posizione reddituale del contribuente. Con particolare rigore logico, infatti, i giudici di merito, hanno cercato di esaminare la norma in commento, delineandone l’ambito di applicazione (assenza di contabilizzazione del prelievo operato quale presupposto essenziale all’applicazione della norma), la prova liberatoria (indicazione del beneficiario anche nella persona di un congiunto) e il giudizio in termini di ragionevolezza sull’entità della somma prelevata rispetto all’ammontare del reddito dichiarato nell’ipotesi in cui l’amministrazione, a fronte dell’indicazione del beneficiario, insista per la fondatezza della ricostruzione reddituale. In tal modo, in via giudiziale si è cercato di tutelare il contribuente da un sistema di presunzioni utilizzato talvolta secondo automatismi apodittici; di richiamare l’amministrazione procedente all’onere della prova di quanto asserito in sede di accertamento e di rimettere all’autorità giudiziaria la decisone conclusiva adottata su parametri certi e oggettivi.

L’Agenzia delle Entrate nella circolare del 4 agosto 2006, n. 28/E, par. 7, ha avuto modo di precisare che «i contribuenti interessati (art. 19, comma 1, D.P.R. n. 600/1973) possono ritenersi sollevati dall’onere di fornire la prova

di cui all’art. 32, cit. in relazione ai prelievi che, avuto riguardo all’entità del relativo importo e alle normali esigenze personali o familiari possono essere ragionevolmente ricondotte nella gestione extra-professionale».


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Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 18 dicembre 2007, n. 198 Presidente: Zazzetta - Relatore: Papa Accertamento - Imposte sui redditi - Dichiarazione - Allegati - Documentazione delle ritenute d’acconto - Mancata esibizione della certificazione del sostituto d’imposta - Prova con altra documentazione - Ammissibilità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-ter; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 8; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 22; D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 4) La certificazione delle ritenute alla fonte, rilasciata dal sostituto, non costituisce per il sostituito conditio sine qua non per poterle scomputare; pertanto il sostituito può dare dimostrazione del loro prelievo anche mediante altri documenti. Svolgimento del processo Il contribuente ha impugnato con ricorso depositato in data 23 aprile 2007 l’iscrizione a ruolo di imposta, sanzioni e interessi notificato dall’Agenzia delle Entrate di Teramo, recupero basato sulla mancata esibizione, a richiesta dell’ufficio a sensi dell’art. 36-ter, D.P.R. 600/1973, della certificazione del sostituto d’imposta per le ritenute d’acconto subite dal ricorrente nell’esercizio della sua attività di lavoratore autonomo. All’origine della controversia la somma portata dall’atto impugnato era di 15.034,000 euro, nelle more è stata ridotta a seguito di sgravio parziale, poiché l’ufficio eseguendo controlli successivi alla notifica della cartella, si è reso conto di avere iscritto a ruolo illegittimamente ben 11.661,00 euro, per cui la contestazione rimane limitata ad euro 3.373,00. Il ricorrente, con il ricorso de quo contesta quindi il disconoscimento operato dall’ufficio delle residue ritenute d’acconto rimaste a ruolo a causa del mancato possesso della certificazione relativa poiché mai ricevuta da parte del sostituto d’imposta. Ritiene il ricorrente che nessuna responsabilità può essergli addebitata relativamente ad un obbligo che ricade sui sostituti d’imposta, poiché lo stesso ha offerto all’ufficio come prova delle ritenute subite, non solo le fatture emesse e contenenti tutti i dati richiesti, ma anche gli estratti conto bancari dai quali si evinceva come le somme versate a fronte delle fatture dai sostituti fossero al netto delle ritenute subite. Per cui riteneva che il fatto che il sostituto d’imposta non avesse fatto pervenire successivamente la certificazione prescritta, disattendendo così un suo preciso obbligo normativo, non poteva

comportare per il ricorrente una responsabilità solidale di natura passiva che lo vedeva obbligato a pagare una seconda volta l’imposta e per di più con sanzioni e interessi, il tutto anche in considerazione del divieto di doppia imposizione sancito agli artt. 7 e 67, D.P.R. 600/1973. Depositava recentissime sentenze di merito favorevoli alla tesi sostenuta e chiedeva l’annullamento dell’atto impugnato. L’Agenzia delle Entrate di Teramo, costituendosi, ribadiva la correttezza e la legittimità del proprio operato, insistendo in particolare sull’obbligo del contribuente di produrre la documentazione relativa alle ritenute d’acconto subite, supportando tale tesi con richiami giurisprudenziali a sentenze della Corte di Cassazione. Chiariva, quindi, come il mancato adempimento di tale richiesta aveva portato l’Agenzia delle Entrate a procedere a sensi dell’art. 36-ter, D.P.R. 600/1973, con iscrizione a ruolo in danno del contribuente dell’imposta e delle relative sanzioni e interessi di quelle somme oggetto di ritenute non documentate per omissione del sostituto d’imposta, in violazione degli obblighi specifici di cui all’art. 4, D.P.R. 322/1998. Sosteneva infatti che in mancanza di un’apposita certificazione da parte delle società, attestanti l’avvenuto versamento all’erario della ritenuta operata sull’importo corrisposto a titolo di onorari professionali, non autorizzava il contribuente a detrarre dall’imposta la somma corrispondente alla ritenuta subita. Ritenendo irrilevante che il contribuente avesse attraverso altri mezzi provato le ritenute subite, anche perché il ricorrente non risultava incluso nella lista dei sostituti, riportata nelle diverse dichiarazioni provenienti dalla società. Insisteva, quindi, nel rigetto del ricorso. In sede di pubblica udienza il ricorrente ribadiva che le società che non avevano fornito la certificazione erano state tutte dichiarate fallite, come da documenti versati in atti, e insisteva per l’accoglimento della propria domanda. L’Agenzia delle Entrate insisteva per il rigetto, facendo presente che dei circa tremila euro iscritti a ruolo 510 euro comunque non trovavano alcuna giustificazione neppure tra i documenti offerti dalla parte. Motivi della decisione La Commissione, prima di entrare nel merito della questione, ritiene necessario oltre che doveroso tracciare un quadro dottrinale, normativo e giurisprudenziale, il più chiaro possibile, in merito all’istituto della sostituzione d’imposta. Infatti, se normalmente il soggetto passivo del tributo è il sog-


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getto al quale si riferisce il presupposto impositivo e che, di conseguenza, è tenuto all’adempimento dell’obbligazione tributaria, tale sistema subisce alcune deroghe nel rapporto di sostituzione. In tale rapporto il soggetto debitore dell’obbligazione tributaria non coincide con il soggetto a cui va riferito il presupposto impositivo. Infatti, in tale fattispecie, il soggetto erogante il cd. “sostituto” preleva a titolo di rivalsa, sul compenso corrisposto al percettore cd. “sostituito”, la somma che ex lege ha l’obbligo di versare all’erario, e ciò in base al disposto normativo dell’art. 64, D.P.R. 600/1973 che recita: «chi in forza di disposizioni di legge, è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili e anche a titolo di acconto deve effettuare la rivalsa se non è diversamente stabilito in modo espresso». Tale norma deve essere coordinata con l’art. 22 del D.P.R. 917 del 1986 che prevede la possibilità per il sostituito di scomputare dal reddito le ritenute subite alla fonte a titolo di acconto. Di conseguenza un’interpretazione letterale della norma porta ad evidenziare come il presupposto che determina il diritto a scomputare le ritenute subite è dato dalla circostanza che queste siano state operate da parte del sostituto, a prescindere sia dall’esibizione all’erario delle certificazioni attestanti il prelievo tributario sia dall’effettivo versamento da parte del sostituto dello somme trattenute. Tale interpretazione trova conforto anche dalla lettura dell’art. 8, D.P.R. 602/1973 che, invece, disciplina le modalità di versamento delle ritenute operate, prevedendo espressamente che il sostituto debba versare le ritenute operate entro il mese successivo a quello in cui sono state operate. Quindi appare evidente come il termine “operate” di cui al citato art. 22 non implica anche il “versare” espressamente contenuto nel citato art. 8, che è riferito solo al sostituto, ma anzi questi due momenti sono temporalmente distinti e separati e fanno capo a due diversi soggetti, sulla base di due diverse disposizioni normative. Da quanto finora detto è chiaro quindi che la certificazione delle ritenute subite è un onere per il sostituto ma non possono essere considerate per il sostituito la conditio sine qua non per godere dello scomputo in quanto correttamente esse sono uno dei documenti attraverso il quale il sostituito è in grado di provare le ritenute subite. Si osserva infatti che se il legislatore avesse ritenuto tale certificazione essenziale per dimostrare la ritenuta subita, avrebbe dovuto attribuire a tale certificazione natura ad substantiam, non avendolo fatto è evidente che la stessa per la sua natura ha valore ad probationem. Tale interpretazione è supportata da un’ampia giu-

risprudenza che tende a non riconoscere valore sostanziale alla menzionata certificazione (Cass., sent. n. 12991/1999; Cass., sent. n. 8606/1996; Cass., sent. n. 7251/1994; Comm. trib. reg. Lombardia, sent. n. 188/2002; Comm. trib. reg Milano 99/2007; Comm. trib. reg. Ragusa 116/2007), ritenendo legittimamente scomputabili le ritenute subite, anche nel caso in cui non sono in possesso del sostituito le certificazioni di cui all’art. 4 del D.P.R. n. 322 del 1998, poiché la ritenuta subita può esser dimostrata attraverso altri documenti validi a livello fiscale; in tal senso si è espresso anche il Ministero delle Finanze, con la risoluzione n. 8/1034/1977 che seppure lontana nel tempo non è stata oggetto di modifica. La stessa Corte di Cassazione, seppure in una sentenza non recentissima ma certo attuale, aveva ritenuto che «il mancato rilascio della dichiarazione attestante l’avvenuta ritenuta da parte di colui che ha effettuato la ritenuta medesima non può comportare per il contribuente – che ha subito la ritenuta – l’obbligo di pagare nuovamente l’imposta» (Corte di Cassazione, sentenza n. 3725 del 3 luglio 1979). La stessa Commissione tributaria centrale con sentenza n. 1303 del 13 aprile 1995, ha inoltre espressamente affermato che «qualora il contribuente, per fatto omissivo del sostituto d’imposta non è posto in grado di produrre la documentazione necessaria per provare di aver subito le ritenute d’acconto, le somme dovute non possono essere richieste anche allo stesso sostituito, stante il divieto di doppia imposizione posto dagli artt. 7 e 67 del D.P.R. n. 600/1973». Appare evidente, quindi, che l’erario nel momento in cui recupera in capo al sostituito le ritenute effettivamente subite, per mancanza delle certificazioni, viola il principio generale di responsabilità soggettiva che vige in diritto tributario, in base al quale il soggetto deve rispondere personalmente solo delle azioni commesse dolosamente o colposamente, anche se in concorso con altri soggetti, di conseguenza nel modus operandi dell’ufficio si profila di fatto per il sostituito una responsabilità oggettiva per fatto altrui, che mal si concilia con le disposizioni normative fin qui esaminate, poiché le stesse non attribuiscono al sostituito alcun potere di vigilanza o controllo sull’operato del sostituto, men che meno relativamente al rilascio delle certificazioni che devono attestare le ritenute operate. La Commissione ritiene, quindi, che il recupero posto in essere dall’ufficio viola apertamente il dettato normativo dell’art. 23. Cost., nel momento in cui si escute in via solidale un soggetto al di fuori delle ipotesi normative previste. Giacché nel mo-


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mento in cui l’ufficio sostiene che il sostituito ha diritto di rivalsa nei confronti del sostituto, dà un’interpretazione errata non solo del più volte citato art. 64, il quale è l’unico che parla di diritto di rivalsa, ma riferendola unicamente come azione riconosciuta al sostituto nei confronti del sostituito e non anche viceversa, ma anche dell’art. 33 del D.P.R. 602/1973, che prevede la solidarietà tra i due soggetti unicamente quando il sostituto è iscritto nei ruoli per quei redditi sui quali non ha effettuato né le ritenute a titolo d’imposta né i relativi versamenti. Tale errata interpretazione delle norme, quindi, ha portato l’ufficio a ritenere il sostituito responsabile solidale con il sostituto anche in caso di mancata emissione della certificazione da parte del sostituto delle ritenute effettuate, e ciò nonostante non esista nessun vincolo normativo che leghi le disposizioni dell’art. 22 e quelle dell’art. 4, poiché è acclarato che le certificazioni servono solo a dimostrare le somme che il sostituto ha trattenuto e quindi versato all’erario e che a mente del più volte citato art. 4 (ex art. 7-bis, D.P.R. 600/1973) «solo i soggetti che corrispondono somme e valori soggetti a ritenuta alla fonte devono rilasciare apposita certificazione unica entro il mese di febbraio dell’anno successivo a quello in cui gli emolumenti sono corrisposti».

Da quanto sinora detto, attraverso l’esame delle norme interessate appare evidente che non sussista vincolo di solidarietà tra sostituto e sostituito nelle ipotesi in cui questo non abbia ricevuto la certificazione ma che tale obbligo ricada solo sul sostituto e tale conclusione viene rafforzata anche dalla lettura congiunta degli artt. 11, comma 1, lett. a, art. 13 nonché dall’art. 2, comma 2, del D.Lgs. 471/1997, come chiarito anche dalla circolare n. 22/E del 1999, che prevedono una sanzione amministrativa unicamente per il sostituto d’imposta, in tutti i casi di omessa presentazione della dichiarazione, di omessa indicazione in essa di tutti i percepenti o per mancato o tardivo invio della certificazione. Si osserva, da ultimo, come il mancato riconoscimento delle ritenute operate ma non certificate dal sostituto d’imposta darebbe luogo di fatto all’introduzione nel sistema di una vera e propria sanzione impropria che non trova alcun riscontro di carattere normativo. Concludendo, quindi, la Commissione accoglie parzialmente il ricorso poiché ritiene che sulla residua somma iscritta a ruolo effettivamente risultano dovuti solo 510,00 euro, dei quali il contribuente non ha dato prova circa l’effettiva ritenuta subita. Compensa le spese di giudizio stante la parziale soccombenza dello parti.

Nota

trib. I grado Rovereto, dec. 20 gennaio 1984, n. 540, in Boll. Trib., 1985, 1158; Comm trib. II grado Piacenza, sent. 14 ottobre 1989, n. 72, in Boll. Trib., 1990, 1346; Comm. trib. I grado Catanzaro, 5 agosto 1993, n. 232, in Boll. Trib. online; Comm. trib. prov. Milano, sent. 17 novembre 1998, n. 490, in Riv. Giur Trib., 1999, 893; inizialmente la stessa amministrazione finanziaria si era orientata in senso conforme: cfr. ris. 31 ottobre 1977, n. 8/1034, in banca dati Min. Finanze). Di diverso avviso, invece, è l’amministrazione finanziaria che attribuisce alla citata certificazione un valore insostituibile considerato che la documentazione, per così dire sostitutiva, non proviene dal sostituto. I giudici teramani non si sono discostati dall’orientamento giurisprudenziale prevalente e hanno ritenuto ammissibile che il sostituito (un libero professionista che non aveva mai ricevuto la certificazione del compenso professionale dal proprio sostituto, una società fallita) provasse le ritenute subite con le fatture emesse per le prestazioni effettuate e gli estratti del conto bancario professionale dai quali emergeva chiaramente che i compensi erano stati assoggettati a ritenuta. Gli argomenti utilizzati dai giudici teramani si fon-

Ai sensi dell’ art. 4 del D.P.R. n. 322 del 1998 i sostituti d’imposta devono rilasciare la certificazione attestante le ritenute operate e, ai sensi e per gli effetti dell’art. 36-ter del D.P.R. n. 600 del 1973, l’amministrazione finanziaria può «escludere in tutto o in parte lo scomputo delle ritenute d’acconto non risultanti dalle dichiarazioni dei sostituti d’imposta, dalle comunicazioni di cui all’articolo 20, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, o dalle certificazioni richieste ai contribuenti [...]». La giurisprudenza concordemente esclude che la predetta certificazione sia conditio sine qua non per operare lo scomputo delle ritenute subite, ammettendo che la prova della ritenuta subita può essere fornita, ad esempio, con l’esibizione delle ricevute emesse dallo stesso contribuente all’atto del pagamento del compenso, dagli estratti conto del libro delle entrate e delle ritenute o dalla lettera di trasmissione dell’assegno recante il pagamento del compenso, nella quale viene indicato l’ammontare della ritenute operate (in tal senso si v. Comm trib. II grado Treviso, sent. 2 dicembre 1982, n. 1939, in Boll. Trib., 1983, 1278; Comm


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dano essenzialmente sulla lettera della legge: ai sensi dell’art. 22 del Testo unico delle imposte sui redditi, lo scomputo dall’imposta (già al netto delle detrazioni), osservano i giudici, riguarda le ritenute «operate», formulazione questa che prescinde dal corretto assolvimento da parte del sostituto sia dell’obbligo di versamento che dell’altro (meramente interno nei rapporti con il sostituito) di corretta certificazione delle ritenute effettuate. È quindi sufficiente che il sostituito abbia effettivamente subito la decurtazione del proprio compenso perché possa effettuare quella «sorta di compensazione tra il proprio debito d’imposta e il credito corrispondente alla trattenuta subita» che la legge gli consente. Ad ulteriore conferma dell’esattezza dell’assunto proposto viene richiamato l’art. 8 del D.P.R. n. 602 a norma del quale il versamento della ritenuta deve essere effettuato «entro i primi 15 giorni del mese successivo a quello in cui la ritenuta è stata operata»; anche in questo caso dalla lettura della norma emerge in maniera chiara che con il termine «operata» il legislatore intende fare riferimento alla mera decurtazione delle somme corrisposte al sostituito. Del resto, che l’obbligo di certificazione abbia un valore meramente formale lo ha riconosciuto da tempo la stessa Corte di Cassazione che, in un risalente intervento, ebbe a precisare che «il mancato rilascio della dichiarazione attestante l’avvenuta ritenuta da parte di colui che ha effettuato la ritenuta medesima non può comportare per il contri-

buente (che ha subito la ritenuta) l’obbligo di pagare nuovamente l’imposta» (sent. 3 luglio 1979, n. 3725, in Boll. Trib., 1979, 1514, poi confermata in pronunce successive seppure in sede di obiter dicta: cfr. Cass., 2 ottobre 1996, n. 8806; Cass., 23 novembre 1999, n. 12991, tutte in Boll. Trib. online e Cass., 26 agosto 1994, n. 7521, in banca dati Min. Finanze). I giudici di merito teramani, inoltre, osservano che l’escussione del sostituito, oltre a non essere supportata da una responsabilità solidale normativamente prevista avrebbe l’ulteriore effetto di provocare una doppia imposizione: nei rapporti tra sostituto e sostituito la coobbligazione in solido è prevista solo in caso di iscrizione a ruolo del sostituto per l’omessa effettuazione della ritenuta a titolo d’imposta o per il suo mancato versamento. Ne consegue che pretendere dal sostituito una ritenuta non certificata, ma operata, esporrebbe lo stesso al rischio di doppia imposizione allorquando la ritenuta subita (ancorché non certificata) è stata versata. Un ultimo profilo, infine, rafforza il convincimento dei giudici sull’esattezza del ragionamento fin qui svolto: in caso di omesso o tardivo invio della certificazione il legislatore considera responsabile solo il sostituto (artt. 11, comma 1, lett. a e 13 del D.Lgs. n. 472 del 1997) per cui il mancato riconoscimento delle ritenute operate, ma non certificate, darebbe luogo, di fatto, all’introduzione nel sistema di una vera e propria sanzione impropria priva di qualunque fondamento normativo e per ciò solo illegittima.

IL CONTRADDITTORIO ANTICIPATO EX ART. 12 DELLO STATUTO DEL CONTRIBUENTE 63

Commissione tributaria regionale del Molise, sez. I, 24 gennaio 2008, n. 25 Presidente: Evangelista - Relatore: Di Lorenzo Accertamento - Processo verbale di constatazione - Contraddittorio - Termine di 60 giorni per la produzione di memorie - Emissione dell’avviso di accertamento - Inosservanza del termine Nullità dell’avviso di accertamento (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7) L’emissione dell’avviso di accertamento anteriormente allo spirare dei 60 giorni successivi alla notifica del processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza comporta la nullità dell’avviso medesimo in quanto il contribuente ha diritto all’utilizzo dell’intero

spatium deliberandi previsto dalla legge. Svolgimento del processo In data 28 gennaio 2005 R. P., titolare della omonima ditta individuale esercente attività di commercio di macchinari, rappresentato e difeso dall’avv. V.D.A., proponeva ricorso avverso avviso di accertamento n. [...] afferente il periodo d’imposta 1996 notificatogli dall’Agenzia delle Entrate di Isernia che, ai sensi dell’art. 41-bis del D.P.R. 600/1973, accertava un reddito complessivo di lire 85.606.000. Da tale determinazione reddituale scaturiva un de-


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bito d’imposta di lire 27.214.000 per l’Irpef e altre somme afferenti il contributo al Servizio sanitario nazionale e tassa per l’Europa. A ciò veniva aggiunta la somma di lire 20.460.000 riferita a sanzioni. Il difensore, nel predetto ricorso, eccepiva, in punto di diritto, l’illegittimità della pretesa tributaria poiché emessa in contrasto con il disposto di cui all’art. 12, comma 7, della legge 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), essendo stato l’avviso emesso a seguito di verifica fiscale effettuata nei confronti dello stesso contribuente e addirittura prima della compilazione del processo verbale di constatazione. Riferiva, a sostegno, che la pretesa veniva notificata in data 14 dicembre 2004 in chiaro anticipo rispetto al Pvc redatto e notificato il 27 dicembre 2004 dalla Guardia di Finanza. Il processo verbale è atto propedeutico all’accertamento e senza di esso l’amministrazione finanziaria non può esercitare alcun potere impositivo. Per tale ragione l’opposto avviso è tamquam non esset. Nel merito sosteneva l’infondatezza atteso che l’avviso, nel calcolo d’imposta dovuta, non teneva in debito conto le ritenute d’acconto versate dal sostituto d’imposta che, invece, trovano riscontro nell’all. n. 2 del Pvc il quale elencava sia le provvigioni che le relative ritenute operate nei confronti della ditta I.P. S.n.c. a titolo di sostituto d’imposta. Chiedeva, pertanto, il difensore l’annullamento dell’atto perché illegittimo e infondato, il rimborso di tutte le somme corrisposte, a titolo provvisorio, in pendenza di giudizio e la condanna alla rifusione delle spese processuali. Ai sensi dell’art. 47 del D.Lgs. 546/1992, ricorrendo i presupposti di danno grave e irreparabile, produceva, in uno con il ricorso introduttivo, istanza di sospensione di provvisoria esecuzione dell’atto. L’1 marzo 2005, l’ufficio si costituiva in giudizio, ai sensi dell’art. 23 del citato ultimo decreto, mediante deposito di note nelle quali controdeduceva l’infondatezza delle argomentazioni addotte dal ricorrente a sostegno delle proprie tesi difensive incentrate sull’unica circostanza di errore di indicazione della data del Pvc. A tal proposito precisava che la data di compilazione dello stesso Pvc era quella del 27 novembre 2004 e non già del 27 dicembre 2004 ivi indicata per errore materiale effettuato nella digitazione. A sostegno di tale assunto, riferiva che non solo il verbale perveniva in ufficio in data 2 dicembre 2004 ma anche che il Comando dei militi verificatori provvedeva a segnalare e rimarcare l’errore di battitura (vedi allegati).

Quanto al merito dell’avviso, l’ufficio rilevava la sua totale legittimità, nella considerazione che il contribuente, per l’anno contestato, non solo ometteva l’istituzione e la tenuta delle scritture contabili, ma utilizzava per le fatture emesse nei confronti della I.P. S.n.c. un numero di partita Iva già dimessa in data 21 novembre 1994 per fine attività. Ravvisabile, quindi, ipotesi di evasione totale per un ammontare di provvigioni percepite nella misura di lire 100.044.700 (euro 51.668,78) dalla società con la quale intratteneva rapporti di agente. Chiedeva, per gli esposti motivi, rigetto del ricorso e conseguente conferma dell’opposto avviso con condanna alle spese processuali. Il giudizio di primo grado, con sentenza n. 101/1/05 pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Isernia, si concludeva con accoglimento del ricorso in compensazione delle spese. Avverso la stessa, l’ufficio, in data 27 marzo 2006, produceva appello nel quale chiedeva la sua riforma attesa la mancata condivisione circa l’assunto ivi contenuto di perentorietà del termine ex art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente perché destituito di fondamento giuridico. Trattasi, invero, di termine procedurale ordinatorio disposto al solo scopo di stabilire regole comportamentali dell’attività amministrativa e non già di disposizione dal cui mancato rispetto deriva condizione di illegittimità. Quanto al merito del ricorso insisteva sulla bontà dell’accertato del quale chiedeva conferma vertendosi in ipotesi di totale evasione reddituale che sollecitava l’ufficio a materializzare l’attività accertatrice nei tempi più brevi onde evitare possibili rischi sulla successiva riscossione. Concludeva con richiesta di riforma della sentenza, conferma del proprio operato e condanna alle spese. In data 13 aprile 2006, l’appellato, a mezzo del medesimo difensore del primo giudizio, si costituiva in giudizio mediante deposito di note nelle quali chiede il rigetto del gravame e la conferma dell’opposta sentenza. In punto di diritto, eccepiva l’infondatezza delle argomentazioni addotte dall’ufficio a sostegno delle proprie tesi poiché in aperto contrasto con la prassi della stessa Agenzia che, per altre circostanze analoghe provvedeva ad emettere atto di autotutela. Né l’ufficio aveva in qualche modo enunciato i motivi per i quali non aveva tenuto stesso comportamento avuto per atti similari. Le citate sentenze della Corte di Cassazione contemplano ipotesi non riconducibili alla situazione rappresentata.


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Né può essere disconosciuta la “superiorità gerarchica” delle previsioni normative contenute nello Statuto dei diritti del contribuente rispetto alle altre norme dell’ordinamento tributario vigente. La contemplazione di termine ordinatorio privo di qualsiasi sanzione sarebbe in aperto contrasto con la ratio della stessa legge che impone la non frettolosità delle risultanze delle verifiche fiscali. Nel merito, ribadiva la correttezza del proprio operato per essere all’ufficio sfuggito il meccanismo delle somme versate dal sostituto d’imposta. Il difensore, a sostegno delle tesi di parte, provvedeva a depositare copie di giurisprudenza di legittimità e di merito. Presenti entrambi le parti, ciascuna chiede ragione del rispettivo operato. Il difensore del contribuente esibisce giurisprudenza. Motivi della decisione La Commissione tributaria regionale, esaminata l’intera controversia, rigetta l’appello e conferma la sentenza di primo grado. Preliminarmente, va constatato l’errore materiale effettuato dai militi in sede di redazione del Pvc formulato a seguito dell’operata verifica fiscale, errore ribadito da nota prodotta dal Comando di appartenenza degli stessi verificatori. A ciò aggiungasi che l’atto veniva notificato dall’ufficio il 14 dicembre 2004, il che denota ancor più l’errore di compilazione del Pvc datato 27 dicembre 2004. A prescindere, però, da tale riconosciuta anomalia, questo Collegio, ritiene che l’accertamento è illegittimo perché emesso in violazione dell’art. 12, comma 7, della legge 212/2000 e, precisamente, per mancato rispetto dei termini ivi indicati. Il menzionato articolo, in aderenza al “principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente”, riconosce a quest’ultimo la possibilità di comunicare all’organo accertatore osservazioni e richieste, entro sessanta giorni dal rilascio della copia del processo verbale e di chiusura delle operazioni di verifica fiscale, poste al successivo vaglio dell’ufficio impositore prima dell’adozione dell’avviso di accertamento. L’ultimo periodo della norma citata sancisce che «l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo i casi di particolare e motivata urgenza». La ratio della norma è quella di sospendere, in una fase introduttiva del rapporto tributario, l’attività di accertamento per un periodo di sessanta giorni, al fine di consentire al contribuente la rac-

colta di elementi probatori da produrre a sostegno delle proprie ragioni o, nel caso contrario, di riconoscere le proprie mancanze e all’organo accertatore la lettura, in chiave critica, del Pvc redatto dai verificatori e, se del caso, provvedere ad integrare il relativo atto di accertamento in relazione a specifici e ulteriori elementi istruttori forniti dal soggetto verificato valutati autonomamente dall’ufficio. Nel caso in esame, la Commissione rileva che il Pvc della Guardia di Finanza è del 27 novembre 2004 e che l’avviso di accertamento impugnato è stato notificato il 14 dicembre 2004 e, quindi, soltanto diciassette giorni dalla redazione del Pvc di chiusura della verifica. Per quanto innanzi, questa Commissione ritiene che c’è stato il mancato rispetto del termine previsto dall’art. 12, comma 7, della legge 212/2000, che determina la nullità e l’insanabilità dell’avviso di accertamento. Né le ipotesi di ricorrenza, di perentorietà o ordinarietà dei termini possono produrre l’effetto di rendere l’atto legittimo, a ciò ostando il chiaro tenore letterale della norma che testualmente recita «l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine (60 giorni)». Sebbene la stessa norma contempli la salvezza e la motivata esigenza per ipotesi di diverso termine, c’è da rilevare che l’ufficio non fornisce prova del mancato rispetto temporale. Il contribuente, al riguardo, è titolare di un preciso diritto all’utilizzo dell’intero spatium deliberandi concesso dalla legge. Di conseguenza, l’emanazione di atto anteriore allo spirare del termine previsto per contraddire comporta la sua nullità per carenza relativa al potere esercitato. L’amministrazione finanziaria non ha minimamente dimostrato che il contenuto dell’atto e l’esito della procedura non sarebbero mutati in presenza delle rappresentate ragioni del contribuente che avrebbero potuto precludere l’emissione dell’avviso, limitandosi ad esternare preoccupazione quanto alla fase di riscossione. Le suesposte considerazioni devono ritenersi assorbenti, in quanto sanzionano la nullità dell’avviso di accertamento per violazioni del diritto alla difesa del contribuente ed esonerano questa Commissione dal potere-dovere di esaminare le doglianze di merito del ricorrente. Alla nullità dell’avviso di accertamento consegue la nullità di ogni ulteriore atto ad esso conseguente. La specificità della questione trattata induce alla compensazione delle spese processuali.


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Nota di Vincenzo D’Agostino La sentenza valorizza l’importante disposizione dello Statuto dei diritti del contribuente che introduce nell’ordinamento tributario il contraddittorio anticipato. La Commissione tributaria regionale del Molise ha infatti statuito che durante i 60 giorni previsti dalla norma il contribuente è titolare di un preciso diritto all’utilizzo dell’intero spatium deliberandi concesso dalla legge e che l’amministrazione finanziaria, in quella fase, si trova in stato di carenza di potere che comporta, quale conseguenza, la nullità degli atti. La concreta fattispecie La decisione in commento muove da un avviso di accertamento notificato ad una ditta individuale esercente attività di commercio di macchinari, avente ad oggetto una determinazione reddituale ex art. 41-bis, D.P.R. n. 600/1973 dalla quale scaturiva un debito di imposta di lire 27.214.000 a cui si aggiungevano lire 20.460.000 di interessi e sanzioni. Detta pretesa erariale veniva notificata in data 14 dicembre 2004, ossia 17 giorni dopo la chiusura delle operazioni di verifica da parte della Guardia di Finanza. Il contribuente ricorre avverso detto avviso di accertamento eccependo, tra l’altro, la violazione dell’art. 12, comma 7, dello Statuto dei diritti del contribuente. La Commissione tributaria provinciale di Isernia sentenzia accogliendo le ragioni dell’attore e dunque ritenendo nullo l’avviso di accertamento emesso dall’a.f. prima dello spirare dei 60 giorni previsti dal legislatore dello Statuto. Avverso tale pronuncia proponeva appello l’a.f. La Commissione tributaria regionale del Molise, investita della questione, decide per la conferma della sentenza di primo grado, affermando esplicitamente che «la ratio della norma (art. 12, comma 7, legge n. 212/2000) è quella di sospendere, in una fase introduttiva del rapporto tributario l’attività di accertamento per un periodo di 60 giorni, al fine di consentire al contribuente la raccolta di elementi probatori da produrre a sostegno delle proprie ragioni o, nel caso contrario, di riconoscere le proprie mancanze e all’organo accertatore la lettura, in chiave critica, del processo verbale di constatazione redatto dai verificatori e,

1 Sullo Statuto dei diritti del contribuente v. ad es.: MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino,

se del caso, provvedere ad integrare il relativo atto di accertamento in relazione a specifici e ulteriori elementi istruttori forniti dal soggetto verificato valutati autonomamente dall’ufficio. Il contribuente, al riguardo, è titolare di un preciso diritto all’utilizzo dell’intero spatium deliberandi concesso dalla legge. Di conseguenza, l’emanazione di atto anteriore allo spirare del termine previsto per contraddire, comporta la sua nullità per carenza relativa al potere esercitato». Avverso le ragioni apposte dall’ufficio in merito alla mancata condivisione circa l’assunto – contenuto nella sentenza di primo grado – della perentorietà del termine ex art. 12, comma 7, L. n. 212/2000 in quanto qualificabile come termine procedurale disposto al solo scopo di stabilire regole procedimentali dell’attività amministrativa, i giudici regionali obiettano che «né le ipotesi di ricorrenza di perentorietà o ordinarietà dei termini possono produrre l’effetto di rendere l’atto legittimo, a ciò ostando il chiaro tenore letterale della norma che testualmente recita: l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine (60 giorni). Sebbene la stessa norma contempli la salvezza e la motivata esigenza per ipotesi di diverso termine, c’è da rilevare che l’ufficio non fornisce prova del mancato rispetto temporale». Ancora, i giudici di seconde cure sanciscono che «l’amministrazione finanziaria non ha minimamente dimostrato che il contenuto dell’atto e l’esito della procedura non sarebbero mutati in presenza delle rappresentate ragioni del contribuente che avrebbero potuto precludere l’emissione dell’avviso di accertamento, limitandosi ad esternare preoccupazione quanto alla fase di riscossione». Lo spatium deliberandi Il comma 7 è collocato nel corpo di un articolo dello Statuto1 rubricato “Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”. E infatti la norma sembra aver introdotto nel nostro ordinamento giuridico un nuovo istituto, pensato e creato per realizzare una tutela effettiva delle ragioni del soggetto debole del rapporto di imposta, ossia il contribuente. Il legislatore del 2000 ha infatti previsto un periodo di chiara sospensione del potere impositivo dell’a.f., per permettere la realizzazione di una

2008; FANTOZZI-FEDELE, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Milano, 2005; DEL FEDERICO, Statuto del con-

tribuente, illecito tributario e violazioni formali, in Rass. Trib., 2003, 855.


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nuova forma di contraddittorio – necessario e anticipato – inserito nella fase squisitamente istruttoria del procedimento di accertamento. Tale cristallizzazione va letta in assoluta coordinazione con il principio – anch’esso statutario – di collaborazione e buona fede2 tra amministrazione finanziaria e contribuente (art. 10) e con il principio di cooperazione tra le parti del rapporto di imposta. La ratio dell’istituto e dunque duplice: in primis garantire al contribuente il diritto di far valere la propria verità rispetto alle congetture, non sempre realistiche e molto spesso pretestuose, con cui si chiudono le operazioni di verifica; in secondo luogo far gravare sull’ufficio il compito ben preciso di esercitare una reale funzione impositiva, valutando attentamente la veridicità e l’attendibilità tanto dei dati raccolti in sede di verifica fiscale3 quanto delle controdeduzioni del contribuente, prima di svilire completamente il senso del proprio potere impositivo attraverso l’emissione di avvisi di accertamento fotocopia4 del processo verbale di constatazione5. È evidente che tali obiettivi di buona gestione del potere impositivo si ottengono proprio attraverso

2 V. per tutti GRASSI, I reiterati interventi del giudice di legittimità sulla tematica concernente lo Statuto dei diritti del contribuente, con particolare riguardo al principio dell’affidamento, in Fisco, 2005, 4943. 3 Sull’argomento v. VIOTTO, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002; UCKMAR-TUNDO, Codice delle ispezioni e verifiche tributarie, Piacenza, 2005; MAGISTRO, Controlli e verifiche nelle istruzioni della Guardia di Finanza, in Corr. Trib., 2000, 2597. 4 In merito v.: VANZ, Motivazione dell’avviso di accertamento per relationem a verbale di constatazione della polizia tributaria. Necessità di preventivo “vaglio critico” da parte dell’ufficio impositore, in Rass. Trib., 1999, 1783; VOGLINO, Brevi notazioni sull’inderogabile dovere degli uffici finanziari di valutare criticamente ed autonomamente gli elementi posti a fondamento della pretesa impositiva, in Boll. Trib., 1996, 235. Anche la giurisprudenza più recente si è pronunciata sul punto. Tra le altre v. le sentenze della Commissione tributaria provinciale di Cosenza, sez. I, 13 maggio 2005, n. 92, in Boll. Trib., 2007, 214 e della Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. I, 5 gennaio 2006, n. 216, in Boll. Trib., 2007, 216, con

la cristallizzazione, per 60 giorni, dell’esercizio del potere di accertamento a partire dal momento di chiusura delle operazioni di verifica. Tale lasso di tempo, destinato ad una ponderata e meditata valutazione di tutti i fattori inerenti la pretesa tributaria, permette la piena esplicazione dei principi sanciti dalla nostra carta costituzionale. Il chiaro dettato della norma Il comma 7 dell’art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente6 sancisce che: «Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza». In realtà lo stesso art. 1 dello Statuto prevede che le disposizioni in esso contenute «costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espres-

commento di VOGLINO, le quali precisano come – ammessa la motivazione per relationem – l’ufficio debba agire in modo da non ricorrervi in maniera indiscriminata e soprattutto rinunciando al potere di valutazione autonoma degli elementi su cui si fonda la pretesa impositiva, considerato che solo l’a.f. ha la titolarità del potere di accertamento del quale non può spogliarsi acriticamente. I giudici affermano, inoltre, che non è ammissibile che l’ufficio finanziario si limiti a recepire il Pvc nell’avviso di accertamento mediante una motivazione meramente recettizia indipendentemente dal necessario esame preliminare e dalla valutazione critica delle risultanze di carattere istruttorio dello stesso verbale. Pertanto qualora l’a.f. nel redigere l’avviso di accertamento faccia pedissequamente riferimento per la sua motivazione alle mere risultanze del Pvc l’avviso stesso è illegittimo a doppio titolo, sia per difetto di motivazione, perché fotocopia di un atto diverso, e sia per difetto di competenza funzionale, poiché solo l’ufficio è abilitato a valutare l’an e il quantum debeatur del contribuente. 5 FERLAZZO NATOLI-ROMEO, La rilevanza del processo verbale di constatazione nel procedimento di accertamento tributa-

rio, Messina, 2001; STEVANATO, Il ruolo del processo verbale di constatazione nel procedimento accertativo dei tributi, in Rass. Trib., 1990, 472. 6 Sul tema v. RENDA, L’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente e l’auspicata cristallizzazione del principio del contraddittorio anticipato, in questa rivista, 2007, 2, 234, che sostiene chiaramente che il mancato rispetto del termine per l’esercizio del potere di accertamento può comportare una rinuncia alla tutela del principio del contraddittorio anticipato, che pare ormai improntare anche l’ordinamento tributario. Sull’argomento hanno scritto anche, tra gli altri, BUSCEMA, La tutela effettiva dell’art. 12, in Fisco, 2002, 1465; NANULA, Le osservazioni e richieste del contribuente dopo la chiusura della verifica fiscale, in Fisco, 2004, 1401; PALAZZOLO, Statuto del contribuente: il comportamento dei verificatori fiscali (osservazioni, rilievi e richieste del contribuente), in Fisco, 2001, 1254; CAPOLUPO, Verifica e deduzioni del contribuente, in Fisco, 2007, 5410; THIONE, Considerazioni generali in ordine alla legittimità del cd. “accertamento anticipato”, in Fisco, 2008, 247; CERANIA, Osservazioni difensive ai Pvc (art. 12, comma 7, L. n. 212/2000). Quale funzione per il termine di 60 giorni?, in Dialoghi Dir. Trib., 2004, 53155.


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samente»; anche la Corte di Cassazione7 si è espressa a proposito, ribadendo che le disposizioni della legge n. 212 del 2000 rappresentano i principi generali dell’ordinamento tributario, affermando che lo stesso legislatore ha manifestato esplicitamente l’intenzione di dare ai principi espressi nelle disposizioni dello Statuto una rilevanza del tutto particolare nell’ambito della legislazione tributaria e una superiorità sistematica rispetto ad altre disposizioni vigenti in materia. Alla luce di tali principi appare lampante che la statuizione contenuta nel settimo comma dell’art. 12 dello Statuto non ammette altra possibile interpretazione, se non quella che si desume dalla sua lettura. E siccome tale norma prevede che «l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine», se ne deduce, a contrario, che l’atto emesso prima di 60 giorni non poteva essere emesso, rectius non può avere riconoscimento giuridico perché contrario ai principi informatori dell’ordinamento tributario. Logica conseguenza è che l’atto emanato in maniera viziata rispetto al dettato della norma di cui sopra deve essere annullato dal giudice tributario8 perché invalido.

7 Cass., sez. trib., 10 dicembre 2002, n. 17576, in Boll. Trib., 2003, 777 e 14 aprile 2004, n. 7080, in Boll. Trib., 2004, 1340. 8 Una delle prime pronunce sul tema è stata fornita dalla Commissione tributaria provinciale di Ragusa, sez. II, 25 gennaio 2002, n. 426, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, che ha sanzionato l’operato dell’amministrazione finanziaria per aver completamente ignorato le osservazioni prodotte dal contribuente ai sensi dell’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente. Particolarmente incisiva sull’importanza del dato letterale delle norma e sulla sua perentorietà è stata la pronuncia resa dalla Commissione tributaria provinciale di Udine, sez.I, 18 ottobre 2005, n. 41 in Boll. Trib., 2007, 814, con la quale i giudici friulani hanno ritenuto che: «la statuizione contenuta nel settimo comma dell’art 12 dello Statuto del contribuente – secondo cui l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine – non consente altra possibile interpretazione, se non quella dell’invalidità dell’atto impositivo emanato in violazione di quel

L’eccezione alla regola Se la cristallizzazione del potere dell’a.f. per almeno 60 giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica rappresenta la regola, la possibilità di emettere l’atto anticipatamente rappresenta l’eccezione. Il prudente legislatore dello Statuto, infatti, ha acutamente tenuto in considerazione la possibilità per l’a.f. di trovarsi di fronte a fattispecie particolari, bisognevoli di un’eccezionale velocità dell’agere amministrativo. E così la parte finale del comma 7 dell’art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente prevede che «L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza». È chiaro che tale periodo deve essere riempito di contenuto9. Un primo dubbio è stato se tra i casi di particolare e motivata urgenza andasse o meno ricompreso quello concernente il periodo di decadenza di cui all’art. 43 del D.P.R. 600/1973 per le imposte sui redditi e all’art. 57, D.P.R. 633/1972 in materia di Iva e tutti gli altri periodi di decadenza stabiliti da altre singole leggi di imposta. Sul punto dottrina e giurisprudenza10 hanno vivacemente argomentato.

termine. La mancanza di un’esplicita sanzione di nullità non è rilevante perché il legislatore ha usato comunque una espressione perentoria (non può essere emanato) che non potrebbe essere vanificata dall’interprete ipotizzando la piena validità dell’atto che non poteva essere emanato». Contra vedi la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. X, 20 novembre 2006, n. 181, in banca dati fisconline, la quale ha affermato che non è nullo l’avviso di accertamento emesso prima della decorrenza dei 60 giorni dal rilascio del Pvc. La Commissione rileva «l’erronea interpretazione della norma contenuta nell’art. 12, comma 7, L. 212/2000 atteso che la legge non stabilisce affatto una sanzione di illegittimità per l’atto impositivo che sia emanato prima della scadenza del termine dei 60 giorni dal rilascio del Pvc di chiusura delle operazioni di verifica. La legge, infatti, non prevede alcuna sanzione se l’avviso viene trasmesso prima, né la nullità dell’avviso stesso». Tale orientamento è, tuttavia, sconfutato dalla Corte di Cassazione, sez. trib, che con sentenza 30 gennaio 2004, n. 1771, in banca da-

ti I quattro codici della riforma tributaria Big, ha espressamente sancito che quando un termine è posto a tutela del diritto di difesa del contribuente non è necessaria un’espressa previsione di nullità. 9 MICELI, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria, in Statuto dei diritti del contribuante, a cura di Fantozzi-Fedele, Milano, 2005, 692 ss., in cui si sostiene che «l’urgenza indica una situazione in cui la verificazione di fatti mutevoli e contingenti rende necessario un immediato e pronto intervento, altrimenti l’esercizio della funzione sarebbe vano e gli interessi coinvolti subirebbero un danno irreparabile. Non si deve trattare di un’urgenza qualsiasi ma di una particolare urgenza, che renda giustificata la compressione del diritto alla partecipazione, in nome del buon andamento dell’azione amministrativa. Tale situazione si riscontra nella sopravvenienza imprevista di oggettivi impedimenti, non prevedibili ed eccezionali, che rendano impossibile, pericoloso o inutile procedere a porre in atto la partecipazione al procedimento». 10 Sul punto, per un esame della dottrina si veda, tra gli altri, CAPOLUPO,


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Appare condivisibile l’opinione di chi ritiene che lo spirare del termine di decadenza non possa avere effetti in punto di cristallizzazione del potere di accertamento dell’amministrazione finanziaria per almeno 60 giorni. Ciò perché non appare corretto che la tempistica degli uffici finanziari, patologicamente male organizzata, possa pregiudicare il diritto del contribuente di partecipare all’accertamento. Tutto ciò in considerazione del principio di collaborazione, partecipazione e buona fede11, che deve informare i rapporti tra contribuente e fisco. Tali principi sono evidentemente violati da una cattiva pianificazione dei tempi di intervento dell’amministrazione finanziaria. D’altronde la stessa a.f. conosce bene i tempi di decadenza che gravano sugli atti da essa emessi e dunque deve – e può – programmare di conseguenza la propria azione. Una condivisibile ipotesi di particolare e motivata urgenza si potrebbe ravvisare in caso di fondato pericolo per la riscossione delle imposte accertate sulla base di risultanze di verifiche fiscali.

Verifiche e deduzioni del contribuente, in Fisco, 2007, 5410; MICELI, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria, in Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Fantozzi-Fedele, Milano, 2005, il quale richiama tra l’altro la giurisprudenza del Consiglio di Stato evidenziando come l’urgenza non possa «dipendere dal tipo di provvedimento posto in essere né tanto meno da circostanze imputabili al comportamento della p.a. dalle quali sia derivata la necessità di adottare il provvedimento tempestivamente». Contra MAGISTRO, Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, in Corr. Trib., 2000, 2457, il quale sostiene che le specifiche ragioni di «particolare e motivata urgenza» si hanno «in sostanza, qualora stia decorrendo il termine di decadenza dell’accertamento». Nello stesso senso SCREPANTI, Le richieste e le osservazioni del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, in Lo Statuto dei diritti del contribuente a cura di Carbone-Screpanti, Roma-Milano, 2000, il quale sostiene che nei casi di motivata e particolare urgenza «appare difficile non ritenere comprese le ipotesi di imminente perfezionamento dei richiamati termini di decadenza dell’azione accertatrice». Per quanto riguarda la giurisprudenza, degne di nota sono le sen-

A tal proposito come è stato sempre sostenuto da autorevole dottrina12 e dalla stessa giurisprudenza13, si precisa che il fondato pericolo per la riscossione sussiste anche nell’ipotesi di procedure fallimentari. In ogni caso, partendo da un’ottica ben precisa, e cioè dalla necessità di coordinare la portata della norma con i principi dell’intero Statuto del contribuente e della stessa Carta costituzionale, appare evidente come non possano essere operate generalizzazioni, ma sia più prudente e giuridicamente corretto valutare la singola fattispecie e cogliere in essa l’eventuale esistenza di cause di giustificazioni14 idonee a colmare di contenuto la previsione di cui all’art. 12, ultimo periodo. L’onere della prova Premessa dunque la necessità di una valutazione caso per caso circa l’esistenza di giustificate ragioni di urgenza, va detto che il parametro per compiere questa valutazione è dato dalla motivazione del provvedimento finale, che naturalmente in ambito tributario è l’avviso di accertamento o di rettifica della dichiarazione.

tenze della Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. I, 9 marzo 2005, n. 14, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, la quale ha sostenuto che la scadenza «del termine decadenziale per la notifica dell’avviso di accertamento non esonerava l’ufficio dall’osservanza della norma ut supra dappoiché l’inerzia degli organi amministrativi non può inficiare il diritto del contribuente. Ne consegue che l’atto è nullo». Ancora prima la stessa posizione era stata assunta dalla Commissione tributaria provinciale di Brescia, sez. IV, 7 marzo 2002, n. 12, in banca dati fisconline, la quale ha affermato l’illegittimità di un accertamento in violazione dell’art. 12, comma 7, L. 212/2000 perché notificato 32 giorni dalla notifica del Pvc, precisando come «il divieto di frettolose notifiche imposto dal comma 7 dell’art. 12, L. 212/2000 impone agli uffici erariali ed alla Guardia di Finanza una nuova tempistica e quindi una nuova organizzazione del lavoro nell’attività di verifica, di verbalizzazione, di istruttoria e di notifica degli accertamenti [...] i termini di decadenza dell’accertamento non legittimano la violazione di una norma che, in aggiunta, ha il pregio di evitare, nei casi di specie, la corsa degli uffici accertato-

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ri alle notifiche negli ultimi giorni del mese di dicembre dell’anno di decadenza». Cfr. LOGOZZO, La tutela dell’affidamento e della buona fede del contribuente tra prospettiva comunitaria e nuova codificazione, in Boll. Trib., 2003, 1125; MASTROIACOVO, Efficacia dei principi dello statuto e affidamento del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2003, II. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2006; CAPOLUPO, Verifica e deduzioni del contribuente, in Fisco, 2007, 5410. V. ad es. Comm. trib. centr., sez. IX, 12 marzo 1991, n. 96, in Boll. Trib., 1992, 1377. MICELI, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria, in Statuto dei diritti del contribuante, a cura di Fantozzi-Fedele, Milano, 2005, in cui si sostiene che: «L’urgenza deve quindi attenere alla situazione concreta ed essere vagliata non astrattamente ma in relazione agli elementi del caso. L’urgenza non può dipendere dal tipo di provvedimento posto in essere né tantomeno da circostanze imputabili al comportamento della p.a. dalle quali sia derivata la necessita di adottare il provvedimento tempestivamente, in quanto fattispecie non eccezionali e comunque prevedibili».


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Se la derogabilità dell’art. 12, comma 7, legge n. 212/2000 è prevista, essa per poter essere considerata legittima deve non solo corrispondere ad esigenze straordinarie dell’amministrazione finanziaria, ma deve anche accuratamente e dettagliatamente essere esplicitata e motivava nel provvedimento di accertamento, in maniera che proprio la straordinarietà della fattispecie sia evidente e palese all’occhio del contribuente e del giudice tributario. La stessa dottrina15 ritiene che il punto nevralgico per la valutazione dell’esistenza delle ragioni di urgenza non stia soltanto nell’esistenza stessa delle ragioni, ma anche, e prima ancora, nell’esistenza di un’adeguata motivazione, idonea a dimostrare che la circostanza sia giuridicamente giustificata. Questo significa personalizzazione della motivazione stessa, chiarezza espositiva, precisione nell’individuazione delle singole cause giustificatrici. A tal proposito la stessa giurisprudenza16 è intervenuta a statuire l’illegittimità dell’avviso di accertamento – per mancato rispetto dei 60 giorni – in quanto ha ritenuto che la situazione di urgenza non fosse stata specificamente e congruamente motivata, non essendo a tal fine sufficiente il ricorso a mere formule stereotipate. In effetti l’art. 12 si pone come norma attuativa dell’art. 97 della Costituzione, dunque la sua ingiustificata violazione – anche sotto il punto di vista dell’esistenza di giustificate ragioni di urgenza – deve essere sempre letta sotto il profilo dell’eventuale lesione dei principi di imparzialità e buon andamento.

15 CAPOLUPO, Verifica e deduzioni del contribuente, in Fisco, 2007, 5410. 16 Cfr. Comm. trib. prov. Cosenza, 5 gennaio 2006, n. 158, in Boll. Trib., 2006, 1054. In tal senso si è espressa anche la sentenza della Comm. trib. prov. Viterbo, sez. I, 8 maggio 2006, n. 141, in Fisco, 2006, 4719. I giudici laziali hanno affermato che la deroga può avvenire: «solo dietro motivi di particolare urgenza che nel presente caso non sono stati esplicitati e quindi in loro assenza gli accertamenti sono da considerarsi illegittimi».

Evidente sarà allora il compito del giudice, a cui sarà rimesso l’onere di valutare accuratamente, alla luce dell’art. 12, dell’intero Statuto e dei principi costituzionali – in primis quello dettato dall’art. 97 – dapprima l’esistenza di un’adeguata motivazione delle ragioni di urgenza e poi la straordinarietà e veridicità delle stesse. Conclusioni La sentenza in commento si inserisce in un filone giurisprudenziale che attribuisce valore e importanza preminente alle disposizioni contenute nello Statuto dei diritti del contribuente. La procedimentalizzazione dell’accertamento tributario, tardiva ma necessaria, ha riscritto i rapporti tra contribuente e fisco17, garantendo al primo precisi spazi di partecipazione e al secondo l’obbligo di ascoltare e valutare. I giudici molisani si sono fatti dunque perfetti esecutori dei principi statutari e costituzionali, riconoscendo al contribuente un diritto di cui era stato privato. La pregevolezza della sentenza si coglie soprattutto nella precisa e ineccepibile motivazione che evidenzia tutta l’importanza che il contraddittorio anticipato ha nella fase di accertamento tributario. A tal proposito si sottolinea che gli stessi giudici della Suprema Corte di Cassazione18 hanno, seppur indirettamente, toccato la questione e sancito l’importanza e la necessità della fase del contraddittorio anticipato ai fini della realizzazione del giusto procedimento.

17 Allo stesso modo la legge 241/1990, che ha procedimentalizzato l’agere amministrativo, ha riscritto i rapporti tra cittadino e p.a. 18 Cass., sez. trib., 28 luglio 2006, n. 17229, in Dir. e Prat. Trib., 2007, IV, 793 ss. con commento di chi scrive, L’insufficienza degli studi di settore a realizzare l’accertamento di un rapporto giuridico tributario e l’importanza del contraddittorio anticipato ex art. 12, 7° comma, L. 212 del 2000. In particolare la Suprema Corte, affrontando una questione relativa all’applicabilità degli studi di settore ex art. 62-

bis, D.L. 331/1993, ha statuito che gli stessi «non sono sufficienti a realizzare l’accertamento di un rapporto giuridico tributario. Infatti perché si pervenga a tale risultato, occorre il completamento dell’attività istruttoria amministrativa, nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, consentendo al contribuente che voglia vincere la presunzione posta dagli studi di settore, ai sensi dell’art. 12, comma 7, L. 212/2000, di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di adire il giudice tributario».


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Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXI, 25 gennaio 2008, n. 6 Presidente: Davigo - Relatore: Chiametti Accertamento - Controlli bancari - Poteri degli uffici - Conti bancari del contribuente - Presunzione di imputazione degli elementi risultanti come ricavi - Prova contraria - Falsità delle firme apposte sui documenti bancari - Disconoscimento di sottoscrizione - Querela di falso - Necessità - Perizia di parte - Insufficienza (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 32 e 39) Qualora il contribuente, per vincere la presunzione secondo cui ai dati raccolti in sede di accesso ai conti bancari corrispondono ricavi non dichiarati, asserisca la falsità delle firme apposte sui documenti bancari, è necessario il vittorioso esperimento della querela di falso, non essendo sufficiente una perizia calligrafica di parte. Con ricorso depositato il 16 maggio 2007, a seguito di istanza di accertamento con adesione chiusasi negativamente, parte attorea chiedeva l’annullamento dell’avviso di accertamento n. [...] emesso dall’Agenzia delle Entrate - ufficio di [...], concernente Iva, Irpef, Irap e addizionale regionale all’Irpef per l’anno di imposta 1999, pari ad euro 104.988,14 notificato il 20 dicembre 2006. L’avviso di accertamento de quo veniva emesso a seguito di processo verbale redatto dai funzionari dell’a.f. che, in data 31 luglio 2004, effettuavano un accesso presso l’abitazione del ricorrente al fine di verificare la corretta tenuta della contabilità relativa alla società ove il medesimo ricorrente era titolare. L’accesso operato dai funzionari dell’a.f. non consentiva il recupero di alcuna documentazione contabile concernente la ditta individuale riconducibile all’ attuale ricorrente, denominata [...]. In tale sede parte attorea asseriva di essere stato solo formalmente intestatario della ditta che, invece, era sin dall’ inizio amministrata e gestita dal suo ex datore di lavoro, tale [...]. Parte ricorrente, visionando la documentazione bancaria nel frattempo reperita, disconosceva le firme sulle stesse apposte, ritenendole apocrife. Il ricorrente produceva referto di indagine tecnica in materia grafica redatta da consulente di parte che confermava la discrepanza tra la grafia del ricorrente e le sottoscrizioni apposte sulla documentazione bancaria. L’ufficio si costituiva in giudizio in data 17 luglio 2007 sostenendo che la competenza del giudice tributario atteneva esclusivamente alle operazioni commerciali che avevano rilevanza fiscale e tributaria, non essendo di interesse qualsiasi valutazione inerente il comportamento tenuto da parte at-

torea e tanto meno le successive motivazioni che sottendono allo stesso qualora egli non fosse in grado di giustificare. L’ufficio analizzava le movimentazioni intervenute su n. 2 conti correnti intestati al ricorrente, affermando che su alcune operazioni parte attorea non forniva idonea giustificazione. In relazione alla perizia grafica depositata, l’ufficio ne lamentava l’attendibilità in quanto prodotta dalla stessa parte coinvolta nel presente procedimento, l’Agenzia delle Entrate proseguiva asserendo che la stessa perizia non costituiva prova legale nell’ambito del processo tributario. L’ufficio ribadiva che il ricorrente al fine di ottenere la dichiarazione della falsità dell’atto doveva proporre querela di falso. L’ufficio confermava la bontà del proprio operato con vittoria di spese e onorari. All’udienza sono presenti le parti che hanno insistito nelle proprie richieste ed eccezioni. Il ricorso viene respinto alla stregua delle seguenti argomentazioni e motivazioni. La difesa ha giustificato il tutto sostenendo quanto segue: «Il ricorrente si era prestato alla carica di “prestanome”. Questo si svolgeva all’età di soli 25 anni, in qualità di operaio/elettricista per la [...], società di cui il [...] socio e, quest’ultimo, avvalendosi del ruolo e dell’autorità di “datore di lavoro” chiese e ottenne dal [...] (ora ricorrente) di poter aprire una ditta a nome di quest’ultimo, assicurandogli che non avrebbe dovuto fare nulla e che tutto sarebbe stato svolto legalmente ed in ossequio delle norme vigenti». Per il Collegio giudicante è sufficiente soffermarsi sull’esame di tali affermazioni, pregnanti di significato, che mettono in condizioni di capire che il ricorrente si era prestato alla carica di “prestanome” con tutte le conseguenze del caso, tenuto conto anche del tipo di attività svolta della ditta [...] che verteva nel commercio di autoveicoli, con affari che interessavano anche i Paesi intracomunitari. I sospetti concernenti la figura di “interposto” per conto di altri, che subito hanno avuto i funzionari che hanno espletato le prime indagini e controlli fiscali, a giudizio del Collegio sono diventati realtà. La non tenuta di contabilità (registri, fatture e quant’altro di fiscale) presso il proprio domicilio o residenza, sono la prova tangibile della noncuranza della tenuta dell’azienda, di cui il ricorrente era titolare. Bene ha fatto l’ufficio, a tale punto, a estendere le indagini anche di tipo bancario, la cui movimentazione (sia in entrata che in uscita) ha fatto scaturire l’accertamento fiscale ai sensi dell’art. 39,


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D.P.R. 600/1973 e dell’art. 51, D.P.R. 633/1972 per l’anno 1999. Trovandosi in una situazione come quella descritta non rimaneva ai funzionari dell’amministrazione finanziaria che agire nel modo in cui hanno agito. Dalla movimentazione bancaria risulta a “chiare lettere” che [...] non era un mero prestanome del [...], influenzabile da quest’ultimo per via della posizione di dipendente (della società [...], di cui il [...] era socio) e della sua giovane età, ma era parte attiva delle operazioni commerciali realizzate, tant’è che era titolare della ditta individuale. Poiché la competenza del giudice tributario attiene esclusivamente le operazioni commerciali che hanno avuto rilevanza fiscale, al Collegio giudicante non rimane che prendere atto dei fatti così come si sono verificati, e giudicare su di essi, in campo fiscale. Non importa l’età giovanile del ricorrente, tantomeno l’inesperienza e la posizione di dipendente facilmente influenzabile dal ruolo e dall’autorità del datore di lavoro e, quindi, sgomberato il campo da tali aspetti (anche di tipo psicologico) la controversia si limita alle movimentazioni bancarie. Queste ultime non essendo state giustificate dal ricorrente, fanno ragionevolmente concludere che lo stesso ha esercitato un’attività d’impresa a tutti gli effetti rilevante ai fini fiscali. Le giustificazioni e le argomentazioni (vale a dire firme apocrife, chiusura e apertura di attività ai fini Iva) non trovano conferma in un contesto co-

sì generale come quello sopra descritto. La falsità delle firme apposte sui documenti bancari e su altri, avrebbero dovuto spingere il ricorrente a difendere la propria personale posizione, sporgendo querela di falso, cosa che non è stata fatta. Cosa diversa sarebbe stata quella di avere avuto una sentenza di falso, emessa dal Tribunale, piuttosto di una semplice perizia calligrafa di parte. Ai sensi dell’art. 32, D.P.R. 600/1973 si ha l’inversione dell’onere della prova; vale a dire che il contribuente avrebbe dovuto documentare, per filo e per segno, tutte le movimentazioni bancarie che apparivano sui conti dei due istituti bancari. L’operato dell’ufficio è corretto in quanto i versamenti e i prelevamenti sui conti sono considerati elementi reddituali rilevanti ai fini della tassazione. Tutto questo è in sintonia con l’orientamento della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 3115/2006, si è espressa, statuendo che: «Ai sensi degli artt. 32 e 39, D.P.R. 600/1973 i dati raccolti dall’ufficio in sede di accesso ai conti bancari di un contribuente consentono, in virtù della presunzione contenuta in detta normativa, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività svolta dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscano proventi della detta attività». Quindi, l’avviso di accertamento viene confermato in toto. Le spese di lite vengono quantificate in euro 1.000 e sono poste a carico del ricorrente.

Nota

preso in considerazione; c) dovendosi ritenere imputabile ogni movimentazione bancaria al contribuente, egli è destinatario dell’applicazione della norma dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973; d) non avendo egli giustificato le operazioni, esse hanno rilevanza reddituale a suo carico. Alcuni passaggi della sentenza appaiono meritevoli di riflessione. Ad esempio, ove si afferma che, poiché il contribuente non ha giustificato le operazioni, si può ragionevolmente concludere che lo stesso ha esercitato un’attività d’impresa a tutti gli effetti rilevante ai fini fiscali. In questa parte di ragionamento si annida il rischio di un certo salto logico. In effetti, la “giustificazione” delle operazioni serve ad escludere la rilevanza reddituale. Ma l’onere di giustificazione scatta, anche nell’ottica seguita dalla Commissione, solo se si assume la premessa che il contribuente era l’effettivo titolare del conto e dell’impresa. Desumere dalla mancata giustificazione che egli era il titolare non è assolutamente previsto dalle norme richiamate, ed è pure illogi-

La sentenza in commento concerne la determinazione della esatta portata degli oneri di “giustificazione” delle operazioni, rilevate sul conto corrente del contribuente, di cui all’art. 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (in tema, si veda CASSANO, I controlli bancari: il problema dell’equivalenza “prelievoricavo (compenso)” nell’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, supra, 467, nota a Comm. trib. prov. Bologna, sez. XII, 4 giugno 2007, n. 158; MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario, dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008) in un caso in cui egli aveva allegato di essere mero prestanome di un terzo e che la documentazione bancaria era falsa, le sue firme essendo apocrife. La Commissione tributaria ha ritenuto che: a) se le firme fossero state effettivamente false il contribuente avrebbe dovuto proporre una denuncia per querela di falso; b) poiché non lo ha fatto, ma si è limitato a una allegazione di falsità supportata da perizia di parte, l’assunto non può essere


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co, posto che la più ovvia giustificazione per non saper fornire chiarimenti intorno a certe operazioni bancarie è di non averle poste in essere. Il punto decisivo della controversia è comunque un altro, e cioè come possa essere fornita la prova dell’intestazione fittizia della attività economica. La Commissione ritiene necessaria la querela di falso, relativamente ai documenti acquisiti e riguardanti i rapporti bancari apparentemente da lui sottoscritti. Nel sistema del Codice civile (art. 2702 c.c.) la scrittura privata (e tale è, al massimo, la documentazione bancaria firmata dal cliente della banca: Cass., sez. I pen., 2 ottobre 1986, n. 10224) fa prova tra le parti fino a querela di falso solo ove la sottoscrizione sia riconosciuta. Il riferimento alla disciplina civilistica sarebbe allora fuor di luogo per almeno due motivi. In primo luogo, per il fatto che qui la pretesa efficacia probatoria delle scritture è allegata da un terzo (il fisco). In secondo luogo, per il fatto che, nel caso, il contribuente allega la falsità della sottoscrizione, che è l’esatto opposto del riconoscerla. Escluso che la querela di falso sia imposta da norme espresse, è possibile cercare di trovare una ricostruzione diversa. Come già rilevato in altre occasioni (MARCHESELLI, Quando la difesa “debole” rende più verosimili gli argomenti del fisco, in MARCHESELLI, RL, Al notaio beneficiario di pagamenti non dichiarati non giova allegare di non aver rogato atti verso l’erogante, in Dialoghi Dir. Trib., 2007, 10, 1237 ss.), molto spesso il riferimento giurisprudenziale alla regola dell’onere della prova è solo la copertura formale di un ragionamento diverso: da un lato i giudici ritengono ragionevolmente raggiunta la prova di un certo fatto quando, sulla base del materiale acquisito, esso appaia verosimile e il preteso onere della prova contraria è solo, più propriamente, il rilievo del fatto che, se non viene allargata l’area dei fatti e degli elementi da valutare, la questione è da ritenersi chiusa. Si tratta di un giudizio governato dai canoni di ragionevolezza e proporzione. Si tratta allora di verificare se la condotta processuale richiesta al contribuente fosse ragionevolmente esigibile. La prima considerazione da fare è che egli in effetti “avrebbe potuto” proporre il procedimento per falso (Cass., sez. un., 4 giugno 1986, n. 3734, in Giust. Civ., 1986, I, 3144, con nota di CUCCHI).Ciò non equivale a dire che egli “avrebbe dovuto” farlo. La questione non è di facile soluzione. È da domandarsi se non ha un qualche peso, in proposito, il fatto che, a quanto è dato di capire della fattispecie, il contribuente non era estraneo alla falsità. La sua posizione pare in una zona ambigua tra il concorso nella falsità medesima e la sua tolleranza. Era esigibile la querela di falso da parte di un soggetto che, con tutta probabilità, non era, in sen-

so sostanziale, “vittima” ma forse ne era addirittura concorrente? Per altro verso ancora, non mi pare che la conclusione della Commissione potrebbe reggersi su una giustificazione in senso lato sanzionatoria (per l’evidente considerazione che obiettivo dell’accertamento è recuperare il tributo evaso, non addossarlo a chi ha concorso a renderne difficile il reperimento). Essa non potrebbe giustificarsi neppure con una finalità “conservativa” (consentire il recupero di un tributo altrimenti irrecuperabile): il contribuente aveva ben indicato quale era il soggetto da percuotere e l’ufficio avrebbe ben avuto la possibilità di accertarlo. Valutando la cosa sul piano strettamente probatorio, poi, sarebbe anche interessante domandarsi se una perizia calligrafica di parte, associata al quadro indiziario (giovane età del soggetto accertato, pregressi rapporti di lavoro con il preteso titolare effettivo dell’impresa, ecc.) non potesse essere sufficiente a provare la falsità. La questione, nei limiti che possono essere trattati in questa sede, permane dunque aperta e, forse, suscettibile di sviluppi (e magari più articolata motivazione) nelle fasi successive del giudizio. Per quanto attiene, infine, all’efficacia delle presunzioni ritraibili dai dati bancari, la sentenza è aderente a orientamenti comuni, anche se non manca di ambiguità. Da un lato, si richiama la giurisprudenza di Cassazione a mente della quale i dati raccolti dall’ufficio in sede di accesso ai conti bancari di un contribuente consentono, in virtù della presunzione contenuta in detta normativa, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività svolta dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscano proventi della detta attività. Dall’altro, si afferma che l’operato dell’ufficio è corretto in quanto, non avendo il contribuente giustificato per filo e per segno tutte le operazioni i versamenti e i prelevamenti sui conti sono considerati elementi reddituali rilevanti ai fini della tassazione. In effetti non è dato di capire se nell’accertamento impugnato si fosse proceduto a ritenere ricchezza affluita al contribuente la somma di prelevamenti e versamenti, se fosse stata operata qualche deduzione per costi e simili. Non è chiaro, quindi, entro che limiti e fino a quali rigorose conseguenze si fosse data applicazione a una normativa che appare, in sé, fortemente criticabile (DOMINICI, I prelevamenti e i versamenti sono considerati “ricavi” fino a prova contraria, commento a Cass., 9 settembre 2005, n. 18016, in Corr. Trib., 2005, 44, 3480; CONTRINO, Ricostruzione sintetica del reddito imponibile fondata su dati bancari, commento a Cass., 15 novembre 2007, n. 23690, in Corr. Trib., 2008, 5, 387; MARCHESELLI, Prelevamenti bancari non contabilizzati e presunzione tributaria di ricavi: un’occasione perduta, in Giur. Cost., 2005, 4005 ss.).


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CONDONI E SANATORIE IL CONDONO PER RITARDATI OD OMESSI VERSAMENTI: LACUNA NORMATIVA E DUBBI INTERPRETATIVI 65

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. IX, 19 dicembre 2007, n. 167 Presidente: Angelici - Relatore: Casablanca Condoni e sanatorie - Condono ex art. 9-bis, L. n. 289/2002 - Mancato integrale versamento dei ratei - Conseguenze - Decadenza dai benefici premiali (L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9-bis) Il perfezionamento del condono di cui all’art. 9-bis della legge n. 289/2002 è condizionato dall’integrale versamento dei ratei da parte del contribuente, in assenza del quale si determina la decadenza dai benefici premiali; ciò in quanto il legislatore, laddove ha inteso mantenere l’agevolazione anche in presenza di ritardi od omissioni di versamenti, ha esplicitamente previsto una norma di salvaguardia che, al contrario, manca nel testo dell’art. 9-bis. La società contribuente presentava istanza di definizione ex art. 9-bis, comma 1, della legge n. 289/2002 che l’ufficio respingeva con apposito atto di diniego per mancato integrale versamento di quanto dovuto. Contro il provvedimento la società adiva la Commissione tributaria provinciale deducendo nullità dell’atto di diniego per vizio di notifica, per vizio di sottoscrizione e per violazione dell’art. 7 dello Statuto del contribuente; nel merito eccepiva l’illegittimità del provvedimento per infondata ed erronea applicazione dell’art. 9bis, comma 1, della legge n. 289/2002. La Commissione tributaria provinciale respingeva il ricorso. La società contribuente propone appello censurando la sentenza di primo grado laddove ha ritenuto legittima la notifica dell’atto di diniego, omettendo di pronunciarsi sulla violazione dell’art. 14 della legge n. 890/1982 e sul vizio di sottoscrizione del provvedimento impugnato. Deduce inoltre l’appellante il vizio di motivazione dell’atto di diniego in violazione dell’art. 7 della legge n. 212/2000. In ordine al merito della controversia, l’appellante contesta la sentenza impugnata laddove enuncia il principio secondo cui il perfezionamento della procedura di condono av-

viene con il puntuale e integrale versamento dei ratei. In relazione alla specifica questione non è dato rilevare nella normativa un principio di carattere generale che imponga l’integrale pagamento delle somme indicate nella dichiarazione di condono. Risulta invece applicabile l’art. 9-bis della legge n. 289/2002 che non stabilisce alcuna decadenza dal condono per versamenti omessi. Sul punto l’appellante cita e allega alcune sentenze delle Commissioni tributarie provinciali. Conclude chiedendo che, in riforma dell’impugnata sentenza, venga accolto l’appello e annullato il provvedimento di diniego. Si costituisce in giudizio l’ufficio e controdeduce per l’inesistenza del vizio di notifica, di sottoscrizione e di motivazione dell’atto impugnato; in ordine al merito della controversia, conferma che la definizione di cui all’art. 9-bis è volta a evitare l’applicazione della sanzione per cui se non v’è versamento integrale ovvero rateale non può esservi l’inapplicabilità della sanzione. Conclude pertanto chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma dell’impugnata sentenza. All’esito della discussione svoltasi in pubblica udienza, la causa è stata decisa come da dispositivo. Osserva il Collegio che l’appello proposto dalla società A.T. avverso la sentenza del giudice di primo grado, non può essere accolto. Con il primo motivo di gravame, parte appellante deduce l’illegittimità della notifica del provvedimento di diniego, ritenendo che esso sia stato portato a conoscenza del destinatario ma non notificato e lamentando altresì la violazione dell’art. 14 della legge n. 890/1982. Il motivo non è fondato. La distinzione tra conoscenza del provvedimento e notifica del provvedimento è artificiosa e non veritiera sotto il profilo della corretta interpretazione della normativa in materia di notificazione. L’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973 costituisce una norma speciale rispetto alla disciplina dettata dal codice di procedura civile in materia di notificazione, nel senso che viene stabilita una regolamentazione che solo in parte richiama quanto stabilito con le


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norme civilistiche. L’art. 14 della legge n. 890/1992 ha poi integrato la speciale normativa attribuendo all’amministrazione finanziaria la facoltà di effettuare la notifica degli avvisi e degli altri atti a mezzo del servizio postale, con le modalità indicate nella stessa legge. Orbene, dall’esame dell’avviso di ricevimento depositato dall’ufficio, risulta che la notifica è regolare in quanto effettuata con l’osservanza delle modalità indicate all’art. 7, comma 4, della citata legge n. 890 e non v’è ragione di ritenere che vi siano elementi invalidanti della predetta notifica che comunque parte appellante non ha specificamente indicato. Con il secondo motivo di appello, la società contribuente deduce che l’avviso di recupero è viziato per difetto di sottoscrizione in quanto risulta firmato non già dal dirigente dell’Agenzia ma dal capo area servizi. Il motivo non può essere accolto. L’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973 stabilisce che la sottoscrizione degli accertamenti in rettifica e degli accertamenti di ufficio di cui agli articoli precedenti 38, 39, 40 e 41 deve essere effettuata dal capo dell’ufficio o da un funzionario della carriera direttiva da lui delegato, pena la nullità dell’atto. In altri termini resta abilitato alla firma il funzionario che abbia ricevuto dal dirigente apposita delega. Ciò premesso, risulta evidente che la necessità di una delega ad hoc è prevista soltanto per la sottoscrizione degli avvisi di accertamento, mentre per tutti gli altri atti, se manca un’espressa indicazione della norma tributaria, la sottoscrizione può essere effettuata anche da un funzionario della carriera direttiva abilitato a sottoscrivere per conto del dirigente gli atti – siano essi provvedimenti o semplici comunicazioni – nell’ambito dell’articolazione organizzativa per uffici e funzioni vigente nella pubblica amministrazione. Il principio si ricava altresì dalla considerazione che quando il legislatore ha inteso accomunare gli avvisi e gli altri atti assoggettandoli ad una medesima disciplina, esplicitamente lo ha indicato nella norma, come per esempio rilevato innanzi in materia di notificazione – art. 60, D.P.R. n. 600/1973, art. 14, L. n. 890/1992. Con il terzo motivo di appello,

la società deduce il vizio di motivazione dell’avviso di recupero. Il motivo è infondato. L’atto di diniego della agevolazione prevista dall’art. 9-bis della citata legge n. 289 risulta ampiamente e chiaramente motivato in quanto dà conto delle somme versate e del residuo non versato: precisa che per effetto del parziale versamento la definizione dei ritardati od omessi pagamenti non produce gli effetti di cui al primo comma dell’art. 9bis e pertanto aggiunge che sono dovute le sanzioni commisurate alle imposte non versate o versate in ritardo. Venendo a trattare il merito della controversia, la ritenuta – dall’appellante – assimilazione del disposto dell’art. 9-bis agli art. 8, comma 3, 9, commi 12 e 17, 15, comma 5 e 16, comma 2, laddove precisano che l’omesso o il ritardato versamento non produce decadenza dal condono, ma comporta solo l’iscrizione a ruolo dell’imposta non versata o versata parzialmente, non può essere condivisa. Diverse sono le fattispecie regolate dai predetti articoli, giacché, mentre le norme richiamate – art. 8, 9, 15 e 16 – si riferiscono ad imponibili mai dichiarati ovvero accertati dall’ufficio, l’art. 9-bis si riferisce alle imposte risultanti dagli imponibili regolarmente dichiarati dal contribuente con la dichiarazione d’imposta e inoltre la natura diversa della agevolazione – pagamento di imposte in misura ridotta ed esenzione dalle sanzioni – esclude di per sé l’interpretazione sostenuta dall’appellante, in quanto la sanzione trova la sua ragion d’essere nell’omesso o ritardato versamento di imposta e l’agevolazione consiste appunto nel fissare un nuovo termine di pagamento delle imposte non assolte che, se non osservato, mantiene intatta la sanzione medesima. Ne deriva a conclusione che l’asserita assimilazione non può ritenersi operante, anche perché, oltre alla diversità delle fattispecie, il legislatore, laddove ha inteso mantenere l’agevolazione anche in presenza di ritardi od omissioni nei versamenti, ha esplicitamente previsto una norma di salvaguardia che invece manca del tutto nel testo dell’art. 9-bis. La natura interpretativa della controversia induce il Collegio a compensare le spese del grado.

Nota di Chiara Di Cola

principio in forza del quale, nella disciplina delineata nella legge n. 289/2002, la possibilità di godere dei benefici condonali in presenza di un pagamento parziale dei ratei costituisca un’eccezione nel sistema che, in quanto tale, necessita di un’espressa previsione del legislatore.

La non esaustiva portata normativa dell’art. 9bis della legge n. 289/2002 genera legittimi dubbi interpretativi sulla spettanza degli effetti premiali connessi all’istituto del condono nell’ipotesi di mancato pagamento dei ratei da parte del contribuente che vi ha aderito. La pronuncia della Commissione abruzzese fa proprio il

1. La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo ha recentemente manifestato il proprio


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orientamento in ordine all’attualissima questione relativa all’individuazione del momento di perfezionamento delle procedure di definizione automatica introdotte dal legislatore fiscale con la legge n. 289/20021. La pronuncia, sebbene sprovvista di un’articolata motivazione, affronta nello specifico la portata dispositiva della fattispecie di condono per ritardati od omessi versamenti di cui all’art. 9-bis e lo fa attraverso un’interpretazione restrittiva che precluderebbe al contribuente che condona, ma che paga solo la prima rata, di godere dei benefici premiali del condono stesso. A modesto avviso di chi scrive, la sentenza risalta non certo per i contenuti, ampiamente discutibili per quel che concerne il parametro di valutazione adottato, ma senza dubbio è meritevole di riflessione in quanto rappresenta un’ulteriore e nuova “voce” che si inserisce nell’ampio dibattito che attualmente caratterizza le Commissioni provinciali nazionali e la più accorta dottrina. Costituisce un dato di fatto che all’ampia e generalizzata adesione al condono del 2002 si siano contrapposte le condotte omissive dei contribuenti, finalizzate alla percezione dei benefici fiscali connessi alle procedure di definizione agevolata, pur in mancanza del pagamento dei ratei successivi al primo, nelle ipotesi in cui il contribuente abbia optato per la rateizzazione delle somme oggetto di condono2. Mentre nella gran parte delle fattispecie introdotte dalla legge finanziaria per il 2003 è stato direttamente il legislatore a stabilire quale diretta conseguenza derivi da detto inadempimento, prevedendo espressamente che il perfezionamento del condono si raggiunge per effetto del paga-

1 Per una trattazione complessiva dei condoni fiscali, si veda PREZIOSI, Il condono fiscale. Natura giuridica, funzione, effetti, Milano, 1987, nonché PICCIAREDDA, Condono (Dir. trib), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1991, III, 6; PASSARO, Condono nel diritto tributario, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., 1988, III, 384. Si segnala la posizione di REDI, Appunti di indisponibilità del credito tributario, in Dir. e Prat. Trib., 1995, I, 407, il quale, muovendo dal presupposto che il condono è uno strumento di clemenza generalizzata, teso a deflazionare il contenzioso e a garantire sicure entrate nelle casse dell’erario, giunge a concludere che lo stesso sia espressione della rinunzia dello Stato alla pretesa tributaria e costituisca, quindi, un’eccezione al

mento della prima rata, tale premura non è stata per contro riservata per la fattispecie di cui all’art. 9-bis della legge n. 289/2002, nel cui testo normativo alcuna menzione né precisazione viene operata in ordine all’individuazione del relativo momento perfezionativo. La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo si è per l’appunto pronunciata sulla portata dispositiva del condono per ritardati od omessi versamenti, in relazione al possibile esito caducativo degli effetti premiali connaturati alla sanatoria nell’ipotesi del mancato integrale pagamento dei ratei di condono. 2. Il giudizio in oggetto è stato promosso da una società che nell’aprile del 2003 presentò dichiarazione di condono per ritardati e omessi versamenti ai sensi dell’art. 9-bis della legge n. 289/2002. L’impugnativa veniva promossa avverso il provvedimento di diniego di condono, emesso dal locale ufficio dell’Agenzia delle Entrate con il quale, rilevato il mancato pagamento dei ratei di condono successivi al primo, veniva ritenuto non perfezionato il condono con conseguente disconoscimento del beneficio dell’abbattimento delle sanzioni al 30%. La società contribuente promuoveva impugnativa sul presupposto che, anche nella fattispecie di condono per ritardati od omessi versamenti, ai fini della spettanza dei benefici connessi all’istituto premiale, fosse sufficiente anche il solo pagamento della prima rata di condono; pertanto, rivendicando il puntuale perfezionamento della procedura condonale, richiedeva l’applicazione delle sanzioni nella misura ridotta.

principio dell’irrinunciabilità della pretesa tributaria. L’impostazione, tuttavia, si espone a censure proprio perché mal si concilia con i principi costituzionali di capacità contributiva e di uguaglianza. Sulla compatibilità del condono fiscale con i principi costituzionali si è espresso FALSITTA, I condoni fiscali tra rottura di regole costituzionali e violazioni comunitarie, in Fisco, 2003, 6, I, 794, nel senso della incostituzionalità delle fattispecie condonali in ragione dell’indisponibilità o irrinunciabilità dell’obbligazione tributaria. In particolare, l’autore sostiene che lo Stato non può rinunciare all’imposta in quanto è titolare di un credito che rappresenta una quota, appunto la frazione di una totalità, il cui mancato incasso non ri-

guarda solo l’erario, ma si ripercuote sulla posizione di tutti coloro che non hanno beneficiato della definizione. 2 La quaestio, evidentemente, è sottesa ad un caso assai frequente nella pratica che ha animato gli anni dell’introduzione del discusso e controverso istituto del condono e che raggiunge proprio in questo momento storico e giuridico grande rilevanza, alla luce del riscontrato inadempimento delle obbligazioni sorte all’esito della presentazione delle dichiarazioni di condono da parte di milioni di contribuenti. Sull’idoneità della disciplina di cui alla legge n. 289/2002 a generare un’imponente mole di contenzioso da condono, già si era espresso BASILAVECCHIA, Prime riflessioni sui “condoni”, in Corr. Trib., 2003, 3, 226.


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Le posizioni manifestate da un lato dall’ufficio finanziario3 e dall’altro dal contribuente, dal chiaro contenuto contrapposto, appaiono entrambe pienamente plausibili in astratto, considerato che in merito alla fattispecie di cui all’art. 9-bis il legislatore, contrariamente a quanto ha fatto per le altre procedure di condono, non ha precisato quale fosse la sorte dell’istituto nel caso di insufficiente versamento dei ratei. È proprio il silenzio del legislatore a creare un vero e proprio vuoto normativo in ordine all’individuazione dell’ambito applicativo e operativo di tale disposizione, sul quale si stanno aprendo contrastanti scenari in seno alla giurisprudenza di merito e al contesto dottrinale, tanto che si è imposta la necessità di verificare, ai fini del legittimo godimento dei benefici condonali, il momento di perfezionamento della procedura. È d’obbligo, in primis, procedere dall’analisi della norma. Si osserva in proposito che la disposizione in oggetto non contempla alcuna indicazione né rispetto all’individuazione del momento perfezionativo della procedura, né rispetto agli effetti conseguenti il mancato puntuale versamento dei ratei successivi al primo. Il caso sottoposto all’attenzione della Commissione investe il dilemma, reso quanto mai tale dall’oscuro e certamente poco chiarificatore testo normativo, dell’individuazione del momento in cui il condono per ritardati od omessi versamenti possa dirsi perfezionato e quindi produttivo degli effetti cosiddetti “premiali”. Due, pertanto, sono le possibili soluzioni interpretative: la prima coincidente con la possibilità di configurare in ogni caso perfezionata la procedura per effetto del solo pagamento della prima rata di condono, con conseguente riconoscimento dei relativi benefici pari all’abbattimento delle sanzioni nella misura del 30% delle somme condonate; la seconda, al contrario, qualifica inefficace il condono, con conseguente applicazione della sanzione prevista dall’art. 13 del D.Lgs. 471/1997, da commisurarsi alle imposte non versate risul-

3 Il riferimento è operato alla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 22/E del 28 aprile 2003 e alla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 36/E del 9 agosto 2005, nelle quali si precisa che il beneficio della disapplicazione delle sanzioni è condizionato all’integrale pagamento degli importi dovuti e, nell’ipotesi di rateiz-

tanti dalle dichiarazioni originariamente presentate. La Commissione provinciale rigettava il ricorso, facendo proprio il principio secondo il quale la mancata previsione, in seno all’art. 9-bis della legge n. 289/2002, del momento di perfezionamento della procedura per effetto del pagamento della prima rata di condono, deriverebbe dalla volontà del legislatore di non attribuire a tale fattispecie gli effetti premiali, in presenza di un mero pagamento parziale. Orientamento pienamente ribadito dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo che, nel rigettare l’appello promosso dalla società contribuente, statuiva la non assimilabilità della fattispecie ex art. 9-bis alle altre procedure di definizione agevolata per le quali vi era l’espressa previsione degli effetti del mancato pagamento di tutte le somme riportate nella dichiarazione di condono. Nella pronuncia si è assistito al riconoscimento della varietà e della strutturale differenziazione tra le singole procedure di definizione agevolate disciplinate dalla legge n. 289/2002, tale da giustificare una diversa regolamentazione normativa in ordine all’individuazione del momento di perfezionamento della procedura. In quest’ottica il Collegio regionale osserva come l’agevolazione di cui all’art. 9-bis consista nel fissare un nuovo termine di pagamento delle imposte non assolte; ragion per cui, nell’ipotesi di omesso o carente versamento dei ratei di condono, non possa esservi riconoscimento degli effetti premiali. Continua la Commissione sottolineando come l’abbattimento delle sanzioni del 30% sia condizionato all’integrale versamento della somma riportata nella dichiarazione di condono e come la possibilità di conseguire e di godere degli effetti premiali anche in presenza di parte dei versamenti costituisca un’eccezione nel sistema dell’istituto del condono che, in quanto tale, necessita in ogni caso di un’espressa previsione del legislatore. Ragion per cui, stante l’assenza di una “norma di

zazione, dopo che si è provveduto all’integrale pagamento dei ratei. In ordine a tale profilo, si segnala la risoluzione n. 125/E del 12 agosto 2005 con la quale la direzione centrale normativa e contenzioso dell’Agenzia delle Entrate, ha ribadito il medesimo principio relativamente alla validità della sanatoria di cui al-

l’art. 12 della legge n. 289/2002 che, come accade per la fattispecie del condono per omessi versamenti, è sprovvista di un’indicazione normativa la quale, a fronte del mancato pagamento nei termini indicati, faccia salvi gli effetti della sanatoria.


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salvaguardia” nell’ambito della procedura di definizione agevolata per ritardati e omessi versamenti, il condono in oggetto, in assenza del puntuale e integrale versamento dei ratei, non può considerarsi perfezionato e il contribuente non potrà godere dei benefici connessi all’abbattimento delle sanzioni. La Commissione regionale ha così rigettato l’appello, recependo in toto i canoni interpretativi adottati dall’amministrazione finanziaria, con una sentenza che si inserisce a pieno titolo nell’attuale e controverso dibattito sulla validità del condono per ritardati e omessi versamenti4. 3. Come si è osservato, l’impostazione adottata dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo è assolutamente coerente con l’indirizzo manifestato dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 22/E del 28 aprile 2003, successivamente reiterato nella circolare n. 36/E del 9 agosto 2005. Secondo l’orientamento ministeriale, il beneficio della disapplicazione delle sanzioni, che rappresenta il cardine della procedura condonale in oggetto, competerebbe solo per effetto dell’integrale pagamento degli importi “condonati” e, in caso di rateazione, solo allorché il contribuente abbia provveduto all’integrale pagamento delle rate. Tuttavia, è bene chiarire che questa impostazione muove da un’incontestabile realtà, costituita dall’assenza, in seno alla disposizione di cui all’art. 9bis, di un’espressa previsione, da parte del legislatore tributario, delle conseguenze del mancato integrale versamento delle somme indicate nella dichiarazione di condono. Un’attenta esegesi delle variegate fattispecie di definizione agevolata introdotte dalla legge finanziaria per il 2003 consente di sottolineare come il legislatore si sia premurato di indicare espressamen-

4 L’attuale scenario giurisprudenziale offre contrastanti letture relativamente all’ambito applicativo dell’art. 9-bis della legge n. 289/2002. Si segnalano, in senso conforme alla pronuncia della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo: Comm. trib. prov. Como, 21 novembre 2006, n. 135, la cui massima è pubblicata in banca dati Servizio di documentazione tributaria; Comm. trib. prov. Cagliari, 14 maggio 2007, n. 130, inedita; Comm. trib. reg. Lombardia, 12 gennaio 2007, n. 137, edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm.

te sia il momento di perfezionamento delle sanatorie fiscali sia gli effetti conseguenti ad un eventuale “inadempimento” da parte del contribuente. A questo quadro normativo, tuttavia, non sono uniformate le disposizioni di cui all’art. 9-bis e all’art. 12 della legge n. 289/2002. Nel silenzio del legislatore, pertanto, il ricorso ai tradizionali canoni ermeneutici costituisce l’unica via percorribile per individuare quando il condono per ritardati od omessi versamenti possa considerarsi perfezionato e, come tale, idoneo a legittimare la mancata applicazione delle sanzioni di cui all’art. 13 del D.Lgs. 471/1997. In questo senso, l’amministrazione finanziaria ha interpretato l’art. 9-bis in virtù del brocardo ubi lex voluit dixit et ubi noluit tacuit, e ha fornito un’impostazione chiaramente espressiva di un parallelismo tra il parziale versamento dei ratei e il mancato perfezionamento della procedura di definizione. La constatazione da cui muove l’amministrazione finanziaria è che, laddove il legislatore ha voluto prevedere gli effetti premiali delle fattispecie condonali anche nelle ipotesi di parziale pagamento o di un possibile superamento dei termini di scadenza dei ratei, lo ha fatto espressamente; ragion per cui in riferimento alla norma che qui interessa, non rinvenendosi alcuna previsione in tal senso, nulla autorizzerebbe una portata della disposizione ben oltre quanto voluto dal legislatore. L’interpretazione ministeriale si espone, tuttavia, a censure dotate di un elevato spessore critico e come tali pienamente apprezzabili nei contenuti. E infatti, gli schemi interpretativi adottati dalla prassi ministeriale, seppur lineari e motivati, non forniscono ad un attento lettore le opportune risposte in ordine ad altri profili che si inseriscono a pieno diritto nella questione, evidentemente tutta giuridica, relativa alla contestualizzazione e

trib. prov. Avellino, 7 febbraio 2007, n. 31, edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. In un’ottica diametralmente opposta si colloca l’impostazione giurisprudenziale che individua nel microsistema della legge n. 289/2002 un principio generale per il quale la definizione si perfezioni per effetto del pagamento della prima rata. Si consulti Comm. trib. reg. Puglia, 17 giugno 2008, n. 369, edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. reg. Lombardia, 9 ottobre 2008, n. 62, edita in banca dati I quattro co-

dici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. Agrigento, 26 ottobre 2005, n. 338, edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. Salerno, 26 gennaio 2007, n. 36, edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. Pavia, 14 novembre 2006, n. 222, edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big; Comm. trib. prov. Napoli, 5 dicembre 2007, n. 488, la cui massima è pubblicata in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big.


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alla collocazione sistematica della fattispecie di cui all’art. 9-bis nell’ambito delle altre procedure di condono previste dalla legge n. 289/2002. Questi rilievi sono stati colti e sviluppati da un’autorevole dottrina5 a cui va il merito di aver cercato di inquadrare la fattispecie di cui all’art. 9-bis nell’ambito di quello che può essere definito il microsistema dei condoni, nel quale regnerebbe, al contrario di quanto sostenuto nella pronuncia in esame, un principio di carattere generale che non impone l’integrale pagamento delle somme indicate nella dichiarazione di condono affinché la procedura di definizione possa considerarsi perfezionata, assicurando l’effetto premiale sul presupposto dell’adempimento solo iniziale dell’obbligo di pagamento. Il riconoscimento della spettanza degli effetti premiali del condono anche in presenza di un solo versamento dei ratei è stato prospettato attraverso il ricorso ai tradizionali canoni ermeneutici. Come acutamente rilevato6, in una logica di analisi comparativa della definizione agevolata per ritardati e omessi versamenti con le altre forme di definizione agevolata, la procedura di cui all’art. 9-bis presenterebbe evidenti elementi di similarità con le procedure di cui agli articoli 7 comma 5, 8 comma 3, 9 commi 12 e 17, 15 comma 5 e 16, comma 2, della legge 289/2002, per le quali il legislatore ha espressamente indicato il conseguimento del beneficio premiale per effetto del mero pagamento del primo rateo. Tutte le summenzionate procedure di definizione si caratterizzerebbero, infatti, per un avanzato grado di attuazione del paradigma normativo definitorio, con la già avvenuta presentazione dell’istanza e il versamento di una parte delle somme dovute in base alla dichiarazione di condono. Tutti elementi, questi, a cui corrisponde la volontà legislativa di facilitare il soggetto che vi abbia aderito escludendone la vanificazione a fronte del mancato versamento del saldo, e prevedendone il conseguimento in via esattiva, con applicazioni di sanzioni che lasciano presumere che il mancato versamento sia dovuto a oggettive situazioni di difficoltà economica. Motivo per cui anche per la fattispecie delineata nell’art. 9-bis rileverebbe essenzialmente il pagamento della prima rata.

5 Cfr. BASILAVECCHIA, Resta ferma la regolarizzazione di omessi versamenti anche per ritardati versamenti rateali, in Riv. Giur. Trib., 2005, 9, 849 ss.; GLENDI, Non inefficacia dei condoni per

La Commissione abruzzese ha sicuramente affrontato il profilo relativo ai rapporti tra la procedura di cui all’art. 9-bis e le ulteriori fattispecie condonali, rispetto alle quali il legislatore ha indicato nel pagamento del primo rateo il momento di perfezionamento della procedura, seppur con una impostazione che è ben distante da una disamina obiettiva delle singole fattispecie. Nella pronuncia, infatti, si parte dal rilievo che l’art. 9-bis, proprio perché consente al contribuente di sanare omessi versamenti, permettendo di fissare un nuovo termine di pagamento delle imposte non assolte, non potrebbe mai giustificare l’abbattimento delle sanzioni a fronte di un successivo omesso versamento. Tuttavia, nessuna riflessione è stata compiuta in ordine ai rapporti e ai punti di contatto tra le varie procedure, proprio nell’ottica di addivenire ad un approccio di tipo sistematico. Ad ogni buon conto, un riconoscimento, seppur indiretto, della consistenza giuridica della ricostruzione teorica elaborata dal contesto dottrinale può comunque rintracciarsi nell’ordinanza n. 6370 della Corte di Cassazione del 22 marzo 20067. L’intervento in realtà si è focalizzato su una fattispecie in cui il contribuente aveva aderito al condono, ai sensi dell’art. 16 della legge 289/2002; disposizione, questa, che prevede espressamente che «l’omesso versamento delle rate successive alla prima entro le date indicate non determina l’inefficacia della definizione. Nella pronuncia, la Corte ha individuato un primo presupposto: l’accettazione da parte dell’ufficio dell’istanza di condono, cui fa seguito il versamento della prima delle rate nelle quali sia eventualmente ripartito il pagamento degli importi richiesti dalla norma, rappresenta il momento di perfezionamento della procedura di condono. Tanto premesso, ha osservato che il meccanismo di perfezionamento della fattispecie di cui all’art. 16 è comune ad altre disposizioni consacrate nella legge di condono, tra cui procedure strutturalmente similari al condono per omessi o carenti versamenti ex art. 9-bis, nelle quali si registra un avanzato grado di attuazione del paradigma normativo definitorio. La conclusione che viene tratta, assolutamente si-

mancato versamento dei ratei, in Corr. Trib., 2005, 37, 2963 ss. 6 GLENDI, op. cit., 2963. 7 Edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. Si segnala il

commento all’ordinanza curato da GENOVESE, Il versamento della prima rata perfeziona il condono, in Corr. Trib., 2006, 19, 1515.


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milare a quella appena prospettata, è che la trama tessuta da queste disposizioni disegni un sistema che condiziona l’insorgere della condizione premiale, tipica del condono nelle sue variegate forme, all’impegno assunto dal contribuente con la relativa istanza di versare l’importo determinato dalla legge, asseverato del pagamento della prima rata. A modesto parere della scrivente, questa ordinanza testimonia come la chiave interpretativa da adottare sia proprio quella di colmare il vuoto normativo attraverso una visione sistematica e complessiva del microsistema dei condoni, mediante una continua parificazione tra le singole fattispecie agevolative. Per effetto della operata contestualizzazione, la definizione agevolata per ritardati e omessi versamenti nell’ambito del microsistema di cui alla legge n. 289/2002 vanta le stesse caratteristiche presentate dalle procedure appena descritte, trattandosi di una fattispecie agevolativa, articolata in più momenti, in cui si registra una dissociazione temporale tra la presentazione dell’istanza di condono, il versamento della prima rata e i successivi adempimenti. Ragion per cui alla procedura ex art. 9-bis deve considerarsi applicabile in via di estensione interpretativa la previsione normativa che sancisce la «non inefficacia della definizione» in caso di omessi versamenti successivi al primo. Inoltre, questa chiave di lettura ben si concilia con la ratio e la finalità nella cui ottica si inquadra l’introduzione nel 2002 del sistema dei condoni, ossia l’instaurazione di un regime di agevolazione, sostitutivo di quello originario, teso all’eliminazione di situazioni contenziose o di pregressa insolvenza, con condizioni vantaggiose per il beneficiario, tali in ogni caso da garantire incassi più immediati anche se in misura ridotta. D’altro canto, parte della giurisprudenza di merito ha aderito a questa prospettazione, condividendo le riflessioni così maturate nel contesto dottrinale. Si segnala in proposito la sentenza n. 338 del 26 ottobre 2005, emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Agrigento8, che rappresenta una delle prime pronunce sul punto, la cui statuizione muove dal presupposto che l’art. 9-bis non

8 Pubblicata in Fisco, 2006, 5, I, 672 ss., con commento di AMOROSO, Condoni fiscali: valide le definizioni dei ritardati od omessi versamenti anche in

stabilisce le conseguenze del mancato tempestivo versamento dei ratei successivi al primo e, come tale, non può legittimare una declaratoria di inefficacia delle definizioni per condono laddove il contribuente abbia provveduto al solo versamento della prima rata. Il giudice agrigentino si pronuncia chiaramente nel senso che «non esiste un principio generale che imponga l’integrale pagamento delle somme indicate come dovute, al fine di poter considerare perfezionata la definizione del condono. Semmai nel microsistema di cui alla legge n. 289/2002, esiste una regola di segno opposto, per la quale la definizione è perfezionata con il semplice pagamento della prima rata». È di lapalissiana evidenza la contrapposizione tra le decisione della Comm. trib. reg. Pescara e di quella della Comm. trib. Agrigento, considerato che le stesse muovono da principi diametralmente opposti e inconciliabili. Senza dubbio maggiormente incisiva risulta la motivazione resa dalla Commissione tributaria provinciale di Salerno nella sentenza n. 36 del 26 gennaio 20079, che ha saputo cogliere proprio il rapporto tra la definizione agevolata di cui all’art. 9-bis e le ulteriori fattispecie di condono che, al contrario, vantano una più dettagliata esposizione normativa. Facendo leva sul principio della conservazione degli atti e degli effetti, al quale sarebbe complessivamente improntato il sistema dei benefici introdotti e disciplinati dalla legge n. 289/2002 – contrariamente a quanto avveniva nel precedente sistema dei condoni –, la Commissione sostiene che deve essere data una lettura della normativa che, partendo dall’espressa previsione di regolarizzazione per la definizione delle liti pendenti10 e per le altre ipotesi sanabili, consenta la stessa possibilità anche per quelle ipotesi di definizione per le quali pur essendo codificato un analogo meccanismo di rateizzazione dei pagamenti, la norma non preveda espressamente la possibilità di recuperare la validità del condono, anche nel caso in cui qualche rata sia stata versata in misura non corretta o in ritardo. La Commissione prosegue nell’articolata motivazione rilevando che l’omessa riproposizione nell’art. 9-bis del momento di perfezionamento della

ipotesi di omesso o insufficiente versamento dei ratei successivi al primo. 9 Edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big.

