Giustizia Tributaria 2008 n. 1

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comitato direttivo Claudio Consolo ordinario di diritto processuale civile Università di Padova Lorenzo del Federico ordinario di diritto tributario Università di Chieti e Pescara Salvatore Sammartino ordinario di diritto tributario Università di Palermo Giuliano Tabet ordinario di diritto tributario Università di Roma - La Sapienza Francesco Tesauro ordinario di diritto tributario Università degli Studi di Milano - Bicocca comitato scientifico Fabrizio Amatucci ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Massimo Basilavecchia ordinario di diritto tributario Università di Teramo Silvia Cipollina straordinario di diritto tributario Università di Pavia Angelo Contrino docente di diritto tributario italiano ed europeo Università Bocconi - Milano Daria Coppa straordinario di diritto tributario Università di Palermo Roberto Cordeiro Guerra straordinario di diritto tributario Università di Firenze Stefano Fiorentino associato di diritto tributario Università di Salerno Maria Cecilia Fregni [coordinamento] ordinario di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Gianfranco Gaffuri ordinario di diritto tributario Università di Milano Alessandro Giovannini ordinario di diritto tributario Università di Siena Manlio Ingrosso ordinario di diritto tributario Seconda Università di Napoli Agostino Ennio La Scala associato di diritto tributario Università di Palermo Antonio Lovisolo associato di diritto tributario Università di Genova Alberto Marcheselli docente di diritto tributario Università di Torino Enrico Marello associato di diritto tributario Università di Trieste Sebastiano Maurizio Messina ordinario di diritto tributario Università di Verona Salvatore Muleo straordinario di diritto tributario Università della Calabria Mario Nussi associato di diritto tributario Università di Udine Raffaele Perrone Capano ordinario di diritto tributario Università di Napoli - Federico II Maria Cristina Pierro associato di diritto tributario Università dell’Insubria Francesco Pistolesi straordinario di diritto tributario Università di Siena Roberto Schiavolin ordinario di diritto tributario Università di Padova Loris Tosi ordinario di diritto tributario Università di Venezia - Ca’ Foscari Alessandro Turchi associato di diritto tributario Università di Modena e Reggio Emilia Giuseppe Zizzo straordinario di diritto tributario Università LIUC - Castellanza comitato di redazione Christian Califano Filippo Cicognani Alessandra Magliaro Annalisa Pace Alessandra Villecco [coordinamento]

Claudio Consolo Lorenzo del Federico Salvatore Sammartino Giuliano Tabet Francesco Tesauro

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hanno collaborato a questo numero Patrizia Alfani cultore di diritto tributario, Università di Siena Roberto Baggio cultore di diritto tributario, Università di Venezia Ca’ Foscari Pier Paolo Cairo dottorando di ricerca in diritto tributario, Università di Milano - Bicocca Christian Califano ricercatore di diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Mario Cermignani dottorando in diritto europeo e comparato dell’impresa e del mercato, Università di Chieti e Pescara Roberto Cigarini magistrato ordinario, Trib. Modena; vice presidente di sezione, Comm. trib. prov. Modena Giuseppina De Aloe dottoranda in diritto dei mercati, Università di Siena Lorenzo del Federico professore ordinario di diritto tributario, Università di Chieti e Pescara Chiara Franzon dottore in economia e legislazione d’impresa, Università di Verona Giuseppe Ingrao ricercatore di diritto tributario, Università di Messina Roberto Lenzu funzionario pubblico Luigi Lovecchio professore di diritto tributario presso la Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze Alessandra Magliaro ricercatrice di diritto tributario, Università di Trento Cristina Marcolongo avvocato in Siena Michele Mauro dottore di ricerca in diritto tributario, Università di Milano - Bicocca; professore a contratto di diritto tributario dell’impresa e diritto tributario internazionale, Università della Calabria Francesco Montanari dottore di ricerca in diritto tributario, Università di Bologna Annalisa Pace ricercatrice di diritto tributario, Università di Teramo Concetta Ricci ricercatrice di diritto tributario, Università LUM - Bari Elisabetta Rispoli magistrato Laura Rosa avvocato in Roma Gian Luca Soana giudice presso il Tribunale di Rieti Francesco Tesauro professore ordinario di diritto tributario, Università degli Studi di Milano - Bicocca Loris Tosi professore ordinario di diritto tributario, Università di Venezia Ca’ Foscari Alessandro Turchi professore associato di diritto tributario, Università di Modena e Reggio Emilia Giovanni Alduino Ventimiglia dottore di ricerca in diritto tributario, Seconda Università di Napoli Alessandra Villecco professore a contratto di diritto processuale civile, Università di Verona direttore responsabile Daniela Artioli redazione Maria Pia Petrei stampa Genesi (Città di Castello PG) progetto grafico Avenida (Modena) © Gedit edizioni, giugno 2008 via Irnerio 12/5, 40126 Bologna tel. 051 4218740, fax 051 4210565, mail@gedit.com, www.gedit.com ISSN 1590-5381 Abbonamento 12 mesi: € 160,00 Singolo fascicolo: € 50,00 I materiali per la pubblicazione vanno inviati per posta elettronica a: redazione@giustiziatributaria.it oppure via fax al n. 051 4210565. Gli autori devono uniformarsi ai criteri redazionali che possono essere richiesti via e-mail all’indirizzo sopra indicato.


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DOTTRINA SAGGI Introdotta la confisca per equivalente anche nel diritto penale tributario di Gian Luca Soana

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Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente di Francesco Tesauro

17

Il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario: il caso della transazione fiscale di Loris Tosi

25

NOTE A SENTENZA La responsabilità per i debiti fiscali della società di capitali dopo la cancellazione dal registro delle imprese di Laura Rosa

42

Ragioni a fondamento della verifica e riflessi sulla legittimità dell’atto impositivo di Christian Califano

47

L’accertamento senza prova effettuato mediante gli studi di settore di Michele Mauro

56

Primi orientamenti sul recupero degli aiuti di Stato fiscali relativi alle società per la gestione dei servizi pubblici locali (cd. “ex municipalizzate”) di Mario Cermignani

79

Il recupero del credito d’imposta per tardivo invio del modello Cvs: tra autoliquidazione, compensazione e disapplicazione delle sanzioni di Giuseppe Ingrao

88

Esenzione Ici, profilo soggettivo e utilizzo del fabbricato di Roberto Lenzu

103

Problemi di qualificazione e quantificazione dell’avviamento di Roberto Baggio

117

Il transfer pricing tra elusione e mera applicazione del valore normale di Concetta Ricci

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Accertamento delle società a ristretta base e “resistenze” della giurisprudenza di merito di Luigi Lovecchio

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Fase cautelare e anomala anticipazione del giudizio di merito di Alessandra Magliaro

152

GIURISPRUDENZA ACCERTAMENTO Commissione tributaria provinciale di Macerata, sez. IV, 25 gennaio 2007, n. 29 Accertamento - Accertamenti bancari - Movimentazioni sui conti correnti prive di valida giustificazione - Presunzione di ricavi in nero come conseguenza di incassi non giustificati - Presunzione di costi e, quindi, di maggiori ricavi, come conseguenza di prelevamenti non giustificati Deducibilità dei costi generatori dei ricavi presunti

37

Commissione tributaria provinciale di Lucca, sez. IV, 20 aprile 2007, n. 176 Accertamento - Società di capitali cancellata dal registro delle imprese - Estinzione della società Illegittimità dell’avviso indirizzato alla società - Responsabilità del liquidatore e dei soci nota di Laura Rosa

41

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VI, 10 luglio 2007, n. 67 Accertamento - Accessi - Diritti e garanzie del contribuente - Comunicazione delle ragioni che giustificano la verifica - Illegittimità del mero rinvio a disposizioni di legge

47

Accertamento - Prove irritualmente raccolte - Inutilizzabilità in sede di accertamento - Illegittimità derivata dell’atto impositivo nota di Christian Califano Commissione tributaria provinciale di Benevento, sez. I, 31 ottobre 2007, n. 224 Accertamento - Studi di settore - Presunzione semplice - Accertamento non fondato su ulteriori elementi probatori - Illegittimità nota di Michele Mauro

54

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. V, 31 dicembre 2007, n. 417 Accertamento - Motivazione per relationem - Rinvio al processo verbale recante presunzioni inconsistenti - Prove documentali fornite dal contribuente - Assolvimento dell’onere probatorio Illegittimità dell’avviso di accertamento

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AIUTI DI STATO Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 17 luglio 2007, n. 439 Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Ordinamento comunitario Incompatibilità - Sussistenza - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Applicazione Condizioni - Prevalente o totale partecipazione pubblica - Irrilevanza

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Aiuti di Stato - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Applicabilità - Condizioni - Procedura di recupero - Ingiunzione Motivazione - Necessità Commissione tributaria provinciale di Novara, sez. I, 3 ottobre 2007, n. 80 Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali

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trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Concreta applicabilità - Condizioni - Totale partecipazione pubblica - Rilevanza Commissione tributaria provinciale di Lucca, sez. I, 28 gennaio 2008, n. 172 Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Ordinamento comunitario Incompatibilità - Sussistenza - Recupero degli aiuti di Stato - Obbligatorietà - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Concreta applicabilità - Necessità - Caso specifico di non applicazione - Sussistenza nota di Mario Cermignani

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ESENZIONI E AGEVOLAZIONI Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXVI, 13 marzo 2007, n. 14 Esenzioni e agevolazioni - Contratti di finanziamento - Finanziamenti di durata non inferiore a diciotto mesi - Clausola di recesso ad nutum - Agevolazioni - Inapplicabilità

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Commissione tributaria provinciale di Messina, sez. XIII, 19 settembre 2007, n. 228 Esenzioni e agevolazioni - Credito d’imposta ex L. 388/2000 - Omessa o tardiva presentazione del modello Cvs - Avviso di recupero del credito d’imposta utilizzato in compensazione - Legittimità Sanzioni - Inapplicabilità nota di Giuseppe Ingrao

87

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. I, 20 settembre 2007, n. 69 Esenzioni e agevolazioni - Credito d’imposta - Investimenti nelle aree svantaggiate - Cessione d’azienda - Trasferimento del credito - Configurabilità

91

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. VII, 25 ottobre 2007, n. 21 Esenzioni e agevolazioni - Credito d’imposta per l’incremento dell’occupazione - Atto positivo di riconoscimento dell’amministrazione - Decorso di trenta giorni dalla presentazione dell’istanza Revoca del beneficio - Violazione del legittimo affidamento - Illegittimità delle revoca

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ICI Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. IX, 22 maggio 2007, n. 57 Ici - Fabbricato utilizzato per lo svolgimento di attività sportiva - Esenzione ex art. 7, comma 1 Requisito soggettivo - Utilizzazione da parte di un ente non commerciale - Esclusione della necessità che l’utilizzatore sia anche proprietario dell’immobile nota di Roberto Lenzu

100

IMPOSTA DI REGISTRO Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VI, 29 giugno 2007, n. 61 Imposta di registro - Atti e contratti - Sentenza che dispone il trasferimento di immobile già trasferito - Adeguamento della realtà formale a quella sostanziale - Negozio fiduciario - Imposta proporzionale - Esclusione

110

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. X, 18 luglio 2007, n. 75 Imposta di registro - Cessione di azienda - Valutazione dell’avviamento - Calcolo basato sui redditi degli ultimi tre anni - Rilevanza dello stipendio figurativo dell’imprenditore - Esclusione nota di Roberto Baggio

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Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. I, 10 ottobre 2007, n. 239 Imposta di registro - Agevolazioni “prima casa” - Accertamento - Termini di decadenza - Proroga biennale prevista dall’art. 11, L. n. 289/2002 - Norma eccezionale - Interpretazione analogica Estensione alla possibilità di sanatoria - Esclusione

123

IMPOSTE SUI REDDITI Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. II, 9 maggio 2007, n. 52 Imposte sui redditi - Reddito d’impresa - Cessioni di beni infragruppo - Società non residenti Valore normale - Onere della prova nota di Concetta Ricci

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IRPEF Commissione tributaria provinciale di Pistoia, sez. I, 22 gennaio 2007, n. 2 Irpef - Redditi diversi - Compravendita di terreno edificabile con patto di riservato dominio Trasferimento del diritto di proprietà - Plusvalenza - Imponibilità - Momento impositivo Completa corresponsione del prezzo

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Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XXIII, 13 aprile 2007, n. 66 Irpef - Reddito di capitale - Accertamento degli utili di una società di capitali - Ristretta base sociale - Conseguente accertamento in capo al socio - Insufficienza - Ulteriori elementi probatori Necessità nota di Luigi Lovecchio

138

IVA Commissione tributaria regionale del Veneto, sez. XXI, 15 ottobre 2007, n. 109 Iva - Cessioni intracomunitarie di autoveicoli nuovi - Trasporto del bene su strada da parte del cedente - Non imponibilità

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PROCESSO TRIBUTARIO Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. I, 21 febbraio 2007, n. 51 Processo tributario - Appello - Deposito di copia presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale - Inosservanza - Inammissibilità dell’appello

148

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. I, 8 marzo 2007, n. 17 Processo tributario - Sentenza di merito pronunciata in sede di trattazione della sospensione Nullità per violazione del contraddittorio - Conseguenza - Rimessione della causa dalla Commissione regionale alla Commissione provinciale nota di Alessandra Magliaro

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Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. VIII, 27 giugno 2007, n. 246 Processo tributario - Crediti di natura non tributaria - Fermo amministrativo di autoveicoli Impugnazione - Giurisdizione tributaria - Sussistenza

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Processo tributario - Preavviso di fermo amministrativo di autoveicoli - Atto impugnabile Sussistenza Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XV, 9 luglio 2007, n. 61 Processo tributario - Spese di giudizio - Compensazione per giusti motivi - Obbligo di motivazione

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Commissione tributaria provinciale di Pistoia, sez. I, (decr. pres.) 19 ottobre 2007, n. 167 Processo tributario - Atti impugnabili - Preavviso di fermo amministrativo - Non impugnabilità

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Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXI, 30 ottobre 2007, n. 118 Processo tributario - Impugnazione della cartella di pagamento per tardiva iscrizione a ruolo e per tardiva notifica della cartella - Legittimazione passiva - Agenzia delle Entrate e agente della riscossione - Litisconsorzio necessario

169

Commissione tributaria di II grado di Trento, sez. I, 14 novembre 2007, n. 110 Processo tributario - Spese di giudizio - Presupposti della responsabilità aggravata - Lite temeraria - Fattispecie - Sussistenza

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Commissione tributaria provinciale di Genova, sez. XIII, 29 novembre 2007, n. 400 Processo tributario - Parti - Controversia catastale relativa ad area condominiale - Notifica al condominio - Legittimazione ad agire dell’amministratore - Difetto di conferimento di specifico potere Esclusione della legittimazione

174

RISCOSSIONE Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. III, 20 dicembre 2007, n. 122 Riscossione - Liquidazione dell’imposta dovuta in base alle dichiarazioni - Cartella di pagamento - Omessa motivazione - Nullità

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Commissione tributaria provinciale di Cosenza, sez. I, 31 dicembre 2007, n. 570 Riscossione - Legittimazione attiva - Ex concessionari partecipati da Equitalia S.p.A. - Qualifica di Agenti della riscossione

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Riscossione - Comunicazione di iscrizione di ipoteca - Omessa indicazione del responsabile del procedimento - Illegittimità

ATTI E INTERVENTI La giurisprudenza della Commissione tributaria provinciale di Modena in tema di verifiche fiscali e accertamento tributario di Roberto Cigarini

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Comunicazione della Commissione europea 2007/C-272/05 Verso l’esecuzione effettiva delle decisioni della Commissione che ingiungono agli Stati membri di recuperare gli aiuti di Stato illegali e incompatibili nota di Lorenzo del Federico, Recupero degli aiuti di Stato fiscali, procedure applicabili e principi di equivalenza e di effettività

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Sulla legittimità costituzionale della nullità dei contratti di locazione non registrati di Elisabetta Rispoli

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Indice cronologico delle sentenze

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INTRODOTTA LA CONFISCA PER EQUIVALENTE ANCHE NEL DIRITTO PENALE TRIBUTARIO di Gian Luca Soana 1. Premessa - 2. I delitti tributari e la confisca prima di questo intervento legislativo - 3. L’introduzione nel sistema penale della confisca per equivalente - 4. Il tentativo dei giudici di merito di estendere la confisca per equivalente alle frodi fiscali - 5. L’art. 1, comma 143, della legge finanziaria - 6. Confisca per equivalente e reato transnazionale

1. Premessa Una delle novità della Finanziaria per l’anno 2008 è data dalla introduzione anche in materia penale tributaria della confisca per equivalente. In termini generali in materia di repressione della criminalità economica e, in misura più ampia, dei delitti indirizzati a far conseguire al reo un profitto di questa natura, uno degli interventi che, sia dal punto di vista della repressione che della prevenzione, risulta maggiormente efficace è quello diretto a sottrarre al soggetto attivo del reato il vantaggio economico da esso conseguito attraverso la sua condotta criminale; sottrazione che può, in modo efficace e senza attendere l’esito del giudizio, avvenire, già durante le indagini preliminari, attraverso lo strumento del sequestro preventivo del denaro o dell’utilità conseguita per, poi, all’esito del giudizio, tradursi nella sua confisca. Ciò considerando che un efficiente funzionamento di questo tipo di interventi viene a togliere al reo il provento della sua attività criminosa che, nella gran parte dei casi, costituisce la ragione unica della sua condotta illecita. In tale ambito, si è, tuttavia, verificato che la disciplina generale prevista dal codice penale in questa materia risulta, spesso, del tutto inefficace nel determinare la sottrazione al reo di quanto illecitamente conseguito.

1 Cass. pen., sez. VI, 21 ottobre 1994, in proc. Giacalone, in Cass. pen., 1996, 2315, ove, nell’indicare i principi richiamati del testo, è stata valutata la legittimità di un sequestro di un appartamento che era stato acquistato con i proventi del reato

Sul punto, in termini generali, la confisca è regolata nel codice penale dall’art. 240 ove si stabilisce – per quanto qui interessa – che possono essere oggetto di confisca facoltativa le cose che «[...] sono il prodotto o il profitto [...]» del reato stabilendosi, poi al secondo comma n. 1) la confisca obbligatoria per le «cose che costituiscono il prezzo del reato». A sua volta, l’art. 321, comma 2, c.p.p. consente, già dalla fase delle indagini preliminari, il sequestro preventivo delle cose che possono essere oggetto di confisca. Questa normativa, quale unica fonte generale del potere di confisca, si è rivelata, spesso, inadeguata a consentire, nei reati diretti a conseguire un vantaggio illecito di natura economica, di colpire in modo efficiente il profitto conseguito dal reo. Ciò in quanto questa disposizione pretende che per aversi la confisca sia necessario che i beni colpiti siano il diretto prodotto del reato, richiedendosi con essa la presenza di una relazione diretta, attuale e strumentale tra il bene sequestrato e il reato del quale costituisce il profitto illecito. In questo contesto, allora, il sequestro è ammissibile solo quando il bene si identifichi proprio in quello che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto e immediato dell’illecito oppure in quello che lo stesso ha realizzato come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa1. Da ciò, poi, deriva che laddove il profitto venga conseguito attraverso somme di denaro si possa avere la confisca solo qualora vi siano sufficienti indizi per ritenere che il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in un conto bancario o investito in titoli che divengono, poi, oggetto del provvedimento cautelare reale2 o, al più, laddove questa abbia ad oggetto beni che siano il frutto del diretto reimpiego da parte dell’autore del de-

(concussione). 2 Cass., sez. VI, 25 marzo 2003, n. 23773, in proc. Madaffari; il tutto tenendo chiaramente conto che la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento non impone che il sequestro debba ne-

cessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite bensì la somma corrispondente al loro valore nominale presente nel conto ove queste sono state depositate.


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naro illecitamente conseguito3. Principi questi che determinano sostanziali difficoltà in questo tipo di reati tenendo conto che, soprattutto laddove il profitto avvenga in denaro, per aversi la confisca non è possibile sequestrare una qualunque somma di denaro ma è necessario, come appena indicato, individuare quella di diretta derivazione causale dall’attività del reo. Inoltre, una vera e propria impossibilità si verifica laddove il profitto del reo non derivi dal conseguimento di un bene economico ma da un risparmio di questa natura; risparmio che, evidentemente, non può essere oggetto di confisca non traducendosi nel diretto conseguimento di un bene individuabile ma nel mancato sostenimento di costi che, in assenza della condotta illecita, si sarebbe dovuto sostenere. Infine si aggiunge che, trattandosi di ipotesi di confisca facoltativa, in caso di patteggiamento il giudice non può procedere a confisca, dovendo restituire il profitto in sequestro, essendo – laddove si proceda con questo procedimento speciale – questa consentita, ex art. 445 c.p.p., solo per i casi di confisca obbligatoria di cui all’art. 240, comma 2, c.p.p. 2. I delitti tributari e la confisca prima di questo intervento legislativo Queste difficoltà si sono riscontrate, fino ad oggi, anche in materia di diritto penale tributario ove, in assenza di una norma specifica, hanno trovato applicazione i principi sopra richiamati. In tale ambito, già nella vigenza della legge n. 516 del 1982 e, poi, con il D.Lgs. n. 74 del 2000, si è verificata la presenza di detta difficoltà, se non di una vera e propria impossibilità, di sottoporre a sequestro, prima, e a confisca, poi, il profitto dei reati in materia di evasione di imposte. Ciò considerando, tra l’altro, di come in materia di reati tributari, nella gran parte dei casi, il pro-

3 Cass. pen., sez. VI, 14 aprile 1993, in proc. Ciarletta, ove si è indicato come non costituiscono ostacolo alla confisca le trasformazioni o modifiche che il prodotto del reato abbia subito; anche sentenza citata alla nota 1. 4 Cass. pen., sez. III, 20 marzo 1996, in proc. Centofanti, ove in tema di frode fiscale si è indicato come non assoggettabile a sequestro preventivo, nella prospettiva di una successiva confisca, il saldo liquido di un conto corrente in misura corrispondente all’imposta evasa non sussistendo il necessario rapporto di derivazione diretta tra l’evasione del-

fitto si realizza attraverso il mancato pagamento dell’imposta dovuta e, indi, non già con il conseguimento di un provento in denaro ma a mezzo di un risparmio economico: risparmio che in quanto tale non può essere assoggettato a confisca ex art. 240 c.p. Sul punto, in modo invero consolidato e senza sbandamenti, la Suprema Corte, richiamando i principi sopra citati, ha da sempre osservato come in tema di reati tributari non possa essere assoggettato a sequestro preventivo, nella prospettiva di una successiva confisca, il saldo liquido di un conto corrente in misura corrispondente all’imposta evasa non sussistendo il necessario rapporto di derivazione diretta tra l’evasione dell’imposta e le disponibilità del conto dal momento che non può affermarsi che la disponibilità liquida sia frutto dell’indebito arricchimento per una somma equivalente all’imposta evasa4. In questo contesto recentemente le sezioni unite penali hanno indicato come per aversi detta confisca deve «pur sempre sussistere, comunque, il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il denaro sequestrato e il reato del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa). In particolare, in relazione agli illeciti fiscali, devono escludersi collegamenti esclusivamente congetturali, che potrebbero condurre all’abberrante conclusione di ritenere, in ogni caso e comunque legittimo il sequestro del patrimonio di qualsiasi soggetto venga indiziato di illeciti tributari [...] dovendo essere tenuta ferma l’esigenza di una diretta derivazione causale dell’attività del reo intesa quale stretta correlazione con la condotta illecita»5. Necessità di questa stretta correlazione che ha, di fatto, limitato i casi di confiscabilità del denaro o di altre utilità economiche a quelle situazione, non molto frequenti, ove sia possibile una diretta

l’imposta e le disponibilità del conto dal momento che non può affermarsi che la disponibilità liquida sia frutto dell’indebito arricchimento per una somma equivalente all’imposta evasa; Cass. pen., sez. III, 7 dicembre 1992, in proc. Miatto, in Fisco, 1993, 4261, ove è scritto che il sequestro preventivo di depositi bancari nel corso di un procedimento per frode fiscale non è ammissibile in caso di carenza della confiscabilità dei depositi stessi per mancanza di pertinenza tra il bene e l’illecito penale per cui si procede; Cass. pen., sez. III, 3 ottobre 2001, in Im-

presa, 2001, 1965 ove con riferimento ai delitti di cui agli artt. 5 e 10, D.L. n. 74/2000 è indicato che tra detti delitti e l’oggetto del sequestro preventivo deve sussistere un diretto collegamento che nell’ipotesi di giacenze su conto corrente bancario sequestrate all’indagato non sussiste, ben potendo dette liquidità essere pertinenti ad una qualsiasi altra utilità non correlata ai delitti. 5 Cass. pen., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951, proc. Focarelli, in Fisco, 2004, 1, 7355, anche in Arch. Nuova Proc. Pen., 2004, 511 e in Cass. pen., 2004, 3087.


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individuazione del bene oggetto del vantaggio patrimoniale posto alla base della condotta di evasione fiscale; ciò, in particolare, con riferimento a quelle ipotesi nelle quali la condotta illecita si è sviluppata, non già a mezzo del mancato pagamento di imposte, ma attraverso l’ottenimento di un indebito rimborso (equiparato alla condotta evasiva ex art. 1, lettera d, del D.Lgs. n. 74 del 2000) e sempre che si riesca a individuare il luogo ove si trova il denaro oggetto di rimborso o i beni nei quali è stato reinvestito6. 3. L’introduzione nel sistema penale della confisca per equivalente Per superare queste difficoltà e per rendere lo strumento cautelare reale effettivamente efficace, anche con riferimento a fattispecie dirette a fare procurare al reo un vantaggio di natura economica difficilmente attaccabile con il tradizionale strumento dell’art. 240 c.p., il legislatore è intervenuto, in più occasioni, introducendo nel nostro ordinamento la figura della cd. confisca per equivalente. Istituto giuridico che si è ritenuto di non dovere prevedere come forma generale di confisca applicabile a tutte le condotte illecite ma che, di volta in volta, è stato inserito con riferimento a singole fattispecie penali allorché è stato valutato come necessario per una migliore repressione di quelle condotte illecite7. In particolare, per quel che qui interessa, con l’art. 3 della L. 29 settembre 2000, n. 300 si è introdotto – all’interno del capo relativo «ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione» – l’art. 320-ter c.p. proprio in materia di confisca. Con questa norma si prevede che nel caso «di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p., per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320» (peculato, malversazione ai danni dello Stato, indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, corruzione, concussione) «è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il pro-

6 Cass. pen., sez. III, 19 settembre/28 ottobre 2003, n. 40462, in proc. Ariasi, in Rass. Trib., 2004, 2115 e anche in Giur. It., 2004, 2379, ove si è valutato come ammissibile il sequestro presso l’Agenzia delle Entrate, quale terzo debitore, del credito Iva del soggetto attivo del reato in un caso nel quale la frode fiscale era avvenuta attraverso l’emissione di fatture false a società prestanome di-

fitto o il prezzo, salvo che non appartengano a persone estranee al reato, ovvero quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo [...]». Il secondo comma stabilisce, poi, con riferimento al reato di cui all’art. 321 c.p. che «è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto, salvo che non appartengano a persone estranee al reato, ovvero quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto [...]». Il terzo comma, infine, stabilisce che «il giudice con la sentenza di condanna» (o di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.) « determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato». Con essa, allora, si prevede, innanzitutto, la confisca obbligatoria del profitto del reato. Ciò in deroga al comma 1 dell’art. 240 c.p. che, invece, per il profitto prevede una forma di confisca facoltativa. Trattasi di differenza di non poco conto considerando, da un lato, che la stessa non lascia al giudice alcun margine di discrezionalità sul punto – presente invece nel caso di confisca facoltativa – e, inoltre, che nel caso di patteggiamento il giudice potrà e dovrà, comunque, procedere alla confisca essendo questa esplicitamente prevista come obbligatoria anche in caso di accesso a detto rito alternativo. Inoltre, ed è sicuramente l’aspetto più interessante e maggiormente punitivo per il reo, con questa norma si introduce per detti reati la cd. “confisca per equivalente”. Con essa, allora, proprio per ovviare gli inconvenienti sopra indicati e derivanti dalla applicazione della disciplina generale contenuta nel codice penale, si viene a consentire la confisca di beni nella disponibilità del reo, per un valore equivalente al profitto subito, indipendentemente dal loro collegamento, diretto o indiretto, con il fatto di reato. Ciò sia laddove non sia possibile indivi-

rette a fare beneficiare ad esso di un ingente importo di Iva a credito; il tutto in quanto in una tale ipotesi la somma sequestrata, essendo ancora presso il debitore, non si è confusa con altro denaro fungibile ma costituisce una cosa mobile determinata. 7 Oltre che nei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e nei delitti di truffa ai danni dello Stato, la confisca per equiva-

lente è stata prevista, tra l’altro: per i delitti di usura dall’art. 1 della legge n. 108 del 1996; per il reato transnazionale dall’art. 11 della legge n. 146 del 2006 (legge che ha introdotto questa figura criminosa); dall’art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, società e associazioni prive di personalità giuridica.


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duare il bene oggetto del profitto sia laddove questo non sia presente essendo il vantaggio economico della condotta illecita dato da un risparmio di spese dovute. 4. Il tentativo dei giudici di merito di estendere la confisca per equivalente alle frodi fiscali La possibilità di applicare la confisca per equivalente anche ai reati tributari, è stata tentata, recentemente, da alcuni giudici di merito che nel cercare di superare le difficoltà sopra richiamate, hanno applicato anche a questi reati l’art. 640-quater c.p. In termini sintetici, l’art. 640-ter c.p., prevede l’applicabilità dell’art. 322-ter c.p., tra l’altro, nei casi di truffa ai danni dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1). In particolare, questa disposizione prevede che «nei casi di cui agli articoli 640, secondo comma, n. 1, [...] si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni contenute nell’articolo 322-ter». In tale ambito, alcuni giudici di merito hanno proceduto al sequestro di denaro o di altri beni non direttamente correlati alla condotta illecita ritenendo applicabile anche in materia penale tributaria la confisca per equivalente ex art. 640-quater. In particolare, in queste occasioni, si è ritenuto che insieme ai delitti tributari di dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture false, potesse configurarsi a carico degli indagati anche il delitto di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, c.p. (truffa ai danni dello Stato); ciò in quanto, secondo detta prospettazione, questo reato verrebbe a concorrere con i delitti tributari e, indi, la sua ricorrenza consentirebbe l’applicazione della confisca per equivalente. Trattasi di posizione che, correttamente, è stata respinta dalla Suprema Corte che ha osservato, in più occasioni, come il delitto di frode fiscale si pone in rapporto di specialità con la truffa aggravata ai danni dello Stato di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, c.p. e che, indi, in questo contesto l’assorbimento di quest’ultimo reato in quello di frode fiscale non consente di applicare la confisca per equivalente non prevista per il menzionato reato finanziario8. 5. L’art. 1, comma 143, della legge finanziaria Queste difficoltà sono state superate con l’art. 143 della legge finanziaria 2008 che ha stabilito che «nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10ter, 10-quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo

8 Cass. pen., sez. II, 11 gennaio/8 febbraio 2007, n. 5656, in proc. Perrozzi; Cass. pen., sez. II, 23 novembre

2000, n. 74 si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’art. 322-ter del codice penale». Con questa disposizione si prevede, allora, che per tutti i reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000 – avente ad oggetto la disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto – trovi applicazione la normativa sulla confisca regolata dall’art. 322-ter c.p. Il tutto a mezzo di un rinvio all’art. 322-ter c.p. – con la specificazione «in quanto applicabili» – identico a quello già contenuto nell’art. 640-quater c.p. per i reati di truffa aggravata ai danni dello Stato. Elemento quest’ultimo utile in quanto consente, come di seguito verrà evidenziato, di usufruire della elaborazione giurisprudenziale e dottrinale già avutasi in materia in ordine alla portata di questo rinvio. Da questa norma deriva, innanzitutto, che per i reati tributari la confisca del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta dovuta è obbligatoria; obbligatorietà presente anche in caso di patteggiamento. Inoltre, e questo costituisce l’aspetto più innovativo, si stabilisce anche per questi reati la possibilità di procedere a sequestro per equivalente – per poi confiscarli – in tutti quei numerosi casi nei quali non è possibile individuare i beni oggetto del profitto derivante dalla condotta criminosa. Pertanto, una volta stabilita la somma di denaro che è stata oggetto del mancato pagamento di imposte dovute (inteso anche quale percezione di un indebito rimborso) e verificata la impossibilità di procedere al sequestro del provento del reato, si potrà procedere al sequestro, prima, e alla confisca, poi, di somme di denaro o di beni aventi un valore equivalente a quelli così sottratti all’erario; il tutto senza la necessità di quella specifica individuazione che, soprattutto in relazione alla natura di risparmio che è propria della condotta evasiva, rendeva, di fatto, impossibile la confisca in questa materia. Nel richiamare la giurisprudenza avutasi con riferimento sia all’art. 322-ter c.p. che all’art. 640quater c.p., deve, innanzitutto, evidenziarsi che – come è naturale – ai fini del sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, non occorre provare il nesso di pertinenzialità della res rispetto al reato, essendo assoggettabili a confisca beni nella disponibilità dell’imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto o al prezzo del reato9, potendo allora questo ri-

2006, n. 40226, in proc. Bellavita. 9 Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2005, in proc. Baldas; Cass. pen., sez. VI,

19 gennaio 2005, in proc. Nocco.


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guardare beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del soggetto, non hanno neanche alcun collegamento diretto con il singolo reato10. Inoltre, a fugare, in relazione al significato del rinvio contenuto nella norma qui in esame, quei dubbi che sono sorti con riferimento all’art. 640quater c.p. e alla sua esatta portata, si è indicato come la confisca per equivalente possa intervenire, non solo con riferimento al prezzo di cui al comma primo dell’art. 322-ter, ma anche al profitto del reato richiamato nel secondo comma di questa stessa norma11. Elemento di particolare importanza nella nostra materia ove non è presente un prezzo ma un profitto del reato. Stabilendo l’art. 322-ter che la misura deve intervenire nei confronti di «beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a detto profitto», per aversi la confisca per equivalente è necessaria la presenza dei seguenti presupposti: a) la persona raggiunta dalla misura cautelare reale deve essere indagata per uno dei reati per i quali sia consentita la confisca per equivalente; b) nella relativa sfera giuridico-patrimoniale non sia rinvenuto, per una qualsivoglia ragione, il prezzo o il profitto del reato per cui si procede, ma di cui sia certa l’esistenza; c) i beni da sequestrare non devono appartenere a persona estranea al reato, condizione questa comune a tutte le ipotesi di confisca di cui all’art. 322-ter c.p.12 Da quanto appena indicato, deriva che deve, innanzitutto, procedersi per uno qualsiasi dei delitti tributari regolati dal D.Lgs. n. 74 del 2000: in-

10 Cass. pen., sez. VI, 29 marzo 2006, in proc. Lucci. 11 Cass. pen., sez. un., 25 ottobre 2005, n. 41936, in proc. Muci; Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2006, in proc. Napoletano; Cass. pen., sez. I, sent. 20 maggio 2006, n. 30790, in proc. Pedercini. Sentenza a sezione unite intervenuta a smentire quell’indirizzo, rimasto poi isolato, espresso da Cass. pen., sez. I, 28 maggio 2003, in proc. Silletti che aveva ritenuto che il rinvio all’art. 322-ter c.p. dovesse essere limitato al primo comma e con esso consentire il sequestro per equivalente solo del prezzo e non anche del profitto del reato. 12 Cass. pen., sez. V, 6 gennaio 2004, in proc. Napolitano, in Foro It., 2004, II, 685. 13 Sul punto si osserva come questo elemento della appartenenza del bene in sequestro all’autore del reato è, in vero, richiesto anche laddo-

fatti, l’art. 1, comma 143, qui introdotto richiama tutte le fattispecie penali presenti in questo decreto legislativo. Inoltre, deve riguardare beni nella disponibilità di un soggetto che sia giudicato come responsabile di uno di questi reati. Il tutto a far si, poi, che – per la fase antecedente alla condanna – presupposto indispensabile per il sequestro è che trattasi di beni di persona direttamente indagata per uno di questi delitti13. Si è, tuttavia, più volte, specificato che per la presenza di questo elemento è necessario ma anche sufficiente che la persona nei cui confronti si procede alla confisca sia autore di uno dei delitti richiamati dalla norma (indi nel caso che qui interessa di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000) non essendo, invece, richiesto che, in concreto, lo stesso abbia avuto, personalmente, un vantaggio economico da questa vicenda e/o comunque un vantaggio nella misura nella quale il suo patrimonio venga colpito. Sul punto, infatti, si è osservato che essendo la confisca per equivalente – prevista dagli artt. 322ter e 640-quater c.p. – una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti la stessa viene ad assumere un carattere preminentemente sanzionatorio14; da ciò deriva che in caso di concorso di più persone nel reato sia legittimo il sequestro eseguito in danno di un solo concorrente del reato per l’intero importo relativo al prezzo o al profitto dello stesso reato, anche laddove le somme illecite siano state incamerate in tutto o in parte da altri coindagati15.

ve la confisca abbia ad oggetto direttamente e non per equivalente il prezzo o il profitto del reato, escludendosi la confisca, ex art. 322-ter, qualora detti beni «appartengano a persone estranee al reato». 14 Cass., sez. V, 16 gennaio 2004, in proc. Napolitano, in Foro It., 2004, II, 685 ove è indicato che nell’ipotesi di concorso di persone nel reato, in base alla natura giuridica unitaria del concorso criminoso può essere raggiunto dalla misura cautelare del sequestro per equivalente, rispetto all’intero importo del ritenuto prezzo o profitto del reato, uno qualsiasi dei concorrenti, anche se il prezzo o il profitto non sia affatto transitato, o sia transitato in minima parte, nel suo patrimonio e sia stato invece materialmente appreso da altri; sulla natura sanzionatoria di questa confisca anche Cass. pen., sez. un., n. 41936/2005 cit.

15 Cass. pen., sez. II, 21 febbraio 2007, in proc. Alfieri; in modo analogo Cass., sez. II, 14 giugno 2006, in proc. Grassi; Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2006/14 marzo 2007, n. 10838, in proc. Napolitano: ove si è fatta una tale affermazione tenendo conto da un lato che il principio solidaristico, che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e comporta solidarietà nella pena; dall’altro, che la confisca per equivalente riveste preminente carattere sanzionatorio e può interessare ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del prezzo o profitto accertato, salvo l’eventuale riparto tra i medesimi concorrenti che costituisce fatto interno a questi ultimi e che non ha alcun rilievo penale.


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In questo contesto, si è aggiunto come la confisca per equivalente possa, allora, operare nei confronti dei beni del soggetto attivo persona fisica anche laddove questi abbia agito in nome e per conto di una persona giuridica che abbia, poi, per intero acquisito il profitto derivante dalla sua condotta illecita16. Elemento di particolare importanza in materia di reati tributari tenendo conto che in essi, soprattutto nei casi di maggiore rilevanza, il soggetto attivo del reato agisce, non in proprio, ma quale rappresentante di una società in favore della quale ha conseguito l’evasione dell’imposta: fattore, peraltro, già regolato dal D.Lgs. n. 74 del 2000 all’art. 1, lettera e. Nel contempo, si deve tuttavia ritenere come non sia possibile una confisca per equivalente nei confronti, invece, della persona giuridica in nome della quale ha agito il soggetto attivo del reato. Al riguardo, in termini generali e con riferimento alla confisca regolata dall’art. 240, comma 1, c.p., non vi sono dubbi che si possa procedere a confisca del profitto del reato – laddove questo venga effettivamente individuato – nei confronti della persona giuridica, in nome e per conto della quale, il soggetto attivo abbia agito. Si è, infatti, evidenziato che quando l’attività illecita viene posta in essere da una persona giuridica attraverso i propri organi rappresentativi, mentre a costoro farà capo la responsabilità penale per i singoli fatti reato, ogni altra conseguenza patrimoniale non potrà che ricadere sull’ente esponenziale in nome e per conto del quale la persona fisica abbia agito, con esclusione della sola ipotesi di avvenuta rottura del rapporto organico per avere l’imputato colpevole agito di propria esclusiva iniziativa17.

16 Cass. pen., sez. II, 14 giugno 2006, in proc. Troso, in Foro It., 2007, II, 266. 17 Cass. pen., sez. III, 3 dicembre 2003/9 gennaio 2004, n. 1830, in proc. Andrisano; Cass. pen., sez. I, 9 dicembre 2004/21 gennaio 2005, n. 1927, in proc. Ambrono. 18 Cass. pen, sez. II, 12 dicembre 2006/31 gennaio 2007, n. 3629, in proc. Ideal Standard S.r.l.; Cass. pen., sez. II, 21 dicembre 2006/10 gennaio 2007, n. 316, in proc. Spera. In queste occasioni la Suprema Corte ha osservato come la confisca per equivalente nei confronti delle persone giuridiche è possibile per i fattireato commessi in data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (legge avente ad oggetto la responsabilità amministra-

Diverso è, invece, il caso della confisca per equivalente che nella norma in commento è prevista solo nei confronti del reo e non anche nei confronti di soggetti ad esso diversi. Soggetti diversi tra i quali può comprendersi anche la persona giuridica in nome della quale questi ha illecitamente agito. In tale direzione, in più occasioni, si è pronunciata la Cassazione che ha evidenziato come la confisca nei confronti delle persone giuridiche, in relazione alla responsabilità di chi agisce in nome e/o per conto proprio, è ben possibile laddove trattasi della confisca delle cose direttamente pertinenti al reato, nelle quali si evidenza il carattere non sanzionatorio ma di misura di sicurezza patrimoniale della confisca, ma non nel caso della confisca per equivalente che è caratterizzata per la sua applicabilità a cose non pertinenti al reato dalla sua natura sanzionatoria che la rende applicabile unicamente nei confronti del reo18. Altro presupposto è la presenza di un prezzo o di un profitto derivante dal reato per cui si procede che non sia stato rinvenuto ma di cui è certa l’esistenza. Da ciò deriva che per potersi avere la confisca per equivalente è necessario che, in concreto, da quella condotta illecita sia conseguito un profitto, inteso quale vantaggio economico; non vi potrà, invece, essere detta misura laddove nessun concreto vantaggio economico sia stato conseguito a seguito della condotta illecita19. Trattasi di elemento che può avere rilevanza in materia di reati tributari tenendo conto che alcune di queste fattispecie sono configurate quali reati di pericolo che possono realizzarsi anche laddove, in concreto, nessun danno per l’erario e, indi, nessuna evasione di imposta si sia verificata20. In

tiva degli enti). Ma ciò solo in quanto in detto D.Lgs. nell’introdursi la responsabilità amministrativa di questi enti per alcuni reati commessi dai propri rappresentanti si prevede, all’art. 19, la confisca per equivalente; normativa, tuttavia, non applicabile ai reati tributari non essendo questi compresi tra quelli per i quali è possibile ipotizzare una tale responsabilità (a differenza di quanto avviene per i reati richiamati sia dall’art. 322ter c.p. – in materia di corruzione, concussione, peculato, ecc. – sia dall’art. 640-quater c.p. – in materia di truffa ai danni dello Stato). 19 Cass. pen., sez. VI, 25 ottobre 2001, in proc. Tomat; Cass. pen., sez. VI, 26 gennaio 1995, in proc. Ruffinatto: entrambe in materia di istigazione alla corruzione ove si è indicato

che laddove questa non venga accolta e ove il danaro rimanga nella disponibilità dell’istigatore questo non può costituire né profitto, né prodotto, né prezzo del reato e come tale non è confiscabile. 20 Sul punto sono reati di pericolo che possono perfezionarsi anche in assenza di un’effettiva evasione di imposta le fattispecie di cui agli artt. 2, 8, 10 e 11 del D.Lgs. n. 74 del 2000 ove si richiede la presenza della finalità evasiva o sottrattiva (art. 11) ma non la realizzazione di questo obiettivo. Diverso è il caso della altre fattispecie che presentando una soglia di evasione che deve essere raggiunta per il perfezionamento del reato necessariamente richiedono la presenza di un profitto quale conseguenza della sua realizzazione.


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questi casi è evidente che, in assenza di una concreta evasione di imposta e, indi, in mancanza di un profitto derivante dalla condotta illecita, non potrà aversi nessuna confisca per equivalente. La confisca deve essere relativa a un valore corrispondente al profitto conseguito21 e a «beni di cui il reo ha la disponibilità». In relazione a quest’ultimo punto, pur nelle incertezze iniziali – derivanti dalla diversa e più chiara formulazione della analoga norma presente in materia di usura22 – si è osservato come la nozione di “disponibilità” non richieda necessariamente la titolarità di un diritto reale o obbligatorio su questi beni da parte del soggetto attivo del reato, essendo sufficiente, ma anche necessaria, la presenza di elementi fattuali che indichino come questi abbia una disponibilità di fatto sul bene23, agendo su di esso uti dominus, ponendosi, quindi, in una situazione assimilabile, dal punto di vista fattuale, a quella del proprietario24. Concetto di disponibilità fattuale sul quale sembra essersi orientata anche la giurisprudenza consentendo ad esempio il sequestro di beni che, pur appartenendo a terzi, risultavano di fatto nella disponibilità degli indagati essendo stati oggetto di una vera e propria interposizione fittizia25. In tale direzione d’altra parte è possibile richiamare anche la giurisprudenza avutasi in materia di misure di prevenzione ove, con riferimento alla nozione di “disponibilità del bene” quale presupposto per la confisca, si è osservato come sia possibile, il sequestro e la confisca di beni formalmente intestati a terzi, laddove vi sia la rigorosa

21 Cass. pen., sez. II, 30 maggio/18 settembre 2006, n. 30790, in proc. Pedercini, ove è indicato come la confisca non possa avvenire per un valore superiore al profitto conseguito; in questa occasione tuttavia si è evidenziato come il giudice non è tenuto a fare una stima del valore dei beni, ben potendo limitarsi a disporre – nel caso in esame si trattava di due aziende – globalmente la confisca dei beni fino alla concorrenza del provento indebitamente percepito restando rimessa alla fase dell’esecuzione gli adempimenti estimatori. 22 Ove è indicato in modo esplicito che la confisca per equivalente possa avere ad oggetto «somme, beni e utilità di cui il reo ha la disponibilità anche per interposta persona». 23 Cass. pen., sez. II, n. 30790 del 2006, cit. ove si è ritenuta legittimo il sequestro di due aziende di cui gli imputati avevano la disponibilità. 24 Cfr. PELLISSERO, in commento alla

prova dell’esistenza di situazioni che avallino concretamente l’ipotesi del carattere puramente formale di detta intestazione, funzionale alla esclusiva finalità di favorire il permanere del bene in questione nella effettiva e autonoma disponibilità di fatto del reo26. Altro elemento richiesto è che si proceda ad essa solo laddove non sia possibile il sequestro del bene diretto provento del reato. Sul punto, si ribadisce, innanzitutto, come per la gran parte dei reati tributari la confisca del bene diretto loro provento non è possibile in quanto sviluppandosi lo stesso a mezzo di un risparmio, con il mancato pagamento delle imposte dovute, nessun bene sul punto individuabile sarà presente. In ogni caso, laddove una tale individuazione sia astrattamente possibile – ad esempio nei casi di conseguimento di un indebito rimorso – si è indicato come l’impossibilità di reperimento e sequestro dei profitti illeciti, che condiziona l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo in funzione della futura confisca per equivalente, non deve necessariamente essere assoluta e definitiva, ma può riguardare anche un’impossibilità transitoria o reversibile, purché esistente nel momento in cui la misura cautelare reale viene richiesta e disposta; la possibile precarietà di tale circostanza di fatto condiziona anche l’onere di motivazione del provvedimento cautelare, che va limitato al richiamo della sia pur momentanea indisponibilità del bene, senza che sia necessario dare dettagliatamente conto delle attività volte alla ricerca dell’originario prodotto o profitto del reato27.

legge 29 settembre 2000, in Legislazione pen., 2001, 991 il quale ha evidenziato come una interpretazione che fondasse il concetto di disponibilità esclusivamente sulla titolarità del diritto porterebbe a conseguenze aberranti in quanto: da un lato sarebbe troppo restrittiva laddove limitata ad un formale diritto di proprietà; dall’altro troppo ampliativa laddove legata a qualsiasi situazione giuridica formale che consente al soggetto di disporre del bene comprendendosi in essa allora qualsiasi situazione obbligatoria (quale ad esempio una locazione). 25 Cass. pen., sez. II, 17 aprile/21 maggio 2007, n. 19662, in proc. D’Antuono + altri. 26 Cass. pen., sez. II, 23 giugno 2004, in proc. Palombo, in Cass. Pen., 2005, 2704 ove nell’affermarsi questi principi si è indicato che la sussistenza, caratterizzata di un comportamento uti dominus del medesimo

proposto, in contrasto con l’apparente titolarità del terzo, dev’essere accertata con indagine rigorosa, intensa e approfondita, avendo il giudice l’obbligo di spiegare le ragioni della ritenuta interposizione fittizia, sulla base non di sole circostanze sintomatiche di spessore indiziario, ma di elementi fattuali, connotati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza e idonei, pertanto, a costituire prova indiretta dell’assunto che si tende a dimostrare. 27 Cass. pen., sez. II, n. 19662 del 2007, in proc. D’Antuono e Cirone ove è indicato che la possibile precarietà di tale circostanza di fatto condiziona anche l’onere di motivazione del provvedimento cautelare, che va limitato al richiamo della sia pur momentanea indisponibilità del bene, senza che sia necessario dare dettagliatamente conto delle attività volte alla ricerca dell’originario prodotto o profitto del reato.


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Un’ultima notazione relativa alla decorrenza di questa forma di confisca. Si osserva come questa possa trovare applicazione anche in relazione a condotte criminose commesse prima della sua entrata in vigore. Infatti, in assenza di una disposizione transitoria, deve evidenziarsi come il principio di irretroattività della legge penale, sancito dagli artt. 2 c.p. e 25, comma 2, Cost., è operante nei riguardi delle norme incriminatrici ma non rispetto alle misure di sicurezza sicché la confisca può essere disposta anche in riferimento a reati commessi nel tempo in cui essa non era legislativamente prevista ovvero era diversamente disciplinata quanto a tipo, qualità e durata28. Il tutto tenendo conto che l’art. 200, primo comma, c.p. – secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al momento della loro applicazione – deve essere interpretato nel senso che, mentre non può applicarsi una misura di sicurezza per un fatto che al momento della sua commissione non costituiva reato, è possibile la suddetta applicazione per un fatto di reato per il quale originariamente non era prevista la misura, atteso che il principio di irretroattività della legge penale riguarda le norme incriminatrici e non le misure di sicurezza, che per loro natura sono correlate alla situazione di pericolosità attuale del reo29. Né, in senso diverso è possibile richiamare la giurisprudenza avutasi proprio con riferimento agli artt. 322-ter e 640-quater c.p. ove si è indicata l’applicabilità della confisca per equivalente solo ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge n. 300 del 2000 che ha introdotto dette norme. Infatti, in questa legge, all’art. 15, è stata inserita una disposizione transitoria che, in modo esplicito, esclude l’applicabilità di queste norme ai reati ivi previsti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore. Norma transitoria che non è, invece, presente nella disposizione qui in commento30. Al riguardo, in ultimo, deve segnalarsi come il Gup presso il Tribunale di Trento ha, con ordinanza del 12 febbraio 2008, sollevato questione di costituzionalità per contrasto con l’art. 117 della Costituzione della norma qui in commento – in relazione alla assunta violazione dell’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per come interpretato, pro-

28 Cass., sez. I, 1 marzo 2006, in proc. Colombari; Cass. pen., sez. I, 29 marzo 1995, in proc. Gianquitto; Cass. pen., sez. I, 19 maggio 1999, in proc. Musliu. 29 Cass. pen., sez. I, 11 marzo 2005, in proc. Santonocito; Cass., sez. II, 5

prio in materia di confisca, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in data 9 febbraio 1995 (Welch C. regno Unito) – proprio nella parte in cui questa consente la confisca obbligatoria per equivalente in relazione anche a reati tributari commessi precedentemente alla sua entrata in vigore. 6. Confisca per equivalente e reato transnazionale Un ultima notazione relativa alla circostanza che già un recente intervento legislativo consentiva, in alcuni limitati casi, la confisca per equivalente in materia tributaria. In modo sintetico, si fa riferimento alla legge 16 marzo del 2006, n. 146 avente ad oggetto la previsione di una nuova fattispecie penale, quella di reato transnazionale. In particolare, con questa legge, in esecuzione alla convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottata dall’assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001, si è previsto all’art. 3 quale reato transnazionale il reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato nonché: a) sia commesso in più di uno Stato; b) ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato; c) ovvero sia commesso in uno Stato ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato. Trattasi di norma che può trovare applicazione anche in materia di frode fiscale. Sul punto, innanzitutto, si osserva come dal punto di vista della pena edittale i reati di dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3) prevedono una pena massima di sei anni di reclusione. Inoltre, l’esperienza giudiziaria insegna come in questa materia la presenza di frodi attuate a mezzo di un associazione a delinquere – un gruppo criminale organizzato – e che coinvolgono più di un Paese costituiscono una realtà abituale e in forte espansione. In particolare, assume rilievo in questo settore, il

aprile 2002, in proc. Stangolini, in Riv. Pen., 2002, 912; quest’ultima proprio con riferimento alla singola confisca obbligatoria introdotta, all’ultimo comma dell’art. 644 c.p., dall’art. 1, L. 7 marzo 1996, n. 108. 30 Né può applicarsi l’art. 15 della leg-

ge n. 300 alla norma oggi introdotta non essendo questa disposizione stata da essa richiamata e facendo l’art. 15 espresso riferimento unicamente ai reati indicati dall’art. 322-ter e 640-quater.


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fenomeno delle cd. “frodi all’Iva intracomuniaria” che avvengono, di frequente, non già con singole ed episodiche condotte criminose, ma attraverso la preventiva costituzione di un vincolo associativo tra più soggetti (gli operatori comunitari cedenti, i titolari delle cartiere, gli effetti acquirenti dei beni) diretto a realizzare nel tempo, e in relazione ad un determinato prodotto (di solito, autovetture, materiale elettronico, carni, animali vivi), una serie indefinita di operazioni fraudolente approfittando dell’attuale “regime temporaneo” relativo all’Iva intracomunitaria. In esse, poi, è naturalmente presente l’ulteriore elemento richiesto dall’art. 3 essendo questo tipo di condotte, necessariamente, commesse in più di uno Stato. Infatti, in modo necessario, l’attività criminale viene in parte commessa nello Stato comunitario dal quale parte il bene oggetto di vendita e nel quale viene predisposta la falsa fatturazione – indicante non l’effettivo ricettore del bene ma quello fittizio – e in parte nello Stato ove si trova l’effettivo recettore del bene e ove avviene l’evasione di imposta. Inoltre, poi, l’art. 3 potrà trovare applicazione in tutte quelle ipotesi nelle quali la frode fiscale avvenga attraverso l’uso dei Paesi cd. Off-shore ove viene posta la sede fittizia della società. In questi casi, infatti, la condotta avviene attraverso la predisposizione di una sede fittizia, con la creazione di un minimo di struttura organizzata, in un paese avente un regime fiscale agevolato. Il tutto con coinvolgimento di più di due persone, essendo necessaria la presenza sia dell’operatore che agisce in un determinato Stato sia di

31 In attuazione dell’art. 12, lettera a, della convenzione ove viene prevista la necessità che i singoli Stati consentano per questi reati «la confisca di [...]

quegli ulteriori soggetti che, in modo fittizio, lo rappresentano presso lo Stato a fiscalità agevolata sia, laddove consapevoli di detta illecita situazione, dei clienti di questa società. In tale ambito, nella legge n. 146 del 2006 è previsto, all’art. 11, che per questi reati, laddove non sia possibile la confisca delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato «il giudice ordina la confisca di somme di denaro, beni od altre utilità di cui il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, per un valore corrispondente a tale prodotto, profitto o prezzo»31. Norma che ha avuto, di recente, una prima applicazione, proprio in materia di reato transnazionale collegato a reati di natura tributaria da parte del Gip del Tribunale di Trento che ha sottoposto a sequestro preventivo, in vista di una futura confisca per equivalente, beni immobili (per 914.320 euro), una vettura (una Porche Cayenne) e denaro (1.674.607,73 euro) con riferimento ad una frode fiscale internazionale che aveva determinato indebiti rimborsi per decine di milioni di euro; sequestro che, a quel momento in assenza di questa disposizione, non sarebbe stato possibile32. In aggiunta, si osserva che prevedendo questa legge, all’art. 10, comma 2, una responsabilità amministrativa delle persone giuridiche nei casi ove, oltre al reato transnazionale, sia realizzato il delitto di cui all’art. 416 c.p. (associazione a delinquere), in queste ipotesi, laddove concorra anche il delitto di frode fiscale, sarà possibile la confisca per equivalente – ex art. 19, D.Lgs. n. 231 del 2001 – anche a carico della persona giuridica in nome e per conto della quale ha agito il reo.

beni il cui valore corrisponde a quello di tali proventi» (di reato derivanti dai reati di cui alla convenzione). 32 Caso riportato, nei suoi elementi es-

senziali, da due articoli del Sole 24 Ore – nella parte Norme e Tributi – del 26 novembre 2007 e del 27 novembre 2007.


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RIESAME DEGLI ATTI IMPOSITIVI E TUTELA DEL CONTRIBUENTE di Francesco Tesauro 1. I problemi - 2. La giurisdizione in materia di autotutela tributaria - 3. Impugnabilità autonoma del diniego espresso - 4. Impugnabilità differita del silenzio - 5. Potere di riesame e annullamento di atti impositivi definitivi - 6. Dovere di riesame. Tutela nei confronti del mancato riesame - 7. Forme di tutela - 8. L’obbligo di riesame derivante dal giudicato penale - 9. L’obbligo di riesame derivante da atti comunitari

1. I problemi 1.1 In tema di tutela del cittadino nei confronti del rifiuto di riesame (e di annullamento) di un atto autoritativo, o nei confronti di un atteggiamento inerte dell’amministrazione finanziaria, si presenta innanzitutto il problema della giurisdizione; si pongono poi problemi di impugnabilità del rifiuto espresso e del silenzio, e dei motivi di ricorso proponibili; ed infine problemi di fondatezza della domanda, che rinviano al diritto sostanziale. Da quest’ultimo punto di vista occorre infatti verificare quali siano i poteri di intervento della pubblica amministrazione su un atto impositivo definitivo, e se l’esercizio di questo potere sia vincolato. Specularmente, vi è da vedere quale sia la posizione soggettiva del contribuente. Infine, occorre precisare se e quale tipo di tutela possa essere assicurata alle situazioni giuridiche di chi aspira al riesame e alla rimozione di un atto impositivo. 2. La giurisdizione in materia di autotutela tributaria 2.1 Secondo l’opinione maggioritaria, le questioni di giurisdizione dipendono dalla natura della situazione soggettiva per cui si chiede tutela. Di qui la questione se, di fronte al diniego di autotutela, il cittadino sia titolare di una situazione di interesse legittimo o di diritto soggettivo. In realtà, la giurisdizione del giudice tributario non è connotata dalla posizione soggettiva tutelata. L’oggetto della giurisdizione tributaria è infatti

1 T.A.R. Toscana, sez. I, 22 ottobre 1999, n. 767, in Foro It., 2001, III, 27.

individuato dal legislatore in base alla materia cui attiene la lite, come stabilito dall’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che attribuisce alla giurisdizione tributaria «tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie», senza riferimento alcuno al tipo di situazione giuridica soggettiva oggetto di lesione e di tutela. Inoltre, nel diritto positivo non vi sono norme che sottraggano alla giurisdizione delle Commissioni le controversie tributarie in ragione del tipo di situazione soggettiva da tutelare. Non è dunque accettabile l’orientamento – seguito da una nota, elaborata sentenza del T.A.R. Toscana1 e dal Consiglio di Stato2 –, che, ravvisando nella istanza di autotutela l’esercizio di un interesse legittimo cd. pretensivo, ha ritenuto giurisdizionalmente competente il giudice amministrativo. Come ha osservato Cass., 27 marzo 2007, n. 73883 (rel. Altieri), «la natura discrezionale dell’esercizio dell’autotutela tributaria non comporta la sottrazione delle controversie sui relativi atti al giudice naturale, la cui giurisdizione è ora definita mediante una clausola generale, per il solo fatto che gli atti di cui tale giudice si occupa sono vincolati». Il giudice tributario ben può essere giudice di atti discrezionali e interessi legittimi, dato che «l’attribuzione al giudice tributario di una controversia che può concernere la lesione di interessi legittimi non incontra un limite nell’art. 103 della Costituzione. Infatti, secondo una costante giurisprudenza costituzionale, non esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo il legislatore attribuire la relativa tutela ad altri giudici (da ultimo, ordinanze n. 165 e n. 414 del 2001 e sentenza n. 240 del 2006)». In conclusione, affermare la natura discrezionale dell’autotutela e sostenere che il contribuente è in posizione di interesse legittimo non sono premesse che giustificano l’attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo. Resta invece ferma, in materia di autotutela tributaria, la giurisdizione del giudice tributario, per ragioni di materia.

2 Cons. di Stato, sez. IV, 9 novembre 2005, n. 6269, in Boll. Trib., 2005,

1829. 3 In Giur. It., 2007.


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2.2 La giurisdizione delle Commissioni è stata affermata traendo argomento dall’ampliamento della giurisdizione, attuata dall’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, che ha riformulato l’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, con effetto dall’1 gennaio 2002. Come è noto, prima di quell’ampliamento, la giurisdizione delle Commissioni tributarie aveva per oggetto le liti relative ad un elenco di tributi. Le altre liti appartenevano alla giurisdizione del giudice ordinario. Dall’1 gennaio 2002, invece, la giurisdizione delle Commissioni tributarie comprende «tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie». La giurisdizione delle Commissioni in materia di autotutela è stata affermata dalle sezioni unite, con sentenza delle 10 agosto 2005, n. 167764. La sentenza è motivata sulla base del rilievo che, con le modifiche introdotte dall’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, la giurisdizione tributaria è divenuta, nell’ambito suo proprio, una giurisdizione a carattere generale, competente ogni qual volta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario o di sanzioni inflitte da Uffici tributari. Pur condividendone la conclusione, non mi pare che la motivazione si sottragga a qualche rilievo critico. La giurisdizione è stata ampliata nel senso che sono aumentate le materie, cioè i tributi, le cui liti sono attribuite al giudice tributario. E l’autotutela non è un “tributo”, sulle cui liti sarebbe stata modificata la giurisdizione. Ciò che ha rilievo è soltanto la circostanza che l’impugnazione del diniego di autotutela dia vita ad una lite tributaria. Se il diniego è diniego di annullamento di un atto tributario, se dunque l’atto che si impugna è un atto tributario, affermare la giurisdizione del giudice tributario è assolutamente inevitabile. Si può solo aggiungere che le liti sull’autotutela appartenevano al giudice tributario prima della modifica dell’art. 2, se si trattava di liti relative al numero chiuso di tributi che erano oggetto della giurisdizione del giudice tributario. La modifica, devolvendo al giudice tributario le controversie relative ai tributi di pertinenza della giurisdizione ordinaria, gli ha attribuito anche le controversie sull’autotutela relativa a tali tributi. È solo sotto questo aspetto che l’ampliamento della giurisdizione ha riguardato le liti sull’autotutela.

4 In Finanza loc., 2005, 12, 116. 5 Cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 12 mag-

3. Impugnabilità autonoma del diniego espresso 3.1 Affermata la giurisdizione del giudice tributario, occorre ora verificare se il diniego di autotutela sia compreso nel novero degli atti impugnabili. E quali motivi di ricorso siano ammissibili. La già citata sentenza delle sezioni unite 10 agosto 2005, n. 16776, afferma che «la riforma del 2001 ha poi necessariamente comportato una modifica dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992; l’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi, comporta infatti la possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta l’mministrazione manifesti (anche attraverso la procedura del silenzio-rigetto) la convinzione che il rapporto tributario (o relativo a sanzioni tributarie) debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare». Anche qui, pur condividendone la conclusione, la sentenza si presta a qualche rilievo critico. Una nuova lettura dell’art. 19, alla luce della modifica legislativa, è forse possibile, ma solo con riguardo alle nuove materie (cioè ai nuovi tributi) investiti dalla riforma. Per il resto, l’art. 19 non è mutato. 3.2 Come è noto, l’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, prevede un numero chiuso di atti impugnabili autonomamente. Ogni altro atto potenzialmente lesivo, non compreso nell’elenco, è impugnabile congiuntamente all’atto successivo impugnabile autonomamente, rispetto al quale l’atto non impugnabile ha valore di atto presupposto o pregiudiziale5. L’art. 19 prevede l’impugnabilità: - del rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie e interessi o altri accessori non dovuti; - del diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari. L’enumerazione degli atti impugnabili autonomamente, contenuta nell’art. 19, ammette letture estensive ma esclude integrazioni analogiche. Per tale motivo, il rifiuto di autotutela non è impugnabile in base a tali previsioni espresse di impugnabilità di atti negativi, salvo il caso in cui il contribuente richieda un rimborso, previa rimozione – in via di autotutela – dell’atto impositivo in base al quale è avvenuto il pagamento.

gio 2006, n. 2797 (in tema di processo amministrativo).


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3.3 Il diniego espresso di annullamento è riconducibile all’elenco dell’art. 19 nei casi in cui è classificabile come “rinnovazione” dell’atto di cui è stata negata la rimozione. Il diniego di annullamento equivale, in linea di massima, alla conferma del precedente provvedimento. E, per regola generale, gli atti di conferma non sono impugnabili (rectius: non sono impugnabili per motivi che attengono all’atto confermato). L’impugnazione dell’atto confermativo è ammissibile se l’atto impugnato non è una mera conferma, ma una “rinnovazione” dell’atto precedente, conseguente ad una nuova istruttoria, e se l’impugnazione è sorretta da motivi diversi da quelli che erano proponibili contro l’atto confermato. Ciò è riconosciuto dalla giurisprudenza. Nel processo in cui è stata pronunciata la sentenza delle sezioni unite 10 agosto 2005, n. 16776 (rel. Cicala), è poi intervenuta la sentenza della sezione tributaria 20 febbraio 2006, n. 3608 (rel. Cicala). Quest’ultima sentenza riconosce l’impugnabilità di un diniego di autotutela, opposto ad una domanda fondata su norme, o fatti, successivi al provvedimento di cui si chiede la rimozione. Deve trattarsi insomma di un caso in cui con il ricorso si alleghino vizi “propri” del diniego, impugnando non l’atto originario, ma il nuovo atto, frutto di un nuovo procedimento. 4. Impugnabilità differita del silenzio 4.1 L’impugnabilità del silenzio, che abbia fatto seguito ad una domanda di autotutela, non è riconducile ad alcuna previsione dell’art. 19. Bisogna, anzi, porsi il problema se il silenzio sia giuridicamente qualificato. Nelle norme tributarie non è previsto nulla. Deve perciò ritenersi applicabile l’art. 2, comma 3, della L. n. 241/1990, secondo cui un procedimento deve essere concluso nel termine di novanta giorni, decorso il quale si forma il silenzio-inadempimento. 4.2 L’art. 19 non menziona il silenzio in esame, che, quindi, non è impugnabile autonomamente. È impugnabile in via differita, insieme con un successivo atto lesivo (ad esempio, successiva iscrizione a ruolo o diniego di rimborso). Va da sé che, analogamente a ciò che si è detto per il rifiuto espresso, i motivi per cui si può impugnare il silenzio devono essere motivi che riguardano il comportamento inerte dell’amministrazione, e

6 Cfr., ex multis, Cass., sez. V, 6 febbraio 2004, n. 2272, secondo cui, in difetto di rituale e tempestiva impu-

non già vizi dell’atto impositivo, di cui è stata chiesta la rimozione in via di autotutela. In sintesi, il rifiuto espresso di autotutela è atto autonomamente impugnabile, in quanto atto impositivo. Il silenzio non è impugnabile di per sé, ma in via differita, con ricorso contro un atto successivo. Ad esempio, se si chiede l’annullamento di un avviso di accertamento e l’amministrazione non risponde e iscrive a ruolo, si può impugnare il ruolo adducendo la violazione del dovere di rispondere alla domanda di autotutela. 5. Potere di riesame e annullamento di atti impositivi definitivi 5.1 Occorre verificare se l’autorità fiscale possa annullare in autotutela un atto amministrativo definitivo e, in particolare, se possa farlo dopo un giudicato (cioè dopo un giudicato di rigetto dell’impugnazione del contribuente). È pacifico, nel nostro ordinamento, che l’autorità fiscale può annullare un atto divenuto definitivo6. L’art. 2-quater della legge 30 novembre 1994, n. 656, disponeva che: «Con decreti del Ministero delle Finanze sono indicati gli organi dell’amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati». Questa norma ha risolto positivamente la questione se l’annullamento in autotutela sia impedito dalla definitività dell’atto di imposizione, non in quanto si riferisce agli atti non impugnabili (concetto diverso da atto definitivo), ma in quanto si riferisce “anche” agli atti sub iudice e agli atti non impugnabili. Il principio è ora ribadito dall’art. 2, comma 1, del D.M. 11 febbraio 1997, n. 37 (“Regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell’amministrazione finanziaria”), che dispone: «L’amministrazione finanziaria può procedere, in tutto o in parte, all’annullamento o alla rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, nei casi in cui sussista illegittimità dell’atto o dell’imposizione». Quell’“anche” dimostra positivamente che l’amministrazione può annullare gli atti amministrativi impugnabili ma non impugnati o non più sub iudice.

gnazione, il rapporto tributario viene fissato, in modo definitivo e non più contestabile, dall’atto impositi-

vo, salvo l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’amministrazione finanziaria.


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5.2 Neppure il giudicato impedisce in assoluto l’autotutela. Il giudicato tributario, che respinge un ricorso, non accerta rapporti e non sostituisce, ma lascia in vita, l’atto impugnato. È quindi possibile che, pur dopo un giudicato, l’autorità amministrativa intervenga sull’atto (divenuto definitivo), purché il ritiro o la modifica dell’atto siano giustificati da motivi diversi da quelli esaminati dalla sentenza passata in giudicato. Ciò trova conferma nel regolamento dell’autotutela, ove si prevede che l’Ufficio non può annullare il suo atto «per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione finanziaria»7. A contrario, può annullarlo per motivi diversi. 6. Dovere di riesame. Tutela nei confronti del mancato riesame 6.1 Il diniego espresso di autotutela, come già visto, non può essere impugnato allegando i vizi dell’atto originario di cui è stato chiesto l’annullamento, perché non sono vizi propri del diniego. Contro il diniego di autotutela possono essere addotti soltanto vizi che derivano dai doveri dell’Ufficio attinenti al riesame, per cui l’impugnabilità può essere ipotizzata solo con riguardo a casi in cui la risposta alla domanda di autotutela sia sollecitata da un’istanza di nuova istruttoria o dal dovere di un nuovo esame. Per il diritto amministrativo generale, è opinione condivisa che l’annullamento in autotutela di un precedente atto illegittimo non è un atto vincolato. Le pubbliche amministrazioni sono libere di riesaminare o non riesaminare i loro atti. Neppure l’istanza del privato determina un obbligo in questo senso, poiché il mancato esercizio del potere di riesame non è censurabile né in quanto silenzio-rifiuto, né in quanto silenzio-inadempimento8. Il carattere discrezionale del ricorso all’autotutela, infatti, rende non applicabile la regola del silenziorifiuto9. La giurisprudenza amministrativa afferma che «non sussiste obbligo di provvedere in capo alla pubblica amministrazione, idoneo a generare una fattispecie di silenzio rifiuto o inadempimento, in caso di mera proposizione di istanza volta ad ottenere il riesame di una situazione inoppugnabile»10.

7 D.M. 11 febbraio 1997, art. 1, comma 2. 8 Cons. di Stato, sez. V, 21 gennaio 1997, n. 74, in Cons. Stato, 1997, I, 62. 9 Cass., 27 marzo 2007, n. 7388. 10 Così Cons. di Stato, sez. IV, 12 maggio 2006, n. 2661, che aggiunge: «la pubblica amministrazione resta libera di verificare, nell’esercizio del discrezionale potere di autotutela spet-

6.2 Anche con riguardo al diniego di autotutela in materia tributaria la giurisprudenza ha affermato che il potere degli Uffici dell’amministrazione finanziaria di procedere all’annullamento (totale o parziale) dei propri atti riconosciuti illegittimi o privi di fondamento «costituisce una facoltà discrezionale il cui mancato esercizio non può essere sindacato nel giudizio di impugnazione dell’atto»11. Sembra però plausibile una conclusione diversa. Il T.A.R. Toscana, in materia tributaria, ha osservato che: - accanto alla classica forma di autotutela spontanea (art. 1, D.M. 37/97) è stata prevista espressamente un’autotutela su istanza di parte (art. 5, D.M. 37/97); - tali previsioni normative, unite al potere sostitutivo attribuito all’Ufficio gerarchicamente sovraordinato, conducono a ritenere che, almeno in caso d’istanza di parte, l’amministrazione non goda dell’assoluta discrezionalità che può vantare quando procede in via spontanea, ma sia tenuta a concludere il procedimento pronunciandosi in modo espresso sull’istanza del privato. In effetti, osserva il giudice toscano, sarebbe incoerente sul piano ermeneutico un sistema in cui sia previsto un atto formale di iniziativa, sia previsto che l’atto deve essere portato a conoscenza dell’organo competente a decidere, sia previsto infine che l’eventuale errore sulla competenza deve essere oggetto di rettifica d’ufficio comunicata al privato, e, nonostante tutto ciò, l’amministrazione possa – a suo insindacabile giudizio e al di fuori di ogni controllo giurisdizionale – astenersi dal prendere in considerazione l’istanza. In conclusione, ha ritenuto il T.A.R. Toscana che, «mentre per l’autotutela spontanea l’amministrazione continua ad essere assolutamente libera di rivedere o meno i propri atti illegittimi senza che a ciò corrisponda alcuna posizione tutelabile del privato, per l’autotutela ad istanza di parte, il solo fatto di averla prevista e disciplinata conduce inevitabilmente alla conclusione che l’amministrazione in questo caso non possa esimersi dal decidere sulla medesima».

tantele, se l’inoppugnabilità dei propri atti meriti o no di essere superata da successive valutazioni, che tengano conto del decorso del tempo, delle esigenze di certezza dei rapporti giuridici e della necessità di improntare l’azione amministrativa al principio costituzionale del buon andamento, del quale costituiscono logici ed indefettibili corollari l’imparzia-

lità, la trasparenza e la parità di trattamento di situazioni analoghe». 11 Cass., sez. trib., 4 febbraio 2005, n. 2305. Nello stesso senso, Cass., sez. trib., 9 ottobre 2000, n. 13412, in Riv. Dir. Trib., 2001, II, 464; Cass., sez. trib., 5 febbraio 2002, n. 1547, in Finanza loc., 2002, 1369.


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È stato così riconosciuto al privato un interesse legittimo di tipo cd. pretensivo, e a contenuto procedimentale, a che l’istanza venga esaminata e decisa alla luce della sussistenza di quei presupposti che il legislatore, sia pure non tassativamente, ha elencato nella norma regolamentare (art. 2, D.M. 37/97). A ciò dev’essere aggiunto che la presa in considerazione dell’istanza è doverosa in tutte le ipotesi in cui l’autotutela è ammessa, e, quindi, anche in caso di autotutela relativa ad atti definitivi. 6.3 In sintesi. La domanda di autotutela genera il dovere di esaminare e rispondere. Il rifiuto espresso – come già notato retro – è atto autonomamente impugnabile, in quanto atto impositivo. Il silenzio non è impugnabile di per sé, ma solo impugnando un atto successivo. Ad esempio, se si chiede l’annullamento di un avviso di accertamento e l’amministrazione non risponde ed iscrive a ruolo, si può impugnare il ruolo adducendo come motivo l’omessa risposta alla domanda di autotutela. La sentenza che accoglie il ricorso deve limitarsi ad accertare la violazione del dovere di riesame, senza nulla dire sulla legittimità dell’atto da rimuovere. Come afferma il T.A.R. Toscana: «in caso di rifiuto di provvedere o anche di semplice inerzia dell’amministrazione, il giudizio e la pronuncia avranno ad oggetto la declaratoria dell’obbligo di provvedere». E null’altro. 6.4 Con la sentenza 27 marzo 2007, n. 7738 (rel. Altieri), le sezioni unite della Cassazione hanno riconosciuto al giudice tributario il potere di sindacare «non solo l’esistenza dell’obbligazione tributaria (ove l’atto di esercizio del potere di autotutela contenga una tale verifica), ma prima di tutto il corretto esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione, nei limiti e nei modi in cui l’esercizio di tale potere può essere suscettibile di controllo giurisdizionale». La Corte delinea tre ipotesi. La prima è quella di un diniego esplicito di annullamento, senza alcuna statuizione sulla fondatezza della pretesa tributaria: in tal caso il giudice tributario (adito con impugnazione del rifiuto) può sindacare solo la legittimità del rifiuto di autotutela, senza indagare sull’atto impositivo, cui si riferisce l’istanza di autotutela. Scrive la Corte che «nel giudizio instaurato contro il mero, ed esplicito, rifiuto di esercizio dell’autotutela può esercitarsi un sindacato – nelle forme ammesse sugli atti discrezionali – soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza delle pretesa tributaria, sindacato che costituirebbe un’indebita sostituzione dal giudice nell’attività amministrativa».

6.5 La seconda ipotesi è quella di un rifiuto esplicito che si fondi sulla sussistenza del credito fiscale. In tale ipotesi il giudice tributario potrebbe pronunciarsi sul rapporto d’imposta, donde l’obbligo per l’amministrazione (attivabile con giudizio di ottemperanza) di adeguarsi al deciso. Si legge nella sentenza: «Ove l’atto di rifiuto dell’annullamento d’ufficio contenga una conferma della fondatezza della pretesa tributaria, e tale fondatezza sia esclusa dal giudice, l’amministrazione finanziaria dovrà adeguarsi a tale pronuncia. In difetto potrà essere esperito il rimedio del ricorso in ottemperanza di cui all’art. 70 del D.Lgs. n. 546 del 1992, con l’avvertenza che tale norma, a differenza di quanto previsto per l’analogo rimedio dinanzi al giudice amministrativo ex art. 27, n. 4, del Testo unico sul Consiglio di Stato (R.D. 26 giugno 1924, n. 1054), non attribuisce alle Commissioni tributarie una giurisdizione estesa al merito». Sorgono qui delle perplessità. L’atto di rifiuto, che confermi un precedente avviso di accertamento definitivo, non può essere impugnato per vizi che attengono all’atto confermato. Non può dunque essere ipotizzata una sentenza che, accogliendo l’impugnazione del rifiuto di autotutela, si pronunci sui vizi dell’atto impositivo definitivo (che è atto diverso da quello impugnato). Se il giudice tributario, in sede di impugnazione del diniego di autotutela, dovesse pronunciarsi sul rapporto di imposta, la pronuncia potrebbe eliminare il diniego, ma non l’atto impositivo. Oggetto di impugnazione non è l’atto originario, ma il nuovo atto, frutto di un nuovo procedimento; e il giudice può annullare l’atto impugnato, non l’atto originario. 6.6 Il terzo caso è quello del silenzio. Scrive la Corte di Cassazione che «Il carattere discrezionale del ricorso all’autotutela comporta, altresì, l’inapplicabilità dell’istituto del silenzio-rifiuto, non esistendo, all’epoca dell’atto impugnato, alcuna previsione normativa specifica in materia». In tema di silenzio, la conclusione negativa della Cassazione può essere disattesa, aderendo a quanto ritenuto dal T.A.R. Toscana. L’articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, prevede che «Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la pubblica amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso». Ne deriva che, decorso il termine entro cui il procedimento dev’essere obbligatoriamente concluso, si forma il silenzio previsto dall’art. 2 della legge n.


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241 del 1990. E ciò giustifica la tesi secondo cui la posizione giuridica del contribuente è una posizione di interesse legittimo cd. pretensivo. L’interesse legittimo pretensivo è il riflesso delle norme che impongono all’amministrazione di esaminare la domanda di autotutela e di dare ad essa risposta motivata (sul punto vedi, retro, T.A.R. Toscana). 7. Forme di tutela 7.1 Di fronte al diniego espresso di autotutela, il giudice tributario può annullare il diniego, non può annullare l’atto impositivo originario. Può annullare il diniego, come afferma la sentenza (citata) delle sezioni unite 27 marzo 2007, n. 7738, esercitando un sindacato – nelle forme ammesse sugli atti discrezionali – soltanto sulla legittimità del rifiuto; non può certo annullare l’atto originario. Può far rinascere il dovere di riesame e di pronuncia. Di fronte al silenzio, il giudice può solo accertare l’obbligo di riesame e di pronuncia e la violazione di tale obbligo. In conclusione, la tutela non è mai pienamente satisfattiva, perché il contribuente è titolare di una situazione soggettiva di tipo solo procedimentale. 7.2 Non è producente neppure richiamare, per il rifiuto di autotutela – come norma applicabile in via analogica nel processo tributario – l’art. 2 della legge n. 241 del 1990, secondo cui, in caso di silenzio, «Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza». L’art. 2 della legge n. 241 del 1990 (nel testo novellato prima dall’art. 2, L. 11 febbraio 2005, n. 15 e successivamente dall’art. 3, comma 6-bis, L. 14 maggio 2005, n. 80, che ha convertito, con modificazioni, il D.L. 14 marzo 2005, n. 35), prevede che il giudice amministrativo possa pronunciarsi sulla fondatezza della domanda (una possibilità esclusa – in base alla legislazione previgente – dalla prevalente giurisprudenza, che riteneva il rito medesimo finalizzato alla mera declaratoria dell’obbligo per l’amministrazione di provvedere), ma – secondo la giurisprudenza dei T.A.R. – questa facoltà può essere esercitata solo nei limiti consentiti dal principio della separazione dei poteri, ovvero limitatamente ad atti vincolati, cui non sia riconducibile alcun margine di discrezionalità, tanto amministrativa quanto tecnica12. Dato il carattere discrezionale del riesame degli at-

12 T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 31 gennaio 2007, n. 795; T.A.R. Sarde-

ti tributari, anche definitivi, occorre ritenere che, a seguito di una istanza di autotutela e della impugnazione del contribuente, il giudizio possa condurre «solo ad una declaratoria dell’obbligo di adempimento in termini di una definizione espressa della citata istanza, ma non può estendersi ad una verifica della fondatezza della pretesa sostanziale, cioè all’esame dell’atto originario e all’annullamento dell’atto originario»13. Annullare o sostituire l’atto originario resta una prerogativa riservata alla discrezionalità dell’amministrazione. 7.3 Un risultato pienamente satisfattivo potrebbe essere conseguito solo se l’amministrazione fosse obbligata a rimuovere l’atto impositivo definitivo. Anche in tal caso, peraltro, il giudice tributario, cui sia rivolto un ricorso contro la mancata autotutela, può annullare il diniego di autotutela, o dichiarare illegittima l’inerzia, ma non può annullare l’atto originario, perché non può emettere, sostituendosi all’amministrazione, il provvedimento di autotutela. Può però, affermando l’obbligo dell’annullamento del provvedimento impositivo definitivo, annullare il diniego, o dichiarare illegittima l’inerzia, dando così fondamento ad un giudizio di ottemperanza. In conclusione, dunque spetta all’amministrazione annullare l’atto impositivo originario; in caso di inadempimento, lo strumento possibile di tutela è il giudizio di ottemperanza, dopo che è stata ottenuta una sentenza che dichiara l’obbligo dell’amministrazione di rimuovere l’atto impositivo. Di fronte all’obbligo dell’amministrazione di riesaminare e, se del caso, rimuovere un atto, la posizione del contribuente è una posizione di interesse legittimo pretensivo, a contenuto sostanziale, tutelabile dinanzi al giudice tributario. 8. L’obbligo di riesame derivante dal giudicato penale 8.1 Il giudicato penale non vincola il giudice tributario. Vincola invece l’amministrazione finanziaria, che deve osservarlo ed eseguirlo, pur quando gli effetti del giudicato ricadano su un provvedimento impositivo definitivo. Le pubbliche amministrazioni devono conformarsi al giudicato dei tribunali, in forza del precetto generale desumibile dall’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. Che l’amministrazione finanziaria debba ottemperare al giudicato penale è affermato con net-

gna, Cagliari, sez. II, 24 novembre 2006, n. 2450.

13 T.A.R. Lazio, Latina, 27 ottobre 2006, n. 1379.


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tezza dalla Corte costituzionale nella sentenza 23 marzo 1992, n. 12014 e nella sentenza 23 luglio 1997, n. 26415. In quest’ultima sentenza la Consulta riafferma il principio di ordine generale secondo cui l’amministrazione finanziaria, in presenza di un giudicato penale, «deve comunque uniformarsi, in sede di autotutela, nell’adozione dei provvedimenti ivi previsti». Soggiunge la Corte che «l’adeguamento della fattispecie tributaria all’accertamento dei fatti operato dal giudice penale va compiuto, dietro eventuale sollecitazione del contribuente, senza soggiacere al limite temporale della scadenza del termine per l’accertamento tributario». Ritiene il giudice costituzionale che il limite temporale, secondo una lettura della norma conforme a Costituzione, «è da ritenersi vincolante in modo assoluto soltanto con riguardo all’attività degli organi fiscali diretta a modificare in peius la posizione del contribuente. Sicché lo svolgimento di tale attività conformativa avviene a prescindere dal momento in cui si forma il giudicato. Né assume rilevanza la mancata partecipazione dell’amministrazione al giudizio penale, stante il diverso ambito decisionale di questo rispetto al procedimento amministrativo». 9. L’obbligo di riesame derivante da atti comunitari 9.1 L’obbligo di riesaminare (e rimuovere) un atto impositivo definitivo, non impugnato, o impugnato con ricorso respinto con sentenza passata in giudicato, può derivare da atti giuridici di diritto comunitario. In linea di principio, nella giurisprudenza comunitaria, il giudicato è considerato intangibile. Nel caso Eco Swiss16, la Corte di Giustizia ha affermato che le norme comunitarie non impongono al giudice nazionale di disapplicare le norme interne in tema di giudicato. La stabilità del giudicato come principio generale degli ordinamenti nazionali e del diritto comunitario è ribadita nella sentenza Köbler17, nella quale si afferma che «al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso di-

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Foro It., 1993, I, 1060. Foro It., 1998, I, 3684. Sent. 1 giugno 1999, causa C-126/97. Corte di Giustizia, 30 settembre

sponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione» (punto 38). Anche nel caso Kapferer18 la Corte, ribadendo l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste nell’ordinamento giuridico comunitario e negli ordinamenti nazionali, ha escluso che i giudici nazionali debbano disapplicare le norme processuali interne allo scopo di riesaminare ed annullare una sentenza passata in giudicato, pur se risulti che la sentenza viola il diritto comunitario. 9.2 Vi sono però due pronunce che hanno introdotto dei distinguo. Si è ritenuto cioè che vi sono casi in cui può essere necessario riesaminare e rimuovere atti amministrativi definivi, per tener conto di obblighi derivanti dal diritto comunitario. Il caso concreto esaminato dalla Corte è così sintetizzato nella sentenza Kühne19: «In primo luogo, il diritto nazionale riconosce all’organo amministrativo la possibilità di ritornare sulla decisione in discussione nella causa principale, divenuta definitiva. In secondo luogo, tale decisione ha acquisito il suo carattere definitivo solo in seguito alla sentenza di un giudice nazionale le cui decisioni non sono suscettibili di un ricorso giurisdizionale. In terzo luogo, tale sentenza era fondata su un’interpretazione del diritto comunitario che, alla luce di una sentenza successiva della Corte, si rivelava errata ed era stata adottata senza che la Corte stessa fosse adita in via pregiudiziale, alle condizioni previste all’art. 234, n. 3, CE. In quarto luogo, l’interessata si è rivolta all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stata informata di tale sentenza della Corte». Data tale situazione, la sentenza conclude enunciando il seguente dispositivo: «Il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 CE impone ad un organo amministrativo, investito di una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte qualora - disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; - la decisione in questione sia diventata definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; - tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza

2003, causa C-224/01, in Revue trimestrielle de droit européen, 2004, 283 ss. 18 Sent. 16 marzo 2006, causa C234/04, in Giur. It., 2007, 1089.

19 Punto 26 della sentenza 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz NV e Productschap voor Pluimvee en Eieren.


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della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte fosse adita a titolo pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234, n. 3, CE, e - l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza». Infine, la disapplicabilità del giudicato per contrasto con atti o norme di diritto comunitario (al pari di ogni altro norma interna) è stata enunciata in modo aperto nella recente sentenza Lucchini20, il cui dispositivo recita: «Il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del Codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione delle Comunità europee divenuta definitiva». Era accaduto che una società italiana (Lucchini) aveva ottenuto una sentenza, passata in giudicato,

che riconosceva il suo diritto a certi contributi; la sentenza della Corte di Giustizia afferma in sostanza che il giudicato di diritto interno non impedisce il recupero dell’aiuto di Stato. 9.3 Si trae dalle ultime due sentenze, in tema di autotutela tributaria, il principio secondo cui, se un atto d’imposizione è contrario al diritto comunitario, l’autorità fiscale ha il dovere di annullarlo, anche se si tratta di atto amministrativo divenuto definitivo per mancata impugnazione o perché il giudice si è pronunciato su di esso rigettando il ricorso con sentenza passata in giudicato. Nel caso in cui un ricorso contro un atto impositivo sia stato respinto, l’autorità finanziaria conserva il potere di riesaminare l’atto divenuto definitivo. Secondo il diritto interno, può rimuoverlo per motivi non esaminati nella sentenza. La Corte di Giustizia, nel caso Lucchini, va oltre, perché ritiene necessaria la rimozione anche in contrasto con motivi esaminati dalla sentenza, se si tratti di motivi che hanno accolto una interpretazione di norme comunitarie non compatibile con quanto stabilito in via definitiva dalla Commissione europea (o dai giudici comunitari).

20 Corte di Giustizia, grande sezione, 18 luglio 2007, in causa C-119/05, Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato contro Lucchini S.p.A.


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IL DELICATO RAPPORTO TRA AUTORITÀ E CONSENSO IN AMBITO TRIBUTARIO: IL CASO DELLA TRANSAZIONE FISCALE* di Loris Tosi 1. L’indisponibilità dell’obbligazione tributaria nella recente evoluzione normativa - 2. L’art. 182-ter della legge fallimentare - 3. L’ambito oggettivo di applicazione della transazione fiscale: i crediti privilegiati e i crediti chirografari - 4. Segue: L’ambito oggettivo di applicazione della transazione fiscale: le tipologie di tributo transabili - 5. La misura della “transazione” dei tributi - 6. Gli aspetti procedurali della transazione fiscale: l’avvio della procedura - 7. La difficile conciliabilità della transazione fiscale con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: aspetti sostanziali - 8. La difficile conciliabilità della transazione fiscale con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: aspetti procedurali - 9. Conclusioni

1. L’indisponibilità dell’obbligazione tributaria nella recente evoluzione normativa Nel mio intervento analizzerò il delicato rapporto tra autorità e consenso in ambito tributario attraverso l’approfondimento di quello che rappresenta un “caso limite”, cioè la «transazione fiscale», regolata dall’art. 182-ter del R.D. n. 267 del 1942.1 Si tratta di un istituto di recente introduzione e che, quantomeno sino ad oggi, ha trovato un’applicazione decisamente scarsa, ma le cui peculiari caratteristiche consentiranno di affrontare il tema, di ben più ampio respiro, del rapporto che intercorre tra autorità e consenso nel diritto amministrativo e tributario.

* Testo elaborato sulla base della relazione tenuta nell’ambito del III Incontro di studio fra amministrativisti e tributaristi “Azione amministrativa ed azione impositiva tra autorità e consenso. Strumenti e tecniche di tutela dell’amministrato e del contribuente”, svoltosi in Pescara il 5 ottobre 2007, su iniziativa del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Chieti-Pescara. 1 D’ora in poi L.F. 2 Così FALSITTA, Manuale di diritto tri-

L’argomento affrontato attraversa trasversalmente diversi istituti del diritto amministrativo, ma in ambito tributario si amplifica in modo rilevante per effetto dei corollari che discendono dal principio di capacità contributiva, cristallizzato nel primo comma dell’art. 53 Cost. e in base al quale tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Ci si riferisce, in particolare, al corollario della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, che vorrebbe che il credito tributario non possa essere oggetto di atti di disposizione – rinunce, sconti, ecc. – da parte del titolare della potestà impositiva, che è tenuto ad applicare in modo sistematico ed imparziale le norme tributarie. E non si tratta di una questione di poco conto, se si considera che la migliore dottrina ha affermato che la irrinunciabilità della potestà di imposizione costituisce un «principio cardine del diritto tributario»2. L’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, peraltro, per essere davvero in linea con la Carta costituzionale, non dovrebbe rappresentare solo una regola “sulla carta”, ma dovrebbe tradursi anche in un effettivo incasso di imposte commisurate alla forza economica del contribuente, computate sulla base delle regole di volta in volta fissate dal legislatore. Il tema di cui si tratta è divenuto via via più complesso negli ultimi anni, per effetto dell’introduzione e del sempre maggior impiego dell’accertamento con adesione e della conciliazione giudiziale, le cui caratteristiche delineano istituti di definizione transattiva delle controversie3.

butario. Parte generale, Padova, 2005, 318, il quale evidenzia che il divieto di disporre del credito tributario discenda, oltre che dagli artt. 2, 3, 53 Cost., anche dal diritto comunitario, in quanto «gli sconti e abbuoni, ancorché derivanti da un singolo atto negoziale (una rinuncia, una transazione), creano distorsioni nella concorrenza e avvantaggiano ingiustamente, con un vero e proprio “aiuto di Stato”, il soggetto beneficiario». Sull’indisponibilità dei crediti tribu-

tari si segnala VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario. Contributo allo studio dell’accertamento con adesione e della conciliazione giudiziale, Milano, 2001, cui si rimanda per ulteriori riferimento bibliografici. 3 Sul punto v. BATISTONI FERRARA, Conciliazione giudiziale (Dir. trib.), in Enc. Dir., Aggiornamento, Milano, 1998, II, 233 ss. nonché TOSI, La conciliazione giudiziale, in Il processo tributario, a cura di Tesauro, Torino, 1998, 911.


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Va però rilevato che si tratta di istituti: - che incidono su una pretesa erariale che non è ancora definitiva, cioè prima dell’impugnazione dell’avviso di accertamento (nel caso dell’accertamento con adesione) o nel corso del giudizio avanti la Commissione tributaria provinciale (nel caso della conciliazione giudiziale); - che trovano la più ampia diffusione nell’ambito di controversie in cui sono le questioni di fatto (e non quelle di puro diritto) ad essere dibattute o in cui è stato fatto impiego di medie di settore, coefficienti presuntivi, ecc.; - che comunque mantengono un automatismo per quel che riguarda la determinazione delle sanzioni4, degli interessi e della tempistica di pagamento5. Tant’è che parte della dottrina ritiene che l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale non si pongano in contrasto con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria6 ancorché, a dire il vero, nel diritto vivente si registrino casi in cui il comportamento tenuto dagli Uffici finanziari consiste nell’impiego di detti strumenti con finalità sostanzialmente transattive. Analoghe considerazioni, peraltro, possono essere formulate con riferimento ad un altro istituto di recente introduzione, il ruling di standard internazionale, disciplinato dall’art. 8 del D.L. n. 269 del 2003. Si tratta, come noto, di un istituto finalizzato a condurre l’amministrazione finanziaria e il contribuente alla stipula di un «accordo» con «principale riferimento al regime dei prezzi di trasferimento, degli interessi, dei dividendi e delle royalties»7. Ebbene, anche in questo caso l’accordo tra Agenzia delle Entrate e contribuente dovrebbe trovare un limite nel rispetto delle specifiche disposizioni legislative riguardanti le imprese che operano su scala internazionale e consistere – nell’ottica del-

4 Come noto, infatti, a norma degli artt. 2, comma 5, e 3, comma 3, del D.Lgs. n. 218 del 1997, in caso di definizione con adesione le sanzioni per le violazioni concernenti i tributi oggetto dell’adesione si applicano nella misura di un quarto del minimo. Similmente, ai sensi dell’art. 48, comma 6, del D.Lgs. n. 546 del 1992, in caso di conciliazione le sanzioni trovano applicazione nella misura di un terzo delle somme irrogabili in rapporto dell’ammontare del tributo risultante dalla conciliazione medesima. 5 La possibilità di versamento rateale delle somme oggetto di adesione o conciliazione è disciplinata, rispetti-

la semplificazione e della correttezza e certezza dei rapporti con il fisco – nella definizione delle concrete modalità attuative di dette norme al singolo caso, spesso complesse da definire8. Il tutto, quindi, compatibilmente con il richiamato principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria. E ancora, a conferma del fatto che il trend legislativo non è sistematicamente ispirato al principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, va messo in luce il continuo impiego di strumenti accertativi o pseudo-accertativi che sostituiscono ai dati dichiarati dal contribuente valori forfettizzati9. Ci si riferisce, ad esempio, alla normativa in materia di studi di settore o di società di comodo di cui all’art. 30 della L. n. 724 del 1994, in cui i redditi dichiarati dal contribuente – al ricorrere di determinati presupposti – vengono sostituiti da quelli fissati dal legislatore mediante indici che sono il frutto, non di stime o approfondimenti economico-aziendali, bensì di vere e proprie scelte di politica di bilancio, rese necessarie da obiettivi di pura cassa. Ciò posto, e vengo così al tema centrale del mio intervento, ritengo che il recente inserimento della norma sulla transazione fiscale offra lo spunto per verificare nuovamente il grado di attualità e di effettiva applicazione del principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria nel nostro ordinamento. 2. L’art. 182-ter della legge fallimentare Nell’ambito della riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali realizzata con il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 – attuativo della delega contenuta nell’art. 1, comma 5, della L. 14 maggio 2005, n. 80 – è stato introdotto l’art. 182ter nel capo V del titolo III della L.F.

vamente, dagli artt. 8 del D.Lgs. n. 218 del 1997 e 48, comma 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992. Tali disposizioni stabiliscono che quanto dovuto possa essere versato ratealmente in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo o in un massimo di dodici rate trimestrali se le somme dovute superano la soglia di euro 51.645,69, con obbligo di prestazione di idonea garanzia mediante polizza fideiussoria o fideiussione bancaria sull’importo delle rate successive alla prima per un periodo pari a quello di rateazione, aumentato di un anno. 6 Per tutti si veda FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2005, 319.

7 Sull’istituto del ruling v. TOSI-TOMASSINI-LUPI, Il ruling di standard internazionale, in Dialoghi, 2004, 489; GAFFURI, Il ruling internazionale, in Rass. Trib., 2004, 488; ADONNINO, Considerazioni in tema di ruling internazionale, in Riv. Dir. Trib., 2004, IV, 57. 8 Ci si riferisce, in particolare, agli artt. 167 e 168 del T.U.I.R., in tema di Cfc, gli artt. 87 e 89 del T.U.I.R., concernenti le plusvalenze e i dividendi, all’art. 110, commi 10 e 11, del T.U.I.R., in tema di componenti negativi. 9 Per il cui approfondimento mi permetto di rinviare a TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999.


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Già il nome assegnato all’istituto dalla rubrica dell’art. 182-ter, «transazione fiscale», è assai significativo ai fini che qui interessano, considerato che nel diritto tributario non è certo usuale parlare di “transazioni”. La “transazione”, infatti, è un istituto tipico e ampiamente impiegato nell’ambito del diritto civile ed è definita dall’art. 1965 del Codice civile come quel contratto con cui le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro10. Come si è accennato in precedenza, il credito tributario, per definizione, dovrebbe essere non disponibile e non rinunciabile e, conseguentemente, non negoziabile con modalità transattive. Ma l’art. 182-ter prevede che l’imprenditore, nell’ambito della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo11: - possa proporre «il pagamento, anche parziale, dei tributi amministrati dalle Agenzie fiscali e dei relativi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea»; - che la proposta possa prevedere la dilazione del pagamento; - che se il credito tributario è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possano essere «inferiori a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle Agenzie fiscali»; - che se il credito tributario ha natura chirografaria, il trattamento non possa essere «differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari». È stato introdotto, dunque, un istituto che dovrebbe consentire agli imprenditori in stato di crisi che accedono alla procedura di concordato preventivo di “accordarsi” con l’amministrazione finanziaria per definire in via bonaria la propria posizione fiscale, concordando l’entità della pretesa – a titolo di imposte, sanzioni e interessi – nonché le relative modalità di pagamento e garanzie. Come emergerà nel prosieguo, non vi è dubbio che la formulazione letterale della disposizione testé citata sia decisamente infelice.

10 Per un primo riferimento al tema della transazione in ambito civilistico, per tutti, v. MOSCARINI-CORBO, Transazione (Dir. civ.), in Enc. Giur., Roma, 1994, XXXI; RUPERTO, Gli atti con funzione transattiva, Milano, 2002; FRANZONI, La transazione, Pa-

Basti pensare che: a) in primo luogo, il richiamo ai «tributi amministrati dalle Agenzie fiscali e dei relativi accessori» e ai «tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea» non è certo in grado di definire con precisione quali tributi possano essere oggetto di transazione e quali, invece, non lo possano essere; b) in secondo luogo, nella formulazione della L.F. in vigore fino al 31 dicembre 2007, era tutt’altro che pacifico che, nell’ambito del concordato preventivo, i crediti privilegiati potessero essere soddisfatti in modo parziale. E ciò era difficilmente conciliabile con la previsione, contenuta nell’art. 182-ter, secondo cui la percentuale di soddisfazione dei crediti oggetto della transazione fiscale non poteva essere inferiore a quella offerta «ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle Agenzie fiscali» (i cui crediti, come noto, sono di fatto sistematicamente privilegiati); c) in terzo luogo, l’art. 182-ter non chiarisce la portata e le modalità dell’intervento dell’Agenzia delle Entrate (e, per quanto di sua competenza, del concessionario) nell’ambito della procedura di concordato preventivo, lasciando spazio all’ipotesi, recentemente condivisa da un’isolata pronuncia giurisprudenziale12, che il concordato preventivo e la transazione fiscale si possano perfezionare in assenza di uno specifico provvedimento dell’amministrazione finanziaria e, addirittura, contro la volontà di quest’ultima. In ogni caso, ai fini che qui rilevano, quand’anche ai tre punti sopra elencati venisse data una risposta restrittiva, resta il fatto che l’art. 182-ter si configura come un istituto che consente di “transigere” l’ammontare di taluni tributi e degli accessori, definendone altresì le modalità di pagamento e le relative garanzie. Il tutto in modo ben diverso da quanto accade nell’ambito di istituti quali l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale, in cui vi è la possibilità di definire esclusivamente tributi, nel primo caso, accertati e ancora contestabili giudizialmente o, nel secondo caso, oggetto di una controversia avanti la Commissione tributaria provinciale, con modalità, tempistica e garanzie predeterminate dal legislatore.

dova, 2001. 11 E, a decorrere dall’1 gennaio 2008, anche nell’ambito delle trattative che precedono la stipula dell’accordo di ristrutturazione di cui all’articolo 182-bis. Sull’applicazione della transazione fiscale nell’ambito del-

l’accordo di ristrutturazione v. DEL FEDERICO, Profili processuali della transazione fiscale, in Corr. Trib., 2007, 3657. 12 Si veda il decreto di omologazione del Tribunale di Venezia, 27 febbraio 2007, n. 1086, inedito.


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Il che impone di verificare se l’art. 182-ter sia compatibile con il principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria e, conseguentemente, con l’art. 53 della Carta fondamentale. Compatibilità che, come ci si appresta ad illustrare, è resa ancor più problematica alla luce dell’esigenza di fornire una risposta estensiva ai tre punti sopra elencati. 3. L’ambito oggettivo di applicazione della transazione fiscale: i crediti privilegiati e i crediti chirografari L’art. 182-ter prende in considerazione i «tributi amministrati dalle Agenzie fiscali e dei relativi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea». Per comprendere l’ambito oggettivo di applicazione dell’istituto in esame – e, conseguentemente, l’impatto dell’istituto rispetto al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria – si rende necessario, in primo luogo, determinare cosa il legislatore abbia inteso stabilire adottando la non certo chiara locuzione «limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria anche se non iscritti a ruolo». Dalla formulazione della norma non sembra potersi dubitare che la transazione possa avere ad oggetto i crediti tributari chirografari, indipendentemente dalla loro avvenuta iscrizione a ruolo, mentre molto meno chiara è la transabilità dei crediti assistiti da privilegio. A questo ultimo proposito, una parte della dottrina ritiene che i crediti tributari privilegiati sarebbero transabili esclusivamente nel caso in cui siano stati iscritti a ruolo13. Resterebbero perciò esclusi i soli tributi assistiti da privilegio ma non ancora iscritti a ruolo. Questa soluzione, tuttavia, per quanto non sia incompatibile con l’oscura formulazione letterale dell’art. 182-ter, è in parte insoddisfacente in

13 MARINI, Art. 182-ter. Transazione fiscale, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Nigro-Sandulli, Torino, 2006, II, 1119. 14 In tal senso, peraltro, pare deporre altresì la relazione illustrativa al decreto di riforma della L.F., che riguardo alla transazione fiscale si limita ad evidenziare che «il debitore può proporre il pagamento anche parziale, dei tributi amministrati dalle Agenzie fiscali e dei relativi accessori, anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione dei tributi costituenti risorse

quanto, negando la transabilità dei tributi assistiti da privilegio (cioè, sostanzialmente, la totalità dei tributi) per la quota non ancora iscritta a ruolo, porterebbe ad escludere la possibilità di definire transattivamente, ad esempio, i tributi contestati con avvisi di accertamento non ancora impugnati dal contribuente e quelli relativi alle liti pendenti innanzi alle Commissioni tributarie (per la parte non ancora iscritta a ruolo). Circostanza, questa, che si scontra con la ratio dell’istituto in esame, che dovrebbe essere finalizzato a consentire alle imprese in stato di crisi di definire le proprie pendenze con l’erario e di tornare in bonis. Dovrebbe perciò superarsi l’oscuro dato letterale dell’art. 182-ter e propendere per la soluzione secondo cui anche i tributi assistiti da privilegio non iscritti a ruolo possano essere oggetto di transazione fiscale14. 4. Segue: L’ambito oggettivo di applicazione della transazione fiscale: le tipologie di tributo transabili Passiamo alle specifiche tipologie di tributo che possono essere oggetto di transazione fiscale. Il richiamo, operato dall’art. 182-ter, ai «tributi amministrati dalle Agenzie fiscali [...] ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea» porta a considerare transabili l’Ires, l’Irpef, le accise, l’imposta di bollo, l’imposta di registro, le imposte ipotecarie e catastali, ecc. Dovrebbe essere transabile altresì l’Irap, considerato che questa viene amministrata dall’Agenzia delle Entrate: tale conclusione dovrebbe valere anche quando saranno attuate le disposizioni dell’art. 1, commi 43 ss., della legge finanziaria per il 2008, che dovrebbero portare a configurare l’Irap come un vero e proprio tributo regionale, le cui funzioni di accertamento, liquidazione e riscossione, tuttavia, saranno affidate all’Agenzia delle Entrate. Sono invece esclusi i tributi locali non amministrati dalle Agenzie fiscali, quali l’Ici, la Tarsu/Tia, la Tosap/Cosap, l’imposta sulle pubblicità e pub-

proprie dell’Unione europea» e che «se il credito tributario è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento, e le eventuali garanzie non possono essere inferiori a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica ed interessi economici omogenei a quelli delle Agenzie fiscali». Detta relazione, infine, precisa che «ove [...] il credito tributario sia chirografario, è previsto che il trattamento non possa essere differenziato rispetto a quello

degli altri creditori chirografari». Ebbene, dal testo della relazione sembrerebbe che non sia preclusa la possibilità di transigere i debiti tributari assistiti da privilegio, siano essi iscritti a ruolo o meno, e che l’unica limitazione sul punto sia rappresentata dalle relative modalità di pagamento (percentuali, tempistica e garanzie), che non possono essere peggiori rispetto a quelle offerte agli altri creditori «che hanno una posizione giuridica ed interessi economici omogenei a quelli delle Agenzie fiscali».