10 Procedura di definizione agevolata disciplinata nell’art. 16 della legge n. 289/2002.


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procedura non conseguirebbe ad una diversa valutazione effettuata dal legislatore delle irregolarità sanate, ma risponderebbe esclusivamente ad un «criterio di economia legislativa che non reputa necessario ripetere pedissequamente in una disposizione aggiuntiva un’indicazione già espressamente regolata dalla legge n. 289/2002 per le altre tipologie di definizione». Vi è stato chi11 ha ritenuto che l’interpretazione che dell’art. 9-bis fa l’amministrazione finanziaria, determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altre procedure di definizione agevolata che addirittura producono benefici anche a livello penale. Secondo la Commissione pavese, sarebbe alquanto singolare che nella fattispecie del condono tombale, implicante effetti di sanatoria penale, il mancato versamento di una rata, con la sola esclusione della prima, non faccia decadere l’efficacia del condono mentre il solo mancato versamento di una rata, nell’ambito della sanatoria per omessi versamenti, produca la invalidità della sanatoria nel suo complesso. La riflessione è pertinente, ed è tale da evidenziare una contraddizione che difficilmente potrà essere sopita, ma che, potremmo dire, è assolutamente fisiologica nell’eterogeneo sistema delle sanatorie delineato dalla legge n. 289/2002, nel quale la forte spinta al recupero del gettito ha probabilmente trascurato la garanzia di una coerenza del sistema. 4. Allo stato, nella molteplicità e nel forte contrasto delle posizioni dottrinali e giurisprudenziali, a sommesso parere della scrivente, il ricorso ai parametri interpretativi dovrebbe rappresentare l’unico strumento capace di dirimere in via definitiva la questione, sia se si propende nel senso di riconoscere all’art. 9-bis la portata dispositiva tipica di tutte le fattispecie condonali introdotte dalla legge n. 289/2002, sia se si propende per un’interpretazione restrittiva e letterale. Tuttavia il dubbio, che nasce e che si insinua sempre più insistentemente, è che le pronunce emesse sino ad oggi, nelle quali è stato ritenuto necessario l’integrale pagamento dei ratei al fine del perfezionamento della procedura condonale e, quindi, della conseguente fruizione dei benefici

11 Comm. trib. prov. Pavia, 14 novembre 2006, n. 222, edita in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big.

alla medesima correlati, abbiano come fondamento un condizionamento di tipo etico. Effettivamente, le norme della legge n. 289/2002 appaiono eccessivamente “generose”, ragion per cui consentire al contribuente che non ha adempiuto l’obbligazione nascente dalla dichiarazione di condono di sanare nuovamente, significherebbe riconoscere al medesimo un ingiustificato trattamento di favore; e l’obiezione sarebbe ancor più significativa, considerando che nell’art. 9-bis i versamenti da condono servono a sanare violazioni proprio di omesso o insufficiente versamento. Paradossalmente il contribuente moroso che aderisce al condono e non paga quanto condonato vedrebbe comunque riconoscersi l’abbattimento delle sanzioni nella misura del 30% e verrebbe dunque trattato, pur essendo un evasore, come un soggetto meritevole di tutela. In effetti il riconoscimento della sufficienza, ai fini del perfezionamento della procedura di condono per ritardati e omessi versamenti, della sola prima rata concordata con l’erario determinerebbe le contraddizioni appena evidenziate. Nell’auspicio che la questione non trovi un componimento nei soli condizionamenti di carattere etico appena evidenziati, si suggerisce un modesto spunto di riflessione, che richiama l’iter storico normativo che ha caratterizzato l’introduzione nel nostro ordinamento della procedura condonale di cui all’art. 9-bis. La disposizione, infatti, è stata inserita nella Finanziaria per il 2003 in sede di conversione del D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, avvenuto con la legge 21 febbraio 2003, n. 27, e ha riconosciuto il diritto dei contribuenti di avvalersi della definizione agevolata anche nelle ipotesi di ritardati od omessi versamenti12. La norma ha colmato una lacuna che, in sede di licenziamento del corposo sistema di condoni consacrato nella legge n. 289/2002, aveva suscitato forti perplessità, considerato che di fatto la mancata previsione di una definizione agevolata aveva creato una rottura con il precedente normativo costituito dall’art. 62-bis della legge n. 413/1991. Potrebbe allora ipotizzarsi che questa fattispecie, avendo di fatto introdotto un ampliamento delle originarie ipotesi di definizione consacrate nella legge n. 289/2002, si è inserita in un contesto nor-

12 Per le prime riflessioni in ordine all’introduzione dell’art. 9-bis, si veda FANELLI, Il condono si estende agli omessi versamenti, in Corr. Trib. 2003,

10, 770 ss.


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mativo che in linea di principio aveva già identificato il perfezionamento con l’effettuazione degli adempimenti essenziali e il pagamento della prima rata, come a voler intendere una omessa regolamentazione in seno all’art. 9-bis da parte del legislatore, in virtù della collocazione sistematica della definizione agevolata nel contesto condonale. Allo stato, pertanto, non può che rilevarsi come la questione ponga una problematica di tipo inter-

13 Indubbiamente, la fattispecie dell’art. 9-bis delinea un momento patologico del sistema che costringe l’operatore del diritto al recupero dello strumentario interpretativo, nell’ottica di sopperire ad un vero e proprio vuoto normativo. È forse opportuno osservare, seppur in via di estrema semplificazione, come queste imperfezioni

pretativo che in sede di applicazione della norma non è ancora stata risolta in modo esauriente13. Gli spunti sino ad oggi offerti, nella loro obiettiva diversità strutturale, sono indubbiamente dotati di pregnanza giuridica, anche se impostati su presupposti diametralmente opposti; è pertanto quanto mai opportuno trovare un contemperamento effettivo tra preoccupazioni di ordine etico e ragioni giuridiche, al fine di garantire una uniforme applicazione del diritto.

legislative appaiano difficilmente superabili con il ricorso al tradizionale canone interpretativo dell’art. 12 delle Preleggi (posto ultimamente in discussione da parte della dottrina e considerato quasi alla stregua di una “reliquia”, letteralmente capace di “ingessare” l’interprete) e richiedano, al contrario, chiavi di lettura diverse,

in una rivisitazione dell’intero sistema delle fonti del diritto. In proposito si vedano gli spunti offerti da GROSSI nei suoi numerosi scritti dedicati alla tematica, mai sopita, delle fonti del diritto, su cui da ultimo, L’Europa nel diritto, Bari, 2007.


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Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 10 maggio 2007, n. 63 Presidente: Tardino - Relatore: Mottola Ici - Esenzioni - Fabbricati rurali - Cooperativa agricola - Assoggettamento ad imposta (D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, artt. 1 e 2; D.L. 30 dicembre 1993, n. 577, conv. in L. 26 febbraio 1994, n. 133, art. 9, comma 3-bis) In materia di Ici i casi di esenzione sono compiutamente elencati nell’art. 7 del D.Lgs. 504 del 1992 e pertanto non si può parlare di esenzione per i fabbricati rurali attraverso un’interpretazione estensiva di quanto disposto in una norma catastale e cioè all’art. 9, comma 3-bis del D.L. n. 557 del 1993, che dà la definizione di fabbricato rurale ma non prevede espressamente alcuna esenzione; ne deriva che, anche qualora una cooperativa agricola dimostri che il suo fabbricato possa essere considerato rurale ai fini della normativa catastale, questo rimane comunque autonomamente soggetto ad imposizione Ici, in quanto non esiste identità soggettiva tra il possessore del terreno (socio della cooperativa) e il possessore del fabbricato. Con tempestivo ricorso la società cooperativa casearia S.M. proponeva formale impugnazione avverso l’avviso di liquidazione avanti indicato, chiedendone l’annullamento. Il Comune di Polinago, appurato il mancato versamento dell’Ici dovuta dalla società cooperativa agricola per l’anno in causa, relativamente a due immobili allibrati in catasto uno in categoria D/1 e l’altro in categoria A/3, regolarmente dichiarati e per i quali era stata sempre corrisposta l’Ici, notificava l’avviso di liquidazione impugnato. Assumeva parte ricorrente, quale cooperativa di produttori agricoli svolgente l’attività di trasformazione del latte e la commercializzazione di prodotti caseari, di rientrare a pieno titolo tra le imprese agricole e pertanto l’Ici non è dovuta sui propri fabbricati strumentali all’attività agricola dei soci della cooperativa. Precisava che ha pagato l’Ici per gli anni passati, ma viste varie sentenze di Commissioni tributarie provinciali e regionali e della Corte di Cassazione che hanno ribadito il carattere rurale delle costruzioni strumentali ad una delle attività indicate dall’art. 29 (ora 32) del T.U.I.R. a prescindere dalla titolarità del terreno e del fabbricato asservito in capo al medesimo soggetto, e si sono pronunciate in senso fa-

vorevole all’esclusione da Ici per i fabbricati delle cooperative agricole, ha ritenuto di non dover continuare a pagare l’Ici sui fabbricati in contestazione. Si costituiva in giudizio il Comune che, richiamando varie sentenze della Corte di Cassazione favorevoli alla propria tesi sul problema del trattamento Ici da riservare alle cooperative agricole, chiedeva il rigetto del ricorso. Precisava che nel caso in argomento ci troviamo in presenza di fabbricati non asserviti ad alcun terreno e che parte ricorrente, pur svolgendo l’attività di trasformazione del latte e la commercializzazione di prodotti caseari, non dimostra se tale attività è agricola, se ad esempio sono rispettati i limiti quantitativi previsti dall’art. 29 (ora 32) del T.U.I.R. Aggiungeva che la società ricorrente si è concentrata esclusivamente sul fabbricato strumentale e sulla normativa che dispone la ruralità di detti fabbricati (art. 9, comma 3-bis, del D.L. 557/1993) dimenticandosi della diversa normativa (art. 9, comma 3, del D.L. 557/1993 e dei diversi requisiti previsti per il riconoscimento della ruralità destinati ad abitazioni, per i quali, ad esempio, è previsto espressamente l’asservimento ad un terreno avente superficie non inferiore a diecimila metri. Il ricorso appare infondato e pertanto va respinto. La normativa Ici nulla prevede in tema di fabbricati rurali. Questa circostanza ha creato e sta creando diversi dubbi interpretativi. Il D.P.R. 139/1998 ha introdotto determinati requisiti per il riconoscimento della ruralità dei fabbricati strumentali, in particolare non è più previsto l’asservimento del fabbricato strumentale al fondo. Le cooperative agricole, normalmente proprietarie di fabbricati ma non di terreni, hanno visto nella nuova norma la possibilità di poter considerare rurali i loro fabbricati in quanto, pur mancando il terreno, il fabbricato risulterebbe teoricamente asservito al fondo dei soci della cooperativa stessa e allo stesso tempo sarebbe rispettata la richiesta strumentalità all’attività agricola dato che la cooperativa svolge attività agricola, completando il ciclo agrario iniziato dai soci. Il problema si amplia quando si tenta di collegare la normativa catastale che disciplina i requisiti richiesti per l’ottenimento della ruralità e la normativa Ici.


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Questo collegamento porta contribuenti e Comuni su due piani inconciliabili. Secondo la cooperativa agricola il fabbricato è da considerarsi escluso/esente da Ici, secondo il Comune, poiché le cooperative hanno i fabbricati iscritti in catasto, l’Ici è dovuta in quanto, a mente degli artt. 1 e 2 del D.Lgs. 504/1992, il presupposto dell’Ici è il possesso dei fabbricati iscritti o da iscrivere in catasto. I casi di esenzione Ici sono compiutamente elencati nell’art. 7 del D.Lgs. 504/1992 e pertanto non si può parlare di esenzione per i fabbricati rurali e, secondo i Comuni, non si può riconoscere un’esenzione non espressamente contemplata, attraverso un’interpretazione estensiva di quanto disposto in una norma catastale e cioè dell’art. 9, comma 3-bis, del D.L. 557/1993 che dà la definizione di fabbricato rurale ma non prevede espressamente alcuna esenzione. Il suddetto comma 3-bis è stato aggiunto all’art. 9 del D.L. 557/1993 convertito in legge n. 133/1994 dell’art. 2 del D.P.R. 139/1998 e ha stabilito: «Ai fini fiscali deve riconoscersi carattere rurale alle costruzioni strumentali alle attività agricole di cui all’art. 29 del D.P.R. 917/1988» ovvero destinate all’agriturismo o alla protezione delle piante, alla conservazione dei prodotti agricoli oppure alla custodia delle macchine, degli attrezzi e delle scorte occorrenti per la coltivazione. L’art. 29 ora art. 32 del T.U.I.R. 917/1988 definisce il reddito agrario, il quale «è costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati, nei limiti della potenzialità del terrono, nell’esercizio di attività agricole su di esso». Nel suddetto comma 3-bis è stata vista da più parti una sorta di esenzione generalizzata che ha fatto ritenere che la ruralità del fabbricato strumentale non fosse più legata alla presenza del terreno. La Corte di Cassazione si è pronunciata sull’argomento in diverse occasioni utilizzando motivazioni di-

verse e anche contrastanti, con la conseguenza che invece di contribuire a risolvere l’annoso problema del trattamento Ici da riservare ai fabbricati strumentali delle cooperative agricole, la Corte, risolvendo tra l’altro il problema di legittimità costituzionale sollevato dalle stesse, ha negato il requisito della ruralità in quanto il fabbricato è posseduto da un soggetto giuridico diverso e autonomo da quello che possiede i terreni. Di conseguenza la Commissione ritiene che da ciò possa trarsi un principio di diritto valido anche per gli anni successivi al D.P.R. 139/1998 e cioè che se anche la cooperativa agricola dimostrasse che il suo fabbricato possa essere considerato rurale ai fini della normativa catastale, questo rimane comunque autonomamente soggetto ad imposizione Ici, in quanto non esiste identità soggettiva tra il possessore del terreno e il possessore del fabbricato. L’identità soggettiva viene richiesta non per verificare la ruralità o meno del fabbricato ma per verificare che non vi sia una duplicazione di Ici, duplicazione che esiste solo nel caso in cui vi sia identità soggettiva tra proprietario del fondo e proprietario del fabbricato, dato che solo in questo caso l’Ici da corrispondere sul fabbricato rurale è corrisposta mediante il versamento dell’Ici sul terreno agricolo, attraverso il calcolo del reddito dominicale che tiene appunto conto del fabbricato rurale che su detto terreno insiste. Quindi poiché nel caso in argomento non sussiste identità soggettiva in quanto i fabbricati sono di proprietà della cooperativa e i terreni dei soci, questa Commissione ritiene dovuta l’Ici. Solo per completezza la Commissione osserva che comunque parte ricorrente non è riuscita a provare compiutamente la ruralità degli immobili in contestazione. L’evoluzione della normativa in argomento e la presenza di diversi orientamenti giurisprudenziali inducono alla compensazione delle spese.

Nota

mento dell’attività agricola di cui all’articolo 2135 del Codice civile e in particolare destinate: a) alla protezione delle piante; b) alla conservazione dei prodotti agricoli; c) alla custodia delle macchine agricole, degli attrezzi e delle scorte occorrenti per la coltivazione e l’allevamento; d) all’allevamento e al ricovero degli animali; e) all’agriturismo, in conformità a quanto previsto dalla legge 20 febbraio 2006, n. 96; f) ad abitazione dei dipendenti esercenti attività

Si aggiunge un ulteriore tassello alla complessa vicenda dell’assoggettamento ai fini dell’imposta comunale sugli immobili dei fabbricati strumentali all’esercizio dell’attività agricola di proprietà o posseduti da una società cooperativa agricola. Secondo il comma 3-bis dell’art. 9, D.L. n. 557 del 1993 intitolato “Istituzione del catasto dei fabbricati”: «Ai fini fiscali deve riconoscersi carattere di ruralità alle costruzioni strumentali necessarie allo svolgi-


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agricole nell’azienda a tempo indeterminato o a tempo determinato per un numero annuo di giornate lavorative superiore a cento, assunti in conformità alla normativa vigente in materia di collocamento; g) alle persone addette all’attività di alpeggio in zona di montagna; h) ad uso di ufficio dell’azienda agricola; i) alla manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli, anche se effettuate da cooperative e loro consorzi di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228; l) all’esercizio dell’attività agricola in maso chiuso». La chiave di lettura che emerge dalla sentenza in rassegna è che questa disposizione non si applica in via estensiva a tutte le imposte, ma è circoscritta solo all’ambito catastale, senza contare che essa nulla dispone quanto agli effetti della classificazione di un fabbricato come “rurale”. Prevale dunque nella specie la normativa, di carattere speciale, rappresentata dalla legge sull’Ici, che prevede in modo tassativo i casi di esenzione, all’art. 7 del D.Lgs. n. 504 del 1992, senza farvi cenno ai fabbricati rurali. In senso conforme Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 19 marzo 2001, in Finanza loc., 2002, 349; si veda inoltre, nel senso dell’assoggettamento, Comm. trib. reg. Veneto, 19 aprile 2002, in Tributi loc. e reg., 2002, 588, che fa leva sull’iscrizione di questi immobili nel catasto, con attribuzione di rendita. Nel senso invece di escludere dal campo di appli-

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cazione dell’Ici i fabbricati rurali posseduti da società cooperative, in quanto aventi anch’essi carattere strumentale rispetto all’attività agricola dei soci, cfr. Comm. trib. prov. Bologna, 4 giugno 2003, in Riv. Giur. Trib., 2004, 179, con nota di CARRASI, Rimborso Ici per imposta pagata su fabbricati rurali posseduti da una società cooperativa agricola; Comm. trib. reg. Emilia Romagna, Parma, 22 dicembre 2005, n. 147, in Finanza loc., 2006, 12, 129. Per quanto concerne la giurisprudenza di legittimità, si rammenta che l’orientamento seguito nella decisione in rassegna pare supportato da quanto sostenuto dalla Corte di Cassazione con sentenza del 27 settembre 2005, n. 18853, in Riv. Dir. Trib., 2006, II, 205, con nota di RICCI, Cooperative agricole ed Ici sui fabbricati rurali: una questione ancora aperta e in Boll. Trib., 2006, 265, con nota di RIGHI, Ici e fabbricati di cooperative e consorzi agricoli adibiti alla manipolazione, trasformazione e alienazione dei prodotti dei soci: decide la Cassazione, dove si è fatto riferimento alla connessione oggettiva e funzionale tra il fabbricato e l’attività agricola che si svolge sul terreno e alla posizione soggettiva del titolare dell’immobile. Cfr. sul punto Cass., 21 gennaio 2005, n. 1330, in banca dati fisconline, nonché, più di recente, Cass., 27 luglio 2007, n. 16701, ibidem; Cass., 10 giugno 2008, n. 15321, ibidem. Sull’esclusione da Ici dei fabbricati rurali cfr., da ultimo, Comm. trib. prov. Treviso, 20 agosto 2007, n. 86, infra, 500, alla cui nota si rinvia per ulteriori riferimenti bibliografici.

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. IV, 20 agosto 2007, n. 86 Presidente: Bazzotti - Relatore: Visconti Ici - Fabbricati strumentali ad attività agricole Carattere di ruralità - Esenzione ab origine - Diritto al rimborso (D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, artt. 1 e 2; D.L. 30 dicembre 1993, n. 577, conv. in L. 26 febbraio 1994, n. 133, art. 9, comma 3-bis) Alle unità immobiliari strumentali allo svolgimento di attività agricole (nella specie: allevamento di bestiame e coltivazione dei terreni) deve essere riconosciuto il carattere di ruralità, come previsto dall’art. 9, comma 3bis, del D.L. n. 577 del 1993, conv. in L. n. 133 del 1994; di conseguenza, in quanto fabbricati rurali, essi sono da ritenere esenti dall’Ici ab origine, non rientrando nell’oggetto dell’imposta così come definito dagli artt. 1 e 2 del D.Lgs. n. 504 del 1992 e deve pertanto

essere riconosciuto il diritto al rimborso dell’imposta indebitamente pagata. Svolgimento del processo Con ricorso depositato in data 31 ottobre 2006, il sig. B.B., quale legale rappresentante pro tempore della società A.S.A. S.r.l., ha impugnato il silenzio rifiuto opposto dal Comune di Montebelluna alla richiesta di rimborso dell’Ici, indebitamente pagata per gli anni 2003 e 2004. Assume il ricorrente che la società svolge attività di allevamento di bestiame (bovini e suini) e di coltivazione dei terreni, e che, pertanto, risulta essere “imprenditore agricolo professionale” ai sensi del D.Lgs. n. 99/2004. Per svolgere tale attività utilizza unità immobiliari funzionali allo scopo, ai quali deve essere rico-


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nosciuto il carattere di ruralità, come previsto dall’art. 2 del D.Lgs. 504/1992 e dall’art. 32 (ex 29) del D.P.R. n. 917/1986. Per le supposte considerazioni, sostiene il ricorrente, il fabbricato, in quanto avente carattere rurale, è da ritenersi esente dall’imposta Ici, essendo strumentale all’attività agricola. Nella memoria di costituzione in giudizio, il Comune eccepisce che nel D.Lgs. n. 504/1992 non esiste alcuna norma di esclusione o di esenzione dall’Ici, applicabile a fabbricati rurali. Gli immobili in questione, nell’anno di riferimento, risultavano iscrivibili nel catasto edilizio urbano (artt. 1 e 2 del D.Lgs. n. 504/1992) per cui gli stessi sono assoggettabili all’Ici. Il Comune, inoltre, solleva questione di illegittimità costituzionale della norma di cui all’art. 9 del D.L. n. 577/1993, comma 3-bis, introdotto dall’art. 2 del D.P.R. n. 139/1998. Motivi della decisione Il ricorso appare fondato e, quindi, meritevole di accoglimento. Appare pacifico, sia in dottrina che in giurisprudenza, che gli immobili rurali siano esenti dall’imposta Ici ab origine, non rientrando gli stessi nell’oggetto dell’imposta così come definito dagli artt. 1 e 2 del D.Lgs. n. 504/1992. Sul punto del riconoscimento del carattere della ruralità agli immobili strumentali alle attività agricole ha fatto chiarezza il comma 3-bis dell’art. 9 della legge n. 133/1994, comma introdotto dal D.P.R. n. 139/1998. La norma, infatti, escludendo la necessità dell’asservimento del fabbricato ad un fondo e la necessità della sua riconducibilità allo stesso soggetto che conduce il fondo, prevede che «ai fini fiscali deve riconoscersi carattere rurale alle costruzioni

Nota La sentenza in rassegna ripropone la questione dell’applicazione dell’esenzione, ai fini dell’imposta comunale sugli immobili, dei fabbricati che abbiano carattere strumentale all’esercizio di un’attività agricola. Mentre tale esenzione è espressamente sancita nell’imposta sul reddito, dall’art. 32 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, la legge sull’Ici nulla dispone in proposito; da ciò deriverebbe l’assoggettamento ad imposta, come ritenuto da Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 19 marzo 2001, in Finanza loc., 2002, 349.

strumentali alle attività agricole di cui all’art. 29 (ora art. 32) del Testo unico delle imposte sui redditi. Deve, altresì, riconoscersi carattere rurale alle costruzioni strumentali all’attività agricola destinate alla protezione delle piante, alla conservazione dei prodotti agricoli, custodia delle macchine, degli attrezzi e delle scorte occorrenti per la coltivazione, nonché ai fabbricati destinati all’agriturismo». Inoltre, l’art. 32 (ex 29) citato dalla norma stabilisce che devono essere considerate attività agricole quelle relative al [...]; b)allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno [...]». Nel caso di specie tale connessione è evidente ed esplicita e non può essere messa in discussione. Da ultimo, va ricordata la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 6884 dell’1 aprile 2005, che statuisce come siano «esenti da Ici gli immobili di una cooperativa agricola classificabili come rurali». Sulla presunta illegittimità costituzionale della norma di cui all’art. 9, comma 3-bis, del D.L. n. 577/1993, introdotto dall’art. 2 del D.P.R. n. 139/1998 ritiene questo Collegio che tale eccezione sia da considerarsi palesemente infondata. Infatti si legge nell’art. 3, comma 156, della legge 662/1966 «[...] che la norma deve provvedere all’istituzione di una categoria di immobili a destinazione speciale per il classamento dei fabbricati strumentali [...]». Ordunque, se tale è la previsione della norma, non si capisce come la stessa sia conciliabile con l’assunto di parte convenuta, secondo cui la sua applicazione dovrebbe riguardare solamente l’edilizia rurale abitativa. Data la complessità della questione, questo Collegio ritiene che ricorrano le condizioni per disporre la compensazione delle spese di giudizio.

È tuttavia opinione maggioritaria e consolidata, avallata anche dalla sentenza de qua, che i fabbricati utilizzati per finalità connesse all’esercizio di un’attività agricola siano da considerarsi “rurali” ai fini fiscali e in quanto tali esclusi dal campo di applicazione di tutti i tributi, compresa l’imposta comunale sugli immobili. Cfr. Comm. trib. prov. Macerata, 12 gennaio 2006, in Boll. Trib., 2006, 964; Comm. trib. prov. Bologna, 4 giugno 2003, in Riv. Giur. Trib., 2004, 179, con nota di CARRASI, Rimborso Ici per imposta pagata su fabbricati rurali posseduti da una società cooperativa agricola; Comm. trib. prov. Vicenza, 27 novembre 2002, in Riv. Trib.


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Loc., 2002, 646. L’esenzione è stata riconosciuta anche ad un soggetto pensionato in agricoltura da Comm. trib. prov. Roma, 22 febbraio 2006, n. 180, in banca dati fisconline. Per quanto riguarda, in specie, gli immobili di proprietà di cooperative agricole, la questione è più controversa. In specie, vi è un orientamento che ritiene che essi, in quanto iscritti in catasto con attribuzione di rendita, siano soggetti ad Ici; in tal senso Comm. trib. reg. Veneto, 19 aprile 2002, in Tributi loc. e reg., 2002, 588; Cass., 27 settembre 2005, n. 18853, in Riv. Dir. Trib., 2006, II, 205, con nota di RICCI, Cooperative agricole ed Ici sui fabbricati rurali: una questione ancora aperta, e in Boll. Trib., 2006, 265, con nota di RIGHI, Ici e fabbricati di cooperative e consorzi agricoli adibiti alla manipolazione, trasformazione e alienazione dei prodotti dei soci: decide la Cassazione. V. anche sul punto Comm. trib. prov. Modena, 10 maggio 2007, n. 63, supra, 498. Questa impostazione sembra però temperata dalla pronuncia di Cass., 27 luglio 2007, n. 16701, in banca dati fisconline, nella quale si è fissato un discrimine temporale: solo con il comma 3-bis dell’art. 9, D.L. n. 557 del 1993 (convertito in L. 26 febbraio 1994, n. 133) e introdotto dall’art. 2 del D.P.R. 23 marzo 1998, n. 139, è stato reso possibile riconoscere carattere di ruralità ai fini Ici a tutti i fabbricati strumentali all’attività agricola; v. in precedenza, sulla stessa linea, Comm. trib. reg. Emilia Romagna, Parma, 21 giugno 2002, in banca dati fi-

sconline, ove si era precisato che il disposto dell’art. 2 del D.P.R. n. 138 del 1998, che ha introdotto l’automatismo nel riconoscimento del carattere della ruralità per i fabbricati strumentali delle attività agricole di cui all’art. 29 (ora 32) del D.P.R. n. 917/1986, ha carattere innovativo; conseguentemente è solo dalla data di entrata in vigore di tale provvedimento che il legislatore ha inteso sottrarre all’imposizione fiscale di ogni tipo tali fabbricati, seppure censiti con rendita propria e sforniti di quelle caratteristiche di specifico asservimento a terreni richieste dalla normativa previgente. Sul punto v. in dottrina GAVELLI-SANTINI, Dilemma Ici per i fabbricati strumentali delle cooperative agricole: la rilevanza dell’anno di riferimento, in Fisco, 2006, 1, 2592. La sentenza di Cassazione n. 16701 cit. distingue inoltre tra fabbricati di proprietà della cooperativa e fabbricati appartenenti ai soci della medesima, i quali invece godevano già delle condizioni previste per il riconoscimento della ruralità ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. n. 1142 del 1949. In dottrina cfr. PULCRINO, Ici delle abitazioni rurali e dei fabbricati strumentali in agricoltura, in Fisco, 2004, 1, 4526 e, più in generale, MARINI, L’imposta comunale sugli immobili. Le agevolazioni per il settore agricolo: la normativa interna sui fabbricati rurali, la nozione di imprenditore agricolo a titolo principale, le compatibilità dettate dalla normativa comunitaria, in Finanza loc., 2004, 39; DEL FEDERICO, I fabbricati rurali nell’Ici, ivi, 2006, 33.

GLI IMPIANTI EOLICI NEL SISTEMA DELL’IMPOSTA COMUNALE SUGLI IMMOBILI I 68

Commissione tributaria provinciale di Foggia, sez. II, 19 settembre 2007, n. 127 Presidente: De Biase P.- Relatore: Di Biase R. Ici - Impianti eolici - Pale eoliche - Tassabilità Esclusione (D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7) Gli impianti eolici, in quanto aventi carattere di pubblico interesse e di pubblica utilità e in quanto producono un sicuro beneficio di carattere sociale e pubblico, sono da classificare catastalmente nella categoria E e sono pertanto esenti da imposta comunale sugli immobili. Svolgimento del processo Con atto pervenuto a questa Commissione tribu-

taria in data 15 gennaio 2007, la società I.V.P.C. 4 S.r.l. ricorreva avverso l’avviso di accertamento n. [...] emesso dal Comune di Motta Montecorvino e relativo all’Ici anno 2005. A fondamento del ricorso con una serie di articolate argomentazioni difensive che qui di seguito si sintetizzano (corredate di richiami dottrinari e giurisprudenziali) la società ricorrente eccepiva la nullità e l’illegittimità dell’atto impugnato per i seguenti motivi: 1) carenza di motivazione e mancanza del presupposto dell’imposta con violazione dell’art. 3, L. n. 241/1990 e art. 7, L. n. 212/2000; 2) violazione e falsa applicazione dell’art. 5, D.Lgs. n. 504/1992 in riferimento all’art. 812 c.c.; 3) violazione e falsa applicazione dell’art. 7, D.Lgs. n. 504/1992, sul


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presupposto dell’errata classificazione catastale degli immobili; 4) in via subordinata, violazione e falsa applicazione in tema di sanzioni, considerata la obiettiva incertezza della norma. Concludeva per l’annullamento dell’atto impugnato, previa sospensione dello stesso. Il Comune di Motta Montecorvino si costituiva in giudizio con memorie scritte, anch’esse molto articolate e con richiami giurisprudenziali, in cui ribadiva la legittimità del proprio operato. Precisava, in diritto, che la parte aveva avuto la possibilità di comprendere l’atto impugnato e, quindi, di difendersi ampiamente; nel merito che, sussistevano sia i presupposti oggettivi che soggettivi idonei a giustificare la pretesa tributaria, considerato che le pale eoliche risultavano idonee ad essere accatastate sotto la categoria D. Concludeva per il rigetto del ricorso con vittoria di spese. All’udienza del 23 aprile 2007 la Commissione sospendeva l’esecutività dell’atto impugnato, quindi, alla successiva udienza del 4 giugno 2007, in cui comparivano entrambe le parti costituite, la Commissione, previa discussione orale, esaurito l’esame della controversia, si riservava in decisione.

pie argomentazioni sviluppate nel ricorso introduttivo, evidenziano che la società ricorrente, nel pieno rispetto del diritto di difesa, è stata messa in grado di conoscere esattamente la natura dell’imposizione, la norma di riferimento, la descrizione dettagliata del calcolo dell’imposta dovuta, oltre alle modalità di presentazione di un eventuale ricorso. Nel merito, non può ignorare questa Commissione gli aspetti di “assoluta novità” che la fattispecie presenta, il che ha comportato e comporta anche una disparità nell’interpretazione delle norme in ordine alla regolamentazione fiscale e tributaria delle “pale eoliche”, tanto che la stessa Commissione tributaria di Foggia, territorialmente competente (in energia cd. “pulita”, come ad esempio i pannelli solari, ecc.), per cui si deve ritenere adattabile a detta situazione il brocardo ubi lex voluit dixit ubi non voluit non dixit. Ove poi per inconcessa ipotesi si volesse, comunque, ritenere accatastabili le pale in oggetto, sicuramente sarebbe più idoneo collocarle nella categoria E/1, E/3 o E/9, ovvero in categoria esente da imposta (ex art. 7, D.Lgs., n. 504/1992), considerato che forniscono energia pulita e, quindi, producono un sicuro beneficio di carattere sociale e pubblico. È veramente assurdo e in contrasto con la prevalente politica “mondiale” in materia di tutela ambientale (che incentiva in tutti i modi la ricerca di fonti di energia pulita, il risparmio energetico, con conseguenti benefici fiscali per tutti quei soggetti che intendono “convertire” i propri impianti di riscaldamento e/o di illuminazione, regolamentata anche con direttive comunitarie), la tassazione (con forzature interpretative delle norme vigenti) ai fini Ici (o altro ancora) delle pale eoliche, generatrici di energia pulita. Per tutte le ragioni suesposte il ricorso va accolto. Stante la incertezza della questione si ritiene equo compensare le spese di giudizio.

Motivi della decisione In via preliminare, esaminati gli atti di causa, si ritiene di disattendere l’eccezione di diritto sollevata dalla società ricorrente avente ad oggetto la nullità dell’atto impugnato per difetto di motivazione perché infondata. Sul punto in questione, a seguito di contrasti giurisprudenziali, si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione con la decisione n. 8 del 4 gennaio 1993 – emessa a sezioni unite – che ha confermato il principio ormai consolidato in giurisprudenza e adottato univocamente da questa Commissione. Nel caso di specie, le motivazioni addotte e le am-

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Commissione tributaria regionale della Campania, sez. XXIX, 12 novembre 2007, n. 187 Presidente: De Leo - Relatore: Cestaro Ici - Impianti eolici - Pale eoliche - Tassabilità Sussistenza (R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652, conv. nella L. 11 agosto 1939, n. 1249, art. 4; D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 11, comma 2) Gli impianti eolici (intesi quali strutture destinate nel

loro complesso, compresi gli aerogeneratori e le cabine elettriche, alla produzione di energia elettrica da vendere a terzi), non possono essere suddivisi nelle singole parti, ma costituiscono un’entità unica la cui funzione è di produrre energia; conseguentemente, sono da considerare assoggettabili a Ici nel loro complesso, e con accatastamento in categoria D1, giacché trattasi di strutture industriali finalizzate alla produzione di energia elettrica e capaci di produrre reddito.


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Svolgimento del processo Con distinti ricorsi la società I.V.P.C. S.r.l. ha impugnato gli avvisi di accertamento emessi dal Comune di Foiano di Val Fortore ai fini Ici anni 1999, 2000, 2001 [...]; tutti gli avvisi sono stati notificati in data 24 dicembre 2004. I fabbricati relativi agli avvisi [...] sono per immobili con destinazione sottostazioni, mentre gli altri due avvisi riguardano n. 9 aerogeneratori e n. 9 cabine elettriche. La società ha eccepito: - violazione dell’art. 11, D.Lgs. 504/1992 in quanto gli avvisi, dovendosi ritenere non avvisi di accertamento ma avvisi di liquidazione andavano notificati entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui doveva essere fatto il versamento; - difetto di motivazione degli avvisi e mancanza del presupposto di imposta, in quanto non è dato evincere il ragionamento dal quale si possa sostenere la tassabilità degli impianti eolici per i quali non esistono norme che consentano l’accatastamento di strutture annesse ai predetti impianti eolici; - violazione dell’art. 5, D.Lgs. 504/1992 e art. 812 c.c., in quanto, come da giurisprudenza citata, non vi può essere attribuzione di rendita catastale per i fabbricati non incorporati al suolo in modo permanente, perché non trattasi di opifici industriali inquadrabili nella cat. D/1; - violazione dell’art. 7, D.Lgs. 504/1992, in quanto vi è stata un’erronea attribuzione di categoria, in quanto ai predetti fabbricati andava riconosciuta la cat. E che comporta esenzione dal tributo, ha citato circolare ministeriale in proposito sottolineando le finalità di interesse pubblico degli impianti. Ha sostenuto l’esenzione, in quanto impianti in zona montana e collinare ai sensi dell’art. 15, L. 984/1977; - violazione degli artt. 8, D.Lgs. 546/1992, 6, comma 2, D.Lgs. 472/1997 e 10, comma 3, L. 212/2000, in quanto sono state comminate sanzioni non dovute data l’incertezza della normativa di riferimento. Si è costituito il Comune di Foiano di Val Fortore che ha contestato l’eccepita decadenza, in quanto, in mancanza di dichiarazione Ici il termine è quello del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui andava presentata la dichiarazione stessa. Ha contestato il difetto di motivazione, in quanto dagli avvisi erano dati evincere tutti gli elementi necessari per una adeguata difesa e ha citato giurisprudenza al riguardo; ha confermato la legittimità dell’utilizzazione del valore contabile da usare in mancanza di rendita catastale in relazione ad impianti funzionali all’atti-

vità, l’esattezza della cat. D/l non potendosi riconoscere la cat. E. In proposito ha citato la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione n. 654/1976 e ha precisato che la stessa società aveva trasmesso la scheda da cui risultavano i dati catastali e copia del bollettino di pagamento dell’acconto Ici. Ha depositato la relativa documentazione. La società ha depositato memorie illustrative, con le quali ha ribadito quanto già sostenuto con il ricorso e eccependo la violazione dell’art. 3 della L. 212/2000. Ha sostenuto la non aderenza della sentenza n. 21730/2004 della Suprema Corte di Cassazione che si riferisce a centrali termoelettriche e non ad impianti eolici. Contrariamente a quanto sostenuto dall’ente nessun accatastamento risulta per le sottostazioni e per gli aerogeneratori. La Comm. trib. prov. Benevento con sentenza n. 176 depositata il 30 novembre 2005 ha, previa riunione dei ricorsi, rigettato quelli relativi ai fabbricati siti in località Serra Alta, mentre ha ridotto l’Ici del 30% per i fabbricati siti in S. Maria. Avverso la predetta sentenza ha proposto appello la società con atto depositato presso la Comm. trib. prov. Benevento presso questa Comm. trib. reg. Campania in data 6 febbraio 2007 e notificato alla parte appellata in data 12 febbraio 2007. La società ha riproposto le argomentazioni già svolte in primo grado, eccependo, altresì, il difetto e l’illogicità della motivazione della sentenza. Relativamente all’eccezione di decadenza ha, ricordando giurisprudenza, sostenuto che la dichiarazione deve essere presentata solo il primo anno per cui, comunque, vi sarebbe decadenza per gli anni 2000 e 2001. Ha ribadito che non trattasi di avvisi di accertamento ma di avvisi di liquidazione per cui la decadenza deve ritenersi per tutti gli anni. Ha sostenuto l’irrilevanza del comportamento della società che riguarda solo le sottostazioni e che, comunque, non vale per fabbricati che non sono opifici industriali. Ha, con argomentazioni esemplificative, sostenuto che il comportamento del Comune importa un ampliamento eccessivo del concetto di opificio industriale e ribadendo che non è previsto l’accatastamento degli impianti eolici dalla dir. gen. del catasto e nemmeno l’Agenzia del Territorio ha trattato dell’accatastamento dei detti impianti. Ha chiesto, in via subordinata, la tassazione secondo le rendite oggi attribuite. Ha allegato giurisprudenza e documentazione. Si è costituito con memoria depositata il 28 settembre 2007 il Comune proponendo appello incidentale, eccepito l’inammissibilità dell’appello per mancato deposito presso la Comm. trib. prov.


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Benevento dell’appello stesso. Ha ricordato che l’ente territoriale ha tre tipi di atti e che, in caso di mancata dichiarazione, è previsto l’avviso di accertamento e, quindi, non si è maturato alcuna decadenza; relativamente al difetto di motivazione della sentenza ha sostenuto la sufficienza della stessa tranne che per la riduzione dell’Ici del 30% e per quanto riguarda la motivazione degli avvisi, ricordando la sentenza Cass. 821/1971, ha sostenuto che è stata garantita la difesa essendo state delimitate le ragioni addotte, è stata citata copiosa giurisprudenza al riguardo. Relativamente alla violazione dell’art. 5, D.Lgs. 504/1992, dopo aver definito il concetto di unità immobiliare, ha sostenuto la legittimità dell’imposizione ai sensi degli artt. 4 e 5 del R.D.L. 1249 del 1939 alla luce della interpretazione autentica fornita dal legislatore con le L.F. 2004 e poi del 2005 del predetto art. 4 applicabili anche agli impianti eolici. Relativamente alla determinazione della rendita catastale ha precisato che la stessa è stata fatta con stima diretta tenendo conto di tutte le parti che istituiscono il complesso funzionale produttivo. Ha, in proposito, citato la sentenza n. 21730/2004 che ha definito l’opificio come un unicum per il quale non possono essere considerate separatamente le parti. Ha contestato il classamento in cat. E, in quanto non sostenibile in questo giudizio e, comunque, ha ricordato l’art. 6, D.P.R. 138/1998 che stabilisce i criteri di classamento e la sentenza della Cassazione n. 11445/1993 in cui si afferma che per il classamento occorre far riferimento alle caratteristiche dell’immobile ed alla funzionalità dello stesso. Ha precisato che il Comune non ha mai tassato i terreni sottostanti agli impianti e, relativamente alla richiesta di tassazione secondo le nuove rendite catastali ha eccepito che la richiesta è stata fatta per la prima volta in appello e, comunque, non è sostenibile ai sensi dell’art. 5, D.Lgs. 504/1992 e, in tal senso si è espressa anche la Cassazione. Ha contestato la richiesta di annullamento delle sanzioni, in quanto non vi è alcuna incertezza interpretativa. La società ha depositato memorie illustrative con le quali ha eccepito, la inammissibilità delle controdeduzioni nonché dell’appello incidentale perché tardivi; in proposito ha citato giurisprudenza della Cassazione sent. 12154/2004. Ha riproposto le eccezioni fatte nelle precedenti difese, ribadendo l’intervenuta decadenza, quanto meno per gli anni 2000 e 2001, ha sostenuto che la dichiarazione Ici è dovuta solo per il primo anno quando non siano intervenute variazioni suc-

cessive, per cui non può trattarsi di avvisi di accertamento ma di avvisi di liquidazione per i quali è previsto un termine più breve di decadenza. Quanto comunicato dalla società non può costituire prova e l’accatastamento non proviene dall’Agenzia del Territorio. Ha ribadito il difetto di motivazione della sentenza che non fa alcuna distinzione tra sottostazioni e aerogeneratori e cabine e degli avvisi. Ha, inoltre, contestato che si possa far ricorso all’art. 4 così come interpretato, in quanto sotto esame della Corte costituzionale, inoltre, ha eccepito la violazione dello Statuto del contribuente che impedisce la retroattività delle norme che non hanno carattere dichiarativo ma innovativo. Ha criticato l’assimilazione degli opifici alle pale eoliche che non sono confrontabili con le centrali elettriche. Ha ricordato circolari sia della dir. gen. del Catasto sia della dir. gen. dell’Agenzia del Territorio che nulla hanno detto circa gli impianti eolici. Ha ribadito le richieste di classamento in cat. E e l’illegittimità delle sanzioni comminate. Motivi della decisione In primis si deve ritenere infondata l’eccezione di inammissibilità dell’appello proposta dal Comune, in quanto l’appello è stato depositato presso la Comm. trib. prov. che ha emesso la sentenza. Deve ritenersi inammissibile, in quanto proposta per la prima volta in appello, la richiesta di tassazione secondo le nuove rendite attribuite fatta dalla società. Ai sensi dell’art. 54 e dell’art. 23, D.Lgs. 546/1992 deve ritenersi inammissibile l’appello incidentale del Comune, in quanto depositato tardivamente. Non può, invece, ritenersi a pena di decadenza il termine per il deposito delle controdeduzioni. Nel caso in questione trattasi di avvisi di accertamento, in quanto si versa nell’ipotesi di mancata dichiarazione Ici e, al riguardo, ai sensi dell’art. 11, comma 2, D.Lgs. 504/1992, deve ritenersi che non sia intervenuta alcuna decadenza, in quanto il termine quinquennale decorre dal momento in cui doveva essere presentata la dichiarazione per il primo anno, ma per gli anni successivi si deve far ricorso al momento in cui doveva essere effettuato il pagamento. Da ciò deriva che per gli anni in questione non è intervenuta alcuna decadenza. Relativamente all’eccepito difetto di motivazione della sentenza e degli avvisi, si osserva che la sentenza appare motivata in diritto in modo adeguato rendendo chiare le ragioni che hanno indotto il giudice a decidere come da dispositivo. D’altra


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parte le motivazioni possono essere non condivise e ciò conduce la parte alla proposizione dell’appello, come nel caso in questione. Relativamente alla motivazione degli avvisi impugnati si osserva che gli stessi, anche alla luce della giurisprudenza richiamata, appaiono sufficientemente motivati, in quanto sono indicati i luoghi, i valori dei i beni tassati e i criteri di quantificazione e la categoria catastale attribuita. Per altro la corposa difesa della società rafforza la conclusione che non vi sia stata alcuna violazione del relativo diritto. Relativamente alla tassabilità o meno degli impianti in questione, si osserva che la volontà del legislatore appare evidente ed espressa con l’interpretazione autentica dell’art. 4 del R.D.L. 1249 del 1939 che appare applicabile anche al caso in questione dovendosi ritenere che, nel caso di impianti eolici, comunque, si tratta di strutture destinate nel loro complesso alla produzione di energia elettrica da vendere a terzi. Il manufatto, come da giurisprudenza, non può essere suddiviso nelle singole parti, in quanto, e ciò è incontestabile, tutti gli elementi, dell’impianto eolico costituiscono un’entità unica la cui funzione unitaria è quella di produrre energia. Gli aerogeneratori anche logicamente debbono essere assimilati alle turbine e, ai fini fiscali, a nulla rileva donde arrivi l’energia per far funzionare l’impianto. Relativamente alla natura della norma posta nella legge finanziaria, si osserva che il legislatore espressamente parla di interpretazione autentica dell’art. 4 citato e nulla induce a ritenere che la stessa sia innovativa, in quanto il legislatore ha specificato come dovesse intendersi il concetto di fabbricati e costruzioni stabili in relazione alla centrali elettriche, che debbono essere considerate nel complesso degli elementi che le compongono anche di quelli mobili. Non appare che tale previsione ponga elementi di novità diversi da quelli interpretativi rispetto alla previsione dell’art. 4 che resta tale quale è ed era. Da ciò consegue che gli impianti eolici siano da considerare tassabili nel loro complesso e l’accatastamento in cat. D1 appare corretta non solo, quindi, per le sottostazioni, ma, in quanto trattasi di strutture industriali finalizzate alla produzione di energia elettrica e capaci di produrre redditi, anche per gli aerogeneratori e le cabine elettriche. Per al-

tro, qualunque ne sia la fonte, non può nemmeno ritenersi irrilevante l’accatastamento delle sottostazioni comunicato dalla stessa società che basandosi su quanto comunicato ha provveduto al pagamento di acconto Ici costituendo un riconoscimento di debenza del tributo secondo la cat. D1. Per altro a questo risultato si sarebbe dovuto, comunque, giungere secondo l’interpretazione delle norme che disciplinano il tributo in esame e avendo presente la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 21730/2004, che ha delineato il significato di opificio che deve essere considerato un unicum inscindibile se la separazione tra gli elementi che la compongono rende, come nel caso in questione, irrealizzabile la funzione produttiva cui sono tutti destinati. Del pari giustifica la classificazione in cat. D. Da ciò deriva il mancato accoglimento della classificazione in cat. E. Per altro trattandosi di categoria che importa esenzione dal tributo, si ritiene che non possa essere riconosciuta un’estensione a casi diversi da quelli previsti. Sulla base di tali motivazioni la sentenza appare del tutto condivisibile e da confermare circa la tassabilità degli impianti eolici nelle varie parti che li compongono. Relativamente al quantum determinato per gli aerogeneratori e le cabine elettriche, si ritiene, in mancanza di risposte da parte della società e di prove in sede di giudizio, corretto il ricorso a criteri induttivi, non diversamente che per altri tributi, basati su immobili similari appartenenti ad altre aziende e che non sono stati specificatamente contestati dalla società relativamente al valore accertato dal Comune. Stante l’inammissibilità dell’appello incidentale e ritenendosi legittimo l’accertamento induttivo viene confermata la statuizione al riguardo fatta dalla sentenza impugnata anche se sulla base di differente motivazione. Relativamente alla sostenuta legittimità delle sanzioni comminate, si osserva che l’incertezza di interpretazione all’epoca sicuramente esisteva e ciò è provato non solo dagli interventi interpretativi, ma anche dalla giurisprudenza non uniforme intervenuta nel tempo per delimitare il tema del decidere. La relativa richiesta della società appare, quindi, meritevole di accoglimento. Stante la particolarità della materia si ritiene che sussistano giusti motivi per compensare le spese del giudizio.

I - II

medesimo presupposto, e cioè che la funzione degli impianti eolici è quella di produrre energia, giungono a conclusioni difformi. La Commissione tributaria provinciale di Fog-

Nota di Mario Cardillo Le sentenze in commento, pur partendo dal


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gia, sez. II, n. 127/2007 ritiene inquadrabili i predetti impianti nella categoria E, in quanto aventi carattere di pubblico interesse e di pubblica utilità e per il fatto che essi producono un sicuro beneficio di carattere sociale e pubblico, generando per l’appunto, energia pulita. La Commissione tributaria provinciale di Foggia esclude pertanto l’assoggettabilità ad Ici. La Commissione tributaria regionale della Campania, sez. XXIX, n. 187/2007, ha ritenuto viceversa, tassabili gli impianti eolici nel loro complesso, in quanto accatastabili nella categoria D/1 tra gli immobili a destinazione speciale. Ciò in quanto gli immobili e le strutture afferenti agli impianti eolici sono funzionalmente destinati ad una attività industriale di produzione e vendita di energia elettrica, e se è pur vero che detta attività è incentivata dallo Stato, per gli indubbi benefici che arreca all’ambiente, essa resta comunque un’attività economica privata diretta esclusivamente a produrre reddito a beneficio dell’imprenditore. Introduzione La Commissione tributaria provinciale di Foggia, nella sentenza n. 127/2007 e la Commissione tributaria regionale della Campania, nella sentenza n. 187/2007 affrontano il tema della tassabilità delle turbine eoliche ai fini Ici, questione non nuova nel panorama giurisprudenziale italiano che registra ancora oggi opinioni discordi, giungendo a differenti conclusioni. In entrambi i casi trattati, le società ricorrenti impugnano gli avvisi di accertamento emessi ai fini Ici eccependo, tra le altre ragioni, la carenza del presupposto d’imposta e sostenendo la non tassabilità ai fini Ici degli impianti eolici, stante la mancanza di norme che imporrebbero l’accatastamento delle strutture annesse ai predetti impianti eolici, l’impossibilità di inquadrare i generatori eolici nella categoria D/1 riservata agli opifici industriali e semmai, alle centrali termoelettriche e non agli impianti eolici, con la conseguente esenzione dal tributo, ritenendo viceversa che i predetti fabbricati debbano essere inclusi nella categoria E1 che comporta, come è noto, l’esenzione dal tributo. I Comuni dal canto loro, riportandosi all’orientamento della Suprema Corte contenuto nella sen-

1 Per le modalità di accatastamento e i criteri distintivi dei compendi immobiliari classabili nelle categorie catastali D ed E, cfr. circ. n. 4 del 16 maggio 2006 e n. 4 del 13 aprile

tenza n. 21730/20042, che ha definito l’opificio come un unicum per il quale non possono essere considerate separatamente le parti, contestano il classamento degli impianti eolici nella categoria E e invocando l’applicabilità del disposto di cui all’art. 6 del D.P.R. n. 138 del 1998 che stabilisce per l’appunto i criteri di classamento, ha sottolineato la necessità a tal fine di far riferimento alle caratteristiche dell’immobile e alla funzionalità dello stesso, principio già espresso dalla Suprema Corte nella sentenza n. 11445 del 19933. Tuttavia, mentre la Commissione tributaria provinciale di Foggia ha considerato inquadrabili gli impianti eolici in generale, nella categoria E, in quanto aventi carattere di pubblico interesse e di pubblica utilità e per il fatto che essi producono un sicuro beneficio di carattere sociale e pubblico, generando per l’appunto energia pulita ed escludendo pertanto l’assoggettabilità a Ici, la Commissione tributaria regionale della Campania ha ritenuto viceversa tassabili gli impianti eolici nel loro complesso, in quanto accatastabili nella categoria D/1 tra gli immobili a destinazione speciale. Ciò in quanto gli immobili e le strutture afferenti agli impianti eolici sono funzionalmente destinati ad un’attività industriale di produzione e vendita di energia elettrica, e se è pur vero che detta attività è incentivata dallo Stato, per gli indubbi benefici che arreca all’ambiente, essa resta comunque un’attività economica privata diretta esclusivamente a produrre reddito a beneficio dell’imprenditore. Il problema alla base della questione riguarda anzitutto l’accatastabilità o meno delle turbine degli impianti eolici, le modalità di attribuzione della relativa rendita, la categoria di riferimento, nonché la conseguente assoggettabilità a imposta comunale sugli immobili. Al riguardo va ricordato che con decreto del Ministero delle Finanze n. 710 del 19 aprile 1994, regolante la cosiddetta procedura Docfa, è stato attribuito agli stessi proprietari degli immobili la possibilità di proporre agli uffici tecnici erariali la rendita catastale degli immobili da loro posseduti la quale, annotata in un primo tempo come provvisoria, diveniva dopo un anno definitiva se nell’arco temporale di un anno4 non era rettificata dall’ufficio. Avvalendosi di questa procedura, alcune società titolari di impianti eolici, partendo dal presuppo-

2007 dell’Agenzia del Territorio. 2 Cass. civ., sez. V, 17 novembre 2004, n. 21730, in Dir. e Prat. Trib., 2005, 2, 733. 3 Cass. civ., sez. I, 19 novembre 1993, n. 11445, in Riv. Dir. Trib., 1994, II, 169.

4 Sulla natura ordinatoria del termine di 12 mesi, cfr. Cass. civ., sez. V, 21 luglio 2006, n. 16824, in Fisco, 2006, 5190 e Cass. civ., sez. V, 21 agosto 2007, n. 17818, in Fisco, 2007, 4932.


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sto che le turbine, i serbatoi e le ciminiere dell’impianto eolico sono rimovibili senza che ciò comporti alterazione o danno né alla struttura dell’impianto dal quale sono staccate, né alle turbine stesse, hanno provveduto al classamento delle centrali e, in particolare, alla determinazione della rendita catastale loro attribuibile, tenendo conto unicamente del valore dell’area e dei fabbricati; altre non le hanno accatastate affatto; altre ancora hanno provveduto al classamento inserendole nella categoria E, anche in considerazione degli incentivi da parte dello Stato volti a favorire l’utilizzazione di fonti alternative di energia e, quindi, ritenendoli immobili destinati a utilità sociali5. In precedenza, le società proprietarie delle centrali elettriche avevano determinato l’Ici sulla base dei valori, assai più consistenti, iscritti in bilancio; più nello specifico, la base imponibile ai fini Ici era determinata in base al valore, al lordo delle quote di ammortamento, risultante dalle scritture contabili, con l’applicazione dei coefficienti di rivalutazione di cui al D.Lgs. n. 504/1992. Ciò ha generato un forte calo del gettito Ici per quei Comuni nei cui territori sono ubicati questi speciali insediamenti produttivi di energia e, conseguentemente, si è sviluppato un folto contenzioso tra le società gestori delle centrali elettriche e le amministrazioni comunali sulla contestazione del fatto che quelle società elettriche che, nel riformulare il classamento delle centrali termoelettriche, avevano omesso il valore, peraltro assai rilevante delle turbine, non ritenute dagli enti in questione impianti fissi, ottenevano rendite inferiori del 60-70% rispetto alle precedenti, determinate ai sensi dell’art. 5, comma 3, del D.Lgs. n. 504 del 1992; quelle società che invece avevano inserito le “pale eoliche” nella categoria E o non le avevano accatastate affatto, si sottraevano totalmente al versamento del tributo comunale. Le Commissioni tributarie investite della questione, si sono mostrate sul punto, assai divise. È sta-

5 Difatti la categoria E, notoriamente esente da imposta comunale sugli immobili, comprende tra gli immobili a destinazione particolare le seguenti tipologie: E/1 Stazioni per servizi di trasporto, terrestri, marittimi e aerei; E/2 Ponti comunali e provinciali soggetti a pedaggio; E/3 Costruzioni e fabbricati per speciali esigenze pubbliche; E/4 Recinti chiusi per speciali esigenze pubbliche; E/5 Fabbricati costituenti fortificazioni e loro dipendenze; E/6 Fari, semafori, torri per

ta affermata per esempio, la necessità di distinguere ai fini dell’attribuzione della rendita catastale, il macchinario che è in dotazione dell’edificio in quanto tale, dal macchinario installato per la specifica produzione industriale cui è destinato l’opificio. Sulla base di detta distinzione è stato ritenuto non accatastabile il complesso turbine-caldaie a vapore installato in una centrale per la produzione dell’energia elettrica6. Nel senso opposto si sono espresse invece altre Commissioni tributarie le quali hanno sottolineato come le turbine siano parte dell’intera struttura immobiliare e, poiché senza le caldaie-turbine e gli altri componenti utilizzati nelle varie fasi del ciclo produttivo, quali per esempio ciminiere, dighe, canali adduttori o di scarico, una centrale termoelettrica cesserebbe di essere tale, occorre avere riguardo ai fini dell’accatastabilità dei vari componenti delle centrali elettriche, non tanto alla separabilità o meno dei vari componenti, ma anche e soprattutto alla loro inscindibilità funzionale7. Secondo la giurisprudenza di merito da ultimo citata, la legislazione del catasto prevede la stima diretta degli opifici proprio perché esige che sia stimato caso per caso anche il valore degli impianti, mentre se il valore della rendita potesse essere riferito e limitato ai muri e al terreno, anche per gli opifici sarebbe stato disposto il normale procedimento catastale. Dunque, poiché la rendita catastale determinata con la stima diretta non rappresenta il profitto spettante soltanto per i muri e l’area, ma il profitto derivante dalla totalità del complesso produttivo, le strutture annesse agli impianti eolici sono soggette ad accatastamento. E infatti «nella valutazione delle centrali termoelettriche non può adottarsi il criterio basato sulla separabilità o meno dei singoli componenti, a seconda che siano incorporati o semplicemente imbullonati nella struttura muraria, dovendosi per contro fare riferimento alla loro inscindibilità funzionale, non potendosi revocare in dubbio che senza le caldaieturbine e gli altri componenti che provvedono alle

rendere d’uso pubblico l’orologio comunale; E/7 Fabbricati destinati all’esercizio pubblico dei culti; E/8 Fabbricati e costruzioni nei cimiteri, esclusi i colombari, i sepolcri e le tombe di famiglia; E/9 Edifici a destinazione particolare non compresi nelle categorie precedenti del gruppo E. Essendo dubbia l’attitudine di detti immobili a produrre reddito, la lett. b del comma 1 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 504/1992 esenta dall’imposta detta tipologia di fabbricati.

6 Comm. trib. prov. Roma, sez. XXIII, 21 ottobre 2002, n. 490, in Dir. e Prat. Trib., 2003, 2, 285 ss. 7 Comm. trib. reg. Lazio, sez. XX, 16 gennaio 2004, n. 48, in Dir. e Prat. Trib., 2004, 2, 317 ss.; Comm. trib. prov. Savona, sez. III, 28 gennaio 2004, n. 428, in Dir. e Prat. Trib., 2004, 2, 330 ss., commentate da PICIOCCHI, Rettifica delle rendite catastali delle centrali elettriche problematiche sostanziali e processuali correlate, in Dir. e Prat. Trib., 2004, 2, 337 ss.


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varie fasi del ciclo produttivo (ciminiere, dighe, canali adduttori o di scarico, ecc.) una centrale termoelettrica cesserebbe di essere tale o non potrebbe neppure esistere»8. La questione, portata alla cognizione della Suprema Corte, ha dato vita a pronunce contrastanti; essa infatti, fu risolta in un primo momento, nel senso della non computabilità delle turbine ai fini della determinazione della rendita catastale, essendo esse solo imbullonate al suolo9. Poco dopo, la Cassazione ha affermato che le turbine, sebbene ancorate al suolo mediante imbullonatura ai cosiddetti cavalletti di turbina e, pertanto, amovibili senza danno per le strutture murarie della centrale elettrica nella quale sono collocate, poiché «costituiscono una componente strutturale ed essenziale della centrale stessa – sicché questa senza quelle non potrebbe più essere qualificata tale, restando diminuita nella sua funzione complessiva e unitaria e incompleta nella sua struttura –, debbono computarsi nel calcolo per la determinazione della rendita catastale»10. Per dirimere il contrasto giurisprudenziale formatosi nel suo interno, la sezione quinta della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 23798 del 22 dicembre 2004, rimise la questione all’attenzione delle sezioni unite della medesima Corte di Cassazione. Le sezioni unite della Corte non si sono mai pronunciate nel merito della rimessa questione in quanto, come si dirà in seguito, è intervenuto il legislatore che, con il comma 540 della legge n. 331 del 30 dicembre 2004 (Finanziaria 2005), ha fornito un’interpretazione autentica dell’articolo 4 del regio decreto legge 13 aprile 1939, n. 652, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 1939, n. 1249. Riferimenti normativi Più in generale, l’abbattimento del gettito Ici dei fabbricati di categoria D per i Comuni generato dalla procedura Docfa ha indotto il legislatore a intervenire una prima volta in sede di legge finanziaria (art. 31, comma 3, L. n. 448 del 1998), attraverso la previsione di uno specifico contribu-

8 Comm. trib. reg. Lazio, sez. XX, 16 gennaio 2004, n. 48, cit. 9 Cass. civ., sez. V, 6 settembre 2004, n. 17933, in Dir. e Prat. Trib, 2004, 2, 1636, con nota di PICCIAREDDA, La determinazione della rendita catastale delle centrali elettriche tra contrasti giurisprudenziali e leggi di interpretazione autenti-

to da parte dello Stato commisurato alla differenza tra il gettito, derivante dai predetti fabbricati, dell’imposta comunale sugli immobili dell’anno 1993 con l’aliquota al 4 per mille e quello dell’anno 1998 anch’esso calcolato con l’aliquota al 4 per mille. A distanza di due anni, la L. n. 388 del 2000 prevedeva, a sostegno dei Comuni, un sistema di compensazione relativo ai trasferimenti statali e precisamente, disponeva che, a decorrere dall’anno 2001, i minori introiti relativi all’Ici conseguiti dai Comuni per effetto dei minori imponibili derivanti dall’autodeterminazione provvisoria delle rendite catastali dei fabbricati di categoria D, eseguita dai contribuenti secondo quanto previsto dal decreto 19 aprile 1994, n. 701 del Ministro delle Finanze, venissero compensati con corrispondente aumento dei trasferimenti statali se di importo superiore a lire 3 milioni e allo 0,5 per cento della spesa corrente prevista per ciascun anno (art. 64, comma 1, L. n. 338 del 2000). In particolare, la rilevanza, soprattutto sotto il profilo economico-finanziario, della questione concernente il non corretto utilizzo della procedura Docfa seguita dai proprietari di impianti generatori di energia (termoelettrica ed eolica), ha indotto il legislatore ad inserire nella legge finanziaria 2005 (L. n. 311 del 2004), la previsione con la quale stabiliva esplicitamente che «ai sensi e per gli effetti della L. 27 luglio 2000, n. 212, articolo 1, comma 2, del R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652, articolo 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 1939, n. 1249, si interpreta nel senso che i fabbricati e le costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti ad esso strutturalmente connesse, anche in via transitoria, cui possono accedere, mediante qualsiasi mezzo di unione, parti mobili allo scopo di realizzare un unico bene complesso. Pertanto, concorrono alla determinazione della rendita catastale, ai sensi dell’articolo 10 del citato R.D.L., gli elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili costruiti per le speciali esigenze di un’attività industriale o commerciale anche se fisicamente non incorporati al suolo. I trasferimenti erariali agli enti locali interessati sono conseguentemente rideterminati per

ca, in Riv. Dir. Trib., 2006, 4, 3, 317 ss. 10 Cass. civ., sez. V, 17 novembre 2004, n. 21730, in Giur. It. Mass., 2004. Nello stesso senso, cfr. pure le successive Cass. civ., sez. V, 7 giugno 2006, n. 13319, in Giur. It. Mass., 2006; nello stesso senso, anche Cass. civ., sez. II, 21 novembre 2006, n. 24668, in Giur.

It. Mass., 2006; Cass. civ., sez. V, 10 novembre 2006, n. 24064, in Giur. It. Mass., 2006; Cass. civ., sez. V, 21 luglio 2006, n. 16824, in Fisco, 2006, 5190; Cass. civ., sez. V, 30 giugno 2006, n. 15192, in Giur. It. Mass., 2006; Cass. civ., sez. II, 14 giugno 2006, n. 13752, in Giur. It. Mass., 2006.


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tutti gli anni in riferimento»11. Il contenuto troppo generico della citata norma interpretativa suscitò la preoccupazione di molte piccole imprese che temevano di vedere considerati come immobili i più disparati macchinari, con conseguente eccessivo aumento dell’imposizione fiscale. Di qui, un nuovo intervento chiarificatore del legislatore che, con L. 31 maggio 2005, n. 88, tra le modificazioni apportate in sede di conversione al decreto legge 31 marzo 2005, n. 44, all’art. 1quinquies, sotto la rubrica “Disposizioni per la salvaguardia finanziaria dei Comuni” precisava che l’articolo 4 del regio decreto legge 13 aprile 1939, n. 652, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 1939, n. 1249, limitatamente alle centrali elettriche, doveva essere interpretato «nel senso che i fabbricati e le costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti ad esso strutturalmente connesse, anche in via transitoria, cui possono accedere, mediante qualsiasi mezzo di unione, parti mobili allo scopo di realizzare un unico bene complesso. Pertanto, concorrono alla determinazione della rendita catastale, ai sensi dell’ar-

11 Cfr. il comma 540 dell’art. 1 della L. n. 311 del 2004. 12 La natura interpretativa del citato art. 1-quinquies del D.L. n. 44 del 2005 è stata espressamente riconosciuta dalla Cassazione nelle sentenze Cass. civ., sez. V, 21 luglio 2006, n. 16824, in Fisco, 2006, 5190 e Cass. civ., sez. V, 7 giugno 2006, n. 13319, in Fisco, 2006, 4099, con nota di CARRASI, La rendita catastale delle centrali elettriche può legittimamente tenere conto del valore delle turbine?, in Riv. Giur. Trib., 2006, 12, 1078 ss. Secondo l’autore «il legislatore non ha creato una nuova fattispecie impositiva, ma ha solo scelto uno dei contenuti possibili della norma interpretata, ossia quello prospettato dalla stessa Suprema Corte con la sentenza 21730/2004; ciò rende non sospettabile di illegittimità costituzionale il ricorso allo strumento dell’interpretazione autentica». 13 Sulla retroattività delle disposizioni tributarie, cfr. i recenti contributi dottrinali di TESAURO, Limiti costituzionali delle leggi tributarie interpretative, in Corr. Trib., 2007, 24, 1967 ss.; BAGAROTTO, Retroattività delle disposizioni tributarie e Statuto del contribuente: il caso dei contributi erogati alla aziende di trasporto pubblico, in Riv. Dir. Trib., 2007, 2, 1, 157 ss.; CELLENTANI-MAINO, Sta-

ticolo 10 del citato regio decreto legge, gli elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili costruiti per le speciali esigenze dell’attività industriale di cui al periodo precedente anche se fisicamente non incorporati al suolo». Di conseguenza, i trasferimenti erariali agli enti locali interessati dovevano essere rideterminati per tutti gli anni di riferimento12. In definitiva, il legislatore, con questo ultimo intervento normativo, avallava, in buona sostanza, la soluzione della Suprema Corte contenuta nella citata sentenza n. 21730/2004, considerando le pale eoliche un “unico bene complesso”. Tralasciando le questioni generate dall’entrata in vigore della citata disposizione contenuta nella legge n. 88 del 31 maggio 2005, relative alla natura della norma stessa, e cioè se si trattasse di disposizione a carattere innovativo o interpretativo e di conseguenza circa l’efficacia, retroattiva o meno, della predetta disposizione13, nonché le sollevate questioni di costituzionalità della stessa, specie con riferimento alla presunta violazione del criterio di ragionevolezza, nonché degli artt. 3 e 53 della Costituzione14, peraltro recentemente risolte dalla Corte costituzionale nel senso del-

tuto del contribuente e retroattività tributaria, in Dir. e Prat. Trib., 2007, 3, 1, 499 ss.; AMATUCCI, L’efficacia nel tempo della norma tributaria, Milano, 2005; MASTROIACOVO, I limiti alla retroattività nel diritto tributario, Milano, 2005; MARINI, Leggi interpretative e retroattività delle leggi (note minime sulla tassabilità Irap dei contributi erogati alle imprese di trasporto pubblico locale), in Rass. Trib., 2003, 5, 1, 1781 ss.; MARONGIU, Retroattività, affidamento e esigenze di cassa, in Dir. e Prat. Trib., 2001, 5, 2, 832 ss.; PERRONE, Certezza del diritto e leggi di interpretazione autentica in materia tributaria, in Rass. Trib., 2001, 4, 1050 ss. 14 Cfr. sul punto, MARONGIU, Le centrali elettriche e l’imposta comunale sugli immobili, in Dir. e Prat. Trib., 2006, 5, 1032 ss. secondo cui l’esistenza di un dubbio ermeneutico sulla disposizione normativa, il contrasto ancora persistente nei mesi immediatamente precedenti l’emanazione della norma interpretativa, la compatibilità dell’interpretazione imposta dal legislatore con il testo della norma interpretata lasciano concludere nel senso che l’art. 1-quinquies del decreto legge 31 marzo 2005, n. 44 supera il controllo della ragionevolezza affidato alla Corte costituzionale e quindi l’eccezione di illegittimità della disposizione. In merito alla presunta

violazione dell’art. 3 Cost., l’autore precisa che «l’art. 1-quinquies non ha creato un regime privilegiato per le centrali elettriche ma, anzi, ha riportato le stesse nell’alveo dei beni cui sono state sempre accomunate, e cioè gli altiforni, i montacarichi, i carriponte, i grandi impianti di produzione di vapori», sicché, «lungi dal violare il principio di uguaglianza, l’art. 1quinquies lo riafferma perché toglie ogni possibile dubbio sul modo in cui va determinata la rendita catastale anche con riguardo alle centrali elettriche». Infondata, secondo l’autore, è anche la violazione dell’art. 53 Cost., in quanto l’art. 1-quinquies non assoggetta ad una diversa disciplina situazioni che esprimono una medesima capacità contributiva, anzi «chiarisce il criterio sulla cui base va determinata la rendita catastale degli opifici, dei beni complessi e strumentali e riporta le centrali elettriche fra quegli immobili fra i quali sono sempre state annoverate proprio per non tassare in modo diverso beni che esprimono la stessa capacità contributiva». Sui rilievi dell’art. 1-quinquies citato, cfr. pure AMATUCCI, La legittimità costituzionale del sistema di determinazione della rendita catastale dei fabbricati posseduti da imprese ai fini Ici, in Dir. e Prat. Trib., 2006, 6, 1, 1261 ss.


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la non fondatezza15, ci soffermeremo in questa sede sulla questione, ancora oggi assai spinosa, dell’accatastabilità delle turbine degli impianti eolici e della conseguente assoggettabilità ad imposta comunale sugli immobili. Accatastabilità e assoggettamento ad Ici La legge fondamentale di formazione del nuovo catasto edilizio urbano è il R.D.L. n. 652 del 13 aprile 1939, “Accertamento generale dei fabbricati urbani, rivalutazione del relativo reddito e formazione del nuovo catasto edilizio urbano”, che nell’art. 5 contiene la definizione di unità immobiliare urbana, sotto il profilo tributario: «Si considera unità immobiliare urbana ogni parte di immobile che, nello stato in cui si trova, è di per se stessa utile e atta a produrre un reddito proprio». Lo stesso decreto legge all’articolo precedente definisce «immobili urbani i fabbricati e le costruzioni stabili di qualunque materiale costituite, diversi dai fabbricati rurali» e considera «costruzioni stabili anche gli edifici sospesi o galleggianti, stabilmente assicurati al suolo». Si tratta di disposizioni che coincidono in buona sostanza con gli artt. 1, comma 2, e 2, comma 1, lett. a, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 che, in tema di imposta comunale sugli immobili, individuano quale presupposto dell’imposta il possesso di fabbricati a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali, e definiscono il fabbricato come unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio urbano16. In maniera più dettagliata, il D.P.R. n. 1142 dell’1 dicembre 1949, n. 1142, “Approvazione del regolamento per la formazione del nuovo catasto edilizio urbano”, all’art. 40 qualifica unità immobiliare urbana «ogni fabbricato, o porzione di fabbricato o insieme di fabbricati che appartenga allo stesso proprietario e che, nello stato in cui si trova, rappresenta, secondo l’uso locale, un cespite indipen-

15 Corte cost., 20 maggio 2008, n. 162, in http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0162s-08.html. 16 MARINI, Contributo allo studio dell’imposta comunale sugli immobili, Milano, 2000, 106, secondo cui lo stesso legislatore ha scelto di ricorrere ai criteri catastali, valorizzando in tal modo sia l’elemento formale dell’unità immobiliare, sia i relativi criteri per l’iscrizione o per l’iscrivibilità nel catasto; soluzione, afferma l’autore, puramente formale «che si spiega agevolmente per le incertezze e le difficoltà applicative dell’altro possi-

dente»; precisazione utilissima visto che, evidentemente, l’unità immobiliare può essere costituita sia da un intero fabbricato (si pensi al caso di un ospedale, di una scuola, di un Ministero che occupa un intero edificio), sia da una porzione di fabbricato (ad es. un appartamento), sia da un insieme di fabbricati (è il caso per es. di uno stabilimento industriale composto da più padiglioni). Il Ministero delle Finanze a sua volta, con decreto n. 28 del 1998, ha ulteriormente precisato che l’unità immobiliare «è costituita da una porzione di fabbricato, o da un fabbricato, o da un insieme di fabbricati ovvero da un’area che, nello stato in cui si trova e secondo l’uso locale, presenta potenzialità di autonomia funzionale e reddituale» e che sono unità immobiliari «anche le costruzioni ovvero porzioni di esse, ancorate o fisse al suolo, di qualunque materiale costituite, nonché gli edifici sospesi o galleggianti, stabilmente ancorati al suolo [...]. Del pari sono considerate unità immobiliari i manufatti prefabbricati ancorché semplicemente appoggiati al suolo, quando siano stabili nel tempo e presentino autonomia funzionale e reddituale». Sotto il profilo civilistico invece, ai fini della qualificazione dell’unità immobiliare urbana, viene in rilievo l’art. 812 c.c. secondo cui «sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo»17. Il codice civile vigente pone dunque l’accento sulla differenza esistente tra il terreno e gli edifici che vi possono essere realizzati: il suolo costituisce la base della fabbrica; il manufatto è immobile in quanto tale è il terreno su cui esso è costruito, sicché la sua stabilità è derivata, non propria, e pertanto il bene costruito se staccato dal terreno, perde la sua qualificazione originaria e diviene bene mobile18.

bile criterio consistente nella astratta conformità del bene alla nozione economico-sociale di fabbricato». In tal senso anche Cass. civ., sez. V, 23 giugno 2006, n. 14673, in Giur. It. Mass., 2006. 17 Addirittura, l’art. 408 c.c. del 1865 contemplava tra i beni «immobilizzati «le fabbriche», laddove invece, come si è visto, l’art. 812 c.c. menziona «gli edifici» tra i beni immobili. Il codice del 1865 distingueva tre categorie di immobili (per natura, per destinazione e per l’oggetto) e comprendeva tra gli immobili, non

solo i terreni e le fabbriche, in quanto beni immobili per natura, ma anche gli immobili per destinazione, che erano «tutti gli oggetti mobili annessi dal proprietario ad un fondo o edifizio per rimanervi stabilmente» (art. 4141 c.c.). 18 Sulla scorta della definizione contenuta nell’art. 812 c.c., sono stati considerati “immobili” assimilabili agli “edifici e fabbricati”, e dunque si è ritenuto che integrino il presupposto dell’Ici, i serbatoi di combustibile imbullonati al suolo su un basamento di cemento e in modo stabile


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La sostanziale differenza tra le due prospettive, civilistica e tributaria è che, nel caso dell’art. 812 c.c., non si fa alcun riferimento ai materiali utilizzati, né ai sistemi di assemblaggio degli stessi, laddove viceversa l’art. 4 del R.D.L. n. 652/1939 specifica che sono da considerarsi unità immobiliari urbane «i fabbricati e le costruzioni stabili di qualunque materiale costruite». Ad una equiparazione tra le due disposizioni, civilistica e tributaria, è giunta in verità la giurisprudenza la quale, già in una lontana pronuncia di un cinquantennio addietro, ha ritenuto che l’espressione assai ampia e generica, «edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio» contenuta nel citato art. 812 c.c. sia stata usata dal legislatore per designare qualsiasi costruzione, a qualunque uso adibita, fatta con qualsiasi materiale19. Dall’esame finora condotto emerge che, già solo per composizione e struttura, gli aerogeneratori possono considerarsi bene immobile complesso infisso al suolo, alla luce della disposizione contenuta nell’art. 812 c.c. che come osservato considera bene immobile qualunque bene incorporato al suolo e dunque sotto un profilo statico, ossia esclusivamente oggettivo e in considerazione della struttura stessa del bene. Ancora di più, i generatori eolici possono essere considerati bene immobile secondo la legislazione tributaria, in base alla quale, come osservato, l’unità immobiliare, semplice o complessa che sia, è presa in considerazione essenzialmente sotto il profilo economico della redditività e dunque in una prospettiva dinamica20. La questione ha in ogni caso perso gran parte del suo rilievo a seguito del già citato intervento del legislatore avvenuto con L. 31 maggio 2005, n. 88 che si è espresso in modo specifico nel senso dell’accatastabilità in toto di tutti gli elementi che compongono le centrali elettriche, considerate quale unico bene complesso.

(Comm. trib. reg. Lombardia, sez. LXIII, 28 aprile 2003, n. 132, in Mass. Comm. trib. Lombardia, 2003, 4, 38), e persino le cose mobili incorporate al suolo sia pure artificialmente, come per esempio, le macchine per frantoio di olive infisse al suolo e a questo assicurate mediante opere murarie (Cass. civ., 22 febbraio 1955, n. 535, in Giur. It. Mass., 1955). 19 Cass. civ., 20 luglio 1962, n. 1964, in Foro It., 1962, 1, 1904. 20 Vedi in senso conforme, CEPPARULO, I tributi comunali, in Il nuovo sistema

Conclusioni Nonostante il provvidenziale intervento del legislatore del 2005 che ha inteso liquidare definitivamente la questione, ancora oggi si registrano opinioni giurisprudenziali discordi. Alcune Commissioni tributarie negano l’accatastabilità delle “pale eoliche”, ritenendo in ogni caso che, laddove proprio le si volesse considerare accatastabili, esse dovrebbero al più essere inserite nella categoria E/3 (Costruzioni e fabbricati per speciali esigenze pubbliche) esente da imposta comunale sugli immobili ai sensi dell’art. 7 del D.Lgs. n. 504/1992. La ratio di tale presa di posizione poggia sulla considerazione che i beni strumentali del parco eolico hanno il carattere di pubblico interesse e di pubblica utilità e quindi, vanno equiparati alle opere dichiarate indifferibili e urgenti; perciò la categoria più consona per tale tipo di manufatti è la E/3 (Costruzioni e fabbricati per speciali esigenze pubbliche) e sebbene l’Agenzia del Territorio, con le circolari n. 4/2006 e 4/2007, abbia dato un’interpretazione restrittiva dell’accatastamento degli immobili nella categoria E, in realtà detta limitazione si riferisce ai locali destinati ad attività commerciali nelle stazioni, aeroporti e fiere, e non ai parchi eolici. Ciò in quanto il legislatore avrebbe voluto, a seconda della destinazione (utilizzo privato o pubblico), imporre l’inquadramento nella categoria D oppure E. Pertanto, secondo detto orientamento, il discrimen non sarebbe la redditività, in quanto i distributori di carburante, pur essendo produttivi di altri redditi d’impresa, sono accatastati nella categoria E, proprio perché svolgono una funzione di rilevanza pubblica allo stesso modo delle pale eoliche che concorrono a creare energia pulita. Il fatto dunque che gli impianti eolici hanno carattere di pubblico interesse e di pubblica utilità consente di inquadrare il parco eolico nella categoria E, escludendo l’assoggettabilità ad Ici21. Inoltre, proprio per il fatto che gli aerogeneratori

fiscale degli enti locali, a cura di AMATorino, 2008, 124 ss. L’autore sostiene che sono da considerare unità immobiliari urbane oggetto di accatastamento i «fabbricati» e le «costruzioni stabili» suscettibili di produrre un «reddito proprio» e che per le costruzioni stabili destinate a specifiche esigenze industriali la rendita catastale deve essere stimata considerando l’insieme del complesso produttivo nella sua interezza, comprensivo degli impianti, concludendo che dette «costruzioni stabili rilevano ai fini dell’assoggetTUCCI,

tabilità ad Ici sia perché rientranti nella nozione di fabbricato e sia perché concorrono alla determinazione della rendita catastale in base alla stima diretta, ancorché non infisse al suolo». 21 Per tali ragioni, esse vanno «equiparate alle opere dichiarate indifferibili e urgenti» e dunque inserite nella categoria più consona per tale tipo di manufatti e cioè la E/3 Costruzioni fabbricati per speciali esigenze pubbliche. In tal senso, Comm. trib. prov. Foggia, sez. V, sent. 20 giugno 2007, n. 45, inedita.


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forniscono energia pulita e quindi poiché essi producono un sicuro beneficio di carattere sociale e pubblico, sembrerebbe in contrasto con la prevalente politica mondiale in materia di tutela ambientale che incentiva la ricerca di fonti di energia pulita, la tassazione degli stessi a fini Ici, generando le pale eoliche, per l’appunto, energia pulita22. Più condivisibile pare tuttavia l’impostazione data alla questione dalla Commissione tributaria regionale della Campania nella pronuncia in commento che ha fondato il proprio convincimento sull’interpretazione autentica dell’art. 4 del regio decreto legge n. 652/1939 fornita dal comma 540 della legge n. 331 del 30 dicembre 2004 (Finanziaria 2005) secondo cui il citato articolo 4 «si interpreta nel senso che i fabbricati e le costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti ad esso strutturalmente connesse, anche in via transitoria, cui possono accedere, mediante qualsiasi mezzo di unione, parti mobili allo scopo di realizzare un unico bene complesso. Pertanto, concorrono alla determinazione della rendita catastale, ai sensi dell’art. 10 del citato regio decreto legge, gli elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili costruiti per le speciali esigenze di un’attività industriale o commerciale anche se fisicamente non incorporati al suolo». La Commissione tributaria regionale della Campania, partendo dai presupposti che tutti gli elementi dell’impianto eolico costituiscono un’entità unica la cui funzione unitaria è quella di produr-

22 Cfr. in tal senso Comm. trib. prov. Foggia, sez. II, sent. 19 settembre 2007, n. 127 del qui commentata. 23 Per la determinazione della rendita catastale occorre valutare la redditività media ordinaria dell’immobile. Ad essa si perviene, per le categorie ordinarie, attraverso la stima sintetica basata sul sistema delle categorie e classi, ossia sul confronto delle caratteristiche intrinseche ed estrinseche che qualificano ogni unità immobiliare con le “unità tipo”, individuate dal catasto come rappresentative, in ciascuna zona censuaria, delle capacità reddituali delle unità immobiliari similari, ricadenti nella medesima zona. Per le categorie a destinazione speciale o particolare, quali per l’appunto le centrali elettriche, si procede con il metodo della stima diretta, secondo il disposto dell’art. 10 del R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652 che vuole appunto che la rendita catastale delle unità immobiliari costituite

re energia e che «ai fini fiscali, a nulla rilevi donde arrivi l’energia per far funzionare l’impianto», ha ritenuto tassabili gli impianti eolici nel loro complesso, in quanto accatastabili nella categoria D/1 tra gli immobili a destinazione speciale gli impianti stessi, le sottostazioni, gli aerogeneratori e le cabine elettriche, con conseguente determinazione della rendita per stima diretta23. È infatti innegabile che gli immobili e le strutture afferenti agli impianti eolici siano funzionalmente destinati ad un’attività industriale di produzione e vendita di energia elettrica, e se è pur vero che detta attività è incentivata dallo Stato24, per gli indubbi benefici che arreca all’ambiente, essa resta comunque un’attività economica privata diretta esclusivamente a produrre reddito a beneficio dell’imprenditore. A tale riguardo si segnalano le recenti disposizioni contenute nell’art. 2, commi 40 ss., del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito dalla legge 24 novembre 2006, n. 268 che ha dettato norme in materia di classificazione degli immobili e in particolare delle unità immobiliari censite nella categoria catastale E. Più nello specifico, il comma 40 del citato art. 2 dispone che «nelle unità immobiliari censite nelle categorie da E/1 a E/9 non possono essere compresi immobili o porzioni d’immobili destinati ad uso commerciale, industriale, ad ufficio privato ovvero ad usi diversi, qualora gli stessi presentino autonomia funzionale o reddituale». Seguendo dunque il disposto della norma appena

da opifici «costruiti per le speciali esigenze di un’attività industriale o commerciale e non suscettibili di una destinazione estranea alle esigenze suddette senza radicali trasformazioni, è determinata con stima diretta per ogni singola unità». LAMBERTI, La rendita catastale degli immobili a destinazione speciale, in Corr. Trib., 2004, 23, 1836 ss.; AMATUCCI, La legittimità, cit., 1257 ss. 24 In tema di incentivi allo sviluppo delle tecnologie pulite per la produzione di energia elettrica, si segnala il recente intervento del legislatore statale, di cui ai commi dal 136 al 178 dell’art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008), che ha stabilito un finanziamento per la realizzazione di mini impianti eolici per uso domestico e impianti a biomasse fino ad 1 mw. In sintesi, l’ultima Finanziaria stabilisce la detraibilità Irpef al 36% delle spese sostenute, se l’impianto è adibito all’uso di

civile abitazione e il pagamento dell’Iva al 10%. Inoltre, per impianti di potenza nominale inferiore a 200 kwp, si può accedere allo scambio sul posto, ossia riversare in rete l’energia eolica quando non la si consuma direttamente e scalare tali kwh prodotti in eccesso dalla propria bolletta elettrica. Inoltre, per la produzione di energia elettrica da impianti eolici superiori ai 200 kw, si possono ottenere i “certificati verdi” per 15 anni e rivendere a prezzi di mercato l’energia elettrica prodotta durante tutta la vita dell’impianto. La Finanziaria 2008 ha introdotto infine, il “conto energia”per gli impianti eolici di potenza elettrica non superiore a 200 kw che, su richiesta del produttore, in alternativa ai certificati verdi, danno diritto ad una tariffa fissa onnicomprensiva per quindici anni, differenziata per fonte rinnovabile, aggiornabile ogni tre anni (0,30 euro per kwh prodotto).


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citata e considerato che l’attività degli impianti eolici è diretta alla produzione e vendita di energia elettrica, alla luce delle disposizioni sopra citate è da escludere che gli impianti eolici considerati nel loro complesso e dunque comprensivi di sottostazioni, aerogeneratori, cabine elettriche e turbine, possano essere accatastati con la categoria E. In tale ottica, l’attività commerciale che connota gli enti e le società che forniscono energia fa sì che, anche laddove sia lo stesso Comune, ente impositore ai fini Ici, a fornire il servizio, per il tramite di aziende municipalizzate o altri enti o società che forniscono energia elettrica, detta attività non possa essere ricompresa tra i compiti istituzionali dell’ente Comune, con conseguente esenzione ex art. 7, comma 1, lett. a, del D.Lgs. n. 504 del 30 dicembre 1992 per gli immobili posseduti dallo Stato o dagli altri enti pubblici ivi elencati, purché «destinati esclusivamente ai compiti istituzionali». Anche in tali casi, le imprese che assicurano la fornitura del servizio esercitano attività commerciale e pertanto non hanno alcuna ragione di godere di esenzioni25. Un opificio è infatti considerato un’entità complessiva nella quale i singoli elementi, quale che sia il loro collegamento funzionale con il tutto, non possono essere considerati atomisticamente, ma come componenti inscindibili e indispensabili per la configurabilità stessa del complesso suscettibili di valutazione economica26.

25 Cass. civ., sez. V, 10 dicembre 2007, n. 25799, inedita.

Dunque una centrale eolica ha tutte le caratteristiche strutturali e funzionali per essere accatastata come unità immobiliare e più precisamente come opificio industriale. Si tratta infatti di un unico complesso produttivo in cui i singoli elementi, sebbene siano suscettibili di un’autonoma valutazione economica e siano peraltro determinanti nella valutazione del reddito complessivo, in quanto trattasi di impianti essenziali per la destinazione economica dell’intera centrale, non possono essere valutati separatamente, in quanto tali impianti sono essenziali per la funzionalità stessa dell’intera centrale che non sarebbe completa e non potrebbe concepirsi senza di essi. Pertanto, le centrali eoliche, essendo costituite da strutture e impianti connessi tra di loro e unificati da un nesso funzionale in vista della destinazione ad una determinata utilizzazione produttiva, rientrano nel novero degli opifici industriali e pertanto vanno classificate catastalmente tra gli immobili a destinazione speciale, categoria D, in relazione ai quali la determinazione della rendita avviene per stima diretta. Priva di rilievo pare, infine, la questione relativa alla natura dei terreni sui quali insistono gli impianti eolici, situati per forza di cose in aree montane o collinari e, per ciò stesso, esenti dall’imposta comunale sugli immobili ai sensi della lett. h del comma 1 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 504/1992. Essi infatti, restano non assoggettabili all’imposta.

26 Cass. civ., sez. V, 17 novembre 2004, n. 21730, in Dir. e Prat. Trib., 2005, 2, 733.


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Commissione tributaria provinciale di Grosseto, sez. IV, 7 dicembre 2007, n. 114 Presidente: Montagna - Relatore: Pulitati Imposte e tasse in genere - Misure cautelari ex art. 22, D.Lgs. n. 472/1997 - Ipoteca e sequestro - Garanzia crediti per tributi e interessi moratori - Applicabilità (L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 26; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 22) L’ipoteca e il sequestro conservativo previsti dall’art. 22 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 possono essere utilizzati anche a garanzia di crediti per tributi evasi e interessi moratori derivanti da violazioni di leggi finanziarie, atteso che, quando il credito sorge quale diretta conseguenza di tali violazioni, non c’è ragione di distinguere il credito relativo alla pena pecuniaria da quello relativo alle altre obbligazioni derivanti dalla stessa violazione, per limitare alla prima l’operatività della misura cautelare. L’Agenzia delle Entrate di [...] con istanza depositata l’11 settembre 2007 presentava richiesta di misura cautelare ex art. 22 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. Premetteva detta Agenzia che a seguito di processo verbale di constatazione aveva rilevato che la società [...] Immobiliare S.r.l. in liquidazione aveva commesso gravi irregolarità per le annualità sottoposte a controllo (2003, 2004, 2005 e 2006). [Omissis] In considerazione dei rilevanti importi evasi, della difficoltà della pretesa erariale e della condizione di evasore paratotale della società e ritenendo sussistere sia il fumus boni juris che il periculum in mora, chiedeva pertanto il sequestro conservativo dei beni immobili di proprietà della società con eventuale iscrizione di ipoteca legale sugli stessi fino all’importo complessivo di euro 4.042.777,40. La società [...] Immobiliare S.r.l. in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, presentava memoria difensiva. Chiedeva in via pregiudiziale che la richiesta di misura cautelare venisse dichiarata inammissibile per inesistenza del titolo, essendo la misura invocata dall’ufficio prevista solo per la pretesa sanzionatoria e non per le imposte e gli interessi, in considerazione che la norma in questione era stata assunta in esecuzione della legge delega 23 di-

cembre 1996, n. 662 relativa alla revisione delle sanzioni tributarie non penali; al riguardo leggeva criticamente la sentenza della Suprema Corte 12 giugno 1998, n. 5872 e citava a sostegno la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bari, 18 maggio 2006, n. 72. Sosteneva inoltre che la pretesa dell’ufficio era stata quantificata solo in questa sede e che in precedenza lo stesso ufficio aveva annullato in via di autotutela gli avvisi per il 2003 e il 2004. Negava la sussistenza del requisito del fumus boni juris, in particolare contestando che alle Rta si applicasse l’aliquota del 20% e affermando che era solo una mera ipotesi la vendita sotto costo delle unità immobiliari. Negava altresì la sussistenza del requisito del periculum in mora. Sosteneva che l’ufficio ben poteva ricorrere alla garanzia dell’iscrizione a ruolo della metà delle maggiori imposte in caso di contenzioso ed essendo garantito dalla natura privilegiata dei crediti erariali, che la procedura di liquidazione non poteva essere ritenuta una fase depauperativa del patrimonio societario, fornendo sufficienti garanzie sulla ripartizione dei crediti e dei debiti, e infine che ogni considerazione sulla redditività dei soci era ininfluente, trattandosi di procedimento nei confronti di una società a responsabilità limitata e quindi con capacità patrimoniale indipendente. In data 4 ottobre 2007 l’ufficio depositava una memoria illustrativa con cui ribadiva le proprie tesi e contestava le argomentazioni di parte avversa. All’odierna udienza la Commissione ritiene l’istanza fondata e come tale meritevole di accoglimento. Va premesso che non può trovare accoglimento l’eccezione di inammissibilità proposta pregiudizialmente dalla società resistente, ritenendo che la misura invocata dall’ufficio sarebbe prevista solo per la pretesa sanzionatoria e non per le imposte e gli interessi, in considerazione che la norma in questione era stata assunta in esecuzione della legge delega 23 dicembre 1996, n. 662 relativa alla revisione delle sanzioni tributarie non penali. Sul punto si è pronunciata la Suprema Corte con la sentenza del 12 giugno 1998, n. 5872, la cui massima così recita: «L’iscrizione di ipoteca legale sui beni del trasgressore per la violazione di una norma, per la quale sia stabilita una pena pecu-


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niaria, può essere chiesta al Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 26 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, anche a garanzia di tributi che trovano titolo nella violazione di leggi finanziarie, atteso che, quando il credito sorge quale diretta conseguenza della violazione della legge finanziaria, non c’è ragione di distinguere quello relativo alla pena pecuniaria dalle (altre) obbligazioni derivanti (come l’imposta evasa) dalla stessa violazione, per limitare alla prima la operatività della misura cautelare (nella specie l’intendente di finanza aveva chiesto al Presidente del Tribunale di essere autorizzato a iscrivere ipoteca su un immobile del trasgressore a garanzia di crediti per tributi evasi ed interessi moratori derivanti da violazioni delle leggi sull’imposta di fabbricazione)», Cass., sez. I. sent. 12 giugno 1998, n. 5872. La Commissione ritiene assolutamente da condividere detto indirizzo giurisprudenziale. La diversa tesi proposta dalla parte resistente e fatta propria da alcune Commissioni tributarie provinciali (quali, ad es., Bari e Milano) si basa su una lettura meramente formale per la previsione, dell’istituto all’interno della norma dedicata al riordino delle sanzioni tributarie non penali, con la conseguenza asserita sussistenza di una violazione della delega da parte del legislatore delegato in caso di estensione della portata della norma. Ma è evidente che la ratio della legge è quella di fornire un forte presidio cautelare delle pretese tributarie e che sarebbe assurdo che detta difesa sia riservata solo alle sanzioni e non invece anche alla pretesa originaria e sostanziale, cui le prime sono inscindibilmente legate da un rapporto di pertinenza e dipendenza, e agli interessi. Né muta detta convinzione la considerazione che la decisione citata della Suprema Corte riguardasse la precedente normativa, identici essendo i presupposti delle due norme, con unica differenza del destinatario del potere, il Presidente del Tribunale all’epoca e ora invece il Presidente della Commissione tributaria provinciale. E infatti si osserva che il legislatore del 1997 ha riscritto l’istituto all’art. 22, procedendo nel contempo con l’art. 29 all’esplicita abrogazione dell’art. 26 della legge 7 gennaio 1929, n. 4. Non ci può quindi essere alcun dubbio sul suo intento di disciplinare il medesimo istituto in un ottica di continuità normativa. Nel merito si ritiene che sussistano nella specie entrambi i requisiti richiesti dalla norma per la concessione della richiesta misura cautelare. Al riguardo costante è l’indirizzo della giurisprudenza della Suprema Corte, ben rappresentata dalla seguente massima, «in tema di repressione delle

violazioni di leggi finanziarie, l’iscrizione d’ipoteca legale sui beni del trasgressore, prevista dall’art. 26 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 (abrogato dall’art. 29, comma 1, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, ma applicabile ratione temporis nel caso di specie), ha natura cautelare e può essere disposta in base al solo processo verbale di constatazione di una contravvenzione, e quindi anche in un momento anteriore alla formazione del titolo del credito, purché sussistano i presupposti del fumus boni juris e del periculum in mora (Cass., sez. V, sent. 20 dicembre 2006, n. 27226, Rv 594560). Quanto al fumus boni juris, va ricordato che al giudice della cognizione sommaria e della fase cautelare sarebbe sufficiente un esame meno approfondito rispetto al giudice della cognizione piena della controversia: la cognizione del fumus boni juris potrebbe essere circoscritta ad un accertamento delibativo del diritto, fondato sulla ritenuta probabilità della sua esistenza, senza pregiudizio del successivo riesame, con giudizio di certezza e nella completezza delle acquisizioni istruttorie, delle stesse questioni ai fini sostanziali. Pur ciò premesso, nel caso di specie si osserva che è imponente il numero e l’importanza delle violazioni accertate dall’ufficio nel suo verbale di accertamento, con omissioni di fatturazioni, registrazioni e dichiarazioni di ricavi di fatturazioni di acconti per gli anni in esame, e non a caso tale tema è stato sostanzialmente ignorato dalla difesa della resistente che si è limitata ad accentrare la propria attenzione sulla questione della diversa aliquota da applicare in caso dì costruzione di fabbricati con destinazione Rta. Né difetta l’altro requisito, quello del periculum in mora. Lo stato di messa in liquidazione della società costituisce sicuramente un rilevante segnale d’allarme sulla salute e la solvibilità della società stessa e un attacco alle sue poche garanzie reali: la fisiologica vendita delle ultime unità immobiliari non potrebbe che comportare l’ovvia diminuzione della garanzie dei creditori in generale e dell’ufficio finanziario in particolare. Né vale sostenere che comunque si tratterebbe di crediti privilegiati da poter far valere in un secondo momento: è ovvio infatti che il costringere l’ufficio ad ulteriori successive azioni nei confronti anche di terzi è un indebolimento della propria posizione e dell’efficacia della sua azione, mentre invece l’iscrizione di ipoteca legale renderebbe chiaro a chiunque quale è lo stato reale dei beni di cui si discute. Analoga e simile considerazione vale anche relativamente all’analoga e simile tesi difensiva sull’insussistenza del periculum per la presenza nel


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procedimento di riscossione dei tributi della possibilità di agire immediatamente per una parte della pretesa tributaria comportante l’ovvia diminuzione delle garanzie dei creditori in generale e dell’ufficio finanziario in particolare. [Omissis] È evidente infatti, che il legislatore ha inteso dotare gli uffici finanziari di uno strumento ulteriore, rispetto a quelli ordinari a presidio del credito, tributario o ordinario, e che la lettura restrit-

tiva proposta dalla difesa renderebbe incomprensibile la previsione stessa della misura cautelare in questione. Tutto ciò premesso, devono essere autorizzate le misure cautelari richieste dall’ufficio. Gli importi, in difetto di ulteriori elementi allo stato del procedimento cautelare non possono essere che quelli emersi in sede di accertamento, lasciando all’eventuale dibattito in sede di merito il compito di accertare la fondatezza della pretesa dell’ufficio.

Nota

seguenza della violazione della legge finanziaria, non c’è ragione di distinguere quello relativo alla pena pecuniaria dalle (altre) obbligazioni derivanti (come l’imposta evasa) dalla stessa violazione, per limitare alla prima l’operatività della misura cautelare (nella specie l’intendente di finanza aveva chiesto al Presidente del Tribunale di essere autorizzato ad iscrivere ipoteca su un immobile del trasgressore a garanzia di crediti per tributi evasi ed interessi moratori derivanti da violazioni delle leggi sull’imposta di fabbricazione)». Secondo la Commissione provinciale, le argomentazioni della Suprema Corte devono ritenersi valide anche con riferimento alla normativa vigente in quanto identici sono i presupposti delle due norme. L’unica differenza è data dal destinatario del potere, il Presidente del Tribunale all’epoca e il Presidente della Commissione tributaria provinciale oggi. I giudici di Grosseto sostengono che la tesi secondo la quale le misure cautelari ex art. 22, D.Lgs. 472/1997 possono essere utilizzate a garanzia solo dei crediti per sanzioni, «si basa su una lettura meramente formale per la previsione dell’istituto all’interno della norma dedicata al riordino delle sanzioni tributarie non penali, con la conseguenza della asserita sussistenza di una violazione della delega da parte del legislatore delegato in caso di estensione della portata della norma». Invece, per i giudicanti, «è evidente che la ratio della norma è quella di fornire un forte presidio cautelare delle pretese tributarie e che sarebbe assurdo che detta difesa sia riservata alle sole sanzioni e non invece anche alla pretesa originaria e sostanziale, cui le prime sono inscindibilmente legate da un rapporto di pertinenza e dipendenza, e agli interessi». La sentenza in commento fa seguito ad alcune pronunce di epoca più risalente, che subito dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 472/1997 hanno sostenuto l’applicabilità delle misure cautelari ex art. 22 anche ai crediti per imposte e interessi, quali la Comm. trib. prov. Genova, sez. I, 26 novembre 1998, n. 249, in Riv. Giur. Trib., 1999, 151 e la Comm. trib. prov. Bologna, sez. XV, 10 ottobre

La giurisprudenza di merito torna ad occuparsi del tema relativo all’individuazione dei crediti oggetto della garanzia prevista dall’art. 22, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 il quale, al comma 1, prevede che «in base all’atto di contestazione, al provvedimento di irrogazione della sanzione o al processo verbale di constatazione e dopo la loro notifica, l’ufficio o l’ente, quando ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può chiedere, con istanza motivata, al Presidente della Commissione tributaria provinciale l’iscrizione di ipoteca sui beni del trasgressore e dei soggetti obbligati in solido e l’autorizzazione a procedere, a mezzo di ufficiale giudiziario, al sequestro conservativo dei loro beni, compresa l’azienda» (per un approfondimento sul tema si vedano: MESSINA, Commento all’art. 22, in AA.VV, Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria, a cura di Moschetti-Tosi, Padova, 2000, 657; VULLO, Commento all’art. 22, D.Lgs. n. 472/1997, in AA.VV, Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo-Glendi, Padova, 2005). In netto contrasto con quanto espresso dalla recente giurisprudenza e dalla dottrina, i giudici della Commissione tributaria provinciale di Grosseto giungono a sostenere che il sequestro e l’ipoteca possano essere utilizzate non solo a garanzia dei crediti per sanzioni, ma anche per quelli relativi alle imposte e agli interessi moratori. A sostegno della sua tesi, il Collegio giudicante richiama la sentenza della Corte di Cassazione del 12 giugno 1998, n. 5872, in Dir. e Prat. Trib., 1999, II, 448, la cui massima recita «l’iscrizione di ipoteca legale sui beni del trasgressore per la violazione di una norma, per la quale sia stabilita una pena pecuniaria, può essere chiesta al Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 26 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, anche a garanzia di tributi che trovano titolo nella violazione di leggi finanziarie, atteso che, quando il credito sorge quale diretta con-


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1998, n. 1238, in Foro It., 1999, III, 35; nonché dubitativamente Avv. gen. Stato, parere del 5 dicembre 1998, in Boll. Trib., 1999, 570, che invoca come precedente la sentenza della Cassazione del 12 giungo 1998, n. 5872, cit. In dottrina hanno affermato l’utilizzabilità delle misure cautelari ex art. 22, D.Lgs. 472/1997 anche a garanzia del credito per imposte: GLENDI, Sulla nuova disciplina delle misure cautelari “pro fisco”, in Riv. Giur. Trib., 1999, 156; GIORGETTI, Presupposti e limiti dell’ipoteca legale per crediti di imposta, nota a sent. n. 5872 del 12 giugno 1998, in Riv. Giur. Trib., 1998, 1062; FERRAÙ, La disciplina delle misure cautelari ex art. 22, D.Lgs. 472 del 1997, in Riv. Giur. Trib., 1999, 906; CANTILLO, Il sequestro conservativo, in Rass. Trib., 2003, 441; D’AGOSTINO, Ipoteca e sequestro conservativo a tutela dei debiti fiscali, in Fisco, 2005, 11616. Il Collegio giudicante si pone, però, in netto contrasto con la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria, le quali affermano che l’ipoteca e il sequestro conservativo di cui all’art. 22 del citato decreto possono essere utilizzati soltanto a garanzia del credito per sanzioni. In tal senso si sono espresse Comm. trib. prov. Pesaro, sez. I, 8 febbraio 2005, n. 51, in Fisco, 2005, 8223; Comm. trib. prov. Bari, sez. X, 18 maggio 2006, n. 72, su www.agenziaentrate.it; Comm. trib. prov. Genova, sez. I, 15 novembre 2006, n. 369, con nota critica di MAURINO, I crediti a garanzia dei quali può essere iscritta l’ipoteca ex art. 22, D.Lgs. n. 472/1997, in questa rivista, 2007, 3, 607; Comm. trib. prov. Savona, sez. I, 9 luglio 2007, n. 184, in questa rivista, 2007, 4, 817; Comm. trib. prov. Bari, sez. XII, 24 giugno 2008, n. 160, inedita. In dottrina sostengono la tesi più restrittiva dell’u-

tilizzabilità delle misure cautelari suddette solo a garanzia del credito per sanzioni: FALCONE, Ipoteca e sequestro a tutela del credito sanzionatorio, in AA.VV., La riforma delle sanzioni amministrative tributarie, a cura di Tabet, Torino, 2000, 286-287; PISTOLESI, Ipoteca e sequestro conservativo, in AA.VV., Il nuovo processo tributario, a cura di Baglione-Meschini-Miccinesi, Milano 2004, 498; INGRAO, Presupposti processuali, ambito di applicazione e condizioni dell’azione nel procedimento cautelare a favore del fisco, in Rass. Trib., 2006, II, 2165; DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in questa rivista, 2007, 3, 429. L’amministrazione finanziaria, invece, pur sostenendo la tesi secondo la quale la misura cautelare ex art. 22 è utilizzabile anche a garanzia dei crediti per le imposte, sembra però prudente laddove chiarisce che «anche l’imposta può concorrere alla quantificazione del credito che si intende garantire. Deve trattarsi, tuttavia, di imposta evasa (nel senso proprio del termine) ossia che si assume dovuta quale diretta conseguenza della violazione. Pertanto la richiesta della garanzia di cui trattasi non può estendersi ai tributi dichiarati dallo stesso contribuente e non versati, in ordine ai quali è possibile, peraltro, procedere all’immediata riscossione coattiva» (così Agenzia delle Entrate, circ. n. 66 del 6 luglio 2001, su www.agenziaentrate.it). In precedenza l’orientamento dell’amministrazione finanziaria sembrava ancora più prudente in quanto la circolare del Ministero delle Finanze n. 180/E del 10 luglio 1998, su www.agenziaentrate.it, sembrava limitare le misure cautelari ex art. 22 al solo credito per sanzioni (in tal senso DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, cit., 430).

IL RIMBORSO DEI COSTI DI FIDEIUSSIONE SECONDO LO STATUTO DEL CONTRIBUENTE 71

Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, sez. I, 15 gennaio 2008, n. 2 Presidente: Bassi - Relatore: Di Martino Imposte e tasse in genere - Statuto del contribuente (L. n. 212/2000) - Tutela dell’integrità patrimoniale - Costo delle fideiussioni - Rimborso ex art. 8 dello Statuto - Regolamento attuativo - Mancata emanazione - Irrilevanza - Diretta applicabilità art. 8 (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 8, commi 4 e 6)

In base all’art. 8 dello Statuto, il contribuente ha diritto al rimborso dei costi delle fideiussioni sostenuti per richiedere la sospensione del pagamento o la rateizzazione o il rimborso dei tributi. Tale norma, ponendo un principio generale, risulta immediatamente e direttamente applicabile, anche se non è stato emanato il regolamento di attuazione.


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Svolgimento del processo Con la sopraindicata sentenza, depositata il 23 settembre 2003, la Commissione tributaria provinciale di Udine accoglieva il ricorso di I. S.p.A. avverso il diniego dell’amministrazione finanziaria in ordine alla richiesta di rimborso, effettuata dalla società ai sensi dell’art. 8 della legge 212/2000, del costo delle fideiussioni ammontante a complessivi 27.281,00. La ricorrente società, nelle more dei giudizi concernenti avvisi di rettifica Iva notificati per gli anni 1990, 1991 e 1992 e successivamente annullati con sentenze passate in giudicato, aveva dovuto richiedere la fideiussione, dal 26 febbraio 1996 al 10 novembre 2002, al fine di ottenere il rimborso dell’eccedenza di Iva versata per i primi tre trimestri dell’anno 1995. L’ufficio aveva motivato il diniego di rimborso invocando, da un lato, l’inapplicabilità dell’art. 8 della legge 212/2000 (entrata in vigore il 10 agosto 2000) alle fìdeiussioni prestate anteriormente a detta data, quale la polizza di cui trattasi, decorrente dal 26 febbraio 1996 e successivamente rinnovata (fino al 9 novembre 2000); e, dall’altro, la necessità di attendere l’emanazione di decreto attuativo, previsto dal citato art. 8, legge 212/2000. Con atto notificato in termini il 20 novembre 2003 e depositato il 26 novembre 2003, l’ufficio appellava la decisione suddetta chiedendo conferma del proprio operato, con censure rivolte all’impugnata sentenza sia in ordine alle sue valutazioni sul merito della controversia (mancata considerazione dell’assenza di norme di attuazione e inapplicabilità della norma sostanziale nel caso di fideiussioni antecedentemente stipulate), sia in ordine alla condanna alle spese di lite che, per oggettiva difficoltà interpretativa della normativa di riferimento, avrebbero dovuto essere compensate, con richiesta estensione della compensazione anche al giudizio di appello. Costituitasi in giudizio, la ricorrente società chiedeva conferma dell’appellata sentenza, ritenendola ineccepibile anche in motivazione, ampliando e sviluppando sul punto le proprie argomentazioni difensive e concludendo con richiesta di rigetto dell’appello di controparte e vittoria di spese. Motivi della decisione La Commissione ritiene infondato l’appello dell’ufficio osservando in proposito che la disciplina posta dal richiamato art. 8 della legge 212/2000 introduce nell’ordinamento giuridico un vero e proprio di-

ritto soggettivo in capo al contribuente, del quale mira a tutelare l’integrità patrimoniale, come recita la stessa rubrica. Il comma 4, nel contemplare il diritto del contribuente (affermando che «l’amministrazione è tenuta») al rimborso del costo delle fideiussioni, ne condiziona l’insorgenza all’avvenuto definitivo accertamento, come nel caso di cui trattasi, che l’imposta non era dovuta o era dovuta in misura minore rispetto a quella accertata. La Commissione ritiene di doversi valutare e ricordare in proposito che la succitata disposizione, per espressa previsione dell’art. 1 della legge 212 medesima, costituisce principio generale dell’ordinamento tributario e come tale, quindi, ricavato dal quadro normativo generale esistente; anche sotto questo profilo, dunque, risulterebbe irragionevole disconoscere l’immediata operatività di un diritto soggettivo, che – stando alla tesi difensiva dell’amministrazione – dovrebbe essere disatteso per il mancato esercizio (all’epoca dell’istanza di rimborso) di una “potestà” regolamentare di natura attuativa. Parimenti e per le stesse ragioni risulta fuorviante la tesi secondo cui l’operatività del diritto al rimborso scatterebbe per le polizze stipulate posteriormente all’entrata in vigore della legge 212/2000, la cui particolare importanza si ricava anche dalla volontà del legislatore di rinunciare alla normale vacatio legis, prevedendone l’immediata entrata in vigore al giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Una limitazione temporale, nel senso richiesto dall’ufficio, ossia di escludere i costi delle fideiusioni stipulate anteriormente all’entrata in vigore della legge 212/2000, ma a tale data ancora aperte, escludendo per quelle operazioni il riconoscimento di diritti soggettivi al rimborso, non risulta evidenziabile nella nuova normativa la quale ha semplicemente riconosciuto, a partire dal 10 agosto 2000, la sussistenza del diritto soggettivo dei contribuente per garantirne l’integrità patrimoniale, nell’interesse generale. Non risulterebbe quindi affatto ragionevole, in assenza di una specifica disposizione legislativa, rinviare ad epoca futura l’applicazione della norma sulla tutela dell’integrità patrimoniale, escludendola per i casi nei quali il costo della fideiussione, seppure ancora aperta alla data di entrata in vigore della norma, sia stato sostenuto anteriormente ad essa. In relazione a quanto sopra occorre pertanto concludere per il rigetto dell’appello dell’ufficio, salvo che per le spese di lite che la Commissione ritiene di doversi integralmente compensare, sussistendone giusti motivi riconducibili ad obiettive incertezze interpretative in ordine al quadro normativo di riferimento dell’epoca.


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Nota di Riccarda Castiglione La giurisprudenza di merito promuove la più ampia e incondizionata applicabilità dell’art. 8 dello Statuto del contribuente. Il punto decisivo della sentenza riguarda la mancanza di disposizioni attuative dell’art. 8 dello Statuto, che non sarebbe tale da impedire l’esercizio dei diritti patrimoniali ivi riconosciuti, compreso quello relativo alla restituzione dei costi di fideiussione. Il tema ripropone quindi questioni di carattere sistematico affrontate per altri istituti, come quello della compensazione, che hanno già trovato riscontro in diverse pronunce. Tuttavia è innegabile che il rimborso dei costi di fideiussione pone ulteriori profili di rilievo applicativo che, nonostante siano numerosi e complessi, non emergono ancora appieno nella giurisprudenza tributaria. Premessa La sentenza ha ad oggetto l’applicabilità dell’art. 8 dello Statuto del contribuente (legge n. 212 del 27 luglio 2000) inteso a tutelare «l’integrità patrimoniale del contribuente». Più nel dettaglio, la questione al vaglio della Commissione tributaria regionale di Trieste involve il comma 4 della norma, secondo cui «l’amministrazione finanziaria è tenuta a rimborsare il costo delle fideiussioni che il contribuente ha dovuto chiedere per ottenere la sospensione del pagamento o la rateizzazione o il rimborso dei tributi». Delle tre ipotesi indicate, nella pronuncia in esame il diritto del contribuente al rimborso dei costi di fideiussione è riconducibile alla terza; la fideiussione, infatti, era stata stipulata dal contribuente al fine di ottenere il rimborso di un’eccedenza Iva. Quale ulteriore condizione, l’art. 8 dello Statuto prevede, sempre al comma 4, che il rimborso del costo delle fideiussioni vada effettuato «quando sia stato definitivamente accertato che l’imposta non era dovuta, o era dovuta in misura inferiore rispetto a quella accertata». Nel caso al vaglio della Commissione tributaria regionale di Trieste, infatti, all’istanza di rimborso Iva erano seguiti degli avvisi di rettifica, sui quali i giudici si erano definitivamente pronunciati con sentenza passata in giudicato favorevole al contribuente.

Tuttavia, il tema affrontato dalla Commissione, come si avrà modo di osservare in prosieguo, si concentra esclusivamente sull’ambito applicativo dell’art. 8, che è solo uno dei possibili spunti di riflessione. Nella vicenda in esame il contribuente aveva effettuato una richiesta di rimborso del credito Iva risultante dalla dichiarazione, ma successivamente l’Agenzia delle Entrate aveva emesso avvisi di rettifica ritenendo l’eccedenza rimborsabile non corrispondente a quanto dichiarato. Il contribuente aveva quindi provveduto ad impugnare gli avvisi di rettifica, ottenendone poi l’annullamento con sentenza passata in giudicato, e aveva pertanto proceduto a formulare all’ufficio la richiesta di rimborso dei costi all’epoca sostenuti per la fideiussione, invocando il disposto dell’art. 8, comma 4. Tuttavia, secondo l’ufficio, l’inesistenza di disposizioni attuative della norma la rendevano inapplicabile e di conseguenza l’istanza di rimborso non poteva essere accolta. Ulteriore causa ostativa al rimborso era data poi dalla circostanza che la polizza era stata stipulata anteriormente all’entrata in vigore della legge. I giudici di merito sono quindi chiamati ad affrontare il tema dell’applicabilità dell’art. 8 dello Statuto del contribuente sotto due profili: quello relativo all’efficacia della disposizione in termini assoluti, considerata la mancanza di disposizioni regolamentari di attuazione, previsti al comma 6; quello riguardante invece l’aspetto temporale. Qualora cioè si propenda per ritenere la norma operativa, pur in mancanza di disposizioni attuative, i giudici triestini si domandano se la disposizione possa trovare applicazione anche per le fideiussioni stipulate prima della sua entrata in vigore. Le conclusioni tratte dalla sentenza, pur se pienamente condivisibili, lasciano spazio ad interrogativi di notevole importanza, ancora poco dibattuti. Il rimborso dei costi delle fideiussioni L’art. 8, comma 4, dello Statuto del contribuente prevede l’obbligo, per l’amministrazione finanziaria, di effettuare il rimborso dei costi che il contribuente ha dovuto sostenere per ottenere: 1) la sospensione del pagamento; fattispecie disciplinata in particolare dall’art. 47, comma 5, del D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992, in base al quale la Commissione tributaria provinciale può subordinare la totale o parziale sospensione1 del-

1 Sulla sospensione dell’atto impugnato si veda MULEO, La tutela cautelare, in AA.VV., Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, Torino 1998, 829 ss.


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l’atto di accertamento impugnato alla «prestazione di idonea garanzia mediante cauzione o fideiussione bancaria o assicurativa, nei modi e nei termini indicati nel provvedimento»; 2) la rateizzazione del pagamento, di cui all’art. 19, comma 1, del D.P.R. n. 602/1973; la norma subordina appunto la rateazione o la sospensione del pagamento dei tributi diretti iscritti a ruolo alla presenza di una situazione temporanea di obiettiva difficoltà oltre che alla «prestazione di idonea garanzia mediante polizza fideiussoria o fideiussione bancaria»; 3) il rimborso del credito Iva risultante dalla dichiarazione annuale2, di cui all’art. 38-bis, commi 1, 2 e 6, del D.P.R. n. 633/1972; secondo tali disposizioni il contribuente è tenuto a prestare «contestualmente all’esecuzione del rimborso e per una durata pari al termine dell’accertamento [...] fideiussione rilasciata da un’azienda o istituto di credito [...] o da un’impresa commerciale che a giudizio dell’amministrazione finanziaria offra adeguate garanzie di solvibilità o mediante polizza fideiussoria, rilasciata da un istituto o impresa di assicurazione». Per tutte le ipotesi appena elencate la restituzione dei costi di fideiussione sostenuti dal contribuente è subordinata all’accertamento definitivo che «l’imposta non era dovuta o era dovuta in misura minore rispetto a quella accertata». La prima ipotesi descritta è di estrema intuizione in quanto, già presupponendo l’esistenza di un contenzioso, si inserisce in un contesto in cui il definitivo accertamento sarà contenuto in una sentenza passata in giudicato. La seconda ipotesi, invece, si riferisce evidentemente3 ai ruoli non definitivi, gli unici normalmente suscettibili di consentire un giudizio sull’infondatezza della pretesa vantata dall’amministrazione. In entrambi i casi l’elemento che accomuna le due fattispecie è dato da un’attività amministrativa di accertamento da parte dell’Agen-

2 Sui rimborsi Iva, cfr. TABET, Rimborso dei tributi, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1991, XXVII; FREGNI, Rimborso dei tributi, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., 1996, XII, 499 ss.; PACE, I rimborsi, in AA.VV., L’imposta sul valore aggiunto, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, Torino, 2001, 715 ss. 3 Per una ricostruzione sistematica delle ipotesi riconducibili all’art. 8 della L. 212/2000, si veda PEPE, Il rimborso dei costi di fideiussione sostenu-

zia delle Entrate, che si rivela in seguito errata. L’atto viene pertanto rimosso o rettificato da una sentenza che ne dichiara l’annullamento totale o parziale, oppure da un provvedimento di autotutela che rimuove totalmente o parzialmente gli effetti dell’atto illegittimo. In entrambi i casi, pertanto, il contribuente “subisce” la pretesa dell’amministrazione finanziaria in tutto o in parte destituita di fondamento. La terza ipotesi, invece, che è poi anche quella presa in esame dalla sentenza in commento, introduce in uno scenario completamente diverso, anche quanto a fattispecie in esso sussumibili. Può inizialmente apparire che anche quest’ultima fattispecie, analogamente alle altre, si riferisca al caso in cui l’amministrazione finanziaria vanti un credito potenziale nei confronti del contribuente4. Tuttavia, a differenza delle prime due ipotesi, in cui l’ammontare del credito è determinato dall’amministrazione, nella terza è determinato dal contribuente in sede di presentazione della dichiarazione Iva. Non si tratta quindi di un credito che l’amministrazione ritiene di vantare nei confronti del contribuente, ma di un credito che il contribuente ritiene di vantare nei confronti dell’amministrazione. In questo caso il credito viene ritenuto sussistente nella misura indicata dal contribuente, salvo poi, a seguito di controlli, rettificare in tutto in parte il credito precedentemente riconosciuto. Se è vero, pertanto, che anche in questo caso la posizione creditoria dell’amministrazione finanziaria è meramente eventuale, il fenomeno attiene ad una fase successiva. Ma ciò che maggiormente differenzia tale fattispecie dalle prime, è che la posizione del contribuente è completamente diversa: infatti nei primi due casi l’attività accertativa dell’amministrazione gli impone la prestazione della fideiussione, al fine di ottenere un “alleggerimento” della sua situazione, rispetto ad una posizione, seppur solo potenzialmente,

ti dal contribuente per la rateazione e sospensione dei pagamenti ovvero per il rimborso dei tributi, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Fantozzi-Fedele, Milano 2005, 483. 4 VARESANO, Applicazione dell’art. 8, comma 4, dello Statuto del contribuente al costo delle fideiussioni dovute al rimborso delle eccedenze Iva ex art. 38-bis D.P.R. 633/1972, in Dialoghi Dir. Trib., 2006, 4, 579 ss., accomuna invece tutte le ipotesi in quanto sono caratterizzate dal fatto che l’amministrazione pre-

tende una garanzia fideiussoria per propri crediti che tuttavia sono potenziali. Nei primi due casi i crediti dell’amministrazione sono determinati nell’an e nel quantum, ma sottoposti alla condizione sospensiva del definitivo accertamento in sede di giudizio; nel terzo caso, invece, siamo pur sempre in presenza di un credito potenziale dell’amministrazione, che però viene considerato esistente fino alla scadenza del termine per rettificare il credito precedentemente rimborsato.


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debitoria, poichè appunto la finalità è quella di ottenere la rateazione del pagamento o la sospensione nella riscossione. Viceversa, nel caso esaminato, la prestazione della garanzia consente al contribuente di ottenere un vantaggio in senso stretto, che non è legato ad una sua posizione in qualche modo di iniziale “svantaggio” nei confronti dell’amministrazione. La prestazione della garanzia, infatti, permette al contribuente di ricevere un rimborso Iva in tempi rapidi, senza dover attendere la scadenza dei termini per l’accertamento. A tal fine è sufficiente che egli evidenzi la sua (questa volta) posizione creditoria nei confronti dell’amministrazione, ancor prima che questa abbia posto in essere qualunque attività di controllo e, diversamente dalle ipotesi precedenti, prima che sia stato emanato un avviso di accertamento. Il problema della mancata emanazione del decreto attuativo Come già anticipato, l’art. 8 della L. n. 212/2000 rimanda all’emanazione di decreti attuativi da parte del Ministero delle Finanze. La Commissione ha ritenuto che la mancanza dei suddetti regolamenti non possa essere comunque di ostacolo all’applicazione della norma, rigettando le doglianze dell’ufficio appellante. Secondo l’ufficio, l’emanazione dei decreti attuativi è condizione indispensabile a che la norma possa trovare applicazione; fermo restando che debbano essere comunque escluse quelle fideiussioni stipulate prima della entrata in vigore dello Statuto. Di diverso avviso è invece la Commissione tributaria regionale, che rigetta tali eccezioni prima di tutto sulla base della natura delle disposizioni contenute nella L. n. 212/2000, intesa quale legge contenente i principi fondamentali dell’ordinamento tributario, nonché sulla qualifica di diritto soggettivo della posizione vantata dal contribuente rispetto all’amministrazione finanziaria5. Queste argomentazioni impediscono di ritenere che la mancata emanazione di regolamenti attuativi possa riverberarsi sull’immediata operatività della norma. Identiche ragioni vengono utilizzate

5 In argomento v. per tutti MARONGIU, Lo Statuto del contribuente: le sue “ragioni”, le sue applicazioni, in Dir. e Prat. Trib., 2003, 2, 1007 ss.; Id, Lo Statuto dei diritti del contribuente, in Fisco, 2006, 1 ss. 6 Trib. Trieste, sez. civ., 3 dicembre 2007, n. 1443, in Riv. Giur. Trib., 5, 2008, 443, con nota di ZANARDO, La

per escludere che il rimborso spetti esclusivamente con riguardo ai costi sostenuti per polizze successive all’entrata in vigore dello Statuto, purchè fossero ancora aperte alla data di entrata in vigore della legge. Piuttosto, la volontà del legislatore di accelerare i tempi rinunciando alla vacatio legis, è da leggersi come intenzione di escludere la sussistenza di tale limite temporale, specialmente in mancanza di una disposizione specifica in tal senso (così motiva la sentenza). Come appena evidenziato, la motivazione cui i giudici si appoggiano per rigettare l’orientamento dell’Agenzia delle Entrate, coinvolge quindi profili di ragionevolezza, nonché questioni giuridiche di ordine generale. Peraltro occorre sottolineare che il problema della mancanza di regolamenti attuativi dell’art. 8 della L. 212/2000 è di notevole attualità. Proprio di recente, infatti, tale questione è stata oggetto anche di una decisione del Tribunale di Trieste6. In tale sede il giudice ordinario ha affermato che l’art. 8 della L. n. 212/2000 è una norma che contiene un “precetto chiaro ed esaustivo”, in quanto è indicato l’oggetto del rimborso, chi ne ha diritto e al ricorrere di quali condizioni, nonché il soggetto tenuto al rimborso. Al regolamento pertanto, sono «demandate questioni marginali, come le modalità pratiche del rimborso, che non incidono sulla fattispecie normativa». In sostanza, poiché la fonte secondaria ha il compito di regolare solamente questioni attuative, la norma deve essere considerata immediatamente esecutiva, a prescindere dall’emanazione del regolamento. Diversamente sarebbe stato nel caso in cui la norma non avesse avuto in sè tutti gli elementi necessari. In tal caso il regolamento avrebbe avuto una funzione integrativa, cosicché la sua emanazione sarebbe stata condizione di efficacia della norma stessa. Queste sono le argomentazioni in base alle quali i giudici del Tribunale di Trieste ritengono che «voler subordinare l’efficacia della norma di legge all’approvazione del regolamento da parte del

giurisprudenza sopperisce alla mancata emanazione del regolamento attuativo dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, 447 ss., che concorda con la sentenza e ne evidenzia la coerenza con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa. L’autore inoltre, facendo riferimento al contenuto letterale

dell’art. 8, comma 4, della L. 212/2002, concorda con i giudici di merito nel ritenere che in attesa del regolamento attuativo che faccia chiarezza sul punto, la legittimazione passiva a ricevere le domande di rimborso sia del Ministero delle Finanze e non dell’Agenzia delle Entrate.


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Ministero comporterebbe in sostanza l’attribuzione a quest’ultimo del potere di stabilire se e quando entrerà di fatto in vigore una norma tributaria, pervenendosi in tal modo ad una soluzione non conforme ai principi costituzionali». Quella della diretta e immediata applicabilità della disposizione in esame è la teoria elaborata anche dalla dottrina tributaria prevalente7, la quale ha osservato che una disciplina attuativa è concepibile solo laddove si tratti di impartire indicazioni all’amministrazione finanziaria per quegli aspetti che implicano un’integrazione della disciplina oppure la specificazione di modalità procedimentali per l’esercizio e la soddisfazione dei diritti del contribuente. Tuttavia il riconoscimento di diritti e facoltà per i cittadini, nei confronti dell’amministrazione finanziaria, ad opera delle disposizioni dello Statuto, rende queste ultime immediatamente operanti, senza che i contribuenti possano essere limitati o pregiudicati nell’esercizio dei loro diritti dalla mancanza di disposizioni attuative8. Considerazioni analoghe9 sono state elaborate anche con riferimento ad altri istituti contemplati dall’art. 8. Si fa riferimento, in particolare, alla compensazione10, sulla cui operatività generalizzata in ambito tributario continuano a sussistere dubbi proprio per la mancata emanazione di decreti attuativi11. Anche sul punto la prevalente dottrina concor-

7 Vedi ad es. FEDELE, L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2001, I, 883 ss., che evidenzia anche come alcune norme poste dall’art. 8 non solo non necessitano di nessuna norma attuativa, ma neanche possono averne, come ad es. le prescrizioni rivolte direttamente al legislatore ordinario (commi 3 e 5) che non possono evidentemente trovare attuazione attraverso fonti secondarie, nonché quelle disposizioni che non hanno bisogno di ulteriori integrazioni, in quanto già specifiche (come ad es. il comma 7). 8 Più precisamente si ritiene che se l’intenzione del legislatore fosse stata quella di subordinare l’efficacia delle disposizioni stesse all’emanazione di regolamenti ministeriali di attuazione, lo avrebbe detto espressamente. Così FEDELE, L’art. 8 dello Statuto dei diritti, cit., 907. 9 FEDELE, L’art. 8 dello Statuto dei diritti, cit.; RUSSO, La compensazione in materia tributaria, in Rass. Trib., 2002, 1855 ss., che pur concordando sull’immediata applicabilità della nor-

da12 nel ritenere che la mancanza dei regolamenti di attuazione non possa impedire l’operatività della norma, specialmente laddove tali regolamenti abbiano la funzione di disciplinare aspetti meramente procedurali e applicativi13, con l’ulteriore aggravante che il contribuente non può essere costretto a subire l’inerzia del Governo nell’emanazione dei suddetti decreti14. La natura del credito e la giurisdizione Di meno agevole soluzione è la questione relativa alla funzione e quindi alla natura del credito relativo al costo della fideiussione. Come giustamente osservato15 è evidente che la ratio della norma è quella di reintegrare il contribuente per oneri che ha dovuto sostenere a causa di un’attività dell’amministrazione, poi risultata in tutto o in parte infondata. Ciò si desume dal fatto che presupposto del rimborso è l’acclarata insussistenza della pretesa impositiva. La sentenza non contiene indicazioni in tal senso, mentre il Tribunale di Trieste, nella sentenza cui sopra si faceva riferimento, riconosce la natura risarcitoria di tale credito. È tuttavia preferibile evitare ogni riferimento ad una logica risarcitoria, in quanto normalmente il termine risarcimento viene utilizzato nel significato di cui all’art. 2043 c.c., ossia in un contesto di responsabilità aquiliana per comportamento illecito. Se è pur vero, infatti, che più volte anche la giurisprudenza di legit-

ma evidenzia le difficoltà del contribuente a servirsene in mancanza dei decreti attuativi; GIRELLI, La compensazione, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, cit., 402 ss., il quale concorda che l’istituto sia applicabile a prescindere dal regolamento attuativo, sin dalla sua entrata in vigore in virtù della natura immediatamente precettiva della norma, per la sua funzione chiaramente garantista della realizzazione, anche in ambito tributario, di principi costituzionali. Dello stesso avviso anche MESSINA, La compensazione nel diritto tributario, Milano, 2006, 138 ss. 10 Per una trattazione sistematica sull’utilizzo della compensazione nel diritto tributario, si veda MESSINA, La compensazione nel diritto tributario, cit. 11 Così RICCI, La compensazione tributaria e lo Statuto del contribuente, in Corr. Trib., 2006, 2039. 12 In tal senso chiaramente FEDELE, L’art. 8 dello Statuto, cit., 907 e MESSINA, La compensazione nel diritto tributario, cit., 132 ss.

13 «Non sembra altresì che l’art. 8 contenga concetti teorici e indefiniti che necessitano di un intervento legislativo per farne cogliere significato e portata in relazione al sistema», così MESSINA, La compensazione nel diritto tributario, cit., il quale evidenzia come l’istituto della compensazione sia ben noto e disciplinato dall’ordinamento, seppure in ambito civilistico, e ciò ne rende chiaro il contenuto. 14 Così CORDEIRO GUERRA, La compensazione, in AA.VV., Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Marongiu, Torino, 2004; MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, in Fisco, 2006, 25. Nel senso di ammettere la compensazione anche in mancanza dei regolamenti attuativi si è orientata anche la giurisprudenza di legittimità, vedi ad es. Cass. 25 ottobre 2006, n. 22872, in Corr. Trib., 2007, 35, con commento di BASILAVECCHIA, Applicabilità immediata della compensazione tributaria. 15 Così FEDELE, L’art. 8 dello Statuto, cit., 903.


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timità16, nonché da ultimo le sezioni unite, hanno ribadito la configurabilità in capo all’amministrazione finanziaria della responsabilità da fatto illecito17, è difficile ricondurre il rimborso dei costi da fideiussione al risarcimento ex art. 2043 c.c. La configurabilità del danno da attività illecita presuppone infatti che la causa dell’illegittimità dell’atto sia il cattivo esercizio dell’attività impositiva dell’amministrazione, per cui il risarcimento sarebbe collegato all’attività dolosa o colposa di quest’ultima, dalla quale appunto il contribuente avrebbe subito una lesione patrimoniale, quantificabile nei costi sostenuti per stipulare la fideiussione. Ma è noto che proprio perché la responsabilità aquiliana è fondata su un comportamento illecito, il contribuente dovrebbe provare la colpa o il dolo in capo all’amministrazione, nonché il danno subito in relazione allo stesso comportamento. Si osservi però che non sempre l’atto emanato dall’ufficio è illecito ancorché illegittimo, e l’illiceità presuppone un’indagine sull’elemento soggettivo che il legislatore, nell’art. 8 della L. n. 212/2000 ha voluto certamente escludere. Sarebbe altresì irragionevole ritenere che al contribuente, vittima dell’attività illecita dell’amministrazione finanziaria, spetti, in termini di risarcimento, esclusivamente quanto speso per la fideiussione. Sembrerebbe invece più corrispondente alla lettera e alla funzione della norma ricostruire il credito per i costi di fideiussione in termini diversi, pur riconoscendo la possibilità per il contribuente di ricorrere all’autorità giudiziaria per il risarcimento del danno da illecito. Attraverso il risarcimento, infatti, il contribuente verrebbe riportato alla situazione nella quale si trovava prima del-

16 Cass., sez. un., 4 gennaio 2007, n. 15, in Danno e responsabilità, 10, 2007, 1000 ss., con commento di CORASANITI; Cass., 24 ottobre 2002, n. 1191, in banca dati fisconline; Cass., 29 aprile 1999, n. 722, in Riv. Dir. Trib., 2001, II, 237, con commento di MANZON-MODOLO, La tutela giudiziale del contribuente avverso le illegalità istruttorie ed i comportamenti illeciti dell’amministrazione finanziaria nell’attività impositiva. Considerazioni sulla giurisdizione in materia tributaria. Per una elaborazione teorica sulla responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria si veda GIOÈ, Profili di responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2007. 17 Nella sentenza Cass., sez. un., 4 gennaio 2007, n. 15, cit., si legge: «l’attività della pubblica amministrazio-

l’evento dannoso, da cui la necessaria coincidenza tra danno cagionato e danno da risarcire, con lo scopo di compensare il pregiudizio subito. Ma è evidente che il pregiudizio subito non consiste esclusivamente nei costi sostenuti per la fideiussione, soprattutto in considerazione del fatto che la più recente giurisprudenza è orientata nel senso di riconoscere al contribuente il ristoro dei danni di varia natura, non solo quelli meramente patrimoniali18. Più che di risarcimento, quindi, il credito per i costi delle fideiussioni è stato configurato19 come indennizzo20 per le conseguenze derivanti dall’esercizio di poteri riconosciuti dalla legge in capo all’amministrazione finanziaria. Dal canto suo la Commissione non prende posizione, limitandosi a parlare di «integrità patrimoniale». Le obbligazioni indennitarie, rette dal concetto di indennità o indennizzo, sono molto disomogenee e la dottrina civilistica21 vi ricomprende contesti in cui l’indennità è il corrispettivo per la perdita o la limitazione di un diritto, contesti in cui l’indennità si intende come prestazione derivante dalla conclusione di un contratto, nonché contesti in cui l’indennità figura quale obbligazione risarcitoria, talvolta di tono minore. La categoria che più si avvicina al tema in esame è la terza, il relazione alla quale maggiormente si evidenzia la necessità di operare la correlazione tra danno e indennizzo. Tradizionalmente le figure che vengono prese in considerazione, oltre a quelle indicate negli artt. 2045 e 2047, comma 2, c.c., sono riferite alla categoria degli atti leciti dannosi, per indicare che il pregiudizio deriva da una condotta conforme al diritto dalla quale,

ne, anche nel campo tributario, deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma anche dalla norma primaria del neminem ledere, per cui è consentito al giudice ordinario – al quale è pur sempre vietato stabilire se il potere discrezionale sia stato, o meno, opportunamente esercitato, – accertare se vi sia stato da parte della stessa amministrazione un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo. Stanti, infatti, i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, dettati dall’art. 97 della Costituzione, la pubblica amministrazione è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall’art. 2043 del codice civile, atteso che tali principi si pongono

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come limiti esterni alla sua attività discrezionale, ancorché il sindacato di questa rimanga precluso al giudice ordinario». Ad esempio Trib. Venezia, 19 marzo 2007, in Obbligazioni e contratti, 7, 2007, l’amministrazione finanziaria è stata chiamata a risarcire, ex art. 2043, il danno esistenziale cagionato ai contribuenti. Sulle tipologie di danno da responsabilità aquiliana si veda anche GIOÈ, Profili di responsabilità, cit., 71 ss. FEDELE, L’art. 8 dello Statuto, cit., 905. Per il rapporto tra risarcimento e indennizzo si veda FRANZONI, Il danno risarcibile, in Trattato della responsabilità civile, Milano, 2004, 631 ss. SCOGNAMIGLIO, voce Indennità, in Nov. Dig. It., 594; SALVI, voce Risarcimento del danno, in Enc. Dir., 1091 ss.


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però, deriva un danno che deve essere riparato. Anche l’indennità, pertanto, si collega ad un danno con conseguente condanna al risarcimento, con la differenza che non vi è necessaria coincidenza tra perdita subita e somma di denaro oggetto di condanna. Pur in mancanza di integrale riparazione del danno inflitto, perché l’indennizzo lo risarcisce solo in parte, non si prescinde comunque da una logica riparatoria22. Ricostruito come avente natura risarcitoria, allo stesso modo che indennitaria, la tutela del credito al rimborso dei costi sostenuti per le garanzie è difficilmente riconducibile alla giurisdizione delle Commissioni tributarie. Come correttamente osservato23, la fattispecie non è inquadrabile in un rimborso di un tributo tout court, cosa che porterebbe innegabilmente al riconoscimento della giurisdizione tributaria, ma darebbe luogo piuttosto ad un autonomo rapporto di natura indennitaria, geneticamente collegato alla vicenda tributaria, in cui il contribuente fa valere un diritto soggettivo. La conseguenza di siffatto orientamento è che l’azione per ottenere il rimborso dei costi di fideiussione in base all’art. 8 della L. 212/2000 dovrebbe essere esperita dinanzi al giudice ordinario, come nei casi di domande risarci-

22 In tal senso DE CUPIS, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, Milano, 1979, II, 242. 23 FEDELE, L’art. 8 dello Statuto, cit., 905. 24 È questa l’impostazione che ha dato luogo alla pronuncia n. 1443/2007 del Tribunale di Trieste, cit. Sull’estraneità delle domande di risarcimento rispetto alla giurisdizione tributaria vedi: BATISTONI FERRARA, Il risarcimento del danno, in Corr. Trib., 2007, 3646, il quale condivide l’opinione espressa dalla Cassazione nella sentenza a sez. un., 15 ottobre 1999, n. 722, in Corr. Trib., 1999, 3475, con nota di GRIMALDI e in Riv. Giur. Trib., con nota di ZENATI, Sulla giurisdizione in materia di risarcimento danni per comportamenti illeciti dell’amministrazione finanziaria e dalla Cass., sez. un., 31 luglio 2007, n. 16871, per la quale gli accessori considerati dall’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 si identificano nei soli interessi e nel danno da svalutazione monetaria. 25 Sulla giurisdizione tributaria nella nuova formulazione dell’art. 2 del D.Lgs. 546/1992, cfr. RUSSO, I nuovi confini della giurisdizione delle Commissioni tributarie, in Rass. Trib., 2002, 415 ss.; Id., Manuale di diritto tributa-

torie dei privati per danni loro arrecati dall’attività della pubblica amministrazione24. Nel senso di escludere dalla giurisdizione del giudice tributario la cognizione della domanda risarcitoria per attività illecita dell’amministrazione finanziaria si è espressa anche la Cassazione a sezioni unite, nella nota sentenza n. 15 del 4 gennaio 2007. In tale pronuncia le argomentazioni dei giudici di legittimità traggono forza dall’art. 2 del D.Lgs. 546/1992, poiché le controversie per risarcimento del danno non vi sono contemplate. La Suprema Corte ritiene che l’allargamento delle materie oggetto della giurisdizione esclusiva del giudice tributario, estesa fino a ricomprendervi «le sovrimposte e le imposte addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate dagli uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio»25, non possa essere intesa nel senso di farvi rientrare anche le domande risarcitorie. In particolar modo, i giudici di legittimità affermano che le domande volte ad ottenere la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno, non possono ricondursi neanche alla dizione «ogni altro accessorio», in quanto la giurisprudenza26 è orientata nel senso di farvi rientrare solamente gli aggi dovuti alle spese di notifica, gli interessi moratori e il maggior danno da svalutazione monetaria27 ex art. 1224, comma 2, c.c.,

rio. Il processo tributario, Milano, 2005, 18 ss.; BASILAVECCHIA, Prime considerazioni sulla rinnovata giurisdizione delle Commissioni tributarie, in Corr. Trib., 2002, 4105 ss.; MARONGIU, La rinnovata giurisdizione delle Commissioni tributarie, in Rass. Trib., 2003, 115 ss.; PISTOLESI, Le nuove materie devolute alla giurisdizione delle Commissioni tributarie, in Quaderni del Consiglio di Giustizia tributaria, 2003, 2 ss.; CIPOLLA, Le nuove materie attribuite alla giurisdizione tributaria, in Rass. Trib., 2003, 463 ss.; FANTOZZI, Nuove forme di tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali: la prospettiva tributaria, in Riv. Dir. Trib., 2004, 3 ss.; PERRONE, I limiti della giurisdizione tributaria, in Rass. Trib., 3, 2006, 707 ss. 26 Cass., sez. un., 4 ottobre 2002, n. 14274, in Riv. Giur. Trib., 2003, 54, con commento di BRUZZONE, Il giudice tributario decide su interessi e rivalutazione; Cass., sez. un., 17 novembre 1999, n. 789, cit.; Cass., sez. un., 4 gennaio 2997, n. 15, in I quattro codici della riforma tributaria Big. 27 Condividono l’orientamento della giurisprudenza sulla giurisdizione delle Commissioni tributarie in materia di maggior danno da svaluta-

zione monetaria, A. FINOCCHIARO-M. FINOCCHIARO, Commentario al nuovo processo tributario, Milano, 1996, 50; BATISTONI FERRARA, La giurisdizione del giudice tributario, in Dir. e Prat. Trib., 1997, I, 257 ss.; DEL FEDERICO, La giurisdizione, in Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, a cura di Tesauro, Torino, 1998, 54 ss., il quale in particolare ritiene che la domanda di risarcimento danni ex art. 1224, comma 2, c.c. è una vera e propria domanda risarcitoria autonoma, pertanto ne dovrebbe essere esclusa l’accessorietà alla controversia tributaria «a meno che non si voglia ridurre l’accessorietà ad una mera dipendenza-connessione. Ma per tale via si dovrebbe giungere a configurare come “accessoria” e quindi devoluta alla giurisdizione delle Commissioni tributarie anche l’azione risarcitoria aquiliana ex art. 2043 ss. c.c.»; GIOVANNINI, Processo tributario e risarcimento del danno (sulla pienezza ed esclusività della giurisdizione speciale), in Riv. Dir. Fin., I, 1999, 205 ss. Sulla giurisdizione in merito alle domande ex art. 1224 c.c., anche GIOÈ, Profili di responsabilità, cit., 171 ss.


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con l’esclusione di quelle fattispecie, come quelle che si originano dalla lesione patrimoniale da condotta illecita della pubblica amministrazione, autonome rispetto al rapporto tributario. La giurisdizione del giudice ordinario, anziché di quello tributario, si spiegherebbe quindi nel senso che, esauritosi il rapporto tributario, la domanda di risarcimento è connessa solamente alla condotta dolosa o colposa dell’amministrazione28. La posizione di chiusura della giurisprudenza rispetto alle domande risarcitorie non appare tuttavia condivisibile al punto da escludere che possano essere ricondotte alla cognizione del giudice tributario, anziché civile, domande dirette ad ottenere il rimborso dei costi di fideiussione. Su tale profilo anche la giurisprudenza di legittimità potrebbe in futuro pronunciarsi in senso chiarificatorio, come già accaduto con la domanda diretta ad ottenere il risarcimento del danno da svalu-

28 Si ricorda che prima della sentenza del 22 luglio 1999, n. 500, in Foro It., 1999, 2487, la Cassazione riteneva che il soggetto leso fosse esonerato dal fornire la prova della colpa o del dolo della pubblica amministrazione, in quanto l’accertamento circa dell’illegittimità dell’atto comportava in re ipsa la sussistenza della colpa. 29 Dopo un’iniziale impostazione restrittiva la giurisprudenza ha riconosciuto l’applicabilità della disciplina civilistica degli interessi anatocistici e della rivalutazione monetaria anche alle obbligazioni pecuniarie di natura tributaria, riconoscendo altresì la giurisdizione delle Commissioni tributarie sul punto. Per una rassegna giurisprudenziale sull’evoluzione della giurisprudenza sul tema, si veda FORNI, La disciplina della mora debendi nelle obbligazioni tributarie: anatocismo e rivalutazione nella recente giurisprudenza della Suprema Corte, nota a Cass., 4 febbraio 2004, n. 2087, in Dir. e Prat. Trib., 2004, II, 639 ss. 30 Con la circolare n. 98/E del 1996 anche l’amministrazione finanziaria aveva espresso la convinzione secondo la quale la domanda di risarcimento del danno per svalutazione su importi indebitamente percepiti doveva essere proposta davanti al giudice ordinario non rientrando questi tra gli “accessori” all’imposta. 31 Così ad es. BATISTONI FERRARA, La giurisdizione, cit.; GIOVANNINI, Processo tributario, cit.; BOLETTO, Responsabilità per danni dell’amministrazione finanziaria, in Riv. Dir. Trib., 2003, 65 ss. 32 Il principio espresso in questa sen-

tazione monetaria, anch’essa inizialmente esclusa dalla giurisdizione delle Commissioni tributarie per costante giurisprudenza29 e orientamento dell’amministrazione finanziaria30, ma dalla dottrina31 inquadrata come conseguenza della violazione di una norma tributaria. Si potrebbe infatti riprendere quanto affermato dalle sezioni unite della Cassazione nella sentenza del 21 marzo 2002, n. 14274 in relazione alla correttezza dell’attribuzione al giudice tributario della cognizione in materia di risarcimento ex art. 1224, comma 2, c.c.32 In tale occasione, infatti, la Suprema Corte ha riconosciuto che la competenza del giudice tributario a decidere anche sul danno da svalutazione monetaria risiedesse nel fatto che questi ha gli stessi poteri istruttori del giudice civile per l’accertamento e la valutazione del rapporto, anche per quanto concerne i diritti patrimoniali consequenziali33. In tale ottica non

tenza trova il suo punto di inizio nella sentenza Cass., sez. un., del 10 ottobre 1994, n. 8277 la quale ha affermato che «Qualora sussista la giurisdizione esclusiva delle Commissioni tributarie, alle quali si accede attraverso l’impugnazione dell’atto, [...] a tali Commissioni deve essere devoluta anche la cognizione delle domande conseguenti all’eventuale non doverosità della pretesa, quali quelle concernenti il diritto agli interessi e alla rivalutazione monetaria sulla somma indebitamente versata e trattenuta, atteso che tale giudice ha gli stessi poteri istruttori del giudice civile per l’accertamento e la valutazione del rapporto, e rilevata altresì l’inesistenza, tra le norme che disciplinano la giurisdizione delle Commissioni tributarie, di una disposizione analoga a quelle del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 30 e della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 7, comma 3, che fanno salva la giurisdizione ordinaria sulle questioni concernenti diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di illegittimità dell’atto amministrativo, emessa in materie per le quali esiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo». Questo principio è stato poi successivamente ribadito dalle sentenze Cass., sez. un., 21 dicembre 1996, n. 11483; Cass., sez. un., 20 maggio 1999, n. 789 (tutte in banca dati fisconline), ed è stato poi anche più di recente confermato nella pronuncia Cass., sez. un., 31 luglio 2007, n. 16871 «tenuto conto del “principio di con-

centrazione” della tutela giurisdizionale che caratterizza l’attuale sviluppo dell’ordinamento, anche in materia tributaria». 33 È opportuno sottolineare che, muovendosi nel sistema delineato dall’art. 35, D.Lgs. n. 80/1998, in base al quale nelle materie di giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo, oltre a disporre l’annullamento dell’atto illegittimo, era competente a conoscere delle questioni relative ai diritti patrimoniali consequenziali, restando invece il risarcimento del danno assegnato al giudice ordinario nelle materie in cui quello amministrativo aveva la sola giurisdizione di legittimità, la Corte di Cassazione aveva affermato l’assoluta autonomia dell’azione risarcitoria da quella di annullamento: secondo la Cassazione, infatti, il danneggiato poteva chiedere il risarcimento del danno direttamente al giudice ordinario, indipendentemente dall’impugnazione dell’atto illegittimo. In tale caso, ossia laddove l’atto non fosse stato impugnato davanti al giudice amministrativo, «il giudice ordinario ben potrà [...] svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l’illecito, poiché l’illegittimità dell’azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.». Così Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500. Tale quadro è mutato con la promulgazione della L. 21 luglio 2000, n. 205, che ha investito il giudice amministrativo della cognizione sulle con-


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sembrerebbero pertanto sussistere ostacoli normativi alla cognizione del giudice tributario in materia di condanna al rimborso dei costi di fideiussione, anche ove si riconoscesse la natura indennitaria o risarcitoria di questi ultimi. Allo stato non si rinvengono tuttavia precedenti in terminis sulla questione nella giurisprudenza di legittimità. Resta comunque il fatto che una concezione restrittiva della giurisdizione tributaria comporterebbe l’aggravio della posizione del contribuente che, dopo aver ottenuto dal giudice tributario una sentenza di annullamento34, sarebbe costretto a proporre un’autonoma azione davanti al giudice ordinario per ottenere il rimborso dei costi di fideiussione. Conclusioni La tesi volta ad escludere la giurisdizione delle Commissioni tributarie in materia di rimborso dei costi di fideiussione è quindi da respingere. È vero che sembrerebbe ostativa la natura indennitaria, né si può agevolmente parlare di “accessori” ex art. 2 del D.Lgs. 546/1992, ma è innegabile che si creerebbero antieconomiche proliferazioni processuali e pregiudizievoli aggravi della posizione del contribuente, esposto a defatiganti attività giurisdizionali. Nella ratio della norma non vi era di certo l’intenzione di riconoscere una diritto al contribuente rendendogliene difficile l’esercizio, ma piuttosto la preoccupazione di garantirgli, in modo semplice ed efficace, il ristoro di un ingiusto pregiudizio patrimoniale, subito a causa di un comportamento, ancorché lecito, senz’altro illegitti-

troversie risarcitorie anche al di fuori delle materie di giurisdizione esclusiva. Più precisamente, riscrivendo il testo dell’art. 35, D.Lgs. n. 80/1998, l’art. 7, L. 205/2000, ha disposto che il giudice amministrativo – ogniqualvolta si trovi ad operare «nell’ambito della sua giurisdizione», sia essa esclusiva o di legittimità – può conoscere «di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali». Per un’aggiornata trattazione dei termini della questione si rinvia a D’ORSOGNA, La responsabilità della p.a., in AA.VV., Diritto amministrativo, a cura di Scoca, Torino 2008, 762 ss. Su tali disposizioni, e più in generale per un excursus storico sul proble-

mo dell’amministrazione finanziaria. È per tali ragioni che non bisogna trascurare un dato importante, ma non banale, che è quello delle parole utilizzate dal legislatore nell’art. 8; invero, si parla semplicemente di “rimborso”, e tale termine non è certamente ricollegabile ad una caduta di tecnicismo normativo. Risulta viceversa ipotizzabile l’intento di ricondurre la fattispecie alla logica del rimborso, o comunque ad una finalità restitutoria, di guisa che fosse pacifica la giurisdizione tributaria. In tale ottica altrettanto semplice e snella dovrebbe risultare l’attività giurisdizionale cui, rispetto ad un ormai definitivo accertamento sull’insussistenza della pretesa impositiva, pressoché automaticamente dovrebbe conseguire la condanna dell’amministrazione al rimborso dei costi sostenuti per le garanzie fideiussorie. Sotto altro profilo sembrerebbe poi sostenibile ricondurre tale obbligazione tra gli “accessori” di cui all’art. 2, in quanto si tratta pur sempre di costi strettamente connessi al rapporto tributario e che da questo si originano. Non è infatti da un comportamento doloso o colposo che autonomamente, rispetto all’azione impositiva, tali costi trovano la fonte, ma nella finalità di ottenere una rateazione nel pagamento delle imposte, una sospensione nella riscossione, un rimborso di imposte e tale connessione rispetto al rapporto tributario tali costi conservano anche nel momento in cui la legge ne impone la restituzione. La fattispecie si avvicinerebbe più ad un indebito, appunto, che ad un indennizzo, in quanto il costo della fideiussione viene sostenuto in base ad un atto poi annullato.

ma del riparto di giurisdizione, cfr. PAJNO, Il riparto di giurisdizione, in AA.VV., Il processo amministrativo, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di Cassese, Milano, 2000, IV; CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2006, 71 ss. Per uno studio sul «nuovo potere risarcitorio» attribuito dalla L. n. 205/2000 al giudice amministrativo (e sui suoi rapporti con la tutela in forma specifica), si veda MASERA, Il risarcimento in forma specifica nel giudizio amministrativo, Padova, 2006. Infine, per quanto concerne l’espressione diritti patrimoniali consequenziali, essa stava tradizionalmente a indicare che tutte le richieste risarcitorie derivanti da un provvedimento lesivo dovevano sempre conseguire al preventivo annullamento del provvedi-

mento amministrativo. Detta ricostruzione è stata criticata da CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, in Il nuovo processo amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000, n. 205, a cura di CaringellaProtto, Milano, 2001, 669, in quanto si pone in contrasto con la ratio legis chiaramente ispirata da una logica di concentrazione processuale di tutte le controversie in materia di risarcimento del danno in capo ad un unico giudice. 34 Così FEDELE, L’art. 8 dello Statuto dei diritti, cit., 906, che considera il riconoscimento della giurisdizione del giudice ordinario un limite all’operatività dell’art. 8 della L. 212/2000 e ritiene auspicabile un intervento legislativo che disciplini questo aspetto dell’istituto.


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La connessione con il rapporto tributario è peraltro insito nella funzione stessa della fideiussione o dell’assicurazione fideiussoria, che è quella di costituire una garanzia in favore del terzo, in questo caso l’amministrazione finanziaria35. Se infatti non vi sono dubbi relativamente alla fideiussione, dubbi potrebbero sorgere sull’assicurazione fideiussoria36, o polizza fideiussoria37, ma poiché in realtà la loro funzione non è quella dell’assicurazione, bensì quella di garanzia, assolvono la stessa funzione del contratto di fideiussione. Non si ravvisano pertanto ostacoli insormontabili a che la domanda di restituzione dei costi sostenuti dal contribuente anche per la polizza fideiussoria possa essere ricondotta alla formula «altri accessori» di cui all’art. 2 del D.Lgs. 5326/1992, con conseguente giurisdizione tributaria. Elementi a favore della giurisdizione tributaria sono inoltre desumibili proprio dalla lettera dell’art. 8 della L. 212/2000 laddove è previsto l’obbligo per l’amministrazione di effettuare il rimborso («l’amministrazione deve rimborsare»), riconducendo quindi la fattispecie ad un rimborso d’ufficio. In effetti, già al momento della presentazione dell’istanza di rateazione, sospensione o rimborso Iva, l’amministrazione è messa nelle condizioni di sapere a quanto ammontano i costi per la fideiussione, pertanto si potrebbe arrivare

35 Si ricorda infatti che mentre l’art. 8 dello Statuto del contribuente parla in generale di «costo delle fideiussioni», le norme tributarie cui si rimanda comprendono non solo le fideiussioni ma anche le polizze fideiussorie o fideiussioni bancarie, contratti diversi dalle semplici fideiussioni. Sull’argomento si rinvia a PEPE, Il rimborso dei costi di fideiussione sostenuti dal contribuente per la rateazione e sospensione dei pagamenti, cit., 471 ss., secondo il quale tutte queste figure contrattuali comunque rientrano nell’art. 8, comma 4, che altrimenti, se si ritenesse limitato solo alle fideiussioni in senso stretto, sarebbe pressoché inoperante. 36 Per una ricostruzione sugli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che si sono susseguiti sull’argomento si rimanda a CHINÈ, Polizza fideiussoria tributaria e contratto autonomo di garanzia, nota a Cass., sez. un., 15 aprile 1994, n. 3519, in Giur. It., 1995, 6; GARGIULO, Polizza fideiussoria e garanzia a prima richiesta, in Obbligazioni e contratti, 2008, 2, 140 ss.; BOSA La polizza fideiussoria “cauzioni

ad ipotizzare che al contribuente possa essere consentito di richiedere il rimborso sia contestualmente all’impugnazione degli avvisi di accertamento38, davanti al giudice tributario, sia con una successiva azione diretta, a prescindere dalla previa presentazione dell’istanza in sede amministrativa. Nel caso esaminato dalla Commissione tributaria regionale di Trieste, molto opportunamente il contribuente aveva presentato preventivamente istanza di rimborso all’ufficio e tale prudenziale modus operandi è certamente condivisibile in assenza di chiare disposizioni procedimentali attuative. In termini generali, sulla complessa problematica del rimborso dei costi di fideiussione, le conclusioni cui giunge la Commissione regionale sono pienamente condivisibili, in quanto la mancanza dei decreti di attuazione non può pregiudicare l’esercizio, da parte del contribuente, di diritti che gli sono riconosciuti direttamente dalla legge. Anche dal punto di vista dell’efficacia temporale, la soluzione garantista della Commissione risulta apprezzabile e corretta. Tuttavia sotto il profilo della giurisdizione, sarebbe stata auspicabile una qualche puntualizzazione, anche in ragione del diverso coevo orientamento del Tribunale di Trieste, favorevole alla giurisdizione ordinaria.

pubblici appalti di lavori o forniture” tra modello normativo e autonomia contrattuale, nota a Cass., 14 febbraio 2007, n. 3257, in Obbligazioni e contratti, 2008, 4, 305 ss., cui si rimanda per ulteriori riferimenti bibliografici. Per una trattazione sistematica del contratto di fideiussione si veda BOZZI, La fideiussione, le figure affini e l’anticresi, in Obbligazioni e contratti, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 13, Torino, 1985, 280 ss., nonché GALGANO, Diritto civile e commerciale, Padova, 1993, 2, II, 431 ss. 37 Si tratta di quel contratto con il quale una compagnia assicuratrice (ma talora anche una banca), dietro il pagamento di un corrispettivo pecuniario impropriamente detto “premio”, garantisce l’adempimento di prestazioni contrattuali, o assume un’obbligazione fideiussoria sostitutiva di una garanzia reale. Questa figura è prevista in numerose leggi speciali che regolano i rapporti tra privati e pubblica amministrazione e che la configurano come una forma di garanzia sostituiva della cauzione. In passato si è sostenuta la natura

assicurativa del rapporto in esame, ma è prevalente l’opinione, sia in dottrina che in giurisprudenza, che in realtà la natura sostanziale di tali figure contrattuali sia da annoverare nella fideiussione, in quanto la loro funzione non è quella dell’assicurazione, bensì quella di garanzia e assolvono la stessa funzione del contratto di fideiussione. Ricondotta allo schema tipico della fideiussione non si può negare che anche la polizza fideiussoria abbia natura accessoria all’obbligazione di cui si garantisce l’adempimento. Sulle caratteristiche della polizza fideiussoria o assicurazione fideiussoria GIUSTI, La fideiussione e il mandato di credito, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu-Messineo, Milano 1998, XVIII, 81 ss. Un’elencazione delle varie leggi speciali che richiamano la polizza fideiussoria è in MASTROPAOLO, I contratti autonomi di garanzia, Torino 1995, 201 ss. 38 Tale possibilità, secondo ZANARDO, La giurisprudenza sopperisce, cit., dovrebbe essere prevista nel regolamento attuativo.


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IMPOSTE SUI REDDITI LA STABILE ORGANIZZAZIONE DOPO IL CASO PHILIP MORRIS 72

Commissione tributaria provinciale di Rimini, sez. II, 12 marzo 2008, n. 26 Presidente Battaglino - Relatore: Piccioni Imposte sui redditi - Stabile organizzazione Stabile organizzazione materiale - Stabile organizzazione occulta - Fattispecie - Insussistenza (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 162) Imposte sui redditi - Stabile organizzazione Rete di agenti - Stabile organizzazione personale - Insussistenza (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 162) Imposte sui redditi - Stabile organizzazione Reddito della stabile organizzazione - Modalità - Attribuzione totalità ricavi della casa madre estera - Infondatezza (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 162) Non è ravvisabile una stabile organizzazione materiale occulta all’interno di una società che risulta aver sempre agito nell’ambito del proprio oggetto sociale e non aver mai svolto attività rientranti invece in quello della casa madre, senza mai mettere a disposizione della società non residente i suoi locali e senza mai svolgere attività di controllo nell’esecuzione dei contratti conclusi dalla casa madre. La stabile organizzazione personale può essere ravvisata solo in una persona (fisica o giuridica) che operi nel territorio italiano per conto della casa madre estera e non in una rete di agenti, peraltro indipendenti. Il reddito della stabile organizzazione deve essere determinato seguendo i coefficienti di redditività del settore economico interessato e con lo scopo di ricostruire l’effettiva situazione economica della sede fissa d’affari, mentre non è corretto il mero rinvio, per determinare il reddito della presunta stabile organizzazione, ai dati emergenti dal volume d’affari della casa madre o dalle fatture ricevute dal rappresentante fiscale Iva in Italia. Svolgimento del processo Trattasi di controversia sorta a seguito di avvisi di accertamento per imposta Irpeg-Irap relativa agli

anni 1998-1999-2000-2001-2002-2003-2004-2005 identificati con Rgr [...]. Gli avvisi sono stati emessi dall’Agenzia delle Entrate di Rimini sulla scorta di un Pvc elevato dalla Guardia di Finanza nei confronti della [...] con sede legale e amministrativa nella Repubblica di San Marino e avente per oggetto l’attività di commercio all’ingrosso di carta, cartone e articoli di cartoleria. La G. di F. aveva sostenuto che era società capofila di un gruppo di aziende aventi la propria sede legale e amministrativa parte nella Repubblica di San Marino e parte in Italia e che la stessa svolgeva effettivo esercizio nel territorio dello Stato italiano di un’attività di impresa mediante aziende italiane ritenute «stabile organizzazione materiale» in Italia nonché di una rete di vendita costituita da circa 600 agenti monomandatari facente sostanzialmente capo a ritenuta «stabile organizzazione personale» dell’azienda sammarinese. Il tutto (come si estrapola dalla memoria di costituzione in giudizio dell’Agenzia delle Entrate) «in una visione di strategia unitaria di gruppo finalizzata ad una continua espansione dell’attività commerciale esercitata, in via pressoché esclusiva in Italia, da parte della Repubblica di San Marino, tendente a porsi nel territorio dello Stato come azienda leader nel settore della commercializzazione della carta, della cancelleria, della modulistica, dell’editoria, dell’hardware, del software gestionale. Tale gruppo è risultato strutturato e caratterizzato da plurimi collegamenti tra le numerose società che lo compongono ben riconoscibili in evidenti “partecipazioni societarie” tra le medesime, un intenso intreccio di rapporti contrattuali di varia natura studiati ad hoc dalla proprietà del gruppo per evitare il riconoscimento da parte dell’amministrazione finanziaria italiana della qualifica di soggetto residente in Italia o comunque di soggetto “non residente”, ma con stabile organizzazione in Italia, nella frequente coincidenza delle persone degli amministratori delle diverse società ubicate nel territorio italiano e in quello sammarinese».


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Avverso gli avvisi di accertamento la [...] ha proposto ricorso sulla base dei seguenti motivi: - totale carenza di motivazione, per essere l’avviso fondato su circostanze non riferite all’annualità in contestazione (per l’anno 2000); - assenza di motivazione, per essere l’atto impositivo diretto ad attribuire la qualifica di stabile organizzazione a società legate alla K. da contratti di deposito che, ex se, escludono che si possa configurare una sede stabile della società; - carenza di motivazione in merito alla determinazione del reddito imponibile; - illegittimità della motivazione per assoluta carenza di prova; - perplessità della motivazione in merito alla presunta stabile organizzazione personale, per via dell’esistenza di contraddizioni tra verbale e accertamento; - inesistenza di una stabile organizzazione materiale italiana di K., mancando la disponibilità di spazi nel territorio italiano aventi le caratteristiche richieste dall’art. 5 del modello Ocse; - inesistenza di una stabile organizzazione personale della società per l’assenza in Italia di agenti dipendenti da [...]; - illegittima determinazione del reddito della stabile organizzazione. Avverso questi motivi di ricorso, l’ufficio, in sede di controdeduzioni, ha replicato limitandosi a richiamare quanto già esposto nell’avviso di accertamento. Motivi della decisione Preliminarmente occorre fare alcune considerazioni; 1) L’amministrazione finanziaria ha posto a fondamento della propria pretesa situazioni di fatto che risultano inesistenti in alcuni degli anni in contestazione (a mero titolo esemplificativo si ricorda che le società [...] e [...] presunte stabili organizzazioni sono state costituite solo nel 2001). 2) La [...] – che secondo la tesi dell’ufficio rappresenterebbe l’unica realtà veramente operativa del presunto gruppo [...] – con riferimento agli anni di imposta 1997-1999 era già stata oggetto di verifica (nel corso del 2000) e l’unica presunta irregolarità contestata riguardava la congruità del corrispettivo delle transazioni intercorrenti tra quest’ultima e [...]. È vero in proposito che la Commissione tributaria di Rimini ha accolto, con sentenza passata in giudicato, il ricorso contro tali avvisi di accertamento, affermando l’effettività di tali prestazioni ma anche la corretta remunerazione, e accertando

dunque che tra la [...] e la [...] non era intercorsa alcuna prestazione differente rispetto a quelle contrattualizzate. 3) L’ufficio non ha contestato i dati di fatto risultanti dalla perizia del dott. Volino, in atti, contenente la descrizione dell’organizzazione e delle attività di [...] con supporti fotografici e planimetrie. Dalla stessa perizia risulta che [...] impiega in San Marino 148 dipendenti (molti dei quali con qualifiche dirigenziali) organizzati in apposite direzioni all’interno della struttura aziendale e tutti impiegati presso la sede principale. La [...] è dunque autosufficiente nello svolgimento della propria attività di impresa, senza bisogno di altre strutture che non siano depositi e magazzini nei territori in cui è posta la clientela. 4) È un dato di fatto non contestato che presso la [...], società italiana, sono impiegate circa 70 persone, tutte con la qualifica di operai. 5) L’ufficio sostiene che [...] è «nata in Italia». Dai documenti prodotti risulta che [...] è stata costituita il 10 maggio 1980 a San Marino. 6) Non è stata dedotta (né ovviamente provata) la simulazione dei rapporti contrattuali intercorrenti fra gli agenti operanti in Italia e che è l’agente generale di [...]. I) In ordine all’esistenza o meno di una stabile organizzazione materiale di [...] in Italia Come già accennato in precedenza la società italiana [...] sarebbe, secondo la tesi dell’ufficio, la «stabile organizzazione materiale di in Italia». Relativamente al concetto di stabile organizzazione materiale occorre fare riferimento all’art. 5 del modello di convenzione Ocse che prevede in via generale, al par. 1, che «ai fini della presente convenzione l’espressione “stabile organizzazione” designa una sede fissa di affari in cui l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività». Ciò che dunque rileva ai fini di una stabile organizzazione materiale è l’esistenza di una sede d’affari qualificata dai caratteri della fissità (spaziale), della permanenza della stessa (temporale) e da un nesso di strumentalità rispetto all’attività d’impresa svolta dal soggetto non residente. È altresì necessario che la sede fissa di affari non venga utilizzata esclusivamente per svolgere una delle funzioni indicate dal par. 4 dello stesso art. 5, ossia determinate attività che hanno natura meramente ausiliaria e preparatoria rispetto all’attività d’impresa del soggetto non residente. Infatti, l’art. 5, par. 4, del modello di convenzione Ocse (analogamente a quanto previsto dall’art. 162, comma 4, lett. a, del T.U.I.R.) recita: «Nonostante le precedenti disposizioni di questo arti-


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colo, non si considera che vi sia una “stabile organizzazione” se: a) si fa uso di un’installazione ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna di beni o merci appartenenti all’impresa; b) i beni o le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinati ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna; c) i beni o le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinati ai soli fini della trasformazione da parte di un’altra impresa; d) una sede fissa di affari è utilizzata ai soli fini di acquistare merci i raccogliere informazioni per l’impresa; e) una sede fissa di affari è utilizzata ai soli fini di svolgere, per l’impresa, qualsiasi altra attività che abbia carattere preparatorio o ausiliario; f) una sede fissa di affari è utilizzata unicamente per qualsiasi combinazione delle attività citate ai paragrafi da a) a e), purché l’attività della sede fissa nel suo insieme quale risulta da tale combinazione, sia di carattere preparatorio o ausiliario». Inoltre, per quanto attiene al rapporto che esiste tra controllo societario e stabile organizzazione, l’art. 5, paragrafo 7, del modello di convenzione prevede che «Il fatto che una società residente di uno Stato contraente controlli o sia controllata da una società residente nell’altro Stato contraente ovvero svolga la propria attività in questo altro Stato (a mezzo di stabile organizzazione oppure no) non costituisce di per sé motivo sufficiente per far considerare una qualsiasi delle dette società una stabile organizzazione dell’altra». Tale disposizione ha lo scopo di specificare che, quando una società residente in uno Stato contraente detiene la maggioranza (o la totalità) del capitale sociale di una società controllata residente nell’altro Stato contraente, questo Stato non può, per ciò solo, considerare che la società controllata costituisca stabile organizzazione della società controllante. Tuttavia, una società controllata può essere considerata stabile organizzazione materiale della società controllante allo stesso modo in cui può essere ritenuta tale una società non appartenente al gruppo. Pertanto, una società controllata può essere considerata stabile organizzazione materiale della propria controllante qualora: A) i locali e il personale della società controllata sono a disposizione della controllante, la quale di fatto utilizza tali locali e tale personale per svolgere la propria attività; B) la società controllata opera quale alter ego della controllante, non svolgendo la propria attività, ma quella della controllante. Inoltre, affinché una società possa essere qualifi-

cata stabile organizzazione (materiale o personale) della sua controllante occorre che l’attività svolta dalla prima non si configuri come avente carattere preparatorio o ausiliario ai sensi dell’art. 5, par. 4, del modello Ocse. L’ufficio ha giustificato il proprio operato richiamando la sentenza 3367/2002 della Cassazione (caso P.M.). Ma la valenza dei principi espressi dalla Suprema Corte non sono automaticamente estensibili perché riferiti al caso specifico in cui la sentenza è resa. Inoltre gli stessi principi sono stati oggetto di feroci critiche dalla dottrina e comunque hanno indotto l’Ocse a intervenire, apportando modifiche al commentario ufficiale al modello di convenzione Ocse quali: a) il mero fatto che una persona assista o anche partecipi in uno Stato alle trattative tra un’impresa e il cliente non significa, di per sé, che tale persona abbia esercitato in quello Stato un’autorità di concludere contratti in nome dell’impresa non residente; b) una controllante può essere considerata avere una stabile organizzazione nello Stato in cui la propria controllata ha una propria sede fissa di affari, solo se sono soddisfatti i requisiti previsti dall’art. 5, par. 1 o 5 del modello Ocse; c) una società controllante può avere una propria stabile organizzazione personale con riferimento all’attività svolta dalla propria controllata nel medesimo Stato, se sono soddisfatte le condizioni previste dall’art. 5, par. 5, del modello di convenzione; a tal fine non assume rilevanza «il controllo che una società controllante esercita sulla società controllata nella sua veste di socio»; d) nell’ipotesi in cui una società appartenente ad un gruppo multinazionale fornisca determinati servizi ad una o più società del gruppo, essa non sarà considerata una stabile organizzazione della società beneficiaria del servizio, nel caso in cui il servizio sia reso utilizzando personale e attrezzature proprie della società che lo fornisce e faccia parte dell’oggetto della propria attività. A prescindere da ciò la Commissione ritiene inconferente il richiamo a tale giurisprudenza con riguardo al caso de quo perché: 1) nessuna delle società italiane legate commercialmente a [...] ha mai svolto una benché minima attività di controllo sull’esecuzione dei contratti conclusi di [...]; 2) nessuna di tali società ha mai svolto attività di controllo o di management (ma, al contrario, attività molto più operativa ed esecutiva), come nel caso della società I., riconosciuta stabile organizzazione P.M.;


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3) nessuna di tali società ha compiuto attività non comprese nel proprio oggetto sociale. Così delineate le disposizioni Ocse e il paragone col caso P.M., è ora il tempo di esaminare se vi sia una stabile organizzazione materiale di [...] in Italia, attraverso la «mappa di gruppo» come chiamata dal Pvc della G. di F. Dunque: - [...] non ha alcun rapporto commerciale con [...], né alcun tipo di attività; essa inoltre ha un oggetto sociale del tutto diverso; - [...] non esisteva nel ’98 e quindi non poteva costituire organizzazione stabile di [...]; - stesso discorso per [...] – [...] ha con [...] un contratto di deposito, custodia e servizio spedizione merci. Tale contratto (vedi punto 6 della premessa) non è stato contestato dall’ufficio sotto il profilo della simulazione e quindi il contratto ha effetto fra le parti. È vero che la simulazione, costituendo motivo di nullità del negozio per difetto di causa è rilevabile d’ufficio ex art. 1421 c.c. (cfr. Cass. 32/1985), ma manca nel caso di specie qualsiasi prova di accordo simulatorio né è stato dedotto alcunché circa l’individuazione della causa simulandi. Ad abundantiam si rileva come i locali di [...] non siano mai stati nella disponibilità giuridica o fattuale di [...] e in ogni caso detti locali non potrebbero comunque qualificare una stabile organizzazione materiale di [...]. Difatti, l’attività svolta presso tali strutture determinerebbe in ogni caso l’integrazione di ipotesi negative di stabile organizzazione per essere i locali utilizzati: - ordinariamente, ai soli fini di deposito e consegna delle merci; - in taluni casi, per lo svolgimento di attività di natura preparatoria e ausiliaria. Entrambe le attività indicate sono, invero, inidonee, ab origine, per espressa previsione del citato art. 5, par. 4, del modello di convenzione Ocse (così come l’art. 162 del T.U.I.R.) a rappresentare una stabile organizzazione di K. Conclusivamente, a) ha sempre agito nell’ambito del proprio oggetto sociale; b) non ha mai svolto attività estranee al proprio oggetto sociale e rientranti invece in quello di [...]; c) è dotata di una propria struttura organizzativa e di propri organi sociali; d) i suoi locali non sono mai stati a disposizione dei dipendenti di [...]; e) non ha mai svolto attività di controllo nell’esecuzione dei contratti conclusi da [...].

L’Agenzia delle Entrate (e prima la G. di F.) ritengono che la prova giustificativa delle proprie tesi risieda in pareri o e-mail scambiate fra i consulenti di [...] e fatte oggetto di sequestro. Preliminarmente va osservato che detti documenti non risultano ritualmente prodotti. L’ufficio richiama, a proposito degli stessi, il Pvc della Guardia di Finanza. Quest’ultima “descrive” 7 documenti (dal n. 01 al n. 08 - pag. 55/73 del Pvc) riportando esattamente il termine «per stralcio». Ora è elementare che i documenti non possono essere richiamati “per stralcio” ma devono invece essere ritualmente prodotti in originale o in copia autentica se si vuole mettere in condizione chi giudica di esaminarli e di trarre le dovute conclusioni. Già questa osservazione basterebbe per respingere la tesi difensiva dell’ufficio. Ma, per amore di completezza, si può anche argomentare come se detti documenti fossero effettivamente presenti nel fascicolo di parte, e non richiamati “per stralcio”. I documenti però si riferiscono agli anni di imposta 2004 e successivi e quindi non sono riferibili alle annualità 1998/2003. Inoltre tali documenti non possono costituire prova della stabile organizzazione di [...] in Italia né in fatto né in diritto. In fatto perché i documenti costituiscono, come esattamente ipotizzato dal ricorrente, proposte di verifiche dei consulenti locali alla luce delle sentenze relative al caso P.M. È assolutamente credibile infatti che il nuovo indirizzo interpretativo emerso dal caso P.M., poteva interessare in ipotesi [...] (come del resto tutti i gruppi multinazionali, le banche d’affari, le più grosse realtà industriali) e quindi i consulenti avevano avvertito l’esigenza di verificare con urgenza e minuziosità la conformità del proprio operato ai nuovi principi, anche alla luce della verifica precisa dell’impatto di una situazione nuova su strutture preesistenti. Ma ciò non può di certo costituire una confessione, tra l’altro sconosciuta al processo tributario e quindi inammissibile. In diritto, perché tali documenti (costituenti secondo la tesi dell’ufficio dichiarazioni di terzi quali elementi indiziari utili a dimostrare l’esistenza di una stabile organizzazione di [...] in Italia) non hanno valenza autonoma e possono essere utilizzati solo a completamento di altre prove già acquisite e alla condizione che queste ultime non siano sufficienti a convincere il giudice. Tali indizi, come ha precisato la Corte costituzionale nella sentenza n. 18 del 21 gennaio 2000,


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hanno dunque una funzione complementare rispetto alla prova certa e diretta. Volendo applicare tali principi al caso che ci riguarda si può osservare che: - in primis, quelle che l’ufficio considera dichiarazioni di terzi non hanno valore indiziario poiché nessuna delle stesse è diretta a dimostrare l’esistenza in Italia di una sede stabile della [...]; - in secundis, non essendo stata provata da parte dell’amministrazione l’esistenza della stabile organizzazione, non risulta essersi neppure parzialmente formata, allo stato, alcuna prova che gli elementi asseritamente indiziari raccolti dall’ufficio potrebbero eventualmente corroborare. In ipotesi astratta potrebbe anche condividersi la tesi dell’ufficio circa l’ammissibilità delle dichiarazioni di terzi nel processo tributario (come da Cass. 11221/2007) ma tale principio sarebbe comunque inapplicabile nel caso de quo ove manca la prova dei fatti che possa essere ulteriormente confermata dalle dichiarazioni. II) In ordine alla presunta stabile organizzazione personale di [...] in Italia Sia il Pvc, sia l’avviso di accertamento, ravvisano l’esistenza di una presunta stabile organizzazione personale di [...]. In cosa consista tale stabile organizzazione personale non è affatto chiaro. Per la Guardia di Finanza il cui verbale risulta integralmente richiamato e condiviso (cfr. pag. 3 dell’accertamento) essa è rappresentata da una «rete di agenti». La motivazione dell’atto di accertamento per relationem con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale della G. di F., è legittima (pur mancando un’autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi acquisiti dalla G. di F.) perché significa semplicemente che l’ufficio stesso, condividendo le conclusioni, ha inteso realizzare un’economia di scrittura che non arreca pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (cfr. sentenza Cass. 10205/2003). Per l’Agenzia delle Entrate invece (cfr. pag. 4 dell’accertamento) la «stabile organizzazione personale» sarebbe individuata in una «stabile organizzazione personale per la gestione della rete degli agenti di vendita». Sembrerebbe quindi che l’avviso di accertamento non qualifichi la rete di agenti quale stabile organizzazione personale, ma individua quest’ultima in una non identificata struttura avente scopo e finalità di gestire la “rete” di agenti. Le due motivazioni, ripetesi, entrambe richiamate ed espresse nell’avviso di accertamento, sono diverse e palesemente contraddittorie tra di loro.

L’Agenzia delle Entrate infatti espone una motivazione completamente contraddittoria con la tesi sostenuta dalla Guardia di Finanza. L’atto è pertanto inficiato da una motivazione perplessa, la quale lo rende illegittimo, in quanto non consente alla ricorrente di comprendere quale sia l’effettiva motivazione posta a base della ripresa. Comunque sia (rete di agenti oppure organizzazione che gestisce la rete di agenti) la “costruzione” dell’ufficio è la seguente: - esistenza di una rete di vendita operante in Italia, composta da agenti italiani monomandatari facenti parte di una struttura piramidale riconducibile di fatto alla [...] e non alla [...] (ora [...]) aziende costituite ad hoc per tenere formalmente separata la rete vendita da [...]; - stretta dipendenza degli agenti dalle decisioni strategiche di [...] che tramite periodiche riunioni e l’attività prestata dai propri dipendenti (ispettori di zona, direttore di vendita di area, direttore generale vendite, area managers, direzione commerciale) pone in essere azioni di coordinamento e controllo sugli agenti; - svolgimento di una attività essenziale per la produzione del reddito in Italia da parte della [...]; - effettivo potere di negoziazione del contratto da parte dell’agente, tenuto conto di quanto citato nel commentario al modello Ocse («Un agente può essere intestatario del potere effettivo di concludere contratti anche quando promuove e riceve ordini dai clienti senza finalizzarli formalmente ed è poi l’impresa estera che regolarmente approva le operazioni») e nella sentenza della Corte di Cassazione sul caso P.M. («L’accertamento del potere di concludere contratti deve essere riferito alla reale situazione economica e non alla legge civile, e lo stesso può riguardare anche singole fasi, come le trattative e non necessariamente comprendere anche il potere di negoziare i termini del contratto»). Si ritiene che la ripresa sia infondata anche nel merito e anche nell’ipotesi in cui si volesse ritenere che la contestazione dell’ufficio riguardi la “rete” di agenti. Infatti: 1) [...] ha stipulato un contratto di agenzia con [...] (ora [...]), nominata proprio agente generale senza potere di rappresentanza, per la promozione della stipulazione di contratti di vendita a San Marino, in Italia, nella Città del Vaticano e in altri Paesi d’Europa. Il contratto prevede espressamente che [...] potrà servirsi di subagenti e non potrà assumere l’incarico di trattare articoli in concorrenza con i prodotti della mandante: per effetto di tale esclusiva l’agente [...] può utilizzare il marchio [...].


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Secondo il contratto, [...] fissa il prezzo di cessione dei propri prodotti, ha facoltà non sindacabile di accettare gli ordini (anche per semplice simpatia o antipatia nei confronti del cliente) e pretende la preventiva autorizzazione scritta per la concessione di sconti. I subagenti, quindi, anche in caso di adesione alla tesi sostenuta dall’ufficio, costituirebbero al limite una stabile organizzazione di [...], e non di [...]. Una contestazione a [...] dell’esistenza di tale stabile organizzazione dovrebbe necessariamente passare attraverso la prova giudiziale della simulazione soggettiva dei contratti conclusi da [...] con [...] e da quest’ultima con i subagenti. Contestazione che né i verbalizzanti, né l’ufficio hanno minimamente dedotto o semplicemente ipotizzato. Per questo il presupposto dell’esistenza di una stabile organizzazione personale in capo a [...] non si è nella specie realizzato. 2) In ogni caso una “rete” di agenti può costituire stabile organizzazione? La risposta è negativa. Il modello di convenzione Ocse stabilisce che «una persona che agisce in uno Stato contraente per conto di un’impresa dell’altro Stato contraente [...] è considerata “stabile organizzazione” nel primo Stato se essa dispone nello Stato stesso di poteri che esercita abitualmente e che le permettono di concludere contratti a nome dell’impresa [...]» (art. 5, par. 5) e che al contrario «non si considera che un’impresa di uno Stato contraente ha una stabile organizzazione nell’altro Stato contraente per il solo fatto che essa vi esercita la propria attività per mezzo di un mediatore, di un commissionario e di ogni altro intermediario che gode di uno status indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell’ambito della loro ordinaria attività» (art. 5, par. 6). Il par. 5 dell’art. 5 prevede pertanto che una persona (sia fisica che giuridica) che esercita con carattere di abitualità poteri che vincolano contrattualmente l’impresa estera, costituisce una stabile organizzazione “personale” di quest’ultima. Tuttavia, quando l’intermediario sia un soggetto indipendente dall’impresa estera e operi nell’ambito della propria attività ordinaria, il par. 6 dell’art. 5 esclude la possibilità di configurare una stabile organizzazione personale. Quest’ultima pertanto può essere rappresentata solamente da una persona fisica o giuridica. Se un soggetto non residente ha, in Italia, due persone che soddisfano tali requisiti, quello stesso soggetto sarà considerato avere in Italia 2 stabili organizzazioni.

La possibilità che un soggetto abbia più stabili organizzazioni è principio comunemente accertato e affermato anche dalla stessa a.f. L’ufficio e i verbalizzanti, però, non identificano le singole presunte stabili organizzazioni di [...], bensì una sola stabile organizzazione personale, rappresentata da una non identificata rete di agenti. Tale operato è illegittimo, posto che la presunta e non individuata rete non può rappresentare una realtà giuridica idonea (ai sensi dell’art. 5 del modello di convenzione Ocse, così come del resto dell’art. 167 T.U.I.R.) a configurare una stabile organizzazione personale. Conclusivamente la non identificata rete non può in alcun modo essere considerata una “persona” ai sensi dell’art. 5 del modello di convenzione Ocse. 3) Infine, i singoli subagenti non avrebbero comunque i requisiti per poter essere considerati stabili organizzazioni personali, dato che essi hanno sempre agito in totale indipendenza e autonomia e hanno operato nell’ambito della loro attività ordinaria. Come già affermato in precedenza e come risultante dagli atti, i subagenti sottopongono ai clienti proposte contrattuali già predisposte da [...] e quindi non hanno il potere di negoziazione e comunque [...] non è vincolata alle proposte di ordini provenienti dai subagenti. Questi inoltre sostengono il rischio imprenditoriale della propria attività non ricevendo rimborso spese se gli ordini non vengono accettati da [...] e sono liberi nell’organizzazione della propria attività, senza direttive dell’agente generale e di [...], se non quelle attinenti alla presentazione del prodotto. Pare dunque, alla luce di questi elementi che non si possa configurare i singoli subagenti quali stabili organizzazioni personali di [...] o di [...]. A tal proposito è bene ricordare che: a) affinché si configuri una stabile organizzazione personale è necessario che il subagente abbia il potere di negoziare tutti gli elementi del contratto, circostanza che non si verifica mai nel caso in esame; b) il subagente può comunque svolgere la propria attività anche nei confronti di altri soggetti, che naturalmente non siano concorrenti di [...]; c) il subagente è completamente libero di organizzare le modalità di svolgimento della propria attività, senza ricevere e dover sottostare in alcun modo ad eventuali direttive di [...] e tanto meno di [...] (pertanto il subagente è considerato indipendente giuridicamente);


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d) il subagente sostiene il rischio imprenditoriale della propria attività, in quanto nell’ipotesi in cui [...] non dovesse accettare i contratti ad essa proposti al subagente non sarebbe rimborsato alcun compenso (pertanto egli è indipendente anche economicamente); e) in ogni caso, l’elemento dell’indipendenza economica diviene privo di rilevanza nell’ipotesi di agente che non ha i poteri di concludere in nome e per conto del soggetto estero. Il motivo di ricorso, in ordine alla determinazione del reddito della stabile organizzazione, risulta superato dalle considerazioni di cui dianzi. La Commissione tuttavia desidera specificare che l’ufficio ha comunque sbagliato nella determinazione del reddito asseritamente prodotto dalla stabile organizzazione. L’errore riguarda le modalità attraverso le quali l’ufficio ha proceduto ad accertamento induttivo: tale ultimo accertamento non rende, infatti, l’ufficio arbitro dell’esistenza e della quantificazione del reddito, il cui calcolo dovrà, comunque, fondarsi su fatti certi o circostanze da cui derivino presunzioni che, seppur non qualificate ai sensi dell’art. 2729 del c.c., siano almeno ragionevoli. L’operare discrezionale dell’ufficio, pertanto, è in grado di fondare un legittimo accertamento quando il reddito sia stato determinato: - utilizzando i coefficienti di redditività propri del settore economico nel quale il contribuente accertato opera; - sulla base di coefficienti differenziati a seconda dell’annualità, in modo da consentire una quanto più realistica rappresentazione della fattispecie concreta; è la stessa Agenzia delle Entrate, d’altronde, a richiedere che tale accertamento debba realizzare lo «scopo di ricostruire l’effettiva situazione economica della singola impresa nel rispetto della realtà dell’imponibile» (cfr. circ. 30 aprile 1977, n. 7/1496). Tutte le volte che questi principi non siano rispettati, l’accertamento deve essere considerato come illegittimamente emesso. Nel caso di specie, l’ufficio afferma di avere determinato il reddito della società applicando il coefficiente di redditività del 4% per determinare il reddito di impresa e del 10% per il valore della produzione. Non è dato sapere a quale realtà economica l’a.f. abbia fatto riferimento: del percorso seguito non si rinviene infatti nessun riferimento, se non di stile, nel processo verbale, nell’avviso e nelle controdeduzioni, i quali fanno riferimento all’esame dei possibili competitor della [...] e di aver determinato un coefficiente medio.

L’approssimazione di tali affermazioni e la loro non corrispondenza alla situazione reale emerge con evidenza se si esamina il contenuto dei bilanci delle società dirette concorrenti della [...] prodotti agli atti: ci riferiamo a [...]. Queste società utilizzate quale campione, sono sicuramente competitor di [...] essendo alla stessa paragonabili per dimensioni, tipologia di clientela, ricavi e posizioni sul mercato. Ebbene, dagli stessi non si ricava un coefficiente di redditività pari al 4%, ma emerge che le società considerate in molti dei periodi di imposta oggetto della verifica hanno chiuso in perdita e negli esercizi in cui hanno avuto risultati di esercizio positivi hanno avuto redditività ben inferiori a quelle desunte dall’ufficio. Se ne deve dedurre, esaminando questi dati, che l’ufficio non ha effettuato le verifiche che afferma di aver condotto, cosicché l’accertamento è viziato anche sotto questo profilo. Inoltre, ciò che rende ancora più aberrante la determinazione del reddito imponibile effettuato dall’ufficio è il fatto che quale importo utilizzato per l’applicazione del predetto coefficiente di redditività è stato preso il totale dei ricavi emergente dalla dichiarazione presentata ai fini Iva dalla [...]. L’ufficio non ha quindi, come impone l’art. 23 del T.U.I.R., dato rilevanza ai soli redditi attribuibili all’asserita stabile organizzazione (rectius, alle presunte stabili organizzazioni), ma ha considerato prodotto in Italia tutto il reddito prodotto da [...]. E ciò è contrario a qualsiasi logica e principio di diritto tributario domestico e internazionale. Ricordiamo che secondo la giurisprudenza la stessa normativa italiana e anche la prassi dell’amministrazione finanziaria e i rapporti dell’Ocse in tema di determinazione del reddito della stabile organizzazione, una società estera è soggetta a tassazione in Italia solo ed esclusivamente per il reddito che è attribuibile alla sua stabile organizzazione. L’unico caso in cui vi è coincidenza tra tutto il reddito prodotto dal soggetto estero e quello da esso prodotto in Italia si verifica nelle situazioni in cui la società non ha alcuna struttura nello Stato estero, e produce quindi il suo reddito solo in Italia (salvo che non abbia altre stabili organizzazioni in altri Stati). Ma in tal caso, la società estera sarebbe verosimilmente considerata fiscalmente residente in Italia. Nell’ipotesi in esame, nulla di tutto ciò si verifica, in quanto [...] ha una struttura in San Marino composta da 148 dipendenti, la maggior parte dei quali con funzioni dirigenziali.


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Stando alle tesi dell’ufficio, quindi, queste 148 persone non sarebbero in grado di produrre alcun reddito, in quanto tutto il reddito di [...] sarebbe prodotto dai circa 70 operai presso [...] e dai subagenti. È di immediata evidenza l’illogicità di una simile tesi. Come il ricorrente ha esattamente dedotto in ricorso, nella determinazione del reddito della stabile organizzazione l’ufficio si sarebbe dovuto attenere alle disposizioni di cui all’art. 14 del D.P.R. 600/1973 e all’art. 110, comma 7, del T.U.I.R. Avrebbe, pertanto, dovuto distintamente considerare l’attività della società estera e quella della presunta stabile organizzazione per poi procedere all’applicazione del principio di libera concorrenza, in base al quale per la determinazione del reddito bisognerebbe accertare quale sarebbe il reddito che un’impresa indipendente realizzerebbe svolgendo quelle medesime funzioni. Lo stesso criterio, tra l’altro, è stato erroneamente seguito per la determinazione del reddito della presunta stabile organizzazione personale, il cui calcolo avrebbe, invece, richiesto un’analisi funzionale delle attività svolte da ogni agente e

un confronto delle commissioni da esso percepite con quelle percepibili da un agente indipendente che svolga servizi analoghi. Tale attività non è stata svolta dall’ufficio, il quale non ha accertato né le commissioni percepite né i costi sostenuti dagli agenti e si è rifatto ad un metodo di determinazione del reddito assolutamente incompatibile con la realtà dei fatti. Nella misura in cui il costo effettivamente sostenuto dalla società sammarinese per il subagente fosse stato in linea con il mercato, e quindi con la commissione che spetterebbe ad un agente indipendente, il reddito imponibile in capo alla presunta stabile organizzazione personale sarebbe stato sostanzialmente nullo. Tale metodo viene riconosciuto dall’Ocse quale il più attendibile per determinare il reddito attribuibile ad una stabile organizzazione personale. Nel caso di specie, tale semplice metodo non è stato applicato cosicché l’avviso deve, su tale ulteriore punto, ritenersi illegittimo e meritevole di annullamento. In relazione alla difficoltà dei temi trattati sussistono giusti motivi di compensazione delle spese di lite.

Nota di Enrico Ceriana

1. Nel caso esaminato dalla sentenza della Commissione tributaria provinciale di Rimini l’amministrazione finanziaria aveva contestato la presenza sia di una stabile organizzazione personale che di una stabile organizzazione materiale. La casa madre era stata identificata in una società sammarinese che avrebbe svolto nel territorio italiano la propria attività di impresa sia direttamente, utilizzando i locali di alcune società controllate italiane, sia in modo indiretto per il tramite di una rete (piuttosto cospicua) di agenti monomandatari operanti in Italia. Al di là delle circostanze di fatto e delle risultanze probatorie che non emergono completamente dalla motivazione dei giudici di primo grado, la sentenza sottolinea come l’amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, avesse richiamato le risultanze del caso Philip Morris al fine di sostanziare la presenza nel nostro Paese di una stabile organizzazione materiale della società estera. Nel caso Philip Morris la Cassazione1 aveva enucleato i seguenti principi di diritto:

La stabile organizzazione occulta deve essere individuata sulla base degli elementi di fatto in concreto riscontrati, senza che possa essere fatto riferimento ai precedenti giurisprudenziali traendone meccanismi automatici applicabili indifferentemente a qualsiasi caso. Tale principio vale tanto per l’identificazione della stabile organizzazione materiale quanto di quella personale, la quale, in particolare, non può essere identificata in una rete di agenti. Il reddito della stabile organizzazione deve essere determinato seguendo i coefficienti di redditività del settore economico interessato; mentre non è corretto il mero rinvio, per determinare il reddito della presunta stabile organizzazione, ai dati emergenti dal volume d’affari della casa madre o dalle fatture ricevute dal rappresentante fiscale Iva in Italia.

1 Cass., sez. trib., 7 marzo 2002, n. 3367, 3368, 3369; Cass., sez. trib., 26 marzo 2002, n. 4319; Cass., sez. trib., 25 maggio 2002, n. 7682. Le decisioni della Cassazione riguardavano sia

l’aspetto dell’Iva che quello delle imposte dirette. Parte della dottrina internazionale (VAN DER PAARDT, Su una ipotesi di incompatibilità con il diritto comunitario della nozione di centro di atti-

vità stabile ai fini Iva, in Riv. Dir. Trib., 2002, I, 1327) ha criticato le conclusioni raggiunte dalle sentenza della Cassazione ritenendole non in linea con i precedenti della Corte di Giu-


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- una società italiana può essere considerata stabile organizzazione di varie società appartenenti allo stesso gruppo. È vero che il gruppo non è un soggetto dotato di personalità giuridica, tuttavia questo non impedisce di concludere che una o più società del gruppo svolgano un’attività manageriale attraverso una struttura italiana come parte integrante di un programma strategico-operativo più ampio facente capo al gruppo. In questo caso le sinergie delle diverse società alle quali la società italiana fa riferimento devono essere considerate unitariamente; - l’attività di supervisione e controllo riguardante l’esecuzione di un contratto tra soggetto residente e società non residente non può essere considerata un’attività ausiliaria che possa escludere per se stessa la presenza di una stabile organizzazione; - l’affidamento ad una struttura nazionale delle operazioni d’affari comporta l’acquisto della qualifica di centro di attività stabile da parte del soggetto italiano; - la presenza della stabile organizzazione deve essere verificata sulla base di elementi sostanziali (e non formali). In definitiva la Cassazione aveva rilevato come il controllo estero sulla società residente (ovvero, la

stizia. In effetti secondo tale dottrina, un centro di attività stabile si può configurare solo quando si concretizzano circostanze eccezionali stante il fatto che l’Iva deve essere assolta in linea di principio nel luogo di consumo. In effetti analizzando la situazione portata all’attenzione della Cassazione, il caso in esame si presenta piuttosto differente rispetto ai precedenti della Corte di Giustizia. Nel causa DFDS (C-260-95) era stato esaminato il caso di una società inglese interamente posseduta da una società danese che vendeva pacchetti turistici “tutto compreso” sul mercato inglese. La società danese svolgeva attività relative alla navigazione, ai viaggi e ai trasporti in generale e aveva sottoscritto un contratto che qualificava la sua controllata inglese come agente generale portuale e come ufficio di prenotazione della società danese per il Regno Unito per tutti i servizi passeggeri. La Corte ha affermato che il fatto che la società danese controllasse l’intero capitale della società inglese e che vi fossero vari obblighi contrattuali imposti alla società controllata erano indizi significativi che la società inglese agiva come mera ausiliaria della società danese. La struttura organizzativa e

totale sottoposizione alle direttive del gruppo) fosse talmente penetrante da far sì che la società italiana, pur formalmente indipendente, fosse diventata una vera e propria struttura di gestione in Italia dell’impresa esercitata dalle società estere2. In effetti già prima delle sentenze in esame era stata evidenziata la particolare importanza, ai fini della verifica della presenza di una stabile organizzazione, della connessione dell’opera svolta dalla società residente con l’attività della societàmadre: se durante tali operazioni la posizione di subordinazione della controllata era tale che veniva meno ogni autonomia economica e gestionale, allora poteva essere superato il dato formale dell’autonoma soggettività giuridica della società controllata, essendo quest’ultima sussidiaria, nel vero senso della parola, della casa madre3. Nel caso Philip Morris la Suprema Corte ha adottato il principio della prevalenza della sostanza rispetto alla forma4, e pertanto qualsiasi verifica circa la presenza della stabile organizzazione in Italia di un soggetto estero e della ravvisabilità della sede fissa d’affari nella società italiana controllata deve basarsi esclusivamente sull’analisi della situazione di fatto relativa al caso di specie.

umana veniva identificata nelle condizioni materiali nelle quali la società inglese forniva i suoi servizi ai passeggeri e nel numero di dipendenti della società inglese da essa occupati. Alla luce di tale precedente perché una società possa diventare centro di attività stabile è necessario che: - il soggetto non residente detenga una partecipazione diretta e totalitaria nel capitale della controllata; - la controllata sia economicamente dipendente dalla controllante e possa concludere contratti in nome e per conto della controllante; - la controllata deve rendere i suoi servizi solo ed esclusivamente a vantaggio della controllante. 2 L’avocazione di poteri decisionali in capo alla società controllante viene vista come un elemento che rende del tutto formale l’autonomia giuridica della società controllata, svuotandola di contenuto e accentuando il rischio di presenza della stabile organizzazione. Sul punto CARPENTIERI-LUPI-STEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, 230. 3 In tale ipotesi può essere di aiuto verificare se il rischio derivante dallo svolgimento dell’attività economica ricada sulla controllante o sulla con-

trollata. Nel primo caso si verificheranno tutti i requisiti richiesti per l’esistenza della stabile organizzazione personale, mentre nel secondo caso la filiale agirà come soggetto indipendente, sopportando le eventuali perdite di un’operazione commerciale sbagliata e riacquistando così la propria piena identità giuridica. La dottrina ha sottolineato come possa essere particolarmente interessante verificare se il soggetto residente possa fare economicamente a meno dell’attività svolta per conto del soggetto non residente. In caso affermativo non si può negare l’indipendenza economica rispetto all’impresa straniera. La giurisprudenza americana aveva fatto ad esempio riferimento al modo con il quale la società figlia appariva nei confronti dei terzi e all’esistenza di una scrittura in base alla quale questa operava per conto della casa madre. Sul punto anche per i riferimenti alla giurisprudenza statunitense, si veda PISTONE, Stabile organizzazione ed esistenza di società figlia residente, in Dir.e Prat. Trib., 1998, II, 361. 4 Lo stesso approccio viene indicato dall’Ocse: il commentario Ocse luglio 2005, (5), par 32.1 precisa che la sussistenza del potere di impegnare il soggetto estero da parte del-


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2. La sentenza della Commissione tributaria provinciale di Rimini appare interessante poiché non solo afferma che i principi del caso Philip Morris non sono automaticamente estendibili al di là del caso di specie, ma sottolinea nel contempo che le stesse conclusioni della Cassazione nella citata controversia sono state oggetto di critica da parte dell’Ocse. In effetti la decisione della Cassazione nel caso Philip Morris ha portato ad una integrazione del commentario Ocse in cui viene sottolineato come la presenza dei requisiti per identificare una stabile organizzazione deve essere ravvisata in relazione ad ogni singola società non potendosi mai ravvisare una stabile organizzazione di gruppo5. Tuttavia l’Italia ha effettuato un’“osservazione” al commentario Ocse precisando che il nostro Paese si riserva la possibilità di applicare i principi derivanti dalla giurisprudenza nazionale6. Tale aspetto è stato più volte sottolineato nella giurisprudenza di legittimità7 successiva al caso Philip Morris, ove è stato precisato come le modifiche apportate al commentario Ocse non abbiamo alcuna rilevanza in relazione all’individuazione della stabile organizzazione perché il commentario non ha valore normativo, ma rappresenta una semplice raccomandazione ai Paesi aderenti8. La sentenza in commento, però, si allontana dall’orientamento della Cassazione solo in apparenza. La Commissione tributaria provinciale elenca infatti puntualmente le circostanze di fatto che rendono inapplicabile il caso Philip Morris, in relazione alla presenza di una stabile organizzazione materiale, operando quindi quell’esame fattuale (prevalenza della sostanza sulla forma) che gli stessi giudici di legittimità hanno ritenuto la corretta via

l’agente deve essere verificato da un punto di vista sostanziale e non meramente formale. In senso critico alle sentenze della Cassazione sul caso Philip Morris si veda ACCILLI, Il caso Philip Morris, in Dir. e Prat. Trib., 2004, I, 105 e seguenti, la quale ha precisato che «con riferimento all’ordinamento giuridico italiano, si rileva che non esiste un principio generale che consente di superare la forma a vantaggio della sostanza [...]. La sostanza non può invece prevalere sulla forma come principio esegetico di uso indiscriminato ogni volta che l’organo giudicante non riesce ad ovviare alla mancanza di un elemento di prova». 5 Si veda il commentario Ocse luglio

per identificare la presenza di una stabile organizzazione in Italia di un soggetto estero. 3. In relazione alla stabile organizzazione personale, la Commissione tributaria provinciale sottolinea la contraddittorietà della motivazione dell’avviso di accertamento rispetto al processo verbale di constatazione: nell’atto istruttorio la stabile organizzazione personale sarebbe stata individuata in una rete di agenti, mentre nell’atto impositivo si faceva riferimento ad un (ulteriore) struttura che avrebbe avuto lo scopo di gestire la rete di agenti. Questa contraddizione è piuttosto significativa poiché se in relazione alla contestazione del processo verbale di constatazione si può parlare di stabile organizzazione personale, nella contestazione come descritta nell’avviso di accertamento si potrebbe semmai parlare di stabile organizzazione materiale. L’Agenzia delle Entrate lamenta infatti la presenza di una struttura che doveva gestire gli agenti. La struttura fa pensare letteralmente a dei locali e a del personale utilizzati per la gestione della rete. Si tratterebbe dunque ancora di stabile organizzazione materiale e non personale. Ma a parte questa connotazione sistematica9, i giudici di primo grado giungono alla conclusione che la rete in quanto tale non possa mai costituire una stabile organizzazione personale, essendo necessaria la presenza di una persona fisica o di una persona giuridica e non di un modello organizzativo. Tale conclusione pare condivisibile alla luce della stessa definizione di stabile organizzazione personale. Sotto tale profilo i giudici di primo grado fanno riferimento alla nozione di sede fissa d’affari del modello Ocse, richiamando solo in via subordina-

2005, (5), par. 41.1, il quale precisa che «the determination of the existence of a permanent establishment under the rules of paragraphs 1 or 5 of the article must, however, be done separately for each company of the group. Thus the existence in one State of a permanent establishment of one company of the group will not have any relevance as to whether another company of the group has itself a permanent establishment in that State». 6 Si vedano le osservazioni al commentario Ocse all’art. 5 (paragrafo 45.10 del commentario Ocse all’art. 5, versione luglio 2005). 7 Cass., sez. trib., 28 luglio 2006, n. 17206 e Cass., sez. trib., 15 febbraio

2008, n. 3889. 8 Raccomandazione in relazione alla quale l’Italia aveva operato un’esplicita riserva sotto forma di osservazione, subordinando il commentario alle prese di posizione della giurisprudenza nazionale. Le sentenze della Cassazione citate alla nota precedente sembrano porsi in controtendenza rispetto alle decisioni della stessa Suprema Corte in materia di transfer price laddove si precisa che il commentario Ocse è una rilevante fonte interpretativa. Sul punto Cass., sez. trib., 13 ottobre 2006, n. 22023 e Cass., sez. trib., 16 maggio 2007, n. 11226. 9 Non secondaria in sede di contenzioso, tanto è vero che la stessa sentenza parla di motivazione perplessa.