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bliche affissioni, ecc. Per effetto dell’espressa esclusione dei «tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea» non possono essere oggetto di transazione i dazi doganali di pertinenza comunitaria. Più complessa è la questione legata all’Iva: a ben vedere, pare che l’Iva possa essere transata. Ciò non solo perché la sua esclusione dai tributi definibili con la procedura di cui all’art. 182-ter depotenzierebbe sensibilmente lo strumento della transazione fiscale, contravvenendo così alla ratio dello stesso, ma anche perché, in base alla normativa comunitaria, l’Iva non dovrebbe rientrare in senso stretto nelle citate «risorse», ancorché gli Stati membri versino all’Unione europea somme commisurate agli imponibili Iva15. 5. La misura della “transazione” dei tributi Ma passiamo alla misura in cui i crediti oggetto della transazione fiscale possono essere definiti: questione che risulta problematica non solo nell’ambito della transazione fiscale bensì, più in generale, nel complesso della disciplina del concordato preventivo. Ora, dal dato normativo emerge che non vi sono vincoli o limiti quanto alla determinazione della percentuale in cui i crediti chirografari debbono essere soddisfatti. Si potrà perciò verificare la soddisfazione parziale (e sarà questa la regola) dei crediti tributari non assistiti da cause di prelazione. Più dubbia, di converso, era in passato la questione per quanto riguarda i crediti privilegiati, che, come vedremo, è stata oggi risolta a seguito del recente intervento normativo operato attraverso il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169.

15 La decisione del Consiglio 29 settembre 2000, n. 2000/597/CE, Euratom, in G.U.C.E. L 253 del 7 ottobre 2000, stabilisce che costituiscono «risorse proprie iscritte nel bilancio dell’Unione europea le entrate provenienti: a) dai prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, importi o elementi aggiuntivi ed altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni delle Comunità sugli scambi con Paesi terzi nell’ambito della politica agraria comune, nonché contributi ed altri dazi previsti nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero; b) dai dazi della tariffa doganale comune e da altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni delle Comunità sugli scambi con i Paesi

Una parte della dottrina, invero, ha inizialmente sollevato dubbi riguardo alla possibilità di proporre piani di concordato con previsione di pagamenti non integrali per i creditori muniti di cause di prelazione. Ciò, in particolare, valorizzando la previsione dell’art. 177, L.F. (nella versione in vigore fino al 31 dicembre 2007), in forza del quale, ai fini dell’approvazione del concordato «i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ancorché la garanzia sia contestata, non hanno diritto al voto se non rinunciano al diritto di prelazione». E nel sistema previgente, la giurisprudenza prevalente aveva affermato che l’ammissione al concordato preventivo postulasse l’integrale pagamento dei creditori privilegiati, anche sulla base della considerazione che questi ultimi non disponevano del diritto di voto16. La soluzione preferibile, tuttavia, è quella secondo cui nell’assetto normativo precedente alla novella apportata con il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, i creditori muniti di privilegio potessero essere soddisfatti anche parzialmente nell’ambito del concordato preventivo. Ciò non solo perché nessuna limitazione è stata posta sul punto dal legislatore. Sotto il profilo sistematico, invero, va rilevato che l’art. 124, comma 3, L.F., stabilisce che, nel concordato fallimentare, la proposta avanzata dall’imprenditore possa prevedere che i creditori muniti di diritto di prelazione non vengano soddisfatti integralmente, purché «il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di vendita, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile al ce-

terzi e dazi doganali sui prodotti rientranti nel trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio; c) dall’applicazione di un’aliquota uniforme, valida per tutti gli Stati membri, agli imponibili Iva armonizzati, determinati secondo regole comunitarie. L’imponibile da prendere in considerazione a tal fine è limitato al 50% del Pnl di ciascuno Stato membro, come stabilito al paragrafo 7; d) dall’applicazione di un’aliquota – che sarà fissata secondo la procedura di bilancio, tenuto conto di tutte le altre entrate – alla somma dei Pnl di tutti gli Stati membri». Mentre i dazi di cui alla lettera b) costituiscono vere e proprie «risorse proprie», risulta più difficile sostenere che l’Iva rappresenti una «risorsa

propria» in senso stretto, posto che, a ben vedere, all’Unione europea viene riversata una somma corrispondente all’applicazione di una determinata aliquota sugli imponibili Iva (che funge, cioè, da parametro per la determinazione di una risorsa). 16 V. le sentenze della Corte di Cassazione 6 settembre 1974, n. 2423, in banca dati Codice tributario, Il Sole 24 Ore e 26 novembre 1992, n. 12632, in Fall., 1993, 707, nonché, tra la giurisprudenza di merito, App. Roma, 12 marzo 2001, in Dir. Fall., 2002, II, 264; Trib. Firenze, 3 aprile 1996, in Giur. Comm., 1998, II, 427; Trib. Bologna, 21 giugno 1995, in Dir. Fall., 1996, II, 364; Trib. Genova, 10 gennaio 1991, in Giur. Comm., 1992, II, 516; Trib. Torino, 19 marzo 1990, in Dir. Fall., 1990, II, 1189.


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spite o al credito oggetto della garanzia indicato nella relazione giurata di un esperto o di un revisore contabile o di una società di revisione designati dal tribunale. Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può aver l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione». Vero è che nel concordato fallimentare, ai sensi dell’art. 127, L.F., «i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ancorché la garanzia sia contestata, dei quali la proposta di concordato prevede l’integrale pagamento, non hanno diritto al voto se non rinunciano al diritto di prelazione». Ma ciò potrebbe condurre a ritenere che anche nel concordato preventivo disciplinato dalla L.F. nel testo in vigore fino al 31 dicembre 2007 i creditori privilegiati non avessero diritto di voto nel solo caso di previsione di soddisfazione integrale dei loro crediti17. Inoltre, è proprio la disposizione sulla transazione fiscale che confermava esplicitamente la possibilità di soddisfare i crediti privilegiati, ivi inclusi quelli tributari, in misura parziale. L’unica condizione posta dal legislatore con riferimento a tali ultimi crediti, infatti, è che la «percentuale [...] di pagamento», nonché le relative garanzie e la tempistica fissata, non siano inferiori «a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica ed interessi economici omogenei a quelli delle Agenzie fiscali». Di conseguenza, o si riteneva priva di significato e di concreta efficacia l’indicazione, data dal legislatore nell’art. 182-ter, secondo cui i crediti tributari privilegiati non possono avere una percentuale di abbattimento inferiore a quella degli altri crediti privilegiati18; o si riconosceva che l’art. 182-ter confermava la tesi che anche i crediti privilegiati, nell’ambito del concordato preventivo, potessero (e possano) essere soddisfatti in modo parziale. In ogni caso, la descritta situazione di empasse normativo è stata superata dal legislatore. A decorrere dall’1 gennaio 2008, infatti, l’art. 160 della L.F. stabilisce espressamente che la proposta di concordato preventivo può prevedere che «i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il

17 In dottrina, sulla possibilità di presentare un piano di concordato che preveda il pagamento parziale dei creditori con cause di prelazione e la contestuale assegnazione a questi ultimi del diritto di voto, v. TEDESCHI, Il concordato preventivo diventa più ampio e accessibile, in Dir. e Prat. Fall., 2006, 2, 25. 18 E, come noto, il cd. «principio di con-

piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d. Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di relazione». Anche l’art. 177 è stato modificato e prevede ora che «i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ancorché la garanzia sia contestata, dei quali la proposta di concordato prevede l’integrale pagamento, non hanno diritto al voto se non rinunciano in tutto o in parte al diritto di prelazione». La soluzione adottata deve essere vista, da un punto di vista operativo, con favore, posto che, portando ad una potenziale riduzione della pretesa erariale, può produrre benefici per gli altri creditori e incrementare le probabilità che l’impresa in crisi torni in bonis. Il tutto in un quadro normativo che è stato oggetto di critiche a più riprese, in quanto le pretese dell’amministrazione finanziaria verso società sottoposte a procedure concorsuali – a titolo di imposte, sanzioni ed interessi – portavano a sensibili contrazioni, se non al totale svuotamento, del patrimonio a disposizione dei creditori dell’imprenditore sottoposto alla procedura. 6. Gli aspetti procedurali della transazione fiscale: l’avvio della procedura Come si evince dall’art. 182-ter, il presupposto base, la cui ricorrenza è necessaria al fine di accedere alla transazione fiscale, è la formulazione del piano di cui all’art. 160, L.F. e, dunque, la domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo. L’avvio della procedura di transazione fiscale coincide con l’avvio della procedura di concordato preventivo, poiché la proposta di transazione deve, per l’appunto, essere presentata unitamente alla domanda di concordato19.

servazione» – canone ermeneutico di interpretazione cristallizzato, in materia contrattuale, dall’art. 1367 c.c. – impone, nel dubbio interpretativo, di avallare il significato che possa consentire alla norma interpretata di produrre un qualche effetto, anziché quello che conduca detta norma ad essere improduttiva di effetti.

19 A seguito della riforma realizzata con il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 è stato previsto che il debitore possa effettuare la proposta di transazione fiscale anche nell’ambito delle trattative che precedono la stipula dell’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’articolo 182-bis della L.F. In tal caso, il novellato art. 182-ter stabilisce


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La proposta di transazione fiscale, quindi, deve essere sottoscritta dal debitore e depositata al Tribunale del luogo in cui l’impresa ha la propria sede principale, unitamente al ricorso di cui all’art. 161, L.F.20 Contestualmente al deposito presso il Tribunale, in base all’art. 182-ter, L.F., copia della domanda e della relativa documentazione deve essere presentata al competente concessionario della riscossione ed al competente Ufficio dell’Agenzia delle Entrate. Alla domanda deve essere acclusa copia delle dichiarazioni fiscali per le quali non è pervenuto l’esito dei controlli automatici21 e delle dichiarazioni integrative relative al periodo sino alla data di presentazione della domanda, al fine di «consentire il consolidamento del debito fiscale». Nel termine di trenta giorni dalla presentazione della domanda il concessionario deve trasmettere al debitore una «certificazione attestante l’entità del debito iscritto a ruolo scaduto o sospeso», mentre l’Ufficio deve liquidare i tributi risultanti dalle dichiarazioni e notificare eventuali «avvisi di irregolarità», unitamente ad una «certificazione attestante l’entità del debito derivante da atti di accertamento ancorché non definitivi, per la parte non iscritta a ruolo, nonché da ruoli vistati, ma non ancora consegnati al concessionario». Il concessionario e l’Ufficio debbono svolgere un’attività di verifica della situazione del contribuente con riferimento ai debiti oggetto della domanda di

che la proposta di transazione fiscale è depositata presso l’Agenzia delle Entrate e il concessionario, che procedono alla trasmissione e alla liquidazione previste dal secondo comma e che «nei successivi trenta giorni l’assenso alla proposta di transazione è espresso relativamente ai tributi non iscritti a ruolo, ovvero non ancora consegnati al concessionario del servizio nazionale della riscossione alla data di presentazione della domanda, con atto del direttore dell’Ufficio, su conforme parere della competente direzione regionale, e relativamente ai tributi iscritti a ruolo e già consegnati al concessionario del servizio nazionale della riscossione alla data di presentazione della domanda, con atto del concessionario su indicazione del direttore dell’Ufficio, previo conforme parere della competente direzione generale. L’assenso così espresso equivale a sottoscrizione dell’accordo di ristrutturazione». 20 Come rilevato da MARINI, Art. 182ter. Transazione fiscale, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Ni-

transazione, riscontrando le eventuali irregolarità e determinando così quella che dovrebbe essere la base di partenza per l’eventuale definizione. Va peraltro notato che è tutt’altro che chiaro quale debba essere l’oggetto di detta attività di verifica. Quello che dovrebbe essere certo è che dovranno essere svolti quei controlli che vengono abitualmente effettuati mediante procedure automatizzate, come si desume indirettamente dalla circostanza che il contribuente è tenuto ad allegare alla propria proposta di transazione solamente le dichiarazioni per le quali non è pervenuto l’esito di detti controlli. Ben più dubbio, invece, è che l’amministrazione finanziaria sia obbligata ad effettuare controlli sostanziali a carico del contribuente, preclusivi di successive attività accertative. Nel silenzio della norma, seguendo un criterio di ragionevolezza, si dovrebbe rispondere positivamente a tale interrogativo, considerato che, se gli Uffici potessero rivedere i risultati “transati” ai sensi dell’art. 182-ter, l’istituto regolato da quest’ultima disposizione perderebbe significativamente di efficacia e diverrebbe ben poco appetibile. Va però dato atto che, se così fosse, il termine di trenta giorni di cui dispongono Ufficio e concessionario si dimostrerebbe davvero breve, dovendo l’amministrazione svolgere attività istruttorie potenzialmente complesse. In ogni caso, gli avvisi di irregolarità e la certifi-

gro-Sandulli, Torino, 2006, II, 1116, da tale previsione deriva che la proposta di transazione fiscale non può essere fatta che dal debitore diretto interessato. 21 In base all’art. 25 del D.P.R. n. 602 del 1973 (come da ultimo modificato dal D.L. n. 223 del 2006), i termini per notificare le cartelle di pagamento relative ai controlli automatici sono: a) il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, ovvero a quello di scadenza del versamento dell’unica o ultima rata se il termine per il versamento delle somme risultanti dalla dichiarazione scade oltre il 31 dicembre dell’anno in cui la dichiarazione è presentata, per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione prevista dall’articolo 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, nonché del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione del sostituto d’imposta per le somme che risultano dovute ai sensi degli articoli 19 e

20 del T.U.I.R.; b) il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di controllo formale prevista dall’articolo 36-ter, D.P.R. n. 600 del 1973. L’art. 36 del D.Lgs. n. 46 del 1999 ha stabilito in via transitoria che – in deroga all’articolo 25, comma 1, lettera a, del D.P.R. n. 602 del 1973 – per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione delle dichiarazioni ex art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, la cartella di pagamento è notificata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre: a) del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003; b) del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre 2001.


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cazione citati in precedenza, una volta emesso il decreto di ammissione al concordato preventivo di cui all’articolo 163, L.F., debbono essere trasmessi al commissario giudiziale per la convocazione dei creditori ex art. 171, L.F. e per la redazione della relazione di cui al successivo art. 172, in cui vengono descritte le cause del dissesto, la condotta del debitore, le proposte di concordato e le garanzie offerte ai creditori. Dopodiché, è previsto che l’Ufficio e il concessionario partecipino al voto in sede di adunanza dei creditori, previa acquisizione del parere della Direzione regionale22. Quanto agli effetti della conclusione della transazione fiscale, l’art. 182-ter prevede che la chiusura della procedura di concordato – che si verifica ex art. 181, L.F. con il decreto di omologazione – determina la «cessazione della materia del contendere nelle liti aventi ad oggetto i tributi» per i quali si è perfezionata la transazione. Va tuttavia chiarito quale sia il destino delle seguenti posizioni (che, come visto in precedenza, dovrebbero poter rientrare nel campo di applicazione della transazione fiscale): a) avvisi di accertamento già emanati ma non ancora impugnati dal contribuente (sempre che lo stesso sia nei termini per adire al giudice tributario); b) controversie già instaurate innanzi alle Commissioni tributarie e non ancora decise con sentenza passata in giudicato; c) potenziali accertamenti futuri, relativi a tributi e annualità per i quali l’amministrazione finanziaria non sia ancora decaduta dal potere di rettifica. Le soluzioni preferibili, nel silenzio della norma e considerata la ratio dell’istituto, dovrebbero essere le seguenti: a) quanto alla fattispecie sub a, operare una definizione con una procedura di (o analoga a quella di) accertamento con adesione all’interno della transazione fiscale; b) quanto alla fattispecie sub b, chiudere con conciliazione giudiziale le liti pendenti ai sensi del-

22 A favore della possibilità, per il contribuente-debitore, di impugnare l’atto dell’amministrazione finanziaria prodromico all’eventuale voto contrario nell’adunanza dei creditori v. DEL FEDERICO, Profili processuali della transazione fiscale, in Corr. Trib., 2007, 3661. 23 Non può escludersi, infatti, che la controversia non rispetti i limiti dettati dall’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 1992 affinché si possa fare ricorso all’istituto della conciliazione (si

l’art. 48 del D.Lgs. n. 546 del 1992 (o con procedimento sostanzialmente analogo23); c) quanto alla fattispecie sub c – pur non disponendo l’art. 182-ter una preclusione per l’amministrazione finanziaria di emanare provvedimenti impositivi aventi ad oggetto i tributi e le annualità oggetto di definizione – riconoscere che i tributi oggetto della transazione, per le annualità prese in considerazione, debbano considerarsi definiti, senza che l’amministrazione finanziaria abbia potere di operare attività di rettifica. Quest’ultima soluzione, invero, appare in linea, da un lato, con la ratio complessiva dell’istituto, che dovrebbe essere diretto a consentire all’impresa in crisi di tornare in bonis e di “ripartire da zero” e, dall’altro lato, con il testo dall’art. 182-ter, il cui quinto comma stabilisce che «la chiusura della procedura di concordato ai sensi dell’articolo 181, determina la cessazione della materia del contendere nelle liti aventi ad oggetto i tributi di cui al primo comma». 7. La difficile conciliabilità della transazione fiscale con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: aspetti sostanziali Alla luce di quanto sin qui evidenziato, emerge chiaramente che la transazione fiscale è un istituto difficilmente conciliabile con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, sia dal punto di vista sostanziale, sia – e sul punto si tornerà nel prossimo paragrafo – dal punto di vista procedurale24. Dal punto di vista sostanziale, invero, si è avuto modo di vedere che la transazione fiscale contempla la possibilità che il debitore proponga all’amministrazione finanziaria il pagamento «anche parziale» di taluni tributi e dei «relativi accessori», seppur già iscritti a ruolo, per di più con la possibilità di richiedere una non meglio precisata dilazione di pagamento. Diversamente da quanto accade in altri istituti che pongono problemi di conciliabilità con il dogma dell’indisponibilità – accertamento con

pensi al caso delle liti instaurate innanzi alla Commissione tributaria regionale). 24 L’inconciliabilità dell’istituto regolato dall’art. 182-ter con il principio di indisponibilità è stata rilevata da VISCONTI, Riflessioni sull’impiego della transazione fiscale nella nuova disciplina del concordato fallimentare, in Dialoghi, 2006, 456, il quale descrive la transazione fiscale come un istituto che deroga al principio della indisponibilità della pretesa tributaria, in cui il fisco

è «equiparato a tutti gli altri creditori [...] e concorre con questi al duplice obiettivo di vedere soddisfatto il proprio credito nel maggior grado possibile e di consentire la continuazione dell’impresa». A tal proposito, LUPI, Insolvenza, fallimento e disposizione del credito tributario, in Dialoghi, 2006, 459, evidenzia come «non si tratta [...] di chiedersi se il credito tributario sia disponibile o indisponibile in assoluto, ma in nome di cosa se ne possa disporre».


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adesione e conciliazione giudiziale – si assiste alla possibilità di perfezionare transazioni che prevedano il pagamento parziale di tributi già iscritti a ruolo e di sanzioni in misura non prestabilita dal legislatore, con tempistiche e garanzie liberamente concordabili tra contribuente e amministrazione finanziaria. Colpisce in particolare che, trattandosi di una «transazione» avente ad oggetto tributi – cioè elementi che non sarebbero disponibili – non sia stata inserita alcuna previsione in ordine ai criteri che l’amministrazione finanziaria dovrebbe seguire in sede di accettazione o di rifiuto della proposta transattiva ricevuta dal contribuente. A questo proposito, si può notare che l’art. 182-ter ha delle similitudini con una precedente disposizione, cioè l’art. 3, comma 3, del D.L. n. 138 del 2002, entrato in vigore il 23 febbraio 2003 e abrogato dall’art. 151 del D.Lgs. n. 5 del 2006 con decorrenza dal 16 gennaio 2006. Si tratta della norma che consentiva all’amministrazione finanziaria, dopo l’inizio dell’esecuzione coattiva, di procedere alla «transazione» dei «tributi iscritti a ruolo dagli uffici dell’Agenzia delle Entrate, il cui gettito è di esclusiva spettanza dello Stato» in caso di «accertata maggiore economicità e proficuità rispetto alle attività di riscossione coattiva, quando nel corso della procedura esecutiva emerga l’insolvenza del debitore o questi è assoggettato a procedure concorsuali»25. L’art. 182-ter, sotto questo profilo, si colloca nel solco (anzi, rappresenta l’apice) di una legislazione scarsamente attenta agli aspetti sistematici, non preceduta da alcun affinamento dottrinale e, soprattutto, gravemente lacunosa. Lacunosità che si amplifica poiché si tratta di una disposizione decisamente atipica ed in posizione derogatoria rispetto al sistema tributario nel suo complesso. Come se non bastasse, il legislatore ha fatto un passo indietro rispetto al citato art. 3, comma 3, del D.L. n. 138 del 2002, in cui, se non altro, era previsto che la transazione avesse luogo in caso di «accertata maggiore economicità e proficuità rispetto alle attività di riscossione coattiva». Si tratta di una formulazione assolutamente generica e che, di fatto, non poneva all’amministrazione finanziaria alcun vincolo in ordine alla

25 La disposizione (soprannominata dalla stampa “decreto salvalazio”) è stata commentata da MOSCATELLI, La disciplina della transazione nella fase di riscossione del tributo, in Riv. Dir. Trib., 2005, I, 483. Per un raffronto tra le due norme succedutesi nel tempo v.

possibilità di definire transattivamente i debiti dei contribuenti. L’assoluto silenzio del legislatore sul punto nell’ambito dell’art. 182-ter, tuttavia, non può essere accolto positivamente, fermo restando che dovrebbe comunque ritenersi desumibile dal sistema – e, in particolare, dagli artt. 53 e 97 Cost. – che nell’ambito della transazione fiscale gli Uffici, al momento della valutazione della proposta del contribuente, siano tenuti a ponderare l’efficacia e l’economicità della procedura di riscossione coattiva rispetto ai risultati conseguibili, per l’appunto, accettando la proposta di transazione, nonché – coerentemente con quello che è lo spirito della riforma del diritto fallimentare – a valutare le conseguenze negative che l’eventuale fallimento potrebbe produrre con riguardo a situazioni collegate ad interessi costituzionalmente tutelati, quali – per esempio – il profilo occupazionale e quello produttivo26. In ogni caso, qualora non venissero fissate linee guida in merito ai criteri da seguire in sede di transazione fiscale, è probabile che si verificheranno rallentamenti nelle decisioni degli Uffici locali che, nel dubbio, tenderanno a rivolgersi – in relazione alla valutazione della bontà delle offerte e delle garanzie proposte – alle Direzioni regionali preordinate che, non lo si può escludere, potranno a loro volta rivolgersi alla Direzione centrale. Giunti a questo punto, ci si deve chiedere se l’introduzione di un istituto con le caratteristiche della transazione fiscale conduca ad affermare che il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria sia stato irrimediabilmente violato. Orbene, a mio parere non ci si deve far condizionare eccessivamente dalle singole scelte di un legislatore spesso capriccioso, prepotente e, soprattutto, poco attento alle esigenze di coerenza sistematica. È necessario, piuttosto, tentare di ricucire la coerenza di un sistema che contempli un istituto quale è quello della transazione fiscale, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale formatasi con riguardo alle disposizioni condonistiche. Invero, in diverse occasioni, la Consulta ha riconosciuto la legittimità di tale tipologia di disposizioni, facendo leva sull’eccezionalità delle situazioni in cui sono stati previsti i condoni, sul fabbi-

MARINI, Art. 182-ter, Transazione fiscale, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Nigro-Sandulli, Torino, 2006, II, 1113 ss. e VISCONTI, Riflessioni sull’impiego della transazione fiscale nella nuova disciplina del concordato fallimentare, in Dialoghi, 2006, 453 ss.

26 Sull’esigenza di valutare l’interesse pubblico in sede di riscossione dei tributi si segnala il recente lavoro di BASILAVECCHIA, Il ruolo e la cartella di pagamento: profili evolutivi della riscossione dei tributi, in Dir. e Prat. Trib., 2007, I, 146.


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sogno delle casse erariali, nonché sull’esigenza di rendere effettivo l’obbligo di contribuzione27. Allo stesso modo, allora, la transazione fiscale deve essere letta valorizzando la circostanza che essa costituisce una procedura che consente di incidere sull’entità della pretesa tributaria esclusivamente in situazioni eccezionali e, segnatamente, nei casi di difficoltà economica del contribuente. Come visto, infatti, la transazione fiscale può essere perfezionata solamente nell’ambito del concordato preventivo e dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, cioè in situazioni che, per definizione, postulano uno stato di crisi, eppertanto una situazione di tendenziale incapacità a far regolarmente fronte alle obbligazioni, anche di natura tributaria. Inoltre, l’istituto dovrebbe essere diretto a consentire all’erario un (potenzialmente ridotto) effettivo e spedito incasso di somme che, in caso di fallimento del contribuente, potrebbero non essere incassate o, comunque, incassate in tempi più lunghi o in misura inferiore. La legittimità della transazione fiscale rispetto all’art. 53 Cost., dunque, dovrebbe discendere dalla circostanza che essa è uno strumento in grado di bilanciare l’esigenza di attuare un prelievo determinato in applicazione delle inderogabili norme tributarie sostanziali, con la volontà di rendere rapido ed effettivo il prelievo. Obiettivo che, per l’appunto, può essere raggiunto evitando il fallimento del contribuente – consentendogli, anzi, di tornare in bonis – e commisurando il debito tributario a quelle che sono le sue effettive possibilità economico-finanziarie. 8. La difficile conciliabilità della transazione fiscale con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria: aspetti procedurali Non sono solo gli aspetti sostanziali a creare problemi di compatibilità tra la transazione fiscale e il principio di indisponibilità: si deve rilevare, infatti, che anche l’aspetto procedurale comporta l’emersione di rilevanti disarmonie con il testé citato principio. Ora, l’art. 182-ter è decisamente lacunoso anche per quanto riguarda gli aspetti procedurali, considerato che nulla dice in relazione a come si perfezioni la transazione fiscale. E, lo si ripete, l’assenza di indicazioni legislative in ordine alle mo-

27 A tal proposito si vedano le pronunce n. 361 del 1992; n. 548 del 1987; n. 33 del 1981; n. 119 del 1980. Resta comunque ferma, tra la migliore dottrina, l’opposizione ai provvedimenti di condono. Si veda, per tutti,

dalità – oltre che, come visto, ai criteri – da seguire per giungere alla “transazione fiscale” è particolarmente grave, se si considera che l’attività dell’amministrazione finanziaria è tendenzialmente vincolata e caratterizzata da ristrette aree di discrezionalità. A questo proposito, è ragionevole ritenere che, prima di giungere al voto, debba instaurarsi un vero e proprio contraddittorio tra contribuente e amministrazione finanziaria, finalizzato alla “contrattazione” della proposta di transazione fiscale, cioè allo svolgimento di una trattativa che verterà sul quantum dell’obbligazione tributaria residua, sulla tempistica di “rientro” e sulle garanzie rilasciabili. Qualora non venga trovato un accordo, la transazione non dovrebbe potersi concludere, e pertanto alla totalità dei debiti tributari dovrebbe tornare applicabile l’ordinaria disciplina del concordato. Di contro, qualora venga trovato l’accordo, l’amministrazione finanziaria si pronuncerà in favore della chiusura della procedura di concordato, con relativa transazione fiscale. L’art. 182-ter, a questo ultimo proposito, regola due distinte situazioni, a seconda che si sia in presenza: - di tributi non iscritti a ruolo o non ancora consegnati al concessionario del servizio nazionale della riscossione alla data di presentazione della domanda, per i quali l’adesione alla proposta di concordato si perfeziona con atto del direttore dell’Ufficio, su conforme parere della competente Direzione regionale ed è espresso mediante voto favorevole in sede di adunanza dei creditori, ovvero nei modi previsti dall’articolo 178, L.F.; - di tributi iscritti a ruolo e già consegnati al concessionario alla data di presentazione della domanda, per i quali è il concessionario che esprime il voto in sede di adunanza dei creditori, su indicazione del direttore dell’Ufficio e previo conforme parere della competente Direzione regionale28. Va però sottolineato che il dato normativo non chiarisce con quali modalità e in quale fase l’atto di transazione definito tra contribuente e amministrazione finanziaria entri formalmente nella procedura concordataria. Né vi sono indicazioni concrete in ordine alle modalità secondo cui la transazione dovrebbe perfezionarsi tra i due sog-

FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2005, 155, il quale sottolinea la contrarietà della legislazione condonistica rispetto all’intangibilità e vincolatività del criterio di riparto dei tributi, tutelate

dagli artt. 2, 3 e 53 Cost. 28 Stante la procedura descritta, è evidente che l’intervento del concessionario risulta totalmente vincolato e privo della benché minima discrezionalità.


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getti testé citati, soffermandosi l’art. 182-ter, L.F. esclusivamente sulle modalità di intervento dell’amministrazione finanziaria al voto nell’adunanza dei creditori. Invero, non possono essere sollevati dubbi quanto alla circostanza che al momento della presentazione della proposta di concordato nulla è dato sapere in ordine alla praticabilità della transazione fiscale ed ai relativi “numeri”, potendo questa essere rifiutata dell’amministrazione finanziaria o modificata a seguito delle “trattative” intercorse con il contribuente. Di qui, peraltro, discende che nella proposta di concordato non potrà tenersi conto della proposta di transazione, se non in termini ipotetici e subordinati al perfezionamento della stessa, con conseguenti inevitabili difficoltà nella gestione del concordato. Come emerge dall’art. 182-ter, infatti, copia della domanda deve essere presentata “con” il piano previsto dall’art. 160, L.F., con cui viene richiesto il concordato preventivo, che, per di più, deve essere presentato “contestualmente” all’amministrazione finanziaria e al Tribunale, talché l’avvio della procedura di concordato è simultaneo all’avvio della procedura di transazione. La procedura di concordato, allora, dovrebbe essere strutturata come segue: all’atto della presentazione della domanda di concordato, il contribuente ha la possibilità di dichiarare e documentare l’intenzione di promuovere la transazione fiscale e di avanzare una proposta di base. Il procedimento di transazione fiscale si svolgerà, sotto la vigilanza del commissario giudiziale, parallelamente alla procedura di concordato. Al termine di una vera e propria fase di contraddittorio, non dissimile da quella che caratterizza l’istituto dell’accertamento con adesione, in caso di buon esito delle trattative, la transazione confluirà – precedentemente all’approvazione del concordato – in un atto ad hoc, sottoscritto dal direttore dell’Ufficio, dal concessionario (previo conforme parere della Direzione regionale o subordinato al suo parere positivo) e dal contribuente. Non è invece chiaro se la conclusione della transazione fiscale debba ritenersi subordinata ad una specifica autorizzazione del giudice delegato ex art. 167, comma 3, L.F., in forza del quale «le transazioni, i compromessi [...] le concessioni di ipoteche o di pegno, le fideiussioni, le rinunzie alle liti, le ricognizioni di diritti di terzi, le cancellazioni di ipoteche, le restituzioni di pegni [...]

e in genere gli atti eccedenti la ordinaria amministrazione, compiuti senza l’autorizzazione scritta del giudice delegato, sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al concordato». Il punto è dubbio, ancorché la peculiarità della transazione fiscale, la presenza di un’espressa disciplina che ne regola la procedura e l’intervento dell’amministrazione finanziaria (anche per il tramite della Direzione regionale) potrebbero far propendere per la non obbligatorietà di detta autorizzazione. Orbene, una siffatta ricostruzione della procedura di transazione fiscale dovrebbe consentire di salvaguardare la compatibilità del neointrodotto istituto con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria. Si tratterebbe, infatti, di una procedura non dissimile da quella che caratterizza istituti quali l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale (e ferme restando le osservazioni formulate in precedenza con riferimento all’aspetto sostanziale della normativa in esame). Senonché, la prima giurisprudenza formatasi con riferimento alla transazione fiscale ha sposato una tesi radicalmente diversa, negando che – in assenza di un’espressa previsione normativa – possa configurarsi un’automatica esclusione dell’omologazione del concordato ogni qual volta si manifesti, rispetto alla proposta, la contrarietà dell’amministrazione finanziaria, non sussistendo un «diritto potestativo di veto da parte dell’erario rispetto a proposte che, in legittima adesione all’astratta previsione normativa, disciplinino in concreto una corresponsione unicamente percentuale dei crediti erariali, anche assistiti da privilegio»29. In altre parole, secondo la citata giurisprudenza, gli effetti della definizione tributaria deriverebbe non tanto dalla procedura di transazione fiscale in sé (cioè da un separato accordo debitore-erario), bensì dalla più ampia procedura di concordato, all’interno della quale l’amministrazione finanziaria è chiamata a partecipare, attraverso il proprio voto, alla stregua delle altre parti creditrici. Ebbene, l’accoglimento di una simile impostazione comporterebbe conseguenze di grande rilievo sull’impatto dell’istituto della transazione fiscale rispetto al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria. In primo luogo, infatti, la transazione fiscale si concluderebbe senza l’emanazione da parte dell’amministrazione finanziaria di un provvedimen-

29 Ci si riferisce nuovamente al decreto di omologazione del Tribunale di Venezia 27 febbraio 2007, n. 1086.


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to amministrativo idoneo a formalizzare il quantum debeatur. In secondo luogo, si verificherebbe un atto di disposizione dell’obbligazione tributaria, anche a prescindere dalla (anzi, potenzialmente contro la) volontà dell’amministrazione finanziaria. Ora, non può escludersi che tale soluzione sia corretta rispetto alla disciplina del concordato preventivo, ma è certo che si tratta di una soluzione davvero difficilmente conciliabile con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria e, in particolare, con l’art. 53 Cost. da cui esso promana. Condizione necessaria affinché la transazione fiscale possa essere – come si è visto – a fatica conciliata con l’art. 53 Cost., infatti, è che la rideterminazione “transattiva” delle imposte dovute dall’imprenditore in stato di crisi sia assoggettata alla valutazione e alla specifica approvazione da parte dell’amministrazione finanziaria e non solamente a quella dei creditori. Valutazione che, per l’appunto, dovrebbe essere operata in applicazione degli artt. 53 e 97 Cost., bilanciando, caso per caso, l’esigenza di applicare rigorosamente le disposizioni tributarie con la necessità di puntare al rapido recupero di somme effettivamente nella disponibilità del contribuente. 9. Conclusioni Alla luce di quanto sin qui evidenziato, si può concludere che la transazione fiscale è un istituto che pone dei complessi problemi di compatibilità con il principio dell’indisponibilità del credito tributario e, conseguentemente, con l’art. 53 Cost. Come visto, al pari di quanto si verifica periodicamente con le norme di condono, la principale ragione che ha spinto il legislatore a derogare a detto principio è rappresentata dalla volontà di riscuotere in modo efficiente tributi divenuti difficilmente recuperabili (nel caso in argomento, quelli dovuti dagli imprenditori in stato di crisi). Nella fattispecie della transazione fiscale, tuttavia, siamo in presenza di un istituto che – al contrario di quanto accade nei condoni, in cui è il legislatore a fissare le somme dovute dai contribuenti per definire le proprie posizioni fiscali – assegna agli Uffici dell’amministrazione finanziaria il potere di “trattare” con il contribuente e di definire, senza alcun esplicito vincolo quantitativo, l’ammontare della pretesa tributaria.

Per di più, diversamente da altri casi in cui si assiste, se non altro nella prassi, a “trattative” tra contribuente e amministrazione, nella transazione fiscale vi è un marcato margine operativo per gli Uffici, non solo con riferimento alla determinazione delle imposte, ma anche in relazione ad “accessori”, sanzioni, tempistica e modalità di pagamento. Si tratta di elementi che rappresentano degli scogli superabili a solamente a fatica – come a fatica e con il parere non sempre favorevole della dottrina sono stati superati dalla Consulta con riferimento ai condoni – ma che rischiano di divenire insormontabili qualora si condividesse la lettura della norma data dalla prima giurisprudenza pronunciatasi in materia, in base alla quale il concordato preventivo, con previsione al suo interno di una transazione fiscale con pagamento parziale dei crediti erariali, si potrebbe perfezionare anche contro la volontà dell’amministrazione finanziaria. La disponibilità del credito tributario, infatti, verrebbe posta nelle mani dei creditori del contribuente, le cui scelte non discenderanno certo dall’applicazione degli artt. 53 e 97 Cost. Sotto questi profili, dunque, la legittimità costituzionale dell’istituto della transazione fiscale diverrebbe difficilmente sostenibile. E riconoscere la legittimità di un simile istituto dovrebbe spingere a prendere atto che il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria è venuto meno, se non altro nel limitato ambito oggettivo di applicazione dell’art. 182-ter. A ciò si aggiunga – anche se la questione esula dal tema della compatibilità con il canone di indisponibilità – che l’istituto della transazione fiscale pone non pochi problemi con riferimento anche ad altri principi cardine dell’ordinamento tributario e, segnatamente, con quello dell’uguaglianza e della ragionevolezza. La transazione fiscale, invero, è prevista solamente nell’ambito del concordato preventivo e – a decorrere dall’1 gennaio 2008 – dell’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’articolo 182-bis della L.F. I soggetti che accedono alle altre procedure disciplinate dalla L.F. e i soggetti che non possono essere assoggettati a dette procedure (piccoli imprenditori, professionisti, enti pubblici e persone fisiche non imprenditrici), quindi, rimangono esclusi dalla possibilità di fruire della transazione fiscale.


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Commissione tributaria provinciale di Macerata, sez. IV, 25 gennaio 2007, n. 29 Presidente: De Sanctis - Relatore: Strinati Accertamento - Accertamenti bancari - Movimentazioni sui conti correnti prive di valida giustificazione - Presunzione di ricavi in nero come conseguenza di incassi non giustificati Presunzione di costi e, quindi, di maggiori ricavi, come conseguenza di prelevamenti non giustificati - Deducibilità dei costi generatori dei ricavi presunti (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1) Quando viene rinvenuto un conto bancario con movimenti non giustificati, si presume che i versamenti siano degli “incassi in nero”, dunque ricavi; quando invece vengono rinvenuti prelevamenti non giustificati, si presume che essi costituiscano i costi dell’impresa e che da essi si siano generati necessariamente dei ricavi ulteriori rispetto alle entrate ingiustificate rinvenute, con l’obbligo, per l’Ufficio, di calcolare e detrarre comunque i presumibili costi generatori dei ricavi individuati tramite i riscontri bancari. Svolgimento del processo 1.1 Con ricorso depositato il 3 febbraio 2006 [...], difeso dall’avv. [...] e dal dott. [...], ha impugnato l’avviso di accertamento n. [...] notificatogli in data 23 novembre 2005 dall’Agenzia delle Entrate in relazione all’anno di imposta 2001. 1.2 L’atto si basa su processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, con il quale si contestano al [...] maggiori ricavi relativamente al periodo dal 1999 al 12 giugno 2003; detto processo verbale di constatazione faceva seguito a sua volta ad indagini bancarie eseguite a carico del contribuente giusta autorizzazione del comandante regionale della Guardia di Finanza del 2 luglio 2003. 1.3 Emetteva dunque l’Ufficio l’avviso di accertamento gravato, recuperando a tassazione sia gli accrediti che gli addebiti risultanti dai conti bancari intestati ai [...], ritenendo che dette somme fossero riferibili all’attività commerciale di agenzia e amministrazione di beni immobili esercitata dal [...] e venivano così individuati per il 2001 maggiori ricavi per euro 2.915.080,08. L’accertamento mirava al recupero di Irpef per euro

1.303.574,40, di addizionale regionale Irpef per euro 26.235,49, di Irap per euro 123.890,78, di Iva per euro 300.048,55 e di sanzioni per euro 2.036.716,44. 2.1 Sostiene il contribuente in via pregiudiziale l’infondatezza della pretesa impositiva per difetto assoluto di motivazione dell’accertamento, basata sul mero richiamo per relationem alle ipotesi formulate dalla Guardia di Finanza con il processo verbale di constatazione, nonché per illegittimità delle operazioni di verifica e delle acquisizioni documentali, mancando negli atti autorizzatori l’indicazione dell’oggetto del controllo fiscale e delle annualità di imposta soggette alla verifica in esame. Dalla nullità dell’atto di servizio, prodromico alla verifica impugnata, deriverebbe la nullità di tutti gli atti conseguenti. 2.2 Eccepisce il difetto di motivazione e violazione di legge in quanto, contrariamente a quanto disposto dall’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212, non sarebbero state allegate all’avviso di accertamento, né rese altrimenti conoscibili, le autorizzazioni all’indagine bancaria da cui deriva il recupero impositivo. 2.3 Eccepisce l’illegittima applicazione dell’art. 32, primo comma, n. 2, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, il quale prevede che i risultati dei conti siano posti a base dell’accertamento se il contribuente non dimostra di averli considerati nella determinazione del reddito. Nel caso di specie il [...] sostiene che le movimentazioni di denaro rintracciate riguarderebbero scambi di favori reciproci non remunerati: nello specifico sostiene che dette somme non sarebbero altro che accreditamenti di assegni o effetti allo sconto, che permettevano di ottenere liquidità, ossia anticipazioni dl conto corrente. Rileva che, anche qualora detti versamenti fossero riconducibili a ricavi, la giurisprudenza ha sostenuto che a fronte di un ricavo è logico rinvenire un sostenimento di costi, anche se non registrati. 2.4 Eccepisce l’illegittimità dell’avviso impugnato in quanto farebbe proprie acriticamente le conclusioni del processo verbale di constatazione nella parte in cui vengono considerati tutti i prelevamenti come ricavi omessi: l’art. 32, primo comma, n. 2, richiamato prevede detta ipotesi accertativa solo se il contribuente non indica il sogget-


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to beneficiario, mentre nel caso di specie tutti i prelevamenti erano disposti con regolare assegno bancario, quindi facilmente rintracciabili. La Guardia di Finanza avrebbe quindi potuto, alla luce dei molti beneficiari esistenti, risalire alle operazioni compiute senza pretendere dal contribuente, a distanza di anni, la giustificazione di oltre 1.200 movimentazioni bancarie. 2.5 Sostiene che i movimenti accertati non sarebbero riferibili all’attività di amministratore di immobili, né l’Ufficio avrebbe svolto al riguardo la necessaria attività di riscontro volta ad accertare sia la provenienza che l’inerenza all’attività di impresa dei versamenti e dei prelevamenti rinvenuti. 2.6 Eccepisce infine l’illegittimità della pretesa tributaria gravata perché assoggetta ad Irap il valore della produzione netta, introducendo così di fatto un’imposta sulla cifra d’affari che si pone in contrasto con l’art. 33 della direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE che vieta agli Stati membri di introdurre un’imposta sulla cifra d’affari ulteriore rispetto all’Iva; l’illegittimità del recupero dell’Iva, ai sensi dell’art. 55 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in quanto l’atto gravato non consentirebbe di sapere a quale fattispecie di detto articolo il recupero si riferisca: l’illegittimità delle sanzioni irrogate, poiché l’Ufficio non avrebbe tenuto conto della progressività delle sanzioni precedentemente irrogate per le annualità 1997 e 1998, in violazione dell’art. 12 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472. Chiede annullarsi l’atto gravato, previa sua sospensione, con vittoria di spese. 3.1 L’Ufficio si è costituito in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso e sostenendo la legittimità del proprio operato, avendo agito ai sensi dell’art. 39, secondo comma, del D.P.R. n. 600/1973 sulla base di quanto risultato dalle indagini bancarie. Risulterebbe quindi irrilevante entrare nel merito della legittimità dell’ordine di accesso domiciliare, in quanto l’accertamento si basa sulle indagini bancarie, e pertanto l’eventuale illegittimità avrebbe come conseguenza solo l’inutilizzabilità delle prove raccolte in sede di accesso domiciliare, e non di quelle ottenute mediante l’indagine bancaria. 3.2 Sostiene l’Ufficio che: - i molti movimenti bancari rinvenuti, analoghi a quelli dei precedenti periodi, lascerebbero intendere la continuazione dell’attività di impresa anche dopo la cessazione formale al 31 dicembre 1998; la motivazione dell’atto gravato per relationem al processo verbale di constatazione 9 marzo 2005 è legittima, e non inficiata dalla mancata allegazione dell’autorizzazione all’indagine banca-

ria da cui il recupero impositivo deriva, essendo tale autorizzazione atto interno del procedimento di cui la parte può avere conoscenza esercitando il diritto di accesso; - legittimo sarebbe il recupero in oggetto avuto riguardo all’art. 32, primo comma, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973, il quale stabilisce che anche i prelievi, per i quali non sia indicato il beneficiario o i quali non siano annotati in contabilità, devono intendersi come ricavi da porre a base delle rettifìche e degli accertamenti; - controparte non avrebbe comunque dimostrato l’estraneità delle operazioni bancarie rintracciate all’attività di impresa immobiliare, né varrebbe come giustificazione l’affermazione secondo la quale si sarebbe trattato di «scambi di favore non remunerati ovvero movimentazioni per ottenere una certa liquidità»; - legittima sarebbe la riferibilità di dette operazioni bancarie all’attività di agente immobiliare esercitata dal [...], poiché la verifica con indagini bancarie esercitata nei suoi confronti per gli anni 1997-1998 (prima della cessazione formale dell’attività) e le operazioni accertate con l’atto oggi impugnato (quindi dopo la cessazione formale dell’attività), dimostrerebbero la continuazione temporale di essa attività; - legittima sarebbe l’applicazione dell’Irap, non essendosi verificata nel caso di specie alcuna duplicazionc di imposta: secondo la Corte costituzionale (sent. 156/2001) l’Irap è imposta perfettamente legittima rispetto all’ordinamento interno, non avendo tra l’altro ancora trovato definitiva censura in sede di legislazione comunitaria; - legittima sarebbe infine l’irrogazione delle sanzioni, poiché la continuazione invocata dal ricorrente sarebbe interrotta dalla constatazione delle violazioni: in altre parole, pur riconoscendo una certa omogeneità delle fattispecie contestate negli anni 1997/1998 con quelle contestate negli anni 1999/2003, l’Ufficio ritiene non applicabile la continuazione in riferimento a due contestazioni effettuate con due diversi processi verbali di constatazione notificati in tempi diversi. Chiede pertanto la reiezione del ricorso, con vittoria di spese. 4.1 La richiesta di sospensione dell’atto gravato avanzata da parte ricorrente è stata respinta in corso di causa. Il ricorso è stato discusso in pubblica udienza. Motivi della decisione 5.1 Il ricorso è parzialmente meritevole di accoglimento. Quanto al difetto di motivazione dell’atto gravato


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in quanto si sarebbe rinviato per relationem al processo verbale di constatazione del 9 marzo 2005 e perché negli atti autorizzatori (ordine di accesso) mancherebbe l’indicazione dell’oggetto del controllo fiscale, la Commissione ritiene che è irrilevante entrare nel merito della legittimità e del contenuto dell’ordine di accesso domiciliare, in quanto l’accertamento che ci occupa è basato sulle risultanze delle indagini bancarie. L’eventuale illegittimità avrebbe come conseguenza solo l’inutilizzabilità delle prove raccolte in sede di accesso domiciliare e non mediante l’indagine bancaria. 5.2 Non c’è inoltre difetto di motivazione e violazione di legge per contrarietà a quanto disposto dall’art. 7 della legge n. 212/2000, in quanto per detta norma devono essere allegati gli atti a cui si fa riferimento in motivazione e di conseguenza non è necessaria, nel caso di specie, l’allegazione delle autorizzazioni all’indagine bancaria. Va ritenuto quindi che l’atto impugnato sia legittimo e mantenga una sufficiente motivazione, tanto da aver permesso al contribuente di approntare specifico atto di impugnazione. 5.3 Non sono accoglibili le censure di parte ricorrente in ordine alla riferibilità o meno delle movimentazioni bancarie all’impresa di servizi immobiliari, nonché alla giustificazione di esse. È proprio colui che ha posto in essere quella gran mole di operazioni bancarie, e per importi tanto rilevanti, a sapere che cosa stava facendo e perché lo stava facendo: suo è l’onere di dare le spiegazioni del caso e addurre le giustificazioni relative anche sotto il profilo probatorio. Nel caso di specie, al di là di una spiegazione tanto generica (scambi di favore reciproci non remunerati) da non potersi interpretare che come voluta reticenza, il contribuente non ha spiegato né dimostrato nulla per contrastare l’assunto dell’Ufficio impositore in ordine alla riferibilità dei movimenti bancari all’impresa di servizi immobiliari: sul punto, quindi, l’accertamento é da ritenersi fondato. 5.4 Infondata è anche la censura riguardante la presunta illegittimità tout court dell’Irap, alla luce della recente decisione della Corte di Giustizia CE (3 ottobre 2006, resa sul caso C-475/03). 5.5 Si pone inoltre a questa Commissione, a seguito di contestazione di parte ricorrente, la questione relativa alla legittimità e ai limiti del meccanismo di cui all’art. 32, primo comma, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973, in base al quale si presumono ricavi non solo le somme che risultano versate sui conti bancari a disposizione del contribuente (senza giustificazione valida), ma anche le somme che da essi risultano prelevate (senza indicazione del destinatario, e quindi senza giustificazione).

Il ragionamento di partenza può essere semplificato come segue: quando viene rinvenuto un conto bancario con movimenti non giustificati, si presume che i versamenti siano degli “incassi in nero”, dunque ricavi; quando invece vengono rinvenuti sul conto bancario dei prelevamenti non giustificati, si presume che essi costituiscano i costi dell’impresa e che da essi si siano generati necessariamente dei ricavi ulteriori rispetto alle entrate ingiustificate rinvenute (i prelevamenti possono essere stati utilizzati per acquistare merci, pagare manodopera, acquisire servizi, ecc.: i beni prodotti devono pur essere stati venduti e aver generato dei ricavi almeno di pari misura). 5.5.a Gli interventi ripetuti della giurisprudenza di legittimità hanno portato a mitigare l’evidente rigidità e vessatorietà di siffatta previsione legislativa attraverso la reintroduzione di una sorta di obbligo per l’Ufficio impositore, e infine per il giudice tributario, di calcolare e detrarre comunque i presumibili costi generatori dei ricavi individuati tramite i riscontri bancari. Ciò in applicazione del principio di scienza comune e di buon senso secondo il quale, specie in materia di trasformazione o commercio di beni materiali, non può esistere un ricavo senza i necessari costi di produzione o di acquisto. Tale interpretazione è stata avallata da Corte costituzionale, 8 giugno 2005, sentenza n. 225, ove per i motivi esposti è stata ritenuta la conformità della norma sopra citata al dettato costituzionale di cui all’art. 53 (principio di capacità contributiva), con la precisazione che i costi calcolati vanno detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati. La Corte ha anche ritenuto la conformità di essa norma all’art. 3 Cost. (principio di ragionevolezza) sul rilievo che non sia «manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività di impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile». Da quanto precede, emerge che la giurisprudenza di legittimità e la Corte costituzionale hanno fatto tesoro dello stesso principio di scienza comune e buon senso sopra indicato per il quale dove esiste un ricavo deve esistere un costo, e viceversa. 5.5.b Gli interventi giurisprudenziali sopra richiamati hanno smussato alcune rigidità del meccanismo presuntivo originario, ma la questione merita ulteriore approfondimento. Innanzitutto non appare accettabile che l’accertamento sui conti bancari possa dare un risultato peggiore per il contribuente rispetto a quello ottenibile con un ordinario accertamento analitico o induttivo: ciò poiché non è ragionevole né accettabile che lo


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stesso fenomeno evasivo produca conseguenze diverse a seconda del diverso strumento che venisse utilizzato per scoprirlo. Si faccia ad esempio il caso di un commerciante che, da un conto bancario a sua disposizione, prelevi euro 100.000 per acquistare abbigliamento che poi sarà venduto con un incasso di euro 150.000, versato sullo stesso conto bancario. La realtà è che ci sono ricavi per euro 150.000 e costi per euro 100.000. Se tale situazione fosse scoperta dall’erario tramite un accertamento analitico o induttivo, verrebbero tassati euro 150.000 come ricavi imponibili, mentre i costi (100.000) rimarrebbero neutri e indeduciblll poiché non registrati e dichiarati. Invece il meccanismo originario degli accertamenti “bancari” di cui all’art. 32, primo comma, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973 individuerebbe ricavi per euro 250.000 (versamenti 150.000 + prelievi 100.000), e riprenderebbe a tassazione l’intera somma senza detrarre alcunché. L’esempio rende evidente che in una simile situazione il considerare i prelevamenti quali ricavi produce un risultato irrealistico, al di fuori dei canoni del buon senso, e inaccettabile a confronto con il diverso risultato ottenibile con l’altra metodologia dì accertamento. L’interpretazione data dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale induce a mitigare il risultato irrealistico appena visto, con il limite però di non individuare un criterio per il calcolo dei costi. 5.5.c Ritiene questa Commissione che l’interpretazione della norma, facendo tesoro dell’interpretazione giurisprudenziale sopra ricordata, debba ancorarsi a criteri più precisi. Salvo che le risultanze acquisite in giudizio consentano una ricostruzione ragionevolmente certa dell’entità dei costi sostenuti dal soggetto accertato, così da poter detrarre un importo ben preciso dall’ammontare dei prellevi come suggerito dalla Corte costituzionale, ritiene questa Commissione che si debba utilizzare la metodologia di seguito illustrata. Non si capisce per quale motivo, nei casi in cui vengono rinvenute movimentazioni bancarie non giustificate sia in entrata che in uscita, i prelevamenti debbano continuare a far “presumere” l’esistenza di ricavi ulteriori e diversi da quanto rinvenuto tra i versamenti: non c’è nulla da presumere, se i ricavi “in nero” vengono anch’essi rinvenuti nel conto (o nei conti) del soggetto. Dovrà anzi correttamente ritenersi che i prelevamenti costituiscano i costi sostenuti per ottenere i “versamenti/ricavi” rinvenuti nei conti bancari. In altre parole, nei casi di rinvenimento di conti bancari con versamenti almeno pari ai prelevamen-

ti, si deve presumere che i prelievi siano stati effettuati per coprire i costi della produzione in nero, i cui ricavi sono invece costituiti dai versamenti. A questo punto, sia seguendo la via di aderire al principio generale per il quale i costi non contabilizzati né dichiarati non sono più deducibili sia seguendo la via di aderire alla diversa impostazione di Corte costituzionale n. 225/2005 per la quale i costi vanno detratti solo dal totale dei prelevamenti (intesi come ricavi presunti), si otterrà lo stesso risultato e si dovrà concludere che: - i versamenti bancari costituiscono ricavi, e quindi il maggior imponibile è di pari importo; - i prelevamenti bancari non hanno incidenza alcuna trattandosi di costi non più deducibili (o se si preferisce, si può dire che da un prelievo di 100 si presume ottenuto un ricavo di 100, dal quale viene detratto come costo di nuovo 100: il risultato è sempre zero). L’interpretazione sopra delineata sarà valida in tutti i casi in cui le entrate ingiustificate sui conti bancari siano pari o superiori alle uscite ingiustificate, e non vi siano elementi certi che facciano ritenere che la correlazione tra uscite ed entrate non vi sia (tale sarebbe il caso, ad esempio, di un’impresa che producesse saponette e frigoriferi: se le uscite si riferissero alle saponette e le entrate ai frigoriferi, evidentemente anche i prelievi andrebbero considerati come ricavi della vendita del settore saponette). La presunzione prelievi=ricavi rimarrebbe quindi a tutelare tutte quelle situazioni in cui venissero rinvenuti i prelievi ingiustificati, ma non anche le correlate entrate di importo almeno uguale. Dall’applicazione del criterio sopra delineato si ottiene attraverso l’accertamento bancario lo stesso risultato che si otterrebbe con un ordinario accertamento analitico o induttivo. Tornando all’esempio fatto al punto 5.5.b che precede, si ottengono infatti dall’accertamento bancario maggiori ricavi per euro 150.000 (versamenti nel conto), mentre i prelevamenti (200.000) rimangono azzerati: l’imponibile soggetto a tassazione è dunque lo stesso (150.000) ottenuto con l’accertamento analitico o induttivo. 5.5.d Tornando ora al caso di specie, va ricordato che l’Ufficio ha rinvenuto versamenti su conti bancari del [...] per euro 1.500.244,00 nonché prelevamenti per euro 1.414.836,08, tutti privi di giustificazione valida. In applicazione del principio sopra esposto, deve ritenersi che il maggior imponibile dell’attività del [...] vada quantificato in misura pari ai versamenti bancari, e cioè in euro 1.500.244,00. È da ritenersi invece azzerata la somma relativa ai prelevamenti. 6.1 Va accolta anche la doglianza di parte ricorren-


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te riguardante la mancata applicazione, nel calcolo delle sanzioni, della continuazione anche con riferimento agli anni 1997 e 1998, oggetto di altro atto di accertamento. L’Ufficio ha sostenuto di non dover applicare essa continuazione in presenza di atti accertativi diversi, ma è ovvio che l’istituto della continuazione non può essere lasciato nella disponibilità dell’organo accertatore, il quale potrebbe favorirne o paralizzarne il funzionamento semplicemente emettendo uno ovvero molti atti di accertamento. La continuazione rimanda ad un elemento oggettivo di reiterazione costante dì condotte in un arco di tempo più o meno lungo, per cui è solo a questo elemento che il giudice deve avere riguardo. Nel caso di specie, gli accertamenti relativi

agli anni 1997 e 1998 (anch’essi sottoposti al vaglio di questa Commissione) hanno presentato caratteristiche del tutto simili per oggetto e tipologia rispetto a quelli emessi per gli anni successivi, per cui la continuazione è da ritenersi applicabile a tutti gli anni dal 1997 in poi. 7.1 Il ricorso del [...], per tutto quanto sopra esposto, va accolto parzialmente, con rideterminazione dei maggiori ricavi in euro 1.500.244,00. L’Ufficio dovrà ricalcolare le somme dovute per le varie imposta, nonché ricalcolare le sanzioni considerando anche la continuazione come indicato al punto 6.1 che precede. 7.2 Le spese di lite vanno compensate, alla luce della reciproca soccombenza.

Nota

vi costi da portare in deduzione (cfr. Corte cost., 8 giugno 2005, n. 225, in Giur. It., 2005, 2429. In linea con tale orientamento cfr. Cass., 9 settembre 2005, n. 18016, in Riv. Giur. Trib., 2005, 44, 3477 e circ. 19 ottobre 2006, n. 32/E, in Corr. Trib., 2006, 44, 3522). La Commissione tributaria provinciale di Macerata, ritenendo deducibili i costi, ha rilevato la mancanza di criteri rigorosi con cui quantificarli. Per colmare la lacuna, i giudici maceratesi hanno stabilito che, qualora sul conto corrente risultino movimentazioni in entrata e in uscita di analogo ammontare, è legittimo dedurne che i prelevamenti rappresentino dei costi in evasione d’imposta, sostenuti per ottenere dei ricavi (pari alle somme di importo corrispondente) costituiti dai versamenti. Una simile interpretazione, se pur apprezzabile nel tentativo di individuare un criterio di quantificazione dei costi deducili, giunge ad un risultato che annulla la presunzione sancita dagli artt. 32 e 51 citati.

Gli artt. 32, comma 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (ai fini delle imposte sui redditi) e 51, comma 2, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (ai fini Iva) stabiliscono che i prelevamenti effettuati sui conti correnti bancari, in mancanza di una valida giustificazione fornita dall’imprenditore o dal libero professionista in merito alla provenienza o alla destinazione di tali somme, possono essere computati da parte dell’amministrazione finanziaria quali ricavi in evasione d’imposta. In ordine alla sollevata pronuncia di incostituzionalità di tali norme, la Corte costituzionale ha precisato che non sussiste alcuna contrarietà delle disposizioni citate ai principi fondamentali sanciti negli artt. 3 e 24 della Cost. purché le presunzioni in esse contenute non si risolvano in un pericoloso automatismo: per tale ragione, la Corte precisa che, ai fini della corretta determinazione dei ricavi, andranno necessariamente quantificati anche i relati-

LA RESPONSABILITÀ PER I DEBITI FISCALI DELLA SOCIETÀ DI CAPITALI DOPO LA CANCELLAZIONE DAL REGISTRO DELLE IMPRESE 2

Commissione tributaria provinciale di Lucca, sez. IV, 20 aprile 2007, n. 176 Presidente: Di Bugno - Relatore: Pizzi

1973, n. 602, art. 36)

Accertamento - Società di capitali cancellata dal registro delle imprese - Estinzione della società - Illegittimità dell’avviso indirizzato alla società - Responsabilità del liquidatore e dei soci (C.c., art. 2495, comma 2; D.P.R. 29 settembre

Poiché la società di capitali, una volta cancellata dal registro delle imprese, si estingue, i creditori sociali insoddisfatti – compreso il fisco – non possono rivalersi sulla società stessa in quanto soggetto non più esistente, ma possono solo agire nei confronti dei soci e/o del liquidatore, se


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ricorrono le particolari condizioni previste dalla legge, per cui un avviso di accertamento notificato ad una società di capitali cancellata dal registro delle imprese è illegittimo. Svolgimento del processo L’Agenzia delle Entrate ha provveduto alla notifica degli avvisi di accertamento in epigrafe alla società P. a r.l. nella persona del liquidatore. Questi ha proposto ricorso ed ha eccepito di essere venuto a conoscenza dell’acquisizione della documentazione fiscale della società solo con la notifica degli avvisi ricordati, di aver proceduto alla liquidazione e alla cancellazione della società non sussistendo altre partite in sospeso e conseguentemente di aver operato legittimamente. L’Ufficio nella memoria di costituzione, ha contestato i motivi del ricorso evidenziando la fondatezza degli accertamenti. La Commissione, svoltasi la discussione in pubblica udienza, ha emesso la decisione. Motivi della decisione È necessario, preliminarmente, evidenziare che la società P. a r.l. è stata posta in liquidazione l’11 dicembre 2003 e successivamente cancellata dal registro delle imprese con la conseguente estinzione della stessa. Gli avvisi di accertamento sono stati notificati solo nel 2005 senza che il liquidatore avesse notizia della acquisizione di documenti da parte dell’Agenzia delle Entrate. La riforma del diritto societario e la nuova formulazione dell’art. 2495, comma 2, c.c. (D.Lgs. 6/2003) consente di esaminare la controversia sotto un profilo diverso. Infatti, come da recente giuNota di Laura Rosa La Commissione tributaria di Lucca prende atto della normativa introdotta dalla riforma del diritto societario per la quale i creditori sociali insoddisfatti, tra i quali anche il fisco, nulla possono fare nei confronti della società dopo la cancellazione della medesima dal registro delle imprese in quanto soggetto ormai inesistente. Tutto ciò ha diversi risvolti giuridici per i creditori, obbligati a rivolgersi ai soci o al liquidatore, tuttavia solo nel caso in cui ve ne siano i presupposti, con un aggravio notevole, anche ai fini dell’onere della prova. Inquadramento normativo La sentenza in commento affronta l’interpretazio-

risprudenza di merito, il perentorio incipit del citato comma 2 «Ferma restando l’estinzione della società» evidenzia che l’adempimento della formalità pubblicitaria (cancellazione) segna la fine della società anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo ovvero la cancellazione della società è condizione non solo necessaria, ma anche sufficiente per l’estinzione. Ne consegue che i creditori insoddisfatti – ex comma 2, cit. – potranno agire solo nei confronti dei soci e/o del liquidatore essendo definitivamente estinta la società. Il liquidatore risponderà dei mancati pagamenti ove ne risulti acclarata la responsabilità. Nel caso di specie il liquidatore ha proceduto agli adempimenti delegatigli dai soci in tempo anteriore al sorgere del presente contenzioso senza che, all’epoca, sussistesse pendenza di alcun genere per cui nessuna responsabilità può essergli addebitata per non aver pagato quanto oggi richiesto (ove legittimamente fondato). La società è estinta e nessuna azione può essere proposta nei confronti della stessa, mentre nei confronti del liquidatore, ancorché non ritenuto responsabile di alcuna violazione, l’accertamento così come notificato non può avere effetto in quanto solo destinatario del provvedimento nella qualità di rappresentante della società. La Commissione, attesa la rilevanza della questione trattata, ritiene sussistano giusti motivi per compensare le spese del giudizio. P.Q.M. La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate. ne dell’art. 2495, secondo comma, c.c. nel testo introdotto dall’art. 4 del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 ed entrato in vigore l’1 gennaio 2004, dove si prevede che «ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società». Detta disposizione ha sostanzialmente modificato quanto prima previsto dall’art. 2496 c.c., rubricato appunto “cancellazione della società”, secondo cui «Approvato il bilancio finale di liquidazione, i


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liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. Dopo la cancellazione della società i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi». Nel contempo la normativa fiscale dispone all’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973 che «I liquidatori dei soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche che non adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori rispondono in proprio del pagamento delle imposte se soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o assegnano beni ai soci o associati senza avere prima soddisfatto i crediti tributari. Tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti di imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti. La disposizione contenuta nel precedente comma si applica agli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della società o dell’ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori. I soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi, salvo le maggiori responsabilità stabilite dal Codice civile. Le responsabilità previste dai commi precedenti sono estese agli amministratori che hanno compiuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione operazioni di liquidazione ovvero hanno occultato attività sociali anche mediante omissioni nelle scritture contabili». Dalla lettura delle norme emergono sostanzialmente tre diversi problemi: 1. gli effetti della cancellazione; 2. la prescrizione dell’azione nei confronti del liquidatore o dei soci che abbiano riscosso somme in base al bilancio finale di liquidazione; 3. l’onere della prova a carico del terzo creditore (anche amministrazione finanziaria) della sussistenza di un patrimonio attribuito ai soci al momento della cancellazione della società ovvero di una responsabilità per colpa dei liquidatori nel

pagamento dei debiti, o nella sottrazione o occultamento di attività sociali. Gli effetti della cancellazione dalla società dal registro delle imprese L’interpretazione fornita dalla giurisprudenza in merito agli effetti della cancellazione dal registro delle imprese, nel vigore dell’art. 2496 c.c., si estrinseca nel ritenere che le società, non si estinguono in seguito alla formale cancellazione dal registro medesimo, ma soltanto quando sia avvenuta l’effettiva liquidazione di tutti i rapporti giuridici pendenti, e ciò in quanto il provvedimento di cancellazione ha valore meramente dichiarativo del fatto estintivo, che deve essersi in precedenza verificato, e che non può dirsi avvenuto; da ciò discende l’irrilevanza del formale provvedimento se i rapporti facenti capo alla società non sono stati effettivamente fatti oggetto della liquidazione1. Pertanto, la chiusura dell’intervenuta liquidazione o, comunque, dell’attività con conseguente cancellazione dal registro delle imprese non determina in ogni caso la definitiva estinzione dell’ente, poiché qualora rimangano od emergano ulteriori pendenze di debito e credito non si può precludere agli aventi diritto la tutela delle proprie ragioni e tanto meno privare un ufficio tributario dell’esercizio della potestà impositiva mediante la notifica dell’avviso di accertamento. In tale ambito giurisprudenziale, non si può sottacere, anche al fine di meglio comprendere la portata normativa della disposizione introdotta con la riforma del diritto societario, la sentenza della Corte costituzionale n. 319 del 21 luglio 2000 che ha ritenuto incostituzionale l’art. 10 della legge fallimentare nella parte in cui non prevede che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento dell’impresa collettiva decorra dalla cancellazione della società dal registro delle imprese. Al riguardo l’art. 10 in parola, rubricato appunto “Fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’esercizio dell’impresa” disponeva – prima delle modifiche apportate dalla riforma fallimentare – che «L’imprenditore che per qualunque causa, ha cessato l’esercizio dell’impresa, può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo». In questa luce si deve leggere la modifica che la riforma del diritto delle società di capitali – con-

1 In particolare si v. Cass., 23 novembre 1978, n. 5489 e 3 aprile 1979, n. 1880, nonché Comm. trib. centr., dec. 12 marzo-8 maggio 1985, n. 4386.


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tenuta nel D.Lgs. 17 gennaio 2006, n. 6 – ha apportato alla disposizione già contenuta nel comma 2 dell’art. 2456 c.c. Il legislatore delegato, nell’adeguarsi alla sopra citata statuizione della Corte costituzionale, si è attestato all’interpretazione che ne è stata data: la cancellazione della società dal registro delle imprese ha efficacia costitutiva, determinando l’estinzione dell’ente. Così, alla disposizione del comma 2 dell’art. 2495 c.c. (già 2456), rimasta inalterata nella sua sostanza precettiva, si è premesso l’inciso «ferma restando l’estinzione della società» e si è aggiunto il periodo finale: «La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società». Da ciò consegue che una volta cancellata, la società non esiste più; o meglio, esiste ancora, per i suoi creditori, ma solo per un anno, e solo ai fini della notifica della domanda rivolta nei confronti dei soci, nei limiti delle somme da questi riscosse in sede di liquidazione. In tal modo il legislatore della riforma ha chiaramente manifestato la volontà di stabilire che la cancellazione produce l’effetto costitutivo dell’estinzione irreversibile della società anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo non definiti2. E in tal senso è orientata anche la sentenza qui in commento, laddove precisa che «l’adempimento della formalità pubblicitaria (cancellazione) segna la fine della società anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo ovvero la con cessazione della società è condizione non solo necessaria ma anche sufficiente per l’estinzione». Al riguardo si può porre solo un problema in merito alla decorrenza di detta disposizione; in particolare la Corte Suprema ha chiarito che il nuovo art. 2495 – entrata in vigore l’1 gennaio 2004 – trova applicazione anche alle cancellazioni già iscritte nel registro delle imprese, posto che la nuova norma non ha disciplinato le condizioni per la cancellazione della società, che presuppone sempre la liquidazione e l’approvazione del relativo bilancio finale, ma i soli effetti della cancellazione, con la conseguenza che trova applicazione retroattivamente con l’attribuzione ex nunc di effetti nuovi a fatti pregressi3.

2 Tale volontà è implicitamente confermata dalla previsione che i creditori insoddisfatti possono, entro un anno dalla cancellazione, notificare presso l’ultima sede della società la domanda proposta nei confronti di soci e liquidatori si tratta di una age-

La prescrizione dell’azione nei confronti del liquidatore o dei soci che abbiano riscosso somme in base al bilancio finale di liquidazione L’altra questione rilevante nell’interpretazione di questa norma riguarda la prescrizione applicabile ai creditori della società, rimasti insoddisfatti nel procedimento di liquidazione, di far valere le loro ragioni, successivamente alla cancellazione dell’ente dal registro delle imprese, nei confronti dei soci, nei limiti delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione. Al riguardo delle due l’una: se, una volta cancellata la società dal registro delle imprese, il diritto che il creditore sociale insoddisfatto faccia valere pro quota nei confronti dei singoli soci ricada tra quelli per i quali l’art. 2949, comma 1, stabilisce il termine di prescrizione quinquennale; o se alla previsione di tale norma esso si sottragga per rifluire invece nel regime ordinario della prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. È generalmente condivisa l’affermazione per cui i rapporti sociali ai quali si applica la suindicata prescrizione breve sono quelli che direttamente discendono dal contratto di società e dalle situazioni determinate dallo svolgimento della vita sociale, mentre ne restano esclusi i diritti derivanti da ordinari rapporti giuridici intrattenuti dalla società con terzi4. Non altrettanto pacifico è però se un credito del terzo verso la società, che per la sua natura e la sua origine non sarebbe soggetto allo speciale regime di prescrizione breve, rientri invece nell’ambito di tale regime quando – liquidata e cancellata la società dal registro delle imprese – il creditore si rivolga personalmente ai soci nei limiti consentiti dalla disciplina dettata dal codice. La tesi favorevole all’applicazione del termine di prescrizione breve, anche se l’origine del credito di cui si tratta dipenda da rapporti intrattenuti con un terzo dalla società poi cancellata, si fonda soprattutto sul rilievo che la possibilità di far valere una siffatta pretesa creditoria direttamente nei confronti dei soci discenderebbe da un titolo autonomo, e troverebbe il suo fondamento unicamente nel pregresso rapporto di società, in forza del quale i soci sono tenuti pro quota a far fronte a quel debito. Ora la Corte di Cassazione, antecedentemente alla riforma societaria, sottolineava al riguardo che

volazione che riproduce esattamente quella prevista dall’art. 303, comma 2, c.p.c. per la notifica della riassunzione agli eredi della parte defunta. 3 Sent. n. 18618 del 21 febbraio 2006 (dep. il 28 agosto 2006) della Cass.,

sez. I. 4 Cfr. Cass., 1 giugno 1993, n. 6107; 5 novembre 1992, n. 11973; 9 marzo 1982, n. 1475; 23 novembre 1978, n. 5489; 9 dicembre 1974, n. 4109; 10 luglio 1974, n. 2042; 13 agosto 1968, n. 2850.


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la questione è in gran parte pregiudicata dalla risposta che si ritenga di dover dare al noto problema degli effetti estintivi della cancellazione della società di capitali dal registro delle imprese. Ove, infatti, si attribuisca alla cancellazione dal registro l’effetto di estinguere definitivamente l’ente societario, con conseguente venir meno della sua personalità e soggettività giuridica, è naturale ricostruire la residuale obbligazione dei soci in termini di successione pro quota nel lato passivo della medesima obbligazione originariamente sorta in capo alla società poi estinta. Ove, invece, si privilegi la per cui la società, fin quando non si siano effettivamente esauriti i rapporti obbligatori ad essa facenti capo, sarebbe ancora esistente a dispetto dell’intervenuta cancellazione, l’obbligazione dei soci si affiancherebbe al persistente debito della società. Tuttavia la Corte di Cassazione, con una lunga e motivata sentenza, ha precisato che, qualunque sia la soluzione da preferire, non sembra in nessun caso sostenibile che la responsabilità dei soci si presenti, nell’ipotesi considerata, come una mera estensione del rapporto sociale e che il diritto fatto valere nei loro confronti dal creditore da quel rapporto derivi. Il rapporto sociale indubbiamente costituisce il passaggio indispensabile affinché il debito, sorto originariamente in capo alla società, possa in seguito, alle condizioni e nei limiti sopra indicati, essere ricondotto alla persona del socio. Ma ciò non consente di affermare che quel diritto abbia nel rapporto sociale la sua causa generatrice. La responsabilità del socio – a seconda della ricostruzione teorica cui si preferisca aderire – si sostituisce o accede quella della società, ma pur sempre in stretta dipendenza o correlazione con essa, e quindi in termini tali da dover necessariamente coincidere, anche ai fini della prescrizione, con quelli dell’obbligazione della società. Da ciò consegue che il credito del terzo verso la società, anche quando venga fatto valere nei confronti del socio conserva la propria causa (estranea al rapporto sociale) e la propria originaria natura giuridica, nonché il termine di prescrizione originario, posto che il socio potrà opporre al creditore sociale le stesse eccezioni, fondate sulla causa originaria del rapporto, che la società avrebbe potuto far valere.

5 Sent. n. 5113 del 26 novembre 2002, dep. il 3 aprile 2003, della Cass., sez. I civ. 6 Cass., n. 3879 del 1975; n. 5489 del

In conclusione il diritto azionato dal creditore sociale nei confronti del socio dopo la cancellazione della società dal registro è soggetto al medesimo termine di prescrizione cui soggiacerebbe se esso fosse stato azionato direttamente nei riguardi della medesima società5. L’azione di responsabilità nei confronti dei soci e del liquidatore Da ultimo è da segnalare che comunque il legislatore ha voluto dare una garanzia ai creditori nei confronti dei soci qualora dal bilancio finale di liquidazione risultasse che abbiano ottenuto somme in sede di riparto. Al riguardo secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, nell’art. 2496 c.c. andava ravvisata – in coerenza con il principio secondo cui la cancellazione della società dal registro delle imprese non ne determina l’estinzione se e fino a quando permangano debiti sociali – una modificazione del rapporto obbligatorio dal lato passivo, per la quale all’obbligazione della società si aggiungeva, pro parte, quella dei singoli soci, oltre che dei liquidatori colpevoli: si trattava, cioè, di una ulteriore garanzia – non incompatibile con la permanenza in vita della società – che il legislatore aveva inteso accordare ai creditori insoddisfatti, in base alla quale è data ai medesimi la facoltà di scelta fra l’agire verso la società, non ancora estinta, e l’agire verso i soci6 È, tuttavia, evidente, che la responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali non assolte è limitata alla parte da ciascuno di essi conseguita nella distribuzione dell’attivo ne consegue che il creditore, il quale intenda agire nei confronti del socio, è tenuto a dimostrare il presupposto della responsabilità di quest’ultimo (vale a dire la sua legittimazione passiva), e cioè che, in concreto, in base al bilancio finale di liquidazione, vi sia stata la distribuzione dell’attivo risultante dal bilancio medesimo e che una quota di tale attivo sia stata riscossa dal convenuto7. Questo orientamento deve essere confermato anche alla luce della nuova disposizione dettata dall’art 2495, secondo comma, c.c., posto che la condizione per agire nei confronti dei soci è sempre limitata alla concorrenza delle somme da questi riscosse in sede di bilancio di liquidazione.

1978; n. 4132 del 1979; n. 7139 del 1987; cfr., anche, più di recente, Cass., n. 11021 del 1999 e n. 12078 del 2003.

7 Cass., n. 3879/1975 e n. 5489/1978; sent. n. 19752 del 3 maggio 2005, dep. il 10 ottobre 2005, App. Roma, 16 aprile 1993, dep. il 28 giugno 1993.


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Problema diverso è quello della colpa o del dolo del liquidatore nello svolgere le attività di liquidazione, ovvero la responsabilità del liquidatore che colposamente (e a maggior ragione dolosamente) abbia chiuso la liquidazione senza aver provveduto, pur potendo provvedere8 a pagare un debito sociale di cui conosceva l’esistenza o che avrebbe potuto e dovuto riscontrare usando la dovuta diligenza. Il liquidatore pertanto ne risponde a prescindere dal requisito dell’insufficienza del patrimoni sociale e a titolo diverso da quello che connota la responsabilità dei soci. E in quest’ottica si deve inquadrare la norma inserita nell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, sopra richiamata in merito alla quale la Corte di Cassazione9 ha sempre ritenuto che l’azione di responsabilità nei confronti del liquidatore di una società, con riguardo ai crediti per imposta sul reddito delle persone giuridiche – i cui presupposti si siano verificati a carico della stessa, ancorché accertati successivamente – che l’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973 riconosce all’amministrazione finanziaria, nel caso in cui il liquidatore (o l’amministratore, nella fattispecie prefigurata dal comma 4 dello stesso art. 36) abbia esaurito le disponibilità della liquidazione senza provvedere al loro pagamento, è esercitabile alla duplice condizione che i ruoli, in cui siano iscritti i tributi a carico della società, possano essere posti in riscossione e che sia acquisita legale certezza che i tributi medesimi non siano stati soddisfatti con le attività di liquidazione. In merito poi alla prescrizione di detta azione da parte dell’amministrazione finanziaria la Cassazione ha chiarito che il carattere proprio di tale obbligazione, che deriva dall’osservanza da parte del liquidatore di uno specifico obbligo di legge su di lui gravante, comporta che una tale respon-

8 Vedi Trib. Roma, 20 marzo 2000, in Giur. It., 2001, 104 e Trib. Roma, 19 maggio 1995, in Foro It., 1996, I, 2231.

sabilità possa essere invocata dall’amministrazione finanziaria – una volta realizzate le due condizioni sopra richiamate, nell’ordinario termine decennale di prescrizione, essendo riconducibile alle norme degli artt. 1176 e 1218 c.c. Ovviamente la natura e l’oggetto di tale responsabilità comportano che pur dipendendo l’attualità della stessa dalla conseguita certezza e definitività del debito tributario, l’obbligato è del tutto estraneo al procedimento di accertamento del medesimo e che, conseguentemente, eventuali ragioni di invalidità di tale procedimento non possono essere opposte dal liquidatore o amministratore-liquidatore di fatto e rilevate dal giudice. Ora la sentenza in commento sicuramente parte da un’affermazione corretta, ovvero che alla luce dell’art. 2495, secondo comma, c.c., i creditori insoddisfatti, dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, non possono rivalersi nei confronti della società; tuttavia posto che, alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione, ora richiamata l’azione di responsabilità nei confronti del liquidatore può essere esperita solo se i ruoli, in cui siano iscritti i tributi a carico della società, possano essere posti in riscossione e che sia acquisita legale certezza che i tributi medesimi non siano stati soddisfatti con le attività di liquidazione, è da ritenere che l’amministrazione non possa esperire nessuna azione di responsabilità nel caso in cui provveda a notificare un accertamento o una cartella di pagamento successivamente alla cancellazione della società dal registro delle imprese, salvo che non provi che il liquidatore ne era in qualche modo a conoscenza. E quindi anche la conclusione a cui giunge la Commissione tributaria di Lucca è da condividere, posto che la società una volta cancellata non esiste più nell’ordinamento giuridico.

9 Cfr. Cass., sent. n. 2767 e 4765 del 1989, 9688 del 1995, 12546 del 2001 e 8685 del 2002.


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RAGIONI A FONDAMENTO DELLA VERIFICA E RIFLESSI SULLA LEGITTIMITÀ DELL’ATTO IMPOSITIVO 3

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VI, 10 luglio 2007, n. 67 Presidente: De Lorenzi - Relatore Biasotto Accertamento - Accessi - Diritti e garanzie del contribuente - Comunicazione delle ragioni che giustificano la verifica - Illegittimità del mero rinvio a disposizioni di legge (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 2) Accertamento - Prove irritualmente raccolte Inutilizzabilità in sede di accertamento - Illegittimità derivata dell’atto impositivo (C.c.p., art. 191; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 75; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 70) L’art. 12, comma 2, della legge 212/2000, laddove prevede il diritto del contribuente ad essere informato delle ragioni di avvio della verifica, impone uno spe-

Nota di Christian Califano L’interessante sentenza in rassegna ha ritenuto che, laddove il contribuente non venga reso edotto delle ragioni che fondano la verifica tributaria, tutti gli elementi probatori raccolti durante la fase istruttoria devono essere considerati inutilizzabili e, conseguentemente, l’accertamento debba ritenersi illegittimo. Tale rigore interpretativo impone una riflessione critica, sia con riferimento agli effettivi margini di discrezionalità dell’amministrazione finanziaria nella scelta dei contribuenti da sottoporre a verifica, sia in relazione alla possibilità che il mancato esercizio di un diritto da parte del contribuente (garantito dall’art. 12, comma 2, L. 27 luglio 2000, n. 212), possa costituire un vizio idoneo travolgere l’avviso di accertamento per illegittimità derivata. Premessa La Commissione tributaria di Treviso ha ritenuto che, nel caso in cui il contribuente sottoposto ad accertamento non venga a conoscenza, in sede istruttoria, delle ragioni che fondano la verifica nei suoi confronti, si profila una violazione del disposto di cui all’art. 12, comma 2, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) tale da giustificare l’illegittimità dell’avviso di accertamento.

cifico obbligo a carico dell’amministrazione, concretantesi nell’indicazione dei motivi che, nel merito, hanno condotto all’individuazione del soggetto da sottoporre a controllo. Tale obbligo non può, quindi, essere considerato assolto mediante il mero rinvio a disposizioni di legge. Le illegittimità commesse nell’esercizio delle attività di controllo si riflettono sull’attività di accertamento secondo lo schema dell’invalidità derivata; pertanto, le prove irritualmente raccolte sono inutilizzabili in sede accertativa in virtù del rinvio che l’art. 70 del D.P.R. 600/1973 e l’art. 75 del D.P.R. 633/1972 operano alle disposizioni del codice di procedura penale. Il testo della sentenza è già stato pubblicato in questa rivista, 2007, 4, 666, con nota redazionale.

La vicenda processuale trae origine da una verifica della Guardia di Finanza che ha condotto alla contestazione di omessa presentazione della dichiarazione tributaria relativa a più annualità in assenza, nelle risultanze del processo verbale di verifica e nel processo verbale di constatazione, sia delle ragioni che hanno condotto al controllo, sia delle “fonti di innesco”, non desumibili nemmeno dall’“ordine di verifica” (di cui il giudice ha chiesto la produzione in giudizio). In particolare, la Commissione, in accoglimento della specifica eccezione posta dal contribuente, ha ritenuto che il contenuto dell’art. 12, comma 2, L. 212/2000 (il quale stabilisce, nel caso di verifica fiscale, che «il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda»), vada interpretato nel senso che il contribuente deve conoscere «la causa» e «le motivazioni» in base alle quale l’amministrazione finanziaria si è attivata nei suoi confronti per «quella determinata verifica fiscale». Secondo i giudici trevigiani, infatti, va ricercato «il criterio che guida la scelta, che non può essere il puro caso, di verificare quel contribuente e non un altro»; in caso contrario, «la decisione di effettuare una verifica fiscale sarebbe lasciata ad un’esclusiva, incontrollata discrezionalità dell’amministrazione». Al fine di evitare tale eventualità,


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nella sentenza si è ritenuto che «il legislatore, – con l’art. 12, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente –, abbia semplicemente voluto che uno strumento investigativo, quale la verifica fiscale, venga posta in essere a ragion veduta con riferimento al merito, e non solo alla legittimità, dell’operazione e che di tale ragion veduta debba essere informato il contribuente e ciò al fine di meglio responsabilizzare l’organo procedente e, nello stesso tempo, di soddisfare l’esigenza di un suo trasparente comportamento, e ciò con conseguente argine alla discrezionalità dell’amministrazione nell’esercizio dei suoi poteri di verifica». La Commissione ha, dunque, ritenuto che «ogni violazione di questo principio produce conseguentemente l’illegittimità del procedimento in quanto è stato violata una norma di azione che regola il procedimento amministrativo», con il corollario secondo cui «in base al principio dell’illegittimità derivata, gli elementi probatori acquisiti dai verificatori in violazione della norma sopra richiamata sono da ritenersi inutilizzabili». Ciò porterebbe, inevitabilmente, all’illegittimità degli atti di accertamento fondati su tali elementi per “violazione di legge”. Si pongono, a questo punto, una serie di delicate questioni con riferimento alla rilevanza degli atti istruttori sotto il duplice profilo della loro motivazione e dei loro vizi, nonché in relazione all’inutilizzabilità degli elementi probatori raccolti per “illegittimità derivata”. La rilevanza degli atti istruttori sotto il profilo della giustificazione dei motivi della verifica L’introduzione, attraverso lo Statuto del contribuente, di una disciplina stabile e per principi1, ha segnato un nuovo passo nell’evoluzione dei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuenti, realizzando concretamente i doveri di imparzialità, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa. Il riconoscimento di un diritto generale all’informazione, alla chiarezza ed alla conoscenza degli atti, quindi, impone un assetto di rapporti improntati alla trasparenza e alla collaborazione. La questione circa l’estensione del dovere di fon-

1 Nella relazione n. 4818 della Camera dei Deputati alla L. 212/2000 si legge che lo Statuto, finalizzato a dare attuazione ai diritti fondamentali del contribuente, deve recare una disciplina tributaria «scritta per principi, stabile nel tempo, affidabile, trasparente». 2 MORETTI, La motivazione nell’accertamento tributario, Padova, 1969, 25,

dare e giustificare le ragioni che hanno condotto all’emissione di atti amministrativi, anche quelli senza rilevanza esterna, non è, peraltro, nuova nel diritto tributario, in quanto la dottrina che più ha approfondito tali profili aveva già evidenziato come il concetto di giusto procedimento comprendesse la motivazione obbligatoria dei provvedimenti sia con rilevanza esterna, sia con rilevanza interna2. Gli studi che, anche in epoca risalente, si sono occupati di questi aspetti, hanno messo in rilievo come gli atti istruttori, pur non essendo idonei a produrre gli effetti propri degli atti terminali della sequenza procedimentale, erano comunque capaci di dispiegare effetti al di fuori del procedimento3, nel senso che, nella successiva valutazione in sede di riesame del provvedimento, l’analisi della correttezza delle fasi che si erano svolte nell’ambito della funzione amministrativa incidevano sulla conformità alle regole della struttura formale e sostanziale dell’atto tributario. La necessità di una giustificazione o di una motivazione degli atti endoprocedimentali, dunque, si profilava in relazione alle garanzie poste dal principio di giusto procedimento in un rapporto di “strumentalità” rispetto alle esigenze di comprensione e valutazione dell’iter procedimentale e di giustificazione della pretesa in sede giurisdizionale. La particolare rilevanza che viene attualmente riservata ai profili relativi alle garanzie del contribuente dinanzi all’esercizio dei poteri autoritativi dell’amministrazione finanziaria, non trascura di soffermarsi anche sugli atti interni come giustificazione del corretto svolgersi dell’azione impositiva. In sostanza, le risultanze istruttorie contenute nella motivazione del provvedimento e nei documenti allegati, cui la stessa motivazione si richiama, rilevano sotto il profilo della valutazione dei fatti supposti e degli atti istruttori emessi durante la fase endoprocedimentale. Qui potranno rilevare gli eventuali vizi degli atti istruttori e, con essi, i vizi della funzione. Si ha, pertanto, come è emerso anche dalla sentenza in commento, una autonoma rilevanza dei vizi degli atti istruttori ai fini del controllo del

afferma, sebbene in un contesto normativo assai differente, che la motivazione deve essere obbligatoria anche per gli «atti amministrativi in senso stretto», intendendo per questi ultimi quegli atti presupposti diversi da quelli con rilevanza esterna. 3 MAFFEZZONI, Il procedimento di imposizione nell’imposta generale sull’entrata,

Napoli, 1965, 69 ss., sottolinea come anche nel diritto tributario era emersa l’importanza dello studio della struttura formale del provvedimento sotto il profilo della capacità degli atti interni di produrre effetti anche fuori dal procedimento, sebbene in modo differente rispetto agli effetti tipici del provvedimento finale.


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corretto esercizio dell’azione, con evidenti riflessi sotto il connesso profilo della rilevanza degli atti endoprocedimentali ai fini della tutela del contribuente. Ora, senza addentrarsi nel dibattuto tema dell’autonoma impugnabilità degli atti istruttori viziati e della loro tutelabilità immediata o differita4, basti qui precisare che per fondare l’ipotesi in cui sia indispensabile una tutela per il contribuente anche attraverso una motivazione degli atti istruttori, è necessario che tali atti siano potenzialmente lesivi nei confronti dello stesso. Le ipotesi che si possono profilare, sono due: il caso in cui lo svolgimento delle attività istruttorie sia condotto, durante la fase di accertamentoispezione5, attraverso atti istruttori posti in essere in violazione di legge, oppure, come postulato dalla sentenza in commento, il caso della mancanza di ragioni che giustifichino la verifica di quel particolare contribuente. In entrambi i casi, il rischio che si delinea è quello dell’illegittimità derivata dell’atto impositivo. Le ragioni (o “fonti di innesco”) della verifica fiscale I giudici della provinciale di Treviso, peraltro in maniera un po’ assertiva, sostengono che l’indicazione negli atti istruttori della ragione della verifica o degli atti di innesco è necessaria perché, in caso contrario, tale scelta «sarebbe lasciata ad un’esclusiva, incontrollata discrezionalità dell’amministrazione, titolare del potere di eseguirla»6. Queste conclusioni non paiono in linea con la na-

4 In relazione all’approfondimento teorico del delicato tema della tutela immediata contro l’atto istruttorio si v. TESAURO, Gli atti impugnabili ed i limiti della giurisdizione tributaria, in questa rivista, 2001, 1, 9 ss.; SCHIAVOLIN, Poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria, in Dig. Comm., Torino, 1995, XI, 193 ss.; STEVANATO, Vizi dell’istruttoria e illegittimità dell’avviso di accertamento, in Rass. Trib., 1990, 2, 87. Per quanto concerne, invece, l’approfondimento interpretativo delle implicazioni desumibili dall’art. 7, comma 4, L. 212/2000 si v. LA ROSA, Sui riflessi procedimentali e processuali delle indagini tributarie irregolari, in Riv. Dir. Trib., 2002, II, 294; DI SIENA-LUPI, I vizi dell’istruttoria e la legittimità dell’atto impositivo: cosa accade quando non sono coinvolti diritti fondamentali?, in Dialoghi Dir. Trib., 2006, 6, 767 ss. 5 Secondo il Consiglio di Stato, sez. IV, 9 luglio 2002, n. 3825, in Boll. Trib.,

tura dei decreti che individuano i criteri di selezione per il controllo delle categorie di contribuenti. Tali decreti lasciano agli Uffici ampio margine per individuare i soggetti da sottoporre a verifica, assolvendo ad una funzione di indirizzo in “senso proprio”; sono dotati, pertanto, di efficacia solo interna e non sono, quindi, diretti a produrre effetti diretti nei confronti dei contribuenti7, a differenza di quegli atti, non qualificabili di indirizzo, che non sono preposti a risolvere problemi organizzativi interni ma a disciplinare il modo di agire della pubblica amministrazione, dispiegando questi ultimi i loro effetti sul rapporto esistente tra l’amministrazione e i contribuenti8. Oltre a ciò, i margini di valutazione piuttosto ampi che vengono lasciati agli Uffici nella selezione dei contribuenti da controllare, rendono assi difficile per il contribuente dimostrare la violazione da parte dell’amministrazione finanziaria delle prescrizioni dei suddetti decreti. In relazione a ciò, pare che la mancata indicazione delle ragioni (o delle “fonti di innesco”) che hanno determinato l’Ufficio a sottoporre a verifica quel determinato contribuente, possano ascriversi ad una fase antecedente alla verifica fiscale, che si può collocare tra la scelte discrezionali riconosciute in capo all’amministrazione. Per altro verso, non si può neppure escludere che, qualora la ratio delle disposizioni ministeriali violasse il principio di imparzialità prevedendo arbìtri, potrebbe emergere in capo al contribuente una posizione soggettiva tutelabile in sede giurisdizionale9.

2004, 1, 59, «[...] posto che il potere di verifica è istituzionalmente esercitabile in funzione strumentale all’accertamento tributario, la relativa attività ha una funzione preparatoria del futuro provvedimento definitivo». Sul punto, tuttavia, illustre dottrina, LA ROSA, Caratteri e funzioni dell’accertamento tributario, in Dir. e Prat. Trib., 1990, I, 793, si è espressa in maniera opposta, osservando che «la tematica del rapporto tra attività conoscitiva ed accertamento dovrebbe essere affrontata dall’assunto che quest’ultimo non è controllo o acquisizione (eventualmente autoritativa) di conoscenza e prove ma è piuttosto espressione di una distinta funzione che, delle conoscenze ovviamente presuppone, ma che di esse rappresenta un posterius». 6 Sul punto, con riferimento alla diffusa opinione secondo cui all’amministrazione finanziaria debba riconoscersi discrezionalità nelle selezione dei soggetti da sottoporre a control-

lo, si v., anche per i riferimenti bibliografici, l’ampia ricostruzione operata da DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 402, spec. nota 54. 7 In questi termini FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2003, 340-341, il quale inserisce in questa categoria i decreti ministeriali o governativi con i quali vengono istituiti nuovi Uffici o è accertato il loro mancato o irregolare funzionamento degli stessi, oltre che quelli con cui sono stabiliti i criteri selettivi per le attività di controllo. 8 Così LA ROSA, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, 50. Di atti di indirizzo “interni” ed “esterni”, parla anche SERRANÒ, L’attività di indirizzo in diritto tributario, Messina, 2001, 43. 9 Secondo FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 2003, 301, si deve ritenere che «gli scostamenti dai singoli criteri specifici e il ricorso al criterio


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Nel caso di specie, tuttavia, almeno dalla ricostruzione operata dalla sentenza della Comm. trib. prov., non sembra potersi ravvisare alcuna violazione dell’imparzialità amministrativa né uno scostamento dai criteri selettivi. Per altro verso, se pare indimostrato nel caso in esame che l’amministrazione finanziaria abbia operato incidendo in maniera lesiva nei confronti del contribuente, ciò non toglie che l’Ufficio abbia, in ogni caso, l’obbligo di dare rilievo e compiuta motivazione nell’atto impositivo dell’attività istruttoria posta in essere durante la fase del controllo. In questo senso, la motivazione assume una rilevanza anche interna, ove assolverà alla funzione dimostrare, nell’alveo dell’amministrazione finanziaria e in prospettiva gerarchica, la correttezza e la legittimità dell’azione intrapresa, oltre che i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato il suo agire10. La responsabilità disciplinare del funzionario dell’Ufficio, nel caso di violazioni o di condotte gravemente lesive dei diritti dei contribuenti poste in essere durante le fasi di verifica sussiste, infatti, a prescindere dal regime di utilizzabilità o di inutilizzabilità degli elementi probatori raccolti durante la fase istruttoria. In questo senso si è espressa la dottrina che ha approfondito tali profili, laddove ha posto in evidenza che un’adeguata motivazione deve intendersi prevista nell’interesse dell’amministrazione finanziaria, essendo funzionale a valutare il comportamento del funzionario ed i parametri di una sua eventuale responsabilità di natura amministrativo-contabile11. Vizi degli atti istruttori e illegittimità derivata dell’atto impositivo L’art. 12, comma 2, L. 212/2000, si inserisce in quel novero delle disposizioni dello Statuto deputate alla salvaguardia dei diritti e delle garanzie del contribuente sottoposto a verifica fiscale. E ciò a buon diritto, dal momento che la verifica fiscale è il mezzo istruttorio più incisivo a disposi-

generico dei sintomi dell’evasione debba essere motivato in ordine alla sussistenza e fondatezza di questi ultimi, pena la violazione dei criteri selettivi e la conseguente illegittimità dell’atto di accertamento». Da ciò sembra di poter dedurre, pertanto, che siffatto vizio di motivazione dell’atto istruttorio comporti l’illegittimità non dell’atto presupposto, ma dell’atto impositivo. 10 In tal senso si è espressa la magistratura contabile: Corte dei Conti, sez.

zione degli Uffici dell’amministrazione finanziaria ai fini del controllo tributario. Contrariamente a quanto avveniva prima dell’entrata in vigore dello Statuto, dal tenore letterale della norma si deduce, ora, che il contribuente ha la facoltà di esercitare «il diritto di essere informato delle ragioni» che hanno giustificato la verifica e dell’oggetto che la riguarda (art. 12, comma 2, L. 212/2000). Pare abbastanza evidente che la norma suddetta copre tutte le ipotesi di attività di accesso, ricerca e controllo, trattandosi di un precetto che dà il diritto al contribuente di appurare, sin dalla fase iniziale della verifica, la sussistenza dell’interesse conoscitivo dell’amministrazione a vagliare la sua posizione, ricevendo un’ampia informazione circa le ragioni e l’oggetto del controllo. In questa prospettiva, la Comm. trib. prov. ha ritenuto che le “ragioni” che giustificano la verifica devono essere interpretate come la causa, la motivazione del perché venga attivata nei confronti del contribuente una determinata verifica fiscale e quale sia stato, in tal senso, il criterio che ha guidato tale scelta, affermando altresì che se una norma si riferisce ad un diritto del contribuente, essa va letta nel senso che l’amministrazione deve rispettarla; ogni violazione di questo principio produrrebbe, conseguentemente, «l’illegittimità del procedimento» per violazione di «una norma di azione che regola il procedimento amministrativo». La conseguenza che trae la Comm. trib. reg. è la seguente: «in base al principio della illegittimità derivata, gli elementi probatori acquisiti dai verificatori in violazione della norma sopra richiamata sono da ritenersi inutilizzabili con la conseguenza che gli atti di accertamento fondati su tali elementi sono illegittimi per violazione di legge». In questi termini, la decisione in commento pare giungere a conclusioni radicali, nel senso che se l’accertamento viene dichiarato illegittimo, pare fuori dubbio che, con esso, vengano travolti, ipso

giur. Sicilia, 16 marzo 2005, n. 512, in Boll. Trib., 2006, 4, 344. In dottrina questi profili sono stati evidenziati anche da RUSSO, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, relazione al convegno di studi “Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario”, Catania, 14 e 15 settembre 2007, 21, secondo cui sussiste la necessità di una apposita e adeguata motivazione nell’interesse dell’amministrazione, ai fini di valutare la correttezza e la diligenza dell’ope-

rato del pubblico funzionario. 11 RUSSO, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, nella relazione al convegno di studi “Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario”, Catania, 14 e 15 settembre 2007, 21; in questi termini, anche in riferimento all’analisi di tutta la più recente prassi, SCARANO, La responsabilità contabile e civilistica dei funzionari dell’amministrazione finanziaria, in AA.VV., Adesione, conciliazione ed autotutela, Padova, 2007, 79 e 80.


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iure, anche tutti gli elementi raccolti durante la fase istruttoria; in altri termini, non si comprende perché la Commissione parli di “inutilizzabilità”, in quanto tale patologia deriva dall’irrituale acquisizione delle prove nel corso delle verifiche. Nel caso di specie, peraltro, si è in presenza – perlomeno a quanto consta dalla ricostruzione operata dalla sentenza – di un accesso autorizzato e, quindi, di elementi istruttori legittimamente acquisiti durante la verifica. L’inutilizzabilità degli elementi probatori per illegittimità derivata Nel caso di specie, la Commissione provinciale qualifica come inutilizzabili gli elementi probatori acquisiti in violazione dell’art. 12, comma 2, senza né chiarire il percorso argomentativo seguito, né individuare la natura del vizio invalidante: in altri termini, non si comprende se la Comm. trib. prov. considera le prove “inutilizzabili” perché illecite o perché illegittime, limitandosi semplicemente a definire l’atto impositivo illegittimo per “violazione di legge”. Al contrario sembra opportuno, per comprendere la correttezza delle conclusioni della Comm. trib. prov., distinguere tra prove illecite e prove il-

12 Sul punto, ex multis, LUPI, Vizi delle indagini fiscali e inutilizzabilità della prova: un difficile giudizio di valore, in Rass. Trib., 2002, 2, 651; SCARLATALUPI, Prove illecite ed altri vizi procedmentali come motivo di invalidità dell’atto di accertamento, in Dialoghi Dir. Trib., 2006, I, 47 ss. 13 Cfr. MOSCHETTI, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. e Prat. Trib., 1983, I, 1918; MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, 173 ss.; LA ROSA, Irregolarità delle indagini e validità degli accertamenti tributari, in Fisco, inserto, 2002, 40, 5711; PARLATO, Considerazioni sui limiti all’acquisizione di prove nel procedimento e nel processo tributario, in Fisco, inserto, 2002, 40, 5745. 14 Cfr. MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, cit., 173 ss. 15 Questa ricostruzione si fonda sulla natura procedimentale dell’accertamento tributario, inteso come una sequenza di atti coordinati strutturalmente e collegati funzionalmente alla realizzazione della finalità di assicurare l’applicazione delle imposte dovute. Alla nozione di procedimento si ricollega poi la regola dell’ille-

legittime ai fini della valutazione della loro utilizzabilità. Si considera “illecita” la prova acquisita mediante un comportamento che integra gli estremi del reato a cui vengono generalmente assimilate anche le ipotesi in cui vi è l’acquisizione di prove in violazione dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente garantiti; diversamente, sono considerate “illegittime” quelle prove affette da vizi di minore gravità attinenti alla correttezza dell’iter procedimentale12. In quest’ultima accezione, la dottrina che più ha approfondito tali tematiche ha inquadrato tali fattispecie nei vizi rilevanti per l’accertamento, oppure nei vizi che non hanno rilievo in tal senso13. All’interno della prima categoria vengono ricondotte situazioni connotate dalla sussistenza di vizi che generano un’invalidità derivata dell’avviso di accertamento a causa della illegittimità degli atti istruttori14, oppure un’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, con la conseguente annullabilità dell’atto impositivo, oppure, infine, i casi in cui una irrituale acquisizione di elementi rilevanti per l’accertamento15, non comporta l’automatica inutilizzabilità degli stessi in mancanza di una specifica previsione in tal senso16

gittimità derivata, secondo cui il vizio dell’atto presupposto si riverbera sugli atti successivi della sequenza e, quindi, sul provvedimento finale. A questa tesi interpretativa (su cui si v. MOSCHETTI, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, cit., 1918 ss.) sono state mosse, tuttavia, obiezioni da parte di chi ha osservato che mancano, tra gli atti delle indagini tributarie e l’avviso di accertamento quei nessi di diretta e necessaria consequenzialità che dovrebbero caratterizzare la sequenza degli atti rientranti in un procedimento amministrativo veramente unitario (Così LA ROSA, Irregolarità delle indagini e validità degli accertamenti tributari, cit., 5711; cfr. anche Id., Caratteri e funzioni dell’accertamento tributario, in Dir. e Prat. Trib., 1990, 784 ss.). In base a tale ultima ricostruzione, pertanto, esisterebbe tra gli atti di indagine tributaria e l’avviso di accertamento un nesso fattuale meramente eventuale, come tale inidoneo a determinare quel riverberarsi dei vizi secondo lo schema della invalidità derivata; secondo tale ultimo autore (Accesso agli atti dispositivi di verifiche e fiscali e tutela del diritto alla riservatezza, in Riv. Dir. Trib., 1996, II, 1124) inoltre, gli eventuali vizi delle inda-

gini darebbero luogo ad inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite e, quindi, ad infondatezza degli atti imposotivi che risultassero solo su di essi fondati, più che ad una vera e propria invalidità derivata degli accertamenti. Di fronte a queste argomentazioni, tuttavia, altri hanno replicato sostenendo che se è pur vero che all’accertamento tributario non si attaglia una nozione propriamente tecnica di procedimento amministrativo, è altresì vero che la relazione intercorrente tra gli atti istruttori e l’atto impositivo è comunque inquadrabile nello schema procedimentale “atti istruttori-atto finale” elaborato dalla dottrina amministrativa, rendendo applicabile la tesi dell’invalidità derivata (così PARLATO, Considerazioni sui limiti all’acquisizione di prove nel procedimento e nel processo tributario, cit., 5745 ss.). 16 In tal senso, da ultimo, Cass., sez. trib., 22 marzo 2007, n. 12017 e Cass., sez. trib., 16 giugno 2006, n. 14055, entrambe in www.finanze.it, ove è stato ribadito che «la violazione delle regole dell’accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria la inutilizzabilità degli elementi acquisiti, in mancanza di una specifica previsione in tal senso».