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ta l’art. 162 T.U.I.R. (per errore è stato citato nella sentenza l’art. 167 T.U.I.R.), anche se la norma interna ben avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie visto che i fatti di causa erano relativi anche agli anni 2004 e 2005. La considerazione di fondo seguita dalla Commissione tributaria provinciale è che la rete di gestione non è una persona (né fisica né giuridica) e dunque non vi può essere stabile organizzazione personale, la quale presuppone appunto l’esistenza di un collegamento tra il territorio nazionale e l’impresa non residente per il tramite di una “persona”. Sul punto i giudici di primo grado sottolineano come il termine “persona” ai fini convenzionali identifichi persone fisiche, giuridiche o ogni altro soggetto considerato tale dalla normativa degli Stati contraenti. La necessità di rinviare alle definizioni convenzionali per l’interpretazione dell’esatto significato da attribuire dal dettato dell’art. 5 del modello Ocse appare corretta anche alla luce della posizione della più autorevole dottrina, la quale ha ritenuto che si dovesse fare rinvio al disposto dell’art. 3 del modello convenzionale contenente appunto la definizione di persona ai fini convenzionali10. Tuttavia i giudici di primo grado non si sono posti il problema della differenza lessicale tra il dettato del modello convenzionale che parla appunto di “persona” e il disposto dell’art. 162 che parla, in relazione alla stabile organizzazione personale, di “soggetto”. La discrasia è tuttavia solo apparente poiché già in passato la dottrina internazionale aveva evidenziato come il termine persona fosse equivalente a quello di soggetto passivo di imposta11. Ebbene utilizzando tale criterio interpretativo è evidente che la “rete” di gestione non potrà mai integrare la presenza di una stabile organizzazione personale. La rete infatti non è un soggetto passivo di imposta ai fini dell’ordinamento nazionale, anche volendo considerare la latitudine di tale nozione, estesa a tutte le organizzazioni nei confronti delle quali il presupposto di imposta viene integrato autonomamente. In realtà, come evidenziato in precedenza, l’Agenzia delle Entrate non aveva identificato la stabile organizzazione personale nella “rete” in quanto tale, ma in una struttura finalizzata a gestire i vari agenti. La contestazione in sé non è del tutto ingiustifica-

10 VOGEL, On double taxation convention, Londra, 1991, 245.

ta: già in passato infatti la dottrina aveva ipotizzato la possibilità di identificare la presenza di una stabile organizzazione (personale) nella presenza di più agenti a condizione che tali soggetti cooperassero creando una sorta di tutt’uno integrato12. In ogni caso la sentenza sottolinea la mancanza di tale integrazione, avendo gli agenti operato in autonomia e sopportando il rischio imprenditoriale della propria attività. 4. La sentenza della Commissione tributaria provinciale si pone poi anche il problema della determinazione del reddito della supposta stabile organizzazione in Italia. Il testo della sentenza non è particolarmente chiaro a riguardo, ma sembra di capire che l’amministrazione finanziaria avesse determinato, attraverso un accertamento induttivo (mancando le scritture contabili rilevanti ai fini delle imposte dirette), il reddito della (presunta) sede fissa d’affari, prendendo come parametro di riferimento il totale dei ricavi dichiarati ai fini Iva dalla società estera. Tale atteggiamento non è nuovo. In effetti già in passato si è notata la tendenza dei funzionari verificatori a fare riferimento ai dati Iva, magari emergenti dalla contabilità del rappresentante fiscale Iva in Italia del soggetto non residente, al fine di quantificare il reddito imponibile della stabile organizzazione. Tale approccio, che si connota sicuramente per la sua praticità, non garantisce tuttavia la corretta ricostruzione del reddito attribuibile alla stabile organizzazione italiana. In primo luogo si possono porre dei problemi di competenza non solo in relazione ai ricavi, ma anche in relazione ai costi emergenti dalle fatture “passive” ricevute dal rappresentante Iva: i dati Iva si basano infatti su un sistema rigidamente temporale (rileva solo la data di emissione della fattura) e non considerano il fatto che il ricavo o il costo fatturato si riferisce ad un periodo di imposta ad esempio precedente rispetto a quello in cui la componente reddituale viene fatturata. A ciò si aggiungono ulteriori profili di perplessità per quanto concerne il rispetto del principio di inerenza: non sempre i costi rilevanti ai fini Iva sono pienamente rilevanti ai fini delle imposte dirette. Tale aspetto tuttavia afferisce di solito alle componenti negative per cui il riferimento al dato emergente dalla contabilità del rap-

11 SKAAR, Permanent establishment. Erosion of a treaty principle, Kluwer, 1991, 482.

12 SKAAR, op. cit., Kluwer, 1991, 484.


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presentante Iva potrebbe portare ad una ricostruzione del reddito meno onerosa per il soggetto accertato. Senza contare da ultimo un aspetto di carattere più sostanziale. Non è infatti detto che tutto il volume d’affari emergente dalla contabilità del rappresentante fiscale si riferisca all’attività d’impresa eventualmente di pertinenza della presunta stabile organizzazione italiana13. Anzi è ben possibile che parte di tale volume d’affari si riferisca ad operazioni direttamente imputabili all’attività di impresa svolta dal soggetto non residente nel proprio territorio e dunque non imponibile in Italia ai fini delle imposte dirette. Alla luce delle brevi considerazioni sopra svolte appare chiaro che il mero rinvio, per determinare il reddito della presunta stabile organizzazione, ai dati emergenti dal volume d’affari o dalle fatture ricevute dal rappresentante fiscale Iva in Italia è sostanzialmente errato. I dati contabili evidenziati ai fini Iva possono dunque essere il punto di partenza per la ricostruzione del reddito ai fini delle imposte dirette, ma non l’unico elemento per determinare il reddito della sede fissa d’affari. Del resto già in passato la Suprema Corte14 aveva sottolineato come lo strumento dell’accertamento induttivo non consentisse all’amministrazione finanziaria di ricostruire il reddito nel modo più conveniente per l’erario, ma in modo da identifi-

13 Si pensi ad esempio al caso del cantiere di costruzione che integra il requisito temporale per essere qualificato stabile organizzazione. Spesso l’attività di costruzione è preceduta da un’attività di progettazione che viene fatta dalla società non residente all’interno del suo territorio e che non ha nessun collegamento con l’attività di costruzione che viene poi realizzata in Italia. Se la società estera ha nominato un rappresentante fiscale Iva in Italia, il volume d’affa-

care, nel rispetto dell’art. 53 Cost., la reale consistenza del reddito imponibile attribuibile al soggetto accertato. Vi è poi da sottolineare che la sentenza della Commissione tributaria provinciale stigmatizza la determinazione del reddito della presunta stabile organizzazione personale perché l’Agenzia delle Entrate non avrebbe compiuto alcuna analisi funzionale delle attività svolte dagli agenti rispetto alle commissioni percepite. I giudici di primo grado sottolineano infatti che se il costo della commissione è in linea con il valore di mercato, il reddito attribuibile alla presunta stabile organizzazione personale sarebbe nullo dovendo esso identificarsi con l’attività dell’agente, attività già remunerata in relazione alla commissione percepita. Questa conclusione pare meno condivisibile poiché ipotizza una sostanziale equiparazione tra la posizione dell’agente e quella della stabile organizzazione personale: il reddito netto della stabile organizzazione sarebbe nullo visto che il reddito effettivamente attribuibile sarebbe la commissione già tassata in Italia in capo all’agente. In realtà potrebbe essere più corretto attribuire quale reddito lordo della stabile organizzazione i proventi derivanti dalla vendite realizzate nel nostro Paese tramite l’agente e quale componente negativa la commissione pagata (oltre agli altri eventuali costi afferenti alle vendite realizzate in Italia)15.

ri dichiarato ai fini dell’imposta sul valore aggiunto prenderà in considerazione anche l’attività di progettazione che però ai fini delle imposte dirette non può essere imputata come ricavo alla presunta stabile organizzazione, non rientrando tale attività nell’ambito dell’attività di impresa della sede fissa d’affari. 14 Cass., sez. trib., 12 dicembre 2003, n. 19062; in senso analogo Cass., sez. I, 13 novembre 1997, n. 223. La metodologia dell’accertamento induttivo

infatti consente all’amministrazione finanziaria di usufruire di speciali semplificazioni probatorie, ma questo non deve arrivare fino ad ipotizzare la presenza di un reddito inesistente. 15 Queste due differenti posizioni sono state evidenziate dalla dottrina. Si veda DEITMER-DORR-RUST, Invitational seminar on tax treaty rules applicable to permanent establishments in memoriam of Prof. Dr. Berndt Runge, in Bulletin of International Bureau of fiscal documentation, 2004, 183.


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IRES LA COSIDDETTA ESTEROVESTIZIONE AL VAGLIO DEI GIUDICI DI MERITO I 73

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. I, 24 settembre 2007, n. 75 Presidente e Relatore: Pezzuti Ires - Residenza fiscale - Società holding - Sede legale all’estero - Esterovestizione - Localizzazione in Italia - Fattispecie - Onere probatorio (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73) È da localizzare in Italia, presso la sede amministrativa della controllante, la residenza di una società holding con sede legale in Olanda la cui attività consiste esclusivamente nella gestione delle partecipazioni possedute in altre società e alla quale la controllante impartisce ordini, comandi e autorizzazioni relativi anche alla più minuta attività di amministrazione interna. 1. La società X International ha proposto ricorso avverso un avviso di accertamento n. [...] e avviso n. [...] entrambi notificati al consigliere di amministrazione [...] l’1 febbraio 2006. 2. La società ricorrente, a sostegno dell’impugnazione, ha eccepito l’inesistenza o la nullità della notificazione; l’incompetenza dell’ufficio tributario; la violazione degli artt. 43 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 57 del D.P.R. n. 633 del 1972; la violazione dell’art 10 della legge n. 212 del 2000; l’insufficienza della motivazione dell’avviso e la violazione degli art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973 e art. 56 del D.P.R. n. 633 del 1972, nonché degli articoli 7 e 12 della legge 212 del 2000 e dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990; la violazione dell’art. 43 e dell’art. 38 del Trattato CE e delle Convenzioni di Bruxelles del 1968 e di Lugano del 1998, nonché del regolamento CE n. 44 del 22 dicembre 2000 e dell’art. 25 della legge n. 218 del 1995, la violazione dell’art. 4 della Convenzione dell’8 maggio 1990 sulla doppia imposizione; la violazione dell’art. 25 della legge 218 del 1995 e dell’art. 87 del D.P.R. n. 917 del 1986. 3. Ancora la società X International ha eccepito l’erronea quantificazione del reddito imponibile in Italia ai fini delle imposte sui redditi e delle operazioni imponibili, nonché l’inapplicabilità delle sanzioni irrogate. 4. L’ufficio finanziario si è costituito e ha chiesto

il rigetto delle domanda, asserendo la legittimità del proprio operato. La controversia è stata discussa in pubblica udienza e poi è stata trattenuta dalla Commissione per la decisione. 5. La società X International ha eccepito l’inesistenza o nullità della notificazione dell’avviso di accertamento impugnato. 6. In particolare, la società ricorrente ha dedotto che non era assolutamente dimostrato che il luogo effettivo dove sarebbero state assunte le decisioni da parte degli amministratori fosse la sede amministrativa della società ricorrente in Italia. 7. La società X International ha precisato che anche la notificazione dell’avviso a [...] era nulla in quanto il medesimo non aveva poteri di rappresentanza della società, ma era solo uno dei componenti del consiglio di amministrazione della medesima. 8. Rileva la Commissione che, anche a voler prescindere dalla notificazione effettuata presso la sede italiana della [...], la notificazione effettuata a [...] è valida e regolare. Egli infatti ha il potere di rappresentare la società X International congiuntamente ad un altro componente del consiglio di amministrazione. 9. Ciò posto va rilevato che la notificazione dell’atto di impugnazione ad una società che sia rappresentata congiuntamente da due liquidatori può essere eseguita ad uno soltanto di essi, non essendo questa ipotesi equiparabile a quella della pluralità di parti processuali, nella quale è previsto l’obbligo della notifica dell’impugnazione mediante consegna di una pluralità di copie dell’atto (si confronti, per tutte, Cass., 27 dicembre 2004, n. 24025). 10. Anche qualora volesse ritenersi che l’amministrazione convenuta non abbia correttamente notificato l’avviso di accertamento alla società X International presso la sua sede effettiva o alla persona che la rappresentava, occorre comunque ritenere che siamo in presenza di una notificazione solo nulla e non inesistente. 11. Rileva la Commissione che la nullità della notificazione si ha quando, nonostante l’inosservan-


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za di formalità o di disposizioni di legge in tema di individuazione delle persone legittimate a ricevere la consegna dell’atto notificato o del luogo in cui detta consegna deve essere eseguita e, eventualmente, sulla data della relativa esecuzione, nonché sulla competenza dell’ufficiale giudiziario, una notificazione sia, comunque, materialmente avvenuta mediante rilascio di copia dell’atto a persona e in luogo aventi qualche riferimento con il destinatario della notificazione. 12. La notificazione è, invece, inesistente, giuridicamente, esclusivamente quando la consegna dell’atto avvenga a persona e in luogo in nessun modo riferibili al destinatario e addirittura materialmente allorché non vi sia stata una qualsiasi consegna dell’atto da notificare. 13. Ciò posto va rilevato che la notificazione dell’avviso di accertamento tributario affetta da nullità rimane sanata, con effetto ex tunc dalla tempestiva proposizione del ricorso del contribuente avverso tale avviso, atteso che, da un lato, l’avviso di accertamento ha natura di provocatio ad opponendum, la cui notificazione è preordinata all’impugnazione, e, dall’altro, l’art. 60, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 500 richiama espressamente, in tema di notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, le «norme stabilite dagli artt. 137 e seguenti del Codice di procedura civile», e quindi dall’art. 160 il quale, attraverso il rinvio al precedente art. 156, prevede appunto che la nullità non possa mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto il suo scopo (si confronti, tra le più recenti, Cass. civ., sez. un., 5 ottobre 2004, n. 19854; 15 gennaio 2007, n. 621 e 22 dicembre 2006, n. 27453). l4. La sanatoria degli atti per raggiungimento dello scopo costituisce, infatti, espressione di un principio di ordine generale applicabile sia agli atti processuali, per i quali è stato codificato, sia, in mancanza di impedimenti di carattere normativo o logico sistematico, a quegli atti di natura sostanziale che, come gli atti di imposizione fiscale, per avere efficacia e consentire all’interessato l’impugnazione in sede giudiziaria, devono essere notificati. Quanto agli atti impositivi, in particolare, il principio trova applicazione sia che la nullità attenga alla notificazione, sia che essa discenda dalla mancata o insufficiente indicazione del soggetto che lo ha emesso. 15. La società X International ha eccepito l’intervenuta decadenza dell’amministrazione convenuta dal potere di accertamento in virtù dei principi ricavabili dal quarto comma dell’art. 43 del decreto legislativo n. 600 del 1973 e dell’art. 57 del decreto legislativo n. 633 del 1972.

16. Le norme invocate stabiliscono che fino alla scadenza del termine stabilito nei commi precedenti l’accertamento può essere integrato o modificato in aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. 17. Tali norme sanciscono il principio in virtù del quale la possibilità per l’amministrazione di emettere più avvisi di accertamento nei confronti dello stesso contribuente e aventi ad oggetto il medesimo presupposto di imposta è circoscritta a casi determinati e non può essere riconosciuta indiscriminatamente. 18. NeI caso in esame, tuttavia, non sussistono i presupposti per l’applicazione di tale principio. L’amministrazione convenuta non aveva emesso in precedenza alcun avviso di accertamento e, comunque, mai l’attività accertativa aveva direttamente interessato la società X International. 19. Né, per gli stessi motivi, possono invocarsi le disposizioni dettate dal cd. Statuto dei diritti del contribuente. In tema di tutela dell’affidamento e della buonafede a norma dell’art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212, costituisce situazione tutelabile, in applicazione dei commi 1 e 2 della citata disposizione, quella caratterizzata, da un lato, da un’apparente legittimità e coerenza dell’attività dell’amministrazione finanziaria, in senso favorevole al contribuente, dall’altro, dalla buona fede del contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall’assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo e, infine, dalla eventuale esistenza di circostanze specifiche e rilevanti, idonee a indicare la sussistenza dei detti presupposti. 20. Nel caso in esame, a prescindere dalla buona fede del contribuente, non sussiste quella situazione di apparente legittimità e coerenza dell’attività dell’amministrazione. Nessun atto della stessa amministrazione può avere ingenerato l’affidamento invocato dalla società X International. Tutti gli accertamenti svolti hanno, infatti, sempre interessato la società Y Italia e non la società olandese. 21. L’eccezione di carenza di motivazione è infondata. L’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212 e l’art. 1 del decreto legislativo 26 gennaio 2001, n. 32 hanno introdotto l’obbligo di allegazione dell’atto richiamato o, comunque, di riproduzione del suo contenuto nell’atto notificato. 22. Nel caso in esame, ritiene la Commissione che l’amministrazione finanziaria abbia riprodotto nell’avviso di accertamento, in maniera completa, il contenuto del processo verbale di constatazione. 23. L’atto amministrativo finale di imposizione


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tributaria, il quale sia il risultato dell’esercizio di un potere frazionato anche in poteri istruttori attribuiti, in proprio o per delega, ad altri uffici amministrativi, è legittimamente adottato quando, munendosi di un’adeguata motivazione, faccia propri i risultati conseguiti nelle precedenti fasi procedimentali: tale principio è desumibile sia dalle norme generali sull’attività amministrativa poste dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 (applicabili, salva la specialità, anche per il procedimento amministrativo tributario), alla stregua delle quali il titolare dei poteri di decisione non è tenuto a reiterare l’esercizio dei poteri d’iniziativa e, soprattutto, istruttori, che hanno preparato la sua attività; sia dalle norme tributarie generali di cui agli artt. 7 e 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212. 24. Stabilisce il settimo comma dell’art. 12 della legge da ultimo richiamata che nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. 25. La legge si limita a prescrivere che l’avviso di accertamento non possa essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza, ma non prevede affatto l’obbligo per l’amministrazione di prendere posizione anche sulle osservazioni del contribuente motivando le ragioni per le quali ha ritenuto disattenderle. 26. L’eccezione relativa alla violazione degli articoli 43 e 48 del Trattato della CE è infondata. L’art. 43 deI Trattato istitutivo della Comunità europea sancisce il principio della libertà di stabilimento, sancendo che le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. A sua volta l’art. 48 dello stesso Trattato equipara le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della Comunità alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri. 27. Non si vede, infatti, quale principio della “disciplina tributaria”, utilizzato dall’amministrazione convenuta, abbia violato le disposizioni sopra richiamate. 28. Le norme richiamate devono, infatti, essere interpretate nel senso che ostano all’inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato membro, degli utili realizzati da una società estera controllata stabilita in un altro Stato, a meno che tale inclusione non riguardi costruzioni di

puro artificio destinate ad eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta. L’applicazione di una misura impositiva siffatta deve perciò essere esclusa esclusivamente ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive. 29. Ai sensi dell’art. 73 del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 prescrive che sono soggetti all’imposta sul reddito delle società le società per azioni residenti nel territorio dello Stato. La stessa norma precisa che si considerano residenti le società che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. 30. L’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata. Per oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto. 31. Nel caso in esame ritiene la Commissione che la sede dell’amministrazione della società X International fosse effettivamente in Italia, presso la sede legale della società italiana [...]. 32. È pacifico tra le parti che la società X International è una holding. Essa non esercita alcuna attività direttamente produttiva, ma si limita a gestire le partecipazioni che possiede in altre società. Nessun elemento è stato offerto da parte ricorrente per poter ritenere che effettivamente tale attività di gestione si sia effettivamente svolta ad Amsterdam. 33. La circostanza che la società X International è interamente controllata dalla società Y Italia non assume alcuna rilevanza. Come risulta dagli elementi di fatto acquisiti dalla Polizia tributaria, la società Y Italia non si è affatto limitata a conferire alla società X International disposizioni in ordine alla sua attività di gestione delle partecipazioni finanziarie, ma impartiva una serie di ordini, comandi e autorizzazioni relativi anche alla mera amministrazione della società ricorrente. 34. Dalla documentazione raccolta dalla Guarda di Finanza emerge che anche la più minuta attività di amministrazione interna della società X International era decisa in Italia, presso la sede legale della società Y Italia. In particolare è emerso che il personale presente nella sede olandese chiedeva l’autorizzazione alla sede italiana anche per gli acquisti dei beni di consumo per l’amministrazione (quali stampanti e toner).


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35. La circostanza che buona parte della documentazione raccolta dalla Polizia tributaria concerna anni precedenti a quelli oggetto del verbale di accertamento non assume rilevanza. L’amministrazione finanziaria al fine di dimostrare una situazione di apparenza e una violazione fiscale può utilizzare qualsiasi elemento presuntivo e la circostanza che una comunicazione o un ordine si riferisca all’anno prima o a qualche anno prima non interrompe il valore presuntivo del fatto. 36. Al contrario, era onere della società X International dimostrare lo scarso valore di tali presunzioni deducendo e dimostrando che, nel frattempo, la situazione di fatto era mutata. 37. Nel caso in esame non siamo in presenza di un “coinvolgimento del socio holding in talune scelte decisionali della controllata, in un’ottica di uniformazione delle strategie di gruppo”, ma di una vera e propria amministrazione della società di Amsterdam da parte della società italiana. 38. La società ricorrente ha chiesto che i dividendi fossero esclusi dalla tassazione ai fini dell’Irap. Stabilisce il comma 1-bis dell’art. 6 del decreto legislativo n. 446 del 1997 che per le società la cui attività consiste, in via esclusiva o prevalente, nell’assunzione di partecipazioni in società esercenti attività diversa da quella creditizia o finanziaria, la base imponibile si determina applicando i criteri di cui all’art. 5 e aggiungendo la differenza tra la somma dei proventi finanziari, esclusi quelli da partecipazione. L’eccezione è pertanto fondata e va accolta. Dalla base imponibile, ai fini dell’Irap, andranno pertanto dedotti i proventi derivanti da partecipazione. 39. La società ricorrente ha invocato l’applicazione dell’art. 96-bis del D.P.R. n. 917 del 1986 relativamente ai dividenti di fonte estera. Tale richiesta non può essere accolta. La società X International non ha, infatti, dimostrato che i dividendi in questione non provengano da Paesi riconducibili a quelli di cui all’art. 7-bis dell’art. 76 dello stesso testo normativo. 40. La società X International ha chiesto che le imposte pagate in Olanda fossero scomputate da quelle da pagarsi in Italia. Tale richiesta non può essere accolta. Se è vero che alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’impo-

sta netta tino alla concorrenza della quota di imposta italiana corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo al lordo delle perdite di precedenti periodi di imposta ammesse in diminuzione, deve tuttavia rilevarsi che, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, la detrazione doveva essere richiesta, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta in cui le imposte estere sono state pagate a titolo definitivo e che essa non spetta in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione dei redditi prodotti all’estero nella dichiarazione presentata. 41. La società ricorrente ha eccepito il non assoggettamento ad Iva delle operazioni relative alla concessione del marchio in cambio di royalties non essendo operazioni svoltesi sul territorio nazionale. 42. Tale tesi non può essere condivisa. Ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972 si considerano effettuate nel territorio dello Stato le prestazioni in questione quando sono rese da soggetti che hanno il domicilio nel territorio stesso o da soggetti ivi residenti che non abbiano stabilito il domicilio all’estero, nonché quando sono rese da stabili organizzazioni in Italia di soggetti domiciliati e residenti all’estero; non si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese da stabili organizzazioni all’estero di soggetti domiciliati o residenti in Italia. 43. Nel caso in esame, per quanto sopra argomentato in ordine alla sede della società ricorrente, occorre ritenere che tutte le operazioni siano assoggettabili ad Iva. 44. Dalla ricostruzione sopra operata emerge la piena consapevolezza da parte della società ricorrente dell’inesistenza della sede della società in Olanda. Tale circostanza impone di ritenere fondata anche l’imposizione delle sanzioni. 45. La domanda proposta con il ricorso va pertanto rigettata, ad eccezione della parte relativa alla detrazione dalla base imponibile ai fini dell’Irap dei redditi da partecipazione. 46. L’oggettiva complessità delle questioni di diritto e di fatto affrontate inducono la Commissione a ritenere che sussistano giusti motivi per procedere, ai sensi del secondo comma dell’art. 92 c.p.c., come richiamato dal secondo comma dell’art. 1 del decreto legislativo del 31 dicembre 1992, n. 546, all’integrale compensazione delle spese del giudizio tra le parti.


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Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. XVI, 13 ottobre 2007, n. 108 Presidente: Moroni - Relatore: Lami Ires - Residenza fiscale - Società controllata con sede legale all’estero - Esterovestizione - Localizzazione in Italia - Prevalenza della sede di direzione effettiva (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 83, comma 3) Una società avente sede legale a San Marino, costituita al fine di gestire un marchio per ragioni esclusivamente o prevalentemente fiscali, deve ritenersi residente in Italia in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa la sussistenza, presso la sede della controllante, del luogo di direzione effettiva. Svolgimento del processo In data 25 maggio 2005 l’ufficio controlli fiscali dell’Agenzia delle Entrate iniziò una verifica presso la [...], con sede legale a [...] e sede operativa a Firenze in via [...]. Nella sede di Firenze gli accertatori trovarono il legale rappresentante della [...], che fu invitato ad esibire tutta la documentazione ai sensi dell’art. 52, comma 5, D.P.R. 633/1972. Nel corso della verifica gli accertatori trovarono documentazione della S.r.l. [...] società di diritto sammarinese che, ad avviso degli accertatori, dimostrava che la sede amministrativa di questa ultima società era in Firenze negli uffici operativi della [...]. In conseguenza i verbalizzanti iniziavano una verifica generale a carico della [...] per verificare il corretto adempimento degli oneri fiscali al sensi dell’art. 73, comma 3, T.U.I.R. che si concludeva con un processo verbale di constatazione. Secondo la tesi dell’Agenzia delle Entrate, la [...], anche se avente sede legale all’estero, doveva essere considerata residente in Italia e assoggettata alla legge fiscale italiana ai sensi dell’art. 25, L. 218/1995, in base al quale «Si applica, tuttavia, la legge italiana se la sede dell’amministrazione è situata in Italia, ovvero se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti». Nel caso in esame la documentazione ritrovata permetteva di stabilire che la sede amministrativa e di direzione effettiva della [...] era in Firenze, [...] presso la sede amministrativa della controllante [...]. L’Agenzia delle Entrate, ufficio di Firenze 3, sulla base di quanto emergeva dal Pvc, con i provvedimenti impugnati ha contestato alla [...] l’omessa presentazione delle denunce fiscali per gli anni 1996-2000 e, accertato il reddito d’impresa della società sulla base dei dati contabili rilevabili dai bi-

lanci di esercizio presentati a San Marino per le predette annualità, ha irrogato le sanzioni di legge e ha emesso gli avvisi alla [...] e all’amministratore di fatto, sig. [...], presidente del C.d.A. [...] al suo domicilio fiscale in [...] presso lo studio del [...]. Avverso gli avvisi di accertamento proponevano tempestivi ricorsi in persona dell’amministratore delegato e legale rappresentante, [...]. Dopo la riunione dei ricorsi, il processo è stato rinviato su richiesta delle parti per un’eventuale definizione della controversia; sono state prodotte memorie e copiosa documentazione; all’udienza del 24 gennaio le parti hanno illustrato le rispettive tesi e hanno chiesto l’accoglimento delle conclusioni formulate nei rispettivi atti. La Commissione si è riservata la decisione e all’udienza del 18 aprile 2007 la causa è stata decisa come da dispositivo in atti. Motivi della decisione 1) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano vizi delle notificazioni degli atti impugnati di una tale gravità da comportarne l’inesistenza. Infatti l’atto deve essere notificato prima presso la sede legale della società in persona del rappresentante legale; se non è possibile tale notifica e se dall’atto risulta il nome del legale rappresentante, deve essere notificato al domicilio fiscale di quest’ultimo; solo se tali notifiche sono state negative, si può ricorrere alla procedura prevista per gli irreperibili. Nel caso concreto, ad accedere alla contestata tesi dell’a.f., la notificazione sarebbe dovuta avvenire prima di tutto presso la sede legale della [...]; solo se tale notifica era impossibile gli atti andavano notificati all’amministratore di fatto presso il suo domicilio fiscale in [...] e infine con il rito degli irreperibili. Le norme, invece, sono state violate perché la notificazione è avvenuta ai sensi dell’art. 140 c.p.c., senza essere preceduta da una notificazione negativa presso la sede della società e da una notifica nei confronti del presunto amministratore di fatto presso il suo domicilio fiscale. I ricorrenti lamentano che le notifiche non siano avvenute presso la presunta sede effettiva della [...] di Firenze e l’ufficio non ha smentito tale affermazione né ha prodotto le relative notifiche. Si deve tuttavia notare che gli atti sono stati notificati, tramite il servizio postale, a [...] e il plico è stato ricevuto dalla moglie. Si deve pertanto ritenere che gli atti sono stati ben notificati alla per-


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sona fisica che rappresenta l’ente e non ha alcun rilievo se essa sia avvenuta in luogo differente dalla sede della società. Il sig. [...] è la persona che partecipò in qualità di parte alla verifica e che nelle dichiarazioni riportate nell’allegato 33 del Pvc sostenne l’autonomia gestionale della [...]. La notifica ad uno dei rappresentanti legali della società ha effetto, senza che sia necessario che gli atti siano notificati a tutti gli altri amministratori. Si deve, comunque, escludere che le notificazioni degli atti siano inesistenti, poiché l’inesistenza delle notifiche si ha solo quando esse siano state eseguite nei confronti di persone che non hanno alcuna attinenza con il destinatario delle notifiche stesse. Nel caso in esame, se mai, si sarebbe in presenza di nullità, sanata ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c. La S.C. ha costantemente sostenuto: «Lo scopo della notificazione degli atti di vocatio in ius è quello di attuare il principio del contraddittorio, tale finalità è raggiunta con la costituzione in giudizio del destinatario dell’atto, rimanendo conseguentemente sanato con effetto ex tunc qualsiasi eventuale vizio della notificazione stessa» (ex pluribus, Cassazione civile, sez. III, 1 giugno 2004, n. 10495). 2) Decadenza del potere di accertamento. Sostengono i ricorrenti che si sarebbe verificata la decadenza ex articolo 43, D.P.R. 600/1973, perché non sarebbe applicabile la proroga biennale del termine di cui alla legge 289/2002 per la pretesa incostituzionalità della norma e per violazione del principio generale agli artt. 1 e 3 della L. 212/2000; inoltre, la legge non sarebbe applicabile al caso di specie, perché la [...], società estera, non era tenuta alla presentazione delle dichiarazioni e dunque non era compresa tra i contribuenti che avrebbero potuto avvalersi del condono. La Commissione non condivide tali considerazioni. Il potere di accertamento scade il 31 dicembre del sesto anno successivo a quello in cui avrebbe dovuto essere presentata la dichiarazione, a pena di decadenza. Ne consegue che la decadenza riguarderebbe esclusivamente le dichiarazioni antecedenti al 1998. La Corte costituzionale ha ripetutamente stabilito che il legislatore può legittimamente sospendere i termini di decadenza, anche nei casi in cui non è stata o possa essere presentata dichiarazione integrativa. 3) Violazione dell’art. 12, comma 7, L. 212/2000, perché gli avvisi di accertamento sono stati emanati senza il rispetto del termine di 60 giorni, decorrente dal rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni. Nel caso in esame il processo verbale da cui ha preso le mosse l’accerta-

mento è stato notificato alla società ricorrente il 10 ottobre 2005 e da tale data decorreva il termine sopra indicato, durante il quale il contribuente avrebbe potuto formulare le proprie osservazioni all’ufficio, la notifica degli atti impositivi è avvenuta il 5 dicembre. Non esisteva la «particolare e motivata urgenza» richiesta dalla legge, posto che nessuna decadenza sarebbe maturata prima del 31 dicembre 2005. Anche tale tesi non può essere condivisa. Ai sensi dell’art. 12, comma 7, citato, «l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza». La semplice lettura della norma deve fare concludere che essa non sancisce a pena di nullità la violazione del termine. Nel diritto vige il principio della tassatività delle nullità: una sanzione grave come la nullità deve essere espressamente prevista dal legislatore. Si deve, in ogni caso, concludere che sussiste l’urgenza richiesta dalla legge. Il Pvc è pervenuto all’ufficio Firenze 3 il 20 ottobre 2005 (vedi documento numero 1 allegato alla comparsa di costituzione e difesa). Il termine di giorni 60 scadeva il 20 dicembre e, poiché la decadenza si sarebbe verificata il 31 dicembre di quell’anno, uno spazio di appena 11 giorni per tentare le notifiche sarebbe stato così esiguo da non garantire tempestive notifiche. 4) Negli avvisi di accertamento s’indica il sig. [...] quale amministratore di fatto della [...], sennonché tale affermazione sarebbe in contraddizione con le motivazioni dei provvedimenti impugnati: si afferma da un lato che l’insieme dei rapporti era gestito da [...] amministratore delegato della [...]. Lo stesso Pvc identifica (pag. 29) l’effettivo organo amministrativo della [...] nelle persone che compongono il board di [...], quindi [...] (fino al 2004), [...] e [...]. Inoltre, secondo lo stesso Pvc la maggior parte dei documenti sono riferibili al [...] risiede [...] e non si comprende come si possa localizzare in Italia la sede di una società estera in forza d’impulsi volitivi di un soggetto che risiede all’estero; del resto anche l’altro socio della [...], il sig. [...] risiede [...] e basterebbe la sola considerazione che ben due amministratori, di cui uno anche di nazionalità straniera, risiedono all’estero per rendere inconcepibile l’idea che la gestione sia avvenuta in Italia. Tali considerazioni sono da respingere. In realtà negli avvisi impugnati [...] è indicato come amministratore di fatto, e nella stessa maniera è indicato nel Pvc (vedi pagine 2 e 3), pertanto non esiste alcuna contraddittorietà. La semplice e continuativa presenza di [...] in Italia basterebbe a dimostrare l’infondatezza del motivo in esame. In


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sostanza il [...] è presente al momento degli accessi, è sempre il predetto che formula osservazioni (vedi verbale all. 33) e il fatto che la [...] sia amministrata anche da altre persone congiuntamente con [...], non ha alcuna rilevanza, una volta che è stata individuata la società assoggettabile alla legislazione interna. 5) Insussistenza dei presupposti di cui all’art. 39, comma 2, D.P.R. 600/1973. La richiesta di esibizione della contabilità e dei libri sociali non sarebbe stata formalizzata da atti provenienti dai verificatori e non sarebbe mai stata rivolta alla parte. Le tesi dei ricorrenti sono smentite dal Pvc dal quale risulta che le richieste di esibizione furono rivolte a [...], cui fu comunicato che nel corso della verifica alla [...] erano emersi una serie di elementi idonei a dimostrare che la [...] aveva sede in Italia. I verificatori trovarono, in realtà, una serie di documenti, di cui si parlerà in seguito, idonei a stabilire un collegamento con il territorio nazionale, nonché alla ricostruzione dell’imponibile da assoggettare a tassazione in Italia. Violazione del principio dell’affidamento. La [...] era stata acquistata nel 1995 e le società controllanti avevano inviate le comunicazioni agli uffici finanziari e al Ministero del Commercio con l’estero senza che nessun rilievo venisse mai mosso. La pretesa dell’Agenzia delle Entrate verrebbe a ledere il principio dell’affidamento sancito dall’art. 19 dello Statuto del contribuente. Il rilievo non può essere accolto, perché l’affidamento non può nascere da comportamenti omissivi, ma esclusivamente da comportamenti positivi dell’a.f. che hanno creato aspettative da parte del contribuente. Passando al merito, è necessario ricordare brevemente le vicende della [...]. La società, avente sede legale a San Marino è controllata direttamente dalla [...] (società ...), sub-holding del gruppo posseduta a sua volta dalla [...] (fino al 2003 era [...]). Questa ultima società era posseduta personalmente, o tramite società, dai sigg. [...] presidente del c.a., [...] a.d. e [...] a.d. Le quote della [...] (ex [...]) furono acquisite nell’ottobre del 1995 da [...], ragioniere e commercialista in San Marino e da [...], già dipendente della [...]. Successivamente la [...] acquistò il 98% del capitale sociale a.u. della [...] era [...]. Nel periodo interessato nel collegio sindacale figurava [...], a.d. della [...] fino al 2004; la [...] aveva un dipendente ed era titolare del marchio [...] dal 1995 al 2002, anno in cui fu perfezionata la cessione al capogruppo [...]. La società non aveva altra attività oltre il possesso e la gestione del marchio. Il mar-

chio [...], che nel 1997 era poco conosciuto, fu concesso dalla [...] alla [...] in licenza mondiale esclusiva (eccetto Italia e San Marino, ma dall’1 luglio 1998 anche questi Stati furono compresi nella licenza). Il contratto, scadente il 31 dicembre 2002, era rinnovabile tacitamente per altri 5 anni, salvo disdetta. Le royalties erano fissate nella misura dell’1% del fatturato fino a 12 miliardi di lire, e del 3% oltre tale importo. Dal 1999 erano, comunque, pattuiti compensi minimi garantiti a prescindere dal fatturato e dai numero di capi venduti. Il contratto prevedeva la garanzia di qualità dei prodotti realizzati e venduti a tal fine [...] doveva fornire campioni alla [...] che poteva negare l’autorizzazione alle vendite e disporre ispezioni alle fabbriche. Inoltre la [...] deve corrispondere compensi per consulenze tecniche e commerciali fornite da [...] nella misura di 550 milioni per il 1998, 380 milioni per il 99, 360 milioni per il 2000 e 2001, 300 milioni per 2002. Nell’accordo non si faceva riferimento ai costi di pubblicità e la questione fu affrontata con un accordo integrativo del 15 settembre 1999, in base al quale si stabiliva che la responsabilità della campagna pubblicitaria competeva esclusivamente alla [...], mentre il maggior onere dei relativi costi era sostenuto dalla [...] che doveva rimborsare alla [...] il 70% dei costi. La [...] aveva l’obbligo di comunicazione preventiva di ogni operazione di marketing alla [...] che doveva dare il suo consenso scritto alla società. Anche la creazione del sito web era di competenza esclusiva della [...], che però aveva diritto al rimborso del 70% dei costi e ad un compenso fisso per ogni visitatore del sito. Il marchio [...] aveva all’inizio valore commerciale modesto: nel 1997 fu acquistato dalla [...] di San Marino per lire 22.500.000, unica spesa sostenuta dalla [...]. La totalità dei costi di pubblicità per il marchio furono sostenuti dalla [...] per somme crescenti dagli iniziali 122 milioni del 1999 fino a 1.235 milioni nel 2000. Il 31 dicembre 2001 il marchio era ancora iscritto in bilancio per lire 22.000.000; nessun investimento pubblicitario significativo era stato sostenuto dalla [...]. L’ufficio evidenzia che la società non aveva mai esercitato i poteri d’intervento che le erano stati riconosciuti nel contratto. Tutti i costi sostenuti per la valorizzazione del marchio erano stati sostenuti dalla [...] che, oltretutto, aveva versato consistenti royalties per un bene per il quale la [...] aveva sborsato solo il prezzo iniziale di acquisto. Anni 2000-2002. Il 27 dicembre 2000 [...] conferisce ad [...] l’incarico per la determinazione del valore del marchio [...] al 31 dicembre 2000, per consentire il trasferimento del marchio alla [...]. La perizia data lu-


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glio 2001 attribuisce al marchio il valore di 4 miliardi di lire. Il 7 febbraio 2002 viene perfezionata la cessione del marchio per il prezzo di euro 2.100.000 dalla [...] alla [...]. Alla luce di tali dati inoppugnabili si deve concludere che la decisione di localizzare il marchio in una società del gruppo avente sede a San Marino era dettata esclusivamente o prevalentemente da ragioni dì ordine fiscale, consentendo da un lato di dedurre in capo alla [...] tutti i costi di pubblicità, i costi delle royalties e i compensi delle consulenze e dall’altro di realizzare, all’atto della cessione infragruppo, una plusvalenza, non tassata in capo alla [...] un consistente risparmio d’imposta. Infine la [...] ha potuto riavere il marchio con valore in contabilità allineato al valore attuale stabilito dalla perizia da ammortizzare con conseguente duplicazione del beneficio fiscale. Negli anni 2003-2005 la [...] si appresta a diventare distributore dei prodotti per l’Italia. Le conclusioni cui giunge l’ufficio si basano su indizi gravi, precisi e concordanti e soprattutto sulla documentazione trovata presso la [...] nel corso della verifica. Una volta che [...] ha acquistato la [...] il 13 dicembre 1995 la società [...] scrive a [...] – lettera dattiloscritta e non firmata, allegato 11 – impartendogli istruzioni su come formalizzare la richiesta a [...], del versamento di capitale. «Chiaramente il fax dovrà essere su carta [...] che provvisoriamente sarà quella che [...] ti manderà per fax, sulla quale scriverai i seguente testo con la tua firma». Segue il testo in francese con il quale si chiede ad [...] il versamento sul conto corrente, «quello su cui tu hai la firma». La rilevanza di tale lettera è di tutta evidenza: da essa emerge chiaramente che l’amministratore unico della [...] non ha alcun contatto con la [...], che sarebbe la società che possiede la [...] a cui viene imposto di firmare una lettera con la quale si chiede il pagamento di 100 milioni di lire. Identico testo (documento 12) verrà poi scritto da [...] ad [...] il 18 dicembre 1995 per chiedere il saldo dell’aumento di capitale. Poiché [...] non provvede, è la [...] che richiede ad [...] l’invio del bonifico, chiedendo d’inviarlo a [...], che era l’amministratore di [...] e che non aveva alcun ruolo nell’amministrazione della [...].In sostanza il versamento del capitale sociale, che riveste un ruolo fondamentale in una società, è gestito interamente da [...], mentre l’amministratore formale della [...] è un mero esecutore di ordini. Allorché si deve trasferire del denaro dalla [...] ad [...] è la [...] che gestisce la vicenda (vedi documento 13 a firma di [...]) e scrive ad [...] «Vi tra-

smettiamo la copia del pagamento di [...], come da accordo con il sig. [...], [...] conferma, non alla [...], ma alla [...], di avere ricevuto il denaro. Altro indizio di notevole valore è costituito dal fatto che il 6 febbraio 1997 fu aperto un conto corrente bancario a nome [...] presso Cassa di Risparmio di Firenze, agenzia [...] dove anche [...] intratteneva rapporti; su tale conto hanno la firma [...] e [...], dipendente della [...]. Il dato dimostra la volontà della [...] di gestire direttamente le disponibilità finanziarie della [...], sul conto corrente transitano sia le voci attive del bilancio che i debiti verso le banche di detta società. Lo stesso svolgimento delle vicende relative al marchio [...] dimostra che tutte le decisioni sono state prese dalla [...] che ha stabilito di attribuire la titolarità del marchio ad una società estera solo per ottenere benefici fiscali: la [...] ha sborsato rilevanti importi per pubblicità, pagamenti di royalties, ecc. che poi ha portato in deduzione. La [...], il cui a.u. è un ragioniere, e ha un solo dipendente, appare quindi una mera facciata. Del resto l’acquisto della società di San Marino è stato deciso unilateralmente dalla [...], mentre il rag. [...] al più avrà curato i dettagli esecutivi. Formalmente la [...] aveva poteri incisivi di controllo dell’attività della [...] relativamente alla gestione del marchio, ma in concreto non li ha esercitati: infatti la [...] non è stata in grado di esibire in proposito alcun documento. Nel 2000 il marchio, grazie ai consistenti investimenti effettuati dalla [...] ha un valore rilevante e costituisce l’unico cespite della società. Orbene per decisione unilaterale della [...], il marchio è ceduto a questa ultima società. È la [...] che nel 2000 incarica la [...] di valutare il marchio ed è tale società che porta a termine l’operazione, stabilendo il prezzo determinato dalla perizia, l’ammontare delle royalties e degli importi da pagare. Con le disponibilità incassate dalla vendita del marchio, la società di San Marino effettua investimenti immobiliari con la conseguenza che le plusvalenze investite, secondo la legge del luogo, non sono soggette a tassazione, mentre la [...] può portare tale somma in detrazione per dieci anni, in base all’art. 68 T.U.I.R. La [...] investe nella costruzione di una nuova sede, e l’impresa appaltatrice chiede una fideiussione di euro 350.000, la garanzia è fornita dalla Cassa di Risparmio di Firenze, agenzia di [...] su iniziativa della [...]. Il [...] si limita a firmare la lettera “dove ci sono le crocette” secondo le disposizioni del [...] e a trasmetterla alla banca. Sempre il [...] dà disposizioni al [...] su quello che deve fare, quando arriverà la garanzia richiesta dall’appaltatore.


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ve si trovi la sede dell’amministrazione. La Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni, all’art. 4, stabilisce che ai fini della residenza si deve fare richiamo alla normativa interna di ciascuno Stato. Nel caso di una persona giuridica, che in base al diritto nel singolo Paese è residente in entrambi gli Stati, si considera residente nello Stato in cui si trova la sede della sua direzione effettiva (quindi dove si trova la sede amministrativa) dove sono prese le decisioni fondamentali del management. In conclusione la sostanza deve prevalere sulla forma. Né a soluzioni differenti si deve giungere per il solo fatto che si è in presenza di holding. Neanche la richiesta di calcolare le imposte pagate dalla [...] a San Marino può essere accolta non sussistendo le condizioni di legge: la detrazione doveva essere richiesta nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo in cui le imposte sono pagate (art. 15, comma 4, D.P.R. 917/1986). La documentazione prodotta dalla ricorrente è irrilevante perché da un lato non è idonea a contrastare gli elementi sopra evidenziati e dall’altro non fornisce una prova valida dei costi sostenuti dalla [...]. I ricorsi vanno respinti. Sussistono giusti motivi per compensare le spese.

La [...] assume il compito di distributore per l’Italia dei prodotti con il [...], ma è sempre la [...] che dà le “disposizioni agli agenti [...]” rinvenute nel corso della verifica in due files (vedi allegati 17 e 18) ed è sempre la [...] che sollecita i pagamenti a clienti della [...]. Inoltre tutti i servizi necessari alla [...] sono curati dalla [...] tramite propri fornitori di Firenze. In conclusione gli indizi acquisiti appaiono senz’altro idonei a supportare le richieste contenute nei provvedimenti impugnati. I ricorrenti sostengono che i provvedimenti impugnati violerebbero gli artt. 43 e 48 del Trattato CE relativi alla libertà di stabilimento. Ritiene la Commissione che la libertà di stabilimento non è un principio assoluto, ma limitazioni a tale principio possono legittimamente sussistere al fine di combattere l’evasione fiscale. L’art. 87, comma 3, del D.P.R. 917/1986 stabilisce: «Ai fini delle imposte sui redditi, si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o amministrativa o l’oggetto principale nel territorio dello Stato». In sostanza è sufficiente che uno solo dei tre elementi sia situato in Italia, perché si possa affermare che la società ha sede in Italia. Ora la sede legale può solo formalmente trovarsi all’estero, per cui assume rilievo determinante stabilire do-

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Commissione tributaria provinciale di Belluno, sez. I, 14 gennaio 2008, n. 174 Presidente: Coppari - Relatore: Fiori Ires - Residenza fiscale - Società sub-holding Fattispecie - Sede di direzione effettiva in Italia - Esterovestizione (Convenzione Italia-Germania, ratificata con L. 24 novembre 1992, n. 459, art. 4; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, comma 3; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73) È da ritenere esterovestita, e perciò residente in Italia , una società sub-holding avente la sede di direzione effettiva in Italia e costituita al solo fine di garantire un controllo sulle partecipazioni esistenti in Italia e all’estero, senza che i risultati economici di detta attività si riflettano sulla casa madre. Svolgimento del processo Con ricorso notificato all’Agenzia delle Entrate di [...] in data [...] 2007, la società [...] Gmbh con sede in [...], quale incorporante della [...] Gmbh, in

persona del liquidatore [...] rappresentata dal [...] e domiciliata presso il suo studio di [...] giusta procura in atti, impugna l’avviso di accertamento n. [...]/2006 prot. [...] emesso dall’Agenzia delle Entrate di [...] in data [...]/2006 con il quale sono state accertate a carico della società un’imposta sul reddito delle persone giuridiche di euro [...], un’imposta locale sui redditi Ilor di euro [...] e sono state irrogate sanzioni per euro [...]. L’avviso di accertamento riprendeva a tassazione redditi relativi all’anno 1998 che secondo l’ufficio dovevano essere dichiarati in Italia dalla società [...] Gmbh. Secondo l’ufficio la società risulta registrata all’anagrafe tributaria italiana quale società residente all’estero, in attività dal 1997, con sede in Germania e con indicazione di domicilio fiscale in Italia. La società è stata identificata solamente mediante attribuzione di codice fiscale e non di partita Iva e non risulta aver mai presentato alcuna dichiarazione dei redditi.


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Dalle dichiarazioni presentate dai sostituti d’imposta residenti in Italia negli anni 1998 e 1999, la società risulterebbe invece aver percepito utili corrisposti da società ed enti che non sarebbero mai stati dichiarati. Dalle indagini e controlli eseguiti dalla direzione regionale delle entrate della [...] nei confronti della società [...] S.r.l., sarebbe risultato che: - nel corso dell’anno 1997, a seguito di finanziamento della controllante, [...] in esecuzione di delibera dello stesso azionista, la [...] avrebbe effettuato acquisto di azioni [...] S.p.A. dalla collegata [...] e di azioni [...] da [...] riscuotendo altresì proventi attivi da dividendi [...] per dm [...] e interessi attivi su finanziamento a [...] per dm [...]; - nel corso del 1998 la società avrebbe svolto attività di gestione delle partecipazioni detenute, riscuotendo i relativi proventi e procedendo alla vendita di azioni della [...] a [...] e l’acquisto di azioni [...] dalla stessa controllante; - nell’ottobre 1999 la [...] avrebbe costituito la [...] apportando capitale mediante conferimento di tutte le attività e passività della [...], con trasferimento dell’intero portafoglio delle azioni possedute [...] e [...] a valori contabili, senza rilevazione di maggiori valori. Il successivo [...]/1999 la società avrebbe ceduto le proprie azioni detenute nella [...] alla collegata neo costituita [...] realizzando una plusvalenza di oltre [...] miliardi di lire. Dalle successive indagini espletate a carico della [...] interamente controllata dalla [...] sarebbe risultato che la società è stata costituita all’estero da soggetti italiani per la gestione di partecipazioni azionarie di società italiane; una totale inoperatività della società in Germania (assenza di dipendenti, di oneri collegati all’utilizzo di locali indicati quali sede della società, assenza di oneri per compensi o rimborsi ad amministratori o incaricati della società); l’inesistenza della società presso il domicilio dichiarato in Italia di [...] nulla risultando ascrivibile alla società [...] con riguardo al dichiarato indirizzo. Secondo l’ufficio, pertanto, la società di cui trattasi costituirebbe un mero contenitore di partecipazioni azionarie cui far affluire dividendi e plusvalenze altrimenti tassabili, preordinata all’unico scopo di trarre vantaggio dal regime di esenzione delle plusvalenze e dei dividendi previsto dall’ordinamento tedesco; la direzione effettiva della società e le operazioni economiche alla stessa ascrivibili, sarebbero state poste in essere da soggetti italiani, direttamente o indirettamente riconducibili alla controllante. L’ufficio individua pertanto nella sede della [...] la sede effettiva anche della [...] che risulta quindi

essere società esterovestita costituita al fine di evadere la tassazione in Italia dei dividendi e delle plusvalenze realizzate. A sostegno dell’accertamento compiuto l’ufficio ricostruisce la struttura societaria della [...] e della controllante [...] e individua una serie di operazioni compiute dalla [...] nel corso del 1997, tra cui: - la nomina quale amministratore delegato della [...] nella persona di [...] che rimane in carica fino ad estinzione della società ([...]/1997); - l’acquisto della consorella [...] con contratto stipulato in Olanda dal rappresentante sig. [...] di [...] delegato dal sig. [...] con specifica procura ([...]/1997); - il versamento in conto capitale da parte della [...] della somma di [...] miliardi e [...] milioni di lire per l’acquisto di titoli [...] ([...]/1997); - la delibera di acquisto di azioni [...] dal sig. [...] e il versamento di un contributo di [...] miliardi di lire in eccedenza sul capitale azionario della società da accreditare sulle riserve di capitale che sarà utilizzato per l’acquisizione delle partecipazioni della [...] ([...]/1997); - l’acquisto di [...] azioni della [...] per il prezzo di [...] miliardi di lire dal sig. [...] con atto redatto a [...] dal notaio [...] e sottoscritto dallo stesso [...] e dall’acquirente per la [...] ([...]/1997); - la concessione di un prestito di [...] miliardi e [...] milioni di lire alla controllante [...] ai tassi di mercato con lettera a firma del sig. [...] ([...]/1997); - la dichiarazione di accettazione del prestito con invio di lettera redatta a [...] e sottoscritta dal sig. [...] ([...]/1997); - la decisione di restituire agli azionisti una quota del contributo non inferiore a [...] miliardi ([...]/1997); - la vendita di [...] azioni della [...] alla controllata [...] per [...] miliardi e milioni di lire ([...]/1997); - l’evidenziazione in bilancio, chiuso alla data del 31 dicembre 1997, che la società detiene le partecipazioni di [...] e [...] valutate rispettivamente dm [...] e dm [...] e un credito verso la [...] per dm [...] evidenziando invece, al passivo, un capitale sociale di dm [...] riserve di capitale per dm [...] e debiti verso la [...] per dm [...] con utile di esercizio pari a dm [...]. Per tale esercizio la società in Germania ha dichiarato un reddito imponibile di dm [...] essendo l’utile stato abbattuto per un importo di dm [...] pari al valore del dividendo percepito per effetto delle disposizioni di esenzione vigenti in Germania. Per quanto riguarda il 1998 l’ufficio evidenzia: - il conferimento da parte del sig. [...], in qualità


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di rappresentante degli azionisti con atto redatto ad [...] in data [...]/1998, di mandato al sig. [...] per la rappresentanza dell’azionista nell’assemblea [...], con specifica indicazione degli atti da assumere e successivo svolgimento in data [...]/1998 dell’assemblea dei soci [...] in Germania, nei quali vengono assunte le indicate deliberazioni. A tal proposito l’ufficio rileva come appaia particolarmente significativa la lettera inviata dalla società [...] al sig. [...] presso la [...] group di [...] nella quale si suggerisce di tenere in Germania l’assemblea degli azioni [...] «al fine di ridurre il rischio che l’autorità fiscale tedesca possa considerare la società [...] soggetto residente in Italia ai fini fiscali». Tale documento metterebbe in luce l’esistenza di un disegno preordinato in base al quale la società tedesca mira a realizzare risparmio di imposta mediante operazioni coordinate finalizzate a far apparire una realtà non corrispondente al vero. Ad ulteriore riprova dell’inesistenza di una struttura attiva in Germania della società [...], viene inoltre evidenziata la circostanza che la stessa società di revisione acquisisce in Italia tutte le informazioni e i documenti necessari alla redazione del bilancio; - l’acquisizione, da parte delle [...] della somma di [...] in conto capitale dalla [...] mediante bonifico su [...], con disposizione di bonifico sottoscritta dal sig. [...] il [...]/1998; - il pagamento da parte della [...] alla [...] di lire [...] quale compenso per l’acquisto della seconda trance di azioni [...] ([...]/1998); - la stipula di contratto per la vendita di n. [...] azioni della [...] alla [...] per contratto stipulato a [...] su procura conferita dal sig. [...] al sig. [...] per [...] e ai sig. [...] per l’acquirente [...] ([...]/1998); - pagamento delle azioni [...] dalla [...] alla [...] per compensazione della restituzione delle riserve in conto capitale verso la controllante ([...]/1998); - delibera dell’assemblea dei soci [...] rappresentata dal sig. [...] con atto di delega redatto ad [...] al sig. [...] per la restituzione delle riserve e la compensazione ([...]/1998); - il bilancio chiuso alla data del 31 dicembre 1998 presenta partecipazioni per titoli per dm [...] (rappresentati dal [...]% di [...] e dal [...]% di [...]) capitale sociale per dm [...] riserve per dm [...]; estinto il debito esistente nel 1997 di [...] milioni di dm verso la [...], utile di esercizio di dm [...], e proventi di esercizio costituiti per dm [...] da interessi attivi su finanziamenti, dm [...] da rivalutazione di partecipazioni e dm [...] da dividendi percepiti da [...] esercizio 1997; fra i costi vengono evidenziati gli oneri per differenza cambi su

valutazioni di partecipazioni cosicché la società nell’anno 1998 dichiara una perdita fiscale di dm [...]. Il fatto dimostrerebbe, ad avviso dell’ufficio, i vantaggi fiscali conseguiti dalla [...] in ragione della sua esterovestizione. Sulla scorta di tali dati l’ufficio procede all’accertamento nei confronti della società muovendo dall’utile di esercizio, dichiarato in Germania, convertito in lire sulla base del cambio ufficiale, in lire [...] pari ad euro [...] e accertando conseguentemente una maggiore imposta Irpeg, di euro [...], una maggiore imposta Irap di euro [...] su un imponibile determinato in euro [...], oltre alle sanzioni penali ai sensi della L. 516/1982 in presenza del superamento della soglia delle maggiori imposte. L’avviso di accertamento veniva notificato a mezzo dell’ufficio postale di [...] a [...], in qualità di legale rappresentante della [...], nel domicilio di via [...] in data [...]/2006, al portiere dello stabile sito all’indirizzo, alla [...] Gmbh in via [...] n. [...] di [...], in data [...]/2006 e alla [...] Gmbh in [...], in [...] in data non indicata. Contro l’avviso di accertamento propone impugnazione la [...] Gmbh con il ricorso in epigrafe richiamato, deducendo i seguenti motivi: 1) Illegittimità dell’avviso di accertamento per nullità della notifica. Secondo la ricorrente l’atto impugnato sarebbe viziato dalla nullità radicale della sua notifica effettuata in violazione delle norme contenute all’art. 60 del D.P.R. 600/1973 e la richiamata disciplina delle notifiche ai sensi degli artt. 137 ss. c.p.c. sia con riguardo ai soggetti ai quali deve essere notificato l’avviso, sia con riguardo al procedimento nelle ipotesi di irreperibilità e di residenza all’estero. I dedotti vizi non sarebbero nemmeno sanati dall’avvenuta costituzione in giudizio della [...] Gmbh alla luce della giurisprudenza delle sez. unite, dal momento che non è idonea a sanare il vizio di notifica quando la proposizione del ricorso innanzi alla Commissione tributaria sia intervenuta oltre il termine per l’esercizio del potere di accertamento da parte dell’ufficio previsto dalla legge. Nella fattispecie, il termine per l’accertamento del relativo anno d’imposta 1997, sarebbe venuto a scadenza il 31 dicembre 2006, mentre il ricorso avverso l’avviso di accertamento risulta notificato all’ufficio nei termini di legge, il [...]/2007. Poiché dall’esercizio del diritto di difesa mediante proposizione del ricorso non può mai derivare una convalida ex tunc di un atto imperfetto, di per sé inidoneo ad evitare la decadenza, l’intervenuta


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impugnazione non sana la nullità della notifica. 2) Con un secondo motivo, la ricorrente deduce l’erronea identificazione del soggetto destinatario dell’atto impositivo avendo l’ufficio costruito la pretesa tributaria nei confronti della [...] utilizzando argomenti che avrebbero potuto eventualmente portare l’amministrazione finanziaria ad accertare in capo alla [...] i redditi conseguiti tramite la [...] quale soggetto interposto. Secondo la ricorrente, i fatti posti a presupposto dell’accertamento nei confronti della [...] avrebbero potuto legittimare, semmai, un accertamento di redditi conseguiti dalla [...]. Ma, essendo intervenuta decadenza del potere di accertamento dell’amministrazione nei riguardi di quest’ultima, l’ufficio avrebbe artificiosamente individuato, nella [...] quale società interposta, la titolare dei redditi accertati imputabili invece alla [...]. 3) Con un terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la illegittimità dell’avviso di accertamento per totale inconsistenza dei presupposti relativi all’assenta residenza fiscale in Italia della [...]. Dopo aver esaminato la disciplina della nozione di residenza fiscale delle società alla luce dell’art. 87 del T.U.I.R., dell’art. 4 della Convenzione bilaterale Italia-Germania e della Convenzione Ocse, rileva la ricorrente come sia necessario che la sede dell’amministrazione o che la sede di direzione effettiva abbia luogo in Italia per la maggior parte del periodo di imposta ed è contestualmente onere dell’amministrazione finanziaria provare l’esistenza della sede di direzione effettiva in Italia della società. Ad avviso della ricorrente, i fatti posti a fondamento dell’accertamento costituiscono prove del tutto equivoche e incerte inidonee a comprovare l’effettiva residenza fiscale in Italia della [...] nel 1997. In realtà, deduce la ricorrente, le delibere assembleari della società sono state assunte in Germania, come emerge dai verbali di assemblea [...] e [...] 1997, prodotte in atti. La società operava effettivamente in Germania, tant’è che le azioni della [...], acquistate dalla [...] nel 1997 sono state vendute con contratto sottoscritto a [...] nel 1998. Il contratto più rilevante concluso dalla [...] nel ’97 è stato stipulato ad Amsterdam. La corrispondenza commerciale della [...] aveva luogo in Germania. Mentre del tutto irrilevanti, ai fini dell’asserita residenza italiana di [...] appaiono gli altri documenti assunti a fondamento dell’accertamento dall’ufficio che vengono peraltro contraddetti da altri documenti sicuramente ascrivibili alla residenza tedesca della stessa.

Quanto alla dedotta inesistenza di una struttura operativa della società in Germania, osserva la ricorrente che l’attività di gestione di partecipazioni svolta dalla [...] si riduce nella partecipazione alle assemblee e nell’incasso di dividendi e non è perciò affatto necessario che, per svolgere tale attività, essa debba avvalersi di strutture organizzate e di personale dipendente, essendo sufficienti a tale scopo le attività degli amministratori e di una società terza che svolge gli esercizi di contabilità. A tal proposito rileva che per la maggior parte dell’anno 1997, la società ha avuto almeno un amministratore di cittadinanza e nazionalità tedesca: da prima il dott. [...] e successivamente il dott. [...] (con poteri disgiunti dal [...] cui era attribuita una adeguata remunerazione in dm [...], come risulta dai documenti che la ricorrente produce). Ad ulteriore conferma dell’effettiva residenza in Germania della società, viene rilevato che le assemblee della [...] si sono tenute per tutto il 1998 ([...] aprile e [...] dicembre) in Germania, che il sig. [...] delegato a rappresentare l’azionista opera stabilmente in Germania, che l’unico contratto concluso da [...] nel 1998 è stato stipulato in Germania, che per le consulenze fiscali la [...] si è sempre avvalsa di una società tedesca ([...]), che sulla base di detti presupposti l’amministrazione finanziaria tedesca ha rilasciato il certificato di residenza fiscale nello Stato tedesco, che la [...] ha regolarmente corrisposto compensi ad amministratori in Germania e si è avvalsa unicamente di conti correnti ivi esistenti, che essa aveva sede nello stesso luogo della [...], che aveva nel ’98 dipendenti e almeno agenti esterni con una struttura assai significativa e un bilancio assai consistente. È del tutto evidente, pertanto, che la [...] attingesse, ai fini dello svolgimento della sua attività, alle strutture materiali e personali della consociata. Deduce ancora come l’ufficio abbia confuso tra il requisito della “sede della direzione effettiva”, necessario ad integrare la residenza fiscale della società con la fisiologica influenza del socio controllante, italiano, sulla controllata, tedesca, giungendo ad una conclusione che si pone in aperto contrasto con il principio comunitario di libertà di stabilimento. Conclude quindi in via principale per la declaratoria di illegittimità dell’atto impugnato, e in subordine per la non applicabilità della sanzione irrogata per difetto dell’elemento soggettivo e per l’obiettiva incertezza delle norme applicabili. Produce a sostegno del ricorso n. 29 documenti, per lo più in lingua tedesca, successivamente prodotti e integrati con traduzione asseverata ([...]


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giugno 2007), per complessivi 44 documenti afferenti gli atti posti in essere dalla [...], i rapporti intercorsi con le altre società del gruppo, i contratti stipulati e gli allegati all’avviso di accertamento. Si costituisce in giudizio l’ufficio con memoria in data [...]/2007 replicando come segue: 1) eccepisce preliminarmente l’inammissibilità della documentazione prodotta dalla ricorrente in lingua straniera, vizio peraltro sanato dalla successiva produzione documentale con traduzione asseverata; 2) quanto ai dedotti vizi di notifica dell’atto impugnato osserva che la notifica dell’atto è avvenuta sia nei confronti della società incorporante in liquidazione [...] nel suo domicilio fiscale in Germania in [...] sia al sig. [...] in qualità di legale rappresentante della [...] nella residenza dichiarata in Italia e contestuale comunicazione, sempre a mezzo raccomandata, allo stesso [...] nell’indirizzo di residenza estera ([...]) dello stesso e ulteriore notifica di raccomandata alla [...] nella sede effettiva in Italia di via [...]. In ogni caso, con la costituzione in giudizio della società sarebbe sanato ogni eventuale vizio di notifica in quanto, alla luce delle disposizioni contenute all’art. 37, commi 24-26, del D.L. 4 luglio 2006, n.223 i termini decadenziali sono raddoppiati in presenza di violazioni che comportano l’obbligo di denuncia per i reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000 tra cui l’omessa presentazione dolosa della dichiarazione. 3) Quanto ai dedotti vizi sostanziali dell’accertamento, rileva l’ufficio, dopo un ampio excursus delle norme interne e internazionali sulla disciplina della residenza fiscale, che le indagini effettuate hanno dimostrato, alla luce dei richiamati principi normativi e della dottrina in materia, come la sede effettiva della società, ove venivano effettivamente assunte le decisioni e perfezionate le operazioni finanziarie più importanti, fosse l’Italia. A sostegno di tale conclusione giungono altresì i seguenti elementi: - la [...] appare costituita al solo scopo di detenere alcune partecipazioni azionarie del gruppo [...] per farle transitare tra società controllate/consorelle al fine di ottenere l’adeguamento del valore contabile delle partecipazioni a quello reale, conseguendo l’esenzione fiscale delle relative plusvalenze; - la [...] per tutto il corso della sua esistenza, ha un unico socio: la [...] S.r.l. costituita dai componenti della famiglia; - l’amministratore [...] ha sempre avuto la residenza nel periodo 1997-2001 in [...] e [...]; - il sig. [...] è contemporaneamente amministratore della [...] e della controllante [...], mentre il coamministratore della [...] non compare in alcu-

na delle scelte fondamentali operate della società, che vengono infatti ascritte al solo [...] o a suoi speciali mandatari (a tal proposito l’ufficio richiama una serie di atti della società aventi le richiamate caratteristiche); - nel corso degli esercizi 1998 e 1999, l’intero portafoglio titoli della [...] è depositato in Italia presso la sede del [...]; - le operazioni compiute con la costituzione di nuove società luxemburghesi aventi la medesima finalità di conferimento dei pacchetti azionari [...] e [...] per la loro rivalutazione in esenzione da imposte, ascrivibili all’unica regia operativa del socio totalitario delle diverse società nella persona di [...]; - tutte le movimentazioni finanziarie necessarie alle operazioni poste in essere dalla [...] sono state realizzate unicamente con risorse messe a disposizione dalla capogruppo [...] o dalla persona fisica [...]. Di qui la conclusione tratta dall’ufficio che la sede affettiva della [...] Gmbh coincide con il domicilio fiscale della società controllante in [...]. Conclude quindi per il rigetto del ricorso con condanna della ricorrente alle spese del giudizio. [Omissis] Motivi della decisione Va preliminarmente esaminata l’eccezione di nullità della notifica dell’atto di accertamento proposta dalla ricorrente secondo la quale l’ufficio sarebbe incorso nella violazione dell’art. 60 del D.P.R. 600/1973 e degli artt. 137 ss. del Codice di procedura civile. Occorre rilevare in proposito che dalla documentazione prodotta dall’amministrazione risulta che l’atto di accertamento è stato notificato con raccomandata r.r. [...] alla società [...] Gmbh in liquidazione quale incorporante della [...] Gmbh in [...] a [...] indirizzo della società dichiarato e conosciuto dell’amministrazione finanziaria tedesca; con raccomandata n. [...] al sig. [...] in qualità di legale rappresentante della società [...] Gmbh in via [...], residenza dichiarata in Italia e con l’invio di comunicazione, a mezzo raccomandata n. [...] ai sensi della circolare del Dipartimento delle Entrate n. 16 del 27 gennaio 2000 dell’avvenuta notifica dell’atto in Italia al sig. [...] all’indirizzo del Paese estero di residenza in [...] con raccomandata n. [...] alla società [...] Gmbh in via [...], quale sede effettiva della società all’epoca dei fatti e sede legale della società controllante [...]. Va ricordato che il [...] è anche liquidatore della [...] Gmbh.


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Ritiene il Collegio che le modalità di notifica attuate dall’ufficio siano conformi alle norme di legge stabilite in tema di notificazione di atti dal combinato disposto dell’art. 60, D.P.R. 600/1973 e degli artt. 137 ss. del c.p.c. Occorre rilevare infatti che la ricorrente non ha affatto documentato l’avvenuta variazione della residenza originariamente in [...] del [...] con il deposito del certificato di variazione anagrafica del Comune e non risulta quindi provato l’effettivo trasferimento di residenza dello stesso all’estero, essendo questo sicuramente rilevante ai fini di quanto disposto dall’art. 58 del D.P.R. 600/1973, secondo cui le cause di variazione del domicilio fiscale hanno effetto dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate. L’art. 60 dello stesso decreto, al terzo comma, dispone inoltre che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica o, per le persone giuridiche e le società ed enti privi di personalità giuridica, dal trentesimo giorno successivo a quello della ricezione da parte dell’ufficio della comunicazione prescritta nel secondo comma dell’art. 36. Se la comunicazione è stata omessa, la notificazione è eseguita validamente nel Comune di domicilio fiscale risultante dall’ultima dichiarazione annuale. Sulla scorta delle risultanze processuali, emerge che l’atto impugnato è stato regolarmente notificato al domicilio fiscale del [...] in [...] ed ivi ricevuto dal portiere dello stabile ai sensi dell’art. 139, comma 3, c.p.c. e poiché la notifica alle persone giuridiche può essere effettuata anche alla persona fisica che le rappresenta, a termini dell’art. 145 c.p.c., l’atto in questione risulta regolarmente notificato. Va ancora rilevato che l’atto risulta altresì notificato anche nella sede effettiva della società [...] presso [...] in [...] e alla sede della [...] Gmbh in Germania, pur essendo l’amministrazione finanziaria esentata dal notificare atti all’estero ai sensi dell’art. 60, comma 1, lett. f. Ne deriva pertanto che la ricorrente, tramite le intervenute notifiche, ha avuto piena conoscenza dell’atto impugnato e le mere irregolarità poste in essere nella esecuzione delle stesse sono comunque sanate dalla avvenuta costituzione in giudizio della ricorrente. Con un secondo motivo di impugnazione la società deduce la illegittimità dell’atto di accertamento per erronea identificazione del soggetto destinatario dell’atto impugnato: l’ufficio avrebbe

ricostruito la pretesa tributaria nei confronti della [...] utilizzando argomenti che avrebbero dovuto portare ad un accertamento di evasione in capo alla [...] S.r.l. per redditi da essa conseguiti a mezzo di un soggetto interposto. La tesi, sia pure suggestiva, appare del tutto infondata. Il fenomeno dell’interposizione fittizia del soggetto terzo, che viene fatto apparire quale soggetto apparentemente percipiente il reddito rispetto a quello cui il reddito deve essere effettivamente imputato (art. 37, comma 3, del D.P.R. 600/1973), è fenomeno affatto diverso da quello della cd. “esterovestizione” della residenza fiscale che, alla stregua dei fenomeni di evasione ed elusione fiscale, viene effettuata il più delle volte mediante la costituzione all’estero, segnatamente nei Paesi che offrono migliori condizioni di convenienza fiscale, di società esclusivamente finanziarie con funzioni di holding o sub-holding di partecipazione, controllate direttamente o indirettamente da società fiscalmente residenti nel nostro Paese. Nel primo caso il soggetto interponente viene fatto apparire come titolare del reddito che invece va imputato direttamente all’interposto, nel secondo caso il reddito viene effettivamente percepito dalla società estera che tuttavia non assolve ai requisiti dell’effettiva residenza estera essendo carenti i presupposti di essa alla luce della legislazione interna e comunitaria. Il fenomeno della esterovestizione consente infatti di accentrare in soggetti giuridici residenti in Paesi a bassa tassazione e con esenzione di determinati cespiti reddituali le partecipazioni nelle sussidiarie esistenti in Italia o all’estero, in modo tale da garantire un controllo sugli indirizzi operativi e gestionali delle imprese situate all’estero, senza che i risultati economici di detta attività si riflettano direttamente sulla casa madre. Le sub-holding, in questo contesto, possono essere strutturate come semplici strumenti di controllo locale delle partecipazioni, qualora accentrino le partecipazioni detenute dalla casa madre nelle sussidiarie residenti nel medesimo Paese in cui si trova la società e in questo caso il beneficio fiscale può derivare per la sub-holding o dalla utilizzazione di finanziamenti di terzi per acquisire le sussidiarie estere, compensando i redditi prodotti da queste ultime con gli interessi passivi sui finanziamenti ottenuti, o dalla compensazione, consentita in alcuni Paesi, nella capogruppo locale dei redditi e delle perdite prodottisi in capo a tutte le controllate. Diversamente la casa madre può, peraltro, avvalersi di sub-holding, situate in Paesi a bassa tassa-


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zione o con tassazione esente di determinati cespiti, per accentrare su di esse le partecipazioni in società residenti in altri Stati; in tal caso la società finanziaria svolge anche la funzione di interporsi nella catena di controllo al fine di consentire una massimizzazione dei benefici fiscali detraibili dall’applicazione delle norme di favore previste dalla legislazione dello Stato estero. In linea generale i vantaggi connessi all’utilizzo di una società finanziaria situata in un Paese a bassa tassazione, derivano dal basso o nullo di ritenute applicate sui dividendi percepiti dalle sussidiarie, dal rinvio della tassazione sui dividendi pagati dalle sussidiarie alla sub-holding e non ridistribuiti a questa dalla casa madre, dalla bassa o nulla tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione delle partecipazioni detenute dalla sub-holding. Nel caso di specie risulta evidente dalla documentazione acquisita dall’ufficio che lo scopo della complessa operazione finanziaria organizzata dal gruppo [...] sul titoli [...] S.p.A e [...] S.p.A. sviluppatasi durante gli anni 1997, 1998 e 1999, era quello di rivalutare in esenzione fiscale le partecipazioni [...] e [...] S.p.A. che originariamente erano di proprietà del [...] e di [...]. Orbene, l’art. 87, comma 3, del T.U.I.R., vigente nei periodi di imposta che ci occupano, stabilisce che «ai fini delle imposte sul redditi si considerano residenti le società e gli enti che, per la maggior parte del periodo d’imposta, hanno la sede legale, o la sede dell’amministrazione, o l’oggetto principale nel territorio dello Stato». Il comma 4 precisa che oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto. [Omissis] Ulteriori elementi sintomatici del fenomeno della esterovestizione vanno individuati inoltre nella circostanza che il capitale sociale del soggetto esterovestito sia riconducibile ad una società di capitali per lo più costituita da un unico socio o da più soci appartenenti alla stessa famiglia detentrice della totalità o quasi delle relative azioni o quote del capitale sociale del soggetto esterovestito; per quanto riguarda l’amministrazione del soggetto esterovestito, essa è per lo più affidata a persone fisiche che risiedono in Italia, legate da stretti rapporti familiari e societari con la società controllante italiana, pur annoverando tal volta, nell’ambito del consiglio di amministrazione, anche soggetti stranieri, che tuttavia rivestono un ruolo meramente simbolico. Orbene, dall’esame degli atti acquisiti dall’ufficio, emergono elementi significativi tali da ritenere

che la società tedesca [...] Gmbh presenti le caratteristiche di una tipica società esterovestita: a) la società risulta costituita allo scopo di detenere alcune partecipazioni del gruppo [...] per farle transitare fra società controllate/consorelle al fine di consentire l’adeguamento del valore contabile delle stesse partecipazioni a quello reale, ottenendo però l’esenzione fiscale della plusvalenza realizzata. Non risulta infatti che, nel corso degli anni 1997/1999, la [...] abbia svolto altra attività se non quella della gestione del pacchetto azionario [...] e [...]; b) la società [...] per tutto il corso della sua esistenza, ha un unico socio: [...] S.r.l., che presenta una compagine costituita dai componenti della medesima famiglia [...], titolari a diverso titolo delle quote della società che però fanno in realtà capo a [...], in quanto proprietario della quota del [...]% e usufruttuario di tutte le rimanenti quote detenute dagli familiari, e quindi titolare del controllo totalitario dell’assemblea degli azionisti; c) il sig. [...] per tutto il periodo 1997/2001, è risultato residente in Italia; d) il sig. [...] detiene contemporaneamente la qualifica di amministratore sia nella tedesca [...] Gmbh che nella sua controllante [...] S.r.l., di cui è amministratore unico; e) il secondo amministratore della [...] sig. [...], affiancato al sig. [...] dal [...]/1997, quale amministratore della società tedesca, non risulta avere assunto un ruolo effettivo di direzione, dal momento che l’assemblea degli azionisti ha espressamente esonerato il sig. [...] da ogni responsabilità derivantegli dall’incarico di amministratore, della società e che tutti gli atti rilevanti compiuti dalla [...], recano la sottoscrizione del sig. [...] o di persone terze, appositamente delegate da questi al compimento dello specifico atto; f) l’ascrivibilità degli atti fondamentali posti in essere dalla società al sig. [...] emerge dai seguenti fatti: - il contratto di acquisto delle azioni ordinarie [...] dalla consorella [...] viene sottoscritto per l’acquirente dal sig. [...], appositamente delegato dal sig. [...]; - la delibera di acquisto delle azioni [...] assunta in data [...]/1997, è ascrivibile a [...] in qualità di rappresentante degli azionisti e viene assunta utilizzando i fondi ricevuti in dotazione, quale riserva di capitale, dalla controllante [...]. L’atto di acquisto delle azioni [...] in data [...]/1997 viene redatto a [...] e sottoscritto per il venditore da [...] e per il compratore [...] dal sig. [...], delegato con procura dallo stesso [...];


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- la concessione di un prestito di lire [...] da parte della [...] alla controllante [...] con lettera in data [...]/1997, è sottoscritta dal sig. [...] così come la lettera di conferma per accettazione del contratto da parte di [...] la delega rilasciata dal sig. [...] al sig. [...] in data [...]/1998 per la rappresentanza dello stesso nell’assemblea per l’assunzione di decisioni espressamente indicate nella stessa lettera d’incarico; - in data 30 aprile 1998 l’assemblea dei soci della [...] approva il bilancio 31 dicembre 1997 e decide di distribuire l’utile di esercizio di [...] miliardi di marchi mediante compensazione del prestito internazionale esistente con [...]; - la delega rilasciata al sig. [...] per la stipulazione di un accordo di acquisto di [...] azioni [...] dalla [...], accordo successivamente sottoscritto da [...]; - l’atto di vendita di [...] partecipazioni in [...] S.r.l. alla collegata [...] per scrittura privata sottoscritta per conto del venditore [...] dal sig. [...] e per l’acquirente da un terzo soggetto per accettazione della ceduta [...] S.r.l. dallo stesso acquirente; - la procura conferita dal sig. [...] in data [...]/1999 ad alcuni avvocati tedeschi per la costituzione della società [...] avente capitale sociale di euro [...] da sottoscrivere interamente da parte della [...] e il trasferimento delle partecipazioni detenute dalla [...] in [...] alla [...]; g) risulta inoltre che nel corso degli esercizi 1998 e 1999 l’intero portafoglio titoli detenuto dalla [...] è materialmente depositato in Italia, presso la sede del [...]; h) tra l’ottobre-dicembre 1999, la [...] crea tre nuove società estere con sede in Lussemburgo e in Germania ([...] direttamente controllata, [...] indirettamente creata attraverso la controllatala [...], la [...] indirettamente creata attraverso la ([...]). Nel corso di tale periodo il pacchetto azionario [...] e [...] detenuto nella [...], viene conferito nelle società lussemburghesi al fine di consentire una rivalutazione del pacchetto azionario in esenzione fiscale. Risulta perciò del tutto evidente, alla luce della richiamata documentazione, che la persona di [...] è l’unico soggetto cui sono ascrivibili le fondamentali decisioni e atti delle società coinvolte nell’operazione in questione, che i soggetti mandatari dell’esecuzione delle decisioni sono per lo più soggetti italiani direttamente collegati alla società madre, il sig. [...] risulta essere socio titolaritario della [...], socio unico della [...], socio unico della [...] socio della [...] amministratore delegato della [...] e amministratore delegato della [...]. Tutte le operazioni compiute dalla [...] e in particolare le acquisizioni e le sottoscrizioni di capita-

le delle società costituite sono state realizzate unicamente con risorse finanziarie messe a disposizione dalla capogruppo o direttamente dal sig. [...]. Da ciò consegue che la società tedesca [...], non possedendo alcuna autonomia finanziaria o patrimoniale, risulta completamente subordinata alla direzione effettiva della [...] e di [...] che, come si è visto, hanno sede in Italia. Né a smentire il fatto dell’esistenza effettiva in Italia della direzione della società [...], deducibile dagli univoci elementi di prova più sopra richiamati pare idonea la documentazione prodotta dalla ricorrente, ritualmente acquisibile al processo a seguito dell’avvenuta traduzione asseverata, non traendosi da essa alcun elemento rilevante al fine di affermare che la direzione effettiva della società fosse effettivamente in Germania: Non può trarsi argomento a sostegno di tale tesi dalla mera circostanza che le assemblee sociali si sono svolte in Germania dal momento che, come si è rilevato, le decisioni relative avvenivano di fatto preventivamente assunte in Italia e conferite negli atti della società mediante la nomina di mandatari e procuratori nominati dallo stesso sig. [...] e comunque legati alla società madre. Risulta, peraltro, dalla lettera confidenziale inviata dalla società [...] al sig. [...] presso la [...] group di [...] nella quale si suggerisce di tenere in Germania l’assemblea degli azionisti «al fine di ridurre il rischio che l’autorità fiscale tedesca possa considerare la società soggetto residente in Italia ai fini fiscali», che lo svolgimento delle assemblee in Germania appare un mero strumento elusivo delle disposizioni in tema di domicilio fiscale. A ciò si aggiunga il fatto, di per sé non decisivo, ma in ogni caso rilevante al fine di corroborare le conclusioni cui è pervenuto l’ufficio, che i documenti e le informazioni necessarie alla redazione del bilancio della [...] vengono acquisite in Italia e gli atti rilevanti della società sono posti in essere da soggetti italiani. Quanto all’intento elusivo perseguito dall’operazione organizzata dal gruppo [...] sui titoli [...] S.p.A. e [...] S.p.A., sviluppatasi durante gli anni 1997-1999, emerge dall’accertamento effettuato dall’ufficio che mediante la costituzione delle società e i trasferimenti dei pacchetti azionari, è stato realizzato l’obiettivo di rivalutare, in esenzione fiscale, le partecipazioni di cui sopra originariamente di proprietà del [...] e di [...]. Durante il periodo in cui sono state realizzate le operazioni, nello Stato del Lussemburgo era in vigore il regime della cd. participation esemption il quale prevedeva che le cessioni di titoli di una


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dente società lussemburghese di rientrare nelle agevolazioni della participation esemption. Cosicché nel periodo 1997-1998 la [...] ha svolto un mero ruolo di parcheggio dei titoli [...] e [...], optando per una società con sede in Germania, ivi godendo dell’esenzione da ritenuta in base agli artt. 10 e 24 della Convenzione internazionale Italia-Germania, mentre se i titoli fossero stati collocati in Lussemburgo i dividendi erogati avrebbero scontato una ritenuta del 15%. Alla luce delle esposte considerazioni, l’avviso di accertamento emesso dall’ufficio deve ritenersi legittimo e fondato, essendo del tutto provata la circostanza che la sede effettiva della [...] negli anni 1997 e 1998, va individuata nella sede della controllante [...] e quindi assoggettata agli obblighi inerenti il pagamento dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche, ai sensi degli artt. 86 e seguenti del T.U.I.R. Del pari provato è l’intento elusivo dell’operazione posta in essere. La presenza dell’intento elusivo realizzato mediante la costituzione di società esterovestita, esclude l’applicabilità della riduzione delle sanzioni, ovvero del loro annullamento alla luce dei principi contenuti agli artt. 2, 4, 5, 6 e 7 del D.Lgs. n. 472/1997. Per le esposte ragioni il ricorso proposto va rigettato. [Omissis]

partecipazione diretta detenuta nel capitale sociale di una società di capitali non residente, pienamente imponibile ad un’imposta corrispondente all’imposta sui redditi delle società lussemburghesi, è esonerata dalla tassazione quando al momento dell’alienazione dei titoli il cedente ha detenuto la partecipazione per un periodo consecutivo di 12 (dodici) mesi precedenti la chiusura dell’esercizio sociale in cui è avvenuta la cessione; ciò a condizione che durante questo periodo il tasso di partecipazione non scenda mai al di sotto della soglia del 25% del capitale sociale della partecipata o che fossero state acquistate da un prezzo pari ad almeno 250 milioni di franchi lussemburghesi. La [...] il [...]/1997 ha acquistato dalla consorella [...] azioni ordinarie [...], pari al [...]% del capitale sociale e il [...]/1997 ha acquistato da azioni della [...]. Nel corso del 1998 le movimentazioni di azioni tra [...] e la [...] sono state pressoché irrilevanti. Nell’ottobre 1999 la [...] conferisce due pacchetti azionari ([...]% di [...] e [...]% di [...]) alla neo costituita [...] conferimenti in continuità di valori fiscali, senza emersione di plusvalenze in Germania. Il [...]/1999 [...] S.r.l. cede i due pacchetti azionari alla collegata neo costituita [...] realizzando una plusvalenza di oltre [...] miliardi di lire. L’operazione così concepita ha consentito alla ce-

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Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXV, 18 gennaio 2008, n. 61 Presidente e Relatore: Pecchioli Ires - Residenza fiscale - Accertamento - Notificazioni - Società con sede legale all’estero - Individuazione del domicilio fiscale - Notificazione effettuata presso la sede dell’amministrazione in Italia - Nullità - Efficacia sanante del raggiungimento dello scopo - Condizione (C.p.c., artt. 156, 157 e 160; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) Ires - Residenza fiscale - Società incorporata in Stato membro UE - Diritto di stabilimento - Limitazione o esclusione per ragioni di evasione o elusione fiscale - Esterovestizione - Fattispecie Esclusione (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73, comma 3; L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 25) In caso di contestazione dell’esistenza di una sede dell’amministrazione in Italia ad una società avente sede

legale in Olanda, è nulla la notifica dell’avviso di accertamento ivi effettuata se la sede legale estera è nota all’amministrazione finanziaria; la nullità non può essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo al quale è destinato, a meno che riguardi l’esercizio di un potere da cui l’amministrazione sia decaduta. Una società costituita conformemente alla legislazione olandese è ad ogni effetto appartenente all’Unione europea e come tale dotata del diritto di stabilimento, anche nel senso che non possa e non debba subire restrizioni alla propria scelta di collocare la sua sede all’interno dell’uno e dell’altro Stato; non vi è peraltro incompatibilità con l’art. 73, comma 3, che si applica sempre e comunque quando la residenza all’estero sia dovuta unicamente a finalità di evasione o elusione fiscale, la cui sussistenza nel caso concreto è da escludere (nel caso di specie, si è ritenuto che la società estera faccia parte di una ben consolidata struttura societaria nella quale adempia la sua funzione nel rapporto fra la capogruppo e le consociate estere).


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Svolgimento del processo 1. In data [...] 2004 il Nucleo regionale di Polizia tributaria della Guardia di Finanza ha proceduto alla redazione di processo verbale di constatazione nei confronti della Alfa società la cui sede legale è situata in Amsterdam. Secondo i verbalizzanti la società ha la propria sede amministrativa in Italia presso la direzione generale della Beta. Proprio la sede dell’amministrazione in Italia, come si legge nel Pvc, foglio n. 44, «rende possibile, per il fisco italiano, l’applicazione di tutte quelle norme tributarie previste dall’ordinamento interno, alla stregua quindi, di un soggetto avente sede legale in Italia». Perciò, secondo la Guardia di Finanza, si tratta di «società esterovestita» che, in quanto tale, «è assoggettata a tutti gli obblighi imposti dalla normativa tributaria interna alle persone giuridiche residenti, tra cui quelli di presentazione della dichiarazione dei redditi e dell’Iva». Ne segue che «se la società esterovestita non ha presentato in Italia alcuna dichiarazione, la stessa viene considerata alla stregua di evasore totale». L’Agenzia delle Entrate, ufficio di [...] ha fatto proprie le constatazioni e le osservazioni della Guardia di Finanza ed ha perciò proceduto alla notifica di avvisi di accertamento relativi alle imposte Irpeg-Ilor per l’anno 1996, Irpeg-Ilor per l’anno 1997, Irpeg-Irap per l’anno 1998, IrpegIrap per l’anno 1999 e Iva per gli anni 1998 e 1999, con irrogazione delle relative sanzioni. La Alfa ha proposto distinti ricorsi contro gli avvisi di accertamento. 2. La Commissione tributaria provinciale di Firenze ha provveduto alla riunione dei ricorsi e li ha accolti, dichiarando la nullità degli avvisi di accertamento. L’accoglimento dei ricorsi non è avvenuto per ragioni attinenti al merito, bensì perché la Commissione ha accertato la nullità della notifica degli avvisi di accertamento. [Omissis]. 3. Ha proposto appello avverso la sentenza di primo grado l’Agenzia delle Entrate, soffermandosi innanzitutto sul problema dell’invalidità della notifica degli avvisi di accertamento. Tale notifica è avvenuta alla società destinataria, presso la direzione generale della Beta ubicata nel Comune Y tramite consegna a mani di Caio quale membro del consiglio di amministrazione della Alfa; allo stesso Caio nella sua residenza [...] tramite consegna a persona addetta alla casa; alla Beta «per conoscenza». A sostegno della ritualità della notifica, l’ufficio afferma che «la ricorrente, seppur formalmente

residente all’estero, risulta avere, in Italia, la sede effettiva», con la conseguenza che il luogo deputato a ricevere le notifiche è la sede effettiva e cioè la direzione generale della Beta. Ai fini in esame l’ufficio richiama gli artt. 58, 59 e 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 che conferiscono, fra l’altro, all’amministrazione finanziaria il potere di stabilire il domicilio fiscale del soggetto nel Comune in cui è stabilita la sua sede amministrativa e disciplinano le modalità della notifica. Queste norme dimostrano che in materia tributaria il legislatore configura un procedimento speciale di notificazione, come tale distinto da quello disciplinato dal Codice di procedura civile. L’ufficio asserisce inoltre la validità della notifica in quanto è ammessa quella al rappresentante legale della persona giuridica, per trarne la conseguenza che è idonea quella effettuata al Caio, nella sua qualità di consigliere di amministrazione, perché in generale è valida la notifica effettuata presso la sede legale o effettiva qualora il consegnatario sia legato alla persona giuridica da un particolare rapporto, non necessariamente di dipendenza, ma anche consistente nella sola funzione di ricevere la corrispondenza. D’altronde sarebbe infondato uno degli argomenti di difesa assunti sul punto dalla società, secondo cui la rappresentanza degli amministratori è soltanto congiunta, perché esistono documenti dai quali risulta che essi hanno operato anche in modo disgiunto nel compimento di una serie di atti negoziali. In conclusione, secondo l’ufficio la notifica è rituale «in quanto effettuata presso la sede individuata dai verificatori in Italia»; l’atto è stato comunque portato a conoscenza di un soggetto (consigliere di amministrazione) dotato di un preciso collegamento con la società destinataria; l’eventuale errore di notificazione importa soltanto la nullità della notifica e non la sua inesistenza; la nullità è sanata dal fatto che gli avvisi di accertamento hanno consentito alla società di proporre ritualmente le sue difese. La questione preliminare relativa alla notifica è strettamente collegata a quella sostanziale, perché le obbligazioni tributarie ritenute dall’ufficio sussistono se e in quanto la società abbia realmente la sua sede operativa in Italia. Sotto questo profilo l’ufficio pone in rilievo una serie di elementi che, a suo avviso, convergono nella dimostrazione di quanto da esso sostenuto e perciò della legittima determinazione delle obbligazioni tributarie di cui è causa. Gli elementi sintomatici sono i seguenti: presenza maggioritaria (quattro su cinque) di persone fi-


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siche residenti in Italia nell’organo direttivo-amministrativo; ridotta rilevanza delle funzioni dell’amministratore residente in loco, che è risultato appartenere alla sede olandese di uno studio legale internazionale; svolgimento dell’attività della società olandese, nella sede della Beta da dove sono state impartite le istruzioni per il compimento di tutti gli atti di gestione, compresi i più minuti, come l’acquisto di attrezzature per l’ufficio; il solo lavoratore dipendente in Olanda non effettuava alcuna attività senza il preventivo assenso dall’Italia; uno dei suoi compiti era inviare in Italia gli atti societari, per farli sottoscrivere, per essere poi rispediti in Olanda; sono stati rinvenuti in Y pareri riguardanti la vita della società olandese dal punto di vista fiscale; sempre in Y è stata rinvenuta carta intestata in bianco della società olandese. Da questi elementi la Guardia di Finanza ha tratto la convinzione che la società, per quanto costituita e con sede legale all’estero, avesse la residenza fiscale in Italia, essendo perciò qualificabile soggetto passivo di imposta. Il sostegno normativo di questa deduzione è dato dall’art. 87, comma 3, del T.U.I.R. (sede dell’amministrazione in Italia); dall’art. 25 della legge n. 218/1995 (sede dell’amministrazione in Italia ovvero «l’oggetto principale» dell’attività); dall’art. 4, par. 3, del modello di Convenzione Ocse (sede della direzione effettiva). L’atto di appello passa poi alla valutazione dei documenti reperiti, osservando che dubbi sull’autonomia della società olandese sono stati espressi in sede ministeriale; che la direzione generale della Beta ha impartito precise direttive alla società olandese riguardanti l’erogazione di. finanziamenti, distribuzione di dividendi, ecc.; che l’unico dipendente olandese riceve dall’Italia le direttive per predisporre gli atti dei consigli di amministrazione e delle assemblee dei soci, inviandoli in Italia per la firma e ricevendoli dopo che gli sono stati rispediti; che in Italia è stata assunta la decisione circa la distribuzione dei dividendi dalla società olandese alla società italiana; che i contratti afferenti alla società olandese sono stati stipulati e sottoscritti in Italia; che la nomina di Caio è stata effettuata per assicurare lo svolgimento di un certo numero di consigli di amministrazione in Olanda; che in Italia è stata disposta la movimentazione finanziaria o bancaria riferita alla società olandese anche per il compimento di operazioni finanziarie intercompany; che la società olandese ha chiesto agli amministratori o al personale residente in Italia l’autorizzazione per l’acquisto di beni e servizi e il relativo pagamento; che i dati per tutte le operazioni fi-

nanziarie sono stati forniti alla società olandese dalla Beta; che dall’insieme dei contratti e della corrispondenza si evince che il centro decisionale è sempre stato in Italia, al punto che da alcuni documenti risulta che la Beta non si è limitata a impartire istruzioni ma ha anche agito in luogo della società olandese. Nell’insieme non si tratta di rapporti di mera collaborazione né di coordinamento, bensì dell’esercizio da parte della società italiana di poteri di gestione talmente penetranti che la società olandese era chiaramente soggetta a quella italiana, senza avere alcuna autonomia. In particolare i movimenti finanziari della società olandese erano integralmente gestiti in Italia, al punto di ridurre «la prima ad una sorta di prestanome, un firmacarte che deve apporre il proprio sigillo ad operazioni già irreversibilmente concluse altrove». Da questo complesso di considerazioni l’ufficio ricava l’assoggettamento della società olandese alla legge tributaria italiana, con la conseguente piena legittimità degli avvisi di accertamento. Pertanto l’ufficio ha esposto nell’atto di appello le seguenti conclusioni: «Voglia codesta on.le Commissione tributaria regionale accogliere l’appello dell’ufficio e, previa riforma dell’impugnata sentenza, dichiarare la legittimità degli avvisi di accertamento, anche alla luce dei motivi ampiamente dedotti in primo grado e assorbiti dalla decisione impugnata; in via subordinata, riformare la sentenza impugnata nella parte in cui ha condannato l’ufficio al pagamento delle spese processuali; il tutto previa condanna della società appellata alla refusione delle spese di lite». 4. [Omissis]. Motivi della decisione 1. Per quanto il primo problema da risolvere nella presente controversia abbia carattere preliminare, riguardando l’eventuale invalidità della notificazione degli avvisi di accertamento, la sua soluzione non può provenire se non dall’esame di una questione che attiene anche al merito della controversia, e cioè l’accertamento dell’eventuale presenza della sede amministrativa della società olandese in Italia e precisamente presso la sede operativa della Beta. Infatti l’art. 58, terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 individua il domicilio fiscale dei soggetti diversi dalle persone fisiche «nel Comune in cui si trova la loro sede legale o, in mancanza, la sede amministrativa» e l’art. 60, primo comma, lett. c, dello


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stesso decreto stabilisce che «la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario». E allora il primo accertamento da compiere riguarda proprio il fatto che la Alfa abbia, in base ai criteri sopra detti, il proprio domicilio fiscale nel luogo in cui è stata effettuata la notifica degli avvisi di accertamento. [Omissis]. Va però osservato che l’esame degli elementi presi in considerazione dall’ufficio e richiamati nell’atto di appello non consente di accettarne la tesi circa la presunta verifica dell’esistenza in Italia della sede amministrativa della società olandese. Alla pag. 17 l’appello si riferisce «alla presenza maggioritaria nell’organo direttivo-amministrativo di persone fisiche residenti in Italia (quattro su cinque)», aggiungendosi poi che il solo amministratore residente in Olanda era in realtà associato della sede olandese di uno studio legale internazionale «delle cui prestazioni si è avvalsa la società Alfa». Queste circostanze sono da ritenere totalmente irrilevanti perché non si può trarre, sul piano giuridico, alcuna conseguenza da fatti marginali come, da un lato, la residenza anagrafica degli amministratori, dall’altro lato, le funzioni e la qualifica del quinto amministratore, apparendo anzi normale, probabilmente vantaggioso ai fini sociali, che quest’ultimo amministratore avesse un diretto collegamento con uno studio legale. Probabilmente l’ufficio è stato indotto a dare valore a questo argomento dalla disposizione dell’art. 5-bis, lett. b, dell’art. 73 del T.U.I.R. (introdotto, come si è visto sopra, dall’art. 35 del D.L. n. 223/2006). Ma il riferimento è chiaramente erroneo posto che la fattispecie disciplinata da tale disposizione è completamente diversa da quella di cui al presente giudizio, anche nella ricostruzione che ne fornisce l’ufficio (a parte il fatto che la norma è successiva al periodo che qui interessa). Secondo l’appellante le dettagliate istruzioni provenienti dall’Italia e riguardanti una pluralità di atti di gestione costituiscono uno degli elementi principali da cui trae fondamento l’assunto dell’appellante medesimo. Su questo punto occorre un chiarimento di carattere generale. L’esistenza di un penetrante controllo di una società nei confronti di altra e perciò l’assoggettamento della società controllata costituisce fenomeno ben diverso dallo svolgimento delle attività di gestione amministrativa della società controllata. Le due fattispecie non possono essere né sommate né confuse perché, altrimenti, situazioni giuridicamente rilevanti, fra loro nettamente differenziate, verrebbero rese coincidenti con effetti aberranti sul piano giuridico.

In sostanza non si può configurare la collocazione della sede amministrativa di una società presso un’altra soltanto perché fra le due società vi è uno stretto collegamento, che riguarda essenzialmente il coordinamento delle rispettive attività e finalità. Si tratta di un fenomeno che la normativa codicistica ben conosce, al punto che l’art. 2359 c.c. elabora la nozione delle società controllate, fra l’altro ricomprendendovi i casi in cui vi siano società che sono sotto «influenza dominante» di altre società in virtù di particolari vincoli contrattuali ed elabora anche la nozione di società collegate quando una società «esercita un’influenza notevole» sull’altra. Ma è evidente che tutti questi casi non hanno niente a che vedere con l’individuazione della sede amministrativa dell’una e dell’altra società la cui collocazione non influisce minimamente sulla nozione codicistica. Si direbbe che è per questo motivo, d’altronde, che l’appellante si sofferma sull’esistenza di atti di mera gestione amministrativa compiuti presso la Beta al punto che, ad es., il solo dipendente della società in Olanda ha chiesto il preventivo assenso, o le direttive impartite dall’Italia prima di compiere operazioni di sua spettanza. Sembra cioè che l’ufficio voglia proprio dimostrare che la sua ricostruzione non riguarda il controllo o il collegamento societario, ma una circostanza forse più banale ma di maggior rilevo rispetto ai temi di causa: i servizi della gestione amministrativa sarebbero stati svolti in Italia e non in Olanda. Per verificare la fondatezza o meno di questa affermazione non è inutile osservare che gli avvisi di accertamento riguardano i quattro esercizi dal 1996 al 1999 e perciò un periodo di quattro anni, nel corso dei quali la gestione amministrativa della società olandese sarebbe stata effettuata in Italia. A sostegno di questa tesi l’ufficio porta una serie di documenti dei quali soltanto alcuni (ed anzi, assai pochi) riguardano propriamente le attività amministrative, mentre i più rilevanti riguardano attività di consulenza legale o tributaria, corrispondenza relativa alla circolare di azioni infragruppo. La conclusione è che la prova documentale circa l’esistenza della sede amministrativa in Italia è estremamente ridotta e costituita soltanto da sporadici documenti in varie date dai quali è assai arduo dedurre la continuità di una gestione amministrativa durata ben quattro anni. D’altronde le richieste del dipendente olandese rivolte alla Beta risultano riguardare il primo impianto della sua personale attività e sono perciò ben comprensibili anche in assenza di quella situazione di fatto che è presupposta dall’ufficio.