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(salva la responsabilità sul piano disciplinare dei funzionari dell’Ufficio che hanno posto in essere la verifica). Il sindacato giurisdizionale obbligatorio in merito alla motivazione degli atti impositivi, impone che gli atti motivati sulla base a dati acquisiti in violazione di norme debbano essere annullati per il vizio di violazione di legge17: il giudice deputato a svolgere il sindacato sulla legittimità formale e sostanziale della pretesa impositiva, deve, infatti, verificare la regolarità del procedimento accertativo su cui si fonda tale pretesa, così da controllarne la rispondenza al paradigma legale. La giurisprudenza che si è occupata del punto ha posto in risalto come, in materia tributaria, non vige, in termini assoluti, il principio della inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita, salvi i limiti derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico18. Certamente la Cassazione con tali assunti non trascura di richiamarsi al generale principio di legalità che permea l’intera attività amministrativa, ma è da rilevare che il riconoscimento, in via giudiziale, dell’inutilizzabilità dei risultati della verifica ha sempre avuto lo scopo di impedire che gli elementi probatori acquisiti in violazione delle norme che disciplinano lo svolgimento delle verifiche (e non l’esposizione delle ragioni che le legittimano) possano essere utilizzati contro il contribuente. La sentenza in commento, nel fondare le sue motivazioni, pare muoversi nell’alveo della illegittimità degli elementi probatori acquisiti in violazione di norme procedimentali, facendone discendere l’inutilizzabilità di tali elementi non dalla illegittimità con cui sono stati acquisiti durante la fase di verifica, ma dalla postulata violazione di una norma che impone all’amministrazione fi-

17 Cass., 27 luglio 1998, n. 7368, in Foro It., 1999, I, 1996. 18 Così Cass., sez. trib, 1 aprile 2003, n. 4987, in Riv. Giur. Trib., 2003, 621. Da segnalare, in argomento, che in epoca antecedente le sezioni unite, si erano espresse nel senso che «[...] l’inutilizzabilità non abbisogna di un’espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola [...]» (Cass., sez. un., 21 novembre 2002, n. 16424, in Riv. Dir. Trib., 2002, 12, con nota di FORTUNA, Se l’autorizzazione è invalida, 786 ss.). 19 In questi termini TESAURO, L’onere

nanziaria, a priori, di rendere edotto il contribuente delle ragioni della verifica stessa. Nel caso di specie, pertanto, seppure l’accertamento si sia basato su prove regolarmente acquisite durante la fase istruttoria, se ne dovrebbe dedurre la loro inutilizzabilità a causa di un asserito vizio verificatosi anteriormente all’acquisizione degli elementi probatori e che non concerne tali elementi in sé, bensì un difetto di informazione che non ha (o non avrebbe) consentito al contribuente di percepire le ragioni della “fonte di innesco” della verifica. Lo schema teorico utilizzato dalla Commissione è, pertanto, da rinvenire nell’invalidità derivata, che fonderebbe l’inutilizzabilità degli elementi pur ritualmente acquisiti: nella concreta fattispecie, tuttavia, l’estensione all’atto “finale” della causa di invalidità che inficia uno degli atti “preparatori” pare una soluzione non praticabile, pur se è necessario muovere dal condivisibile assunto secondo cui è necessario, in termini generali, riconoscere ai vizi dell’attività istruttoria una rilevanza sulla legittimità dell’atto di accertamento, in quanto, se così non fosse, allora tutta la disciplina prevista per il corretto esercizio dei poteri di controllo sarebbe inutile, dal momento che la sua inosservanza rimarrebbe immune da qualsivoglia tipo di sanzione19. Nel caso di specie, tuttavia, non si è in presenza né di dati e di notizie acquisiti illegittimamente (e, come tali, inidonei a fungere da prova), né di elementi privi di fondamento di fatto, non potendosi quindi applicare l’equazione, largamente utilizzata dalla giurisprudenza, secondo cui le «prove illegittimamente acquisite» comportano automaticamente «l’invalidità dell’accertamento su di esse fondato»20. Al contrario, siamo di fronte alla postulata violazione di una norma che attiene alla tutela di un di-

della prova nel processo tributario, in Riv. Dir. Fin., 1986, 1, 87; Id., La prova nel processo tributario, in Riv. Dir. Fin., 2000, 1, 73 ss; Id., Giusto processo e processo tributario, in Rass. Trib., 2006, 1, 11 ss. 20 La giurisprudenza, sul punto, si incentra su casi di accesso domiciliare effettuato senza autorizzazione (ex multis, Cass., sez. trib., 27 luglio 1998, n. 7368, cit., 1996) e sulla inutilizzabilità processuale di atti acquisiti in spregio dei diritti del cittadino costituzionalmente garantiti (ex multis, Cass., sez. trib., 2 luglio 2001, n. 15230, in Giust. Civ. Mass., 2001, 2067), secondo cui «costituisce principio generale immanente al vigente sistema giusprocessualistico quello per

il quale il giudice, prima di utilizzare ai fini della decisione una qualsiasi emergenza probatoria, deve verificare la regolarità della relativa acquisizione, restando tenuto a non porre a base della sua pronuncia prove che riscontri indebitamente raccolte». Negli ultimi anni, tuttavia, la Suprema Corte ha sottoposto questi orientamenti a revisione critica, ammettendo l’utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite: così Cass., sez. trib., 9 novembre 2000-16 marzo 2002, n. 3852, in Giust. Civ. Mass., 2002, 1; Cass., sez. trib., 19 giugno 2001, n. 8344, in Corr. Trib., 2001, 2943; sul punto si v. in dottrina LUPI, Vizi delle indagini fiscali e inutilizzabilità della prova: un difficile giudizio di valore, cit., 651.


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ritto che il contribuente ha la facoltà di esercitare e da cui la Comm. trib. prov. ha fatto discendere l’illegittimità dell’avviso di accertamento per violazione di una norma di “azione” (per utilizzare l’accezione con cui si esprime la Comm. trib. prov.), che, nel caso di specie, non risulta comprovata. Ora, se si può condividere l’assunto della Commissione secondo cui l’art. 12, comma 2 è una norma procedimentale, è altresì da evidenziare che, nella concreta fattispecie, siamo in presenza di una norma che riconosce un diritto al contribuente21 («il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda») che, a quanto risulta, non è stato azionato, senza che ciò, peraltro, abbia portato ad una illegittima (o illecita) acquisizione di elementi di prova – per violazione di norme specifiche – che sono stati poi utilizzati per motivare l’avviso di accertamento. In questa prospettiva, pertanto, qualora l’avviso di accertamento si sia fondato su una legittima attività istruttoria conseguente ad un accesso regolarmente effettuato e basato su elementi probatori lecitamente acquisiti, si deve ritenere che il mancato esercizio di un diritto da parte del contribuente, riconosciutagli da una norma in una fase antecedente all’inizio delle operazioni di verifica, non possa poi essere fatto dallo stesso valere in sede di ricorso come vizio invalidante. Né, nella prospettiva suddetta, può essere invocata l’illegittimità derivata degli atti, in quanto, come si è detto, il mancato esercizio di una facoltà da parte del contribuente non pare che possa essere considerato come una violazione di norme procedimentali. Agli atti di causa, infatti, almeno nella ricostruzione operata dalla Comm. trib. prov., non risulta che il contribuente abbia esercitato il diritto riconosciutogli dall’art. 12, comma 2, dello Statuto, richiedendo, durante la fase istruttoria, le ragioni o le “fonti di innesco” che hanno portato alla verifica nei suoi confronti, salvo eccepire poi, nei motivi di ricorso, la violazione dell’art. 12, comma 2. In ogni caso, infine, anche nella diversa ipotesi in cui, a seguito della specifica richiesta da contri-

21 Detta disposizone, secondo D’AYALA VALVA, in Commento alla delibera del garante del contribuente di Bolzano del 18 ottobre 2002, in Riv. Dir. Trib., 2003, II, 246 ss; prevederebbe non solo un preciso diritto del contribuente ma anche, correlativamente, uno specifico dovere dell’aurorità, tale da profilare, in mancanza, la nullità degli atti impositivi. 22 Per approfondimenti sui profili del-

buente di essere reso edotto della ragioni che giustificavano la verifica, l’amministrazione finanziaria non avesse in tal senso adempiuto, la Commissione provinciale avrebbe dovuto quantomeno domandarsi se, nella concreta fattispecie, avesse potuto trovare applicazione l’art. 21-octies, comma 2, L. 241/1990, secondo cui «non è annullabile un provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»22. Osservazioni conclusive La sentenza della Commissione provinciale di Treviso presenta più profili di criticità. Anzitutto non pare condivisibile l’assunto secondo cui l’assenza, nelle risultanze del processo verbale di verifica e nel processo verbale di constatazione, delle ragioni che hanno condotto al controllo possano condurre ad «ad un’esclusiva, incontrollata discrezionalità dell’amministrazione». Al contrario, la natura dei decreti ministeriali che individuano i criteri di selezione per il controllo delle categorie di contribuenti, lasciano agli Uffici margine per individuare i soggetti da sottoporre a verifica, assolvendo ad una funzione di indirizzo. Sotto altro profilo, se è pur vero che l’art. 12, comma 2, L. 212/2000, riconosce al contribuente il diritto di essere reso edotto delle ragioni che hanno giustificato la verifica e dell’oggetto che la riguarda, è altrettanto vero che il mancato esercizio di tale facoltà non può poi essere invocato dal contribuente ai fini di inficiare la legittimità di una verifica legittimamente svoltasi. In questa prospettiva, le conclusioni cui giunge la Commissione circa l’inutilizzabilità degli elementi probatori, non paiono il risultato di percorso argomentativo immune da censure, in quanto non tengono in considerazione che, nel caso di specie, non si è in presenza di prove illecitamente o illegittimamente acquisite ma, al contrario, di un atto di accertamento fondato su un accesso regolarmente effettuato e basato su elementi probatori lecitamente acquisiti.

l’invalidità nel diritto tributario si v. FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Contributo allo studio della prospettiva italiana, ed. provv., Pescara, 2003, 262; CALIFANO, Procedimento amministrativo e procedimento tributario. Le invalidità nel procedimento tributario, in Quaderni della Scuola di specializzazione in scienza dell’amministrazione, 2004, 115; TESAURO, L’invalidità dei DEL

provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 2005, 1447 ss.; BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi. Considerazioni sul principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. Dir. Fin., 2006, 2, 356; di impostazione critica, invece, MULEO, Motivazione degli atti impositivi e (ipotetici) riflessi tributari delle modifiche alla legge n. 241/90, in Dialoghi Dir. Trib., 2005, 4, 540 ss.


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Ad ogni modo, il depotenziamento dei vizi formali operato dall’art. l’art. 21-octies, comma 2, L. 241/1990, avrebbe dovuto comunque suggerire alla Comm. trib. prov. di valutare se, nel caso con-

creto, il contenuto dispositivo dell’atto di accertamento avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato in presenza di una (presunta) violazione di una norma sul procedimento.

L’ACCERTAMENTO SENZA PROVA EFFETTUATO MEDIANTE GLI STUDI DI SETTORE 4

Commissione tributaria provinciale di Benevento, sez. I, 31 ottobre 2007, n. 224 Presidente: Del Mese - Relatore: Sessa Accertamento - Studi di settore - Presunzione semplice - Accertamento non fondato su ulteriori elementi probatori - Illegittimità (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, artt. 62-bis e 62-sexies, convertito con modificazioni dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427; L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10) Gli studi di settore hanno natura di presunzione semplice, per cui non sono in grado di legittimare un accertamento automatico fondato esclusivamente sulle loro risultanze, realizzando l’inversione dell’onere della prova a danno del contribuente. Al contrario, è necessario che l’Ufficio dimostri l’incongruenza dei ricavi dichiarati dal contribuente, rispetto a quelli determinati con gli studi di settore, in base ad ulteriori elementi probatori, evidenziando la natura degli stessi e spiegando le circostanze con adeguata motivazione dell’atto.

do d’imposta sottoposto ad accertamento. Da tale rappresentazione emergeva una percentuale di ricarico superiore a quella prevista dagli studi ministeriali per lo specifico settore. Eccepiva, altresì, l’insufficienza ai fini dell’insorgenza dell’obbligazione tributaria, della mera applicazione matematica degli studi di settore, ovvero la mancanza di ulteriori indizi a sostegno degli stessi. Concludeva chiedendo l’annullamento dell’impugnato atto, mentre non formulava nessuna richiesta in ordine alle spese di giudizio. Con proprie controdeduzioni, disattendendo le argomentazioni di parte, l’Ufficio ribadiva la correttezza del proprio operato, chiedendo la condanna dell’istante alle spese di lite. Nella seduta del 9 ottobre 2007 il Collegio, sentito il relatore e la parte presente, riunito in camera di consiglio ed esaminati gli atti, decideva come da dispositivo. Motivi della decisione

Svolgimento del processo Con apposito ricorso il signor [...], rappresentato e difeso dal dottor [...] opponeva l’avviso di accertamento numero [...], emesso in riferimento all’anno d’imposta 2000 dall’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Benevento. Con tale atto l’Ufficio, riportandosi alle risultanze degli studi di settore, rilevava uno scostamento tra i ricavi dichiarati e contabilizzati dal contribuente e quelli calcolati con il software denominato Ge.Ri.Co. In considerazione di ciò accertava un maggior reddito netto d’impresa assoggettandolo a tassazione ai fini delle imposte dirette e dell’imposta sul valore aggiunto. Il contribuente eccepiva il fatto che l’impugnato atto era basato esclusivamente sugli studi di settore, evidenziando la situazione fiscale del perio-

Il Collegio rileva che già in precedenza ha ritenuto degno di accoglimento un ricorso avverso un avviso di accertamento basato esclusivamente sugli studi di settore (Cfr. sent. n. 20/01/07). Secondo tale precedente pronunzia: gli accertamenti operati in base agli studi di settore hanno valore di presunzione semplice, per cui non è sufficiente la applicazione aritmetica delle risultanze dello studio di settore proprio della attività operata dal contribuente, ma occorre che tali elementi siano confortati da altri indizi, che possano giustificare lo scostamento del reddito. Occorre cioè che l’Ufficio dimostri che esistono gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli determinati con gli studi di settore. Inoltre, seppure in riferimento ai parametri, nella consapevole diversità dei diversi strumenti, questo Collegio ha già evidenziato che l’istituto,


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fondato sui risultati di un’elaborazione matematica statistica finalizzata alla individuazione del volume dei ricavi attribuibili a ciascun contribuente in funzione della rispettiva dimensione strutturale, analogamente a quanto previsto dai precedenti coefficienti presuntivi di reddito e proprio dai successivi studi di settore, consente all’amministrazione finanziaria di procedere alla rettifica induttiva del reddito in presenza di scostamento dei ricavi dichiarati dai valori fissati. Ad una prima lettura, al predetto scostamento, il legislatore sembrava aver attribuito la natura di presunzione grave, precisa e concordante, seppure semplice ovvero superabile con la prova contraria in presenza di situazioni che giustifichino la divergenza. In tale direzione, con la circolare n. 117/E del 13 maggio 1996, il Ministero delle Finanze ha considerato la possibilità per il contribuente di far valere circostanze ed elementi idonei a legittimare lo scostamento, quali, ad esempio: 1. la natura dell’attività svolta e dei beni strumentali impiegati; 2. il periodo di svolgimento dell’attività ed il contestuale espletamento di altre attività; 3. la ridotta consistenza di altri costi; 4. l’assenza di personale dipendente ed ogni altro elemento simile. Al riguardo il Collegio rileva che, qualora il contribuente debba indicare e provare le condizioni giustificatrici dello scostamento evidenziato, appare evidente che il limitato numero di situazioni in presenza delle quali in concreto questi possa fornire la prova contraria è estremamente riduttivo del diritto di difesa per l’impossibiltà di fornire la prova di un fatto negativo, quale è appunto il mancato conseguimento di ricavi solo presunti. Rileva, altresì, il recente orientamento dell’Agenzia delle Entrate la quale ha sottolineato che gli studi di settore non sono uno strumento di accertamento automatico e i contribuenti non hanno alcun obbligo di adeguarsi agli stessi se ritengono che non rispecchiano la loro realtà, ribadendo che gli studi sono uno strumento utilizzabile come punto di riferimento dal contribuente, che adeguandosi può stare più tranquillo rispetto a eventuali successivi controlli (cfr. comunicato stampa del 7 giugno 2007). Inoltre, nel merito, la stessa Agenzia evidenzia che la condizione di non congruità non implica alcun accertamento automatico (cfr. comunicato stampa dell’8 giugno 2007). Infine, sottolinea che il sottosegretario di Stato per l’economia e le finanze, in data 2 agosto 2007 innanzi al Senato della Repubblica, ha affermato

che la volontà e la decisione del Governo per quanto riguarda gli studi di settore e gli indici di normalità economica è che valgono la presunzione semplice, la non automaticità degli accertamenti e ovviamente l’onere della prova a carico dell’amministrazione finanziaria. Alla luce di ciò e nel caso di specie, il Collegio ritiene che la mancanza di qualsiasi ulteriore elemento a sostegno della pretesa erariale non può che confermare l’illegittimo ricorso da parte dell’Ufficio ad uno strumento che, lungi dal determinare un reddito reale ed effettivo del contribuente sottoposto a verifica individua un valore reddituale medio ovvero statistico e in quanto tale generico e del tutto virtuale, assolutamente disancorato dalla specifica fattispecie economica sottoposta ad esame. Quanto precede consente di concludere, in linea anche con il mutato orientamento dell’Agenzia delle Entrate, che lo strumento degli studi di settore, deve fungere da supporto per l’attività accertatrice ma non può costituire un autonomo strumento di quantificazione del reddito e dei ricavi (cfr. Comm. trib. prov. Macerata, sent. n. 90/03/05). Occorre altresì sottolineare che la Suprema Corte ha stabilito che la valutazione della ricorrenza delle condizioni legittimanti l’accertamento induttivo va eseguita prima di procedere allo stesso, non potendosene affermare la legittimità con una valutazione ex post (cfr. sent. n. 1378 dell’8 febbraio 2000). Ne consegue che l’Ufficio, nel rettificare il reddito sul presupposto del riscontrato scostamento, deve previamente indicare in base a quali ulteriori elementi procede alla rettifica induttiva, evidenziando la natura degli stessi e spiegando le circostanze con adeguata motivazione dell’atto. Mancano tali ultimi elementi supportati anche da un’adeguata motivazione, la rettifica deve essere ritenuta del tutto illegittima ed effettuata da nullità insanabile. È quindi necessario che l’amministrazione finanziaria abbia verificato le scritture contabili e le abbia ritenute inattendibili oppure abbia inviato il contribuente con apposito questionario a fornire le opportune giustificazioni sul rilevato scostamento e, soprattutto, abbia spiegato nel successivo atto le ragioni della loro non condivisione, dando comunque la possibilità al contribuente di comprendere l’ambito della pretesa tributaria e così, ove possibile, fornire l’eventuale prova contraria (cfr. Comm. trib. prov. Torino, sent. n. 15/28/07). Per altro verso la flessibilità degli strumenti presuntivi trova origine e fondamento nell’articolo 53 della Costituzione, non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera au-


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tonoma, a prescindere da quella che è la capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica (cfr. Cass., sent. n. 19163 del 15 dicembre 2003). Il principio di capacità contributiva, secondo il quale tutti devono concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità, non è altro che un criterio di riparto, che da sempre è stato inteso come regola di protezione dell’individuo. Lo Stato può chiedere il pagamento di imposte all’individuo nel limite della sua forza economica, ovvero nel limite della sua ricchezza, mai oltre, in quanto tale ulteriore richiesta potrebbe sfociare in un comportamento arbitrario. Tali limiti, oltre i quali il legislatore non può spingersi, costituiscono la circonferenza di una sfera di protezione posta dal legislatore personale a tutela dell’individuo, ovvero a protezione degli interessi individuali. La capacità contributiva altro non è che un valore di protezione dell’individuo che, nel sistema legislativo, si contrappone in maniera dialettica a quello dell’interesse fiscale. La Corte costituzionale intervenendo ripetutamente su tale contrapposizione, ha affermato che la capacità contributiva è un valore primario, in quanto ad essa è sottesa l’esistenza di un individuo, la cui rilevanza è ugualmente importante rispetto al valore più generale dell’interesse fiscale. Tali valori devono essere composti secondo il principio del bilanciamento, che altro non è che una formula tipizzata secondo la quale la soluzione normativa non può portare all’annullamento di uno dei due valori, ma deve trovare una soluzione che consenta loro di coesistere. In tale contesto, l’introduzione degli studi di settore, i quali non sono altro che uno strumento di determinazione matematico e statistico del reddito secondo un criterio di normalità in deroga al principio fondamentale di determinazione rispetto al reddito, ovvero quello analitico, rappresenta un elemento di rottura rispetto al principio del bilanciamento di valori costituzionalmente garantiti. Così stando le cose e ferma l’interpretazione circa la portata dello strumento data dal Governo e dall’Agenzia delle Entrate, il solo mezzo tecnico per contrastare gli studi di settore, oltre a quello pressoché impossibile di fornire una prova negativa, sarebbe la contestazione: 1. dei decreti con i quali sono approvati in quanto fonti secondarie;

2. delle funzioni matematiche ad essi sottese in quanto non pubbliche. Da tali ultime considerazioni scaturiscono due ordini di problemi. Il primo, in riferimento all’articolo 23 della Costituzione, ovvero in riferimento alla gerarchia delle fonti normative, rileva in ordine alla circostanza che gli studi di settore, benché introdotti con una disposizione di legge, sono resi operativi attraverso successivi decreti, quindi attraverso fonti normative secondari, nonostante diano origine a presunzioni di legge cosiddette assolute. Il secondo, in riferimento al generale diritto di difesa del contribuente, rileva in ordine al fatto che tali fonti normative secondarie non sono conosciute del tutto in quanto nella Gazzetta Ufficiale non sono pubblicate le funzioni matematiche e statistiche, nonché i soggetti del software denominato Ge.Ri.Co. Tale ultima considerazione anche nel rispetto dell’esigenza di motivazione e di chiarezza di cui all’articolo 7 della L. n. 212 del 2000, il quale imporrebbe all’amministrazione finanziaria, tra l’altro, di rendere noti i sorgenti del programma Ge.Ri.Co. ovvero le funzioni matematiche e statistiche ad esso sottese. Dall’altra parte, in ossequio anche all’orientamento della Corte di Cassazione, sent. n. 7080 del 2004, le norme contenute nella citata L. n. 212, si pongono in una posizione privilegiata nella gerarchia delle fonti in materia fiscale, fissando i principi giuridici vincolanti nell’applicazione del diritto. Pertanto, ogni dubbio interpretativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria, ricadente nell’ambito normativo disciplinato dalla L. n. 212 del 2000, deve essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai principi dello Statuto del contribuente attraverso la disapplicazione della norma tributaria che si ponga in contrasto con i detti principi. Una diversa conclusione, quindi, sarebbe in contrasto con lo spirito della legge e degli specifici principi dell’ordinamento. Le motivazioni della decisione inducono alla compensazione delle spese di giudizio.

Nota di Michele Mauro

tore, la pronuncia in esame, che attribuisce ad essi la natura di presunzione semplice, suscita qualche perplessità. Invero il giudizio circa la valenza probatoria degli studi non può prescin-

In assenza di una precisa qualificazione giuridica degli studi di settore ad opera del legisla-

P.Q.M. La Commissione accoglie il ricorso e compensa le spese.


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dere dalla conoscenza della formula matematico-statistica loro sottesa, in modo da poter verificare se il nesso inferenziale in essa esplicitato sia in grado di integrare un ragionamento presuntivo valido ai fini probatori. Pertanto, posto che non è dato conoscere nel dettaglio il meccanismo che consente di quantificare i ricavi presunti, come peraltro evidenziato dagli stessi giudici di merito, non sembra legittimo attribuire agli studi di settore alcun valore probatorio. Infatti la mera pubblicazione delle note metodologiche di ciascuno studio, alle quali resta limitata l’attuale cognizione, non permette di apprezzare adeguatamente la relazione tra il fatto noto (variabili contabili ed extracontabili opportunamente elaborate) e il fatto ignoto (ricavi o compensi realizzati dai contribuenti) da esso valorizzata, sì da valutare se tale strumento sia idoneo ad integrare una fattispecie presuntiva. Il caso concreto sottoposto al vaglio dei giudici e l’affermata natura di presunzioni semplici rivestita dagli studi di settore La presente pronuncia ha confermato il recente e consolidato orientamento giurisprudenziale, sia di legittimità che di merito1, teso a ridimensionare il valore probatorio degli studi di settore attribuendo ad essi la natura di presunzioni semplici prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, inidonei, cioè, a regolare fattispecie con-

1 Cfr., tra le sentenze più recenti, Cass., 27 febbraio 2002, n. 2891, in Boll. Trib., 1729, con nota di SCIARRA, Requisiti di legittimità dell’accertamento presuntivo dei redditi determinati in base alle scritture contabili; Cass., 27 settembre 2002, n. 13995, in Dir. e Prat. Trib., 2003, II, 276; Cass., 23 giugno 2003, n. 9946, in Boll. Trib., 2003, 1514; Cass., 12 dicembre 2003, n. 19062, in Boll. Trib., 2004, 314; Cass., 3 maggio 2005, n. 9135, in Dir. e Prat. Trib., 2005, II, 1273; Cass., 28 luglio 2006, n. 17229, in Riv. Giur. Trib., 2006, 1047 ss., con nota di MARCHESELLI, Per l’applicazione delle presunzioni semplici di cui agli studi di settore è necessaria la previa attuazione del contraddittorio, e in Boll. Trib., 2006, 1738 ss., con nota di VOGLINO, Saggi rigori giurisprudenziali sull’accertamento basato sugli studi di settore. Tra le pronunce di merito cfr., tra le tante, Comm. trib. prov. Macerata, 30 dicembre 2003, n. 63, in Boll. Trib., 2004, 466 ss., con nota di SCIARRA, I rapporti tra (onere della)

crete senza il supporto di ulteriori elementi riferiti alla specifica realtà esaminata. La vicenda ha tratto origine dall’emissione di un atto d’accertamento a carico del contribuente fondato esclusivamente sullo scostamento tra i ricavi da lui contabilizzati e dichiarati e quelli determinati dagli studi di settore che ha provocato la tassazione, sia ai fini delle imposte dirette che dell’imposta sul valore aggiunto, del maggior reddito netto ad esso riconducibile. Il contribuente, impugnando l’atto impositivo, ha lamentato l’acritica applicazione degli studi di settore senza il supporto di ulteriori indizi a sostegno degli stessi, evidenziando altresì che dalla propria rappresentazione contabile emergeva una percentuale di ricarico addirittura superiore a quella prevista dallo studio ministeriale. I giudici, in consonanza con le doglianze del contribuente che l’Ufficio aveva contrastato semplicemente ribadendo la correttezza del proprio operato, hanno affermato, seguendo la tendenza espressa in altre sentenze dagli stessi richiamate2, che gli studi di settore hanno valore di presunzione semplice non qualificata3, per cui occorre che le risultanze della procedura matematico-statistica siano confortate da altri indizi, la cui prova è a carico dell’amministrazione finanziaria, che dimostrino la grave incongruenza dei ricavi dichiarati dal contribuente. Tale assunto, tra l’altro, è stato suffragato dal recente orientamento ministeriale pure citato dalla

prova e (obbligo di) notificazione dell’atto impositivo nell’accertamento fondato sugli studi di settore; Comm. trib. prov. Macerata, 17 maggio 2005, n. 36, e Comm. trib. prov. Bari, 12 maggio 2006, n. 24, entrambe in Dir. e Prat. Trib., 2006, II, 1229, con nota di CORRADO, L’accertamento fondato sugli studi di settore; Comm. trib. prov. Benevento, 16 gennaio 2007, n. 3, in banca dati fisconline; Id., 13 febbraio 2007, n. 6, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov. Bari, 26 gennaio 2007, n. 228, in Dir. e Prat. Trib., 2007, II, 684; Comm. trib. II grado Trento, 28 febbraio 2007, n. 16, in questa rivista, 2007, 3, 455 ss., con nota di SCIARRA, La personalizzazione della rettifica presuntiva fondata sugli studi di settore e il loro valore probatorio in sede processuale; Comm. trib. reg. Piemonte, 20 marzo 2007, n. 15, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov. Livorno, 16 marzo 2007, n. 500, in Boll. Trib., 2007, 1487 ss., con nota di BIONDO, Incertezze interpretative sul valore probatorio

degli studi di settore; Comm. trib. reg. Puglia, 26 aprile 2007, n. 29, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 10 ottobre 2007, n. 491, in Corr. Trib., 3427 ss., con commento di LUPI, Studi di settore non autosufficienti (fino alle modifiche del 2006). Peraltro è doveroso ricordare ulteriori pronunce di legittimità, anch’esse recenti, che sembrano aver legittimato l’accertamento induttivo fondato sugli studi di settore pur in presenza di contabilità regolarmente tenuta e senza obbligo di ispezione dei luoghi, se non assolutamente necessaria: cfr. Cass., 15 dicembre 2006, n. 26919; Cass., 14 marzo 2007, n. 5977; Cass., 6 aprile 2007, n. 8643, tutte in banca dati fisconline. 2 Il riferimento, in particolare, è alle sentenze della Comm. trib. prov. Macerata, n. 90/03/05, della Comm. trib. prov. Benevento, n. 20/01/07 e alla Comm. trib. reg. Piemonte, n. 15/28/07. 3 Cioè priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.


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Commissione di Benevento4, in base al quale gli studi di settore non costituiscono una metodologia di accertamento automatico ma assumono, insieme agli indicatori di normalità economica, la valenza di presunzione semplice con onere della prova a carico dell’amministrazione, consentendo semplicemente al contribuente che si adegua ai loro risultati di sentirsi al riparo da successivi controlli. L’evoluzione del quadro normativo di riferimento Le osservazioni formulate nella pronuncia de qua in tema di studi di settore non trovano conforto nel quadro normativo sulle modalità di utilizzo dello strumento matematico-statistico. Invero, già da una sommaria disamina dell’evoluzione della disciplina sugli studi di settore appare evidente come la tendenza del legislatore sia stata quella di potenziare l’applicazione degli stessi nelle procedure di accertamento pur senza mai spingersi fino ad affermarne espressamente la natura di presunzione legale relativa. Istituiti dagli artt. 62-bis e 62-sexies del D.L. n. 331 del 1993 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 427 del 1993), gli studi di settore sono stati resi operativi mediante la disciplina dettata dall’art. 10 della legge n. 146 del 1998 che, nel corso del tempo, ha subito diverse modifiche. Originariamente tale norma, richiamando l’art. 62-sexies del D.L. n. 331 del 1993, stabiliva che gli accertamenti basati sulle gravi incongruenze tra i ricavi o compensi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore, rientranti nella disciplina prevista dall’art. 39, primo comma, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, potevano essere eseguiti in ogni caso per le imprese in contabilità semplificata nonché per quelle in contabilità ordinaria per effetto di opzione, ovvero per i professionisti, qualora si fosse verificato lo scostamento per due periodi d’imposta su tre consecutivi tra i ricavi o compensi dichiarati dal contribuente e quelli de-

4 Si tratta del comunicato stampa dell’Agenzia delle Entrate del 7 giugno 2007 e della volontà del governo espressa il 2 agosto 2007 dal sottosegretario di Stato per l’economia e finanze. L’orientamento è sfociato di recente, come si dirà, nella circolare n. 5/E del 23 gennaio 2008. 5 In particolare, con la richiamata norma è stata abolita la distinzione tra contabilità ordinaria per opzione e per obbligo di legge ed è stata prevista in ogni caso l’applicazione de-

sumibili dagli studi di settore. Per le imprese in contabilità ordinaria per obbligo di legge, invece, l’assoggettamento agli studi era subordinato alla preventiva verifica dell’inattendibilità della contabilità effettuata in base all’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973 che legittimava, peraltro, l’applicazione dello strumento anche alle imprese in contabilità ordinaria per opzione a prescindere dalla condizione dello scostamento in due esercizi su tre consecutivi. Gli interventi modificativi maggiormente rilevanti si sono verificati a partire dalla L. n. 311 del 2004 (legge finanziaria per il 2005) che, pur avendo previsto normativamente, a tutela del contribuente, la necessità del contraddittorio preventivo rispetto all’emanazione dell’atto di accertamento fondato sugli studi, ha esteso l’applicazione di quest’ultimi alle imprese in contabilità ordinaria per obbligo di legge, anche a fronte dell’incoerenza rispetto a nuovi indici di natura economica, finanziaria e patrimoniale da determinarsi con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate5. Successivamente, con il D.L. n. 223 del 2006 (convertito dalla legge n. 248 del 2006) il legislatore ha definitivamente equiparato le imprese in contabilità semplificata e quelle in contabilità ordinaria eliminando per quest’ultime, ai fini dell’assoggettamento agli studi di settore, le condizioni dello scostamento per due periodi d’imposta su tre consecutivi dei ricavi dichiarati dal contribuente rispetto a quelli desumibili dallo strumento statistico, della previa dimostrazione dell’inattendibilità della contabilità e dell’incoerenza rispetto agli indici di natura economica, finanziaria e patrimoniale. Ancora, rilevanti modifiche sono state apportate dalla L. n. 296 del 2006 (legge finanziaria per il 2007) che, oltre ad aver raggruppato le disposizioni tese a disciplinare il percorso di revisione degli studi6 ed esteso la platea dei soggetti sottoposti allo strumento statistico mediante l’incremento del

gli studi di settore nei confronti degli esercenti attività d’impresa in regime di contabilità ordinaria, anche per effetto di opzione, quando siano emerse significative situazioni di incoerenza rispetto ad indici di natura economica, finanziaria e patrimoniale, individuati con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, sentito il parere della Commissione degli esperti. Per l’analisi di tutte le novità introdotte dalla legge finanziaria per il 2005 con ri-

guardo agli studi di settore sia consentito rinviare a MAURO, Novità in tema di studi di settore, in Tributimpresa, 2005, 2, I, 37 ss. 6 In particolare è stato introdotto il nuovo art. 10-bis nella legge n. 146/1998 che, nel presupposto che gli studi di settore devono essere rappresentativi della realtà economica cui si riferiscono, ha sancito la necessità di programmare la revisione degli studi, da compiersi al massimo ogni triennio, mediante l’inter-


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limite dei ricavi al di sopra del quale quest’ultimo non trova applicazione7, ha previsto limitazioni al potere di accertamento mediante strumenti diversi da quelli presuntivi e introdotto plurimi riferimenti ad indici di normalità economica8. Precisamente la nuova disciplina, mediante l’introduzione del comma 4-bis nell’art. 10 della L. n. 146 del 1998, ha regolato il rapporto tra l’applicazione degli studi di settore e la (eventuale) successiva attività di accertamento, stabilendo che, al ricorrere di determinati requisiti9, le rettifiche incentrate su presunzioni semplici, riconducibili alla disciplina di cui all’art. 39, primo comma, lett. d del D.P.R. n. 600/1073, non possono essere effettuate nei confronti dei contribuenti che abbiano dichiarato ricavi pari o superiori al livello di congruità richiesto dagli studi, anche per effetto dell’adeguamento, e che siano coerenti ai sensi dell’art. 10-bis, comma 2, della L. n. 146 del 199810. Inoltre, in merito agli indici di normalità economica, la richiamata legge, da un lato, ha previsto che la revisione degli studi di settore debba avvenire anche in base a valori di coerenza risultanti da specifici indicatori definiti da ciascuno studio rispetto a comportamenti considerati normali per il relativo settore economico e, dall’altro, ha disposto l’introduzione di specifici indicatori di normalità economica, che assumono rilevanza anche per i soggetti ai quali non si rendono applicabili gli studi, deputati a rilevare la presenza di ricavi non dichiarati ovvero di rapporti di lavoro irregolare.

vento del direttore del direttore dell’Agenzia delle Entrate, senza peraltro stabilire in base a quali strumenti tale soggetto debba compiere la suddetta attività. È stato tuttavia disposto, al comma 2 di tale articolo, che nell’elaborazione e revisione degli studi di settore si debba tenere conto anche di valori di coerenza risultanti da specifici indicatori definiti da ciascuno studio rispetto a comportamenti considerati normali per il relativo settore economico. 7 In specie, tale limite è stato incrementato dai vecchi dieci miliardi di lire a 7,5 milioni di euro. 8 Per un commento critico delle modifiche previste dalla legge finanziaria 2007 in ordine alla disciplina e alle modalità di utilizzo degli studi di settore si veda BEGHIN, Prime considerazioni sulle recenti modifiche alla disciplina degli studi di settore, in Corr. Trib., 2007, 173 ss. Per l’evidenziazione dell’inevitabile contrasto di tali disposizioni con fondamentali valori costituzionali, tra i quali risalta

Quest’ultimi indicatori11, in particolare, sono utilizzabili in via transitoria fino all’elaborazione e revisione degli studi di settore mediante l’impiego degli indicatori di coerenza e sono stati definiti dal legislatore quali indizi atti a fondare, insieme ad altri elementi, presunzioni semplici, per cui nel caso in cui l’Ufficio proceda ad una rettifica fondata su tali indicatori dovrà fornire gli elementi probatori a supporto della rilevanza attribuita agli scostamenti contestati12. Tale concetto è stato da ultimo ribadito dalle previsioni della L. n. 244 del 2007 (legge finanziaria per il 2008)13 che, modificando l’art. 1, comma 14, della L. n. 296 del 2006 (legge finanziaria per il 2007) ha sottolineato come, fino all’entrata in vigore dei nuovi studi di settore secondo la disciplina delineata dallo stesso comma, l’Agenzia delle Entrate abbia l’onere di motivare e provare l’attribuzione dei maggiori ricavi o compensi derivanti dagli indicatori di normalità economica approvati con D.M. del 20 marzo 2007 e successive modificazioni, i quali non consentono in ogni caso accertamenti automatici. Dunque, dal tracciato percorso della disciplina normativa degli studi di settore emerge chiaramente la costante intenzione del legislatore di estendere l’applicazione dello strumento forfetario nell’esercizio dell’azione impositiva, considerandolo estremamente affidabile nella determinazione dei ricavi o compensi, insieme agli indici di normalità economica, anche per i soggetti di

il principio di capacità contributiva, si vedano FALSITTA, La fiscalità italiana tra rispetto delle garanzie costituzionali e giustizialismo fiscale, in Corr. Trib., 2007, 1931 ss.; BEGHIN, Utilizzo sistematico degli studi di settore e rispetto del principio di capacità contributiva, in Corr. Trib., 2007, 1973 ss., ove ulteriori riferimenti dottrinali. 9 In specie, l’ammontare delle attività non dichiarate non deve superare cinquantamila euro né il quaranta per cento dei ricavi o compensi dichiarati dal contribuente. Inoltre non devono essere irrogabili le sanzioni di cui ai commi 2-bis e 4-bis rispettivamente degli artt. 1 e 5 del D.Lgs. n. 471 del 1997. Tali disposizioni, introdotte dalla stessa legge finanziaria per il 2007, elevano del dieci per cento la misura minima e massima della sanzione per infedele dichiarazione nel caso in cui sia riscontrabile l’omessa o infedele indicazione dei dati richiesti per l’applicazione degli studi di settore. 10 Ovviamente rimane immutata la

possibilità per l’amministrazione finanziaria di eseguire rettifiche di natura diversa da quelle presuntive, in base al disposto dell’art. 39, comma primo, lettere a, b e c del D.P.R. n. 600/1973. Tale previsione, in ogni caso, rivela l’implicita volontà di sostituire i proventi effettivamente incassati dal contribuente con quelli “standard”, ancorché nei limiti della franchigia: cfr. SCHIAVOLIN, Reddito effettivo e reddito fittizio: evoluzioni recenti, in Corr. Trib., 2007, 1983. 11 Detti indicatori sono stati approvati con D.M. del 20 marzo 2007, modificato dal D.M. del 4 luglio 2007. 12 Si veda l’art. 1, comma 14-bis, della L. n. 296 del 2006 (legge finanziaria per il 2007), introdotto dall’art. 15, comma 3-bis, del D.L. n. 81 del 2007, convertito dalla L. n. 127 del 2007. Cfr., inoltre, i chiarimenti espressi dall’amministrazione finanziaria nella circolare n. 41 del 6 luglio 2007. 13 Cfr. art. 1, comma 252, della L. n. 244/2007 (legge finanziaria per il 2008).


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grandi dimensioni i quali sono in grado di realizzare notevoli fenomeni evasivi che, verosimilmente, mal si prestano ad essere arginati mediante metodologie statistiche. Peraltro non si ravvisa un argomento letterale decisivo in ordine alla qualificazione giuridica degli studi di settore sotto il profilo probatorio. Invero, se per un verso la legittimazione dell’accertamento in base al semplice scostamento dei ricavi dichiarati da quelli risultanti dagli studi, operata, a prima vista, dall’art. 62-sexies del D.L. n. 331 del 1993, sembrerebbe rafforzarne la valenza probatoria, per altro verso la collocazione dello strumento all’interno dell’art. 39, primo comma, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, disposta dal medesimo art. 62sexies, ne attenua la forza presuntiva14, tanto più se si considera che la suddetta norma, a ben vedere, consente l’accertamento al verificarsi di gravi incongruenze tra i dati reddituali dichiarati e quelli “fondatamente” desumibili dagli studi, i quali, dunque, non sembrerebbero in grado di fondare accertamenti “automatici”. Né sembra corretto trarre conseguenze, a riguardo, dalla natura di presunzione semplice che il legislatore ha espressamente attribuito agli indicatori di normalità economica, il cui fine, diversamente dagli studi di settore, non è quello di determinare i ricavi o compensi realizzati dai contribuenti15.

14 Cfr. GALLO, Ancora sulla funzione reddito normale-reddito effettivo: la funzione degli studi di settore, in AA.VV., I nuovi studi di settore, Atti del convegno, Roma, 11 febbraio 2000, allegato n. 31 a Fisco, 2000, n. 25, 8614, che ha osservato come gli studi di settore siano stati ambiguamente collocati dal legislatore nell’ambito dell’accertamento (analitico) induttivo, senza peraltro definirne la funzionalizzazione. 15 Cfr. GIOÈ, Studi di settore e obbligo di motivazione, in Rass. Trib., 2007, 1726 e ss. 16 Cfr., pur con qualche diversità nell’ambito dei vari orientamenti, LA ROSA, L’amministrazione finanziaria, Torino, 1995, 73; FEDELE, Rapporti tra i nuovi metodi di accertamento e il principio di legalità, in AA.VV., Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo, a cura di Preziosi, Roma, 1996, 48 ss.; FAZZINI, L’accertamento per presunzioni: dai coefficienti agli studi di settore, in Rass. Trib.., 1996, 309 ss.; GARBARINO, Studi di settore, concordato e nuove tipologie di accertamento dei redditi, in Riv. Dir. Trib., 1997, I, 87; Id., Aspetti probatori degli studi di settore, in Rass. Trib., 2002, 228;

L’effettiva valenza probatoria degli studi di settore: l’attuale inidoneità dello strumento forfetario ad integrare una fattispecie presuntiva In assenza di una precisa qualificazione giuridica degli studi di settore ad opera del legislatore, la dottrina16 e la giurisprudenza maggioritarie17, ed anche la sentenza in esame, hanno attribuito agli studi la natura di presunzioni semplici, con la conseguenza di ritenere non sufficiente a fondare l’accertamento il semplice scostamento dei ricavi o compensi dichiarati dal contribuente rispetto a quelli determinati dallo strumento statistico18. Nello stesso senso si è espressa di recente, per la prima volta, l’amministrazione finanziaria che, nella circolare n. 5/E del 23 gennaio 200819, ha affermato che gli studi di settore non sono idonei a sostenere da soli un accertamento in quanto sono da considerarsi presunzioni semplici non qualificate. Peraltro non sono mancate posizioni dottrinarie e giurisprudenziali che hanno qualificato gli studi di settore alla stregua di presunzioni legali relative, in grado di legittimare ex se la rettifica erariale senza necessità che gli Uffici siano tenuti a fornire ulteriori dimostrazioni20. Ancora, vi è stato chi ha negato qualunque rilievo probatorio degli studi giudicandoli «fatti di mera conoscenza», ossia supporti logici e razionali meramente estimativi che enunciano un valore me-

GIORGI, L’accertamento basato sugli studi di settore: obbligo di motivazione ed onere della prova, in Rass. Trib., 2001, 656 ss.; MARONGIU, Coefficienti presuntivi, parametri e studi di settore, in Dir. e Prat. Trib., 2002, 729; BASILAVECCHIA, Importanti atti di indirizzo sugli studi di settore, in Corr. Trib., 2002, 3523-3524; MARCHESELLI, Accertamento dei redditi delle piccole imprese e dei professionisti: denominatori comuni e tendenze legislative, in Rass. Trib., 2003, 611; Id., Per l’applicazione delle presunzioni semplici di cui agli studi di settore è necessaria la previa attuazione del contraddittorio, cit., 1049; SCIARRA, Parametri e studi di settore: strumenti ordinari di una ordinaria attività accertativi, nota a Comm. trib. prov. Catania, sez. IV, 29 gennaio 2003, n. 1147/4/02, in Boll. Trib., 2003, 542; Id., I rapporti tra (onere della) prova e (obbligo di) notificazione dell’atto impositivo nell’accertamento fondato sugli studi di settore, cit., 466; BEGHIN, L’illegittimità dell’avviso di accertamento carente di specifica motivazione quanto alle “gravi incongruenze” previste dall’art. 62-sexies, comma 3, del D.L. n. 331/1993: un’adeguata reazione alla connotazione “statistico-probabilistica”

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degli studi di settore, nota a Comm. trib. prov. Milano, sez. VIII, 18 aprile 2005, n. 60, in Riv. Dir. Trib., 2005, II, 452 ss.; VOGLINO, Saggi rigori giurisprudenziali sull’accertamento basato sugli studi di settore, cit., 1739; GIOÈ, Studi di settore e obbligo di motivazione, cit., 1726 ss.; BIONDO, Incertezze interpretative sul valore probatorio degli studi di settore, cit., 1489. Si vedano le pronunce, di legittimità e di merito, citate nella nota 1. Per un’approfondita ricostruzione delle diverse teorie elaborate in dottrina sulla natura giuridica degli studi di settore si veda VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano, 2007, 171 ss. Si veda, in proposito, il commento di BERARDO-DULCAMARE, I soli studi di settore non bastano per legittimare l’accertamento, in Corr. Trib., 2008, 731 ss. Cfr. FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di Perrone-Berliri, Napoli, 2006, 392 ss.; RUSSO, La tutela del contribuente nel processo sui redditi virtuali o presunti: problemi generali, in Riv. Dir. Trib., 1995, I, 17; TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione


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dio calcolato su un insieme di valori collocati all’interno di una classe resa quanto più possibile omogenea21. In altri termini in base a tale dottrina gli studi di settore, elaborati secondo i dati dichiarati dai contribuenti e assunti come veri, non mostrano alcun nesso inferenziale dal noto all’ignorato ma realizzano una mera sistemazione ordinata del noto attuata con criteri convenzionali, per cui, in definitiva, si traducono in una semplice descrizione delle differenze matematiche tra l’ammontare dei ricavi dichiarati da ognuno e l’ammontare dei ricavi mediamente dichiarati da tutti22. Sulla questione, in particolare, sembra corretto seguire l’approccio adottato da altra dottrina, in base alla quale la valenza probatoria degli studi di settore non può prescindere dalla conoscenza della formula matematico-statistica ad essi sottesa, al fine di verificare se il nesso inferenziale in essa esplicitato consenta di integrare un valido ragionamento probatorio23. Invero gli studi di settore consistono, come noto, in una relazione tra determinate variabili contabili ed extracontabili riferite alle varie attività economiche, opportunamente elaborate statisticamente, e i ricavi conseguiti dalle medesime attività. È pacifico che nel diritto tributario sia consentito ricorrere, nella tendenza all’accertamento del fatto e sempre se consentito dalle norme, a strumenti di natura presuntiva i quali si traducono in ragionamenti logici che consentono di far discendere, in base ad una massima di comune esperienza, il fatto ignoto da un fatto noto24. Tuttavia, nella premessa che ogni ragionamento presuntivo implica in qualche modo una congettura, e considerando altresì come non si senta di affermare, in via di principio, che determinate

reddituale, Milano, 1999, 278 ss.; DI PIETRO, Il contribuente nell’accertamento delle imposte sui redditi: dalla collaborazione al contraddittorio, in AA.VV., L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, coordinato da Uckmar, Padova, 2000, 536 ss.; GALLO, Ancora sulla funzione reddito normale-reddito effettivo: la funzione degli studi di settore, in AA.VV., I nuovi studi di settore, cit., 8613 ss.; LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001, 573 ss.; GAFFURI, Brevi considerazioni sugli studi di settore, in Boll. Trib, 2001, 20. In giurisprudenza si vedano le sentenze richiamate, in tal senso, nella precedente nota 1. 21 Cfr. VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, cit., 212 ss. e specialmente 220 ss.

variabili individuate ai fini dell’elaborazione degli studi siano sprovviste di qualsivoglia valore inferenziale, non ci si può esimere, ai fini della qualificazione giuridica degli studi di settore, dalla preventiva analisi della relazione tra il fatto noto (variabili contabili ed extracontabili opportunamente elaborate) e il fatto ignoto (ricavi o compensi realizzati dai contribuenti) da essi valorizzata, sì da valutare se gli studi corrispondano ad una massima di comune esperienza. In altri termini non si può esprimere un giudizio circa la valenza probatoria degli studi di settore senza aver verificato ex ante che le inferenze in essi contenute consentono di determinare i ricavi o compensi conseguiti dai contribuenti in base all’id quod plerumque accidit. Siffatta verifica non può essere condotta in assenza della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’esatta formula matematico-statistica che sorregge lo strumento forfetario, comprensiva del “peso” attribuito a ciascuna variabile considerata, non essendo sufficiente, al fine giudicare la correttezza del ragionamento statistico in esso adottato, la semplice pubblicazione delle note metodologiche di ciascuno studio. È ben evidente, peraltro, l’estrema difficoltà che il contribuente medio incontrerebbe nella comprensione della suddetta formula, certamente complessa; tuttavia potrebbe essere estremamente conveniente per tale soggetto, anche ai fini della propria difesa da gravosi accertamenti, ricorrere ad una consulenza tecnica, ancorché costosa. Dunque, non essendo controllabile nel dettaglio il meccanismo che consente di quantificare i ricavi presunti, non sembra legittimo attribuire alcun valore probatorio agli studi di settore, risultando quest’ultimi, allo stato attuale, mere finzioni giuridiche.

22 Cfr., ancora, VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, cit., 193 ss. 23 Cfr. MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, 206 ss. e specialmente 210. 24 Non è questa la sede per approfondire l’utilizzo del metodo presuntivo nella materia tributaria. Sulla nozione giuridica di presunzione si veda, per tutti, TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, passim. Sul tema delle presunzioni in ambito tributario cfr., tra gli altri, GENTILLI, Le presunzioni nel diritto tributario, Padova, 1984, passim; GRANELLI, Presunzioni tributarie e processo penale, in Dir. e Prat. Trib., 1985, I, 49 ss.; TESAURO, Le presunzioni nel processo tri-

butario, in AA.VV., Le presunzioni in materia tributaria, a cura di Granelli, Rimini, 1987, 40 ss.; FEDELE, Le presunzioni in materia di registro e Invim, in AA.VV., Le presunzioni in materia tributaria, a cura di Granelli, cit., 105 ss.; LUPI, Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, passim e specialmente 195 ss.; TINELLI, voce Presunzioni, (Dir. trib.), in Enc. Giur., Roma, 1991; TRIMELONI, Le presunzioni tributarie, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, a cura di Amatucci, Padova, 1994, II, 82 ss.; MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, cit., 178 ss., che ha altresì evidenziato le differenze tra indizi e presunzioni.


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Non si sente, quindi, di condividere l’assunto della pronuncia in rassegna che, pur evidenziando l’oscurità delle funzioni matematiche e statistiche che informano la costruzione degli studi di settore, in contrasto con il principio di trasparenza e di adeguata motivazione degli atti dell’amministrazione finanziaria di cui all’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212 del 2000), attribuisce alla metodologia accertatrice la natura di presunzione semplice. I profili di illegittimità costituzionale degli studi di settore paventati nella pronuncia in rassegna Nella sentenza in rassegna i giudici, oltre a pronunciarsi sul valore probatorio degli studi di settore, hanno paventato una serie di profili di asseribile illegittimità costituzionale degli stessi che, verosimilmente, sono connessi alla loro qualificazione giuridica. In particolare, sono state evidenziate le difficoltà del contribuente nel fornire la prova di un fatto negativo, consistente nel mancato ottenimento dei ricavi “virtuali”, con la conseguente riduzione del diritto di difesa. È stata altresì messa in risalto la rottura, operata dagli studi di settore, del bilanciamento tra i primari valori costituzionali del rispetto della capacità contributiva e dell’interesse fiscale alla riscossione dei tributi, in specie comprimendo il primo in favore del secondo. Infine è stata ventilata, tra le alternative a disposizione del contribuente impossibilitato a difendersi dagli studi, la denuncia della violazione dell’art. 23 della Costituzione in quanto gli studi di settore, benché introdotti da una disposizione di legge, sono resi operativi mediante successivi decreti, ossia attraverso fonti normative secondarie. Tali osservazioni, delle quali non è dato intendere con chiarezza il senso, probabilmente sono state formulate a suffragio del giudizio circa la natu-

25 Come ha ricordato FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, cit., 399, la Corte costituzionale (v. le sentenze citate dall’autore nella nota 21) ha sempre affermato la legittimità di presunzioni e forfetizzazioni utilizzate dal legislatore in funzione probatoria del presupposto impositivo, riconoscendo al legislatore ampia discrezionalità nella scelta degli indicatori, purché non irragionevoli e fondati su indici rivelatori di ricchezza, alla luce dell’id quod plerumque accidit e delle esigenze di tutela dell’interesse fiscale. Tuttavia, in assenza della pubblicazione del meccanismo presuntivo

ra giuridica degli studi di settore, come se quest’ultimo fosse il risultato di un’interpretazione in chiave adeguatrice della valenza degli studi nelle procedure di accertamento. Peraltro il metodo argomentativo adottato dai giudici non appare condivisibile poiché l’affermata natura di presunzione semplice degli studi di settore non esclude, come d’altronde non sono stati espressamente esclusi dalla Commissione di Benevento, gli aspetti di possibile illegittimità costituzionale degli studi la cui evidenziazione, al contrario, avrebbe imposto la denuncia della questione di incostituzionalità della metodologia presuntiva alla Corte costituzionale. Invero, a ben vedere, anche in relazione ai menzionati profili di illegittimità costituzionale degli studi di settore appare dirimente la pubblicazione del ragionamento matematico-statistico da cui sono sorretti. Ciò in quanto, reso edotto di tale ragionamento, il contribuente sarebbe in grado di valutare ed eventualmente contestare il pregio della relazione tra il fatto noto e quello ignorato evitando che essa si traduca in una sostanziale definizione forfetaria del reddito, in palese contrasto con l’art. 23 della Costituzione, con il principio di capacità contributiva25 e con il diritto di difesa di cui agli artt. 24 e 113, Cost.26 Diversamente, si dovrebbe invocare con vigore la questione di legittimità costituzionale degli studi di settore in relazione alla violazione dei menzionati principi, tra cui spicca quello della riserva di legge poiché, nel processo di elaborazione degli studi, sono rimesse all’amministrazione finanziaria scelte fondamentali, quali la selezione delle variabili da considerare e le metodologie statistiche da adottare, che incidono in maniera determinante sulla quantificazione dei ricavi e quindi della base imponibile del tributo27.

sotteso agli studi di settore, non è possibile verificare se tale strumento soddisfi i requisiti precisati dalla Corte costituzionale al fine di rispettare il principio di capacità contributiva. 26 In mancanza dell’esplicitazione delle inferenze contenute negli studi di settore, invero, non sarebbe soddisfatta l’effettività del diritto di difesa del contribuente mediante quello scambio bidirezionale di informazioni sugli elementi di fatto e di diritto, normalmente indirizzato dal soggetto controllato all’amministrazione finanziaria, che secondo MULEO, Contributo allo studio del sistema

probatorio nel procedimento di accertamento, cit., 275 garantisce l’essenza stessa del contraddittorio. 27 In particolare, il processo di formazione e revisione degli studi di settore è rimesso alla società Sose S.p.A., nella quale il Ministero delle Finanze detiene una quota maggioritaria, non essendo ravvisabile alcuna reale partecipazione dei contribuenti, i quali si limitano a dichiarare dati sulle proprie attività che non vincolano l’amministrazione, né limitano il suo campo d’azione nell’elaborazione degli studi. Pertanto l’amministrazione gode di ampia libertà d’azione nella scelta degli indicatori che, permet-


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Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. V, 31 dicembre 2007, n. 417 Presidente: Terzi - Relatore: Di Mattina Accertamento - Motivazione per relationem Rinvio al processo verbale recante presunzioni inconsistenti - Prove documentali fornite dal contribuente - Assolvimento dell’onere probatorio - Illegittimità dell’avviso di accertamento (C.c., art. 2697; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 51 e 55; D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 32 e 39; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7) Qualora il contribuente abbia documentalmente dimostrato l’effettività delle operazioni contestate dall’amministrazione finanziaria e ritenute inesistenti, l’avviso di accertamento, recante l’imputazione di maggiori imponibili, deve essere annullato, non potendo giovarsi di un semplice rinvio per relationem alla motivazione del Pvc fondato su presunzioni viziate da inconsistenza e genericità, senza il conforto di elementi obiettivi e documentati. Svolgimento del processo L’Agenzia delle Entrate - Ufficio di Lecce 2 notificava in data 20 novembre 2006 alla società S. S.r.l. l’avviso di accertamento n. [...] per l’importo di euro 119.522,25 (comprensivo di sanzioni) relativo all’anno d’imposta 2002, con il quale, a seguito di un processo verbale della Guardia di Finanza di Lecce del 13 dicembre 2005, peraltro non sottoscritto dal legale rappresentante, contestava presunte operazioni inesistenti. La società presentava tempestivo ricorso e chiedeva, previa riunione con altri ricorsi, l’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato per difetto di motivazione nonché, nel merito, la cor-

tendo di quantificare, per giunta mediante metodologie individuate dalla stessa autorità amministrativa, i ricavi ed i compensi, incidono in maniera decisiva sulla determinazione della base imponibile. Nemmeno le associazioni di categoria forniscono un contributo concreto nella formazione degli studi, in quanto le stesse esprimono un parere per la valutazione del prototipo dello studio di settore prima che esso venga applicato ai contribuenti, senza tuttavia conoscerne le caratteristiche più intime, ed in particolare la formula matematicostatistica utilizzata per l’elaborazione del medesimo. Le stesse considerazioni possono estendersi al parere rilasciato dalla Commissione degli

rettezza, formale e sostanziale, di tutte le operazioni commerciali contestate, documentando il tutto con fotocopie di fatture e pagamenti, nonché con la perizia giurata, redatta dall’ing. G. S. dell’11 dicembre 2006, e atti notori. L’Ufficio si costituiva in giudizio, contestando tutte le eccezioni, di diritto e di fatto, esposte dalla società ricorrente, nonché confermando la legittimità dell’avviso di accertamento notificato. All’udienza del 20 novembre 2007 le parti, dopo ampia ed esauriente discussione orale, si riportavano ai rispettivi scritti difensivi. Motivi della decisione Il ricorso deve essere accolto e l’avviso di accertamento impugnato deve essere totalmente annullato. Premesso che l’atto contestato è sufficientemente motivato – tanto è vero che la società ricorrente ha potuto predisporre un ricorso completo in tutte le sue contestazioni – c’è da rilevare, invece, che nel merito l’avviso di accertamento deve essere annullato perché la parte, ha dimostrato, documentalmente, l’effettività di tutte le operazioni commerciali contestate. Oltretutto, non bisogna dimenticare che il processo verbale della Guardia di Finanza non è stato mai sottoscritto dal rappresentante legale della società ricorrente, sig. C. A., il quale, peraltro, con dichiarazione inserita in allegato n. 7 del Pvc, dichiarava «di aver scrupolosamente rispettato tutte le disposizioni tributarie, sia perché tutte le operazioni sono reali e veritiere, in quanto non sussistono operazioni inesistenti, sia perché gli

esperti, i cui componenti sono peraltro designati dal Ministero delle Finanze, che dovrebbe esprimersi sull’idoneità dello studio a rappresentare la singola realtà economica, nonché alle anomalie riscontrate dagli Osservatori provinciali, i quali comunicano con la Commissione degli esperti e non direttamente con l’amministrazione (sul ruolo delle categorie economiche nel processo di formazione degli studi di settore cfr. RANDAZZO, La partecipazione delle categorie economiche alle attività amministrative tributarie, in AA.VV. Autorità e consenso nel diritto tributario, a cura di La Rosa, Milano, 2007, 179 ss.). Appare dunque evidente che in ordine agli studi di settore siamo di fronte ad

una rilevante carenza di criteri atti ad assicurare che la potestà “normativa” dell’esecutivo si esplichi entro un ambito sufficientemente determinato, in quanto l’amministrazione finanziaria dispone della facoltà di intervenire, senza alcun reale controllo, nella disciplina di elementi cruciali della tassazione. Né è corretto affermare che l’accertamento mediante studi di settore, agendo sul piano procedimentale, non possono essere vagliati alla luce dell’art. 23 della Costituzione, poiché tale convinzione è stata definitivamente respinta dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 105 del 1 aprile 2003, in Boll. Trib., 2003, 1585, con nota di SCIARRA, In tema di illegittimità costituzionale dei parametri.


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importi dichiarati per le vendite e per gli acquisti rispecchiano la realtà economica dell’azienda». La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con le sentenze n. 22555 del 26 ottobre 2007 e n. 19353 dell’8 settembre 2006, ha precisato che la prova della legittimità e della correttezza delle operazioni commerciali deve essere fornita dal contribuente attraverso opportuna documentazione contabile. Il suddetto corretto principio, cui questa Commissione intende adeguarsi, deve essere applicato nel caso di specie e il contribuente, con la citata perizia giurata, mai contestata dall’Ufficio, ha opportunamente dimostrato e documentato l’effettività di tutte le operazioni commerciali contestate. Infatti, il perito di parte, anche con supporti fotografici, ha esaurientemente dimostrato l’effettività e la congruità di tutti gli acquisti delle scaffalature, dei cassoni, dei contenitori, delle attrezzature, nonché la costruzione della tettoia e del basamento. Quindi, anche alla luce della suddetta interpretazione della Corte di Cassazione, a fronte di una dimostrazione esauriente da parte della società ricorrente, l’Ufficio non ha contrapposto alcuna prova documentale contraria, se non il generico richiamo al processo verbale della G. di F., an-

ch’esso, peraltro, basato su generiche ed inconsistenti presunzioni, prive di riscontri documentali. Oltretutto, la società ricorrente ha supportato la suddetta perizia anche con atti notori di ex dipendenti della [...] S.r.l. per quanto riguarda la costruzione del basamento (sig.ri M. L., T. D., N. C., Q. G. e Z. E.). La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con le sentenze n. 11221 del 16 maggio 2007 e n. 21233 del 29 settembre 2006, ha ammesso la validità degli atti notori nel processo tributario, e questa Commissione intende adeguarsi a questo corretto principio, anche per non pregiudicare il diritto di difesa, costituzionalmente protetto (art. 24 della Costituzione). Anche in questo caso, l’Ufficio non ha saputo contrastare documentalmente le prove offerte dalla società ricorrente.

Nota

fattispecie, l’effettività e la congruità di tutte le operazioni commerciali realizzate nel periodo in contestazione. Per converso, nel caso preso in esame, l’Ufficio non ha contrapposto alcuna prova documentale in senso contrario, se non il generico richiamo al processo verbale della Guardia di Finanza, basato, secondo la sentenza in commento, su presunzioni «generiche e inconsistenti, prive di riscontri documentali». In più, nel corso del giudizio, il contribuente aveva prodotto atti notori ritenuti ammissibili dai giudici pugliesi, che ne hanno ammesso la validità nel processo tributario richiamandosi, anche in questa occasione, a recenti precedenti della Suprema Corte (Cass., sez. trib., 16 maggio 2007, n. 11221, in Corr. Trib., 2007, 29, 2360, con commento di PISTOLESI, L’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese da terzi nel processo tributario; Cass., 29 settembre 2006, n. 21233, in www.finanze.it). La decisione della Commissione pare non soggetta a censure, soprattutto con riferimento alla concreta fattispecie oggetto di giudizio. Nella pur succinta esposizione del fatto la sentenza in commento, infatti, chiarisce che le risultanze di un processo verbale non sono, da sole, idonee a costituire fonti di prova, soprattutto laddove viziate da «inconsistenza e genericità» e ove non suffra-

Il caso affrontato dalla Commissione provinciale attiene all’annullamento di un avviso di accertamento notificato nei confronti di una società per presunte operazioni inesistenti. L’Agenzia delle Entrate, infatti, a seguito delle risultanze di un processo verbale redatto della Guardia di Finanza – e non sottoscritto, peraltro, dal legale rappresentante – contestava al contribuente l’inesistenza delle operazioni contabilmente registrate. I giudici hanno ritenuto di dover annullare l’avviso di accertamento impugnato rilevando che il contribuente aveva dimostrato, nel corso del giudizio, l’effettività di tutte le operazioni commerciali contestate. Per motivare i propri assunti, la Commissione si è richiamata ai precedenti della Suprema Corte (Cass., sez. trib, 26 ottobre 2007, n. 22555 e 8 settembre 2006, n. 19353, entrambe in www.finanze.it) secondo cui la prova della legittimità e della correttezza delle operazioni commerciali realizzate può essere fornita dal contribuente attraverso la documentazione contabile. Tale principio trova applicazione, secondo i giudici pugliesi, laddove il contribuente abbia documentalmente dimostrato, come nella concreta

P.Q.M. La Commissione, in accoglimento del ricorso, annulla l’avviso di accertamento impugnato; dichiara compensate per il 50% le spese di lite e condanna l’a.f. al pagamento in favore della ricorrente dell’altra metà [...].


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gate da ulteriori elementi idonei a controbattere le prove prodotte dal contribuente. Invero, i semplici acritici rinvii per relationem al processo verbale, basati su elementi forniti dai verificatori dalla Guardia di Finanza non hanno trovato riscontro nella fase processuale, secondo la concisa ricostruzione operata dalla Comm. trib. prov. (con riferimento ai profili della motivazione per relationem si v. CALIFANO, Conoscenza effettiva e conoscenza potenziale dell’atto richiamato nella motivazione per relationem, nota a Comm. trib. II grado Trento, sez. I, 11 aprile 2007, n. 32, in questa rivista, 2007, 2, 250). Oltre a ciò la Commissione ha ravvisato la necessità che gli atti richiamati nel processo verbale della Guardia di Finanza, sui quali si fondava l’atto impugnato, avrebbero dovuto essere conosciuti dal contribuente. Diversamente, l’accertamento impugnato non risulterebbe sostenuto da elementi di prova, ma solamente da indizi e congetture privi di riscontri di natura oggettiva. Se ne deduce che l’iter argomentativo dell’atto impositivo non può poggiarsi su supposizioni, rilievi o altri elementi dell’indagine fiscale privi di riscontro, a pena del mancato soddisfacimento dell’onere probatorio imposto all’amministrazione finanziaria. Queste affermazioni dei giudici di Lecce trovano conforto nella costante giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui, se da un lato, è pur vero che «in caso di contestazioni relative a fatture per operazioni inesistenti spetta al contribuente l’onere di dimostrare la legittimità e correttezza delle operazioni», è altrettanto vero che tale onere probatorio è assunto dal contribuente laddove quest’ultimo esibisca i relativi documenti contabili, regolarmente tenuti (ex multis, Cass., 29 settembre 2005, n. 19019, nonché Cass., 3 maggio 2002, n. 6341, entrambe in www.finanze.it). Il suddetto principio poggia, a sua volta, su di un altrettanto consolidato orientamento della Cassazione, secondo il quale «la fattura è documento idoneo a documentare un costo (tale funzione si evince chiaramente dall’art. 21 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 in materia di Iva, che disciplina il contenuto della fattura, prescrivendo, tra l’altro, l’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo di ogni operazione commerciale)» (Cass., 5 febbraio 1997, n. 1092, in www.finanze.it); pertanto, anche nell’ambito della determinazione del reddito d’impresa, «nella ipotesi di fatture che l’amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’amministrazione, che adduce la falsità del documento e, quindi, l’esistenza di un maggiore

imponibile, provare che l’operazione commerciale, documentata dalla fattura, in realtà non è stata mai posta in essere» (Cass., 23 settembre 2005, n. 18710; conformi Cass., 12 dicembre 2005, n. 27341; Cass., 20 novembre 2006, n. 24607; Cass., 4 dicembre 2006, n. 25673, tutte in www.finanze.it). Per avvalorare, infine, il proprio convincimento circa la concreta dimostrazione, da parte del contribuente, della reale sussistenza delle operazioni contestate, la Commissione ha ritenuto ammissibile un atto notorio prodotto in giudizio dal contribuente. Come è noto, infatti, la Corte costituzionale, con la sentenza 21 gennaio 2000, n. 18, (in Fisco, 2000, 6, 1718, con commento di DE LUCA), conferendo dignità giuridica alle “testimonianze improprie” alla stregua di “indizi”, ha evidenziato che esse devono essere supportate da altri elementi o riscontri. È, dunque, compito del giudice verificare le informazioni contenute in queste dichiarazioni, valutando se gli elementi indiziari possano trovare accoglimento nel complesso motivazionale della sentenza. Invero, se da un lato il problema di definire la veste formale nella quale questi elementi indiziari debbano essere prodotti in giudizio non si pone per le dichiarazioni rese all’amministrazione finanziaria, in quanto le stesse vengono solitamente trasfuse negli atti impositivi (cfr., sul punto, RICCIONI, L’ammissibilità ai fini probatori delle dichiarazioni rese da terzi in ambito extraprocessuale in rapporto al divieto di prova testimoniale nel processo tributario, in Fisco, 2003, 14, 1, 2120), dall’altro, per quanto riguarda le dichiarazioni dei terzi che il contribuente intende far valere in giudizio, il problema invece si è posto (sul punto, per approfondimenti, si v. FIORENTINO, Accertamento tributario, presunzioni gravi, precise e concordanti e valore delle dichiarazioni rese da terzi in processi verbali di constatazione, in Rass. Trib., 1998, 5, 1430 ss). La Corte di Cassazione ha riconosciuto anche al contribuente la possibilità di utilizzare in proprio favore eventuali dichiarazioni a lui rese da terzi al di fuori del giudizio, nell’ottica di attuazione dei principi del “giusto processo” tesi a garantire la parità delle armi e l’effettività del diritto di difesa (Cass., 25 marzo 2002, n. 4269; Cass., 6 novembre 2002, n. 15538, entrambe in Fisco, 2002, 44, 1, 7081; Cass., 2 marzo 2004, n. 4239, in Fisco, 2004, 1, 2955; Cass., 29 luglio 2007, n. 16032, in www.finanze.it); in tali ipotesi possono essere utilizzati l’atto notorio, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà e la perizia giurata. La scelta di ritenere ammissibili ed utilizzabili nel processo tributario le dichiarazioni rese da terzi


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all’amministrazione finanziaria ha portato la giurisprudenza a riconoscere, anche a favore del contribuente, la possibilità di utilizzare eventuali dichiarazioni a lui rese al di fuori del giudizio: naturalmente, anche per il contribuente, le dichiarazioni in questione non potranno avere pieno valore probatorio, ma solo il valore di elementi indiziari che, da soli, non possono costituire il fondamento della decisione (Cass., 25 marzo 2002, n. 4269, in www.finanze.it). Questo orientamento, tuttavia, ha registrato una battuta di arresto nella stessa giurisprudenza della Cassazione, laddove la stessa ha affermato che la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative essendo, viceversa, priva di qualsiasi efficacia in sede giurisdizionale, trovando un ostacolo invalicabile, nel contenzioso tributario, nella previsione dell’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992; nell’ipotesi contraria, si finirebbe, secondo tale indirizzo, per introdurre nel processo tributario un mezzo di prova non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo (Cass., 15 gennaio 2007, n. 703, in www.finanze.it). In particolare, ai fini della pronuncia in commento, pare significativo un passaggio della citata sentenza 15 gennaio 2007, n. 703, laddove la Cassazione rileva che «i giudici di appello risultano affermare – in termini di assoluta apoditticità e, quindi, inadeguati – che il contribuente ha dimostrato (i fatti contestati), in maniera attendibile e circostanziata, anche mediante la documentazione prodotta nel pregresso grado del giudi-

zio. [...] Le produzioni documentali del contribuente considerate dai giudici a quibus sembrano esaurirsi in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio cui, in sede giudiziaria, non può attribuirsi alcun valore probatorio». La pronuncia in commento, non sembra, tuttavia, porsi in contrasto con il suddetto orientamento atteso che, nel caso di specie, gli stessi giudici hanno riconosciuto che l’atto notorio prodotto in giudizio costituiva un ulteriore supporto del più ampio quadro probatorio fornito dal contribuente. Oltre a ciò, gli stessi hanno ritenuto di richiamarsi ad una successiva posizione interpretativa della Suprema Corte (Cass., 16 maggio 2007, n. 11221, cit., 2360), che ha ammesso la validità degli atti notori nel processo tributario, ritenendo che «[...] nel processo tributario, come è consentita la possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente – fermo il divieto di ammissione della prova testimoniale posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7 – con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione, va del pari necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale – beninteso, con il medesimo valore probatorio – dando così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione, per garantire il principio della parità delle armi processuali, nonché l’effettività del diritto di difesa».


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AIUTI DI STATO PRIMI ORIENTAMENTI SUL RECUPERO DEGLI AIUTI DI STATO FISCALI RELATIVI ALLE SOCIETÀ PER LA GESTIONE DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI (CD. “EX MUNICIPALIZZATE”) I 6

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 17 luglio 2007, n. 439 Presidente e Relatore: Montanari Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Ordinamento comunitario - Incompatibilità - Sussistenza - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Applicazione - Condizioni - Prevalente o totale partecipazione pubblica - Irrilevanza (Trattato CE, art. 87, par. 1; decisione Commissione UE 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 66, comma 14, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427) Aiuti di Stato - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Applicabilità - Condizioni - Procedura di recupero - Ingiunzione Motivazione - Necessità (Trattato CE, art. 87, par. 1; decisione Commissione UE 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 66, comma 14, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427) La decisione della Commissione europea n. 2003/ 193/CE del 5 giugno 2002, che ha dichiarato l’esenzione triennale dall’imposta sul reddito disposta a favore di società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria (istituite ai sensi dell’art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142), aiuto di Stato incompatibile ex art. 87, par. 1, del Trattato CE, risulta applicabile anche al caso in cui la società sia a totale capitale pubblico. Affinché la decisione della Commissione europea n. 2003/193/CE, possa trovare concreta applicazione, non è sufficiente che la società sia riconducibile al novero delle S.p.A. ex lege n. 142/1990, ma è necessario che il caso specifico possa essere ricompreso nella fattispecie legale delineata dalla decisione stessa. Conse-

guentemente, risulta necessaria un’indagine di fatto, adeguatamente espressa in sede di motivazione e diretta a supportare, anche sul piano dell’onere probatorio, le ingiunzioni di recupero degli aiuti in questione, emesse dall’amministrazione finanziaria. Svolgimento del processo La S. S.p.A., società interamente posseduta da alcuni Comuni [...] ed avente come oggetto sociale la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi, grava, in persona del proprio legale rappresentante, con ricorsi [...], altrettante ingiunzioni emesse nei suoi confronti dall’Agenzia delle Entrate, notificate tutte in data 20 marzo 2007, per gli anni d’imposta dal 1994 al 1997, per la riscossione di euro 7.637.180,00 a titolo di recupero, ai sensi del D.L. n. 10/2007, di aiuto di Stato dichiarato incompatibile con il mercato comune dalla decisione della Commissione della Comunità europea, 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; assume la ricorrente, dopo aver brevemente tratteggiato la propria storia e le motivazioni che hanno spinto gli enti locali soci a costituirla, che le ingiunzioni opposte sarebbero illegittime in quanto la decisione richiamata si applicherebbe alle S.p.A. a prevalente partecipazione pubblica, mentre la propria compagine sociale è interamente pubblica e dunque, qualora la Commissione adita non ritenesse di annullarle direttamente, sussisterebbe, pregiudizialmente, la necessità, vertendosi in punto all’interpretazione di un atto compiuto da un’istituzione della Comunità, di rimettere gli atti, in sede di rinvio pregiudiziale, alla Corte di Giustizia e, comunque, che le ingiunzioni opposte sarebbero illegittime per carenza di motivazione in punto all’applicabilità alla fattispecie concreta dedotta in giudizio della decisione di cui sopra. La ricorrente rassegna le seguenti conclusioni: - in via pregiudiziale, che la Commissione adita emetta ordinanza che sottoponga alla Corte di Giustizia le seguenti questioni preliminari:


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1) «se la decisione della Commissione europea 2003/193/CE del 5 giugno 2002, debba essere interpretata nel senso che l’aiuto di Stato, giudicato incompatibile con il diritto comunitario da detta decisione, debba essere recuperato nei confronti delle società a totale capitale pubblico»; 2) «se detta decisione comporti il recupero dell’aiuto nei confronti delle società che provvedono, secondo la legislazione italiana, alla raccolta dei rifiuti in regime di esclusiva»; - nel merito, in via principale, che la Commissione adita annulli le impugnate ingiunzioni per il motivo richiamato prima. In sede cautelare la domanda di sospensiva veniva rigettata ai sensi dell’art. 1 del D.L. n. 10/2007 non vertendosi, nel caso, in alcuna delle fattispecie previste dalla norma citata e cioè: errore di persona, errore materiale del contribuente, evidente errore di calcolo. L’Agenzia ha depositato proprie controdeduzioni con documenti; la ricorrente memoria aggiunta con documenti. Motivi della decisione I ricorsi sopra richiamati sono connessi e, pertanto, vanno riunificati [...]. In via preliminare va dichiarato non necessario il rinvio pregiudiziale richiesto dalla ricorrente, ed anche dall’Agenzia resistente, ai sensi e per gli effetti dell’art. 234 del Trattato CE alla Corte di Giustizia in ordine alle due questioni preliminari richiamate prima. Quanto alla prima. L’art. 22 della legge n. 142/1990, nel testo vigente al momento della costituzione della S. S.p.A., disponeva, al comma 3, che «i Comuni e le Province possono gestire i servizi pubblici nelle seguenti forme: [...] e) a mezzo di società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale qualora si renda opportuna, in relazione al servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati». Gli artt. 66, comma 14, del D.L. n. 331/1993 e 3, comma 70, della legge n. 549/1995 hanno, poi, disposto che nei confronti delle società costituite ai sensi dell’art. 22 cit. si applicassero fino al 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in corso al momento di acquisizione della personalità giuridica e, comunque, non oltre il 31 dicembre 1999, le disposizione tributarie applicabili all’ente territoriale di appartenenza; il che si traduceva, in concreto, nella loro non soggettività all’Irpeg, art. 88 del T.U.I.R. (ora art. 74) e all’Ilor, art. 116 del T.U.I.R. (ora abolito). La S. S.p.A. venne costituita, come desumibile dall’all. n. 2) al ricorso, con at-

to a ministero notaio G. del 31 marzo 1994, iscritto presso il Tribunale di Reggio Emilia il 23 maggio 1994. La Commissione europea, con decisione del 5 giugno 2002 (2003/193/CE), all’art. 2 decideva che «l’esenzione triennale dall’imposta sul reddito disposta dall’art. 3, comma 70, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 e dall’art. 66, comma 14, del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 a favore di società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria istituite ai sensi della legge 8 giugno 1990, n. 142, costituiscono aiuti di Stato ai sensi dell’art. 87, par. 1, del Trattato. Detti aiuti non sono compatibili con il mercato comune». Questa decisione al “considerando” 12, lett. e, precisava che «in Italia gli enti locali (Comuni) tradizionalmente hanno fornito alle proprio comunità, direttamente o indirettamente, vari servizi locali, utilizzando diversi strumenti organizzativi. Nel 1990, la legge 8 giugno 1990, n. 142, ha operato una riforma degli strumenti organizzativi legali per la gestione di tali servizi. Ai sensi dell’art. 22 di detta legge, il Comune può infatti fornire i servizi: [...] e) mediante costituzione di società commerciali (società per azioni) o società a responsabilità limitata a partecipazione maggioritaria pubblica». Dalla lettura dell’art. 22 cit. emerge chiaramente come il legislatore avesse avuto ben presente che, qualora gli enti locali avessero scelto per la gestione dei servizi pubblici l’opzione di cui alla lett. e, ne sarebbe potuta conseguire una società interamente pubblica, in cui, cioè, oltre ad un «prevalente capitale pubblico locale», cioè di proprietà degli enti locali, Comuni e Province, vi fosse anche la partecipazione «di altri soggetti pubblici o privati» (si noti l’uso della particelle «o»: di tipo disgiuntivo); la presenza del capitale pubblico avrebbe potuto essere, cioè, talmente prevalente da essere totalitaria: la totalitarietà è stata intesa, dal legislatore, come un modo di essere della prevalenza; infatti, appunto, la S. S.p.A. venne costituita con capitale interamente pubblico: né il notaio rogante né il giudice dell’omologa ebbero da eccepire alcunché. Quando la Commissione ha steso, materialmente, la decisione, per evidenti motivi pratici, cioè per chiarezza, comodità, brevità di stesura, invece di ripetere “letteralmente integralmente” ogni volta l’intero dettato della lett. e dell’art. 22, si è limitata, al fine di richiamarne, in modo recettizio, l’intera fattispecie comprendente cioè anche l’ipotesi di una prevalenza-totalitarietà, ad usare la frasesintagma: «società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria istituite ai sensi della legge 142/1990». Prova ne sia il fatto che il citato “considerando” 12, è steso sulla falsariga dell’art.


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22 cit. e che le lettere dello stesso sono le medesime e fanno riferimento alle medesime fattispecie della normativa italiana: va comunque aggiunto che la Commissione aveva ben presente l’ipotesi che la sua decisione si riferisse anche alla fattispecie della totalitarietà del capitale pubblico: lo si può desumere dal considerando 53, dove la decisione argomenta letteralmente nel senso che «l’esecuzione in questione ha permesso unicamente alle imprese municipali trasformate in S.p.A. ex lege n. 142/1990 a condizione che almeno la maggioranza del capitale azionario rimanesse pubblico», e, ancora dal “considerando” 113, dove la decisione, anche qui letteralmente, argomenta nel senso che l’esenzione triennale dall’imposta sul reddito si applica «unicamente ad imprese trasformate in S.p.A. ex lege n. 142/1990 (ossia nelle quali i Comuni mantengono almeno la maggioranza del capitale)»: l’uso dell’avverbio «almeno» indica, chiaramente, come la Commissione avesse ben presente l’ipotesi che la sua decisione potesse riferirsi anche al caso in cui il capitale in mano pubblica fosse la totalità dello stesso. Né a conclusioni difformi può portare il richiamo che la ricorrente fa, in sede di memoria aggiunta: 1) al “considerando” 63 della decisione: invero questo passo ricollega l’esenzione triennale dalle imposte al fatto che il maggior utile conseguente possa essere utilizzato o per distribuire maggiori dividendi ai soci o per effettuare investimenti senza dover ricorrere all’indebitamento finanziario, insomma: «i vantaggi derivanti dall’esenzione permettono a queste imprese di operare in base a condizioni che altrimenti non sarebbero possibili»; secondo la ricorrente il fatto che nella sua compagine sociale non figurino soci privati dimostrerebbe la sua estraneità alla fattispecie individuata dal “considerando”, dimenticando che non è la tipologia dei soci, pubblici o privati che lede la concorrenza ma le “modalità” secondo cui l’imprenditore (societario) opera sul mercato; invero, il fatto che la base sociale sia totalmente pubblica non impedisce certo, come meglio si vedrà più avanti, che, in caso di aiuti indebiti, si creino effetti distorsivi sulla concorrenza; 2) alla sentenza C-295/05della Corte di Giustizia; questa pronuncia ha ritenuto legittime, in quanto non lesive della concorrenza, le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici col sistema in house a condizione che l’aggiudicataria sia società ad integrale capitale pubblico e che gli “enti locali” soci esercitino sulla sua attività un controllo analogo a quello effettuato su proprie strutture interne; invero va sottolineato come la sentenza citata, a parte la tipologia particolare, veramente

“particolare” del caso “Tragsa” (basta richiamare il punto 10,5 in cui la Corte ricorda che: «né la “Tragsa” né le sue controllate possono partecipare alle procedure di aggiudicazione di appalti disposte dalle amministrazioni pubbliche di cui sono strumenti. Tuttavia, in mancanza di offerenti, alla “Tragsa” può essere affidata l’esecuzione dell’attività oggetto della gara di pubblico appalto»; in queste condizioni non si capisce proprio come si possa ledere la concorrenza!!!), sia inconferente alla fattispecie in esame, riguardando, appunto, le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici non gli aiuti di Stato e di come l’avere una compagine totalmente pubblica possa, benissimo, nelle due categorie: appalti pubblici, aiuti di Stato, portare a conseguenze differenti; invero, anche qui va ripetuto come il fatto che la base sociale sia totalmente pubblica non impedisce certo, come meglio sì vedrà più avanti, che in caso di aiuti indebiti, si creino effetti distorsivi sulla concorrenza. In poche parole, la Commissione con la propria decisione ha inteso riferirsi alle società per azioni costituite ai sensi dell’art. 22., lett. e, cit. senza che l’essere il capitale delle stesse a prevalenza o totalitarietà pubblica facesse alcuna differenza: tale decisione appare in tal senso chiaramente interpretabile e, pertanto, legittimamente applicabile anche al caso in cui, la società sia a totale capitale pubblico; invero, come ben ricorda l’Agenzia nelle proprie controdeduzioni, l’unica distinzione che abbia rilevanza è «quella tra società per azioni a prevalente partecipazione pubblica, che in quanto tali hanno goduto dell’agevolazione concessa dall’art. 66 [...], e società per azioni a partecipazione pubblica minoritaria, che, ovviamente di tali agevolazioni non hanno potuto godere». Quanto alla seconda. Il “considerando” 64 della decisione, in punto ad «Aiuto che falsa o minaccia di falsare la concorrenza» letteralmente argomenta nel senso che «Le risorse finanziarie addizionali», conseguenti all’esenzione triennale dall’ imposta sul reddito d’impresa, «possono facilitare l’espansione di queste imprese in altri mercati producendo quindi effetti distorsivi anche in settori diversi da quelli dei servizi pubblici locali. Inoltre, possono rendere più difficile l’ingresso di imprese di altri Stati membri sui mercati italiani delle attività economiche in cui sono presenti le S.p.A. ex lege n. 142/1990»; il “considerando” 68 della decisione, in punto a «Incidenza sul commercio», letteralmente argomenta nel senso che «occorre notare che il mercato delle concessioni dei cosiddetti “servizi pubblici locali” è un mercato aperto alla concorrenza comunitaria, aperto a tutte le impre-


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se della Comunità e soggetto alle regole del Trattato (in nota 42 “Comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comunitario, G.U.C.E. 121 del 29 aprile 2000, pag. 2”)», e, ancora, il “considerando” 71, sempre sullo stesso punto, facendo riferimento alle deduzioni delle autorità italiane argomenta nel senso che esse hanno inoltre precisato che le imprese in questione forniscono servizi a livello locale. Pertanto, l’effetto sul commercio è da considerarsi insignificante. Tali argomentazioni non possono essere accolte. Secondo la costante giurisprudenza della Corte, quand’anche gli scambi tra Stati membri in un determinato settore economico e in un determinato momento fossero limitati, ciò non esclude che una determinata misura possa essere considerata aiuto di Stato, e ciò, a fortiori, qualora l’esigua entità degli scambi possa dipendere anche da una violazione del diritto comunitario. Infatti non si può escludere che l’esistenza dell’aiuto in favore di S.p.A. ex lege n. 142/1990 abbia creato un incentivo per i Comuni ad affidare direttamente i servizi a questa anziché rilasciare concessioni secondo procedure aperte e, infine, il “considerando” 74: «Infine, le S.p.A. ex lege n. 142/1990 possono decidere di operare su mercati di altri prodotti in cui non esistono scambi comunitari: infatti alcune delle stesse sono penetrate su altri mercati caratterizzati da commerci infracomunitari molto intensi. Era pertanto prevedibile che le misure in questione potessero incidere sui commerci anche in settori diversi dai cosiddetti servizi pubblici locali». La Commissione faceva riferimento, come esplicitato in nota 50, ai casi X e Y che hanno fatto il loro ingresso nel campo delle telecomunicazioni e al caso Z per quanto riguarda il settore della distribuzione idrica. La Commissione ha, poi, concluso, “considerando” 75, nel senso che anche nel caso della sussistenza dell’esclusiva sui servizi pubblici locali, che, come visto, comunque, in ipotesi, nega, e, dunque, della presunti impossibilità sotto questo profilo, per le S.p.A. ex lege n. 142/1990, di falsare o minacciare di falsare la concorrenza per inesistenza della stessa, ugualmente, si sarebbe in presenza di un aiuto di Stato ex art. 87, par. 1, lett. c e lett. d, del Trattato CEE, cioè sia di «aiuto che falsa o minaccia di falsare la concorrenza», sia di «aiuto che incide sul commercio tra stati membri»; la Commissione si è, dunque, già, chiaramente, pronunciata nel senso che vada recuperato l’aiuto nei confronti delle società che provvedono, secondo la legislazione italiana, alla raccolta dei rifiuti in regime di esclusiva. A tutto ciò consegue l’applicabilità della citata de-

cisone alle società a capitale totalmente pubblico che provvedono, secondo la legislazione italiana alla raccolta dei rifiuti in regime di esclusiva. Il problema è vedere se la suddetta decisione sia applicabile alla ricorrente. Peraltro, prima di affrontare questo problema occorre affrontare altre tre eccezioni, logicamente preliminari, avanzate dalla ricorrente. Quanto alla prima: eccepisce la ricorrente che avendo a suo tempo presentato le dichiarazioni dei redditi, anche se non vi era obbligata, il termine per la notifica di un atto finalizzato al recupero dell’aiuto sarebbe, ex art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, abbondantemente scaduto; replica l’Agenzia che tale termine non sarebbe applicabile al caso di specie, vista la «particolare natura [...] e derivazione del recupero effettuando»; le argomentazioni della ricorrente non appaiono fondate; invero va evidenziato che è stato il D.L. n. 10/2007 cit. che ha introdotto, di fatto, la soggettività Irpeg e Ilor delle società di cui all’art. 22 cit., e dunque della ricorrente, disponendo, altresì, che le imposte vengano liquidate dall’Agenzia e incassate tramite ingiunzione da notificare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del D.L. stesso (15 febbraio 2007): non appare, dunque, minimamente conferente con la fattispecie il richiamo ad una norma, il cit. art. 43, che non la disciplina e non la disciplinava in quanto non la poteva disciplinare: la ricorrente, invero, non aveva alcun titolo a presentare dichiarazioni d’imposta di sorta posto che “allora” non era soggetto d’imposta Irpeg e Ilor e, dunque, non vi era modo di far “scattare” il decorso dei termini decadenziali di cui all’art. 43 cit. Quanto alla seconda: eccepisce la ricorrente che per l’anno d’imposta 1997 ha presentato dichiarazione integrativa ex art. 9 del D.L. n. 289/2002, e che dunque l’Agenzia è impedita, dal comma 10 della norma cit., al recupero delle somme in contestazione per quell’anno; ribatte l’Agenzia che, per gli stessi argomenti introdotti al punto precedente, cioè per “l’origine” del recupero, per la sua tipologia, la normativasuddetta sia inapplicabile al caso di specie; anche qui le argomentazioni della ricorrente non risultano fondate, invero la normativa di cui al cit. art. 9 non può logicamente applicarsi ad una fattispecie in cui la soggettività alle imposte, a cui il condono richiamato si riferirebbe, è sorta cinque anni dopol’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano della norma stessa: invero l’art. 9 cit. si applica a quei soggetti d’imposta che erano tali negli anni d’imposta “coperti” dalla normativa sul condono non a quelli, si ripete, che lo sarebbero diventati in fu-


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turo, nella specie ben cinque anni dopo. Invero questo Collegio si rende perfettamente conto di come la sostanziale retroattività di una norma tributaria che il legislatore del D.L. n. 10/2007 ha introdotto possa risultare configgente con l’art. 3 della legge n. 212/2000, cd. Statuto del contribuente: per altro non essendo questo profilo stato oggetto di doglianza da parte, della ricorrente non è luogo alla sua trattazione in questa sede. Quanto alla terza: eccepisce la ricorrente che, essendo state notificate le ingiunzioni con la relata di notifica posta sul frontespizio e non in calce alle stesse, non vi sarebbe stata garanzia dell’integrità degli atti notificati e, dunque, gli stessi sarebbero da dichiarare nulli ex art. 156, comma 2, c.p.c. non avendo raggiunto lo scopo; l’Agenzia replica assumendo la legittimità delle notifiche posto che le stesse sono state eseguite da “messo speciale incaricato”; le doglianze della ricorrente sono infondate; invero non si comprende quali garanzie maggiori di integrità vi sarebbero se la relata di notifica fosse stata posta in calce all’atto; la mancanza dell’integrità avrebbe le stesse possibilità di essere o non essere individuata, si pensi, per esempio alla mancanza di un foglio intermedio; comunque dall’esame dei fascicoli di parte non appaiono discrasie espositive tra gli elaborati, da far pensare che alla ricorrente siano stati, notificati atti non integri. Si può ora passare ad esaminare il problema se la decisione sia applicabile alla ricorrente. Va infatti ricordato che la decisione sia “atto” a carattere generale; argomentano, il “considerando” 42: «l’analisi della Commissione verte quindi sui regimi di aiuti istituiti dalle misure descritte e non sulle misure individuali di aiuto concesse alle singole imprese», e ancora il “considerando” 43: «inoltre l’Italia non ha concesso vantaggi fiscali su base individuale e non ha notificato alla Commissione alcun caso individuale di aiuto fornendole tutte le informazioni necessarie per poterlo valutare. Di conseguenza la Commissione è

tenuta, alla luce della natura stessa delle misure, ad un esame generale ed astratto dei regimi sia in ordine alla loro qualificazione come aiuto di Stato ai sensi dell’art. 87, par. 1, del Trattato, sia in ordine alla questione della loro compatibilità», e infine, il “considerando” 44: «la Commissione pertanto non esamina l’applicazione delle misure nei singoli casi individuali. Inoltre si deve tenere presente che nella fattispecie l’Italia non ha chiesto alla Commissione di analizzare i singoli casi di applicazione dei regimi. La Commissione non conosce il numero esatto né l’identità dei beneficiari delle misure in esame, non dispone di tutte le informazioni pertinenti e non conosce l’ammontare dell’aiuto concesso nei singoli casi»; in altri termini non è minimamente sufficiente, affinché la decisione risulti applicabile alla ricorrente, che la stessa rientri nel novero delle «S.p.A. ex lege n. 142/1990», come in effetti rientra, ma è necessario che la fattispecie concreta che la riguarda possa essere ricompresa nella fattispecie legale disegnata dalla decisone: solo un’indagine, in fatto, di questo tipo potrebbe verificare se la non soggettività fiscale di cui sopra si sia convertita, nella fattispecie concreta in esame, in un aiuto di Stato indebito; indagine, questa, che, invero, avrebbe dovuto svolgere l’Agenzia delle Entrate in sede di motivazione dell’ingiunzione impugnata: indagine che, al contrario, non è stata svolta e della cui omissione, fondatamente, in termini di carenza di adempimento dell’onus probandi si duole la ricorrente; indagine, si badi bene, necessaria, non solo ai sensi della decisione, ma ai sensi della normativa interna laddove l’art. 1 del D.L. n. 10/2007, nel testo in vigore dopo la sua conversione in legge n. 46/2007, dispone che: «l’Agenzia delle Entrate provvede al recupero degli aiuti nella misura della loro effettiva fruizione [...]»; a ciò consegue l’illegittimità delle ingiunzioni impugnate che, conseguentemente, vanno annullate. La novità della materia del contendere è motivo di compensazione delle spese di giudizio.

II 7

Commissione tributaria provinciale di Novara, sez. I, 3 ottobre 2007, n. 80 Presidente: Pennarola - Relatore: Balestri Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Concreta applicabilità - Condizioni - Totale partecipazione pubblica - Rilevanza

(Trattato CE, art. 87, par. 1; decisione Commissione UE 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 66, comma 14, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427) La costituzione di una società per azioni quale strumento di gestione del ciclo idrico integrato, con capita-


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le totalmente pubblico, determina la nascita di una struttura di gestione “interna” del servizio pubblico nell’ambito dell’ente comunale che la detiene; pertanto, per sua natura, tale struttura è concretamente inidonea a svolgere un’attività concorrenziale con altri soggetti e ad operare sul mercato dirigendo la sua azione verso altre realtà al di fuori del territorio del Comune che la possiede pressoché interamente. Conseguentemente, la decisione della Commissione UE n. 2003/193 del 5 giugno 2002, in tema di recupero di aiuti di Stato incompatibili ex art. 87 del Trattato CE, non può trovare applicazione. Svolgimento del processo 1) la ricorrente è una S.p.A., della quale il capitale è interamente detenuto da enti pubblici e precisamente dal Comune di Novara (99,96% del capitale sociale) e dal Comune di Sozzago (0,04% del capitale sociale) ed è finalizzata alla gestione del ciclo idrico integrato nel territorio del Comune di Novara ed è stata costituita il 29 dicembre 1997. Gli enti locali erano (e sono tutt’ora) esentati dalle imposte sul reddito (ex. art. 88, D.P.R. 917/80) e tali enti non avevano alcun interesse a gestire i citati servizi pubblici locali costituendo società per azioni (come previsto dagli artt. 22 e 23 della legge 8 giugno 1990, n. 142); 2) il legislatore tributario per incentivare la privatizzazione del settore, stabilì che il regime fiscale previsto per gli enti locali (ossia il regime di esenzione) fosse applicabile anche alle società per azioni costituite dagli stessi enti locali, per lo svolgimento di servizi pubblici che in precedenza erano svolti in regime pubblicistico. L’art. 66, comma 14, del D.L. n. 331 del 30 agosto 1993, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 427 del 29 ottobre 1993, dispone infatti che «Nei confronti delle società per azioni e delle aziende speciali si applicano, fino al termine del terzo anno dell’esercizio successivo a quello rispettivamente di acquisizione della personalità giuridica o della trasformazione in aziende speciali consortili, le disposizioni tributarie applicabili all’ente territoriale di appartenenza». E la società ricorrente, nel citato periodo di imposta, ha applicato queste disposizioni agevolative. Successivamente con decisione del 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE, la Commissione europea ha dichiarato che le agevolazioni disposte dal citato articolo 66 comma 14, non erano compatibili con le norme di diritto comunitario, facendo però salvi alcuni casi particolari; 3) la ricorrente osserva che la Commissione europea con le disposizioni di carattere imperativo contenute nella citata decisione, non dispone il

recupero delle agevolazioni costituenti “aiuti di Stato” nei confronti indistintamente di tutte le società che hanno fruito della esenzione, in quanto espressamente prevede al punto 126 delle conclusioni che «una decisione relativa a regimi di aiuti non pregiudica la possibilità che aiuti individuali siano considerati, interamente o parzialmente compatibili con il mercato comune per ragioni attinenti al caso specifico»; 4) la società ricorrente, non avendo mai operato in regime di concorrenza è a suo parere inquadrabile in un “caso specifico” ed è pertanto estranea alla fattispecie di cui alla decisione 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; 5) essa ricorrente ha “definito” il proprio rapporto fiscale relativamente ai periodi di imposta interessati aderendo alle sanatorie di cui agli articoli 8 e 9 (cosiddette rispettivamente “Integrazione degli imponibili per gli anni pregressi” e “Definizione automatica per gli anni pregressi”) della legge 27 dicembre 2002, n. 289 e pertanto il periodo di imposta oggetto degli atti qui impugnati risulta anche essere sanato in via definitiva essendo preclusa all’amministrazione finanziaria l’imposizione di qualsiasi ulteriore obbligazione; 6) tuttavia, l’Agenzia delle Entrate, con provvedimento 1 giugno 2005, vista la legge comunitaria 2004, art. 27, con provvedimento 1 giugno 2005, stabiliva le modalità per il recupero delle agevolazioni fiscali fruite dalle società per azioni costituite ai sensi della L. 142 del 1990 e invitava gli enti locali a comunicare alle direzioni regionali i nominativi e i dati delle società beneficiarie delle agevolazioni; 7) con sentenza dell’1 giugno 2006 la Corte di Giustizia CE, accertato che non erano stati adottati i provvedimenti necessari per il recupero degli aiuti di Stato, contestava allo Stato italiano la violazione degli obblighi derivanti dal Trattato CE, conseguentemente a ciò con decreto del Ministero dell’Interno 21 luglio 2006 venivano determinati i criteri e le modalità procedimentali per la corretta valutazione dei casi individuali di non applicazione totale o parziale del recupero degli aiuti di Stato, disposto con decisione della Comunità europea n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002, decreto contenente, altresì, previsioni di deroghe al divieto previsto dall’art. 87, paragrafo 1, del Trattato CE. Pertanto, per tutti i motivi sopra esposti, la ricorrente chiedeva che in accoglimento dei ricorsi venissero annullate le ingiunzioni di pagamento promosse dall’Agenzia delle Entrate di Novara. Costituitosi il contraddittorio, l’Agenzia delle Entrate deduceva l’infondatezza dei ricorsi atteso


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che era pacifico che la ricorrente avesse fruito degli aiuti di Stato consistiti nella esenzione dell’Ilor e dell’Irpeg per gli anni 1998 e 1999, benefici non spettantile attesa la natura giuridica di società di capitali (S.p.A.), svolgente attività commerciale. Aiuti di Stato sotto forma di esenzioni fiscali che la Corte di Giustizia CE ha dichiarato illegittimi e quindi da rimborsarsi da parte del soggetto che li ha goduti. Con la condanna della ricorrente alle spese di giudizio. Alla pubblica udienza del 21 settembre 2007 le parti si riportavano alle rispettive conclusioni e il Collegio, disposta la riunione dei ricorsi, tratteneva la causa in decisione. Motivi della decisione Ai fini del decidere è importante accertare la natura giuridica del rapporto che lega la ricorrente S. S.p.A. con i Comuni di Novara e di Sozzago. La ricorrente, costituita il 29 dicembre 1997, è una S.p.A. della quale il capitale sociale è interamente detenuto da enti pubblici e precisamente dal Comune di Novara (99,96%) e dal Comune di Sozzago (0,04%); ha come scopo la gestione del ciclo idrico integrato nel territorio del Comune di Novara. L’art. 4 dello statuto recita: «La società ha per oggetto, quale strumento del Comune di Novara previsto dall’art. 22, comma 3, lettera e, della legge 8 giugno 1990, n. 142 e successive modificazioni, la gestione dei servizi pubblici di acquedotto, fognatura e depurazione delle acque riflue. La società potrà altresì svolgere attività di ricerca, studio, consulenza, progettazione, realizzazione e gestione di impianti di captazione, di distribuzione e raccolta delle acque e delle loro depurazioni, nonché ogni altra attività inerente il ciclo integrato delle acque». La S. è stata costituita in società per azioni in adesione a quanto previsto alla lettera e dell’art. 22, legge 142/90, ma questo solo come strumento di pura gestione del Comune di Novara, senza che la società ricorrente abbia potere di esercizio di una qualsivoglia azione di concorrenza verso altre società operanti nel ramo. In sostanza cioè, non si è verificata alcuna variazione rispetto ad una gestione diretta del Comune, essendo solo cambiato lo strumento con cui il Comune stesso ha deciso la gestione delle acque sul suo territorio. Se non si fosse attuata questa modifica, di fatto solo formale, prevista del resto da una specifica legge dello Stato (legge 142/90) il Comune avrebbe potuto usufruire dell’esenzione dal pagamento delle imposte Irpeg e Ilor per gli anni 1998-1999 e tutto sarebbe stato regolare e perfettamente

congruo con la norma. Come è noto, gli enti locali sono esentati dalle imposte sul reddito (ex art. 88, D.P.R. 917/86) ed essi non hanno alcun interesse a gestire i citati servizi pubblici locali costituendo società per azioni (come previsto dagli artt. 22 e 23 della legge 8 giugno 1990, n. 142). Nel sistema delineato dall’art. 22, della citata legge n. 142/1990 la costituzione di una società per azioni a capitale pubblico maggioritario è diretta ad associare soggetti diversi dall’ente locale nella gestione di un servizio pubblico, da realizzarsi con un modello che si avvicina, attraverso il controllo del pacchetto azionario, alla gestione diretta, ragion per cui nel sistema della L. 8 giugno 1990, n. 142, l’affidamento del servizio pubblico a costituenda società per azioni a capitale pubblico maggioritario costituisce una conseguenza diretta della deliberazione di avvalersi del modulo societario. Significativa è poi la constatazione che la ricorrente, ha un ambito di attività limitata al territorio del Comune di Novara e che lo statuto non consente l’apertura a partecipazioni da parte di terzi. Pertanto, il possesso dell’intero capitale sociale da parte dei Comuni di Novara e di Sozzago, la presenza sia di limitazione di carattere territoriale della ricorrente, sia della tipologia delle attività statutarie, consentono di affermare che essa può considerarsi una longa manus dei due Comuni, e quindi non un vero e proprio operatore con vacazione puramente commerciale. Per altro, la natura della S. di soggetto strumentale dei due Comuni porta ad affermare che nella specie si realizza la fattispecie del cosiddetto “controllo analogo” enunciato dalla giurisprudenza comunitaria, controllo che è connaturato alla sussistenza nella specie della prevalenza del capitale pubblico e della conseguente prevalenza del voto dei rappresentanti pubblici, in tutti gli organi della società volto a garantire ex se, nella specie, quel “controllo analogo” ai servizi altrimenti esercitabili in via diretta dalle due amministrazioni pubbliche che partecipano all’impresa. In sostanza può affermarsi che la costituzione della S. in S.p.A. con capitale totalmente pubblico ha determinato la nascita di una struttura di gestione “interna” di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene. Ragion per cui è fuori luogo ipotizzare che la ricorrente svolga un’attività concorrenziale con altri soggetti, perché se è vero che, in genere, gli aiuti concessi tramite risorse statali sotto qualsiasi forma, favorendo talune imprese o talune produzioni falsano o minacciano di falsare la concorrenza, nella specie la ricorrente svolge un servizio delegatole dai due Comuni, e il suo svolgimento avviene in nome pro-


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guenza ha pieno diritto ad usufruire dei vantaggi della esenzione fiscale per i tre anni che la legge aveva previsto a favore dei Comuni. In conclusione va affermato che la ricorrente non ha in concreto operato al di fuori del territorio dei Comuni soci, ha agito come longa manus dei due Comuni e l’esenzione fiscale di cui ha beneficiato non ha potuto rafforzare la sua posizione “concorrenziale” né può avere determinato una distorsione della concorrenza ai sensi dell’art. 87.1, par. 1, CE. L’esenzione dunque, non costituisce “aiuto” ai sensi della citata disposizione del Trattato, tanto più che la citata decisione CE (ai par. 85 e 126) fa «salva la possibilità che aiuti individuali concessi in base ai regimi di cui trattasi siano considerati aiuti esistenti in base alla particolare situazione del beneficiario». In virtù delle considerazioni che precedono, il Collegio decide che i ricorsi debbano essere accolti. Per quanto riguarda le spese di giudizio, il Collegio ritiene giusta una compensazione tra le parti considerando la novità e la particolarità della questione.

prio ma per conto dei Comuni detentori del capitale sociale. Pertanto, l’aiuto di Stato di cui ha beneficiato la ricorrente è stato indirettamente goduto dai due Comuni, posto che le risultanze di bilancio della società si ripercuotono direttamente nel bilancio dei soggetti pubblici. Conforta maggiormente quanto fin qui argomentato che, secondo il giudizio di questo Collegio, la decisione CEE n. 2203/193 del 5 giugno 2002 vuole nel suo spirito favorire il regime di concorrenza tra le aziende che potrebbe essere falsato da aiuti di Stato, ma non è da applicarsi al caso in questione in quanto estraneo alla realtà che si vuole sanzionare. I rapporti tra S. e il Comune di Novara sono regolati mediante deliberazioni del Comune con cui quest’ultimo ha espresso la volontà di utilizzare la società quale strumento di gestione del ciclo idrico integrato. Trattasi insomma di S.p.A. che non può operare sul mercato dirigendo la sua azione verso altre realtà al di fuori del Comune di Novara, non può agire in concorrenza e resta solo ed esclusivamente uno strumento operativo che di fatto la vede in simbiosi con l’ente pubblico che la possiede pressoché interamente e di conse-

III 8

Commissione tributaria provinciale di Lucca, sez. I, 28 gennaio 2008, n. 172 Presidente: Lazzeretti - Relatore: Chimenti Aiuti di Stato - Agevolazioni fiscali - Esenzione Irpeg e Ilor - Aziende municipalizzate e speciali trasformate in S.p.A. - Art. 22, L. 8 giugno 1990, n. 142 - Ordinamento comunitario - Incompatibilità - Sussistenza - Recupero degli aiuti di Stato - Obbligatorietà - Decisione Commissione UE n. 2003/193/CE - Concreta applicabilità - Necessità - Caso specifico di non applicazione - Sussistenza (Trattato CE, art. 87, par. 1; decisione Commissione UE 5 giugno 2002, n. 2003/193/CE; L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 22; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 66, comma 14, conv. con L. 29 ottobre 1993, n. 427) La decisione della Commissione europea n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002, che ha dichiarato incompatibili con le norme del diritto comunitario le agevolazioni fiscali di cui hanno goduto le aziende municipalizzate e le aziende speciali trasformate in S.p.A. – qualificando le stesse agevolazioni come aiuti di Stato idonei ad alterare la concorrenza nel mercato comune – è, per sua esplicita definizione, “astratta e generale”, facendo salvi eventuali casi specifici interamente o

parzialmente compatibili con la realizzazione mercato comune. Conseguentemente, il concreto riscontro di elementi (quali le piccole dimensioni della società, la sua “proprietà pubblica”, nonché la sua operatività in ambito esclusivamente municipale e in regime di “privativa legale”) che consentono di considerare l’aiuto compatibile, comporta l’inapplicabilità della decisione. Svolgimento del processo La [...] ha proposto quattro ricorsi contro l’Agenzia delle Entrate di [...] avverso altrettante comunicazioni-ingiunzioni, notificate il 4 maggio 2007, per gli anni [...]. Il recupero di tali somme, disposto ai sensi del D.L. 10/2007, è conseguenza della decisione n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002 della Commissione europea, che ha dichiarato non compatibili con le norme del diritto comunitario, le agevolazioni fiscali di cui hanno goduto le aziende municipalizzate e le aziende speciali trasformate in S.p.A., qualificando le stesse agevolazioni aiuti di Stato idonei ad alterare la concorrenza nel mercato comune. Il ricorrente chiede: - in via principale, annullare le comunicazioni-in-


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giunzioni di pagamento impugnate, con conseguente declaratoria di insussistenza di qualsiasi obbligazione per la causale cui siriferiscono le medesime ingiunzioni, rientrando la società ricorrente tra le fattispecie escluse dal recupero ai sensi della predetta decisione; - in via subordinata, quantificare la misura della effettiva fruizione degli aiuti ottenuti e limitare il recupero alla somma che sarà così accertata, riducendo comunque gli interessi alla loro giusta misura; - con condanna dell’Ufficio al pagamento delle spese di giudizio anche in considerazione del fatto che il ricorrente ha presentato istanza di annullamento in autotutela cui l’Ufficio non ha ritenuto di dar seguito in alcun modo. Osserva preliminarmente la [...] che contro la decisione della Commissione europea sono stati proposti ricorsi per annullamento da parte dello Stato italiano; detti ricorsi sono pendenti. Inoltre la [...] si dichiara del tutto estranea alla fattispecie di recupero dell’aiuto di Stato, non avendo mai operato in regime di concorrenza e come tale avendo le caratteristiche di “caso specifico” ai sensi del punto 126 della predetta decisione. I motivi di impugnazione delle comunicazioni-ingiunzioni sono i seguenti: 1) Violazione dell’art. 1, comma 2, del D.L. 10/2007 in quanto tale norma conferisce all’Agenzia delle Entrate unicamente il diritto a liquidare le imposte ed i relativi interessi sulla base delle dichiarazioni presentate, senza possibilità alcuna di accertamento o di rettifica. La società aveva tempestivamente presentato le dichiarazioni fiscali con un reddito imponibile pari a zero, a seguito della legittima variazione in diminuzione apportata per non aver svolto “attività concorrenziali”, come da attestazione rilasciata dal Comune di [...]. 2) Violazione dell’art. 3, comma 4, della legge 241/1990 e dell’art. 7, comma 1, della legge 212/2000 per carenza di motivazione per essere i provvedimenti motivati per relationem sulla decisione della Commissione europea mai notificata al contribuente e non allegata agli atti impugnati. 3) Violazione dell’art. 3, comma 3, della legge 241/1990 per avere emesso gli atti impugnati con difetto di istruttoria e senza aver verificato, in contraddittorio con il contribuente, se sussistevano i presupposti per applicare la decisione della Commissione europea. 4) Violazione e falsa applicazione della predetta decisione della Commissione europea, la quale non esclude la possibilità che le concesse agevolazioni fiscali siano considerate aiuti individuali e

non aiuti di Stato; la qual cosa avrebbe dovuto comportare un’analisi di ogni singola fattispecie. La [...] non agiva in regime di concorrenza, svolgendo le sue attività dì servizio pubblico (distribuzione e vendita di gas) nel proprio territorio di competenza, a favore degli enti locali concedenti, come tale attività non sottoposta alla normativa antitrust, di cui alla legge 287/1990. Inoltre non si è trattato di un beneficio istituito appositamente e quindi nuovo, ma si è trattato dell’estensione temporanea alla società di un beneficio già previsto per i Comuni e per le loro aziende speciali o municipalizzate. 5) Illegittimità delle ingiunzioni in quanto emesse senza una preventiva verifica in ordine alla effettiva fruizione delle agevolazioni fiscali. 6) L’amministrazione finanziaria ha agito oltre i termini di decadenza in relazione ai termini degli accertamenti, all’iscrizione a ruolo e alla notifica della cartella di pagamento. Il credito per imposta e per interessi era prescritto. 7) Gli interessi sono stati quantificati in maniera irragionevole ed elevatissima, superiore a quella vigente in Italia e nella Comunità europea. L’Agenzia delle Entrate in data 19 luglio 2007 ha depositato ampie e articolate controdeduzioni e chiede che i ricorsi siano rigettati. In particolare precisa l’Agenzia che la procedura di recupero ha natura speciale e non attiene alla materia tributaria, essendo finalizzata al recupero di un aiuto di Stato indebitamente fruito. Si è trattato di un semplice procedimento di liquidazione sulla base dei dati forniti dal contribuente; non vi è stata attività accertativa o di rettifica. Non sono applicabili le norme quali l’art. 43 del D.P.R. 600/1973. L’Agenzia richiama il contenuto della decisione 2003/193/CE per rilevare che le eccezioni del ricorrente di cui al punto 4 del ricorso sono infondate. Per quanto attiene al calcolo degli interessi, l’Agenzia esplicita il metodo di calcolo seguito e rileva che lo stesso è specificamente previsto dal D.L. 10/2007. Il ricorrente in data 5 ottobre 2007 ha depositato memoria illustrativa, con la quale riafferma le proprie eccezioni e richieste, producendo altresì sentenza adottata dalla Comm. trib. prov. Reggio Emilia e un articolo di dottrina. Motivi della decisione L’orientamento del legislatore nazionale in tema di servizi pubblici locali dagli anni ’90 in poi è stato teso a determinare migliori condizioni di effi-


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cacia, efficienza ed economicità nella gestione, in specie per quanto attiene ai servizi di natura economica ed imprenditoriale, quali ad esempio la distribuzione e la vendita del gas, i servizi idrici e di depurazione delle acque, la gestione dei rifiuti urbani, le farmacie comunali, i trasporti pubblici locali, ecc. L’esperienza delle aziende municipalizzate, la cui disciplina fondamentale risaliva ai primi anni del precedente secolo, è stata superata a partire dalla legge 142/1990 (ordinamento delle autonomie locali), che non ha più previsto tale forma dl gestione dei servizi pubblici locali, individuando invece nelle aziende speciali e nelle S.p.A. i soggetti per esercire i medesimi con valenza economicoimprenditoriale. Successivamente il legislatore ha ritenuto che la S.p.A., a totale o prevalente partecipazione pubblica, divenisse la unica forma di gestione dei servizi pubblici locali di natura commerciale, al fine di corrispondere all’esigenza, fortemente sentita, di favorire l’aggregazione della miriade di gestioni comunali esistenti e di sviluppare la concorrenza nel settore, anche attraverso provvedimenti di liberalizzazione del mercato e di parziale privatizzazione. In questo contesto negli anni ’90 si evidenziò la opportunità di incentivare la trasformazione delle aziende municipalizzate e speciali in S.p.A. e ciò trovò effettività in provvedimenti di natura fiscale quali la non tassazione dei conferimenti comunali nelle S.p.A. locali di nuova costituzione e, come nella fattispecie, la non imponibilità a fini Irpeg dei redditi prodotti da tali società locali per un periodo massimo di tre anni (comunque non oltre il 31 dicembre 1999) dalla trasformazione dell’azienda speciale in S.p.A. (la cd. moratoria). In sostanza con quest’ultima misura il regime di esenzione previsto per i Comuni (che è tuttora vigente), per le aziende municipalizzate e per le aziende speciali costituite ex art. 22, L. 142/1990, veniva esteso temporaneamente alle S.p.A. locali allo scopo di incentivarne la costituzione e il difficile avvio, in un mercato tendenzialmente orientato ad aprirsi alla concorrenza nazionale e comunitaria anche in questi settori produttivi per tanti decenni a conduzione direttamente municipale (si tenga presente che le aziende municipalizzate non avevano personalità giuridica ed erano meri organismi strumentali dei comuni, essenzialmente privi di autonomia decisionale e patrimoniale). La Commissione europea su sollecitazione di terzi interessati, dopo aver chiesto allo Stato italiano di avere conoscenza della mappa dei beneficiari

della incentivazione fiscale di cui trattasi, in mancanza di risposte puntuali da parte delle autorità italiane, in data 5 giugno 2002 adottava la decisione 2003/193/CE. La decisione reca: - che l’esenzione triennale sul reddito a favore delle S.p.A. a partecipazione pubblica maggioritaria, costituite ai sensi della L. 142/1990 costituisce aiuto di Stato, non compatibile con il mercato comune; - che l’Italia deve prendere, senza indugio, tutti i provvedimenti necessari per recuperare presso i beneficiari l’aiuto concesso in virtù dell’art. 3, comma 70, della L. 549/1995 e dell’art. 66, comma 14, del D.L. 331/1993, convertito con la L. 427/1993. La Commissione europea, nella parte narrativa della decisione, tra l’altro precisa che: - l’analisi della Commissione verte sui regimi di aiuto istituiti dalle misure descritte e non sulle misure individuali di aiuto concesse alle singole imprese (punto 42); - non avendo l’Italia concesso vantaggi fiscali su base individuale, né avendo dato informazioni in tal senso, la Commissione è tenuta alla luce della natura stessa delle misure, ad un esame generale ed astratto dei regimi in ordine alla loro qualificazione come aiuto di Stato (punto 43); - la Commissione pertanto non esamina l’applicazione delle misure sui singoli casi individuali (punto 44); - non si può escludere che alcuni casi individuali rientrino nelle soglie de minimis. In questi casi specifici le misure in questione non ricadono nella. presente decisione (punto 72); - le misure di cui trattasi non possono essere considerate come aiuti esistenti, fatta salva la possibilità che aiuti individuali concessi in base ai regimi di cui trattasi siano considerati aiuti esistenti in base alla particolare situazione del beneficiario (punto 85); - le misure in questione non si limitano alle Pmi e pertanto costituiscono aiuto di Stato; - affinché sia applicabile la deroga di cui all’art. 86, paragrafo 2, la missione di servizio pubblico (delle S.p.A. locali) deve essere chiaramente definita ed essere affidata esplicitamente con atto pubblico (punto 110); - la Commissione fa presente che una decisione relativa a regimi di aiuto non pregiudica la possibilità che aiuti individuali siano considerati, interamente o parzialmente, compatibili con il mercato comune per ragioni attinenti al caso specifico (punto 126). A seguito della decisione, il legislatore nazionale


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con la L. 62/2005 all’art. 27, comma 4, approvava la procedura per il recupero degli aiuti di Stato, stabilendo altresì che detto «recupero non si applica nelle ipotesi in cui i singoli casi rientrano nella categoria de minimis e in quelle nelle quali, per ragioni attinenti al caso specifico, le esenzioni non rientrano nell’ambito di applicazione della decisione della Commissione» europea. Al comma 5 dell’art. 27 si chiariva che «la motivazione (dell’atto di recupero dell’aiuto di Stato) deve indicare le ragioni per le quali la decisione è applicabile nei confronti del destinatario». Al comma 6 del medesimo articolo si demandava ad un successivo decreto di «stabilire le modalità applicative delle presenti disposizioni» e «le linee guida per una corretta valutazione dei casi di non applicazione delle norme di cui al comma 4». Con la L. 266/2005 veniva modificato il comma 6 dell’art. 27 della L. 62/2005 e venivano ulteriormente precisati i casi di non applicazione del recupero, fermo restando il rinvio della specificazione dei casi di non applicazione ad un successivo decreto (che non è stato mai emanato). Infine, a seguito dell’avvio di ulteriori e più gravi iniziative sanzionatorie da parte della Comunità europea, in data 8 febbraio 2007 è stato emanato il D.L. 10/2007 poi convertito con la L. 46/2007. Con tale D.L., l’Agenzia delle Entrate è stata incaricata di provvedere al recupero degli aiuti nella misura della loro effettiva fruizione, mediante la notifica entro 90 giorni di apposita comunicazione contenente l’ingiunzione di pagamento delle somme dovute, a seguito di liquidazione delle imposte con i relativi interessi per ogni annualità oggetto del recupero. Con il D.L. 10/2007 sono stati abrogati i commi dal 2 al 6 dell’art. 27 della L. 62/2005. Sulla base del D.L. 10/2007 convertito con la L. 46/2007 sono state emanate le comunicazioni-ingiunzioni impugnate dal ricorrente. In tali atti, premessi i richiami alla nota decisione della Commissione europea e al D.L. 10/2007; premessi altresì i riferimenti alla trasformazione della [...] in S.p.A., all’acquisizione della personalità giuridica e alla fruizione del regime di moratoria per gli anni 1995, 1996, 1997 e 1998; viste le dichiarazioni dei redditi presentate e gli artt. del D.P.R. 917/1986 all’epoca vigenti; si afferma che in base a tali presupposti di fatto e ragioni giuridiche, è applicabile nei confronti della [...] la decisione 2003/193/CE adottata dalla Commissione europea il 5 giugno 2002. Conseguentemente l’Ufficio procede al recupero dell’aiuto di Stato in seguito alla liquidazione dell’imposta, come da prospetto, con motivazione

delle variazioni apportate al medesimo Ufficio e separato conteggio degli interessi. Quanto sopra premesso, si osserva: A) L’Agenzia delle Entrate nelle sue controdeduzioni [...] mette in rilievo la relazione tra le norme interne e quelle comunitarie. Al riguardo pare opportuno accennare sinteticamente ai principali indirizzi giurisprudenziali in tema di efficacia delle decisioni comunitarie volte al recupero degli aiuti di Stato indebitamente fruiti. La Corte di Giustizia della Comunità europea si è da tempo e più volte pronunciata nel sottolineare l’obbligo per lo Stato membro interessato di eseguire le decisioni della Commissione europea, adottando tutti i provvedimenti ordinamentali necessari. La stessa Corte, interpretando l’art. 249 del Trattato UE, ha inoltre affermato il principio di preminenza del diritto comunitario, nel senso che la decisione indirizzata ad uno Stato membro si deve ritenere obbligatoria per tutti gli organi di questo, compresi gli organi giurisdizionali. In sostanza sostiene la Corte di Giustizia il diritto comunitario va considerato alla stregua di diritto interno, cioè immediatamente costitutivo di situazioni giuridiche soggettive tutelabili davanti ai giudici nazionali. La Corte costituzionale, con varie pronunce adottate dal 1973 in poi, ha riconosciuto il primato dell’ordinamento comunitario, che trae fondamento dalla limitazione e alla sovranità nazionale conseguente alla sottoscrizione da parte della Repubblica italiana dei Trattati comunitari stipulati ex art. 11 della Costituzione. La Corte costituzionale sostiene che il primato dell’ordinamento comunitario, cioè la sua prevalenza sul diritto interno, e l’efficacia diretta delle decisioni degli organi comunitari (nella misura in cui sussista il vincolo comunitario nella specifica materia), trovano limiti insuperabili nei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano e nei diritti inalienabili della persona umana. Secondo la Corte costituzionale in ipotesi di contrasto tra diritto interno e comunitario, il giudice italiano è legittimato a verificare l’esistenza di tale dicotomia, secondo i principi sopra delineati, e a procedere alla “non applicazione” del diritto interno incompatibile con la normativa comunitaria. La Corte di Cassazione, in ultimo e diffusamente con la sentenza 17654 del 2002, ha tra l’altro confermato il principio secondo cui compete al giudice nazionale la verifica di compatibilità del diritto interno con le norme comunitarie vincolanti e la relativa applicazione al caso concreto, anche d’ufficio.


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B) La decisione 2003/193/CE sviluppa un’analisi che «verte sui regimi di aiuto istituiti dalle misure descritte (gli interventi legislativi adottati in materia dallo Stato italiano) e non sulle misure individuali di aiuto concesse alle singole imprese» (punto 42). «La Commissione è tenuta alla luce della natura stessa delle misure, ad un esame generale e astratto dei regimi sia in ordine alla loro qualificazione come aiuto di Stato sia in ordine alla questione della loro compatibilità» (punto 43). «La Commissione pertanto non esamina l’applicazione delle misure nei singoli casi individuali. Inoltre si deve tenere presente che nella fattispecie l’Italia non ha chiesto alla Commissione di analizzare i singoli casi di applicazione dei regimi. La Commissione non conosce il numero esatto né l’identità dei beneficiari delle misure in esame, non dispone di tutte le informazioni pertinenti e non conosce l’ammontare dell’aiuto concesso nei singoli casi» (punto 44). Si rileva pertanto che la decisione 2003/193/CE, a differenza di altri interventi della Commissione europea in materia di aiuti di Stato, prescinde dall’esame di casi specifici, ma è stata adottata in relazione alle disposizioni di legge approvate dallo Stato italiano. La decisione ha caratteristiche di astrattezza e generalità, tant’è che si fa espressamente salva la possibilità che aiuti individuali siano considerati interamente o parzialmente compatibili con il mercato comune. C) La parte dispositiva della decisione si articola sostanzialmente in due punti. Il primo attiene all’esenzione triennale dall’imposta sul reddito, che secondo la Commissione europea costituisce aiuto di Stato ai sensi dell’art. 89, paragrafo 1, del Trattato, non compatibile con il mercato comune. Il secondo contiene la prescrizione data all’Italia di prendere tutti i provvedimenti necessari per recuperare presso i beneficiari l’aiuto concesso. Il recupero deve essere eseguito senza indugio e secondo le procedure del diritto nazionale, sempreché queste consentano l’esecuzione immediata e effettiva della decisione. Sul primo punto si osserva che la dichiarazione di incompatibilità con il mercato comune è precetto chiaro e preciso, fatta salva la competenza delle autorità italiane relativa alla individuazione dei soggetti che hanno usufruito dell’aiuto incompatibile e della quantificazione dell’ammontare, compresi gli interessi. Questa potestà appare più estesa nell’applicazione della decisione 2003/193/CE, dato che la stessa per sua esplicita definizione è “astratta e genera-

le” e fa salvi eventuali casi specifici interamente o parzialmente compatibili con il mercato comune. La [...] ha evidenziato nel ricorso vari elementi a sostegno della propria tesi di esclusione dal recupero dell’aiuto di Stato. Nel merito è accertato: - che la [...] operava all’epoca in ambito municipale e, anche in relazione alle sue piccole dimensioni, non poteva di certo costituire e non ha di fatto costituito fattore di turbativa del mercato comune, né di quello interno, tant’è che l’attività della [...] non era sottoposta alla normativa antitrust di cui alla L. 287/1990. - Che la società ricorrente operava all’epoca in regime di privativa legale; in un mercato quindi non aperto alla concorrenza, dato che la liberalizzazione del settore della distribuzione e della vendita del gas è avvenuta solo successivamente. - Che, essendo in regime di privativa legale e comunque anche indipendentemente da ciò, l’affidamento del servizio ha avuto luogo mediante atto emanato dalla pubblica autorità, sotto forma di provvedimento amministrativo unilaterale di concessione di pubblico servizio. Ciò nel rispetto della normativa vigente, che peraltro tuttora prevede, anche a livello comunitario, la possibilità di affidamento diretto in presenza di gestioni cosiddette in house. - Che, essendo la società di proprietà pubblica, gli utili di esercizio, comprese pertanto le somme rivenienti dall’esenzione delle imposte sul reddito oggetto della decisione, venivano versati nelle casse comunali; tali somme venivano utilizzate per i fini istituzionali della pubblica autorità, rimanendo pertanto nel circuito della finanza pubblica. Gli elementi sopra indicati sono tali da far ritenere che la fattispecie [...] possa emotivamente essere dichiarata quale caso specifico, non oggetto di esecuzione del disposto della decisione della Commissione europea 2003/193/CE e conseguentemente del D.L. 10/2007, proprio in forza del contenuto della medesima decisione che è “astratta e generale” e non esclude la possibilità che vi possano essere aiuti individuali compatibili con il mercato comune. Sul secondo punto del dispositivo della decisione (ordine di recupero) si osserva che tale prescrizione è precetto cogente per lo Stato italiano, ma demanda allo stesso di prendere tutti i provvedimenti necessari per recuperare immediatamente ed effettivamente l’aiuto. L’Italia ha approvato provvedimenti di legge definitivi per l’esecuzione della decisione, adottata nel 2002, a distanza di cinque anni, con il D.L. 10/2007 convertito con la L. 46/2007.


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L’art. 1 del D.L. 10/2007 affida all’Agenzia delle Entrate non il recupero delle imposte, bensì dell’aiuto di Stato, che è sì di importo pari alle imposte non corrisposte, ma di evidente diversa natura. Lo stesso art. 1 prevede che: - non si faccia luogo all’applicazione di sanzioni di natura tributaria; - i termini per la notifica della comunicazione-ingiunzione (non avviso di accertamento o di liquidazione) e per il pagamento, siano ristrettissimi e assolutamente diversi da quelli inerenti le ordinarie procedure tributarie, e nello specifico di quelle inerenti il recupero di agevolazioni fiscali indebitamente fruite. - La possibilità di sospensione della esecuzione della comunicazione-ingiunzione, ex. art. 47, D.Lgs. 546/1992, sia limitata a sole tre fattispecie, contrariamente a quanto previsto per tutte le controversie tributarie. La scelta del legislatore italiano di incaricare l’Agenzia delle Entrate del recupero dell’aiuto di Stato, appare dettata esclusivamente da ragioni di mera opportunità, non connesse alla natura delle somme da recuperare, tant’è che precedenti disposizioni di legge incaricavano del recupero il Ministero dell’Interno. Da tale scelta di semplice opportunità e attesa la natura delle somme da recuperare (aiuti di Stato e non imposte), non consegue la automatica applicazione di tutte le disposizioni che regolano il prelievo fiscale (nello specifico le imposte dirette), bensì solo di quelle che sono espressamente previste dal D.L. 10/2007. Si tratta quindi di una procedura ad hoc, che trova fondamento e disciplina unicamente nella legge che la prevede. Le eccezioni del ricorrente in ordine alla decadenza del potere impositivo, essendo lo stesso stato esercitato oltre i limiti previsti dal D.P.R. 600/1973, non sono pertanto condivisibili; così come non lo è, per i medesimi motivi, l’eccezione che fa riferi-

mento all’ottenuto “condono tombale”. Appare invece fondata la tesi dell’Agenzia delle Entrate secondo la quale il recupero dell’aiuto di Stato non costituisce una “normale” procedura di recupero di agevolazioni tributarie non dovute, ma un procedimento “speciale”, finalizzato all’esecuzione della decisione della Commissione europea. Pur non essendo applicabili i termini per l’accertamento previsti dal D.P.R. 600/1973, si osserva che non può ammettersi che il procedimento di recupero degli aiuti di Stato possa essere avviato indefinitamente nel tempo, senza che vi sia mai alcuna certezza per il contribuente, che sarebbe così esposto permanentemente all’azione di recupero promossa dagli organi amministrativi delle pubbliche autorità. In assenza di specifici termini previsti dal D.L. 10/2007, soccorrono gli ordinari termini prescrizionali fissati sia dalla legge italiana che da talune norme comunitarie in 10 anni. Per il periodo antecedente i 10 anni della notifica delle comunicazioni-ingiunzioni (nel caso in esame dal 1995 al 3 maggio 1997) è pertanto intervenuta la decadenza del potere di recupero da parte dell’Agenzia delle Entrate. Conclusivamente ne consegue che i ricorsi debbono essere accolti perché la [...], sulla scorta di quanto agli atti, e per i motivi già esposti, integra la fattispecie di “caso individuale” che per effetto del disposto della decisione 2003/193/CE non è oggetto del recupero dell’aiuto di Stato. Si osserva altresì che, per il periodo che va dal 1995 al 3 maggio 1997, si è comunque verificata la decadenza del potere di recupero dell’aiuto di Stato da parte delle autorità italiane, per un importo pari alle imposte sul reddito societario conseguito in tale periodo. Le spese di giudizio sono da compensare in considerazione della complessità della materia e delle oggettive difficoltà interpretative affrontate dalle parti.

Nota di Mario Cermignani

to deriva la possibilità, prevista dalla stessa decisione, che aiuti individuali siano considerati, interamente o parzialmente, compatibili con il mercato comune per ragioni attinenti al caso concreto, con conseguente specifica esclusione dall’obbligo e dalla procedura interna di restituzione.

La decisione n. 2003/193/CE, a differenza di altri interventi della Commissione europea in materia di aiuti di Stato, prescinde dall’esame di casi specifici, limitandosi ad una disamina generale della normativa agevolativa emanata dal legislatore italiano in materia di esenzioni fiscali in favore delle società per azioni a prevalente capitale pubblico ex art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142. Da tale carattere generale e astrat-

I casi affrontati dalle Commissioni tributarie La complessa tematica del recupero delle agevolazioni fiscali dichiarate incompatibili con il Trat-


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tato CE e fruite dalle società per azioni ex-municipalizzate esercenti servizi pubblici locali, costituisce l’oggetto delle decisioni in rassegna. Il quadro di riferimento si rinviene nella decisione n. 2003/193/CE del 5 giugno 2002, con la quale la Commissione europea ha stabilito che «l’esenzione triennale dall’imposta sul reddito disposta dall’art. 3, comma 70, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 e dall’art. 66, comma 14, del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, a favore di società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria istituite ai sensi della legge 8 giugno 1990, n. 142», costituisce aiuto di Stato incompatibile ai sensi dell’art. 87, par. 1, del Trattato. Deve rilevarsi che la predetta “moratoria fiscale” è stata introdotta dall’art. 66 del D.L. n. 331/1993, convertito dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, ai sensi del quale nei confronti delle società per azioni e delle aziende speciali istituite per l’esercizio dei servizi pubblici locali, valgono, fino al termine del terzo anno successivo a quello di acquisizione della personalità giuridica, le disposizioni tributarie applicabili all’ente territoriale di appartenenza, ovvero al Comune, escluso da Irpeg, ai sensi dell’art. 88, D.P.R. n. 917/86 (ora art. 74). Conseguentemente, anche le società per azioni costituite dai Comuni a norma dell’art. 22 della legge. n. 142/1990, risultavano non assoggettate ad imposta per il periodo previsto dalla legge. La Commissione europea, pur osservando che le misure fiscali in esame erano finalizzate ad agevolare le nuove società di gestione dei servizi pubblici locali nel passaggio da un mercato chiuso ad un mercato concorrenziale e liberalizzato, ha tuttavia stabilito che esse rappresentano aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune. La decisione dell’istituzione comunitaria riguarda esclusivamente le società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, dal momento che esse, a differenza delle aziende speciali, non si configurano come enti strumentali delle amministrazioni di riferimento, ma come veri e propri soggetti privati in grado di porsi in concorrenza con altre imprese italiane o estere non pubbliche. Sul punto, in data 8 agosto 2002, la Repubblica italiana ha proposto ricorso alla Corte di Giustizia per l’annullamento dell’art. 2 della decisione della Commissione europea. Con successiva ordinanza della Corte, la relativa causa C-290/02 è stata rinviata dinanzi al competente Tribunale di prima istanza delle Comunità europee e, registrata con il numero T-222/04, risulta tuttora pendente. Parallelamente, a seguito di ricorso per inadem-

pimento proposto dalla Commissione alla Corte di Giustizia contro la Repubblica italiana, per la mancata corretta e tempestiva esecuzione della decisione in questione, è intervenuta, in data 1 giugno 2006, nella causa C-207/05, una sentenza di condanna in cui la Corte ha testualmente stabilito quanto segue: «Non avendo adottato entro i termini prescritti i provvedimenti necessari per recuperare presso i beneficiari gli aiuti dichiarati illegittimi e incompatibili con il mercato comune dalla decisione della Commissione 5 giugno 2002, 2003/193/CE, relativa all’aiuto di Stato relativo alle esenzioni fiscali e prestiti agevolati concessi dall’Italia in favore di imprese di servizi pubblici a prevalente capitale pubblico, La Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa imposti dagli artt. 3 e 4 di tale decisione». Resta da segnalare che l’Italia aveva introdotto, all’art. 27 della legge 18 ottobre 2005, n. 62, un’apposita procedura di recupero degli aiuti di Stato dichiarati illegittimi dalla decisione della Commissione UE n. 2003/193/CE; tale procedura era stata tuttavia ritenuta inadeguata a realizzare l’effettivo rimborso. Il citato art. 27 prevedeva, in origine, come fase necessaria l’emanazione di un’apposito decreto interministeriale per stabilire «le linee guida per una corretta valutazione dei casi di non applicazione della ripetizione»; questa norma, in assenza del citato decreto, è stata abrogata dal D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito con legge n. 46/2007. Venuto meno, pertanto, il filtro normativo del decreto interministeriale in merito alle situazioni da escludere o ricomprendere nell’azione di recupero, è evidente che tale complesso vaglio risulta ora esclusivamente rimesso al prudente apprezzamento del singolo Ufficio finanziario chiamato a svolgere un’attenta istruttoria e sviluppare una specifica e idonea motivazione a giustificazione della propria pretesa. È utile, a questo punto, riproporre sinteticamente alcune interessanti considerazioni emergenti dalle sentenze in rassegna, tra le prime pronunce sull’argomento. Nel suo nucleo originario, l’agevolazione spettava alle società istituite ai sensi dell’art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142, la cui la lett. e riguarda «le società per azioni a prevalente capitale pubblico»; a sua volta, la decisione della Commissione riporta la dizione di «società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria». A riguardo, i giudici di Reggio Emilia rilevano come, dal citato art. 22, si desuma chiaramente la possibilità, per le società per azioni di che trattasi, di essere società a capitale totalmente pubblico, configuran-


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dosi il concetto di “totalità” come un quid pluris, comunque ricompreso nella nozione di “prevalenza”. L’esame della decisione n. 2003/193/CE (punti 53 e 113), inoltre, confermerebbe, la piena consapevolezza, da parte della Commissione UE, che l’ambito applicativo della decisione stessa potesse, in linea generale, comprendere anche l’ipotesi di capitale pubblico totalitario; ciò in quanto il mercato dei cosiddetti “servizi pubblici locali” appare «aperto alla concorrenza comunitaria, aperto a tutte le imprese della Comunità e soggetto alle regole del Trattato» (punto 68), risultando di conseguenza oggettivamente possibili effetti distorsivi della concorrenza derivanti da aiuti di Stato di natura fiscale concessi a soggetti in esso operanti. La decisione n. 2003/193/CE, a differenza di altri interventi della Commissione europea in materia di aiuti di Stato, prescinde dall’esame di casi specifici (punto 44), limitandosi ad una disamina generale della normativa agevolativa emanata dal legislatore italiano: da tale carattere generale ed astratto (punto 43), deriva la possibilità, prevista dalla stessa decisione (punto 126), che aiuti individuali siano considerati, interamente o parzialmente, compatibili con il mercato comune per ragioni attinenti al caso concreto, con conseguente specifica esclusione dall’obbligo e dalla procedura di restituzione. Sulla base del delineato principio, i giudici di merito, in tutte le tre sentenze, traggono alcune conclusioni, che presentano tratti di sostanziale omogeneità: in primo luogo, non risulta affatto sufficiente che una società rientri formalmente tra quelle di cui all’art. 22 della L. n. 142/1990 per essere soggetta all’azione di recupero, essendo al contrario necessario che la fattispecie concreta possa essere ricondotta a quella delineata in astratto dalla Commissione europea. A tale proposito, viene affermato dalla Commissione tributaria di Reggio Emilia che solo attraverso una specifica e analitica indagine di fatto, è possibile verificare se effettivamente l’aver usufruito dell’agevolazione fiscale si sia, nel concreto, tradotto in una ipotesi di aiuto di Stato illegittimo, con conseguente sussistenza dell’obbligo di restituzione. Di tale analisi concreta, sul piano procedimentale, deve peraltro necessariamente dare conto la parte motivazionale delle ingiunzioni di recupero1. I giudici di Lucca e quelli di Novara, con accenti

diversi, ricostruiscono, invece, gli elementi concreti delle singole fattispecie esaminate, arrivando, in conclusione, ad inquadrarle tra i casi specifici non rientranti nell’ambito applicativo della decisione della Commissione europea. La Comm. trib. prov. Lucca, infatti, per escludere le potenzialità e gli effetti distorsivi della concorrenza, degli scambi e del mercato, pone in rilievo le piccole dimensioni della società, il ristretto ambito operativo (quello del territorio comunale), il regime di privativa legale e l’affidamento del servizio mediante atto emanato dalla pubblica autorità; viene peraltro evidenziato, in tale contesto, anche l’utilizzo degli utili di esercizio per finalità esclusivamente pubblico-istituzionali da parte del Comune (con permanenza, dunque, dei flussi reddituali all’interno del circuito della finanza pubblica). Parallelamente, la sentenza della Comm. trib. prov. Novara arriva a sostenere che il possesso dell’intero capitale sociale da parte dei Comuni in una società costituita ai sensi dell’art. 22, L. n. 142/1990, la presenza di limitazioni di carattere territoriale e la specifica tipologia delle attività statutarie, delineerebbero una vera e propria struttura di gestione “interna” di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente territoriale controllante; tale struttura sarebbe dunque, per sua stessa natura, inidonea a svolgere attività concorrenziale con altri soggetti. Ne consegue, secondo i giudici di Novara, che l’esenzione fiscale fruita dalla stessa società, non ha potuto concretamente “rafforzare la sua posizione” sul mercato, né quindi determinare una distorsione della concorrenza a norma dell’art. 87, par. 1, del Trattato CE. Il contesto normativo interno La legge n. 142 dell’8 giugno 1990, ha disciplinato la riorganizzazione/ristrutturazione del settore dei servizi pubblici gestiti dagli enti locali (distribuzione dell’acqua, raccolta rifiuti, distribuzione del gas, trasporti pubblici locali, ecc.); ciò è sostanzialmente avvenuto attraverso il superamento delle “aziende municipalizzate”, che rappresentavano in origine il principale strumento giuridico-imprenditoriale utilizzato dai Comuni per la gestione economica diretta dei servizi pubblici aventi “caratteristiche tipicamente industriali”, sulla base del T.U. 15 ottobre 1925, n. 2578 (in vigore senza modifiche di rilievo fino all’emanazione della L. n. 142/1990).

1 Cfr. BUSICO, Onere di indagine a carico dell’Agenzia delle Entrate per il recupero degli aiuti di Stato illegittimamente fruiti da società “ex municipalizzate”, in Riv. Giur. Trib., 2007, 11, 955 ss.


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Gli artt. 22 e 23 della citata L. 142/1990, hanno previsto, in particolare, la gestione mediante entità amministrativo-contabili distinte (aziende speciali) e mediante la costituzione di società commerciali (società per azioni e società a responsabilità limitata) a prevalente capitale pubblico locale. I nuovi soggetti risultavano, dunque, strutture esterne all’amministrazione comunale, dotate di personalità giuridica, con piena autonomia imprenditoriale ed aventi specifici obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità nella gestione del servizio, potendo agire sul libero mercato come ogni altra impresa privata2. In questo generale contesto normativo, è intervenuto il legislatore tributario con le disposizioni di cui all’art. 66, comma 14, D.L. n. 331/93 (convertito con modificazioni dalla L. n. 427/1993), allo scopo di estendere temporaneamente anche nei confronti dei nuovi soggetti autonomi le norme fiscali di favore dell’art. 88, T.U.I.R. (ora art. 74), applicabili alle amministrazioni pubbliche di origine. È evidente la ratio della norma di esenzione dall’imposta sul reddito d’impresa in argomento: l’utilizzo legislativo della “leva fiscale” per agevolare/accelerare il processo di “privatizzazione” dei servizi pubblici locali, rendendo “economico” il trasferimento della gestione degli stessi da soggetti pubblici esclusi da imposizione (gli enti territoriali) a soggetti societari di diritto privato (società per azioni) creati a tal fine3. Nel procedimento formale di indagine, aperto dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 88, n. 2, del Trattato CE, sugli aiuti fiscali in questione (nonché nel successivo ricorso contro la decisione di incompatibilità comunitaria), il Governo italiano difendeva le predette misure con diverse argomentazioni, alcune delle quali si rinvengono (nelle loro linee di fondo) anche in taluni passaggi delle sentenze in rassegna. Veniva, infatti, rilevata l’inidoneità oggettiva (potrebbe dirsi “strutturale”) delle agevolazioni a produrre concreti effetti distorsivi degli scambi, in ragione del fatto che le stesse erano concesse a tutti i soggetti che fornissero servizi pubblici locali, ossia servizi pubblici esclusivamente nell’ambito territoriale del comune di riferimento, in settori di mercato non aperti effettivamente alla concorrenza e di di-

2 Cfr. RACIOPPI, Principali tipologie di aiuti fiscali, in AA.VV., Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di Salvini, Padova, 2007, 471 ss. 3 Cfr. RACIOPPI, op. cit., 473.

mensione meramente locale (ragionamenti sostanzialmente analoghi sono sviluppati, come si è visto, anche dai giudici di Novara e di Lucca, per escludere l’incompatibilità con il mercato comune dei casi specifici sottoposti alla loro cognizione). Le decisioni di recupero degli aiuti di Stato di natura fiscale Sul tema è utile delineare alcune considerazioni di ordine generale: se una norma che concede agevolazioni fiscali è incompatibile con l’ordinamento comunitario, il giudice interno deve disapplicarla. Ciò in base: a) al principio del “primato” del diritto comunitario, secondo il quale la norma di diritto comunitario, gerarchicamente sovraordinata rispetto a quelle di diritto interno degli Stati membri, prevale su ogni norma interna, di ogni ordine e grado, collidente; b) al principio degli “effetti diretti”, secondo cui le norme giuridiche comunitarie, purchè connotate da determinate caratteristiche, sono immediatamente applicabili negli ordinamenti interni degli Stati membri, ossia devono essere «giuridicamente trattate dagli Stati come immediatamente costitutive di situazioni giuridiche soggettive tutelabili dinanzi al giudice nazionale»4. L’art. 249 del Trattato CE stabilisce che le decisioni della Commissione europea hanno «effetto diretto» nei confronti dei «destinatari designati» e vincolano i giudici nazionali5; la Corte di Cassazione, peraltro, accogliendo l’indirizzo interpretativo della Corte di Giustizia UE, ha affermato che le decisioni della Commissione producono effetti diretti nell’ordinamento italiano quando prevedano un obbligo giuridico «sufficientemente chiaro e preciso» nei confronti degli Stati membri, «incondizionato» e attuabile o eseguibile senza la necessità dell’esercizio di un «potere discrezionale» da parte degli Stati membri o delle istituzioni comunitarie6. Richiedono, tuttavia, uno specifico provvedimento nazionale di attuazione/esecuzione, le decisioni della Commissione che dispongono il recupero degli aiuti di Stato incompatibili con l’ordinamento comunitario ex art. 87, par. 1, del Trattato CE7; infatti, l’art. 14, comma 3, del regolamento del Consiglio CE del 22 marzo 1999, n. 659 (recante le modalità di applicazione dell’art. 93 del

4 Cfr. TESAURO, Processo tributario e aiuti di Stato, in Corr. Trib., 2007, 45, 3665 ss. 5 Cfr. Cons. di Stato, sez. VI, 16 settembre 2003, n. 5250, in Foro Amm.

Cons. di Stato, 2003, 2624. 6 Cfr. Cass., sez. V, 10 dicembre 2002, n. 17564, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 7 Cfr TESAURO, op. cit., 3666.


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Trattato CE, ora art. 88), dispone che «il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dello Stato membro interessato»8. Dunque, sono le leggi degli Stati membri interessati che devono dare attuazione alle decisioni della Commissione europea disponenti il recupero degli aiuti dichiarati incompatibili; nel caso specifico degli aiuti concessi alle società per azioni “ex municipalizzate”, la competenza amministrativa è stata attribuita all’Agenzia delle Entrate (art. 1, comma 132, legge 23 dicembre 2005, n. 266); quest’ultima, per recuperare l’Irpeg non pagata per effetto dell’esenzione, agisce emettendo delle “ingiunzioni” sulla base dell’art. 1, D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito dalla legge 6 aprile 2007, n. 46. La riscossione avviene secondo le ordinarie procedure previste dal D.P.R. n. 602/1973, mentre l’ingiunzione di recupero è impugnabile dinanzi alle Commissioni tributarie. È evidente che quando l’aiuto di Stato è rappresentato da un’esenzione o agevolazione fiscale, o dalla concessione di un credito d’imposta, il recupero dello stesso ha come presupposto la disapplicazione della norma agevolatrice (in esecuzione della decisione della Commissione europea) e l’applicazione della norma impositrice (applicabile in assenza della disposizione di favore); ciò fa assumere al recupero natura tributaria, «in linea con la norma che attribuisce all’Agenzia delle Entrate il compito di provvedere al recupero e con la norma che attribuisce la giurisdizione alle Commissioni tributarie»9. Il processo che si instaura davanti al giudice tributario nazionale (a seguito di impugnazione degli atti di recupero degli aiuti fiscali), è, pertanto, un processo con caratteristiche peculiari e complesse, avendo per oggetto atti amministrativi interni (di natura impositiva) che danno attuazione “coattiva” a decisioni della Commissione europea (cioè ad atti di livello comunitario); esso è conseguentemente regolato da norme processuali interne (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) e da norme processuali/procedimentali comunitarie, essendo i giudici nazionali (e, dunque, quelli tributari) soggetti al dovere di cooperazione previsto dall’art. 10, par. 1,

8 Cfr. anche DEL FEDERICO, Recupero degli aiuti di Stato fiscali, procedure applicabili e principi di equivalenza ed effettività, infra, 199. 9 Cfr. TESAURO, op. cit., 3667. 10 Cfr. TESAURO, op. cit., 3667. 11 Cfr. TESAURO, op. cit., 3667; in una

primo periodo, del Trattato CE, che impone agli Stati membri l’adozione di tutte le misure di carattere generale e particolare per l’esecuzione degli obblighi derivanti dal Trattato stesso e dagli atti delle istituzioni della Comunità10. In materia di aiuti di Stato (di natura fiscale) sussiste quindi un’interconnessione dialettica tra il ruolo e le funzioni istituzionali della Commissione europea e dei giudici nazionali: la Commissione ha un ruolo permanente di esame e controllo della compatibilità degli aiuti di Stato con il mercato comune e i suoi atti sono impugnabili dinanzi ai giudici comunitari; ai giudici nazionali spetta invece il compito di tutelare i diritti dei cittadini comunitari quando lo Stato pone in essere aiuti non previamente autorizzati dalla Commissione (ex art. 88, par. 3, Trattato CE) o dichiarati incompatibili11. I giudici nazionali hanno il potere/dovere di esaminare se una legge o altro provvedimento amministrativo statale, che contiene una misura di favore, sia stato adottato senza rispettare il procedimento di controllo preventivo di cui all’art. 88, par. 3, CE, verificando, anche d’ufficio, la compatibilità del diritto interno con le norme comunitarie12 che, in materia di aiuti, condizionano direttamente l’iter formativo degli atti legislativi interni13. Conseguentemente, se la valutazione della compatibilità con il mercato comune di misure specifiche di aiuto o di un “regime” di aiuti, rientra nella competenza esclusiva della Commissione (che opera sotto il controllo del giudice comunitario), i giudici nazionali possono tuttavia stabilire se una misura costituisca aiuto, interpretando ed applicando la relativa nozione contenuta nell’art. 87, n. 1, Trattato CE14. In sostanza, il ruolo “comunitario” del giudice tributario assume rilievo e si esplica prevalentemente proprio nei processi di impugnazione di atti dell’amministrazione finanziaria che, in esecuzione di una decisione della Commissione europea, recuperano aiuti di Stato15. Osservazioni conclusive Su un piano generale, è possibile affermare che quanto sinteticamente osservato in relazione al tema dei rapporti tra ordinamento nazionale ed

prospettiva non solo relativa alla tematica degli aiuti di Stato, cfr. DEL FEDERICO, Giurisdizione comunitaria e mezzi di tutela del contribuente, in Dir. e Prat. Trib. Int., 2006, 1, 23 ss. 12 Cfr. Cass., sez. trib., 9 giugno 2000, n. 7909, in www.finanze.it.

13 Cfr. TESAURO, op. cit., 3668. 14 Cfr. Corte di Giustizia UE, 22 marzo 1977, causa 78/76; 21 novembre 1991, causa C-354/90, 11 luglio 1996, causa C-39/94, tutte in www.curia.eu. 15 Cfr TESAURO, op. cit., 3668.


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ordinamento comunitario in materia di aiuti di Stato, rappresenta una specifica e concreta conferma di come l’Unione europea costituisca un’organizzazione di carattere inedito, connotata dalla compresenza di molti strati o livelli giuridici e istituzionali che si compenetrano e si influenzano a vicenda. Si tratta, in altri termini, di un “ordinamento di ordinamenti”16 che, da un lato, consente il trasferimento di quote rilevanti di sovranità dai singoli Stati membri in favore delle istituzioni comuni che rappresentano sia gli interessi nazionali che quelli comunitari, e, dall’altro, tende a favorire, attraverso la garanzia del pluralismo giuridico-istituzionale, la massima interazione reciproca tra i vari ordina-

menti che lo compongono e i rispettivi poteri. Il connotato di base di tale fenomeno complessivo (come emerge chiaramente anche dalla vicenda del recupero degli aiuti di Stato e dagli esaminati interventi, in essa, della giurisdizione tributaria nazionale), è costituito, in ultima istanza, dalla reciproca limitazione delle sfere di sovranità degli Stati membri, in funzione del raggiungimento degli obiettivi fondamentali previsti dai Trattati istitutivi della Comunità e dell’Unione, e in particolare, in vista della realizzazione/regolamentazione di un mercato di dimensioni continentali in grado di favorire la circolazione delle merci, dei servizi e dei fattori della produzione (capitali e forza-lavoro).

16 CHITI, Nota sulla personalità giuridica dell’Unione europea, in www.astridonline.it.


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Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXVI, 13 marzo 2007, n. 14 Presidente: Pedone - Relatore: Bonaduce Esenzioni e agevolazioni - Contratti di finanziamento - Finanziamenti di durata non inferiore a diciotto mesi - Clausola di recesso ad nutum Agevolazioni - Inapplicabilità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, artt. 15 e 17) L’esenzione dall’imposta di registro, dall’imposta di bollo, dalle imposte ipotecarie e catastali e dalle tasse sulle concessioni governative prevista dall’art. 15, D.P.R. 601/1973 per operazioni relative a finanziamenti a medio e lungo termine (di durata non inferiore a diciotto mesi) va esclusa per i contratti di finanziamento tra le cui condizioni sia prevista la facoltà di recesso ad nutum dal rapporto, poiché in essi il credito perde ab inizio il requisito temporale richiesto dall’ordinamento per l’applicazione della suddetta agevolazione. Svolgimento del processo I contribuenti: - banca [...] S.p.A., con sede in Lucca, in persona del legale rappresentante pro tempore rappresentata e assistita dai prof. avv. M. M. e F. P. del foro di Firenze; - B. M., con domicilio fiscale in Lucca, rappresentata e assistita dalla dott.ssa F. M., commercialista in Lucca, interpongono appello avverso la sentenza n. 72/02/05 pronunciata il 10 marzo 2005 e depositata il 29 luglio 2005 dalla Commissione tributaria provinciale di Lucca, sezione II, che ebbe a respingere i ricorsi presentati dai contribuenti avverso gli avvisi di liquidazione rispettivamente n. 1648/2004 per la banca e n. 1649/2004 per la B. con i quali l’Ufficio di Lucca dell’Agenzia del Territorio provvedeva al recupero dell’imposta suppletiva ipotecaria e di bollo su un finanziamento a medio termine concesso dalla banca mediante apertura di credito in conto corrente ipotecario ritenuto non ammesso a beneficiare del trattamento fiscale previsto dagli artt. 15 ss., D.P.R. 601/1973. L’oggetto della controversia è costituito dal regime fiscale applicabile al finanziamento in oggetto: se quello agevolato dell’imposta sostitutiva previsto dal succitato disposto di legge per i finanziamenti a medio e lungo termine, oppure

quello normalmente applicabile ai finanziamenti che tale caratteristica temporale di durata (non inferiore ai 18 mesi) non presentano. Nell’appello, i contribuenti nel chiedere l’integrale riforma dell’appellata sentenza ritenuta errata e dalle conclusioni non condivisibili, ribadiscono l’eccezione, sulla quale la sentenza appellata ha omesso di pronunciarsi, di illegittimità degli avvisi di liquidazione contestati che non tengono conto dell’imposta sostitutiva, di cui ai richiamati artt. 15 ss., D.P.R. 601/ 73, già assolta sul finanziamento onde trattasi. L’Agenzia costituitasi in giudizio, nel richiedere in via pregiudiziale l’inammissibilità dell’appello per tardiva presentazione dello stesso, controdeduce ribadendo la correttezza del proprio operato, atteso che la previsione contrattuale a favore della banca della facoltà di recesso ad nutum rende la fattispecie incompatibile con l’invocato regime fiscale agevolato, richiamando conformi sentenze di merito, la sentenza della sezione tributaria della Corte di Cassazione 4792/02, la risoluzione n. 25627 del 24 marzo 2003 della Agenzia del Territorio con conforme parere della Avvocatura generale dello Stato. Per la ribadita eccezione di illegittimità degli avvisi, l’Agenzia nel richiedere la conferma dell’appellata sentenza ribadisce le osservazioni a suo tempo già formulate circa la materiale impossibilità di effettuare detrazioni o compensazioni tra imposte di natura diversa. Motivi della decisione All’udienza del 13 marzo 2007, svoltasi in pubblica udienza con gli interventi e le modalità descritti nel relativo processo verbale, la Commissione, riunitasi in camera di consiglio, rileva preliminarmente che l’appello risulta presentato nei termini e che non sussiste alcunché da formalmente osservare sulla impossibilità asserita dalla Agenzia di effettuare detrazioni o compensazioni non consentite. Nel merito la Commissione ritiene che gli appelli non siano meritevoli di accoglimento: non può infatti non convenirsi che l’incontestabile sussistenza, tra le convenzioni stipulate tra le parti per la concessione del finanziamento a medio termine in parola, della clausola della facoltà di reces-


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so ad nutum da parte della banca non può non privare, e ab initio, il credito in questione della sua natura temporale pur prevista di medio termine, solo in virtù della quale l’ordinamento prevede l’agevolazione fiscale richiesta; la legittima e non contraddittoria pattuizione di tale clausola degrada necessariamente per espressa volontà della parti la durata del rapporto, pur prevista a medio termine, ad elemento variabile in funzione dell’interesse dell’azienda concedente il credito.

Tale ritiene la Commissione essere la ratio della incompatibilità ripetutamente asserita della suddetta clausola con il regime agevolato ex artt. 15 ss., D.P.R. 601/73, solennemente convalidata dal richiamato pronunciamento della sezione tributaria della Suprema Corte. Gli appelli pertanto devono essere respinti. Ritiene peraltro la Commissione sussistere giusti motivi per disporre la compensazione delle spese processuali tra le parti.

Nota

il contratto di finanziamento e il «capitolato dei patti e condizioni formanti parte integrante dei contratti di finanziamento o di apertura di credito in conto corrente con garanzia ipotecaria», e, dall’altro, le condizioni generali di contratto dirette a disciplinare in modo unitario i «conti correnti di corrispondenza e servizi connessi». In particolare, oltre all’incompatibilità tra la clausola generale del contratto di conto corrente e quella del contratto di finanziamento che determina l’inefficacia della prima (l’art. 4 del primo negozio giuridico stabilisce che «il presente contratto di apertura in conto corrente è posto in essere e resta vincolato se non in contrasto con quanto convenuto tra le parti»), viene in rilevo l’art. 1342 c.c., il quale sancisce la prevalenza delle clausole aggiunte rispetto a quelle inserite nel contratto medesimo, tale per cui l’eventuale contrasto tra una clausola espressamente pattuita e una contenuta nel modulo allegato deve essere risolto nel senso della prevalenza delle clausole aggiunte; d’altra parte, queste ultime hanno una funzione sussidiaria, operando per ciò che non è stato espressamente e diversamente pattuito. Dunque, la clausola di recesso ad nutum, contenuta nell’allegato, deve legittimamente ritenersi priva di efficacia, poiché in contrasto con quanto convenuto tra le parti, ossia che la durata del finanziamento sia superiore ai diciotto mesi (tanto più che il conto corrente risulta essere solo il mezzo per l’apertura di credito richiesta, che viene poi invece regolata dal contratto di finanziamento e dal relativo capitolato). Conclude, pertanto, la Commissione tributaria regionale affermando che, nel caso di specie, non trova applicazione la clausola di recesso ad nutum, prevista nelle condizioni generali di contratto, bensì il recesso per giusta causa previsto dal contratto di finanziamento e dal capitolato, in presenza del quale è stata riconosciuta (anche nel primo grado del giudizio) la piena operatività dell’agevolazione ex art. 15, dal momento che, in tal caso, il recesso non sarebbe rimesso al mero

Ai sensi dell’art. 15, D.P.R. 601/1973, le operazioni relative a «finanziamenti a medio e lungo termine», ossia la cui durata contrattuale «sia stabilita in più di diciotto mesi» sono esenti dall’imposta di registro, dall’imposta di bollo, dalle imposte ipotecarie e catastali e dalle tasse sulle concessioni governative e assoggettate all’imposta sostitutiva ex art. 17, D.P.R. 601/1973. Sull’applicabilità dell’esenzione per contratti nei quali sia prevista la facoltà di recesso ad nutum si è espressa, recentemente, la Commissione tributaria regionale della Toscana, la quale, decidendo sull’applicabilità dell’esenzione citata in relazione ad una fattispecie negoziale (nella quale era prevista la facoltà di recesso ad nutum) ha ritenuto che, diversamente dalle ipotesi di recesso per giusta causa, consentire alla parte di risolvere liberamente e arbitrariamente il contratto, anche in assenza di un convincente motivo, priverebbe il rapporto della stabilità che giustifica l’esenzione e, pertanto, sarebbe idoneo ad inficiarne ab origine la durata, escludendo la fattispecie disciplinata dall’art. 15 (in tal senso, cfr. Comm. trib. reg. Toscana, 3 aprile 2006, n. 9; Cass., sez. trib., 26 maggio 2005, n. 11165, in Boll. Trib., 2006, 1146; circ. min. 5 dicembre 2006, n. 6; ris. min. 24 marzo 2003, n. 2). Va rilevato, tuttavia, che la stessa Commissione aveva in precedenza fornito una (maggiormente condivisibile) interpretazione della norma, secondo la quale, invece, la valutazione sulla durata del contratto deve essere effettuata ex ante, quindi al momento del sorgere del vincolo contrattuale: pertanto, il beneficio fiscale spetta per il solo fatto che tra le parti sia stata pattuita una durata del rapporto di finanziamento superiore a diciotto mesi, essendo irrilevante l’eventuale cessazione anticipata del rapporto (Comm. trib. reg. Toscana, 8 giugno 2006, n. 142). La Commissione, condividendo la ricostruzione delle parti contribuenti, ritiene sussistente la distinzione tra, da un lato,


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arbitrio della banca (sul punto, ris. min. 24 marzo 2003, n. 1; circ. min. 24 settembre 2002, n. 8; Comm. trib. reg. Puglia, 8 marzo 2005, n. 23; Cass., sez. trib., 4 luglio 1983, n. 4470, in Boll. Trib., 1984, 174; in tal senso, DEL FEDERICO, Agevolazioni per il settore del credito e durata minima del

contratto di finanziamento, in Fisco, 2002, 47; RUSL’imposta sostitutiva sui finanziamenti a medio lungo termine. Inquadramento civilistico e deducibilità fiscale dal punto di vista sia degli istituti di credito e delle società finanziatrici sia dei soggetti (imprese) finanziati, in Fisco, 2001, 39, 12811).

SO,

IL RECUPERO DEL CREDITO D’IMPOSTA PER TARDIVO INVIO DEL MODELLO CVS: TRA AUTOLIQUIDAZIONE, COMPENSAZIONE E DISAPPLICAZIONE DELLE SANZIONI 10

Commissione tributaria provinciale di Messina, sez. XIII, 19 settembre 2007, n. 228 Presidente e Relatore: La Torre Esenzioni e agevolazioni - Credito d’imposta ex L. 388/2000 - Omessa o tardiva presentazione del modello Cvs - Avviso di recupero del credito d’imposta utilizzato in compensazione - Legittimità - Sanzioni - Inapplicabilità (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8; D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10; L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 8; L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 62) La mancata presentazione del modello di comunicazione Cvs nel termine perentorio del 28 febbraio 2003 comporta la decadenza delle agevolazioni previste dall’art. 62 della L. 289/02, per cui è legittimo il recupero del credito d’imposta utilizzato dal contribuente in compensazione, ma, tenuto conto che il modello è stato inviato, ancorché tardivamente, e che non vi è stato alcun danno all’erario per cui, devono ritenersi non dovute le sanzioni. Svolgimento del processo Il ricorso verte su avviso di recupero di credito d’imposta emesso dall’Agenzia delle Entrate di Barcellona P.G. a seguito di processo verbale di verifica della regolarità degli adempimenti connessi all’utilizzazione del credito d’imposta. L’Ufficio accertava la mancata presentazione del modello di comunicazione Cvs nel termine perentorio del 28 febbraio 2003, da cui deriverebbe la decadenza dalla agevolazioni ex art. 62, L. 289/02. Il ricorrente contesta la legittimità dell’iscrizione a ruolo con riferimento alla mancata motivazione della cartella, alla atipicità dell’atto, alla incostituzionalità dell’art. 62, L. 289/02, con riferimento all’art. 53 della Cost. e allo Statuto del

contribuente; ritiene illegittime le sanzioni irrogate. Motivi della decisione Il Collegio, visti gli atti di causa; ritenute non conducenti le contestazioni relative alla regolarità della cartella, posto che contiene gli elementi minimi in grado di mettere in condizione il contribuente di esercitare il suo diritto di difesa; preso atto del contenuto del processo verbale, allegato alle memorie dell’Ufficio; considerato che la copiosa giurisprudenza, anche di questa Commissione, orientata all’accoglimento dei ricorsi relativi alla revoca del credito d’imposta non può essere più seguita dopo l’intervento della Corte costituzionale (n. 124/2006) che ha ritenuto legittima la norma di cui all’art. 62, L. 289/02 in relazione all’onere del beneficiario dell’agevolazione di inviare i dati occorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati, a pena di “decadenza” dai contributi stessi, dispone quanto segue. La Corte costituzionale ha ritenuto che non sussista «la denunciata irragionevole sproporzione tra la violazione commessa dal contribuente, consistente nel mancato invio di un modello informativo entro un dato termine, e la “decadenza dal contributo” già conseguito». Il presunto contrasto fra l’adempimento fissato dalla norma (art. 62, L. 289/02) e lo Statuto del contribuente (art. 3, L. 212/00) non sussiste in quanto l’informazione dei dati richiesti con il Cvs costituisce un mezzo idoneo a controllare la spettanza del contributo, dato il rilevante interesse pubblico sotteso alla prevenzione di comportamenti elusivi o al controllo di violazioni tributarie. Pertanto la richiesta di dati attraverso il mo-


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dello Cvs da parte dell’amministrazione finanziaria a pena di decadenza non è da considerarsi irragionevole poiché costituisce un modo per rendere disponibili dati non ricavabili dalla dichiarazione dei redditi, ma necessari allo svolgimento di politiche di incentivazione e al controllo sulla spettanza dei contributi. La Corte costituzionale, con l’ordinanza citata, ha altresì ritenuto inammissibile la «censura relativa alla violazione del principio di irretroattività e, per l’effetto, del principio “dell’affidamento nella sicurezza giuridica”» poiché «la norma censurata non dispone per il passato, ma fissa per il futuro un obbligo di comunicazione di dati a pena di “decadenza dal contributo”, a nulla rilevando che tale decadenza abbia ad oggetto un contributo già conseguito». La decadenza deriva infatti dal comportamento omissivo del contribuente e non già direttamente dalla nuova norma. Secondo la Corte è, infine, da respingersi anche la censura di ingiustificata disparità di trattamento fra i soggetti che beneficiano dell’agevolazione in via automatica, che sono obbligati a trasmette-

re i dati a pena di decadenza dal contributo, e i soggetti che ne beneficiano previo assenso dell’Agenzia delle Entrate, per i quali non è, invece, prevista alcuna decadenza: infatti, le due fattispecie sono oggettivamente differenti, proprio in virtù del diverso procedimento attraverso il quale i contributi sono stati nei due casi erogati, e detta eterogeneità rende ragionevole la diversità di disciplina. Pertanto, sulla base delle superiori argomentazioni, posto che l’interpretazione della Corte costituzionale sulla legittimità delle norme è vincolante per il giudice, si rigetta il ricorso. Si deve tener conto tuttavia che nel caso di specie l’adempimento richiesto è stato eseguito con l’invio all’Ufficio del modello Cvs (ancorché in data 30 luglio 2004), che non vi è stato alcun danno all’erario per cui, in applicazione dei principi generali in materia tributaria e delle leggi sulle sanzioni tributarie (D.Lgs. 471, 472 e 473/1997 come integrati dai D.Lgs. n. 203/98, n. 99/2000 e n. 32/2001), si ritengono non dovute le sanzioni. Spese compensate.

Nota di Giuseppe Ingrao

di un contributo, sotto forma di credito d’imposta, alle imprese che effettuano nuovi investimenti nelle predette aree. Tale credito originariamente poteva essere fatto valere in modo automatico dal contribuente, mediante compensazione attuata nel modello di versamento dei tributi, a decorrere dalla data di sostenimento dei costi. Si prevedeva, tuttavia, l’obbligo di compilare un apposito prospetto della dichiarazione (quadro RU), nel quale indicare tutte le informazioni necessarie per quantificare il credito spettante. Non vi era, quindi, un assenso preventivo dell’amministrazione; la verifica della corretta applicazione delle disposizioni normative avveniva ex post, decorso un periodo di almeno dodici mesi dall’attribuzione del credito d’imposta. Con le modifiche apportate dall’art. 10 del D.L. 8 luglio 2002, n. 138, si è eliminata l’automaticità della fruizione del credito d’imposta, prevedendo, per gli investimenti effettuati a decorrere dall’8 luglio 2002, un previo assenso dell’Agenzia delle Entrate su apposita istanza inviata dai contribuenti prima di realizzare l’investimento. Quanto agli investimenti realizzati tra l’1 gennaio 2001 e il 7 luglio 2002, l’art. 62, comma 1, lettera a, L. 27 dicembre 2002, n. 289, ha disposto che le imprese che avessero fruito automaticamente del credito d’imposta dovessero inviare la comunicazione degli investimenti realizzati (modello Cvs) entro il 28 febbraio 2003 (termine così fissa-

L’applicazione delle sanzioni amministrative connesse al mancato o tardivo invio del modello Cvs è sproporzionata rispetto all’inadempimento commesso, posto che la presentazione del modello non era parte integrante della fattispecie, come originariamente prevista dalla legge n. 388/2000, né può esserlo diventata successivamente in virtù delle disposizioni contenute nell’art. 62 della L. n. 289/2002. Le sanzioni per indebita compensazione dovrebbero trovare applicazione solo se, oltre al mancato adempimento “formale”, non sussistono i presupposti sostanziali per fruire del credito d’imposta. La normativa sul credito d’imposta per investimenti in aree svantaggiate La sentenza dei giudici messinesi sul tema della legittimità del “recupero” del credito d’imposta utilizzato in modo automatico, qualora il contribuente non abbia rispettato il termine previsto per l’invio del modello cd. Cvs, ci consente di svolgere, con riguardo al caso di specie, alcune considerazioni sulla irrogabilità delle sanzioni da parte dell’Ufficio e sulla possibilità da parte del giudice di disapplicarle. Occorre rammentare che l’art. 8, L. 23 dicembre 2000, n. 388, al fine di sostenere l’economia nelle zone svantaggiate, ha disposto la concessione


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to con provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 24 gennaio 2003); il mancato invio della comunicazione è “sanzionato”, indipendentemente dall’effettiva sussistenza dei requisiti per fruire dell’agevolazione, con la decadenza dal contributo automaticamente conseguito. L’intervento della Corte costituzionale Nonostante l’espressa previsione normativa, numerosi contribuenti non hanno effettuato l’invio della comunicazione Cvs o lo hanno effettuato – come nel caso di specie – tardivamente; pertanto l’amministrazione ha proceduto con la notifica di “atti impositivi” al fine di recuperare il credito d’imposta già utilizzato, applicando le sanzioni sull’indebita compensazione. E ciò a prescindere dall’esistenza dei presupposti sostanziali previsti dalla legge, così come formulata al momento dell’effettuazione dell’investimento. Tale situazione ha inevitabilmente comportato il sorgere di un contenzioso, nel quale tra l’altro si è eccepita l’incostituzionalità della norma (art. 62, L. n. 289/2002) che ha imposto ex post un onere al contribuente, a pena di decadenza dell’agevolazione, in relazione ad una fattispecie già realizzata. I dubbi di costituzionalità sono stati prospettati da alcune Commissioni tributarie1 evidenziando, in particolare, la violazione del principio di ragionevolezza, a causa della sproporzione tra la violazione (formale) dell’onere informativo e la sanzione della decadenza dal contributo già acquisito, nonché la violazione del principio di irretroattività delle norme e dell’affidamento del contribuente, essendo stato introdotto un obbligo con effetto retroattivo, in quanto riguardante un diritto acquisito e regolato da una legge precedente. La Corte costituzionale2 ha dichiarato manifestamente infondate le questioni sollevate, evidenziando, tra l’altro, che «la norma censurata non dispone per il passato ma fissa per il futuro un obbligo di comunicazione di dati a pena di decadenza dal contributo, a nulla rilevando che tale decadenza abbia ad oggetto un contributo già conseguito». Si è aggiunto, altresì, che l’adempimento appare ragionevole, in quanto consente di perseguire sia la finalità di interesse pubblico di rendere più tempestive e meno onerose le verifiche sulla spettanze del contributo, sia di prevenire comportamenti elusivi, nonché effettuare adeguati

1 Per tutte cfr. Comm. trib. prov. Avellino, 25 marzo 2005 e Comm. trib. prov. Benevento, 18 gennaio 2006.

monitoraggi e pianificazioni dei flussi di spesa. Pertanto, secondo la Corte, non è irragionevole la previsione per cui il mancato rispetto del termine fissato per la comunicazione dei dati dell’investimento sia sanzionato, indipendentemente dall’effettiva sussistenza dei requisiti sostanziali per fruire dell’agevolazione, con la decadenza dal contributo automaticamente conseguito. L’applicazione delle sanzioni per il tardivo invio del modello Cvs Orbene, non v’è dubbio che la pronuncia della Consulta abbia inequivocabilmente risolto il contenzioso a favore dell’amministrazione, nel senso che gli avvisi di recupero in parola debbano ritenersi legittimi. Resta, però, da verificare la legittimità della pretesa sanzionatoria connessa all’utilizzo in compensazione del credito d’imposta non spettante, ovvero la possibilità di disapplicazione delle sanzioni da parte del giudice ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs n. 546/92. È bene precisare che le sanzioni in parola non sono relative alla omessa o tardiva presentazione del modello Cvs3, ma attengono alla compensazione, divenuta successivamente irregolare, operata dal contribuente con altri debiti tributari; si tratta segnatamente della sanzione del trenta per cento sull’importo compensato di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 471/97. Qualora il contribuente non avesse utilizzato in compensazione il credito d’imposta, comunque l’Ufficio è tenuto ad irrogare la sanzione di cui sopra, in quanto si verificherebbe un caso di riduzione di una eccedenza detraibile negli anni successivi esposta nella dichiarazione (quadro RU). Nel caso di specie comunque il contribuente ha utilizzato in compensazione il credito d’imposta e quindi, a causa della decadenza dal contributo per tardiva presentazione del modello Cvs, la compensazione operata è divenuta irregolare. Atteso ciò, potrebbe sembrare pienamente legittimo il comportamento dell’Ufficio che richiede, oltre alla restituzione del credito d’imposta indebitamente utilizzato, anche le sanzioni nella misura prevista dall’art. 13 citato. I giudici messinesi, argomentando che non vi sia stato alcun danno per l’erario e che l’adempimento richiesto sia stato, anche se tardivamente, eseguito, in applicazione dei principi generali della materia e delle leggi sulle sanzioni tributa-

2 Cfr. ord. 24 marzo 2006, n. 124 e ord. 7 giugno 2007, n. 180. 3 Ci si riferisce alla sanzione residuale

di cui all’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (da euro 258,00 a euro 2.065,00).


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rie, hanno ritenuto non dovute le sanzioni (non è ben chiaro se si tratta di una disapplicazione delle sanzioni o di una declaratoria di illegittimità dell’atto nella parte in cui contiene la pretesa sanzionatoria). Si tratta di una conclusione condivisibile, ma che presta il fianco ad alcune critiche. Sul punto, quindi, ci sembra opportuno spendere qualche considerazione. Va chiarito, innanzitutto, che l’inesistenza di un danno per l’erario non viene assunta nell’art. 8 del D.Lgs. n. 546/92 quale presupposto per la disapplicazione delle sanzioni. Quest’ultima norma autorizza il giudice tributario a dichiarare non applicabili le sanzioni «quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce». L’errore sulla norma, in altri termini, acquista rilevanza giuridica al fine dell’esimente quando la disposizione sia oscura, ambigua e contraddittoria4. La giurisprudenza della Cassazione ha, infatti, precisato che la disapplicazione delle sanzioni appare senza dubbio legittima «quando la disciplina normativa si articoli in una pluralità di prescrizioni il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto derivante da elementi positivi di confusione»5. Con riguardo alla disposizione normativa violata dal contribuente nel caso che ci occupa non si configurano i presupposti dell’obbiettiva incertezza, in quanto essa chiaramente afferma che «i soggetti che hanno conseguito il diritto al contributo anteriormente alla data dell’8 luglio 2002 comunicano all’Agenzia delle Entrate, a pena di decadenza dal contributo conseguito automaticamente, i dati occorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati». Peraltro, se la norma in questione non è incerta, allora il contribuente ha avuto la consapevolezza

4 Sull’argomento per tutti cfr. COLLI VIGNARELLI, Errore scusabile e abbandono delle sanzioni pecuniarie, in Rass. Trib., 1987, 1138 ss.; DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993; DELLA VALLE, Affidamento e certezza nel diritto tributario, Milano, 2001; LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002; BUCCISANO, L’errore sulla norma tributaria: l’inapplicabilità delle sanzioni ed il rapporto tra l’art. 8 e le corrispondenti norme dello Statuto dei diritti del contribuente e della normativa sulle sanzioni, in Codice del processo tributario, a cura di Uckmar-Tundo, Piacenza, 2007, 683 ss.

di porre in essere un comportamento contrario alla legge. Non vi sarebbe, quindi, nemmeno la possibilità di invocare l’elemento soggettivo della buona fede – anche ammesso che esso abbia rilevanza – per sostenere comunque l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 8. I soggetti che avevano (nel 2001 e nel 2002) utilizzato il credito di imposta in compensazione con altri debiti erano consapevoli che non inviando il modello Cvs incorrevano nella decadenza dal contributo. D’altro canto non va, però, sottaciuto che ci troviamo di fronte ad un caso peculiare, in cui la lettera della legge è chiara, ma i giudici di merito hanno in più occasioni interpretato l’art. 62, L. n. 289/2002, in modo favorevole al contribuente, ritenendo quindi legittimo l’utilizzo del credito d’imposta anche in mancanza di un tempestivo invio del modello Cvs. Si potrebbe, quindi, sostenere, riallacciandoci a quanto affermato di recente dalla Cassazione6, che si tratta di una disposizione solo apparentemente chiara, in quanto ad essa è possibile attribuire più significati senza avere la sicurezza che il risultato conseguito sia l’unico tecnicamente possibile. In questa prospettiva, anche in presenza di una disposizione tendenzialmente chiara, potrebbe trovare spazio il potere di disapplicazione delle sanzioni amministrative da parte del giudice7. Ciò detto, occorre evidenziare che l’inesistenza di un danno per l’erario – aspetto evidenziato dalla Commissione tributaria di Messina – assume piena rilevanza ai fini della non irrogazione della sanzione da parte dell’Ufficio, come sancito dall’art. 10 dello Statuto del contribuente (L. n. 212/2000) e dalle disposizioni in tema di sanzioni amministrative. Ma, come chiarito in precedenza, nel caso affrontato dalla sentenza in esame non siamo di fronte ad una violazione formale8, bensì ad una viola-

5 Così Cass., 23 agosto 2001, n. 11233. Sul tema si veda altresì la recente pronuncia della Cassazione 28 novembre 2007, n. 24670, la quale ha precisato che l’incertezza oggettiva va colta non nella “disposizione” ma nella portata della “norma”, intesa quale significato attribuibile alla disposizione. L’incertezza normativa è una situazione oggettiva che è giuridicamente rilevante solo in quanto riferita ai giudici (anche quello di legittimità) e non ai contribuenti o agli Uffici. 6 Cfr. Cass., 28 novembre 2007, n. 24670. 7 Ciò a prescindere dal fatto che le

pronunce di merito favorevoli al contribuente sono successive rispetto alla data in cui è stato posto in essere il comportamento. 8 Anche ove si affermasse che tale violazione sarebbe formale essa sarebbe comunque sanzionabile, in quanto arreca un impedimento all’esercizio dell’azione accertativa dell’amministrazione. L’obbligo di presentazione del modello Cvs, infatti, nasce «al fine di assicurare una corretta applicazione delle disposizioni in materia di agevolazioni per gli investimenti nelle aree svantaggiate di cui all’articolo 8 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e successive modifica-


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zione sostanziale, in quanto comporta un omesso versamento. Conclusioni Ci sembra che la soluzione accolta dai giudici messinesi, seppur censurabile per i predetti motivi, risponda a criteri equitativi atteso che in essa si intravede l’intento di perseguire fini di “giustizia sostanziale”. Può, infatti, al limite, ritenersi ragionevole che, per tutelare gli interessi pubblici, da una mera violazione formale, si faccia comunque discendere la perdita dell’agevolazione, pur essendosi verificati tutti i presupposti sostanziali. Ma consentire l’irrogazione delle sanzioni amministrative connesse alla decadenza dal contributo, è una conseguenza che appare sproporzionata soprattutto se si tiene a mente che la presentazione del modello non era parte integrante della fattispecie, come prevista dalla legge n. 388/2000, né può esserlo diventata successivamente in virtù delle disposizioni contenute nell’art. 62, della L. n. 289/2002, altrimenti quest’ultima norma sarebbe stata palesemente retroattiva. Le sanzioni per indebita compensazione dovrebbero trovare applicazione solo ove si dimostri che, oltre al mancato adempimento “formale”, non sussistono i presupposti sostanziali per fruire dell’agevolazione. Non va dimenticato, peraltro, che il prevalente orientamento dei giudici di merito, e in particolare della Commissione tributaria di Messina,

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precedente all’intervento della Consulta, affermava l’illegittimità degli avvisi di recupero del credito d’imposta, sul presupposto che l’invio del modello Cvs non rappresentasse un elemento costitutivo della fattispecie agevolativa e valorizzando il profilo dell’affidamento del contribuente al corpo normativo. In questa linea di pensiero, l’esistenza dei presupposti sostanziali previsti dalla legge in vigore nel momento in cui è stato effettuato l’investimento assumeva autonoma e principale rilevanza ai fini della spettanza dell’agevolazione. La presentazione del modello Cvs rappresentava una previsione di carattere procedimentale. Pertanto, la soluzione prospettata dai giudice messinesi, al di là del fatto che non si coglie con precisione se si sia stata dichiarata l’illegittimità della pretesa sanzionatoria o la mera disapplicazione delle sanzioni, sembra altresì rappresentare una comprensibile reazione al fatto di dover “subire” la pronuncia della Consulta. Bisogna, comunque, ammettere che la legittimità dell’irrogazione delle sanzioni connesse al recupero del credito d’imposta per tardivo invio del modello Cvs e l’eventuale possibilità di disapplicazione delle sanzioni da parte del giudice rappresentano questioni di difficile soluzione. E se ciò è vero in tale contesto trovano spazio e ragione anche decisioni non perfettamente in linea con il tenore normativo, ma certamente attente ai profili di giustizia sostanziale.

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. I, 20 settembre 2007, n. 69 Presidente: Paracampo - Relatore: Lancieri Esenzioni e agevolazioni - Credito d’imposta Investimenti nelle aree svantaggiate - Cessione d’azienda - Trasferimento del credito - Configurabilità (L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 8) Nel caso di cessione (o di conferimento) d’azienda, il beneficio per gli investimenti goduto dalla cedente ai sensi e per gli effetti dell’art. 8, L. n. 388/2000 può continuare ad essere goduto dalla cessionaria, purché il bene conservi la destinazione che aveva nella struttura originaria.

zioni, nonché di favorire la prevenzione di comportamenti elusivi, di acquisire all’amministrazione i dati necessari per adeguati monitoraggi e pianificazioni dei flussi di spesa, occorrenti per assicurare pieni uti-

Svolgimento del processo Con atto notificato in data [...] l’Agenzia delle Entrate [...] – sulle risultanze del Pvc redatto il [...] a seguito di verifica da parte di funzionari dello stesso Ufficio – recuperava il credito d’imposta di complessivi [...], di cui la [...] S.r.l. aveva usufruito in compensazione in base all’art. 8 della legge n. 388/2000, sulle agevolazioni agli investimenti nelle aree svantaggiate. Motivi del recupero erano l’intervenuta decadenza del diritto alla fruizione dell’agevolazione e la revoca totale del credito per inosservanza di

lizzi dei contributi, attribuiti nella forma di crediti di imposta». Sul tema della sanzionabilità delle violazioni formali cfr. DEL FEDERICO, Statuto del contribuente, illecito tributario e violazioni formali, in Rass. Trib.,

2003, 855 ss.; MICELI, Le violazioni meramente formali, in Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Fantozzi-Fedele, Milano, 2005, 583 ss.


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adempimenti necessari ai fini dell’agevolazione stessa. Quanto alla decadenza, rilevava l’Ufficio che pur essendo la società acquirente subentrata nelle posizioni debitorie e creditorie della ditta individuale [...] per effetto del contratto di cessione d’azienda con questa stipulato, essa non poteva fruire del credito d’imposta di [...] maturato dalla suddetta ditta individuale sia per la natura soggettiva di tale credito, che matura in capo a chi effettua l’investimento, sia perché la società – nel modello Cvs di richiesta dell’agevolazione – aveva indicato soltanto l’investimento di [...] da essa effettuato senza riportare alcuna indicazione dell’investimento effettuato dalla ditta individuale cedente. Pertanto, alla società poteva spettare soltanto il credito d’imposta relativo al solo investimento indicato nel suddetto modello Cvs. Quanto alla revoca totale, poi, l’Ufficio rilevava che sulle fatture relative agli investimenti agevolati non erano riportati i dati dei modelli F24 nei quali risultava effettuata la compensazione. Inoltre, l’Ufficio applicava la sanzione di [...] sulle somme d’imposta di [...] compensate, rinviando all’Inps l’irrogazione della sanzione sul residuo importo di [...] compensato in F24 a favore di tale istituto. La società ricorreva avverso l’avviso di recupero ritenendolo in contrasto sia con le finalità della legge istitutiva del credito d’imposta volta ad agevolare gli investimenti sia della stessa circolare n. 38/E la quale specificamente prevede che l’impresa non decade dall’agevolazione qualora trasferisca i beni agevolati per cessione o dismissione del ramo d’azienda purché risulti comunque soddisfatta la destinazione del bene alla struttura produttiva originaria. Quanto, poi, alla mancata indicazione nel modello Cvs redatto e presentato dalla società anche dei beni agevolati provenienti dalla ditta individuale cedente, la società rileva che ciò non è previsto da alcuna norma o istruzione della amministrazione finanziaria. Quanto alla omessa formalità della indicazione dei dati del modello F24 sulle fatture dei beni agevolati, la società evidenziava che tale incombenza non era richiesta dalla norma istitutiva del credito d’imposta ma soltanto da una circolare esplicativa e che, comunque, tale omissione era soltanto limitata alla indicazione del mese di pagamento. Il che era giustificato dal fatto che, riferendosi a più fatture, era difficile quantificare il credito scaturito da ciascuna fattura e utilizzato con più versamenti.

La società, pertanto, chiedeva l’annullamento dell’avviso di recupero e la legittimità della fruizione del credito d’imposta richiesto. Chiedeva, altresì la sospensione degli effetti dell’atto. L’Ufficio si costituiva in giudizio presentando controdeduzioni con le quali chiedeva che fosse rilevata l’inammissibilità del ricorso non riportando lo stesso la indicazione della Commissione tributaria provinciale adita, in violazione dell’art. 18, comma 2, D.Lgs. n. 546/92 e, qualora copia del ricorso fosse stata depositata presso la Commissione tributaria provinciale di Bari, per violazione dell’art. 22 dello stesso decreto, per difformità di tale copia dall’originale presentato all’Ufficio. L’Ufficio chiedeva anche la condanna del contribuente alle spese di giudizio. La Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. [...], all’udienza del [...], accoglieva la richiesta di sospensione degli effetti dell’atto e alla successiva udienza del [...], rigettate le eccezioni d’inammissibilità esposte dall’Ufficio, accoglieva il ricorso e compensava le spese di giudizio. Ritenevano, infatti, i primi giudici che, comunque, sulla copia del ricorso, sebbene scritta a mano, risultava l’indicazione della Commissione tributaria provinciale di Bari; inoltre, l’Ufficio non aveva esibito copia dell’originale in suo possesso, onde non era possibile affermare la difformità lamentata. Nel merito, poi, i primi giudici ritenevano pienamente fondate tutte le ragioni portate dal ricorrente a sostegno del ricorso. L’Agenzia delle Entrate - Ufficio di [...] ha impugnato la sentenza con ricorso a questa Commissione tributaria regionale. In via preliminare l’Ufficio ribadisce la richiesta di inammissibilità del ricorso introduttivo per mancanza di indicazione della Commissione adita e per difformità fra l’originale e la copia del ricorso secondo quanto risultante da copia del ricorso in suo possesso che l’Ufficio afferma di aver depositato già presso la Commissione provinciale e che afferma di depositare anche in questa sede. Anche sul merito l’Ufficio insiste sul carattere soggettivo dell’agevolazione che, pertanto, non poteva spettare alla società cessionaria: insiste, poi, anche sulla mancanza di indicazioni nel mod. Cvs della società degli investimenti acquisiti dalla cedente e sulla mancata indicazione sulle fatture dei dati relativi al mese di pagamento dei modelli F24. Sostiene l’Ufficio, infatti, che i primi giudici han-


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no travisato la ratio e la logica della norma agevolativa e che essi – considerandole mere irregolarità formali – non hanno tenuto nel debito conto le finalità di controllo e di impedimento del ripetuto utilizzo del credito cui le indicazioni degli investimenti nel mod. Cvs e della data di pagamento del modello F24 sulle fatture sono preordinate. L’Ufficio, pertanto, chiede che sia dichiarata la nullità della sentenza e accolto l’appello con condanna dell’appellata al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. La società appellata ha depositato brevi controdeduzioni a sostegno della fondatezza della sentenza di primo grado con cui ribadisce che la cessione di azienda non fa venir meno il beneficio agevolativo e che i restanti rilievi dell’Ufficio sono del tutto formali e non inficiano il beneficio maturato. L’appellata chiede, pertanto, la conferma della sentenza e la condanna dell’Ufficio alla rifusione, delle spese di causa. Le parti sono state regolarmente avvisate. L’appellante ha chiesto la trattazione del ricorso in pubblica udienza delegandovi [...] che è presente alla discussione. Nessuno è comparso per la società. Motivi della decisione L’appello dell’Ufficio è infondato e va, pertanto, rigettato. Va preliminarmente rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso perché: a) nella copia depositata presso la Comm. trib. prov. è riportata – sebbene aggiunta a mano – l’indicazione della Commissione tributaria provinciale di Bari; b) non risulta depositata agli atti di causa – nonostante che l’Ufficio affermi di averlo fatto sia presso la Comm. trib. prov. che presso questa Commissione – copia dell’originale del ricorso presentato all’Ufficio. Pertanto non è possibile affermare la non conformità della copia all’originale dell’atto; c) comunque, il giudizio è stato correttamente incardinato e la costituzione in giudizio dell’Ufficio convenuto dimostra la regolarità della costituzione del contraddittorio. Va rigettata anche la richiesta di riforma della sentenza di primo grado poiché le motivazioni addotte dall’appellante – sebbene di qualche interesse – non sembrano avere forza sufficiente a giustificare la negazione della misura agevolativa. Non si ritiene, infatti, doversi affermare la decadenza dell’agevolazione per effetto del trasferi-

mento ad altra impresa del credito d’imposta a seguito di cessione d’azienda. L’affermazione dell’Ufficio secondo cui il credito d’imposta di cui alla suddetta norma ha carattere soggettivo nel senso che può essere goduto soltanto dal soggetto che ha effettuato l’investimento non appare risolutiva al fine della revoca di detto credito allorché l’impresa beneficiaria sia oggetto di cessione o conferimento. Infatti, innanzitutto, l’art. 8 della legge n. 388/ 2000 non contempla la suesposta fattispecie fra le cause di decadenza. In secondo luogo la suddetta affermazione dell’Ufficio è in netto contrasto con il pensiero della stessa amministrazione finanziaria la cui circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 38/E del 9 maggio 2002, al punto 10.1, affronta il caso specifico concludendo con l’affermare che «l’operazione di cessione o conferimento dell’azienda non contrasta con le finalità di cui all’art. 8 della legge n. 388 del 2000 [...] nella misura in cui risulti comunque soddisfatta la destinazione del bene alla struttura produttiva originaria». Se, dunque, la circolare suddetta si occupa di cessione o conferimento d’azienda non v’è dubbio che tale azienda cambia la sua titolarità sia che rimanga un’impresa individuale sia che confluisca in un’impresa collettiva. Dunque, il requisito della soggettività reclamato dall’Ufficio non ha evidentemente carattere assoluto. Inoltre, la formulazione della circolare e del suo periodo conclusivo, in definitiva, confermano che, quand’anche l’azienda beneficiaria fosse ceduta o conferita, se gli investimenti per i quali essa ha fatto domanda di credito d’imposta continuano a far parte ed esplicano la funzione alla quale erano destinati nell’ambito di quell’universum che – pur inserito in un’altra realtà d’impresa – continua comunque ad esistere e ad operare, il credito d’imposta continua a spettarle. Va qui solo aggiunto che se – come è del tutto evidente – tale spettanza non può essere più vantata dalla impresa ceduta o conferita (la quale non ha più una sua individualità giuridica) non può che concludersi che quel credito potrà essere vantato dal soggetto giuridico che ha acquistato o al quale è stata conferita l’impresa beneficiaria. Non sembra, invece, aver pregio la citazione della risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 179 del 15 settembre 2003 nella quale la fattispecie considerata è del tutto diversa da quella qui all’esame trattandosi di una impresa che, trasferita a seguito di atto di donazione indivisa da parte del padre a favore dei due figli, ha dato vita ad una società.


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Dunque, il credito d’imposta sorto a favore del padre per investimenti fatti nella sua impresa individuale è giunto ad un soggetto diverso, cioè la società, attraverso la donazione indivisa ai figli in virtù della quale è stata costituita la società. Il momento della donazione indivisa ai figli, dunque, fa rientrare tale fattispecie in quella di dismissione o cessione a terzi dei beni o di loro destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa, di cui al comma 7 dell’art. 8 della legge n. 388/2000 che prevede, in tali casi la revoca del beneficio quando essi avvengano prima dei cinque anni dall’effettuazione degli investimenti. La stessa risoluzione, invece, afferma che il trasferimento della titolarità del bonus (e ciò nega – come già visto – il requisito della soggettività in senso assoluto) si realizza unicamente nei casi in cui specifiche norme giuridiche prevedono, in seguito al verificarsi dell’operazione, una confusione di diritti e obblighi dei diversi soggetti giuridici interessati, quale avviene ad esempio nella fusione, nella successione per morte dell’imprenditore individuale, nella scissione. Negli stessi termini si pronuncia la risoluzione 25 giugno 2007, n. 144/E per il credito d’imposta relativo a società confluite per fusione in un’altra società in «una situazione di perfetta continuità tra i soggetti che vi partecipano». Non si vede, dunque, quale differenza vi sia fra le ipotesi su indicate e la cessione di un’azienda individuale ad una società che svolge la stessa attività dell’azienda acquistata, poiché anche in questo caso (da notare che la circolare n. 38/E del 2002 indica specificamente il caso di cessione d’azienda) si realizza quella confusione di diritti e obblighi dei soggetti giuridici interessati e la situazione di perfetta continuità tra i soggetti che vi partecipano così come indicato dalle risoluzioni sopra indicate. Infatti, nel caso di specie risulta dagli atti di causa che socio e rappresentante legale della società

[...] S.r.l. è lo stesso [...] titolare dell’unica impresa individuale omonima oggetto della cessione d’azienda. Risulta, inoltre, dai modelli Cvs della cedente e della cessionaria che entrambe le aziende hanno lo stesso codice di attività [...] e, dunque, sono finalizzate allo svolgimento della stessa attività di costruzioni edili. Il che induce a ritenere senza ombra di dubbio che l’investimento agevolato della cedente abbia trovato nella cessionaria la medesima destinazione cui era destinato nell’ azienda ceduta. Risulta, infine, dalla situazione patrimoniale allegata all’atto di cessione che il trasferimento di tutte le attività e passività dell’azienda individuale ha compiutamente realizzato – al pari di una fusione – quella confusione di diritti e obblighi dei diversi soggetti giuridici interessati e la perfetta continuità dell’azione della società cessionaria rispetto all’azienda acquistata. Vanno rigettate anche le eccezioni relative alla mancanza di indicazioni nel mod. Cvs presentato dalla società degli investimenti acquisiti dalla cedente e alla mancata indicazione sulle fatture dei dati relativi al mese di pagamento dei modelli F24. Anche a tale proposito, infatti, la sentenza dei primi giudici appare condivisibile. La legittima preoccupazione dell’Ufficio circa le finalità di controllo alle quali quelle indicazioni sono preordinate non ha impedito, nel caso di specie, che i verificatori potessero agevolmente controllare la correttezza sostanziale dell’utilizzo dei crediti d’imposta richiesti. In tale ottica, dunque, la mancanza delle suddette indicazioni si è rivelata esclusivamente formale poiché le marginali omissioni del contribuente non hanno causato alcun utilizzo anomalo dell’agevolazione. Trattandosi d’interpretazione normativa si ritiene sussistano sufficienti motivi per compensare le spese di giudizio.

Nota

secondo periodo di imposta successivo a quello della sua acquisizione o ultimazione ovvero viene ceduto entro il quinto periodo di imposta successivo a quello della sua entrata in funzione è necessario procedere alla rideterminazione del beneficio con la conseguente esclusione dagli investimenti agevolati del costo del bene stesso. La norma, in verità, come in più occasioni la stessa amministrazione finanziaria è intervenuta a chiarire, più che giustificare una ricostruzione del beneficio in termini soggettivi, ha una chiara finalità antielusiva: essa, infatti, mira a «contra-

La ricostruzione proposta dall’Ufficio che, per giustificare il recupero del credito d’imposta di cui all’art. 8, L n. 388 del 2000, nei confronti della società cessionaria dell’immobile agevolato, ha sostenuto la natura soggettiva del beneficio citato, non ha convinto i giudici tributari. Essa, secondo l’organo finanziario, trova il suo fondamento nella previsione del comma 7 dell’art. 8 cit. ai sensi della quale se il bene oggetto dell’agevolazione non entra in funzione entro il


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stare la cessione dei beni oggetto della medesima agevolazione, nel presupposto che la successiva cessione del bene che ha dato origine al beneficio sia motivata da finalità elusive». Si è, pertanto, ritenuto che «l’impresa non decada automaticamente dall’agevolazione qualora, in un contesto più generale di riorganizzazione aziendale, trasferisca i beni agevolati in occasione della cessione o dismissione del ramo d’azienda di cui essi fanno parte, non configurandosi in tal caso profili di elusività dell’operazione» (così circ. 9 maggio 2002, n. 38/E, punto n. 10.1, in Boll. Trib., 2002, 766; si vedano altresì circ. 16 novembre 2000, n. 207/E e circ. 17 ottobre 2001, n. 90/E, tutte in I quattro codici della riforma tributaria Big). Nell’esame delle singole fattispecie concrete poste alla sua attenzione, l’amministrazione ha sempre operato una valutazione casistica estremamente puntuale volta ad accertare le ragioni delle scelte imprenditoriali. Solo ove il mancato utilizzo del bene sia l’ultimo di una concatenazione di atti escogitata proprio al fine di godere indebitamente dell’agevolazione, si giustifica l’applicazione della disposizione citata che mira a colpire operazioni potenzialmente elusive. Nella controversia portata alla attenzione della commissione pugliese un’impresa individuale di costruzioni, titolare di un credito di imposta ex art. 8 cit., aveva ceduto il complesso aziendale ad una società esercente la medesima attività di costruzioni; la società cessionaria, proprio in considerazione della piana continuazione nell’utilizzo del bene nell’attività produttiva, aveva proseguito

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nell’utilizzazione dell’agevolazione ottenuta e già in parte goduta dall’azienda ceduta. Di qui la notifica dell’avviso di recupero da parte dell’Ufficio finanziario che, invece, ha ritenuto indebita la fruizione del credito da parte della cessionaria perché il beneficio avrebbe natura soggettiva e, quindi, può essere utilizzato esclusivamente dal soggetto che originariamente lo ha richiesto ed ottenuto. Diverso l’avviso dei giudici che hanno osservato che la cessione del complesso aziendale non rientra tra le cause di decadenza del beneficio normativamente previste e che non hanno mancato di richiamare la posizione dell’amministrazione finanziaria manifestata nelle circolari più sopra richiamate laddove è stato chiarito che «l’operazione di cessione o conferimento dell’azienda non contrasta con le finalità di cui all’art. 8 della legge n. 388 del 2000 [...] nella misura in cui risulti comunque soddisfatta la destinazione del bene alla struttura produttiva originaria». La confusione di diritti e obblighi dei soggetti interessati e la situazione di perfetta continuità tra gli stessi nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, osservano i giudici pugliesi, giustificano la prosecuzione dell’utilizzo del credito da parte della società cessionaria, a conferma della natura oggettiva (e non soggettiva come vorrebbe l’Ufficio) del beneficio che è volto ad incentivare nuovi investimenti produttivi nelle zone del Mezzogiorno (in termini analoghi, anche se relativamente ad una diversa fattispecie agevolativa, si v. Comm. trib. prov. Firenze, 13 settembre 2006, n. 163, in questa rivista, 2007, 1, 33).

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. VII, 25 ottobre 2007, n. 21 Presidente: Logorio - Relatore: Venneri Esenzioni e agevolazioni - Credito d’imposta per l’incremento dell’occupazione - Atto positivo di riconoscimento dell’amministrazione - Decorso di trenta giorni dalla presentazione dell’istanza Revoca del beneficio - Violazione del legittimo affidamento - Illegittimità della revoca (L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 4; D.M. 3 agosto 1998, n. 311; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10) In tema di credito d’imposta previsto dall’art. 4, comma 1, della L. 27 dicembre 1997, n. 449 a fini di incremento dell’occupazione e concesso a seguito di istanza al Centro di servizio di Pescara che, dopo le necessarie verifiche, comunica la concessione del beneficio alle im-

prese interessate, deve ritenersi che se, nel termine di trenta giorni dalla presentazione della istanza, il Centro non comunica all’impresa il diniego del beneficio fiscale, quest’ultimo deve ritenersi irrevocabile, essendosi formato nel contribuente un legittimo affidamento sul beneficio concessogli, degno di tutela ai sensi dell’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente. Svolgimento del processo Con sentenza n. 170/6/05 pronunciata il 20 maggio 2005 e depositata in segreteria il 28 luglio 2005, la Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. VI, ha accolto il ricorso proposto dal sig. G. P. nella sua qualità di legale rappresentante della C. N. F. P. S.r.l., esercente l’attività di cantie-


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ri navali per costruzioni non metalliche con sede in [...], avverso avviso di revoca del 21 luglio 2004 con il quale l’Agenzia delle Entrate, Centro operativo di Pescara, previo Pvc dell’Ufficio di Bari 2 del 10 giugno 2004, revocava il credito di imposta dell’importo di euro 5.164,57 (pari a lire 10.000.000) precedentemente autorizzato, in virtù della mancanza dei presupposti richiesti dall’art. 4 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 per fruire delle agevolazioni per nuove assunzioni effettuate da parte delle piccole e medie imprese, in quanto l’impresa svolgeva la propria attività in uno dei settori esclusi dall’agevolazione. La ricorrente deduceva in primo luogo che l’attività esercitata era stata sempre contraddistinta dallo stesso codice Istat (35112) regolarmente indicato nella richiesta di agevolazione e che l’amministrazione finanziaria aveva avuto tutto il tempo di valutare la stessa prima di emettere il relativo provvedimento di concessione del beneficio fiscale. Eccepiva inoltre la carenza di motivazione dovuta alla mancata allegazione, al provvedimento impugnato, degli atti dimostrativi delle presunte violazioni, e concludeva quindi per l’annullamento dell’avviso. I giudici della Commissione provinciale, accogliendo le tesi difensive della società ricorrente, hanno riconosciuto la carenza di motivazione del provvedimento di revoca che si fondava unicamente sul richiamo del Pvc dell’Ufficio di Bari 2, non sufficiente a giustificare e legittimare la non spettanza del credito prima riconosciuto. Anche in relazione al merito della controversia i giudici hanno ritenuto di condividere le argomentazioni difensive della società contribuente. Ha proposto appello l’Ufficio rilevando che l’atto impugnato non difetta di motivazione in quanto fondato su un precedente Pvc conosciuto dalla società perché regolarmente sottoscritto dal suo rappresentante legale. Insiste quindi l’Ufficio nel ritenere del tutto legittimo il suo operato, stante la mancanza dei requisiti per l’ottenimento delle agevolazioni di che trattasi e conclude per l’accoglimento dell’appello con riforma della sentenza impugnata. Si è costituita la società con atto depositato il 7 febbraio 2007 ribadendo sostanzialmente quanto già dedotto in primo grado e concludendo per il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata. Motivi della decisione Il ricorso in appello proposto dall’Agenzia delle

Entrate - Ufficio di Bari 2 non merita accoglimento e va rigettato come da dispositivo. La norma di cui al primo comma dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (rubricato “Incentivi alle piccole e medie imprese”) testualmente recita «Alle piccole e medie imprese [...] che dall’1 ottobre 1997 al 31 dicembre 2000 assumono nuovi dipendenti è concesso, a partire dal periodo d’imposta in corso all’1 gennaio 1998, un credito di imposta per un importo pari a 10 milioni di lire per il primo nuovo dipendente e a 8 milioni di lire per ciascuno dei successivi [...]». Le modalità di concessione di tale beneficio sono state successivamente disciplinate dal D.M. n. 311/98: da tale normativa si ricava che per il riconoscimento del credito di imposta le imprese dovevano presentare, entro 30 giorni dall’assunzione del dipendente, apposita istanza al Centro di servizio di Pescara che, previa verifica della completezza e della regolarità della domanda e soprattutto della sussistenza delle disponibilità finanziarie, procedeva poi a darne comunicazione ufficiale alle imprese ammesse al beneficio. Dalla lettura del testo normativo emerge inoltre che l’incompleta compilazione del modello di istanza costituisce causa di non riconoscimento del credito d’imposta se l’impresa, invitata a regolarizzare la richiesta, non ottempera entro quindici giorni dal ricevimento dell’invito. Al tempo stesso se la richiesta risulta priva di uno dei requisiti elencati, ovvero se risultano esauriti i fondi disponibili, il Centro di servizio comunica all’impresa interessata il diniego del beneficio. L’agevolazione di che trattasi è quindi subordinata ad un preventivo e rigoroso iter procedurale, dettagliatamente previsto e disciplinato dal D.M. n. 311/98, che presuppone un esame scrupoloso della domanda del contribuente, atta a conseguire l’espresso riconoscimento del beneficio da parte del Centro di servizio di Pescara. Nel caso di specie la C. N. F. P. S.r.l. ha presentato regolare istanza per l’ottenimento dell’agevolazione, compilando il relativo modello e indicando, quale codice di attività, il numero 35112 che corrisponde a “Cantieri navali per costruzioni non metalliche”. A seguito della ricezione della domanda, avvenuta in data 20 ottobre 1998, il Centro di servizio di Pescara ha richiesto una integrazione dell’istanza di agevolazione con nota del 12 maggio 1999, alla quale la ditta ha regolarmente dato riscontro. Come innanzi rammentato, la norma dell’art. 6, comma 4, del D.M. n. 311/98 sancisce espressamente che se la richiesta risulta priva di uno dei requisiti previsti dalla normativa vigente, ovvero


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se risultano esauriti i fondi disponibili, il Centro di servizio comunica all’impresa il diniego del beneficio entro il termine di trenta giorni dal ricevimento della richiesta. Con nota del 28 dicembre 1999, invece, il Centro di servizio di Pescara concedeva all’odierna appellata il credito di imposta di lire 10.000.000 «[...] sulla base dei dati dichiarati nell’istanza, e, fatti salvi i successivi riscontri di merito [...]»: da quanto innanzi si evince che, pur garantendosi un successivo ed eventuale esame del merito della richiesta, il Centro di Pescara aveva sottoposto a verifica quanto riportato nel modulo di richiesta, avendo avuto tutto il tempo per farlo al punto che, dopo il primo controllo dell’istanza, aveva ritenuto di dover richiedere un’integrazione alla stessa (si veda la nota del 12 maggio 1999). Successivamente l’agevolazione è stata concessa e solo dopo oltre tre anni l’amministrazione finanziaria ha rilevato (si veda processo verbale del 10 giugno 2004 dell’Agenzia delle Entrate - Ufficio di Bari 2) che la ditta era incorsa in una causa di revoca totale del credito, poiché l’attività d’impresa rientrava in uno dei settori esclusi dall’agevolazione. Il comportamento della società appare tuttavia del tutto puntuale in quanto la stessa non ha contravvenuto ad alcuna delle norme che disciplinano la procedura di richiesta dell’agevolazione di che trattasi. L’operato dell’amministrazione finanziaria invece ha indotto il formarsi, in capo alla contribuente, di un legittimo affidamento sull’agevolazione concessale, come tale degno di tutela ai sensi dell’art. 10, commi primo e secondo, della legge n. 212 del 2000 (cd. Statuto del contribuente): a tal

proposito la Suprema Corte ha riconosciuto «[...] situazione tutelabile quella caratterizzata: [...] dalla buona fede del contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall’assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo [...]» (Cass. civ., sez. V, 10 dicembre 2002, n. 17576). Non va dimenticato inoltre che il rispetto dei diritti acquisiti è uno dei principi generali del diritto tutelati dall’ordinamento giuridico nazionale e comunitario. Per quanto concerne infine la motivazione dell’atto impugnato, non si ritiene di condividere le conclusioni cui sono pervenuti i primi giudici in relazione alla presunta carenza di motivazione: la giurisprudenza di legittimità – anche successiva all’entrata in vigore della legge n. 212/2000 (cd. Statuto dei diritti del contribuente) – è infatti da tempo concorde nel ritenere che l’obbligo di motivazione è soddisfatto quando l’amministrazione abbia posto in grado il contribuente di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali (si veda per tutte Cass. civ., sez. V, 28 gennaio 2002, n. 1034). Nel caso di specie tale presupposto è in re ipsa poiché l’avviso di revoca del 21 luglio 2004 richiama il Pvc dell’Agenzia delle Entrate - Ufficio di Bari 2 redatto in data 10 giugno 2004 alla presenza del sig. P. G., quale rappresentante legale della società, e rilasciato in copia allo stesso dopo essere stato da lui regolarmente sottoscritto (Cass. civ., sez. V, 25 maggio 2001, n. 7149; Cass. civ., sez. V, 24 luglio 2002, n. 10817). Si ritiene che sussistano giusti motivi legati alla complessità della materia trattata per compensare le spese del presente giudizio.