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A tali considerazioni ne va aggiunta un’altra di carattere generale. Gli stessi verbalizzanti, nel Pvc del [...] osservano (foglio n. 22) che il riferimento alla sede dell’attività amministrativa deve essere caratterizzato fra l’altro da «continuità, ossia deve derivare non da un singolo atto di gestione, ma da una pluralità di atti non occasionali». La “continuità” è connaturata alla stessa nozione di “sede”, che implica la stabilità del riferimento e perciò la percettibilità da parte di qualunque terzo della collocazione indicata quale centro di gestione e di elaborazione di tutto quanto attiene alla direzione della società e al dispiegamento della sua attività. Ciò posto, emerge chiaramente che gli sparsi riferimenti all’amministrazione della Alfa rilevata dalla verifica fiscale non sono assolutamente sufficienti per ingenerare il necessario convincimento circa tale continuità. Non sussistono dunque ragioni idonee per sostenere che la sede amministrativa della società olandese fosse in realtà collocata in Italia, presso la sede della società capogruppo. Se così è, non sì può affermare fondatamente che il domicilio fiscale della Alfa fosse in Y presso la Beta, risultando perciò inapplicabile l’art. 58, secondo comma, del D.P.R. n. 600/1973 che, come si è visto, consente di individuare il domicilio fiscale anche nel Comune in cui si trova la sede amministrativa della società. D’altronde il potere attribuito dall’art. 59 del D.P.R. n. 600/1973 all’amministrazione finanziaria di stabilire il domicilio fiscale del soggetto, diverso dalla persona fisica, nel Comune in cui è stabilita la sede amministrativa, a parte che presuppone che sia espletato un determinato procedimento di cui non vi è traccia nel caso di specie, non porta ad alcun utile risultato, perché il problema sta proprio nella possibile erroneità dell’individuazione della sede amministrativa della società olandese sul territorio nazionale e non già nei poteri dell’amministrazione. E allora non è nemmeno possibile fare applicazione dell’art. 60, lett. c, del D.P.R. n. 600/1973, in base al quale «la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario», proprio per il motivo che tale domicilio fiscale nel caso di specie non è individuabile secondo le regole di cui agli artt. 58 e 59 del D.P.R. cit. E a ben guardare non sono applicabili nemmeno le altre regole per l’esecuzione della notifica prescritte dall’art. 60, non esistendo propriamente un Comune nel quale “deve eseguirsi” la notificazione. Ferma restando l’inapplicabilità dell’art. 142

c.p.c., non fosse altro perché l’applicabilità è esclusa dall’art. 60, primo comma, lett. f, del D.P.R. n. 600/1973, occorre fare riferimento alle regole generali che riguardano la notificazione degli atti dell’amministrazione al contribuente. Il principio fondamentale è dettato dall’art. 6 dello Statuto del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212), secondo cui «l’amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati. A tal fine essa provvede comunque a comunicarli nel luogo di effettivo domicilio del contribuente, quale desumibile dalle informazioni in possesso della stessa amministrazione». In base a questa regola è evidente che gli avvisi di accertamento avrebbero dovuto essere notificati alla sede della società in Olanda, ben conosciuta dall’amministrazione, come risulta dalla stessa intestazione del processo verbale redatto dalla Guardia di Finanza. Tale regola, d’altronde, è completata da quella dell’art. 14 della legge 20 novembre 1982, n. 890, che stabilisce la notificazione degli avvisi al contribuente con l’impiego di plico sigillato a mezzo della posta. In sostanza, l’ufficio non ha eseguito l’unica operazione di notifica che comunque sarebbe stato ragionevole compiere, posto che l’individuazione del domicilio fiscale per il tramite della ritenuta collocazione della sede amministrativa della società in Italia non era un presupposto di fatto su cui non vi fosse controversia, ma era invece uno dei punti fondamentali della controversia per cui l’ufficio non poteva dare per scontato quanto era oggetto di verifica e, ovviamente, di contenzioso. D’altronde la notifica al consigliere delegato Caio non è efficace perché è provato per tabulas che egli non era il rappresentante legale della Alfa, il che esclude la possibilità dell’esecuzione della notifica ai sensi dell’art. 145 c.p.c. In conclusione la notifica degli avvisi di accertamento è da ritenersi invalida e più precisamente inficiata dal vizio di nullità. Non può invece parlarsi di inesistenza, perché le stesse ampie osservazioni dell’appellata riguardanti le relazioni e i collegamenti fra la medesima e la Beta, presso la quale sono avvenute le notifiche dimostra l’esistenza di quel collegamento che secondo la giurisprudenza della Suprema Corte è idoneo ad escludere che la notifica debba qualificarsi come inesistente. La distinzione è molto importante perché, come è logico, la categoria dell’inesistenza comporta l’inidoneità assoluta dell’atto a produrre qualsiasi effetto, mentre la categoria della nullità comporta l’ap-


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plicabilità dell’art. 160 c.p.c. e delle disposizioni ivi richiamate, contenute negli artt. 156 e 157 c.p.c. Con riguardo al presente processo ne segue che deve ritenersi che la notifica abbia raggiunto il suo scopo, perché la Alfa ha potuto proporre regolarmente nei termini i propri ricorsi, con efficacia sanante rispetto al vizio rilevato. 2. A questo punto si apre il problema dei limiti dell’efficacia sanante della proposizione dei ricorsi. In questa ottica, ci pare risolutivo il richiamo alla perspicua sentenza Cass., sez. un., 5 ottobre 2004, n. 19854 (compiuto anche dalle parti). Dopo aver provveduto alla qualificazione dell’avviso di accertamento quale atto amministrativo autoritativo col quale «l’amministrazione enuncia nei confronti del destinatario ciò che deve essere per lui di diritto nel caso concreto per quanto attiene all’imposizione fiscale, le ragioni e il contenuto della pretesa tributaria» superando la tesi che vede nell’avviso di accertamento «una mera provocatio ad opponendum» e perciò sia dotato di «natura preprocessuale», le sezioni unite affermano che la natura sostanziale dell’atto non costituisce ostacolo alla applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale e, in particolare, all’applicazione delle forme sulla notificazione e perciò del regime delle nullità (compresa la distinzione fra nullità e inesistenza) e del regime delle sanatorie, quale limite alla dichiarazione di nullità. Ciò premesso, le sezioni unite osservano che «il meccanismo della sanatoria deve essere combinato con quello, indefettibile, della decadenza dall’esercizio del potere, per cui la sanatoria può verificarsi solo se avvenuta prima del decorso del termine di decadenza». In conclusione, osservano ancora le sezioni unite riguardo all’accertamento tributario che «la nullità della sua notificazione può essere sanata relativamente al conseguimento della finalità dell’atto di portare a conoscenza del destinatario i termini della pretesa tributaria e consentirgli, così, un’adeguata difesa, ma non mai nel senso di attribuire ex tunc validità a un intempestivo atto di esercizio del potere di accertamento, salvo che il conseguimento dello scopo avvenga entro il termine previsto dalle singole leggi d’imposta per l’esercizio di tale potere». Però, nel caso di specie, il potere di accertamento è stato in parte esercitato mediante notifica dei relativi avvisi dopo la scadenza del periodo prescritto dalla legge. Considerando che non è applicabile la proroga biennale per l’esercizio del potere di accertamento di cui all’art. 10 della legge 27 dicembre 2002,

n. 289, in quanto riguardante soltanto «i contribuenti che non si avvalgono delle disposizioni» di cui alla stessa legge in materia di definizione delle obbligazioni tributarie su loro gravanti (perciò sul presupposto che non se ne siano avvalsi potendo farlo, a differenza della società olandese in questione), l’esercizio del potere di accertamento nel caso di specie è avvenuto dopo che l’ufficio era decaduto per i periodi di imposta 1996 e 1997, per i quali la decadenza è intervenuta rispettivamente al 31 dicembre 2002 e al 31 dicembre 2003. In conclusione, per gli anni in questione, la sanatoria della nullità della notifica degli avvisi di accertamento non può essere utile per restituire efficacia agli avvisi medesimi, costituendo essi esercizio di un potere da cui l’amministrazione era decaduta. Diversamente deve argomentarsi per l’esercizio 1998 e per l’esercizio 1999. [Omissis]. Tuttavia le considerazioni già svolte dimostrano che impropriamente l’ufficio ha presunto la esterovestizione della società, poiché non soltanto essa non ha sede legale in Italia ma l’oggetto della sua attività è istituzionalmente rivolto ad operazioni sull’estero, mentre, come abbiamo visto, non è stata raggiunta prova idonea circa il fatto che la sede amministrativa fosse in Italia nel quadriennio in considerazione e perciò anche nell’anno 1999. Ne segue che la pretesa fiscale che presuppone l’assoggettamento della società alla legislazione tributaria italiana è infondata ed è perciò tale da non consentire di porre alcuna obbligazione tributaria, fra quelle contemplate negli avvisi di accertamento, a carico della società medesima. 3. Ma anche se si volesse sollevare qualche dubbio circa la rilevanza degli elementi dai quali era stato dedotto che la sede amministrativa della società olandese sia in realtà in Italia, essendovi pur sempre un certo margine di opinabilità nella valutazione delle circostanze di fatto, appaiono rilevanti le seguenti ulteriori considerazioni. Come si è esposto, la Alfa è stata costituita nel 1984 ed ha sempre mantenuto sostanzialmente invariati i suoi rapporti con la controllata Beta. Nei venti anni trascorsi da allora alla data di redazione del Pvc di cui ci occupiamo, l’amministrazione finanziaria ha già avuto modo di esaminare i rapporti fra la capogruppo e la società olandese senza rilevare le violazioni tributarie che sono state ritenute in quel Pvc e anzi più o meno implicitamente riconoscendo la perfetta regolarità fiscale dei rapporti fra le due società, anche


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in relazione ai criteri e alle modalità di gestione della società olandese. In questa ottica non si può non richiamare la sentenza della Commissione tributaria provinciale, sez. XVIII, in data 14 ottobre/25 novembre 2006, n. 93, che ha accolto il ricorso proposto dalla Beta contro l’avviso di accertamento ai fini Irpeg per l’anno 2000 con cui era stato determinato un maggiore imponibile dovuto al recupero a tassazione del residuo 95% dei dividendi assegnati dalla Alfa. Tali dividendi erano stati assoggettati a tassazione soltanto nei limiti del 5% sul presupposto della loro provenienza dalla società interamente partecipata non residente in Italia. Proprio per questo motivo la Commissione tributaria provinciale si era trovata ad affrontare gli stessi problemi qui in esame, riguardanti la pretesa di esterovestizione della Alfa sulla base degli stessi elementi di fatto rilevati dalla Guardia di Finanza nei confronti di quest’ultima. Orbene, la sentenza afferma che i fatti fondamentali posti a base della ripresa fiscale non sono nuovi, erano anzi già a conoscenza dell’amministrazione finanziaria o comunque conoscibili con l’ordinaria diligenza. È infatti provata l’esistenza di verifiche precedenti a carico della Beta avvenute nel 1991-1992 e nel 2002: nel corso di tali verifiche fu già preso in considerazione il rapporto fra la società italiana e la controllata olandese. In particolare interessa che nel processo verbale del 2002 è dichiarato che erano stati reperiti presso la capogruppo italiana importanti elementi di collegamento con quella olandese elencati nella sentenza, la quale ricorda ancora che «anche al momento dell’accertamento con adesione (relativo all’anno 2002) (23 dicembre 2002) fu dunque eseguito “un approfondito esame dei rapporti fra la società verificata Beta e le società controllate in Europa”» (le parole tra virgolette sono direttamente trascritte dal verbale). Né può considerarsi fatto nuovo la verifica che nella composizione del consiglio di amministrazione la larga maggioranza fosse costituita da soggetti residenti in Italia. Infatti la circostanza, anche se non fosse stata conosciuta, sarebbe stata facilmente conoscibile, bastando un controllo camerale (da ritenere anzi doveroso nell’ambito di una verifica complessa come quelle effettuate). Non può dunque dirsi che la verifica del 2004 sia fondata sulla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, in contrasto con la precisa prescrizione dell’art. 43, ultimo comma, del D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 57, ultimo comma, del D.P.R. n. 633/1972. A tutto concedere, può ammettersi che la nuova verifica consista in una più approfondita valuta-

zione del materiale probatorio, ma ciò non è sufficiente per consentire il legittimo esercizio del rinnovato potere di accertamento. È ben vero che la precedente attività dell’amministrazione finanziaria non è stata rivolta direttamente alla società olandese, ma ciò non significa che per questa via sia ammissibile utilizzare elementi di valutazione cui manca il requisito della novità, considerando l’oggettiva e concreta possibilità di apprezzamento da parte dell’amministrazione anche nei confronti della Alfa. Va ricordato che gli anteriori accertamenti hanno preso in esame il rapporto fra la capogruppo e la società olandese, nonché le relative modalità di gestione, senza pervenire alla verifica di un illecito che se fosse stato commesso avrebbe necessariamente riguardato entrambe. Dunque se quell’illecito non sussisteva rispetto alla società italiana, non poteva sussistere nemmeno rispetto a quella olandese, con la conseguenza che l’assenza di novità nei fatti posti a base del nuovo accertamento rileva, nello stesso modo, per la società italiana e per la società olandese. Non è peraltro da trascurare l’osservazione compiuta dall’ufficio, secondo cui sia la disposizione dell’art. 43 cit. sia quella dell’art. 57 attengono a casi cui sia stato notificato ad un contribuente l’avviso di accertamento, con la conseguenza che il potere di integrazione o modifica in aumento sia da collegarsi proprio e soltanto a quell’avviso. Questa interpretazione risulta fondata, se ci si ferma alla lettera della norma, ma va considerato che la norma ha la finalità di delimitare temporalmente l’esercizio del potere di accertamento, nel senso che i “nuovi elementi” di cui l’ufficio sia venuto a conoscenza rilevano fino alla scadenza del termine stabilito per l’accertamento medesimo, dovendosi dedurre che, successivamente, il potere si esaurisce rispetto alla fattispecie in esame, anche se emergano nuovi elementi che possano essere il presupposto della integrazione o modifica in aumento. Il potere di accertamento ha per oggetto situazioni giuridicamente rilevanti che possono costituire in concreto il fatto generatore dell’obbligazione tributaria. Se l’obbligazione tributaria a carico di un soggetto è inscindibilmente collegata a quella di un altro soggetto, nel senso che se sussiste l’una sussiste anche l’altra e, viceversa, se non sussiste l’una, non sussiste nemmeno l’altra, se inoltre l’accertamento dell’ufficio si era già esteso o poteva obbiettivamente estendersi, alla verifica di quel fatto generatore, non vi è motivo di considerare persistente il potere di accertamento nei confronti del solo soggetto che non aveva ricevuto la notifica dell’avviso. Il proble-


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ma dunque non va risolto semplicemente alla luce dell’interpretazione letterale della norma, ma procedendo alla valutazione dei contenuti specifici con cui si è espresso o poteva esprimersi il potere di accertamento, in ordine alla emersione di obbligazione tributaria a carico di un soggetto che non aveva ricevuto la notifica dell’avviso. È inoltre da accogliere l’osservazione della società appellata secondo la quale nella fattispecie è violata anche la regola generale dell’art. 10, legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), in base al quale «i rapporti fra contribuente è amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede». Non bisogna dimenticare che si è in presenza di una società costituita nel 1984 che, nel tempo, ha mantenuto invariato il suo rapporto con la capogruppo. Non è perciò ragionevole che soltanto dopo vent’anni dalla sua costituzione l’amministrazione finanziaria censuri le modalità organizzative della società allo scopo di trarne pesanti conseguenze sul piano fiscale e incidendo su una struttura ormai da ritenere ben nota. È dunque da condividere l’osservazione della contribuente secondo cui l’accertamento è lesivo del legittimo affidamento che poteva farsi in ordine alla circostanza che quella struttura non desse luogo ad illeciti tributari. 4. Ad avviso di questa Commissione tributaria regionale, l’argomento risolutivo attiene ad una circostanza da ritenere pacifica: la Alfa è società residente in Olanda e tale deve essere considerata in base al generale principio dell’incorporazione per cui la società è soggetta all’ordinamento giuridico dello Stato in cui è costituita. In perfetta aderenza a questa regola è pacifico che la Alfa abbia sempre presentato le proprie dichiarazioni fiscali in Olanda in quanto società ivi residente. È superfluo ricordare che lo stabilimento all’interno di uno Stato appartenente a pieno titolo all’Unione europea non può essere in alcun modo equiparato allo stabilimento in altri Stati al di fuori dell’Unione europea, non fosse altro perché lo Stato italiano è soggetto alle norme del Trattato istitutivo, da ritenersi assolutamente vincolanti. In questa prospettiva, come rileva esattamente la società appellata, entra in gioco la libertà di stabilimento che riguarda anche le società (art. 48 del Trattato istitutivo), nel senso che «le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della Comunità, sono equiparate, ai fi-

ni dell’applicazione delle disposizioni del presente capo, alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri». Ciò significa, naturalmente, che la società costituita conformemente alla legislazione olandese è ad ogni effetto appartenente all’Unione europea e come tale dotata del diritto di stabilimento, anche nel senso che non possa e non debba subire restrizioni o limitazioni alla propria scelta di collocare la sua sede all’interno dell’uno o dell’altro Stato dell’Unione europea. Non vi può dunque essere una regola di uno Stato a limitare quel diritto di stabilimento anche se soltanto sub specie di istituzione di norme tese a rendere inoperante la legislazione in materia di un altro Stato appartenente all’Unione europea, salvo che sussistano ragioni imperative di carattere generale il cui conseguimento sia possibile soltanto tramite quella limitazione, sempre che non sia eccessiva per raggiungere lo scopo della norma limitativa (v. Corte di Giustizia UE, 13 dicembre 2005, n. 446/03). Naturalmente ciò non significa che debba ritenersi incompatibile col Trattato istitutivo la disposizione dell’art. 25 della legge n. 218/1995 che si riferisce anche alla sede dell’amministrazione o all’oggetto principale dell’attività ai fini dell’applicazione della legge italiana alle società residenti in altro Stato. Tale disposizione, traslata al fini delle imposte sui redditi nell’art. 73, comma 3, del T.U.I.R. (ex art. 87) si applica sempre e comunque quando la residenza all’estero sia dovuta unicamente a finalità di evasione o di elusione fiscale, la cui sussistenza nel caso concreto è da escludere, dal momento che la Alfa fa parte di una ben consolidata struttura societaria nella quale adempie, chiaramente, la sua funzione nel rapporto fra la capogruppo e le consociate estere come più volte è stato illustrato nel corso del presente giudizio. In definitiva, a ben guardare, nemmeno l’ufficio sostiene che l’esistenza della società olandese sia dovuta alla volontà di violare o di eludere l’ordinamento tributario italiano, non attribuendo (e non potendo obbiettivamente attribuire), questa finalità alla ritenuta collocazione in Italia della sede amministrativa della Alfa (salvo che nella memoria illustrativa, depositata in data 3 giugno 2007, nell’ambito di un’interpretazione della giurisprudenza comunitaria che non risulta realmente aderente alla situazione di fatto di cui al presente giudizio). Anche sotto questo profilo, dunque, la pretesa dell’ufficio risulta infondata. [Omissis]


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I - IV Nota di Roberto Cordeiro Guerra Oggetto del contendere, nelle controversie risolte dalle decisioni in rassegna, è l’esistenza di elementi probatori sufficienti a localizzare in Italia la sede dell’amministrazione di società costituite all’estero. A monte della valutazione degli elementi indiziari emergono complesse e rilevanti questioni ermeneutiche, riferite sia al diritto interno che a quello convenzionale e comunitario; problematiche che solo nella decisione del Collegio fiorentino di secondo grado sono scrupolosamente individuate e adeguatamente motivate. Emerge poi un ulteriore profilo applicativo di indubbio interesse concernente la ritualità e validità delle notifiche. Le questioni rilevanti ai fini del decidere: il luogo della notifica; gli elementi caratteristici della cosiddetta “esterovestizione”; la sede dell’amministrazione Le decisioni in rassegna rivestono un interesse vivo e attuale poiché affrontano per la prima volta1 in modo diffuso questioni strettamente connesse alla contestazione della residenza italiana a società aventi sede legale all’estero2, e più precisamente nell’ambito della Comunità europea. In dettaglio, a seguito dell’impugnazione di accertamenti che hanno localizzato in Italia la sede dell’amministrazione di compagini straniere (olandesi, tedesche, ecc.), controllate da una capogruppo italiana3, sono state sottoposte al giudice tributario problematiche peculiari, sia in tema di interpretazione delle disposizioni rilevanti (di fonte interna, comunitaria e convenzionale) che con riferimento alla valutazione delle prove addotte a sostegno della pretesa erariale. Le questioni comuni di più spiccato interesse investono: a) la notifica, e segnatamente l’individuazione del

1 In passato, il tema della residenza fiscale delle società è stato affrontato da Comm. trib. centr., sez.VII, 10 ottobre 1996, n. 4992, in Riv. Dir. Trib, 1998, III, 164 ss., con nota di MANZITTI, Considerazioni in tema di residenza fiscale delle società e in Dir.e prat. trib., 1999, II, 87 ss., con nota di ARAGNO, Brevi note in tema di residenza fiscale e stabile organizzazione di società estera di navigazione. 2 Sul dibattito suscitato dai casi di esterovestizione cfr. LUPI-COVINO, Sede dell’amministrazione, oggetto principale

luogo presso il quale essa deve essere effettuata nel caso di società con sede legale all’estero alla quale viene tuttavia attribuita dall’ufficio residenza fiscale in Italia; b) il concetto di “esterovestizione”, sovente richiamato quale nucleo portante della contestazione; c) la nozione di sede dell’amministrazione e la valutazione degli elementi probatori suscettibili di dimostrare la prevalenza della residenza ai fini convenzionali, alla stregua del composito panorama normativo rilevante. Le problematiche concernenti la notifica È significativo che tutte le pronunce analizzate abbiano dovuto affrontare eccezioni relative alla nullità e/o inesistenza delle notifiche degli avvisi di accertamento impugnati. Il problema, in sintesi, si pone alla stregua del quadro normativo di riferimento vigente in materia, secondo il quale: a) «gli enti diversi dalle persone fisiche hanno il domicilio fiscale nel Comune in cui si trova la loro sede legale o, in mancanza, la sede amministrativa; se anche questa manchi, essi hanno il domicilio fiscale nel Comune ove è stabilita una sede secondaria o una stabile organizzazione e in mancanza nel Comune in cui esercitano prevalentemente la loro attività» (art. 60, lett. c, D.P.R. n 600/1973); b) «la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario» (art. 60, cit.). Muovendo da questo dato positivo, i giudici seguono per lo più un’impostazione comune, consistente nell’affrontare il merito della causa (fondatezza delle prove addotte onde dimostrare la residenza italiana delle società negli anni investiti da accertamento) al fine di risolvere le questioni preliminari sollevate in ordine alla validità della notifica degli atti impugnati. Senza entrare nel dettaglio delle problematiche affrontate con riguardo alla peculiarità di ciascu-

e residenza fiscale delle società, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 927 ss.; MELIS, La residenza fiscale delle società nell’Ires, in Corr. Trib., 2008, 3495 ss.; STEVANATO, Oggetto principale ed interposizione ai fini della residenza fiscale delle società “esterovestite”, in Dialoghi Dir. Trib., 2007, 1551 ss.; Id., Holdings statiche e accertamento della residenza fiscale italiana dell’ente estero, in Corr. Trib., 2008, 965 ss.; MARINO-MARZANO, La residenza delle società e controllo tra schemi Ocse ed episodi giurisprudenziali interni, in Dialoghi Dir. Trib., 2008, 91

ss.; LUPI, Globalizzazione, delocalizzazione, esterovestizione, ibidem, 100 ss. 3 Da ciò, ovviamente, la pretesa di sottoporre ad Ires i redditi ovunque prodotti (cd. tassazione world-wide). Di più, il caso esaminato dai giudici fiorentini sembra riguardare anche la pretesa di assoggettare ad Iva le medesime società; quest’ultimo profilo, tuttavia, sarebbe da approfondire in ragione della diversa e autonoma disciplina recata da tale tributo in ordine alla territorialità delle operazioni effettuate.


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na notifica, ci pare che siffatto percorso sollevi più di una perplessità, come intuito dalla più meditata sentenza della Commissione tributaria regionale toscana, la quale per l’appunto si segnala per il tentativo di smarcarsi da questa sorta di “inversione” dell’ordine di rilevanza delle questioni processuali. Da valorizzare, segnatamente, l’affermazione del Collegio fiorentino secondo la quale «l’ufficio non ha eseguito l’unica operazione di notifica che comunque sarebbe stato ragionevole compiere, posto che l’individuazione del domicilio fiscale per il tramite della ritenuta collocazione della sede amministrativa della società in Italia non era presupposto di fatto su cui non vi fosse controversia, ma era invece uno dei punti fondamentali della controversia, per cui l’ufficio non poteva dare per scontato quanto era oggetto di verifica e, ovviamente, di contenzioso». In altre parole, se la sede dell’amministrazione è sub iudice, ed è invece pacifica la sede legale della società, l’unico modo per garantire che la notifica persegua il suo scopo tipico – portare a conoscenza del destinatario l’atto – è quello di ivi recapitarlo, anche a mezzo posta. Il ragionamento, condivisibile, può essere ulteriormente specificato e supportato. Nell’individuare il luogo presso il quale notificare l’avviso di accertamento, deve necessariamente farsi riferimento all’esistenza di un domicilio attuale, esistente al momento nel quale la notifica viene eseguita, senza che possa assumere rilievo la localizzazione del domicilio medesimo all’epoca (precedente) dei fatti contestati. In tal senso militano la lettera della legge («gli enti diversi dalle persone fisiche hanno il domicilio fiscale nel Comune in cui si trova la loro sede legale o, in mancanza, la sede amministrativa») e la necessità di un’interpretazione conforme alla funzione dell’istituto e ai principi che ne governano la disciplina. La notificazione, quale mezzo di produzione e diffusione di conoscenza4, per raggiungere il suo scopo tipico deve essere indirizzata in un luogo che, in ragione del legame presente col destinatario, faccia ragionevolmente ritenere che l’atto ivi depositato entrerà nella sfera di conoscenza di quest’ultimo5 Se, al momento della notifica, nes-

4 Codice civile commentato, a cura di Consolo, Milano, 2007, 1, 1193. 5 V. in tal senso Cass. civ., sez. I, 21 gennaio 2000, n. 662. Del resto, è pacifico l’onere del notificante (Cass., 19

suno degli elementi indicati dall’art. 60 è localizzabile nel territorio dello Stato, non può certo immaginarsi una perpetuatio di residenza (semel residente, semper residente), in virtù della quale divenga legittimo effettuare la notifica medesima laddove il destinatario ha avuto in passato un domicilio (l’esistenza del quale, per di più, è oggetto del contendere). E allora, onde evitare una sorta di corto circuito nell’applicazione di un sottoinsieme di disposizioni (quelle sulla notifica degli atti tributari) che appartengono al più vasto insieme della disciplina in tema di notifica, sarà giocoforza, come suggerito dal Collegio fiorentino, perseguire una soluzione (notifica presso la sede legale conosciuta all’estero, anche a mezzo posta) ispirata per l’appunto alle regole generali in materia. Una diversa ricostruzione ermeneutica (notifica presso il domicilio contestato anche in difetto della sua attualità), esporrebbe la normativa a fondate censure di violazione dei principi costituzionali (artt. 3 e 24 Cost.). Già la Corte costituzionale, con la recente sentenza n. 366 del 7 novembre 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 58, commi 1 e 2, secondo periodo, e 60, comma 1, lettere c, e ed f, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’art. 26, ultimo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 «nella parte in cui prevede, nel caso di notificazione a soggetto avente all’estero una residenza conoscibile dall’amministrazione finanziaria, che le disposizioni contenute nell’art. 142 del Codice di procedura civile non si applicano». L’’illegittimità delle disposizioni in questione è stata motivata in base alla considerazione che «l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 142 del Codice di procedura civile si pone in contrasto con gli artt. 24 e 3 della Costituzione, perché pregiudica l’esercizio del diritto di difesa del destinatario della notificazione, non assicurandogli l’effettiva conoscenza dell’atto e determinando un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti residenti all’estero, per i quali la disciplina vigente non garantisce l’effettiva conoscenza degli atti tributari, e gli altri destinatari di notificazioni di tali atti, per i quali invece detta conoscenza è garantita»6.

novembre 2003, n. 17519; Cass., 9 giugno 1988, n. 3910; App. Roma, 31 gennaio 2006) di «provare che il luogo ove si è provveduto alla notificazione coincide con la sede effettiva».

6 In particolare, nel dichiarare la contrarietà a costituzione delle norme citate, la Corte ha disatteso l’impostazione della difesa dello Stato, secondo la quale l’amministrazione finanziaria


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Insomma, la Consulta ha statuito il principio secondo il quale – pena la violazione del diritto di difesa e del diritto di uguale trattamento tra cittadini e stranieri – ciascuno deve ricevere la notificazione degli atti (ivi compresi quelli tributari), presso la propria residenza o sede, indipendentemente dal fatto che questa si trovi fuori del territorio italiano. Considerate le ragioni che hanno portato alla declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme citate (consistenti nella scelta di preferire l’interesse del contribuente alla conoscenza effettiva dell’atto a quello dell’amministrazione, ogni qual volta l’amministrazione medesima sia in grado di ricercare e procurarsi l’indirizzo del soggetto passivo), deve sottolinearsi come tali esigenze di tutela del contribuente siano del pari ravvisabili nei casi oggetto di esame da parte delle decisioni commentate. Non solo. Se la sede legale della società destinataria della notifica è posta in uno Stato membro della Comunità, risulterebbero altresì violate le disposizioni comunitarie che vietano la discriminazione in base alla nazionalità (articolo 12 Trattato CE)7. In breve, una disposizione la quale preveda che le notificazioni ai soggetti residenti siano fatte presso la propria sede legale, mentre le notificazioni ai soggetti non residenti siano effettuate in ogni caso nel territorio italiano e dunque per definizione in luogo diverso dalla sede legale, finirebbe per comportare una palese discriminazione; ponendo a carico dei soggetti non residenti oneri diversi e maggiori di quelli che gravano sui soggetti residenti per quanto riguarda la conoscenza

non sarebbe tenuta ad effettuare ricerche quanto il contribuente ad attivarsi affinché sia sempre “reperibile” per l’inoltro di eventuali comunicazioni, ritenendo inconsistente e inapprezzabile il sacrificio posto a carico dell’amministrazione finanziaria, rappresentato dalla ricerca dell’indirizzo all’estero del contribuente e dell’espletamento delle formalità notificatorie di cui all’art. 142 del Codice di procedura civile, in rapporto alla ragionevole certezza che la modalità di notifica sia rispettosa delle prerogative assicurate costituzionalmente al contribuente. 7 Sulla questione cfr. DORIGO, La notifica degli atti tributari all’estero nella prospettiva comunitaria dopo la sentenza n. 366/07 della Corte costituzionale, in Riv. Dir. Internaz., 2008, 459 ss. 8 Il nostro Stato ha ricevuto proprio in

degli atti di rilevanza fiscale eventualmente loro notificati8. Il concetto di “esterovestizione” In alcune delle sentenze esaminate si nota un tentativo di tratteggiare la figura della cosiddetta “esterovestizione”, al fine di verificare se nel caso sottoposto a giudizio siano ravvisabili i connotati tipici del fenomeno. In verità, avuto riguardo al diritto positivo, la questione potrebbe porsi come semplice verifica dell’esistenza dei presupposti di fatto (alternativamente, sede legale, sede dell’amministrazione, oggetto principale) necessari per integrare la fattispecie della residenza fiscale in Italia, con tutte le conseguenze che ne scaturiscono in caso di risposta positiva. Il tentativo operato dai giudici di merito, tuttavia, è quello enucleare, in sede di applicazione della disciplina sulla residenza, quei comportamenti che di essa rappresenterebbero un sostanziale aggiramento, consistente nel fare figurare come fiscalmente residenti fuori dai confini domestici società che di estero hanno soltanto la veste formale (di regola, una sede legale priva di qualsiasi effettività). In buona sostanza, il concetto di “esterovestizione” farebbe dunque riferimento alla situazione nella quale la collocazione all’estero di una società risulta essere una costruzione di puro artificio, avente l’unico scopo di riferire fittiziamente all’ente straniero attività in realtà condotte nel territorio dello Stato italiano, con l’obiettivo di ottenere un vantaggio fiscale9. In questo contesto, elementi tipici della figura so-

relazione alla problematica che ci occupa una lettera di costituzione in mora della Commissione europea (il fascicolo della Commissione relativo a questo procedimento reca il numero di riferimento 2005/5115) per l’infrazione delle norme comunitarie richiamate. E seppure è vero che tale procedura è stata poi chiusa in data 9 gennaio 2007, le motivazioni che hanno spinto la Comunità a desistere dal procedimento d’infrazione confermano le perplessità sopra sollevate. La motivazione, riportata è infatti – testualmente – la seguente: «con le ultime modifiche apportate all’articolo 60, comma 1, del D.P.R. 600/1973 in vigore dall’agosto 2006, l’Italia ha modificato la procedura applicabile alla notifica di atti fiscali a persone non residenti. Ai sensi delle nuove disposizioni le autorità fiscali locali no-

tificheranno gli atti fiscali alle persone non residenti al loro indirizzo legale all’estero». Ora, le norme italiane vigenti non impongono affatto che tali atti siano notificati all’estero, trattandosi di una facoltà e non di un obbligo dell’amministrazione, sicché pare frutto di un evidente equivoco la motivazione che ha portato a chiudere il procedimento d’infrazione contro l’Italia. 9 L’amministrazione finanziaria, nel commentare le recenti norme recanti una presunzione di residenza in Italia di società istituite in un altro Stato (L. n. 223 del 4 luglio 2006), ha affermato che le cosiddette “esterovestizioni” consistono «nella localizzazione della residenza fiscale delle società in Stati esteri al prevalente scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali previsti dall’ordinamento di appar-


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no l’esistenza di un vantaggio fiscale (scaturente dal regime impositivo di favore, rispetto a quello interno, applicabile nel Paese prescelto); il sostanziale svolgimento in Italia del business, risultando perciò privo di motivazioni economiche apprezzabili l’insediamento in altro Stato e, infine, il carattere figurativo della presenza della società nello Stato estero di incorporazione, non svolgendovi essa alcuna attività e mantenendovi perciò una struttura di pura facciata. Ora, è senz’altro apprezzabile che, ai fini del decidere, si cerchi di comprendere se esistono elementi e circostanze tali da rendere credibile l’assunto di una residenza fiscale estera solo fittizia; è tuttavia forte il rischio, come emerge ad esempio da alcuni passi della decisione della Commissione provinciale di Belluno, che in nome di un sorta di autarchica prevalenza di tale concetto non si tengano nel dovuto conto le disposizioni convenzionali e comunitarie rilevanti in proposito. Così, ad esempio, affermare che «il fenomeno dell’esterovestizione consente di accentrare in soggetti giuridici residenti in Paesi a bassa tassazione o con esenzione di determinati cespiti reddituali, le partecipazioni nelle sussidiarie esistenti in Italia o all’estero, in modo tale da garantire un controllo sugli indirizzi gestionali delle imprese situate all’estero, senza che i risultati economici di detta attività si riflettano direttamente sulla casa madre»10, rischia di trasformare qualsiasi sub-holding controllata dall’Italia in una società esterovestita. Il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento è assai più articolato e complesso, e tale da non consentire affermazioni o definizioni così categoriche. In primo luogo, è essenziale avere presente che, come inequivocabilmente affermato dalla Corte

tenenza», onde la reazione dell’ordinamento mira a valorizzare «gli aspetti certi, concreti e sostanziali della fattispecie, in luogo di quelli formali, in conformità al principio della substance over form utilizzato in campo internazionale» (circ. n. 28/E del 4 agosto 2006, par. 8). 10 Così, testualmente, si legge in un passaggio della motivazione della decisione della Commissione tributaria provinciale di Belluno. 11 CGCE, causa C-196/04 Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, 12 dicembre 2006, in Racc., I-11673, punto 37: «Quanto alla libertà di stabilimento, la Corte ha

di Giustizia, il vantaggio fiscale derivante dalla scelta di collocare una società controllata in altro Stato membro è del tutto lecito, anche se costituente l’unico motivo a supporto di detta opzione11. Quanto poi all’attività tipica delle holding, è vero che essa non richiede di per se stessa cospicue strutture amministrative e organizzative: ciò non significa, tuttavia, che tali compagini possano senz’altro essere qualificate come costruzioni di puro artificio, quanto piuttosto che caso per caso andrà concretamente verificato se la loro attività tipica sia svolta o meno in un contesto di effettivo stabilimento nello Stato ospitante12. Infine, ipotizzare che il luogo presso cui si assumono le decisioni gestionali e operative delle imprese situate all’estero sia sempre quello di residenza dell’azionista, significa di nuovo semplificare eccessivamente, confondendo il potere di comando e coordinamento del gruppo da parte dell’azionista con l’amministrazione delle singole società. In realtà, proprio la diversità delle vicende oggetto di giudizio da parte di ciascuna decisione suggerisce la necessità di una vigile attenzione al contesto nel quale viene configurata l’esterovestizione e agli elementi invocati per dimostrarla. Parafrasando la Corte di Giustizia, il fenomeno dovrebbe essere ravvisato solo allorquando si è di fronte ad un costruzione di puro artificio, finalizzata ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale. Talvolta, tuttavia, si ha la sensazione che abbia fatto aggio sulla ricostruzione del dato normativo la convinzione di essere di fronte a società fantasma13, che tali resterebbero quale che sia l’esegesi delle disposizioni di riferimento. In questa chiave, si può arrivare a comprendere, pur non

già dichiarato che la circostanza che una società estera sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà». Per un commento a tale decisione cfr. BEGHIN, La sentenza CadburySchweppes e il “malleabile” principio della libertà di stabilimento, in Rass. Trib., 2007, 983 ss.; DELLA VALLE, Tassazione deglli utili della società controllata e rispetto del diritto di stabilimento, in Corr. Trib., 2006, 3347 ss.; LUPI, Illegittimità delle regole Cfc se rivolte a Paesi comunitari: punti fermi e sollecitazioni sulla sentenza Schweppes, in Dialoghi Dir. Trib., 1589 ss. 12 Manifesta dubbi circa l’automatica

applicabilità alle holding dei normali criteri di determinazione della residenza delle società operative anche la Commissione europea nella comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo e al Comitato economico e sociale europeo del 10 dicembre 2007 (doc. COM-2007-785 definitivo). 13 Atteggiamento che traspare ad evidenza, ad esempio, nella decisione n. 178 della Commissione tributaria provinciale di Firenze, la quale a dir poco assertivamente conclude nel senso che la sede di direzione effettiva va individuata nel luogo ove si trova la sede amministrativa.


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approvandola, la sommarietà con la quale alcuni passaggi delle decisioni di primo grado approcciano il significato da attribuire a nozioni da sempre discusse nell’ambito del diritto tributario internazionale (sede dell’amministrazione; sede di direzione effettiva, natura del rapporto controllata-controllante). Il discorso cambia però radicalmente laddove il contesto fattuale (ad es.: subholding operante nell’ambito di un gruppo con partecipazioni localizzate non solo in Italia, ma in numerosi altri Paesi) sia tale da non permettere tout court semplificazioni o scorciatoie argomentative. Supponiamo, ad esempio, che ai fini del decidere sia necessario giudicare se una holding sia effettivamente insediata nello Stato membro ove è stata incorporata e se ivi svolga un’attività economica effettiva; o ancora che occorra discernere se la capogruppo italiana svolga rispetto alla subholding estera funzioni di direzione e controllo, le quali inevitabilmente ne riducono il grado di autonomia decisionale, o piuttosto funzioni di amministrazione diretta e attiva: ebbene , in tali situazioni, la valutazione degli indizi di “esterovestizione” dovrà essere inevitabilmente preceduta da un esatto e scrupoloso inquadramento giuridico dei fenomeni in discussione, in tutte le loro poliedriche sfaccettature. Se la ricostruzione delle premesse giuridiche è carente o confusa, le successive conclusioni finiranno per apparire categoriche e sommarie e come tali non suscettibili di fondare indirizzi giurisprudenziali autorevoli e stabili. La disciplina interna e convenzionale in tema di residenza e la valutazione degli elementi probatori suscettibili di dimostrarne l’esistenza Nel merito, ciascuna decisione si confronta con il problema del valore probatorio da attribuire a determinati indizi (documenti, corrispondenza, ecc.) dai quali desumere la residenza fiscale in Italia delle società destinatarie degli accertamenti. Fatta eccezione per la pronuncia della Commissione tributaria regionale, l’impressione che si trae dalla motivazione delle altre sentenze è quella di un’attenzione scarsa all’esegesi delle disposizioni di riferimento, come noto scaturenti da fonti diverse (interne, convenzionali, comunitarie). Proprio avuto riguardo al composito quadro normativo rilevante, sarebbe semplicistico intendere

14 In dettaglio, l’art. 4 della Convenzione modello Ocse stabilisce, al comma 1, che «Ai fini della presente Convenzione l’espressione “residen-

la residenza alla stregua di una mera circostanza, come tale suscettibile, alla pari di qualsiasi altro fatto semplice, di agevole prova in via presuntiva. Al contrario, la valenza indiziaria di ciascun elemento probatorio deve essere soppesata avendo sempre presente la fattispecie normativa di residenza fiscale, alla cui integrazione concorrono una pluralità di nozioni positive, ciascuna da mettere attentamente a fuoco. In altre parole, prima è opportuno chiarirsi le idee sulle definizioni legislative rilevanti; poi verificare se i fatti di cui è causa integrano la fattispecie normativa. Viene allora in considerazione, in primo luogo, l’art. 73, terzo comma, del T.U.I.R., alla stregua del quale si considerano residenti le società e gli altri enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. Se la società estera alla quale viene contestata la residenza (anche) italiana è localizzata in un Paese con il quale esiste una Convenzione contro le doppie imposizioni, sovvengono poi le disposizioni dettate al riguardo dalla Convenzione applicabile. In dettaglio, l’art. 4 del modello Ocse14 stabilisce che la residenza di un soggetto deve essere determinata secondo le regole interne di ciascuno dei due ordinamenti. Ove l’applicazione di dette disposizioni conduca all’attribuzione di una doppia residenza, entrano in gioco le cosiddette tie-break rules, ossia criteri volti a stabilire in quale dei due Paesi debba essere considerata residente la società interessata. Segnatamente, ex art. 4, comma 3, del modello «quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è residente in entrambi gli Stati, si ritiene che essa è residente nello Stato in cui si trova la sede della sua direzione effettiva». Infine, giova ricordare che l’Italia, nell’approvare il modello di Convenzione Ocse, ha espresso una riserva all’art. 4, così testualmente formulata: «L’Italia non condivide l’interpretazione espressa nel paragrafo 24 che precede riguardante la persona o il gruppo di persone che esercitano le funzioni di rango più elevato (a titolo esemplificativo un consiglio di amministrazione) quale esclusivo criterio per identificare la sede di direzione effettiva di un ente. La sua opinione è che nel deter-

te di uno degli Stati” designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato, a mo-

tivo del suo domicilio, residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga [...]».


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minare la sede di direzione effettiva deve essere preso in considerazione il luogo ove l’attività principale e sostanziale è esercitata». Alla stregua di tali disposizioni, si capisce quanto complesso e articolato sia il panorama probatorio da assemblare per provare la “prevalente” residenza domestica di una società con sede legale all’estero. In prima battuta, occorre dimostrare che essa ha in Italia la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale. Più precisamente, siccome l’art. 73 del T.U.I.R. stabilisce che detti requisiti devono sussistere per «la maggior parte del periodo d’imposta», detta prova dovrà essere articolata in modo autonomo – e, quindi, distintamente – per ciascun periodo d’imposta preso in considerazione e avendo cura di dimostrare che le circostanze addotte coprono, all’interno di ogni annualità, un arco temporale superiore alla metà del periodo. Una volta raggiunta tale evidenza, necessita altresì, alla stregua dell’art. 4, paragrafo 3, della Convenzione modello Ocse, dimostrare che, in base alle tie break rules, essa (residenza fiscale italiana) “prevale” su quella estera ed è, dunque, l’unica rilevante ai sensi della Convenzione. In dettaglio, ciò dovrà passare attraverso l’individuazione delle più rilevanti decisioni strategiche e commerciali deliberate dalla società e la prova della loro assunzione in un luogo sito nel territorio dello Stato. Infine, quantomeno secondo l’interpretazione dell’art. 4 accolta dall’Italia ed esplicitata in apposita riserva apposta al commentario, nel determinare la sede di direzione effettiva dovrà essere preso in considerazione il luogo ove l’attività principale e sostanziale è esercitata. Orbene, rispetto al quadro delineato, alcuni passaggi delle decisioni in analisi suscitano più di una perplessità. Ad esempio, talvolta in modo esplicito, talvolta in modo implicito, emerge una sostanziale assimilazione tra la nozione domestica di sede dell’amministrazione e quella convenzionale di sede di direzione effettiva; e proprio sulla base di questa equiparazione assistiamo alla valorizzazione di alcuni indizi come idonei a dimostrare, al tempo stesso, la circostanza che in Italia si trova la sede dell’amministrazione e quella che qui, del pari, è localizzata la sede di direzione effettiva. L’assimilazione non convince. L’espressione sede dell’amministrazione (per la maggior parte del periodo d’imposta) deve essere intesa, anche in conformità al dato letterale (sede), come il luogo nel quale è ordinariamente condotta l’attività dell’impresa e dove, dunque, giorno dopo giorno, la stessa è gestita in modo continuativo, nonché ma-

nifesto ai terzi che con l’impresa stessa vengono in contatto. In tale luogo, peraltro, possono anche essere prese – ma non solo – le decisioni strategiche relative alla conduzione dell’impresa. Che questo sia il significato da attribuire alla nozione di sede dell’amministrazione è desumibile anche dalla funzione svolta da tale elemento di collegamento: esso vale, infatti, e al pari della sede legale e dell’oggetto principale, ad integrare il più intenso grado di connessione con l’ordinamento, ossia la residenza. Ebbene, stabilità ed ostensibilità sono requisiti necessari della sede dell’amministrazione proprio perché essa possa identificare, nell’ottica alla quale guarda il diritto tributario, un indice pregnante di radicamento nel territorio e di utilizzo, in senso lato, delle sue infrastrutture. Altrimenti detto: l’insediamento nel Paese deve essere così intenso da giustificare la scelta di chiamare la società a sopportare una quota delle spese pubbliche non con limitato riferimento alla ricchezza di fonte domestica, bensì nei confronti dei redditi ovunque (worldwide) prodotti. Se così è, il luogo ove, episodicamente e senza renderlo noto a terzi, gli amministratori concertano decisioni direzionali non basta, da solo, ad integrare la sede dell’amministrazione, difettando per l’appunto quel liason permanente e tangibile con l’ordinamento che solo giustifica l’attribuzione della residenza. Quanto invece al place of effective management, è fondamentale per focalizzarne la nozione rammentare che esso è enunciato in una tie-break rule, ossia nel contesto di una regola dirimente per risolvere una situazione di “parità” in punto di residenza fiscale. In altre parole, non si tratta di un quid tale da determinare, da solo, l’impianto della residenza, ma al contrario di un quid pluris, concepito al fine di dirimere la contesa allorché la società è residente in entrambi gli Stati contraenti: esempio tipico, nella letteratura internazionale, quello della sede legale in un Paese e della sede dell’amministrazione nell’altro. Sul punto, è opportuno riportare la chiara indicazione ricavabile dal commentario all’art. 4 del modello Ocse: «la sede di direzione effettiva sarà ordinariamente il luogo in cui la persona o il gruppo di persone di rango più elevato (a titolo esemplificativo, un consiglio di amministrazione) prende ufficialmente le sue decisioni, il luogo in cui sono adottate le deliberazioni che devono essere assunte dall’ente nel suo insieme»; e ancora «una società può avere più di una sede di direzione, ma una sola sarà la sede di direzione effettiva». Dal combinato disposto delle norme interne e con-


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venzionali rilevanti risulta dunque che per dirimere le controversie in punto di residenza deve seguirsi una sequenza puntuale e progressiva in ordine ai fatti da dimostrare; scansione alla quale la dialettica probatoria non può e non deve sottrarsi. Il giudice è in linea di principio libero nel soppesare la valenza degli elementi indiziari posti alla sua attenzione; deve tuttavia necessariamente aver ben presente i fatti ignoti che essi devono supportare, ossia: a) innanzitutto, una stabile collocazione della sede dell’amministrazione in Italia (primo fatto ignoto rilevante) nel periodo d’imposta; b) in seconda battuta (parimenti essenziale), la circostanza determinante che le decisioni strategiche più rilevanti15 siano state prese nel territorio dello Stato (secondo fatto ignoto rilevante). Questa sequenza logico-giuridica appare chiara alla Commissione tributaria regionale di Firenze, laddove essa afferma «la continuità è connaturata alla stessa nozione di “sede”, che implica la stabilità del riferimento e perciò la percettibilità da parte di qualunque terzo della collocazione indicata quale centro di gestione e di elaborazione di tutto quanto attiene alla direzione della società e al dispiegamento della sua attività». Di conseguenza, «la prova documentale circa l’esistenza della sede amministrativa in Italia deve essere tale da dedurre la continuità di una gestione amministrativa durata ben quattro anni». Assai meno convincente, invece, la pronuncia n. 75 della Commissione tributaria di primo grado di Firenze, secondo la quale la circostanza che buona parte della documentazione raccolta dalla Polizia tributaria concerna anni precedenti a quelli oggetto del verbale di accertamento, non assumerebbe rilevanza, giacché il fatto che un ordine si riferisca all’anno prima o a qualche anno prima non interromperebbe il suo valore presuntivo. Ora, si può discutere se il fatto noto della richiesta di un’autorizzazione per un atto di ordinaria amministrazione giustifichi la conclusione che tutte le decisioni, e perciò pure quelle strategiche, maturate nello stesso arco temporale di quelle ordinarie, siano state assunte nel medesimo luogo; tuttavia affatto convincente è azzardare che perfino a distanza di anni, cessato il flusso

15 Dimostrazione che comporta quantomeno, su un piano logico, la selezione di quelle decisioni che tali (strategiche) possono ritenersi, a differenza delle altre, di natura ordinaria. 16 Anche l’amministrazione finanziaria, sebbene ad altri fini, si è posta il problema di distinguere la realtà fi-

di autorizzazioni bagatellari, permanga l’attualità indiziaria del fatto noto. A conferma dell’opinabilità della questione, altro giudice ha inquadrato in modo del tutto diverso il problema delle dettagliate istruzioni provenienti dall’Italia e riguardanti una pluralità di atti di gestione, osservando che «l’esistenza di un penetrante controllo di una società nei confronti di altra e perciò l’assoggettamento della società controllata costituisce fenomeno ben diverso dallo svolgimento delle attività di gestione amministrativa della società controllata. Le due fattispecie non possono essere né sommate né confuse, perché altrimenti situazioni giuridicamente rilevanti, fra loro nettamente differenziate, verrebbero rese coincidenti con effetti aberranti sul piano giuridico». In sostanza, non si può «configurare la collocazione della sede amministrativa di una società presso un’altra soltanto perché fra le due società vi è uno stretto collegamento, che riguarda essenzialmente il coordinamento delle rispettive attività e finalità» (così Comm. trib. reg. Firenze, sent. n. 61/25/07 del 18 gennaio 2008). Si tratta di uno spunto davvero centrale e da indicare quale oggetto di approfondimento per un più corretto inquadramento del problema. Per quanto ci riguarda, ci limitiamo in questa sede a due considerazioni. La prima è che, a ben vedere, anche i cosiddetti “fatti noti”, dai quali muove il ragionamento presuntivo, assumono coloritura diversa a secondo della qualificazione giuridica ad essi attribuita: ad esempio, ricollegandoci alle diverse opinioni espresse dalle decisioni in rassegna, le autorizzazioni possono essere inquadrate quale esplicazione della funzione di indirizzo e controllo piuttosto che come sintomi della sottoposizione ad eteroamministrazione da parte della controllata. Quello che non convince, ovviamente, è la qualificazione occulta, ossia operata senza dar conto della problematica sottostante. La seconda concerne i progressi compiuti dalla dottrina che, studiando il fenomeno del gruppo16, ha indagato il contenuto del potere di direzione e coordinamento sulle controllate. È stato al riguardo autorevolmente affermato che «attraver-

siologica del coordinamento intragruppo da quella patologica della totale direzione e gestione domestica di una società estera. Al riguardo la circolare ministeriale n. 32 del 22 settembre 1980 precisa che il gruppo multinazionale «[...] costituisce un’unità economica nella quale tutte

le unità giuridicamente autonome che ne fanno parte sono soggette, in qualche misura, ad un coordinamento globale [...] finalizzato al soddisfacimento delle esigenze di controllo della capogruppo, tipica espressione della sua qualità di azionista».


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so l’obbligo disposto dall’art. 2497-ter (di analitica motivazione delle decisioni influenzate dall’attività di direzione e coordinamento), si è riconosciuta la legittimità di una direzione unitaria del gruppo, sino al limite che non si verifichi il conflitto d’interessi: all’interno del limite, ad esempio, si legittimano i poteri della capogruppo di acquisire informazioni, di dare istruzioni e di esercitare controlli nei riguardi degli amministra-

17 Così DI SABATO, Diritto delle società, Milano, 568 ss.

tori delle società appartenenti al gruppo anche al di fuori della tradizionale articolazione degli organi sociali, e cioè anche al di fuori dell’assemblea, che rimarrebbe invece l’unica sede deputata all’esercizio dei diritti di socio soltanto per gli azionisti di minoranza»17. Una volta di più il diritto, costituendo metro di valutazione dei fatti (e in specie della loro valenza indiziaria), rivendica il suo primato.


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Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. X, 17 ottobre 2007, n. 181 Presidente: Meloncelli - Relatore: Moroni Irpef - Ritenute d’acconto - Enti non commerciali - Associazione attiva nel settore della formazione extrascolastica - Prestazione di servizi rese a favore degli associati - Natura non commerciale - Presenza di associati che non usufruiscono delle prestazioni dell’ente - Irrilevanza - Pagamenti effettuati ad educatori - Ritenute d’acconto - Esclusione (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 4; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 23; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 148) Non ha carattere commerciale l’attività esercitata da un’associazione operante nel settore della formazione extrascolastica, che sia svolta dai soci a vantaggio di altri soci e consista nel fornire prestazioni di servizi che, per la loro natura, direttamente realizzano le finalità istituzionali, ed è irrilevante che dell’associazione facciano parte anche soggetti che, per la loro condizione, non possono fruire dei predetti servizi; pertanto, i compensi corrisposti ad educatori ed operatori didattici da parte di detta associazione non sono soggetti alle ritenute d’acconto di cui all’art. 23, D.P.R. 600/1973. Svolgimento del processo L’associazione culturale S. presentava separati ricorsi avverso cinque avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate - ufficio di Roma 5 per mancata applicazione delle ritenute Irpef per gli anni 1994, 1995, 1996 e 1997, a seguito di Pvc della G. di F. La Comm. trib. prov. Roma, sez. LXII, con sentenza n. 364 del 6 ottobre 2005 riuniva i ricorsi e li accoglieva, compensando le spese in quanto l’associazione era un ente senza finalità di lucro. Avverso tale decisione proponeva appello l’ufficio sostenendo che l’attività in questione era di natura commerciale e l’associazione operava senza alcuna forma di soggettività tributaria, non assumendo quindi la natura di sostituto di imposta. Infatti fra le passività di bilancio figuravano spese per il personale, tra l’altro prive di documentazione, per le prestazioni effettuate suffragate da ricevute non fiscali di pagamenti corrisposti ad educatori e operatori didattici sempre in assenza di documenti giustificativi. Concludeva l’ufficio

sottolineando la circostanza che la controparte successivamente aveva iniziato ad adempiere tutti gli obblighi fiscali propri di un ente commerciale. Pertanto chiedeva 1’accoglimento dell’appello con vittoria delle spese di lite. In data 14 maggio 2007 l’associazione si costituiva in giudizio e presentava le proprie controdeduzioni sostenendo la legittimità della sentenza di I grado che aveva evidenziato la mancanza di qualsivoglia attività commerciale e, quindi, l’insussistenza dei presupposti impositivi in quanto le prestazioni effettuate venivano rese ai propri soci e associati in conformità alle finalità istituzionali. Anche la corresponsione di compensi da parte dell’associazione a favore di collaboratori non presupponeva alcun rapporto di lavoro o di collaborazione che avrebbe costituito il presupposto necessario al sorgere dell’obbligo di effettuazione e versamento delle ritenute. Erano i soci stessi che partecipavano con le loro prestazioni solo al fine di sostenere solidalmente l’attività dell’associazione stessa. L’attività svolta dai soci a vantaggio di altri soci nell’ambito di un’attività a carattere mutualistico – sosteneva l’appellata – non era certamente attività commerciale o imprenditoriale e, quindi, mancavano i presupposti impositivi per l’applicabilità dell’imposta in questione. Riportava, inoltre, gli estremi di altre sentenze emesse dalle Commissioni tributarie che si erano espresse favorevolmente nei confronti dell’associazione. Pertanto, chiedeva il rigetto dell’appello con il conseguente annullamento degli avvisi di accertamento. Motivi della decisione La Commissione, esaminati gli atti, ritiene l’appello infondato e, quindi, non meritevole di accoglimento. Innanzitutto rileva che la sentenza impugnata risulta immune dal vizio di carenza di motivazione denunciato dall’ufficio appellante. La motivazione, infatti, ha lo scopo di rendere evidente il percorso logico seguito dai giudici nella formazione del proprio libero convincimento. Nella specie, i primi giudici hanno esplicitato tale percorso rendendo ben evidente come abbiano ritenuto la natura non commerciale dell’attività svolta dall’associazione. Una tale conclusione può non essere condivisa ma non può essere ritenuta carente di


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motivazione avendo i primi giudici anche evidenziato i motivi di fatto che li hanno fatti propendere per detta conclusione. Si ritiene, quindi, che seppure concisa la motivazione della sentenza impugnata sia esaustiva e completamente logica dando pienamente conto di tutti i motivi posti a base della decisione senza alcun rinvio né utilizzo di clausole di stile idonee ad essere riferite ad ogni stato di fatto che secondo la Corte di Cassazione sono, per la loro astrattezza indefinita, indizi sintomatici della presenza di un rinvio di motivazione. Il vizio di motivazione sussiste soltanto se nel ragionamento del giudice risultante dalla sentenza, ovvero negli stessi richiami delle argomentazioni di parte recepiti, sia ravvisabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia ed esso non può certo essere attribuito al caso di un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme a quello preteso da una delle parti ovvero in senso conforme a quanto diligentemente rappresentato da una delle parti. Inoltre, sul punto soccorre la specificità del contenzioso tributario; in questo, infatti, l’analiticità delle posizioni contrapposte in rapporto alla norma tributaria della cui applicazione si discute comporta di per sé che l’accettazione indubitabile, da parte del giudice, di una tesi motivata, tra quelle prospettate dalle parti in dibattito, possa considerarsi in via presuntiva e automatica quale recepimento intrinseco della stessa tesi e di tutti i passaggi intermedi relativi. Ciò proprio perché gli stessi risultano chiari ed espliciti negli atti e dunque possono analiticamente sindacarsi con l’impugnazione mirata di ciascuno di essi. Passando al merito della controversia, assume valore dirimente la circostanza del qualificare come commerciale o meno l’attività svolta dalla società appellata. In proposito, giova rammentare come l’attività commerciale ai fini dell’imposizione diretta e dell’Iva sia rappresentata dalla cessione di beni e servizi nell’esercizio d’impresa ravvisabile, secondo la normativa vigente, nello svolgimento di attività commerciali o agricole di cui agli artt. 135 e 2195 del c.c. ovvero nell’ipotesi di prestazione di servizi che, pur non rientrando nel citato art. 2195, sono rese nell’ambito di un’attività organizzata in forma d’impresa. Con particolare riguardo agli enti associativi non aventi fine di lucro l’art. 148 T.U.I.R. e l’art. 4 del D.P.R. n. 633/1972 stabiliscono, come regola generale, che i medesimi acquistano la veste di soggetti di imposta relativamente alle cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate, nei confronti di associati e partecipanti, dietro pagamento di corri-

spettivi specifici o di contributi supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto, in quanto tali attività vengono considerate dal legislatore quali attività commerciali. Tale regola generale subisce una deroga valida per gli organismi di natura politica, sindacale, religiosa, assistenziale, culturale, sportiva dilettantistica e di formazione extrascolastica della persona per i quali la non commercialità delle prestazioni sopradette permane quando esse sono rese ai propri soci e associati in conformità alle finalità istituzionali. Va a questo punto stabilito cosa debba intendersi con l’espressione “attività effettuate in conformità alle finalità istituzionali”. Secondo la stessa amministrazione finanziaria devono intendersi come tali quelle in necessaria connessione con le finalità tipiche perseguibili dagli enti stessi e deve, inoltre, intendersi che il trattamento agevolato si rende applicabile unicamente alle attività che direttamente realizzano il fine o i fini dell’ente escludendo, quindi, le altre attività che si pongano per contro in funzione sussidiaria o indiretta del perseguimento dei fini propri dell’ente (risoluzione Min. Finanze n. 210/E del 22 ottobre 1997). Nella specie proprio tale situazione ricorre in quanto l’attività svolta dalla resistente, consistente in laboratori didattici per bambini in età prescolare, si concretizza in tutta una serie di attività di animazione collettiva a carattere ludico che non possono rientrare, come ritiene l’ufficio, nella categoria delle prestazioni didattiche, non fosse altro che per l’età inferiore ai sei anni dei presunti discenti. Nella specie quindi ricorre un’attività che più propriamente può definirsi educativa e resa tra i soci dell’associazione a loro esclusivo vantaggio che si pone in diretto rapporto causale con il raggiungimento degli scopi statutari e istituzionali che gli stessi soci si sono assegnati. Inoltre, la suddetta attività è svolta dai soci a vantaggio di altri soci, nell’ambito di un’attività a carattere mutualistico e non certamente imprenditoriale mancando del tutto una qualsiasi organizzazione diretta allo scambio di servizi a fine di lucro. Sotto questo punto dì vista, quindi, l’attività svolta dalla resistente non può ritenersi soggetta ad imposizione. Né maggiore fortuna possono incontrare le censure sollevate dall’ufficio circa la mancanza di democraticità dell’organizzazione e il fatto che della stessa facciano parte anche soggetti che non possono attualmente fruire dei servizi resi dall’associazione. Quanto al primo rilievo, risulta che già dal 1995 il


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diritto di voto negli organi dell’associazione è attribuito a tutti i soci sostenitori. Mentre per il secondo rilievo basta notare che l’accoglimento della costruzione effettuata dall’ufficio basterebbe a far crollare qualsiasi iniziativa solidaristica, soprattutto a sostegno delle categorie sociali più deboli ed economicamente disagiate. Infatti, non ammettere che di un’associazione con fini sociali possono far parte, a volte anche in funzione rilevante, persone che non si trovino nelle condizioni di difficoltà che l’attività di associazione si propone di alleviare, si-

gnifica far venir meno il concetto stesso di solidarietà sociale, ponendosi addirittura in contrasto con l’art. 2 della Costituzione. Anche sotto questi profili, quindi, l’appello dell’ufficio non può trovare accoglimento e deve essere confermata la sentenza impugnata che ha giustamente annullato tutti gli accertamenti elevati nei confronti della resistente. La complessità della materia trattata costituisce giusto motivo per la compensazione delle spese di lite di questo grado di giudizio.

Nota

a CASTALDI, Riflessioni sulla personalità delle imposte e la natura delle norme tributarie in tema di enti non commerciali (di tipo associativo), in Giur. Cost., 1992, 4209 ss. e, più in generale, Id., Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999; FICARI, Strumentalità dell’attività commerciale e fine non lucrativo nella tassazione delle associazioni, in Rass. Trib., 1997, 80; PROTO, La fiscalità degli enti non societari, Torino, 2001 e ROSSI, Scopi perseguiti e destinazione dei risultati nella tassazione degli enti di tipo associativo, in Rass. Trib., 1998, II, 1561). La disciplina dettata in ambito Iva ricalca, sostanzialmente e per quanto qui rileva, le previsioni appena illustrate (cfr., sul punto, CASTALDI, I rapporti economico-patrimoniali tra associati ed associazione nella disciplina delle imposte dirette e nell’Iva, in AA.VV., Il regime fiscale delle associazioni, a cura di Fedele, Padova, 1997). Secondo la Commissione tributaria regionale romana, l’attività svolta dall’associazione appellata rientrava, per l’appunto, nell’ultima delle ipotesi menzionate, in considerazione della sua natura educativa, «che si pone in diretto rapporto causale con il raggiungimento degli scopi statutari e istituzionali», e del suo carattere mutualistico. La sentenza si allinea sul punto al consolidato orientamento della Cassazione, che attribuisce rilievo decisivo alla diretta connessione fra l’attività svolta dall’ente e gli obiettivi istituzionali, ai fini del trattamento tributario delle prestazioni rese ai soci (si vedano ex multis, con riguardo alla somministrazione di alimenti e bevande all’interno di circoli ricreativi, culturali e sportivi, Cass. civ., sez. trib., 26 ottobre 2007, n. 22533, in banca dati fisconline, e Cass. civ., sez. trib., 29 marzo 2000, n. 3850, in Giust. Civ., 2000, I, 2282, nonché, in termini più generali, Cass. civ., sez. trib., 20 ottobre 2006, n. 22598, in Giust. Civ., 2007, 12, 2774: tali pronunce sono state rese con riferimento a fattispecie cui non era applicabile, ratione temporis, l’art. 4, L. 383/2000, dettato in materia di autofinanziamento delle attività di promozione sociale), dovendosi ritenere che

La sentenza in commento è stata resa nell’ambito di una controversia che opponeva l’Agenzia delle Entrate ad un’associazione senza fine di lucro, attiva nel settore della formazione extrascolastica. La controversia concerneva la sussistenza dell’obbligo, in capo all’ente, di effettuare ritenute ai sensi dell’art. 23, D.P.R. 600/1973, a fronte dei compensi corrisposti agli educatori e, in genere, al personale attivo al suo interno. In ultima analisi, dunque, la questione verteva sulla natura commerciale dell’attività svolta dall’associazione a favore dei propri associati. Come noto, ai fini fiscali, la linea di demarcazione tra attività commerciali e non commerciali è stabilita, in primo luogo, dall’art. 55 del Testo unico del 1986, ai sensi del quale sono da ricomprendere tra le prime le attività dirette alla prestazione di servizi, purché siano organizzate in forma di impresa (sul punto, cfr. GIOVANNINI, La nozione di imprenditore, in AA.VV., Imposta sul reddito delle persone fisiche, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, Torino, 1994, 419 ss.). Tale generale principio subisce una rilevante deroga ad opera del successivo art. 148 dello stesso Testo unico, secondo cui non è comunque considerata commerciale l’attività svolta, in conformità alle finalità istituzionali, dagli enti non commerciali di tipo associativo a favore degli associati o partecipanti, salvo che si tratti di prestazioni di servizi (o cessioni di beni) effettuate a fronte del pagamento di corrispettivi specifici, nel qual caso l’attività svolta dall’ente associativo assume carattere commerciale. Questa eccezione a sua volta è derogata nell’ipotesi in cui le predette prestazioni, effettuate a fronte di corrispettivi specifici ma in diretta attuazione degli scopi dell’ente, siano rese ai propri soci o associati da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extrascolastica della persona (sulla questione, si rinvia


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l’assenza del fine di lucro (soggettivo) non possa di per sé escludere la natura commerciale di una o più attività svolte dall’ente (così Cass. Civ., sez. trib., 26 gennaio 2004, n. 1367, in Giur. Lav. Mass., 2004, 289; si noti come, invece, secondo quanto emerge dalla sentenza in commento, il giudice di primo grado avesse, nel caso di specie, fondato l’accoglimento del ricorso introduttivo proprio sul carattere non lucrativo dell’associazione, in ragione del quale aveva escluso la natura commerciale dell’attività da essa svolta). Può rivelarsi utile porre a confronto tale orientamento giurisprudenziale – sicuramente rispettoso della lettera delle disposizioni interne applicabili alla fattispecie – con la posizione assunta in materia dalle istituzioni comunitarie; tale posizione emerge, in particolare, dalla prassi della Commissione e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in tema di aiuti di Stato, per la disciplina dei quali assume importanza essenziale, come noto, la nozione di “impresa”. Come dimostra ad esempio la vicenda delle fondazioni bancarie italiane (cfr. la decisione della Commissione europea 2003/146/CE, 22 agosto 2002, soprattutto par. 44, nonché la sentenza successivamente resa sul punto dalla Corte di Giustizia comunitaria, CGCE, 10 gennaio 2006, causa C-222/04, in Riv. Dir. Trib., 2006, III, 35, con nota di TENORE, Agevolazioni fiscali alle fondazioni bancarie e compatibilità con la normativa comunitaria in tema di aiuti di Stato), nel pronunciarsi circa la natura più o meno commerciale di una determinata attività, entrambi gli organi europei appaiono orientati a prescindere, oltre che dallo status giuridico e dalle modalità di funzionamento dell’ente, anche dalla finalità perseguita (e dunque, verosimilmente, dall’eventuale connessione esistente tra quest’ultima e l’attività in concreto svolta), per dare invece rilievo alla circostanza che l’attività sia esercitata anche da operatori che agiscono a scopo di lucro, per cui la concorrenza può ri-

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sultare falsata dalla concessione di benefici (anche fiscali) ai soli enti non lucrativi. Alla luce di tale approccio, ci si può quindi chiedere se sia sufficiente la sussistenza dell’ulteriore requisito imposto dalla normativa interna, dato dal carattere mutualistico e, quindi, “interno” (cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, 8a ed., Torino, 2008, 101) dell’attività posta in essere dall’ente associativo – che, quanto meno in astratto, dovrebbe precludere ogni accesso al mercato propriamente inteso – per escludere che il trattamento di favore allo stesso accordato possa produrre interferenze con la libera concorrenza incompatibili con il disposto dell’art. 87 del Trattato CE. Alcune indicazioni utili al fine di rispondere a tale interrogativo potrebbero forse, a breve, provenire proprio dalla Corte di Giustizia, chiamata dalla Cassazione italiana a pronunciarsi circa la compatibilità, con il divieto comunitario di aiuti di Stato, delle agevolazioni fiscali riservate dal legislatore interno alle cooperative (cfr. Cass. civ., sez. trib., 8 febbraio 2008, n. 3030, 3031 e 3033, in bancadati fisconline). Da ultimo, si deve ancora rilevare come i giudici regionali abbiano opportunamente respinto l’eccezione sollevata dall’ufficio, in base alla quale occorre negare il carattere autenticamente mutualistico all’attività svolta dall’associazione, in considerazione dell’appartenenza alla stessa di soggetti i quali, in ragione della propria condizione personale, non avrebbero potuto fruire delle sue prestazioni. A fronte di tale argomentazione, la Commissione ha correttamente rilevato il potenziale contrasto tra una simile interpretazione della normativa in materia di enti associativi e l’art. 2 della Costituzione; tale norma, infatti, nel promuovere e tutelare la solidarietà sociale, necessariamente postula che alla realizzazione di obiettivi destinati a beneficio di alcune fasce soltanto della collettività prendano parte soggetti ad esse totalmente estranei.

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. X, 30 gennaio 2008, n. 182 Presidente: Maffei - Relatore: Carmenini Irpef - Reddito di lavoro dipendente - Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni Italia-Argentina - Nozione di “domicilio” e “centro di interessi” in Italia - Rilevanza - Doppia residenza “fiscale” del percettore - Sussistenza (L. 27 aprile 1982, n. 282, art. 4, par. 2; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 2, comma 2)

Irpef - Reddito di lavoro dipendente - Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni Italia-Argentina - Rimborso delle imposte pagate in Italia - Presupposto - Doppia imposizione effettivamente subita - Prova della tassazione in Argentina - Onere a carico del contribuente (L. 27 aprile 1982, n. 282, artt. 15 e 29, par. 2)


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A norma dell’art. 2, comma 2, D.P.R. n. 917/1986, va considerata fiscalmente residente in Italia una persona fisica che, pur avendo trasferito la propria residenza all’estero e svolgendovi la propria attività, mantenga in Italia il centro dei propri interessi familiari e sociali; conseguentemente, ai sensi del combinato disposto del citato art. 2, comma 2, T.U.I.R. e dell’art. 4, par. 2, della Convenzione Italia-Argentina, il lavoratore dipendente che ha svolto la propria attività lavorativa in Argentina deve essere considerato fiscalmente residente, oltre che in Argentina (sulla base della certificazione rilasciata dalle autorità fiscali argentine), anche in Italia, avendo qui mantenuto l’abitazione permanente e il centro dei propri interessi (relazioni personali ed economiche, sociali e familiari). Le Convenzioni internazionali, compresa quella tra l’Italia e l’Argentina, hanno come fine precipuo quello di mettere il contribuente al riparo dalle doppie imposizioni, prevenendole o prevedendo in favore del contribuente doppiamente tassato la possibilità di ottenere “crediti d’imposta” in uno dei due Stati. Conseguentemente, la disposizione di cui all’art. 29, par. 2, della suddetta Convenzione, finalizzata a porre rimedio alla doppia imposizione, non può prescindere dall’effettiva duplicazione dell’imposta, per cui il diritto al rimborso delle ritenute applicate in Italia è subordinato alla prova dell’avvenuta tassazione del reddito di lavoro dipendente in Argentina (Stato di residenza del soggetto persona fisica). Svolgimento del processo Con atto ritualmente notificato alla Agenzia delle Entrate - Centro operativo di Pescara e tempestivamente depositato, il sig. D.L.D.M. proponeva appello avverso la sentenza della Comm. trib. prov. Pescara n. [...] con la quale era stato rigettato il suo ricorso avverso il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso presentata il 9 giugno 2005 ex art. 38, D.P.R. 602/1973, di ritenute Irpef asseritamente non dovute. Tali ritenute, per complessivi euro 252.149,09, erano state operate da T. S.p.A. – di cui l’appellante, residente in Argentina, era stato dirigente – sulle seguenti somme corrispostegli a seguito della cessazione consensuale del rapporto di lavoro avvenuta in data 31 dicembre 2004: - euro 800.000,00 a titolo di incentivo all’esodo; euro 203.587,00 a titolo di indennità sostitutiva di preavviso; - euro 78,627,87 a titolo di trattamento di fine rapporto. Con il ricorso introduttivo il sig. D.L. aveva sostenuto la natura non reddttuale delle somme erogate a titolo di incentivo e di mancato preavviso, e pertanto la loro non tassabilità, nonché la viola-

zione degli artt. 15 e 18 della Convenzione ItaliaArgentina contro le doppie imposizioni. L’ufficio aveva resistito in giudizio, negando la natura risarcitoria delle somme corrisposte per incentivo e mancanza di preavviso e assumendo, per il resto, l’inapplicabilità della Convenzione tra Italia e Argentina, in quanto il ricorrente era stato residente in quello Stato dal settembre 2003 al 31 dicembre 2004 (e non anche nel 2005), e inoltre non aveva dimostrato l’effettivo pagamento dell’imposte anche in Argentina. La Comm. trib. prov. Pescara aveva rigettato il ricorso rilevando: - che le somme erogate a seguito dell’esodo volontario, ivi comprese quelle per mancato preavviso, avevano natura reddituale e non risarcitoria ed erano perciò soggette a tassazione; - che il ricorrente non aveva dimostrato di essere stato residente in Argentina per un periodo superiore ai 183 giorni previsti dall’art. 15 della Convenzione. Rilevava, inoltre, il giudice di prime cure che il ricorrente non aveva dimostrato che le somme in questione erano state assoggettate a tassazione in Argentina, di talché la mancata produzione dell’attestato prescritto dalla Convenzione determinava l’impossibilità per l’amministrazione di istruire la pratica di rimborso e, quindi, l’insussistenza del silenzio-rifiuto; con conseguente infondatezza del ricorso perché proposto avverso un provvedimento di diniego inesistente. Con l’appello in esame il sig. D.L. eccepiva l’erroneità in fatto e in diritto della sentenza di primo grado, chiedendone l’integrale riforma, sulla base dei seguenti motivi: 1) avvenuta dimostrazione della residenza fiscale in Argentina attraverso la documentazione prodotta in allegato al ricorso, da cui risulta che fino al 29 maggio 2003 egli era residente in Cile e da quella data risiedeva in Argentina; 2) insussistenza del preteso onere di dimostrare l’avvenuta imposizione in Argentina delle somme già tassate in Italia; violazione degli artt. 4, 15 e 18 e falsa applicazione dell’art. 29 della Convenzione ltalia-Argentina per evitare le doppie imposizioni entrata in vigore il 15 dicembre 1983, ratificata con legge n. 282/1982 e successivamente modificata dal protocollo ratificato con legge n. 423/1999; 3) illegittimità delle ritenute subite dal ricorrente per mancata applicazione e violazione dell’art. 15 della Convenzione Italia-Argentina, in conseguenza dell’avvenuto assolvimento dell’onere della prova attraverso il prodotto documento del Ministero dell’Economia argentino; 4) illegittimità delle ritenute subite sul Tfr per


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mancata applicazione e violazione dell’art. 18 della Convenzione Italia-Argentina, nonché violazione dell’art. 75, D.P.R. 600/1973 e dell’art. 169, D.P.R. 917/1986. Con controdeduzioni depositate il 23 aprile 2007 il Centro operativo di Pescara contestava la fondatezza dell’appello, facendo rilevare: - che le somme percepite dall’appellante erano state legittimamente assoggettate a tassazione in Italia; che il contribuente aveva omesso di produrre il certificato dell’autorità fiscale argentina attestante che i cespiti in questione erano stati colà assoggettati a tassazione, non essendo sufficiente la semplice dichiarazione circa la qualità di soggetto passivo di imposta; - che il contribuente non aveva dimostrato di essere stato residente in Argentina per un periodo superiore a 183 giorni, confermandosì così che si era trattato di soggiorno temporaneo; - che in conseguenza di tali mancate dimostrazioni non era applicabile la deroga prevista all’art. 15 della Convenzione, con conseguente legittimità della tassazione operata in Italia, anche con riferimento al trattamento di fine rapporto, trattandosi di diritto di credito a pagamento differito, che matura anno per anno. In data 2 novembre 2007 entrambe le parti depositavano memorie illustrative. L’appellante eccepiva l’inammissibilità delle eccezioni nuove da parte dell’ufficio, che in primo grado si era limitato ad eccepire la natura reddituale delle somme percepite dal ricorrente, la mancata dimostrazione di residenza in Argentina e la presunta violazione dell’onere della prova; ribadiva l’errata applicazione delle norme convenzionali; richiamava la documentazione prodotta atta a dimostrare la sua effettiva residenza in Argentina e il suo diritto al rimborso; insisteva sulla non tassabilità del trattamento di fine rapporto. L’ufficio appellato insisteva nel far rilevare che il certificato depositato da controparte non era idoneo a dimostrare l’avvenuta doppia imposizione e quindi a giustificare la pretesa restitutoria; richiamava all’uopo l’art. 24 della Convenzione, nonché le disposizioni contenute all’art. 29 della medesima Convenzione; con riferimento al trattamento di fine rapporto, costituente retribuzione differita di lavoro dipendente, insisteva per la tassazione esclusiva in Italia. All’udienza pubblica del 15 novembre 2007, il Relatore illustrava i fatti e le questioni della controversia. I rappresentanti delle parti si riportavano ai rispettivi atti e insistevano per l’accoglimento delle richieste o conclusioni ivi esplicitate. Dichiarata chiusa la discussione, il Collegio deliberava la decisione in camera di consiglio.

Motivi della decisione L’appello è infondato e non può pertanto trovare accoglimento. Con il primo motivo l’appellante ha sostenuto di aver prodotto documentazione idonea a dimostrare sia la sua residenza in Argentina, sia l’esclusiva assoggettabilità alla tassazione di tale Stato delle somme percepite nell’anno 2005 e, quindi, la legittimità e fondatezza del diritto al rimborso delle ritenute subite su di esse ad opera del fisco italiano. Dall’esame della ponderosa documentazione in atti, il Collegio ravvisa che appare sufficientemente provata la residenza in Argentina del sig. D.L. non solo negli anni 2003 e 2004 – come peraltro riconosciuto dallo stesso ufficio – ma anche nell’anno 2005, in cui al termine del suo rapporto di lavoro (31 dicembre 2004) gli sono state corrisposte le somme per la cui tassazione v’è controversia. Ciò si evince tra l’altro, con particolare significato affidativo, dal certificato rilasciato in data 24 febbraio 2006 dal Consolato generale d’Italia in Buenos Aires – con il quale si attesta che il sig. D.L., cittadino italiano, è residente in tale città dal 29 maggio 2003 alla data del certificato medesimo – nonché dal certificato rilasciato in data 7 novembre 2006 dal Ministero dell’Economia e la Produzione del Governo argentino, con cui si attesta: «che egli è considerato residente agli effetti fiscali nella Repubblica Argentina durante i periodi fiscali 2003, 2004 e 2005, fino alla data di rilascio del presente certificato, ai sensi della Convenzione per evitare la doppia imposizione sottoscritta tra l’Italia e l’Argentina». Dalla documentazicne in atti – visti di entrata e di uscita dall’Argentina stampigliati sul passaporto, biglietti aerei di viaggio, prospetto dimostrativo (all. n. 4) – non può invece ritenersi raggiunta la prova che l’appelante nel corso del 2005 abbia soggiornato in Argentina per più di 183 giorni. Invero tale circostanza non appare unicamente rilevabile attraverso i visti di uscita e di rientro in quello Stato, mancando la prova in positivo dell’effettivo soggiorno in Argentina per la maggior parte del periodo di imposta anno 2005 ed essendosi, peraltro, riscontrate nel “prospetto dimostrativo” talune incongruenze (quale la ricevuta Alitalia non riferibile al 25 luglio 2005, bensì al 25 luglio 2004). Con il secondo motivo l’appellante ha contestato che – come affermato dal giudice di prime cure – l’art. 29 della Convenzione Italia-Argentina richieda la prova formale non solo della residenza


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fiscale nello Stato diverso da quello del soggetto erogante il reddito, ma anche dell’avvenuta imposizione nello Stato di residenza; ritenendo, invece, sufficiente ai fini dell’imponibilità la prova della residenza in uno degli Stati contraenti (citava al riguardo Cass. n. 1583/2001, secondo cui la Convenzione è applicabile «per il sol fatto della soggezione del reddito alla potestà impositiva dell’altro Paese, indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta»). Con gli altri motivi del gravame l’appellante, ritenendo dunque di aver compiutamente assolto all’onere della prova in ordine alla sua residenza in Argentina e all’imponibilità delle somme solo in tale Stato, eccepiva l’illegittimità delle ritenute subite in Italia per patente violazione dell’art. 15 della Convenzione vigente tra i due Paesi, nonché dell’art. 18 della medesima Convenzione con riferimento alle ritenute subite sul Tfr, oltre che degli artt. 75, D.P.R. 600/1973 e 169, D.P.R. n. 917/1986. Così delineati i fatti della controversia e i contenuti dell’appello, allo scopo di verificare se la tassazione in Italia delle somme in questione sia stata o meno legittima e di identificare quale sia la norma convenzionale applicabile al caso in esame, è opportuno richiamare che nell’ordinamento italiano il trattamento fiscale delle retribuzioni percepite da lavoratori dipendenti per attività prestate all’estero è strettamente collegato al concetto di “residenza fiscale”. L’art. 2, comma 2, D.P.R. 917/1986 stabilisce che: «ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile». Le norme civilistiche richiamate – contenute nei commi 1 e 2 dell’art. 43 c.c. – notoriamente definiscono come «domicilio» il luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi e come «residenza» il luogo di abituale dimora. La Cassazione (2936/1980) ha chiarito che le condizioni richieste dall’art. 2 del T.U.I.R. sono tra loro alternative, nel senso che è sufficiente la presenza di una sola di esse per determinare la residenza fiscale in Italia, e che l’accezione giuridica di “domicilio” va intesa in senso lato, estesa cioè alla generalità dei rapporti della persona fisica, comprensiva anche degli interessi di carattere familiare, sociale e anche morale (“centro di interessi”), desumibile da tutti gli elementi di fatto che direttamente o indirettanente, valgano a pro-

vare la presenza di un siffatto centro di interessi sul territorio dello Stato italiano. Val la pena di richiamare che l’art. 3 del medesimo T.U.I.R. 917/1986 stabilisce che i soggetti considerati come residenti nello Stato – nel senso appena chiarito – sono tassati sui redditi ovunque prodotti; mentre i soggetti non considerabili residenti sono tassati solo sui redditi prodotti nel territorio dello Stato. Da tale impostazione legislativa discende che va considerata fiscalmente residente in Italia una persona fisica che, pur avendo trasferito la propria residenza all’estero e quivi svolgendo la propria attività, mantenga in Italia il centro dei propri interessi familiari e sociali. Le Convenzioni internazionali per lo più conformate al modello Ocse, fanno esplicito richiamo al concetto di residenza fiscale adottato dagli Stati contraenti. L’art. 4, paragrafo 1, della Convenzione Italia-Argentina stabilisce, infatti, che l’espressione «residente di uno Stato contraente» designa «ogni persona che in virtù della legislazione di detto Stato è assoggettato ad imposta nello stesso Stato a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga»; la norma precisa altresì che quella espressione «non comprende le persone che sono assoggettate ad imposta in detto Stato soltanto per il reddito che esse ricevano da fonti situate in detto Stato». Il paragrafo 2 del medesimo art. 4 stabilisce che quando una persona fisica è considerata residente in entrambi gli Stati contraenti, la residenza fiscale, in deroga delle norme interne, si determina attraverso i seguenti criteri: a) abitazione permanente in uno dei due Stati, in caso di abitazione permanente in entrambi gli Stati, il centro degli interessi vitali; b) soggiorno abituale in uno Stato, in mancanza di abitazione permanente o di centro degli interessi; c) nazionalità, in caso di soggiorno abituale in entrambi gli Stati contraenti o di mancanza di tale soggiorno; d) accordo tra gli Stati contraenti in caso di doppia nazionalità o di mancanza di nazionalità. Richiamato il quadro di riferimento normativo statuale e convenzionale, il Collegio – attraverso la lettura dei dati dell’anagrafe tributaria, versati in atti dall’ufficio e non contestati dall’appellante – rileva che il sig. D.L., negli anni di riferimento, possedeva un’abitazione permanente in Roma, alla via [...]; aveva nazionalità italiana oltre ad altra non specificata; aveva ricevuto la tessera sanitaria italiana con scadenza 2012; entrambi i suoi figli risiedevano nella predetta abitazione in Roma;


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negli anni 2004 e 2005 aveva acquistato beni immobili e diritti reali in Italia. Sulla base di tali circostanze di fatto e alla stregua delle richiamate disposizioni dell’art. 2, comma 2, T.U.I.R., applicati i criteri posti all’art. 4, paragrafo 2, della Convenzione Italia-Argentina, il Collegio rileva che il sig. D.L. debba essere considerato fiscalmente residente, oltre che in Argentina, anche in Italia, atteso che egli oltre alla abitazione permanente ha quivi mantenuto il centro dei propri interessi (relazioni personali ed economiche, sociali e familiari), conservando altresì la nazionalità italiana. Ciò acclarato, l’art. 18 della Convenzione ItaliaArgentina stabilisce che i redditi derivanti da attività di lavoro dipendente svolte da un soggetto all’interno dello Stato contraente di cui è residente sono imponibili solo in detto Stato; se tale attività è invece svolta nell’altro Stato, i redditi sono imponibili in questo al Stato. Il paragrafo 2 del medesimo art. 15, in deroga a tali disposizioni, prevede che nel caso in cui un soggetto residente di uno Stato contraente svolga attività dipendente nell’altro Stato contraente, le retribuzioni che riceve per tale attività sono imponibili soltanto nel primo Stato se ricorrono congiuntamønte le seguenti condizioni: - il soggetto soggiorna nell’altro Stato (ove ha prestato l’attività) per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 133 giorni nel corso dell’anno solare; - le remunerazioni sono pagate da un datore di lavoro non residente nell’altro Stato; - l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro abbia nell’altro Stato. Per quanto attiene al trattamento di fine rapporto di lavoro, l’art. 18 della Convenzione stabilisce che le pensioni e le altre remunerazioni analoghe, pagate da uno Stato contraente in relazione ad un cessato rapporto di lavoro, sono imponibili soltanto in questo Stato, fatte salve le disposizioni del paragrafo 2 dell’art. 19 della Convenzione, ove (sub paragrafo a) è previsto che: «le pensioni corrisposte da uno Stato contraente o da una suddivisione politica, amministrativa o da un ente locale [...] ad una persona fisica in corrispettivo di servizi resi [...] sono imponibili soltanto in questo Stato»; tuttavia – aggiunge il sub-paragrafo b – tali pensioni sono imponibili soltanto nell’altro Stato contraente se la persona fisica sia residente di questo Stato e ne abbia la nazionalità. Ciò posto, si rileva che il sig. D.L., dipendente di società italiana, ha svolto la sua attività lavorativa in Argentina, ove nel corso del 2005 – anno in cui

gli sono state corrisposte le remunerazioni su cui si controverte – non è risultato aver soggiornato per più di 183 giorni. Egli, inoltre, avendo il domicilio in Italia, ove risiede la sua famiglia e ove ha mantenuto il centro principale dei suoi interessi, ai sensi dell’art. 2 del T.U.I.R. va considerato fiscalmente residente in Italia. Applicando a tale fattispecie le richiamate norme della Convenzione, si ricava che il sig. D.L. va assoggettato ad imposizione in Italia anche sul reddito prodotto in Argentina, ove egli non potrà subire tassazione, essendo soddisfatte tutte le condizioni previste al paragrafo 2 dell’art.15 della Convenzione (permanenza minore di 183 giorni e remunerazione corrisposta da non residente nello Stato estero e senza stabile organizzazione). Rileva altresì il Collegio che anche se il sig. D.L. avesse, nel 2005, soggiornato in Argentina per più di 183 giorni, ugualmente egli, oltre che in Argentina, sarebbe stato assoggettato a tassazione in Italia, ove ai sensi dell’art. 2, T.U.I.R. è considerato fiscalmente residente. In tal caso egli sarebbe stato tenuto ad assolvere anche in detto Stato estero agli obblighi dichiarativi e di pagamento dell’imposta secondo la normativa colà vigente. La doppia imposizione in tal caso sarebbe attenuata in Italia mediante il riconoscimento di un credito di imposta, da far valere o in sede di conguaglio (a cura del sostituto di imposta) o in sede di dichiarazione. Sulla base delle suesposte considerazioni, che riguardano tutti gli emolumenti percepiti, ivi compresi quelli relativi al Tfr, il Collegio non può che rilevare l’infondatezza dei motivi dell’appello afferenti l’addotta illegittimità delle ritenute subite alla fonte, dovendosi invece ritenere che doverosamente il datore di lavoro in Italia, quale sostituto di imposta, aveva applicato tali ritenute e legittimamente il fisco italiano le aveva incamerate, rifiutandone seppur tacitamente il rimborso. Con riferimento alla censura afferente l’errata o falsa applicazione dell’art. 29, paragrafo 2, della Convenzione Italia-Argentina – secondo cui le istanze di rimborso «devono essere corredate da un attestato ufficiale dello Stato di cui il contribuente è residente, certificante che sussistono le condizioni richieste per avere diritto all’applicazione delle esenzioni o delle riduzioni previste dalla Convenzione» – il Collegio rileva che tale norma è finalizzata a porre rimedio al pregiudizio a danno del contribuente derivante dalla doppia imposizione sul medesimo cespite, consentendogli di avvalersi della possibilità di ottenere «esenzioni o riduzioni» dell’imposta, che nel caso in esame si sostanziano nella pretesa di rimborso delle ritenute fiscali subite in Italia. Tale disposi-


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zione, pertanto, non può prescindere dall’effettiva duplicazione dell’imposta. Le Convenzioni internazionali, compresa quella tra Italia e Argentina hanno infatti come fine precipuo quello di mettere il contribuente al riparo delle doppie imposizioni, o prevenendole – con lo stabilire a monte le regole in base alle quali, ricorrendo determinati presupposti, uno dei due Stati contraenti rinuncia in tutto o in parte alla propria potestà impositiva in favore dell’altro Stato – o prevedendo in favore del contribuente doppiamente tassato la possibilità di ottenere «crediti di imposta» in uno dei due Stati. Nel caso in esame – in cui, come si è rilevato, le remunerazioni corrisposte al sig. D.L. potrebbero essere assoggettate ad imposta anche in Argentina, di cui egli era fiscalmente residente – deve pertanto ritenersi che solo l’avvenuta tassazione in quello Stato potrebbe eventualmente legittimare il suo diritto al rimborso delle ritenute applicate in Italia.

La dimostrazione dell’avvenuta doppia imposizione è posta a carico del contribuente, secondo le regole che disciplinano la materia dei rimborsi nell’ordinamento interno. Si deve concludere che, non avendo il sig. D.L. fornito idonea prova dell’avvenuta tassazione in Argentina – poiché un tal valore probatorio non può essere attribuito al certificato rilasciato dal Ministero dell’Economia e la Produzione argentino – non sussistono le “condizioni richieste” per avere egli diritto al rimborso da parte del fisco italiano. Anche il motivo in esame è pertanto da ritenere infondato e perciò non accoglibile. Il rigetto dell’appello comporta la conferma della sentenza appellata e della legittimità del silenzio-rifiuto frapposto dall’amministrazione finanziaria all’istanza di rimborso dell’appellante. La complessità della materia trattata costituisce valido motivo per la compensazione delle spese del grado.

Nota

to «dal Ministero dell’Economia e la Produzione del Governo argentino» attestante, appunto, la residenza «agli effetti fiscali nella Repubblica Argentina» del medesimo «ai sensi della Convenzione per evitare la doppia imposizione sottoscritta tra l’Italia e l’Argentina», la Comm. trib. reg. afferma, partendo dall’esame degli elementi probatori allegati dall’ufficio, che, a norma dell’art. 2, comma 2, D.P.R. n. 917/1986 e dell’art. 4, par. 2, della Convenzione Italia-Argentina (risoluzione dei casi di doppia residenza), il contribuente deve «essere considerato fiscalmente residente, oltre che in Argentina, anche in Italia, atteso che egli oltre all’abitazione principale ha quivi mantenuto il centro dei propri interessi (relazioni personali ed economiche, sociali e familiari) conservando altresì la nazionalità italiana». Facendo dunque leva su elementi di fatto, la Commissione ritiene raggiunta la prova della permanenza del “domicilio” (inteso come centro principale di interessi) del lavoratore in Italia e, conseguentemente, della sua residenza fiscale anche in Italia (oltre che in Argentina). La conclusione è che il contribuente, «dipendente di società italiana» che «ha svolto la sua attività lavorativa in Argentina», «va assoggettato ad imposizione in Italia sul reddito prodotto in Argentina, ove egli non potrà subire tassazione, essendo soddisfatte tutte le condizioni previste al paragrafo 2 dell’art. 15 della Convenzione (permanenza minore di 183 giorni e remunerazione corrisposta da non residente nello Stato estero e sen-

I giudici abruzzesi tornano sulla questione della tassazione del reddito di lavoro dipendente transnazionale e della funzione delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, già affrontata, in primo grado, dalla Commissione tributaria provinciale di Pescara con la decisione n. 188 del 5 giugno 2006 (commentata con nota di CERMIGNANI, Convenzioni contro le doppie imposizioni e reddito di lavoro dipendente transnazionale, in questa rivista, 2007, 3, 553 ss.). Vi è subito da rilevare che la sentenza della Comm. trib. reg., pur essendo meglio argomentata e ordinata sul piano logico rispetto a quella oggetto di riesame, ripropone, tuttavia, gli stessi errori teorici di fondo della decisione impugnata circa l’individuazione della funzione essenziale delle Convenzioni internazionali in materia fiscale, confermando le non condivisibili conclusioni del primo Collegio giudicante. I giudici di appello spostano, opportunamente e in modo chiaro, il fulcro della questione sull’individuazione e sulla dimostrazione del criterio di collegamento costituito dalla residenza fiscale (anche) in Italia del lavoratore dipendente, come fondamento di legittimità giuridica dell’imposizione fiscale italiana sul reddito. Infatti, dopo aver premesso che «appare sufficientemente provata la residenza in Argentina» dell’appellante negli anni interessati dalla vicenda (2003-2005), sulla base del certificato rilascia-


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za stabile organizzazione)» (ancora una volta, il Collegio considera decisiva una questione “di fatto”: la mancata prova dell’effettivo soggiorno del contribuente in Argentina per più di 183 giorni). La Commissione, peraltro, ritiene correttamente di dover precisare, in punto di diritto, che quand’anche il contribuente «avesse, nel 2005, soggiornato in Argentina per più di 183 giorni, ugualmente egli, oltre che in Argentina, sarebbe stato assoggettato a tassazione in Italia, ove ai sensi dell’art. 2. T.U.I.R. è considerato fiscalmente residente», con attenuazione della relativa doppia imposizione mediante il riconoscimento in Italia di un credito d’imposta. Il ragionamento, fino a questo punto, ha una sua coerenza logico-sistematica: si tratta della soluzione di un caso di doppia residenza fiscale di un soggetto persona fisica, attraverso l’applicazione combinata dell’art. 2, comma 2, T.U.I.R. («ai fini delle imposte sul reddito si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile») e dell’art. 4, par. 2, della Convenzione Italia-Argentina. Poiché, infatti, la definizione convenzionale di “residenza” (art. 4, par. 1, della Convenzione Italia Argentina e del modello Ocse) fa comunque riferimento al concetto di residenza ai fini fiscali adottato nell’ordinamento nazionale di ciascuno Stato e in base alla norma interna dei due Stati contraenti è possibile, in linea teorica, che un soggetto sia considerato residente in entrambi gli Stati, la norma convenzionale (art. 4, par.2, dei Trattati conformi al modello Ocse) stabilisce che, nei casi di doppia residenza fiscale, l’accertamento dello Stato di residenza ai fini del Trattato deve essere fatto verificando, nell’ordine, il luogo in cui il soggetto possiede un’abitazione permanente, il luogo in cui è radicato il centro dei suoi interessi vitali, il luogo in cui soggiorna abitualmente o la cittadinanza (cfr. PIAZZA, Guida alla fiscalità internazionale, Milano, 2004, 132; per un ulteriore approfondimento, cfr. anche SACCARDO, Brevi note in tema di doppia residenza convenzionale e accertamento sintetico, in Riv. Dir. Trib., 2001, IV, 32; MAISTO, La residenza fiscale delle persone fisiche emigrate in Stati o territori aventi regime tributario privilegiato, in Riv. Dir. Trib.,1999, IV, 55 ss.). È appena il caso di precisare che la norma convenzionale non fa altro che stabilire un ordine di priorità fra i vari criteri di collegamento e, ovviamente, tale norma prevale su quella interna, salvo che questa non sia più favorevole (art. 169, T.U.I.R.) (cfr. PIAZZA, Guida alla fiscalità internazionale, cit., 132).

Inoltre, sul piano dell’onere probatorio, ove sia dimostrata dall’amministrazione finanziaria la residenza in Italia in base alle norme interne (sia mediante l’esibizione di prove gravi precise e concordanti, sia applicando, in caso di residenza in paradisi fiscali, l’inversione dell’onere della prova di cui all’art. 2, comma 2-bis, T.U.I.R.), sarà il contribuente a dover dare prova dell’esistenza dei presupposti di applicazione dell’art. 4, par. 2, delle Convenzioni conformi al modello Ocse (cfr. Cass., sez. trib., 4 aprile 2000, n. 4112; in dottrina, anche SACCARDO, Brevi note in tema di doppia residenza convenzionale e accertamento sintetico, cit.). Notevoli perplessità suscitano, invece, le affermazioni contenute nella parte finale della sentenza in commento; in particolare, laddove si sostiene (ricalcando la decisione di primo grado) che «il fine precipuo» delle Convenzioni internazionali, è essenzialmente «quello di mettere il contribuente al riparo dalle doppie imposizioni», e che, dunque, l’applicazione dell’art. 29, par. 2, della Convenzione Italia-Argentina (recante il regime convenzionale delle modalità di rimborso delle ritenute alla fonte subite in Italia) non possa «prescindere dalla effettiva duplicazione d’imposta». Sul punto deve rilevarsi, ancora una volta, che la funzione (e, quindi, la ratio) delle Convenzioni internazionali in materia fiscale è, in realtà, quella di definire e regolare le varie forme di concorso/limitazione di sovranità fiscale degli Stati nell’attuazione del prelievo; il presupposto applicativo delle norme convenzionali è dunque l’esistenza di un concorso/conflitto di potestà impositiva fra due Stati in ordine ad una medesima fattispecie reddituale e sulla base di criteri di collegamento (fonte e residenza) tra la fattispecie in questione e gli ordinamenti coinvolti (cfr. CERMIGNANI, Convenzioni contro le doppie imposizioni e reddito di lavoro dipendente transnazionale, cit). Non è pertanto del tutto corretto affermare che il «fine precipuo» delle Convenzioni internazionali sia «quello di mettere il contribuente al riparo dalle doppie imposizioni», caratteristica sicuramente presente, ma che costituisce piuttosto un effetto derivato e dipendente dalla fondamentale funzione convenzionale di delimitazione reciproca delle sfere di sovranità fiscale degli Stati contraenti. Ciò comporta che, pur in presenza di Convenzione bilaterale, possono in effetti verificarsi ipotesi di doppia imposizione, di potestà impositiva esclusiva di uno degli Stati ovvero di doppia esenzione/esclusione da imposizione fiscale (per un approfondimento del tema, cfr. GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, Milano, 2005).


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Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XLI, 17 gennaio 2008, n. 463 Presidente: Lapertosa - Relatore: Chiametti Iva - Cessione intracomunitaria - Codice identificativo comunitario - Omessa comunicazione al cedente nazionale dell’intervenuta modifica Indicazione in fattura di un codice errato - Errore formale - Non imponibilità dell’operazione (D.L. 30 agosto 1993, n. 331, artt. 41 e 46; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 5) Nell’ipotesi di cessione intracomunitaria, l’indicazione in fattura di un codice identificativo comunitario errato a causa dell’omessa comunicazione della sua modifica da parte del soggetto estero, rappresentando un errore meramente formale, non comporta il venir meno del regime di non imponibilità Iva. Svolgimento del processo Con ricorso notificato l’8 gennaio 2007, [...] chiedeva l’annullamento dell’avviso di accertamento n. [...] a titolo di Iva, per il periodo d’imposta 2004, emesso dall’ufficio dell’Agenzia delle Entrate di Milano 1, notificato l’8 novembre 2006 per un importo totale pari ad euro 159.219,00. Il ricorrente emetteva fatture per cessioni intracomunitarie senza Iva e non imponibili ai sensi dell’art. 41 del D.L. 331/1993. Parte attorea asseriva che le fatture contestate dall’ufficio riportavano numeri identificativi non corretti in quanto nel frattempo modificati. La modifica del numero identificativo degli operatori comunitari non veniva dagli stessi comunicata al ricorrente che, a tal fine, produceva corrispondenza intrattenuta con i propri clienti al fine di attestare la veridicità della propria tesi. Parte ricorrente qualificava l’inconveniente intervenuto quale errore formale in quanto non dipendente dalla propria responsabilità, significando che nel nostro attuale ordinamento non esisteva alcuna norma sanzionatoria prevista per l’irregolare indicazione del numero identificativo. L’ufficio si costituiva in data 3 settembre 2007 affermando che l’indicazione del numero identificativo Iva era considerato dall’art. 46 del D.L. 331/1993 elemento essenziale e la mancata indicazione causava la perdita del beneficio di non imponibiltà. L’ufficio menzionava la sentenza n. 116 della Commissione tributaria di Alessandria, la quale

sosteneva che la mancata osservazione delle disposizioni contenute nella legge relativa agli scambi internazionali non per buona fede, ma per negligenza faceva perdere il diritto a fruire delle agevolazioni previste dagli artt. 6 del D.Lgs. 472/1997 e 8 del D.Lgs. 546/1992. L’ufficio chiedeva il rigetto del ricorso proposto dal ricorrente. Il ricorrente chiedeva la trattazione del ricorso in pubblica udienza. Presenti all’udienza le parti che hanno insistito nelle proprie richieste ed eccezioni. Motivi della decisione Il ricorso viene accolto alla stregua delle seguenti motivazioni e argomentazioni. Esaminando attentamente la documentazione allegata al fascicolo processuale, risulta che parte ricorrente abbia agito in “buona fede”. Infatti, una volta in possesso della partita Iva del cliente estero, la ricorrente provvedeva ad emettere regolari fatture secondo le regole dettate dall’art. 41 del D.L. 331/1993. Il soggetto estero, in presenza di numero di partita Iva modificato rispetto a quello precedente, avrebbe dovuto informare il fornitore italiano, che a sua volta l’avrebbe modificato per le successive fatture di vendita. Il Collegio giudicante condivide appieno la giustificazione addotta nel ricorso di parte ricorrente ove afferma «che l’indicazione errata del numero identificativo dei suddetti operatori comunitari sulle fatture emesse non è dipesa da responsabilità della società italiana (ora ricorrente), ma da omesse comunicazioni in tal senso degli operatori comunitari», come comprovato dalla corrispondenza, all’uopo allegata al fascicolo processuale. È ben chiara al Collegio la problematica sviluppata ampiamente nel ricorso, laddove viene affermato che non può essere posta a carico dell’imprenditore italiano, quale ricorrente che effettua centinaia di operazioni commerciali al mese verso operatori comunitari, l’obbligo di verificare ogni qualvolta che deve emettere fattura, la correttezza o meno del numero di partita Iva, tenuto conto tra l’altro che, il più delle volte, si tratta di operatori economici con i quali da tempo si intrattenevano e si intrattengono rapporti commerciali per i quali la


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ricorrente non poteva e non può immaginare la modifica del numero identificativo. L’errore compiuto dalla società, è a giudizio dei giudici, da considerarsi a tutti gli effetti errore scusabile e prettamente formale, quindi, non imputabile in quanto non dipendente da responsabilità del soggetto italiano (venditore), tanto più che nel nostro ordinamento legislativo, non esiste alcuna norma specifica che sanziona l’irregolare indicazione del codice identificativo Iva comunitario. Pur in presenza di un simile errore, il comportamento di parte ricorrente non ha provocato alcun danno all’erario, e quindi, l’operato svolto dall’ufficio delle Dogane prima e, poi dall’Agenzia delle Entrate, in seconda battuta, deve essere annullato tout court.