Nota

vale) espressamente escluso dalla misura agevolativa. A seguito della rilevata contestazione il Centro operativo di Pescara revocava l’agevolazione con un atto formale che veniva impugnato dall’impresa; questa, in particolare, lamentava di aver chiaramente indicato nella richiesta di agevolazione il settore produttivo di appartenenza (quello della cantieristica navale, appunto) e che l’amministrazione, nonostante ciò, aveva inizialmente adottato un atto positivo ingenerando così nella ricorrente la convinzione di poterne legittimamente fruire. Come noto, il collegato alla legge finanziaria per il 1998 ha introdotto una serie di crediti d’imposta per le piccole e medie imprese operanti nelle zone depresse del Paese. Questi, come i prece-

Le conclusioni raggiunte dai giudici di Bari sollevano più di una perplessità. La questione verte sull’agevolazione per le nuove assunzioni introdotta a favore delle piccole e medie imprese con la previsione dell’art. 4 della L. n. 449 del 1997. Nel caso di specie un’impresa operante nel settore della cantieristica navale aveva presento istanza per godere del citato beneficio e, ricevuto l’atto di riconoscimento dal Centro operativo di Pescara, ne aveva positivamente fruito. In un momento successivo, però, nell’ambito dei poteri di controllo normativamente attribuiti, l’Ufficio unico di Bari aveva rilevato che l’impresa svolgeva la propria attività in uno dei settori (quello della cantieristica na-


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denti del 1991, potevano essere fatti valere ai fini del versamento delle imposte dirette e dell’Iva anche per i periodi d’imposta successivi a quello in cui venivano concessi, ma, a differenza di quelli, non concorrevano alla formazione del reddito. In particolare, il credito d’imposta disciplinato dall’art. 4 cit. era collegato alle nuove assunzioni effettuate nel periodo 1 ottobre 1997-31 dicembre 2000 e veniva riconosciuto, a partire dal periodo d’imposta in corso all’1 gennaio 1998, nella misura di 10 milioni per il primo nuovo dipendente e di 8 milioni di lire per ciascuno dei successivi, con un tetto massimo di 60 milioni di lire annui per ciascuno dei tre periodi d’imposta successivi alla prima assunzione. Il procedimento di riconoscimento del beneficio prevedeva la presentazione di un’apposita richiesta da parte dell’aspirante beneficiario che doveva essere indirizzata al Centro di servizio delle imposte dirette e indirette di Pescara (titolare di una competenza esclusiva su tutto il territorio nazionale). Le richieste – secondo una procedura applicativa costante per la concessione di questo tipo di benefici – venivano ordinate secondo la data di spedizione in un elenco cronologico utilizzato dall’Ufficio ai fini del riconoscimento dell’agevolazione. Solo a seguito della comunicazione del riconoscimento del beneficio, l’impresa poteva utilizzare il credito ai fini dei versamenti in saldo e in acconto di Irpef, Irpeg ed Ilor, anche in compensazione. In questa prima fase, tuttavia, il controllo espletato dall’amministrazione finanziaria sulle istanze presentate ha un carattere meramente formale come dimostra la circostanza che un eventuale diniego può discendere solo dalla incompletezza della domanda o dalla mancanza dei fondi. La verifica della concreta sussistenza dei presupposti e delle condizioni fissate dalla legge è invece rinviata ad un momento successivo. L’art. 7 del regolamento attuativo (D.M. 3 agosto 1998, n. 311), infatti, prevede che «Il Ministero delle Finanze e le altre amministrazioni interessate dispongono, ciascuna per le materie di competenza, ispezioni anche a campione intese a verificare i presupposti e le condizioni fissate dalla legge per fruire delle agevolazioni. Gli esiti dei controlli saranno segnalati direttamente al Centro di servizio delle imposte dirette e indirette di Pescara per la revoca delle agevolazioni ai sensi dell’art. 8». Una simile procedura ricalca lo schema per il riconoscimento delle misure di incentivo e di agevolazione alle attività produttive cd. “automatico” (cfr. D.Lgs. n. 123/1998, art. 4) che in quest’ultimi anni è stato sempre più usato dal legislatore

nelle procedure relative alla concessione di agevolazioni quali i crediti di imposta o i bonus fiscali. L’atto di riconoscimento (che, in verità, si sostanzia nel mero inserimento del nominativo dell’istante in un elenco generale di soggetti ammessi al beneficio) è piuttosto lo strumento che consente all’amministrazione di effettuare una ripartizione dei fondi tra i vari richiedenti ammessi a fruire del credito, ma non è certo l’atto che attribuisce al contribuente la certezza di poter legittimamente fruire del beneficio richiesto. Tanto chiarito, appare evidente l’equivoco in cui è incorsa la Commissione tributaria regionale laddove precisa che «l’agevolazione è subordinata ad un preventivo e rigoroso iter procedurale, dettagliatamente previsto e disciplinato dal D.M. n. 311/1998, che presuppone un esame scrupoloso della domanda atta a conseguire l’espresso riconoscimento del beneficio da parte del Centro di servizio di Pescara». In questa fase iniziale, come si è segnalato, il controllo espletato dall’Ufficio è di mera regolarità formale e nell’ambito del suo svolgimento lo stesso non dispone degli strumenti idonei per entrare nel merito della domanda, conformemente, del resto, con la finalità intrinseca della procedura che ha lo scopo di comprimere al massimo i tempi dell’attribuzione del beneficio per consentirne una pronta e veloce fruizione da parte dell’istante, comunque subordinata all’espletamento degli accertamenti volti a verificare l’effettiva sussistenza delle condizioni richieste dalla legge. Nel caso in esame, quindi, l’esigenza di tutelare l’affidamento dell’impresa beneficiaria non si poneva proprio perché il comportamento dell’Ufficio (sostanziatosi nell’atto di riconoscimento del credito d’imposta richiesto) non era idoneo a ingenerare nel destinatario alcuna legittima aspettativa, considerato che non aveva fatto maturare posizioni giuridiche soggettive in testa allo stesso. Tanto più se si pone mente alla circostanza che il comportamento tenuto dal contribuente era contrario alla legge visto che egli aveva presentato l’istanza nonostante appartenesse ad un settore di produzione espressamente escluso. Il presupposto per il corretto avvio della procedura di riconoscimento di queste misure agevolative è, ovviamente, una scelta consapevole del contribuente che, nel momento in cui presenta la richiesta, implicitamente attesta di essere in possesso dei requisiti di legge e di non incorrere in alcuna delle esclusioni normativamente fissate. La procedura automatica è l’espressione di quella cooperazione tra fisco e contribuente (auspicata da decenni e codificata dallo Statuto del contribuente) che, se


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da una parte vuole un fisco equo e coerente, dall’altra, però, esige che anche il contribuente ponga in essere comportamenti virtuosi. Questo, però, nel caso di specie non si è verificato: il contribuente, una piccola o media impresa operante nel settore della cantieristica navale ha presentato istanza per il riconoscimento del beneficio de quo nonostante il suo settore di attività fosse tra quelli esclusi espressamente dal beneficio in contestazione: in conformità alla disciplina comunitaria, infatti, il regolamento di attuazione precisava che restano fuori dal campo di applicazione del beneficio le imprese che operano nei

settori di cui «alla comunicazione della Commissione delle Comunità europee 96/C 68/06 e cioè nei settori disciplinati dal Trattato CECA, ovvero nel settore delle costruzioni navali, dei trasporti, dell’agricoltura e delle pesca». Di fronte al chiaro e inequivocabile tenore letterale della norma appare improprio richiamarsi ad una violazione dell’affidamento (lamentata dal contribuente e sanzionata dal giudice con l’annullamento del provvedimento di revoca) che presuppone una diligenza e una buona fede da parte del privato che nel caso di specie non si possono certo ravvisare.


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ICI ESENZIONE ICI, PROFILO SOGGETTIVO E UTILIZZO DEL FABBRICATO 13

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. IX, 22 maggio 2007, n. 57 Presidente: Morea - Relatore: Lancieri Ici - Fabbricato utilizzato per lo svolgimento di attività sportiva - Esenzione ex art. 7, comma 1 Requisito soggettivo - Utilizzazione da parte di un ente non commerciale - Esclusione della necessità che l’utilizzatore sia anche proprietario dell’immobile (D.Lgs. n. 504/1992, art. 7, comma 1, lett. i; D.Lgs. n. 446/1997, art. 59, comma 1, lett. c) Ai fini dell’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i, D.Lgs. n. 504/1992, è sufficiente l’utilizzazione dell’immobile per attività sportiva da parte di un ente non commerciale locatario, risultando irrilevante sia la destinazione catastale dell’immobile, sia la coincidenza nel medesimo soggetto della proprietà/possesso e dell’utilizzazione del fabbricato per una delle attività rientranti nell’esenzione. Svolgimento del processo Con distinti avvisi relativi agli anni 1998 e 1999, entrambi inviati con raccomandata con avviso di ricevimento, il primo in data 25 ottobre 2001 e il secondo in data 25 novembre 2001, il Comune di [...] liquidava a carico della [...] di D. T. M. V. & C. S.n.c. in liquidazione, l’Ici rispettiva di lire 2.219.000 e lire 2.486.000 in relazione all’unità immobiliare [...], alla quale era stata attribuita la categoria catastale D/6 rispetto a quella C/2, classe 2a dichiarata dalla società per l’anno 1993. Avverso i suddetti avvisi la società proponeva unico ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Bari con cui ne eccepiva la nullità per violazione degli artt. 137, 148 e 149 c.p.c. in relazione alla notifica degli atti nonché degli artt. 2 e 14 della legge n. 890/1982 in relazione alla notifica degli atti giudiziari e tributari a mezzo posta. Nel merito la ricorrente eccepiva la nullità dei suddetti avvisi anche per carenza assoluta di motivazione in violazione dell’art. 11, comma 2, D.Lgs. n. 504/1992, dell’art. 7 della legge n. 212/2000 nonché dell’art. 3 della legge n. 241/1990. Con specifico riferimento all’anno 1998 la società sosteneva, inoltre, l’illegittimità dell’avviso di li-

quidazione poiché basato su di una variazione di rendita in atti dal 23 ottobre 1998, in violazione dell’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 504/1992 per il quale gli effetti delle variazioni di rendita decorrono dall’anno successivo a quello nel quale esse sono avvenute. La ricorrente lamentava, ancora, la nullità degli avvisi di liquidazione poiché essi esplicavano efficacia retroattiva in violazione dell’art. 11 delle preleggi del c.c. In via subordinata la società richiedeva il riconoscimento, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs. n. 504/1992, dell’esenzione dal pagamento dell’imposta poiché la suddetta unità immobiliare era stata locata ad un’associazione sportiva no profit. II Comune di [...] si costituiva in giudizio con controdeduzioni che contestavano ciascun punto del ricorso. In particolare osservava il Comune che la notifica degli avvisi di liquidazione era stata fatta in ossequio al disposto dell’art. 11, comma 2, del D.Lgs. n. 504/1992 che prevede anche la modalità dell’invio a mezzo posta raccomandata con avviso di ricevimento; che l’avviso di liquidazione è stato debitamente motivato con l’indicazione degli stessi dati forniti dalla ricorrente in sede di dichiarazione dell’anno 1993 e di quelli attribuiti dall’Ute di Bari in relazione all’attribuzione della rendita definitiva; che la retroattività della liquidazione era espressamente consentita dall’art. 74 della legge n. 342 del 2000; che non era ammissibile la richiesta di esenzione in sede di ricorso in mancanza di una precedente dichiarazione di variazione in merito e in mancanza di un accatastamento in categoria C/4 (fabbricati e locali per esercizi sportivi). II Comune, pertanto, chiedeva l’integrale rigetto del ricorso, la conferma degli atti impugnati e la condanna della società alle spese di giudizio. All’udienza del 27 aprile 2004 la Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. IX, condividendo in tutto le tesi del Comune di [...], rigettava il ricorso della società e compensava le spese di giudizio. La società s’è gravata d’appello avverso la senten-


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za di primo grado per chiederne la riforma, con annullamento degli atti e liquidazione delle spese di giudizio. L’appellante insiste sull’illegittimità della notifica che, sebbene eseguita per posta, avrebbe dovuto rispettare le modalità imposte dagli artt. 2 e 14 della legge 20 novembre 1982, n. 890. Quanto alla motivazione la società eccepisce che la sentenza appare contraddittoria laddove dapprima afferma che nella formulazione degli avvisi di liquidazione il Comune non ha esercitato poteri discrezionali e poi sostiene che esso ha aggiornato i dati dichiarati con la rendita attribuita dall’Ute all’unità immobiliare oggetto della liquidazione. L’appellante, poi, insiste sulla irretroattività dell’applicazione della nuova rendita attribuita all’unità immobiliare sia in ossequio al già invocato art. 11 delle preleggi del Codice civile sia all’art. 3, comma 1 e 3 della legge n. 212/2000 circa la decorrenza dell’applicazione delle disposizioni tributarie. L’appellante lamenta ancora che i primi giudici non si sono pronunciati su di un punto essenziale del ricorso quale quello relativo alla decorrenza dell’applicabilità della rendita (conseguente alla variazione della stessa riportata in atti dal 23 ottobre 1998) che, essa sostiene dover partire dall’1 gennaio 1999. Tanto più che già in primo grado era stato precisato che pendeva ricorso presso la Comm. trib. prov. Bari per la riduzione della suddetta rendita, ricorso che è stato definito con verbale di conciliazione extragiudiziale del 17 maggio 2002 con cui l’Agenzia del Territorio ha ridotto la rendita in questione da lire 5.664.000 a lire 4.720.000. Quanto, infine, alla invocata esenzione dal pagamento dell’Ici l’appellante contesta la tesi del Comune poiché l’art. 7, comma 1, lett. i, D.Lgs. n. 504/1992 subordina detta esenzione non già al tipo di classamento dell’immobile bensì alla sua utilizzazione e inoltre perché il locatario è un’associazione sportiva no profit affiliata al Coni. L’appellante contesta anche che non sia stata data prova di tali assunti poiché nell’udienza di trattazione del ricorso ha dimostrato che per le annualità 1995-1997 si è già pronunciata in senso favorevole l’XI sezione della Comm. trib. prov. Bari con sentenza non impugnata e passata in giudicato in data 13 novembre 2004. Inoltre, l’appellante esibisce attestazione della suddetta affiliazione al Coni. II Comune appellato s’è costituito nel presente giudizio con controdeduzioni con le quali solleva l’eccezione di inammissibilità dell’appello poiché

lo stesso mancherebbe dei motivi specifici di impugnazione della motivazione della sentenza al fine di incrinarne il fondamento logico-giuridico e si limita a ribadire le lagnanze già proposte nel ricorso di primo grado alle quali la sentenza ha puntualmente risposto. Inoltre non v’è alcuna dimostrazione che il locale fosse destinato a palestra mancando il mutamento della destinazione del locale e che l’attività in esso svolta fosse priva di lucro. Infine, il Comune ritiene non confrontabile l’oggetto del ricorso con quello relativo agli anni precedenti poiché l’accoglimento e lo sgravio era soltanto parziale e si riferiva ad anni nei quali era avvenuto il cambio di destinazione dell’immobile. II Comune, dunque, chiede che sia confermata la sentenza di primo grado e rigettato l’appello, con vittoria di spese del presente giudizio. Le parti sono state regolarmente avvisate. L’appellante ha chiesto la discussione in pubblica udienza alla quale è presente il difensore dott. M. D. T. Per il Comune di [...] è presente la dott.ssa M. R. Motivi della decisione L’appello della società è fondato e va, pertanto, accolto. Va preliminarmente rigettata l’eccezione – sollevata dalla società – d’illegittimità della notifica così come effettuata per posta. Deve, infatti, ritenersi che con l’art. 11, comma 2 (secondo periodo), del D.Lgs. n. 504/1992 il legislatore – al fine di una maggiore semplificazione degli adempimenti da parte dei Comuni – abbia voluto introdurre un’ulteriore specifica modalità di notifica per gli atti relativi all’Ici, oltre a quelle previste dal codice di procedura civile e dagli artt. 2 e 14 della legge n. 890 del 1982, quest’ultima riferita specificamente alla notifica a mezzo posta degli atti giudiziari, amministrativi e tributari. Se, infatti, il legislatore avesse voluto fare riferimento esclusivamente alle modalità poste dalle suddette norme, le avrebbe richiamate specificamente. Risulta, invece, che la terminologia usata dal legislatore nel suddetto art. 11, comma 2 fa riferimento semplicemente alla raccomandata con avviso di ricevimento, mentre le norme del c.p.c. e della legge n. 890 del 1982 fanno riferimento ad una serie ben definita di modalità che gli ufficiali giudiziari, i messi comunali o i messi speciali autorizzati dall’amministrazione finanziaria devono porre in atto ai fini della validità della notificazione a mezzo posta. Inoltre, lo stesso art. 14, comma 2 (secondo periodo), legge n. 890/1982 fa espressamente salve


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le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi d’imposta. Infine, va altresì considerato che, comunque, l’atto ha raggiunto il suo scopo, tanto che la società ha potuto ricorrere in termini avverso gli atti di liquidazione. Deve, infatti, condividersi quanto affermato in proposito dalla Corte di Cassazione, sezioni unite, che con sentenza 5 ottobre 2004, n. 19854 ha ritenuto pienamente applicabile l’art. 156 c.p.c. anche agli atti di accertamento, liquidazione e riscossione in quanto la natura sostanziale di «mera provocatio ad opponendum» di tali atti non costituisce ostacolo insormontabile all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando, come nel caso di specie, vi sia un espresso richiamo nella disciplina tributaria. Ritiene, pertanto, la Corte di Cassazione che, pur in difetto di un espresso richiamo, l’applicazione delle norme sulla notificazione comporta, quale necessità logica, quella del regime delle nullità e quella sulle sanatorie, non essendovi alcun principio o ragione sistematica per ritenere che in materia di notificazione di atti di accertamento, pur regolata dal codice di procedura civile, viga un regime diverso. Va rigettata anche l’eccezione – sempre della società – di carenza di motivazione dell’atto in violazione dell’art. 11, comma 2, D.Lgs. n. 504/92 e dell’art. 7, legge n. 212/2000, che è assorbente dell’eccezione circa la irretroattività dell’applicabilità della rendita. Risulta, infatti, dagli atti di liquidazione l’indicazione delle differenze rilevate rispetto ai dati dichiarati dalla stessa società con riferimento all’immobile [...]. Il che ha messo in grado la società di ricorrere con dovizia di argomentazioni all’atto di liquidazione. E ciò a maggior ragione per il fatto che la società era a conoscenza di aver chiesto per tale immobile una variazione di classamento da C/2 a D/6. Va, del pari, rigettata l’eccezione – sollevata dal Comune di [...] – di inammissibilità dell’appello per omessa specificazione dei motivi dello stesso. A tanto, infatti, vale l’eccezione dell’appellante di carenza della motivazione della sentenza in quanto la stessa non s’è pronunciata sulla decorrenza della imposizione, lasciando che la stessa risalisse all’inizio del 1998 nonostante che la variazione del classamento da C/2 a D/6 risultasse in atti solo dal 23 ottobre 1998.

A tale proposito deve rilevarsi che l’art. 74, comma 1, della legge n. 342/2000 in materia di attribuzione o modificazione delle rendite catastali dispone che a partire dall’1 gennaio 2000 gli atti attributivi o modificativi delle rendite catastali sono efficaci solo a decorrere dalla loro notificazione. Il comma 3 dello stesso articolo, poi, dispone che per gli atti – adottati entro il 31 dicembre 1999 – che abbiano comportato attribuzione o modificazione di rendita, i soggetti attivi d’imposta provvedono alla liquidazione o accertamento sulla base della rendita catastale attribuita e che i relativi atti impositivi costituiscono anche atti di notificazione della predetta rendita. In definitiva, ciò significa che essendo stata la variazione adottata e riportata in atti il 23 ottobre 1998 la sua decorrenza non può comunque retrodatarsi rispetto a tale data poiché non è possibile che la modificazione della rendita sia stata notificata prima di tale data. Ne consegue che – salvo quanto sarà argomentato di seguito in materia di esenzione – nel caso di specie, ai sensi dell’art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 504/1992 il nuovo valore da assumere a base dell’imposta sarebbe dovuto essere quello determinabile in base alla rendita catastale a decorrere solo dall’1 gennaio 1999. Va, altresì, accolta la richiesta di esenzione dal pagamento dell’imposta poiché non ha pregio la tesi del Comune di [...] secondo cui tale esenzione sia subordinata al classamento dell’immobile, non essendovi alcuna previsione in tale senso nella lett. i dell’art. 7 del D.Lgs. n. 504/1992, nella cui fattispecie rientra l’immobile oggetto dell’atto di liquidazione. Inoltre, diversamente da quanto assunto dalla sentenza dei primi giudici e dal Comune di [...], risulta depositata agli atti di causa copia della planimetria dell’immobile presentata al Catasto da cui risulta la destinazione a palestra, nonché copia dell’attestato di affiliazione alla Federazione Lotta Pesi Judo e Karate da parte del locatario dell’immobile che, pertanto, può rientrare fra i soggetti che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, come richiesto dall’art. 7, comma 1, lett. i, D.Lgs. n. 504/1992. Trattandosi di interpretazione normativa la Commissione ritiene che sussistano sufficienti motivi per compensare integralmente fra le parti le spese di giudizio.


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Nota di Roberto Lenzu La decisione si inserisce nel dibattito giurisprudenziale, a tutt’oggi non sopito, circa l’estensione del perimetro di applicazione dell’esenzione in materia di Ici, in ragione del significato da attribuirsi al dato testuale contenuto nell’art. 7, comma 1, lett. i, D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504. In particolare, con riferimento al requisito soggettivo, l’orientamento costante della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale propende, in senso restrittivo, per ricondurre la verifica di detto requisito in capo al possessore, soggetto passivo e contestualmente utilizzatore dell’immobile agevolato, mentre secondo parte della giurisprudenza di merito è sufficiente la sussistenza del requisito in capo all’utilizzatore in quanto tale, risultando irrilevanti i profili relativi al soggetto passivo del tributo. Premessa Con la sentenza in rassegna sono trattate diverse questioni. Per la loro attualità e interesse, in questa sede si concentrerà l’attenzione sulla questione riguardante la disciplina dell’esenzione prevista dall’art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 5041. Nella concreta fattispecie la contribuente società XX S.n.c. (ente commerciale) impugna due avvisi di liquidazione notificati da un Comune nel 2001 con i quali quest’ultimo ha liquidato la maggior Ici per gli anni 1998-1999, sulla base di quanto dichiarato dallo stesso contribuente e delle risultanze catastali, ovvero del classamento e della rendita attribuiti dall’Agenzia del Territorio in data 23 ottobre 19982, su dichiarazione di variazione dello stesso contribuente. In punto trattatasi di unità immobiliare (“u.i.”) che veniva accatastata da detta Agenzia come D/63 a fronte della categoria C/44 denunciata prima del 1998 dal contribuente. Risulta che negli anni in questione

1 La norma in questione dispone: «Sono esenti dall’imposta [...] i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’articolo 87, comma 1, lettera c, [...] decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 [...], destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a, della legge 20 maggio 1985, n. 222 [...]».

detta u.i. era stata destinata allo svolgimento di attività sportive dal conduttore dell’immobile, diverso dal proprietario, che deteneva lo stessa u.i. in ragione di contratto di locazione5. Ricorrendo alla Commissione tributaria, il contribuente eccepiva tra l’altro l’applicazione dell’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs. n. 504/92. Mentre il giudice di prime cure rigetta il ricorso, la Comm. trib. reg. accoglie l’appello del contribuente, riconoscendo l’esenzione per il 1998 e il 1999. Il giudice barese così argomenta, tra l’altro, la sua decisione: «Va [...] accolta la richiesta di esenzione dal pagamento dell’imposta poiché non ha pregio la tesi [...] secondo cui tale esenzione sia subordinata al classamento dell’immobile, non essendovi alcuna previsione in tale senso nella lett. i dell’art. 7 del D.Lgs. n. 504/1992, nella cui fattispecie rientra l’immobile oggetto dell’atto di liquidazione. Inoltre, [...] risulta depositata agli atti di causa copia della planimetria dell’immobile presentata al Catasto da cui risulta la destinazione a palestra, nonché copia dell’attestato di affiliazione alla Federazione Lotta Pesi Judo e Karate da parte del locatario dell’immobile che, pertanto, può rientrare fra i soggetti che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, come richiesto dall’art. 7, comma 1, lett. i, D.Lgs. n. 504/1992». La questione dell’esenzione ai sensi dell’art. 7, comma1, lett. i, del D.Lgs. 504/92 Secondo la Comm. trib. reg. barese ai fini dell’esenzione in questione è sufficiente la destinazione dell’immobile ad attività sportiva (requisito oggettivo), da parte del ente non commerciale (requisito soggettivo) locatario (soggetto diverso dal proprietario) risultando irrilevante la formale destinazione catastale dell’immobile. Il giudice d’appello, sembrerebbe non attribuire nessuna rilevanza al difetto di coincidenza nel medesimo soggetto non commerciale della proprietà/posses-

2 Nulla si evince circa la notifica di detto classamento, la quale però sembrerebbe avvenuta visto che dalla sentenza in rassegna si apprende l’avvenuta impugnazione di detto classamento, in separato giudizio, avanti la Commissione tributaria. 3 Ai sensi dell’istruzione del 24 maggio 1942 del Ministero delle Finanze alla categoria D/6 corrispondono: «Fabbricati e locali per esercizi sportivi (semprechè per lo loro caratteristiche [...] abbiano fine di lucro)».

4 Ai sensi dell’istruzione di cui alla nota precedente e del D.M. 27 settembre 1991 alla categoria C/4 corrispondono: «Fabbricati e locali per esercizi sportivi (compresi quelli costruiti o adattati per tali speciali scopi e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni, se non hanno fine di lucro [...])». 5 Si presume quindi trattarsi di contratto a titolo oneroso.


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so e dell’utilizzazione del fabbricato per una delle attività tassativamente indicate nel citato art. 7, comma 1, lett. i (requisito soggettivo in capo al medesimo soggetto). Nessuna rilevanza sembrerebbe avere la natura giuridica del soggetto passivo. Né alcuna importanza sembra attribuita alla natura economico-commerciale dell’attività per lo svolgimento della quale è utilizzato o sfruttato il fabbricato. La sentenza, anche alla luce delle recenti disposizioni di legge6, desta perplessità a mente dell’orientamento consolidato della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale. Perplessità accentuate nella specie, laddove il proprietario ente commerciale concedendo in locazione il fabbricato ad un ente non commerciale, utilizza il fabbricato per uso locativo a titolo (si presume) oneroso non rientrante in nessuna delle attività tassative elencate nel citato art. 7. Il requisito soggettivo per l’esenzione Secondo il costante orientamento della Corte di Cassazione7: presupposto dell’Ici è il possesso di fabbricati, terreni agricoli e aree fabbricabili; soggetto passivo è il proprietario o il titolare di diritto reale di godimento su tali immobili; base im-

6 Nel corso del bienni 2005-2006, la disciplina in materia di esenzioni Ici di cui al citato art. 7 è stata, a più riprese, integrata da diverse disposizioni di legge. L’art. 7, comma 1, lett. i, del D.Lgs. n. 504/92 è stato integrato dall’art. 6 del D.L. 17 agosto 2005, n. 163 che recitava: «L’esenzione prevista dall’articolo 7, comma 1, lettera i, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, [...], si intende applicabile anche nei casi di immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura di cui all’articolo 16, primo comma, lettera b, della legge 20 maggio 1985, n. 222, pur svolte in forma commerciale se connesse a finalità di religione o di culto». Successivamente la citata norma veniva sostituita dall’art. 7 del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito nella L. n. 248/05 che recita: «2-bis. L’esenzione disposta dall’articolo 7, comma 1, lettera i, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse». Dall’1 gennaio 2006, con l’art. 1, comma 133, L. n. 266/05 al citato al comma 2-bis veniva aggiunto il seguente pe-

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ponibile è il valore di tali immobili. L’Ici, quindi, si configura come imposta diretta, patrimoniale e reale. Per la Corte di Cassazione «in relazione a tale configurazione vanno interpretate le ipotesi particolari di esenzione [...] tra le quali quella (recte quelle) dell’art. 7, comma 1, lett. i»8. Norma che in quanto disponente in merito ad esenzioni d’imposta, ha natura eccezionale di stretta interpretazione9. In altre parole il possesso dei tassativi requisiti richiesti dalla norma di esenzione va verificato in capo al soggetto passivo. Pertanto, la Corte ha costantemente ritenuto10 che, ai fini del riconoscimento dell’esenzione, il soggetto utilizzatore degli immobili di cui al citato articolo non solo deve essere qualificabile come ente non commerciale11 ma deve anche coincidere con il soggetto possessore del medesimo fabbricato a titolo di diritto di proprietà o diritto reale di godimento, ovvero l’utilizzatore deve coincidere con il soggetto passivo12. Tale orientamento ha trovato conferma in due recenti ordinanze13 della Corte costituzionale, chiamata ripetutamente a pronunciarsi circa la legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 1, lett. c, del D.Lgs. del 15 dicembre 1997, n. 44614.

riodo: «Con riferimento ad eventuali pagamenti effettuati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto non si fa comunque luogo a rimborsi e restituzioni d’imposta». Infine, l’art. 39, comma 1, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella L. 4 agosto 2006, n. 248, dispone: «All’articolo 7 del decreto legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, il comma 2-bis è sostituito dal seguente: “2-bis. L’esenzione disposta dall’articolo 7, comma 1, lettera i, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale”». In tal senso, per tutte, v. le sentenze della Cassazione del 22 ottobre 2003 (dep. l’8 marzo 2004), n. 4645 e del 17 giugno 2003 (dep. il 4 dicembre 2003), n. 18549. In tal senso si è espressa la Corte di legittimità con la citata sentenza del 4 dicembre 2003, n. 18549. Nel senso dell’eccezionalità delle disposizione di esenzione dall’Ici si cita per tutte Cass., sent. 23 giugno 2006 (dep. il 16 ottobre 2006), n. 22157. In tal senso Cass., sent. 26 ottobre

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2005, n. 20776 e Cass., sent. 8 marzo 2004, n. 4645. Il citato art. 7, comma 1, lett. i, dispone che deve trattarsi di soggetto di cui all’articolo 87, comma 1, lettera c, D.P.R. n. 917/1986. In punto, con sentenza del 15 giugno 2006 (dep. il 30 agosto 2006), n. 18838 la Cassazione ha avuto modo di argomentare che: «Gli immobili di proprietà di una società per azioni sono esclusi dall’esenzione dell’Ici prevista dall’art. 7, comma 1, lettera i, del D.Lgs. n. 504/1992 anche quando la società abbia l’obbligo statutario di destinare gli immobili posseduti a scopi sociali (nel caso di specie l’immobile era stato dato in comodato alle Acli che vi avevano collocato i propri uffici)». In tal senso anche Cass., sent. 20 maggio 2005, n. 10646 e Cass., sent. 4 marzo 2005 (dep. il 26 aprile 2005), n. 8640. In senso contrario si è espressa parte della giurisprudenza di merito. In punto la Corte costituzionale si è pronunciata con le identiche ordinanze del 6 dicembre 2006 (dep. il 19 dicembre 2006), n. 429 e del 10 gennaio 2007 (dep. il 26 gennaio 2007), n. 19. La citata norma dispone: «Con regolamento adottato a norma dell’ar-


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La questione di legittimità è stata sollevata dalla Corte di Cassazione15 in occasione di controversie16 tra un Comune emiliano e una società vertente sulla questione relativa alla necessità o meno della soggettività passiva in capo all’ente non commerciale utilizzatore del fabbricato oggetto della pretesa esenzione Ici17. La questione è stata sollevata allorché a fronte dell’orientamento circa la portata del requisito soggettivo, la difesa della contribuente aveva opposto l’art. 59, comma 1, lett. c, del D.Lgs. del 15 dicembre 1997, n. 446, il cui tenore letterale attribuendo al Comune la potestà regolamentare di circoscrivere l’esenzione de qua al possesso del duplice requisito soggettivo in capo all’ente no profit (soggettività passiva e utilizzazione del fabbricato), sembrerebbe imporre per forza di cose una lettura del citato art. 7, comma 1, lett. i, nel senso della non necessità per l’esenzione della soggettività passiva in capo all’ente non commerciale utilizzatore. Il giudice di legittimità ritenendo costituzionalmente orientata la propria consolidata lettura del citato articolo 7, ma d’altra parte non potendo fare a meno di rilevare il contrasto che tale orientamento incontra nel tenore letterale del citato art. 59, comma 1, lett. c, D.Lgs. n.446/97 ha sollevato la questione di costituzionalità avverso tale ultima disposizione sotto diversi profili. Con i due citati arresti, la Corte costituzionale ha manifestato di condividere l’orientamento della Cassazione circa la portata del requisito soggettivo. Nell’occasione, il giudice delle leggi ha ritenuto non fondata l’eccezione di incostituzionalità, evidenziando che il citato art. 59, comma 1, lett. c, D.Lgs. n. 446/97, non solo non contrasta ma anzi rafforza la consolidata interpretazione della

ticolo 52, i Comuni possono: [...] c) stabilire che l’esenzione di cui all’articolo 7, comma 1, lettera i, del decreto [...] 1992, n. 504, concernente gli immobili utilizzati da enti non commerciali, si applica soltanto ai fabbricati e a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore». 15 Ord. 8 febbraio 2005 (dep. il 30 maggio 2005), n. 11427 e n. 11428. 16 Trattasi di controversie che vedono contrapposti le stesse parti, per le medesime questioni, circa l’applicazione dell’esenzione ai fini Ici, che si distinguono solo in quanto riguardanti diversi anni d’imposta: 1995-1996 la prima causa e 1997 la seconda. 17 In punto la società commerciale

Corte di Cassazione circa la portata del requisito soggettivo. In particolare, secondo la Corte, la portata innovativa del citato art. 59 sarebbe limitata all’attribuzione al Comune del potere regolamentare di circoscrivere l’esenzione in questione ai soli fabbricati (anziché essere esteso anche ad aree fabbricabili e terreni agricoli), mentre la stessa confermerebbe che l’esenzione di cui al citato articolo 7, comma 1, lett. i, «si applica [...] a condizione che gli stessi (recte gli immobili), oltre che utilizzati, siano anche posseduti (a titolo di proprietà o diritto reale di godimento) dall’ente non commerciale utilizzatore». Al citato consolidato orientamento fa da contraltare il contrasto di posizioni rilevabili in seno alla giurisprudenza di merito, laddove parte della stessa ritiene sufficiente, al fine del riconoscimento dell’esenzione, verificare la sussistenza del requisito soggettivo in capo al conduttore in quanto tale indipendentemente dalla coincidenza dello stesso con il contribuente titolare del diritto reale o della natura o qualificazione commerciale o meno di quest’ultimo18. Nel senso da ultimo esposto si è espressa anche parte della dottrina19. Il requisito oggettivo per l’esenzione La sentenza risulta criticabile anche sotto il profilo della esatta ricostruzione della portata dell’elemento oggettivo richiesto dal citato art. 7 per il riconoscimento dell’esenzione. Il giudice di appello sembra aver riconosciuto l’esenzione in parola trascurando l’aspetto rilevante connesso allo sfruttamento commerciale da parte del proprietario del fabbricato posto a reddito attraverso la locazione (quindi a titolo oneroso) a soggetto non commerciale. Viceversa l’elenco del-

contribuente aveva impugnato diversi avvisi di accertamento notificati dal Comune ritenuti illegittimi in quanto riguardanti diversi fabbricati e impianti concessi in locazione, verso il pagamento di regolare canone, all’associazione sportiva S.C.S. (ente non commerciale), riconosciuta dal Coni, che utilizzava gli stessi prevalentemente per lo svolgimento di attività sportive dei propri associati. 18 Nel medesimo senso della Corte di Cassazione si sono espresse per esempio la Commissione tributaria di I grado di Salerno con decisione del 21 novembre 1994 (dep. il 28 novembre 1994), n. 885 e la medesima Commissione tributaria provinciale con sentenza del 12 marzo 2001 (dep. il 14 maggio 2001), n.

82. In senso contrario ovvero sulla sufficienza del requisito soggettivo in capo al conduttore si è espressa, oltre che la Commissione tributaria barese con la sentenza in commento, la Commissione tributaria regionale di Firenze con sentenza del 15 maggio 2003 (dep. il 26 maggio 2003), n. 22. 19 Si veda al riguardo per tutti LO GIUDICE, Ici: esenzione per gli immobili posseduti da enti non commerciali e dagli stessi utilizzati esclusivamente per attività sportive, in Fisco, 2006, 1, 71 ss. L’autore basa la propria convinzione su una interpretazione letterale della norma di esenzione la quale relativamente al requisito soggettivo fa riferimento all’utilizzatore e non al proprietario.


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le attività che a norma dell’art. 7, comma 1, lett. i, che danno diritto all’esenzione è tassativo e non suscettibile d’interpretazione analogica o estensiva20. Si consideri che nel senso della tassatività delle attività per le quali riconoscere l’esenzione si è espresso anche il Ministero delle Finanze21. Inoltre, per entrambe le citate Supreme Corti l’elencazione deve trattare di attività di tipo non economico-commerciale. In tal ultimo senso si è espressa la Corte costituzionale con la sentenza n. 119 del 24 marzo 1999, rigettando la questione di legittimità sollevata in merito alla mancata previsione dell’esenzione d’imposta dei fabbricati appartenenti agli Iacp, svolgenti appunto attività di locazione (attività ritenuta pacificamente di natura commerciale anche se svolta da tali enti)22. Con la sentenza n. 20776 del 26 ottobre 2005, la Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che: «l’esenzione dall’imposta comunale sugli immobili (Ici), prevista dall’art. 7, comma 1, lettera i, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, spetta a condizione che gli immobili appartenenti ai soggetti di cui all’art. 87, comma 1, lettera c, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, siano destinati allo svolgimento di attività istituzionali dell’ente e che tale attività non assuma natura commerciale»23. Non solo, ma affinché l’esenzione sia riconosciuta, il fabbricato deve essere utilizzato per l’esercizio effettivo ed esclusivo di una delle attività indicate al citato art. 7, comma 1, lett. i24. La Cassazione ha precisato che al fine del riconoscimento dell’esenzione, l’immobile oggetto del-

20 In senso conforme si veda Cass., sent. 20 maggio 2005, n. 10646. 21 In punto risoluzione del Ministero delle Finanze, Dip. Ent. Dir. centr. Fisc. loc., 11 novembre 1996, n. 247/E/2/1689/C. 22 Con sentenza del 2 aprile 1999, n. 119, il giudice delle leggi, nel respingere la questione di legittimità costituzionale con riferimento al mancato riconoscimento dell’esenzione in questione a favore degli Iacp, ha avuto modo di specificare per inciso che: «Entrambe queste categorie di immobili (e soggetti) presentano rilevanti differenze rispetto a quelli di proprietà degli Iacp, che [...] sono destinati istituzionalmente alla locazione o, [...], alla vendita. Attività, questa, assai diversa rispetto a quelle cui sono verosimilmente destinati gli altri immobili elencati nell’art. 7 del decreto legislativo n. 504 del 1992. La destinazione degli immobili degli Iacp [...] per costan-

l’agevolazione deve essere destinata in modo esclusivo ed effettivo ad una delle attività non commerciali richiamate nel citato art. 7, comma 1, lett. i, tanto che anche il solo uso promiscuo con attività di natura commerciale rende inapplicabile l’esenzione de qua rimanendo «[...] irrilevanti le valutazioni [...] sul carattere esclusivo o prevalente dell’attività commerciale stessa. Quello che rileva [...] è soltanto lo svolgimento all’interno degli immobili da sottoporre a tassazione di attività commerciali, indipendentemente dalla loro entità sia in valori assoluti che in termini relativi»25. Trattandosi di imposta patrimoniale, per valutare il rispetto del requisito oggettivo per aver diritto all’esenzione, ha rilievo unicamente l’utilizzo (il godimento) che del fabbricato ne fa il soggetto passivo d’imposta senza che abbia alcuna rilevanza il tipo di uso che ne fa il semplice conduttore26. Nel caso di immobile locato, rileva l’utilizzo commerciale di tipo speculativo dell’immobile che ne fa la proprietà, indipendentemente dall’attività svolta dal conduttore all’interno dell’immobile locato. Dunque, trattandosi di locazione di attività commerciale non rientrante tra le attività di cui al citato art. 7, non vi sono gli estremi per riconoscere l’esenzione. Per tali argomenti, la Corte di Cassazione ha ripetutamente disconosciuto27 agli Iacp il diritto all’esenzione in questione. Orientamento confermato nella giurisprudenza costituzionale28. Anche riguardo all’elemento oggettivo fa da contraltare il contrasto di orientamenti in seno alla giurisprudenza tributaria di merito29. In senso

te giurisprudenza della Corte di Cassazione – è assimilabile, [...], a quella imprenditoriale, pur a fini di pubblico interesse. [...] la natura dell’attività degli Iacp da imprenditoriale (o a questa assimilabile, ai fini fiscali) in assistenziale. Essendo presupposto del prelievo fiscale il mero possesso dell’immobile, e non la destinazione a fini di lucro (in quanto l’imposizione Ici tende a colpire non solo i proprietari, ma anche “coloro che, avendo il godimento del bene, si avvantaggiano, [...], dei servizi e delle attività gestionali dei Comuni”: sentenza n. 111 del 1997), non si può evocare, con riguardo al profilo in esame, il fine di pubblico interesse perseguito dal soggetto passivo (sentenza n. 301 del 1987)». 23 Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso dal beneficio i locali destinati a scuola materna dall’ente morale, in quanto quest’ultimo non aveva

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fornito la prova che l’attività in questione fosse in favore di soggetti non abbienti o i ricavi eccedenti i costi fossero destinati ad attività assistenziali. Ancora Cass., sent. 20 maggio 2005, n. 10646 e Cass., sent. 4 marzo 2005 (dep. il 26 aprile 2005), n. 8640. In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione con sentenza dell’8 marzo 2004, n. 4645. V. per tutte Cass., sent. 17 giugno 2003 (dep. il 4 dicembre 2003), n. 18549 e Cass., sent. 4 marzo 2005 (dep. il 26 aprile 2005), n. 8640. V. ancora Cass., sent. 17 giugno 2003 (dep. il 4 dicembre 2003), n. 18549 e Cass., sent. 4 marzo 2005 (dep. il 26 aprile 2005), n. 8640. In punto si veda ancora la sent. 24 marzo 1999 (dep. il 2 aprile 1999), n. 119. Al riguardo si richiama quanto riportato alla precedente nota 18, dovendosi precisare però che dalla ci-


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contrario alla posizione della Cassazione, circa l’ammissione del riconoscimento dell’agevolazione anche per attività aventi natura commerciale si è espressa ancor più esplicitamente parte della dottrina30. Conclusioni Avuto riguardo alla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, si ritiene che la sentenza in rassegna sia fondata su argomentazioni interpretative recessive. La società commerciale proprietaria dell’immobile lo utilizza per lo svolgimento di un’attività di tipo esclusivamente commerciale consistente nella messa a reddito dello stesso attraverso la locazione, attività quest’ultima non rientrante tra quelle tassativamente previste al citato art. 7, comma 1, lett. i. Secondo l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, pertanto, difetterebbero per il riconoscimento dell’esenzione in parola sia il requisito soggettivo che quello oggettivo. In soccorso delle valutazioni del giudice di appello, circa il requisito oggettivo, al di là del mancato richiamo e considerazione in sentenza, non pare potersi fare appello al citato art. 7, comma 2bis, come modificato dall’art. 39, comma 1, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (cd. “decreto Visco-Bersani”), convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248.

tata giurisprudenza si ricava indirettamente il contrasto sull’elemento oggettivo. Nel senso che, quella parte della giurisprudenza di merito non allineata sulle posizioni della Cassazione, la quale ammette il requisito in capo all’utilizzatore anche qualora trattasi di mero conduttore o comodatario riconosce di conseguenza l’agevolazione anche nell’ipotesi di immobile destinato dal proprietario ad attività commerciali (locazione onerosa) non compresa tra quelle indicate nell’art. 7, comma 1, lett. i. 30 Al riguardo si veda PUDDU-SARACENO, Enti non commerciali ecclesiastici: esenzione Ici, in Fisco, 2004, 30, 4620 ss. Gli autori, nell’occasione pongono giustificano il riconoscimento dell’agevolazione in relazione al rilevante valore sociale attribuibile all’attività degli enti ecclesiastici indipendentemente dalla natura economica o meno della stessa, purché ricompresa tra quelle elencate al citato art. 7, comma 1, lett. i.

Il comma 2-bis31, in deroga all’orientamento consolidato, ha esteso l’esenzione ad attività di natura commerciale (anche se non esclusivamente commerciale), fermo restando che esse rientrino tra quelle tassative riportate nell’art. 7, comma 1, lett. i e che siano esercitate dallo stesso possessore del fabbricato. Nel caso di specie l’immobile era utilizzato dal proprietario per l’esercizio di attività commerciale di natura speculativa consistente nella locazione a titolo oneroso, per la quale quindi non può comunque trovare applicazione il citato art. 7, comma 2-bis. Peraltro, è da escludere che il citato art. 7, comma 2-bis, essendo entrata in vigore nel 2005, possa trovare applicazione per i periodi (1998 e 1999) rilevanti ai fini della concreta fattispecie, risultando perlomeno discutibile la retroattività della citata norma se non altro per i diversi mutamenti sostanziali subiti32. D’altra parte, non appaiono privi di fondamento i dubbi sollevati in merito all’illegittimità della norma de qua e in generale in relazione all’attuale disciplina che regola tale esenzione in violazione della normativa comunitaria in materia di divieto di aiuti di Stato33 (disciplina della quale si sta già ufficialmente interessando la Commissione europea34). L’appartenenza alla Comunità europea impone infatti allo Stato italiano, inteso in tutte le sue articolazioni politiche, amministrative e giudiziarie, il rispetto della normativa comunitaria35.

31 V. il testo della norma riportato alla precedente nota 7. 32 V. la precedente nota 7. 33 La disciplina comunitaria in materia di divieto di aiuti di Stato è regolata dagli articoli 87 (ex 92) e seguenti del Trattato del 25 marzo 1957 istitutivo della Comunità europea e successive modificazioni e integrazioni. 34 Secondo quanto risulta dall’articolo pubblicato a pagina 32 del quotidiano Italia Oggi del 6 giugno 2006, la Commissione europea avrebbe avviato una istruttoria nei confronti dello Stato italiano al fine di verificare il rispetto della normativa comunitaria in materia di divieto di aiuti di Stato proprio con riferimento a tale disposizione di legge. Al riguardo la medesima Commissione europea ha avviato un’istruttoria chiedendo ufficialmente, con propria lettera del 5 novembre 2007, prot. D/54393-CP71/2006, allo Stato italiano chiarimenti in merito alla norma in questione.

35 Circa l’istituzione della originaria Comunità economica europea poi diventata Comunità europea e i relativi obblighi di osservanza della normativa europea da parte dell’Italia, si rinvia al Trattato del 25 marzo 1957, 57/01/TI, firmato a Roma, ratificato dall’Italia con la legge 14 ottobre 1957, n. 1203, come modificato e integrato dal Trattato del 7 febbraio 1992, ratificato con la legge 3 novembre 1995, n. 454, e dal Trattato del 2 ottobre 1997, ratificato con la legge 16 giugno 1998, n. 209, e come infine sarà sostituito a decorrerete dall’1 gennaio 2006 dal Trattato del 29 ottobre 2004, con il quale è stata adottata una Costituzione europea, ratificato con legge 7 aprile 2005, n. 57. Peraltro, l’obbligo del rispetto del diritto comunitario è stato recepito espressamente nel titolo V della Costituzione, come riformato con legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001. Mentre il rispetto della normativa comunitaria ha trovato in passato la propria


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In ragione della natura di fonte normativa primaria da riconoscersi alle disposizioni comunitarie36 rispetto al diritto interno, anche il giudice tributario è dunque obbligato37 a verificare se l’intervento legislativo dello Stato non configuri un abusivo e/o ingiusto vantaggio economico-finanziario a favore di alcuni operatori, in danno di altri, determinando l’alterazione, anche solo potenziale, delle libera e leale concorrenza nell’ambito del mercato comune europeo38. Secondo il diritto comunitario costituisce principio fondamentale e quindi inviolabile la libera e corretta concorrenza tra tutti gli operatori che in ambito comunitario svolgono attività economica, commerciale e d’impresa39. A tutela di tale fondamentale principio è vietata l’istituzione o la prestazione di “aiuti di Stato”, sotto qualsiasi forma o entità, che falsi, minacci (anche solo potenzialmente) di falsare ovvero vada ad alterare la libera e corretta concorrenza tra

fonte giuridica di riferimento, principalmente, nell’art. 11 della Costituzione come posto in evidenza dalla Corte costituzionale con sentenza del 23 marzo 1999 (12 marzo 1999), n. 85 che ha avuto modo di argomentare: «La disposizione della Costituzione che offre copertura costituzionale al diritto comunitario, va individuata, per consolidata giurisprudenza della Corte, nell’art. 11 Cost. [...]». 36 Soprattutto per quelle, come avviene per talune direttive comunitarie, alle quali è riconosciuta l’immediata precettività. 37 Al riguardo deve servire da monito la vicenda che ha visto lo Stato italiano condannato con sentenza della Corte di Giustizia europea, grande sezione, nella causa C-173/03, depositata il 13 giugno 2006, per mancata osservanza da parte della propria magistratura del diritto comunitario. Nell’occasione la Corte di Giustizia europea ha confermato che uno Stato membro è responsabile dei danni causati a un singolo da una violazione manifesta del diritto comunitario imputabile a un proprio giudice (nel caso di specie la Corte di Cassazione), rilevabile anche laddove detta violazione risulti da un’interpretazione delle norme di diritto o da una valutazione dei fatti e delle prove. 38 Si richiama la vicenda che ha visto lo Stato italiano condannato dalla Corte di Giustizia europea al recupero delle somme non versate dalle fondazioni bancarie in ragione dell’e-

gli operatori che esercitino attività economica, commerciale o d’impresa40. Ed è noto che può costituire violazione del divieto la previsione normativa di agevolazioni fiscali (contributi, riduzioni, esenzioni, trattamenti di favore e persino il rinvio dei termini di pagamento, ecc.)41 tendenti a favorire anche solo potenzialmente parte della totalità degli operatori economici, commerciali o d’impresa, indipendentemente dalla qualifica assunta da tali operatori nel diritto interno e indipendentemente dalle ragioni più o meno benemerite per le quali tali agevolazioni sono concesse42. A rafforzamento della salvaguarda del divieto in questione è prevista una procedura amministrativa preventiva di controllo e di assenso da parte della Commissione europea delle disposizioni che lo Stato intende adottare, prima che queste entrino in vigore e possano produrre effetti43. In altre parole, è vietato per lo Stato porre in essere

senzione prevista per legge in materia di imposta sui redditi, avendo ritenuto la citata Corte lesiva del divieto di aiuti di Stato detta agevolazione. In tal senso si vedano le sentenze CGCE, sent. 15 dicembre 2005, n. C-66/02 e CGCE, sent. 15 dicembre 2005, n. C-148/04. Nell’occasione il giudice comunitario ha avuto modo di sottolineare sia l’irrilevanza della natura non commerciale del soggetto agevolato, essendo rilevante la natura economica dell’attività svolta, sia l’irrilevanza della necessità di una effettiva lesione della concorrenza, essendo sufficiente che la norma agevolativa renda possibile anche solo una potenziale lesione della concorrenza. 39 In tal senso si vedano per tutte: CGCE, sez. VI, 13 luglio 2000, causa C36/99, avv. gen. G. Cosmas - Idéal tourisme SA c.; CGCE, sez. III, 6 marzo 2002, cause riunite T-127/99, T129/99, T-148/99, Territorio Histórico de Álava e altri c. 40 In tal senso, per una ampia disamina sulla questione, si vedano per tutte: CGCE, sez. VI, 8 maggio 2003, cause riunite C-328/99, C-399/00, Rel. C. Gulmann, avv. gen. L.A. Geelhoed - Repubblica italiana e SIM 2 Multimedia S.p.A. c.; Trib. I grado Comunità europee, sez. V, 13 giugno 2000, cause riunite T-204/97, T270/97, EPAC - Empresa para a Agroalimentação e Cereais, SA c.; CGCE, sez. III, 6 marzo 2002, cause riunite T127/99, T-129/99, T-148/99, Territorio Histórico de Álava e altri c.; Trib. I grado Comunità europee, sez. V, 22

novembre 2001, causa T-9/98, Mitteldeutsche Erdoel-Raffinerie GmbH c.; CGCE, sez. V, 5 ottobre 2000, causa C-288/96, Rel. D.A.O. Edward, avv. gen. G. Cosmas - Repubblica federale di Germania c.; Trib. I grado Comunità europee, sez. III, 29 settembre 2000, causa T-55/99, Confederación Española de Transporte de Mercancías (CETM) c.; Trib. I grado Comunità europee, sez. V, 13 giugno 2000, cause riunite T-204/97, T-270/97, EPAC - Empresa para a Agroalimentação e Cereais SA c.; CGCE, sez. V, 8 novembre 2001, causa C-143/99, avv. gen. J. Mischo Adria-Wien Pipeline GmbH e altri c. Finanzlandesdirektion für Kärnten. 41 In tal senso si veda CGCE, sez. V, 3 novembre 2002, causa C-136/00, avv. gen. F.G. Jacobs - Rolf Dieter Danner nonché sentenze 11 agosto 1995, causa C-80/94, Wielockx, racc. I-2493, punto 16; 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI, racc. I-4695, punto 19; 29 aprile 1999, causa C311/97, Royal Bank of Scotland, racc. I-2651, punto 19, e 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen, racc. I4071, punto 32. 42 In tal senso si richiamano le citate CGCE, sent. 15 dicembre 2005, causa C-66/02 e CGCE, sent. 15 dicembre 2005, causa C-148/04. 43 Al riguardo si veda reg. (CE) 22 marzo 1999, n. 659/1999, regolamento del Consiglio recante modalità di applicazione dell’articolo 93 del Trattato CE, pubblicato nella G.U.C.E. 27 marzo 1999, n. L 83, entrato in vigore il 16 aprile 1999, e successive modificazioni e integrazioni.


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norme suscettibili di violare detta disciplina prima di aver superato il vaglio della Commissione. Se la norma di legge viene messa in essere e produce effetti nello Stato senza il previo positivo esperimento di detta procedura, la norma è definita abusiva44, ovvero illegittima fin dall’origine, per cui il giudice interno, d’ufficio, ha l’obbligo di disapplicarla immediatamente. Nel caso di specie, l’abusività della normativa agevolativa va ricondotta alla mancata comunicazione della stessa da parte dello Stato italiano alla Commissione europea per il controllo preventivo (prima dell’entrata in vigore). Mentre il dubbio di illegittimità per violazione sostanziale della normativa in materia di divieto di aiuti di Stato deriva dalla prevista estensione dell’agevolazione in questione anche nell’ipotesi di utilizzo degli immobili per lo svolgimento di una delle attività di cui al citato art. 7, comma 1, lett. i, anche se a carattere commerciale, determinan-

do la possibilità che soggetti non commerciali traggano ingiusto vantaggio derivante dal risparmio in termini di costi economici, nella competizione con soggetti commerciali che operano nei medesimo campo economico, potendo così praticare prezzi inferiori o perseguire maggiori guadagni rispetto alla concorrenza. A maggior ragione, risulterebbe non rispettosa del precetto comunitario la disposizione che prevedesse, quale conseguenza interpretativa del recepimento di quanto deciso nella sentenza in commento, l’estensione del beneficio a favore di un soggetto commerciale (società proprietaria dell’immobile in questione) che svolge un attività puramente economica quale è la locazione, seppur a favore di soggetto non commerciale. Si ritiene pertanto che gli argomenti interpretativi recepiti dalla Comm. trib. reg. barese risultino anche di dubbia compatibilità con l’ordinamento comunitario.

44 Sul concetto di abusività della norma per mancata preventiva comunicazione della stessa alla Commissione europea si veda ROTONDO, Gli aiuti di Stato alle imprese bancarie in difficoltà, in Banca Borsa, 2000, 2, 239.


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Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VI, 29 giugno 2007, n. 61 Presidente e Relatore: Chiarelli Imposta di registro - Atti e contratti - Sentenza che dispone il trasferimento di immobile già trasferito - Adeguamento della realtà formale a quella sostanziale - Negozio fiduciario - Imposta proporzionale - Esclusione (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 38 e 57) In materia di imposte di registro (come in quella catastale e ipotecaria), non è dovuta l’imposta in misura proporzionale se la sentenza tassata ha disposto il trasferimento di un bene, che era già stato trasferito in forza di un precedente atto, al solo scopo di adeguare la realtà formale alla realtà sostanziale di un sottostante negozio fiduciario, senza trasferimento effettivo di ricchezza. Svolgimento del processo Con i ricorsi riuniti qui in esame ciascuna delle due parti ricorrenti impugna con argomentazioni in gran parte concordi l’avviso di liquidazione emesso dall’Ufficio delle Entrate di Treviso mediante il quale si liquidano le imposte conseguenti ad omessa registrazione della sentenza civile n. 317/2005 dell’1 marzo 2005 emessa dal Tribunale di Treviso. Va anzitutto specificato che la sentenza oggetto della liquidazione di imposte qui in questione ha disposto come segue: «P.Q.M. Definitivamente pronunciando, il giudice così provvede: a) condanna M. G. a pagare a G. G. euro 155.195,30, oltre agli interessi legali dall’11 novembre 2002 al saldo; b) ritenuto il carattere fiduciario del negozio concluso 1’11 dicembre 2000, in accoglimento dell’azione surrogatoria svolta da G. G., trasferisce da R. R. a M. G. l’immobile così catastalmente individuato: Comune di Breda di Piave (20, mapp. 361, con sovrastante fabbricato censito al Nceo - Comune di Breda di Piave, sez. C, f. 2, mapp. 361, sub l, 2, 3); c) condanna i convenuti, in solido, a rifondere all’attore le spese del giudizio, che liquida in complessivi euro 10,000,00, di cui euro 6.000,00 per onorari». Va evidenziato che l’avviso di liquidazione delle imposte impugnato è stato notificato sia a G. G. che a R. R. nella loro ritenuta qualità dì coobbligati solidali al pagamento delle imposte tutte e accessori derivanti dalla liquidazione della sentenza

in oggetto sul presupposto che entrambi erano parti del procedimento giudiziario in questione. Le censure mosse da ciascuna delle due parti ricorrenti all’avviso di liquidazione impugnato che, come detto, è lo stesso per entrambe, non sono pienamente coincidenti anche per l’evidente diversità di posizione sostanziale e processuale di ciascuno dei due odierni ricorrenti riferita all’originario procedimento civile che ha dato luogo alla sentenza oggetto di liquidazione di imposte. Occorre dunque dar conto sia pure in maniera sintetica delle differenti argomentazioni svolte da ciascuno dei due ricorrenti. Espone G. G. in primo luogo di non ritenere corretta la richiesta avanzata nei suoi confronti per il pagamento dell’imposta di registro (per euro 7.230,00) e delle imposte ipotecaria e catastale (rispettivamente per euro 2,066,00 e 1.033,00) liquidate in relazione al disposto trasferimento di immobile da R. R. a M. G. in quanto il ricorrente G. G. è totalmente estraneo al rapporto sostanziale in questione mentre da un punto di vista processuale aveva assunto solo la veste di attore che agiva in surrogatoria a tutela di un proprio credito. In qualità di semplice sostituto processuale ritiene il ricorrente G. G. di non essere soggetto passivo delle tre imposte in questione riferite ad un rapporto sostanziale al quale egli era estraneo. Prosegue il ricorrente osservando che la sentenza in questione disponendo il trasferimento del fabbricato ha solo adeguato la realtà formale a quella sostanziale senza comportare alcun trasferimento di ricchezza da un soggetto ad altro con la conseguenza che risulterebbe dovuta l’imposta in misura fissa anziché proporzionale. Conclude nel ricorso chiedendo nel merito la dichiarazione di illegittimità e/o inefficacia dell’atto impugnato producendo altresì tra i documenti copia del mod. F23 attestante l’avvenuto pagamento in data 16 febbraio 2006 di n. 4 imposte tra quelle oggetto dell’avviso di liquidazione impugnato e precisamente dell’imposta di registro altre voci per euro 4.955.00; dell’imposta di bollo per euro 4336; e delle due imposte per entrate eventuali dell’Agenzia delle Entrate e tributi speciali e compensi rispettivamente per euro 16,68 e euro 5,16. Da quanto sopra emerge che il ricorrente G. G. dimostra di aver provveduto al pagamento delle imposte in questione successivamente alla notifi-


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ca dell’avviso di liquidazione in questione restringendosi dunque il campo dell’odierno giudizio tributario solo all’esame della debenza delle imposte liquidate a titolo di imposta di registro, ipotecaria e catastale riferite tutte e tre al capo della sentenza che dispone il trasferimento di proprietà dell’immobile. La ricorrente R. R. nel proprio ricorso svolge una serie di obiezioni preliminari delle quali si dà qui sintetica notizia rilevandosi che la ricorrente eccepisce preliminarmente l’illegittimità dell’avviso di liquidazione impugnato per difetto di sufficienti indicazioni atte a comprendere le ragioni della pretesa erariale e conseguente inintelligibilità dei calcoli effettuati dall’Ufficio. Eccepisce ancora mancata allegazione della sentenza oggetto dell’avviso di liquidazione e conclude chiedendo l’annullamento dell’atto impugnato per illegittimità. Nel riferire sinteticamente lo svolgimento della procedura qui deve darsi atto della circostanza che ancora nel corso della udienza tenutasi in data 26 marzo 2007 le due parti ricorrenti hanno fatto presente alla Commissione che l’immobile oggetto della sentenza liquidata era già stato trasferito per atto notarile da R. R. a G. G. ancora prima dell’inizio del procedimento civile in questione. Nel corso della prima udienza le parti ricorrenti hanno chiesto un termine per poter provare documentalmente quanto affermato e la Commissione, ritenuta la rilevanza sia delle affermazioni svolte che della relativa eventuale documentazione a supporto ha pronunciato l’ordinanza agli atti mediante la quale ha così disposto: «la Commissione assegna a tutte le parti termine di 30 giorni per il deposito di eventuale ulteriore documentazione e memorie illustrative e successivo temine di ulteriori 30 giorni per repliche [...]». Conseguentemente entrambe le parti ricorrenti hanno depositato nei termini una memoria autorizzata con allegata documentazione per il cui dettaglio si rinvia agli atti. In particolare il ricorrente G. G. ha ribadito la non debenza dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale per essere state le stesse già pagate da M. G. in data 5 settembre 2003, ribadendo in subordine la carenza di legittimazione passiva in capo al ricorrente in quanto estraneo al rapporto sostanziale e rilevando in via ulteriormente subordinata che eventualmente andrebbe disposta l’applicazione dell’imposta in misura fissa. Anche la ricorrente R. R. deposita memoria con documenti affermando che nessuna imposta è più dovuta essendo tutte le imposte oggetto dell’atto impugnato già state pagate o da G. G. o da M. G. in occasione dell’atto notarile di trasferimento dell’immobile in que-

stione da R. R. a M. G. L’Agenzia delle Entrate resistente nelle proprie controdeduzioni scritte agli atti conferma la legittimità del proprio operato e dell’atto impugnato, contestando la fondatezza delle argomentazioni svolte dalle parti ricorrenti e rilevando in particolare che nessun difetto di motivazione può essere imputato dal momento che nell’atto impugnato è stata indicata espressamente la sentenza oggetto di liquidazione e che tale sentenza era a conoscenza dei ricorrenti in quanto parti del relativo procedimento civile. Ribadisce inoltre l’Ufficio che entrambi i ricorrenti sono tenuti al pagamento in solido delle imposte in questione derivando la loro solidarietà dalla prescrizione normativa della legge di registro considerata la loro rispettiva condizione di parti del procedimento civile che ha dato luogo poi alla sentenza liquidata. L’Ufficio conclude pertanto per il rigetto dei ricorsi. Con successiva memoria illustrativa depositata in data 19 giugno 2007 l’Ufficio eccepisce preliminarmente l’inammissibilità della memoria depositata da R. R. in quanto le richieste in essa formulate propongono dei motivi aggiunti e non sviluppano motivi già dedotti nel ricorso introduttivo. Prosegue l’Ufficio dando atto che della somma totale richiesta risulta pagato solo l’importo dì cui al mod. F23 allegato da una delle parti ricorrenti, mentre le somme residue sono secondo l’Ufficio tuttora dovute dalla signora R. R. in quanto l’atto giudiziale da cui è scaturito l’avviso di liquidazione ha comportato un trasferimento di immobile dalla sfera patrimoniale di un soggetto a quella di un altro. Prosegue l’Agenzia delle Entrate osservando che non sarebbe rilevante la circostanza che la signora R. R. non era più intestataria dell’immobile in quanto già trasferito con atto precedente a M. G. e che con riferimento al medesimo immobile era già stata versata l’imposta di registro all’epoca del trasferimento. Infatti sotto il profilo tributario l’imposta di registro è un’imposta d’atto che si applica sul valore del bene tutte le volte che il bene subisce un trasferimento e in questo caso la sentenza emessa dal giudice costituisce un autonomo atto che dispone proprio il trasferimento dell’immobile con conseguente obbligo di pagamento delle relative imposte. L’Ufficio ribadisce poi che in forza dell’art. 57 della legge di registro tutte le parti in causa sono obbligate al pagamento delle relative imposte in via solidale senza che abbia rilievo la distinzione tra le relative posizioni in ambito civilistico. L’Ufficio conclude pertanto per il rigetto dei ricorsi e la conferma della legittimità del proprio operato. Per completare la sintetica esposizione dello svolgimento della procedura


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deve anche darsi atto della circostanza che nella propria memoria illustrativa depositata il 19 giugno 2007 l’Ufficio eccepisce l’inammissibilità delle richieste formulate nella memoria depositata da R. R. in quanto propongono motivi aggiunti e che in apertura di udienza del 25 giugno 2007 i difensori dei ricorrenti hanno eccepito la tardività del deposito di memoria integrativa presentata dall’Ufficio. A verbale di udienza si è anche dato atto che il rappresentante dell’Ufficio ha chiarito come le imposte di registro, ipotecaria e catastale ancora oggetto del presente giudizio siano state liquidate dall’Ufficio applicando le previste aliquote rispettivamente del 7%, del 2% e dell’l% e quindi complessivamente del 10% sul valore dell’immobile trasferito, valore che dal contesto della stessa sentenza liquidata emerge essere di lire 200.000.000. Il difensore di G. G. ha ribadito la già affermata illegittimità dell’imposta proporzionale liquidata in quanto il trasferimento è stato disposto dalla sentenza in questione senza corrispettivo. Nel corso dell’udienza di trattazione del 25 giugno 2007 è stata poi svolta un’accurata disamina di tutta la documentazione prodotta in ordine alla quale le parti hanno svolto una serie di considerazioni sostanzialmente confermative delle rispettive posizioni quali risultavano dagli atti e dai documenti depositati. Motivi della decisione La Commissione osserva che deve anzitutto ribadirsi che non sono più oggetto di esame le imposte per complessivi euro 5.020,70 delle quali il ricorrente G. G. ha dimostrato di aver provveduto al pagamento mediante la produzione dì ricevuta di pagamento avvenuto in data 16 febbraio 2006. Conseguentemente le imposte in questione non sono più dovute né da G. G. in quanto lo stesso ha dimostrato di averle pagate, sia pure in data successiva all’emissione dell’avviso di liquidazione impugnato, né da R. R. in quanto la stessa era tenuta al pagamento di queste imposte in via solidale e pertanto viene a cadere il suo obbligo essendo state le stesse imposte già pagate da altro coobbligato solidale. Si ribadisce pertanto che oggetto del presente giudizio tributario e oggetto di discordanti valutazioni di parte rimangono le tre imposte di registro, ipotecaria e catastale liquidate dall’Ufficio in misura proporzionale con riferimento al valore dell’immobile oggetto di trasferimento di cui al capo b) del dispositivo della liquidata sentenza n. 317/2005 del Tribunale di Treviso. A questo proposito, esaminando le doglianze svolte in particolare da R. R. osserva la Commis-

sione che l’atto impugnato risulta sufficientemente motivato con riferimento sia alla vigente normativa che ammette per gli avvisi di liquidazione una motivazione sintetica sia con riferimento alla prassi assolutamente invalsa che vuole gli atti in questione motivati per l’appunto con un sintetico riferimento. Sempre con riferimento alla presunta carenza di motivazione la Commissione concorda con l’Ufficio nel rilievo che i ricorrenti non possono lamentarsi della mancata allegazione della sentenza all’avviso di liquidazione notificato in quanto la sentenza in questione era a loro nota in forza della presunzione di conoscenza degli atti del processo che va riferita a tutte le parti del processo stesso. Entrambi i ricorrenti erano parti del procedimento ed a nulla rileva che R. R. sia rimasta contumace per sua scelta. Entrambi pertanto dovevano presumersi a conoscenza della sentenza in questione che li riguardava e non vi era dunque alcuna necessità di allegazione di copia della stessa all’avviso di liquidazione impugnato. La Commissione poi osserva di non condividere e dunque non accogliere nessuna delle eccezioni procedurali svolte dalle parti ritenendole non fondate. Con riferimento all’eccezione svolta dall’Ufficio di inammissibilità di quanto affermato e documentato da R. R., osserva la Commissione che R. R. nella sua memoria depositata non ha aggiunto nulla di nuovo a quanto già dichiarato nel corso della precedente udienza e che la produzione documentale effettuata non può ritenersi irrituale perché sollecitata dalla stessa Commissione la quale era sicuramente facoltizzata a richiedere la produzione di documenti ritenuti rilevanti con riferimento a quanto affermato dalle parti e comunque rilevanti ai fini della corretta risoluzione della controversia. In conclusone quanto fatto da R. R. deve ritenersi in esecuzione dell’ordinanza istruttoria pronunciata dalla Commissione alla precedente udienza. Irrilevanti anche le obiezioni di tardività formulate dalle parti ricorrenti nei confronti della memoria integrativa depositata dall’Ufficio perché anche se è vero ed incontestabile che tale memoria è stata depositata fuori termini; tuttavia in essa l’Ufficio non fa che ribadire posizioni già note o comunque affermazioni che sono state ripetute in sede di pubblica udienza ed ivi potevano legittimamente essere fatte. La tardività pertanto è solo formale e non ha riflessi sostanziali. Va ora esaminato il merito residuo che consiste principalmente nel valutare se il trasferimento di


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immobile disposto con la sentenza liquidata debba dar luogo alle imposte di registro, ipotecaria e catastale proporzionali così come liquidate dall’Ufficio. La Commissione concorda con il ricorrente G. G. nel constatare che il trasferimento disposto dal capo b) del dispositivo della sentenza è un trasferimento disposto solo per adeguare la realtà formale alla realtà sostanziale di un sottostante negozio fiduciario senza che possa evincersi un sostanziale trasferimento di ricchezza. Soprattutto, a parere della Commissione, risulta decisiva la prova offerta nel corso del presente procedimento della circostanza che l’immobile in questione era già stato trasferito da R. R. a M. G. in forza di atto notarile precedente all’inizio del procedimento civile qui in esame. Se dunque R. R. non era già più proprietaria dell’immobile in questione certo non poteva una successiva sentenza ordinare il trasferimento di un bene di cui ella si era già spossessata in forza di precedente atto notarile regolarmente trascritto, come documentato. Viene immediato il ricordo al proposito del noto brocardo nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet che può tradursi liberamente come “nessuno può trasferire ciò che non ha”. In altri termini nel corso del presente procedimento tributario è stata offerta la prova della circostanza che al momento della pubblicazione della sentenza liquidata sicuramente R. R. non era già più proprietaria dell’immobile oggetto del capo b) della sentenza in questione e pertanto in ogni caso il dispositivo della sentenza in oggetto era destinato a restare lettera morta perché nessuno può trasferire ad altri una proprietà che non ha più. Va ora considerato che l’imposta di registro dovuta sui trasferimenti di immobili è un’imposta indiretta che come tale presuppone l’accertamento di un trasferimento di ricchezza da un soggetto ad un altro per fondare su tale trasferimento l’accertamento per l’appunto indiretto di una capacità contributiva. Ne consegue che se non vi è nessun trasferimento di ricchezza non vi è alcun indice di capacità contributiva che possa legittimare l’applicazione di un’imposta indiretta come quella in questione. Pensare che l’applicazione dell’imposta debba conseguire ad un trasferimento solo affermato ma non dimostratosi reale, è in primo luogo in contrasto con il principio costituzionale secondo il quale le imposte conseguono all’accertamento di una capacità contributiva. Una norma che svincolasse in linea di principio l’accertamento dell’imposta da un accertamento,

sia pure indiretto. di capacità contributiva. sarebbe una norma incostituzionale. Va qui esaminata l’obiezione formulata dall’Agenzia delle Entrate secondo la quale nel caso di specie l’imposta sarebbe comunque dovuta perché conseguente ad un trasferimento che in ogni caso risulta dall’atto tassato e cioè dalla sentenza tassata. Secondo l’Agenzia delle Entrate resistente poiché l’imposta di registro è imposta d’atto, prescinde da ogni più approfondita indagine di merito e l’esame del dovuto deve limitarsi alla corrispondenza tra l’imposta liquidata e quanto disposto nell’atto tassato. A proposito di tale obiezione osserva in primo luogo la Commissione che anche se dovessimo limitare la nostra indagine al solo atto tassato e cioè al solo contenuto della sentenza liquidata, dovremmo convenire con il ricorrente G. G. nel rilevare che la sentenza in questione sostanzialmente accerta che l’immobile era di proprietà di M. G. anziché di R. R. e dispone il relativo trasferimento solo per adeguare un’apparenza formale ad una realtà sostanziale senza che vi sia un sostanziale trasferimento di ricchezza. Già in base a questa considerazione appare dunque quanto meno dubbia l’applicazione di un’imposta proporzionale di registro ad un trasferimento di ricchezza che non è avvenuto e dunque non è indice di una maggiore capacità contributiva. Va anche considerato tuttavia che in questo giudizio tributario deve essere esaminata non solo la debenza dell’imposta con riferimento documentale all’emissione dell’atto impugnato, ma la debenza dell’imposta quale conseguenza del rapporto tributario quale emerge in forza della documentazione prodotta nell’ambito del presente procedimento tributario. Esaminata la documentazione prodotta: non vi è dubbio che R. R. si era già spogliata in precedenza della proprietà (forse solo formale e non sostanziale) dell’immobile in questione. Pertanto la sentenza pronunciata era comunque destinata a non poter produrre quale conseguenza un effettivo trasferimento dell’immobile perché, come abbiamo sopra visto, già gli antichi avevano rilevato come nessuno può trasferire ciò che non ha. Pertanto essendo stato dimostrato che non può esservi in forza della sentenza in questione un trasferimento di immobile da R. R. a M. G. (in quanto tale trasferimento è impossibile per essere R. R. già priva della proprietà al momento della sentenza) ne consegue che non va applicata la relativa imposta proporzionale di registro perché la stessa va applicata ogni qual volta vi è un effettivo trasferimento ed in questo caso il trasferimento non v’è.


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L’affermazione che l’imposta di registro è imposta d’atto, va correttamente interpretata nel senso che l’Ufficio che liquida l’imposta sulla base di un atto che gli viene presentato, non può e non deve andare oltre l’apparenza dell’atto prodotto perché altrimenti si sostituirebbe al giudice e perché comunque non ne avrebbe i necessari presupposti anche solo documentali. Affermare che l’imposta di registro è imposta d’atto, significa considerare che l’Ufficio, al momento della liquidazione dell’imposta, non deve entrare nel merito della legittimità formale o sostanziale dell’atto che gli viene sottoposto, ma non significa che nel corso di un successivo giudizio un giudice, sulla base della documentazione prodotta, non possa e non debba constatare per esempio la nullità del trasferimento disposto con l’atto tassato oppure l’impossibilità o l’inefficacia di detto trasferimento. In tutti questi casi il giudice sulla base della documentazione prodotta può concludere per la nullità o inesistenza del trasferimento oggetto di tassazione e può concludere dunque per la non debenza della relativa imposta. Quanto qui affermato trova del resto conferma, a parere della Commissione, nel disposto dell’art. 38 della legge di registro. A sensi del comma 1 dell’art. 38 bene fa l’Ufficio a chiedere il pagamento della relativa imposta in quanto imposta d’atto sulla base di un atto che gli viene presentato ancorché tale atto possa essere ritenuto nullo o annullabile in quanto non compete all’Ufficio entrare nel merito della validità dell’atto che gli viene sottoposto per la tassazione. In forza però del comma 2 del medesimo art. 38 l’imposta, eventualmente pagata deve essere restituita per la parte eccedente la misura fissa, quando l’atto sia dichiarato nullo o annullato per causa non imputabile alle parti. Applicando questi principi al procedimento qui in questione ne consegue che il legislatore stesso ha riconosciuto lo stretto collegamento tra l’imposta dovuta ed un trasferimento non solo enunciato o formale ma un trasferimento effettivo. Nel caso di specie nel corso del presente giudizio è emersa la prova che il trasferimento in questione non può essere tassato perché inesistente in quanto nulla poteva più trasferire R. R. e quindi questo giudice tributario in applicazione dei principi costituzionali e di legislazione tributaria vigente afferma che nel caso di specie non può essere dovuta un’imposta proporzionale di registro. Va viceversa affermata la debenza dell’imposta di registro in misura fissa che, per inciso, il secondo comma dell’art. 38 della legge di registro afferma

dovuta anche nel caso di atto nullo, e giustamente, perché l’imposta fissa di registro è assimilabile alla storica tassa di registro che era un corrispettivo sia dell’attività di esame e registrazione dell’atto sia dell’attività di conservazione dell’atto registrato. Con riferimento all’imposta fissa di registro che la Commissione ritiene dovuta, va anche affermato che la sua debenza va posta a carico di tutte le parti del procedimento civile che ha avuto quale sbocco la sentenza in questione prescindendo dai sottostanti rapporti sostanziali per la semplice circostanza di essere parti del procedimento civile. Ciò tenuto conto per l’appunto che siamo in presenza di un’imposta fissa che non è assimilabile nei suoi presupposti all’imposta proporzionale. A conclusione e completamento dell’esame svolto, va ora esaminato se siano o meno dovute le imposte ipotecarie e catastali. Al proposito sinteticamente la Commissione osserva che nessuna delle due citate imposte è sicuramente dovuta in misura proporzionale perché la debenza di dette imposte in misura proporzionale va ricollegata, così come per l’imposta di registro proporzionale sui trasferimenti, all’esistenza di un sottostante effettivo trasferimento di ricchezza, trasferimenti di ricchezza che nel caso di specie abbiamo visto non essere esistenti. Dobbiamo però porci il problema se per caso siano dovute dette imposte in misura fissa e non proporzionale. La risposta è positiva qualora si ritenga che la sentenza in questione debba essere oggetto di voltura catastale e/o di trascrizione. Negativa per il caso contrario. Tanto premesso ritiene la Commissione che alla luce della documentazione prodotta che accerta in maniera inequivocabile che la sentenza in questione è destinata a restare lettera morta perché non poteva disporre un trasferimento, neppure formale, di immobile nel caso di specie, ne consegue che la sentenza in questione non è catastalmente volturabile perché non può essere disposta la voltura catastale del diritto di proprietà da R. R. a M. G. o in quanto R. R. catastalmente già non è più proprietaria. Neppure, a parere della Commissione, questa sentenza deve ritenersi oggetto di obbligo di trascrizione perché questo obbligo riguarda gli atti che dispongono un effettivo trasferimento di immobile mentre nel caso di specie abbiamo visto che questo trasferimento è impossibile per mancanza di oggetto ossia per mancanza della proprietà da trasferire in capo al presunto trasferente R. R. Ne consegue che la sentenza in questione non va neppure trascritta e se non va trascritta non va


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neppure pagata la relativa imposta ipotecaria, neppure in misura fissa. In conclusione rimane unicamente dovuta l’imposta di registro in misura fissa in analogia con quanto disposto dal secondo comma dell’art. 38 della legge di registro e in applicazione altresì di quanto disposto dal primo comma dell’art. 21 della stessa legge di registro, dal momento che nel caso di specie le due diverse disposizioni di cui ai punti a) e b) del dispositivo della sentenza liquidata, sicuramente non derivano le une dalle altre per la loro intrinseca natura e pertanto en-

trambe sono oggetto di imposta. La già rilevata diversità di natura tra l’imposta di registro in misura fissa e l’imposta proporzionale di registro, giustifica la debenza in via solidale di detta imposta fissa da parte di entrambi gli odierni ricorrenti. Considerato l’avvenuto pagamento di parte delle imposte liquidate nonché l’accoglimento parziale e considerato soprattutto che solo nel corso del presente giudizio è stato possibile documentare l’effettiva situazione, ne consegue la totale compensazione delle spese del giudizio.

Nota

prima, e successivamente lo trasferisca ad un terzo, ovvero lo ritrasferisca al fiduciante stesso. Si ritiene in dottrina che la figura in parola appartenga alla categoria dei negozi cd. indiretti, con i quali i privati perseguono uno scopo pratico che devia dalla causa tipica del negozio posto in essere. Sembra corretto ritenere, pertanto, malgrado le espressioni non prive di ambiguità impiegate dall’organo giudicante, che la sentenza tassata abbia accertato la divergenza tra causa tipica del negozio formalmente adoperato dalle parti e operazione economica effettivamente realizzata. Tale operazione comprende anche il trasferimento finale dell’immobile da R. R. ad M. G., che risulta da atto notarile e che la sentenza dunque si limita ad accertare, senza perciò produrre alcuna modificazione della realtà giuridica. Sui caratteri propri del negozio fiduciario, cfr. in dottrina BIANCA, Diritto civile. Il contratto, Milano, 2000, III, 711 ss.; CARNEVALI, voce Negozio giuridico (negozio fiduciario), in Enc. Giur., Roma, 1992, XX; CAVANNA, I rapporti fiduciari, in I contratti in generale, a cura di Cendon, Torino, 2000, IX; TRIMARCHI, voce Negozio fiduciario, in Enc. Dir., Milano, 1978, XXVIII. Mancando pertanto un sostanziale trasferimento di ricchezza che giustifichi la debenza dell’imposta in misura proporzionale, pare appropriato, ad avviso della Commissione, sulla base di quanto disposto dall’art. 8, lett. d, della Tariffa annessa al Testo unico in materia di imposta di registro, applicare il tributo di registro in misura fissa, correlandosi quest’ultimo non ad un fatto indice di capacità contributiva, il quale in concreto non sussiste, bensì alla prestazione di un servizio amministrativo (l’attività di esame e registrazione dell’atto, nonché di conservazione dell’atto registrato). Analoga considerazione viene svolta dal giudice tributario per le altre due imposte, ipotecaria e catastale, il cui presupposto è costituito, secondo l’orientamento costante di dottrina e giurisprudenza, dalla trascrizione, iscrizione, rinnovazio-

Nella sentenza in commento si esamina principalmente la natura del presupposto che giustifica l’applicazione del tributo di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale. Nella specie, l’ente impositore aveva emesso avviso di liquidazione per il pagamento del tributo di registro relativo a sentenza che disponeva il trasferimento di un immobile, qualificando tale tributo come imposta indiretta di tipo proporzionale, avente per presupposto un fatto (indirettamente) espressivo di capacità contributiva quale è, appunto, il trasferimento di un bene. Sulla natura di imposta del tributo in parola, ove sia rapportato al valore di un atto a contenuto economico espressivo di capacità contributiva, cfr. per tutti TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2005, 2, 264. Sul principio secondo cui l’imposta di registro è imposta d’atto e la tassazione deve avvenire con riferimento al contenuto e agli effetti dell’atto medesimo, cfr. Cass., sez. trib., 10 dicembre 2002, n. 7557, in banca dati fisconline; Cass., sez. I, 9 maggio 1997, n. 4057, in banca dati fisconline. La Commissione giudicante, tuttavia, avalla la posizione dei due ricorrenti, considerando anzitutto che l’imposta proporzionale di registro richiede come presupposto un effettivo trasferimento di ricchezza, che nel caso di specie non pare sussistere, atteso che la sentenza civile oggetto di tassazione, secondo quanto affermato dalla Corte, si limita ad adeguare la realtà formale a quella sostanziale determinata da un sottostante rapporto fiduciario intercorrente tra le parti, e a dichiarare quindi un trasferimento di immobile già avvenuto (e provato in giudizio mediante atto notarile). È da osservare infatti che, sul piano civilistico, il cd. negozio fiduciario è quel contratto con cui una parte (fiduciante) trasferisce all’altra (fiduciario) la proprietà di un bene affinché quest’ultima lo amministri secondo le direttive impartite dalla


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ne, cancellazione e annotazione, nei pubblici registri immobiliari, di atti che producono la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento su beni immobili, ovvero di atti relativi ad ipoteche. Cfr. in dottrina TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, cit., 292-293; in giurisprudenza v. Cass., sez. trib., 23 maggio 2005, n. 20598, in banca dati fisconline; Cass., sez. trib., 18 aprile 1998, n. 3945, in banca dati fisconline, ove si sottolinea che solamente la presenza di una vicenda traslativa può generare l’obbligo di pagare l’imposta catastale in misura proporzionale, rimanendo invece assoggettati ad imposta fissa quegli atti oggetto di voltura catastale, ma privi di effetti traslativi (cfr. art. 10, D.Lgs. n. 347/1990). Ciò considerato, non avendo la sentenza tassata

disposto, nel caso di specie, alcun effettivo trasferimento, e non essendo neppure soggetta a voltura catastale né a trascrizione, posto che riguarda un passaggio di proprietà già avvenuto (e quindi già volturato e trascritto), la Commissione giudicante ritiene correttamente di non dover applicare alcuna imposta, se non – come suddetto – quella fissa di registro. Tale tributo, peraltro, è dovuto in via solidale da entrambi i ricorrenti, in quanto parti del processo definito con la sentenza oggetto di tassazione, non essendo rilevante, invece, la qualità di parte (alienante e acquirente) del trasferimento sottostante, che la sentenza, come afferma la Commissione, ha disposto (rectius: accertato) al solo fine di adeguare la realtà formale a quella sostanziale.

PROBLEMI DI QUALIFICAZIONE E QUANTIFICAZIONE DELL’AVVIAMENTO 15

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. X, 18 luglio 2007, n. 75 Presidente: Blandini - Relatore: Curro Imposta di registro - Cessione di azienda - Valutazione dell’avviamento - Calcolo basato sui redditi degli ultimi tre anni - Rilevanza dello stipendio figurativo dell’imprenditore - Esclusione (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 51) Ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro agli atti di trasferimento di azienda, nel calcolo del valore dell’avviamento, basato sui redditi degli ultimi tre anni, non si deve tenere conto dello stipendio direzionale figurativo spettante all’imprenditore, in quanto costo meramente fittizio. L’Agenzia delle Entrate, Ufficio Milano 6, chiede che, in riforma della sentenza della Comm. trib. prov. Milano, sez. X, n. 126 del 5-19 ottobre 2005, appellata con ricorso notificato il 10 ottobre 2006 e depositato il 10 novembre 2006, venga dichiarata la legittimità dell’avviso n. [...], notificato il 17 luglio 2004, con il quale, il valore del bar-tabacchi, venduto dal contribuente [...] con scrittura privata registrata il 24 settembre 2003 al n. [...] serie [...], è stato rettificato, ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, da euro 170.820,00 ad euro 251.301,00. L’Ufficio sostiene che l’avviamento è uno dei parametri (art. 51, comma I e IV, D.P.R. 131/86) in base ai quali si controlla il valore delle aziende compravendute e che, in assenza di un criterio

normativo, viene determinato sulla base, o di elementi desunti dagli studi di settore, o della percentuale di redditività, moltiplicata per tre o per due (in presenza di elementi validamente documentati) applicata alla media dei ricavi accertati o dichiarati ai fini delle imposte dirette, per come è avvenuto nella fattispecie, negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori a quelli in cui è avvenuto il trasferimento. L’avviamento integra, quindi, ad avviso dell’Ufficio, la capacità reddituale dell’azienda, vista come organismo autonomo e complessivo, svincolata, pertanto, dagli elementi connessi all’attività gestionale, come le eventuali perdite d’esercizio negli anni precedenti quelli su cui è stato parametrato. Concetto questo che, sempre ad avviso dell’Ufficio, viene stravolto dal giudice di prime cure quando sostiene che lo stipendio direzionale figurativo di euro 24.725,00 annui in favore del titolare dell’azienda, pur non concretizzandosi in un materiale esborso di denaro, va annoverato tra i costi dell’impresa incidenti negativamente sul reddito. Il contribuente, con memoria difensiva del 4 dicembre 2006, controdeduce: 1) che se l’avviamento rappresenta l’autonoma capacità reddituale dell’azienda, il suo valore è conseguenza diretta dell’andamento della gestione, dai cui vari elementi non è affatto svincolato; 2) che se il titolare non prestasse direttamente la sua opera, occorrerebbe assumere quanto meno un dipendente; 3) che è prassi normale calcolare, non solo la retribuzione figurativa del


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proprietario, quando questi partecipa in modo prevalente ed esclusivo alla gestione, quale costo incidente sulla valutazione dell’avviamento, ma anche la remunerazione del capitale investito e il fattore rischio dell’investimento. All’udienza del 7 giugno 2007, la Commissione, sentiti il relatore e i difensori delle parti, decide di accogliere l’appello e, conseguentemente, di affermare la legittimità dell’avviso di accertamento oggetto di controversia. Ammesso pure che si possa ritenere corretto quanto presupposto dai primi giudici e, cioè, che tutti i costi di gestione di una impresa, anche quelli da lavoro dipendente, incidano negativamente sul reddito della stessa e, quindi, sul valore d’avviamento, che è pari alla differenza tra il maggior valore dell’azienda unitariamente considerata e la somma algebrica dei valori dei singoli beni che la compongono, non sono condivisibili le estreme conseguenze cui tale ragionamento è stato portato. Non è neanche ipotizzabile in un ordinamento di derivazione romanistica, non di common law, come quello vigente nel nostro Paese, la detraibilità effettiva dal reddito dichiarato ai fini Irpef di un costo fittizio. Nella specie, secondo il contribuente, il suo stipendio direzionale figurativo, simbolico, virtuale, dal momento che l’azienda non funzionerebbe senza il suo apporto, stipendio quantificato, in assenza di un rapporto di lavoro dipendente e di una contrattazione collettiva di lavoro di riferimento, nella ragguardevole, discrezionale somma di euro 24.725,00, perché, detratta dal reddito medio base dei 3 anni di attività antecedenti quello della compravendita pari ad euro 81.495,00, da un red-

dito medio netto di euro 56.770, che, moltiplicato per il coefficiente di redditività 3, dà il valore di avviamento di euro 170.310,00 dichiarato nella compravendita; secondo i primi giudici, un salario virtuale pari a quello che il titolare dell’azienda avrebbe conseguito se avesse svolto alle dipendenze di terzi la medesima attività svolta nella propria azienda. Argomento a fortiori resistito dal fatto che il lavoro del titolare di azienda è codificato e qualificato come lavoro autonomo, prestato, cioè, in vista di un risultato finale, a prescindere dall’attività necessaria per conseguirlo; in mancanza del vincolo di subordinazione e con la interdipendenza del compenso del lavoro col risultato del medesimo, nel senso che il lavoro dell’imprenditore trova remunerazione nel reddito dell’impresa. Così, quando l’avvocato o il medico danno un parere, lo spiegamento di questa loro attività è in strettissima correlazione con la causa del negozio, che sarà la soluzione della vertenza o la cura; vale a dire che, risultato e prestazione di lavoro, vengono ad essere compresi nello spiegamento stesso delle energie del lavoro. D’altronde è vero, per come tuzioristicamente sostengono i primi giudici, che, se il contribuente avesse svolto la propria attività lavorativa alle dipendenze di terzi, avrebbe percepito un salario, ma è, altresì, vero che, in tal caso, il contribuente, per come egli stesso evidenzia, avrebbe perso l’azienda e il relativo, cospicuo reddito. Tuttavia, la non patente infondatezza della tesi del contribuente e il suo corretto comportamento processuale, giustificano la compensazione delle spese.

Nota di Roberto Baggio

mento di rappresentare l’effettivo valore dell’avviamento. Le principali perplessità che nascono dalla lettura di questa sentenza risiedono non solo e non tanto nell’inopinata affermazione circa l’irrilevanza dello stipendio figurativo nella quantificazione della componente “avviamento”, ma soprattutto nel fatto di non aver preventivamente e puntualmente definito i contorni di tale concetto, poiché solo in tal modo sarebbe stato possibile valutare la validità e la coerenza dell’operato dell’amministrazione finanziaria.

In assenza di una definizione legale, il concetto di avviamento è stato ricostruito per opera della dottrina e della giurisprudenza. Secondo l’opinione più accreditata, anche in ambito economico-aziendalistico, l’avviamento deve essere identificato con la capacità dell’azienda di produrre un sovrapprofitto. Ciò determina, tra l’altro, l’esigenza di assumere il reddito al netto del costoopportunità del capitale investito e degli altri costi figurativi, come lo stipendio direzionale dell’imprenditore. Nella sentenza in commento, il criterio descritto dall’abrogato art. 2 del D.P.R. 460/1996, viene assunto alla stregua di un criterio legale di quantificazione dell’avviamento in sede di applicazione dell’imposta di registro, senza rilevare che spetta all’Ufficio provare l’idoneità del metodo usato nell’accerta-

Considerazioni introduttive Come è noto, non esiste una definizione normativa del concetto di avviamento; non esiste nella legislazione civilistica e neppure in quella fiscale e quando in quest’ultima il concetto assume una sua specifica rilevanza, dottrina e giurisprudenza sono pressoché concordi nel richiamare le ri-


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costruzioni operate in campo civilistico. Dell’avviamento, in particolare, fanno espressa menzione, tra gli altri, l’art. 17, comma 1, lett. g, e l’art. 86, comma 2, entrambi del T.U.I.R., in tema di tassazione delle plusvalenze realizzate dalla cessione di aziende, nonché l’art. 51, comma 4, del D.P.R. 131/1986, in materia di determinazione della base imponibile ai fini dell’imposta di registro nelle ipotesi di trasferimenti di complessi aziendali. La sentenza che ci si accinge a commentare riguarda un caso di applicazione della norma del registro, ma non è fuori luogo osservare come l’accertamento operato ai fini di questa imposta sia sempre più spesso utilizzato dagli Uffici finanziari per (cercare di) recuperare materia imponibile anche ai fini delle imposte sui redditi1. Ciò che maggiormente caratterizza questa sentenza è l’assenza di qualsiasi preliminare tentativo di ricostruzione della nozione di avviamento, come se si potesse decidere sui criteri di quantificazione di tale valore senza averne prioritariamente stabilito gli esatti contorni concettuali. Questo “vizio originale” porta la Commissione ad accettare come una sorta di parametro legale il criterio proposto dall’Ufficio, secondo il quale l’avviamento andrebbe determinato sulla base degli elementi desumibili dagli studi di settore ovvero, nel caso questi manchino, applicando una percentuale di redditività alla media dei ricavi dichiarati od accertati negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui avviene il trasferimento dell’azienda, moltiplicando poi il risultato per tre o – al ricorrere di certe condizioni – per due. Si ricorderà che tale criterio era previsto dall’art. 2, comma 4, del D.P.R. 31 luglio 1996, n. 460, recante il regolamento di attuazione delle disposizioni per l’accertamento con adesione, peraltro successivamente abrogato per opera del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218. Com’è stato correttamente sottolineato, tale me-

1 Tentativi, peraltro, generalmente destinati all’insuccesso, atteso che nelle imposte sui redditi la plusvalenza tassabile è determinata partendo dal prezzo realizzato dal cedente, mentre nell’imposta di registro la base imponibile è data dal valore in comune commercio dei beni aziendali, compreso l’avviamento (cfr. Comm. trib. centr., 4 ottobre 1982, n. 2533, in Comm. Trib. Centr., 1982, I, 968; Cass., 9 maggio 1985, n. 2878, in Rass. Trib., 1985, II, 498). Viceversa, ai sensi dell’art. 52, comma 4, del D.P.R. 131/1986, l’Ufficio del Registro, per la determinazione

todo valeva solo ai fini dell’accertamento con adesione e non come criterio legale di quantificazione dell’avviamento, ed anche ove si volesse riconoscere la possibilità di utilizzarlo al di fuori di detto contesto, l’Ufficio dovrebbe in ogni caso dare ragione, con elementi riferiti al caso concreto, della sua validità al fine di pervenire ad una determinazione del valore dell’avviamento conforme ai reali valori di mercato2. Nel sistema attuale, è quindi l’Ufficio che deve provare l’idoneità della sua scelta metodologica a rappresentare l’effettivo valore commerciale della componente “avviamento”, all’interno del più ampio processo valutativo interessante l’azienda nella sua interezza. Viste le indubbie complessità insite in un simile compito, che spesso sfuggono al dominio degli stessi esperti che possono accedere ad una massa enorme di dati ed informazioni relativi non solo agli aspetti economici e contabili dell’azienda, ma anche a quelli organizzativi, commerciali, industriali, ecc., e viste le imprescindibili esigenze di speditezza dell’azione amministrativa, sarebbe auspicabile l’introduzione di una norma che, sulla falsariga di quella che per lungo tempo ha inibito le rettifiche del valore o del corrispettivo dichiarato in atto per i terreni agricoli e i fabbricati se non inferiore al cd. valore catastale di tali beni, disponesse l’impossibilità per gli Uffici di operare accertamenti nell’ipotesi in cui il valore dell’avviamento dichiarato dalle parti non fosse inferiore a quello risultante dall’applicazione di un determinato criterio valutativo, da impostare necessariamente su basi un po’ più evolute della rozza formula matematica prevista nell’abrogato art. 2 del D.P.R. 460/1996. Al limite, potrebbe ritenersi addirittura accettabile un’inversione dell’onere della prova a carico dei contribuenti che esponessero nel contratto un valore dell’avviamento inferiore a quello derivato dall’applicazione del criterio legale.

del valore dell’avviamento, «può tener conto anche dell’accertamento compiuto ai fini di altre imposte». La diversità delle due basi imponibili, tuttavia, non impedisce che, una volta fornita la prova del realizzo di un maggior prezzo rispetto a quello dichiarato in atto dalle parti, il valore accertato ai fini del registro possa essere utilizzato quale indizio idoneo a ricostruire, se suffragato da ulteriori elementi raccolti, l’effettiva plusvalenza incassata da venditore (cfr. Comm. trib. centr., 5 luglio 1990, n. 5016, in Comm. Trib. Centr., 1990, I, 522).

2 Cass., 22 marzo 2002, n. 4117. Sostanzialmente negli stessi termini Cass., 25 gennaio 2007, n. 205, e Comm. trib. prov. Macerata, 24 maggio 2006, n. 44, entrambe in banca dati fisconline. Pur riconoscendo il diverso ambito dell’art. 2, comma 4, del D.P.R. 460/1996, Cass., 13 gennaio 2006, n. 613, in banca dati fisconline, ritiene congrua ed insindacabile in sede di legittimità la scelta del giudice di merito di confermare l’accertamento dell’Ufficio fondato sul metodo valutativo della norma in oggetto.


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Così facendo, da un lato verrebbe garantito all’amministrazione finanziaria uno strumento di controllo estremamente efficace e nel contempo utile a ridurre drasticamente il numero degli atti da sottoporre a verifiche più approfondite, e dall’altro verrebbe comunque salvaguardato il diritto dei contribuenti di fornire la dimostrazione che, nel caso specifico, il valore dell’avviamento ascrivibile all’azienda risulta inferiore a quello “teorico”. Si tratta ovviamente di considerazioni de jure condendo, posto che – come detto – l’attuale assetto normativo impone all’Ufficio di provare che il valore proposto in sede di rettifica corrisponde al reale valore di mercato della componente “avviamento”. In ogni caso, e anche in prospettiva, è pregiudiziale stabilire cosa sia l’avviamento di un’azienda perché solamente dopo aver risolto tale questione è possibile tentare di individuare il metodo o i metodi più adeguati per quantificarne il valore da sottoporre a tassazione. La nozione di avviamento L’avviamento è uno dei quei concetti che il legislatore non si è mai premurato di definire, ma che tutti comprendono per via intuitiva, legandolo indissolubilmente a quello di azienda3. Nei primi anni del secolo passato, la Cassazione

3 Un problema ancora aperto, ma sul quale non è possibile dilungarci in questa sede, è se per l’esistenza dell’avviamento sia condizione necessaria o sufficiente la sola azienda, oppure sia richiesto un quid ulteriore rappresentato dall’utilizzazione della stessa in un’impresa. Dalla risposta che si dà a questa domanda possono dipendere, tra l’altro, le conclusioni circa la presenza o meno di un avviamento nelle aziende non ancora in esercizio o in quelle in liquidazione. Su questi aspetti v. la sintesi di CARINCI, Profili di rilevanza fiscale dell’avviamento (definizione, natura, circolazione, quantificazione) (Rassegna di giurisprudenza), in Riv. Dir. Trib., 1996, I, 490 ss. 4 Cass., 19 maggio 1914, in Riv. Dir. Comm., 1914, II, 519, espressasi, tra l’altro, proprio in materia tributaria. In senso sostanzialmente conforme, v. Comm. trib. centr., 18 gennaio 1960, n. 23593, in Giur. Imposte, 1962, 288; Cass., 7 giugno 1947, n. 873, in Dir. Fall., 1947, II, 185; Cass., 9 aprile 1964, n. 817, in Temi, 1964, 239. 5 COLOMBO, L’azienda ed il mercato, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da Gal-

identificava l’avviamento con il «buon nome o la buona reputazione nel mondo degli affari, la fiducia e il credito presso gli altri commercianti, industriali ed il pubblico in genere, la formazione di una clientela sempre crescente»4. In questo modo, peraltro, si poneva l’accento sui fattori o sulle manifestazioni dell’avviamento, senza dunque entrare nel suo contenuto essenziale e così non cogliendone il carattere di originalità rispetto alle sue cause5. Nelle circostanze in cui si è avvertita l’esigenza di delineare e specificare tale contenuto, una parte della giurisprudenza si è pronunciata nel senso di identificare l’avviamento con la funzionalità dell’azienda, intesa come attitudine del complesso dei beni organizzati di produrre beni e servizi6. Questo orientamento, tuttavia, appare decisamente minoritario rispetto a quello che identifica l’avviamento nella capacità dell’azienda di generare utili e profitti7. All’interno di esso, sono indubbiamente da privilegiare quelle ricostruzioni che, andando al di là del riferimento ad una generica capacità dell’organizzazione aziendale di produrre reddito, qualificano l’avviamento come l’attitudine dei beni organizzati a generare utili diversi e maggiori di quelli che potrebbero essere conseguiti dall’utilizzazione separata di ciascuno di essi8.

gano, Padova, III, 29; ASCARELLI, Lezioni di diritto commerciale. Introduzione, Milano, 1962, 220; CASANOVA, Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1974, X, I, 1, 329; CARINCI, Profili di rilevanza fiscale dell’avviamento, cit., 475 ss., spec. 481 ss.; Cass., 21 gennaio 1953, n. 150, in Riv. Dir. Comm., 1953, II, 99; Cass., 29 marzo 1949, n. 647, ivi, 1950, II, 177; Cass., 15 marzo 1982, n. 1686, in Rep. Foro It., 1982, voce Divisione, n. 19. 6 Cfr., tra le altre, App. Milano, 14 gennaio 1982, in Vita Notar., 1993, 883; Comm. trib. centr., 18 maggio 1982, n. 1201, in Giur. Imposte, 1983, 544. 7 Cfr., tra le altre, Cass., 21 gennaio 1953, n. 150, in Riv. Dir. Comm., 1953, II, 99; Cass., 15 marzo 1982, n. 1686, in Rep. Foro It., 1982, voce Divisione, n. 19; Comm. trib. centr., sez. un., 22 giugno 1965, n. 77122, in Giur. Imposte, 1965, 442; Comm. trib. centr., 21 giugno 1990, n. 4857, in Giur. Imposte, 1990, 864; Cass., 20 settembre 1996, n. 8387, in banca dati fisconline; Cass., 25 gennaio 2007, n. 205, cit. L’avviamento viene generalmente inteso come una qualità e un modo

di essere dell’azienda (cfr., tra le altre, Comm. trib. centr., sez. un., 22 giugno 1965, n. 77122, cit.; Cass., 28 aprile 1982, n. 2645, in Giust. Civ., 1982, I, 2061, Cass., 2 maggio 1990, n. 349, in Fisco, 1991, 2411; Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, in Foro It., 1995, I, 1296; altri riferimenti in CARINCI, Profili di rilevanza fiscale dell’avviamento, cit., 487 ss.). Non mancano tuttavia affermazioni in cui l’avviamento è considerato un bene immateriale (cfr., tra le altre, Cass., 7 ottobre 1975, n. 3178, in Giust. Civ., 1975, 879; Comm. trib. centr., 12 maggio 1989, n. 3337, in Rass. Imposte, 1989, 1291; ulteriori richiami si trovano in CARINCI, Profili di rilevanza fiscale dell’avviamento, cit., 488). Per una critica di tale ultima impostazione v. COLOMBO, L’azienda, cit., 29, il quale sottolinea come l’avviamento non sia autonomamente trasferibile dall’azienda né autonomamente tutelato. 8 Cfr., tra le altre, Cass., 22 marzo 1982, n. 1832, in Giur. Imposte, 1982, 1264; Cass., 18 febbraio 1983, n. 1266, in Rep. Foro It., voce Locazione, n. 976; Comm. trib. centr., 6 luglio 1988, n. 5429, in Comm. Trib. Centr.,


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In quest’ottica sono probabilmente da collocare anche coloro che esprimono l’avviamento in termini di capacità di “profitto puro”9, qualora quest’ultima espressione sia da interpretare come la quota di utile che residua dopo che sono stati remunerati, secondo una misura giudicata normale, tutti i fattori della produzione. Si tratta, a ben vedere, di una configurazione che ricalca quelli che sono stati gli esiti della ricerca profusa dalla migliore dottrina aziendalistica, i quali sono talvolta, ma inopinatamente, trascurati nei vari tentativi di ricostruzione del concetto di avviamento che avvengono nell’ambito del diritto civile e del diritto tributario. Benché anche nell’area degli studi economiciaziendali vi siano state e vi siano tuttora opinioni discordanti in ordine alla diverse sfaccettature dell’avviamento e alle effettive possibilità di pervenire ad un’oggettiva sua autonoma quantificazione10, i grandi maestri di tale disciplina hanno da tempo individuato nell’avviamento la condizione o l’insieme delle condizioni onde un’azienda può dirsi atta a fruttare nel futuro un sovrapprofitto11. Quest’ultimo è stato inteso in tre modi diversi: a) come differenza fra il reddito effettivo, da una parte, e l’interesse di computo sul capitale più la remunerazione per il lavoro dirigenziale dell’imprenditore, dall’altra12; b) come differenza fra il reddito effettivo e la media dei redditi conseguiti da imprese similari che svolgono attività nello stesso settore con parità di rischio13; c) come differenza fra il reddito effettivo ed il reddito che si potrebbe conseguire qualora si iniziasse ex novo l’attività nello stesso luogo con l’impie-

1988, I, 597; Cass., 2 agosto 1995, n. 8470, in Foro It. Mass., 1995, 952). Anche l’amministrazione finanziaria (circ. Ispettorato compartimentale di Napoli, 19 febbraio 1980, n. 10, in banca dati fiscoline), riconobbe la validità, per il calcolo dell’avviamento, del metodo della capitalizzazione dei cd. soprarredditi, ma alla fine preferì optare per un criterio sommario fondato sulla capitalizzazione per tre dell’utile lordo economico, a ben vedere unicamente per motivi pratici e di facilità applicativa e di controllo. 9 COLOMBO, L’azienda, cit., 29, con ulteriori richiami. Si ricordi anche la definizione di ROTONDI, Trattato di diritto dell’industria, Padova, 1929, 159: l’avviamento è la capacità dell’azienda a conseguire risultati economici che, indipendentemente dall’organizzazione aziendale, i singoli ele-

go di un uguale capitale14. Il concetto di gran lunga più seguito, non solo per l’autorevolezza dei suoi propugnatori, ma anche per le insormontabili complessità insite nelle nozioni alternative15, è senza dubbio quello riportato sub lettera a, ossia l’attitudine o la qualità idonea a generare redditi superiori a quelli che remunerano puramente capitali ed energie personali, tenendo conto – comunque ed in ogni caso – del grado di rischio economico dell’impresa esercitata. Rinviando al paragrafo successivo per una breve disamina delle problematiche relative alla quantificazione autonoma dell’avviamento, in questa sede giova sottolineare come l’analisi aziendalistica possa soprapporsi e integrarsi con quella giuridica, contribuendo in particolare a rendere più chiari i contorni e le metodologie di descrizione dell’avviamento. Da quanto sopra è possibile trarre la convinzione che in un processo di valorizzazione dell’avviamento, reputabile come metodologicamente corretto, è necessario determinare innanzitutto il sovrapprofitto attribuibile alla realtà aziendale oggetto di stima, cui si perviene dopo aver dedotto dal reddito prospettico il costo-opportunità del capitale investito16 e il compenso figurativo dell’imprenditore, ove questo non sia già presente nel conto economico, ad esempio sotto forma di compenso per l’attività e per il ruolo di amministratore. Non si può quindi concordare, come impostazione di principio, con i giudizi espressi dalla Commissione tributaria regionale nella sentenza in commento in ordine all’ininfluenza – per così dire – dello stipendio figurativo dell’imprenditore nella quantificazione dell’avviamento17.

menti non potrrebbero conseguire. 10 Si veda, in proposito, la sintesi di ROMANO, L’impairment test dell’avviamento e dei beni intangibili specifici, Torino, 2004, 27 ss. 11 BESTA, La ragioneria, Milano, 1920, I, 85; ZAPPA, Il reddito di impresa, Milano, 1951, 578; AMADUZZI, L’azienda nel suo sistema e nell’ordine delle sue rilevazioni, Torino, 1963, 109. 12 AMADUZZI, L’azienda, cit., 109, 285 ss.; D’IPPOLITO, L’avviamento, Palermo-Napoli, 1963, 25 ss.; BESTA, La ragioneria, cit., 85. 13 DELLA PENNA, I fondamenti della ragioneria, Milano, 1934, 123. 14 DE DOMINICIS, Lezioni di ragioneria generale, Bologna, 1966, III, 91. 15 Per ONIDA, I finanziamenti iniziali di impresa, Milano, 1931, 384, ad esempio, non è chiaro il termine di confronto: «quali imprese sono similari? La simi-

larità dovrà ricercarsi solo nelle combinazioni produttive attuate, o nella specie di prodotti o di merci venduti? O si dovrà badare anche alle dimensioni delle imprese ed al diverso rischio da esse eventualmente rappresentato? E fino a quali limiti si dovrà estendere l’osservazione?». Intuitive sono inoltre le complessità insite nel criterio sub c), data l’impossibilità di determinare il reddito ipotetico di un’azienda che inizia la sua attività. 16 Il tasso da applicare al capitale investito è normalmente quello che il mercato prevede per gli investimenti finanziari privi di rischio, aumentato della svalutazione monetaria e diminuito del carico fiscale, per omogeneità con l’assunzione del reddito prospettico al netto delle imposte. 17 Richiedono invece la detrazione della remunerazione dell’opera dell’im-


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Diciamo come impostazione di principio perché è comunque francamente difficile ragionare secondo un rigoroso procedimento estimativo quando tutte le premesse sono impostate su valori o dati approssimativi, su formule sintetiche e su ragionamenti di chiara matrice induttiva. In effetti, se non altro, il dato della redditività media degli ultimi tre esercizi, oltre che essere rettificato per tenere conto della remunerazione del capitale investito e dello stipendio figurativo dell’imprenditore, andrebbe normalizzato e depurato delle imposte. Come già in precedenza rilevato, il vizio inficiante la ratio decidendi è stato quello di non aver definito prioritariamente il concetto di avviamento e di aver assunto come una sorta di criterio legale di quantificazione dello stesso il criterio proposto dall’Ufficio, quando invece l’idoneità di questo a rappresentare l’effettivo valore di mercato della componente avviamento18 riferita alla specifica azienda era tutt’altro che provata. Non si conoscono esattamente i termini di svolgimento del processo, compresa la fase di primo grado. Non si esclude – anche se pare difficile da credere – che il contribuente abbia fatto in qualche modo acquiescenza al criterio avanzato dall’Ufficio, limitandosi a contestare la mancata detrazione dello stipendio figurativo dai redditi capitalizzati. Se così fosse, la difesa ne ha certamente risentito, aprendo la strada ad una ricostruzione sommaria dell’avviamento ove poco spazio trovano gli elementi sopra esposti che presuppongono un procedimento valutativo assai più rigoroso e analitico. E la critica più severa non può che riguardare tale approccio prima ancora del rifiuto di prendere in considerazione, quale fattore di riduzione del

prenditore Comm. trib. II gr., Pisa, 15 maggio 1991, in Fisco, 1991, 7095 e Comm. trib. I gr. Salerno, 29 ottobre 1996, n. 43, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. Si veda altresì Comm. trib. I gr. Sondrio, 14 marzo 1996, n. 13, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big, la quale rammenta che l’amministrazione finanziaria ebbe ad affermare, nelle istruzioni ministeriali del 10 ottobre 1934, che «l’avviamento è l’insieme delle condizioni per cui l’azienda possa dirsi atta a fruttare un sovrapprofitto futuro e cioè redditi superiori a quella misura che remuneri solamente il capitale impiegato e le energie personali dell’imprenditore o dei soci impiegati nel processo economico aziendale». L’opinione contraria traspare, invece,

reddito da capitalizzare, lo stipendio figurativo dell’imprenditore o del riferimento, non pertinente nella fattispecie in discussione, dell’indetraibilità effettiva dal reddito dichiarato ai fini Irpef di un costo fittizio19. Le metodologie valutative L’art. 51 del D.P.R. 131/1986 stabilisce che la base imponibile degli atti che hanno per oggetto il trasferimento di aziende o diritti reali su di esse è data dal valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento. Così come strutturata, la norma sembra richiedere che il controllo sulla congruità del valore dichiarato dalle parti debba necessariamente passare attraverso una valutazione di ogni singolo bene, compreso l’avviamento20. Dovrebbero quindi ritenersi esclusi i criteri sintetici di valutazione del compendio aziendale, come sono per esempio quelli sempre più spesso impiegati nella pratica nazionale e internazionale, basati su moltiplicatori di determinati parametri economici come l’Ebit (acronimo inglese sostanzialmente corrispondente al reddito operativo netto aziendale) o l’Ebitda (sostanzialmente corrispondente al reddito operativo al lordo degli ammortamenti), il cui risultato deve essere poi sommato algebricamente con la posizione finanziaria netta dell’azienda. Parimenti da escludere sono i criteri di valutazione cd. finanziari secondo i quali il valore dell’azienda non è in funzione di quello che l’azienda dà in termini di profitti attesi, ma del valore attuale degli utili o dei flussi di cassa prelevabili senza alterarne l’equilibrio finanziario. Il metodo che sembra invero più adatto a rispec-

da una risalente sentenza della Cassazione (sent. 4 luglio 1958, n. 2395, in Foro It., 1959, I, 622). 18 Sebbene sia improprio – se non per un uso esclusivamente pratico – imputare un valore di mercato all’avviamento, posto che questo non è un bene né può essere trasmesso in modo separato rispetto all’azienda. 19 Non c’è in effetti connessione tra l’indeducibilità di un componente del reddito nell’ambito dell’Irpef e il procedimento di quantificazione del valore corrente della componente “avviamento” di un’azienda ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, anche se questo procedimento si fonda sulla capacità di reddito dell’azienda medesima. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che questa imposta mira a tassare il valore di

mercato attribuibile all’azienda, compresa la parte riferibile all’avviamento, e tale valore deriva da un calcolo e da una scelta di fattori che dipendono essenzialmente dall’ammontare degli utili realizzabili prospetticamente dall’azienda, al netto delle remunerazioni dei fattori della produzione e delle imposte dovute in relazione a detti utili. Tale stima tiene conto, dunque, anche di elementi extracontabili e guarda maggiormente all’inerenza dei costi rispetto al processo economico che alla loro deducibilità fiscale. 20 Il legislatore usa qui il termine “bene” in senso atecnico, poiché devono intendersi compresi tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di un’autonoma valutazione, come, ad esempio, i crediti.


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chiare la volontà normativa è il cd. metodo misto, patrimoniale e reddituale, con stima autonoma dell’avviamento21. In base a questo metodo, il valore del patrimonio netto rettificato va sommato con il valore attuale di una rendita rappresentata dal sovrapprofitto. Il sovrapprofitto è dato dalla differenza tra il reddito medio normale atteso e il rendimento del capitale giudicato soddisfacente, attualizzato per “n” anni ad un determinato tasso d’interesse22. È prassi che per determinare il reddito prospettico si parta dai redditi storici degli ultimi due o tre esercizi, procedendo alla loro “normalizzazione” cioè eliminando i componenti di reddito straordinari, depurando i conti economici dalle politiche di bilancio, inserendo – ove occorra – voci di costo inerenti all’azienda, ma non computate in bilancio (come lo stipendio direzionale dell’imprenditore o l’affitto figurativo dei locali di proprietà personale di quest’ultimo). Il reddito medio atteso, infine, va assunto al netto delle imposte dovute sul reddito stesso23. La procedura di stima autonoma dell’avviamento, secondo corretti principi aziendalistici, si discosta quindi non poco dalle sommarie ricostruzioni operate dagli Uffici finanziari. Le approssimazioni come l’assunzione del reddito fiscale in luogo del reddito di bilancio o la mancata neutralizzazione delle eventuali politiche di bilancio, potrebbero al limite essere accettabili, se non palesemente rilevanti nel caso concreto, all’interno di un processo valutativo finaliz-

21 Secondo alcuni (ZAPPA, Il reddito di impresa, cit., 577; ANDREANI, L’avviamento dell’impresa, Milano, 1958, 53), non è possibile una distinta stima del valore dell’avviamento. Altri autorevoli studiosi (AMADUZZI, L’azienda, cit., 185 ss; D’IPPOLITO, L’avviamento, cit., 14 ss.) invece l’ammettono, così come la dottrina più recente (GUATRI, Trattato sulla valutazione delle aziende, Milano, 1998, 279 ss.). 22 Per un’approfondita disamina del metodo in discussione v. GUATRI, Trattato sulla valutazione, cit., 279 ss. 23 Così anche Comm. trib. II gr., Pisa, 15 maggio 1991, in Fisco, 1991, 7095; Comm. trib. prov. Macerata, 9 dicembre 1987, citata da CARINCI, Profili, cit.; contra Comm. trib. II gr., Trieste, 1 marzo 1988, in banca dati I quattro codici della riforma tributaria Big. 24 In questo contesto, si potranno altresì discernere, ai fini valutativi, i cd. fattori oggettivi dell’avviamento,

zato all’applicazione24 di una norma tributaria quale l’art. 51 del D.P.R. 131/1986. La scelta del numero degli anni di attualizzazione del sovrapprofitto e dei tassi d’interesse potrà essere calibrata dall’Ufficio in relazione alla realtà aziendale oggetto della stima, scelta che il contribuente potrà eventualmente sindacare in sede giurisdizionale25. Anche sulla determinazione del reddito medio si ritiene che l’Ufficio goda di una certa discrezionalità (fermo restando quanto sopra esposto), perché potrà limitarsi a mediare i redditi degli anni precedenti, ovvero proiettare nel futuro la capacità reddituale dell’azienda, purché il tutto avvenga fornendo un’adeguata motivazione del proprio operato. Ma se l’avviamento rappresenta e descrive l’attitudine dell’azienda a produrre un sovrapprofitto, cosa accade, ai nostri fini, in presenza di risultati economici negativi negli esercizi precedenti al trasferimento dell’azienda? In linea di principio, l’assunzione di dati prospettici potrebbe determinare un ribaltamento dei risultati della gestione, ma evidentemente occorrerà che i presupposti posti a base della proiezione futura siano particolarmente convincenti; in caso contrario, nessun valore di avviamento dovrà, in sede di applicazione della norma del registro, essere attribuito al compendio aziendale oggetto del trasferimento, mentre è assai dubbia la possibilità di dedurre dalla base imponibile un valore di avviamento negativo26.

intrinseci all’organizzazione aziendale e come tali perfettamente trasferibili, dai fattori soggettivi, legati alle doti personali dell’imprenditore e, quindi, difficilmente trasferibili o trasferibili solo in parte. 25 Ma solo nelle fasi di merito, visto che – come più volte ribadito dalla Cassazione (cfr., tra le altre Cass., 21 gennaio 2008, n. 1170; Cass., 25 febbraio 2002, n. 2702; Cass., 29 settembre 1999, n. 10817, tutte reperibili in banca dati fisconline) – la valutazione dell’avviamento di un’azienda costituisce giudizio di fatto, immune dal sindacato di legittimità, se adeguatamente motivato (sui differenti modi di apprezzare tale adeguatezza però v. nota 2). 26 Riconoscono l’impossibilità per l’Ufficio di calcolare e sottoporre a tassazione un valore di avviamento in mancanza di redditi nelle passate gestioni: Cass., 10 luglio 1962, n. 1819, in Rep. Foro It., voce Azienda,

n. 7; Cass., 9 aprile 1964, n. 817, in Temi, 1964, 239; Comm. trib. II gr., Roma, 28 settembre 1993, in Riv. Notarile, 1994, I, 429. Quest’ultima decisione ammette anche l’espressione di un avviamento negativo. Secondo un più recente orientamento giurisprudenziale (Cass., 25 febbraio 2002, n. 2702; Cass., 13 gennaio 2006, n. 613, entrambe in banca dati fisconline), l’esistenza di un valore di avviamento non può essere esclusa sulla base della solo circostanza che l’impresa abbia subito delle perdite negli anni precedenti. Tale affermazione, come detto nel testo, è astrattamente condivisibile, ma, attesa la natura dell’avviamento, essa non può andare disgiunta dalla necessità che, in simili situazioni, si debba pretendere dall’Ufficio un corredo di motivazioni e di elementi probatori particolarmente forte ed efficace.


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Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. I, 10 ottobre 2007, n. 239 Presidente: Lugli - Relatore: Previdi Imposta di registro - Agevolazioni “prima casa” Accertamento - Termini di decadenza - Proroga biennale prevista dall’art. 11, L. n. 289/2002 Norma eccezionale - Interpretazione analogica Estensione alla possibilità di sanatoria - Esclusione (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 76, comma 2; L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 11, comma 1bis) La proroga biennale del termine di decadenza dall’azione di accertamento, ai fini dell’imposta di registro, disposta dall’art. 11, comma 1, della L. 289/2002, è norma di carattere eccezionale, non suscettibile di interpretazione analogica; conseguentemente, tale norma non si estende alla possibilità, prevista dal successivo comma 1-bis dello stesso art. 11, di sanare, ad istanza di parte, le violazioni relative all’applicazione, con agevolazioni tributarie, delle imposte di registro, ipotecaria e catastale. Svolgimento del processo Con il ricorso all’epigrafe, il sig. A. S. impugnava l’avviso di liquidazione d’imposta e irrogazione di sanzioni per ottenere la declaratoria di illegittimità dello stesso. L’avviso concerne le imposte di registro, ipotecaria e catastale, pretese dall’Agenzia delle Entrate in conseguenza della revoca delle agevolazioni concesse al ricorrente in relazione all’acquisto della prima casa; e ciò in dipendenza dell’avvenuto successivo riscontro di una residenza diversa dal Comune di Modena Ciò che, in tesi dell’Ufficio, avrebbe comportato la decadenza delle agevolazioni. Il ricorrente eccepisce: 1. La decadenza dell’azione per decorso del termine triennale previsto dall’art. 76, comma 2, D.P.R. 131/86, decorrente dalla richiesta di registrazione. Il termine sarebbe scaduto il 17 gennaio 2004 e non sarebbe applicabile la proroga biennale prevista dall’art. 11, comma 1, L. 289/02. 2. Nel merito, invoca una esimente (la forza maggiore) che avrebbe impedito di assumere la residenza dell’immobile; in sostanza il protrarsi di lavori di restauro e risanamento. 3. L’avvenuto trasferimento, di fatto, della resi-

denza in altro immobile nel Comune di Modena [...], come risulterebbe dai contratti di somministrazione di elettricità, gas metano, acqua, dai rendiconti delle spese condominiali e da un contratto di comodato. L’Ufficio depositava controdeduzioni in data 2 maggio 2006, contestando il ricorso e chiedendone il rigetto. Motivi della decisione L’eccezione preliminare, concernente la decadenza dall’azione per decorrenza del termine triennale è – ad avviso della Commissione – fondata, come già ritenuto in precedenza dalla Commissione provinciale di Modena, in caso analogo, con decisione pronunciata il 9 maggio 2007 e pubblicata il 21 giugno 2007. In effetti, la proroga biennale disposta dall’art. 11, comma 1, della L. 289/02, (norma di carattere eccezionale e non suscettibile di interpretazione analogica) riguarda gli accertamenti di maggior valore. La disposizione in argomento consentiva, infatti, di «definire con l’aumento del 25% i valori nonché gli incrementi di valore dei beni, assoggettabili a procedimento di valutazione, dichiarati negli atti». Solo nei confronti di chi non si fosse avvalso di tale facoltà operava, dunque, la proroga di due anni per la rettifica e liquidazione delle maggiori imposte. Del tutto diversa era invece la possibilità di sanare le violazioni connesse alla fruizione di agevolazioni fiscali pagando la sola maggiore imposta senza applicazione di sanzioni (come nel caso in esame). Tale possibilità era prevista separatamente, connorma autonoma (comma 1-bis) che diversamente dal comma precedente non disponeva alcuna proroga dei termini. Del resto è significativo che, con specifico provvedimento (L. 21 febbraio 2003, n. 27), sia stato novellato l’art. 11 della legge 289/2002, peraltro senza alcuna previsione specifica riguardante la proroga dei termini decadenziali anche per le diverse ipotesi regolate dal comma 1-bis. Il ricorso deve, pertanto, essere accolto; sussistono ad avviso della Commissione, giusti motivi, data la particolarità della questione, per disporre la compensazione delle spese.


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Nota La decisione affronta il tema della decadenza dell’amministrazione finanziaria dal potere di accertamento in correlazione con quello (particolarmente complesso) dell’interpretazione estensiva o analogica delle norme tributarie di natura “non sostanziale”, aventi carattere eccezionale e/o derogatorio rispetto alla disciplina generale. Il caso riguarda l’emanazione di un avviso di liquidazione delle imposte di registro, ipotecarie e catastali, scaturente dalla “revoca” delle agevolazioni fiscali fruite dal contribuente con riferimento all’acquisto dell’abitazione principale, per successivo avvenuto riscontro, da parte dell’Ufficio, della carenza di uno dei requisiti previsti dalla legge. Il ricorrente eccepiva preliminarmente l’illegittimità dell’atto impositivo per intervenuta decadenza dall’azione, essendo decorso il termine triennale previsto dall’art. 76, comma 2, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131. Trovavano applicazione, ratione temporis, le disposizioni previste dall’art. 11 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, in materia di definizione agevolata ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catastale. Appare utile, in questa sede, ricordare che il comma 1 della norma citata contemplava la possibilità di definire, in via appunto agevolata ed a determinate condizioni, i valori dichiarati in atti, «ad istanza dei contribuenti da presentare entro il 16 aprile 2003», disponendo inoltre, in caso di omessa presentazione dell’istanza e «in deroga all’art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212», una proroga biennale degli ordinari termini di decadenza per la rettifica e la liquidazione della maggiore imposta. Analoga espressa previsione di proroga dei termini decadenziali, non era invece presente nel successivo comma 1-bis, concernente la possibilità di sanatoria (sempre ad istanza di parte) delle violazioni relative all’applicazione, con agevolazioni tributarie, delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, «su atti, scritture denunce e dichiarazioni di cui al comma 1». I giudici modenesi, procedendo ad una piana interpretazione delle disposizioni in questione, correttamente hanno ritenuto che la proroga biennale dei termini di decadenza ordinari dal potere impositivo disposta dall’art. 11, comma 1, L. n. 289/2002 (definita dal Collegio come «norma di carattere eccezionale e non suscettibile di interpretazione analogica») riguardasse esclusivamente «gli accertamenti di maggior valore», essendo

del tutto diversa «la possibilità di sanare le violazioni connesse alla fruizione di agevolazioni fiscali pagando la sola maggiore imposta senza applicazione di sanzioni (come nel caso in esame)». A sostegno di tale tesi, la Comm. trib. prov. rilevava che quest’ultima possibilità era prevista, in modo distinto ed autonomo, dal comma 1-bis dello stesso art. 11, non recante esplicitamente alcuna proroga dei termini decadenziali in discussione; veniva inoltre evidenziato (introducendo un argomento interpretativo di carattere squisitamente sistematico), come la successiva legge 21 dicembre 2003, n. 27, avesse «novellato l’art. 11 della legge 289/2002 [...] senza alcuna previsione specifica riguardante la proroga dei termini decadenziali anche per le diverse ipotesi regolate dal comma 1-bis». Sul piano dei termini di decadenza per l’esercizio del potere impositivo, l’art. 76, D.P.R. n. 131/1986, stabilisce un termine triennale decorrente dalla registrazione dell’atto, affinché possano essere richieste le imposte principali e suppletive, ovvero, nel caso di imposte complementari, dalla data di presentazione della denuncia (ex art. 19, D.P.R. n. 131/1986) di eventi successivi alla registrazione che diano luogo a liquidazione di ulteriori imposte (su questo ultimo punto, suscita alcune perplessità l’affermazione della Commissione secondo cui la decadenza dall’azione per decorso del termine triennale previsto dall’art. 76, comma 2, D.P.R. n. 131/86, decorrerebbe dalla richiesta di registrazione; contra Cass., sez. un., 21 novembre 2000, n. 1196). Con le norme sulla decadenza, il legislatore pone comunque dei limiti temporali all’esercizio della potestà tributaria, stabilendo i termini entro i quali tutti gli atti impositivi (compresi quelli integrativi o modificativi di atti precedenti) devono essere notificati; ciò sia in funzione di tutela e garanzia delle posizioni giuridiche soggettive del contribuente, sia per esigenze “pubbliche” di economia procedimentale e stabilità, certezza/definizione del rapporto tributario. Secondo l’opinione prevalente, l’inosservanza del termine decadenziale, rende l’atto soltanto annullabile e non emanato in carenza di potere, in quanto la scadenza del termine non estingue il potere impositivo, ma obbliga l’amministrazione finanziaria a non esercitarlo (vedi per tutti, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2006, I; FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005). Appare interessante l’argomento logico-interpretativo usato dai giudici tributari per negare nello specifico la possibilità di estendere analogica-


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mente la proroga biennale dei termini di decadenza dall’azione accertativa disposta dall’art. 11, comma 1, L. n. 289/2002, in quanto norma eccezionale, ai sensi dell’art. 14, disp. prel. c.c. Anche alle norme tributarie devono ritenersi applicabili i principi generali sull’interpretazione codificati dal legislatore negli artt. 12 ss., disp. prel. c.c., nonché i consolidati criteri ermeneutici elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza (per una disamina storica di tali principi, si rinvia a MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003). Premesso che il procedimento analogico può identificarsi con l’attività di interpretazione logica mediante la quale viene estesa (ultra litteram) la disciplina prevista dalla norma a fattispecie simili o prossime a quelle espressamente regolate, non vi è dubbio che le norme di carattere procedurale (che cioè disciplinano il procedimento di accertamento e/o riscossione delle imposte, nonché il processo tributario) siano, in generale, suscettibili di essere applicate analogicamente oltre i casi espressamente previsti (vedi per tutti, TESAURO, op. cit.; FALSITTA, op. cit.; MELIS, op. cit.). Parte della dottrina, ritiene, peraltro, che abbia luogo l’interpretazione analogica anche quando si procede al completamento della disciplina di istituti, quali l’obbligazione tributaria, la solidarietà, la prescrizione, la decadenza, ecc., di cui la legge tributaria non detta una compiuta disciplina, ricorrendo ai principi ed alle norme civilistiche (cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2006, 62-63; FREGNI, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998; contra, la dottrina tradizionale per la quale l’obbligazione pubblicistica e quella tributaria sono species dell’obbligazione di diritto comune disciplinata dal codice civile, dunque non vi sarebbe alcuna analogia, ma solo applicazione delle norme comuni ove non dispongono quelle speciali – vedi per tutti, GIANNINI, L’analogia giuridica, in Jus, 1941, 916 ss.; Id., L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, in Riv. Dir. Fin., 1941, I, 95 ss.). Gli art. 13 e 14 delle disp. prel. c.c., tuttavia, vietano al giudice-interprete di procedere all’applicazione analogica delle «norme corporative», delle «leggi penali» e delle «leggi eccezionali»; lo stesso legislatore definisce le «leggi eccezionali» come quelle leggi che «fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi«, assumendo il termine “legge” come sinonimo di “norma” o “regola” e ponendo, in questo modo, le basi per l’individua-

zione di almeno quattro diverse classi di norme “eccezionali”: 1) le norme speciali derogatorie; 2) le norme derogatorie di norme di esclusiva; 3) le norme, diverse dalle precedenti, che derogano a prescrizioni configurabili come “norme generali”, “comuni” o “strutturali”; 4) le norme individuali di privilegio, che attribuiscono posizioni favorevoli o sfavorevoli, a soggetti determinati, in deroga al principio di uguaglianza davanti alla legge. Le cd. “leggi di sanatoria” (categoria cui risulta riconducibile la L. n. 289/2002 in materia di definizione fiscale agevolata) sono pacificamente qualificabili come eccezionali rispetto all’impianto normativo ordinario (cfr. in questo senso, Corte cost., 5 febbraio 1999, n. 14; Corte cost., 3 giugno 1998, n. 211, in Fisco, 1998, 11010), con la conseguente inapplicabilità analogica. Autorevole dottrina, a proposito di condono tributario, qualifica, senza mezzi termini, la relativa normativa come «la più netta conferma della distorsione del fine ultimo della norma tributaria, che deve ritenersi quello dell’equa distribuzione dei carichi tributari in ragione della capacità contributiva individuale» (cfr. TINELLI, Condono tributario e principio di uguaglianza, in Riv. Giur. Trib., 2008, 1, 18), costituendo, in effetti, il consolidamento di una “situazione di inuguaglianza”, in aperta violazione degli artt. 3, 41 e 53 Cost. (cfr. anche FALSITTA, I condoni fiscali tra rotture di regole costituzionali e violazioni comunitarie, in Fisco, 2003, 794). L’argomentazione dei giudici risulta ancora più convincente (e la natura eccezionale della norma disponente la proroga dei termini decadenziali ancora più evidente), se la si considera alla luce dei principi generali previsti dall’art. 3, comma 3, legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), secondo cui «I termini di prescrizione e decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati»: pur trattandosi infatti di un principio derogabile (e spesso derogato) dal legislatore ordinario, appare comunque chiara la finalità generale di rafforzare, nella regolamentazione della fase di attuazione dell’obbligazione tributaria, la ragionevolezza e la congruità dell’esercizio del potere di accertamento in tempi certi e predefiniti (cfr., in questo senso, MASTROIACOVO, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Fantozzi-Fedele, Milano, 2005, 121 ss.; AA.VV., Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di Marongiu, Torino, 2004).


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IMPOSTE SUI REDDITI IL TRANSFER PRICING TRA ELUSIONE E MERA APPLICAZIONE DEL VALORE NORMALE 17

Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. II, 9 maggio 2007, n. 52 Presidente: Nannipieri - Relatore: Mamone Imposte sui redditi - Reddito d’impresa - Cessioni di beni infragruppo - Società non residenti - Valore normale - Onere della prova (D.P.R. 26 dicembre 1986, n. 917, art. 76, comma 5 - ora art. 110, comma 7) In tema di transfer pricing, l’onere della prova grava sull’amministrazione finanziaria, la quale deve dimostrare che la differenza tra il prezzo praticato ai soggetti infragruppo, comparato alle condizioni di mercato ordinarie, non trova adeguata giustificazione economica. Svolgimento del processo Con il ricorso oggetto del presente giudizio la [...] S.p.A., società che opera nel mercato delle pompe da giardino, si opponeva avverso avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate Ufficio di Pontedera, relativamente all’anno 2002. Sulla base del processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza a conclusione di una verifica generale, l’Ufficio aveva mosso i seguenti rilievi: 1) Quote di ammortamento non deducibili. L’Ufficio contestava l’ammortamento cosiddetto anticipato del costo sostenuto per spese relative ad impianti e stampi. 2) Transfer pricing. Venivano recuperati a tassazione i ricavi non contabilizzati in seguito a cessioni di prodotti alla propria controllata francese N.P.E. S.r.l. a un prezzo ritenuto inferiore al valore normale. 3) Omessa regolarizzazione di operazioni imponibili e irregolare emissione di fattura. Veniva contestata la registrazione di una fattura di acquisto emessa in sospensione di imposta senza aver ricevuto preventivamente l’apposita lettera di intenti da parte del cedente. Con riguardo ad altra fattura emessa a titolo di esportazione l’Ufficio accertava che non era stata prodotta la prova di detta effettiva esportazione, venendo meno la le-

gittimità della mancata applicazione di imposta por tale cessione. Avverso l’avviso di accertamento la ricorrente proponeva tempestivo ricorso contestando i soli rilievi di cui a i punti 1) e 2), trovando, pertanto, conferma definitiva il rilievo n. 3). La Commissione all’udienza del 29 gennaio 2007 si riservava di decidere. A scioglimento della riserva il Collegio ritiene il ricorso fondato e, pertanto, meritevole di accoglimento. Rilievo n. 1) Quote di ammortamento non deducibili La ricorrente aveva sostenuto spese per impianti e stampi che secondo l’Ufficio avevano la caratteristica di essere spese incrementali su beni già posseduti. Secondo l’Agenzia delle Entrate tali spese, avendo natura incrementativa del valore di altri beni ammortizzabili già posseduti, non potevano essere dedotti nei termini di cui all’art. 67, comma 3, del T.U.I.R. (ammortamento anticipato) previsto unicamente per i beni dotati di autonoma vita propria. Al contrario, secondo la ricorrente, l’unico elemento richiesto dall’art. 67, comma 3, del D.P.R. n. 917/1986, in tema di ammortamento cosiddetto anticipato è la novità del bene. Il Collegio ritiene il rilievo mosso dall’Ufficio infondato. Il requisito dell’autonomia del bene non risulta essere previsto dalla già richiamata norma dall’art. 67, comma 3, del D.P.R. n. 917/1986. I verbalizzanti, del resto, non hanno fornito alcun elemento né hanno sostenuto che i beni fossero usati e, quindi, non nuovi. Il solo richiamo all’assenza di autonomia nell’utilizzo del bene, non essendo condizione prevista dalla legge per l’ammortamento contestato, rende illegittimo il rilievo dell’Ufficio. Rilievo n. 2) Transfer pricing Anche tale rilievo è infondato e, quindi, deve essere annullato. L’Ufficio, confrontando i prezzi di vendita praticati dalla ricorrente nei confronti dei vari clienti


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in relazione ai medesimi prodotti commercializzati, ha rilevato che quelli adottati nei confronti della società controllata francese risultavano inferiori di circa il 10 per cento a quelli applicati ai soggetti indipendenti. Ai sensi dell’art. 76 (oggi 110, comma 4), del T.U.I.R., venivano recuperati a tassazione i maggiori ricavi che sarebbero derivati dalla applicazione anche nei confronti della società controllata degli stessi prezzi applicati ai clienti indipendenti. Motivi della decisione Il Collegio osserva preliminarmente come lo scopo della disciplina dettata dall’art. 76, comma 5, del T.U.I.R. è quello di evitare che all’interno di un gruppo vengano posti in essere trasferimenti di utili tramite applicazioni di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti, al fine di sottrarli alla tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori. La Cassazione ha più volte affermato che l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusione grava sull’amministrazione che intende operare le conseguenti rettifiche. Quindi, l’Ufficio avrebbe dovuto innanzitutto accertare che la fiscalità in Italia all’epoca fosse superiore rispetto a quella in vigore in Francia. Tale circostanza deve ritenersi necessaria per poter interpretare le operazioni della società ricorrente come elusive. L’assenza di tale elemento comporta già un primo vizio nella costruzione operata dall’Ufficio. In ogni caso, il problema di più ardua soluzione in tema di transfer pricing consiste nella difficoltà di individuare un prezzo di mercato. Secondo il modello di convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni elaborato dall’OCSE, art. 9, l’attività di verifica deve avere come oggetto l’esistenza o meno di valori uguali a quelli che, ricorrendo le medesime condizioni, si sarebbero avuti tra soggetti indipendenti. L’art. 9, comma 3, del T.U.I.R., fa riferimento al concetto di valore normale che costituisce il parametro in grado di garantire la soddisfazione del principio di libera concorrenza. Secondo autorevole dottrina e la giurisprudenza prevalente, poi, l’art. 76, comma 5, del T.U.I.R. richiamato dall’Ufficio deve essere integrato con i canoni maggiormente dettagliati fissati in sede internazionale. In un contesto commerciale complesso, il ricorso ad un unico metodo di determinazione del giusto prezzo appare alquanto limitativo. Infatti l’OCSE ha elaborato alcuni metodi attraverso i quali veri-

ficare il rispetto del principio di libera concorrenza che anche l’amministrazione finanziaria italiana richiama con circolari del 1980 e 1981. L’amministrazione italiana, nella circolare n. 32 del 1980, fa riferimento a tre metodi “tradizionali”: del confronto del prezzo; del prezzo di rivendita; del costo maggiorato. Nel caso di specie l’Ufficio ha operato secondo il metodo del confronto del prezzo. Tale metodo è definito dal rapporto OCSE del 1995 come «il criterio che compara il prezzo dei beni e servizi trasferiti in una operazione conclusa con imprese associate al prezzo praticato per beni e servizi trasferiti in una operazione comparabile conclusa con imprese indipendenti in condizioni analoghe». Secondo la ricorrente i propri rapporti con la controllata e quelli con i clienti indipendenti non sono comparabili. L’Ufficio ha operato una ricostruzione non attendibile, perché basata su dati non omogenei. Viene a mancare, quindi, il presupposto per applicare la disciplina del transfer pricing. A parere dell’Ufficio, invece, gli elementi evidenziati dalla ricorrente non sono decisivi al fine di superare il criterio di valutazione seguito con l’avviso di accertamento. Vi è infatti identità delle operazioni esaminate circa gli elementi fondamentali quali la qualità del prodotto, il mercato geografico di destinazione le clausole contrattuali. Il metodo può infatti essere legittimamente applicato anche con riguardo ad operazioni non identiche, ma simili. La presenza di scostamenti può, al più, portare ad una variazione in diminuzione del valore di riferimento, ad aggiustamenti delle conclusioni, ma non all’abbandono del metodo seguito. Il Collegio ritiene che nel caso in esame l’Ufficio abbia posto a confronto operazioni non del tutto simili, con conseguenze negative sulla corretta applicazione del metodo del confronto del prezzo. L’Ufficio ha infatti fatto riferimento ad operazioni che erano simili solo nelle caratteristiche dei beni oggetto della cessione, nonché con uguaglianza geografica del mercato e uguaglianza temporale. Ma ciò non è sufficiente, essendo necessario, per poter parlare di operazione comparabile, che siano individuate transazioni altamente similari per qualità, tempi, luoghi e metodi di scambio e, in genere, anche per natura e circostanze che ruotano attorno alle operazioni. Al fine di determinare il valore normale dei beni ceduti devono essere presi in considerazione, per individuare le operazioni comparabili, tutti gli elementi che, insieme alle caratteristiche dei be-


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ni, contribuiscono a fissare il prezzo di una compravendita: tipo di trasporto, le condizioni di consegna, l’imballaggio, la pubblicità, la commercializzazione, le garanzie, i termini di pagamento, gli sconti sulle quantità. Le transazioni utilizzate per motivare la ripresa fiscale non possono essere poste sullo stesso piano e essere ritenute analoghe sotto i seguenti profili. Innanzitutto non è presente un’equivalenza nella fase di commercializzazione (del «medesimo stadio di commercializzazione» parla tra l’altro l’art. 9, comma 3, del T.U.I.R.). Mentre la società controllata opera come distributore non esclusivo nel mercato francese, non ha negozi o punti vendita e vende solo a grossisti e a imprese della grande distribuzione, gli altri clienti svolgono la loro attività in un diverso stadio di commercializzazione quali rivenditori al pubblico, vendendo direttamente il prodotto al consumatore finale. Poiché, quindi, i soggetti indipendenti presi come parametro di raffronto per determinare il prezzo di libera concorrenza operano in livelli diversi di commercializzazione, la comparazione diretta tra i prezzi risulta inattendibile se si vuole concludere richiedendo lo stesso prezzo di vendita. Se è pur vero, come sostiene l’Ufficio, che il differente stadio di commercializzazione si realizza successivamente alla cessione e non influisce direttamente sulla determinazione del prezzo, è pur vero che del «medesimo stadio di commercializzazione» parla, come detto, l’art. 9, comma 3, del T.U.I.R. con riferimento al concetto di valore normale. Né consegue che il diverso stadio di commercializzazione, se non giustifica una rilevante differenza di prezzo, ben può essere ritenuto sufficiente a legittimare una determinazione del prezzo in parte diverso (si ricorda che la differenza cui fa riferimento l’Ufficio è del 10 per cento circa). Inoltre i volumi dei beni scambiati ed il numero delle spedizioni effettuate verso i clienti indipendenti sono molto ridotti rispetto alle quantità vendute alla controllata, ciò ha reso possibile una riduzione dei costi con conseguente sconto. Tale sconto è, quindi, giustificato dalla quantità maggiore e appare ragionevole nella sua misura di circa il 10 per cento. Sul punto non appaiono determinanti le osservazioni mosse dall’Ufficio secondo cui, anche in presenza di notevoli differenze del volume di vendite nei confronti dei clienti indipendenti, non vi è stata alcuna variazione di prezzo e la riduzione è stata applicata alla sola controllata. Nell’esercizio dell’autonomia negoziale dei priva-

ti, appare in ogni caso espressione di una legittima logica commerciale l’effettuare una riduzione del prezzo (si ripete, non eccessiva, visto che è del 10 per cento circa) a fronte di maggiori quantitativi di merce venduta. Si osserva poi come non siano state prese in considerazione le prestazioni accessorie svolte dalla controllata a favore della propria clientela, in particolare i servizi di assistenza al cliente che, negli altri casi, sono direttamente gestiti dall’Italia. Vi erano infatti oneri quali il costo delle riparazioni in garanzia che per le vendite dirette restavano a carico della ricorrente. Si trattava di prestazioni economicamente giustificabili per esigenze di politica commerciale e di immagine che fanno venire meno il sospetto di un intento elusivo. Sul punto l’Ufficio contesta la mancata dimostrazione di accordi specifici in tal senso con la controllata. Richiama inoltre le raccomandazioni OCSE che evidenziano l’opportunità in casi simili di premunirsi di una documentazione idonea a dimostrare la riconducibilità della divergenza dei prezzi ad una corretta logica di libera concorrenza. Si osserva al contrario come l’esistenza effettiva delle prestazioni sia stata riconosciuta e constatata dai verbalizzanti nel processo verbale di constatazione. Inoltre ai sensi della Convenzione di Vienna 1 aprile 1980 non era necessaria la forma scritta per i contratti di vendita e le loro clausole. Si ritiene quindi necessario considerare l’esistenza di prestazioni accessorie nel determinare il valore normale di una cessione ai fini della normativa sul transfer pricing e valutare se l’entità della differenza di prezzo possa essere giustificata anche dalla presenza, accertata nel caso in questione, di tali circostanze. Una volta ritenuto inutilizzabile il metodo del raffronto dei prezzi, o meglio, come specificato, visto che la differenza di prezzo praticata si giustifica pienamente con le evidenziate differenze tra le operazioni commerciali confrontate, è solo il caso di richiamare, a conferma di quanto fin qui concluso, quanto sostenuto nel ricorso circa il riferimento agli altri metodi individuati dall’OCSE e recepiti dall’amministrazione italiana con la circolare n. 32 del 1980 la quale prevede espressamente che «quando la transazione oggetto di verifica impedisce, per le sue caratteristiche, il ricorso al confronto del prezzo, il metodo del prezzo di rivendita potrà costituire un valido sistema alternativo». Secondo la ricorrente sarebbe stato più corretto nel caso in esame ricorrere al criterio del prezzo di rivendita. Questo metodo si basa sull’analisi del prezzo a cui


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il bene acquistato dall’impresa cessionaria del gruppo viene successivamente da questa ceduto ad un soggetto indipendente, diminuito del margine lordo necessario a coprire i costi commerciali da essa sostenuti e a garantirle un congruo utile. È un metodo che si presta ad essere impiegato in un caso come quello in esame dove le cessioni avvengono tra casa madre produttrice e controllata distributrice. Applicando tale metodo la ricorrente dimostra che al medesimo stadio di commercializzazione il prezzo che viene praticato dalla ricorrente stessa è sufficientemente omogeneo a quello di rivendita. In conclusione si deve ritenere che, se la norma richiamata dall’Ufficio (art. 76 del T.U.I.R.) deve essere interpretata come norma antielusiva, allora occorre individuare se nel caso di specie sussistono gli elementi propri di tale intento. E sul punto non è emerso quale sia stato il vantaggio fiscale perseguito illecitamente nel caso in esame. In particolare, non è stato evidenziato dall’Ufficio il presunto trattamento fiscale più favorevole a carico del soggetto francese perseguito attraverso l’operazione di trasferimento di prezzo. Ma, ancora prima, non è stata dimostrato l’effettivo trasferimento di utile e, quindi, di materia imponibile, come erroneamente ritenuto dall’Ufficio. Infatti, come detto, non sussistono elementi tali da far ritenere esistente una differenza di prezzo tale da essere qualificata come espressione di un intento elusivo. Le singole osservazioni mosse dall’Ufficio con le proprie puntuali controdeduzioni, non sono in

grado, a parere del Collegio, di superare la considerazione generale circa la correttezza dell’operato della ricorrente e l’esistenza di un ragionevole motivo economico nella determinazione del prezzo di vendita alla controllata francese. Se è vero, come sostiene l’Ufficio, che è estremamente difficile individuare situazioni in tutto identiche, è altresì corretto ritenere che, le differenze evidenziate dalla ricorrente sono tali da giustificare pienamente lo sconto, del 10 per cento, che non può certo essere considerato una differenza di prezzo di tale entità da portare a intravedere un intento elusivo. In sostanza, in materia di transfer pricing, non potendosi avere situazioni in tutto identiche, il giudizio deve riguardare la possibilità o meno di interpretare gli elementi di non identità come sufficienti a giustificare la differenza di prezzo. Nel caso in esame, senz’altro si può sostenere che il presunto sconto operato a favore della controllata (circa il 10 per cento) è pienamente giustificato dagli elementi evidenziati dalla ricorrente e sopra presi in esame, in particolar modo l’esistenza di prestazioni accessorie e le diverse quantità di merce venduta. Infine, il Collegio ritiene che per la complessità delle questioni esaminate le spese di giudizio debbano essere integralmente compensate.

Nota di Concetta Ricci

Premessa La tematica delle transazioni infragruppo e del potere di rettifica dei valori di scambio da parte dell’Agenzia delle Entrate, pone complesse questioni, attinenti alla interpretazione della disciplina sul transfer pricing, alla valutazione della congruità del prezzo praticato nelle cessioni a società controllate estere, alle difficoltà nell’applicazione dei metodi OCSE, per la determinazione del giusto prezzo di trasferimento, ecc. Tutti temi, questi, affrontati dalla Commissione tributaria provinciale di Pisa che, nell’accogliere il ricorso del contribuente, ha contestato i rilievi formulati dall’Ufficio, evidenziandone l’inidoneità a provare l’intento elusivo dell’operazione di cessione infragruppo. La fattispecie concreta non presenta, in realtà, alcuna peculiarità, trattandosi di un classico esempio di trasferimento di beni materiali tra società

L’operazione di transfer pricing sarebbe, secondo la ricostruzione operata nella sentenza, riconducibile al genus dell’elusione fiscale, con conseguente onere della prova in capo all’amministrazione finanziaria. Ne deriva che la rettifica dell’Ufficio è legittima solo se viene fornita la prova della sussistenza dei presupposti dell’elusione, tra cui, in primis, l’indebito risparmio d’imposta. Si ritiene, peraltro, che la norma sul transfer pricing non è una norma antielusiva in senso stretto, né tanto meno una norma a scopo antielusivo, ex art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/73, ma è norma di sistema, destinata ad operare a regime, a prescindere dalla sostanziale elusività dell’operazione.

P.Q.M. La Commissione, sciogliendo la riserva, accoglie il ricorso. Spese compensate.


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di un gruppo multinazionale. L’Ufficio aveva recuperato a tassazione, in capo alla società controllante italiana, i presunti ricavi non contabilizzati, emersi a fronte di cessioni di prodotti alla propria controllata francese, a un prezzo ritenuto inferiore al valore normale. Si è quindi configurata un’ipotesi di elusione fiscale, finalizzata a trasferire materia imponibile in uno Stato a più basso livello di tassazione; ricorrerebbero, dunque, gli estremi per l’applicazione della norma sul transfer pricing, disciplinata dall’art. 110, comma 7 (ex art. 76, comma 5) del T.U.I.R. I giudici hanno ritenuto infondato il rilievo dell’Ufficio, che non avrebbe dimostrato né la sussistenza di un «vantaggio fiscale perseguito illecitamente», né «l’effettivo trasferimento di utile e, quindi, di materia imponibile», all’interno del gruppo. Poiché l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusione grava sull’amministrazione finanziaria1, in mancanza, la rettifica effettuata deve essere ritenuta infondata e quindi illegittima la ripresa a tassazione operata. Questa, dunque, la conclusione raggiunta dalla Commissione tributaria provinciale di Pisa, le cui argomentazioni appaiono degne di attenzione, per la lucida ricostruzione fatta dei requisiti di

1 V., ex multis, Cass., 25 marzo 2003, n. 4317, in Boll. Trib. online. 2 Tale norma, rubricata “Norma generale sulle valutazioni”, dispone che «i componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti [...]». La dottrina si è ampiamente dedicata allo studio della pratica del transfer pricing. V.: MAISTO, Il transfer pricing nel diritto tributario italiano e comparato, Padova, 1985; Id., Il progetto di rapporto OCSE sui prezzi di trasferimento, in Riv. Dir. Trib., 1995, I, 357 ss.; GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990; MAYR, Il valore normale nei rapporti tra società italiane e controllate estere, in Corr. Trib., 1990, 29, 1992 ss.; CORDA, Normativa sul transfer pricing di beni: problemi aperti, in Boll. Trib., 1991, 505 ss.; GIOVANNINI, I gruppi di società, in AA.VV., Imposta sul reddito delle persone giuridiche. Imposta locale sui redditi, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Te-

operatività della disciplina sul transfer pricing, ma non totalmente condivisibili per la qualificazione dell’art. 110, comma 7, del T.U.I.R. come norma antielusiva e per le conseguenze in ordine all’onere della prova. Il transfer pricing e l’elusione fiscale La disciplina sul transfer pricing, di cui all’art. 110, comma 7, del T.U.I.R.2, tende ad impedire il trasferimento di materia imponibile dall’Italia verso Paesi caratterizzati da regimi fiscali più favorevoli. Tale trasferimento, attuabile attraverso una manovra sui corrispettivi delle operazioni infragruppo, viene contrastato attraverso una procedura di determinazione del prezzo delle transazioni basata sul valore normale3 dei beni e servizi scambiati, in luogo del corrispettivo contrattuale4. Infatti, in un sistema basato sull’autodeterminazione analitico-contabile delle imposte, i singoli componenti reddituali, positivi e negativi, devono essere quantificati in base ai corrispettivi contrattuali. Ne consegue che, manovrando i corrispettivi, le imprese possono spostare materia imponibile da un soggetto ad un altro, e quindi, da uno Stato ad un altro, in attuazione di strategie di pianificazione fiscale. È evidente, infatti, che nel-

sauro, Torino, 1996, 117 ss.; ZIZZO, Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa, in AA.VV., Imposta sul reddito delle persone giuridiche, cit., 577 ss.; CORDEIRO GUERRA, La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, in Riv. Dir. Trib., 2000, 4, 421 ss.; LOVISOLO, L’imposizione dei gruppi di società: profili evolutivi, in L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, Atti del convegno di Genova del 2-3 luglio 1999, Padova, 2000, 314 ss. 3 La definizione di valore normale è contenuta nell’art. 9, comma 3, del T.U.I.R., secondo cui «per valore normale [...] si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquistati o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o servizi, e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso.

Per i beni e servizi soggetti alla disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore». È da aggiungere, peraltro, che il nostro concetto di valore normale si discosta sostanzialmente dal “prezzo di libera concorrenza” previsto nel modello OCSE. Importante, sotto questo profilo, è stato lo sforzo dell’amministrazione finanziaria (v. circ. del 22 settembre 1980, n. 32, in Dir. e Prat. Trib., 1982, I, 820) di adeguare questa nozione, quella contenuta nell’art. 9 del T.U.I.R. appunto, alle interpretazioni dell’OCSE relative al principio dell’“arms length”. Da allora, però, l’interpretazione dell’OCSE si è evoluta mentre il silenzio della nostra amministrazione finanziaria sul punto è stato causa di un ulteriore allontanamento del criterio di rettifica convenzionale da quello nazionale. 4 Sulla rilevanza attribuita dal legislatore al principio del valore normale v. ADONNINO, La nozione di “valore normale”, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo Testo unico, a cura di Uckmar-Magnani-Marongiu, Padova, 1988, 265 ss.; CARPENTIERI, Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi, Milano, 1997.


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l’ambito di un gruppo, la società controllante ha interesse a trasferire imponibile in capo alla controllata residente in un Paese a bassa fiscalità, allo scopo di sottrarlo alla più elevata tassazione applicabile nel proprio Stato di residenza. Oltre alle evidenti finalità di pianificazione fiscale, il transfer pricing rappresenta anche una efficace tecnica di trasferimento di profitti, in quanto del tutto svincolata dai tempi e dalle forme richieste dal diritto societario; inoltre, praticare un prezzo più basso di quello normale può rivelarsi una fonte di remunerazione degli investimenti della capogruppo e un’efficace strategia per diminuire il grado di concorrenza in un mercato. Qualunque siano le finalità, fiscali o extrafiscali, alla base della scelta di praticare prezzi diversi da quelli di mercato nella transazioni infragruppo, l’art. 110, comma 7, del T.U.I.R. trova comunque applicazione, trattandosi di norma di sistema, destinata ad operare a regime, a prescindere dalla sostanziale elusività della fattispecie. Ne deriva, pertanto, che la prova di una divergenza tra valore normale e corrispettivo contrattuale, che giustificherebbe una rettifica dell’Ufficio ex art. 110, comma 7, non riguarda gli elementi tipici dell’elusione (assenza di valide ragioni economiche, aggiramento di obblighi o divieti, ecc.). Al contrario, la Commissione tributaria provinciale di Pisa, dal presupposto che «lo scopo della disciplina dettata dall’art. 76, comma 5, (ora art. 110, comma 7) del T.U.I.R. è quello di evitare che all’interno di un gruppo vengano posti in essere trasferimenti di utili tramite applicazioni di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti, al fine di sottrarli alla tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori» ha dedotto la ratio elusiva della norma5, con tutte le conseguenze in ter-

5 Sulla funzione antielusiva del previgente comma 5 dell’art. 76 e sulla differenza con il comma 7-bis della stessa disposizione normativa, si veda GALLO, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. e Prat. Trib., 1992, I, 1783 ss. 6 L’inquadramento della normativa sul transfer pricing nell’ambito delle norme antielusive, operato dalla Commissione tributaria di Pisa, si innesta su un precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità. V., in tal senso, Cass., 22 giugno 2006, n. 22023, in Boll. Trib., 6, 2007, 578 ss., con nota di MUSSELLI, Manca la prova elusiva: un “classico” nel transfer pricing, in www.fiscooggi.it. 7 Seppur con riferimento alla diversa

mini di elementi probatori e onere della prova6. In particolare, secondo i giudici, l’Ufficio avrebbe dovuto «accertare che la fiscalità in Italia all’epoca fosse superiore rispetto a quella in vigore in Francia», in quanto ciò avrebbe dimostrato il conseguimento di un indebito risparmio d’imposta, requisito, quest’ultimo, necessario «per poter interpretare le operazioni della società ricorrente come elusive». L’operazione di transfer pricing, dunque, sarebbe riconducibile nel più ampio genus dell’elusione fiscale e quindi la rettifica dell’Ufficio sarebbe stata legittima solo se lo stesso avesse fornito la prova della sussistenza dei presupposti dell’elusione, tra cui, in primis, il legittimo risparmio d’imposta. È opportuno, tuttavia, evidenziare che la norma sul transfer pricing non è una norma antielusiva in senso stretto, né tanto meno una norma a scopo antielusivo, ex art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/737. Le operazioni di transfer pricing, infatti, non sono ricomprese tra le fattispecie contemplate dall’art. 37-bis, comma 3, né la finalità precipua dell’art. 110, comma 7 è quella antielusiva, ma piuttosto quella «di assicurare la corretta base imponibile in ciascuna giurisdizione e di evitare la doppia imposizione, riducendo in tal modo il conflitto tra le amministrazioni fiscali e promuovendo il commercio e gli investimenti internazionali»8. Peraltro, se è vero che la norma citata svolge anche una funzione antielusiva e che le manovre sui prezzi di trasferimento, di conseguenza, si ripercuotono nella determinazione degli utili delle singole imprese associate, alterando componenti reddituali positivi o negativi rispetto al valore normale, è altrettanto vero che tali manovre, pur implicando alterazioni nel livello di tassazione

norma sulla thin cap, abolita dalla Finanziaria 2008 (L. 24 dicembre 2007, n. 244), v. in questo senso, DEL FEDERICO, La ratio della thin capitalization ed i primi orientamenti della prassi, in Riv. Giur. Imposte, 2005, 4 ss., il quale critica l’interpretazione dell’art. 98 del T.U.I.R. in chiave antielusiva, sottolineandone la natura di norma di sistema, comunque applicabile a prescindere dalla dimostrazione dell’intento elusivo perseguito dalle parti. Se si fosse voluto attribuire alla disciplina sulla thin cap natura antielusiva, «si sarebbe potuta scegliere la diversa strada di un’ulteriore ampliamento delle fattispecie elusive ex art. 37-bis, o di un inquadramento tra le norme a scopo antielusivo (art. cit., comma 8), ma il

D.Lgs. n. 344/2003 ha invece costruito la Tcr come norma sostanziale operante rigidamente nei limiti in cui sussistono determinati e tassativi presupposti. La prova che l’importo dei finanziamenti erogati e/o garantiti dal socio qualificato e dalle sue parti correlate è giustificata dalla capacità di credito della società, e che conseguentemente gli stessi sarebbero stati erogati anche da terzi indipendenti con la sola garanzia del patrimonio sociale (art. 98, comma 2, lett. b), non attribuisce alla Tcr natura di norma antielusiva (pur trattandosi di norma con metagiuridiche finalità antielusive)». 8 OCSE, Direttive sui prezzi di trasferimento per le imprese multinazionali e le amministrazioni fiscali, par. 7, 1995.


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dei singoli Stati, possono non essere preordinate ai fini fiscali, ma piuttosto, come detto, ispirate da finalità extrafiscali. Si consideri inoltre che secondo l’ottavo comma dell’art. 37-bis cit., tutte le varie norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che, nella particolare fattispecie, tali effetti elusivi non potevano verificarsi. Orbene la disapplicazione dell’art. 110, comma 7, del T.U.I.R. opera su di un piano nettamente differenziato ed è prevista solo nell’ipotesi in cui dalla rettifica derivi una diminuzione, anziché un aumento, del reddito imponibile e soltanto se le speciali procedure amichevoli, previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, lo consentano. Se allora l’assunto posto a base della decisione della sentenza è errato, in quanto l’art. 110 cit. non è norma antielusiva ma norma sostanziale, anche le conclusioni raggiunte in ordine all’onere della prova non possono essere condivise. Infatti, solo sulla scorta della impropria qualificazione giuridica della disciplina sul transfer pricing e dell’assimilazione dell’art. 110, comma 7, del T.U.I.R. alle norme antielusive si possono comprendere le conclusioni dei giudici, secondo cui incombe sull’amministrazione finanziaria l’onere di provare la ricorrenza dei presupposti elusivi (l’indebito risparmio d’imposta e l’assenza di valide ragioni economiche), che, per la disciplina in questione, si sostanziano nello spostamento di utili dall’Italia a favore di tassazioni estere inferiori. Se, invece, si leggesse nella norma, come chiarito nella stessa direttiva OCSE sui prezzi di trasferi-

9 V. nota n. 8. 10 Del resto, la disciplina sul transfer pricing (art. 110, comma 7, del T.U.I.R.) si applica alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi intercorse tra società residenti e società non residenti nel territorio dello Stato, mentre non trova applicazione ad operazioni di transfer pricing interne. Tuttavia, non va sottovalutata la tendenza, manifestata in varie occasioni, dell’amministrazione finanziaria, ad introdurre la valutazione a valore normale anche nei trasferimenti che intervengono tra società residenti, appartenenti al medesimo gruppo. Con la circ. min. n. 32 del 1980, cit., e la ris. min. 10 marzo 1982, n. 9/198, in Dir. e Prat.

mento9, il tentativo di salvaguardare la potestà impositiva degli Stati membri10, per favorire una concorrenza fiscale internazionale leale e non dannosa, si capirebbe la scelta del legislatore tributario italiano di attribuire rilevanza fiscale al “valore normale” dei beni e servizi oggetto di transazioni infragruppo, derogando, così al criterio di determinazione del reddito d’impresa in base ai corrispettivi contrattualmente pattuiti tra le parti. Pertanto, accogliendo un’interpretazione restrittiva della norma, l’amministrazione finanziaria è tenuta a valutare le componenti reddituali attive e passive secondo il generale principio del valore normale ex art. 9 del T.U.I.R., principio che non richiede la dimostrazione specifica dell’esistenza dell’elusività del comportamento delle parti. Infatti, la disciplina sul transfer pricing impone, a carico delle imprese residenti, l’obbligo specifico di valutare a valore normale le transazioni infragruppo. Pertanto, l’Ufficio avrebbe dovuto semplicemente provare che il prezzo di trasferimento pattuito non è “normale”, con conseguente necessità, per il contribuente, di “collaborare” alla verifica. Del resto, il rapporto OCSE del 199511 precisa che, persino nel caso in cui l’onere della prova gravi sull’amministrazione finanziaria, è ragionevole che quest’ultima richieda al contribuente di produrre la documentazione a supporto della propria politica dei prezzi di trasferimento. Non appare, pertanto, condivisibile, ritenere che il contribuente non sia tenuto a documentare in alcun modo la propria politica di transfer pricing, sulla base della circostanza che l’onere della prova gravi sull’amministrazione finanziaria. Alla luce delle precisazioni OCSE12 e della valenza so-

Trib., 1982, I, 820, infatti, l’amministrazione finanziaria ha ammesso la possibilità, per gli Uffici, di far riferimento al valore normale anche al di fuori dei casi previsti dall’art. 110, comma 7, con la precisazione, tuttavia, che in tali ipotesi la presunzione dell’Ufficio assume valore di presunzione relativa e non assoluta. Diverso orientamento è espresso, invece, nella più recente circ. min. del 26 febbraio 1999, n. 53/E, in Fisco, 1999, 11, 3865 ss. in cui l’amministrazione restringe il campo di applicabilità dell’art. 110, comma 7, alle sole operazioni dallo stesso contemplate. Le perplessità suscitate in dottrina da queste soluzioni ministeriali sono sinteticamente riportate

da LOVISOLO, L’imposizione dei gruppi di società: profili evolutivi, cit., 324 ss. 11 V. OCSE, Transfer pricing guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations, 1995, cap. IV. 12 In sede comunitaria, il “Forum congiunto dell’UE sui prezzi di trasferimento”, istituito dalla Commissione europea nel giugno del 2002, si è intensamente dedicato alla questione dei requisiti documentali in materia di prezzi di trasferimento per le imprese associate residenti nell’UE, elaborando un nuovo approccio definito “Documentazione dei prezzi di trasferimento nell’UE” (Dpt UE), alla base della proposta del 10 novembre 2005 al Consiglio dell’UE del relativo “Codice di condotta”.


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stanziale della normativa sul transfer pricing, si può affermare che, pur spettando all’amministrazione finanziaria la dimostrazione che la valutazione effettuata dalla capogruppo non sia conforme al valore normale, l’omessa esibizione da parte della società dei documenti necessari per dimostrare che le transazioni sono, al contrario, avvenute al valore normale, possa suffragare l’efficacia probatoria degli elementi utilizzati dall’amministrazione per la rettifica del valore. Nella fattispecie, invece, la Commissione, in linea con l’interpretazione antielusiva data alla norma, ha rilevato «già un primo vizio nella costruzione operata dall’Ufficio» nel fatto che nessuna comparazione tra la disciplina fiscale nazionale e quella francese abbia trovato spazio nelle motivazioni dell’avviso di accertamento. Soltanto in un secondo passaggio è stato invece affrontato quello che i giudici hanno definito «il problema di più ardua soluzione in tema di transfer pricing», consistente nella difficoltà di determinare il prezzo di mercato dei beni ceduti, su cui pure le motivazioni addotte dall’amministrazione finanziaria non sono state considerate convincenti. La determinazione del prezzo di trasferimento Le difficoltà di una verifica tesa ad accertare la “congruità” del prezzo praticato nei trasferimenti infragruppo derivano dalla coesistenza di una pluralità di criteri, internazionali e nazionali, applicabili13. I suddetti criteri trovano la loro fonte nel rapporto OCSE del 1979, le cui indicazioni sono state recepite con le circolari n. 32 del 22 settembre 1980 e n. 42 del 12 dicembre 1981; i metodi tradizionali sono stati poi integrati con altri, contemplati nel rapporto OCSE del 1995 ma non recepiti in Italia. Le circolari ministeriali che, per prime, hanno fornito alcuni chiarimenti preziosi sul transfer pricing, infatti, non sono state aggiornate. Ciò non esclude, tuttavia, considerata la natura interpretativa e non normativa delle citate istruzioni, che il contribuente possa uniformarsi ad altri criteri indicati dal modello OCSE e non ancora recepiti a livello ministeriale. Il principio fondamentale è quello cosiddetto dell’arm’s lenght, espresso originariamente dall’art. 9 del modello OCSE del 1963, ripreso in tutti i modelli successivi e richiamato espressamente dai rapporti del 1979 e del 1995. In sostanza, si vuo-

13 Sui criteri di determinazione del prezzo di trasferimento nelle operazioni di transfer pricing v., per tutti,

le che i soggetti legati tra loro da rapporti di natura giuridica o economica e le imprese autonome siano sottoposti ad un prelievo fiscale determinato uniformemente, secondo i medesimi parametri. Così, il prezzo pattuito nelle transazioni commerciali tra imprese associate deve corrispondere al prezzo che sarebbe stato convenuto tra imprese indipendenti, per transazioni identiche o analoghe, sul libero mercato (e identificato nel valore normale dei beni o servizi trasferiti). Ciò posto, per stabilire se ed in quale misura il prezzo di trasferimento pattuito dalle parti sia stato condizionato da regole diverse da quelle del libero mercato, l’amministrazione finanziaria ha individuato tre metodi: il metodo del confronto del prezzo; il metodo del prezzo di rivendita e quello del costo maggiorato. Oltre ai metodi evidenziati, il Ministero delle Finanze precisa che ogni altro metodo alternativo può essere utilizzato, purché siano rispettati i principi posti alla base della libera concorrenza. In breve, i metodi alternativi possono essere utilizzati in via sussidiaria quando nell’applicazione dei metodi base insorgano difficoltà o impossibilità applicative, incertezze di risultato e sia necessario individuare un elemento differenziale. Nel caso di specie, l’amministrazione finanziaria ha fatto ricorso al metodo del confronto del prezzo, in base al quale, la congruità della transazione deve venire accertata confrontando il prezzo di trasferimento infragruppo con quello che verrebbe praticato per transazioni comparabili tra imprese indipendenti. Secondo la Commissione tributaria di Pisa, le transazioni messe a confronto dai verificatori non sarebbero tra loro “comparabili” e pertanto la differenza di prezzo riscontrata non sarebbe «tale da essere qualificata come espressione di un intento elusivo». Invero, la comparabilità non è sinonimo di identicità delle operazioni; infatti, le difficoltà riscontrate nella ricerca di un’operazione, posta in essere tra imprese indipendenti, identica a quella conclusa tra imprese consociate, ha indotto la dottrina maggioritaria14 ad ipotizzare che la comparazione debba piuttosto essere effettuata con un’operazione “similare” (e non identica quanto a caratteristiche dei beni e condizioni di vendita). In linea di principio due operazioni possono dirsi comparabili «quando nessuna delle differenze che esistono fra di esse è in grado di condiziona-

MAISTO, Il transfer pricing nel diritto tributario italiano e comparato, cit. 14 V., per tutti, MAISTO, Il progetto di

rapporto OCSE sui prezzi di trasferimento, cit., 382 ss.


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re sensibilmente il parametro di riferimento del metodo utilizzato – sia esso il prezzo o l’utile (ovvero quando l’eventuale condizionamento può essere eliminato mediante gli opportuni aggiustamenti)»15. Nei lavori dell’OCSE e nella stessa circolare ministeriale n. 32/80 sono stati indicati i fattori idonei a determinare il grado di comparabilità delle operazioni. Indicativo è innanzitutto il raffronto fra le caratteristiche dei beni oggetto della transazione infragruppo e quelle dei beni trasferiti fra imprese indipendenti, ove per caratteristiche si intendono, con riferimento ai beni materiali, le peculiarità fisiche, la qualità, la quantità e la disponibilità sul mercato. Sotto questo profilo, come evidenziato dai giudici, le cessioni alla società controllata francese appaiono similari a quelle fatte ad imprese indipendenti. Ciò, tuttavia, non è sufficiente a legittimare la rettifica dell’Ufficio. In particolare, per valutare il grado di comparabilità delle operazioni, l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto svolgere un’analisi delle funzioni svolte dalle imprese coinvolte nel confronto, precisando se si tratta di imprese impegnate nel campo della distribuzione, del marketing o del management. Oltre ad un’analisi funzionale, particolare rilevanza assumono le condizioni contrattuali al fine di ricostruire come le parti hanno inteso ripartirsi le responsabilità, i rischi ed i benefici derivanti dall’operazione. Notevole importanza, infine, assumono le circostanze economiche connesse alle transazioni. Infatti, il prezzo di cessione può essere influenzato da variabili quali la localizzazione geografica, l’estensione, il livello di concorrenza delle imprese interlocutrici. Infine, una differenza di prezzo può derivare dalle particolari strategie di mercato seguite dall’impresa: vendite “sotto costo” per penetrare nuovi mercati, sconti a fronte dell’acquisto di maggiori quantitativi di prodotto, ecc. La Commissione ha esaminato le transazioni messe a confronto dai verificatori considerando ciascuna di queste variabili e ha ritenuto infondata la pretesa impositiva dell’Ufficio, avendo, que-

15 BALZANI, Il transfer pricing, in AA.VV., Corso di diritto tributario internazionale, a cura di Uckmar, Padova, 2002, 617. 16 Comm. trib. prov. Milano, sez. I, 18 marzo 1998, n. 577, in Boll. Trib., 1997, con nota di MUSSELLI, In tema di prezzi di trasferimento; Comm. trib. prov. Genova, 10 febbraio 1992, n. 547, in Corr. Trib., 1992, 30, 2149 ss.;

st’ultimo, fatto un uso inappropriato del citato metodo di verifica. In particolare, il diverso mercato di riferimento delle imprese (la controllata opera nel campo della grande distribuzione, mentre le “imprese indipendenti” svolgono attività di commercio al dettaglio), la politica commerciale adottata dalla ricorrente (gli sconti praticati a fronte dell’acquisto di maggiori quantità di merce) e, infine, le particolari condizioni contrattuali pattuite con la società controllata (le prestazioni accessorie svolte da quest’ultima a favore della propria clientela, servizi che negli altri casi venivano gestiti direttamente dall’Italia, con un aggravio di costi), sono tutte circostanze tali da giustificare la lieve differenza di prezzo (del 10 per cento) rilevata. In altri termini, continuando nel solco già tracciato da alcuni precedenti16, i giudici hanno motivato la propria decisione rifacendosi ai criteri di verifica convenzionali e nazionali, dimostrandone la non corretta applicazione. È evidente, infatti, che la possibilità di individuare operazioni aventi ad oggetto la cessione degli stessi prodotti nei confronti di società indipendenti, non può costituire la sola giustificazione nella scelta di un criterio piuttosto che di un altro e, comunque, una volta optato per uno dei metodi previsti, si devono tener presenti tutti i possibili elementi di diversificazione idonei a dimostrare la congruità del prezzo operato dall’impresa e non soltanto di quegli elementi favorevoli all’amministrazione finanziaria17. Più corretto, nella fattispecie, sarebbe stato il ricorso al metodo del prezzo di rivendita, che presuppone un’attenta valutazione del corrispettivo al quale il bene che è stato acquistato da un’impresa associata è da questa rivenduto ad un’impresa indipendente. Il prezzo di rivendita, più precisamente, è ridotto di un appropriato margine lordo, che rappresenta il margine con il quale il rivenditore intende coprire i suoi costi di vendita e le altre spese correnti; la differenza può essere considerata come il prezzo di libera concorrenza applicabile alla transazione. Tale metodo,

Comm. trib. prov. Alessandria, sez. I, 11 dicembre 1995, n. 170. 17 Una critica alla posizione dell’amministrazione finanziaria negli accertamenti in tema di transfer pricing si legge in CROVATO-PASSERI, Il transfer pricing sui beni materiali, in Corr. Trib., 1997, 48, 9 ss. secondo cui, «da una disamina degli atti dell’amministrazione finanziaria emerge la chia-

ra impressione che i verificatori si attengano al criterio di comparazione più “semplice”, anche quando appare evidente la necessità del ricorso ad altri metodi più raffinati e complessi, i quali – evidentemente – richiedono mezzi diversi di analisi e di ricerca, che l’amministrazione finanziaria non sembra in grado di utilizzare».


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non soffrendo delle difficoltà di individuare operazioni “comparabili”, sarebbe stato più idoneo a verificare se la fattispecie concreta integrava un’ipotesi di transfer pricing. Sul punto, tuttavia, la sentenza si limita a citare i risultati, derivanti dall’applicazione di tale ultimo criterio, evidenziati dal ricorrente nel proprio ricorso, avendo già rilevato come le differenze riscontrate tra le operazioni comparate sono sufficienti a giustificare lo scostamento di prezzo e ad escludere l’applicabilità della disciplina sul transfer pricing. Conclusioni La questione più interessante che emerge dalla sentenza verte sulla ratio dell’istituto del transfer pricing e sulla sua qualificazione giuridica. I passaggi chiave nella decisione dei giudici sono due: «l’Ufficio avrebbe dovuto innanzitutto accertare che la fiscalità in Italia all’epoca fosse inferiore rispetto a quella in vigore in Francia». In secondo luogo, i verificatori avrebbe dovuto accertare la congruità del corrispettivo pattuito al prezzo di mercato. Dall’esame dell’iter logico argomentativo si desume chiaramente come entrambi i rilievi siano stati formulati sulla scorta di un’impropria estensione al transfer pricing della disciplina antielusiva ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600/73. Infatti, la decisione è motivata dalla mancata dimostrazione dei requisiti propri dell’elusione fiscale: l’aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario, attuato attraverso la spostamento di materia imponibile in uno Stato a più bassa fiscalità; l’indebito vantaggio fiscale conseguito praticando, nelle transazioni con la controllata francese, prezzi inferiori a quelli di mercato, in assenza di valide ragioni economiche. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, infatti, si rileva non solo la non correttezza del metodo seguito per la determinazione del valore normale, ma il fatto che la diversità del corrispettivo delle

cessioni infragruppo, rispetto a quello praticato nelle transazioni con società indipendenti, fosse economicamente giustificabile per esigenze di politica commerciale e di immagine, idonee a far venir meno il “sospetto di un intento elusivo”. Nella fattispecie, le prestazioni accessorie garantite dalla società controllata francese alla propria clientela e le maggiori quantità di merce acquistate da quest’ultima, hanno indotto i giudici a sostenere che il presunto sconto operato a favore della controllata è pienamente giustificabile, né tale differenza di prezzo può essere qualificata elusiva. Una simile impostazione non può essere condivisa, in quanto pur sussistendo metagiuridiche finalità antielusive apprezzabili sul piano della politica tributaria, la norma sul transfer pricing è norma di sistema, destinata ad operare a regime, a prescindere dalla sostanziale elusività dell’operazione, dalla sussistenza delle valide ragioni economiche, ecc. Viceversa, sono senza dubbio condivisibili i rilievi mossi dalla Commissione in ordine al criterio di determinazione del prezzo di trasferimento. Infatti, le difficoltà di reperire, in tempi adeguati, informazioni sui mercati esteri sono all’origine delle scelte, spesso frettolose e comunque poco ponderate, di metodologie di controllo non adeguate alle fattispecie concrete. L’Agenzia delle Entrate, infatti, nell’accertare la non congruità dei corrispettivi infragruppo, non sempre si attiene ai criteri di verifica del valore normale indicati nel rapporto OCSE e ripresi dalle circolari ministeriali; più precisamente, negli atti dei verificatori, i metodi elaborati a livello interpretativo assurgono spesso a principi ispiratori della rettifica, che tuttavia non trovano riscontro adeguato nella concreta fattispecie. Insomma, nonostante i progressi compiuti in tema di scambio di informazioni, le rettifiche dei prezzi di trasferimenti infragruppo continuano ad essere non sufficientemente istruite e motivate.


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Commissione tributaria provinciale di Pistoia, sez. I, 22 gennaio 2007, n. 2 Presidente: Cimoroni - Relatore: Cosimini Irpef - Redditi diversi - Compravendita di terreno edificabile con patto di riservato dominio Trasferimento del diritto di proprietà - Plusvalenza - Imponibilità - Momento impositivo Completa corresponsione del prezzo (C.c., art. 1523; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 67 e 68) Il contratto di compravendita con patto di riservato dominio di un terreno edificatorio comporta il realizzo di plusvalenze solo nel momento in cui si sia perfezionato il trasferimento del diritto di proprietà, a seguito del completamento della corresponsione del prezzo. Svolgimento del processo In considerazione della loro connessione soggettiva il ricorso registrato al n. 631/05 è stato riunito al ricorso n. 630/05, come disposto dal presidente nella precedente udienza dell’1 aprile 2006. La sig.ra F. N., difesa dal rag. N. N., impugna gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate - Ufficio di Pistoia, per Irpef tassazione separata - anni di imposta 2001 e 2002; viene contestata la mancata indicazione nelle dichiarazioni dei redditi (quadro RM) di un reddito da plusvalenza derivante da cessione di terreno edificabile, sito in Comune di Pistoia. In data 16 ottobre 2000 la ricorrente, unitamente ad altri proprietari, con atto notaio N. N. aveva venduto un terreno, in parte edificabile, al sig. A. P.: la vendita era avvenuta, come indicato nell’atto, con patto di riservato dominio, avendo convenuto il pagamento rateale del prezzo (tre rate di cui l’ultima scadente il 30 settembre 2002). Il trasferimento di proprietà sarebbe dovuto avvenire dopo il totale pagamento del prezzo: il patto prevede la trascrizione nei registri immobiliari e, a pagamento ultimato, l’annotazione dell’atto di quietanza, per l’effettiva acquisizione del diritto di proprietà da parte dell’acquirente. Con il ricorso la contribuente rende noto che l’acquirente ha interrotto i pagamenti delle rate perché il Comune di Pistoia, in data 15 novembre 2001, ha sospeso la concessione di edificabilità del terreno in base ad una delibera dell’autorità di bacino dell’Arno. Per questo motivo alla data del ricorso è in es-

sere un contenzioso civile tra i venditori e l’acquirente, in merito all’esecuzione del contratto. Per quanto precede nessuna plusvalenza è stata indicata nelle dichiarazioni dei redditi, non avendo la ricorrente percepito il corrispettivo per la vendita del terreno, in considerazione del criterio di cassa di cui agli artt. 81 e 82 del D.P.R. 917/1986. La ricorrente sostiene anche che il mancato incasso del prezzo risulta dalla visura del terreno effettuata presso la conservatoria dei registri immobiliari di Pistoia, dove è indicata la trascrizione del patto di riservato dominio, senza alcuna successiva cancellazione del vincolo per l’annotazione di quietanza del prezzo. Conclude chiedendo che siano dichiarati illegittimi gli atti impugnati per errore nell’attribuzione di materia imponibile e quindi violazione degli artt. 81, 82 e 16 del D.P.R. 917/86. Controdeduce l’Ufficio di Pistoia dell’Agenzia delle Entrate in data 12 ottobre 2005 e sostiene che secondo l’art. 81, lett. b, D.P.R. 917/86, il termine “cessione” designa non tanto il verificarsi dell’effetto traslativo della proprietà, bensì l’evento negoziale, cioè la stipula del contratto di compravendita: nel caso in esame il 16 ottobre 2000 con registrazione del 31 ottobre 2000. Poiché la plusvalenza sorge per effetto della stipula dell’atto, l’Ufficio, in applicazione dell’art. 82, comma 1, D.P.R. 917/86, ha sottoposto a tassazione le singole rate in relazione ai periodi di imposta nei quali risulta il loro versamento. Sottolinea che non è stata prodotta alcuna prova a supporto delle affermazioni della ricorrente circa il mancato pagamento delle rate. La sospensione della concessione edilizia è intervenuta il 15 novembre 2001, cioè posteriormente al pagamento dovuto della prima rata scadente il 30 aprile 2001. Evidenzia anche che il terreno è catastalmente intestato all’acquirente quale proprietario, senza alcuna limitazione, e ciò fa presumere il perfezionamento del contratto tramite l’integrale pagamento delle rate. Non è stato prodotto alcun documento per provare quanto asserito dalle ricorrenti (ad esempio: copia dell’atto di contenzioso che dichiara di aver in corso con l’acquirente, la visura della conservatoria, ecc.). Chiede la reiezione dei ricorsi e presenta nota spese.


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Motivi della decisione I ricorsi riuniti devono essere accolti. Da parte dell’Agenzia nessuna prova è stata fornita circa l’effettiva percezione dei corrispettivi da parte del venditore. C’è da dire che l’onere di provare il presupposto dell’imposta – in questo caso una plusvalenza da cessione di terreno edificabile – compete all’Agenzia delle Entrate che avrebbe dovuto accertare se l’acquirente avesse pagato per intero il prezzo pattuito, secondo la rateizzazione convenuta. Mancando questa prova non può esistere plusvalenza: è quindi impossibile la tassazione di qualcosa di inesistente. D’altra parte, pur ipotizzando che il compratore abbia versato la prima rata (la comunicazione del Comune di Pistoia circa la sospensione della concessione edilizia è datata 15 novembre 2001, mentre la prima rata aveva scadenza il 30 aprile 2001), neppure in questo caso si può parlare di plusvalenza perché questa si concretizza con il pagamento dell’intero prezzo pattuito, in modo da trasferire la proprietà del bene. Solo così si realizza la plusvalenza da sottoporre a tassazione ai sensi degli articoli 81 e 82 del D.P.R. 917/86. Come è noto, nella vendita con patto di riservato dominio il trasferimento di proprietà avviene con il pagamento del’ultima rata: «il compratore acquista la proprietà della cosa col pagamento dell’ultima rata di prezzo» (art. 1523 c.c.). Da notare, a conferma di quanto sopra, che la certificazione della conservatoria dei registri im-

Nota La Commissione provinciale di Pistoia, nella sentenza in rassegna, ha affermato che, dinanzi ad un contratto di compravendita con patto di riservato dominio di un terreno suscettibile di destinazione edificatoria, la plusvalenza è effettivamente realizzata, e deve essere computata nella determinazione del reddito, solo ove sia completato il pagamento del prezzo. Nel caso in questione, l’Ufficio lamentava la mancata indicazione in dichiarazione, da parte della contribuente, della plusvalenza derivante dalla cessione di un terreno edificatorio a seguito della stipula di un contratto di compravendita con riserva di proprietà. Dal canto suo, la contribuente eccepiva il mancato realizzo della plusvalenza a causa del mancato pagamento del prezzo. Il giudice di prima istanza, ricorrendo all’art. 1523 c.c. – ove, a chiare lettere, è stabilito che il

mobiliari di Pistoia, riporta, alla data del 12 aprile 2006, solo l’annotazione «compravendita con riserva di proprietà»: manca l’annotazione a margine di un atto di quietanza sottoscritto dai venditori, di attestazione dell’avvenuto pagamento dell’ultima rata, determinante per il trasferimento di proprietà. Deve essere respinta l’interpretazione dell’Agenzia che definisce «cessione» – secondo l’art. 81, comma 1, lett. b, del citato D.P.R. 917/86 – non tanto il trasferimento di proprietà del terreno oggetto del contratto, ma solo la stipula dell’atto di compravendita. Il successivo art. 82, comma 1, dispone che le plusvalenze di cui all’art. 81, comma 1, lett. a e b sono costituite «dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta [...] e il prezzo d’acquisto». La parola «percepiti» non può che significare “ricevuti”, “riscossi”, e non già, come sostenuto dall’Agenzia, semplicemente “dovuti”. Sulla base di queste considerazioni i ricorsi devono essere accolti, ritenendo, questo Collegio, che non spetti al venditore l’onere di provare di non aver percepito il prezzo pattuito per la vendita del terreno. P.Q.M. La Commissione in accoglimento dei ricorsi riuniti annulla gli avvisi di accertamento impugnati e dichiara interamente compensate tra le parti le spese di giudizio.

trasferimento del diritto di proprietà avviene con il pagamento dell’ultima rata del prezzo – afferma che tale elemento è condizione imprescindibile per il sorgere della plusvalenza. A supporto di tale impostazione, la Commissione provinciale richiama il testo degli artt. 67 e 68 (rispettivamente 81 e 82 ante riforma), T.U.I.R.. Per “cessione”, innanzitutto, non deve intendersi la mera stipulazione del contratto di compravendita ma il trasferimento del relativo diritto di proprietà, ex art. 67, comma 1, lett. b). La presenza di una condizione sospensiva, come quella del patto di riservato dominio, rende ininfluente l’atto di cessione siccome non produttivo di alcuna plusvalenza. Tale impostazione è confermata dall’art. 68, comma 1, T.U.I.R., che consente alla Commissione di sostenere che il legislatore, nell’utilizzare la locuzione “percepiti”, abbia fatto, appunto, riferimento all’effettiva corresponsione delle somme pattuite.


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ACCERTAMENTO DELLE SOCIETÀ A RISTRETTA BASE E “RESISTENZE” DELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO 19

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XXIII, 13 aprile 2007, n. 66 Presidente: La Gioia - Relatore: Schilardi Irpef - Reddito di capitale - Accertamento degli utili di una società di capitali - Ristretta base sociale - Conseguente accertamento in capo al socio - Insufficienza - Ulteriori elementi probatori - Necessità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39; D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 5, 44, 115 e 116) Deve essere annullato l’accertamento effettuato in capo ai soci di una società di capitali, a sua volta riveniente dal maggior reddito accertato in capo alla società, fondato unicamente sulla ristretta base sociale della società, poiché tale elemento appare insufficiente a giustificare, da solo, la pluralità di presunzioni correlate alla avvenuta distribuzione degli utili “in nero”. Svolgimento del processo Il 29 ottobre 1996 l’Agenzia della Entrate notificava alla S.r.l. S. un avviso di accertamento relativo a somme soggette a ritenuta alla fonte - Irpef anno 1991. Tale atto al quadro G/G-1 intestato a utili comunque distribuiti vede riportate somme soggette a ritenuta lire 453.929.000 al 10% e ammontare di ritenute accertate e non versate per lire 45.393.000. Le violazioni accertate e sanzioni irrogate prevedono la violazione ai sensi degli artt. 54 e 55 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e le sanzioni per infedele dichiarazione per lire 90.786.000 e soprattassa per lire 22.696.000 più lire 9.078.000. Motivi riportati. Esaminata la dichiarazione mod. 770 deriva la mancata effettuazione e mancato versamento delle ritenute di acconto sugli utili accertati a carico della società di capitali a ristretta base azionaria e/o familiare e presuntivamente ritenuti distribuiti agli uni di due soci. Tali somme, secondo l’Ufficio, non sarebbero transitate attraverso la contabilità generale della società. La S.r.l. ricorreva chiedendone l’annullamento perché basato sulla presunzione che l’essere socio di una società a ristretta base azionaria significava percepire presunti redditi ricavati in evasione. I giudici di prime cure accoglievano il ricorso. La sentenza viene appellata e si contesta che

l’affermazione che i maggiori utili accertati a carico della società siano ripartiti tra i soci, non può essere considerata se non alla stregua di una mera illazione. Si aggiunge che le presunzioni semplici debbono essere considerate mezzi di prova generale concessi all’a.f. anche in difetto di una disposizione ad hoc, in particolare quando abbiano i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Inoltre, i maggiori utili accertati extra-bilancio, in via definitiva, renderebbero non censurabile la pretesa fiscale. Si chiede la riforma della sentenza e la conferma dell’operato dell’Ufficio. Con vittoria di spese, competenze e onorari. Controdeduce il ricorrente contestando e respingendo tutte le argomentazioni dell’Ufficio, in particolare perché non solo manca la prova ma anche una presunzione grave, precisa e concordante della effettiva percezione di utili da parte dei soci. La presunzione semplice non può essere un valido sostegno all’accertamento di distribuzione di maggiori utili ai soci. Chiede la conferma della sentenza poiché l’avviso di accertamento è nullo anche relativamente all’aspetto sanzionatorio: infatti, sono state applicate, illegittimamente, le pene pecuniarie massime, senza alcuna motivazione. Su tale questione si sarebbe formato il giudicato interno in quanto l’Ufficio non ha mosso alcuna contestazione alla suddetta eccezione, né in primo grado, né nei motivi di appello. Inoltre, chiede il rigetto dell’appello e, in subordine, nel merito, annullare gli avvisi di accertamento e ritenere non applicabili le sanzioni. Condannare l’Ufficio al pagamento delle spese di giustizia. Alla discussione, il responsabile dell’Ufficio si riporta all’appello in atti, chiedendo la condanna alle spese. Il difensore del contribuente si riporta alle eccezioni prodotte, chiedendo il rigetto dell’appello con condanna alle spese. La Commissione si riserva. Motivi della decisione La Commissione scioglie la riserva e osserva che l’assunto della distribuzione degli utili extra-bilancio ai soci non può essere accettato quando,


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come nel caso di specie, non è stata provata l’esistenza del fatto noto sul quale poggiare la presunzione di una reale percezione di utili da parte dei soci. Questa Commissione non condivide quanto affermato dall’Ufficio che il fatto noto è rappresentato dalla «ristretta base azionaria o familiare» a meno che non provi il contrario. L’assunto dell’Ufficio è generico e poco garantista per poter essere esteso a qualunque caso in quanto ogni realtà può avere una specificità tale da rendere applicabile o meno la presunzione legale di distribuzione di utili occulti ai soci. Né il limite di tale presunzione assoluta può essere costituito dalla prova contraria fornita dal contribuente, poiché tale garanzia appare puramente teorica, non vedendosi in quale modo concreto il socio possa fornite la suddetta prova. Oltre al fatto che dalla ristretta base azionaria non solo si fa discendere sia la presunzione di complicità fra i soci che quello di effettiva distribuzione di utili ai soci stessi, ma si fa ulteriormente discendere che tali utili sono stati distribuiti nello stesso anno di produzione e nella stessa porzione di partecipazione al capitale sociale, in una concatenazione di presunzioni che mostra i suoi gravi limiti sia nel fatto che nulla esclude che possa esservi stata alcuna distribuzione, ovvero che vi possa essere stata una diversa misura di distribuzione di tali utili o che la distribuzione possa essere avvenuta in esercizi diversi da quello al quale vengono riferiti. Appare, dunque, più corretto e rispettoso della norma di legge e del diritto alla difesa del contribuente che l’elemento della ristretta base azionaria sia confortato da altri elementi di gravità, precisione e concordanza che possano legittimamente costituire mezzo

di prova. Meglio e diverso sarebbe stato, invece, se l’Ufficio avesse corroborato con altri elementi fattuali indiretti la prova del maggior reddito accertato, quali la verifica dei movimenti bancari attribuibili al socio ovvero l’acquisto da parte sua di beni di particolare valore non giustificabile dall’entità del reddito dichiarato o, comunque, qualunque altro indice concreto di maggior reddito non giustificato a lui imputabile. In virtù del deposito dall’art. 42 del D.P.R. n. 917/1986 la tassazione degli utili in testa al socio sarebbe possibile qualora fosse avvenuta l’effettiva percezione di tali utili da parte del socio, mentre non può escludersi, anzi deve rilevarsi come ipotesi piuttosto diffusa nella realtà, che, seppure la società avesse conseguito – come sostenuto dall’Ufficio – ricavi extra-bilancio, essi siano rimasti nella disponibilità della società stessa per essere reimpiegati – al limite – nel sostenimento di spese anche esse extra-bilancio. Per quanto sopra esposto, questa Commissione ribadisce la profonda convinzione che il postulato che l’automatica tassazione in testa ai soci degli utili extra-bilancio di una società di capitali debba valere per il solo fatto dell’esiguità della compagine sociale configura una grave lesione della legge stessa e dei diritti di difesa del socio contribuente. La Commissione ritiene che, trattandosi di interpretazione normativa, sussistano sufficienti motivi che giustificano la compensazione delle spese di giudizio fra le parti.

Nota di Luigi Lovecchio

to maggioritaria, un simile modo di argomentare rende la difesa del contribuente spesso assai ardua, in quanto si pretende che questi provi di non aver percepito i proventi evasi. In ogni caso, occorre innanzitutto partire dalla tipologia dell’accertamento notificato alla società, posto che in presenza di una rettifica analitica, che riguardi, ad esempio, l’indeducibilità di determinate componenti negative di reddito, non vi sarebbero le premesse per ribaltare sui soci alcun maggior imponibile. Deve poi lasciarsi spazio alla possibilità di far emergere l’estraneità di uno o più dei soci interessati, rispetto alla gestione sociale. La pronuncia dei giudici di secondo grado è peraltro ispirata alla massima tutela della posizione dei contribuenti, poiché con

Il commento riguarda la dibattuta questione degli accertamenti effettuati nei confronti dei soci di società a ristretta base sociale, conseguenti alla rettifica del reddito dichiarato dalla società. L’analisi prende necessariamente le mosse dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, costantemente favorevole alla legittimità e fondatezza degli accertamenti suddetti. In forza di tale orientamento, la ristrettezza della base sociale della società costituisce il fatto noto dal quale non è irragionevole presumere l’avvenuta distribuzione degli utili “in nero”, salvo ovviamente prova contraria. Il punto è, tuttavia, che, anche secondo la dottrina del tut-

P.Q.M. Rigetta l’appello dell’Ufficio e conferma la sentenza di primo grado. Compensa fra le parti le spese di giudizio.


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essa si è annullato l’accertamento emesso nei riguardi dei soci, sulla scorta della osservazione che l’atto impositivo si risolverebbe nell’applicazione di una catena di presunzioni, in quanto tale, inammissibile, anche sotto il profilo della lesione del diritto alla difesa della parte. Va tuttavia evidenziato che, in costanza dell’indirizzo rigoroso della Suprema Corte, appaiono maggiormente appaganti le impostazioni che mirano a far emergere la scarsa persuasività, nel caso specifico, della presunzione di distribuzione dei maggiori utili, attraverso, ad esempio, la valorizzazione dei rapporti di assoluta estraneità tra i soci, tali da non lasciar trasparire alcuna intesa complice nel senso della condivisione delle scelte evasive. La giurisprudenza di merito continua a preferire posizioni garantiste nelle decisioni relative agli accertamenti spiccati nei confronti dei soci di società di capitali a ristretta base societaria. Un simile atteggiamento appare ancor più apprezzabile, a cospetto dell’orientamento costantemente restrittivo, nei confronti dei contribuenti, assunto anche di recente dalla Corte di Cassazione1, tetragona a qualsiasi critica della dottrina. La questione Si tratta di fattispecie assai nota agli addetti ai lavori, poiché oggetto di dispute risalenti nel tempo2. L’Ufficio aveva in un primo tempo accertato nei confronti di una società di capitali un maggior reddito e quindi aveva ribaltato tale maggiore imponibile nei confronti dei soci, ritenendolo interamente distribuito nel medesimo anno della ret-

1 Senza alcuna pretesa di esaustività, si vedano Cass., sez. I, sent. 25 maggio 1995, n. 5729 e 2 giugno 1995, n. 6225 e Cass., sez. trib., sent. 8 marzo 2000, n. 2606; 2 aprile 2002, n. 4695; 16 maggio 2002, n. 7174; 25 luglio 2002, n. 10951; 30 luglio 2002, n. 11239; 5 maggio 2003, n. 6780; 15 maggio 2003, n. 7564; 11 novembre 2003, n. 16885; 29 dicembre 2003, n. 19803; 8 febbraio 2007, n. 2861; 21 marzo 2007, n. 6751; 11 ottobre 2007, n. 21415; 26 novembre 2007, n. 24531. Nella recentissima sentenza 11 gennaio 2008, n. 448, la Corte giunge sino a cassare direttamente in camera di consiglio le pronunce dei giudici di merito che non si fossero adeguate al criterio di diritto sancito nei precedenti in termini. 2 Tra i numerosi autori che si sono occupati dell’argomento, PAPARELLA,

tifica. Tanto, sulla scorta dell’unica argomentazione rappresentata dalla ristretta base sociale della società verificata. Dalla lettura della sentenza non è dato comprendere né la tipologia dell’accertamento effettuato nei confronti della società (accertamento induttivo o analitico), né le circostanze concrete che avevano permesso di qualificare l’ente come a ristretta base sociale. Si afferma invece in narrativa, seppure come riporto delle considerazioni dell’Ufficio, che la rettifica dell’ente partecipato si era resa definitiva. La contestazione relativa ai soci era stata annullata dai giudici di prime cure. In sede di appello, l’Ufficio aveva eccepito la sufficienza della ristretta base sociale a legittimare l’accertamento nei confronti dei soci, mentre il contribuente sollevava la mancanza di prova della effettiva distribuzione degli utili accertati, difettando la gravità, precisione e concordanza della presunzione applicata dall’Ufficio. I termini del problema In linea di principio, è evidente che l’accertamento di un maggior reddito eseguito nei riguardi di una persona giuridica non dovrebbe potersi tradurre in via diretta in una rettifica del reddito dichiarato dai soci della stessa. Tanto per l’ovvia considerazione che, relativamente al reddito di capitale, il criterio di tassazione assunto nell’attuale articolo 45 del T.U.I.R. è quello di cassa. Ne deriva che l’Ufficio, per poter ribaltare sui soci gli utili accertati, deve porsi, in via del tutto preliminare, il problema di dimostrare, anche su base presuntiva, l’avvenuta percezione delle somme. Come è stato, infatti, ripetutamente e ampiamente osservato3, il legislatore del Testo unico ha net-

La presunzione di distribuzione degli utili nelle società di capitali e ristretta base sociale, in Dir. e Prat. Trib., 1995, II, 435 ss.; BORIA, Il principio di trasparenza nella imposizione delle società di persone, Milano 1996, 369-372; NAPOLETANO, Presunzione di distribuzione di utili a soci di società di capitali, in Società, 1996, 7, 761 ss.; VOGLINO, Appunti critici sulla presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili accertati a carico delle società a ristretta base familiare o azionaria, in Boll. Trib., 1996, 6, 476 ss.; Id, Ancora in tema di società di capitali a ristretta base azionaria o familiare e presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili accertati a carico della società, in Boll. Trib., 1997, 8, 631 ss.; TANCREDI MARINO, Le società di capitali a base azionaria ristretta o familiare e la presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori ricavi accertati, in

Boll. Trib., 1998, 7, 623 ss.; BENAZZI, Sulla attribuzione ai soci di società di capitali a ristretta base azionaria del maggior reddito accertato nei confronti della società, in Riv. Giur. Trib., 2001, 4, 325 ss.; Id, Giudici di merito in contrasto con la Cassazione sulla presunzione di distribuzione ai soci del maggior reddito di società a ristretta base azionaria, in Riv. Giur. Trib., 2007, 10, 893 ss.; Id, La ristrettezza della base sociale legittima l’accertamento basato su criteri presuntivi, in Corr. Trib., 2008, 3, 212 ss.; STEVANATO, La presunzione di distribuzione ai soci del maggior reddito societario, in Corr. Trib., 2004, 13, 1011 ss.; BEGHIN, L’occulta distribuzione dei dividendi nell’ambito delle società di capitali a ristretta base tra automatismi argomentativi e prova per presunzioni, in Riv. Giur. Trib., 2004, 5, 433 ss. 3 BENAZZI, Giudici di merito, cit., 895.


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tamente differenziato il criterio di imputazione degli utili dei soggetti Ires, rispetto al criterio relativo all’attribuzione dei redditi delle società di persone. Solo con riferimento a tali ultimi soggetti, si prescinde dichiaratamente dall’avvenuto incasso dell’utile, “saltando” così lo schermo societario e provvedendosi alla diretta tassazione in capo ai soci4. Non si tratta, è evidente, di legittimare strategie apertamente evasive dei contribuenti, volte a utilizzare strumentalmente la forma della società di capitale per gestire in modo ancora più disinvolto i proventi “in nero”, ma di fare applicazione rigorosa delle disposizioni di legge, per giungere ad una imposizione equilibrata, a tutela della dualità degli interessi coinvolti (dell’amministrazione e dei contribuenti). La giurisprudenza di vertice sulle società a ristretta base sociale La Corte di Cassazione ha, come sopra ricordato, sempre confermato la validità degli accertamenti rivolti ai soci di società di capitali, seppure al ricorrere di precise condizioni di fatto. In particolare, nella ricostruzione della Suprema Corte, la circostanza decisiva che supporta la fondatezza della rettifica è costituita dalla ristretta base sociale della società. Da sola, tale condizione è idonea a costituire il fatto noto dal quale far scaturire la presunzione relativa consistente nella avvenuta distribuzione dei maggiori utili accertati in capo alla società. Tanto, in ragione del fatto che rapporti sociali così circoscritti lasciano presupporre l’esistenza di una “complicità” tra i soci tale da giustificare la decisione congiunta della spartizione degli utili in nero. Nel corso degli anni, l’orientamento della Corte ha avuto modo di affinarsi, pur senza essere minimamente scalfito dalle critiche mosse dalla dottrina, dalle quali anzi le sentenze prendevano dichiaratamente le distanze. È stato pertanto osservato che: a) legittimare l’accertamento diretto in capo ai soci degli utili imputati alla società di capitali non significa affatto applicare, praeter legem, il criterio della trasparenza, riservato alle sole società di persone5. Questo, proprio in virtù della circostanza che, nella specie, l’oggetto della rettifica è per l’appunto la presunzione di distribuzione degli utili,

4 Per l’inquadramento generale dell’istituto della trasparenza, si veda il fondamentale lavoro di BORIA, Il principio di trasparenza, cit., segnatamente 15 ss. 5 Il problema dei rapporti tra principio di trasparenza e accertamento

avverso la quale è il contribuente che deve premurarsi di fornire la prova contraria; b) d’altro canto, trattandosi di prova presuntiva, il sindacato della Corte è limitato alla valutazione della ragionevolezza e quindi della astratta ammissibilità dell’iter argomentativo dell’Ufficio, essendo riservato al giudice di merito l’apprezzamento in punto di fatto della specifica capacità persuasiva delle circostanze di volta in volta addotte nell’accertamento6. Le critiche della dottrina A fronte di tale netta presa di posizione, molteplici sono stati i rilievi critici della dottrina. In primo luogo, è stato fatto notare come nell’ordinamento non vi sia traccia della nozione di “società a ristretta base sociale”, di tal che in questo modo si introdurrebbe un elemento di forte incertezza nell’applicazione della norma tributaria7. In effetti, a ben vedere, in talune pronunce la Cassazione ha dimostrato di avere una concezione assai elastica della ristrettezza della base sociale. Così, ad esempio, nella sentenza 29 dicembre 2003, n. 19803, la Corte ha avallato una rettifica relativa ad una società la cui compagine era sostanzialmente riconducibile «a tre soli nuclei familiari». Ora è evidente, anche alla luce del tradizionale canone dell’id quod plerumque accidit, che tre diversi nuclei familiari, normalmente, non danno luogo ad alcuna “complicità” d’intenti e dunque non giustificano nessun automatismo accertativo8. In altra occasione, lo stesso consesso ha addirittura ritenuto sussistente la qualificazione in esame in una società strutturata in quattro gruppi azionari9. Si tratta tuttavia di questione che risente inevitabilmente dei ricordati limiti del sindacato giurisdizionale di legittimità. E invero, poiché tutto si risolve, sempre nella contestata impostazione della Corte, in una rettifica fondata su basi presuntive, le eccezioni in punto di ristrettezza ovvero di ampiezza della base sociale dovranno essere accuratamente coltivate davanti al giudice di merito. In particolare, la prova in ordine alla sussistenza del suddetto requisito non potrebbe che incombere sull’Ufficio, non essendo ammissibile che il contribuente sia gravato da un onere dimostrativo chiaramente “diabolico”10.

relativo ai soci di società a ristretta base è espressamente affrontato, tra le altre, nella citata sentenza n. 19803/2003. 6 Così, la citata sentenza n. 2606/2000. 7 BENAZZI, Giudici di merito, cit., 895. 8 Al riguardo si vedano le annotazioni

critiche di BEGHIN, op. cit., 434-435. 9 Cass., sent. 7 novembre 2005, n. 21573. 10 E cioè quello di dimostrare che la compagine sociale non è ristretta. In questo senso, peraltro, la citata sentenza n. 2861/2007, della Corte di


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Detto in altro modo, dovrebbe essere l’amministrazione che deve convincere i giudici che, ad esempio, cinque soci sono una compagine “complice”. Ma anche posta in questi termini, è evidente come la ricostruzione della Cassazione riveli ampi margini di criticità, soprattutto in ordine al mantenimento della parità processuale tra fisco e contribuente, oggi più che mai sancita nell’articolo 111 della Costituzione. In presenza di una società con due soci, perfettamente estranei, si è certamente a cospetto di una ristretta base sociale. Ma cosa deve dimostrare il socio che fosse totalmente all’oscuro delle malefatte gestionali dell’amministratore? Oppure, per usare le espressioni del giudice di legittimità, come può tale soggetto provare «la non effettiva percezione di utili derivanti dal maggior reddito»11 dell’ente partecipato? Si dovrà chiedere un accertamento bancario a garanzia del contribuente? È chiaro che in presenza di controversie tra soci o di puntuali e ricorrenti richieste di chiarimenti in merito al bilancio d’esercizio da parte del socio non amministratore, la non percezione degli utili in nero si atteggi come la conclusione più verosimile della vicenda tributaria. Ma non sempre ciò si verifica. Paradossalmente, quantomeno per le S.r.l., la questione appare aggravata dalla riforma del diritto societario che ha introdotto, nell’articolo 2476 c.c., un nuovo penetrante potere di controllo del socio non amministratore, che può spingersi sino a pretendere la consultazione, in genere, di qualsiasi documento sociale12. Ecco allora che il mancato esercizio di tali facoltà potrebbe essere interpretato, con un pericoloso e inaccettabile rovesciamento di prospettiva, come il segno della temuta “complicità” tra soci. Una tesi sicuramente più equilibrata risiede nel pretendere da parte dell’Ufficio non solo la dimostrazione della esiguità della compagine sociale, ma anche una adeguata attività istruttoria volta a ricostruire la posizione ricoperta dai singoli soci all’interno della società13. Così, ad esempio, i soci che non partecipano alla vita sociale e che magari hanno altre attività lavorative dovrebbero, a priori, esse-

Cassazione, a mente della quale «affinché tale presunzione possa operare occorre pur sempre che la ristretta base sociale e/o familiare – cioè il fatto noto alla base della presunzione – abbia formato oggetto di specifico accertamento probatorio» 11 Cass., sent. n. 19803/2003, cit. 12 Si veda l’ampia letteratura sul tema, tra cui ABRIANI, Decisioni dei soci. Amministrazione e controlli, in AA.VV., Di-

re esclusi dalla presunzione di riscossione dei proventi evasi. L’operare di automatismi potrebbe rendere, invece, in taluni casi estremamente difficile, se non impossibile, l’attività difensiva del contribuente14. Si è inoltre osservato come, nonostante le rassicurazioni e le repliche della Cassazione, l’accertamento del reddito in capo al socio si traduca nell’applicazione di una catena di presunzioni, in violazione del divieto del praesumptum de praesumpto15. E invero, anche ipotizzando la certezza del maggior reddito accertato, su cui ci si soffermerà in seguito, una rettifica costruita nel senso qui ipotizzato: a) presume l’avvenuto incasso di utili conseguiti dalla società, senza preoccuparsi tra l’altro di stabilire se i suddetti utili siano stati a loro volta riscossi dalla società; b) presume la distribuzione degli stessi nella medesima percentuale delle quote possedute; c) presume che l’incasso sia avvenuto nello stesso anno in cui i proventi sono stati conseguiti. Anche sotto questo aspetto, dunque, il pensiero della Corte si traduce in un evidente vantaggio accordato all’Ufficio, che a sua volta si risolve nell’alleggerimento dell’onus probandi e dell’obbligo di motivazione, a tutto discapito dell’aggravio delle facoltà difensive del contribuente. Sussiste inoltre divergenza in dottrina, rispetto all’orientamento della Cassazione, sulla qualificazione da attribuire all’accertamento eseguito nei confronti della società e, più in generale, sulla esatta ricostruzione del modus operandi della presunzione adottata dal fisco. Secondo alcuni autori16, il maggior reddito accertato si atteggerebbe quale fatto noto da cui si fa derivare la circostanza della riscossione dell’utile da parte dei soci. Al contrario, nella concezione della Corte il reddito della società degraderebbe a mero presupposto di fatto dell’accertamento rivolto ai soci17. In una pronuncia piuttosto frettolosa, il giudice di legittimità si è spinto sino ad affermare l’indipendenza dei giudizi afferenti all’accertamento dei soci e all’accertamento della società, rilevando che la definitività del reddito determinato in capo alla seconda non sarebbe ne-

ritto delle società (Manuale breve), Milano, 2004, 319; PASQUARIELLO, Commento all’articolo 2476 c.c., in Il nuovo diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, Padova 2005, 1973 ss.; GRASSO, Documenti relativi all’amministrazione e diritto di consultazione del socio di S.r.l. non amministratore, in Giur. Comm., 2007, II, 922 ss. 13 D’altro canto, trattandosi di pochi soci, la ricostruzione non dovrebbe

essere particolarmente complessa! 14 Questo rischio è costantemente segnalato negli scritti di Voglino, sopra citati. 15 VOGLINO, Appunti critici, cit., 476; TANCREDI MARINO, op. cit., 625. 16 VOGLINO, Appunti critici, cit., 477; BENAZZI, La ristrettezza della base sociale, cit., 215. 17 Tra le tante, si veda la citata sentenza n. 2606/2000.