Seppure la società ricorrente non abbia arrecato danno all’erario con tale suo comportamento, al Collegio giudicante appare equo determinare una sanzione, in presenza di violazioni meramente formali, come quella della fattispecie in esame, che tiene conto della ripetibilità dell’errore e anche da intendersi come sanzione residuale. A titolo di sanzione amministrativa, la sezione determina l’importo di complessivi euro 1.161,00 ai sensi dell’art. 5, comma 3, del D.Lgs. 471/1997. Il Collegio giudicante dichiara non dovuta l’Iva per l’importo di euro 53.073,63. Determina la sanzione amministrativa pari a euro 1.161,00 ai sensi dell’art. 5, comma 3, del D.Lgs. 471/1997. Spese compensate.

Nota

La Commissione tributaria provinciale di Milano accoglieva il ricorso, evidenziando che le fatture emesse dal cedente erano da considerarsi regolari, poiché sarebbe stato compito dell’operatore estero comunicare la variazione; si trattava, pertanto, di un errore scusabile, prettamente formale, in quanto il ricorrente aveva agito in buona fede e non con l’intento di evadere l’imposta. In più, detto errore non aveva provocato alcun danno all’erario. Riteneva, quindi, non dovuto alcun importo a titolo di Iva. A tal proposito, si evidenzia come, secondo l’art. 50, comma 1, del D.L. 331/1993, le cessioni intracomunitarie di cui all’art. 41, comma 1, lett. a, e le prestazioni di servizi di cui all’art. 40, commi 5, 6 e 8, sono effettuate senza applicazione dell’imposta nei confronti dei cessionari e dei committenti «che abbiano comunicato il numero di identificazione agli stessi attribuito dallo Stato membro di appartenenza». Ciò che il citato art. 50 prescriverebbe al fine della non assoggettabilità ad imposta dell’operazione sarebbe, tuttavia, rappresentato esclusivamente dal fatto che il cliente estero intracomunitario trasmetta al cedente il proprio numero di partita Iva e, quindi, che il cessionario si identifichi come soggetto passivo del tributo nel proprio Stato di residenza. In tal senso, Cass., 28 maggio 2007, n. 12455, in banca dati fisconline, con riferimento ad una fattispecie in cui in fattura era stata, addirittura, omessa l’indicazione del codice in esame, sia pure trasmesso dal cessionario. Secondo la Corte, ritenere che le operazioni divengano imponibili per il solo fatto che il cedente abbia omesso di indicare in fattura il codice del cessionario estero, si porrebbe in contrasto, non solo con le disposizioni degli artt. 41, comma 1, lett. a e 50, comma 1,

Nel caso sottoposto ad analisi, il contribuente aveva emesso fatture per cessioni intracomunitarie non imponibili ai fini Iva ai sensi dell’art. 41 del D.L. 331/1993. Il codice identificativo comunitario indicato risultava, tuttavia, errato, in quanto modificato dal cessionario estero, il quale non aveva, poi, provveduto a comunicare al cedente l’intervenuta variazione. L’a.f. riteneva, quindi, insussistenti i presupposti per qualificare le operazioni come non imponibili e recuperava a tassazione la relativa imposta. Secondo il ricorrente, tale errore non dipendeva da propria responsabilità, in quanto sarebbe stato compito del cessionario informarlo di detta variazione. Affermava, inoltre, l’inesistenza nell’ordinamento di alcuna norma tale da sanzionare le irregolarità concernenti il numero identificativo e, pertanto, tale inesattezza non poteva essere considerata come un errore sostanziale. Costituitosi in giudizio, l’ufficio sosteneva, invece, che l’indicazione in fattura del numero identificativo era da considerare, ai sensi dell’art. 46, del D.L. 331/1993 (secondo cui «la fattura deve [...] contenere l’indicazione del numero di identificazione attribuito [...] al cessionario o committente dallo Stato membro di appartenenza [...]»), elemento indispensabile per l’applicazione del regime di non imponibilità dell’operazione intracomunitaria. Di conseguenza, il mancato rispetto di tale condizione comportava la soggezione ad Iva della cessione che veniva, quindi, paragonata ad una vendita interna (sull’argomento, PEIROLO, Il codice identificativo Iva del cessionario/committente comunitario: casi particolari, in Azienda & Fisco, 2003, 9, 403 ss.).


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del D.L. 331/1993 che non contengono tale esplicita comminatoria, ma anche con i principi del diritto comunitario, secondo i quali non può la medesima operazione essere assoggettata ad imposizione, sia nel Paese di origine dei beni, sia in quello di destinazione degli stessi, con un’inammissibile duplicazione d’imposta. Pertanto, la violazione dell’obbligo formale posto dall’art. 46 del D.L. 331/1996 non comporterebbe di per sé violazione della norma sostanziale contenuta nell’art. 50 (sull’argomento, si veda pure Comm. trib. prov. Milano, 29 aprile 2002, n. 97, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big), nel senso che la mancata indicazione in fattura del codice identificativo del cessionario (riportato, tuttavia, sul modello Intrastat), rappresenterebbe una violazione meramente formale non comportante un debito d’imposta e, di conseguenza, secondo l’art. 10, comma 3, della legge 212/2000, non sarebbero applicabili sanzioni pecuniarie.

Sul tema si vedano LEDDA, Gli obblighi di fatturazione ai fini Iva derivanti dall’invio di beni in conto deposito in altro stato UE, in Azienda & Fisco, 2000, 13, 647 ss.; EBREO, L’omessa indicazione in fattura del numero identificativo del cessionario intracomunitario, in Azienda & Fisco, 1998, 21, 1021 ss.; PEIROLO, Omessa indicazione in fattura del codice identificativo Iva del cessionario comunitario, in Azienda & Fisco, 2003, 1, 48 ss.; ID., La posizione della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulle frodi Iva in ambito intracomunitario, in Fisco, 2007, 37, 5442 ss.; D’ARDIA, La verifica delle partite Iva comunitarie, in Azienda & Fisco, 2002, 8; BRACCHITTA, Cessioni intracomunitarie: indicazione in fattura del codice identificativo del cessionario, in Azienda & Fisco, 1997, 15, 767 ss.; PISANI, Cessioni intracomunitarie: le responsabilità del cedente nazionale, in Fisco, 2003, 42, 6509 ss.; MANDARINO, L’inesatta partita Iva nella fattura per cessione UE non è sanzionabile, in Fisco, 2005, 34, 5339 ss.


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Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXIV, 3 luglio 2007, n. 8 Presidente - Relatore: Cellitti Processo tributario - Sentenza - Errori materiali - Procedimento di correzione ex art. 288 c.p.c. Ammissibilità (C.p.c., art. 288) La sentenza conclusiva del processo tributario può essere sottoposta al procedimento di correzione di errori materiali, ai sensi dell’art. 288 c.p.c., quando sia palese e immediatamente percepibile che la divergenza tra motivazione e dispositivo sia stata causata da una semplice svista nella stesura del testo definitivo. Svolgimento del processo [Omissis] Premesso che il dott. C.A.M., a mezzo dei suoi difensori prof. P.M. e il dott. G.P. ha chiesto la correzione della sentenza n. 142/34/07 pronunciata il 13 marzo 2007 Rga 3693/2006 contro l’Agenzia delle Entrate [...] nella parte in cui il Collegio, in parziale accoglimento dell’appello dell’ufficio, sanciva che «[...] al contribuente compete il rimborso della differenza tra quanto trattenuto dal sostituto d’imposta e il dovuto applicando la ritenuta del 12,50% sull’immobile determinato secondo i criteri dell’art. 42, comma 4, T.U.I.R. allora vigente» e cioè l’applicazione dell’aliquota del 12,50% sul rendimento, mentre nel dispositivo erroneamente dichiarava «applicabile l’aliquota del 12,50% sulle somme corrispondenti ai versamenti del contribuente» incorrendo in un palese contrasto tra motivazione e dispositivo riconducibile a semplice errore materiale; ritenuto che il ricorso va accolto; Motivi della decisione ritenuto che il procedimento di correzione, pur non essendo espressamente previsto dalle norme

Nota Sull’annotato provvedimento devono essere necessariamente compiuti due rilievi: il primo sulla possibilità di considerare applicabile il procedimento di correzione degli errori materiali ex art. 288 c.p.c. al processo tributario, il secondo, inve-

sul processo tributario, è tuttavia sicuramente compatibile ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. 546/1992; considerato che a differenza dell’error in iudicando deducibile ex art. 360 c.p.c. e dell’errore di fatto revocatorie ex art. 395, n. 4, c.p.c., la fattispecie in esame si risolve in una fortuita divergenza fra il giudizio e la sua espressione letterale, cagionata da una svista o disattenzione nella redazione della sentenza e come tale percepibile e rilevabile ictu oculi senza bisogno di alcuna attività ricostruttiva del pensiero del giudice, il cui contenuto resta individuabile e individuato senza incertezza (Cass. 17392 del 30 agosto 2004); rilevato che la sentenza de quo non è stata impugnata e che, pertanto, è introducibile il procedimento di correzione per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 335 del 10 novembre 2004. Ritenuto che effettivamente la sentenza contiene nel dispositivo una statuizione contrastante col giudizio espresso nella parte motiva di cui quello che deve costituire la sintesi e la logica conseguenza; considerato che si versa, pertanto, in evidente errore materiale, P.Q.M. visto l’art. 288 c.p.c. procede alla correzione dell’errore materiale della sentenza di questo Collegio n. 142/34/07, pronunciata il 13 marzo 2007, Rga 3693/2006 emessa sull’appello dell’Agenzia delle Entrate [...] contro il dott. C.A.M. di cui in premessa, correggendo il dispositivo nel senso che laddove esso dichiara «applicabile l’aliquota del 12,50% sulle somme corrispondenti ai versamenti dei contribuenti», deve invece intendersi e ritenersi per scritto: «dichiara applicabile l’aliquota del 12,50% sul rendimento». Dispone che la segreteria provveda per l’annotazione del presente provvedimento sull’originale della sentenza 142/34/07. [Omissis]

ce, sui presupposti e limiti cui soggiace la correzione degli errori materiali della sentenza. Sotto il primo profilo la soluzione sembra risiedere nel dettato stesso delle norme sul processo tributario emergenti dal D.Lgs. 546/1992, anche se una considerazione di questo tipo non è poi così ovvia. La norma contenuta nell’art. 1, comma 2, dispone


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che riguardo al processo tributario, quando non vi è un’espressa regolamentazione dettata dal decreto in questione, i giudici tributari “applicano” le norme del Codice di procedura civile, qualora sussista il presupposto della compatibilità. Come emerge chiaramente dalla lettera della norma non è data una mera possibilità al giudice di operare una scelta, bensì un dovere in questo senso, con l’unico limite della presunta incompatibilità col processo tributario, stante la sua peculiare natura. In effetti la questione sembra non destare dubbi a tal riguardo, tanto più che per costante dottrina e giurisprudenza le norme del Codice di procedura civile sono considerate un elemento integrativo del regolamento sul processo tributario attraverso il meccanismo dell’analogia legis che si aggiungerebbe al mero rinvio recettizio alle disposizioni del primo libro del Codice di procedura civile (BAGLIONI-MENCHINI-MICCINESI, Il nuovo processo tributario, Milano, 2004, II, 7). È anche stato fatto il rilievo che il vuoto normativo del D.Lgs. 546 del 1992 potrebbe essere colmato facendo ricorso all’analogia iuris, nel senso che l’applicazione delle norme processuali del Codice di rito dovrebbe essere intesa come un ricorso alle regole del diritto processuale comune (TESAURO, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, 20). Interessante per la questione in esame risulta essere una pronuncia delle sezioni unite della Cassazione che amplia la previsione dell’art. 391-bis c.p.c. che limita il procedimento di correzione alle ipotesi contemplate dall’art. 375, comma 1, c.p.c., n. 4 e 5 ovvero alle ordinanze emesse sulla pronuncia del regolamento di competenza e di giurisdizione, nonché alle ordinanze con cui il ricorso viene accolto o rigettato per manifesta fondatezza o infondatezza o viene dichiarato inammissibile per mancanza dei motivi ex art. 360 c.p.c. o per difetto dei requisiti di cui al nuovo articolo 366-bis (sul concetto di errore materiale indicato in questa norma si veda CONSOLO, in Commentario alla riforma del processo civile, a cura di Consolo-Luiso-Sassani, Milano, 1996, 509). Infatti, i giudici di legittimità hanno ritenuto il procedimento di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c. estensibile a tutti i provvedimenti della Suprema Corte, avendo paragonato questo procedimento ad una sorta di intervento di natura amministrativa per ripristinare la corrispondenza fra quanto la sentenza ha inteso dichiarare e quanto ha formalmente dichiarato, poiché si tratterebbe di errori che non riguardano l’individuazione e la valutazione degli elementi rilevanti della causa, e la successiva formazione del giudizio stesso (Cass., sez. un., 14 febbraio 1983, n. 1104; anche Cass., sez. un., 17 dicembre 2007, n. 26480; Cass., 28 marzo

2008, n. 8103). Tale argomentazione non può dunque trovare ostacolo se riferita al processo tributario, come ha sempre del resto confermato la dottrina prevalente (BAGLIONI-MENCHINI-MICCINESI, Il nuovo processo tributario, cit., 576; SOCCI-SANDULLI, Manuale del nuovo processo tributario, Bologna, 1995, 246; BAFILE, Il nuovo processo tributario, Padova, 1994, 135). La clausola di compatibilità nel caso di specie dovrebbe semmai essere meglio valutata riguardo all’adattabilità del procedimento quando la richiesta provenga da una parte soltanto con la conseguente instaurazione del contraddittorio tra le parti fissando apposita udienza, e ancora alla durata del procedimento di correzione, ai termini per proporre eventualmente impugnazione contro la sentenza rispetto alle parti corrette. Questo primo aspetto va inoltre integrato in riferimento ai presupposti e limiti della correzione, nel senso che l’applicabilità di questa norma anche nella sede tributaria dovrebbe operare senza ostacoli, quando il provvedimento di correzione concerne solo una semplice rettifica, tale da non alterare il contenuto logico-giuridico della decisione oppure quando l’errore possa essere eliminato mediante l’interpretazione del testo della sentenza addirittura incidendo in questo caso persino sull’esclusione della riapertura del termine per impugnare (Cass., 15 dicembre 1982, n. 6931). Del resto, la richiamata sentenza della Corte costituzionale ha sancito che è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli art. 3 e 24 Cost., l’art. 287 c.p.c., limitatamente alle parole «contro le quali non sia stato proposto appello». Diversamente, si avrebbe l’esclusione di questo procedimento per la sola sentenza di primo grado già investita dall’appello, ma non anche per quella non ancora appellata, causando in tale modo una situazione eccezionale rispetto alla regola, ricavabile dall’esame del sistema normativo in cui tale norma si inserisce, per cui il procedimento di correzione sarebbe insensibile alla proposizione dell’impugnazione ed è di competenza del giudice che ha emesso il provvedimento affetto da errore (lato sensu) ostativo. Nel caso di specie, è sicuramente ravvisabile l’ipotesi di un errore materiale – e a tale proposito il riferimento alla sentenza nel procedimento di correzione non è tanto al provvedimento giurisdizionale, quanto al mero “documento” – mentre al di fuori delle ipotesi di errore contemplate dall’art. 287 c.p.c., nel caso di discordanza logicogiuridica tra motivazione e dispositivo si rientrerebbe senza dubbio nell’ipotesi di motivazione contraddittoria ai sensi dell’art. 360, n. 5.


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IL DIES A QUO DEL TERMINE BREVE PER LA RIPROPOSIZIONE DELL’APPELLO 81

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XVIII, 10 luglio 2007, n. 117 Presidente: Pitanza - Relatore: Torchia Processo tributario - Impugnazione - Decorrenza - Termine breve - Notificazione atto d’appello - Esclusione (C.p.c., artt. 326, comma 1, 327 e 358; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 51 e 60) La notifica dell’atto di appello è inidonea a far decorrere il termine perentorio per proporre l’impugnazione, poiché tale effetto deriva unicamente dalla notificazione della sentenza, che è la sola attività processuale da cui si determina il dies a quo per proporre l’impugnazione nel termine di sessanta giorni, altrimenti si applica il termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza. Svolgimento del processo La vertenza trae origine dal ricorso avverso l’avviso con il quale l’Agenzia delle Entrate di Ragusa accertava per l’anno d’imposta 1999, a carico della C. S.r.l., maggiori ricavi per lire 237.654.000. L’ufficio perveniva a detto importo non dichiarato dalla società applicando, a quanto venduto dalla stessa nell’anno in questione una percentuale di ricarico medio ponderato del 27,04%. Inoltre considerava come costo indeducibile l’importo di lire 84.413.000, considerava indebitamente detratta Iva per lire 430.373 e riteneva dovuta la somma di lire 84.413.000 per Iva relativa ai suddetti maggiori ricavi. La S.r.l. ricorrente eccepiva l’illegittimità dell’accertamento per violazione dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973. Sosteneva, infatti, che l’ufficio non poteva far ricorso a presunzioni semplici in presenza di contabilità ordinaria tenuta regolarmente. La Commissione tributaria provinciale di Ragusa rigettava il ricorso e condannava la ricorrente alle spese del giudizio liquidate in lire 1.000.000. Osservava che l’operato dell’ufficio era legittimo in quanto lo stesso, anche in presenza di contabilità ordinaria aveva il potere di accertare redditi non dichiarati. Aggiungeva che il ricorso era sprovvisto di prove specie in merito alle deduzioni dei costi. La sentenza viene appellata dalla S.r.l. contribuente la quale eccepisce che i verificatori aveva-

no considerato come ricavo anche le spese per il trasporto. Inoltre gli stessi avevano desunto la percentuale di ricarico per il 1999 dai prezzi del listino relativo all’anno 2001. Evidenziavano anche che più del 70% delle vendite aveva per oggetto prodotti “A” per i quali la ditta produttrice imponeva un ricarico del 20,50%. Infine eccepivano che l’attività della S.r.l. era rivolta a prodotti soggetti a scadenza che pertanto in prossimità di quest’ultima, venivano venduti senza alcun ricarico. L’appello, proposto in data 23 gennaio 2007, veniva depositato nella cancelleria della Commissione, che lo iscriveva col n. [...] di Rg oltre il trentesimo giorno e pertanto fuori termine. Pertanto, onde ovviare all’eccezione d’inammissibilità da parte dell’ufficio, la S.r.l. lo riteneva in data 27 marzo 2007 e questa volta lo depositava entro il termine di legge. Anche in questo caso veniva aperto altro procedimento che portava il n. [...] di Rg. Controdeduce l’ufficio che eccepisce l’inammissibilità anche del secondo appello in applicazione del principio di consumazione del diritto all’impugnazione. All’uopo precisa che la S.r.l. contribuente aveva già proposto appello avverso la sentenza di primo grado e che lo stesso poteva essere rinnovato a condizione che non fosse scaduto il termine breve di 60 giorni decorrente dalla notifica del primo atto. Evidenzia che, nel caso di specie, il primo appello era stato proposto il 23 gennaio 2007 e quindi fuori del suddetto termine breve. Nel merito, in via del tutto subordinata, chiede il rigetto dell’impugnazione e la conferma della decisione impugnata. Motivi della decisione Questa Commissione tributaria regionale, dopo aver proceduto alla riunione del procedimento portante il n. [...] di Rg al procedimento n. 781/2007, osserva che, in primo luogo, è necessario esaminare l’eccezione preliminare avanzata dall’ufficio in relazione all’inammissibilità dell’appello. Invero la questione relativa alla riproponibilità dell’atto di appello, non ancora dichiarato inam-


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missibile, nel rispetto del termine breve o di quello lungo di un anno decorrente dal deposito della sentenza è abbastanza controversa. Infatti, parte della giurisprudenza che è poi quella richiamata dall’ufficio, propende per il cosiddetto principio della consumazione del diritto all’impugnazione nel senso che la notifica dell’atto di appello varrebbe quale conoscenza legale della sentenza appellata e non notificata. In buona sostanza in alcune decisioni si sostiene l’equivalenza tra notificazione della sentenza e notificazione dell’impugnazione. Altra giurisprudenza e la gran parte della dottrina sostiene invece che, ai fini della decorrenza del termine breve, per impugnare la notifica dell’appello non è equiparabile alla notifica della sentenza. Tale effetto, infatti, si deve ricollegare non già alla conoscenza di quest’ultima, comunque acquisita, ma al compimento di quell’attività acceleratoria e sollecitatoria espressamente individuata dal comma primo dell’art. 326 c.p.c. nella notificazione della decisione. Dall’altra parte a tale interpretazione si giunge sia attraverso l’interpretazione letterale delle norme processuali sia attraverso la loro interpretazione sistematica. Questo Consiglio pertanto condivide questo secondo orientamento, peraltro affermato dalla Cassazione con sentenza n. 8241 del 16 giugno 2000, n. 5768 del 4 ottobre 1983 e dalla recente n. 18457 del 24 agosto 2006. In estrema sintesi si ritiene che il termine breve d’impugnazione decorre soltanto dalla notificazione della sentenza senza possibilità di equipollenti. Di conseguenza tale decorrenza non si configura nei confronti dei soggetti processuali che non siano né notificanti né notificati a nulla rilevando che gli stessi siano venuti altrimenti a conoscenza della sentenza. Alla luce di dette considerazioni l’eccezione preliminare dell’ufficio viene rigettata e l’appello della S.r.l. viene ritenuto ammissibile, perché riproposto entro il termine lungo di un anno dalla pubblicazione della sentenza. Passando al merito dell’impugnazione occorre

in prima battuta affrontare la problematica della legittimità del ricorso all’accertamento induttivo in presenza di una contabilità regolarmente tenuta. Invero, come correttamente eccepito dalla S.r.l., la contabilità non era stata contestata in alcuna sede e di conseguenza all’accertamento per cui è causa mancavano obiettivamente i presupposti fondamentali e legislativamente previsti per fare ricorso all’accertamento induttivo. Ciò anche in considerazione della circostanza che i verificatori non hanno riscontrato presunzioni con requisiti di gravità, precisione e concordanza tali da considerare la contabilità inattendibile ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973. Vero è come affermato dai primi giudici, che anche in presenza di una contabilità regolamentare tenuta l’ufficio è legittimato a ricercare eventuali poste di reddito non dichiarate. Ma è altrettanto vero che, in questo caso, si deve fare ricorso all’accertamento analitico. In estrema sintesi se non si contesta la tenuta della contabilità non si può fare ricorso all’accertamento induttivo. È necessario invece ricorrere all’accertamento analitico. In ogni caso, nell’accertamento in questione, anche la ricostruzione dei maggiori ricavi appare errata. Ciò sia in termini di percentuale di ricarico che di determinazione di costo del venduto. Non si comprende infatti come i verificatori non abbiano preso in considerazione gli sconti o premi praticati ai clienti così come appare incongrua l’utilizzazione del listino prezzi del 2001 quanto l’accertamento si riferiva al 1999. Infine appare pretestuosa la mancata considerazione del contratto con il prevalente fornitore che impone una percentuale di ricarico di gran lunga inferiore a quella indicata nell’accertamento. Ne discende che la sentenza impugnata deve essere riformata con il conseguente accoglimento dell’originario ricorso della società contribuente. Sussistono comunque giusti motivi, attesi la natura delle questioni trattate e il complessivo andamento della lite, per disporre la compensazione delle spese di giudizio.

Nota di Alessandra Villecco

della sentenza. Il commento tende a bilanciare le varie posizioni assunte da dottrina e interpreti del diritto sulla questione in esame, pur ritenendo che la ratio della norma in questione sia esplicita sull’inderogabilità degli adempimenti processuali, anche alla luce di quanto la medesima norma dispone in riferimento ad altri mezzi d’impugnazione.

La pronuncia in commento va esaminata per i profili argomentativi sull’interpretazione della norma processuale contenuta nell’art. 326 c.p.c., a tenore della quale, per far decorrere il termine breve d’impugnazione, non sarebbero ammesse forme equivalenti alla notificazione


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Considerazioni preliminari La questione oggetto della pronuncia in commento è ancora aperta e oscillante tra due contrapposti orientamenti della giurisprudenza. Da una parte1 viene sostenuta la consumazione del diritto all’impugnazione anche con la notifica dell’atto d’appello, quale attività idonea a portare a conoscenza legale la sentenza appellata e non notificata, dall’altra i giudici, specie di legittimità2, nonché la prevalente dottrina3, sostengono che solo dalla notifica della sentenza decorra il termine breve per proporre l’impugnazione. La Commissione tributaria siciliana in commento tra le due accennate posizioni si adegua a quest’ultimo orientamento perché considera la notificazione della sentenza «quell’attività acceleratoria e sollecitatoria» che il legislatore ha prescritto a tal fine nella norma di cui all’art. 326, comma 1, c.p.c. senza che possano considerarsi equivalenti altre attività ai fini della decorrenza del termine breve. E su questo punto non si può che essere concordi con i giudici di questa Commissione tributaria. In particolare, nel caso di specie la sentenza veniva impugnata con due successivi atti d’appello, il primo dei quali inammissibile, in quanto non era stato depositato presso la segreteria della Commissione tributaria adita entro il termine di trenta giorni dalla notificazione della sentenza, ai sensi del primo comma dell’art. 22 del D.Lgs. 546/1992, mentre il successivo atto d’appello era stato notificato anteriormente alla pronuncia di inammissibilità del primo, ma sessantatre giorni dopo la sua notifica, in ogni caso entro il termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza ai sensi dell’art. 327 c.p.c. L’ufficio aveva poi eccepito anche l’inammissibilità del secondo appello, sostenendo che il diritto d’impugnare era venuto meno per decorrenza del termine breve dei sessanta giorni, in quanto la notificazione del primo atto d’appello avrebbe fatto decorrere tale termine in virtù del principio di consumazione del diritto all’impugnazione. La Commissione tributaria regionale, al cui vaglio

1 Cass., sez. lav., 23 gennaio 1998, n. 643, in Foro It., 1998, I, 2924, con nota critica di RASCIO, Sentenza non notificata e appello sottoscritto da procuratore extra districtum sul termine di riproposizione dell’impugnazione viziata. 2 La recente Cass., 10 settembre 2007, n. 18996, sulla scia della precedente Cass. n. 6375/2006, ha chiaramente affermato l’applicabilità della norma contenuta nell’art. 327 c.p.c. al pro-

è stata sottoposta la questione, ha affermato che la notifica dell’appello non può avere lo stesso valore della notifica della sentenza, e fin tanto che non vi sia stata una pronuncia che dichiari l’inammissibilità dell’appello, questo può essere proposto entro i termini consentiti per impugnare, ovvero entro il termine breve dalla notificazione della sentenza ai sensi dell’art. 326, comma 1, c.p.c. oppure entro un anno dal deposito della sentenza ai sensi del primo comma dell’art. 327 c.p.c. Non si può fare a meno di segnalare che in una recente pronuncia, successiva a quella in commento, la Corte di Cassazione si è orientata diversamente4. Rifacendosi ad un precedente filone giurisprudenziale che non considera la notificazione della sentenza l’unica «modalità di acquisizione della conoscenza “legale” del provvedimento impugnando», il giudice di legittimità ha elaborato il principio per cui anche un’attività processuale diversa da quella indicata nella norma di cui all’art. 326 c.p.c. può rientrare nel dettato della norma medesima, purché si tratti di un’attività che determini una conoscenza “legale”, con l’esclusione dunque delle ipotesi di mera conoscenza di fatto del provvedimento come, per esempio, può avvenire con la richiesta e consegna da parte della cancelleria della copia della sentenza. Infatti, solo un’attività processuale, che sia idonea con effetti esterni rilevanti a far conoscere la sentenza, non provoca una lesione del diritto delle parti ai sensi dell’art. 327 c.p.c. di giovarsi dell’intero arco temporale annuale per accettare il formarsi del giudicato oppure per impugnare. Sulla decorrenza del termine breve per impugnare Per giurisprudenza e dottrina tutta la questione ruota dunque attorno al dato normativo dell’art. 326 c.p.c. per individuare con precisione se possano sussistere o meno attività processuali alternative alla notificazione della sentenza affinché cominci a decorrere il termine breve per proporre l’impugnazione.

cedimento di appello tributario e che per la decorrenza del termine lungo vale solo la pubblicazione della sentenza che si realizza col deposito della stessa senza che assuma alcun rilievo la comunicazione del relativo avviso da parte della cancelleria. 3 IMPAGNATIELLO, Proposizione di impugnazione inammissibile, conoscenza della sentenza e decorrenza del termine breve per impugnare, in Foro It., 1994, I, 439

ss.; MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Torino, 2007, II; CERINO CANOVA, Sulla soggezione del notificante al termine breve di gravame, in Studi in onore di Carnacini, Milano, 1984, II, 981 ss.; AMATO, Termine breve di impugnazione e bilateralità della notificazione della sentenza nel processo con due sole parti, in Riv. Dir. Proc., 1985, 374 ss. 4 Cass., 10 giugno 2008, n. 15359, in banca dati De Jure, 2008.


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La disciplina dell’appello nel processo tributario del 19925 si esaurisce in dieci articoli. Le modalità di proposizione di questo mezzo d’impugnazione sono indicate nell’art. 53 intitolato “Forma dell’appello”, in particolare il secondo comma di detto articolo richiama la disciplina degli artt. 20, commi 1 e 2, e 22, commi 1, 2 e 3, rispettivamente dedicati alla proposizione e al termine del ricorso, per cui occorre che il ricorso venga depositato presso la segreteria della Commissione tributaria adita entro 30 giorni dalla sua notificazione o dal suo deposito presso la segreteria della Commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata. I termini per impugnare sono stabiliti all’art. 51 in sessanta giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza ad istanza di parte, altrimenti, nel caso in cui non venga eseguita tale notificazione il termine è quello di un anno dalla pubblicazione della sentenza ai sensi dell’art. 327, comma 2, c.p.c., in virtù del richiamo operato dall’art. 38, comma 3, del D.Lgs. 546/1992. Infine, l’art. 60 sancisce che un appello dichiarato inammissibile non può più essere riproposto. Tutte queste disposizioni peraltro, per espressa previsione del legislatore del processo tributario (art. 49), devono essere integrate con la disciplina del Codice di procedura civile, in particolare con le norme contenute nel II libro al capo I del titolo III: e per quanto qui interessa, anche la disposizione di cui all’art. 326, comma 1, c.p.c., la cui funzione e le cui finalità acquistano particolare rilevanza nel caso di specie. Questa norma, nella prima parte del suo primo comma precisa che i termini brevi per impugnare sono perentori, perciò non ammettono abbreviazioni, proroghe, sospensioni o deroghe6 e il loro inutile decorso determina la decadenza dall’im-

5 In generale sull’argomento si veda CONSOLO, Le impugnazioni in generale e l’appello nel nuovo processo tributario, in Fisco, 1994; RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005; BATISTONI FERRARA, Appunti sul processo tributario, Padova, 1995; TESAURO, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991; FINOCCHIARO A.-FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2004; PISTOLESI, L’appello nel processo tributario, Torino, 2002. 6 A questa previsione fanno eccezione alcune ipotesi limitate, come ad esempio nel caso del terzo comma dell’art. 43 c.p.c. per cui il termine

pugnazione, senza possibilità di sanatoria e con rilevabilità d’ufficio7. La seconda del medesimo comma invece precisa il dies a quo per il computo di detti termini: la notificazione della sentenza così come disposta dagli artt. 285 e 286 c.p.c., a prescindere dal fine specifico per cui si effettua la notificazione del provvedimento. Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che non rilevi la mancata contestazione della conformità all’originale della copia notificata della sentenza8 e ha poi affermato, sulla scia di una risalente dottrina9, che tale funzione acceleratoria non può essere attribuita alla notificazione eseguita su iniziativa dell’ufficio giudiziario. Sul computo del termine è pacificamente ammessa l’efficacia bilaterale della notificazione della sentenza, ne deriva che il termine breve decorre tanto per il notificato, quanto per il notificante che sia anch’esso soccombente10. In riferimento al momento di perfezionamento della notificazione, i giudici della Consulta hanno ritenuto legittimo ipotizzare lo sdoppiamento del termine, nel senso che per il notificante detto termine dovrebbe decorrere dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, mentre per il destinatario dal momento in cui l’atto notificato entra nella sua disponibilità11, decisione poi recepita dal legislatore che, con la riforma del 2005, ha modificato l’art. 149 c.p.c. Si giustifica il rigore della giurisprudenza nell’escludere equipollenti alla notificazione della sentenza – purché avvenuta su richiesta delle parti come si è visto – ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare: se così non fosse e si affidasse alla giurisprudenza l’individuazione di tali equipollenti, si creerebbero incertezze assai perniciose sul formarsi della cosa giudicata. Si noti ancora che, anche ad altri fini, emerge il decisivo rilievo della notificazione della sentenza

per proporre appello resta sospeso qualora venga proposta prima l’istanza del regolamento facoltativo di competenza o altri casi individuati specificamente dalla legge. 7 In argomento si veda il commento di BALBI, La decadenza nel processo di cognizione, Milano, 1983, 317. 8 Cass., 19 agosto 2004, n. 16317. 9 CHIOVENDA, Sulla pubblicazione e notificazione delle sentenze civili, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, 1993, II, 28 ss. 10Cass., sez. un., 16 febbraio 1982, n. 3111, in Foro It., 1982, I, 2210; Cass., 17 dicembre 2004, n. 23501; Cass., 2 novembre 2004, n. 7064. In dottrina, AMATO, Termine breve di impugnazione e

bilateralità della notificazione della sentenza nel processo con due sole parti, cit., 330. Contra CERINO CANOVA, Sulla soggezione del notificante al termine breve di gravame, in Riv. Dir. Proc., 1982, 624. 11 La giurisprudenza costituzionale si è espressa in questo senso nelle seguenti pronunce: Corte cost., 23 gennaio 2004, n. 28; 12 marzo 2004, n. 97; 24 marzo 2004, n. 107; 28 aprile 2004, n. 132, in Corr. Giur., 2004, 1307, con nota di GLENDI, La notificazione degli atti dopo l’intervento della Corte costituzionale e cfr. Cass., sez. un., ord. 13 gennaio 2005, n. 458, in Foro It., I, 699, con nota di CAPONI, Svolta delle sezioni unite nella disciplina della notificazione ex art. 140 c.p.c.


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ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare. Così l’art. 328, per quanto riguarda la notifica agli eredi della parte defunta, dispone che il termine per impugnare si interrompe se si verifica la morte o una delle altre circostanze indicate nell’art. 299 c.p.c. e il nuovo termine decorre dal giorno in cui è rinnovata la notificazione della sentenza. Ancora, l’art. 330 dispone che i dati sul luogo di notificazione sono quelli indicati nella sentenza da notificarsi e qualora ciò non sia possibile soccorre il criterio residuale che individua il suddetto luogo presso il procuratore costituito oppure nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio. Ne deriva che i canali alternativi alla notificazione per la conoscenza legale degli atti processuali, ai quali appartiene inevitabilmente anche la sentenza, debbono essere espressamente sanciti, altrimenti verrebbe meno lo scopo di garanzia che tali norme si prefiggono: ad esempio, nel caso della revocazione di cui ai numeri 1, 2, 3 e 5 dell’art. 395 c.p.c., la legge contempla ipotesi nelle quali si prescinde dalla notificazione della sentenza, perché la decorrenza dei termini brevi per impugnare di determina da fatti esterni alla sentenza e dal momento della conoscenza dei quali scatta il computo dei termini per proporre l’impugnazione12. La ratio dell’art. 60, D.Lgs. 546/1992 La norma dell’art. 60 del processo tributario stabilisce, come si è detto, che l’appello “dichiarato” inammissibile non può essere riproposto anche se non è decorso il termine per impugnare, una formula questa che può essere completata con riferimento anche all’appello dichiarato improcedibile, come dispone la norma-guida di cui all’art. 358 c.p.c. Quanto alla forma del provvedimento dichiarativo, per effetto della riforma del ’90 che ha abrogato l’art. 357 sul reclamo al Collegio avverso le ordinanze sull’improcedibilità o inammissibilità, la dot-

12 Si veda in argomento a commento del medesimo provvedimento CACOPARDO-ROMANO, L’art. 60 del D.Lgs. n. 546/1992 ed il termine per la proposizione dell’appello non ancora dichiarato inammissibile, in Giur. di Merito, 2008, 526 ss. 13 ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, 1991, 152 ss. In generale sui motivi inammissibilità e improcedibilità dell’appello si veda SASSANI, Appello (Dir. proc. civ.), in Enc. Dir., Aggiornamento, III, 182 ss.

trina ritiene che ora tali statuizioni vadano pronunciate con sentenza, in quanto idonee a definire il giudizio. Con tale pronuncia, l’appello non è più proponibile anche qualora non fosse decorso il termine per impugnare, essendo oramai la sentenza di primo grado passata in giudicato13. Si tratta dell’attuazione del principio della consumazione dell’impugnazione che, per consolidato orientamento della giurisprudenza, opererebbe solo ove sia intervenuta la declaratoria di inammissibilità. Per tale ragione, fin tanto che non sia intervenuta tale pronuncia, la pura e semplice pendenza dell’impugnazione non precluderebbe la sua rinnovazione, la proposizione di una seconda impugnazione di contenuto anche diverso rispetto alla prima, purché non siano ancora decorsi i termini, sia breve sia lungo, che la legge stabilisce per la proposizione dell’impugnazione medesima14. Occorre poi considerare che il principio della consumazione dell’impugnazione per i giudici di legittimità sarebbe riferibile solo allo stesso mezzo di impugnazione, mentre non opererebbe quando sia preceduto da un’impugnazione di specie diversa15. Così, la proposizione dell’appello verso una sentenza inappellabile non dovrebbe precludere il successivo ricorso per cassazione. Conclusioni La sola interpretazione dell’art. 326 c.p.c. non è dunque sufficiente a chiarire fino in fondo la questione che oramai da tempo non trova una soluzione univoca. Occorre, invece, fare delle considerazioni di carattere più ampio. Il diritto processuale civile tende a delineare un sistema che si fonda su principi di carattere generale, emergenti dal legame organico e omogeneo delle norme processuali tra loro e le norme processuali medesime che sono attuazione di quei principi16. Ebbene, non vi è ragione alcuna di escludere questi principi dal processo tributario. Così può capitare che qualche norma, pur essendo chiara ed esplicita

14 La giurisprudenza ha peraltro sostenuto che il gravame dichiarato inammissibile non si può considerare equipollente alla notificazione della sentenza. In dottrina si veda MONTESANO-ARIETA, in Trattato di diritto processuale civile, I, 2, 1759; AMATO, in Riv. Dir. Proc., 1985, 374. L’importanza di quest’assunto vale per spiegare l’ipotesi del caso in cui la riproposizione dell’impugnazione provenga da impugnante diverso da quello originario, perché se ad esempio si trat-

tasse del soggetto che è succeduto al primo ai sensi dell’art. 110, come nell’ipotesi di una successione intervenuta a seguito di fusione di due società, non opererebbe la preclusione a causa della consumazione dell’impugnazione per l’intervenuta pronuncia di inammissibilità (Cass., 7 gennaio 2004, n. 50). 15 Cass., sez. un., 15 novembre 2002, n. 16162. 16 TOMMASEO, Lezioni di diritto processuale civile, I, Padova, 2005, 2.


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nel suo contenuto, debba essere interpretata alla luce di principi generali perché, pur essendo l’attività processuale cui si riferisce una norma il presupposto unico ed essenziale per il raggiungimento di quel determinato scopo, può darsi che un’attività equivalente sia idonea al medesimo fine. A tale proposito, un utile chiarimento può giungere dalla recente sentenza della Cassazione, laddove si afferma che la «la circostanza idonea a provocare la decorrenza del termine breve d’impugnazione sia solo una conoscenza “legale” di esso, id est una conoscenza conseguita per effetto di un’attività svolta nel processo [...] idonea a determinare ex se detta conoscenza, o tale comunque da farla considerare acquisita con effetti esterni rilevanti sul piano del rapporto processuale». In altre parole, viene data qui decisiva rilevanza al principio della libertà di forme, purché esse siano idonee al raggiungimento dello scopo obiettivo assegnato dal legislatore a un determinato atto. Tuttavia, tale principio non vale per far caducare delle attività processuali utilmente adempiute anche se nella forma sbagliata, bensì proprio il contrario: salvaguardare per quanto possibile le attività poste in essere anche quando vi sia un vizio di forma. In questo caso, invece, l’applicazione rovesciata di questo principio, avrebbe sul piano pratico la conseguenza di negare ad una parte il suo diritto di difesa, che proprio attraverso l’impugnazione trova la sua effettività. La norma ex art. 326 c.p.c. vuole che sia la volontà della parte vittoriosa a determinare in tempi brevi il

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passaggio in giudicato della sentenza attraverso l’impulso di un’attività che culmina nell’esecuzione della notificazione del provvedimento decisorio e che pertanto nessun’altra attività potrebbe essere equivalente, specie se posta in essere dal soccombente come la notificazione dell’atto d’appello. In questo caso, infatti, si tratterebbe di un’attività posta a svantaggio del soccombente, perché compiuta per ridurre il tempo ai fini della formazione del giudicato e quindi volta ad escludere i rimedi impugnatori. Ne consegue che ove non vi sia stata una pronuncia che abbia dichiarato inammissibile l’appello, questo potrebbe essere ancora riproposto in osservanza a quanto stabilisce l’art. 60, D.Lgs. 546/1992, proprio perché non vi è ragione di dubitare che il termine a cui si riferisce questa norma richiami tanto quello lungo quanto quello breve, altrimenti anche nella formulazione dell’art. 51 il legislatore li avrebbe tenuti separati. Invece nella norma si legge: «Se la legge non dispone diversamente, il termine per impugnare la sentenza della Commissione tributaria è di sessanta giorni decorrente dalla sua notificazione ad istanza di parte, salvo quanto disposto dall’art. 38, comma 317». In conclusione, si deve ritenere che nel bilanciamento tra lo scopo sotteso ad una norma che può indurre ad una deviazione circa il contenuto esatto della medesima e l’interesse prevalente della parte a difendersi, che di quel preciso contenuto normativo si giova, debba indubbiamente prevalere quest’ultimo.

Commissione tributaria provinciale di Caserta, sez. XV, 17 settembre 2007, n. 271 Presidente e Relatore: Colarusso Processo tributario - Giurisdizione delle Commissioni tributarie - Fermo amministrativo dei beni mobili registrati - Differenziata natura dei crediti - Irrilevanza - Giurisdizione tributaria Sussistenza (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 86) Processo tributario - Atti impugnabili - Preavviso di fermo amministrativo - Omessa iscrizione nei pubblici registri - Impugnabilità - Carenza dell’interesse - Sussistenza (C.p.c., art. 100; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19)

In sede di interpretazione dell’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248) è ragionevole ritenere che il legislatore abbia voluto attribuire ad un unico giudice, quello tributario, la giurisdizione in ordine al fermo amministrativo di beni mobili iscritti nei pubblici registri e all’iscrizione di ipoteca sui beni immobili, a prescindere dalla natura del credito; conseguentemente è errata la tesi secondo cui, ove il fermo di beni mobili registrati venga eseguito (o l’ipoteca sugli immobili venga iscritta) in relazione a cartelle esattoriali contenenti più voci di debito, il soggetto obbligato che intenda contestare il provvedimento di fermo (o l’iscrizione di ipoteca) debba rivolgersi a più giudici

17 Nel medesimo senso CACOPARDO-ROMANO, L’art. 60 del D.Lgs. n. 546/1992 ed il termine per la proposizione dell’appello non ancora dichiarato inammissibile, cit., 531.


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(in relazione alla differente natura dei singoli crediti fatti valere dall’amministrazione. È carente di interesse ad agire il debitore destinatario del cosiddetto preavviso di fermo, perché trattasi di un atto non previsto dalla normativa di riferimento e che non arreca alcuna menomazione al patrimonio (invero sino all’iscrizione del fermo nei pubblici registri il debitore può esercitare pienamente tutte le facoltà di utilizzazione e di disposizione del bene, senza essere soggetto ad alcuna sanzione). Svolgimento del processo A.M.M. ha proposto opposizione avverso la nota in data 8 novembre 2006 con la quale la G. S.p.A., concessionario per la riscossione per la Provincia di Caserta, avvertiva l’opponente che, qualora non avesse provveduto nel termine di giorni venti dalla notifica della nota, al pagamento del carico portato nella cartella esattoriale n. [...], avrebbe provveduto, senza ulteriori preavvisi, ai sensi dell’art. 86, comma 2, del D.P.R. n. 602/1973, ad iscrivere, presso il Pra competente, il fermo amministrativo sul veicolo [...] di proprietà di A.M.M. La ricorrente deduce: - che la cartella esattoriale non le era stata mai notificata; - la prescrizione del diritto a riscuotere. Si è costituita la G. S.p.A. che ha eccepito la carenza di giurisdizione della Commissione tributaria in quanto il carico della cartella deriva(va) da infrazioni al Codice della strada e ha chiesto, in ogni caso, il rigetto del ricorso. All’esito della pubblica udienza del 18 giugno 2007 la Commissione riservava la decisione. Motivi della decisione Risulta dagli atti che con la cartella esattoriale viene richiesto il pagamento di somma corrispondente a sanzioni per violazioni al Codice della strada. Occorre, quindi, che questa Commissione, affronti: I) il problema della giurisdizione; II) la questione dell’autonoma ricorribilità del preavviso di fermo, che costituisce l’atto in concreto impugnato. I. Sulla giurisdizione della Commissione tributaria a decidere la presente controversia. Premessa: il Collegio ritiene che, nel trattare la questione della giurisdizione, sia opportuno accomunare l’ipoteca sui beni immobili e il fermo dei beni mobili registrati che, oltre a costituire entrambi oggetto della novella normativa di cui subito si dirà, hanno, per molti versi, aspetti e finalità comuni.

I.1 Il D.L. 4 luglio 2006, n. 223 – recante provvedimenti urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248 – al comma 26-quinquies dell’art. 35 ha aggiunto all’elenco degli atti impugnabili innanzi alla Commissione tributaria i provvedimenti di iscrizione di ipoteca sui beni immobili del debitore e dei coobbligati e di fermo amministrativo di beni mobili iscritti nei pubblici registri appartenenti agli stessi soggetti, posti in essere dall’esattore nell’esercizio della facoltà concessa, rispettivamente, ai sensi degli artt. 77 e 86 del D.P.R. n. 602 del 1973 e successive modifiche, una volta decorso inutilmente il termine di sessanta giorni dalla notifica della cartella di pagamento. Prima di tale intervento normativo vi era stato un ampio dibattito in dottrina e in giurisprudenza in ordine all’individuazione del giudice innanzi al quale i provvedimenti de quibus potevano essere impugnati ed è presumibile che il legislatore, peraltro in un contesto normativo per molti aspetti finalizzato alla semplificazione delle procedure, non ignorasse il conflitto da tempo esistente in ordine alla giurisdizione dei vari giudici (ordinario, amministrativo e tributario) a decidere le numerosissime controversie insorte a seguito dei cennati provvedimenti, né i contrasti, nell’ambito della stessa giurisdizione del giudice ordinario, in ordine alla competenza del giudice dell’esecuzione (Cass., sez. un., n. 876/2006, n. 14701/2006, n. 2353/2006) o di quella del giudice della cognizione, fondata sul valore della controversia. È quindi ragionevole ritenere, in sede di interpretazione normativa, che il legislatore abbia avuto l’intento di risolvere siffatte controversie giurisprudenziali attribuendo ad un unico giudice la giurisdizione in ordine ad esse, eliminando peraltro ogni riferimento alla competenza per materia, funzionale o per valore e privilegiando, tra le varie giurisdizioni possibili, quella di un giudice capace di rispondere con immediatezza, o almeno più speditamente – anche attraverso la procedura cautelare – alla domanda di giustizia del debitore che, a quanto risulta, ha (aveva) assunto proporzioni notevoli. I.2 Il D.P.R. n. 602 del 1973 originariamente attribuiva all’amministrazione finanziaria il potere di autotutela conservativa a garanzia delle riscossione del credito tributario e successivamente tale potere è stato attribuito direttamente al concessionario, che può adottare provvedimenti aventi l’effetto di limitare la circolazione e il potere di


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disposizione del bene o di rendere inopponibili gli atti di disposizione del bene ovvero di garantire che lo stesso sia mantenuto a garanzia del(i) credito(i) portati nella(e) cartella(e) esattoriale(i). I.3 L’iscrizione (rectius: la richiesta di iscrizione) di ipoteca e il fermo amministrativo rientrano, ad avviso del Collegio, tra gli atti aventi natura formale e sostanziale di provvedimenti amministrativi, emessi dall’esattore nell’esercizio di una potestà pubblica delegata dal legislatore. In particolare, per il fermo degli autoveicoli il legislatore usa espressamente il termine «provvedimento» – impiegato nel linguaggio normativo per indicare gli atti autoritativi della pubblica amministrazione – e le due misure, adottate unilateralmente dal concessionario, producono in sostanza gli stessi effetti dei provvedimenti ablatori. In ogni caso la natura provvedimentale è stata riconosciuta dal legislatore sia al fermo che all’iscrizione di ipoteca nel momento in cui li ha inseriti nel novero degli «atti» impugnabili innanzi alle Commissioni tributarie, ampliando, con l’art. 26-quinquies (recte: art. 35, comma 26-quinquies, n.d.r.) della L. 248/2006, le previsioni dell’art. 19, comma 1, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Trattasi, dunque, di provvedimenti in senso proprio emessi unilateralmente dal concessionario e idonei ad incidere in modo autoritativo nella sfera giuridico-patrimoniale del destinatario. E non v’è dubbio che tali provvedimenti, a prescindere dalla natura del debito riscuotibile mediante ruolo, oltre che provenienti dallo stesso soggetto (l’esattore), abbiano sempre il medesimo contenuto di aggressione alla proprietà del soggetto obbligato e, quindi, la stessa (pregiudizievole) incidenza sulla sua sfera patrimoniale, per il che non si sarebbe potuta negare la sottoposizione di tali atti al sindacato giurisdizionale di legittimità e, più in generale, alla garanzia di tutela giurisdizionale prevista nei confronti di tutti gli atti della pubblica amministrazione, ai sensi degli artt. 24 e 113 della Costituzione. I.4 Il legislatore, come normalmente avviene, è libero di scegliere il giudice preposto alla tutela dei diritti e degli interessi lesi basandosi su criteri di collegamento tra i più vari e ben può ritenersi che, nel caso dell’ipoteca e del fermo amministrativo dei beni mobili registrati, tale criterio sia stato individuato nella provenienza dell’atto dal soggetto delegato, prevalentemente e primariamente, alla riscossione dei tributi, al quale tuttavia, con disposizioni speciali, è stata delegata anche la riscossione di altre entrate non tributarie (esempio, le sanzioni amministrative, i crediti previdenziali). Il riferimento all’organo da cui proviene l’atto im-

pugnato è stato ritenuto un valido criterio di identificazione dell’oggetto della giurisdizione tributaria anche dalle sezioni unite della Suprema Corte con la sentenza n. 2888/2006, di cui si dirà più diffusamente in seguito. I.4.a Ora sarebbe contrario al buon senso e in contrasto con l’art. 111 della Costituzione sostenere che, nel caso in cui l’ipoteca, come sovente avviene, venga iscritta (e il fermo amministrativo venga eseguito) in relazione a cartelle esattoriali contenenti più voci di debito, il soggetto obbligato che intenda contestare giudizialmente il provvedimento di fermo o l’iscrizione ipotecaria sia costretto a rivolgersi a più giudici: quello competente per le sanzioni in primo grado (Tribunale o Giudice di Pace, a seconda dei casi, giudice del lavoro ovvero giudice tributario). Si verificherebbe, in tal modo, l’unico caso in cui il medesimo soggetto, colpito da uno stesso, unico e contestuale provvedimento, avente la stessa natura e la stessa incidenza pregiudizievole sulla sua sfera patrimoniale nonché proveniente dallo stesso soggetto, si vedrebbe costretto a rivolgersi a giudici diversi, entro termini diversi e con diverse modalità procedurali, per ottenere la tutela che il legislatore, in ossequio alla Costituzione, gli riconosce. E, inoltre, i (pretesi) giudici diversi potrebbero essere chiamati a pronunziarsi sulla stessa questione (poniamo: la notifica della cartella) con possibilità di dar luogo a giudicati contrastanti e, in ogni caso, l’opposizione potrebbe presentare aspetti (come l’adeguatezza della misura rispetto alla somma dei carichi portati dalla cartella) che necessitano di una valutazione necessariamente complessiva e unica. L’anomalia, l’irragionevolezza e la stravaganza di una simile conclusione sembrano al Collegio del tutto evidenti. I.4.b Altrettanto poco verosimile sarebbe ritenere che il legislatore del 2006, nell’assegnare alle Commissioni tributarie i giudizi di opposizione alle iscrizioni ipotecarie e al fermo amministrativo, non solo abbia ignorato il dibattito giurisprudenziale in corso in materia di giurisdizione ma la stessa eventualità, assai comune, che la cartella esattoriale contenga voci di debito diverse dai tributi, e ciò tanto più se si considera la mancata emanazione del regolamento di attuazione di cui all’art. 86 del D.P.R. n. 602 del 1973 (art. 22 del D.Lgs. n. 46 del 1999). I.4.c Il silenzio tenuto dal legislatore precedentemente alla modifica dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 implicava che i provvedimenti di fermo dei beni mobili registrati e l’iscrizione dell’ipoteca sugli immobili non potevano formare oggetto di opposizione innanzi al giudice tributario in quanto successivi alla cartella esattoriale, che no-


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toriamente costituisce l’ultimo atto impugnabile (con l’eccezione dell’avviso di mora, equiparato alla cartella se da questa non preceduto), peraltro solo per vizi propri o come primo atto di imposizione, in mancanza di accertamento. Ed è chiaro che tali presupposti esulano nel caso di impugnativa del fermo o dell’ipoteca laddove questi siano stati preceduti, come per legge, dalla cartella esattoriale regolarmente notificata. Una volta esclusa la giurisdizione del giudice tributario, residua(va) l’alternativa tra quella del giudice ordinario e quella del giudice amministrativo, tra i quali la questione di giurisdizione deve (doveva) essere risolta – prescindendo dalla natura del credito (tributario o non) – secondo l’ordinario criterio di riparto diritto soggettivointeresse legittimo e, quindi, in mancanza di una deroga espressa, in favore del giudice amministrativo, cui è, di regola, attribuito il potere di conoscere, in via immediata e diretta, la legittimità dei provvedimenti amministrativi, atteso che il giudice ordinario ha il solo potere di disapplicarli, non essendogli concesso quello di sindacato pieno, esteso sino al potere di annullamento. Venuto meno il silenzio del legislatore, che ha previsto l’impugnabilità degli atti in questione, è necessario, ad avviso del Collegio, concludere che la novella riguardi l’intera materia, dovendosi, qualora la norma – come si pretende – avesse oggetto la sola materia tributaria, riproporsi il problema della ripartizione giudice originario-giudice amministrativo, questione che, secondo la tesi qui avversata, il legislatore avrebbe lasciato irrisolta. Ma è senz’altro più logico ritenere che, avendo il legislatore, nel corso di un dibattito dottrinale e giurisprudenziale molto intenso posto, con la novella, una norma di deroga al sistema generale del riparto della giurisdizione, questa stessa norma non può che essere di carattere generale. I.5 A sostegno della tesi che avversa l’unicità della giurisdizione del giudice tributario si afferma che tale giudice non può conoscere il merito dei debiti diversi da quelli tributari portati dalla cartella esattoriale rimasta inadempiuta. L’argomento non è né condivisibile né decisivo, sol che si osservi: a) che il debito portato dalla cartella, proprio per il presupposto normativo che questa non sia stata impugnata nel termine dei sessanta giorni, è fuori discussione o che, se è oggetto di controversia, questa doveva essere (o è stata già) instaurata innanzi al giudice avente la giurisdizione a decidere sulla debenza della somma iscritta a ruolo; b) che il ricorso al giudice tributario avverso l’iscrizione ipotecaria e il fermo mirano non già a con-

testare la fondatezza del credito per cui si agisce né la misura di esso ma solo la legittimità della sua realizzazione mediante il ricorso alle due procedure cautelari (e del resto il giudice dell’esecuzione, competente secondo le mentovate sentenze delle sezioni unite della Suprema Corte, neppure avrebbe potuto conoscere del merito del credito tributario né avrebbe potuto conoscerne il giudice amministrativo rispetto ai crediti tributari o per sanzioni o previdenziali e così per il giudice del lavoro rispetto a crediti diversi da quelli previdenziali); c) che, nel caso in cui il ricorrente contesti i vizi formali della cartella o della notifica della stessa, alla controversia resta comunque estranea la natura del debito, nel caso in cui esso abbia natura diversa da quelli tributari. È mestiere dunque concludere che l’opposizione innanzi al giudice tributario coinvolge unicamente l’accertamento estrinseco della legittimità del provvedimento, sotto tutti i profili sintomatici dei vizi degli atti amministrativi, cioè sul riscontro della sua legittimità in relazione ai presupposti e alla congruità della motivazione nonché all’esistenza del legame tra i presupposti e il provvedimento sotto il profilo della congruità logica, della ragionevolezza, della (eventuale) manifesta ingiustizia, della contraddittorietà, della carenza di motivazione, della carenza di istruttoria, del difetto o travisamento dei presupposti di fatto, (in una di quei difetti che possono concretare il vizio di eccesso o sviamento di potere). In buona sostanza, l’iscrizione dell’ipoteca sugli immobili e il fermo dei beni mobili registrati costituiscono una procedura cautelare protesa alla garanzia del credito e disciplinata dalla legge in maniera compiuta. Secondo altri – e in particolare con riguardo al fermo – si tratterebbe di una procedura a carattere sanzionatorio della morosità avente lo scopo di costringere il debitore al pagamento. Qualunque ne sia la natura, è certo che il legislatore ha inteso sancire – e non poteva essere altrimenti – l’impugnabilità dei provvedimenti conclusivi. È evidente che nel caso in cui il contribuente scelga di impugnare la cartella esattoriale investendo il rapporto sostanziale, la controversia ricadrà nella giurisdizione del giudice tributario solo nel caso in cui il rapporto medesimo abbia natura tributaria. Non così quando si contesti che la cartella non è stata notificata o è stata irregolarmente notificata, o che l’ipoteca e il fermo siano stati illegittimamente iscritti, poiché in tal caso il giudice tributario non dovrà compiere alcuna valutazione in ordine al rapporto sostanziale eventualmente esulante da quelli di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992.


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I.6 Ulteriore e più pregnante argomento a favore della tesi che nega la giurisdizione generale del giudice tributario è quello secondo cui l’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, come integrato dall’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 223 del 2006, dovrebbe necessariamente leggersi in combinato disposto con l’art. 2 dello stesso D.Lgs. n. 546, che fissa i limiti della giurisdizione del giudice tributario. Secondo questa tesi, la lettera dell’art. 2 prevarrebbe sulla norma del D.L. n. 223/2006, escludendo che la giurisdizione del giudice tributario possa estendersi anche all’ipotesi in cui l’ipoteca e il fermo siano iscritti e attuati a garanzia di crediti diversi da quelli tributari. L’argomento, sebbene in apparenza decisivo, non regge al vaglio di una critica attenta. I.6.a Innanzi tutto esso ignora il chiaro dato testuale del comma 25-quinquies dell’art. 35 del decreto legge convertito che, all’elenco degli atti impugnabili innanzi alle Commissioni tributarie di cui all’art. 19, comma 1, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ha aggiunto (lettera e-bis) «le opposizioni avverso l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’articolo 77 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni» nonché avverso (lettera e-ter) «il fermo di beni mobili registrati di cui all’articolo 86 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni», senza ulteriori specificazioni e limitazioni in ordine al contenuto della cartella esattoriale in base alla quale l’esattore esercita la cautela. I.6.b L’art. 2 del citato D.Lgs. n. 546/1992 assegna alla giurisdizione delle Commissioni tributarie le controversie concernenti, tra l’altro «ogni altro tributo attribuito dalla legge alla competenza giurisdizionale delle Commissioni tributarie» così lasciando alla discrezionalità del legislatore di ampliare la giurisdizione delle Commissioni anche ad altre controversie (latamente) tributarie. E, del resto, questa discrezionalità è stata dal legislatore già esercitata laddove sono state assegnate alle Commissioni tributarie le controversie nascenti dall’opposizione alle sanzioni inflitte in tema di emersione del cosiddetto “lavoro nero” (art. 3 del D.L. 22 febbraio 2002, n. 12, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 convertito in L. 4 agosto 2006, n. 248) né, in quella materia, per nulla attinente ai tributi (se non per il potere di compiere accertamenti, conferito (anche) alle Agenzie delle Entrate, alle quali è riservato il potere sanzionatorio) sono stati sollevati dubbi come quello che pone la norma in relazione alla disciplina generale della giurisdizione di cui all’art. 2 del D.Lgs. 546. In proposito, anzi, le sezioni unite della Suprema

Corte (Cass. n. 13902/2007; Cass. n. 2888/2006) hanno ribadito la competenza delle Commissioni tributarie in materia (quella delle sanzioni per il cosiddetto “lavoro nero”) nella quale «non può certamente riconoscersi natura tributaria» sottolineando «la tendenza espansiva dell’ambito della giurisdizione tributaria» estesa al legislatore, «per ragioni di connessione in senso ampio a materie estranee alle imposte e tributi» come è avvenuto con l’art. 3-bis del D.L. n. 203/2005, convertito in L. n. 248/2005, che ha assegnato alla cognizione del giudice tributario le controversie in materia di debenza del canone di occupazione di suolo pubblico, del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, nonché le controversie concernenti il canone o il diritto sulle pubbliche affissioni che, per vero, hanno un legame molto labile con la materia dei tributi. La chiarezza della norma non consentiva, in quel caso, di porre in dubbio la giurisdizione delle Commissioni tributarie, come, ad avviso del Collegio, non li consente quella della novella in esame. I.6.c La tesi restrittiva che qui viene criticata sottende, al fondo, una sorta di prevalenza dell’art. 2 del D.P.R. n. 546 rispetto all’art. 19 successivo, così che la norma che assegna alle Commissioni tributarie l’opposizione avverso l’iscrizione di ipoteca sugli immobili (art. 77 del D.P.R. n. 602 e successive modificazioni) e il fermo amministrativo andrebbe letta e integrata con la dizione «qualora la cartella esattoriale riguardi un debito di natura tributaria» (o altra similare). Ebbene, a fronte della mancata specificazione da parte del legislatore, questa non può essere apposta dall’interprete in base al noto brocardo ubi lex voluit dixit, ubi non dixit, noluit. Se il legislatore avesse voluto limitare la proponibilità dell’opposizione innanzi alle Commissioni tributarie avrebbe potuto – e dovuto – specificare che il fermo dei beni mobili registrati e l’ipoteca sono opponibili «innanzi al giudice ordinario o speciale avente la giurisdizione e la competenza per il merito del credito azionato» ovvero escludere il fermo e l’ipoteca dal novero degli atti di «esecuzione tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento» (art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992). I.6.d Non si vede, dunque, la ragione per cui il legislatore non abbia menzionato gli altri giudici diversi da quello tributario (giudice ordinario o del lavoro). A tale obiezione i sostenitori dell’avversa tesi osservano che l’indicazione non era necessaria, stante l’esistenza di norme (prevalenti e assorbenti) che assegnano la giurisdizione a ciascuno di tali giudici. Ma se ciò è vero per gli altri


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giudici (diversi da quello tributario) deve (doveva) essere vero anche per il giudice tributario, la cui giurisdizione sarebbe circoscritta dall’art. 2 (come novellato), sicché sarebbe stato inutile assegnare espressamente (e solo) al giudice tributario le controversie di opposizione nel caso (come si vorrebbe dall’opposta tesi) in cui la cartella riguardi carichi tributari, bastando ad individuare il giudice la norma sulla giurisdizione (art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992). Orbene, non potendosi ragionevolmente ritenere che il legislatore crei norme inutili, è d’uopo concludere che, avendo la norma (non inutile) assegnato alle Commissioni tributarie, senza distinzioni o limitazioni espresse, i ricorsi in opposizione avverso i provvedimenti di iscrizione ipotecaria e di fermo amministrativo dei beni mobili registrati, senza specificare la ragione del credito cautelato dall’esattore, abbia inteso riferirsi a tutte le controversie indistintamente, a prescindere dalla natura del credito, sul presupposto che questo, per la mancata opposizione alla cartella, non possa essere posto in discussione nello specifico giudizio impugnatorio in cui si contestino i provvedimenti di fermo o di iscrizione ipotecaria per vizi e irregolarità formali degli stessi. L’attribuzione della giurisdizione al giudice tributario garantisce al debitore una maggiore e più rapida tutela avendo detto giudice il potere di annullare il provvedimento dopo aver sindacato – come meglio si dirà in seguito – il corretto esercizio del potere da parte del concessionario, la congruità della motivazione e la proporzionalità della misura. II. Sull’impugnabilità del “preavviso di fermo”. Stabilita, così, la giurisdizione di questa Commissione tributaria, occorre passare all’esame dello specifico atto impugnato al fine di stabilire pregiudizialmente se il cosiddetto preavviso di fermo amministrativo sia atto autonomamente impugnabile, essendo ovvio che tale indagine può e deve essere effettuata d’ufficio siccome attinente all’ammissibilità del ricorso. II.1 Al riguardo occorre premettere che l’impugnazione, in ossequio agli artt. 3, 24, 25, 42 e 113 della Costituzione, è data al contribuente al fine di tutelare il proprio diritto di proprietà dall’aggressione del provvedimento amministrativo posto in essere dall’esattore. Si è già detto diffusamente (sub I) della natura di tipico atto provvedimentale del fermo che non può essere surrogata da atti diversi dalla fattispecie legale. Orbene, il cosiddetto “preavviso di fermo” non solo non è previsto come atto tipico dalla normativa

di riferimento ma non arreca alcuna menomazione al patrimonio non essendovi dubbio che, fino a quando il fermo non sia iscritto nei pubblici registri, il contribuente-debitore può esercitare pienamente tutte le facoltà di utilizzazione e di disposizione del bene, senza essere soggetto alla sanzione amministrativa di cui all’art. 214, comma 8, del Codice della strada, che punisce chiunque circola con veicoli, autoscafi e aeromobili «sottoposti al fermo» (e non al preavviso di fermo). Ne deriva che il debitore destinatario del preavviso, ai sensi dell’art. 100 del Codice di procedura civile, è carente di interesse ad adire il giudice non essendosi prodotta alcuna lesione della sua sfera giuridica, anche in considerazione del fatto che il fermo precede l’esecuzione esattoriale in senso stretto che inizia col pignoramento (art. 491 del Codice di procedura civile) e che la riforma introdotta con la L. n. 448 del 2001 ha eliminato il (previo) presupposto del pignoramento negativo. Il “preavviso di fermo” dunque è un atto non previsto dalla sequenza procedimentale dell’esecuzione esattoriale. II.2 Si obietta, da parte di coloro che sostengono la possibilità di impugnazione autonoma del cosiddetto “preavviso di fermo”, che l’esattore, una volta inviato il preavviso stesso, non effettua alcuna altra comunicazione così che il “preavviso di fermo”, decorso il termine assegnato per il pagamento, assume valore di “comunicazione di iscrizione del fermo”. Questa originale tesi trae il suo fondamento dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 2/E del 9 gennaio 2006, la cui illegittimità è palese poiché: a) innanzi tutto non può assegnarsi alla citata risoluzione il rango di fonte del diritto, con la possibilità di regolamentare la sequenza procedimentale del fermo in modo diverso da quello normativamente previsto; b) non può ritenersi che il preavviso di fermo si tramuti in [...] “comunicazione del fermo”, posto che al preavviso non deve necessariamente seguire l’iscrizione, che resta un atto autoritativo discrezionale dell’esattore e, come tale, meramente eventuale, non potendosi, invero, negare che il concessionario, una volta inviato il sollecito di pagamento – neppure previsto dalla legge ma suggerito, per opportunità, dalla citata risoluzione ministeriale – col (l’altrettanto non previsto) preavviso di fermo, possa non procedere alla richiesta di iscrizione che sicuramente non è automatica; c) la giurisprudenza amministrativa, per vero, conosce la categoria dell’atto implicito ma ne fissa anche i requisiti che consistono: c1) in una manifestazione di volontà certa, chiara e


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univoca o un comportamento concludente dai quali desumere l’atto implicito che, normalmente, viene presupposto da quello successivo e precede questo nel tempo, il che è l’esatto contrario di quanto si pretende avvenga nella specie, in cui l’atto (fermo) implicito segue un altro atto (preavviso di fermo), anteriore nel tempo e, peraltro, non previsto nella sequenza procedimentale, ed è condizionato, nel suo venire in essere dal verificarsi di una condizione (il mancato pagamento del carico esattoriale) rimessa alla volontà del privato. In definitiva se un atto tipico può implicare e presupporre come già emesso altro atto tipico non può darsi che un atto atipico (preavviso di fermo) implichi e presupponga un atto tipico non ancora emesso; c2) nel rispetto delle regole procedimentali stabilite per l’emanazione dell’atto-provvedimento esplicito (fermo): nel caso di specie la legge impone che, per il perfezionamento del fermo, sia data notizia al debitore dell’avvenuta iscrizione al Pra e, quindi, l’atto (presunto) implicito richiede un’ulteriore attività da parte del preteso emanante, quale è quella della richiesta di iscrizione al Pra e la successiva comunicazione al debitore che, sicuramente, non consente di ritenere come equipollenti atti precedenti allo stesso fermo non ancora disposto né iscritto (né iscrivibile), quale è appunto il preavviso di fermo; d) e, invero, l’efficacia del fermo (e, secondo taluni, la sua stessa giuridica esistenza come fattispecie complessa a formazione progressiva: fermoiscrizione-comunicazione) è condizionata alla comunicazione che, una volta eseguita l’iscrizione del provvedimento che lo dispone nei registri mobiliari a cura del concessionario, deve essere data al proprietario del bene al quale, dal momento in cui il fermo diviene efficace, è inibita la circolazione sotto pena della sanzione prevista dall’art. 214, comma 8, del Codice della strada. Ne segue che la comunicazione del fermo costituisce un atto indefettibile della serie procedimentale, in mancanza del quale non può concepirsi il venire in essere di un atto (pretesamente) implicito difforme da quello tipico espresso, come delineato normativamente nei suoi requisiti (almeno) di efficacia. E allora se – come sembra ovvio – il fermo viene a giuridica esistenza soltanto con l’iscrizione nei registri mobiliari – cui, in analogia con l’istituto dell’ipoteca, ben può attribuirsi funzione costitutiva – e se (almeno) la sua efficacia è subordinata alla prova dell’effettiva conoscenza che ne riceve il destinatario, è chiaro che la semplice manifestazione di intenti da parte del concessionario, espressa nel preavviso, non può né surrogare l’iscrizione (costitutiva) del fermo né la comunicazione, necessaria-

mente successiva all’iscrizione, né il preavviso può sostituire quella di attuazione del fermo non ancora iscritto e che, nonostante il preavviso, il concessionario resta libero di richiedere, ponendo in essere, solo ove lo richieda e la relativa iscrizione avvenga, un atto concretamente lesivo della situazione giuridica soggettiva del debitore che può legittimare sia il ricorso in opposizione avverso la legittimità del fermo sia la richiesta di sospensiva, in base ai principi che reggono la giurisdizione di annullamento, che è sempre condizionata alla presenza di una lesione; e) non va, da ultimo, tralasciato che l’accoglimento del ricorso avverso il cosiddetto “preavviso di fermo” non (o non ancora) seguito da iscrizione si risolverebbe nell’anomala inibizione di un’attività (futura), così introducendosi nell’ordinamento processuale una categoria di sentenze che suscita, almeno nella materia amministrativa, non poche perplessità. L’annullamento (e lo stesso dicasi della sospensione) del preavviso di fermo si risolverebbe, in buona sostanza, in provvedimento inutile, essendo dato per un atto del tutto privo di efficacia e che, per non essere previsto dall’ordinamento come presupposto del fermo, non impedirebbe, pur se annullato o sospeso, al concessionario di emanare il relativo provvedimento tipico, richiedendone l’iscrizione. II.3 Nel caso in cui l’esattore, una volta eseguito il fermo, omettesse di darne la prescritta comunicazione al debitore, porrebbe in essere una palese violazione della legge, che tale obbligo impone come condizione di efficacia del fermo a completamento della sequenza procedimentale tipica. Ed è chiaro, ad avviso del Collegio, che il comportamento illegittimo dell’esattore – peraltro solo ipotizzato o consacrato nella prassi – consistente nell’omissione della comunicazione, (sebbene consentito dalla risoluzione n. 2/E del 9 gennaio 2006 dell’Agenzia delle Entrate), non può far nascere, prima del fermo, l’interesse all’opposizione, trattandosi di fatto non ancora verificatosi al momento del ricorso, che priva l’interesse ad agire in giudizio del requisito dell’attualità, e sorgendo l’interesse a denunziare il vizio formale dell’atto (consistente nell’omessa comunicazione) solo dopo che il fermo sia stato iscritto e non comunicato. II.4 Conclusivamente, la carenza di interesse attuale al ricorso lo rende inammissibile, ai sensi dell’art. 100 del Codice di procedura civile, norma pacificamente applicabile al processo tributario. III. Le spese, possono essere compensate attesa la particolarità della materia trattata.


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Nota La sentenza in rassegna affronta i temi, di particolare attualità, della giurisdizione delle Commissioni sulle liti aventi ad oggetto il fermo di beni mobili registrati ex art. 86 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 assunto a garanzia di crediti non tributari e dell’immediata impugnabilità del cd. preavviso di fermo (contra, Comm. trib. prov. Grosseto, sez. III, 29 ottobre 2007, n. 23 e Comm. trib. prov. Bari, sez. II, 5 novembre 2007, n. 533, infra, 603 ss.). Nel caso in esame il contribuente proponeva ricorso avverso il preavviso di fermo, eccependo la mancata notifica della cartella nonché la prescrizione del diritto a riscuotere; si costituiva l’agente della riscossione lamentando il difetto di giurisdizione, poiché il credito garantito derivava da sanzioni irrogate per infrazioni al Codice della strada. I giudici casertani superano l’eccepito difetto di giurisdizione, considerando priva di rilievo l’origine extratributaria del credito sottostante e adducendo all’uopo svariate argomentazioni. Secondo la Commissione il fermo costituirebbe, al pari dell’ipoteca, un provvedimento in senso proprio, emesso unilateralmente dal concessionario e idoneo ad incidere in modo autoritativo nella sfera giuridico-patrimoniale del destinatario (in senso analogo, v. Comm. trib. prov. Caserta, 17 settembre 2007, n. 270, in Corr. Trib., 2008, 3, con commento di MESSINA, Questioni aperte in tema di giurisdizione su fermi ed ipoteche a garanzia di crediti non tributari; Id., L’iscrizione di ipoteca sugli immobili ed il fermo dei beni mobili registrati nella procedura esattoriale e nel processo tributario, in Riv. Dir. Trib., 2008, II, 335ss.; PORCARO, Problemi e ipotesi di soluzione in tema di giurisdizione nell’impugnazione del fermo di autoveicoli, anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004, in Rass. Trib., 2004, 6, 2082. V., inoltre, DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in questa rivista, 2007, 3, 427 ss., secondo cui la fase valutativa dell’iscrizione del fermo si connota come specifica articolazione dell’azione impositiva, «dando luogo ad un procedimento in cui l’esattore esercita un potere autoritativo e discrezionale». Contra, in giurisprudenza, v. Comm. trib. prov. Bari, sez. IV, 1 ottobre 2007, n. 34, secondo cui il fermo e l’iscrizione ipotecaria costituirebbero meri fatti giuridici; in dottrina, v. DAMASCELLI, Il fermo degli autoveicoli, in Riv. Giur. Trib., 2003, 978; FERRAÙ, Problemi aperti in tema di fermo amministrativo degli autoveicoli, in Boll. Trib., 2004, 127).

Trattandosi di atti ablatori, prosegue la Commissione, il legislatore non avrebbe potuto negare tutela giurisdizionale al destinatario e avrebbe scelto quella tributaria in considerazione della provenienza dell’atto dal soggetto delegato alla riscossione delle entrate tributarie e non. Il ricorso al giudice tributario garantirebbe il rispetto, da una parte, del principio del giusto processo, dall’altra, del diritto del contribuente ad una difesa effettiva e sufficientemente agevole (cfr. Comm. trib. prov. Roma, 11 luglio 2007, n. 118, in banca dati fisconline). La novella riguarderebbe, dunque, il fermo amministrativo e l’ipoteca tout court, altrimenti rimarrebbe irrisolto il problema del riparto della giurisdizione. A sostegno della tesi sull’unicità della giurisdizione la Commissione sottolinea che la natura del debito resta estranea alle liti aventi ad oggetto queste misure, poiché i ricorsi sono volti ad accertare la legittimità formale del provvedimento e a contestare non la fondatezza del credito sottostante, ma il corretto uso delle misure cautelari (in dottrina, v. CICALA, Riscossione coattiva, fermo amministrativo e ipoteca: competenza esclusiva del giudice tributario, in banca dati fisconline). Per i giudici casertani, infine, sarebbe contrario al buon senso e in contrasto con l’art. 111 della Costituzione pensare che, laddove il fermo amministrativo venga eseguito in relazione a cartelle esattoriali contenenti più voci di debito, il destinatario (soggetto obbligato) che intenda contestare giudizialmente il provvedimento sia costretto a rivolgersi a più giudici (nello stesso senso v. Comm. trib. prov. Caserta, 17 settembre 2007, n. 270, cit.). Alla medesima conclusione dell’attribuzione al giudice tributario di tutte le controversie aventi ad oggetto fermi e ipoteche giungono anche altre Commissioni, sebbene con un diverso percorso argomentativo (cfr. Comm. trib. prov. Roma, n. 192/59/07, in Fisco, 30 luglio 2007, 30, 4404, con commento di RICCIONI, Prime applicazioni della L. n. 248/2006: il fermo di beni mobili registrati; Comm. trib. prov. Roma, sez. VIII, 27 giugno 2007, n. 246, Comm. trib. prov. Latina, sez. V, 15 giugno 2007, n. 99 e Comm. trib. prov. Latina, sez. V, 4 giugno 2007, n. 107, in Riv. Giur. Trib., 2007, 11, 971 ss., con nota di GLENDI, Fermi ed ipoteche per crediti non tributari e problemi di giurisdizione e di translatio). Secondo questo orientamento l’intervento del legislatore con l’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 223/2006 sarebbe analogo a quello posto in essere con l’art. 3-bis del D.L. n. 203/2005, pervenendo, anche in questo caso, ad un ampliamento della giurisdizione del giudice tributario.


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Per altre Commissioni, invece, il legislatore, avendo utilizzato in seno all’art. 35, comma 26quinques, cit., la tecnica dell’inserimento dell’iscrizione di ipoteca sugli immobili e del fermo di beni mobili registrati nell’elencazione di cui all’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, avrebbe ampliato solo la categoria degli atti impugnabili, e non la giurisdizione del giudice tributario (cfr. Comm. trib. prov. Bari, sez. XIV, 10 gennaio 2007, n. 303, in questa rivista, 2007, 4, 764 ss., con commento di CIARCIA, Non rientra nella giurisdizione tributaria l’impugnazione di un fermo amministrativo di beni mobili registrati se il credito sottostante non ha natura tributaria. Nello stesso senso Comm. trib. prov. Roma, sez. XXXIII, sent. 18 aprile 2007, n. 95, in Fisco, 2007, 30, I, 4407 ss.; Comm. trib. prov. Roma, sent. 16 maggio 2007, n. 173, 174, 175 e 184, in Boll. Trib., 2007, 14, 1232 ss.; Comm. trib. prov. Roma, sez. VII, sent. 31 maggio 2007, n. 242; Comm. trib. prov. Catania, sez. VI, sent. 28 dicembre 2006, n. 525, in Boll. Trib., 2007, 5, 460; Comm. trib. prov. Caserta, sez. X, sent. 25 settembre 2006, n. 285). Peraltro, l’art. 35, comma 26-quinques, cit., richiama espressamente le disposizioni degli artt. 77 e 86 del D.P.R. 602/1973, che attengono alla riscossione e recupero di crediti erariali, e non già di crediti di altra natura. Dello stesso avviso è taluna dottrina, secondo cui la tesi sull’unicità della giurisdizione comporterebbe una snaturalizzazione della giurisdizione tributaria e, dunque, sarebbe in contrasto con l’art. 102, comma 2, della Costituzione, nonché con la sua VI disposizione transitoria (cfr. GLENDI, Fermi ed ipoteche per crediti non tributari e problemi di giurisdizione e di translatio, cit.; DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, cit.) La giurisdizione tributaria andrebbe circoscritta solo ai fermi e alle ipoteche disposti a garanzia di crediti tributari, poiché, da una parte, l’art. 35, non intervenendo a differenza dell’art. 3-bis sull’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, amplia la giurisdizione in senso verticale (oltre la cartella di pagamento e l’avviso di mora) e non orizzontale; dall’altra, la natura tributaria del credito è imposta dall’art. 19, comma 3, del D.Lgs. 546/1992, che consente al contribuente nell’ipotesi di omessa notificazione della cartella di pagamento di eccepire in sede in impugnazione del fermo (ipoteca) i vizi della stessa (v. anche BUSCEMA-D’ANGELO, La giurisdizione competente a dirimere le controversie aventi per oggetto le cosiddette ganasce fiscali, in Fisco, 2007, 35, 1, 5180). Sulla questione è intervenuta la Corte di Cassa-

zione a sezioni unite, con l’ordinanza 11 febbraio 2008, n. 3171 (in Fisco, 2008, 17, 3079 ss. con commento di SEPE, La giurisdizione sul fermo dei beni mobili registrati). Secondo il Supremo Collegio – premesso che il legislatore può attribuire ai giudici tributari le controversie riguardanti «atti “neutri”, cioè utilizzabili a sostegno di qualsiasi pretesa patrimoniale (tributaria o no) della mano pubblica» – l’assegnazione alle Commissioni delle liti sui fermi amministrativi e sulle ipoteche si giustificherebbe in considerazione del fatto che trattasi di «misure collocate all’interno del sistema della esecuzione esattoriale e di matrice tributaristica» e «il relativo contenzioso riguarda questioni attinenti alla regolarità formale e sostanziale della misura adottata; non alla fondatezza della pretesa che ha dato luogo al provvedimento di fermo ed alla iscrizione di ipoteca». Detto orientamento è stato rivisitato, a distanza di pochi mesi, dalla Corte di Cassazione a sezioni unite con la sentenza 5 giugno 2008, n. 14831 (in Corr. Trib., 2008, 29, 2353 ss., con commento di GLENDI, Ricomposto il contrasto tra sezioni unite e Corte costituzionale sui limiti della giurisdizione tributaria). La Suprema Corte, constatato che la «modifica introdotta al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, […], non ha apportato, come sua conseguenza, una corrispondente modifica del primo periodo dell’art. 2, comma 1, del medesimo decreto, a norma del quale la giurisdizione tributaria resta ancorata […] alle controversie concernenti tributi, sia pure di ogni genere e specie, comunque denominati», afferma che «la giurisdizione sulle controversie relative al fermo di beni immobili registrati di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 86, appartiene al giudice tributario ai sensi del combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 1 e art. 19, comma 1, lett. e-ter, solo quando il provvedimento impugnato concerna la riscossione di tributi». Di conseguenza, il giudice tributario innanzi al quale sia stato impugnato un provvedimento di fermo di beni mobili registrati ai sensi del’art. 86 del D.P.R. n. 602/1973 «deve accertare quale sia la natura – tributaria o non tributaria – dei crediti posti a fondamento del provvedimento in questione, trattenendo, nel primo caso, la causa presso di sé, interamente o parzialmente […], per la decisione del merito e rimettendo, nel secondo caso, interamente o parzialmente, la causa innanzi al giudice ordinario, in applicazione del principio della translatio iudicii. Allo stesso tempo deve comportarsi il giudice ordinario eventualmente adito. Il debitore, in caso di provvedimento di fer-


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mo che trovi riferimento in una pluralità di crediti di natura diversa, può comunque proporre originariamente separati ricorsi innanzi ai giudici diversamente competenti». Secondo la Corte questa lettura sarebbe, peraltro, l’unica che «si presenti come costituzionalmente orientata» alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 130 del 14 maggio 2008 (in Riv. Giur. Trib., 2008, con commento di MESSINA, Giurisdizione ordinaria nelle controversie sulle sanzioni per “lavoro nero”; in Corr. Trib., 2008, 25, 2021 ss., con commento di GLENDI) e n. 64 del 14 marzo 2008 (in Riv. Giur. Trib., 2008, 5, 376 ss., con commento di MARINI, È incostituzionale la giurisdizione tributaria delle liti sul Cosap). Di particolare interesse è, poi, la tesi sostenuta dai giudici casertani in merito all’autonoma ricorribilità del preavviso di fermo. La Commissione, discostandosi dall’orientamento al momento prevalente fra i giudici di merito, dichiara il ricorso inammissibile ai sensi dell’art. 100 c.p.c. per carenza di interesse attuale a ricorrere. Secondo i giudici di Caserta il cosiddetto preavviso di fermo, non solo non è previsto come atto tipico dalla normativa di riferimento, ma non arreca alcuna menomazione al patrimonio del destinatario, che fino al momento dell’iscrizione può esercitare pienamente tutte le facoltà di utilizzazione e di disposizione del bene (nello stesso senso v. Comm. trib. prov. Isernia, 1 febbraio 2008, n. 4, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov. Taranto, sez. I, 20 aprile 2007, n. 108, in Fisco, 2007, 30, 4404 ss., con commento di RICCIONI, Prime applicazioni della L. n. 248/2006: il fermo di beni mobili registrati, che nega l’impugnabilità del preavviso di fermo, considerandolo quale mero atto di conoscenza). Né, aggiunge la Commissione, l’interesse all’opposizione potrebbe nascere per effetto dell’eventuale comportamento illegittimo dell’esattore, che omettesse di comunicare al soggetto destinatario l’avvenuta iscrizione del fermo nei registri mobiliari (sul punto v. risoluzione n. 2/E del 9 gennaio 2006, in cui l’Agenzia delle Entrate, rinviando alle indicazioni fornite con la nota 57413/2003, suggerisce ai concessionari di notificare, anteriormente all’iscrizione del fermo, un preavviso di fermo, contenente l’invito a pagare entro il termine di 20 gg., decorso il quale «il preavviso stesso assumerà il valore di comunicazione di iscrizione di fermo»). Invero, il preavviso non potrebbe considerarsi equipollente al fermo, perché non ancora dispo-

sto e iscritto, né potrebbe “implicare” e presupporre il fermo, perché per legge la sua adozione necessita della richiesta di iscrizione nel registro immobiliare e della comunicazione al destinatario da parte dell’agente della riscossione. Le suesposte ragioni non sono ritenute adeguate ad escludere l’autonoma impugnabilità del preavviso di fermo da altre Commissioni di merito secondo cui la posticipazione dell’intervento del giudice alla fase successiva all’esecuzione del fermo, non solo pregiudicherebbe la difesa del contribuente, ma esporrebbe l’amministrazione ad un defatigante contenzioso relativo al risarcimento del danno arrecato (cfr. Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 25 giugno 2007, n. 399, in questa rivista, 2007, 4, 804 ss. Nello stesso senso, v. Comm. trib. prov. Pisa, 10 marzo 2008, n. 196; Comm. trib. prov. Torino, 14 maggio 2008, n. 40, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov. Roma, 27 giugno 2007, n. 246, in questa rivista, 2008, 1, 158 ss.; Comm. trib. prov. Latina, Terracina, 27 aprile 2007, n. 74; Comm. trib. prov. Roma, sez. XXVI, 14 dicembre 2004, n. 670, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov. Roma, sez. LIX, sent. 13 giugno 2007, n. 192 in Fisco, 2007, 30, 4404 ss.). Dello stesso avviso è anche attenta dottrina che – pur condividendo le considerazioni in ordine all’illegittimità del cd. preavviso di fermo se non seguito dalla comunicazione del provvedimento di fermo – ritiene il preavviso in ogni caso immediatamente lesivo per il contribuente e, dunque, impugnabile innanzi al giudice tributario (in tal senso, v. CICALA, Riscossione coattiva, fermo amministrativo e ipoteca: competenza esclusiva del giudice tributario, cit. Sul tema v. anche DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione, cit., 439, secondo cui suscita qualche perplessità il configurarsi del preavviso come «comunicazione dell’atto impugnabile», «in quanto un atto può essere ritenuto impugnabile soltanto se sussiste un interesse personale, diretto e attuale, cioè se è veramente produttivo di effetti nella sfera giuridica del ricorrente»). Secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione bisogna guardare al profilo sostanziale, piuttosto che a quello formale, degli atti, ritenendo conseguentemente impugnabile ogni provvedimento in cui l’amministrazione manifesti, anche in forma “bonaria”, la convinzione di essere titolare di una pretesa o di un diritto nei confronti del contribuente (cfr. Cass., sez. un., 26 luglio 2007, n. 16428; Cass., 24 luglio 2007, n. 16293, in banca dati fisconline).


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Commissione tributaria provinciale di Grosseto, sez. III, 29 ottobre 2007, n. 23 Presidente e Relatore: Iannitelli Processo tributario - Ipoteca esattoriale - Impugnazione per crediti non tributari - Rilevanza della natura del credito - Giurisdizione tributaria - Insussistenza - Giurisdizione ordinaria Sussistenza (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2) Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, e non a quella delle Commissioni tributarie, la controversia relativa ad una ipoteca esattoriale (ovvero ad un fermo amministrativo), quando il credito garantito non abbia natura tributaria (nella specie, ipoteca relativa a cartella per tassa automobilistica e infrazioni al Codice della strada). Svolgimento del processo Con ricorso inoltrato [...] con gli avvocati [...] ricorreva contro il provvedimento di iscrizione di ipoteca, eseguito dalla G. S.p.A., con causale infrazioni al Codice della strada e omesso pagamento di tassa automobilistica. Eccepiva, chiedendo: 1. la sospensione dell’atto impugnato; 2. ulteriormente, l’annullamento del provvedimento d’iscrizione di ipoteca. Si costituiva la G. S.p.A., in persona del legale rappresentante, che adduceva la carenza di giurisdizione in materia della Commissione tributaria provinciale, chiedendo – da parte sua – l’inammissibilità del ricorso. Motivi della decisione Il ricorso è parzialmente inammissibile per carenza di giurisdizione della Commissione tributaria provinciale di Grosseto. Invero l’art. 35, comma 26-quinquies, D.L. 223/2006, come convertito nella legge n. 248/2006, detta testualmente: «26-quinquies. All’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, dopo la lettera e sono inserite le seguenti: “e-bis) l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’articolo 77 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni; e-ter) il fermo di beni mobili registrati di cui all’articolo 86 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni”».

Avviene così che, tra gli atti impugnabili avanti al giudice tributario, rientrino, ulteriormente: - l’iscrizione di ipoteca; - nonché il fermo amministrativo. Tale legislazione ha portato sovvertimenti in dottrina e diviso anche la giurisprudenza. Quanto alla dottrina, gli studiosi lamentano che in seguito ad una cotale legislazione (legge Bersani): «I contrasti sorti in materia di giurisdizione sul fermo amministrativo (e anche sull’iscrizione ipotecaria) trovano indubbiamente origine nelle ambiguità di ordine sostanziale e nelle conseguenti incertezze interpretative afferenti alla natura e alla qualificazione giuridica del provvedimento impositivo delle ganasce fiscali. È infatti notorio tra gli operatori del diritto che, a seconda della posizione soggettiva lesa che s’intende far valere in giudizio – segnatamente, diritto soggettivo o interesse legittimo –, sarà possibile individuare il giudice competente ad emettere la statuizione» (S. Pane da Altalex). Ulteriormente, persiste tale difficoltà di “ricerca del giudice” ove il fermo e l’ipoteca assumano la veste di: - atti punitivi autonomi – per il mancato pagamento del debito – estranei quindi all’esecuzione; - atti che si connotino invece quali elementi precedenti l’esecuzione, quasi provvedimenti cautelari tesi e strutturati al fine del buon esito dell’esecuzione. Gli istituti variano e si pongono, dunque, in differenti piani sostanziali e procedurali, a seconda dell’interesse protetto e la loro antologia sostanziale. Sul punto, il Collegio sostiene che in realtà sia il fermo che l’ipoteca tutelino diritti soggettivi e si atteggino inoltre ad atti di garanzia reale, presidianti il buon esito dell’esecuzione come intrapresa dalla p.a. in ambito fiscale o infrattivo. (Cass, sez. un., 875/2007). Ulteriormente si assume che fermo e ipoteca siano meri strumenti generali. Tali da poter essere utilizzati nelle diverse evenienze e fenomenologie dai vari giudici cui – di volta in volta – ineriscono, in modo funzionale, per competenza e materia. Quanto ai soggetti passivi, gli stessi possono attivare una difesa limitata in presenza di atti cautelari amministrativi, ricorribili solo per vizi propri ex art. 19, comma 3, del D.Lgs. 546/1992. La giurisprudenza migliore, recita: «Il combinato disposto degli artt. 2, nella formulazione di cui alla novella del 2001, e 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 stabilisce che la


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controversia devoluta alla cognizione del giudice tributario è quella avente ad oggetto tributi di ogni genere e specie. Conseguentemente, ai fini della riconducibilità del provvedimento di fermo notificato al ricorrente fra gli atti impugnabili dinnanzi alle Commissioni tributarie, deve aversi esclusivo riguardo alla natura della somma iscritta a ruolo» (sent. n. 95 del 13 marzo 2007, dep. il 18 aprile 2007). Il combinato disposto degli artt. 2, nella formulazione di cui alla novella del 2001, e 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, stabilisce che la controversia devoluta alla cognizione del giudice tributa-

rio è quella avente ad oggetto tributi di ogni genere e specie. Conseguentemente, ai fini della riconducibilità del provvedimento di fermo notificato al ricorrente fra gli atti impugnabili dinnanzi alle Commissioni tributarie, deve aversi esclusivo riguardo alla natura della somma iscritta a ruolo. Deve pertanto dichiararsi inammissibile il ricorso proposto avverso tale provvedimento la cui pretesa giustificatrice sia devoluta alla cognizione del giudice ordinario (nella specie, sanzioni amministrative irrogate per violazioni accertate alle disposizioni del Codice della strada) (sent. n. 242 del 18 maggio 2007, Comm. trib. prov. Roma, sez. VII).

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Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. II, 5 novembre 2007, n. 533 Presidente: Caporizzi - Relatore: Delia Processo tributario - Ipoteca esattoriale - Impugnazione per crediti non tributari - Contributi previdenziali Inps - Atto dell’esecuzione - Giurisdizione tributaria - Insussistenza - Giurisdizione ordinaria - Sussistenza (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2) Non sussiste la giurisdizione del giudice tributario in relazione ad un’iscrizione ipotecaria fondata su una cartella di pagamento per crediti Inps, sia in quanto la natura del credito sottostante non rientra nel novero delle materie riservate al giudice tributario ai sensi dell’art. 2, D.Lgs. 546/1992, sia in quanto l’iscrizione ipotecaria è atto dell’esecuzione forzata tributaria successivo alla notifica della cartella di pagamento. In data 4 aprile 2007, [...] rappresentato e difeso dall’avv. [...] proponeva ricorso, la cui copia veniva depositata nella segreteria della Commissione tributaria provinciale di Bari il 3 maggio 2007, avverso la comunicazione di avvenuta iscrizione di ipoteca, emessa dalla [...] notificata il 5 febbraio 2007 e inerente il mancato pagamento di contributi di cui alla cartella esattoriale n. [...] notificata il 9 giugno 2001 e non impugnata, per un importo complessivo di euro 5.427,81. Il ricorrente eccepiva l’illegittimità dell’atto impugnato per violazione dell’art. 76 del D.P.R. n. 602/1973 in relazione all’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973. Eccepiva anche l’irregolarità e invalidità del provvedimento di iscrizione di ipoteca in quanto non conteneva l’indicazione del termine entro il quale si doveva proporre il ricorso e della Commissione tributaria provinciale competente.

Infine eccepiva l’invalidità dell’atto impugnato in quanto non era stato allegato l’atto al quale si faceva riferimento (cartella dei pagamenti) e la prova di averla notificata. Con lo stesso ricorso veniva chiesta la pubblica udienza e la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato, concessa con ordinanza del 25 giugno 2007. In data 25 giugno 2007 si costituiva l’[...], depositando le proprie controdeduzioni con le quali eccepiva, in via preliminare, il difetto di giurisdizione, in quanto l’ipoteca era stata iscritta a causa del mancato pagamento di contributi previdenziali Inps, non di competenza della presente Commissione tributaria provinciale. In via subordinata chiedeva il rigetto del ricorso, ribattendo punto per punto le eccezioni del ricorrente. All’udienza del 24 settembre 2007 erano presenti il difensore del ricorrente, il quale insisteva per l’accoglimento del ricorso, e il rappresentante della [...], che sollevava il problema del difetto di giurisdizione. La Commissione, letti gli atti della causa, constatato: - che l’atto di avvenuta iscrizione di ipoteca sugli immobili impugnato, malgrado sia elencato fra gli atti impugnabili di cui all’art 19, D.Lgs. 546/1992, si riferisce al mancato pagamento di contributi previdenziali Inps di cui alla cartella esattoriale n. [...], notificata il 9 giugno 2001 e non impugnata; - che i tributi iscritti a ruolo non appartengono alla giurisdizione tributaria ma a quella ordinaria giusta artt. 2 e 3, D.Lgs. 546/1992; - che pertanto il ricorso doveva essere proposto dinanzi al giudice del lavoro ai sensi dell’art. 24 del D.Lgs. 46/1999 e notificato all’ente impositore (Inps),


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dichiara la propria incompetenza per materia in quanto le controversie inerenti i contributi previdenziali iscritti a ruolo dall’Inps non rientrano fra i tributi di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992. A questo punto il Collegio giudicante pone in evidenza che l’art. 2 del D.Lgs. 546/1992, che testualmente prevede «Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento» è in netto contrasto con quanto dispo-

ne l’art. 19, D.Lgs. 546/1992, il quale comprende fra gli atti impugnabili anche l’iscrizione di ipoteca, atto questo di esecuzione forzata tributaria successivo alla notifica della cartella di pagamento. Questa osservazione rafforza la carenza di giurisdizione della Commissione tributaria nella presente controversia. Circa le spese di giudizio, la Commissione ritiene giusto che esse siano completamente compensate fra le parti costituite.

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Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez III, 20 febbraio 2008, n. 88 Presidente: La Valle - Relatore: Sordi Processo tributario - Ipoteca esattoriale - Natura - Atto dell’esecuzione - Termine annuale inizio espropriazione - Decorso - Necessità notifica intimazione di pagamento - Sussistenza Nullità dell’iscrizione ipotecaria (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 77 e 50, comma 2) È nulla l’iscrizione ipotecaria, attesa la sua natura di atto dell’esecuzione esattoriale, che non sia preceduta dalla notifica dell’intimazione di pagamento prevista dall’art. 50, comma 2, D.P.R. 602/1973 laddove sia decorso oltre un anno dalla notifica della cartella di pagamento e senza che, nel frattempo, sia iniziata l’espropriazione. Svolgimento del processo R.U. S.p.A. notifica in data 23 marzo 2007 all’epigrafata contribuente avviso datato 15 marzo 2007 di «iscrizione ipoteca legale su immobili di sua proprietà a seguito di morosità nel pagamento di tributi iscritti a ruolo». L’iscrizione ipotecaria eseguita, ex art.77 del D.P.R. n. 602/1973, per la somma di euro 17.860,78, onnicomprensiva del doppio dell’importo del debito a carico della ricorrente, interessi di mora, compensi, diritti e spese di iscrizione e cancellazione ipotecaria, scaturisce dal carico tributario (llor, contributi straordari per Europa, canone abbonamento Tv) portato a conoscenza della destinataria mediante valide cartelle di pagamento notificate da R.U. S.p.A. il 10 luglio 2002, 19 settembre 2002 e il 26 maggio 2006, non ancora pagate nonostante l’intervenuta scadenza dei termini di legge. Con propria istruttoria 18 giugno 2007 R.U. S.p.A. ora E.N. S.p.A., ritualmente costituitasi, controdeduce:

- l’iscrizione ipotecaria ha natura cautelare con scopo meramente conservativo e non esecutivo; essa assicura al creditore un diritto di garanzia reale patrimoniale, mentre il debitore soggiace a vincoli e limitazioni che non determinano alcuna spoliazione del suo diritto di proprietà; - nessuna norma prescrive all’agente della riscossione di “notificare” la comunicazione di iscrizione d’ipoteca; le norme citate da controparte risultano inapplicabili come pure sono infondate le violazioni e i vizi propri concernenti il contenuto dell’atto stesso. Chiede, in via principale, la correttezza del suo operato; la legittimazione attiva della resistente; il rigetto di qualsiasi domanda formulata nei confronti di E.N., perché infondata; vittoria di spese, diritti e onorari. La ricorrente oppone: - inesistenza di un titolo valido ed efficace per procedere a esecuzione forzata; non essendo iniziata la procedura esecutiva entro un anno dalla notifica delle cartelle di pagamento, l’espropriazione, di cui all’iscrizione d’ipoteca, avrebbe dovuto essere preceduta dalla notifica dell’intimazione di pagamento di cui all’art. 50, comma 2, del D.P.R. n. 602/1973; - la comunicazione d’iscrizione ipotecaria deve contenere tutti i requisiti normativamente richiesti per i provvedimenti amministrativi; inesistenza attività di notifica; omessa compilazione dalla relata di notifica; - violazione art. 7 della L. n. 212/2000 e art. 3 della L. n. 241/1990 per carenza di motivazione, mancata allegazione atti, omessa sottoscrizione atto impugnato, erronea indicazione dell’importo dovuto, illegittima quantificazione degli interessi e delle spese per la cancellazione e l’iscrizione ipotecaria; - carenza di potere dell’agente di riscossione ad


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emettere l’atto per effetto della soppressione del servizio nazionale di riscossione; impossibilità per R.U. S.p.A. di farsi rappresentare da un avvocato del libero foro. Chiede, in via principale, la nullità totale o parziale del provvedimento impugnato e la cancellazione totale o parziale dell’iscrizione ipotecaria; in via subordinata, la revoca dell’iscrizione ipotecaria, previa individuazione di idonea garanzia; rimborso spese e onorari di giudizio. Entrambe le parti dimettono fotodocumentazione di rito. La trattazione del ricorso procede in pubblica udienza. Presenti: il difensore della contribuente e il rappresentante dell’agente della riscossione. Motivi della decisione Il Collegio ritiene dover evincere le eccezioni addotte dalla ricorrente in ordine all’inesistenza dell’attività di notifica, alla mancata allegazione di elementi essenziali per la validità dell’atto, alla carenza di motivazione, alla mancata allegazione di atti richiamati, all’omessa sottoscrizione del fatto impugnato, all’erronea indicazione dell’importo dovuto, alla illegittima quantificazione degli interessi e delle spese d’iscrizione, perché ritenute infondate e indimostrate, comunque, inidonee a delegittimare il contestato avviso d’iscrizione ipoteca 15 marzo 2007, atto riconducibile, di per se stesso, nell’ambito degli atti non strettamente fiscali. Questa adita Commissione condivide l’assunto della resistente società là dove afferma che le attività inerenti alla riscossione delle entrate pubbliche sono svolte secondo la disciplina stabilita dal D.L. n. 203/2005 che legittima le società partecipate da R.U. S.p.A. a svolgere, a decorrere dall’1 ottobre 2006, tutte le attività necessarie ai fini del recupero delle somme iscritte a ruolo; trattasi, pertanto, di funzioni attribuite, ex lege, alla costituita società R.U. S.p.A., facoltizzata ad agire prescindendo dalla non necessaria specifica delega operativa. La prospettata vertenza s’incentra nello stabilire se l’iscrizione d’ipoteca legale su immobili di proprietà della ricorrente, a seguito morosità nel pagamento di tributi portati a sua conoscenza mediante tre cartelle esattoriali notificate tra il 2002 e il 2006, riveste natura e finalità di atto cautela-

re che assicura al creditore un diritto di garanzia reale patrimoniale ovvero sia atto dell’esecuzione preordinato e vincolato ai fini dell’espropriazione immobiliare forzata. Il precetto dell’art. 77 del D.P.R. n. 502/1973, in forza al quale R.U. S.p.A. ha attivato l’iscrizione ipotecaria de qua, richiamando l’art. 50 stessa decretazione, rende evidente che detta iscrizione è, di per se stessa, pur sempre atto del procedimento di esecuzione diretto alla riscossione coattiva esattoriale. È irrilevante e ininfluente l’addotta circostanza secondo cui l’iscrizione d’ipoteca costituisce “facoltà” dell’agente della riscossione, atteso che detta discrezionalità non snatura la funzione prodromica dell’atto che concorre in modo compiuto alla fase iniziale del processo di esecuzione in “senso stretto”. L’art. 50 del D.P.R. n. 602/1973 che disciplina il termine per l’inizio dell’esecuzione, recita: 1. «Il concessionario procede ad espropriazione forzata quando è inutilmente decorso il termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento [...]». 2. «Se l’espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica di un avviso che contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni [...]». Il concessionario non ha proceduto, per la riscossione delle somme non pagate, a esperire, decorsi i sessanta giorni dalla notifica delle cartelle di pagamento avvenuta nel 2002 e 2006, nessuna espropriazione; l’ipoteca in parola, notificata il 23 marzo 2007, funge, pertanto, come “primo atto” di esecuzione forzata iniziata oltre l’anno dalla notifica delle cartelle stesse, quindi doveva essere preceduta, almeno per le insolvenze maturate nell’anno 2002, dalla notifica, mai eseguita e mai dimostrata, di un avviso che contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni, allo scopo, cioè, di far “rivivere” la scaduta debenza fiscale. La procedura seguita dal concessionario deve ritenersi, pertanto, inficiata per violazione del tassativo adempimento prescritto dall’art. 50 del D.P.R. n. 602/1973. Il ricorso va accolto in relazione a quest’ultimo motivo di censura; le spese di giudizio vanno equamente compensate.