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cessario ai fini della legittimazione della rettifica nei riguardi dei primi18. Posizioni più meditate sono invece espresse nella sentenza n. 6780/2003, sempre della Suprema Corte, nella quale si ammette la facoltà del soggetto interessato di richiedere la sospensione del processo relativo ai soci, in attesa della definizione della lite che attiene alla società19. In altre pronunce20, i giudici di vertice si sono inoltre fatti carico di valutare la validità della rettifica emessa nei confronti della società, al fine di decidere in ordine alla controversia derivata instaurata dai soci di questa. Si legge infatti che la presunzione di avvenuta distribuzione degli utili “in nero” richiede «che sussista un valido accertamento a carico della società in ordine ai ricavi non contabilizzati, il quale costituisce il presupposto per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi»21. In una diversa occasione, al fine di argomentare la conferma della rettifica eseguita a carico dei soci, la Corte è partita dalla constatazione che il contribuente non ha contestato il maggior reddito societario, poiché «la parte presuppone implicitamente la definitività dell’accertamento giudiziale a carico della società». È in ogni caso evidente che, anche a voler qualificare l’accertamento emesso nei confronti della società come un presupposto di fatto della successiva imputazione del reddito di capitale in capo ai soci22, non si possa comunque prescindere da una indagine preliminare in ordine al contenuto di tale atto. A parte, infatti, l’opportunità di richiedere la sospensione del giudizio relativo ai soci, che dovrà essere attentamente valutata soprattutto in presenza di accertamenti particolarmente “azzardati”, non vi è dubbio che se la rettifica della società attiene, ad esempio, a recuperi analitici riferiti a costi indeducibili oppure a proventi ritenuti intassabili dal soggetto passivo, non vi sarebbe spazio per fondare rilievi di alcun genere nei confronti dei soci23. Un’eccezione ulteriore mossa dalla dottrina alla giurisprudenza in commento, puntualmente ripresa dai difensori dei contribuenti, si riferisce inoltre alla violazione del divieto della doppia imposizione, sancito nell’articolo 67, D.P.R. n. 600/73 e nell’articolo 163 del

18 Sent. n. 16885/2003, cit. 19 L’osservazione è di CARNIMEO, L’avviso di accertamento è legittimo solo se basato su atti certi e incontestati, in Guida normativa, 8 settembre 2005, 15-16. 20 Sent. n. 19803/2003 e n. 2861/2007, cit. 21 Così la sentenza n. 2861, citata nella nota precedente.

T.U.I.R., che si verifica allorquando il medesimo reddito viene tassato due volte, senza correttivi di alcun genere. La Cassazione ha tuttavia costantemente rigettato l’obiezione sulla scorta della considerazione che, nella specie, si sarebbe in presenza di due presupposti d’imposta distinti. Nessun rilievo, nel ragionamento dei giudici di vertice, avrebbe la circostanza che, in caso di accertamento ai soci, non spetterebbe il credito d’imposta sugli utili tassati in capo alla società. La questione risulta, a legislazione vigente, superata, in ragione della introduzione del regime pex nella circolazione delle partecipazioni in società di capitali. I redditi di capitale imputati ai soci dovranno essere quindi tassati secondo il regime di appartenenza della partecipazione, in ogni caso in misura attenuata rispetto a quanto accadeva priva della riforma del D.Lgs. n. 344/2003. La trasparenza fiscale delle società di capitali Nel trattare il tema degli accertamenti ai soci di società a ristretta base è inevitabile imbattersi nel nuovo istituto della trasparenza fiscale, disciplinato negli articoli 115 e 116 del T.U.I.R. Si ricorderà, al riguardo, come tale disciplina preveda l’imputazione diretta del reddito della società di capitali ai soci di questa, indipendentemente dalla distribuzione degli utili24. Si potrebbe, in via del tutto preliminare, osservare che solo per effetto delle modifiche in commento si è giunti alla legittimazione della prassi degli accertamenti pressocchè automatici nei confronti dei soci di società di capitali. Il collegamento tra la prassi suddetta e l’istituto della trasparenza potrebbe in effetti essere rappresentato dal criterio di delegazione, contenuto nell’articolo 4, comma 1, lettera h, legge n. 80/2003, cui si è dato attuazione con l’articolo 116 del T.U.I.R., che menziona espressamente le società a responsabilità limitata “a ristretta base proprietaria”. Tuttavia, è evidente che una simile obiezione non risulterebbe di grande utilità a cospetto dell’orientamento di Cassazione che, almeno formalmente, dimostra di distinguere l’ambito dell’istituto della trasparenza rispetto alla ratio delle rettifiche di cui si discute25. A no-

22 E anzi, proprio in virtù di tale qualificazione. 23 BEGHIN, op. cit., 434; STEVANATO, op. cit., 1013. 24 Sull’argomento, sia consentito rinviare a LOVECCHIO, Il decreto ministeriale sulla trasparenza fiscale nelle società di capitali, in Boll. Trib., 2004, 10, 725 ss.; MARELLO, Il regime di tra-

sparenza, in Imposta sul reddito delle società, diretta da Tesauro, Bologna, 2007, 517 ss. 25 Peraltro, quand’anche si volesse accostare la nuova trasparenza al ragionamento presuntivo che colpisce le società a ristretta base, non potrebbe fare a meno di annotarsi, a detrimento della solidità delle argo-


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stro avviso, la nuova trasparenza fiscale ha finalità e struttura in nessun modo congruenti con la questione delle società a ristretta base. A tale riguardo, occorre previamente distinguere la “grande trasparenza”, contenuta nell’articolo 115 del T.U.I.R., rispetto alla “piccola trasparenza”, regolata nell’articolo 116 del T.U.I.R.26. La prima è giustificata dall’esigenza di superare il divieto di compensazione del risultato economico della partecipata con quello dei soci della stessa, in fattispecie nelle quali il rimedio del consolidato fiscale non risulta applicabile. La seconda trova invece causa nella volontà di evitare che la forma giuridica adottata dalle piccole imprese si riveli penalizzante in conseguenza del regime fiscale ad essa destinato. Il riferimento è evidentemente alla doppia tassazione che si realizza nel passaggio degli utili dalla società di capitali al socio, rispetto alla situazione analoga che si verifica nelle società personali. In questo senso deve quindi apprezzarsi la circostanza che l’articolo 116 citato è rivolto esclusivamente alle S.r.l. con ricavi inferiori a quelli previsti per l’applicazione degli studi di settore, poiché si trattava di individuare un modello di riferimento comparabile con quello tipico delle società di persone. Il limite dei dieci soci è infine ascrivibile, con ogni probabilità, ad esigenze di semplificazione nella gestione del nuovo regime27. In buona sostanza, si è in presenza di elementi che delineano uno specifico criterio di imputazione del reddito, destinato a fare stabilmente parte dell’attuale, mutato, sistema di imposizione. Non vi è nulla dunque che possa né avallare né sconfessare la tesi oramai consacrata dalla Corte di Cassazione. Conclusioni La Commissione pugliese, come si è anticipato in apertura, ha ritenuto insufficienti le argomenta-

mentazioni della Suprema Corte, come la prima costituisca un regime opzionale per le società di capitali e non già la disciplina fiscale naturale delle stesse: MARELLO, Il regime di trasparenza, cit., 552-553. 26 SALVINI, La tassazione per trasparenza, in Rass. Trib., 2003, 5, 1531. 27 Sarebbe d’altro canto difficilmente compatibile con i canoni dell’id quod plerumque accidit ammettere la coincidenza, sotto l’aspetto meramente

zioni dell’Ufficio, che si era limitato a fondare il ribaltamento del reddito sui soci sulla sola constatazione della ristretta base sociale. Secondo la sentenza in commento, invece, l’accertamento avrebbe dovuto evidenziare ulteriori elementi probatori, al fine di corroborare con i requisiti della gravità, precisione e concordanza la presunzione di avvenuta distribuzione dei maggiori utili contestati alla società. Al contrario, la rettifica oggetto di lite si risolveva, sempre nell’ottica dei giudici di secondo grado, in una inammissibile catena di presunzioni che provocava, tra l’altro, un’inversione “diabolica” dell’onere della prova, in capo al contribuente. La conclusione, del tutto ovvia viste le premesse, è stata nel senso del totale annullamento dell’accertamento dell’Ufficio. La pronuncia va ovviamente salutata con favore da parte di tutti coloro che hanno a cuore una concezione del rapporto tributario meno inquinata dalla presunzione di colpevolezza del contribuente. Occorre, tuttavia, chiedersi se sentenze come questa28 siano utili “alla causa” qualora, come tutto lascia presumere, la Corte di Cassazione dovesse mantenersi irremovibile nelle proprie convinzioni. È infatti piuttosto agevole prevedere che se l’Ufficio dovesse impugnare la decisione del Collegio barese, la stessa verrebbe cassata con rinvio ad altra sezione della medesima Comm. trib. reg. potrebbe quindi rivelarsi più proficuo lavorare sugli elementi fattuali della vicenda controversa, evidenziando, ad esempio, la natura “non ristretta” della compagine sociale oppure valorizzando circostanze concrete che possano denotare l’estraneità di taluni soci rispetto agli aspetti gestionali della società. In buona sostanza, si tratterebbe di motivare la non persuasività, nel caso di specie, della presunzione di avvenuta distribuzione degli utili, senza limitarsi a rigettare, a priori, “l’algoritmo” dell’Ufficio.

definitorio, della società a ristretta base con la S.r.l. della piccola trasparenza, poiché non è davvero ipotizzabile il permanere della “complicità tra soci” in una società composta da dieci soci, estranei tra loro. Il diverso profilo funzionale della piccola trasparenza, dunque, appare confermato anche dalla individuazione del parametro quantitativo stabilito nell’articolo 116 del T.U.I.R.

28 Tutt’altro che isolate nel panorama giurisprudenziale di grado inferiore alla Cassazione. Si vedano, ad esempio, Comm. trib. centr., sez. VII, 19 marzo 1996, n. 1239; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sez. VII, 1 dicembre 1997, n. 284; Comm. trib. prov. Milano, sez. XXVIII, 24 giugno 1998, n. 199; Comm. trib. reg. Puglia, sez. VIII, 11 aprile 2005, n. 16; Comm. trib. reg. Puglia, sez. I, 27 dicembre 2006, n. 116.


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Commissione tributaria regionale del Veneto, sez. XXI, 15 ottobre 2007, n. 109 Presidente: Caracciolo - Relatore: Donella Iva - Cessioni intracomunitarie di autoveicoli nuovi - Trasporto del bene su strada da parte del cedente - Non imponibilità (Dir. 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, art. 28-quater; dir. 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, art. 138; D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 41) Nel caso di cessione intracomunitaria di veicoli nuovi, ai fini della non imponibilità dell’operazione ai sensi dell’art. 41 del D.L. 331/1993, il trasporto può avvenire direttamente a cura del venditore su strada con targa di prova. Svolgimento del processo La sentenza impugnata ha deciso sul ricorso di parte contribuente contro un avviso di accertamento Iva per l’anno 1999. L’accertamento seguiva un Pvc che aveva concluso una verifica dello stesso Ufficio Iva, relativo, in particolare, ad operazioni intracomunitarie. Nell’atto impugnato era anche stata presa in considerazione la dichiarazione integrativa di condono della contribuente ex art. 8, L. 289/02. Secondo l’Ufficio, da parte contribuente sarebbe stata posta in essere un’operazione simulata al fine di ottenere un illecito vantaggio fiscale. Dalla contribuente sarebbe stata, infatti, ceduta, in regime di non imponibilità, un’autovettura ad una società tedesca, che l’avrebbe poi ceduta in locazione ad un utilizzatore italiano con applicazione di Iva tedesca (che prevede un’aliquota inferiore, oltre alla possibilità di chiedere all’erario tedesco, diversamente dal sistema italiano, il rimborso dell’Iva pagata). Secondo l’Ufficio, nella realtà, l’operazione nascondeva l’effettiva cessione vera e propria (quantomeno vendita con riserva di proprietà) direttamente dalla contribuente ricorrente all’utilizzatore italiano. Inoltre, data la situazione, non sarebbe sussistito uno dei presupposti per l’esenzione Iva nel caso in questione, non risultando il trasporto o movimentazione del bene nel Paese comunitario del cessionario; infatti, non sarebbe sussistita, secondo l’Ufficio, alcuna prova documentale di tale incombenza, come sarebbe avvenuto se il bene fos-

se stato regolarmente consegnato ad un soggetto specificatamente incaricato, in modo da ottenere il Cmr (documento di trasporto internazionale), o altro sistema analogo. Al riguardo non sarebbe stato, viceversa, idoneo il modello intrastat (non esibito ai verbalizzanti né successivamente prodotto e, in ogni caso, redatto non da pubblico ufficiale). Altre circostanze rilevate dall’Ufficio sono il versamento della cauzione da parte del successivo utilizzatore, che dimostrerebbe come l’ordine dell’autoveicolo sarebbe stato successivo alla scelta dell’utilizzatore italiano, come lo stesso pagamento sarebbe stato effettuato dallo stesso utilizzatore italiano (in nome e per conto della società tedesca) e come il canone di locazione fosse praticamente uguale al valore di mercato della vettura. Nel ricorso parte contribuente contestava tutte le conclusioni dei verbalizzanti recepite nell’accertamento, rilevando che l’operazione effettuata sarebbe stata del tutto conforme alla legge e, tra l’altro, che la prova del trasporto nello Stato estero sarebbe stata fornita dalla circostanza dell’immatricolazione nel Paese di destinazione (richiamando la risoluzione min. fin. 101/E/1996), anche considerando che, in Germania, per l’immatricolazione, sarebbe stata richiesta obbligatoriamente la presenza fisica della vettura. L’affermazione della ricorrente era, a sua volta, contestata dall’Ufficio, costituito in primo grado. La sentenza della Comm. trib. prov. ha accolto il ricorso ritenendo fondate le eccezioni di parte contribuente e richiamando una circ. min. del 1992. Ha proposto appello l’Ufficio ribadendo le proprie argomentazioni, contestando il richiamo nella motivazione della sentenza impugnata alla circolare del 1992, e, a sua volta, richiamando una sentenza della Corte di Giustizia UE. del 2006 e una sentenza della Comm. trib. prov. Trento del 2005. Data la mancanza di prova del “presupposto territoriale”, l’Ufficio insiste nel ritenere la non applicabilità del regime di non imponibilità di cui all’art. 41 del D.L. 331/93. Parte contribuente è costituita, a sua volta per ribadire le eccezioni e argomentazioni già svolte in primo grado.


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Motivi della decisione Secondo questa Commissione la sentenza impugnata va confermata. Va innanzitutto rilevato come l’Ufficio si sia soffermato dettagliatamente sulla questione della supposta “fittizietà” dell’operazione in questione solo nella comparsa di costituzione in primo grado, per quanto consta agli atti. L’atto impugnato, infatti, non menziona direttamente la questione, riportandosi al contenuto del processo verbale. Ma il processo verbale non risulta agli atti. D’altronde, va anche rilevato come gli elementi che l’Ufficio invoca a prova della “fittizietà” dell’operazione, costituiti in particolare dalle modalità di pagamento e dalla circostanza che ad effettuare il pagamento alla appellata sarebbe stato in effetti l’utilizzatore, possono considerarsi indizi, ma non sono idonei a dimostrare con certezza la pretesa dell’Ufficio. Manca anche del tutto la prova dell’equivalenza tra il prezzo pagato all’appellata e il costo dell’operazione di locazione.

Nota Nel caso esaminato dalla Commissione veneta, la società contribuente aveva trasferito in regime di non imponibilità Iva un’autovettura ad un soggetto d’imposta tedesco che, poi, l’aveva ceduta in locazione ad un utilizzatore italiano con applicazione della più favorevole aliquota prevista in Germania. L’Agenzia delle Entrate, nel recepire i rilievi di un processo verbale di constatazione, riteneva che l’operazione nascondesse una vera e propria cessione (o, quanto meno, una vendita con riserva di proprietà) direttamente dalla contribuente all’utilizzatore italiano. Recuperava, quindi, a tassazione la relativa imposta sul valore aggiunto. In particolare, secondo l’Ufficio, non sarebbe sussistito il presupposto per qualificare la cessione verso il soggetto comunitario come non imponibile ai sensi dell’art. 41 del D.L. 331/1993, in quanto non risultava il trasporto o la movimentazione del bene nel Paese dell’acquirente. A tal fine, sottolineava l’assenza di prove documentali, che si sarebbero, al contrario, avute qualora il bene fosse stato consegnato ad un soggetto incaricato del trasporto, in guisa da ottenere un documento di trasporto internazionale o altro titolo equipollente. Né, a tal fine, poteva considerarsi sufficiente il modello intrastat. Da dette circostanze l’autorità desumeva la sussistenza di un’operazione simulata al fine di otte-

Va anche considerato che, dato il tipo di imposta contestata (Iva), per l’appellata non sarebbe derivato alcun diretto vantaggio dall’eventuale applicazione dell’imposta che sarebbe andata a gravare sul cessionario. Quanto all’altro rilievo, relativo alla mancanza di un presupposto per l’esenzione (ex art. 41, D.L. 331/93) in riferimento al “trasporto del bene nel Paese comunitario”, l’Ufficio non apporta alcun nuovo elemento a quanto sostenuto in primo grado. Ma, come già ritenuto dalla Comm. trib. prov., l’argomentazione appare artificiosa e destituita di fondamento, non risultando alcuna norma che determini specifiche modalità di trasporto. Il trasporto può avvenire anche direttamente a cura dell’interessato e su strada con targa di prova, come affermato nel caso, e come adeguatamente dimostrato dall’immatricolazione avvenuta in Germania, incombenza che presuppone l’effettiva presenza nello Stato dell’autoveicolo. Ogni altra questione va ritenuta assorbita. L’appello dell’Ufficio va, quindi, respinto.

nere un indebito vantaggio fiscale. Ulteriori elementi a sostegno di detta tesi sarebbero stati rappresentati dal versamento di una cauzione da parte dell’utilizzatore (che avrebbe dimostrato la posteriorità dell’ordine del veicolo rispetto alla scelta dello stesso), dal fatto che quest’ultimo avrebbe effettuato il pagamento in nome e per conto della società tedesca, nonché, infine, dalla considerazione che il canone di locazione fosse, nella sostanza, uguale al valore di mercato della vettura. Detti assunti venivano contestati in primo grado dalla società contribuente, secondo cui la prova del trasporto nello Stato estero, ai fini della non imponibilità dell’operazione ex art. 41 del D.L. 331/1993, veniva fornita dalla circostanza che il veicolo era stato immatricolato nel Paese di destinazione. Evidenziava, a tal proposito, che per effettuare l’immatricolazione in Germania è obbligatoria la presenza fisica del bene. La Commissione di primo grado accoglieva il ricorso. Avverso la relativa sentenza, l’Ufficio proponeva appello, ribadendo il motivo concernente la mancata prova del trasporto del bene nel Paese di destinazione. Da quanto si evince dalla sentenza in rassegna, pare, invece, che in secondo grado l’Ufficio non abbia riproposto la questione strettamente concernente l’asserita fittizietà dell’operazione. A tal proposito, la Commissione regionale evidenziava, comunque, che gli elementi


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da esso invocati a fondamento di detto assunto (rappresentati, come si è visto, dalle modalità del pagamento, nonché dalla circostanza che ad effettuare il pagamento sarebbe, in effetti, stato l’utilizzatore) rappresentavano indizi inidonei a dimostrare con certezza la fondatezza della pretesa tributaria. Mancava, inoltre, qualunque prova sull’affermata equivalenza tra il prezzo pagato alla contribuente e il costo dell’operazione di locazione. I giudici precisavano, inoltre, che l’imposta sarebbe, comunque, gravata sul cessionario e, pertanto, per l’appellata non sarebbe derivato alcun vantaggio dal modus operandi contestato dall’Ufficio. Ritenevano, poi, del tutto artificioso e destituito di fondamento il rilievo concernente la mancanza del requisito del trasporto del bene nel Paese comunitario previsto dall’art. 41 del D.L. 331/1993. Secondo la Commissione, il trasporto, come avvenuto nel caso de quo, «può avvenire anche direttamente a cura dell’interessato e su strada con targa di prova» (cfr., a tal proposito, la risoluzione 17 giugno 1996, n. 101/E-VII-15-651, Dir. aff. gen. e cont. trib., in banca dati fisconline, secondo cui ricorre una cessione intracomunitaria nel caso in cui l’autoveicolo nuovo venga inviato in altro Paese comunitario e ivi immatricolato «fermo restando la possibilità di circolare temporaneamente nel territorio dello Stato utilizzando le speciali targhe EE»). Infine, la circostanza dell’avvenuto trasferimento del bene in Germania era testimoniato, come sostenuto dall’appellata, dall’immatricolazione ivi avvenuta, che presupponeva la presenza fisica del bene. Rigettava, quindi, l’appello dell’Ufficio. Come si vede, la questione affrontata dalla Com-

missione veneta concerne la corretta interpretazione della nozione di trasporto nel territorio dell’altro Stato ai fini dell’operare del regime di non imponibilità. A tal fine, i giudici evidenziano l’assenza di disposizioni che determinino le modalità del trasporto stesso. In effetti, l’art. 41 del D.L. 331/1993, sembra consentire che esso venga eseguito direttamente dal venditore, laddove considera non imponibili le cessioni nell’ipotesi in cui i beni siano «trasportati [...] dal cedente o dall’acquirente, o da terzi per loro conto». In altri termini, la norma non sembra necessariamente richiedere che essi siano consegnati ad un soggetto specificamente incaricato del trasporto. Allo stesso modo, l’art. 28-quater della VI direttiva (17 maggio 1977, n. 77/388/CEE) si riferisce alle «cessioni di beni [...] spediti o trasportati, dal venditore o dall’acquirente o per loro conto» (analogamente, cfr. l’art. 138 della direttiva 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE; sul punto si vedano pure le conclusioni dell’11 gennaio 2007 dell’avvocato generale Kokot, nella causa C-409/04, nel senso che il requisito del trasporto, secondo l’accezione fatta propria dalla direttiva, sussisterebbe qualora il venditore o l’acquirente effettuino il trasporto delle merci personalmente o mediante incaricati soggetti alle proprie direttive). Posto, quindi, che le norme non sembrano individuare le modalità di svolgimento del trasporto, ciò che appare rilevante ai fini della non imponibilità dell’operazione è che il bene abbia fisicamente lasciato il territorio dello Stato membro di cessione (cfr. CGCE, 27 settembre 2007, causa C-184/05; CGCE, sez. III, 27 settembre 2007, causa C409/04; conclusioni dell’11 gennaio 2007, nella causa C-409/04, cit.).


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Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. I, 21 febbraio 2007, n. 51 Presidente: Varrone - Relatore: Lunerti Processo tributario - Appello - Deposito di copia presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale - Inosservanza - Inammissibilità dell’appello (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, comma 2) L’inosservanza dell’obbligo di deposito di copia dell’atto di appello presso la segreteria della Commissione provinciale che ha emesso la sentenza impugnata (obbligo previsto dall’art. 53, comma 2, D.Lgs. n. 546/92, per l’ipotesi di notifica del gravame non a mezzo di ufficiale giudiziario), determina l’inammissibilità del ricorso, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo. Svolgimento del processo N. M. G. ricorre contro accertamento ai fini delle imposte dirette per l’anno 1998 emesso sulla base dei coefficienti presuntivi di reddito previsti dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996. La Commissione tributaria provinciale di Roma ha respinto il ricorso ritenendo correttamente motivato l’accertamento. Propone appello, con atto depositato il 14 novembre 2006, la N. insistendo sull’incongruità dei redditi accertati. Si costituisce nel giudizio di appello l’Ufficio delle Entrate di Roma 3 sostenendo la piena validità dei redditi ricostruiti attraverso i parametri induttivi. Motivi della decisione Deve pregiudizialmente essere esaminata la rego-

Nota La sentenza affronta una questione caratterizzata da assoluta novità, sulla quale non constano, attualmente, precedenti di legittimità. Il dato normativo è alquanto recente: il comma 7 dell’art. 3bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, come convertito dalla L. n. 248/2005, ha modificato, con effetto dal 3 dicembre 2005, l’art. 53, comma 2, del D.Lgs. n. 546/92, introducendo a carico dell’appellante, «ove il ricorso non sia stato notificato a mezzo di ufficiale giudiziario», un’ulteriore

larità formale della procedura di proposizione dell’appello. La proposizione del ricorso e per traslato dell’appello tributario, stante il richiamo dell’art. 53, comma 2, D.P.R. 546/92 alla procedura prevista dall’art. 22 dello stesso D.P.R., è da qualificare quale atto complesso formato da una serie di atti semplici imprescindibili per la validità del procedimento. Il procedimento si avvia con la notifica della doglianza alla controparte (nella specie il soggetto appellato, vincitore nel giudizio di primo grado) nei termini di legge e si perfeziona con il deposito di copia dell’appello notificato, nei successivi trenta giorni, presso la segreteria della Commissione tributaria competente. Inoltre per gli appelli presentati dal 3 dicembre 2005 e per i quali non sia stata effettuata la notifica a mezzo di ufficiale giudiziario è previsto il deposito di copia dell’appello presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale che ha emesso la sentenza impugnata. L’inosservanza di ognuno degli adempimenti procedimentali descritti è sanzionata con l’inammissibilità del ricorso, che può essere rilevata in ogni stato e grado del giudizio e addirittura senza che alla dichiarazione d’inammissibilità osti la costituzione in giudizio della controparte. Nella specie non risulta effettuato il deposito della copia dell’appello presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale che ha emesso la sentenza impugnata. Allo stato degli atti quindi l’appello deve essere ritenuto inammissibile con preclusione dell’esame delle questioni in esso prospettate. Sussistono valide ragioni per la compensazione delle spese di lite.

incombenza, consistente nel deposito di copia dell’appello presso l’ufficio di segreteria della Commissione tributaria provinciale che ha pronunciato la sentenza impugnata. Tale adempimento deve essere assolto dall’appellante a pena di inammissibilità. Esso, in sostanza, esplica nel processo tributario – nei casi in cui l’appellante non si avvalga per la notifica dell’intermediazione dell’ufficiale giudiziario – la medesima funzione di cui all’art. 123 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura civile, che, sotto la rubrica “Avviso di impugnazione alla can-


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celleria”, così dispone: «L’ufficiale giudiziario che ha notificato l’impugnazione deve darne immediatamente avviso scritto al cancelliere del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Il cancelliere deve fare annotazione dell’impugnazione sull’originale della sentenza» (cfr., per la prassi dell’amministrazione finanziaria, circ. Ag. Entrate 13 marzo 2006, n. 10/E). La sentenza in esame, inoltre, contiene una preliminare, e sostanzialmente corretta, definizione della “procedura di proposizione dell’appello”, che appare utile sintetizzare: la proposizione del ricorso, e per traslato dell’appello tributario, stante il richiamo dell’art. 53, comma 2, D.Lgs. n. 546/92, alla procedura prevista dall’art. 22 dello stesso decreto, «è da qualificare quale atto complesso formato da una serie di atti semplici imprescindibili». L’inosservanza di ognuno degli atti e adempimenti previsti dalla legge (e cioè, specificamente: notifica del gravame alla controparte appellata nei termini di legge; deposito di copia dell’appello notificato nei successivi trenta giorni presso la segreteria della Comm. trib. reg. competente e, per gli appelli proposti a partire dal 3 dicembre 2005 e non notificati a mezzo di ufficiale giudiziario, deposito di copia dell’appello anche presso la segreteria della Comm. trib. prov. che ha emesso la sentenza impugnata) «è sanzionata con l’inammissibilità del ricorso» in appello, «che può essere rilevata in ogni stato e grado del giudizio e addirittura senza che alla dichiarazione di inammissibilità osti la costituzione in giudizio della controparte» (nello stesso senso, anche Comm. trib. reg. Lazio, sez. I, 7 febbraio 2007, n. 27). Sotto altro profilo, e in particolare per quanto riguarda l’onere originariamente previsto dall’art.

53, comma 2, D.Lgs. n. 546/92, prima della novella del 2005, la Commissione romana ribadisce, in linea con l’orientamento univoco della Cassazione, che, ove l’appellante non abbia depositato, nella segreteria della Commissione tributaria regionale adita, l’originale del ricorso notificato o copia dello stesso, unitamente a copia della ricevuta (se la notifica è avvenuta a mezzo posta), il ricorso è inammissibile. Tale prevista sanzione, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, si ripercuote anche sull’eventuale secondo appello principale proposto dalla stessa parte, in un secondo tempo, per ovviare alle conseguenze sanzionatorie comminate per il primo atto (cfr. Cass., 2 luglio 2004, n. 12154; Cass., 8 settembre 2004, n. 18088, entrambe in www.finanze.it; in dottrina, sull’appello, vedi per tutti, PISTOLESI, L’appello nel processo tributario, Torino, 2002; Id., Note sul giudizio di appello tributario, in questa rivista, 2007, 1, 20 ss.). Sempre sul tema, appare infine opportuno evidenziare che, secondo una recente pronuncia della Corte di Cassazione (conforme ad un consolidato indirizzo interpretativo), anche nel processo tributario vige il principio di consumazione dell’impugnazione. Orbene, secondo tale principio, il potere di impugnare si “consuma” con il suo esercizio e l’impugnazione, una volta proposta, non può essere reiterata; ciò tuttavia non esclude che, fino a quando non intervenga una “declaratoria di inammissibilità”, possa essere proposto un secondo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, richiedendosi a tale scopo che il secondo appello venga notificato in data anteriore alla declaratoria di inammissibilità (cfr. Cass., sez. trib., 30 agosto 2006, n. 18821, in Riv. Giur. Trib., 2006, 1041).

FASE CAUTELARE E ANOMALA ANTICIPAZIONE DEL GIUDIZIO DI MERITO 22

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. I, 8 marzo 2007, n. 17 Presidente: Paracampo - Relatore: Lancieri Processo tributario - Sentenza di merito pronunciata in sede di trattazione della sospensione - Nullità per violazione del contraddittorio Conseguenza - Rimessione della causa dalla Commissione regionale alla Commissione provinciale (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 31, 47 e 59)

È nulla, per violazione del contraddittorio, la sentenza di primo grado che, in sede di trattazione dell’istanza di sospensione cautelare dell’esecuzione dell’atto impugnato, decida il merito della controversia, con la conseguenza che la Commissione regionale, che accerti tale nullità, deve rimettere la causa alla Commissione provinciale. Svolgimento del processo Con cartella notificata il 20 dicembre 2004, l’A-


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genzia delle Entrate - Ufficio di Bari 2 chiedeva al sig. M. G. il pagamento della somma di euro 3.361,62 per Iva, euro 714,26 per Irap, euro 6.676,75 per Irpef, euro 83,67 per addizionale Irpef, oltre a sanzioni e interessi, per un importo complessivo di euro 24,3. Nella parte riservata al dettaglio degli addebiti la cartella riportava la scritta: «Iscrizione a ruolo a seguito di accertamento n. [...] notificato in data 16 aprile 2003. Gli importi di seguito indicati sono dovuti a titolo definitivo in assenza di ricorso». La suddetta iscrizione traeva, infatti, origine dalle risultanze dell’avviso di accertamento per l’anno d’imposta 1998 notificato al contribuente nella suddetta data e da questi non impugnato. Il contribuente proponeva ricorso avverso la cartella di pagamento eccependo che, pur avendo ricevuto avviso di accertamento per l’anno 1998, lo stesso doveva ritenersi improduttivo di effetti avendo egli presentato in data 16 giugno 2003 domanda di definizione automatica ex art. 9, legge n. 289/2002 con cui aveva inteso definire gli anni dal 1997 al 2001. Sosteneva, infatti, il ricorrente che ai sensi dell’art. 9, comma 14, della legge n. 289/2002, in presenza di un avviso di accertamento notificato dopo l’1 gennaio 2003, non v’era alcuna causa ostativa all’adesione al “condono tombale”. Il ricorrente chiedeva, quindi, che fosse dichiarata l’illegittimità della cartella di pagamento e che, nelle more della discussione del ricorso, fosse sospesa la riscossione delle imposte. L’Ufficio di Bari 2 si costituiva in giudizio con controdeduzioni con le quali preliminarmente chiedeva che il ricorso fosse dichiarato inammissibile in quanto la cartella di pagamento non era stata impugnata per vizi suoi propri ma per questioni di merito che avrebbero dovuto essere eccepite in sede di opposizione all’atto prodromico costituito dall’avviso di accertamento. L’Ufficio, inoltre, riteneva inconferente il riferimento al condono tombale in quanto esso era subordinato alla preventiva definizione per l’anno 1998, ai sensi dell’art. 15 della legge n. 289/2002 dell’invito al contraddittorio notificatogli entro il 31 dicembre 2002. L’Ufficio chiedeva, quindi, il rigetto del ricorso e il conseguente pagamento delle imposte e accessori iscritti a ruolo nonché la condanna del ricorrente alle spese di giudizio. La Commissione tributaria provinciale di Bari, sez. XV, disattendendo l’emissione dell’ordinanza sulla domanda di sospensione dell’atto, prevista dall’art. 47, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992, nella stessa seduta del 30 giugno 2005 a ciò destinata,

in assenza delle parti costituite, esaminava il ricorso nel merito e in accoglimento totale delle tesi sostenute dall’Ufficio, lo rigettava e condannava il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio. Il sig. M., rappresentato e difeso dagli avv. C. M. F. e V. A., ha proposto appello a questa Commissione regionale avverso la sentenza di primo grado. L’appellante eccepisce la nullità della sentenza per irregolare costituzione del contraddittorio, in violazione dell’art. 31, D.Lgs. n. 546/1992, in quanto alle parti era stato inviato apposito avviso di trattazione dell’istanza di sospensione. Pertanto, la Commissione, in data 30 giugno 2005 avrebbe dovuto emettere ordinanza sulla sospensione dell’atto e avrebbe dovuto fissare la data di discussione del merito non prima di trenta giorni liberi; cosicché le parti avrebbero potuto porre in essere tutte le procedure previste dagli artt. 32 e 33, D.Lgs. n. 546/1992, quali il deposito di documenti, memorie illustrative e repliche, oltre che la richiesta di trattazione in pubblica udienza. Secondo l’appellante dunque, l’omissione della Commissione di primo grado ha comportato vizi insanabili nella costituzione del contraddittorio poiché ha prodotto non già mere irregolarità prive di difetti invalidanti ma la nullità dei successivi atti processuali e della sentenza. Pertanto l’appellante fa richiesta di annullamento della sentenza e di rinvio della causa alla Commissione tributaria provinciale di Bari. L’appellante, poi, per il caso che la suesposta eccezione non venga accolta, per mero tuziorismo, contesta la presunta inammissibilità del ricorso in quanto l’Ufficio, contrariamente a quanto assunto in sentenza, con le controdeduzioni presentate in sede di costituzione, non solo ha esposto motivazioni diverse da quelle riportate nella cartella di pagamento ma non ha argomentato sull’avviso di accertamento al quale detta cartella si riferisce, bensì soltanto sulla invalida presentazione della dichiarazione integrativa per l’anno 1998. Sostiene l’appellante che l’eccezione di inammissibilità doveva essere sottoposta al vaglio delle ragioni che egli avrebbe potuto opporre – se gliene fosse stata data la possibilità – con apposite e opportune repliche e in sede di pubblica udienza, con cui avrebbe contestato la legittimità e la fondatezza della cartella di pagamento per vizi propri, alla luce di quanto posto in essere con la procedura di definizione ex art. 9, legge n. 289/2002. Ancora, con riferimento al rigetto del ricorso, l’appellante rileva contraddittorietà della motivazione della sentenza di primo grado laddove, sebbene si ritenga di dover decretare l’inammissibilità del ricorso, si decide, poi, nel merito, di ri-


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gettarlo. Peraltro, secondo l’appellante, tale rigetto è infondato in quanto basato su una questione – quale l’invalidità della domanda di condono tombale – del tutto avulsa dal contesto della lite e non preventivamente portata a conoscenza del contribuente. L’appellante chiede, quindi, che la sentenza sia annullata per evidente contraddittorietà e conseguente difetto di motivazione, così come deve essere annullata la condanna alle spese per insussistenza del nesso di causalità tra il comportamento processuale del ricorrente e la decisione assunta dal giudice. Sempre per mero tuziorismo, ove non vengano accolte le eccezioni di nullità della sentenza precedentemente sollevata, l’appellante chiede, in via gradata, che la Commissione ordini all’Ufficio la restituzione della somma di euro 4.560,00 versata per la definizione automatica ex art. 9, legge n. 289/2002, ritenuta non valida per gli anni dal 1997 al 2001; ovvero, in via estremamente gradata, della somma di euro 1.252,00 relativa alla definizione dell’anno d’imposta 1998. Oltre a interessi fino al giorno del soddisfo. Infine, l’appellante chiede la condanna dell’Ufficio appellato al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. L’appellante ha presentato il 27 novembre 2006 istanza di fissazione di udienza allegandovi copia della comunicazione dell’avvenuta iscrizione di ipoteca da parte della E.T.R. Esazione Tributi S.p.A. e del ricorso opposto alla stessa presso la Commissione tributaria provinciale di Bari. L’Ufficio di Bari 2 ha presentato controdeduzioni con le quali rileva l’infondatezza della eccezione di irregolare costituzione del contraddittorio poiché alla data della decisione tutte le parti si erano costituite. Contesta, poi, l’eccezione d’infondatezza dell’inammissibilità del ricorso poiché l’avviso di accertamento per l’anno 1998 era stato preceduto nel 2002 da invito al contraddittorio non definito e da successivo avviso di accertamento non opposto e divenuto definitivo. Contesta, infine, l’opposizione alla condanna alle spese di giudizio, che, in mancanza di motivi che giustifichino la compensazione, gravano normalmente sulla parte soccombente. L’Ufficio, quindi, chiede il rigetto dell’appello con conferma della sentenza impugnata e condanna dell’appellante alle spese di giudizio. Le parti sono state regolarmente avvisate. L’appellante ha richiesto la discussione del ricorso in pubblica udienza alla quale è presente il difensore delegato avv. V. A. Per l’Ufficio di Bari 2 è presente il dott. G. M.

Motivi della decisione L’appello è fondato e va, pertanto, accolto. In via pregiudiziale va accolta l’eccezione di nullità della sentenza per irregolare costituzione del contraddittorio, in violazione dell’art. 31, D.Lgs. n. 546/1992. Non può, infatti, condividersi l’operato con cui il giudice di prima istanza, ignorando totalmente di esprimersi sull’istanza di sospensione, ha inteso esaminare e decidere nel merito il ricorso sottoposto al suo esame. Né è plausibile che la risposta alla suddetta istanza possa essere assorbita dalla sentenza di discussione della causa poiché istanza di sospensione e discussione del ricorso, sebbene possano esser proposte con lo stesso atto, danno tuttavia origine a due procedimenti distinti e distintamente regolamentati. Il primo, previsto dall’art. 47, D.Lgs. n. 546/1992, è un procedimento cautelare avente ad oggetto esclusivamente la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato con il ricorso e, a tal fine, richiede che il giudice verifichi unicamente la sussistenza di due elementi; il fumus boni iuris e il periculum in mora. Il primo necessario affinché si accerti, anche a seguito di una cognizione necessariamente sommaria, che il ricorso sia ammissibile e fondato; il secondo affinché si eviti che la mancata sospensione dell’atto esponga il contribuente al pericolo di un danno grave e irreparabile. Tale procedimento, inoltre, si svolge secondo regole sue proprie che prevedono la trattazione dell’istanza alla prima camera di consiglio utile; la comunicazione della trattazione alle parti almeno dieci giorni liberi prima; l’audizione delle parti in camera di consiglio; l’emanazione di una ordinanza motivata non impugnabile. Tutt’altro è, invece, l’oggetto della discussione del ricorso che attiene alle ragioni di legittimità e di merito poste a base dell’impugnativa dell’atto e che si estrinseca secondo una procedura per la quale la segreteria dà comunicazione alle parti costituite della data di trattazione almeno trenta giorni liberi prima della data di trattazione; è possibile presentare memorie illustrative fino a dieci giorni liberi e documenti e motivi aggiunti fino a sessanta giorni liberi prima della suddetta data; è possibile chiedere la discussione in pubblica udienza fino a dieci giorni liberi prima della data di trattazione; si conclude con l’emanazione di una sentenza. In conclusione appare evidente come i diversi oggetti e le diverse finalità dei due suesposti proce-


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dimenti impongono una netta distinzione nella esecuzione degli stessi, dei quali quello di sospensione dell’atto è distinto e prodromico rispetto a quello di discussione del ricorso. Nel caso di specie, invece, i primi giudici, sebbene nella parte narrativa hanno dato contezza dell’istanza di sospensione presentata dal ricorrente, si sono tuttavia astenuti sia dall’esame che dalla pronuncia su tale istanza ed hanno esaminato il ricorso nel merito pronunciando una sentenza sullo stesso. Così operando il Collegio di prime cure da un lato ha sottratto al ricorrente la possibilità e il diritto di usufruire della sospensione richiesta; d’altro lato ha leso il suo diritto a porre in essere appieno la sua strategia difensiva secondo le norme preordinate a garanzia della regolare costituzione del contraddittorio e del diritto di difesa. Quanto all’istanza di sospensione, infatti, i giudici di primo grado hanno omesso di pronunciarsi e, dunque, non hanno creato il presupposto im-

prescindibile per l’esame del ricorso nel merito. Quanto al ricorso, poi, essi lo hanno discusso in una seduta non destinata alla sua trattazione e in assenza delle parti. Tanto, infatti, risulta per tabulas dal frontespizio della sentenza emessa dal Collegio nel quale è riportata – quale oggetto dell’“ordinanza” (termine depennato e sostituito con “sentenza”) – la dicitura «sull’istanza di sospensione dell’atto impugnato». Anche per questo verso, dunque, appare in tutta la sua evidenza la discrasia fra l’oggetto da trattare (sospensione dell’atto) e quello della sentenza emanata (impugnazione dell’atto). In conclusione non può non ravvisarsi la nullità della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bari impugnata dal contribuente e la rimessione della causa alla Commissione provinciale ai sensi dell’art. 59, comma 1, lett. b, D.Lgs. n. 546/1992. L’accoglimento dell’eccezione pregiudiziale deve ritenersi assorbente delle altre eccezioni poste con l’appello.

Nota di Alessandra Magliaro

za di sospensione ai sensi dell’art. 47 del D.Lgs. 546/92. La Commissione tributaria provinciale di Bari fissava la trattazione dell’istanza cautelare e, nella stessa seduta, in assenza delle parti costituite, esaminava e decideva il ricorso nel merito e lo rigettava. In sede di appello la Commissione regionale, in riforma della sentenza emessa dai giudici di prime cure, accoglieva l’appello del contribuente e dichiarava la nullità della sentenza di primo grado rimettendo la controversia alla Commissione provinciale ai sensi dell’art. 59. I giudici pugliesi, nella motivazione della sentenza, rilevano come distinti e rivolti a finalità differenti siano il procedimento cautelare e la trattazione nel merito della controversia. L’operato della Commissione provinciale viene censurato sotto il doppio profilo di aver limitato il diritto del ricorrente di usufruire della sospensione richiesta e dall’altro di aver leso le strategie difensive del contribuente violando le norme preordinate a garanzia della regolare costituzione del contraddittorio e del diritto di difesa.

La sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia affronta la questione concernente il rapporto tra giudizio cautelare e giudizio di merito. Nel caso in cui il ricorrente abbia formulato istanza di sospensione ai sensi dell’art. 47 del D.Lgs 546/1992, deve essere fissata l’udienza di trattazione dell’istanza cautelare. A conclusione della stessa la Commissione può pronunciarsi solo sull’istanza cautelare, per cui è nulla la decisione del merito. Collegata a questo aspetto viene anche esaminata la problematica sottesa alle conseguenze relative alla mancata comunicazione dell’avviso di trattazione d’udienza previsto all’art. 31 del D.Lgs. 546/92. Premessa Nel caso esaminato dalla Commissione regionale pugliese, il contribuente appellante denunciava la nullità della sentenza di I grado per violazione del contraddittorio. La vicenda prendeva le mosse da una cartella di pagamento emessa, secondo le doglianze del contribuente, nonostante la presentazione di domanda di condono. Il ricorrente, nel giudizio instaurato davanti al giudice di prime cure, oltre a chiedere una pronuncia di illegittimità dell’atto, proponeva istan-

Omissione dell’avviso di trattazione d’udienza: conseguenze La sentenza è senz’altro condivisibile. L’articolo 59 del decreto che regola il processo tributario (D.Lgs. 546/92) include, fra le ipotesi di rimessione alla Commissione provinciale, il caso


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in cui nel giudizio di primo grado il contraddittorio non sia stato regolarmente costituito o integrato1. Non pare potersi dubitare che la mancanza di comunicazione dell’avviso di trattazione d’udienza e la conseguente compromissione della attività difensiva, che si esplica anche nel deposito di documenti e memorie per l’udienza, integri la fattispecie di irregolarità nel contraddittorio2. La Commissione provinciale, forse nell’intento, non a priori commendevole, di rispondere ad un’esigenza di rapidità decisoria e nella considerazione di avere gli elementi sufficienti per pronunciare una decisione di merito, in sede di trattazione dell’istanza di sospensione ha invece rigettato il ricorso del contribuente decidendo la controversia nel merito. Agendo in tal modo, però, non si è avveduta di operare una illegittima compressione dei diritti

1 Fra le varie ipotesi regolate dall’art. 59 che prevedono la rimessione della controversia alla Commissione provinciale, quella disciplinata alla lettera b è senza dubbio la più interessante e problematica (cfr. in tal senso PISTOLESI, L’appello nel processo tributario, Torino, 2003; Id, Commento all’art 59, in BAGLIONE-MENCHINIMICCINESI, Il nuovo processo tributario, Milano 2004, 694). Si veda ancora PISTOLESI, Note sul giudizio di appello tributario, in questa rivista, 2007, 23. L’ampia formula deve intendersi nel senso che non possa considerarsi esaurito, ma debba essere rinnovato il giudizio ogniqualvolta si riscontri una patologia del principio cardine del contraddittorio (CONSOLO, Le impugnazioni in generale e l’appello nel nuovo processo tributario, in Fisco, 1994, 3384.) 2 L’omissione dell’avviso di trattazione di udienza non si esaurisce in una mera irregolarità priva di effetti invalidanti, ma determina la nullità dei successivi atti processuali dal momento che la comunicazione dell’avviso è indispensabile per assicurare il contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa. In tal senso da ultimo Cass., sez. trib., sent. 27 luglio 2005, n. 15771. Viene parificato all’omessa o irrituale comunicazione dell’avviso di trattazione della causa anche l’avviso di differimento della discussione in pubblica udienza. Anche in questo caso, dunque, la lesione del contraddittorio è tale da dar luogo ad un’ipotesi di rimessione in I grado (PISTOLESI, Il giudizio di appello, in

delle parti, che avrebbero potuto, e forse voluto, avvalersi delle disposizioni processuali che permettono loro di produrre documenti e memorie fino a rispettivamente venti e dieci giorni liberi prima della trattazione. È stato altresì compromesso il diritto delle parti di partecipare all’udienza stessa3. Non emerge dalla decisione se fosse stata presentata istanza per la discussione in pubblica udienza, ma la indebita compressione dei tempi processuali ha comunque impedito il deposito della stessa ai sensi degli artt. 32 e 33 D. Lgs. 546/92. E invero principio fondamentale del processo tributario, e di tutti i sistemi giurisdizionali in genere, è il rispetto del contraddittorio tra le parti le quali nella fase di trattazione della controversia e fino alla decisione giudiziale devono poter esercitare regolarmente e tempestivamente le proprie attività difensive4.

AA.VV., Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, Torino, 1998, 763; BAFILE, Il nuovo processo tributario, Padova, 1994, 167). Dissonante le voce di FINOCCHIAROFINOCCHIARO, Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 822, secondo i quali, anche se è irregolare la comunicazione di avviso d’udienza, il contraddittorio si è comunque costituito per cui non ci sarebbe modo di applicare l’istituto della rimessione in primo grado. Altrettanto critico sull’applicabilità dell’art. 59 all’ipotesi in commento RUSSO, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 275. L’autore ritiene una forzatura della dottrina l’estensione della previsione, oltre che alle ipotesi di vizi inerenti il contraddittorio verificatesi nella fase introduttiva, anche a quelle di vizi dello stesso tipo ma venuti ad esistenza nel corso del procedimento di primo grado. Russo ricorda che la lett. b dell’art. 59 riproduce insieme, con un’unica formula, le due situazioni separatamente contemplate nel comma 1 dell’art. 354 c.p.c. (dichiarazione di nullità della citazione introduttiva e riconoscimento che nel giudizio di I grado doveva essere integrato il contraddittorio), situazioni che l’autore giudica diverse da quelle caratterizzate dalla violazione della disposizione dell’art. 31 consumata durante lo svolgimento del giudizio medesimo. 3 Si legge infatti nella sentenza che, nella seduta destinata all’esame della istanza cautelare, in assenza delle

parti costituite, la Commissione di primo grado esaminava il ricorso nel merito, rigettandolo. 4 In tal senso NAPOLITANO, La trattazione della controversia, in AA.VV., Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, Torino, 1998, 556. L’autore definisce momento nodale del procedimento di primo grado quello della comunicazione alle parti della data di udienza ad opera della segreteria della Commissione. Anche BAFILE, Il nuovo processo tributario, Padova, 1994, 131, parla di momento nodale: «Nei procedimenti ad impulso di ufficio momento nodale è la fissazione dell’udienza di discussione. Di conseguenza un passaggio fondamentale è la comunicazione dell’avviso della data dell’udienza». Per un inquadramento dell’avviso di fissazione d’udienza in termini di atto di vocatio in jus si veda CONSOLO, Le impugnazioni, cit., 3384. GLENDI, Commentario alle leggi sul contenzioso tributario, Milano, 1990, 559, rileva come nel processo tributario il contraddittorio possa ritenersi regolarmente costituito «solo attraverso la partecipata fissazione dell’udienza da parte del giudice stesso». L’avviso di trattazione, inoltre, nel consentire alle parti di acquisire conoscenza circa l’avvenuta nomina del relatore nonché della composizione del Collegio chiamato a decidere della causa, può assumere rilevanza ai fini della decorrenza dei termini di proposizione di eventuali


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Tale principio ha certamente come pietra angolare la regolarità della comunicazione dell’avviso di trattazione. Se infatti la mancanza o la tardiva comunicazione prevista all’art. 31 è di ostacolo alle parti per la partecipazione all’udienza con relativa compressione delle attività difensive, la conseguenza è così grave da comportare la nullità di tutti gli atti compiuti successivamente5. E, seppure sia da considerarsi applicabile al processo tributario il principio di cui all’art. 157, comma 2, c.p.c., per cui la parte è tenuta ad eccepire la nullità nella prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso, sanandosi il vizio qualora la parte svolga comunque la sua attività difensiva, nel caso di specie la parte non ha potuto rilevare il vizio se non come motivo d’appello, dal momento che la Commissione pugliese ha deciso – irritualmente – la controversia in sede di procedimento cautelare. Né può essere considerato equivalente all’avviso di trattazione previsto all’art. 31 la comunicazione della trattazione dell’istanza di sospensione prevista al comma 2 dell’art. 47. Le finalità sottese ai due atti sono infatti differenti, così come differenti sono i termini previsti. La mancanza di certezza sulla data di trattazione della controversia ha conseguenze così gravi anche perché viene implicitamente a ledere il disposto dell’art. 32. E infatti i documenti, le memorie e le eventuali repliche alle stesse depositate dalla controparte hanno termini perentori di deposito calcolati a ritroso a partire dalla data di trattazione6, perentorietà che viene vanificata dalla mancanza di conoscenza della trattazione. L’importanza del corretto svolgimento dell’iter processuale è stato ribadito nella considerazione

istanze di ricusazione (in tal senso CAMPUS, in CONSOLO-GLENDI, Commentario breve del processo tributario, Padova, 2005, 279). 5 Oltre a Cass., 15771/05, cit., in tal senso si veda PEZZUTI, in BAGLIONE-MENCHINI-MICCINESI, Il nuovo, cit., 345. 6 Cfr. Cass., 10 novembre 2000, n. 14624. La scansione temporale del deposito di documenti e memorie non riguarda solo l’attività processuale di una parte, ma assume preciso significato di tutela (sia per rispetto del diritto di difesa che del principio del contraddittorio) della controparte stabilendo dei termini precisi di scadenza entro i quali l’attività difensiva avversa può essere espletata e, di conseguenza, controllata. L’osser-

che l’art. 32 è una norma dettata nell’interesse pubblico al corretto svolgimento del processo inteso come serie di momenti ordinati in una prefissata successione temporale in vista del risultato finale7. Con le considerazioni ora svolte non si vuole smentire il carattere non strettamente indispensabile delle attività previste dall’art. 32. E infatti considerando la eccezionalità dell’ipotesi di integrazione dei motivi di ricorso nel nuovo processo tributario – al contrario del sistema contenzioso previsto dal D.P.R. 636 del 1972 – è ben vero che è il ricorso introduttivo l’atto fondamentale in primo grado. Un ricorso ammissibile e una corretta costituzione in giudizio del ricorrente sono gli unici requisiti indispensabili affinché il giudice si pronunci. Nessuna delle attività previste dall’articolo 32 è indispensabile ai fini del regolare svolgimento del giudizio8. È però da sottolineare che le memorie oltre ad illustrare le ragioni di fatto e di diritto già presenti nel ricorso introduttivo, possono essere il luogo dove evidenziare argomentazioni a sostegno delle proprie ragioni derivanti da giurisprudenza o da interpretazioni ministeriali o dottrinali sopravvenute alla presentazione del ricorso. Il diritto alla tutela cautelare e la fase di merito Se comunque condivisa, e di certo più studiata, in dottrina e giurisprudenza sembra essere la conseguenza dell’omissione dell’avviso di trattazione della controversia per cui si determina una nullità del procedimento destinata a riflettersi in via derivata su tutti gli atti successivamente compiuti compresa la stessa sentenza finale9, meno indaga-

vanza dei termini in questione, pertanto, deve ritenersi obbligatoria in quanto diretta a tutelare il suddetto diritto di difesa di controparte e a realizzare il necessario contraddittorio tra le parti e tra queste e il giudice (Cass., 23 aprile 2003, n. 138). Sulla scia delle decisioni della Cassazione si veda Comm. trib. prov. Vicenza, 8 marzo 2006, n. 20, in questa rivista, 2007, 1, 135. La perentorietà del termine di cui all’art. 32 non preclude la possibilità di ulteriori produzioni documentali o indicazioni di mezzi di prova nel caso in cui la difesa tempestiva sia stata resa particolarmente difficile a causa dei documenti prodotti o delle questioni sollevate dalle altre parti. In tal caso si legittima il differi-

mento della trattazione ai sensi del comma 3 dell’art. 34. 7 Ancora PEZZUTI, Il nuovo, cit., 355. Il Ministero delle Finanze (circ. 23 aprile 1996, n. 98/E) ha precisato che le memorie previste all’art. 32 sono scritti difensivi assimilabili alle memorie conclusionali di cui all’art. 190 c.p.c. destinate a illustrare le ragioni di fatto e diritto a fondamento delle già prese conclusioni. 8 Si veda CAMPUS, in CONSOLO-GLENDI, Commentario breve del processo tributario, Padova, 2005, 295, il quale ribadisce che è rimessa esclusivamente alla parte ogni valutazione in merito all’opportunità di contraddire in relazione all’oggetto della domanda. 9 Sul punto si vedano CAMPUS, op. cit., 283 e ivi riferimenti; NAPOLITANO,


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to è l’altro aspetto di censura della sentenza di primo grado. I giudici di appello, infatti rilevano come sia stata sottratta al ricorrente la possibilità e il diritto di usufruire della sospensione richiesta. Vi è infatti a parere dei giudici della Commissione regionale una lesione del diritto ad ottenere la tutela cautelare richiesta. La tutela rappresenta una forma diversificata di tutela rispetto a quella ordinaria che si realizza attraverso i normali strumenti processuali10. L’autonomia della fase cautelare, diversa da quella ordinaria, preordinata a fini differenti, ma sempre meritevole di tutela da parte dell’ordinamento ha radici lontane. È con Chiovenda11 negli anni venti dello scorso secolo che, per la prima volta, viene enunciato il principio secondo cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione. Tale principio ha avuto la sua espressione più importante nella tutela cautelare atipica prevista nell’art. 700 c.p.c. e a seguire per l’ordinamento processuale amministrativo nell’art. 21, L. 1034 del 1971 e, da ultimo per il diritto processuale

La trattazione, cit., 559; PEZZUTI, op. cit., 345. 10 Così GLENDI, La tutela cautelare del contribuente nel processo riformato, in Dir. e Prat. Trib., 1999, I, 27. L’autore sottolinea l’essenzialità di tale – autonoma – tutela per le inevitabili lentezze della tutela ordinaria. 11 CHIOVENDA, Sulla perpetuatio iurisdictionis, in Foro It., 1923, I, 362; Id, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1935, I, 34. 12 Corte cost., 28 giugno 1985, n. 190, in Giur. It., 1985, I, 1, 1297, con nota di NIGRO, L’art. 700 conquista anche il processo amministrativo. Si veda anche pubblicata in Foro It., 1985, I, 1881, con nota di PROTO PISANI. Nella sentenza, ove viene dichiarato illegittimo l’art. 21 della L. 1034 del 1971 nella parte in cui non permette l’adozione di misure cautelari atipiche come quelle previste dall’art. 700 c.p.c. anche nel processo amministrativo, si riafferma il principio fondante della tutela cautelare. Tale principio è riassunto efficacemente dalla Corte nella direttiva per cui quante volte il diritto assistito da fumus boni juris è minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile provocato dalla cadenza dei tempi necessari per farlo valere in via ordinaria, spetta al giudice il potere di emanare i provvedimenti d’urgenza che appaiono, secondo le cir-

tributario nell’art. 47, D.Lgs. 546/92. Anche la Corte costituzionale ha più volte affermato la copertura costituzionale della tutela cautelare al fine della effettività della tutela giurisdizionale. In una importante pronuncia dell’ottantacinque12 vi è infatti un vero riconoscimento della tutela cautelare quale componente essenziale ed ineliminabile della tutela giurisdizionale. Una precedente ben nota sentenza della Corte13 aveva riconosciuto la legittimità di un sistema oggettivo di tutela cautelare attuato in via legislativa e non giurisdizionale. Con la sentenza dell’ottantacinque sembra superarsi, dunque, l’orientamento espresso tre anni prima secondo il quale la potestà cautelare non costituisce una componente essenziale della tutela giurisdizionale ex articoli 24 e 113 della Costituzione14. In altre sentenze, poi, la Corte costituzionale ha più volte affermato che la disponibilità di misure cautelari costituisce elemento indispensabile della tutela garantita dall’art. 24 della Costituzione15. Oggi non v’è dubbio che con l’articolo 47 del

costanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito. 13 Corte cost., 1 aprile 1982, n. 63, in Foro It., 1982, I, 1216, con nota di PROTO PISANI. I giudici costituzionali, in quella sede, avevano riconosciuto nell’ambito tributario un’ipotesi eccezionale caratterizzata dalla estrema difficoltà di valutare in concreto la sussistenza del requisito dell’irreparabilità del pregiudizio. Conseguentemente venne ritenuta adeguata e compatibile con le previsioni costituzionali una tutela cautelare articolata in una eventuale sospensione amministrativa unita ad un frazionamento della riscossione in pendenza di giudizio In realtà tale sistema aveva molteplici ragioni di inadeguatezza; sul punto sia consentito rinviare a MAGLIARO, Considerazioni in tema di tutela cautelare, Padova, 2000, 7 ss. 14 Il ragionamento della Corte sul punto in realtà non è completamente lineare teso a contemperare il diritto alla tutela cautelare espresso nella sentenza, e il suo precedente in cui affermava la non essenzialità di tale tutela. L’elemento di cerniera ai due contrapposti ragionamenti sembra essere il sistema oggettivo di tutela cautelare previsto in via legislativa e non giurisdizionale. Nella sentenza dell’82 tale elemento viene valoriz-

zato per escludere l’obbligo di tutela cautelare giudiziale nell’ordinamento processuale tributario. Nella successiva decisione, al contrario, è il dato che evidenzia l’esistenza della tutela cautelare anche nel diritto tributario (seppure non ad opera del giudice). L’affermazione della non essenzialità della tutela cautelare giurisdizionale in diritto tributario contenuta nella sentenza dell’82 è stata definita arbitraria ed inaccettabile nella sua assolutezza da TESAURO, La sospensione della riscossione al vaglio della Corte costituzionale, in Boll. Trib., 1982, 734. Per superare l’obiezione basata su un principio più volte ribadito dalla Corte (sent. 284/74; 227/75) per cui la procedura cautelare ha carattere essenziale in particolare nelle giurisdizioni basate sull’annullamento degli atti illegittimi, la Corte nella sentenza 63/82 ripercorre la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo la quale solo formalmente la giurisdizione tributaria è una giurisdizione di annullamento. Trattasi, secondo i giudici costituzionali, di giudizio sul rapporto e non di impugnazione annullamento: la pronuncia del giudice consiste fondamentalmente nell’accertamento della sussistenza dell’obbligazione tributaria.


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D.Lgs. 546/92 e l’attribuzione al giudice tributario della potestà cautelare d’ordine generale si è sopperito ad una delle gravi carenze di cui risultava affetto il previdente sistema giurisdizionale16. La tutela cautelare tributaria come fase autonoma processuale, se pur ovviamente collegata data la natura incidentale, è regolata compiutamente dall’art. 47 del D.Lgs. 546 del 1992, il quale prevede presupposti e scandisce procedure solo pensati per l’ambito cautelare. E così la trattazione deve essere fissata per la prima camera di consiglio utile; la comunicazione deve essere data alle parti dieci giorni liberi prima della trattazione; è prevista, in caso di eccezionale urgenza, una provvisoria sospensione dell’esecuzione degli effetti dell’atto fino alla pronuncia del Collegio. Ma soprattutto vengono stabiliti i presupposti della tutela cautelare ovvero il periculum in mora e il fumus boni juris. Proprio questo secondo requisito è quello che maggiormente interessa in sede di commento alla sentenza di Bari. Il fumus boni juris è un requisito che normalmente viene ritenuto implicito alla tutela cautelare, tanto che in altri ordinamenti processuali non viene espressamente menzionato nelle norme regolatrici17. Nel diritto tributario, invece, l’articolo 47 espres-

15 Corte cost., sent. 23 giugno 1994, n. 253; 16 luglio 1996, n. 249; 7 novembre 1997, n. 326; 24 luglio 1998, n. 336. 16 Cfr. MONTANARI, in CONSOLO-GLENDI, Commentario, cit., 399. 17 Ad esempio nessuna espressa menzione si fa del fumus nell’art. 700 c.p.c.; sembra comunque pacifico che anche nell’applicazione di questa disposizione occorra tener conto del fumus boni juris (CARPI-TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 1994, 1413). Neppure nel processo amministrativo l’art. 21 della legge 1034 del 1971, richiede l’espressa previsione del requisito in oggetto, ma pare non dubitarsi che l’ordinanza di sospensione non possa essere adottata che dopo una sommaria delibazione degli elementi della causa (CAIANELLO, Lineamenti del processo amministrativo, Torino, 1976, 339). Si tratta infatti di un requisito che ben può dirsi attinente all’essenza medesima della giurisdizione cautelare non potendosi altrimenti connotare che in termini antigiuridici e restando quindi espulsi dall’orbita del giuridicamente rilevante quei

samente al comma 4 dispone che «il Collegio, sentite le parti in camera di consiglio e delibato il merito provvede con ordinanza non impugnabile». Non è un caso, poi, che il legislatore tributario abbia usato il termine delibazione per la valutazione di questo presupposto della tutela cautelare18. Occorre, infatti, in questa fase, non quella certezza della fondatezza delle ragioni richiesta dalla successiva fase decisoria, ma un giudizio necessariamente di taglio prognostico e probabilistico19: il ricorso in buona sostanza deve in questa fase avere una probabilità di accoglimento semplicemente superiore a quella del rigetto20. È intuitivo, dunque che il fumus dovrà valutarsi caso per caso in relazione al caso di specie, tanto più che è imprescindibile una valutazione di questo presupposto anche alla luce dell’altro requisito richiesto dalla tutela cautelare ovvero il periculum in mora. Il giudice, infatti, dovrà valutare ai fini del riconoscimento o meno della tutela cautelare entrambi i requisiti in un rapporto “dialettico” graduando l’importanza dell’uno e dell’altro requisito21. L’istanza per la richiesta della sospensione ben potrebbe non contenere, se non in nuce, tutti i motivi sottesi alla richiesta di annullamento del-

pregiudizi legati alla durata del processo a cognizione piena che la tutela in questione è naturalmente preordinata a scongiurare. Cfr. in tal senso MONTANARI, in CONSOLOGLENDI, Commentario, cit. 397. 18 La differenza fra delibazione e decisione sta nel fatto che «la prima si concretizza in una valutazione sulla fondatezza della situazione soggettiva fatta valere meramente prognostica, e quindi necessariamente inferiore, per minor vaglio dialettico e più ridotto approfondimento istruttorio, nonché per efficacia sua propria, rispetto alla decisione finale, che invece, proprio in ragione della pienezza del contraddittorio e dell’istruttoria che la caratterizza è suscettibile di passare in giudicato». Così GLENDI, La tutela, cit., 32. 19 In dottrina si suole parlare di apparente fondatezza della domanda (TOSI, L’azione cautelare dopo la riforma del processo tributario, in Boll. Trib., 1993); valutazione sommaria del merito della causa (MENCHINI, I procedimenti cautelare e conciliativo, in BAGLIONE-MENCHINI-MICCINESI, Il nuovo processo tributario, Milano, 2004, 475).

20 Come ricorda MONTANARI (in CONSOLO-GLENDI, Commentario, cit., 497) la legge non offre alcuna predeterminazione del grado o dell’intensità della cognizione che il giudice deve attingere per poter formulare un giudizio positivo sull’estremo del fumus boni juris. Non per questo, tuttavia, deve ritenersi preclusa all’interprete la fissazione almeno di una soglia minima al di sotto della quale l’impegno valutativo del giudice non possa arrestarsi e, specularmene, di una soglia massima al di là della quale siffatto impegno non debba essere spinto. Sotto il primo profilo, l’incidenza della potestà cautelare in oggetto su una funzione fondamentale dello Stato come il prelievo fiscale, induce ad escludere che il giudice possa accontentarsi di una mera valutazione di non manifesta infondatezza del ricorso di merito. Sotto il secondo, la dimensione tipicamente ipotetica del giudizio cautelare vieta a quella delibazione di merito di assumere i contorni propri dell’accertamento pieno delle ragioni del ricorrente. 21 In tal senso GLENDI, La tutela, cit., 29.


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l’atto impugnato contenuti nel ricorso22. Ad esempio in presenza di un danno particolarmente elevato derivante dall’esecuzione dell’atto in pendenza di giudizio, il giudice potrebbe anche giudicare sufficiente un fumus più debole. Conclusioni Riprendendo le fila del commento alla sentenza pugliese non vi è dubbio che le censure della Commissione regionale vanno pienamente condivise. Ecco allora che grave si configura l’operato della Commissione tributaria provinciale che ha invece giudicato sufficienti gli elementi in suo possesso non per negare la richiesta sospensione,

Di logica decisoria dei vasi comunicanti parla CONSOLO, Dal contenzioso al processo tributario, Milano, 1992, 515: «il periculum in mora e il fumus boni juris costituiscono due parametri non avulsi l’uno dall’altro, ma che il giudice cautelare dovrà valutare prima distintamente e poi avendo riguardo alla loro combinazione secondo la logica decisoria dei vasi comunicanti». 22 La possibilità che la richiesta di sospensione possa essere contenuta in apposita istanza notificata alle altre parti, non preclude però al contribuente di inserire all’interno del ricorso introduttivo l’istanza stessa. In tale ultimo caso, nella prassi, ci sarà un rinvio ai motivi dedotti nel ricorso per quanto attiene al fumus mentre dovrà essere specificato il danno grave e irreparabile. È chiaro che in questo caso i motivi dedotti a sostegno del fumus per ottenere la sospensione saranno i medesimi posti a fondamento della richiesta censura dell’atto impugnato. Il giudice però in questo caso non dovrà procedere ad una disamina così accurata da pesantemente ipotecare gli esiti della decisione finale. La richiesta di tutela cautelare sarà contenuta in apposita istanza e non inserita nel ricorso introduttivo ogniqualvolta il presupposto del danno si verifichi in un momento successivo rispetto alla presentazione del ricorso. L’ipotesi più frequente secondo au-

ma addirittura per rigettare il ricorso nel merito. In tal modo ha leso, oltre alle norme di legge previste dal D.Lgs. 546/92, anche l’articolo 112 c.p.c., in virtù del richiamo espresso al codice di procedura civile contenuto nel secondo comma dell’articolo 1 del decreto sul contenzioso, che prescrive la corrispondenza tra chiesto e pronunciato23. Anche quel delicato equilibrio esistente fra procedimento cautelare e giudizio di merito è stato forzato dalla Commissione tributaria provinciale. Il nesso di strumentalità del primo nei confronti del secondo è stato stravolto in una sorta di assorbimento indebito nel giudizio di merito anche della fase cautelare24.

torevole dottrina (GLENDI, La tutela, cit., 47) si avrebbe in tutti quei casi in nei quali l’attualità del pregiudizio sorga posteriormente alla presentazione del ricorso. Il caso è quello dell’impugnazione degli avvisi di accertamento. In tali ipotesi, sostiene l’autore, la tutela cautelare non potrà essere richiesta contestualmente alla presentazione del ricorso, ma ben potrà essere successivamente presentata separata istanza di sospensione cautelare se ed in quanto la riscossione frazionata sia stata attivata attraverso l’iscrizione provvisoria nei ruoli e con la notifica della cartella di pagamento. Ad avviso di chi scrive, invece, la sospensione dell’avviso di accertamento avrebbe l’effetto di impedire la successiva fase del procedimento di attuazione del prelievo e l’emanazione della cartella di pagamento. Tale lettura della norma è suggerita dal tenore letterale della disposizione che non indica tra i presupposti per la concessione della sospensione l’imminenza del danno. Sul punto sia consentito rinviare a MAGLIARO, Considerazioni, cit., 42. 23 Per i profili generali della norma e l’ambito operativo, ricomprendente anche i procedimenti cautelari si veda MONTANARI, Codice di procedura civile commentato, a cura di Consolo, Milano 2007, 1011. A differenza di quanto succede nel processo civile, nel processo cautelare tributario l’applicabilità dell’art.

112 si pone solo sotto il profilo del vincolo del giudice rispetto al contenuto del provvedimento cautelare richiesto dalla parte, non anche sotto il diverso profilo della coincidenza tra il tipo di provvedimento richiesto e tipo di provvedimento dato, non esistendo in materia tributaria una diversità tipologica di misure cautelari (GLENDI, La tutela, cit., 68). 24 Per alcuni precedenti si vedano Comm. trib. prov. Grosseto, 31 maggio 1996, n. 112, in Riv. Giur. Trib., 1996, 771, con commento di GLENDI, Ancora sul nuovo processo cautelare; Comm. trib. prov. Brescia, 10 giugno 1996, n. 969, in Riv. Giur. Trib., 1996, 1040, ancora con commento di GLENDI, Aggiornamenti giurisprudenziali sul nuovo processo tributario cautelare. In queste due pronunce a differenza del caso in esame, la decisione di merito assorbente era fondata su ragioni di rito. L’operato della Commissione di Grosseto e di Brescia è stato censurato da Glendi che ha definito irritali le decisioni assunte; nel caso in cui si fossero evidenziati profili di inammissibilità, la commissione avrebbe dovuto rigettare l’istanza cautelare per carenza del requisito del fumus. Anche BELLÈ, La tutela cautelare nel processo tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2005, II, 120, riferendosi alle stesse sentenze esaminate da Glendi le definisce del tutto estranee alla ratio dell’istituto cautelare.


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Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. VIII, 27 giugno 2007, n. 246 Presidente: Villani - Relatore: Di Stasi Processo tributario - Crediti di natura non tributaria - Fermo amministrativo di autoveicoli Impugnazione - Giurisdizione tributaria - Sussistenza (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 86; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 1 e 2; D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 26-quinquies) Processo tributario - Preavviso di fermo amministrativo di autoveicoli - Atto impugnabile Sussistenza (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 86; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19) L’art. 35, comma 26-quinquies, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 ha attribuito alle Commissioni tributarie la giurisdizione per i fermi amministrativi di autoveicoli, anche quando sono azionati per crediti di natura non tributaria. Il preavviso di fermo amministrativo costituisce atto autonomamente impugnabile dinanzi alle Commissioni tributarie, riconducibile all’art. 19, D Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, seppur non esplicitamente menzionato in detta norma, in quanto direttamente lesivo della posizione giuridica soggettiva del debitore. Con ricorso depositato il 30 gennaio 2007 il sig. E. P. ha impugnato, previa sospensione, per i motivi esposti in ricorso il preavviso di fermo amministrativo disposto, a seguito della comunicazione preventiva di cui alla raccomandata a.r. 15 novembre 2006 [...], per i crediti elencati nello stesso preavviso ed aventi ad oggetto una sanzione per violazione al Codice della strada e l’imposta proporzionale di registro pretesa per l’anno 1999. La G. S.p.A. non si è costituita. La Commissione, premesso: - che, ai fini dell’attribuzione della giurisdizione sul fermo amministrativo, sia i giudizi ordinari sia i giudici amministrativi hanno ritenuto di affermare la propria giurisdizione sulla base di accurate ricostruzioni della normativa sull’istituto di cui trattasi e di acute e fondate osservazioni e deduzioni in merito alla natura ditale istituto; - che, sintetizzando le opposte opinioni, da un verso i giudici ordinari hanno qualificato il provvedimento di fermo amministrativo come atto esecutivo e cioè un atto dell’esecuzione forzata in senso lato funzionale alla stessa espropriazione forzata e, quindi, mezzo rimesso al creditore per

la realizzazione e per la migliore soddisfazione del proprio credito (vedasi Cass., sez. un., ord. n. 14701/2006); - che, dall’altro verso, i giudici amministrativi hanno ricostruito il fermo amministrativo come provvedimento amministrativo autoritativo discrezionale nell’an e nel quid, riconducibile allo schema degli atti ablatori, idoneo ad incidere unilateralmente ed autoritativamente nella sfera giuridica e patrimoniale del destinatario e, conseguentemente, hanno ritenuto che, a fronte di tali provvedimenti amministrativi autoritativi, il giudice naturale, deputato a conoscere con sindacato pieno in via immediata e diretta della legittimità dei provvedimenti amministrativi – anche a garanzia della dovuta tutela del destinatario posto dinanzi un potere esercitato unilateralmente in via di autotutela senza controllo del giudice – è quello amministrativo (vedasi Cons. di Stato, ord. n. 2032/2006 e ord. n. 4581/2006); - che sia i giudici amministrativi sia i giudici ordinari, ritenuto il fermo amministrativo quale atto funzionale all’espropriazione e ricompresso nella fase dell’esecuzione forzata, hanno comunque concordemente escluso la giurisdizione dei giudici tributari rilevando che, secondo il disposto dell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, «restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento»; - che al fine di comporre il contrasto determinatosi è intervenuta la Corte di Cassazione a sezioni unite che, con pronuncia resa in sede di regolamento di giurisdizione (Cass., sez. un., n. 2053/2006), ha ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice ordinario; - che con la indicata decisione le sezioni unite, passata in rassegna la legislazione in materia al fine di chiarire la natura e l’efficacia del fermo amministrativo, hanno affermato che «dalla collocazione delle norme si ricava che il fermo amministrativo di beni mobili registrati del debitore d’imposta è preordinato all’espropriazione forzata. Ne fa fede il fatto che il rimedio si inserisce nel processo di espropriazione forzata esattoriale [...]. Il fermo amministrativo dunque è un atto funzionale all’espropriazione forzata e, quindi, mezzo di realizzazione del credito [...]. Se ne ricava che la tutela giudiziaria esperibile nei confronti del fermo amministrativo si deve realizzare davanti al giudice ordinario con le forme, consentite dal vigente art. 57 del citato D.P.R. n. 602/1973, del-


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l’opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi»; - che la stessa decisione, nel negare la giurisdizione del giudice amministrativo, ha affermato che «nella materia non ricorre neppure la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo giacché, con la richiesta di trascrizione nei registri immobiliari del fermo amministrativo, il concessionario non esercita alcun potere di supremazia in materia di pubblici servizi che, alla luce della pronuncia della Corte costituzionale n. 204/2004, giustifichi questa forma di giurisdizione amministrativa»; rilevato: - che, al fine di disciplinare la materia, è intervenuto il legislatore che con l’art. 35, comma 26quinquies, del D.L. n. 223/2006 ha disposto che anche il fermo amministrativo rientra tra gli atti impugnabili dinanzi la Commissione tributaria integrando conseguentemente l’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992; - che la Corte costituzionale con ordinanza n. 161 del 18 aprile-8 maggio 2007 ha considerato «che - a norma dell’art. 5 c.p.c., ai cui sensi la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al momento della proposizione della domanda - non incide sulla rilevanza della questione la circostanza che, dopo la sua proposizione con l’ordinanza del 24 maggio 2006, l’art. 35, comma 26quinquies, del D.L. 4 luglio 2006, n. 233, inserito nella legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248, abbia integrato il disposto dell’art. 19, comma 1, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, prevedendo la ricorribilità davanti alle Commissioni tributarie anche del provvedimento di fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del D.P.R. n. 602/1973»; - che la Cass., sez. un., con sentenza del 3 aprile16 aprile 2007, n. 8954, ha affermato che, «considerato che il fermo amministrativo di autoveicoli ex art. 86 del D.P.R. n. 602/1973 è un atto dell’esecuzione relativa ad un credito tributario, la competenza sull’opposizione spettava al Tribunale e non al Giudice di Pace ai sensi dell’art. 9, comma 2, c.p.c. (oggi pronunciarsi su tale opposizione spetta alla giurisdizione del giudice tributario ai sensi dell’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 223/2006 convertito con modificazioni dalla legge n. 248/2006)»; - che né il legislatore con l’art. 35, comma 26quinquies, del citato decreto né la Corte costituzionale con l’ordinanza 18 aprile-8 maggio 2007, n. 161, né le sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza 3 aprile-16 aprile 2007, n. 8954, hanno ritenuto di dover specificare – quanto meno al fine di chiarire ed evitare ogni ulteriore possibile dubbio – che la riconosciuta attribuzione

del fermo amministrativo alla giurisdizione alle Commissioni tributarie era (da intendersi) limitata ai fermi amministrativi azionati per crediti di natura strettamente tributaria e che, anzi, proprio il totale silenzio sul punto, rilevabile soprattutto nelle suddette decisioni, lascia intendere che l’attribuzione della giurisdizione alle Commissioni sia stata ritenuta operante per ogni fermo amministrativo a prescindere dalla natura dei crediti azionati; considerato tuttavia; - che, a seguito dell’entrata in vigore del più volte richiamato art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 233/2006 e pur prendendo atto che con tale norma è stata attribuita alle Commissioni tributarie la giurisdizione in materia di fermo amministrativo ex art. 86 del D.P.R. n. 602/1973, si potrebbe ritenere – sul rilievo che l’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992 dispone che «appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati» – che tale giurisdizione sia limitata ai soli fermi amministrativi azionati per crediti di natura tributaria con esclusione, quindi, dei provvedimenti azionati per altri titoli, quali sanzioni al Codice della strada o contributi previdenziali, ritenuti aventi natura non tributaria; ciò premesso, rilevato e considerato, la Commissione, trattandosi nella fattispecie di fermo amministrativo azionato anche per crediti ritenuti di natura non tributaria, ritiene necessario pregiudizialmente verificare se è ravvisabile la propria giurisdizione. A tal fine osserva quanto segue. Se la disposizione di cui all’art. 35, comma 26quinquies, del D.L. n. 223/2006 fosse da interpretarsi nel senso che ha attribuito alle Commissioni tributarie la giurisdizione limitatamente ai fermi amministrativi azionati per crediti tributari, la norma sarebbe inutile atteso che non vi sarebbe stata alcuna necessità di un intervento legislativo – per altro in una materia che aveva registrato contrastanti e insanabili divergenze in punto di giurisdizione e pertanto necessitante solo di interventi risolutivi e chiarificatori ai fini dell’attribuzione della stessa – per affermare una giurisdizione già sancita dall’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992. Inoltre è necessario prendere doverosamente atto che le sezioni unite della Cassazione – anche e soprattutto in sede di regolamento di giurisdizione – hanno ripetutamente affermato, come in precedenza riportato, che il fermo amministrativo è un atto esecutivo funzionale all’espropriazione forza-


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ta opponibile con i rimedi dell’opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi tanto da ravvisare – sulla base della normativa vigente ratione temporis – non solo la giurisdizione del giudice ordinario ma la competenza del Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, escludendo la competenza del Giudice di Pace (Cass., sez. un., sent. n. 8954/2007). Ma, se il fermo amministrativo, come hanno affermato i giudici di legittimità, è un atto dell’espropriazione opponibile dinanzi il giudice dell’esecuzione, deve necessariamente concludersi che per tali atti non potrebbe mai esservi giurisdizione delle Commissioni tributarie considerato che, come in precedenza rilevato, l’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992 – non modificato dalla novella del 2006 – esclude dalla loro giurisdizione le controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria. Dovrebbe allora conseguentemente ed ulteriormente concludersi che l’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 223/2006 avrebbe attribuito alle Commissioni tributarie la giurisdizione in una materia in relazione alla quale tale giurisdizione è a tutt’oggi esclusa dal non modificato art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992. Poiché le conclusioni che precedono, per quanto rilevato, non possono essere condivise ed essendo indispensabile attribuire comunque alla norma una sua efficacia in armonia con la normativa in vigore, si deve ritenere che il legislatore abbia voluto intervenire, risolutivamente e definitivamente in una materia fonte di insanabili contrasti, attuando un intervento chiarificatore ai fini dell’attribuzione della giurisdizione e che abbia voluto eliminare tali contrasti attribuendo la giurisdizione alle Commissioni tributarie in ogni caso di fermo amministrativo, azionato sia per crediti di natura tributaria sia per crediti di natura non tributaria. Indubbiamente tale intervento legislativo, così inteso, potrebbe suscitare perplessità perché potrebbe ritenersi comportare di fatto un ampliamento della giurisdizione delle Commissioni tributarie come delimitata dall’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992; ma eventuali perplessità al riguardo possono essere superate dalla constatazione che non sarebbe il primo caso di emanazione di una norma di ampia e larga portata in merito alla nozione di tributo con conseguente ampliamento della giurisdizione delle Commissioni tributarie attuato nonostante il disposto del suddetto art. 2. Giova al riguardo infatti ricordare che già in precedenza – dopo essere intervenuto con l’art. 12 della legge n. 448/2001 a rendere generale la giu-

risdizione delle Commissioni tributarie estendendole a tutti i tributi di ogni genere e specie – il legislatore è successivamente intervenuto con l’art. 3-bis del D.L. n. 203/2005 sia specificando che i tributi oggetto della giurisdizione delle Commissioni tributarie sono non solo «tutti i tributi di ogni genere e specie» ma anche quelli «comunque denominati» sia attribuendo a tale giurisdizione anche le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, del canone per lo scarico delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani, del canone comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni; e tale ampliamento della giurisdizione è stato disposto nonostante la dottrina e la giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. Cass., sez. un., n. 12167/2003) avessero concordemente affermato che il canone di concessione determinato in base a tariffa fosse stato concepito dal legislatore come un quid deontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dal tributo in luogo del quale può essere applicato e che – in punto di occupazione di suolo pubblico – lo stesso risulta designato come corrispettivo di una concessione o dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici, rilevando che l’oggettiva differenza tra tassa (Tosap) e canone (Cosap) sarebbe segnata dalla diversità del titolo che ne legittima l’applicazione da individuarsi nel fatto materiale dell’occupazione del suolo o in un provvedimento amministrativo di concessione dell’uso di detto suolo. Pertanto si può fondatamente ritenere che il legislatore – spinto soprattutto dalle inconciliabili posizioni sull’attribuzione della giurisdizione sul fermo amministrativo – abbia voluto con l’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 223/2006 operare un ulteriore intervento, analogo a quello posto in essere con l’art. 3-bis del D.L. n. 203/2005, pervenendo, ora come allora, ad un ampliamento della giurisdizione delle Commissioni tributarie conseguente alla nozione ampliata di tributo rinvenibile nella norma. Tale intervento, come constatato e rilevato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2888/2006, è del resto in linea con «la tendenza espansiva dell’ambito della giurisdizione tributaria (che non incontra precisi limiti costituzionali fatto salvo in ogni caso il principio di ragionevolezza) estesa dal legislatore per ragioni di connessione in senso ampio a materie estranee alle imposte e tributi», materie, giova ribadire, in relazione alle quali la costante giurisprudenza di legittimità aveva escluso la natura tributaria (sanzioni in materia di lavoro irregolare, canoni per


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l’occupazione di spazi e aree pubbliche, canone per lo scarico e depurazione delle acque, canone per lo smaltimento dei rifiuti urbani eccetera). E «la tendenza espansiva dell’ambito della giurisdizione tributaria estesa dal legislatore per ragioni di connessione in senso ampio a materie estranee alle imposte e tributi», constatata dalle sezioni unite, è confermata anche dall’ordinanza n. 4356/2004 del Consiglio di Stato il quale, nell’accogliere i motivi di appello basati sul difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, ha rilevato – sempre in fattispecie di fermo amministrativo – l’inerenza della questione alla materia tributaria». E si può ritenere che il fermo amministrativo di cui trattasi, quand’anche azionato per crediti ritenuti di natura non strettamente tributaria, presenta quei caratteri di inerenza e di connessione con la materia tributaria sufficienti e idonei, a parere delle sezioni unite della Cassazione e del Consiglio di Stato, a giustificarne l’attrazione nella giurisdizione tributaria così come disposta dall’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 223/2006. Infatti – in ordine alla riscossione delle entrate di natura non strettamente tributaria da parte di enti diversi dallo Stato riscuotibili per legge mediante ruoli nelle forme e con la procedura stabilita per le imposte dirette e in relazione alle quali si procede con il fermo amministrativo – è proprio l’adozione della stessa procedura di cui al D.P.R. n. 602/1973 a consentire di ravvisare quei caratteri di connessione e di inerenza alla materia tributaria che giustificano l’attribuzione della giurisdizione ai giudici tributari anche in materia di fermo amministrativo per qualunque credito azionato. D’altra parte, volendo prescindere da quanto in precedenza rilevato, non si vede come si possa contestare tale attribuzione basandosi solo sul dato letterale di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992 – in particolare, richiamando l’oggetto delle controversie devolute alla giurisdizione tributaria che deve consistere in «tributi» anche se di ogni genere e specie comunque denominati – posto che allo stato nel nostro ordinamento non esiste alcuna definizione legislativa né del «tributo» né delle sue specie. Ai fini della validità di tale eventuale contestazione occorre allora evidenziare i caratteri del tributo come enucleati e precisati dalla dottrina e dalla giurisprudenza e verificare la loro sussistenza in relazione ai crediti, di natura ritenuta non strettamente tributaria, di enti diversi dallo Stato autorizzati alla loro riscossione con le forme e le procedure previste per le imposte dirette. E anche per tali crediti sono ravvisabili i ca-

ratteri fondamentali del tributo come individuati dalla giurisprudenza e dottrina: essere un’entrata autoritativamente imposta, comportare dal punto di vista degli effetti il sorgere di un’obbligazione, avere una finalità fiscale intesa nel senso di procurare un’entrata all’ente pubblico. Peraltro è insufficiente l’attestarsi sul concetto di tributo – non definito legislativamente – quale limite oggettivo della giurisdizione tributaria, considerato che, come sostiene il TESAURO in Istituzioni di diritto tributario, 10, «sono da considerare obsolete le definizioni e le classificazioni tradizionali di tributo, essendo necessario tener conto della molteplicità di norme per la cui interpretazione viene elaborato il concetto di tributo. Ciò significa che il concetto di tributo non è uno soltanto, ma che vi possono essere – e in effetti vi sono – più concetti, in relazione alle molteplici norme, alla cui interpretazione è finalizzato». Lo stesso autore, a conferma, rileva ad esempio che è stato affermato un concetto di tributo comprensivo anche dei contributi previdenziali e sanitari (con riguardo all’art. 75 Cost. che vieta il referendum abrogativo delle leggi tributarie) e ritiene che debba essere adottata una definizione «parimenti larga» di tributo con riguardo alle disposizioni costituzionali che hanno funzione di garanzia di diritti individuali e nell’interpretazione dell’art. 81 che esclude che con legge di bilancio possano essere istituiti nuovi tributi; ancora ravvisa l’adozione di una nozione ampia di tributo proprio nelle norme che definiscono la giurisdizione tributaria (rilevando che a tal fine sono stati ritenuti tributi anche i contributi consortili e il canone televisivo) e, secondo lo stesso autore, la stessa ampia nozione di tributo deve valere al fine di circoscrivere l’ambito di applicazione dello «Statuto dei diritti del contribuente». In conclusione, l’assenza di una definizione legislativa di tributo e la constatata ampiezza della nozione di tributo quale emerge in relazione a diverse norme anche di rango costituzionale, non possono indurre necessariamente a ritenere che il mero richiamo ai tributi, contenuto nell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, valga ad escludere la giurisdizione tributaria nelle controversie in punto di qualsiasi fermo amministrativo pur avendo tale procedura autoritativa caratteri di connessione e di inerenza con la materia tributaria non fosse altro che per la procedura di riscossione adottata e prevista dal legislatore. Ai riguardo si deve anche rilevare che il principio secondo cui la mera connessione e inerenza con la materia tributaria sono elementi sufficienti e idonei ad attrarre le controversie nella giurisdi-


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zione tributaria trova esplicita e formale codificazione nell’art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992 allorquando dispone che appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie aventi ad oggetto «le sanzioni amministrative comunque irrogate da Uffici finanziari». È opportuno rilevare anche che non appaiono fondate eventuali eccezioni di incostituzionalità per violazione dell’art. 102 Cost. e della VI disposizione transitoria qualora l’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 223/2006 fosse inteso, sulla base di una definizione ampia di tributo, come ampliamento della giurisdizione tributaria sino a ricomprendervi tutte le controversie aventi ad oggetto il fermo amministrativo. Infatti al riguardo, mentre si ribadisce quanto in precedenza rilevato, si osserva ulteriormente che la norma non ha comunque snaturato la materia attribuita alla competenza delle Commissioni ma costituisce l’esercizio del potere del legislatore, legittimo costituzionalmente, di trasformare, riordinare e ristrutturare anche nel funzionamento e nella procedura le Commissioni tributarie, intervenendo con fini chiarificatori e risolutivi in una lacerante disputa sull’attribuzione della giurisdizione sulla base di una definizione ampia del concetto di tributo presupposta dalla norma di cui trattasi. La conclusione accolta dalla Commissione nell’affermare la propria giurisdizione trova ulteriore supporto nella giustificata preoccupazione e necessità del legislatore di assicurare sempre e comunque al debitore, in relazione all’istituto in esame, un’effettiva tutela a fronte di un provvedimento posto in essere su iniziativa del creditore concessionario senza il costante controllo di un giudice. Non vi è dubbio infatti, come rilevato ripetutamente dal Consiglio di Stato, che il fermo amministrativo come attuato dal concessionario costituisca una sorta di procedura per vari aspetti in house e in spregio delle fondamentali garanzie a tutela del debitore tanto da sollevare – prima della novella di cui all’art. 35, comma 26-quinquies, D.L. n. 223/2006 – seri dubbi di legittimità costituzionale nell’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario. È stato infatti rilevato dal Consiglio di Stato che: a) la procedura rappresenterebbe una espropriazione forzata privatistica che consente al creditore di soddisfarsi in via di autotutela sul patrimonio del debitore senza che la procedura sia affidata ad un vero e proprio processo sotto il controllo di un giudice; b) il giudizio civile non conosce, nell’ambito del processo di esecuzione forzata, strumenti di auto-

tutela conservativa rimessi all’iniziativa unilaterale del creditore il quale è invece sempre tenuto a rivolgersi al giudice per assicurare la conservazione dei beni del debitore a garanzia del proprio credito; c) in considerazione degli incisivi poteri riconosciuti al concessionario non sussiste un rapporto paritetico ma un potere autoritativo strumentale al soddisfacimento di un credito; d) il fermo amministrativo viene disposto a prescindere dall’esito infruttuoso del pignoramento; e) considerato che la circolazione del veicolo sottoposto a fermo comporta sanzioni pecuniarie e la confisca, sarebbe strano che il fermo, qualora fosse una misura di autotutela civilistica, comportasse sanzioni amministrative e non sanzioni civili. In sostanza si è rilevato che il fermo amministrativo, riconducibile agli atti ablatori e discrezionale nell’an e nel quid, necessita di congrua motivazione sia in rapporto alla sussistenza di un interesse pubblico, prevalente sull’interesse privato alla libera disponibilità del bene, sia in relazione alla proporzione tra l’entità del credito da riscuotere e il sacrificio che viene imposto al privato, con la temporanea sottrazione dell’uso e della disponibilità giuridica del bene, secondo canoni di proporzionalità e di adeguatezza. Tali rilievi hanno indotto a contestare la giurisdizione del giudice ordinario al quale non è attribuito il potere di conoscere in via immediata e diretta della legittimità di un atto amministrativo né tanto meno di annullarlo. E allora – considerato che, nonostante tali fondati rilievi, la giurisdizione in sede di regolamento di giurisdizione è stata attribuita dalle sezioni unite della Corte di Cassazione al giudice ordinario – trova giustificazione l’intervento del legislatore il quale, preso atto del detto regolamento di giurisdizione, ha ritenuto, al fine di assicurare nelle procedure di fermo amministrativo un’adeguata ed effettiva tutela ai debitori, di dover intervenire con l’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 223/2006, norma che implicitamente reca una definizione larga di tributo e presuppone l’inerenza e la connessione del fermo con la materia tributaria, attribuendone la giurisdizione alle Commissioni tributarie in grado di sospendere e annullare i fermi amministrativi previo sindacato pieno sul corretto esercizio del potere, sulla adeguatezza della motivazione, sulla proporzione tra misura del fermo ed entità del credito. Ancora l’intervento così attuato e così inteso risponde ai principi della Costituzione e dello Statuto dei diritti del contribuente conformandosi ai principi di buon andamento ed efficienza della


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pubblica amministrazione, di collaborazione e buona fede, di tutela della integrità patrimoniale, di chiarezza e motivazione degli atti amministrativi, dell’obbligo di informazione del contribuente, del giusto processo. Sarebbe infatti tra l’altro inammissibile e comunque contrario ad ogni principio ora richiamato che a fronte di un fermo amministrativo azionato, ad esempio, contestualmente per crediti ritenuti strettamente di natura tributaria nonché per sanzioni al Codice della strada e per contributi previdenziali il debitore dovesse ricorrere alla Commissione tributaria solo in relazione al credito tributario e ad altri giudici per gli altri crediti. Per tutto quanto rilevato la Commissione adita ritiene essere munita di giurisdizione in relazione al provvedimento in esame. Trattandosi nella fattispecie di ricorso avverso il preavviso di fermo, si deve rilevare che non potrebbero ritenersi fondate eventuali eccezioni in merito alla non impugnabilità del mero “preavviso” di fermo amministrativo basate sul rilievo che lo stesso non adotta alcun concreto provvedimento e che non è ricompreso tra gli atti impugnabili elencati nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992; occorre infatti, in contrario, considerare che tale atto comunque incide negativamente sul debitore ledendo, anche se in prospettiva, la propria posizione e che l’elencazione di cui al citato art. 19 è stata costantemente ritenuta dalla Corte di Cassa-

zione come non esaustiva e tassativa degli atti impugnabili tanto da ritenere impugnabile anche un avviso bonario particolarmente assimilabile al fermo amministrativo. Passando all’esame nel merito dell’atto impugnato la Commissione ritiene che il ricorso meriti accoglimento e a tal fine rileva quanto segue. In relazione al credito derivante dalla violazione al Codice della strada di cui alla cartella esattoriale [...] si osserva che il relativo verbale di accertamento fa riferimento ad una violazione commessa il 5 maggio 2001 quando il ricorrente non era più proprietario dell’auto per averla trasferita con scrittura privata autenticata del 2 maggio 2001 e come per altro risulta da certificazione del Pra. È quindi di tutta evidenza che il ricorrente non è debitore delle somme iscritte a ruolo per la violazione di cui trattasi. In relazione al credito per imposta di registro anno 1999 di cui alla cartella esattoriale [...] si osserva che il ricorrente afferma di non aver mai ricevuto tale cartella e che, a fronte di tale affermazione, non è stata prodotta la prova dell’avvenuta notifica. Si deve pertanto concludere che l’atto impugnato in relazione a tale credito è illegittimo in assenza di un valido atto presupposto da cui lo stesso credito abbia origine. Pertanto il ricorso merita accoglimento. Sussistono equi motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio.

Nota

non tributaria, in virtù, in particolare, di una «tendenza espansiva dell’ambito della giurisdizione tributaria» rinvenibile nell’orientamento della Suprema Corte (conformi, Comm. trib. prov. Caserta, sez. XV, 17 settembre 2007, n. 270, in Corr. Trib., 2008, 474, con nota di MESSINA; con riferimento ad iscrizione di ipoteca Comm. trib. prov. Latina, sez. V, 15 giugno 2007, n. 99. Contra Comm. trib. prov. Bari, sez. XIV, 10 gennaio 2007, n. 303, con nota di CIARCIA, cit; Comm. trib. prov. Terni, 18 dicembre 2007, n. 240, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov. Catania, 28 dicembre 2006, n. 525, in Boll. Trib., 2007, 460). In sintesi, secondo l’opinione dei giudici di merito, non essendo ravvisabile nell’ordinamento una nozione unitaria di tributo (sul punto v., per tutti, DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2006, I, 9), qualsiasi fermo amministrativo presenterebbe i caratteri della “connessione” e dell’inerenza con la materia tributaria, «non fosse altro che per la procedura di riscossione adottata e prevista dal legislatore».

La sentenza in epigrafe (edita anche in Riv. Giur. Trib., 2007, 971, con nota critica di GLENDI, “Fermi” ed ipoteche per crediti non tributari e problemi di giurisdizione e di “translatio”), si segnala per l’apprezzabile grado di approfondimento della materia trattata ma i principi ivi enunciati appaiono tutt’altro che pacifici e si inseriscono in un “panorama” giurisprudenziale alquanto eterogeneo e in continua evoluzione (v., in particolare, CIARCIA, Non rientra nella giurisdizione tributaria l’impugnazione di un fermo amministrativo di beni mobili registrati se il credito sottostante non ha natura tributaria, in questa rivista, 2007, 4, 765 e la bibliografia ivi citata), anche alla luce di recenti interventi a sezioni unite della Corte di Cassazione. La Commissione tributaria di Roma, sulla base di un articolato iter argomentativo, ritiene che il legislatore, con l’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, abbia devoluto alla giurisdizione tributaria le controversie in tema di fermo amministrativo anche per i crediti di natura


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Tale tesi sarebbe, altresì, rafforzata dal fatto che l’art. 1 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dispone espressamente che appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie aventi ad oggetto «le sanzioni amministrative irrogate da Uffici finanziari»: sulla base di tali assunti, pertanto, anche le sanzioni per violazioni del Codice della strada potrebbero rientrare nell’alveo di detta disposizione. Tali affermazioni necessitano di una lettura alla luce dei principi dettati da talune sentenze delle sezioni semplici e delle sezioni unite del Supremo Collegio. Secondo un recente orientamento, infatti, la Suprema Corte ha ritenuto di ricondurre nella giurisdizione delle Commissioni tributarie anche le controversie di natura “mista”, in modo tale che sia consentito al cittadino un efficace esercizio del diritto di difesa (Cass., 14 giugno 2007, n. 13902, in Riv. Giur. Trib., 2007, 929, con nota di DOMINICI, Determinazione della natura tributaria della lite mediante ragioni di connessione in senso ampio). D’altro canto, se è pur vero che anche le sezioni unite (Cass., sez. un., 10 febbraio 2006, n. 2888, in Corr. Trib., 2006, 1347, con nota di BASILAVECCHIA) hanno interpretato in maniera “estensiva” l’art. 2 del D.Lgs. 546/1992, è altrettanto vero che queste ultime hanno ritenuto sussistere la “connessione” con la materia tributaria nel caso in cui le sanzioni amministrative non tributarie siano irrogate dall’Agenzia delle Entrate (il che sembrerebbe escludere dal novero di quelle “connesse” con la materia tributaria proprio le sanzioni irrogate per violazioni del Codice della strada). Tuttavia, ancor più recentemente, le sezioni unite (ord. 11 febbraio 2008, n. 3171, in www.fisconline.it) sembrano essere andate “oltre” il profilo della natura tributaria del credito affermando che l’attribuzione alla giurisdizione delle Commissioni tributarie del fermo amministrativo «è stata compiuta in considerazione del fatto che si discute di misure collocate all’interno del sistema dell’esecuzione esattoriale [...] cui il legislatore ha ritenuto di far ricorso per facilitare la riscossione anche di entrate non tributarie»: il relativo contenzioso, quindi, «riguarda questioni attinenti alla regolarità formale e sostanziale della misura adottata» ma «non la fondatezza della pretesa che

ha dato luogo al provvedimento di fermo (dal momento che questa fondatezza deve già essere stata accertata con atti definitivi)». La materia è particolarmente complessa e, allo stato attuale, non è ravvisabile alcun punto fermo, anche alla luce di contrastanti opinioni dottrinali (sulle quali v. CIARCIA, op. cit.). Ad ogni buon conto, alla luce della giurisprudenza del Supremo Collegio, sembra prevalere una tesi che, al fine della individuazione della giurisdizione tributaria, tende a “sminuire” la natura del credito fatto valere dall’amministrazione, a favore delle concrete modalità mediante le quali tale credito viene eseguito coattivamente. Infine, in relazione all’ulteriore principio enunciato dai giudici romani, questi ultimi hanno ritenuto che anche il preavviso di fermo amministrativo costituisce atto autonomamente impugnabile, in quanto direttamente lesivo dei diritti soggettivi del contribuente. Anche su tale problematica si è assistito ad una “altalenante” giurisprudenza delle Commissioni tributarie, anche se sembra prevalere la tesi della “non impugnabilità” del mero preavviso di fermo amministrativo (conforme, Comm. trib. prov. Roma, sez. LIX, sent. 13 giugno 2007, n. 192, in www.fisconline.it; contra, Comm. trib. prov. Reggio Emilia, sez. I, 25 maggio 2007, n. 399, in questa rivista, 2007, 4, 804; Comm. trib. prov. Caserta, sez. XV, 24 settembre 2007, n. 270; Comm. trib. prov. Taranto, sez. I, 21 marzo 2007-20 aprile 2007, n. 108, entrambe in www.fisconline.it. In dottrina v., per tutti, DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in questa rivista, 2007, 3, 427 e l’ampia bibliografia ivi citata). Il principio affermato nella prima massima dev’essere considerato incostituzionale, alla luce di quanto stabilito da Corte cost., 14 marzo 2008, n. 64, che considera illegittima l’attribuzione alle Commissioni tributarie di materie non tributarie (nella specie, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, in relazione all’art. 102 Cost., l’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative al canone per l’occupazione di spazi e aree pubbliche).