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I - III Nota Dalle sentenze qui in rassegna emerge un orientamento evidentemente ondivago della giurisprudenza di merito circa la qualificazione giuridica dell’ipoteca esattoriale: nella seconda e nella terza sentenza qui riportate, viene riconosciuta all’iscrizione ipotecaria (e al fermo amministrativo) la natura di atto dell’esecuzione esattoriale, mentre nella prima, al contrario e più correttamente, gli si riconosce la natura di diritto reale di garanzia. Come poc’anzi accennato, la soluzione sicuramente più condivisibile, anche se con dei distinguo più di natura teorico giuridica che sostanziale, è quella adottata dalla Commissione tributaria di Grosseto, mentre quella certamente meno sostenibile è quella proposta dai giudici trevigiani, sulla quale, peraltro, val la pena soffermarsi anche in considerazione della maggior attinenza del caso concreto esaminato dai giudici tributari rispetto alla procedura di riscossione coattiva esattoriale e quindi idonea ad un maggior approfondimento sistematico. Nella vicenda processuale portata all’attenzione della Commissione tributaria di Treviso, il Collegio era chiamato a valutare la correttezza dell’iter procedurale posto in essere dall’agente della riscossione in relazione ad una iscrizione ipotecaria fondata su cartelle di pagamento notificate nel 2002 e nel 2006: in particolare, al giudice tributario era richiesto di accertare la natura dell’iscrizione ipotecaria esattoriale e conseguentemente valutare la necessità o meno della notificazione dell’avviso di mora previsto dall’art. 50, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602. La Commissione tributaria, con una motivazione che non ci si sente di condividere, ha ritenuto che l’iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 77 abbia natura di atto dell’esecuzione, e che come tale debba, pertanto, essere preceduta dalla notificazione dell’avviso di mora, pena la nullità dell’iscrizione medesima. L’estrema stringatezza della sentenza della Commissione tributaria di Treviso sul punto nodale della questione dà lo spunto per fare un breve quadro circa gli orientamenti esistenti in ordine alla natura dell’iscrizione ipotecaria: essi oscillano da un riconoscimento della natura di mero diritto reale di garanzia ad un riconoscimento di misura cautelare, benché sui generis. A prescindere da alcuni orientamenti minoritari, peraltro relativi alla fattispecie del fermo amministrativo (BOLETTO, Il fermo dei beni mobili registrati, in Riv. Dir. Trib., 2005, 533), la dottrina e la

giurisprudenza sono concordi nell’escludere la riconducibilità dell’iscrizione ipotecaria (e del fermo amministrativo) al genus di atti del esecuzione forzata (contra Comm. trib. prov. Bari, sez. II, 5 novembre 2007, n. 533). Secondo il primo orientamento (CANTILLO, Ipoteca iscritta dagli agenti della riscossione e tutela giudiziaria del contribuente, in Rass. Trib., 2007, 13 ss.), l’ipoteca esattoriale, riconducibile nella tripartizione prevista dall’art. 2808, comma 2, c.c. nel novero delle ipoteche legali, non avrebbe alcuna differenza rispetto a quelle ordinarie e, pertanto, sarebbe un diritto reale di garanzia (Comm. trib. prov. Grosseto, sez. III, sent. 29 ottobre 2007, n. 23) che attribuisce al creditore lo ius distrahendi e lo ius praeletionis. Essa, infatti, conferisce all’agente della riscossione il diritto di espropriare, sulla base della cartella esattoriale, il bene sul quale l’ipoteca è iscritta; e in un’esecuzione aperta all’intervento di altri creditori, qual è anche quella esattoriale, l’ipoteca attribuisce altresì al concessionario il diritto di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo ricavato dalla vendita del bene. Il medesimo autore esclude in radice l’applicabilità dell’art. 50, comma 2, all’iscrizione ipotecaria e, quindi, la necessità dell’avviso di mora laddove sia trascorso oltre un anno dalla notificazione della cartella di pagamento senza che sia stata iniziata l’esecuzione forzata. Al chiaro tenore testuale dell’art. 77, che fa esclusivo riferimento alla decorrenza del termine previsto dal primo comma del succitato art. 50, si deve aggiungere una considerazione circa la funzione dell’intimazione di pagamento (analogo al vecchio avviso di mora): si tratta di un mero sollecito al pagamento del debito già consacrato nel titolo esecutivo (cartella di pagamento); la mancata notificazione, per quanto necessaria al corretto iter procedurale dell’esecuzione esattoriale (Cass. civ., sez. un., sent. 25 luglio 2007, n. 16412, in Giur. It., 2008, 449), non ha alcun effetto sull’efficacia del titolo su cui si fonda l’ipoteca, traducendosi, quindi e unicamente, in una preclusione alla successiva espropriazione forzata. Attenta dottrina (MESSINA, Questioni aperte in tema di giurisdizione su fermi ed ipoteche a garanzia di crediti non tributari, nota a Comm. trib. prov. Caserta, sez. XV, sent. 24 settembre 2007, n. 270, in Riv. Giur. Trib., 2007, 478 ss.) nel ricondurre l’esecuzione esattoriale nell’ambito dell’attività amministrativa sia sul piano soggettivo che oggettivo qualifica il provvedimento con cui viene iscritta l’ipoteca (o il fermo amministrativo) quale provvedimento amministrativo tout court, ossia quale


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atto con cui l’autorità amministrativa dispone in ordine all’interesse pubblico di cui è attributaria, esercitando la propria potestà e correlativamente incidendo su situazioni soggettive del privato. Tale spostamento nell’ambito del procedimento amministrativo, tuttavia, non comporta un mutamento delle conclusioni, essendo riconosciuto all’ipoteca il ruolo di garanzia reale volta a conservare il bene al fine di garantire e consentire il soddisfacimento del credito nell’ambito del procedimento amministrativo di riscossione coattiva. Il secondo orientamento sostenuto da autorevole dottrina (DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in questa rivista, 2007, 3, 433 ss.), invece, colloca lo strumento dell’ipoteca esattoriale (e del fermo amministrativo) nell’alveo dei provvedimenti di natura cautelare, con effetti di conservazione della garanzia patrimoniale, caratterizzati anch’essi, quindi, come tutte le misure cautelari, dai tipici requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora (con connotazioni diverse circa il periculum: Comm. trib. prov. Roma, sez. II, n. 349/2006; Comm. trib. prov. Roma, sez. VI, n. 470/2006; Comm. trib. prov. Pesaro, sez. I, sent. 8 febbraio 2005, n. 51; Comm. trib. prov. Cagliari, sez. I, sent. 12 giugno 2001, n. 248; Comm. trib. prov. Salerno, sez. XIX, sent. 19 giugno 1999, n. 31). In tale contributo l’autore, partendo dall’analisi dell’ipoteca esattoriale prevista dall’art. 22, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, fa un’attenta e precisa disamina delle caratteristiche tipiche qualificanti i provvedimenti cautelari, calate nella peculiarità dell’ordinamento tributario in cui è imprescindibile tenere conto della natura spiccatamente pubblicistica del rapporto esistente tra il contribuente e il fisco, e del fatto che il provvedimento cautelare si basa su di un titolo, la cartella di pagamento, che ha già acquistato, stante il decorso del termine di sessanta giorni per la sua impugnazione, uno status di definitività. Si tratta, in altri termini, di misure cautelari settoriali e specifiche che hanno la funzione principale di evitare che i beni vengano sottratti alla riscossione e nel contempo, avendo comunque un forte carattere di coazione morale, tendono ad indurre il debitore moroso all’adempimento, e ciò al fine di evitare il successivo pignoramento. L’iscrizione ipotecaria, che si pone a monte dell’eventuale pignoramento, non assume, quindi, rilievo alcuno ai fini del decorso dell’anno per la perdita di efficacia dell’intimazione a pagare con-

tenuta nella cartella, in quanto certamente non comporta l’inizio dell’espropriazione di cui al secondo comma dell’art. 50. Anche alla luce di questo secondo orientamento, pertanto, si può ritenere che l’iscrizione ipotecaria, lungi dall’essere atto d’esecuzione, ma essendo al contrario strumento di tutela cautelare del credito fiscale, non necessiti di essere preceduta dalla notificazione dell’intimazione di pagamento qualora sia decorso oltre un anno dalla notifica della cartella. Tuttavia, in tal caso, risulterebbe alquanto indebolita l’esigenza cautelare cui è finalizzata l’iscrizione di ipoteca, in quanto il periculum in mora in qualche modo risulta imputabile allo stesso agente della riscossione che ha lasciato decorrere vanamente l’anno. Deve comunque ribadirsi che, per quanto la collocazione dell’ipoteca esattoriale all’interno dell’esecuzione esattoriale e l’incipit dell’art 77, laddove recita che «decorso inutilmente il termine di cui all’articolo 50, comma 1», possano essere astrattamente idonei ad ingenerare qualche vago dubbio, a prescindere dal voler ricondurre l’ipoteca nel novero dei diritti reali di garanzia ovvero negli strumenti cautelari, si deve certamente escludere in capo all’iscrizione esattoriale la natura di atto dell’esecuzione in quanto la stessa ha la funzione di conservare il bene allo scopo di procedere, eventualmente in un secondo momento, al pignoramento. Tale funzione di garanzia/strumento cautelare si manifesta in tutta evidenza nel caso previsto dall’art. 77, comma 2, con il quale si impone al concessionario della riscossione l’obbligo di iscrivere ipoteca immobiliare, prima di procedere con il relativo pignoramento, laddove l’importo del credito tributario sia inferiore al cinque per cento del valore dell’immobile e di attendere almeno sei mesi prima di procedere all’espropriazione. La soluzione adottata dalla Commissione tributaria di Treviso (di cui si rinviene un precedente nella già citata sentenza della Comm. trib. prov. Bari, n. 533/2007) appare quindi poco condivisibile in quanto pare assai arduo riconoscere all’ipoteca una funzione esecutiva, ancorché sui generis, e pertanto ricondurla al novero degli atti dell’esecuzione forzata che, si rammenta, ai sensi dell’art. 491 c.p.c. ha il suo inizio con il pignoramento; è infatti solo con il pignoramento (nell’esecuzione immobiliare, con la trascrizione del pignoramento) che si sottraggono al debitore quei diritti, patrimonialmente apprezzabili e conservati grazie all’ipoteca, che saranno destinati al soddisfacimento dei creditori.


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INAMMISSIBILITÀ DEL CD. RICORSO COLLETTIVO-CUMULATIVO NEL PROCESSO TRIBUTARIO: LA CONNESSIONE IMPROPRIA NON COSTITUISCE PRESUPPOSTO PER IL CUMULO ORIGINARIO DI DOMANDE NELLE LITI DI IMPOSTA 86

Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 4 dicembre 2007, n. 219 Presidente: Nardi - Relatore: Mottola Processo tributario - Ricorso collettivo/cumulativo - Ricorso contro atti distinti, concernenti beni differenti - Comunanza solo di questioni Litisconsorzio facoltativo originario - Connessione impropria - Inammissibilità (C.p.c., art. 103; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 14 e 29) Nel processo tributario non è ammissibile la proposizione di un unico ricorso, da parte di una pluralità di soggetti, avverso atti distinti, concernenti beni differenti, ove comuni siano soltanto le questioni sollevate, in quanto detta ipotesi non rientra nell’art. 103 c.p.c. I ricorrenti in epigrafe, con un unico ricorso, proponevano formale impugnazione dinanzi a questa Commissione avverso le cartelle esattoriali avanti indicate, notificate separatamente ad ognuno di essi e riguardanti il pagamento dei contributi consortili iscritti al ruolo dal consorzio [...] relativamente agli immobili di proprietà. Motivavano il ricorso eccependo la nullità per difetto di motivazione, l’illegittimità della pretesa tributaria per mancata realizzazione di opere di bonifica e assenza di beneficio specifico per gli immobili gravati dal tributo. Chiedevano, pertanto l’annullamento degli atti impugnati formulando istanza di sospensione ex art. 47 del D.Lgs.546/1992. Il consorzio si costituiva in giudizio e ritenendo legittima l’iscrizione a ruolo insisteva per il rigetto del ricorso rilevandone l’inammissibilità. Respinta l’istanza di sospensione la controversia veniva trattata in pubblica udienza. Prima di ogni altra cosa la Commissione ritiene di esaminare l’eccezione preliminare d’inammissibilità del ricorso perché collettivo e cumulativo eccepita al consorzio. Per ricorso collettivo si intende il ricorso proposto da più soggetti verso un medesimo atto, per ricorso cumulativo quello presentato da un unico soggetto verso più atti. Nella fattispecie in esame più soggetti distinti, ciascuno portatore di uno specifico interesse, im-

pugnano svariati specifici atti. Di conseguenza non si può parlare di vero e proprio ricorso collettivo-cumulativo semmai di ricorso anomalo perché plurimi sono i ricorrenti e plurimi gli atti impugnati. La normativa tributaria non prevede, in via generale, che una pluralità di contribuenti possano impugnare con un unico ricorso l’atto impositivo notificato singolarmente a ciascuno di essi sia pur proveniente dallo stesso ente impositore e riguardante lo stesso tributo. Soltanto l’art.14 del D.Lgs. 546/1992 riguardante il litisconsorzio (necessario, 102 c.p.c.) o intervento (volontario, 105 c.p.c.) prevede espressamente una pluralità di parti ma, per far ricorso a tali istituti, è necessario che l’oggetto del ricorso riguardi inscidibilmente più soggetti; cioè quando la causa riguardante più soggetti sia unica e inscindibile. Certamente tale non è la fattispecie in esame. Un’attenta lettura dell’art. 18 del D.Lgs. 546/1992 porterebbe ad escludere, usando il singolare, che possa essere proposto un unico ricorso contro una pluralità di atti. Anche l’art. 19 del citato D.Lgs. afferma il principio dell’autonoma impugnabilità di ciascuno degli atti ivi indicati. Di conseguenza, dalla formulazione letterale delle norme sul ricorso introduttivo del processo tributario e dai principi generali dell’obbligazione tributaria, parrebbe che occorresse presentare tanti ricorsi quanti sono gli atti da impugnare, salvo a chiederne la riunione dei procedimenti, ai sensi dell’art. 29 del D.Lgs. 546/1992. Ma tale necessità non discende esplicitamente dalla legge, e allora occorre fare riferimento alle norme del codice di procedura civile per quanto non espressamente disposto e se compatibili, ex art. 1, comma 2, D.Lgs. 546/1992. Sull’ammissibilità del ricorso collettivo, a parere di questo Collegio, non è lecito dubitare, atteso che nel processo tributario trova senz’altro applicazione l’art. 103 c.p.c. in tema di litisconsorzio facoltativo. Anche il ricorso cumulativo è, normalmente, ritenuto ammissibile e la legittimità di siffatta impostazione trova fondamento nelle previsione di cui


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ai primo comma dell’art. 104 c.p.c. (pluralità di domande contro la stessa parte in virtù della quale contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse). L’art. 29 del D.Lgs. 546/1992, dedicato alla riunione dei ricorsi aventi lo stesso oggetto o fra loro connessi, depone a favore della soluzione prospettata, giacché il ricorso cumulativo risponde alle medesime esigenze sulla quali si radica la disciplina dalla riunione. Occorre, però, rilevare che con tale opzione processuale è la parte stessa che si attribuisce il potere di disporre la riunione dei procedimenti, imponendo quasi al giudice tale potere che conserva invece natura discrezionale, pur nella considerazione che il Collegio, con ordinanza motivata può disporne la separazione. La giurisprudenza, sia di merito, sia di legittimità ha affrontato il problema del ricorso collettivo-cumulativo separatamente e anche con esiti contrastanti.

Ultimamente la Corte di Cassazione si è occupata del ricorso cumulativo proposto con un unico atto avverso una pluralità di sentenze e si è orientata nel ritenere inammissibile tale impugnazione nella considerazione della tassatività e specificità dei mezzi di impugnazione anche se ha affermato che nel corso degli anni, facendo salve eventuali violazioni dell’obbligo del bollo, sono state fatte eccezioni sia nell’ipotesi di esistenza di unitarietà del rapporto processuale, sia nell’ipotesi dell’identità delle parti e delle questioni trattate. Nel caso in esame i soggetti passivi sono diversi e destinatari di distinti e separati provvedimenti impositivi tant’è che la posizione di ciascun contribuente può essere diversa proprio in relazione ai benefici tratti dal proprio immobile. Quindi non può che dichiarare inammissibile il ricorso così come prodotto. La declaratoria d’inammissibilità del ricorso assorbe ogni altra eccezione. La particolarità della questione induce a compensare tra le parti le spese di giudizio.

Nota di Laura Baccaglini

ficate, emesse da un consorzio e relative al pagamento di contributi di bonifica. Entrambi i ricorrenti lamentavano la mancata realizzazione di opere di risanamento del territorio – che, a loro dire, avrebbe giustificato il contributo – e perciò l’assenza di qualsiasi beneficio per gli immobili di cui erano proprietari. Verosimilmente, proprio alla luce dell’identità dei motivi dedotti, e così delle questioni che i giudici tributari si sarebbero trovati ad affrontare, il ricorso era stato proposto in forma congiunta. L’atto, solo formalmente unico, conteneva la proposizione di due domande, non altrimenti connesse se non dalla circostanza che il giudice, per deciderle, avrebbe dovuto risolvere le medesime questioni. Entrambe erano dirette a denunciare lo scorretto esercizio del potere impositivo del Consorzio, sotto il profilo dell’insussistenza di un beneficio diretto, specifico ed effettivo agli immobili, dovuta alla mancanza di qualsiasi opera di bonifica1.

La pronuncia in commento merita di essere segnalata perché prende posizione in ordine all’ammissibilità del ricorso collettivo-cumulativo nelle liti di imposta. Nel negare la possibilità di un cumulo originario di domande, non altrimenti connesse se non per una comunanza di questioni di fatto e di diritto, la decisione offre il destro per svolgere alcune considerazioni in tema di litisconsorzio facoltativo cd. improprio nel processo tributario. Il caso di specie Con la sentenza in epigrafe, la giurisprudenza torna ad esprimersi sull’ammissibilità del ricorso cd. collettivo-cumulativo, nel processo tributario. Era accaduto che, con un unico atto, soggetti diversi avessero impugnato due distinte cartelle esattoriali, a ciascuno di essi separatamente noti-

1 Era questo un aspetto che meritava di essere trattato, quanto meno perché avrebbe consentito alla Commissione di prendere posizione in ordine a quell’orientamento giurisprudenziale per il quale la debenza del tributo in esame è subordinata alla sussistenza dello svolgimento di opere di risanamento, che abbiano determinato un concreto vantaggio per gli immobili

siti nel comprensorio (tale da comportare per essi un incremento di valore) che il consorzio era tenuto a provare. V. in questo senso, Cass., 29 settembre 2004, n. 19509, in Finanza loc., 2005, 114; Id., 14 ottobre 1993, n. 8960, in Giust. Civ., 1996, I, 3135, con nota di GIACALONE; Comm. trib. reg. Umbria, 22 giugno 2005, n. 42, in Giur. di Merito, 2005, 1964.

La devoluzione alla giurisdizione tributaria delle controversie relative alla debenza dei contributi spettanti ai consorzi di bonifica e imposti ai proprietari per le spese di esecuzione, manutenzione ed esercizio delle opere di risanamento e miglioramento fondiario può considerarsi oggi pacifica, sia alla luce del nuovo art. 2, D.Lgs. 546/1992, nel testo


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Tuttavia, i giudici tributari nemmeno giungono alla cognizione della causa nel merito, ritenendo di dover accogliere l’eccezione sollevata dal resistente, relativa all’inammissibilità della proposizione di un ricorso collettivo-cumulativo. A questa questione, e così alla possibilità di proporre con un unico ricorso due distinte domande, non altrimenti connesse se non dalla risoluzione di questioni comuni, di fatto o di diritto, saranno dedicate le riflessioni che seguono.

modificato dall’art. 12, L. 28 dicembre 2001, n. 448 (che ha esteso genericamente la giurisdizione tributaria a tutte le controversie aventi ad oggetto tributi di ogni genere) sia – e prima ancora – in virtù della riconosciuta natura tributaria dei contributi di bonifica. V. per un’affermazione in tal senso, Cass., sez. un., 25 maggio 2006, n. 14863, in Riv. Dir. Trib., 2007, 23; Id., 23 maggio 2005, n. 10703, in Giust. Civ. Mass., 5. Si tratta di una conclusione che, in passato, era stata contrastata: il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e Commissione tributaria, proprio in ordine a controversie relative ai contributi di bonifica, aveva dato àdito a numerose incertezze, proprio perché una parte della dottrina contestava la natura tributaria a tali contributi. Al riguardo, si era sostenuto che i consorzi di bonifica non fossero dotati di autonoma potestà impositiva, potendo soltanto avvalersi di un potere di esazione, analogo a quello riconosciuto agli uffici finanziari per la riscossione dei tributi. Inoltre, si era evidenziato che, mentre il presupposto di imposta rappresentava un sacrificio economico netto, derivante da un’espressa previsione di legge, nel caso del contributo di bonifica, il presupposto sarebbe stato ravvisabile nello specifico vantaggio del fondo, conseguito in modo concreto e tangibile dallo stesso proprietario dell’immobile. In altri termini, sarebbe esistito un rapporto sinallagmatico tra contributo di bonifica e beneficio fondiario ricevuto. In questo modo, si finiva per assegnare la giurisdizione ordinaria la devoluzione delle controversie relative a tale contributo, nel quale si ravvisava un mero corrispettivo per opere e servizi svolti (in questo senso, v. in dottrina, BOTTICELLI, Sulla natura tributaria dei contributi di bonifica, in Tributi, 1992, 97; GUARINO, Natura giuridica dei contributi di bonifica, in Arch. Civ., 1998; BRUNETTI, Giurisdizione e competenza per le controversie sui contributi di bonifica, in Riv. Dir. Proc., 1998,

Il litisconsorzio facoltativo per connessione impropria nel processo tributario Non v’è dubbio che quella poc’anzi tratteggiata costituisca una fattispecie di litisconsorzio facoltativo ben nota al codice di rito civile, il cui art. 103 favorisce il simultaneus processus, mediante cumulo originario di domande, anche qualora la connessione tra cause sia determinata dalla risoluzione delle medesime questioni2. Al riguardo,

538, cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti). Prendendo spunto da tali affermazioni, una parte della giurisprudenza, pur riconoscendo la natura tributaria dei contributi di bonifica, aveva operato una netta distinzione, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, tra la domanda diretta a contestare lo scorretto esercizio del potere impositivo, dovuto ad errori o abusi nella liquidazione dei contributi (devoluta alla cognizione del giudice amministrativo) e quella volta a contestare il potere impositivo stesso, sia sotto il profilo dell’investitura dell’ente impositore, sia sotto l’aspetto dell’inclusione del soggetto tra quelli tenuti al contributo, oggetto di giurisdizione ordinaria. (v. in tal senso, Cass., sez. un., 10 febbraio 1998, n. 1341, in Riv. Giur. Trib., 1998, 415, con nota di DAMONTE; Cass., 15 marzo 2004, n. 5261, in Dir. e Prat. Trib., 2005, II, 1065, con nota critica di MAGNANI, In virtù della perpetuatio jurisdictionis spettano ancora al Tribunale le vecchie controversie sulla debenza dei contributi consortili. Tale conclusione non era andata immune da critiche specie in dottrina. Da un lato, quanto alla natura tributaria di tali contributi, si osservava che la loro riconducibilità all’area della fiscalità sarebbe stata confermata da una serie di indici, tra cui la natura di ente pubblico conferita ai consorzi di bonifica, e l’assenza nella legge di qualsiasi rapporto diretto di commutatività tra versamenti imposti e benefici conseguiti dagli immobili nel comprensorio. Da quest’ultimo aspetto, si ricavava che l’esistenza del beneficio concreto, lungi dal qualificarsi nei termini di corrispettivo per l’opera di risanamento, rilevava quale fatto costitutivo del tributo stesso. Dall’altro lato, quanto all’individuazione della giurisdizione competente a conoscere delle controversie relative a tali tributi, si affermava che la devoluzione esclusiva alle Commissioni tributarie usciva confermata dal riferimento, conte-

nuto nell’art. 2, comma 1, lett h, del D.Lgs. 546/1992, ai tributi comunali e locali, nei quali sicuramente rientravano anche i contributi di bonifica. V. in questo senso, GLENDI, Contributi di bonifica e questioni di giurisdizione, in Riv. Giur. Trib., 1998, 975, nota critica a Cass., sez. un., 8 luglio 1998, n. 4920, nonché Id., Spetta alle Commissioni la decisione sulle controversie per i contributi di bonifica, nota adesiva a Comm. trib. prov. Firenze, 8 maggio 1998, n. 192. 2 Tra i contributi classici su questa figura di litisconsorzio facoltativo, ci si limita qui a richiamare TARZIA, Il litisconsorzio facoltativo nel processo di primo grado, Milano, 1972, 40 ss.; PROTO PISANI, Dell’esercizio dell’azione, in Commentario Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1130 ss.; CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale secondo il nuovo codice, Padova, 1944, II, 194 ss. Più di recente, v. MENCHINI, Il processo litisconsortile. Struttura e poteri delle parti, Milano, 1993, 107 ss. Al riguardo, è ricorrente l’esempio di più lavoratori che, in base ai rispettivi contratti individuali di lavoro, convengano in un giudizio di condanna il proprio datore di lavoro, per il pagamento di talune indennità che risultino dal contratto collettivo (v. ex multis, ATTARDI, Diritto processuale civile, Padova, 1999, 350 ss.; FABBRINI, voce Litisconsorzio, in Dig. Disc. Priv. (sez. civ.), Torino, XI, 1994, 821; CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile. Profili generali, II, Padova, 2008, 387. Giova precisare che la legittimità di un cumulo originario di domande, connesse dalla risoluzione delle medesime questioni, è stata riconosciuta, a livello positivo, solo con l’entrata in vigore del c.p.c. del ‘42, ancorché fosse ritenuta ammissibile dalla maggior parte della dottrina, anche sotto l’imperio del c.p.c. del 1865. V. in tal senso, CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 1076-77; REDENTI, Il giudizio civile con pluralità di parti, Milano, 1960, 6 testo e note.


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si è soliti discorrere di litisconsorzio facoltativo per connessione impropria (o più semplicemente di litisconsorzio facoltativo improprio) per differenziare questa figura da quella del cumulo di domande caratterizzato da connessione per titolo o per oggetto. Si tratta di una distinzione foriera di una serie di ricadute sul piano pratico, posto che ad essa corrisponde una diversità di disciplina positiva: solo si pensi che la separazione delle cause, prevista ex art. 103, comma 2, c.p.c., è difficilmente concessa – e talvolta, anzi, preclusa – quando la connessione tra domande

3 V. in questo senso, ZANUTTIGH, voce Litisconsorzio, Digesto disc. priv., sez. civ., Torino, 1994, XI, 40; CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., 386-387. Inoltre, nel rito civile, la sussistenza di un cumulo di domande, legate da nessi rilevanti sul piano sostanziale, legittima una deroga alle ordinarie regole di competenza, consentendo all’attore di convenire in giudizio la pluralità di convenuti davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di uno solo di essi (art. 33 c.p.c.). Si tratta di una facoltà che il legislatore del processo tributario non contempla, posto che la stessa riunione delle cause, anche quando caratterizzate dall’esistenza di una connessione cd. forte, può operare solo all’interno della stessa Commissione tributaria, e non là dove i ricorsi pendano innanzi a giudici tributari diversi (come stabilisce l’art. 29, D.Lgs. 546/1992, sul quale si rinvia al commento di CAMPUS, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di ConsoloGlendi, Padova, 2008, spec. 326. 4 Si definisce ricorso collettivo quello presentato da una pluralità di ricorrenti avverso uno stesso atto di accertamento, di cui siano stati destinatari. È questa una figura considerata ammissibile, nel processo tributario, già nel vigore del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, che pur non conteneva alcuna espressa previsione in ordine all’ammissibilità del litisconsorzio facoltativo o necessario, nelle liti di imposta. L’ipotesi che più frequentemente occasionava la proposizione collettiva di un ricorso era quella delle obbligazioni solidali tributarie (quali per esempio quelle sorte, in capo all’acquirente e al venditore, in ordine al pagamento dell’imposta di registro), che spesso inducevano i ricorrenti ad impugnare con un unico atto l’accertamento di maggior valore, notificato dall’a.f. A

sia particolarmente intensa (perché forte è il nesso tra le fattispecie sostanziali oggetto delle domande cumulate), mentre è agilmente disposta quando la connessione tra cause sia meramente logica3. Per ciò che qui interessa, si tratta di verificare se, anche nel processo tributario, sia ammissibile un’ipotesi di litisconsorzio facoltativo caratterizzato da tale ultimo tipo di connessione, e in specie se essa possa realizzarsi sin dall’origine tramite la proposizione di un unico ricorso, per ciò definito collettivo-cumulativo4.

onor del vero, specie se si asseconda l’orientamento inaugurato dalle sez. un. con la nota sentenza del 18 gennaio 2007, n. 1507, che ha ricondotto le obbligazioni solidali di imposta alla figura del litisconsorzio necessario, si dovrebbe oggi concludere per l’obbligatorietà della proposizione di un ricorso collettivo in tutti questi casi. Sono noti i termini del dibattito che il recente arresto di legittimità ha provocato, per un’analisi dei quali, v. CONSOLO, Per una nuova figura di litisconsorzio necessario nel processo tributario: il giusto riparto tra coobbligati solidali torna (per altra via) al centro del sistema, in questa rivista, 2007, 425 ss. alle cui note si rinvia anche per gli ampi richiami di dottrina pronunciatasi su tale sentenza. Più in generale, quanto all’ammissibilità del ricorso collettivo, anche al di fuori delle obbligazioni solidali di imposta v. in dottrina, ALBERTINI, Il processo con pluralità di parti, in AA.VV., Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da TESAURO, Torino, 1998, 290-291; RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 122 e 150; BACCAGLINI, sub art. 14, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo-Glendi, cit., 151; FLESSATI, Le parti nel processo tributario, Torino, 2001, 229-230; ARMELLA-COMASCHI, Il processo tributario con pluralità di parti, in Codice del processo tributario. Diritto e pratica, a cura di Uckmar-Tundo, Piacenza, 2007, 217; POGGIOLI, Il ricorso quale atto introduttivo del processo, ivi, 369; SPACCAPELO, Sul ricorso collettivo-cumulativo avverso più accertamenti, nota parzialmente critica a Comm. trib. prov. Pisa, sez VI, 14 febbraio 2001, n. 10, in Riv. Giur. Trib., 2002, 674 ss.; Id., Sull’impugnazione cumulativa contro più sentenze, nota a Comm. trib. reg. Lazio, sez. XXXIII, 15 luglio 2005,

n. 81, in Dir. e Prat. Trib., 2007, II, 76; MAFFEZZONI, Ricorso collettivo e processo tributario, in Boll. Trib., 1988, 1284. Contra, BENDIN, Note in tema di ammissibilità del ricorso cumulativo dinanzi alle Commissioni tributarie, in Rass. Trib., 1989, II, 171; CARDILLO, Il ricorso cumulativo nel processo tributario, in Boll. Trib., 2003, 1135, che fa leva sul principio di autonoma impugnabilità di ciascun atto (che si ricaverebbe dagli artt. 18-19, D.Lgs. 546/1992). Al riguardo, è significativo evidenziare come l’iter argomentativo attraverso cui si snodano le riflessioni dell’autore siano state quasi pedissequamente fatte proprie dalla pronuncia in epigrafe. La prassi del ricorso collettivo-cumulativo è nota anche al diritto amministrativo, ove è la stessa legge ad ammettere che un ricorso possa essere proposto a una pluralità di soggetti avverso uno stesso atto. (v. art. 35, T.U. Cons. di Stato). Al riguardo, v. BERTI, Connessione e giudizio amministrativo, Padova, 1970, 39, nonché RAMAJOLI, La connessione nel processo amministrativo, Milano, 2002, 95. In giurisprudenza, quanto all’ammissibilità di tale figura (sia pur subordinata, sulla base delle peculiarità del processo amministrativo, all’assenza di un conflitto di interessi tra ricorrenti), tra le più recenti T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 5 marzo 2007, n. 1, in Foro Amm., 2007, 965 (s.m.); Id., 22 febbraio 2007, n. 1570, ivi, 2007, 557; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 1 dicembre 2006, n. 10351, ivi, 2007, 3935; T.A.R. Veneto, Venezia, sez. I, 27 ottobre 2006, n. 3587, in Il merito, 2006, 95 (s.m.); T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 20 luglio 2006, n. 6130, in Foro Amm., 2006, 2524 (s.m.). La figura del ricorso collettivo si distingue da quella del ricorso cd. cumulativo, il quale dà luogo ad un processo solo oggettivamente com-


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Diversamente dall’art. 103 c.p.c., l’art. 14, D.Lgs. 546/1992, che disciplina il processo tributario con pluralità di parti, non contiene alcuna disposizione specifica in ordine alla figura del litisconsorzio facoltativo originario. Il dettato letterale del suo terzo comma, che legittima la costituzione del litisconsorzio facoltativo cd. successivo, sembrerebbe consentire la costituzione di un processo tributario con pluralità di parti solo ove i terzi intervenuti, volontariamente o su chiamata, siano destinatari dell’atto impugnato o parti del rapporto giuridico controverso. L’esegesi testuale della norma parrebbe, insomma, ammettere la costituzione di un processo soggettivamente complesso, per il tramite di un intervento di tipo litisconsortile, solo qualora ricorra tra domande una connessione propria, determinata dall’impugnazione da parte di più soggetti di un unico atto. Se questa asserzione fosse corretta, essa non potrebbe che valere anche per il caso di un litisconsorzio facoltativo originario, inducendo a concludere per l’ammissibilità di un simultaneus processus sin dalla proposizione dei ricorsi, solo là dove la connessione tra domande fosse determinata dall’oggetto5. In questo caso, correttamente la Commissione tributaria avrebbe concluso per l’inammissibilità del ricorso congiunto proposto dai ricorrenti, attesa la diversità di atti da ciascuno impugnati. In realtà, sussiste almeno un duplice ordine di ragioni che induce a prendere le distanze da una simile conclusione.

plesso, posto che il ricorrente si limita ad impugnare una pluralità di atti, emanati dallo stesso ufficio finanziario. La fattispecie ricorda il cumulo originario di domande contro la stessa parte, disciplinato dall’art. 104 c.p.c. (cd. cumulo meramente oggettivo di domande) del quale costituiva esempio, nelle liti tributarie, l’impugnazione proposta dal contribuente dell’avviso di accertamento di maggior valore, riferibile tanto all’Invim quanto all’imposta di registro. Quanto all’ammissibilità di tale figura, cfr. TESAURO, voce Processo tributario, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., Aggiornamento, Torino, 2000, 561, testo e nota 43; CAMPEIS DE PAULI, Il manuale del processo tributario, Padova, 1996, 71; MOSCHETTI, La disciplina del ricorso novellato nel processo tributario, in Riv. Dir. Trib., 1993, I, spec. 1073; BATISTONI FERRARA, Appunti sul processo tributario, Padova, 1995, 34; BELLÉ, Il processo tributario con pluralità di parti, Torino,

In primo luogo, come è stato correttamente osservato, l’art. 14 contiene solo una disciplina di ordine formale del processo litisconsortile, preoccupandosi di stabilire le forme e i termini degli atti che debbono essere compiuti, e di definire – sia pur in astratto – quando ricorra una fattispecie di litisconsorzio necessario, o di intervento volontario o su istanza di parte. La disposizione non dedica alcun cenno alle fattispecie sostanziali, in presenza delle quali può darsi processo soggettivamente e/o oggettivamente complesso, facoltativo o necessario, originario o successivo6. Pertanto, in forza dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. 546/1992, è legittimo richiamarsi alle norme del codice di rito, che disciplinano il processo litisconsortile. Già sotto questo profilo – quanto alla fattispecie in esame – dovrebbe considerarsi pienamente ammissibile il ricorso congiunto proposto dai due contribuenti, giusta il rinvio all’art. 103 c.p.c., che contempla la connessione impropria tra domande, quale requisito per la formazione di un simultaneus processus. In ogni caso, prima ancora di invocare l’applicazione dell’art. 103 c.p.c., si potrebbe giungere alla conclusione poc’anzi rassegnata mediante la valorizzazione dell’art. 29, D.Lgs. 546/1992, chiamato a disciplinare la riunione dei ricorsi, analogamente a quanto prevede l’art. 274 c.p.c., per il rito civile7. Posto che, per comune riconoscimento, l’istituto della riunione consente la realizzazione del simultaneus processus, per cause proposte separatamen-

2002, 142. Più oscillante, sul punto, la giurisprudenza, v. in senso favorevole, Comm. trib. prov. Treviso, sez. V, 30 luglio 1998, in Boll. Trib., 2000, 466 e di recente, Cass., 1 ottobre 2004, n. 19666; Comm. trib. prov. Milano, 22 dicembre 2005, n. 272, in Giur. di Merito, 2006, 1301, con nota di SCALINCI; contra, Comm. trib. centr., sez. III., 13 maggio 1997, n. 1335, in Giur. Imposte, 1998, 34; nonché, Comm. trib. prov. Pisa, 14 febbraio 2001, n. 10, cit.; Comm. trib. prov. Milano, sez. III, 19 luglio 2000, n. 214, in banca dati fisconline. 5 Sulla figura del litisconsorzio facoltativo successivo, v. se vuoi BACCAGLINI, sub art. 14, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo-Glendi, cit. 152. 6 GLENDI, Rapporti tra la nuova disciplina del processo tributario e codice di procedura civile, in Dir. e Prat. Trib., 2000, I, 1726, nota 65. Sulla figura del litisconsorzio nel processo tributario, cfr. RUSSO, Ma-

nuale di diritto tributario. Il processo tributario, cit., 68; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2006, 360 ss.; BELLAGAMBA, Il contenzioso tributario, Torino, 1996, 86 ss.; ALBERTINI, Il processo con pluralità di parti, cit., 289; ALLEGRETTI, Il litisconsorzio e l’intervento nel processo tributario, in Fisco, 1993, 7061; AZZONI, Le parti e il litisconsorzio necessario nel nuovo processo tributario, ivi, 1996, 5723; BATISTONI FERRARA-BELLÉ, Diritto tributario processuale, Torino, 2007, 57; BELLÉ, Il processo tributario con pluralità di parti, cit., 141; CASTALDI, sub art. 14, in Il nuovo processo tributario. Commentario, a cura di BaglioneMenchini-Miccinesi, Milano, 2004. 7 Sul quale, per tutti, FRANCHI, Riunione dei procedimenti, in Novissimo Dig. It., Torino, 1969, XVI, 220, nonché, con precipuo riferimento al processo tributario – sia pur nel vigore del D.P.R. 636/1972, Id., in Novissimo Dig. It., Appendice, Torino, 1986, VI, 901.


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te che presentino alcuni elementi in comune, è difficile ammettere che siano diversi i presupposti per la costituzione di un processo litisconsortile, a seconda che esso si realizzi fin dall’origine o lite pendente8. Conviene, allora, muovere dall’esegesi della disposizione tributaria richiamata. Al riguardo, è significativo rilevare come il primo comma dell’art. 29 elevi a presupposto per l’operatività dell’istituto in questione la sussistenza dell’identità di oggetto ovvero la ricorrenza di una connessione tra processi pendenti davanti alla stessa Commissione tributaria. La disposizione (dal tenore comunque più ampio rispetto all’art. 14, terzo comma, giusta il riferimento all’esistenza di una connessione tra domande giudiziali) non specifica i presupposti in presenza dei quali la connessione si verifichi. In proposito, va osservato come la genericità del dettato dell’art. 29 non abbia impedito né alla dottrina né alla giurisprudenza di affermare che l’ambito applicativo della norma coincida con quello assegnato alla riunione, dal previgente art. 34, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 6369. Con previsione più detta-

8 In questo senso, SPACCAPELO, Sul ricorso collettivo-cumulativo avverso più accertamenti, cit., 674 ss., spec. nota 7 e, ancora prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 546/1992, SALVANESCHI, sub art. 34, D.P.R. 636/1972, in Commentario delle leggi sul contenzioso tributario, a cura di Glendi, Milano, 1990, 742; CAMPUS, sub art. 29, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo-Glendi, cit., 326. 9 V. in tal senso, CAMPUS, op. cit., 329; GALLUZZI, sub art. 29, in Il nuovo processo tributario. Commentario, a cura di Baglione-Menchini-Miccinesi, cit., 328; sulla circostanza che, dalla lettura dell’art. 34, potessero ricavarsi i criteri di connessione tra ricorsi, rilevanti ai fini della costituzione di un litisconsorzio facoltativo originario, cfr. SALVANESCHI, sub art. 34, D.P.R. 636/1972, cit.; RUSSO, voce Processo tributario, in Enc. Dir., Milano, 1987, XXXVI, 767. V. anche GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, 668 ss. e 779 ss. 10 Tale è la fattispecie che dà vita al cd. ricorso cumulativo, e che ricorda quanto previsto dal c.p.c. all’art. 104, su cui vedi quanto espresso in nota 3. 11 Che ben può accadere nelle cd. liti seriali, quando il ricorrente impugni distinti avvisi di accertamento notificatigli dall’a.f., relativi allo stesso tributo dovuto per anni di imposta differenti.

gliata, l’abrogata disposizione indicava, tra le forme di connessione rilevanti ai fini della riunione, l’identità di oggetto, l’identità di soggetti10, l’identità di tributo11 ovvero la sussistenza di questioni comuni, ancorché relative a tributi diversi, tra una pluralità di controversie. Proprio con riguardo a tale ultima fattispecie, autorevole dottrina aveva evidenziato la rilevanza, ai fini della riunione, della connessione meramente impropria, posto che nessun elemento identificatore della domanda poteva considerarsi comune alle controversie pendenti, la cui decisione dipendeva tuttavia dalla risoluzione di medesime questioni12. L’idea che la sussistenza di un’identità di questioni da risolvere13 legittimi la riunione dei ricorsi tributari, è affermazione sulla quale si conviene ancora oggi, sia pur in presenza di generico richiamo al concetto di connessione, di cui all’art. 29. Non v’è allora motivo per escludere la possibilità di un ricorso cumulativo-collettivo sin dal principio, posto che la connessione tra domande – ove separatamente proposte – schiuderebbe a posteriori le porte alla riunione14.

12 TARZIA, Connessione di cause e processo tributario, in Riv. Dir. Fin., 1977, 405, che prospettava, quale esempio di questioni comuni, quelle di estimazione che riguardano lo stesso atto, dal quale sorgano diverse obbligazioni tributarie, ad es. l’Invim per il venditore e l’imposta di registro o dell’Iva per il compratore. In argomento, cfr. anche GLENDI, L’oggetto del processo tributario, cit., 513 ss., spec. 515, nota 127, e ivi il rilievo per cui il concetto di connessione impropria sarebbe addirittura più ampio nel processo tributario, rispetto a quello assegnatogli nel processo civile, giusta il disposto dell’art. 34, D.P.R. 636/1972, che richiede la mera sussistenza di questioni comuni, e non necessariamente identiche, il che consentirebbe l’ulteriore estensione della portata della norma. Sono state considerate connesse da mere questioni di fatto (sì da poter in astratto legittimare la riunione dei giudizi ovvero specularmente la proposizione di un ricorso collettivo-cumulativo) le distinte impugnazioni, proposte rispettivamente da una società di persone e dai singoli soci, avverso gli avvisi di accertamento, relativi al reddito sociale e a quello dei singoli soci. In tal senso, Cass., sez. trib., 8 luglio 2005, n. 14117. Peraltro, tale conclusione ha subìto dap-

prima una parziale smentita da Cass., sez. trib., 11 maggio 2007, n. 10792, che ha addirittura ritenuto obbligatoria, in una simile fattispecie, la riunione dei ricorsi, posto che ad essere controverso in entrambe le fattispecie era la stessa base imponibile, sulla quale calcolare il reddito dei rispettivi contribuenti; più di recente, la sussitenza di una connessione impropria nella fattispecie richiamata è stata addirittura contraddetta con un arresto delle sez. un. del 4 giugno 2008, n. 14815 che hanno ravvisato in questo caso un’ipotesi di litisconsorzio necessario, ove l’inscindibilità del ricorso sarebbe individuata proprio dall’identità della questione da risolvere (per un commento critico alla pronuncia sia consentito rinviare a Baccaglini, si allargano i confini del litisconsorzio necessario nel processo tributario. L’unitarietà dell’accertamento nelle dichiarazioni dei redditi ai fini Ilor e Irpef è imposta anche sul piano processuale in Corriere giur., 2008, 1719 ss.). 13 Ovvero di una connessione meramente intellettuale, per riprendere la nota espressione adottata da CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1944, II, 145-146. 14 Cfr. per un’argomentazione in questi termini, Comm. trib. prov. Salerno, sez. XVII, 24 luglio 2000, n. 123,


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Le discutibili motivazioni addotte a favore dell’inammissibilità del ricorso cumulativo collettivo Alla luce di quanto sin d’ora esposto, ci è davvero difficile condividere le ragioni che hanno condotto la Commissione tributaria di Modena all’inammissibilità del ricorso presentato. In effetti, dopo aver constatato che il dettato letterale dell’art. 14 legittima la proposizione di un unico ricorso solo in presenza di litisconsorzio necessario, la Corte prosegue riconoscendo la possibilità per le parti di proporre un ricorso collettivo proprio ricorrendo alla previsione normativa di cui all’art. 103 c.p.c. Già in forza del richiamo a questa disposizione, alla luce dei rilievi operati poc’anzi sulla norma del codice di rito, non si comprende come mai la Corte non abbia ravvisato nel caso in esame una comunanza di questioni tra le singole domande avanzate dalle parti, posto che in entrambi i casi era controverso lo svolgimento di opere di bonifica, da parte del Consorzio15. Stupisce il fatto che i giudici stessi si siano richiamati all’art. 29, posto che – come poc’anzi ricordato – è questa una norma capace di schiudere le porte ad un simultaneus processus, anche là dove sussista connessione impropria tra domande e così, implicitamente, di legittimare il cumulo originario delle medesime. Si legge, nella motivazione, che il ricorso collettivo-cumulativo violerebbe il disposto dell’art. 29, nella parte in cui attribuisce al giudice la prerogativa di decidere in merito alla riunione dei procedimenti, dal momento che, nel caso di litisconsorzio facoltativo originario, è la parte stessa che si attribuisce il potere di creare un processo oggettivamente e soggettivamente complesso, mentre la riunione è atto di esercizio di un potere del giudice. In realtà, ad una simile osservazione ben può obiettarsi che la possibilità di costituire sin

inedita ma la cui massima è riportata da OLIVA CORRADO, Rassegna di giurisprudenza. Contenzioso tributario. Parte seconda, in Dir. e Prat. Trib., 2001, II, 310. V. anche espressamente, TESAURO, Il processo tributario, Torino, 1998, 359, e ivi il corretto rilievo per cui il ricorso cumulativo risponde alle medesime esigenze sulle quali si radica la riunione. Analogamente, RUSSO, Manuale di diritto tributario, cit., 68. 15 V., infatti, per una soluzione opposta a quella rassegnata dalla sentenza in epigrafe, Comm. trib. prov. Bari, sez. XVII, 18 giugno 2003, n. 157. Tuttavia, per argomentazioni simili a quelle che si ritrovano nella decisione in esame, v. Comm. trib. centr., sez.

dal principio un litisconsorzio facoltativo non pregiudica, in alcun modo, l’esercizio del potere discrezionale del giudice di provvedere successivamente alla separazione delle cause, ove la trattazione congiunta dei ricorsi ritardi o renda più gravosa la decisione, così come – del resto – accade quando venga avanzata istanza di riunione e il giudice ritenga di non doverla accogliere16. Lascia, infine, perplessi quel richiamo, contenuto nella pronuncia, all’impugnazione con un unico atto di una pluralità di sentenze, dal momento che si tratta di una fattispecie diversa da quella affrontata nel caso in esame, posto che alter è ammettere il ricorso congiunto avverso una pluralità di atti impositivi, alter consentire l’impugnazione congiunta avverso una pluralità di sentenze tra loro connesse. Peraltro, preme osservare che chi si è pronunciato a favore del gravame uno actu avverso una pluralità di pronunce emesse in materia tributaria, si sia richiamato all’art. 29, D.Lgs. 546/1992, intesa quale norma di carattere generale in grado di favorire – non solo in primo grado – il simultaneus processus.17 A prescindere dalla correttezza di un siffatto ragionamento, è significativo rilevare come la stessa Commissione, nella pronuncia in epigrafe, riconosca e condivida quell’orientamento che fa propria tale argomentazione e ammette una simile iniziativa, qualora sussista un unitario rapporto processuale, ovvero identità di parti, o ancora – per ciò che qui interessa – là dove le questioni trattate, nelle rispettive decisioni, siano comuni18. Proprio il riferimento alla comunanza di questioni trattate, elevato a presupposto per la proposizione di un’impugnazione avverso più pronunce, rende a maggior ragione oscuro il motivo di inammissibilità del ricorso collettivo cumulativo proposto.

XIX, 22 dicembre 1987, n. 9421, in Rass. Trib., 1989, II, 168; Comm. trib. prov. Salerno, 11 novembre 2005, n. 216, in Rass. Trib., 2006, 621, con nota di DE GREGORIO, Sui limiti di ammissibilità del ricorso collettivo cumulativo nel processo tributario. 16 IANNACONE, Processo tributario, impugnazioni e simultaneus processus, in Diritto e Gius., 2003, 33 e 36 cui adde SPACCAPELO, Sull’impugnazione cumulativa contro più sentenze, cit., 87. Contra, quanto ad una simile opzione in fase di impugnazione, MAGNONE CAVATORTA, Sul ricorso per cassazione avverso più sentenze, nota a Cass., sez. trib., 5 maggio ????, n. 5721, in Riv. Giur. Trib., 2001, 217; TINELLI, Sull’ammissi-

bilità dell’appello cumulativo nel processo tributario, nota a Cass., sez. trib., 3 luglio 2003, n. 10499, in Riv. Giur. Trib., 2003, 1018; in argomento, cfr. anche CAMPUS, sub art. 29, cit., 328. 17 V. gli autori richiamati nella nota precedente. 18 V. quanto all’ammissibilità del gravame uno actu di una pluralità di sentenze tributarie, Cass., sez. trib., 24 gennaio 2007, n. 1542, in Fisco, 2007, alla cui massima sembra essersi ispirata la Commissione modenese nella pronuncia in esame; v. anche Cass., sez. trib., 3 luglio 2003, n. 10499, cit.; contra, Comm. trib. reg. Lazio, sez. XXXIII, 15 luglio 2005, n. 81, in Dir. e Prat. Trib., 2007, 75.


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Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. V, 15 aprile 2008, n. 93 Presidente: Terzi - Relatore: Di Mattina Processo tributario - Diniego disapplicazione disciplina sulle società non operative - Impugnabilità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, comma 8; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19; L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, comma 4-bis) Processo tributario - Ricorsi contro provvedimenti della direzione regionale - Competenza territoriale delle Commissioni - Riferimento sede ufficio competente in ragione del domicilio fiscale (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, comma 8; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 4) Il provvedimento del direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate che nega la disapplicazione della disciplina sulle società non operative, essendo assimilabile agli atti di diniego o revoca di agevolazioni, è impugnabile davanti alle Commissioni tributarie. In caso di impugnazione di provvedimenti della direzione regionale, la competenza territoriale della Commissione tributaria va individuata con riferimento all’ufficio locale competente in ragione del domicilio fiscale del contribuente, avendo il legislatore escluso il riferimento alle direzioni regionali. Svolgimento del processo A seguito dell’istanza di interpello [...] per la disapplicazione della disciplina delle società non operative, ai sensi e per gli effetti dell’art. 30, comma 4-bis, della legge n. 724 del 23 dicembre 1994, l’Agenzia delle Entrate, direzione regionale della Puglia – per il tramite dell’ufficio locale di [...] – notificava il provvedimento di rigetto, tempestivamente impugnato dalla società ricorrente. In particolare, tramite il ricorso regolarmente notificato all’ufficio di [...] e, in qualità di litisconsorte necessario, alla direzione regionale delle entrate di Bari, la società eccepiva l’impugnabilità dell’atto notificato, l’assoluta illegittimità nonché infondatezza della dichiarazione di improcedibilità dell’istanza presentata, l’assoluta illegittimità del provvedimento di rigetto impugnato e, nel merito, l’infondatezza del provvedimento di rigetto per cause non dipendenti dalla volontà dell’imprenditore, come da documentazione allegata. Sia l’ufficio di [...] che la direzione regionale di Bari si costituivano tempestivamente e contesta-

vano punto per punto tutte le eccezioni di diritto e di merito della società ricorrente. All’udienza pubblica del 4 marzo 2008 tutte le parti in causa, dopo ampia e approfondita discussione, si riportavano ai rispettivi scritti difensivi e alle relative conclusioni. Motivi della decisione Il ricorso merita totale accoglimento e l’atto impugnato deve essere totalmente annullato. Innanzitutto, occorre preliminarmente precisare le modalità di presentazione delle istanze in oggetto. Il comma 4-bis, art. 30, della legge n. 724/1994 prevede che, in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi presunti nonché del reddito minimo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini Iva, la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973. L’istanza va spedita, a mezzo del servizio postale, in plico raccomandato con avviso di ricevimento, all’ufficio locale competente in ragione del domicilio fiscale del contribuente, oppure va presentata direttamente mediante consegna a mano al predetto ufficio locale (circolare del 15 marzo 2007, n. 14, dell’Agenzia delle Entrate); deve essere indirizzata al direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate competente per territorio; deve contenere, a pena di inammissibilità, i dati identificativi del contribuente e del suo legale rappresentante nonché la relativa sottoscrizione; deve descrivere compiutamente la fattispecie concreta, indicando le oggettive situazioni che hanno impedito alla società di superare il test di operatività o di conseguire un reddito almeno pari a quello minimo presunto, determinato ai sensi del comma 3 dell’art. 30 della legge n. 324 del 1994; deve, infine, essere corredata degli atti e documenti necessari alla corretta individuazione e qualificazione della fattispecie. In definitiva, l’istanza è ricevuta in prima battuta dall’ufficio locale, come nella fattispecie dall’ufficio di [...], che è tenuto a trasmetterla al direttore regionale di Bari, unitamente al proprio parere, entro trenta giorni dalla ricezione. La risposta dell’Agenzia delle Entrate deve pervenire al contribuente entro 90 giorni dalla data di presentazione dell’istanza presso l’ufficio locale. Qualora l’istanza sia presentata ad un ufficio lo-


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cale non competente, questo avrà cura di inviarla a quello competente, dandone notizia al contribuente e precisando altresì che il termine per la risposta decorre dalla data di ricezione dell’istanza da parte di quest’ultimo. Alla luce della sommaria esposizione di cui sopra risulta evidente che il ricorso in questione merita totale accoglimento per i seguenti motivi di diritto e di merito: 1) Innanzi tutto, la competenza territoriale a decidere è di questa Commissione tributaria di Lecce perché, ai sensi e per gli effetti dell’art. 4 del D.Lgs. n. 546/1992, il legislatore opportunamente ha stabilito che «le Commissioni tributarie provinciali sono competenti per le controversie proposte nei confronti degli uffici delle entrate» escludendo tassativamente qualsiasi competenza territoriale riferita alle diverse direzioni regionali, distinte dagli uffici delle entrate. E ciò è logico perché non si vuole penalizzare il contribuente che, altrimenti, sarebbe costretto a difendersi lontano dalla sua sede naturale. Oltretutto, l’istanza di interpello viene giustamente presentata all’ufficio locale di competenza del domicilio fiscale del contribuente nel caso di specie [...], che peraltro, prima di trasmetterla alla direzione di Bari, deve dare un proprio parere entro trenta giorni dalla ricezione. La direzione di Bari, al limite, potrà intervenire nel giudizio come litisconsorte necessario, ai sensi e per gli effetti dell’art. 14 del D.Lgs. n. 546 cit., come correttamente è avvenuto nella presente controversia. 2) Il provvedimento di rigetto impugnato è senz’altro un atto impugnabile perché può farsi rientrare tra gli atti di diniego o di revoca di agevolazioni, ai sensi e per gli effetti dell’art. 19, comma 1, lett. h, D.Lgs. n. 546, cit., in quanto la disapplicazione della disciplina delle società non operative è da qualificare, almeno indirettamente, come una sorta di agevolazione fiscale, anche per quanto si dirà in seguito per il merito. Oltretutto, se così non fosse, il contribuente sarebbe fortemente penalizzato in quanto non solo

non potrebbe difendersi ma non potrebbe impugnare neppure il successivo avviso di accertamento. E l’assurdità di tale interpretazione è facilmente evidenziata da quanto scrive l’ufficio alla fine dell’istanza di rigetto: «La predetta istanza di disapplicazione va considerata come non presentata, anche ai fini della dichiarazione di inammissibilità del ricorso giurisdizionale presentato dalla società contro l’eventuale avviso di accertamento». Quanto scritto è palesemente errato e illegittimo perché: l’istanza è stata regolarmente e tempestivamente presentata; nessun precedente ricorso è stato presentato dalla società; infine, l’eventuale dichiarazione d’inammissibilità non può mai essere decisa da un organo amministrativo ma soltanto dal giudice tributario, nei casi tassativamente previsti dalla legge. Quanto sopra sta a dimostrare che al contribuente non deve mai essere impedito il diritto di contestare un atto di rigetto, come nel caso di specie. 3) Da ultimo, nel merito, il ricorso merita totale accoglimento perché la società ricorrente ha dimostrato che la situazione oggettiva che si è venuta determinando non è assolutamente dipesa dalla volontà dell’imprenditore. Infatti, come risulta dalla documentazione in atti, presentata con l’istanza introduttiva e mai contestata dagli uffici, la società ricorrente aveva affittato alla [...] un terreno per essere utilizzato come cava, a condizione che fosse rilasciata la relativa autorizzazione da parte degli organi competenti; autorizzazione che non è stata mai concessa, a causa dell’inerzia degli enti pubblici. Tutto questo, di fatto, ha costituito e tuttora costituisce le situazione oggettiva, non dipendente dalla volontà dell’imprenditore, che ha impedito e impedisce alla società di conseguire i redditi minimi correlati all’oggetto sociale dichiarato dall’impresa. In definitiva, la disapplicazione poteva essere accordata perché non erano state concesse le necessarie autorizzazioni amministrative. Sussistono motivi di opportunità, indotti dalla novità della materia in discussione, per compensare le spese di lite.

Nota

ma espressamente l’art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (sulle problematiche concernenti, in genere, detta disciplina, ex multis, LUPI, Le società di comodo come disciplina antievasiva, in Dialoghi Dir. Trib., 2007, 9, 1106; FERRANTI, L’interpello disapplicativo per le società di comodo, in Corr. Trib., 2007, 15, 1183 ss.; Id., Cause di disapplicazione della disciplina sulle società di comodo, in Corr. Trib., 2007, 17, 1357 ss.; ANTICO, Società di comodo: le nuove regole. Le indicazioni delle

La fattispecie esaminata dalla Commissione leccese investe l’impugnabilità dei dinieghi emessi dall’autorità finanziaria e, in particolare, dalle direzioni regionali dell’Agenzia delle Entrate, a seguito di istanze di disapplicazione della disciplina sulle società non operative, secondo quanto previsto dall’art. 30, comma 4-bis, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 che, a tal proposito, richia-


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entrate: circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007 - circolare n. 11/E del 16 febbraio 2007, in Fisco, 2007, 9, 1261 ss.; CAPOLUPO, Società di comodo: potere di accertamento e prova contraria, in Fisco, 2007, 9, 1211 ss.). Da quanto si evince dalla sentenza, sembra che l’autorità finanziaria avesse dichiarato l’improcedibilità dell’istanza. Avverso detto provvedimento, la società contribuente proponeva ricorso, sia nei confronti dell’ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate, sia nei confronti della direzione regionale, quale litisconsorte necessaria. Secondo la Commissione provinciale, il provvedimento di rigetto rappresenterebbe un atto impugnabile davanti ai giudici tributari (in tal senso, cfr. POSARELLI, L’istanza per la disapplicazione della disciplina antielusiva sulle società di comodo: gli aspetti procedurali dopo la circolare n. 14/E del 15 marzo 2007, in Fisco, 2007, 14, 2029; VENTIMIGLIA, Problematiche in tema di disapplicazione della disciplina sulle società di comodo, in Fisco, 2007, 30, 4444 ss.; contra, PISTOLESI, L’interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, in Corr. Trib., 2007, 37, 2995, secondo il quale la risposta resa dall’a.f. non sarebbe, invece, impugnabile. Essa, infatti, oltre a non essere vincolante, non esprimerebbe una pretesa impositiva o sanzionatoria e, pertanto, difetterebbe l’interesse ad impugnarla; circolare 2 febbraio 2007, n. 5/E, in banca dati fisconline. Quanto, in generale, ai dinieghi ex art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. 600/1973, si veda Cass., 21 dicembre 2004, n. 23731, in Riv. Giur. Trib., 2005, 4, 348, con nota di STEVANATO, Quale tutela avverso il diniego di disapplicazione di norme antielusive?, che ne ha riconosciuto, sia pure implicitamente, l’impugnabilità; in senso contrario, Comm. trib. reg. Toscana, sez. I, 22 marzo 2005, n. 33, in Servizio di documentazione tributaria del Ministero delle Finanze; TESAURO, Gli atti impugnabili ed i limiti della giurisdizione tributaria, in questa rivista, 2007, 1, 15, secondo il quale tali atti potrebbero essere impugnati soltanto in via differita. Esclude l’impugnabilità di tali dinieghi, muoven-

do dal presupposto dello svolgimento, da parte dell’a.f., di un’attività di natura meramente interpretativa, STEVANATO, Il diniego di disapplicazione delle norme antielusive: possibili rimedi giurisdizionali, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 2, 30 ss.; Id., Quale tutela, cit., 351). Esso, in particolare, sarebbe assimilabile agli atti di diniego o di revoca di agevolazioni. Ciò, secondo i giudici leccesi, sul presupposto che la disapplicazione della disciplina delle società non operative sarebbe da qualificare, sia pure indirettamente, come un’agevolazione fiscale (cfr. POSARELLI, L’istanza per la disapplicazione della disciplina antielusiva sulle società di comodo, cit., 2029; contra, VENTIMIGLIA, Problematiche in tema di disapplicazione, cit., 4452, nel senso che il diniego di disapplicazione andrebbe, invece, assimilato, in via di interpretazione estensiva, agli atti di accertamento). Altra interessante problematica affrontata dalla sentenza in rassegna riguarda l’individuazione della Commissione tributaria territorialmente competente a decidere sui ricorsi proposti avverso i provvedimenti de quibus. La problematica sembra porsi in quanto, secondo quanto previsto dall’art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. 600/1973, e dal D.M. 19 giugno 1998, n. 259, detti atti promanano dalla direzione regionale e non dall’ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate. A tal proposito, i giudici evidenziano che la competenza territoriale della Commissione andrebbe individuata con riferimento al luogo ove ha sede l’ufficio locale competente in ragione del domicilio fiscale del contribuente. Ciò, secondo la Commissione, sulla base dell’art. 4 del D.Lgs. 546/1992 che, laddove prevede che le Commissioni tributarle provinciali «sono competenti per le controversie proposte nei confronti degli uffici delle entrate», escluderebbe in modo tassativo qualunque competenza territoriale riferita alle direzioni regionali. I giudici leccesi hanno ritenuto che, come nel caso da essi esaminato, queste ultime sono litisconsorti necessarie, ai sensi dell’art. 14 del D.Lgs. 546/1992.


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SANZIONI AMMINISTRATIVE LA NON PUNIBILITÀ DELLE VIOLAZIONI FORMALI NELLA GIURISPRUDENZA DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE I 88

Commissione tributaria provinciale di Chieti, sez. III, 30 gennaio 2007, n. 157 Presidente: Venanzi - Relatore: Cunicella Sanzioni amministrative - Operazioni Iva intracomunitarie - Violazione obblighi ex artt. 46 e 47, D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427) - Violazione formale - Configurabilità - Art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) - Inapplicabilità delle sanzioni (D.L. 30 agosto 1993, n. 331, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427, artt. 46 e 47; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3) La violazione dell’obbligo di registrare, da parte dell’acquirente, le fatture relative alle operazioni Iva intracomunitarie sia nel registro degli acquisiti, sia nel registro delle vendite, di cui agli artt. 46 e 47, D.L. n. 331/1993, costituisce violazione meramente formale, poiché, in conseguenza di tale duplice registrazione, l’Iva a debito si elide con l’Iva a credito; pertanto, in base all’art. 10, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, non sono applicabili le sanzioni per violazioni sostanziali. Svolgimento del processo Avverso il provvedimento di irrogazione delle sanzioni n. [...] emesso dall’Agenzia delle Entrate - ufficio di Chieti, notificato in data 24 febbraio 2005 e relativo all’Iva per l’anno 2000, la società A.O. S.p.a. proponeva formale ricorso. La sanzione, irrogata dall’ufficio, traeva origine da un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza - Nucleo regionale Polizia tributaria Abruzzo, con il quale veniva accertata l’omessa regolarizzazione, secondo le modalità e i termini di cui agli artt. 46 e seguenti del D.L. n. 331/1993, delle fatture ricevute per servizi di manutenzione motori effettuate da parte di fornitori comunitari in altri Stati membri UE, nonché omessa autofatturazione di alcune prestazioni di servizi commissionati a soggetti non residenti in Italia. Tale processo verbale di con-

statazione aveva portato all’emissione del provvedimento di irrogazione delle sanzioni n. [...] che, a seguito della presentazione di deduzioni difensive, veniva sostituito da quello impugnato che irrogava definitivamente sanzioni per euro 110.196,88. La parte ricorrente eccepiva l’illegittimità dell’atto per una pluralità di motivazioni: 1) nullità dell’atto per carenza di motivazione in violazione degli artt. 7, comma 1, della L. n. 212/2000 e 16, comma 7, del D.Lgs. n. 472/1997 in quanto l’ufficio non aveva considerato le deduzioni difensive presentate dalla società ricorrente con specifico riferimento alla natura meramente “formale” delle violazioni contestate, avendo riproposto, nell’atto impugnato, quanto già esposto nel precedente atto di contestazione; 2) nullità dell’atto per violazione art. 10 della L. n. 212/2000: l’atto risulta in contrasto con i principi di buona fede, collaborazione e affidamento sanciti dall’art. 10 della L. n. 212/2000 in quanto le violazioni contestate sono già state giudicate dal preesistente ufficio Iva quali violazioni “formali”, sebbene relative agli anni 1996 e 1997, in precedenti atti di irrogazione in cui richiesto è stato il pagamento di sanzioni residuali per un importo di lire 300.000. Assunta la natura formale delle violazioni commesse negli anni 1996 e 1997 la ricorrente, ritenendo che anche le analoghe violazioni commesse nel corso degli anni 1998/1999/2000 fossero riconducibili all’ambito delle violazioni “formali”, ha proceduto a definirle ex art. 15, comma 4, lettera b, della L. n. 289/2002 mediante il pagamento del 10 per cento delle sanzioni “residuali”, assumendo che su ciascuna violazione si rendessero dovuti gli importi di lire 300.000 fino all’1 aprile 1998, e lire 500.000 dall’1 aprile 1998 in poi; 3) non punibilità delle violazioni meramente “formali”; essendo stato riconosciuto anche dagli stessi verificatori che le violazioni commesse non hanno comportato variazioni nelle risultanze delle dichiarazioni periodiche o annuali e neanche evasio-


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ne Iva, né è stata ostacolata l’attività di verifica della Guardia di Finanza e/o ufficio fiscale e pertanto sulle violazioni contestate non si rendono oggettivamente applicabili le sanzioni tributarie. La mancata osservanza degli adempimenti di integrazione e duplice registrazione delle fatture relative ad acquisti intracomunitari non ha comportato alcuna evasione di imposta. Dal momento che la società non aveva cause di limitazione alla detrazione dell’Iva sugli acquisti, il mancato addebito dell’Iva è stato compensato dal mancato accredito dell’Iva che comunque poteva essere detratta. Deve, quindi, ritenersi illegittimo il rinvio operato dall’ufficio alle sanzioni “sostanziali”. Sulla base delle eccezioni sollevate, la società ricorrente chiedeva l’annullamento dell’atto impugnato, previa sospensione dello stesso ai sensi dell’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992, con condanna dell’amministrazione finanziaria alle spese e onorari di giudizio. L’Agenzia delle Entrate di Chieti, nelle proprie controdeduzioni presentate in data 9 giugno 2005, ribadiva la legittimità dell’atto emanato rilevando, in primo luogo, che la prima delle argomentazioni proposte dalla ricorrente risulta infondata in quanto le deduzioni presentate sono state tenute in considerazione dall’amministrazione finanziaria e hanno portato all’annullamento del primo rilievo del precedente atto di contestazione e alla riformulazione del secondo. In particolare, l’atto annulla il richiamo fatto alla ricorrente per aver operato la liquidazione periodica sulla base delle operazioni registrate nel mese di riferimento e non sulla base di quelle effettuate nello stesso periodo. È stato di conseguenza riformulato il secondo rilievo in quanto la violazione non consiste nell’acquisizione di beni o servizi privi di fatture passive, bensì nell’omessa applicazione dell’Iva dovuta in Italia sulle fatture passive emesse da fornitori esteri. Veniva inoltre confermata la natura “sostanziale” delle violazioni in quanto rapportata all’imposta, a nulla influendo l’effettiva esistenza di essa in virtù del meccanismo del pro rata. Infine l’ufficio evidenziava come il D.Lgs. n. 471/1997, abrogando l’art. 41, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972, non prevede più la sanzione residuale; l’operato dell’ufficio è così fondato anche con riferimento alla normativa applicabile alla fattispecie concreta, a nulla rilevando la definizione ai sensi dell’art. 15 della L. n. 289/2002, cui la società ha aderito. Chiedeva, pertanto, il rigetto del ricorso con vittoria di spese e onorari di giudizio.

Motivi della decisione In ordine ai sollevati motivi pregiudiziali di nullità dell’atto impugnato, inerente alla carenza di motivazione e al contrasto con i principi sanciti dall’art. 10 della L. n. 212/2000, si ritiene che l’operato dell’ufficio sia legittimo in quanto l’avviso di irrogazione delle sanzioni contiene, nelle motivazioni, tutti gli elementi necessari per rendere “edotto” il contribuente, pur richiamando il precedente atto di contestazione, già noto al medesimo. Anche in ordine alla seconda eccezione sollevata, risulta evidente che l’ufficio ha tenuto in considerazione le deduzioni ex art. 16, comma 4, del D.Lgs. n. 472/1997 sostenute dalla parte in merito all’illegittimità della sanzione irrogata, in quanto è stato annullato il rilievo operato ex art. 13, comma 1, del D.Lgs. n. 471/1997, riformulando il rilievo ex art. 6, comma 1, del citato decreto. Nel merito occorre precisare che l’ufficio ha ritenuto le violazioni commesse dalla società ricorrente di natura “sostanziale” e non “formale” in quanto queste ultime sono, per definizione, non rapportabili all’imposta. In realtà bisogna evidenziare che le violazioni commesse dalla società consistono sia nell’omessa registrazione ai fini Iva dei servizi di manutenzione motori effettuati da parte di fornitori comunitari in altri Stati membri UE, successivamente rispediti in Italia, sia nell’omessa registrazione ai fini Iva degli acquisti di pezzi di ricambio di motori presso fornitori comunitari. Si ritiene che le irregolarità poste in essere dalla società siano da ricondursi alla fattispecie di violazioni di natura formale in quanto le fatture ricevute a fronte degli acquisti intracomunitari dovevano essere integrate da parte dell’acquirente nazionale, procedendo dall’indicazione sulle fatture medesime dell’Iva applicabile in Italia. Successivamente tali fatture, ai sensi dell’art. 47 del D.L. n. 331/1993 dovevano essere registrate, da parte dell’acquirente, sia nel registro Iva acquisti che nel registro Iva vendite: in conseguenza di tale duplice registrazione della fattura, l’Iva registrata a debito si elideva con l’Iva registrata a credito. In sintesi si perviene al principio che la mancata osservanza degli adempimenti di integrazione e duplice registrazione delle fatture relative ad acquisti intracomunitari non comporta, in linea di principio, alcuna evasione d’imposta e pertanto le violazioni in esame devono ritenersi di natura formale. Per quanto attiene all’omessa autofatturazione per acquisti da non residenti, si deve ritenere che,


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analogamente a quanto espresso sopra, l’effettuazione dell’acquisto di beni – o servizi forniti da un non residente – da parte di un soggetto Iva residente in Italia risulta neutrale ai fini del tributo in quanto se, da un lato, sussiste l’obbligo per l’acquirente di procedere al versamento dell’Iva dovuta sull’operazione, dall’altro lo stesso acquirente può procedere alla detrazione dell’imposta assolta sull’acquisto dei beni ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972. Difatti tale doppia registrazione si traduce, di fatto, in una compensazione delle posizioni creditorie-debitorie di identico importo. Poiché la società nel caso in esame non aveva cause di limitazione alla detrazione dell’Iva sugli ac-

quisti, la mancata osservanza degli adempimenti di integrazione e duplice registrazione delle fatture relative agli acquisti intracomunitari non ha comportato, di fatto, alcuna evasione d’imposta. Alla luce di quanto sopra, dette violazioni devono ritenersi di natura formale ed essendo state già definite ai sensi dell’art. 15, comma 4, lettera b, della L. n. 289/2002, si deve ritenere che non possano essere irrogate ulteriori sanzioni in quanto l’atto emanato risulta essere emesso nei confronti di una fattispecie già definita ai sensi della L. n. 289/2002. Data la particolarità della materia trattata, anche in ordine all’interpretazione della “natura” della violazione in esame, ricorrono giusti motivi per compensare le spese tra le parti.

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Commissione tributaria di I grado di Trento, sez. II, 31 gennaio 2007, n. 85 Presidente e Relatore: Erlicher Sanzioni amministrative - Operazioni Iva intracomunitarie - Violazione obblighi ex artt. 46 e 47, D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427) - Violazione formale - Configurabilità - Sanzioni ex artt. 5 e 6, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 - Inapplicabilità ex art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) - Sussistenza (D.L. 30 agosto 1993, n. 331, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427, artt. 46 e 47; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, artt. 5 e 6; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3) La violazione dell’obbligo di registrare, da parte dell’acquirente, le fatture relative alle operazioni Iva intracomunitarie sia nel registro degli acquisiti, sia nel registro delle vendite, per cui, in conseguenza di tale duplice registrazione della fattura, l’Iva a debito si elide con l’Iva a credito, costituisce una violazione meramente formale, per cui in base all’art. 10, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, le sanzioni previste dagli artt. 5 e 6, D.Lgs. n. 471/1997 sono inapplicabili. Svolgimento del processo Con ricorso depositato l’8 giugno 2006 la I. S.p.a. impugnava l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate - ufficio di Trento che, con riferimento all’anno di imposta 2003, determinava una maggiore Iva per euro 294.449,00 e irrogava sanzioni per euro 368.061,25. Esponeva la ricorrente che l’atto impositivo si

fondava sulle risultanze di un processo verbale di constatazione redatto a conclusione di una verifica fiscale e che coi rilievi n. 1 e n. 3 veniva contestata l’omessa registrazione di fatture-ricevute nel registro di cui all’art. 23 (registro Iva vendite) e in quello ex art. 25 (registro Iva acquisti) del D.P.R. n. 633/1972, mentre con i rilievi di cui ai n. 2 e 4 si contestava la mancata emissione di autofatture ai sensi dell’art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972 da registrare nei medesimi registri Iva. Con l’unico motivo di impugnazione la I. S.p.a. lamentava l’illegittimità del recupero dell’imposta in relazione ad operazioni intracomunitarie ritenute dall’amministrazione territorialmente rilevanti in Italia e che riguardavano: - la riparazione e manutenzione di veicoli S. venduti dalla società I. S.p.a. che si erano danneggiati durante viaggi effettuati fuori dal territorio nazionale in altri Paesi della Comunità europea; - il pagamento di royalties; - l’acquisto di licenza d’uso avente ad oggetto software di un fornitore inglese; - la prestazione di fornitura di dati e informazioni riguardante l’acquisto da parte della ricorrente presso la casa madre svedese di un abbonamento per “informazioni tecniche”. Pur contestando la rilevanza territoriale ai fini Iva di tali operazioni, la società ricorrente evidenziava come in ogni caso si sarebbe resa necessaria la doppia registrazione delle fatture nel registro Iva vendite e nel registro Iva acquisti che avrebbe neutralizzato gli effetti dell’imposta all’atto della liquidazione periodica. Aggiungeva che, tenuto conto del carattere “trasparente e neutrale” del


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tributo, attraverso gli strumenti della detrazione e della rivalsa era consentito riversare l’onere dell’Iva sui cosiddetti consumatori finali. L’illegittimità della pretesa impositiva veniva prospettata anche in relazione all’evoluzione normativa in materia attraverso il richiamo dell’art. 41 del D.P.R. n. 633/1972, ora abrogato, che dapprima prevedeva in casi assimilabili a quello in esame l’obbligo di pagamento dell’imposta e successivamente solo l’applicazione di una sanzione con espressa esclusione del tributo. Una conferma a livello giurisprudenziale era indicata nella sentenza della Corte di Cassazione 11 agosto 2004, n. 15509 che aveva affermato il principio che nei casi in cui le violazioni fiscali non comportano variazioni nelle risultanze delle liquidazioni non è dovuto il pagamento dell’imposta. Sosteneva la ricorrente che l’inesistenza di una maggiore imposta da recuperare a tassazione escludeva ex se l’applicazione delle sanzioni proporzionali e che la natura meramente formale della violazione eventualmente commessa comportava la non sanzionabilità ai sensi degli artt. 6, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 472/1997 e 10, comma 3, della L. n. 212/2000; alle stesse conclusioni portava il disposto dell’art. 8, comma 3, della L. n. 289/2002 in materia di condono. Con riferimento alle sanzioni contestava altresì l’applicabilità di quella per infedele dichiarazione ex art 5, comma 4, del D.Lgs. n. 471/1997 e chiedeva in subordine che fosse accertata l’esistenza di un’unica violazione. Eccepiva infine l’illegittimità del rilievo denominato “consulenze amministrative e consulenze esterne” (annullato dall’ufficio ai fini delle imposte sul reddito con atto di adesione del 17 maggio 2008) e l’infondatezza del rilievo denominato “spese per viaggi”. Costituendosi in giudizio l’Agenzia delle Entrate rilevava preliminarmente che la disciplina vigente per gli acquisti intracomunitari di beni effettuati in Italia prevedeva l’imponibilità interna con obbligo dell’acquirente di versare l’imposta e la possibilità di portarla contemporaneamente in detrazione. Precisava peraltro che il diritto alla detrazione non era automatico potendo essere esercitato solo in caso di rispetto degli adempimenti prescritti fra cui l’annotazione delle fatture e autofatture nel registro Iva. Prendendo in esame i singoli rilievi sollevati nell’atto impositivo l’ufficio ribadiva il fondamento delle violazioni contestate con le conseguenze anche sul piano sanzionatorio. Replicava la I. S.p.a con memoria illustrativa depositata il 28 novembre 2006 osservando che l’uf-

ficio aveva omesso qualsiasi considerazione in ordine all’impugnazione dei rilievi minori e riproponendo nella sostanza le argomentazioni svolte nel ricorso introduttivo. All’udienza di trattazione del giorno 14 dicembre 2004 la Commissione, all’esito della discussione, tratteneva il ricorso in decisione. Motivi della decisione Il ricorso è fondato nei limiti di seguito precisati. Con riferimento ai rilievi da 1 a 4 dell’avviso di accertamento impugnato si osserva che la ricorrente non ha sostanzialmente contestato che per le operazioni prese in considerazione dovesse applicarsi il principio di territorialità in ambito Iva ai sensi dell’art. 7 del D.P.R. n. 633/1972 con la conseguente soggezione agli adempimenti previsti dalle disposizioni in materia. Ciò comporta in particolare che per le operazioni che integrano acquisti intracomunitari (rilievi 1 e 3) in applicazione del disposto dell’art. 46 del D.L. n. 331/1993 le fatture andavano numerate e integrate dal cessionario o committente (I. S.p.a.) e dovevano essere annotate nel registro di cui all’art. 23 del D.P.R. n. 633/1972 (registro Iva acquisti) e nel registro ex art. 25 (registro Iva vendite); per le operazioni di cui ai rilievi 2 e 4 era necessaria l’emissione di autofatture ai sensi dell’art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972 da annotare allo stesso modo nei registri Iva. Come chiarito dallo stesso ufficio resistente per tutte le operazioni contestate era prevista una modalità di registrazione doppia che, per effetto dell’annotazione sia nel registro delle vendite che in quello degli acquisti, consentiva al contribuente di portare in detrazione l’imposta nelle forme e nei limiti stabiliti dall’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972. Ciò posto, occorre valutare se le violazioni commesse dalla I. S.p.a. (omessa integrazione delle fatture ricevute e mancata emissione delle autofatture nonché omissione di ogni registrazione dei suddetti documenti fiscali) comportino l’insorgenza dell’obbligazione tributaria in relazione alle operazioni effettuate, come sostenuto dall’amministrazione finanziaria, ovvero se, trattandosi di omissioni di adempimenti formali e privi di rilievo nella determinazione del tributo dovuto per effetto della neutralità derivante dalla doppia annotazione nei registri Iva, non ne derivi alcuna conseguenza sul piano impositivo (tesi della ricorrente). A sostegno di quest’ultima posizione militano, ad avviso della Commissione, convincenti argomenti che traggono fondamento nel ca-


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rattere trasparente e neutro dell’Iva riguardo alle operazioni compiute che, attraverso il sistema della detrazione d’imposta, consente agli esercenti di attività d’impresa di riversare l’imposta sui consumatori finali. Nel caso in esame è pacifico che il rispetto puntuale degli adempimenti prescritti avrebbe consentito al contribuente di evitare qualsiasi versamento d’imposta poiché il debito Iva derivante dall’annotazione nel registro delle vendite sarebbe stato neutralizzato dalla contemporanea annotazione nel registro degli acquisti. Ne discende che si è in presenza di violazioni dalle quali non deriva un’incidenza sulle risultanze delle liquidazioni periodiche dell’imposta. In altri termini non avendo la ricorrente provveduto in toto agli adempimenti prescritti non possono verificarsi conseguenze sul piano impositivo dal momento che il contribuente avrebbe dovuto eseguire formalità che, complessivamente considerate, portavano ad azzerare l’imposta dovuta. Non pare quindi condivisibile l’operato dell’ufficio che si è limitato a rilevare l’omessa registrazione dei documenti fiscali relativi alle operazioni intracomunitarie in contestazione per la parte in cui sorgeva il debito d’imposta senza considerare le annotazioni che per effetto della detrazione neutralizzavano l’Iva. Merita richiamare quanto statuito dalla Suprema Corte la quale, con riferimento ad un caso in cui il contribuente aveva omesso di emettere autofatture dalle quali sorgeva un debito Iva compensato da un’equivalente Iva a credito, essendo la violazione inidonea a comportare variazioni nelle risultanze delle liquidazioni, ha dichiarato che non è dovuto il pagamento dell’imposta (Cass. n. 15509/2004). Escluso in tal modo che sia dovuta l’Iva in rela-

zione alle operazioni in questione, va ritenuta l’insussistenza delle condizioni per l’irrogazione delle sanzioni proporzionali, vale a dire quelle il cui ammontare è rapportato all’imposta evasa. Non possono perciò essere applicate le sanzioni per omessa registrazione sui registri Iva (art. 6, commi 1, 4 e 5, del D.Lgs. n. 471/1997) e quelle per infedele dichiarazione (art. 5, comma 4, del D.Lgs. n. 471/1997) che presuppongono, nella determinazione del quantum, l’esistenza di una maggiore Iva recuperata a tassazione. Risulta invece correttamente applicata la sanzione ex art. 11, comma 4, del D.Lgs. n. 471/1997, neppure oggetto di specifica contestazione della ricorrente, che riferendosi a violazione meramente formale prevede un versamento da 516,00 euro a 1.032,00 euro. Restano da esaminare i due rilievi ai fini Iva che sono collegati alla contestazione di violazioni in materia di imposte sui redditi. Per il rilievo 3, riguardante spese per “consulenze amministrative e consulenze esterne”, la ricorrente ha chiesto che si prendesse atto dell’avvenuta definizione per effetto dell’annullamento ad opera dell’amministrazione con atto di adesione del 17 maggio 2006 dell’analogo rilievo sollevato ai fini delle imposte sui redditi. La circostanza non è stata contestata dall’ufficio resistente e pertanto può ritenersi vera con il conseguente accoglimento del ricorso sul punto. Il rilievo 5 relativo a “spese per viaggi” (maggiore Iva per euro 134,00) si riferisce a fatture che secondo la condivisibile valutazione degli accertatoti comprende in parte spese di rappresentanza indetraibili. Il ricorso sui punto va dunque disatteso. Si ravvisano giusti motivi che, accanto alla pur marginale soccombenza reciproca, giustificano l’integrale compensazione delle spese di giudizio.

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Commissione tributaria provinciale di Latina, sez. V, 31 gennaio 2007, n. 226 Presidente: Del Vecchio - Relatore: Moscarino Sanzioni amministrative - Omessi versamenti periodici Iva - Violazione formale - Inconfigurabilità - Esimente ex art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) - Inapplicabilità - Fase pagamento del tributo - Violazione sostanziale - Sussistenza Sanzioni ex art. 13, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 - Applicabilità (D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3)

Gli omessi versamenti periodici dell’Iva non danno luogo ad una violazione formale in quanto hanno natura sostanziale, attenendo alla fase del pagamento del tributo; pertanto non può trovare applicazione l’esimente di cui all’art. 10, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, risultando normalmente applicabili le sanzioni previste dall’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997. Svolgimento del processo Il 26 febbraio 2007, l’Agenzia delle Entrate - uffi-


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cio di Latina notificava alla M.C.I. S.r.l. la cartella di pagamento n. [...] per euro 43.439,84 relativa a interessi e sanzioni avendo omesso i versamenti dell’imposta Iva per l’anno 2003. Con atto depositato in data 30 marzo 2007, ha proposto ricorso a questa Commissione C.M., quale amministratore unico, rappresentato e difeso dal commercialista T.D.G. il quale ha chiesto, previa discussione in pubblica udienza, dichiararsi illegittima la pretesa sanzionatoria assumendo che l’ufficio nella determinazione delle sanzioni irrogate non ha tenuto conto delle disposizioni stabilite dall’art. 12 del D.Lgs n. 472/1997con riferimento all’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997. L’Agenzia delle Entrate - ufficio di Latina, nel costituirsi in giudizio con atto del 25 maggio 2007, ha chiesto il rigetto del ricorso, eccependo che trattandosi di controllo automatico ex art. 36-bis non esplica l’applicazione del cumulo giuridico. All’udienza di trattazione del 24 settembre 2007 la dott.ssa P. per l’ufficio concludeva per il rigetto del ricorso. Il rappresentante della parte ricorrente rimaneva assente. Il Collegio riservava la decisione. Motivi della decisione Il Collegio, sciogliendo la riserva, osserva: la cartella impugnata è stata emessa a fronte degli omessi versamenti periodici dell’Iva 2003 rispettivamente, quindi, per il recupero dei crediti tributari e per l’irrogazione delle conseguenti sanzioni. L’omissione à stata rilevata a seguito del controllo automatizzato ex art. 36-bis, D.P.R. 600/1973. Dal prospetto prodotto in udienza dall’ufficio, infatti, si rileva che il ricorrente non ha effettuato i versamenti periodici dell’Iva per i mesi di aprile, settembre e ottobre e quello annuale dell’anno 2003. L’omissione dei relativi versamenti è pacifica in difetto di contestazione al riguardo avendo il ricorrente, con l’unico motivo, chiesto la rideterminazione delle sanzioni nell’importo complessivo ex art. 12, D.Lgs. n. 472/1997. L’ufficio, molto attento agli interessi dell’erario, si è attenuto scrupolosamente alle direttive ministeriali impartite in tema di riscossione Iva e sanzioni amministrative con due circolari: la n. 180/E del 10 luglio 1998 e la n. 138/E del 5 luglio 2000. Di solito, all’emanazione di una nuova legge, il Ministero fa seguire una circolare, con la quale ne illustra agli uffici periferici il significato con altre eventuali indicazioni e direttive. Ora, è pacifico

che tutti questi atti sono atti interni, ciò significa che vincolano, in base al rapporto gerarchico, l’ufficio periferico a conformarsi a quanto stabilito dall’ufficio sovraordinato, ma ciò significa anche che non hanno effetti vincolanti all’esterno dell’amministrazione (nell’ordinamento giuridico generale). Indubbiamente le circolari hanno un grado di attendibilità per la loro provenienza, ma spesso sono anche pro fisco, spesso poi l’interpretazione ministeriale viene sostituita perché l’amministrazione muta orientamento, onde il principio jura novit curia. Oggetto della controversia sono le sanzioni applicate per la violazione relativa agli omessi versamenti Iva periodici e annuale che la ricorrente assume essere formale, ritenuta invece sanzionabile dall’ufficio resistente senza l’unificazione ai sensi del comma 5 dell’art. 12 in quanto non sono formali e non pregiudicano la base imponibile essendo state liquidate ex art. 36-bis del D.P.R. 600/1973 per cui la nozione di violazione formale assume valenza pregiudiziale. Prima di passare all’esame del merito è necessario, pertanto, una breve digressione sul concetto di violazione formale, atteso che nel nostro ordinamento giuridico tributario non risulta “scolpita” una nozione vera e propria di violazione formale e quello di cumulo materiale e cumulo giuridico. [Omissis] Com’è noto il comma 1 dell’art. 12 del D.Lgs. 472/1997 fu sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera e, D.Lgs. 3 giugno 1998, n. 203 con l’introduzione del periodo «diverse violazioni formali della medesima disposizione» al posto di «diverse violazioni della medesima disposizione». Il Collegio, quindi, ritiene di dovere, in via preliminare, individuare la nozione di violazione formale, nozione prevista originariamente dallo Statuto dei diritti del contribuente e successivamente precisata, e ulteriormente ridisegnata, dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32. L’emanazione del D.Lgs. n. 32/2001 trova la sua legittimazione nell’art. 16 dello Statuto che delegava il Governo ad emanare, entro il 28 gennaio 2001, uno o più decreti legislativi recanti disposizioni correttive delle leggi tributarie vigenti, necessarie a garantire la coerenza con i principi desumibili dallo Statuto medesimo. Con riferimento alle violazioni meramente formali, il Governo, quindi, non è stato delegato ad individuare quelle condotte che risultano non essere più sanzionate, ma semplicemente ad apportare alle leggi tributarie le modifiche strettamen-


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te necessarie a garantirne la coerenza con i principi ispiratori della legge n. 212/2000. Il legislatore, nel tentativo di chiarire la definizione di violazione formale, ha finito per sopprimere la tradizionale distinzione tra violazioni formali e sostanziali, sostituendola con quella tra violazioni che arrecano o meno pregiudizio ai controlli e al debito di imposta. Infatti è accaduto che l’art. 7, lett. a, del D.Lgs. n. 32/2001 ha introdotto nell’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1997, nell’evidente pretesa di coordinare la norma con il principio dettato dall’art. 10, comma 3, primo periodo, seconda parte, dello Statuto, un comma 5-bis del seguente testuale tenore: «non sono punibili le violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile dell’imposta e sui versamento del tributo». Così facendo, ad una nozione se ne è sostituita un’altra, completamente diversa, rispetto alla previsione statutaria senza legittimazione alcuna. Infatti l’art. 10, comma 3, dello Statuto dispone che «le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta». Quindi il decreto correttivo, innegabilmente, ha introdotto una diversa nozione di illecito senza più alcun riferimento al carattere formale, avendo genericamente statuito che inoltre «non sono punibili le violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo». La mancata coincidenza tra la nozione di violazione meramente formale, così come trasfusa, a causa del D.Lgs. n. 32/2001, nell’art. 6, comma 5bis, del D.Lgs. n. 472/1997 e quella del soppresso comma 4 dell’art. 13 dello stesso decreto induce a dubitare della corrispondenza allo spirito dello Statuto del contribuente dell’intervento “attuativo” fondato sull’art. 16 della legge n. 212/2000. In sostanza, l’intervento del legislatore delegato ha introdotto un quid rovi rispetto alla norma delegante e, quindi, risulta censurabile per difetto di delega. Sul piano sistematico le violazioni sostanziali sono quelle che incidono sulla determinazione o sul pagamento del tributo, mentre le violazioni formali sono, al contrario, quelle irrilevanti ai fini della determinazione o del pagamento del tributo. Indubbiamente le violazioni formali possono anche essere idonee ad arrecare strumentalmente pregiudizio all’esercizio dei controlli e degli accertamenti.

In tale ottica, evitando suggestioni letterali, palesemente incoerenti rispetto al sistema, il Collegio ritiene che l’art. 10, comma 3, va interpretato nel senso che le sanzioni non possono essere irrogate quando il comportamento del contribuente, complessivamente considerato e valutato ex post sulla base degli effetti cui dà luogo, si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta. Nel caso di specie c’è danno erariale perché l’omissione è riconducibile ad obblighi di pagamento. È stato rilevato che il legislatore nel redigere i principi generali degli illeciti amministrativi tributari con i D.Lgs. 471, 472, 473 del 1997 ha avvicinato per molti aspetti gli illeciti amministrativi a quelli penali. Inoltre con la nuova disciplina dei reati tributari D.Lgs. n. 74/2000 il legislatore ha correlato la punibilità soltanto ove la condotta violatrice concretizza un’offesa al bene giuridico tutelato, essendo ormai superata la logica della punibilità della mera disubbidienza. Il bene tutelato si identifica quindi con l’interesse alla percezione del tributo. L’art. 10 citato, in sostanza, afferma la concezione sostanzialistica dell’illecito amministrativo tributario, riconducibile alla teoria del principio di offensività. Il Collegio concorda con la prassi amministrativa laddove ritiene che in ogni caso «gli uffici debbano valutare in concreto (a posteriori) nei singoli casi specifici, se gli illeciti commessi abbiano determinato pregiudizio all’esercizio dell’azione di controllo». Proprio dal principio che la valutazione degli effetti della violazione deve essere svolta a post si ricava, nel caso di specie, l’offensività delle violazioni commesse dal ricorrente atteso che le violazioni, complessivamente valutate a post, si risolvono con un debito di imposta. La condotta omissiva del contribuente lede il bene finale tutelato, né il comportamento antigiuridico tenuto ha ostacolato l’accertamento, poiché l’ufficio ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. 600/1973 e 54-bis del D.P.R 633/1972 è legittimato ad effettuare la liquidazione sugli imponibili dichiarati dal contribuente che nel caso di specie si è conclusa in ordine alla percezione del tributo con conseguenze relative agli omessi versamenti ponendosi come presupposto per la successiva violazione sostanziale per la presenza del debito tributario. La difesa del contribuente con ampia motivazione ha obiettato che si ha illecito continuato quando taluno anche in tempi diversi commette più violazioni che, nella loro progressione, pregiudicano o tendono a pregiudicare la determinazione


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2007, n. 450, ha escluso la continuazione nel caso di omessi versamenti periodici dell’imposta sul valore aggiunto. [Omissis] L’omissione dei versamenti, infatti, costituisce violazione sostanziale dell’obbligo imposto dalla legge al soggetto passivo di versare l’imposta nei termini o alla data prevista. Diversamente da quanto avviene per le violazioni meramente formali l’omissione dei versamenti incide sul pagamento del tributo L’omissione di un fare specifico previsto da una norma di legge non può essere posta sullo stesso piano, e, soprattutto, usufruire dello stesso trattamento giuridico riservato ad un atto inficiato da un semplice vizio formale, individuabile nella mancata conformazione dell’atto alla forma o ai contenuti previsti da specifiche norme regolamentari. La qualificazione come formale di un vizio può delinearsi, quindi, alla presenza di violazioni di norme sulla forma o sulla procedura, ma tali da non pregiudicare la realizzazione del fine sostanziale della norma violata; non rileva perciò la mera irregolarità minimale, la violazione minore di una formalità secondaria non cogente a prescindere da ogni valutazione teleologica. [Omissis]

dell’imponibile ovvero la liquidazione anche periodica del tributo. Com’è noto il cumulo giuridico consente di applicare una unica sanzione, anche se aumentata, allo stesso soggetto che commette più violazioni in concorso tra loro, anziché il cumulo materiale delle sanzioni (tot delicta, tot poena). Quando si ha il cumulo giuridico si applica una sola sanzione nei tre casi di concorso formale, concorso materiale e illecito continuato. Si ha concorso formale quando, con una sola azione od omissione, sono violate diverse disposizioni di legge, anche relative a tributi diversi. Si ha concorso materiale quando la medesima disposizione è violata più volte: il concorso materiale determina una deroga al cumulo materiale delle sanzioni solo quando si tratta di violazioni di obblighi formali. Si ha illecito continuato quando un soggetto, anche in tempi diversi, commetta più violazioni che possono essere ritenute fra di loro collegate. Mentre in materia penale la connessione è fornita dalla “unicità del disegno criminoso” per la normativa in esame è richiesto che le violazioni siano in progressione, e tutte volte a pregiudicare la determinazione dell’imponibile ovvero la liquidazione anche periodica del tributo. La Suprema Corte, con la sentenza 17 gennaio

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Commissione tributaria provinciale di Genova, sez. XIII, 22 febbraio 2007, n. 34 Presidente: Di Noto - Relatore: Rio Sanzioni amministrative - Comunicazione Ici Obbligo previsto dal regolamento comunale Tardività - Effettiva conoscenza eventi imponibili - Rilevanza - Violazione formale - Configurabilità - Sanzione - Inapplicabilità ex art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) - Sussistenza (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3) Il tardivo invio della comunicazione Ici in violazione di un termine previsto dal regolamento comunale, allorché porti comunque l’amministrazione comunale tempestivamente a conoscenza degli eventi imponibili, dà luogo ad una violazione meramente formale, per cui, in base all’art. 10, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, la sanzione è inapplicabile. Svolgimento del processo La signora S.F., residente in [...] Fiorenzuola d’Ar-

da, rappresentata e difesa, in forza di delega, dal dott. A.T., presso il cui studio in Fiorenzuola d’Arda [...] eleggeva domicilio, ricorreva contro il Comune di Santa Margherita Ligure per l’annullamento del provvedimento di irrogazione della sanzione amministrativa di euro 413,16 (n. 315 del 3 agosto 2005), notificata in data 8 agosto 2005, concernente l’omessa comunicazione ai sensi dell’art. 8 del regolamento comunale Ici. La ricorrente affermava che era proprietaria, in forza di successione mortis causa apertasi il 17 ottobre 1997, nella misura di 1/3, di un’unità immobiliare di un fabbricato comprensivo di pertinenza, iscritto nel catasto edilizio urbano del Comune di Santa Margherita Ligure e poneva in evidenza che, da allora, aveva sempre provveduto ad adempiere regolarmente a tutti gli obblighi contributivi discendenti dal suddetto fabbricato. Successivamente, in data 11 marzo 2004, aveva acquistato un’ulteriore quota della detta unità immobiliare e, in data 19 aprile 2004, il diritto di usufrutto costituito sugli immobili in questione.


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A seguito del mutamento delle proprietà immobiliari ed entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio in cui è avvenuta tale variazione, la ricorrente provvedeva in data 21 luglio 2005 alla spedizione in busta chiusa recante la dicitura “dichiarazione Ici”, a mezzo posta tramite raccomandata senza avviso di ricevimento, della prevista dichiarazione compilata in duplice copia conforme al modello approvato con decreto ministeriale del 15 aprile 2005. Successivamente, in data 8 agosto 2005 la ricorrente riceveva l’atto contro cui ha proposto il presente ricorso, che irrogava una sanzione amministrativa di euro 413,16 per l’omessa presentazione della comunicazione da effettuarsi entro 90 giorni dall’accadimento, da dichiarare su appositi moduli predisposti dal Comune. Continuava rilevando come il comportamento della contribuente sia stato sempre improntato al principio della collaborazione e della buona fede, non essendo ravvisabile alcun tentativo di ottenere vantaggi dalla situazione che si è determinata. L’art. 10 della legge 27 luglio 2000 (Statuto del contribuente) stabilisce tra l’altro che «non sono irrogate sanzioni [...] qualora egli (il contribuente) si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima». Faceva inoltre presente le difficoltà che incontra un non residente nel venire a conoscenza delle modifiche imposte dal regolamento comunale rispetto alle norme generali che implicano un aggravio ulteriore, anche in considerazione del ridotto intervallo di tempo concesso nella fattispecie (90 giorni dalla variazione per la comunicazione Ici rispetto al termine previsto per la presentazione della dichiarazione che scade col termine della presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all’anno in cui si è verificata la variazione). Terminava chiedendo l’annullamento dell’atto impugnato, in quanto illegittimo in diritto, con condanna al rimborso delle somme eventualmente versate nelle more del giudizio (a cagione dei versamenti effettuati o della riscossione portata a compimento sulla base dell’atto impugnato), con vittoria di spese, competenze e onorari oltre Iva e contributo per la cassa previdenza. Con istanza dell’11 gennaio 2007 formulava richiesta affinché la controversia fosse discussa in pubblica udienza ai sensi dell’art. 33 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Si costituiva in giudizio il Comune di S. Marghe-

rita Ligure, nella persona del sindaco dott. C.M., avverso la richiesta dell’annullamento dell’atto impugnato da parte della contribuente, sostenendo la validità dell’operato dell’amministrazione comunale (munita di potestà regolamentare in materia di imposta comunale sugli immobili) poiché tale regolamento è pubblicato integralmente in internet sul sito Anci/Cnc, sul sito del Comune di Santa Margherita Ligure, sul sito Ici2000.it e che della norma in vigore sull’obbligo di comunicazione entro 90 giorni dai fatti che concretamente modificano l’obbligo tributario viene data puntuale informazione annuale insieme all’invio dei bollettini parzialmente compilati che vengono inviati a domicilio dei contribuenti nel periodo maggio/giugno. Continuava sostenendo che la sig.ra S.F. è contribuente Ici del Comune di Santa Margherita Ligure dal 1998 e che pertanto viene raggiunta da tempo, dall’anno 2001, primo esercizio della riscossione diretta da parte del Comune, dalle informazioni annuali dell’amministrazione comunale. Concludeva chiedendo riconosciuta la legittimità e correttezza degli atti impugnati e di respingere il ricorso con vittoria delle spese processuali. Aderiva alla discussione del ricorso in pubblica udienza. Motivi della decisione Il Collegio, dopo aver esaminata la documentazione depositata agli atti, ritiene che il ricorso della contribuente è fondato e vada accolto, anche in forza di ius superveniens, e le spese vadano compensate. Trattasi in effetti di una irregolarità meramente formale, sanzionata in modo eccessivo, che non ha comportato evasione d’imposta e alcun danno al Comune. L’accadimento infatti, non è più sanzionabile ex art. 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212. Il potere sanzionatorio, in quanto esplicazione del potere punitivo, deve ispirarsi ai fondamentali principi che governano la materia e, primi fra tutti, il principio di offensività, in base al quale una sanzione risulta illegittima se l’azione che si intende punire non sia stata foriera di un comportamento dannoso o, quanto meno, pericoloso come nella fattispecie. Il Comune, fra l’altro, non ha depositato alcun documento a dimostrazione delle proprie affermazioni in merito all’invio delle informazioni annuali inviate alla contribuente.


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Commissione tributaria di II grado di Trento, sez. I, 6 novembre 2007, n. 90 Presidente: Patumi - Relatore: Labruna Sanzioni amministrative - Operazioni Iva intracomunitarie - Violazione obblighi ex artt. 46 e 47, D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427) - Violazione formale - Configurabilità - Sanzioni ex artt. 5 e 6, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 - Inapplicabilità ex art. 10, comma 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) - Sussistenza (D.L. 30 agosto 1993, n. 331, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427, artt. 46 e 47; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, artt. 5 e 6; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3) In tema di operazioni Iva intracomunitarie la violazione dell’obbligo di registrare, da parte dell’acquirente, le fatture relative alle operazioni Iva intracomunitarie sia nel registro degli acquisiti, sia nel registro delle vendite, per cui, in conseguenza di tale duplice registrazione della fattura, l’Iva a debito si elide con l’Iva a credito, dà luogo ad una violazione meramente formale, per cui in base all’art. 10, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, le sanzioni previste dagli artt. 5 e 6, D.Lgs. n. 471/1997 sono inapplicabili. Svolgimento del processo L’Agenzia delle Entrate, ufficio di Trento, con riferimento all’anno d’imposta 2003, accertava infrazioni varie in materia di Irpeg, Irap e Iva a carico della società I. S.p.a. con sede sociale in Trento, località Spini di Gardolo, comportanti un recupero d’imposta di euro 294.449,00 e sanzioni per euro 368.051,25. Contro il conseguente avviso di accertamento la predetta società ricorreva sostenendo che per le operazioni dal n. 1 al n. 4, relative ad operazioni intracomunitarie non regolarmente contabilizzate, l’Agenzia non avrebbe dovuto richiedere il pagamento di alcuna imposta e sanzione perché la doppia registrazione nel registro Iva vendite e nel registro Iva acquisti, essendo l’Iva un’imposta neutrale, consente al soggetto passivo di detrarre quella sugli acquisti facendola gravare sul solo consumatore finale. Per tale motivo non erano nemmeno dovute le sanzioni proporzionali. Richiamava la sentenza della Cassazione 11 agosto 2004, n. 15509. La Commissione adita, sentenza 31 gennaio 2007, n. 85/2/06, deliberava di annullare parzialmente l’avviso impugnato e compensava le spese

di giudizio. L’Agenzia ha prodotto appello per i motivi di seguito riassunti. 1. Precisa che per l’art. 37 del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427, gli scambi tra operatori economici intracomunitari devono essere assoggettati a Iva secondo le norme del Paese di destinazione. Ne consegue che essi «divengono qui imponibili con l’obbligo dell’acquirente di corrispondere l’imposta, includendola nelle liquidazioni periodiche con applicazione dell’aliquota vigente, con la possibilità per il soggetto passivo di portarla contemporaneamente in detrazione», secondo quanto disposto dall’art. 38, comma 1, del citato decreto. Cita gli obblighi previsti per l’acquirente dagli artt. 46 e 47, commi 1, del D.L. 331/1993, per i quali l’operazione è soggetta ad una doppia registrazione in quanto essa è inserita sia nel registro vendite sia in quello degli acquisti e concorre a tutti gli effetti per le liquidazioni periodiche, consentendo al soggetto passivo la detrazione dell’imposta nei limiti e nelle forme stabiliti dall’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972. Il diritto alla detrazione non è tuttavia automatico, potendo essere negato in presenza delle condizioni previste dalla norma, cioè se la fattura non viene annotata nel registro degli acquisti entro il mese successivo a quello di ricevimento. [Omissis] 2. Per le riparazioni effettuate su mezzi di proprietà di soggetti residenti nello Stato italiano da officine meccaniche della rete S. con sede in stati diversi della Unione europea, l’art. 40, comma 4bis, del predetto D.L. n. 331/1993, prevede che le prestazioni si considerano effettuate al di fuori dello Stato membro in cui le prestazioni sono state eseguite. In capo al concessionario «I. S.p.a. pertanto, si configuravano le responsabilità stabilite dalle norme sia per l’imposta a debito che per quella a credito. Non avendo la società ottemperato a tali obblighi, nell’erronea convinzione che le fatture ricadessero nel regime di non imponibilità di cui all’art. 7 del D.P.R. n. 633/1972, l’ufficio correttamente le ha riprese a tassazione applicando l’aliquota del 20%. 3. Identico meccanismo per i rilievi enunciati sub 2 e 4, significativo questo ultimo per l’entità degli importi contestati. Esso si riferisce all’acquisto da parte della I. di “abbonamenti per informazione tecnica”», cioè del complesso di informazioni tecniche destinate alla rete dei concessionari e offici-


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ne S. per la manutenzione e riparazioni degli automezzi. Tale operazione, però, non era stata tassata ai fini Iva, né nello Stato del prestatore, né nello Stato del committente [...]» e ciò secondo quanto disposto dall’art. 7, comma, 4, lett. d, del D.P.R. n. 633/1972, non è fiscalmente ammissibile. La relativa imponibilità implica che in mancanza di rappresentante fiscale in Italia, a norma dell’art. 17, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, sia lo stesso committente a dovere adempiere agli obblighi Iva e a corrispondere le relative sanzioni. 4. L’amministrazione finanziaria ha sempre considerato di carattere sostanziale la fattispecie in esame, infatti nella circolare n. 23/E/8560/99 del 25 gennaio 1999, punto 2.2., indica la sanzione di cui all’art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 471/1997 (omessa registrazione di operazioni imponibili) come irrogabile nel caso di omessa annotazione degli acquisti intracomunitari, anziché quella prevista dal comma 8 dello stesso articolo per gli acquisti senza fattura o con fattura irregolare. Ciò dimostra la correttezza delle sanzioni proporzionali applicate. 5. Chiede la conferma della sentenza nei punti in cui prende atto dell’avvenuta adesione sul rilievo di cui al punto n. 3 e nella parte in cui è stato respinto il ricorso sul rilievo n. 5, relativo alle spese di viaggio. Conclude chiedendo la conferma dell’avviso di accertamento notificato e la condanna della società al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. Chiede inoltre la discussione in pubblica udienza. Si costituisce e controdeduce la I. 1. L’eventuale mancato rispetto degli adempimenti, asserisce, non ha prodotto alcuna distorsione nel meccanismo di applicazione del tributo. La registrazione dell’Iva a debito, infatti, sarebbe stata immediatamente neutralizzata dall’importo dell’imposta a credito. La pretesa dell’ufficio che, peraltro non contesta che detta Iva a credito sarebbe stata detraibile, viola il principio di neutralità dell’imposta. Trattasi al massimo di omissioni di adempimenti puramente formali per i quali non è prevista alcuna norma che imponga il pagamento dell’imposta né di una sanzione. Richiama a conforto la sentenza della Cassazione 11 agosto 2004, n. 15509 secondo la quale allorché la violazione commessa non comporta variazioni nelle liquidazioni non è dovuto il pagamento dell’imposta. In senso conforme la sentenza della Comm. trib. prov. Milano, sez. XXIII, 12 luglio 1999, n. 381. Parimenti la Corte di Giustizia con la sentenza 12 gennaio 2006, cause riunite C354/03, C-355/03, C-484/03 e dell’avvocato gene-

rale presso la Corte di Giustizia nella causa C/05, anche di queste sentenze non sono state allegate le copie. Afferma di non capire, inoltre, a quale norma l’ufficio fa riferimento per pretendere il pagamento del tributo considerato che l’art. 41 del D.P.R. 633/1972 non è più vigente e nessuna norma omologa è stata introdotta in sua sostituzione. Asserisce di ritenere inconferenti i riferimenti alle pronunce della giurisprudenza di legittimità, ove si affermano principi sicuramente condivisibili, ma riguardanti operazioni poste in essere da due soggetti in cui è pacifico che se uno dei due non rispetta gli obblighi posti a suo carico si genera una distorsione del meccanismo applicativo del tributo e un danno per l’erario, circostanza non verificatasi nel caso in cui gli obblighi sono a carico dello stesso soggetto. Richiama un ampio stralcio della sentenza appellata. 2. Non essendovi state violazioni che comportassero il pagamento di una maggiore imposta, nemmeno le sanzioni proporzionali sono dovute, come deciso dalla decisione della Commissione di primo grado. Il comportamento della società non ha riflessi sull’imposta portata in detrazione, non arreca danni di altro tipo all’erario, non ostacola l’esercizio dei controlli in quanto le fatture dei fornitori esteri sono comunque annotate nei registri Iva e quindi sono operazioni del tutto trasparenti. Ciò comporta la non sanzionabilità della società ai sensi dell’art. 6, comma 5-bis del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, e dell’art. 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente). Richiama l’art. 8, comma 3, della legge n. 289/2002, in materia di condono, il quale prescriveva che una dichiarazione integrativa produceva i suoi effetti anche relativamente all’omissione dell’obbligo di autofatturazione che non abbia influito sull’imposta ammessa in detrazione. 3. Afferma che l’Agenzia nella determinazione delle sanzioni ha del tutto ignorato il disposto del comma 4 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 472/1997 il quale prevede che in casi eccezionali la sanzione può essere ridotta fino alla metà del minimo. Considerato che l’eventuale errore in cui può essere incorsa la società non ha comportato alcun danno per l’erario, mentre sono state richieste imposte e sanzioni per complessivi euro 662.510 oltre gli interessi, il predetto principio è stato calpestato. 4. L’Agenzia con atto di adesione del 17 maggio 2006 ha annullato ai fini delle imposte dirette il rilievo denominato «consulenze amministrative e consulenze esterne». Consegue che ai fini Iva tale rilievo debba essere annullato per effetto dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 218/1997, per il quale «La definizione delle imposte sui redditi ha effet-


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to anche per l’imposta sul valore aggiunto, relativamente alle fattispecie per essa rilevanti». Conclude chiedendo di respingere l’appello dell’Agenzia e di confermare la sentenza di I grado, la condanna dell’ufficio al rimborso delle spese di giudizio e, in subordine, trattandosi di violazione ripetuta, l’applicazione dell’art. 6, comma 5, del D.Lgs. n. 471/1997 e non ai sensi dell’art. 5 dello stesso decreto. All’udienza sono presenti per la società il dott. A.M. e per l’Agenzia il dott. A.D.G. Motivi della decisione La sentenza di prime cure non merita censure. È vero come sostiene l’Agenzia che per l’art. 37 del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, gli scambi tra operatori economici intracomunitari devono essere assoggettati a Iva, ma è altrettanto vero che l’operazione de qua è soggetta ad una doppia registrazione, sia nel registro acquisti sia nel registro vendite con la conseguente neutralizzazione dell’imposta. Tale logica conseguenza discende dal fine primario della nascita dell’Iva rispetto ad altre antecedenti forme di imposizioni (vedasi I.G.E.) che

I-V Nota di Lorenzo del Federico Le Commissioni tributarie iniziano a delineare la casistica delle violazioni formali non punibili in virtù dell’art. 10, comma 3, dello Statuto del contribuente. È interessante evidenziare come la giurisprudenza valorizzi il principio posto dalla norma statutaria, assolutamente garantista, piuttosto che la disposizione “attuativa” introdotta dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, palesemente limitatrice. Le cinque sentenze esaminate mostrano come il settore sino ad oggi più sensibile sia risultato quello dell’imposta sul valore aggiunto, ma gli spunti offerti si prestano ad un proficuo irraggiamento anche per quanto riguarda altri settori della fiscalità. Premessa Negli ultimi anni il tradizionale rigore del sistema sanzionatorio tributario è stato attenuato sotto mol-

1 Ovviamente l’espressione debito di imposta è da intendere in senso lato, dovendo rilevare anche i comporta-

consentivano l’applicazione di imposta su imposta, con notevoli distorsioni nel commercio internazionale per i rimborsi all’esportazione che, a detta degli altri Stati, nascondevano dei veri e propri premi all’esportazione. Orbene, la doppia annotazione nei registri Iva riporta nella logica dell’imposta le operazioni eseguite, non causando alcun danno all’erario. Come rilevato dalla Commissione nella sentenza opposta, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15509 del 2004 ha stabilito che, poiché la violazione contestata non comporta variazioni nelle risultanze delle liquidazioni non è dovuto il pagamento dell’imposta. Non essendovi recupero d’imposta consegue la non debenza delle sanzioni proporzionali. Di conseguenza non possono essere comminate le sanzioni per omessa registrazione sui registri Iva, art. 6, commi 1, 4, e 5 del D.Lgs. n. 471/1997 e quelle per infedele dichiarazione di cui all’art. 5, comma 4, che sottintendono l’esistenza di una maggiore imposta da recuperare. Gli altri punti, accettati da ambedue le parti, si danno per definiti. In considerazione della reciproca soccombenza si compensano le spese di giudizio. teplici profili. Spicca l’art. 10, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, secondo cui le violazioni non possono essere irrogate quando l’illecito «si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta». Prima facie si sarebbe potuto ipotizzare un radicale depotenziamento delle violazioni formali, sino a ritenere del tutto privi di antigiuridicità comportamenti di tale natura. Viceversa, evitando suggestioni letterali, palesemente incoerenti rispetto al sistema, l’art. 10, comma 3, va interpretato nel senso che le sanzioni non possono essere irrogate quando il comportamento del contribuente, complessivamente considerato e valutato ex post sulla base degli effetti cui in concreto da luogo, «si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta»1. Pertanto non è ipotizzabile alcuna abrogazione delle norme sanzionatorie relative alle violazioni meramente formali, in quanto tali violazioni restano punibili ove risultino connesse con fattispecie in cui si configura un debito di imposta2.

menti che danno luogo ad un maggior credito d’imposta (ALEMANNORICCA, Violazioni formali addio?, in

Corr. Trib., 2000, 3059). 2 Per un quadro generale della tematica v.: DEL FEDERICO, Statuto del contri-


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Tale lettura “razionalizzante” lascia comunque aperti molteplici interrogativi, in quanto l’art. 10, comma 3, dello Statuto è norma quanto mai problematica, della quale il legislatore non ha percepito la portata dirompente3. Invero sul piano sistematico le violazioni sostanziali sono quelle che incidono sulla determinazione o sul pagamento del tributo, mentre le violazioni formali sono, al contrario, quelle irrilevanti ai fini della determinazione o del pagamento del tributo4. Tuttavia anche le violazioni formali possono risultare caratterizzate da un significativo disvalore, in quanto finalizzate a consentire al contribuente di fruire di indebiti vantaggi patrimoniali e idonee ad arrecare strumentale pregiudizio all’esercizio dei controlli e degli accertamenti. Inoltre accertare quando il comportamento del contribuente, complessivamente considerato e valutato ex post sulla base degli effetti cui in concreto dà luogo, si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta5, è compito di indubbia complessità cui è per sua natura chiamata ad operare in primo luogo la giurisprudenza di merito. Le cinque sentenze esaminate risultano sintomatiche degli orientamenti emergenti nella giurisprudenza delle Commissioni tributarie6; particolarmente interessante risulta il caso trentino, in cui la Commissione di II grado ha confermato appieno la sentenza di prime cure7 impugnata dall’ufficio delle entrate; ma assume indubbio rilievo anche il ca-

buente, illecito tributario e violazioni formali, in Rass. Trib., 2003, 855; Id., Le garanzie dello Statuto in tema di illecito tributario, in AA.VV., Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Marongiu, Torino, 2004, 33; MICELI, Le violazioni meramente formali, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Fantozzi-Fedele, Milano, 2005, 583; MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, 143. 3 V. ad es.: ALEMANNO-RICCA, Violazioni formali, cit., 3056; Id., Ancora una “nuova” nozione di violazione formale?, in Corr. Trib., 2001, 1162; Id., Ha ancora senso parlare di violazioni formali?, in Corr. Trib., 2001, 2774; ALICE, Statuto del contribuente. Le violazioni “meramente formali”, in Fisco, 2001, 11419; DEOTTO-MIELE, Ancora sul concetto di violazione “meramente formale”, in Corr. Trib., 2002, 511; SERRANÒ, Le condizioni di non punibilità nelle violazioni formali, in Corr. Trib., 2002, 781; MICELI, Le violazioni meramente formali, cit., 591-592.

so ligure in tema di obblighi previsti dai regolamenti comunali Ici e principio di offensività. La valorizzazione della norma statutaria in luogo della disposizione “attuativa” introdotta dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32 È evidente che l’art. 10, comma 3, si pone come norma alquanto originale che dà luogo a clamorose ricadute applicative, delle quali il legislatore dello Statuto non ha percepito la portata dirompente. A posteriori si è cercato di porre riparo con il D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32 – giustificato agli occhi dell’opinione pubblica come decreto di attuazione dello Statuto – che ha inserito nell’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1997 il comma 5-bis secondo cui «non sono inoltre punibili le violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo»8. Il ripiegamento legislativo è stato ulteriormente accentuato dalla prassi amministrativa9 secondo cui «le condizioni negative appena richiamate devono intendersi alternative e non concorrenti, con la conseguenza che non può configurarsi una violazione meramente formale ove manchi in concreto una sola di esse»10. In tale contesto si pongono tre problemi estremamente complessi e dalle incerte soluzioni: - l’individuazione della ratio e delle implicazioni applicative dell’art. 10, comma 3, dello Statuto;

4 Per un inquadramento teorico di tale bipartizione v.: COPPA-SAMMARTINO, Sanzioni tributarie, in Enc. Dir., 1989, 448 ss.; DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 38-39, 408 ss. 5 In tale ottica ben si comprendono le perplessità manifestate da MICELI, Le violazioni meramente formali, cit., 595, a fronte della sentenza 9 maggio 2001, n. 5383, nella quale la Commissione tributaria centrale aveva affermato, alquanto aprioristicamente, che «le irregolarità meramente formali, che non comportano evasioni di imposta, quali l’errata indicazione del codice fiscale in sede di dichiarazione annuale, non sono più sanzionabili in forza del principio di legalità derivante dallo ius superveniens costituito dalla legge n. 212/2000». 6 V. altresì le recenti Comm. trib. reg. Lomabrdia, 30 gennaio 2007, n. 166 e Comm. trib. reg. Lomabrdia, Brescia, 3 aprile 2007, n. 84, in Riv. Giur. Trib., 2008, 249, con nota di TOMAS-

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SINI, Le omesse autofatture per operazioni con l’estero tra precedenti giurisprudenziali e nuovi scenari normativi. Entrambe qui pubblicate e annotate. Il D.Lgs. n. 32/2001 ha pure, conseguentemente, abrogato il comma quarto dell’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997 che, in tema di ravvedimento, prevedeva l’inapplicabilità delle sanzioni nei casi di omissioni o errori che non ostacolavano un’attività di accertamento in corso e che non incidevano sulla determinazione o sul pagamento del tributo, se la regolarizzazione avveniva entro tre mesi dalla violazione. Ag. Entrate, circ. 3 agosto 2001, n. 2001, in Fisco, 2001, 10649. Tale passo della circolare risulta alquanto contraddittorio, giacché in coerenza con le proprie conclusioni l’Agenzia avrebbe dovuto parlare di circostanze concomitanti (concorrenti) e non alternative (sul punto v. SERRANÒ, Le condizioni di non punibilità, cit., 783).


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- l’individuazione della portata dell’art. 6, comma 5-bis, del D. Lgs. n. 472/1997; - la verifica della compatibilità tra le due norme. Dato significativo, emergente dalle sentenze delle Commissioni tributarie, è la valorizzazione del principio posto dalla norma statutaria, assolutamente garantista, in luogo della disposizione “attuativa” introdotta dal D.Lgs. n. 32/2001, palesemente limitatrice. Tuttavia le varie sentenze – con l’eccezione della pronuncia della Commissione provinciale di Latina11 – nella sostanza obliterano la disposizione attuativa, evitando di affrontare i delicati problemi che essa pone, e ciò, molto probabilmente anche in ragione di una lacunosa difesa da parte dell’Agenzia delle Entrate. È quindi opportuno trattare tale problematica, sino ad oggi ignorata dalla giurisprudenza. Nell’art. 10, comma 3, dello Statuto il legislatore, sia pure con formulazione ambigua, ha inteso escludere la punibilità ogniqualvolta il comportamento antigiuridico del contribuente, seppure in violazione di specifici obblighi di legge, in concreto, non dia luogo ad alcun debito di imposta. Quello che conta è il danno arrecato all’erario dall’illecito e non il mero pericolo; per tale via si riesce a spiegare agevolmente la non punibilità quando il comportamento del contribuente, complessivamente inteso, «si traduce», in concreto, «in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta». La norma afferma una concezione sostanzialistica dell’illecito amministrativo tributario, in cui si trova eco della teoria penalistica del principio di offensività12, secondo cui il reato è punibile soltanto ove si concreti in un’offesa del bene giuridi-

11 Peraltro la Commissione provinciale di Latina considera gli illeciti per cui è causa di natura sostanziale e quindi non può far derivare conseguenze apprezzabili dalla pur adeguatamente percepita sovrapposizione tra le due norme. 12 ALICE, Il principio di offensività nell’illecito sanzionato in via amministrativa, in Fisco, 2000, 13442; Comm. trib. prov. Pisa, 10 ottobre 2001, n. 97, in Riv. Giur. Trib., 2002, 385. 13 Si intende far riferimento sia al principio comunitario di proporzionalità dell’attività amministrativa, sia, sotto altro profilo, al principio di proporzionalità delle sanzioni. Invero negli ultimi anni si è verificato un significativo recupero della centralità del bene finale a discapito della

co tutelato, essendo superata (o meglio non compatibile con la griglia dei valori costituzionali) la logica del reato come mera disubbidienza; tuttavia la non punibilità delle violazioni meramente formali è concepibile anche in termini di proporzionalità della sanzione al disvalore dell’illecito13. Palesemente l’art. 10, comma 3, dello Statuto è norma di diretta applicazione, che non necessitava di alcun intervento sulla preesistente legislazione14; ne è quindi evidente l’assoluta estraneità rispetto a quanto previsto dall’art. 16 dello Statuto, contenente la delega per gli interventi attuativi e correttivi strettamente necessari15. Ciononostante il legislatore è intervenuto con il suindicato D.Lgs. n. 32/2001, inserendo nell’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1997 il comma 5-bis. Il principio statutario va salvaguardato, ma non è concepibile obliterare la disposizione attuativa È chiaro che la formula di cui all’art. 6, comma 5-bis, tende a sovrapporsi all’art. 10, comma 3, dello Statuto, impedendone l’applicazione nel suo originario (e quantomai originale) ambito di operatività. Tuttavia la sopravvalutazione dell’intervento legislativo e l’interpretazione avallata dalla prassi amministrativa, tendendo a superare l’art. 10, comma 3, non potrebbero che portare all’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 5-bis, D.Lgs. n. 472/1997 (o meglio dell’art. 7, lett. a, D.Lgs. n. 32/2001) per violazione della delega di cui all’art. 16 dello Statuto del contribuente16. Pertanto è necessario tentare di trovare un punto di equilibrio tra le due norme, in base al noto principio dell’interpretazione adeguatrice17, secondo cui in presenza di diverse letture, una

tutela della funzione amministrativa impositiva, con la consequenziale svalutazione degli interessi latamente strumentali e/o meramente organizzatori, secondo un trend normativo comune a tutta l’area del diritto punitivo, che infatti ha caratterizzato sia il nuovo sistema dell’illecito amministrativo tributario (D.Lgs. n. 471, 472 e 473 del 1997), sia la nuova disciplina dei reati tributari (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74). 14 Contra MICELI, Le violazioni meramente formali, cit., 592. 15 Art. 16, comma 1, «il Governo è delegato ad emanare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, uno o più decreti legi-

slativi recanti le disposizioni correttive delle leggi tributarie vigenti strettamente necessarie a garantire la coerenza con i principi desumibili dalle disposizioni della presente legge». 16 Contra MICELI, Le violazioni meramente formali, cit., 593, che ritiene invece necessaria, coerente e adeguata la disposizione di attuazione, escludendo quindi il doppio binario di operatività. 17 Invero «fra le varie interpretazioni in astratto possibili di una fonte legislativa l’interprete è tenuto a privilegiare quella che non si pone in contrasto con la Costituzione» (così, fra le tante, Corte cost., 27 dicembre 1996, n. 418, in Giust. Civ., 1997, I, 591).


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difforme e una conforme alla legge delega, deve essere preferita quella rispondente ai principi e ai criteri direttivi della delega18. Certamente si può concordare con la prassi amministrativa laddove ritiene che in ogni caso «gli uffici debbano valutare in concreto (a posteriori), nei singoli casi specifici, se gli illeciti commessi abbiano determinato pregiudizio all’esercizio dell’azione di controllo». Così, ad esempio, «si può verificare che violazioni potenzialmente idonee ad incidere negativamente sull’attività di controllo, come ad esempio le irregolarità formali relative al contenuto delle dichiarazioni di cui all’articolo 8, comma 1, del D.Lgs. n. 471 del 1997, non siano punibili, essendo risultato in concreto che le stesse, anche per effetto dell’eventuale regolarizzazione delle medesime, non abbiano ostacolato l’azione dell’ufficio»19. Secondo la prassi restano poi normalmente punibili tutte «le violazioni per le quali l’esistenza del pregiudizio all’attività di controllo è palese per essere quest’ultima già iniziata»; conseguentemente le violazioni relative all’omessa restituzione di questionari o all’invito a comparire in ufficio, «pur dovendosi considerare di natura formale (in quanto non incidenti direttamente sull’imponibile, sull’imposta o sul versamento della stessa), continuano ad essere sanzionabili ai sensi dell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo n. 471 del 1997, poiché arrecano sempre pregiudizio alla già avviata attività di con-

18 Si consideri altresì che «la legge delegata si collega, in un naturale rapporto di “riempimento”, con la legge delegante, con la conseguenza che il silenzio della norma di delegazione non osta all’emanazione di norme rappresentanti il coerente sviluppo e completamento della scelta espressa dal legislatore delegante e delle ragioni ad essa sottese, fermo restando che il potere si deve conformare non soltanto alle finalità che lo hanno determinato, ma pure al sistema delineato dalla legislazione precedente» (Corte cost., 27 aprile 1997, n. 111, in Riv. Dir. Trib., 1997, II, 451). 19 Così Ag. Entrate, circ. n. 77-E/2001, secondo cui tuttavia «l’esimente in esame non tornerebbe [...] applicabile per quelle violazioni, pur sempre formali, aventi ad oggetto la presentazione, entro termini predeterminati normativamente, di atti che, per definizione, sono soggetti a controllo»; si pensi a «quelle connesse all’obbligo di presentazione di dichiarazio-

trollo»; altrettanto dicasi per «l’omessa tenuta delle scritture contabili prescritte dalle leggi in materia d’imposte dirette e Iva e il rifiuto da parte del contribuente della citata documentazione richiesta in sede di accessi eseguiti ai fini dell’accertamento delle stesse imposte». Acquisito il dato di comune accettazione, secondo cui la valutazione degli effetti della violazione deve essere svolta ex post, e cioè in concreto, si giunge a configurare una coesistenza dell’esimente ex art. 10, comma 3, e della diversa esimente ex art. 6, comma, 5-bis, che rende più agevole, sul piano operativo, l’apprezzamento della non offensività dell’illecito, ma è insuscettibile di obliterare l’esimente statutaria. La norma statutaria riguarda le violazioni tributarie – siano esse sul piano astratto formali o sostanziali – che in concreto si traducono, ovvero si risolvono, in mere violazioni formali, senza alcun debito di imposta; le violazioni formali restano quindi punibili allorché risultino connesse, ad esempio a titolo di continuazione20, con violazioni sostanziali che hanno dato luogo a debito d’imposta; pertanto rileva il comportamento del contribuente complessivamente considerato e valutato ex post sulla base degli effetti cui in concreto ha dato luogo. Viceversa l’art. 6, comma 5-bis, si incentra sulle conseguenze della singola violazione, e non sul comportamento del contribuente complessiva-

ni entro determinate scadenze (ad esempio: omessa presentazione della dichiarazione dei redditi nel caso in cui non sono dovute imposte, la cui sanzione è prevista dall’articolo 1, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 471 del 1997; omessa presentazione della dichiarazione dei sostituti d’imposta se le ritenute relative ai compensi, interessi e altre somme sono state interamente versate, sanzionata ai sensi dell’articolo 2, comma 3, del D.Lgs. n. 471 del 1997; omessa presentazione della dichiarazione annuale Iva allorché il soggetto effettua esclusivamente operazioni per le quali non è dovuta l’imposta, ovvero omessa presentazione della dichiarazione periodica Iva o quella prescritta dall’articolo 50, comma 4, del decreto legge 30 agosto 1993, n. 331, la cui sanzione è prevista dall’articolo 5, comma 3, del D.Lgs. n. 471 del 1997)». 20 Non è detto che la connessione sia giuridicamente rilevante nel solo caso della continuazione, si pensi alle

più problematiche ipotesi del concorso formale eterogeneo, dell’illecito complesso, ecc. È ragionevole ritenere che sia configurabile una connessione apprezzabile ogni qual volta il legislatore deroghi al principio naturalistico del cumulo materiale delle sanzioni, in favore del cumulo giuridico, e ciò indipendentemente dalla ratio di tale opzione, sia essa giustificata dalla riunificazione reale dei vari comportamenti, da una fictio iuris, ovvero semplicemente dal favor rei. Ove mai prevalga la tesi volta a circoscrivere l’applicabilità dell’art. 12, D.Lgs. n. 472/1997, all’illecito progressivo, svalutando la rilevanza della continuazione (concepita in senso tradizionale), essa resterebbe comunque apprezzabile ai fini di che trattasi, risultando rilevante la connessione fra diverse violazioni nel caso di più azioni od omissioni esecutive di una medesima disegno (sul tema v. DEL FEDERICO, Violazioni e sanzioni in materia tributaria, in Enc. Giur., 11 ss).


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mente considerato, in ragione degli effetti delle diverse violazioni commesse; ai fini della sua applicazione è necessario quindi che la singola violazione non abbia arrecato concreto pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo, non abbia inciso sulla determinazione della base imponibile e del tributo ed infine non abbia avuto conseguenze ai fini del versamento. Conclusioni Le sentenze in rassegna, pur nella sostanza condivisibili, suscitano tuttavia qualche perplessità in quanto laconiche sui rapporti tra principio statutario e disposizione attuativa. Esse hanno tuttavia il pregio di cogliere la portata garantista del principio statutario e di saper distinguere tra illeciti riconducibili all’area delle mere violazioni formali (si pensi alla casistica delle operazioni Iva intracomunitarie21) e illeciti che sia ab origine, sia ex post hanno connotazione sostanziale (è il caso degli omessi versamenti periodici Iva). I passaggi argomentativi non risultano sempre del tutto chiari, ma è indubbio che la tematica richiede particolare apprezzamento del quadro normativo e delle circostanze di fatto. Il problema di fondo è che anche le violazioni che in astratto hanno natura sostanziale possono tradursi in comportamenti che in concreto non danno luogo ad alcun debito d’imposta. La giurisprudenza di merito apre comunque per-

21 Sui relativi profili sanzionatori, in sintonia con l’orietamento giurisprudenziale in esame, v. l’interessante scritto di MURARO, Iva intracomunitaria e riflessi meramente formali del mancato rispetto degli obblighi contabili, in Corr. Trib., 2008, 973 (in generale sul siste-

corsi di notevole rilevanza applicativa: il caso ricorrente è quello della mancata applicazione dell’Iva sull’acquisto intracomunitario, ma si pensi anche all’acquisto in sospensione di imposta in misura superiore a quella spettante; in questi casi la violazione è sostanziale, in quanto il committente o cessionario diventa soggetto passivo (e dunque debitore di Iva) in sostituzione del prestatore o cedente, oppure autorizza il soggetto passivo a non applicare il tributo; tuttavia se egli non soffre limitazioni al diritto di detrazione, il tributo dovuto e non applicato è detraibile, con assenza di danno per l’erario. Si pensi inoltre all’omessa autofatturazione da parte del committente, di una prestazione resa da un soggetto non residente, in violazione dell’art. 17, comma 3, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Peraltro tali tematiche impattano con il recente potenziamento del reverse charge nel sistema dell’Iva, da ultimo mediante l’intervento della legge finanziaria 2008 (art. 1, comma 155, L. 24 dicembre 2007, n. 244)22, che ha comportato la modifica dell’art. 6 del D. Lgs. n. 471/1997 (comma 9-bis). Gli interpreti e gli operatori saranno sottoposti ad un ennesimo stress da proliferazione legislativa, ma non sembra che tali interventi siano tali da mutare significativamente l’assetto di fondo riconducibile all’art. 10, comma 3, dello Statuto del contribuente e all’art. 6, comma 5-bis, D.Lgs. n. 472/1997.

ma sanzionatorio Iva v. CORDEIRO GUERRA, Le sanzioni, in AA.VV., L’imposta sul valore aggiunto, a cura di Tesauro, Torino, 2001, 753 ss.; sull’Iva intracomunitaria v. altresì l’ampio quadro elaborato da COMELLI, Iva comunitaria e Iva nazionale, Padova, 2000).

La posizione dell’amministrazione finanziaria è espressa nella circ. 25 gennaio 1999, n. 23/E, in Corr. Trib., 519, e nella ris. 16 febbraio 2005, n. 20/E, in Corr. Trib., 2005, 969. 22 In merito v. FANELLI, Le sanzioni nel reverse charge, in Corr. Trib., 2008, 360.


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Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXII, 17 settembre 2007, n. 87 Presidente: Cellitti - Relatore: Macaluso Tributi locali - Tarsu - Denuncia di variazione di destinazione - Nuova liquidazione della tassa - Diretta iscrizione a ruolo - Illegittimità - Avviso di accertamento - Necessità (D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, artt. 70, 71 e 72) In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, a seguito di presentazione di denuncia di variazione di destinazione (nella specie, da uso abitativo a uso ufficio) che comporti variazione della tassazione, il Comune non può procedere direttamente alla nuova liquidazione e alla conseguente iscrizione a ruolo della tassa, ma deve, preliminarmente, emettere e notificare al contribuente un avviso di accertamento, al fine di portarlo a conoscenza, anche in forma succinta, dell’operazione giuridico-valutativa seguita nella determinazione del nuovo importo della Tarsu. Svolgimento del processo L’avvocato X impugnava, avanti la Commissione tributaria provinciale di Roma, la cartella di pagamento, emessa dalla banca [...], concessionaria del servizio nazionale di riscossione per la Provincia di Roma, recante l’iscrizione a ruolo della somma di euro [...], dovuta per la tassa smaltimento rifiuti solidi urbani, cat. bar-caffè-pasticceria, per gli anni 2000, 2001 e 2002. Il contribuente precisava di essere conduttore dell’immobile, adibito a studio legale, sito in Roma, [...], di proprietà del sig. Y, che lo aveva dichiarato ai fini della Tarsu come locale ad uso abitativo e che, per gli anni in questione, aveva sempre corrisposto quanto dovuto. Precisava, poi, di aver presentato la dichiarazione di iscrizione a proprio nome della tassa non più ad uso abitativo e di aver successivamente chiesto il cambio di categoria da cat. 21 a cat. 1. Sosteneva, quindi, in diritto, la nullità della cartella di pagamento impugnata perché non preceduta dalla notifica di alcun avviso di accertamento, in quanto la Tarsu, dovuta per ogni anno solare, corrisponde ad una autonoma obbligazione tributaria; per questa ragione il Comune, dovendo procedere alla rettifica della denuncia, è vincolato a notificare, per ogni anno, apposito avviso di accertamento.

Nel merito il ricorrente sosteneva che il tributo non era dovuto, sia perché le annualità richieste (2000, 2001 e 2002) erano state regolarmente pagate dal proprietario dell’immobile, il quale aveva presentato la dichiarazione di utenza con la classificazione della destinazione per uso abitativo, sia perché il pagamento richiestogli era stato erroneamente calcolato in base alla categoria bar-caffè-pasticceria, invece di immobile ad uso ufficio. Chiedeva, poi, la sospensione della cartella di pagamento sussistendo sia il fumus boni iuris sia il periculum in mora e l’annullamento della cartella, con vittoria di spese, competenze e onorari. Con ordinanza, depositata in data 10 giugno 2005, il Presidente disponeva la sospensione provvisoria della cartella, ricorrendone i presupposti. Con sentenza del 7 ottobre 2005 la Commissione ha accolto il ricorso e annullato la cartella impugnata. Spese compensate. Avverso tale decisione ha proposto appello il Comune di Roma, sostenendo che la Commissione era arrivata alla conclusione della nullità della cartella esattoriale principalmente sulla base di una errata convinzione circa la mancata emissione, nonché notifica, da parte dell’ufficio preposto, di avviso di accertamento precedente la cartella stessa. Tale conclusione, sostiene l’appellante, non è assolutamente condivisibile, in quanto l’atto in questione, direttamente connesso all’attività propria dell’ente impositore, è conseguenza diretta di un’iscrizione a ruolo avvenuta a seguito di semplice denuncia originaria del contribuente stesso, che non deve essere assolutamente preceduta da alcun atto/avviso di accertamento o liquidazione. Non sussiste, infatti, l’obbligo per l’amministrazione di svolgere accertamenti e/o verifiche, in quanto lo stesso ente, nelle applicazioni delle tasse successive alla prima, può e deve liquidare il tributo senza procedere ad ulteriori accertamenti. La correttezza di tale orientamento, sostiene sempre l’appellante, è confermata dalle disposizioni contenute dall’art. 71, D.Lgs. n. 507/1993, che vincolano e/o autorizzano l’amministrazione ad emettere gli avvisi di accertamento per i soli casi di omessa, infedele o incompleta denuncia. È quindi evidente che, nella fattispecie esaminata non ricorrendo tali estremi, l’iscrizione nei ruoli Tarsu a carico dell’avv. X – utenza [...] – e la con-


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seguente emissione della cartella esattoriale relativa, non doveva essere assolutamente, come di fatto non lo è stata, preceduta da alcun avviso di accertamento. La pretesa impositiva relativa alle annualità richieste con la cartella esattoriale de qua – anno 2000, 2001 e 2002 – non può essere considerata soddisfatta con i pagamenti adempiuti dal sig. Y in considerazione della sua originaria iscrizione Tarsu per [...], in quanto: 1) l’utenza intestata al sig. Y – [...] – è relativa ad un immobile ad uso abitativo, mentre la destinazione d’uso dell’immobile sopra citato, intestato all’avv. X, è relativa ad un utenza non domestica; tale diversa posizione oltre ad investire il maggiore importo della tassa che deve essere corrisposto per l’uso ufficio, a differenza dell’uso domestico, legittimerebbe il sig. Y alla domanda di rimborso per quanto indebitamente versato; 2) l’indicazione del civico di [...] nella denuncia dell’avv. Y – n. [...] – è difforme, forse per un errore di trascrizione e/o inserimento, dall’indicazione usata dal sig. Y nella sua originaria denuncia – n. [...] – . Il Comune ha inoltre rilevato che, la sentenza emessa dalla Commissione tributaria provinciale, qualora fosse in questa sede confermata, arrecherebbe un grave danno all’amministrazione, poiché l’avvocato X si troverebbe a beneficiare di un’esenzione totale per un tributo dovuto quale corrispettivo di un servizio reso, lo smaltimento dei rifiuti, per il quale l’amministrazione medesima ha sostenuto e continua a sostenere dei rilevanti costi. Il contribuente, costituitosi in giudizio, dopo aver precisato di essere conduttore dell’immobile sito in Roma, [...], distinto al Nceu [...], ove esercitava attività legale, ha sostenuto che il Comune di Roma, all’atto della costituzione nel giudizio di primo grado, aveva allegato un documento, da lui contestato nella sua autenticità e veridicità, in quanto contenente indicazioni mai fornite. In particolare, il documento allegato dal Comune, per quanto concerne la descrizione attività, conteneva la specificazione «somm. bar», specificazione che non era stata inserita nella denuncia da lui presentata. Ha quindi precisato di aver segnalato tale anomalia già in sede di discussione orale e di aver chiesto alla Commissione che venissero adottati gli opportuni provvedimenti. Ha, poi, sostenuto che il documento prodotto dal Comune e sul quale ha fondato la propria difesa, non solo non può trovare ingresso nel presente giudizio, ma, per di più, non può rivestire alcuna efficacia probatoria in quanto da lui disconosciu-

to non avendo mai dichiarato, dinanzi agli uffici competenti del Comune di Roma, che l’immobile in questione fosse adibito a bar-caffè-pasticceria. Ha, inoltre, precisato che è evidente la difformità tra il documento allegato al suo ricorso e quello prodotto dal Comune di Roma. È da presumere, sostiene ancora il contribuente, che dopo la presentazione della denuncia, la parte del modulo relativa alla “descrizione attività” è stata riempita determinando, così, l’erronea classificazione dell’immobile nella categoria barcaffè-pasticceria. Ancora una volta il contribuente ha precisato che la cartella esattoriale in questione è afferente alle annualità 2000, 2001 e 2002 e che per tali anni erano state emesse nei confronti del sig. Y, proprietario dell’immobile in questione, le cartelle di pagamento calcolate sulla base dell’originaria denuncia e, comunque, ritualmente pagate dallo stesso senza che fossero mai pervenute contestazioni o rettifiche da parte del Comune di Roma. Concludendo, ha riproposto, supportandole anche con riferimenti alla decisione impugnata dal Comune, tutte le argomentazioni già svolte con il ricorso introduttivo. Con successiva memoria illustrativa il contribuente ha riproposto e supportato con riferimenti giurisprudenziali le medesime ragioni, già ampiamente rappresentate con il ricorso introduttivo e nelle controdeduzioni all’appello. Motivi della decisione La Commissione, esaminati gli atti e la decisione, osserva: le censure mosse dal Comune di Roma alla decisione della Commissione tributaria provinciale di Roma con l’unico motivo di appello non appaiono meritevoli di accoglimento. Il Collegio ritiene fondate le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata e, pertanto, meritevoli di integrale conferma. È stata in più occasioni ribadita, sia dall’odierno appellante che dal contribuente, la variazione di destinazione, da uso abitativo a utenza non domestica, dell’appartamento sito in Roma [...], ragion per cui la cartella oggetto del presente giudizio doveva necessariamente essere preceduta dall’avviso di accertamento. Secondo la più che consolidata giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass., 12 agosto 2004; Cass., 23 settembre 2004, n.167 e 165; Cass. n. 7951 e n. 5895 del 2002; n. 19255 del 2003), in tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, l’art. 72 del D.Lgs. 15 novembre 1993, n.


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507 consente al Comune di procedere direttamente alla liquidazione della tassa e alla conseguente iscrizione a ruolo solo quando essa è determinata attraverso la meccanica applicazione dei ruoli dell’anno precedente e dei dati in essi contenuti, cioè solo allorché l’importo liquidato risulti da una mera operazione di calcolo compiuta sui dati precedenti. Nel caso in esame non può trovare applicazione il dettato dell’articolo sopra citato, essendo intervenuta una denuncia di variazione di destinazione, ragion per cui il Comune, prima di procedere direttamente alla liquidazione della tassa e alla con-

seguente iscrizione a ruolo, avrebbe dovuto emettere un avviso di accertamento, al fine di portare a conoscenza il contribuente, anche in forma succinta, dell’operazione giuridico-valutativa seguita nella determinazione dell’importo richiesto. Dalle argomentazioni che precedono ne consegue la conferma della decisione di primo grado, mentre va respinto l’appello dell’ufficio. Si ritiene opportuno liquidare in euro 2000,00 (duemila/00) le spese del presente giudizio in considerazione dell’inconsistenza delle censure alla decisione [...] emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Roma.

Nota

perché non preceduta dalla notifica di alcun avviso di accertamento, in quanto il Comune, dovendo procedere alla rettifica della denuncia unica dei locali e aree tassabili e rappresentando la Tarsu un’autonoma obbligazione tributaria dovuta per ogni anno solare, sarebbe vincolato a notificare, per ogni annualità, apposito avviso di accertamento. Al contrario, secondo il Comune di Roma – che proponeva appello avverso la sentenza di accoglimento del ricorso e conseguente annullamento della cartella di pagamento – l’iscrizione a ruolo della Tarsu e la conseguente emissione della cartella di pagamento non deve essere preceduta da alcun avviso di accertamento: a seguito di semplice denuncia originaria l’ente impositore nelle applicazioni della tassa successive alla prima potrebbe e dovrebbe liquidare il tributo senza procedere ad ulteriori accertamenti, tant’è che l’art. 71 del D.Lgs. n. 507/1993 vincolerebbe e/o autorizzerebbe l’ufficio comunale ad emettere avvisi di accertamento nei “soli” casi di omessa, infedele o incompleta denuncia. Ebbene, con la sentenza in rassegna la Commissione tributaria regionale di Roma, ritenendo errata quest’ultima interpretazione, afferma che essendo intervenuta la variazione di destinazione dell’immobile (da uso abitativo ad utenza non domestica) la cartella di pagamento avrebbe dovuto necessariamente essere preceduta dall’emissione e notifica di avviso di accertamento. In altri termini, il Comune prima di procedere direttamente alla liquidazione del nuovo ammontare della Tarsu e alla conseguente iscrizione a ruolo, avrebbe dovuto emettere un avviso di accertamento, «al fine di portare a conoscenza il contribuente, anche in forma succinta, dell’operazione giuridico-valutativa seguita nella determinazione dell’importo richiesto». Il principio espresso dai giudici romani è in linea

Il tema della pronuncia della Commissione tributaria regionale di Roma è relativo alla denuncia unica dei locali e aree tassabili che i soggetti passivi e i soggetti responsabili della Tarsu (ex art. 63 del D.Lgs. n. 507/1993) devono presentare al Comune all’inizio (entro il venti gennaio successivo) dell’occupazione o detenzione dei locali e delle aree medesime (art. 70, comma 1, del D.Lgs. n. 507/1993) e successivamente in caso di variazione della superficie e/o destinazione dei locali e delle aree che comporti un maggior ammontare della Tarsu o che comunque influisca sull’applicazione e riscossione del tributo in relazione ai dati da indicare nella denuncia (art. 70, comma 2, del D.Lgs. n. 507/1993). Più precisamente si pone il problema se il Comune, quale soggetto attivo della Tarsu, debba o meno emettere l’avviso di accertamento a seguito di presentazione da parte del contribuente di denuncia di variazione relativa alla superficie e/o destinazione dei locali ed aree occupate o detenute che comporti un mutamento delle condizioni di tassabilità. Nel caso in esame la Commissione tributaria regionale di Roma conferma la sentenza del giudice di primo grado che aveva annullato la cartella di pagamento notificata dal concessionario della riscossione ad un avvocato – conduttore di un immobile già adibito ad abitazione e da lui destinato a studio legale – senza che la cartella medesima fosse stata preceduta dalla notifica di un avviso di accertamento e/o di liquidazione, nonostante fosse stata presentata dal contribuente denuncia di variazione di destinazione dell’immobile, da uso abitativo ad utenza non domestica (rectius uso ufficio). In particolare avanti la Commissione tributaria provinciale di Roma il ricorrente aveva sostenuto la nullità della cartella di pagamento impugnata


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con un consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione (Cfr. Cass.civ., sez. trib., 23 aprile 2002, n. 5895, in dt.finanze.it; Cass. civ., sez. trib., 30 maggio 2002, n.7951, in dt.finanze.it; Cass. civ., sez. trib., 16 dicembre 2003, n. 19255, in dt.finanze.it; Cass. civ., sez. trib., 12 agosto 2004, n. 15638, in dt.finanze.it) secondo il quale l’art. 72 del D.Lgs. n. 507/1993, sebbene non preveda alcun accertamento con cadenza annuale, consente al Comune di procedere direttamente alla liquidazione della Tarsu e alla successiva iscrizione a ruolo soltanto quando essa è determinata

attraverso la meccanica applicazione dei dati contenuti nei ruoli dell’anno precedente, cioè soltanto allorché l’importo liquidato è il risultato di una mera operazione di calcolo effettuata sulla base dei dati dell’anno precedente. Parallelamente, secondo siffatta giurisprudenza di legittimità, l’art. 71 del D.Lgs. n. 507/1993 deve essere interpretato nel senso che l’emissione dell’avviso di accertamento è necessaria non soltanto nei casi di omessa, infedele o incompleta denuncia ma anche nelle ipotesi, come nel caso in commento, di variazione delle condizioni di tassabilità.


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ATTI E INTERVENTI SOSPENSIONE DEI TERMINI, SOSPENSIONE DELL’ESECUZIONE E REVOCAZIONE di Cristina Marcolongo

1. Premessa - 2. Istanza di sospensione dei termini per proporre ricorso in Cassazione - 3. Aspetti problematici connessi alla proposizione dell’istanza ex art. 398 c.p.c. - 4. Revocabilità dell’istanza di sospensione - 5. Istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza revocanda - 6. Applicabilità al processo tributario dell’art. 401 c.p.c. 1. Premessa Questo intervento trae spunto da un recente orientamento espresso dalla sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia n. 23 del 23 agosto 20071 su problematiche estremamente attuali sotto il profilo processuale, alla luce dei contrastanti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia di rapporti tra diritto processuale civile e principi del processo tributario. La vicenda concreta si è configurata per la presentazione di un’istanza di sospensione dei termini per proporre ricorso per cassazione ex art. 398 c.p.c. e di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata per revocazione ex art. 401 c.p.c. 2. Istanza di sospensione dei termini per proporre ricorso in Cassazione La più recente giurisprudenza ha rilevato che, affin-

1 Edita in questa rivista, 2008, 2, 311, con nota redazionale. 2 Sul punto, ALBERTINI, Considerazioni sulla revocazione nel processo tributario con particolare riguardo al motivo del contrasto di giudicato anteriore, in Riv. Dir. Trib., 2004, 1209 ss.; TURCHI, La revocazione, in AA.VV., Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, 1998, 803 ss.; BUSCEMA-DI GIACOMO, Il processo tributario, Milano, 2004, 227. 3 In particolare, la ricorrente faceva riferimento a una sentenza con cui era stato definitivamente annullato un avviso di accertamento emesso nei confronti della stessa, a fini Iva, per l’anno 1991. 4 La Commissione tributaria regionale della Puglia ha messo in rilievo come

ché una sentenza possa considerarsi contraria ad altra precedente avente autorità di cosa giudicata tra le parti2, è indispensabile che tra i due giudizi sussista identità di soggetti e che il petitum del secondo giudizio coincida con quello del primo3 e tale coincidenza non sussiste quando sono diverse le imposte oggetto del contenzioso (Ilor e Irpef, da un lato, e Iva, dall’altro4. La giurisprudenza prevalente, al contrario, ritiene che, qualora due giudizi tra le stesse parti facciano riferimento allo stesso rapporto giuridico (e uno dei due sia stato definito con sentenza passata in giudicato), l’accertamento compiuto in ordine alla situazione giuridica o alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale, comune ad entrambe la cause, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche nel caso in cui il successivo giudizio abbia oggetto diverso dal primo5. Pertanto, anche l’accertamento contenuto in una sentenza passata in giudicato di un determinato rapporto giuridico rivestirebbe rilievo ai fini dell’applicazione di un diverso tributo, come accade in tutte le ipotesi di fattispecie legali con plurima rilevanza ai fini impositivi6; in particolare, sarebbe vincolante anche ai fini Iva l’accertamento compiuto

la revocanda sentenza fosse relativa a «l’Ilor e l’Irpef a carico della S.a.s. e l’Irpef a carico dei soci per l’anno 1991», mentre la sentenza passata in giudicato riguardasse «solamente l’Iva a carico della S.a.s. per l’anno 1991». Inoltre, a detta della Commissione, la precedente sentenza si sarebbe limitata a decidere solo su un aspetto preliminare della controversia, senza entrare nel merito della questione: «Ad abundantiam va aggiunto che la sentenza n. 5/12/2004 può ritenersi solo giudicato formale e non sostanziale dal momento che la decisione ha trattato solamente un aspetto preliminare della controversia dichiarando la nullità dell’avviso per difetto di motivazione ma non ha ovviamente compiuto nessun esame sul merito e cioè sulla fattu-

razione di operazioni inesistenti». 5 Sul punto Cass., sez. un., 5 febbraio 2007, n. 2438, in banca dati JurisData; Cass., sent. 18 marzo 2002, n. 3925, in Giust. Civ. Mass., 2002 e Cass., 19 ottobre 2001, n. 12794, in Giust. Civ. Mass., 2001; con riguardo al processo civile, cfr. Cass., 13 novembre 2001, n. 14118, in Giust. Civ. Mass., 2001; Cass., 9 agosto 2001, n. 10977, in Giust. Civ. Mass., 2001; Cass., sez. trib., 18 maggio 2007, n. 11596; Cass., 15 giugno 2007, n. 14011; Cass., 10 settembre 2007, n. 19003; Cass., 17 dicembre 2007, n. 26482; Cass., 20 dicembre 2007, n. 26860, in banca dati JurisData; Comm. trib. reg. Puglia, 29 maggio 2007, n. 36; Comm. trib. reg. Puglia, 2 novembre 2007, n. 72, in banca dati JurisData. 6 Cass., 21 maggio 2005, n. 6883, in


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in altro giudizio in ordine alla stessa realtà fattuale, ai fini Irpef e Ilor7, anche se con riferimento ad avvisi di accertamento relativi a una pluralità di anni di imposta. Sulla base di tale ragionamento, è stato affermato che il giudicato formatosi, a seguito dell’esame del merito della lite, per un’annualità, precluderebbe il riesame della (identica) questione accertata e risolta nel giudizio relativo al successivo periodo impositivo, trovandosi in presenza dell’accertamento circa una situazione giuridica o della risoluzione di una questione di fatto o di diritto «incidente su un punto decisivo comune ad entrambe le cause o costituente indispensabile premessa logica della statuizione contenuta nella sentenza passata in giudicato»8. Appare di rilevante utilità fornire un preciso contenuto della formula: «grave errore di fatto», specie in riferimento ad un precedente giudicato, ovvero, in altre parole, se possa sussistere un obbligo dei giudici dell’appello di “adeguarsi” ad un (cronologicamente precedente) giudicato, ad esempio ad un giudicato penale di assoluzione perché il fatto non sussiste. Così che in caso di inosservanza di tale giudicato si potrebbe configurare l’errore di fatto ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 4 c.p.c. Su questo punto la prevalente giurisprudenza di

Giust. Civ. Mass., 2001, secondo cui «la medesima situazione fattuale, accertata agli effetti Irpef, si atteggia a presupposto di imposta, anche ai fini Iva», con la conseguenza che il giudicato formatosi sulla lite in materia di imposte sui redditi impedisce l’esame della medesima fattispecie nel contesto della causa in tema di Iva, stante, appunto, l’avvenuto irretrattabile accertamento dell’unica fattispecie dotata di rilevanza quanto all’applicazione dei diversi tributi. 7 Cass., 21 maggio 2001, n. 6883, cit. 8 In questi termini, Cass., 4 agosto 2000, n. 10280, in Giur. Imposte, 2001, 126; Cass., 25 giugno 2001, n. 8658, in Boll. Trib., 2002, 538; Cass., 11 maggio 2000, n. 6041, in Giust. Civ. Mass., 2000; contra, Cass., 30 maggio 2003, n. 8709, in Giust. Civ. Mass., 2003. Sul punto, PISTOLESI, Commento all’art. 64 del D.Lgs. 546 del 1992, in AA.VV., Il nuovo processo tributario. Commentario, Milano, 1997, 555. In senso contrario, Cass., 30 maggio 2003, n. 8717, in Giust. Civ. Mass., 2003; Cass., 21 novembre 2001, n. 14714, in Giust. Civ. Mass., 2001: secondo tale orientamento, è da escludere che la decisione relativa ad un periodo di imposta possa rivestire

merito sostiene che il giudice tributario, pur dovendo verificare la concreta rilevanza e valenza del precedente giudicato all’interno del processo, ha comunque la facoltà (ma non l’obbligo) di avvalersi del giudicato precedentemente formatosi in un altro ambito processuale. In altre parole, le risultanze di un processo penale non escluderebbero una diversa e autonoma valutazione da parte del giudice tributario degli elementi probatori e dell’intera questione oggetto del contendere, con la logica conseguenza che la decisione del giudice penale non risulterà vincolante in sede tributaria, essendo i due giudizi caratterizzati da autonomia e indipendenza reciproca9. È opportuno rilevare come, tra le numerose (e spesso, contrastanti) considerazioni espresse sul punto, è possibile individuare almeno tre indirizzi ermeneutici: il primo secondo il quale è da escludere che il giudicato penale possa ritenersi vincolante per quello tributario10; il secondo, in base al quale la rilevanza del giudicato esterno costituirebbe espressione delle esigenze di certezza proprie del giudicato (quindi, del principio del ne bis in idem) e sarebbe contrario ai criteri di logicità ed economia dei giudizi imporre al giudice di non tenere conto di un giudicato di cui sia a conoscenza11, e

l’autorità di cosa giudicata nel processo sulla diversa annualità solo perché «ogni anno fiscale mantiene la propria autonomia rispetto agli altri e comporta la costituzione, tra contribuente e fisco, di un rapporto giuridico distinto rispetto a quelli relativi agli anni precedenti e successivi». Tale impostazione, tuttavia, non appare condivisibile alla luce della considerazione che l’autonomia dei singoli rapporti obbligatori d’imposta non può permettere di negare l’ultrattività del giudicato tributario (in seguito alla soluzione nel merito della controversia), quando restino inalterate le configurazioni in fatto e in diritto dell’elemento oggettivo della fattispecie impositiva – come, del resto, avviene nel processo civile per i rapporti ad esecuzione periodica. Sul punto, PISTOLESI, Commento, cit., 556; dello stesso autore, L’appello nel processo tributario, Torino, 2002, 146 ss. 9 Nel senso della non vincolatività del giudicato penale in sede tributaria, Cass., sez. trib., sent. 24 maggio 2005, n. 10945, in banca dati JurisData; Cass., 6 febbraio 2006, n. 17057; Cass., 16 maggio 2007, n. 11202; Cass, 28 giugno 2006, n. 14953, in Riv. Giur. Trib., 2007, 1, 55 ss., con

nota di CORSO, Il giudice tributario non è vincolato da quanto statuito in sede penale; Cass., 26 luglio 2006, n. 17057; Cass., 19 gennaio 2007, n. 1250, in Corr. Trib., 2007, 37, 3017 ss, con nota di CORSO, La perizia penale in sede di udienza preliminare non vincola il giudice tributario; Cass., 12 marzo 2007, n. 5719, in banca dati Cerdef; Cass., 28 giugno 2007, n. 14911, in Corr. Trib., 2007, 35, 2865 ss, con nota di FALCONI-MARIANETTI, Il verbale di conciliazione davanti al giudice del lavoro non vincola il giudice tributario; Cass., 7 settembre 2007, n. 18854; Cass., 8 ottobre 2007, n. 21041; Cass., 8 ottobre 2007, n. 21059; Cass., 18 gennaio 2008, n. 1058, in banca dati Cerdef. 10 In conseguenza dell’abrogazione dell’art. 12, comma 1, D.L. 10 luglio 1982, n. 429, conv. in L. 7 luglio 1982, n. 516 ad opera dell’art. 25, comma 1, lett. d, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, contenente la «Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della L. 25 giugno 1999, n. 205». 11 In tal senso, Cass., sez. trib., sent. 13 ottobre 2006, n. 22036; Cass., 12 marzo 2007, n. 5720; Cass., 3 agosto 2007, n. 17136; Cass., 21 agosto


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l’ultimo, idealmente a metà strada tra i primi due, che, concentrando l’attenzione sul profilo sostanziale, ritiene che, nel difetto delle diverse condizioni previste dall’articolo 654 c.p.p.12 (secondo cui, nel contenzioso tributario, non potrebbe riconoscersi efficacia di giudicato esterno alla pronuncia definitiva del processo penale), non si può escludere che il giudice tributario possa, in modo del tutto legittimo, esaminare il contenuto delle prove acquisite nel processo penale, ricostruendo il fatto storico in base alle medesime circostanze già oggetto di esame, ma in base ad una propria e autonoma valutazione degli elementi probatori formati in tale sede processuale. A questo proposito, la Corte di Cassazione, pronunciandosi sul delicato problema della possibilità per l’amministrazione finanziaria di disattendere le risultanze contabili del contribuente di fronte ad un provvedimento giudiziario penale che, invece, escludeva l’invalidità di tale documentazione, ha recentemente affermato che, in ipotesi di fatturazione che l’amministrazione finanziaria ritenga relative ad operazioni inesistenti, non spetterebbe al contribuente provare che l’operazione è effettiva, bensì all’ufficio che adduce la falsità dei documenti dimostrare che l’operazione oggetto della fattura, in realtà, non è mai stata posta in essere. L’onere probatorio graverebbe a carico dell’amministrazione finanziaria che non potrebbe, tuttavia, limitarsi ad asserire apoditticamente «di non accettare i dati che emergono dalla documentazione altrui» ma dovrebbe motivare la propria contestazione, indicando «gli elementi su cui si fonda la sua asserzione. E il giudice di merito investito della controversia deve prendere in considerazione questi elementi, non può limitarsi a dichiarare che essi esistono e sono tali da dimostrare la falsità delle fatture»13. Il contribuente sarebbe, invece, tenuto a fornire la prova contraria esclusivamente nell’ipotesi in cui il fisco si avvalesse di elementi probatori in grado di

2007, n. 17799; Cass., 20 dicembre 2007, n. 26850; Comm. trib. reg. Molise, sent. 19 aprile 2007, n. 104, in banca dati Cerdef. 12 Sul punto, AMATUCCI, Efficacia del giudicato penale: si consolida il no del Supremo Collegio, in Corr. Trib., 2001, 28, 2122 ss.; PEZZUTI, Commento all’art. 35 del D.Lgs. 546 del 1992, in AA.VV., Il nuovo processo tributario. Commentario, Milano, 1997, 386; DI SIENA, I rapporti fra il giudicato penale ed il processo tributario, in Riv. Guardia di Finanza, 2002, 1; ROSSI, L’efficacia

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confutare le risultanze del precedente giudicato penale favorevole all’imputato. Pur non facendo tale provvedimento stato nel giudizio tributario, «costituisce però un elemento probatorio che il giudice di merito non poteva esimersi dal considerare nel quadro indiziario complessivo». Va altresì evidenziato che, qualora future pronunce dovessero confermare tale orientamento14, verrebbe anche superato il dubbio interpretativo in merito alla riconducibilità del mancato adeguamento al precedente giudicato penale da parte del giudice tributario tra i motivi (l’errore in fatto) fondanti un ricorso per revocazione ex art. 395, comma 4, poiché, stante l’obbligo del giudice tributario di motivare la scelta in ordine ai criteri di valutazione impiegati, l’omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione concreterebbe una delle condizioni di ammissibilità del ricorso per cassazione previste dall’art. 360, comma 1, n. 5). 3. Aspetti problematici connessi alla proposizione dell’istanza ex art. 398 c.p.c. La proposizione dell’istanza di revocazione ai sensi dell’art. 398 c.p.c. pone anche altre questioni rilevanti specie se connesse alla preliminare valutazione di ammissibilità dell’istanza, perché evocano il richiamo a norme specifiche sulla revocazione del Codice di rito, ad esempio la facoltà per il giudice di sospendere il termine per proporre il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 398, comma 4, c.p.c. Non vi è dubbio che sia data tale possibilità anche al giudice tributario, in virtù del rinvio contenuto negli artt. 1 e 49 del D.Lgs. 546/1992 alle norme del processo civile, con espressa esclusione dell’art. 337 c.p.c. Del resto, in mancanza di indicazioni di segno contrario nel D.Lgs. 546/1992, risulta senza dubbio applicabile anche alle sentenze rese dalle Commissioni tributarie regionali la sospensione del termine per ricorrere alla Corte di Cassazione, quando venga proposto ricorso per revocazione delle sentenze di appello15: pertanto,

probatoria della sentenza penale in sede tributaria, in Fisco, 2000, 42; PALLADINO-SASSANI, Giudicato penale e processo tributario, in Fisco, 1992, 18; VIGNOLI, Efficacia del giudicato penale nel processo tributario: art. 654 del Codice di procedura penale e condizioni per la sua applicazione, in Rass. Trib., 2000, 1. 13 Cass., sez. trib., 19 ottobre 2007, n. 21953, in Boll. Trib., 2007, 22, 1816 ss., con nota di DEL TORCHIO, Falsa fatturazione ed onere della prova: ancora due recenti pronunce della Corte di Cassazione sul tema.

14 In tal senso, Cass., sent. 5 febbraio 1997, n. 1092; Cass, 23 settembre 2005, n. 18710; Cass., 12 dicembre 2005, n. 27341; Cass., 22 gennaio 2007, n. 1325, in banca dati JurisData. 15 Nel sistema ante riforma introdotta dalla L. 353/1990, l’art. 398, comma 4, c.p.c. disponeva che «la proposizione della revocazione sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo, fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione», dimostrando, pertanto, che in caso di


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rientra nel potere delle Commissioni regionali (da esercitare, comunque, su istanza di parte) la sospensione del termine per la proposizione del ricorso per cassazione o del relativo giudizio16. Tanto premesso, sono opportune alcune precisazioni in ordine alle modalità di presentazione dell’istanza in esame. Inoltre, l’art. 398, comma 4, c.p.c. non contiene alcuna indicazione specifica sull’atto in cui (e sulle modalità con le quali) possa essere avanzata l’istanza suddetta: deve ritenersi, dunque, che l’istanza possa essere formulata sia nello stesso ricorso per revocazione che con atto separato17. Sotto il profilo sostanziale, relativamente agli effetti che la proposizione dell’istanza produce, si segnalano gli aspetti più significativi. L’istanza ex art. 398, comma 4, c.p.c. non sospende automaticamente il termine per ricorrere dinanzi alla Corte di Cassazione (ovvero il procedimento di legittimità), occorrendo il provvedimento (in senso positivo) del giudice adito. Ciò significa che, nelle more della decisione sull’ammissibilità dell’istanza e fino all’emissione del relativo provvedimento giudiziale, i termini per ricorrere per cassazione continuano a decorrere ordinariamente. Pertanto, in caso di termine breve per l’impugnazione (sessanta giorni dalla notificazione della sentenza), il ricorrente in revocazione disporrà di un lasso temporale assai esiguo per proporre la revocazione nonché, eventualmente, l’istanza di sospensione del termine suddetto per ricorrere per cassazione e ottenere, quindi, una pronuncia positiva del giudice.

concorrenza fra la revocazione e il ricorso per cassazione, veniva considerata “prevalente” la revocazione, in virtù della mera precedenza temporale. Sul punto, PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991; BARTOLINI, Il Codice di procedura civile prima e dopo le riforme, Piacenza, 1996; PISTOLESI, Commento, cit., 753754. La disposizione era ritenuta operante anche all’interno del processo tributario, nonostante il parere discorde di chi assumeva che fra la revocazione e il ricorso in Cassazione esisteva piuttosto una relazione di complementarità e di libera coesistenza. 16 CONSOLO-GLENDI, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2005; GLENDI, Rapporti tra regole generali del processo civile e disciplina speciale del processo tributario, in Corr. Trib., 2007, 38, 3067; GLENDI, L’influenza delle recenti modifiche al Codice di procedura civile sulla disciplina del processo tributario, in Riv. Dir. Trib.,

Non è da escludere, quindi, che – al solo fine di evitare che tale pronuncia intervenga dopo la scadenza dei termini, precludendo così l’impiego del mezzo di impugnazione – venga comunque (e contestualmente all’istanza di sospensione del termine di sessanta giorni) proposto il ricorso alla Suprema Corte18. Tale inconveniente permarrebbe, tuttavia, anche laddove decorresse il termine lungo per l’impugnazione (un anno dal deposito), in quanto, come ormai pacificamente ammesso nella giurisprudenza della Corte di Cassazione19, la notificazione della domanda per la revocazione di una sentenza equivale alla notifica della stessa, con decorrenza, dunque, del termine breve (sessanta giorni, appunto) per l’impugnazione per cassazione: al ricorrente viene, quindi, richiesto un elevato grado di accortezza nel “calcolare i tempi”, dal momento che, qualora questi intenda impugnare per revocazione la sentenza di secondo grado, dovrà essere consapevole di non disporre più del termine lungo per attendere la decisione sulla misura cautelare ex art. 398, comma 4, c.p.c., bensì del termine breve. 4. Revocabilità dell’istanza di sospensione Quanto alla revocabilità dell’istanza di sospensione, appare del tutto condivisibile l’orientamento secondo il quale è da escludere la facoltà di ripensamento da parte del giudice della revocazione e che, pertanto, è inammissibile la revoca dell’ordinanza (motivata) di sospensione20. Analogamente, l’ordinanza di sospensione, in quanto priva di con-

1992, 194; RUSSO, voce Processo tributario, in Enc. Dir., Milano, 1987, XXXVI, 825; TESAURO, Giusto processo e processo tributario, in Rass. Trib., 2006, 54; BAFILE, Il nuovo processo tributario, Padova, 1994, 179; FINOCCHIARO A.-FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 849; CAMPEIS-DE PAULI, Il manuale del nuovo processo tributario, Padova, 2002, 322; SANTAMARIA, Il nuovo processo tributario. Le impugnazioni, allegato a Fisco, 1997; TAVORMINA, La revocazione, in AA.VV., Il nuovo processo tributario, a cura di Miscali, Milano, 1996, 229; BELLAGAMBA, .............. 17 Ferma restando l’osservanza dell’art. 53, D.Lgs. 546/1992 in merito alla forma di proposizione dell’appello dinnanzi alla Commissione tributaria regionale. Sul punto, PISTOLESI, Commento all’art. 64, cit., 754. 18 PISTOLESI, Commento all’art. 64, cit, 754.

19 Cass., 6 novembre 2002, n. 15522, in Giust. Civ. Mass., 2002, che ha stabilito che «la notificazione della citazione per revocazione di una sentenza in grado di appello integra nei confronti del notificante conoscenza legale della sentenza agli effetti della decorrenza del termine breve per proporre ricorso per cassazione. Per cui la tempestività del successivo ricorso per cassazione proposto da detto soggetto deve essere verificata con riguardo non solo al termine di un anno dal deposito della sentenza, ma anche a quello di sessanta giorni dalla notifica dell’istanza di revocazione»; Cass., 20 gennaio 2006, n. 1196, in Giust. Civ. Mass., 2006, 1, 113; Cass., 2 dicembre 2005, n. 26261, in Giust. Civ. Mass., 2005, 7/8; Cass., 17 aprile 2001, n. 5603, in Giust. Civ. Mass., 2001, 798. 20 PISTOLESI, Commento all’art. 64, cit., 754; CONSOLO, in Commentario alla riforma del processo civile, a cura di Con-


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tenuto decisorio, non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost.21 In caso di sospensione, qualora si verifichi l’estinzione del processo di revocazione, si è ritenuto che il termine per il ricorso per cassazione decorra dalla data di comunicazione dell’ordinanza che pronuncia l’estinzione22 e, in suo difetto, si assume quale dies a quo la data dell’evento estintivo23. Qualora, nonostante l’adozione del provvedimento di sospensione, il ricorso per cassazione venisse comunque presentato, non se ne potrà dichiarare l’inammissibilità, ma soltanto la temporanea inoperatività affinché, una volta cessata la causa di sospensione, lo stesso possa venir trattato e deciso24. Inoltre, per la prosecuzione del processo sospeso dinanzi alla Corte di Cassazione, la giurisprudenza non richiede un formale atto di riassunzione bensì di semplice sollecitazione della trattazione della causa25. 5. Istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza revocanda Quid iuris sull’applicabilità al processo tributario delle disposizioni civilistiche sulla sospensione dell’efficacia esecutiva delle sentenze? La recente giurisprudenza, sull’assunto che l’ope-

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solo-Luiso-Sassani, Milano, 1996, 521. Contra, PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 288. SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 546; CONSOLO, ult. op. cit. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, Torino, 2002, II, 521. Cass., 20 luglio 1982, n. 4252, Giust. Civ. Mass., 1983, I, 912. Cass., sez. un., 24 settembre 1988, n. 4937, in Giust. Civ. Mass., 1982. Cass., 4 febbraio 1988, n. 1127, in Giust. Civ. Mass., 1988; Cass., 16 gennaio 1993, n. 536, in Giust. Civ. Mass., 1993. L’art. 401 c.p.c. dispone che «Il giudice della revocazione può pronunciare, su istanza di parte inserita nell’atto di citazione, l’ordinanza prevista nell’articolo 373, con lo stesso procedimento in camera di consiglio ivi stabilito». Risultando irrilevante nel processo tributario il riferimento all’art. 407 c.p.c., relativo all’opposizione di terzo, non prevista in tale rito. Contenente disposizioni di «Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi a norma del-

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ratività dell’istanza di cui all’art. 401 c.p.c.26 viene esclusa a priori, in virtù dell’espressa negazione della sospensione dell’esecuzione della sentenza oggetto di ricorso per revocazione disposta dall’art. 49, D.Lgs. 546/1992, ha ritenuto inammissibile detta istanza «perché l’ordinamento non prevede tale istituto in sede di impugnazione». 6. Applicabilità al processo tributario dell’art. 401 c.p.c. Come è noto, sia in dottrina che in giurisprudenza sono due essenzialmente gli orientamenti in ordine alla reale portata dell’esclusione suddetta. Un primo orientamento, sicuramente aderente al testo di legge (cui si conforma la Commissione pugliese), ritiene che le sospensive ex artt. 283, 373 e 401 c.p.c.27 siano inapplicabili da parte del giudice tributario, alla luce dell’espressa previsione di un potere cautelare di sospensione della sentenza impugnata (in capo al giudice di appello) esclusivamente in relazione alla materia sanzionatoria (con esclusione, pertanto, della parte di sentenza attinente alla riscossione del tributo) ex art. 19, comma 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 47228. Nonostante i lodevoli tentativi, infatti, di interpretare la limitazione posta dall’art. 49 del D.Lgs. 546/1992 all’ingres-

l’art. 3, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre 1996, n. 662». Sul punto, TESAURO, La tutela cautelare nel procedimento di appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale, in Boll. Trib., 1999, 1733; CAPOLUPO, Sospensione cautelare: una questione ancora aperta, in Fisco, 2001, 10849; CANTILLO, Nuovo processo tributario. I procedimenti cautelari e preventivi, in Fisco, 1993, 8899; Comm. trib. reg. Toscana, ord. 19 marzo 1998, in Rass. Trib., 1998, 824, con nota di CANTILLO, Un nodo da sciogliere: il potere di sospensione cautelare dell’efficacia delle sentenze dei giudici tributari, in Rass. Trib., 2001, 64 ss.; COLLI VIGNARELLI, La sospensione delle sentenze delle Commissioni tributarie provinciali, in Boll. Trib., 1999, 1502; COLLI VIGNARELLI, La revocazione delle sentenze tributarie, Bari, 2007, 60; MESSINA, La tutela cautelare oltre il primo grado di giudizio, in Corr. Trib., 2007, 38, 3077; GLENDI, La tutela cautelare deve trovare spazio anche nel giudizio di appello, in Corr. Trib., 2005, 2868; GLENDI, Tutela cautelare nel giudizio d’appello e assegnazione della causa ad altro giudice per la decisione nel merito, in Riv. Giur. Trib., 2003, 681; CONSOLO, Sospensione cautelare e “definizione preventiva” tra attese coronate e “puzz-

les” processuali, in Fisco, 1993, 9329 ss.; PISTOLESI, L’appello nel processo tributario, in Studi di diritto tributario, Torino, 2002, 376 ss.; RINALDI, La sospensione degli effetti della sentenza da parte del giudice tributario tra scelte normative ed istanze di principio (con particolare riguardo al diritto comunitario), in Riv. Dir. Trib., 2004, 101 ss.; TOSI, L’azione cautelare dopo la riforma del processo tributario, in Boll. Trib., 1993, 789 ss.; MULEO, La tutela cautelare, in AA.VV., Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, 1998, 854 ss.; FALCONE, Le sospensive possibili nel nuovo processo tributario, in Fisco, 1993, 7053; CASORIA, La sospensione cautelare dell’atto impugnato nel nuovo processo tributario, in Fisco, 2003, 7010; BELTRAMI S.-BELTRAMI C., In tema di applicabilità del nuovo contenzioso tributario della disciplina del Codice di rito sulla sospensione dell’esecuzione provvisoria delle sentenze, in Giur. di Merito, 2000, 3, 703 ss.; DELLA VALLE, Sospensione, interruzione ed estinzione del processo, in Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, 1998, 77 ss; ESPOSITO, Tutela cautelare e processo tributario, in Giur. Cost., 2000, 3, 1483; PACE, La sospensione dell’esecu-


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so nel nostro giudizio dell’art. 337 c.p.c. come strumento per escludere solamente l’immediata e diretta efficacia esecutiva (ex art. 337, comma 1, c.p.c. appunto) delle sentenze rese dalle Commissioni tributarie (stante la puntuale previsione circa l’esecutività delle stesse ai sensi dell’art. 68, D.Lgs. 546/1992)29, non vi sono dubbi che la Commissione tributaria regionale non può impiegare l’art. 283 c.p.c. per elidere l’efficacia della sentenza di primo grado30. Il mancato riconoscimento di una potestà cautelare della Commissione tributaria regionale, analoga a quella concessa al giudice di secondo grado sia nel processo civile che in quello amministrativo, è stato ritenuto lecito sotto il profilo costituzionale e non contrastante con i principi di eguaglianza, ragionevolezza e di tutela giurisdizionale sanciti dagli artt. 3 e 24 Cost.31, alla luce del «legittimo esercizio di discrezionalità legislativa» che permetterebbe l’espressa esclusione dell’operatività dell’art. 337 c.p.c. nel contenzioso tributario, senza che si creino, così, disparità di trattamento tra le parti del processo civile e del processo tributario. Tuttavia, appare imprescindibile l’esigenza di

zione della sentenza di secondo grado, in Corr. Trib., 2001, 3068 ss. In giurisprudenza, ord. Comm. trib. reg. Veneto, 27 marzo 2001, n. 1-bis, in Riv. Giur. Trib., 2002, 459 ss.; Comm. trib. reg. Lazio, 16 marzo 2004, n. 42, in banca dati Cerdef; Comm. trib. reg. Puglia, 28 ottobre 2006, n. 15, in Fisco, 2007, 436. 29 FALCONE, Le sospensive possibili, cit.; CANTILLO, I procedimenti cautelari e preventivi, in Fisco, 1993, 8903 (l’autore, peraltro, sembra successivamente aver riconosciuto che è arduo configurare la diretta applicazione delle disposizioni processualcivilistiche in tema di rimedi inibitori di stampo cautelare nei giudizi di impugnazione nel processo tributario, in Un nodo da sciogliere, cit., 830); RUSSO, Manuale, cit., 514; GAFFURI, Lezioni di diritto tributario, Padova, 1999, 303; VULLO, Sull’inibitoria ex art. 373 c.p.c. e sull’irreparabilità del danno nel processo tributario cautelare, in Riv. Giur. Trib., 1999, 1048; LA ROSA, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, 214. 30 PISTOLESI, L’appello, cit., 374. 31 Corte cost., sent. 31 maggio 2000, n. 165, in Fisco, 2000, 6, 12035, con nota di RUSSO-FRANSONI; Corte cost., ord. 19 giugno 2000, n. 217; Corte cost., ord. 27 luglio 2001, n. 325, in Fisco, 2001, 10972 ss, con nota di RUSSO-FRANSONI; Corte cost., 5 apri-

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approntare, nell’ambito del processo tributario, un meccanismo di tutela cautelare endoprocessuale, che consenta di evitare alla parte che potrebbe risultare vittoriosa di subire, nelle more, un irreparabile pregiudizio (nel rispetto del principio del “giusto processo” e della “ragionevole durata” ex art. 111, comma 2, Cost.): in attesa di un intervento del legislatore volto a colmare tale lacuna normativa, sotto un profilo puramente interpretativo, sembra, pertanto, maggiormente condivisibile, oltre che più coerente con i principi generali dell’ordinamento (nazionale32 e comunitario33), l’orientamento, per così dire, “espansivo”, secondo il quale l’inapplicabilità al processo tributario dell’art. 337 c.p.c. ex art. 49, D.Lgs. 546/1992 non implicherebbe necessariamente l’inapplicabilità degli artt. 283, 373 e del 401 c.p.c., di modo che la Commissione tributaria regionale non risulterebbe investita del solo potere cautelare in ordine alle sanzioni34, ma anche del potere previsto, per quanto qui rileva, dall’art. 401 c.p.c. (cui espressamente rinvia l’art. 337 c.p.c.)35. Difatti, anche il riferimento alla “discrezionalità

le 2007, n. 119, in Riv. Giur. Trib., 2007, 10, 845 ss, con nota di SERRA. Secondo GALLO, Verso un giusto processo tributario, in Rass. Trib., 2003, 11, la consacrazione del principio costituzionale del “giusto processo”avrebbe «l’effetto di fissare una direttiva interpretativa di carattere assoluto, e inderogabile, che sintetizza le tre regole generali del contraddittorio, della parità delle armi e della imparzialità e terzietà del giudice». Tali regole sarebbero diventate norme costituzionali, oggettivizzate nell’ordinamento fino a creare un sistema normativo costituzionale sganciato ed autonomo rispetto agli artt. 3 e 24 della Costituzione, o comunque, integrativo di tali disposizioni. RINALDI, La sospensione, cit., 101 ss. Cfr. CGCE, 19 giugno 1990, causa 213/1989, in Giur. It., 1990, I, I, 1122, con nota di CONSOLO, Fondamento “comunitario” della giurisdizione cautelare; SCALA, I principi del “giusto processo” tra diritto interno, comunitario e convenzionale, in Riv. Dir. Trib., 2007, 77. Sul punto, circ. 31 luglio 2001, n. 73/E dell’Agenzia delle Entrate, in Fisco, 2001, 10653 ss.; PISTOLESI, L’appello, cit., 376 ss. Sul punto, circ. 15 giugno 2001, n. 13 dell’Agenzia delle Entrate, in Diritto & Diritti, maggio 2002. Nel

senso dell’applicabilità di tali misure al processo tributario, FINOCCHIARO A.-FINOCCHIARO M., Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 49 ss.; RUSSO-FRANSONI, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 109 ss.; SERRA, La sospensione cautelare nel processo tributario: nuovi dubbi di legittimità costituzionale dell’attuale disciplina e nuove conferme applicative, in Riv. Giur. Trib., 2002, 476 ss.; RANDAZZO, L’esecuzione delle sentenze tributarie, Milano, 2003, 185; CONIGLIARO, Processo tributario: la tutela cautelare in fase di impugnazione, in Fisco, 2004, 1821. Per l’applicabilità generalizzata dell’art. 47, D.Lgs. 546/1992 (sospensione dell’atto impugnato) nel secondo grado di giudizio, mediante il rinvio operato dall’art. 19, D.Lgs. 472/1997, cfr. ord. Comm. trib. reg. Bolzano, 4 marzo 2003, in Riv. Giur. Trib., 2003, 679; decr. Comm. trib. reg. Puglia, 11 luglio 2001, in Riv. Giur. Trib., 2002, 462 ss.; ord. Comm. trib. reg. Puglia, 22 agosto 2001, in Boll. Trib., 2002, 1408 ss., con nota di MATTARELLI, La tutela cautelare dinanzi alla Commissione tributaria regionale: il dibattito è ancora vivo, e ancora in Dir. e Prat. Trib., 2001, II, 1062, con nota di URICCHIO, Ancora sull’applicabilità del giudizio di appello della tutela cautelare; Comm. trib. reg. Emilia Romagna,


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legislativa”36 deve pur sempre operare entro i confini della ragionevolezza palese che, al contrario, sarebbe tradita qualora i poteri cautelari delle Commissioni tributarie regionali risultassero limitati rispetto al processo civile: poiché la finalità delle misure cautelari è di evitare che l’attore subisca un danno irreparabile in conseguenza della durata del processo, è innegabile che tale finalità permane in tutte le eventuali fasi di impugnazione, finché il giudizio non abbia fine37. Pare, perciò, preferibile un’interpretazione estensiva delle norme del processo tributario, special-

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mente alla luce della paradossale situazione che altrimenti ne deriverebbe. Basti pensare che, mentre l’amministrazione finanziaria non sarebbe comunque soggetta, in caso di sentenza sfavorevole, ad adempiere, dovendosi attendere – ai fini dell’esecuzione – il passaggio in giudicato della pronuncia giurisdizionale (e l’ottenimento della copia in forma esecutiva), il contribuente sarebbe comunque soggetto al pagamento della pretesa impositiva, sia pur frazionato nei diversi gradi di giudizio, sin dalla prima decisione sulla controversia.

NOTIFICAZIONE DELLE CARTELLE DI PAGAMENTO: LA CORTE COSTITUZIONALE FA SALVO IL TERMINE INTRODOTTO NELLA DISCIPLINA TRANSITORIA di Elisabetta Rispoli

La disciplina transitoria che ha introdotto, per la notificazione delle cartelle di pagamento emesse a seguito di controllo automatico delle dichiarazioni ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, termini decadenziali diversi da quelli a regime, differenziandoli a seconda della data di presentazione delle dichiarazioni, ha superato

13 marzo 2002, in Boll. Trib., 2003, 611 ss., con nota di GALLO, Sulla sospensione cautelare da parte del giudice di appello, in Boll. Trib., 2003, 612 ss.; Comm. trib. reg. Puglia, 15 giugno 2005, n. 31, in Corr. Trib., 2005, 2861. Secondo PISTOLESI, L’appello, cit., 372 ss., «è tangibile il fondamento dell’impugnazione proposta dal contribuente, sì che avrebbe modo di esplicarsi agevolmente la cognizione sommaria della Commissione tributaria regionale al fine di adottare il provvedimento cautelare. Si pensi alla sopravvenuta (rispetto alla pronuncia di prime cure) declaratoria di illegittimità costituzionale della norma assunta a fondamento dell’atto impositivo o al caso in cui l’ente impositore si risolva esplicitamente a mutare orientamento contraddicendo così la pretesa recepita nel provvedimento per cui è causa (e avallato dai primi giudici) o ancora ad un’inversione dell’indirizzo giurisprudenziale cui risulta essersi conformata la sentenza gravata. In

il vaglio di costituzionalità. La Corte costituzionale, con la recente sentenza n. 11 del 2008 (Presidente Bile, Relatore Gallo), ha infatti dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5-bis, lettera c, del decreto legge 17 giugno 2005, n. 106 (Disposizioni urgenti in materia di entrate), com-

questi frangenti, la sommaria delibazione dell’appello potrebbe permettere di superare la completa cognizione della causa sviluppata dalla Commissione tributaria provinciale, di modo che ove si riscontri la contestuale sussistenza del periculum in mora sarebbe consentito addivenire alla sospensione dell’esecutività dell’atto impositivo formante oggetto del contendere». 36 PISTOLESI, L’appello, cit., 388 ss., non vi sarebbe disparità di trattamento tra le controversie impositive rimesse alla cognizione del giudice ordinario e quelle devolute all’esame delle Commissioni tributarie in quanto sarebbe esclusa «l’esistenza di un principio (costituzionalmente rilevante) di necessaria uniformità tra i vari tipi di processo», sebbene le scelte legislative debbano «rispettare il generale criterio di ragionevolezza». E, non essendo stata prospettata dal giudice a quo l’«irragionevolezza» della disciplina dei modelli processuali posti a raffronto (ma solo la

violazione del principio di uguaglianza), la Corte costituzionale ha reputato di poter concludere assumendo che la scelta di non estendere la tutela cautelare oltre il primo grado del processo tributario debba ascriversi al «legittimo esercizio di discrezionalità legislativa». 37 PISTOLESI, L’appello, cit., 389 ss., «Ciò, inoltre, sembra tanto più evidente ove si consideri che il “rischio di subire un danno irreparabile” può palesarsi proprio nel corso delle impugnazioni, di modo che escludere ogni forma di tutela cautelare in tali sedi rinnega proprio la giustificazione che la stessa Corte ha offerto del presidio costituzionale riconosciuto a siffatta tutela». La soluzione fornita dalla Corte costituzionale appare insoddisfacente anche sotto il profilo del raffronto tra processo civile e processo tributario, dal momento che appare irragionevole ritenere che tra i due processi sussista una sostanziale diversità di regime cautelare.


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ma aggiunto dall’art. 1, comma 1, della legge di conversione 31 luglio 2005, n. 156, censurato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che la notificazione delle cartelle di pagamento derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni è effettuata, a pena di decadenza, «entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, con riferimento alle dichiarazioni presentate fino al 31 dicembre 2001». Secondo la Corte non è irragionevole la modulazione, in via transitoria, del termine per la notificazione al contribuente della cartella di pagamento recante il ruolo derivante dalla liquidazione delle imposte dovute in base alla dichiarazione dei redditi, in quanto la stessa trova giustificazione nell’obiettivo perseguito dal legislatore di garantire non solo l’interesse del contribuente a non essere assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato, ma anche l’interesse dell’erario – parimenti meritevole di tutela – di evitare che, nella fase transitoria, un termine decadenziale eccessivamente ristretto possa precludere od ostacolare la notificazione delle cartelle relative alle dichiarazioni presentate anteriormente all’entrata in vigore della suddetta legge di conversione n. 156 del 2005 e, quindi, pregiudicare la riscossione dei tributi. Per comprendere pienamente la portata della recente decisione, occorre partire dalla precedente sentenza della Corte costituzionale, la n. 280 del 20051, con la quale era stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 25 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b, del D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193, nella parte in cui non prevedeva un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario della riscossione dovesse notificare al contribuente la cartella di pagamento. Nella medesima pronuncia, rientrante tra quelle additive di principio, la Corte non aveva mancato di sottolineare la necessità di un sollecito intervento legislativo volto a colmare la lacuna conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, essendo preclusa alla stessa – in quanto si trattava di materia riservata alla discrezionalità del legislatore – la possibilità di fissare tale termine o di individuarlo in taluno di quelli già previsti dalla legge per le attività interne dell’amministrazione. L’invito veniva immediatamente raccolto in sede di conversione del D.L. 17 giugno 2005, n. 106, avvenuta con la legge 31 luglio 2005, n. 156.

1 Corte cost., sent. 15 luglio 2005, n. 280, in Fisco, 2005, 4903.

Orbene, la novella, intervenuta dopo la pronuncia di illegittimità costituzionale, abroga l’art. 17 del D.P.R. n. 602/1973, il quale prevedeva termini decadenziali per la formazione e l’attribuzione di esecutività dei ruoli e detta nuove disposizioni in materia di riscossione e notifica delle cartelle di pagamento emesse a seguito di controllo automatico delle dichiarazioni, ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, prevedendo una disciplina transitoria e una a regime. La normativa a regime, applicabile alla notificazione delle cartelle relative alle dichiarazioni presentate successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione (10 agosto 2006), modificando l’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973, prevede, dunque, termini perentori per la notifica al contribuente della cartella di pagamento, da parte del concessionario della riscossione, fissandoli entro la data del 31 dicembre: a) del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme liquidate ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973; b) del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme dovute a seguito di controllo formale ai sensi dell’art. 36-ter del D.P.R. n. 600/1973; c) del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo, per le somme dovute in base ad accertamenti dell’ufficio (art. 1, comma 5-ter, D.L. cit). La normativa transitoria (art. 1, comma 5-bis, D.L. cit.), dettata al fine di assicurare un graduale passaggio alla nuova disciplina senza pregiudicare l’interesse erariale alla riscossione dei tributi, prevede termini decadenziali diversi da quelli a regime, differenziandoli a seconda della data di presentazione delle dichiarazioni. Pertanto, le cartelle di pagamento derivanti dall’attività di liquidazione delle dichiarazioni devono, secondo le nuove disposizioni, essere notificate a pena di decadenza: a) entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione delle dichiarazioni, per quelle presentate a decorrere dall’1 gennaio 2004; b) entro il 31 dicembre del quarto anno successivo, con riferimento alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003; c) entro il 31 dicembre del quinto anno successivo, con riferimento alle dichiarazioni presentate fino al 31 dicembre 2001. In sostanza, con la nuova disciplina, la data degli atti di esecutività e di consegna del ruolo al concessionario non riveste più alcun rilievo giuridico


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ai fini della decorrenza del termine di notifica della cartella, atteso che tali atti hanno unicamente carattere organizzativo interno. La decadenza, infatti, viene ora prevista in relazione all’atto finale ed esterno comunicato al contribuente senza più riferimenti o decadenze legate all’attività interna dell’amministrazione finanziaria. Tanto premesso, la Commissione tributaria provinciale di Bologna, nel corso di un giudizio di impugnazione di una cartella di pagamento emessa ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, relativa all’Irpef dell’anno 2000, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della citata norma transitoria (art. 1, comma 5-bis, lettera c, del D.L. n. 106/2005) per contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. I giudici rimettenti, in particolare, osservavano che la disposizione censurata prevede, per la notificazione delle predette cartelle, emesse all’esito di semplici operazioni di liquidazione delle somme dovute dai contribuenti in base alle dichiarazioni da essi presentate, un termine decadenziale (quinquennale) irragionevolmente superiore a quello previsto per la notificazione degli avvisi di accertamento, emessi a seguito di un ben piú complesso procedimento. I medesimi giudici lamentavano, altresì, il contrasto della disposizione censurata con gli artt. 24 e 97 Cost.; tale ultima questione, però, veniva dichiarata inammissibile dalla Corte non essendo state prospettate autonome censure ed essendo stati indicati i menzionati parametri senza che fosse adeguatamente motivata la lesione degli stessi ad opera della disposizione censurata. Con riferimento, invece, al dedotto contrasto con il principio di ragionevolezza, i giudici costituzionali sono entrati nel merito della questione posta, ritenendola non fondata. In particolare, la Consulta ha osservato che non è irragionevole una disciplina transitoria dei termini di decadenza per la notificazione delle suddette cartelle, divergente dalla disciplina a regime. Invero, la disposizione censurata deve essere inquadrata nell’ambito del complessivo intervento legislativo rappresentato dall’art. 1, commi 5bis e 5-ter, del decreto legge n. 106 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, della legge di conversione n. 156 del 2005. Tale disciplina trova giustificazione, secondo la Corte, nell’obiettivo perseguito dal legislatore di garantire non solo l’interesse del contribuente (evidenziato anche dalla pregressa sentenza n. 280 del 2005) a non essere assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato, ma anche l’interesse dell’erario – parimenti meritevole di tutela – di

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evitare che, nella fase transitoria, un termine decadenziale eccessivamente ristretto possa precludere od ostacolare la notificazione delle cartelle relative alle dichiarazioni presentate anteriormente all’entrata in vigore della suddetta legge di conversione n. 156 del 2005, così da pregiudicare la riscossione dei tributi. Rilevano, infatti, i giudici che se il termine decadenziale triennale, fissato per la disciplina “a regime”, fosse stato previsto anche per le cartelle relative alle dichiarazioni presentate fino al 2003, l’erario avrebbe perso la possibilità di notificare tempestivamente dette cartelle (con riferimento a quelle relative alle dichiarazioni presentate fino al 31 dicembre 2001) ovvero, in altra ipotesi, di fruire di un lasso di tempo adeguato per la notificazione delle stesse (con riferimento a quelle relative alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003). L’applicazione del termine “a regime” anche agli indicati rapporti pendenti alla data di entrata in vigore della citata legge n. 156 del 2005 avrebbe comportato, cioè, la consumazione, in tutto o in gran parte, del termine decadenziale di notificazione della cartella ancor prima dell’entrata in vigore della suddetta legge che tale termine introduce. Per gli stessi motivi, proseguono i giudici, non è irragionevole neppure che il termine decadenziale previsto in via transitoria dalla disposizione censurata per la notificazione delle cartelle relative alle dichiarazioni presentate fino al 31 dicembre 2001 sia superiore a quello quadriennale stabilito per la notificazione degli avvisi di accertamento dall’art. 43 del D.P.R. n. 600 del 1973. Un termine quadriennale non sarebbe stato, infatti, adeguato, perché l’amministrazione finanziaria avrebbe avuto a disposizione, per la notificazione di dette cartelle, solo il lasso di tempo, particolarmente breve, intercorrente tra il 10 agosto 2005 (data di entrata in vigore della legge n. 156 del 2005) e il 31 dicembre dello stesso anno (data di scadenza del termine quadriennale). Infine, la Corte non tralascia di osservare che a tale conclusione non può opporsi il richiamo dei rimettenti ai principi di cui alla sentenza n. 280 del 2005, secondo la quale il legislatore, nel fissare il termine per la notificazione delle cartelle emesse ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, «non potrà non considerare che il vigente art. 43, primo comma, del D.P.R. n. 600 del 1973 prevede che l’avviso di accertamento – quale atto conclusivo di un ben più complesso procedimento – sia notificato a pena di decadenza entro il 31 dicembre del quarto anno successivo alla presentazione della dichiarazione». Invero, il termine indicato in tale sentenza si riferisce non alla disciplina transitoria, ma solo a


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quella a regime. Ma vi è di più. I giudici costituzionali osservano che proprio la sentenza medesima, contenendo un invito al legislatore a provvedere – nell’ambito della sua discrezionalità – anche in ordine ai rapporti ancora pendenti, impone anzi di integrare la disciplina “a regime” con una ragionevole e diversa normativa transitoria, che contemperi i già evidenziati contrapposti interessi del contribuente e dell’erario nella fase di passaggio dalla disciplina dichiarata illegittima ad un’altra, caratterizzata dalla fissazione di termini decadenziali decorrenti da un preciso dies a quo. La medesima sentenza, pertanto, presuppone che la normativa transitoria sia diversa da quella a regime. Dunque, dopo la citata pronuncia della Corte, che

sembra aver messo la parola “fine” ad una lunga e complessa vicenda che si è protratta diversi anni, più nessuna perplessità può porsi in merito alla legittimità della normativa transitoria che ha introdotto, per la notificazione delle cartelle di pagamento emesse a seguito di controllo automatico delle dichiarazioni ai sensi dell’art. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, termini decadenziali diversi da quelli a regime. La Corte ha avallato le scelte del legislatore, pur criticate da una parte della dottrina2, inquandrandole nell’ottica di un corretto bilanciamento dei diversi interessi in gioco, valutando la coerenza della disciplina contestata con la ratio che la anima e l’equità delle scelte compiute dal legislatore.

2 BRUZZONE, Il legislatore tenta di colmare la lacuna sui termini di notifica della cartella di pagamento, in Corr. Trib., 2005, 2754 ss.


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Indice cronologico 3 2008 649

Indice cronologico delle sentenze

Commissione tributaria provinciale di Chieti, sez. III, 30 gennaio 2007, n. 157

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Commissione tributaria di I grado di Trento, sez. II, 31 gennaio 2007, n. 85

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Commissione tributaria provinciale di Latina, sez. V, 31 gennaio 2007, n. 226

623

Commissione tributaria provinciale di Genova, sez. XIII, 22 febbraio 2007, n. 34

626

Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 10 maggio 2007, n. 63

498

Commissione tributaria provinciale di Bologna, sez. XII, 4 giugno 2007, n. 158

464

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXIV, 3 luglio 2007, n. 8

586

Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. XVIII, 10 luglio 2007, n. 117

588

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. IV, 20 agosto 2007, n. 86

500

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXXII, 17 settembre 2007, n. 87

635

Commissione tributaria provinciale di Caserta, sez. XV, 17 settembre 2007, n. 271

593

Commissione tributaria provinciale di Foggia, sez. II, 19 settembre 2007, n. 127

502

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. I, 24 settembre 2007, n. 75

541

Commissione tributaria provinciale di Firenze, sez. XVI, 13 ottobre 2007, n. 108

545

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. X, 17 ottobre 2007, n. 181

573

Commissione tributaria provinciale di Grosseto, sez. III, 29 ottobre 2007, n. 23

603

Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. II, 5 novembre 2007, n. 533

604

Commissione tributaria di II grado di Trento, sez. I, 6 novembre 2007, n. 90

628

Commissione tributaria regionale della Campania, sez. XXIX, 12 novembre 2007, n. 187

503

Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. VII, 4 dicembre 2007, n. 219

609

Commissione tributaria provinciale di Grosseto, sez. IV, 7 dicembre 2007, n. 114

515

Commissione tributaria provinciale di Teramo, sez. III, 18 dicembre 2007, n. 198

475

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. IX, 19 dicembre 2007, n. 167

489

Commissione tributaria provinciale di Belluno, sez. I, 14 gennaio 2008, n. 174

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16 Indice Crono

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GiustiziaTributaria

3 2008

Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia, sez. I, 15 gennaio 2008, n. 2

518

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XLI, 17 gennaio 2008, n. 463

583

Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXV, 18 gennaio 2008, n. 61

563

Commissione tributaria regionale del Molise, sez. I, 24 gennaio 2008, n. 25

478

Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. XXI, 25 gennaio 2008, n. 6

486

Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Pescara, sez. X, 30 gennaio 2008, n. 182

576

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez III, 20 febbraio 2008, n. 88

605

Commissione tributaria provinciale di Rimini, sez. II, 12 marzo 2008, n. 26

529

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. V, 15 aprile 2008, n. 93

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