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Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XV, 9 luglio 2007, n. 61 Presidente: Cigna - Relatore: Rango Processo tributario - Spese di giudizio - Compensazione per giusti motivi - Obbligo di motivazione (C.p.c., art. 92; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15) Nella pronuncia di compensazione delle spese di lite il giudice tributario deve sempre fornire un’adeguata motivazione, non essendo sufficiente la semplice affermazione che “ricorrono giusti motivi”. Svolgimento del processo Con ricorso presentato in data 9 maggio 2005 alla Commissione provinciale, S. C. proponeva opposizione avverso l’avviso di recupero credito, prot. n. 7037, notificatogli a mezzo posta il 23 febbraio 2005, con il quale l’Agenzia delle Entrate Ufficio di Trani, gli comunicava, quale rappresentante legale, all’epoca delle violazioni contestate, della omonima società, il diniego e contestuale recupero del rimborso del credito Iva, pari ad euro 233.616,43, maggiorato delle sanzioni e interessi. Eccepiva il ricorrente: - la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, secondo il quale «le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica, sono esclusivamente a carico della persona giuridica»; - la violazione e falsa applicazione dell’art. 57 del D.P.R. 633/72, perché, avendo aderito al condono tombale, era precluso all’Agenzia delle Entrate qualsiasi tipo di accertamento. All’udienza del 21 giugno 2005, su richiesta del ricorrente volta ad ottenere la riunione del giudizio con quello avente il n. di Rg 2416/05, promosso dalla società Q. S. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, C. F., il presidente della Commissione, al quale venivano rimessi gli atti, assegnava alla medesima sezione XII entrambi i ricorsi che venivano però trattati e decisi separatamente. Si costituiva l’Agenzia delle Entrate - Ufficio di Trani, controdeducendo ai motivi di doglianza del ricorrente e chiedendo il rigetto del ricorso, siccome infondato in fatto ed in diritto, con vittoria di spese. La Commissione adita, ritenendo fondata l’eccezione formulata dal ricorrente con riferimento al-

la violazione dell’art. 7 del D.L. n. 269/2003, accoglieva il ricorso ai fini delle sanzioni amministrative e compensava le speso di lite, non mancando di rilevare che per quanto riguardava il merito, e cioè l’eccepita violazione e falsa applicazione dell’art. 57 del D.P.R., sul ricorso n. 2416/05 presentato dalla società Q. S. S.r.l., la Commissione si era pronunciata, respingendo il ricorso e condannando la società al pagamento delle spese di lite che liquidava in euro 2000,00, oltre gli accessori di legge. Avverso detta sentenza proponeva appello a questa Commissione S. C. eccependo la violazione e falsa applicazione dell’art. 15 del D.Lgs. 546/92, nonché la falsa applicazione dell’art. 92 del c.p.c. Deduceva l’appellante che la compensazione delle spese di lite era stata disposta dalla Commissione provinciale senza alcuna motivazione, essendosi limitata a dichiarare compensate le spese di lite per giusti motivi. Nel caso di specie, invece, l’Agenzia delle Entrate doveva essere condannata a rifondere dette spese, avendo voluto continuare a coltivare la lite, nonostante preso atto della fondatezza dei motivi del ricorso. Concludeva chiedendo che, in parziale riforma della sentenza appellata, fosse condannato l’Ufficio delle Entrate di Trani alle spese e onorari del doppio grado di giudizio, con distrazione in favore del procuratore costituito dichiaratosi antistatario. Si costituiva l’Agenzia delle Entrate di Trani eccependo l’inammissibilità dell’appello, essendo stato proposto unicamente avverso il capo della sentenza che compensava le spese di lite, poiché la parte totalmente vittoriosa, in aderenza dell’art. 323 del c.p.c., non aveva titolo per proporre appello sia principale che incidentale. Sosteneva che era nella facoltà del giudice compensare totalmente o parzialmente le spese di lite, salvo che i motivi addottati fossero illogici o erronei e che, comunque, le spese processuali non potevano essere oggetto di atto autonomamente impugnabile. Concludeva chiedendo il rigetto dell’appello, con condanna dell’appellante al pagamento del doppio grado di giudizio. Motivi della decisione Ritiene la Commissione che l’appello è fondato e pertanto merita di essere accolto. Occorre esaminare preliminarmente l’eccezione di inammissibilità dell’appello formulata dall’A-


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genzia delle Entrate - Ufficio di Trani, per essere stata, la sentenza della Commissione provinciale, appellata unicamente per il capo relativo alle spese di giudizio. Tale eccezione è infondata. Invero occorre osservare che se la statuizione sulle spese di lite è accessoria rispetto alla domanda principale, è tuttavia legata a questa dal principio della soccombenza, per cui, se viene accolta la domanda principale e tuttavia vengono immotivatamente compensate le spese di lite, al contribuente non rimane altra via che appellare la sentenza relativamente a tale capo, non potendo evidentemente appellare la sentenza anche per la parte ad esso favorevole. Diversa questione è invece quella relativa alla valutazione se il giudice possa compensare le spese di lite per giusti motivi, senza tuttavia indicarli, anche quando tali motivi non possono desumersi dallo svolgimento della causa e, quindi ritenerli per impliciti. La Commissione ritiene che, in tali circostanze, la

pronuncia sia censurabile, perché secondo l’art. 111, comma 6, della Costituzione, tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, perché l’esistenza di ragioni che giustificano la compensazione deve essere integrata con la motivazione della sentenza o con tutte le vicende che giustificano l’inscindibile connessione tra lo svolgimento della causa e la pronuncia sulle spese. Nella fattispecie la sussistenza dei presupposti di legge per la compensazione delle spese non emerge neppure dalla motivazione complessivamente adottata a fondamento della intera pronuncia cui la decisione delle spese accede, per cui deve ritenersi violato il disposto dell’art. 15, comma 1, del D.Lgs. n. 546/92, avendo la Commissione provinciale derogato, senza giustificato motivo, dal principio della soccombenza. La sentenza appellata deve dunque essere riformata, con condanna dell’Agenzia delle Entrate al pagamento in favore dell’appellante delle spese del doppio grado di giudizio, liquidato come in dispositivo.

Nota

nuncia (Cass., n. 8726/2005, in Guida al diritto, 2005, 24, 81; Cass., n. 633/2003). In tale modo rimaneva esclusa anche la possibilità di censurare in sede di legittimità la suddetta decisione, salvo il fatto che qualora vi fosse stata motivazione sul punto quest’ultima fosse fondata sull’indicazione di ragioni palesemente illogiche e tale da inficiare l’intero giudizio a causa della loro inconsistenza o erroneità. In questo contesto i giudici di legittimità hanno ritenuto che il principio dell’obbligo di motivazione espresso dall’art. 111 Cost. non opera in riferimento alla pronuncia di compensazione, perché le ragioni che giustificano la compensazione devono essere integrate con la motivazione della sentenza e con tutte le vicende processuali, stante l’indefettibile connessione tra lo svolgimento della causa e delle pronunce sulle spese (Cass., n. 13970/2005, in Guida al diritto, 2005, 34, 67). Ma questo orientamento giurisprudenziale basato sulla precedente normativa era già stato superato, in anticipo dunque rispetto all’attuale prescrizione normativa, da altra giurisprudenza e dalla dottrina (NAPPI, Va motivata la decisione di compensare le spese per giusti motivi, in Corr. Giur., 2000, I, 1635-1638), per cui si affermava la necessità di una motivazione specifica sulla compensazione delle spese. Così, i giudici pugliesi nel caso di specie hanno statuito che la pronuncia sulla compensazione delle spese deve essere motivata esplicitamente,

La pronuncia in commento della Commissione regionale della Puglia è innovativa perché dà concretezza al principio espresso nella norma contenuta nel secondo comma dell’art. 92 c.p.c. così come modificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263 per cui attualmente il giudice può compensare le spese in presenza di «altri giusti motivi» purché «esplicitamente indicati nella motivazione». I giudici tributari pugliesi nella loro pronuncia si discostano dalla consolidata prassi delle Commissioni tributarie che per giustificare la compensazione delle spese semplicemente riproducono la formula standard “per giusti motivi”, senza alcuna indicazione esplicita in tal senso. Il legislatore del 2005 in tale ambito ha chiaramente voluto che il giudice esprimesse i motivi di sussistenza delle circostanze idonee a giustificare la pronuncia di compensazione in assenza o in aggiunta alla mera soccombenza reciproca. Sulla base della precedente formulazione della norma contenuta nell’art. 92 c.p.c. la giurisprudenza di legittimità in riferimento al secondo comma era pressoché costante nel riconoscere un potere assolutamente discrezionale del giudice a compensare le spese al di fuori di qualunque obbligo di motivazione (Cass., n. 15373/2000; n. 8889/2000; n. 10861/2002) anche in presenza di specifici motivi idonei a giustificare siffatta pro-


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nel senso che le ragioni poste a fondamento di questa statuizione possono anche essere desunte dalla complessiva motivazione della sentenza. Non c’è spazio per dubitare dell’applicazione del nuovo art. 92, comma 2, c.p.c., stante la chiara previsione dell’art. 15 del D.Lgs. 546/92 che in questo ambito demanda in tutto e per tutto al Codice di rito (GLENDI, Le ultime novità sul processo civile si riflettono sul processo tributario, in Riv. Giur. Trib., 2006, 2, 97-98; RUSSO, Il giusto processo tributario, in Rass. Trib., 2004, 1, 11-30; VOGLINO, L’obbligo di motivare la pronuncia di compensazione delle spese nel giudizio tributario, in Boll. Trib., 2006, 4, 290-294. Sull’evoluzione della compensazione delle spese processuali addirittura come rimedio per soddisfare il diritto di credito riconosciuto al contribuente, si veda la parzialmente critica di

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CARNIMEO, nota a Comm. trib. prov. Bari, 20 ottobre 2002, n. 410, in Tributi, 2002, 11-12, 898-991). La compensazione per giusti motivi è un forte temperamento al criterio sancito dall’art. 91 e la principale applicazione del cd. principio di causalità (MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, 335; LORENZETTO PERSICO, Spese giudiziali, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., IV, 673), che proprio nel processo tributario ha un duplice scopo: da un lato, tende a generare fiducia nel contribuente verso il fisco, perché così quest’ultimo viene dissuaso dall’emanare atti accertativi infondati, dall’altro lato, il contribuente sarà più attento nell’impugnare atti tributari, perché non potrà contare su una agevolativa prassi giurisprudenziale volta alla compensazione delle spese sic et sempliciter.

Commissione tributaria provinciale di Pistoia, sez. I, (decr. pres.) 19 ottobre 2007, n. 167 Presidente: Cimoroni Processo tributario - Atti impugnabili - Preavviso di fermo amministrativo - Non impugnabilità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 86; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19) Il preavviso di fermo amministrativo di beni mobili registrati, non essendo previsto dalle norme disciplinanti il fermo amministrativo e non essendo compreso nell’elenco degli atti impugnabili di cui all’art. 19, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992, non è atto impugnabile dinanzi al giudice tributario. Conseguentemente tale avviso ha natura di mera comunicazione che l’Agenzia delle Entrate ritiene opportuno sia inviata al debitore dopo la notifica della cartella di pagamento e prima dell’iscrizione del fermo nel pubblico registro automobilistico. Svolgimento del processo Il ricorrente sig. X ha espressamente indicato, come oggetto dell’impugnazione, il «preavviso di fermo amministrativo su beni mobili registrati» che ha ricevuto il 28 maggio 2007 dal concessionario della riscossione Equitalia Get S.p.A. Nel formulare la domanda, il ricorrente ha, invece, chiesto alla Commissione «l’immediata sospensione del ruolo contenuto nella cartella» (notificatagli il 24 novembre 2001) nonché la rimozione del ruolo «in quanto manifestamente illegittimo» invocando «l’art. 2-quater, comma 1 e 1bis, del D.L. n. 564/94 convertito nella legge n. 565/94 [656/94] così come modificato con decor-

renza 9 marzo 1999 dall’art. 27 della legge 18 febbraio 1999, n. 28». Motivi della decisione Il presidente, esaminati gli atti del processo registrato al n. 522/07 promosso dal ricorrente con ricorso pervenuto alla segreteria della Commissione a mezzo del servizio postale, osserva: il ricorso, che è stato notificato sia al concessionario della riscossione che all’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Pescia, è manifestamente inammissibile. L’impugnazione del ruolo è tardiva, poiché proposta oltre 60 giorni dopo la sua notificazione avvenuta il 24 novembre 2001 con la notificazione della cartella di pagamento: «la notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo» (art. 21, primo comma, D.Lgs. n. 546/92). L’impugnazione del “preavviso di fermo amministrativo” riguarda un atto che non solo non è previsto dalle norme che disciplinano il fermo, ma non è comunque compreso nell’elenco degli atti impugnabili, di cui all’art. 19 del citato D.Lgs. n. 546/92 il quale contempla solo «il fermo dei beni mobili registrati» e non il “preavviso di fermo”. Questo è un atto che l’Agenzia delle Entrate – con nota del 9 aprile 2003 diretta ai concessionari della riscossione – ha ritenuto opportuno fosse inviato ai debitori dopo la notifica della cartella di pagamento e prima dell’iscrizione del fermo presso il competetene Pra. La nota dell’Agenzia delle Entrate non è però


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fonte di norme giuridiche, ma solo di “norme interne” che non rientrano nell’ordinamento giuridico, sicché gli atti da esse previsti non possono essere impugnati davanti al giudice tributario. Lo stesso ricorrente nella premessa del ricorso sostiene che “il preavviso di fermo amministrativo” non è atto impugnabile. A sostegno della domanda il ricorrente ha invocato le norme contenute nell’art. 2-quater del D.L.

564/94 convertito nella legge 656/94. Il richiamo di tali norme è, però, del tutto in conferente giacché esse riguardano l’autotutela che può essere esercitata dagli organi dell’amministrazione finanziaria e non dalla Commissione tributaria, che è un organo giurisdizionale. Per questi motivi, visto l’art. 27 del D.Lgs. n. 546/92, il ricorso proposto dal sig. X è dichiarato inammissibile.

Nota

sdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo per i fermi amministrativi adottati a garanzia di crediti di natura non tributaria (art. 18, D.Lgs. n. 46/1999) (v. DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in questa rivista, 2007, 3, 435; CANTILLO, Ipoteca iscritta dagli agenti della riscossione e tutela giudiziaria del contribuente, in Rass. Trib., 2007, 11; Cfr. Cons. di Stato, sez. VI, ord. 12 aprile 2006, n. 2032, in Dir. e Prat. Trib., 2006, 6 e in questa rivista, 2007, 4, 768; Cons. di Stato, sez. VI, ord. 18 luglio 2006, n. 4581, in banca dati fiscovideo e in questa rivista, 2007, 4, 768; Cass., sez. un., ord. 31 gennaio 2006, n. 2053, in banca dati fiscovideo e in questa rivista, 2007, 4, 768; Cass., sez. un., ord. 23 giugno 2006, n. 14701, in banca dati fiscovideo e in questa rivista, 2007, 4, 768; Cons. di Stato, sez. IV, dec. 3 febbario 2006, n. 418 e 421, in questa rivista, 2007, 4, 768; Cons. di Stato, sez. IV, dec. 3 febbraio 2006, n. 412, in questa rivista, 2007, 4, 768; Cass., sez. un., ord. 17 gennaio 2007, n. 875, in banca dati JurisData e in questa rivista, 2007, 3, 435). I problemi restano tuttora ampiamente irrisolti per il preavviso di fermo. Ciò in quanto, se da un lato, si è ritenuto il preavviso di fermo atto non riconducibile alla cognizione del giudice tributario, riguardando lo stesso, come afferma la Commissione di Pistoia, «un atto che non solo non è previsto dalle norme che disciplinano il fermo, ma non è comunque compreso nell’elenco degli atti impugnabili, di cui all’art. 19 del citato D.Lgs. 546/92 il quale contempla solo “il fermo dei beni mobili registrati” e non il “preavviso di fermo”», dall’altro, si è configurato il preavviso come comunicazione dell’atto impugnabile, ossia come comunicazione dell’iscrizione del provvedimento di fermo amministrativo, orientamento quest’ultimo, in un certo senso “avallato” dalla prassi amministrativa. Infatti, per il provvedimento di fermo amministrativo non è previsto dalla legge alcun obbligo di notifica: l’art. 86, comma 2, del D.P.R. n. 602/1973 richiede soltanto che il concessionario

Con il decreto in esame la Commissione tributaria provinciale di Pistoia, nel dichiarare manifestamente inammissibile il ricorso proposto avverso il ruolo e il preavviso di fermo amministrativo, afferma, oltreché la tardività della impugnazione del ruolo – perché proposta oltre 60 giorni dopo la notificazione della cartella di pagamento –, la non impugnabilità del preavviso di fermo amministrativo di beni mobili registrati. La Commissione provinciale di Pistoia esprime, dunque, il proprio orientamento in ordine ad un tema, quello della autonoma impugnabilità o meno del preavviso di fermo dinanzi il giudice tributario, molto dibattuto in giurisprudenza (v. ad es. Comm. trib. prov. Roma, sez. XXVI, 14 dicembre 2004, n. 670, in www.ilfisco.it e in questa rivista, 2007, 3, 439; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 25 giugno 2007, n. 399, in banca dati fisconline e in questa rivista, 2007, 3, 439). Preliminarmente occorre ricordare che, relativamente al provvedimento di fermo amministrativo di beni mobili registrati, il legislatore, con l’art. 35, comma 26-quinquies, della L. n. 248/2006, di conversione del D.L. n. 223/2006, ampliando la giurisdizione tributaria mediante l’inserimento nell’elenco degli atti impugnabili di cui all’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 del fermo amministrativo, ha voluto porre fine alle rilevanti problematiche che anche per tale atto erano state sollevate. Tali problemi riguardavano prevalentemente la giurisdizione, che veniva attribuita al giudice ordinario (in tal senso cfr. Cass., sez. un., 31 gennaio 2006, n. 2053, in Fisco, 2006; Cass., sez. un., 23 giugno 2006, n. 14701, in Fisco, 2006) ovvero al giudice amministrativo (in tal senso cfr. Cons. di Stato, sez. VI, 18 luglio 2006, n. 4581, in www.giustizia-amministrativa.it) a seconda della natura di atto dell’esecuzione forzata (giudice ordinario) o di atto (rectius provvedimento) amministrativo (giudice amministrativo) che si riconoscesse al fermo amministrativo. Peraltro, non ancora superata risulta la dibattuta questione del riparto di giuri-


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della riscossione comunichi al debitore l’iscrizione del fermo nei registri mobiliari. Ciò pone, chiaramente, il problema del decorso del termine decadenziale di impugnazione ex art. 21, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992, problema al quale l’amministrazione finanziaria ha cercato, appunto, di rimediare mediante l’emanazione di un comunicato stampa del 9 aprile 2003, n. 57413 (la cui vigenza è stata ribadita dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate, 9 gennaio 2006, n. 2/E, in www.altalex.com), con il quale, in considerazione della frequenza con cui i concessionari della riscossione adottano il provvedimento di fermo amministrativo e della rilevanza degli effetti di tale misura, è stata manifestata l’opportunità «che i concessionari, una volta emesso il provvedimento di fermo, ma prima dell’iscrizione dello stesso presso il competente pubblico registro automobilistico, trasmettano al debitore una comunicazione contenente l’invito ad effettuare, entro venti giorni dalla data della stessa, il versamento delle somme iscritte a ruolo. [...] Nella comunicazione potrà essere precisato che, in ipotesi di persistente inadempimento dell’obbligo di versamento, lo stesso invito vale, ai sensi dell’art. 4, comma 1, secondo periodo, del D.M. n. 503/1998, come comunicazione di iscrizione del fermo a far data dal ventesimo giorno successivo». Quindi, alla luce di tale prassi amministrativa ed

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in considerazione dell’ampliamento della giurisdizione tributaria operata mediante la devoluzione (ex art. 19, comma 1, lett. e- ter), del D.Lgs. n. 546/1992) alla cognizione del giudice tributario delle controversie in materia di fermo amministrativo, parte della giurisprudenza tributaria di merito (ad es. Comm. trib. prov. Roma, sez. XXVI, 14 dicembre 2004, n. 670, in questa rivista, 2007, 3, 439; Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 25 giugno 2007, n. 399, in questa rivista, 2007, 3, 439; Comm. trib. prov. Roma, 13 giugno 2007, n. 246, in www.fiscooggi.it; Comm. trib. prov. Roma, 11 luglio 2007, n. 118, in www.ilfisco.it), in senso contrario all’orientamento espresso nel decreto in commento dalla Commissione tributaria di Pistoia e da altra giurisprudenza di merito (ad. es. Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 21 maggio 2007, n. 399, in banca dati fisconline), ha ritenuto di dover attribuire al preavviso di fermo amministrativo natura di atto impugnabile dinanzi al giudice tributario, suscitando, peraltro, non poche polemiche da parte di chi ritiene impugnabile solamente quell’atto che sia veramente produttivo di effetti nella sfera giuridica del ricorrente (DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, cit., 439; D’AYALA VALVA, Le ganasce fiscali ed il giudice tributario. Un porto sicuro, un attracco difficoltoso, in Riv. Dir. Trib., 2006, I, 635).

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXI, 30 ottobre 2007, n. 118 Presidente: Tomei - Relatore: Valentini Processo tributario - Impugnazione della cartella di pagamento per tardiva iscrizione a ruolo e per tardiva notifica della cartella - Legittimazione passiva - Agenzia delle Entrate e agente della riscossione - Litisconsorzio necessario (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-bis; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 59) Nel giudizio di impugnazione di cartelle esattoriali per tardiva iscrizione a ruolo e per tardiva notifica delle stesse, il ricorso deve essere notificato sia all’Agenzia delle Entrate, sia all’agente della riscossione, in quanto entrambi legittimati passivi nella controversia. In caso contrario, il giudice di primo grado deve ordinare l’integrazione del contraddittorio; se ciò non avviene e il ricorso viene dichiarato inammissibile, la relativa sentenza va annullata con rinvio al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 59, comma 1, lett. b, del D.Lgs. 546/1992.

Svolgimento del processo I contribuenti, così come rappresentati e difesi, presentavano tempestivo ricorso alla Commissione tributaria provinciale contro le cartelle in oggetto indicate, emesse a seguito di controllo formale ex art. 36-bis, D.P.R. 600/73, della dichiarazione congiunta mod. 740/96 per l’anno di imposta sulle persone fisiche 1995, deducendo la tardività dell’iscrizione a ruolo, il cui termine sarebbe scaduto il 31 dicembre 1998, nonché della notifica della cartella esattoriale, avvenuta il 22 dicembre 2004, a fronte di un ruolo reso esecutivo il 28 dicembre 2000. Il ricorso era stato spedito a mezzo posta all’Agenzia delle Entrate [...]. Con la sentenza 212/37/06 la Commissione provinciale di Roma dichiarava inammissibile il ricorso, in quanto la controversia investe la competenza e l’operato del concessionario non chiamato in causa dai ricorrenti.


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Propongono tempestivo appello i contribuenti con atto ritualmente e tempestivamente notificato sia all’Agenzia delle Entrate sia al concessionario della riscossione per la Provincia di Roma, deducendo l’erroneità e l’illegittimità della sentenza impugnata, ribadendo le argomentazioni del ricorso di I grado, per non avere ordinato l’integrazione del contraddittorio e avere invece dichiarato inammissibile il ricorso. Concludono con la richiesta di annullamento della sentenza, con conseguente annullamento della cartella, o, in subordine, di rimessione della causa, per la regolare integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’articolo 59, lett. b, del D.Lgs. 546/1992 e, infine, di discussione in pubblica udienza. L’Ufficio, con l’atto di costituzione in giudizio depositato il 13 aprile 2007 conferma la legittimità del proprio operato, in quanto il ruolo è stato consegnato al concessionario il 28 dicembre 2000 e non, come erroneamente indicato dagli appellanti, nell’anno 2001. Argomenta che la controversia riguarda il solo concessionario. Rappresenta poi che l’Ufficio [...] avrebbe provveduto allo sgravio parziale delle cartelle oggetto di causa. Conclude per il rigetto dell’appello o, in subordine, per la sua estromissione della causa.

Nota Nel caso esaminato dalla Commissione di Roma, il contribuente aveva impugnato, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, alcune cartelle di pagamento emesse a seguito di un controllo formale ex art. 36-bis, del D.P.R. 600/1973, deducendo la tardività, sia dell’iscrizione a ruolo, sia della notifica delle cartelle stesse. La Commissione tributaria provinciale dichiarava l’inammissibilità del ricorso in quanto, secondo i giudici, le doglianze andavano mosse nei confronti dell’agente della riscossione. Avverso la relativa sentenza, il contribuente proponeva appello con atto notificato ad entrambi i soggetti. Tra i motivi di ricorso, chiedeva la rimessione della causa ai giudici di primo grado, ai sensi dell’art. 59, lett. b, del D.Lgs. 546/1992, a causa della mancata integrazione del contraddittorio in quella fase del giudizio. La Commissione regionale accoglieva, sotto questo profilo, l’appello. In particolare, secondo i giudici, la Commissione di primo grado avrebbe dovuto ordinare l’integrazione del contraddittorio, in quanto la controversia riguardava, sia l’Agenzia delle Entrate, per i fatti attinenti l’iscrizione a ruolo, sia l’agente della riscossione, per i fatti at-

I contribuenti replicano con memoria aggiuntiva depositata il 3 agosto 2007. Motivi della decisione L’appello è fondato e va accolto. La Commissione di primo grado avrebbe dovuto ordinare l’integrazione del contraddittorio, in quanto la domanda del ricorrente e quindi la causa era nei confronti sia dell’Agenzia delle Entrate, per i fatti attinenti l’iscrizione a ruolo, sia del concessionario della riscossione, per i fatti attinenti la notifica della cartella esattoriale, mentre era stata chiamata in causa la sola Agenzia delle Entrate. Non ricorrevano quindi le condizioni per la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso, in quanto la conseguenza della decisione della causa, senza la presenza del concessionario, sarebbe stata che la sentenza non avrebbe esplicato effetto nei suoi confronti, ma solo nei confronti dell’Agenzia presente in giudizio. Ai sensi dell’art. 59, comma 1, lett. b, citato, la Commissione deve rimettere la causa alla Commissione provinciale perché il contraddittorio non è stato regolarmente costituito né integrato. Le spese del presente grado di giudizio vanno compensate.

tinenti la notifica della cartella esattoriale. Non ricorrevano quindi le condizioni per la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso (cfr. Comm. trib. reg. Lazio, 10 maggio 2006, n. 19, in banca dati fisconline). A tal proposito, secondo un ricorrente orientamento giurisprudenziale, nel diverso caso in cui le doglianze concernano vizi riconducibili all’attività del solo ente impositore (come la tardività dell’iscrizione a ruolo), il ricorso dovrebbe essere proposto esclusivamente nei confronti di quest’ultimo (cfr. Comm. trib. reg. Lazio, 17 febbraio 2007, n. 17, in banca dati fisconline; Cass., 18 marzo 2004, n. 5476, in banca dati fisconline; Cass., 14 febbraio 2007, n. 3242, in banca dati fisconline; Comm. trib. reg. Lazio, 26 marzo 2007, n. 201, in banca dati fisconline. Sull’argomento, MANGIAVACCHI, La chiamata in causa del soggetto non legittimato rende inammissibile il ricorso senza possibilità di integrazione del contraddittorio, commento a Comm. trib. reg. Lazio, 7 febbraio 2007, n. 17, in banca dati fisconline). Il D.Lgs. 546/1992 attribuisce, infatti, all’agente la qualità di parte nel processo solamente nei casi in cui la controversia concerna errori ad esso imputabili (riguardanti, ad esempio, la compila-


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zione o intestazione della cartella di pagamento oppure la notifica della stessa). In caso contrario, se detto soggetto venisse chiamato in causa, potrebbe eccepire il difetto di legittimazione passiva e chiedere la sua estromissione dalla causa, con ogni ovvia conseguenza in ordine alle spese processuali (cfr. Cass., 12 luglio 2005, n. 14668, in banca dati fisconline). Va da sé che, in caso di impugnazione della cartella per vizi riconducibili al solo agente, legittimato passivo è unicamente quest’ultimo, non ponendosi, quindi, problematiche concernenti l’integrazione del contraddittorio (cfr. Cass., 6 maggio 2002, n. 6450, in banca dati fisconline; Comm. trib. reg. Lazio, 20 settembre 2006, n. 100, in banca dati fisconline; Comm. trib. reg. Lazio, 7 febbraio 2007, n. 17, cit. secondo cui, nell’ipotesi di vizi propri della cartella, qualora il ricorso introduttivo non sia stato proposto nei confronti del concessionario della riscossione l’impugnazione va dichiarata inammissibile, senza che possa essere disposta in sede di appello la rimessione della causa al primo grado per l’integrazione del contraddittorio). Si veda infine Cass., sez. un., 25 luglio 2007, n.

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16412, in Giur. It., 2008, 499, con nota di MARELLe sezioni unite sanciscono la nullità dell’avviso di mora non preceduto da cartella di pagamento. Secondo le sezioni unite, qualora la notifica dell’avviso di mora non sia stata preceduta dalla notificazione della cartella di pagamento, il contribuente può impugnare solo l’avviso di mora facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto oppure impugnare con l’atto consequenziale anche l’atto presupposto (non notificato), per ottenere una pronuncia che non esaurisca i propri effetti nella dichiarazione di annullamento dell’atto successivo, ma si estenda all’atto presupposto, investendo radicalmente la pretesa dell’amministrazione finanziaria. Sostengono inoltre le sezioni unite che l’impugnazione dell’avviso di mora, proposta deducendo l’omessa notifica della cartella di pagamento, può essere promossa dal contribuente indifferentemente nei confronti dell’ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi un’ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l’ente creditore.

LO,

Commissione tributaria di II grado di Trento, sez. I, 14 novembre 2007, n. 110 Presidente e Relatore: Patumi Processo tributario - Spese di giudizio - Presupposti della responsabilità aggravata - Lite temeraria - Fattispecie - Sussistenza (C.p.c., art. 96; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15) È applicabile l’art. 96 c.p.c. in tema di responsabilità aggravata per lite temeraria nel caso di un contribuente che già abbia subito il rigetto delle istanze di sospensione dell’esecuzione delle sentenze di primo grado, rigetto degli appelli, condanna per lite temeraria, e tuttavia continui pervicacemente ad appellarsi agli organi di giustizia tributaria al solo fine di procrastinare l’adempimento dell’obbligazione tributaria, con la verosimile consapevolezza dell’infondatezza della propria azione. Svolgimento del processo Nel corso di una verifica generale a carico degli attuali appellanti, concernente i periodi d’imposta tra il 1995 e il 1999 ai fini delle imposte dirette e indirette, emergevano una serie di violazioni, elencate nel processo verbale di constatazione del 28 aprile 2000.

L’Agenzia delle Entrate di Trento contestava l’evasione totale ai fini Iva e imposte dirette per gli anni 1996, 1997, 1998, emettendo il relativo atto di contestazione delle sanzioni fino al 1998. Considerate le risultanze del citato Pvc, l’Ufficio procedeva, altresì, ad estendere i controlli alle successive annualità. Emetteva, quindi, i conseguenti avvisi di accertamento per gli anni 1999-2002 con relativi atti di contestazione delle sanzioni ivi indicate. L’associazione N., congiuntamente ai sig.ri Z. e D., impugnava dinanzi alla Commissione tributaria di primo grado i citati atti amministrativi, chiedendone l’annullamento e, contestualmente, la sospensione in attesa della definizione di altri procedimenti giudiziari. Si costituiva in giudizio l’Agenzia, confutando le argomentazioni dei contribuenti e chiedendo il rigetto dei gravami. I giudici di primo grado respingevano i ricorsi. A seguito di tale decisione, l’ente impositore emetteva sei cartelle esattoriali, per l’iscrizione frazionata dei due terzi delle somme in contestazione, a norma dell’art. 68 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. I contribuenti impugnavano tali cartelle dinanzi


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alla Commissione di primo grado che, con sentenze n. 49/3/06 del 3 aprile 2006 e n. 65/2/06 del 16 novembre 2006, respingeva il gravame con la prima e lo dichiarava inammissibile con la seconda. Con due atti di appello depositati il 29 giugno 2007, il sig. Z. e la società N. impugnano tale pronuncia chiedendone la riforma con condanna alle spese di causa. Si costituisce in giudizio l’Agenzia delle Entrate con atti depositati il 12 ottobre 2007, contestando: - preliminarmente l’originalità della sottoscrizione degli appelli notificati, che risulta in copia fotostatica; - inammissibilità per violazione dell’art. 53, comma 1, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; - inammissibilità degli appelli per carenza assoluta di contestazioni relative a vizi propri della sentenza impugnata; - la responsabilità aggravata per lite temeraria, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., degli appellanti; Con atto depositato il 21 novembre 2007, l’Agenzia chiede la pubblica udienza. Motivi della decisione I cd. atti di appello consistono in una disordinata e sconclusionata accozzaglia di doglianze metagiuridiche, di affermazioni prive di qualsiasi riscontro, con arditi richiami ad una fantomatica “giurisprudenza costante della Suprema Corte”. Cosa significa, per esempio, «[...] il richiamo ad atti (quali?) sconosciuti ai ricorrenti, la mancanza di contraddittorio, la violazione e la falsa applicazione di legge (quale legge?), rappresentano ulteriori vizi [...]»? Il Collegio, probabilmente poco esperto in procedura penale, non conosceva – ed è lieto di apprenderlo dagli appellanti – che la Procura della Repubblica di Trento, in materia di accessi domiciliari, rilascia delle «dichiarazioni formali e pro forma (sic!) che non autorizzavano certo gli accessi presso l’abitazione di D. G. e presso l’associazione N.». Ma se i militari della Guardia di Finanza, con la “dichiarazione formale e pro forma” della Procura della Repubblica non erano autorizzati ad accedere ai due citati siti, cosa potevano fare: accedere alla casa parrocchiale o alla più vicina farmacia? Nella sua memoria di costituzione, l’Agenzia chiede, tra l’altro, che sia dichiarata, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., la temerarietà della lite, da parte dell’appellante, con «liquidazione del danno da risarcire, quantificato in euro 50.000,00 o in diversa misura» da determinarsi dal Collegio. Tale richiesta è stata già altre volte rivolta a questa Commissione, sempre per gravami prodotti

dagli attuali appellanti, ricevendone un riscontro positivo (ex pluribus: sent. n. 14/05 e 45/06). Il Collegio osserva che, in linea di diritto: - la domanda è ammissibile nel processo tributario (Cass. civ., 27 ottobre 1999, n. 12070), anche in mancanza di un’analitica dimostrazione dei danni subiti (Cass. civ., sez. III, 28 novembre 1987, n. 8872, secondo cui i danni devono essere «liquidati nella stessa sentenza che decide il merito della causa, secondo le prove fornite all’uopo dalla parte o anche d’ufficio dal giudice sulla base delle risultanze di causa o secondo nozioni di comune esperienza o in via equitativa»); - quanto al concetto di “temerarietà”, afferma Cass., 21 luglio 2000, n. 9579: «Il carattere temerario della lite, che costituisce ulteriore presupposto della condanna al risarcimento dei danni, accanto alla totale soccombenza e all’esistenza di un danno, va ravvisato nella coscienza dell’infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta consapevolezza, non già nella mera opinabilità del diritto fatto valere»; nello stesso senso, Cass. civ., sez. un., 30 settembre 1989, n. 3948, che afferma: «Perché una parte possa essere condannata al risarcimento del danno a titolo di responsabilità processuale aggravata per lite temeraria (art. 96, comma 1, c.p.c.), sono necessari i seguenti requisiti: totale soccombenza e mancato doveroso impiego di quella diligenza che consenta di avvertire facilmente l’ingiustizia della propria domanda». Orbene, si consideri che i contribuenti in questione hanno già ottenuto: - il rigetto, da parte della Commissione di primo grado, di tutti i loro ricorsi; - da parte di questa Commissione: > il rigetto delle loro istanze di sospensione dell’esecuzione delle sentenze di primo grado; > il rigetto degli appelli sin qui prodotti (ex pluribus: sent. n. 14/05 e 45/06); > la condanna per lite temeraria per tali appelli. Allora, delle due l’una: o siamo in presenza di una macroscopica “coscienza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute” e quindi di un “mancato doveroso impiego di quella diligenza che consenta di avvertire facilmente l’ingiustizia della propria domanda”, oppure c’è un complotto ai danni degli attuali appellanti! La verità è che i due citati contribuenti hanno cercato e cercano tuttora di procrastinare un redde rationem, per loro inevitabile, facendo ricorso pervicacemente a tutti i rimedi che il nostro ordinamento consente: ma in tal modo provocano un ingiustificato superlavoro agli uffici finanziari e


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intasano la già poco scorrevole macchina della giustizia tributaria. P.Q.M.

soccombenza e si liquidano in euro 7.662,00 (settemilaseicentosessantadue/00) tutto compreso, più euro 50.000,00 (cinquantamila/00) per lite temeraria.

Respinge gli appelli riuniti. Le spese seguono la

Nota La Commissione tributaria di II grado di Trento, nel pronunciare la condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.c., si pone sulla scia dell’orientamento dottrinale e giurisprudenziale, oggi decisamente prevalente, in tema di responsabilità da lite temeraria che riconosce l’applicabilità dell’istituto in ambito tributario (sul punto da ultimo DALLA BONTÀ, Condanna dell’amministrazione finanziaria al risarcimento del danno per argomentazioni inopportune, in Riv. Giur. Trib., 2007, 607, ove ampi riferimenti alla dottrina tributaria e processuale). Nonostante attenta dottrina avesse ipotizzato l’applicabilità al processo tributario della condanna per lite temeraria anche con riferimento alla normativa previgente (CONSOLO, Le spese processuali e la responsabilità da lite temeraria davanti ai giudici tributari e amministrativi: riflessioni indotte dalla altalenante giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1988, I, 3516), l’amministrazione finanziaria, anche dopo la riforma del contenzioso tributario, contestava l’applicabilità dell’art. 96 al processo tributario per due ordini di ragioni: il silenzio della legge delega, la quale non menzionava l’istituto della responsabilità processuale aggravata, ma solo il regime delle spese di giudizio secondo il principio della soccombenza, e il mancato richiamo dell’istituto nell’articolo 15, D.Lgs 546/92 (cfr. circ. 23 aprile 1996, n. 98. Conforme alla posizione dell’amministrazione si veda Comm. trib. prov. Parma, 19 novembre 2003, n. 74, in www.giustiziatributaria.it/banca_dati, con nota di PALACCHINO, Giudizio tributario e responsabilità per illecito processuale). Successivamente l’amministrazione, se pur a livello periferico, ha mutato parzialmente opinione (circ. Dir. reg. Entrate Lazio, 19 giugno 2000, ove però si ritiene competente per accertamento del danno da lite temeraria non la Commissione tributaria, ma il giudice ordinario. Contraria all’instaurabilità di un giudizio separato vedi DALLA BONTÀ, Condanna, cit., 610). La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza di merito (BELLÈ, Le spese di giudizio, in Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tribu-

tario., a cura di Tesauro, 1998, 322; ZENATI, Risarcimento del danno per lite temeraria anche nelle controversie tributarie, in Corr. Trib., 2001, 43; FICARELLI, L’istituto della responsabilità processuale aggravata nel processo tributario, in Riv. Giur. Trib., 2003, 1086. Per la giurisprudenza di merito si veda Comm. trib. reg. Lombardia, sent. 3 maggio 2006, n. 65; Comm. trib. reg. Campania, sent., 30 dicembre 2003, n. 973; Comm. trib. prov. Cosenza, sent. 26 agosto 1999, n. 179) invece, come premesso, non trovano ragioni d’incompatibilità tra l’articolo 96 c.p.c. e il contenzioso tributario. E la circostanza che l’articolo 15 del D.Lgs. 546/92 non richiami espressamente la norma del Codice di procedura non è considerata una valida ragione per impedirne l’applicazione poiché, vista la sua natura di pronuncia accessoria rispetto a quella che risolve la controversia, viene attratta sotto la giurisdizione della Commissione tributaria in forza del dettato dell’articolo 2, D.Lgs. 546/92 (in tal senso SPATARO, Il principio della soccombenza ed il risarcimento del danno per lite temeraria nel processo tributario, in Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, 2007, www.rivista.ssef.it). L’articolo 96, comma 1, c.p.c. richiede per la sussistenza della responsabilità aggravata i seguenti requisiti: la soccombenza totale, l’aver agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, l’aver causato all’altra parte un danno concreto ed effettivo (cfr. LOVISETTI, Commento all’art. 15, in CONSOLO-GLENDI, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2005, 139). Il primo requisito nella vicenda all’esame della Commissione trentina è indubbio; anzi i giudici ricostruiscono anche i precedenti processuali del contribuente caratterizzati dalla soccombenza in primo e secondo grado di tutti i ricorsi proposti. Gli stessi precedenti processuali, a giudizio della Commissione, costituiscono anche il presupposto per l’esistenza del requisito della malafede. E invero i giudici trentini ravvisano un uso strumentale dei mezzi processuali; il contribuente, nel tentativo di procrastinare sine die l’adempimento dell’obbligazione tributaria ha utilizzato impropriamente e con meri intenti dilatori gli strumenti messi a disposizione dal sistema contenzioso.


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La circostanza, messa in evidenza dalla Commissione, che il contribuente abbia ottenuto il rigetto dei ricorsi in primo grado, il rigetto delle istanze di sospensione dell’esecuzione delle sentenze di I grado, il rigetto degli appelli e la condanna per lite temeraria sulle medesime questioni, anche se per diversi anni d’imposta, integra il presupposto di chi agisce con la «consapevolezza di resistere ad una pretesa con la consapevolezza di avere torto» (così CALVOSA, La condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1954, 403). Il terzo requisito, ovvero l’aver causato all’altra parte un danno concreto ed effettivo è forse quello più difficile da dimostrare e soprattutto da quantificare. Mentre parte della giurisprudenza sul punto è alquanto rigorosa, altre pronunce hanno ritenuto possibile ricorrere anche a nozio-

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ni di comune esperienza quali il dispendio di tempo ed energie per approntare le difese od operare una quantificazione in via equitativa (cfr. ancora LOVISETTI, Commento, cit., 139, ove ampi riferimenti giurisprudenziali. Interessante al proposito la sentenza del Tribunale di Roma, sez. VI, 18 ottobre 2006 che sul punto della quantificazione del danno ha osservato che «se l’articolo 96 c.p.c. inserendosi nel contesto della disciplina aquiliana risponde essenzialmente ad una logica risarcitoria, ciò non esclude che la stessa disposizione manifesti anche una – assolutamente evidente – funzione sanzionatoria di una condotta riprovevole e dannosa per l’intera collettività [...] ecco allora che la liquidazione del danno ben può essere effettuata in applicazione dei medesimi parametri che la giurisprudenza applica in caso di applicazione della cd. legge Pinto»).

Commissione tributaria provinciale di Genova, sez. XIII, 29 novembre 2007, n. 400 Presidente: Di Noto - Estensore: Simonazzi Processo tributario - Parti - Controversia catastale relativa ad area condominiale - Notifica al condominio - Legittimazione ad agire dell’amministratore - Difetto di conferimento di specifico potere - Esclusione della legittimazione (C.c., artt. 1130 e 1131; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 10) Il ricorso proposto dall’amministratore condominiale in impugnazione dell’avviso di classamento e attribuzione di rendita notificato al condominio e relativo ad un’area comune va respinto per difetto di legittimazione ad agire, se all’amministratore non è stato conferito specifico potere di impugnazione dal regolamento di condominio o dall’assemblea. Svolgimento del processo L’Agenzia del Territorio - Ufficio provinciale di Genova con l’avviso indicato in epigrafe notificava al condominio [...] il classamento dell’unità immobiliare sita nel Comune di Genova [...] e la relativa attribuzione di rendita. In particolare classava l’unità immobiliare nel modo seguente: zona censuaria 1, categoria C/6, classe 4, consistenza 9 mq, rendita euro 47,88. Avverso questo avviso di classamento il sig. [...], nella sua qualità di amministratore del condominio [...], ha presentato ricorso. Chiede, con l’unico complesso motivo, l’annullamento dell’impu-

gnato «avviso di attribuzione di rendita [...] con ritorno allo stato precedente dei fatti». Precisa che «la richiesta di cambio di destinazione di area condominiale indivisa a frazionamento in posti auto» venne presentata dall’amministratore in carica senza essere stata in alcun modo deliberata da alcuna assemblea ordinaria e/o straordinaria. L’Agenzia del Territorio - Ufficio provinciale di Genova si è costituita in giudizio. Con le controdeduzioni del 28 marzo 2007, in via preliminare contesta la legittimazione ad agire del ricorrente sul rilievo che manca la delibera del condominio; nel merito chiede il rigetto del ricorso poiché infondato in quanto l’area essendo destinata a parcheggio e quindi utile a produrre un reddito proprio, è da considerarsi “bene comune censibile” a norma dell’art. 56 del D.P.R. n. 114/1949 (regolamento per la formazione del Nceu). L’Agenzia del Territorio ha depositato memoria il 12 novembre 2007. La controversia è stata trattata in camera di consiglio, ex art. 33, D.Lgs. n. 546/92, non avendo almeno una delle parti chiesto la discussione in pubblica udienza. Motivi della decisione Per ragioni di ordine logico occorre esaminare in via preliminare la questione relativa alla legittimazione processuale del ricorrente. L’art. 1130, comma 1, n. 4, c.c. fa obbligo all’amministratore del condominio di «compiere gli atti


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conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio». L’art. 1131 c.c., a sua volta, attribuisce all’amministratore il potere di rappresentanza attiva «nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’articolo precedente o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea». Dal combinato disposto degli artt. 1130 e 1131, comma 1, c.c. si evince che, al di fuori delle ipotesi di maggiori poteri attribuitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore può agire in giudizio senza che occorra un’apposita autorizzazione solo nell’ambito delle attribuzioni conferitegli dalla legge – e propriamente dall’art. 1130 – le quali concernono in generale l’amministrazione ordinaria (Cass. civ., sez. II,

sent. n. 11272 del 22 novembre 1990, rv. 469869). L’impugnazione dell’avviso di attribuzione di rendita catastale all’unità immobiliare in esso descritta non rientra di certo nel novero degli atti conservativi di cui all’art. 1130, comma 1, n. 4, c.c. Il classamento e la conseguente attribuzione della rendita catastale non arrecano infatti pregiudizio alcuno alla parte comune dell’edificio. L’amministratore, quindi, in mancanza dell’autorizzazione dell’assemblea dei condomini non era legittimato a presentare ricorso avverso l’atto impugnato. Il ricorso, poiché proposto da soggetto privo di legittimazione ad agire, deve pertanto essere rigettato.

Nota

tifica avrebbe in effetti dovuto essere eseguita nei confronti dell’amministratore, ai sensi del richiamato art. 1131 c.c. L’amministratore aveva proposto impugnazione in mancanza di previsioni regolamentari al riguardo, e senza essere stato autorizzato dall’assemblea: da qui il rigetto del ricorso per difetto di legitimatio ad causam, posto che – secondo la sentenza in commento – l’atto impugnato non avrebbe arrecato pregiudizio all’area comune censita, e il ricorso non avrebbe quindi potuto considerarsi atto conservativo di diritti ad essa inerenti. Il punto da chiarire concerne dunque la nozione di atto conservativo assunta dall’art. 1130 c.c. La questione è stata per lo più affrontata con riguardo all’esperimento di azioni reali (azione petitoria, actio negatoria o confessoria servitutis) nei confronti di alcuni condomini o di terzi a difesa dei diritti degli altri (o di tutti i) condomini sulle parti comuni dell’edificio: e la giurisprudenza afferma che tali azioni non rientrano nel mancipium dell’amministratore, perché «finalizzate al conseguimento di pronunciamenti aventi ad oggetto la titolarità e il contenuto dei diritti medesimi» (Trib. Roma, 17 luglio 2007, in banca dati JurisData; App. Genova, 3 ottobre 2007, in banca dati JurisData; T.A.R. Lombardia, sez. Brescia, 6 maggio 2005, n. 410, in banca dati JurisData; Cass., 1 ottobre 1997, n. 9573, in Giur. It. Mass., 1997). Sono state altresì escluse dal novero degli atti conservativi attività materiali come la demolizione di una struttura facente parte dei beni comuni (Cass., 23 gennaio 2007, n. 1382, in Arch. loc., 2007, 279) e, più in generale, le condotte non finalizzate alla semplice salvaguardia dell’integrità dell’immobile (Cass., 3 aprile 2007, n. 8233, in Giur. It. Mass., 2007). Quanto alle azioni prive di carattere reale, la giu-

I giudici genovesi affrontano un problema di legitimatio ad causam nel processo tributario che si riaggancia a più generali questioni attinenti all’individuazione dei poteri di rappresentanza (sostanziale e processuale) riconosciuti dalla legge all’amministratore condominiale. Il quadro normativo di riferimento è costituito dagli artt. 1130 e 1131 c.c., che attribuiscono all’amministratore il potere di agire in giudizio al fine di «compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio» e la legittimazione ad essere convenuto «per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio» e a ricevere la notifica dei «provvedimenti dell’autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto»: come emerge dalla lettura di tali disposizioni, la legittimazione passiva è dunque di regola più ampia di quella attiva, perché – pur riguardando anch’essa le sole questioni attinenti alle parti comuni dell’edificio – non è limitata alla conservazione dei relativi diritti, ma si estende a tutte le pretese che, in via giurisdizionale o amministrativa, siano esercitate nei confronti del condominio. Peraltro, l’amministratore può agire in giudizio anche al di fuori dei limiti tracciati dall’art. 1130 c.c., ma solo se l’azione sia contemplata dal regolamento di condominio o autorizzata dall’assemblea. Si veda sul punto in dottrina BRANCA, Comunione. Condominio negli edifici, 6ª ed., in Commentario del codice civile a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, 588 ss. Nella specie, non è chiaro se l’avviso di classamento fosse stato notificato direttamente all’amministratore (la sentenza parla di notifica “al condominio”); trattandosi di attribuzione di rendita ad un’area comune destinata a parcheggio, la no-


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risprudenza ha ad esempio ritenuto atti conservativi, ammettendone la libera proposizione da parte dell’amministratore, il ricorso presentato ex art. 700 c.p.c. per ottenere «non soltanto le necessarie misure cautelari (avuto riguardo a tutti gli atti diretti a conservare l’esistenza delle parti comuni), ma anche il risarcimento dei danni, qualora l’istanza appaia connessa con la conservazione dei diritti sulle parti comuni» (Cass., 22 ottobre 1998, n. 10474, in Giur. It. Mass., 1998), e le azioni promosse «contro comportamenti illeciti posti in essere da terzi», se necessarie «alla salvaguardia dell’integrità dell’immobile» (Cass., 3 aprile 2007, n. 8233, cit.). La nozione di atto conservativo viene quindi intesa in modo piuttosto restrittivo, e circoscritta alle azioni volte a garantire la stabilità e l’integrità materiale dell’immobile: in questo senso, non v’è dubbio che l’impugnazione giurisdizionale di un avviso di classamento non possa considerarsi atto conservativo, appunto perché, come affermato dalla sentenza in esame, il classamento e l’attribuzione di rendita «non arrecano pre-

giudizio alcuno alla parte comune dell’edificio». Il discorso muta però se la conservazione dei diritti dei condomini viene intesa in una diversa e più ampia accezione, che comprenda anche la tutela del diritto a non vedere intaccata la frazione di patrimonio costituita dalla quota di comproprietà dell’edificio e delle relative pertinenze: è chiaro infatti che, in questa differente prospettiva, anche l’attribuzione di una rendita più elevata ai beni comuni può risultare pregiudizievole per i condomini che, per effetto di essa, si trovino obbligati a pagare maggiori imposte. Si tratta di una posizione certamente minoritaria in giurisprudenza, che ha ricevuto però l’autorevole avallo del Consiglio di Stato, il quale ha riconosciuto la legittimazione dell’amministratore del condominio ad impugnare una concessione edilizia rilasciata ad un terzo per la costruzione, nelle immediate adiacenze dello stabile condominiale, di un immobile dal quale potesse conseguire il deprezzamento economico delle parti comuni dell’edificio (Cons. di Stato, sez. V, 30 luglio 1993, n. 812, in Foro It., 1994, III, 286).


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Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. III, 20 dicembre 2007, n. 122 Presidente: Sartea - Relatore: Niglio Riscossione - Liquidazione dell’imposta dovuta in base alle dichiarazioni - Cartella di pagamento - Omessa motivazione - Nullità (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 54-bis e 56) La cartella di pagamento scaturente da somme iscritte a ruolo a seguito di controlli formali della dichiarazione ex art. 54-bis del D.P.R. 633/1972 va motivata. Conseguentemente, ove manchi la motivazione l’atto si pone in contrasto col disposto dell’art. 56, comma 5, del D.P.R. 633/72, la cui inosservanza è espressamente sanzionata con la nullità dell’atto. Svolgimento del processo Con ricorso depositato il 30 marzo 2007 il sig. M. S., titolare della omonima ditta individuale con sede a C. si oppone alla cartella di pagamento notificata il 30 gennaio 2007 con la quale l’Agenzia delle Entrate [...] ha proceduto alla iscrizione a ruolo della somma di euro [...] dovuta a titolo di Iva e accessori con riferimento all’anno di imposta 2002. Il recupero di cui alla predetta iscrizione a ruolo trae origine da un controllo formale ex art. 54-bis del D.P.R. 633/72 della dichiarazione Unico 2003 (periodo d’imposta 2002). Motivi del ricorso: 1) in via preliminare viene eccepita la violazione dell’art. 60 del D.P.R. 633/72, comma 6, il quale prevede (v. art. 17, comma 3, del D.Lgs. 472/97) l’applicazione della sanzione pari al 30 per cento del tributo non versato e prevede altresì l’obbligo da parte dell’Ufficio di emettere invito di pagamento da effettuarsi entro il termine abbreviato di 30 giorni con la riduzione della sanzione al 10 per cento del tributo. L’obbligo dell’emissione dell’avviso bonario, definito “atto di messa in mora” in una consultazione dell’avv. gen. dello Stato riportata dalla circ. min. n. 256/E del 26 settembre 1997, costituisce condizione di procedibilità per la successiva iscrizione a ruolo per cui l’inosservanza di tale precetto impone l’annullamento della cartella impugnata; 2) in via principale viene eccepita la violazione dell’art. 56 del D.P.R. 633/72: la cartella impugnata, in quanto carente di qualsiasi motivazione,

non consente al destinatario di esercitare il proprio diritto di difesa costituzionalmente garantito e, pertanto, deve essere annullata. L’Ufficio, costituitosi con memoria depositata il 16 maggio 2007, replica alle eccezioni del ricorrente osservando che: 1. l’invito al pagamento risulta inoltrato con comunicazione in data 20 settembre 2005 e comunque l’eccezione è da ritenersi infondata per effetto dell’art. 17, comma 3, del D.Lgs. 472/97; 2. l’asserita lesione del diritto di difesa per la omessa motivazione della cartella di pagamento è insussistente: infatti, la cartella contiene a pagina due il motivo della pretesa e, comunque, eventuali vizi formali dell’atto impugnato vanno contestati al concessionario della riscossione, stante la carenza di legittimazione passiva dell’ente impositore; 3. per effetto dell’art. 21 della L. 241/90 l’atto impugnato non può essere annullato in quanto atto vincolato nel suo contenuto: si tratta, infatti, di atto che non avrebbe potuto essere diverso da quello impugnato. In data 8 ottobre 2007 la difesa di parte ricorrente ha depositato, ai fini della trattazione dell’istanza di sospensione della cartella impugnata sotto il profilo del merito, memoria di replica alle controdeduzioni dell’Ufficio con richiesta di produzione in giudizio della ricevuta attestante l’avvenuto ricevimento dell’invito di pagamento, ribadendo la carenza di elementi idonei a giustificare la pretesa di una somma così ingente e precisando, ai fini della carenza di legittimazione passiva, che non è in discussione la regolarità formale della cartella di pagamento, ma la sussistenza del diritto alla pretesa oggetto della stessa. All’odierna pubblica udienza il rappresentante dell’Ufficio ha dichiarato di non essere in grado di produrre la ricevuta attestante l’avvenuto ricevimento dell’invito di pagamento inviato al ricorrente e ha ribadito le conclusioni precisate in sede di costituzione in giudizio, osservando che comunque un semplice accesso del contribuente avrebbe potuto dimostrare la corrispondenza dell’importo iscritto a ruolo con l’ammontare del tributo spettante a rimborso per l’anno precedente ed evitare la presente controversia. Il rappresentante del ricorrente ha prodotto «preavviso telematico di presentazione della di-


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chiarazione e copia di conferma ricezione» e ha ribadito la richiesta di annullamento della cartella impugnata. Motivi della decisione La Commissione, nel prendere atto degli elementi acquisiti nel corso dell’udienza dai quali è emerso che l’iscrizione a ruolo in esame è scaturita da un disguido nella presentazione della dichiarazione Unico 2002 effettuata col sistema telematico, ma non pervenuta all’Ufficio compe-

Nota Nel caso esaminato dai giudici veronesi, il contribuente impugnava una cartella di pagamento scaturente da somme iscritte a ruolo a seguito di un controllo formale della dichiarazione ex art. 54bis, del D.P.R. 633/1972. Tra i motivi di ricorso, deduceva la violazione dell’art. 56 di detto decreto per carenza di motivazione dell’atto e conseguente lesione del diritto di difesa costituzionalmente garantito. L’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate contestava detto assunto, evidenziando che la cartella era correttamente motivata e che, per effetto dell’art. 21 della legge 241/1990, essa non poteva essere annullata in quanto vincolata nel suo contenuto. Osservava, inoltre, che le doglianze concernenti eventuali vizi formali della stessa andavano mosse nei confronti dell’agente della riscossione, stante, a tal proposito, la propria carenza di legittimazione passiva. Su quest’ultimo aspetto, il ricorrente, in sede di memorie difensive, precisava come nella fattispecie non fosse in discussione la regolarità formale dell’atto impugnato, bensì la sussistenza del diritto alla pretesa da esso portata. Nell’accogliere il ricorso, la Commissione – premesso che dagli elementi acquisiti nel corso dell’udienza emergeva che l’iscrizione a ruolo scaturiva da un disguido nella presentazione della dichiarazione, inoltrata in via telematica, ma non pervenuta all’Ufficio – evidenziava la totale carenza di motivazione della cartella che, quindi, si poneva in contrasto con l’art. 56, comma 5, del D.P.R. 633/1972. Per tale ragione la riteneva nulla. I giudici veronesi non prendevano, invece, posizione sulle deduzioni di parte resistente concernenti l’art. 21 della legge 241/1990. Come si vede, la sentenza in rassegna si colloca nell’alveo di quelle decisioni giurisprudenziali volte a ritenere la motivazione un elemento essenziale delle cartelle di pagamento, la cui assen-

tente per la corretta liquidazione della dichiarazione dell’anno successivo (Unico 2003), osserva che la cartella impugnata è totalmente carente di motivazione e, pertanto, si pone in contrasto col chiaro dettato legislativo di cui all’art. 56, ultimo comma, del D.P.R. 633/72, la cui inosservanza è sanzionata con la nullità dell’atto cui fa riferimento. Per quanto precede va accolta la richiesta formulata dal ricorrente in via principale. Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del presente giudizio.

za rappresenterebbe un vizio di validità dell’atto. Trattandosi di atti dell’agente della riscossione, detta conseguenza viene, tuttavia, solitamente ricondotta alla violazione dell’art. 7 dello Statuto del contribuente (cfr. Comm. trib. prov. Lecce, sez. IX, 4 marzo 2008, n. 56; Comm. trib. reg. Veneto, sez. VIII, 8 novembre 2006, n. 56, anche con riferimento al difetto di sottoscrizione, entrambe in banca dati fisconline) che, nel richiamare espressamente l’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sancisce specifici obblighi di motivazione. La citata disposizione dello Statuto pare, invero, avere un ambito di applicazione alquanto ampio, in quanto riferentesi – anche in virtù dell’art. 17 dello stesso Statuto – a tutti gli atti di imposizione e, quindi, anche a quelli promananti dagli agenti (sul punto, cfr. Corte cost., ord. 9 novembre 2007, n. 377. Sull’obbligo di motivazione delle cartelle ex art. 3 della legge 241/1990, cfr. Corte cost., ord. 21 aprile 2000, n. 117; Cass., 12 agosto 2004, n. 15638; Cass., 16 settembre 2005, n. 18385; Cass., 16 settembre 2005, n. 18415, tutte in banca dati fisconline). Alla luce delle modifiche che la legge 11 febbraio 2005, n. 15 ha apportato alla citata legge 241/1990, non appare, tuttavia, chiara la natura del vizio di validità dell’atto conseguente al difetto di motivazione. Infatti, l’art. 7 della legge 212/2000 – a differenza delle disposizioni dell’art. 56 del D.P.R. 633/1972 e dell’art. 42 del D.P.R. 600/1973 – non commina espressamente la nullità quale conseguenza dell’inosservanza dell’obbligo di motivazione. A tal proposito, secondo parte della dottrina (BASILAVECCHIA, La nullità degli atti impositivi; considerazioni su principio di legalità e funzione impositiva, in Riv. Dir. Fin., 2006, I, 366), nel silenzio dell’art. 7, l’invalidità che caratterizza l’atto non motivato non potrebbe essere ricondotta alla nullità. Infatti, nonostante le disposizioni relative all’accertamento nell’Iva e nelle imposte sui redditi impieghino, per il medesimo


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vizio, la nozione di nullità, esse sarebbero applicabili solo agli avvisi di accertamento e non alla generalità degli atti impositivi estranei a tale tipologia. Pertanto, in base a detta impostazione, il silenzio serbato dall’art. 7, non potrebbe che avere il significato di una implicita qualificazione del difetto di motivazione come fattore di mera annullabilità dell’atto. Altra interessante questione, sollevata dalla parte resistente, concerne, poi, l’operare, relativamente al vizio in esame, dell’art. 21-octies, della legge 241/1990, secondo cui non è annullabile il provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato. Sul punto, è stato osservato (TESAURO, L’invalidità dei provvedimenti impositivi, in Boll. Trib., 2005, 19, 1448) come l’operatività della norma andrebbe esclusa, sia nei casi in cui la motivazione del provvedimento fosse espressamente prescritta a pena di nullità, sia in quelli in cui difettasse detta espressa sanzione, in quanto la motivazione atterrebbe, non alla forma, ma al contenuto dell’atto. Quanto, in generale, alla necessità che la cartella di pagamento sia motivata, con specifico riferimento alla fattispecie concernente la liquidazione delle imposte ai sensi dell’art. 36-bis, del D.P.R. 600/1973, si veda Cass., 8 luglio 2005, n. 14414, in Giur. It. Mass., 2005, nonché Cass., 11 giugno 2007, n. 13581, in banca dati fisconline, secondo cui, nell’ipotesi in cui detta liquidazione non si sovrapponga alla dichiarazione del contribuente,

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ma si risolva in una rettifica dei risultati della dichiarazione stessa, che comporti una pretesa ulteriore da parte dell’autorità finanziaria, si sarebbe in presenza di un’attività impositiva vera e propria, per definizione rientrante in quella di accertamento, con la conseguenza che la cartella esattoriale dovrebbe essere motivata mediante tutte le indicazioni idonee a consentire al contribuente di apprestare un’efficace difesa. Sull’argomento, CALIFANO, La motivazione della cartella di pagamento non preceduta da avviso di accertamento, in Dir. e Prat. Trib., 2005, II, 497 ss.; ORSI, Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di (il)legittimità delle cartelle di pagamento, in Fisco, 2007, 28, 4101 ss. Relativamente alla diversa ipotesi in cui la cartella rappresenti, invece, l’atto applicativo di un precedente avviso di accertamento non impugnato e, quindi, definitivo, cfr. Cass., 3 dicembre 2007, n. 25158, secondo cui essa non necessiterebbe di alcuna motivazione «in quanto era da intendersi già conosciuta la presupposta pretesa fiscale poi iscritta a ruolo», in Corr. Trib., 2008, 7, 549 ss., con nota di BASILAVECCHIA, secondo il quale, nonostante in questi casi la cartella e il ruolo, riproduttivi dell’accertamento, non necessitino di una motivazione ampia come quella dell’accertamento stesso, occorrerebbe tuttavia consentire al contribuente di ricostruire le fasi precedenti e la correttezza delle operazioni che hanno condotto all’iscrizione a ruolo. Infatti, solo con la cartella il debitore sarebbe nelle condizioni di conoscere l’esatta consistenza del suo debito, non necessariamente corrispondente alla somma indicata nell’avviso di accertamento.

Commissione tributaria provinciale di Cosenza, sez. I, 31 dicembre 2007, n. 570 Presidente: Ripoli - Relatore: Genise Riscossione - Legittimazione attiva - Ex concessionari partecipati da Equitalia S.p.A. - Qualifica di agenti della riscossione (D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 3) Riscossione - Comunicazione di iscrizione di ipoteca - Omessa indicazione del responsabile del procedimento - Illegittimità (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77; L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7) La riforma attuata con il D.L. 203/2005 ha mutato soltanto il titolo giuridico che legittima l’attività di riscossione da parte di quegli stessi soggetti che, in prece-

denza, svolgevano tale attività in virtù di una concessione e che oggi agiscono quali agenti della riscossione, in quanto partecipati da Equitalia S.p.A. L’obbligo di indicare il responsabile del procedimento, che l’art. 7, comma 2, lett. a, della legge 212/2000 impone all’agente della riscossione e che ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino, nonché la garanzia del diritto di difesa, è da intendersi riferito a tutti gli atti da esso promananti e, quindi, anche alla comunicazione concernente l’avvenuta iscrizione di ipoteca. Svolgimento del processo Con ricorso notificato il 23 marzo 2007 all’Agen-


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zia del Territorio [...] e all’E. S.p.A. [...] e depositato presso la segreteria di questa Commissione tributaria provinciale l’11 aprile 2007, il sig. M. D [...] impugnava la comunicazione di avvenuta iscrizione ipotecaria, notificatagli il 31 gennaio 2007. Allegava parte ricorrente: a) la violazione dell’art. 19, secondo comma, del D.Lgs. 546/92, per la mancanza, nell’atto impugnato, delle indicazioni relative al termine di impugnativa e dell’autorità giurisdizionale da adire; b) l’inesistenza del titolo esecutivo, non essendo state mai notificate le cartelle di pagamento poste a presupposto dell’iscrizione ipotecaria; c) la violazione della legge 241/90 e degli artt. 7 e 8 della legge 212/2000, per l’omessa indicazione dell’avvio del procedimento, dell’ufficio presso il quale ottenere informazioni e del responsabile del procedimento stesso; d) l’abuso d’ufficio, per violazione delle norme sulla motivazione e del principio di proporzionalità; e) la responsabilità dell’Agenzia del Territorio che avrebbe dovuto, prima di eseguire la trascrizione, verificare la regolarità e l’avvenuta notifica delle cartelle di pagamento, presupposto dell’iscrizione; f) l’insussistenza della pretesa creditoria, trattandosi di tributi la cui natura era sconosciuta al ricorrente. Concludeva, pertanto, parte ricorrente chiedendo: 1) in via preliminare, la mancanza di legittimazione attiva dell’E. S.p.A.; 2) la declaratoria di inesistenza giuridica dell’atto impugnato; 3) l’illegittimità dell’eseguita iscrizione ipotecaria; 4) la declaratoria di nullità di quest’ultima; 5) la condanna dell’E. S.p.A. di [...] alla cancellazione, a proprie cure e spese, dell’iscrizione ipotecaria impugnata; 6) la condanna dell’Agenzia del Territorio [...] alla cancellazione dell’ipoteca; 7) la condanna dell’E. S.p.A. [...] al pagamento delle spese di lite, da distrarsi a favore del difensore anticipatario, valutando anche l’ipotesi di lite temeraria; 8) la sospensione ex art. 47, D.Lgs. 546/92 dell’atto impugnato; 9) la trattazione in pubblica udienza della causa. Si costituiva l’E. S.p.A., con memoria del 20 luglio 2007, ribadendo la piena correttezza e legittimità del proprio operato, depositando documentazione riguardante la notifica delle cartelle di pagamento presupposto dell’iscrizione ipotecaria e chiedendo il rigetto del ricorso, con vittoria di spese.

Brevi repliche venivano, poi, depositate dalla parte ricorrente in data 30 ottobre 2007. All’esito della pubblica udienza del 28 novembre, sentito il relatore e il difensore del ricorrente, la causa veniva trattenuta per la decisione. Motivi della decisione Preliminarmente: eccepisce parte ricorrente la mancanza in testa alla Riscossione S.p.A. – oggi Equitalia S.p.A. – e/o all’E. S.p.A. della qualifica di agente della riscossione. Il rilievo risulta infondato. Dall’esame dell’art. 3 del D.L. 203/2005, convertito nella legge 249/2006, sotto la rubrica “Disposizioni in materia di servizio nazionale della riscossione”, si evince: 1) che la riscossione è passata, dal primo ottobre 2006, da una forma di gestione in concessione a enti privati (i concessionari della riscossione, per noi l’E. S.p.A.) ad una direttamente in mano pubblica, attraverso la creazione di una S.p.A. ad hoc, la Riscossione S.p.A. (ora Equitalia S.p.A.); 2) che la Riscossione S.p.A., previa formulazione di apposita proposta diretta alle società concessionarie del servizio nazionale della riscossione, può acquistare una quota non inferiore al 51 per cento del capitale sociale di tali società ovvero il ramo d’azienda delle banche che hanno operato la gestione diretta dell’attività di riscossione, a condizione che il cedente, a sua volta, acquisti una partecipazione al capitale sociale della stessa Riscossione S.p.A.; il rapporto proporzionale tra i prezzi di acquisto determina le percentuali del capitale sociale della Riscossione S.p.A. da assegnare ai soggetti cedenti, ferma restando la partecipazione pubblica in misura non inferiore al 51 per cento; ciò vuol dire che Riscossione S.p.A. può, dunque, acquistare una quota, non inferiore a quella che le possa garantire un totale controllo – attraverso la detenzione della maggioranza assoluta delle azioni –, del capitale sociale delle società concessionarie del servizio di riscossione a condizione, evidentemente a fini di economicità dell’attività pubblica, che queste ultime acquistino azioni delle stessa Riscossione S.p.A. e che tale condizione sia posta unicamente a fini di economia, onde, cioè, evitare di far sborsare, da subito, somme di denaro a Riscossione S.p.A. si evince chiaramente dalle altre disposizioni che prevedono l’acquisto, entro il 31 ottobre 2010, del capitale sociale di Riscossione S.p.A. ceduto ai privati e dell’intero capitale sociale delle società partecipate. (Decorsi ventiquattro mesi dall’acquisto, le azioni della Riscossione S.p.A. così trasferite ai predetti soci


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privati possono essere alienate a terzi, con diritto di prelazione a favore dei soci pubblici. Entro il 31 dicembre 2010, i soci pubblici della Riscossione S.p.A. riacquistano le azioni cedute ai sensi del comma 7 a privati; entro lo stesso termine la Riscossione S.p.A. acquista le azioni eventualmente ancora detenute da privati nelle società da essa non interamente partecipate). Tale procedimento non ha alcuna influenza sull’attività, e i connessi poteri, di riscossione svolta, nel frattempo, da Riscossione e dalle società, ex concessionarie da essa partecipate. Il fatto, dunque, che Riscossione S.p.A. abbia “saltato” il passaggio intermedio della partecipazione al 51 per cento delle società ex concessionarie e sia passata direttamente all’acquisto dell’intero pacchetto azionario di queste ultime risulta ininfluente ai fini dell’attività di riscossione. Aggiunge, infatti, la legge: «Per lo svolgimento dell’attività di riscossione mediante ruolo, la Riscossione S.p.A. e le società dalla stessa acquistate ai sensi del comma 7 sono remunerate [...]. Le società partecipate dalla Riscossione S.p.A. ai sensi del comma 7 restano iscritte all’albo di cui all’articolo 53, comma 1, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se nei loro riguardi permangono i requisiti previsti per tale iscrizione [...]. A decorrere dall’1 ottobre 2006, i riferimenti contenuti in norme vigenti ai concessionri del servizio nazionale della riscossione si intendono riferiti alla Riscossione S.p.A. ed alle società dalla stessa partecipate ai sensi del comma 7 [...]. Ai fini di cui al capo II del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, la Riscossione S.p.A. e le società dalla stessa partecipate ai sensi del comma 7 sono equiparate ai soggetti pubblici; ad esse si applicano altresì le disposizioni previste dall’articolo 66 dello stesso decreto legislativo n. 196 del 2003». Il legislatore, dunque, ha inteso riformare il servizio pubblico della riscossione, riportandolo nell’alveo della gestione diretta, salvaguardando i soggetti che avevano svolto tale funzione fino ad oggi; e così da un lato ha previsto il controllo di tutta l’attività di riscossione da parte di Riscossione S.p.A., sia attraverso il diretto compimento di atti, sia attraverso la partecipazione maggioritaria, o totalitaria, al capitale sociale degli ex concessionari della riscossione, e dall’altro ha conservato la soggettività giuridica e la capacità di agire di questi ultimi. Riscossione S.p.A., dunque, è stata concepita, e agisce e opera, come una holding company. Ne consegue che l’attività di riscossione, nel caso in esame, può continuare ad essere svolta dall’E. S.p.A., atteso che, con la riforma risulta

essere cambiato solo il titolo giuridico che legittima tale attività e non anche i soggetti. Prima l’E. S.p.A. svolgeva tale servizio in virtù di una concessione, ora quale agente della riscossione, in quanto partecipata di Riscossione S.p.A. Fondato risulta, invece, essere il motivo di ricorso di cui al punto c) della narrativa. Dispone l’art. 7, II comma, lett. a, della legge 212/2000, che: gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione (oggi agenti, vedasi legge 248/2005) devono tassativamente indicare: a) l’ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento. Ha affermato al riguardo la Corte cost., ord. 5 novembre 2007, n. 377 che l’obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, primo comma, Cost. (si veda, ora, l’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, come modificato dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”). L’importante dictum, tra l’altro contenuto in un’ordinanza di manifesta infondatezza della questione di legittimità, che ne accentua ancor di più l’effetto, per così dire, retroattivo, seppure riferito alle cartelle di pagamento non può non riferirsi a tutti gli atti, e, quindi, anche all’iscrizione di ipoteca, del concessionario, ora agente, della riscossione: 1) in primo luogo perché la norma sulla quale si è appuntato il giudizio della Corte cost. riguarda gli atti del concessionario; 2) in secondo luogo perché se riguarda le cartelle di pagamento, le quali sono atti del concessionario che riproducono anche atti che non sono del concessionario – il ruolo – a maggior ragione deve riguardare atti propri ed esclusivi del concessionario, quale il provvedimento di iscrizione ipotecaria. In conclusione, non essendo indicato, nell’atto del concessionario, ora agente, della riscossione il responsabile del procedimento, l’atto impugnato deve ritenersi illegittimo. Ciò non toglie, naturalmente che il concessionario, trattandosi di annullamento per vizio di legittimità, possa procedere


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alla riedizione dell’atto emendato da tale vizio, sempreché sia ancora nei termini. Infine le spese; queste, attesa la complessità delle

questioni trattate, si compensano integralmente tra le parti.

Nota

dell’art. 7, comma 2, lett. a, dello Statuto, secondo cui gli atti dell’autorità finanziaria e degli agenti della riscossione devono tassativamente indicare l’ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato ed il responsabile del procedimento. Evidenziava, poi, come, secondo il recente orientamento della Corte costituzionale (cfr. ord. 5 novembre 2007, n. 377, in banca dati fisconline) l’obbligo imposto agli agenti della riscossione di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, avrebbe lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa. Aspetti, questi, del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione ex art. 97, comma 1, Cost. (cfr. BASILAVECCHIA, commento a Cass., 3 dicembre 2007, n. 25158, in Corr. Trib., 2008, 7, 553, nota 6, il quale evidenzia come, sebbene la Corte costituzionale non abbia espressamente dichiarato invalidante o insanabile la carente indicazione del responsabile del procedimento, la riconduzione dell’obbligo ad esigenze ritenute fondamentali deporrebbe indubbiamente in tal senso). A tal proposito, la Commissione di Cosenza precisava che detta pronuncia (tra l’altro contenuta in un’ordinanza di manifesta infondatezza della questione di legittimità, il che ne accentuerebbe l’effetto retroattivo) non potrebbe non riferirsi a tutti gli atti promananti dall’agente della riscossione e, quindi, anche all’iscrizione ipotecaria. Quanto, nello specifico, alle cartelle di pagamento ed alla necessità che esse contengano l’indicazione del responsabile del procedimento, cfr. Comm. trib. prov. Bari, sez. IV, 14 gennaio 2008, n. 445, in Corr. Trib., 2008, 6, 486; Comm. trib. prov. Lecce, sez. II, 14 gennaio 2008, n. 517, in banca dati fisconline; Comm. trib. prov. Lucca, sez. III, 18 dicembre 2007, n. 163, in banca dati fisconline, secondo cui la mancanza di detta indicazione inficerebbe tutto il procedimento di riscossione. Sull’argomento, si vedano ORSI, Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di (il)legittimità delle cartelle di pagamento, in Fisco, 2007, 28, 4101 ss.; SICILIOTTI, Lo Statuto contro le “cartelle mute”, in Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2008; BASILAVECCHIA, commento a Cass., 3 dicembre 2007, n. 25158, cit.

Nel caso esaminato dai giudici di Cosenza, il contribuente impugnava la comunicazione relativa ad un’avvenuta iscrizione di ipoteca (sulle problematiche concernenti, in genere, l’impugnabilità di tali atti, ex multis, GLENDI, Manovra bis 2006 e giurisdizione tributaria, in Riv. Giur. Trib., 2006, 9, 741 ss.; BRUZZONE, I vizi della notifica dei “fermi di veicoli” e delle “iscrizioni ipotecarie”, in Corr. Trib., 2006, 3717 ss.; CANTILLO, Ipoteca iscritta dagli agenti della riscossione e tutela giudiziaria del contribuente, in Rass. Trib., 2007, 15 ss.; DEL FEDERICO, Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia dell’interesse fiscale e tutela del contribuente, in questa rivista, 2007, 3, 427 ss.; MESSINA, L’iscrizione di ipoteca sugli immobili e il fermo dei beni mobili registrati nella procedura esattoriale e nel processo tributario, atti del convegno Nuove problematiche in materia di riscossione delle imposte, Parma, 18 ottobre 2007, in corso di pubblicazione). Tra i diversi motivi di ricorso, deduceva la violazione della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché degli artt. 7 e 8, della legge 27 luglio 2000, n. 212, a causa dell’omessa indicazione dell’avvio del procedimento, dell’ufficio presso il quale ottenere informazioni e del responsabile del procedimento stesso. Lamentava, altresì, la mancanza della qualifica di agente della riscossione in capo al soggetto che aveva proceduto a detta iscrizione, con conseguente difetto di legittimazione attiva. Preliminarmente, con articolata motivazione, la Commissione rigettava quest’ultima doglianza, precisando che, nell’alveo della recente riforma concernente l’attività di riscossione, di cui al D.L. 30 settembre 2005, n. 203, il legislatore ha conservato la soggettività giuridica e la capacità di agire dei soggetti che rivestivano la qualifica di concessionari, mutando solo il titolo legittimante la riscossione. In particolare, il soggetto che aveva iscritto l’ipoteca (che, in precedenza, svolgeva la propria attività in virtù di una concessione) agiva oggi nella qualità di agente, in quanto partecipato dalla società (Riscossione S.p.A., oggi Equitalia S.p.A, concepita come una holding company) avente il controllo di tutta l’attività di riscossione. Considerava, invece, fondata l’eccezione concernente la mancata indicazione del responsabile del procedimento, ritenendo, quindi, illegittimo l’atto impugnato. Richiamava, sul punto, il disposto


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In senso contrario, cfr. Comm. trib. prov. Lecce, sez. IX, 4 marzo 2008, n. 56; Comm. trib. prov. Venezia, sez. XIV, 17 gennaio 2008, n. 49, entrambe in banca dati fisconline, che esclude che l’omessa indicazione possa recare, quale conseguenza, la nullità dell’atto. Secondo detti giudici, il generale principio della nullità degli atti rappresenterebbe una sanzione così grave da dover essere espressamente prevista dal legislatore (nello stesso senso, cfr. LAMEDICA, Riscossione: illegittimità della cartella di pagamento, in Corr. Trib., 2008, 6, 463, il quale evidenzia l’assenza nell’ordinamento di disposizioni che comminino la nullità della cartella quale conseguenza dell’inosservanza dell’obbligo in esame. Contra, FORTUNA, La valenza giuridica della cartella priva di sottoscrizione e senza l’indicazione del responsabile del procedimento, in Fisco, 2007, 44, 6363 ss., nel senso che, se un obbligo è tassativo, non si vede come sia possibile negare la nullità dell’atto nell’ipotesi di sua

inosservanza, «visto che la previsione espressa della nullità per l’eventualità dell’omissione appare certamente equipollente alla formale prescrizione di tassatività dell’obbligo, se e quando questo rimanga inosservato»). In una posizione, in qualche modo, intermedia si colloca Comm. trib. prov. Milano, sez. XLI, 6 dicembre 2007, n. 510, in banca dati fisconline, secondo cui la censura relativa alla mancata indicazione del responsabile del procedimento dovrebbe essere considerata collegata e funzionale al diritto di difesa «e non una sola affermazione apodittica». I giudici milanesi respingevano, quindi, l’eccezione del ricorrente «perché nel caso in esame il diritto alla difesa [...] non [...] è stato leso». Sul punto, si veda LAMEDICA, Riscossione: illegittimità della cartella di pagamento, cit., 463, per il quale, nel caso in cui dall’omessa indicazione del responsabile derivasse, in concreto, detta lesione, si potrebbe, al più, parlare di annullabilità.


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ATTI E INTERVENTI LA GIURISPRUDENZA DELLA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI MODENA IN TEMA DI VERIFICHE FISCALI E ACCERTAMENTO TRIBUTARIO di Roberto Cigarini

1. Premessa - 2. Sentenze in materia di attività istruttoria - 3. Sentenze in materia di avviso di accertamento - 4. Questioni processuali - 5. Notazioni conclusive 1. Premessa Abbiamo esaminato un campione di 66 sentenze emanate dalla Commissione tributaria provinciale di Modena negli ultimi due anni su verifiche e accertamento tributario. Le sentenze di accoglimento del ricorso sono 38, 9 le sentenze di accoglimento parziale e 19 le sentenze di rigetto. La condanna alle spese è avvenuta in cinque casi, uno dei quali anche contro l’Agenzia. Diremo al termine di questo intervento come possa essere spiegata questa percentuale non modesta di accoglimenti. Abbiamo raggruppato il materiale raccolto sotto un triplice ordine di argomenti. Il primo è relativo all’attività istruttoria, il secondo agli avvisi di accertamento, il terzo ad alcune questioni di carattere processuale, tra cui segnatamente la questione delle presunzioni. Con questa sistemazione intendiamo anche attribuire omaggio a quella posizione dottrinale che assegna alle presunzioni di ogni ordine la natura di norme processuali1. 2. Sentenze in materia di attività istruttoria 2.1 Accessi, ispezioni e verifiche In materia di accessi l’unica sentenza che abbiamo rinvenuto era relativa ad un caso in cui l’acquisizione della documentazione riguardante un’associazione sportiva era avvenuta presso l’abitazione del legale rappresentante dell’associazione stessa, e ciò nonostante l’autorizzazione all’accesso fosse limitata alla sola sede sociale.

1 Cfr. TESAURO, Le presunzioni nel processo tributario, in Le presunzioni in materia tributaria, a cura di Granelli, Rimini 1987, 43 ss. 2 Sez. VI, sent. 16 novembre 2005, n.

La Commissione, seppure con motivazione apodittica, ha ritenuto legittima l’acquisizione2. 2.2 Sentenze relative a modalità e tecniche di indagine tributaria Più numerosi sono i provvedimenti che riguardano i metodi di indagine tributaria e di ricostruzione induttiva dei ricavi. 2.2.1 Il cd. sistema Vies Non poche sentenza hanno dovuto occuparsi dell’attendibilità del cd. sistema Vies il sistema di scambi automatici tra le amministrazioni finanziarie degli Stati membri dell’Unione europea attivo dall’1 gennaio 1993 per il controllo delle transazioni commerciali in ambito comunitario e dei soggetti passivi Iva che le pongono in essere. Gli accertamenti impugnati riguardavano il rilevamento di operazioni commerciali con soggetti comunitari risultati inesistenti alla data di emissione delle fatture o aventi codice Iso sconosciuto. La Commissione ha preso atto che nella relazione annuale per l’anno 2000 del Servizio consultivo e ispettivo tributario costituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Secit), il sistema Vies veniva segnalato come talora difettoso per la presenza di errori di registrazione e di dichiarazione cosicché, secondo la Commissione, l’Ufficio non avrebbe dovuto limitarsi a recepire le informazioni provenienti dal sistema informativo ma accertare l’effettiva esistenza della cessione intracomunitaria e della soggettività Iva delle parti contraenti nell’ambito dei rispettivi Paesi dell’Unione europea. Mancando tale prova gli avvisi relativi sono stati annullati3.

126, presidente ed estensore Poggi. 3 Sez. VII, sent. n. 91 del 19 maggio 2006, presidente Tardino, estensore Scicchitano; sez. VI, sent. 22 maggio 2006, n. 62, presidente Cigarini,

estensore Brighenti; sez. I, sent. 30 settembre 2005, n. 75, presidente de Marco, estensore Alfieri; sez. III, sentenza 22 aprile 2005, n. 29, presidente Bruschetta, estensore Mottola.


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2.2.2 Metodi di ricostruzione induttiva dei ricavi: a) il cd. “Tovagliometro” Sul metodo di ricostruzione induttiva dei ricavi noto, in gergo, come “Tovagliometro” la Commissione modenese è divisa. La sezione VII lo ha ritenuto legittimo, in linea del resto con la giurisprudenza della Corte di Cassazione4. Il titolare di un ristorante aveva eccepito che il solo dato costituito dal numero dei tovaglioli lavati non offre una presunzione grave, precisa e concordante relativa al numero dei pasti consumati poiché non tiene conto dei tovaglioli utilizzati dal personale di servizio oppure impiegati per usi diversi, quali ad esempio l’addobbo di un cestino per contenere pane o tigelle. La Commissione ha salvato la presunzione operando però una riduzione equitativa del 10% dei maggiori ricavi accertati dall’Agenzia al fine di tenere conto dei tovaglioli lavati senza effettivo uso o utilizzati per altri scopi o impiegati dal personale di servizio5. La sezione I ha invece accolto un orientamento opposto6. Il metodo del “Tovagliometro” non è stato considerato attendibile mancando dei caratteri di gravità, precisione e concordanza7. 2.2.3 Segue: b) il metodo del cd. “monte ore” È stata ritenuta lecita anche la modalità di accertamento basata sul cd. “monte ore” per la determinazione di maggiori ricavi non dichiarati da una parrucchiera. L’Agenzia, a seguito di accesso, ispezione e verifica, aveva determinato il numero di ore presumibilmente impiegate nel servizio delle clienti nell’arco di 225 giorni lavorativi all’anno e di otto ore giornaliere. Il monte di 1.080 ore è stato quindi distribuito su dodici differenti tipi di servizio sulla base dell’incidenza percentuale dedotta dalle ricevute fiscali emesse. Le ore dedicate ad ogni tipo di servizio sono quindi state suddivise per il tempo di durata media della singola prestazione. Si è così ottenuto il numero di prestazioni presuntivamente eseguite le quali, confrontate con il numero di prestazioni risultante dalle ricevute fiscali, hanno consentito di ottenere, in base alla tariffa praticata dalla parrucchiera, l’am-

4 Cfr. Cass. civ., sez. I, 11 dicembre 1998, n. 12482, M.T.B. c. Min. Fin. Trib., 1998, 1644. 5 Sez. VII, sent. 4 aprile 2006, n. 49, presidente Nardi, estensore Mottola. 6 Sez. I, sent. 6 luglio 2007, n. 206, presidente de Marco, estensore Previdi.

montare dei ricavi non dichiarati. La Commissione ha accolto il ricorso osservando che l’Agenzia non ha tenuto conto nel proprio accertamento dei motivi di salute e dei problemi familiari che la ricorrente aveva allegato per giustificare la riduzione delle ore di lavoro effettuate nel periodo d’imposta, considerato anche il fatto che tutti i controlli svolti dall’Agenzia non avevano rilevato alcuna violazione relativa al mancato rilascio della ricevuta fiscale8. 2.2.4 Segue: c) calcoli relativi ad esercizi di bar La ricostruzione induttiva dei ricavi di un bar ha avuto inizio dalla mancata indicazione di acquisti di latte. In sede di verifica tutto il caffè in grani consumato è stato imputato alla tipologia caffè in tazzina e non a quella di cappuccino, nonostante detta tipologia apparisse nella scontrinazione unitamente a quelle di latte macchiato e cioccolato. La Commissione ha ritenuto questo procedimento idoneo alla «verosimile ricostruzione degli imponibili»9 e ha quindi respinto il ricorso. 2.2.5 Segue: d) le pubblicazioni free press Un’interessante sentenza riguarda le pubblicazioni cd. free press. A seguito di una segnalazione dell’Associazione nazionale stampa periodica secondo la quale diversi editori diffondevano periodici a titolo gratuito in evasione dell’Iva10, la Guardia di Finanza aveva effettuato accertamenti a scandaglio presso edicole modenesi constatando che il costo di ciascuna copia di periodici free press aveva un valore commerciale di circa un euro. Ricavato quindi il numero di copie prodotte e moltiplicatolo per 1 euro aveva accertato un maggiore imponibile di quasi 13 milioni di euro e quindi Iva non dichiarata e non versata per oltre 500 mila euro. La Commissione ha annullato l’avviso impugnato per motivi di fatto e di diritto. Innanzitutto essa ha ritenuto inattendibile nel suo complesso il procedimento di indagine poiché era emerso che la Guardia di Finanza aveva di fatto limitato il proprio accertamento ad una sola edicola e aveva omesso anche la menzione dei titoli delle testate, mentre l’Ufficio aveva allegato

7 Il rapporto 1:1 non tiene conto – afferma la sentenza – dei tovaglioli utilizzati per il cestino del pane. Nemmeno l’abbattimento del 15% operato dall’Agenzia è valso a respingere il ricorso poiché nel caso di specie gli studi di settore offrivano risultati di congruità e coerenza.

8 Sez. VII, sent. 28 ottobre 2005, n. 99, presidente Tardino, estensore Roteglia. 9 Sez. VI, sent. 13 luglio 2006, n. 125, presidente Cigarini, estensore Roteglia. 10 Cfr. l’art. 2, comma 2, n. 4, del decreto Iva relativo alle cessioni gratuite.


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soltanto nel corso del processo le pubblicazioni “Modena affari” e “Vivo Modena”. In diritto però la Commissione ha ritenuto che i periodici free press, pur avendo la forma di periodici di informazione, fungono, nella sostanza, da veicoli per la trasmissione di pubblicità e quindi il rapporto giuridico da considerare ai fini Iva è soltanto quello tra inserzionisti pubblicitari e impresa editrice. Il rapporto tra l’impresa editrice e colui che riceve la copia gratuita, costituirebbe invece soltanto una modalità di adempimento del primo contratto11. 3. Sentenze in materia di avviso di accertamento Passiamo ora ai provvedimenti riguardanti in modo specifico l’avviso di accertamento. 3.1 Sull’obbligo di motivazione Il primo nucleo di problemi concerne l’obbligo di motivazione. L’orientamento della Commissione non è apparso, sul punto, univoco. Circa la possibilità di motivazione per relationem alcune sezioni ritengono che sia legittimo il mero richiamo al processo verbale di constatazione12. L’eventuale inesistenza del processo verbale di constatazione, perché mancante di sottoscrizione, non inficia di nullità il successivo avviso di accertamento se è valido il processo verbale di accesso e se l’avviso di accertamento si limiti a richiamare l’atto inesistente per integrare, ad abundantiam, la motivazione13. Altre sezioni stanno invece consolidando un orientamento più rigido secondo il quale l’obbligo generale di motivazione degli avvisi di accertamento assume un particolare connotato quando l’attività istruttoria dell’Ufficio ha comportato il coinvolgimento del contribuente, nella trasmissione di documenti o nella risposta ad un questionario. L’Ufficio – secondo questo orientamento – ha

11 Sez. III, sent. 27 settembre 2005, n. 94, presidente ed estensore Pederiali. Cfr. anche sez. IV, sent. n. 50 del 27 marzo 2006, presidente De Robertis, estensore Iurilli. 12 Sez. VII, sent. 10 maggio 2005, n. 23, presidente Tardino, estensore Roteglia; sez. I, sent. 23 gennaio 2007, n. 208, presidente de Marco, estensore Previdi. 13 Sez. VII, sent. 19 luglio 2005, n. 73, presidente Nardi, estensore Roteglia. 14 Sez. VI, sent. 22 agosto 2006, n. 120, presidente Cigarini, estensore Brighenti; sez. VII, sent. 2 maggio 2006, n. 76, presidente Nardi,

l’obbligo di motivare in ordine alle ragioni che hanno portato a ritenere non rilevanti o comunque infondate le osservazioni preventivamente trasmesse dal contribuente o le risposte fornite nella compilazione del questionario. L’omissione di motivazione sulle ragioni del contribuente si risolve in vizio che comporta l’annullamento dell’atto impugnato per carenza di motivazione14. In un caso la Guardia di Finanza aveva contestato al contribuente la mancata indicazione di un reddito di capitale asseritamente derivante da un’operazione di finanziamento. Il contribuente aveva allegato nella fase istruttoria documenti a sostegno di una diversa qualificazione giuridica dell’operazione stessa. Il successivo avviso di accertamento si era limitato a richiamare il processo verbale di constatazione senza tenere in considerazione le osservazioni del contribuente e i documenti prodotti a sostegno della diversa qualificazione giuridica. La Commissione ha ritenuto di dover annullare l’avviso per difetto di motivazione15. Sono stati ritenuti nulli per vizio di motivazione anche gli avvisi nei quali il ricavo era stato ricostruito induttivamente esclusivamente in ragione del divario tra ricavo dichiarato e risultanze degli studi di settore, a fronte di una contabilità formalmente regolare16. 3.2 Parametri e studi di settore Con riguardo agli avvisi di accertamento fondati su parametri e studi di settore sembra opportuno segnalare subito che la Commissione tributaria provinciale di Modena ha mostrato fino ad ora estrema compattezza nel respingere tutte le eccezioni preliminari dei ricorrenti tese a negare validità a questi sistemi di determinazione presuntiva dei ricavi. Sono state quindi respinte le eccezioni che si limitavano a denunciare genericamente l’inattendibilità dei parametri17, la loro incostituzionalità

estensore Scicchitano; sez. VI, sent. 19 dicembre 2005, n. 110, presidente Cigarini, estensore Brighenti, relativa a un giovane avvocato che aveva iniziato la professione due anni prima dell’anno di imposta per il quale venne emanato l’avviso di accertamento. 15 Sez. VII, sent. 2 maggio 2006, n. 76, presidente Nardi, estensore Scicchitano; sez. I, sent. 17 novembre 2005, n. 97, presidente de Marco, estensore Previdi. 16 Sez. VI, sent. 7 luglio 2005, n. 65, presidente Poggi, estensore Brighenti; sez. VII, sent. 7 marzo 2006, n. 158, presidente Nardi, estensore

Ghittoni. Cfr. anche sez. VI, sent. 12 settembre 2006, n. 138, presidente Poggi, estensore Seidenari dalla quale però non si evince se il contribuente (un commerciante al dettaglio di mobili usati) si trovava in regime di contabilità ordinaria o semplificata. 17 Cfr. sez. III, sent. 22 aprile 2005, n. 34, presidente Bruschetta, estensore Uzzo; sez. VII, sent. 30 settembre 2005, n. 87, presidente Tardino, estensore Scicchitano; sez. I, sent. 12 aprile 2005, n. 30, presidente Cavarra, estensore Bianchi; sez. I, sent. 12 febbraio 2007, n. 212, presidente de Marco, estensore Bianchi.


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per violazione del principio di riserva di legge in materia tributaria e per violazione del diritto di difesa18, l’illegittimità del decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri che ha determinato i parametri19 per mancata acquisizione del parere del Consiglio di Stato previsto dall’art. 17 della legge n. 400/198820. È risultato altrettanto pacifico l’orientamento che ritiene applicabili, se più favorevoli al contribuente, gli studi di settore approvati in anni successivi all’anno dell’accertamento, anche se l’accertamento è avvenuto avvalendosi dei parametri21. Il medesimo orientamento generale della Commissione che difende rigidamente la legittimità dei parametri come strumento di determinazione presuntiva dei ricavi, si mostra poi piuttosto liberale nella dinamica processuale concreta22. Viene quindi ritenuta illegittima, anche alla luce dell’art. 7 della circolare del Ministero delle Finanze 21 maggio 1999, n. 11023, la mancata adeguazione del risultato della applicazione degli studi alla concreta particolare situazione dell’impresa24. Una volta poi che risulti congruo il raffronto tra i ricavi dichiarati e gli studi di settore l’Ufficio non può fare ulteriore uso del potere accertativo in-

18 Cfr. sez. III, sent. 21 settembre 2005, n. 91, presidente Bruschetta, estensore Tavernelli; sent. 27 settembre, n. 102, presidente ed estensore Bruschetta. 19 Si tratta del D.P.C.M. 29 gennaio 1996, n. 97400. 20 Cfr. sez. III, sent. 21 settembre 2005, n. 91, presidente Bruschetta, estensore Tavernelli; sez. IV, sent. 16 settembre 2006, n. 90, presidente Pinelli, estensore Ratti; sez. IV, sent. 6 novembre 2007, n. 213, presidente Pinelli, estensore Tavernelli. 21 Cfr. sez. III, sent. 21 settembre 2005, n. 91, presidente Bruschetta, estensore Tavernelli, che ha annullato l’avviso di accertamento nei confronti di un progettista grafico della comunicazione visiva sostenendo tra l’altro che questa attività «si caratterizza nella collaborazione con le imprese le quali non hanno certamente alcun interesse a non richiedere la fatturazione del lavoro eseguito». Cfr. anche sez. IV, sent. 16 settembre 2006, n. 90, presidente Pinelli, estensore Ratti. 22 Sez. I, sent. 23 gennaio 2007, n. 209, presidente de Marco, estensore Previdi, relativa ad un endocrinologo. Lo scostamento del 20% in meno ri-

duttivo, nemmeno in caso di accertamento della irregolarità delle scritture contabili avvenuta ai sensi dell’art. 1 del D.P.R. n. 570/199625. 4. Questioni processuali Passiamo ora ad alcune questioni processuali in materia di presunzioni. 4.1 Presunzioni legali In materia di presunzioni legali abbiamo trovato una sentenza relativa all’applicazione delle presunzioni di cessione e di acquisto previste dal D.P.R. n. 441/1997. A seguito di accesso e ispezione presso la sede di un’impresa la Guardia di Finanza non aveva rinvenuto beni di cui risultava invece la prova dell’acquisto e, d’altra parte, aveva rinvenuto beni di cui l’imprenditore non era riuscito a giustificare il possesso. Di qui era seguito l’accertamento induttivo-extracontabile. Secondo la Commissione l’interpretazione corretta della norma induce a ritenere che il presupposto per farsi luogo alla presunzione legislativa sia l’individuazione fisica dei beni mediante apposito inventario, o atto equipollente, da raffrontare con i libri di magazzino.

spetto ai parametri viene ritenuto lieve da questa sentenza e rende pertanto verosimile la dichiarazione se manca inoltre l’adeguamento alla realtà concreta del contribuente. Nel caso di specie si trattava di un giovane medico al primo anno di attività. Cfr anche sez. I, sent. 15 marzo 2007, n. 63, presidente de Marco, estensore Previdi, relativa ad un’attività di rifinitura di maglie. 23 Il primo comma di questo articolo recita: «Per la effettuazione degli accertamenti basati sugli studi di settore, gli Uffici terranno conto delle disposizioni che regolano il procedimento di accertamento con adesione. In particolare, invieranno ai contribuenti un invito al contraddittorio contenente gli elementi rilevanti ai fini dell’accertamento, al fine di pervenire alla definizione. Sulla base di elementi di valutazione direttamente acquisiti ovvero forniti dal contribuente in sede di contraddittorio, gli Uffici avranno cura di adeguare il risultato della applicazione degli studi alla concreta particolare situazione dell’impresa, tenendo anche conto della localizzazione nell’ambito del territorio comunale non colta dalle elaborazioni

dalle quali sono scaturiti gli studi di settore. Le osservazioni formulate dai contribuenti nel corso del contraddittorio andranno attentamente valutate motivando sia l’accoglimento che il rigetto delle stesse [...]». 24 Sez. I, sent. 21 settembre 2006, n. 165, presidente de Marco, estensore Manildo; sez. VI, sent. 19 dicembre 2005, n. 118, presidente Poggi, estensore Mottola, relativa al caso di un docente di conservatorio che svolgeva anche l’attività di concertista. Cfr. anche sez. VII, sent. 7 marzo 2006, n. 158, presidente Nardi, estensore Ghittoni; sez. IV, sent. 24 marzo 2006, n. 25, presidente ed estensore Pinell; sez. I, 12 aprile 2005, n. 29, presidente Cavarra, estensore Bianchi, relativa ad un subagente di assicurazioni; sez. IV, sent. 19 dicembre 2005, n. 202, presidente De Robertis, estensore Ratti, relativa ad un promotore finanziario; sez. I, sent. 12 febbraio 2007, n. 212, presidente de Marco, estensore Bianchi, relativa ad un subagente assicurativo; sez. I, sent. 12 febbraio 2007, n. 210, relativa a un geometra. 25 Sez. VII, sent. 20 marzo 2006, n. 31, presidente Nardi, estensore Roteglia.


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L’impossibilità di precisa individuazione fisica dei beni ha dunque comportato l’annullamento dell’avviso26. 4.2 Presunzioni semplici In materia di presunzioni semplici abbiamo riscontrato due diversi orientamenti, l’uno più rigoroso l’altro più propenso a difendere l’operato dell’Ufficio. L’orientamento più rigoroso, emerso in materia di accertamenti basati sugli studi di settore, richiede, affinché la presunzione di maggiori ricavi possa essere ritenuta grave, precisa e concordante, due condizioni. La prima condizione richiede che al divario tra ricavi dichiarati e ricavi presunti concorrano altri indizi. Il solo divario non legittima di per sé solo la presunzione. La seconda condizione richiede che vi sia uno scostamento che renda del tutto non credibile il risultato della dichiarazione. Gli altri elementi che renderebbero grave, precisa e concordante la presunzione sono stati individuati, in via meramente esemplificativa, nella mancata risposta ad un questionario27, nella mancata allegazione di documenti a sostegno delle eccezioni del contribuente, nella circostanza che anche in altri anni precedenti siano state presentate dichiarazioni irrisorie28. Questo orientamento più rigoroso mostra talora di accontentarsi anche di un modesto principio di prova offerto dal contribuente per contrastare la presunzione29. La presunzione cade se l’Ufficio

26 Cfr. la sentenza n. 13667 del 5 novembre 2001 (presidente Papa; relatore Di Palma) con la quale la Corte ha ribadito che la presunzione di cessione e di acquisto di cui all’art. 53, D.P.R. n. 633/1972 implica necessariamente un accertamento materiale e diretto da parte dell’Ufficio impositore, non potendosi basare sulle risultanze contabili (nel caso di specie: schede di magazzino) del contribuente verificato (vedi in senso conforme, Cass. civ., n. 9769/1995). 27 Sez. IV, sent. 22 agosto 2007, n. 134, presidente Pinelli, estensore Tavernelli. 28 Cfr. sez. VII, sent. 19 maggio 2006, n. 99, presidente Nardi, estensore Scicchitano. Questa sentenza appare dichiaratamente debitrice di Cass. civ., sez. trib., 27 febbraio 2002, n. 2891, in Fisco, 2002, 2667, con nota di CAPUTI; in Nuovo Dir., 2002, 1005, con nota di ANGELINI-CROCE: «L’art. 39, comma 1, lett. d, D.P.R. n.

non replica alle eccezioni del contribuente30 oppure se l’Agenzia replica introducendo una presunzione di secondo grado. Così è stato affermato che la sola condizione di paraplegico del titolare di una ditta individuale con ricavi al di sotto dei parametri è sufficiente per vincere la presunzione, mentre l’Agenzia non può controeccepire che tale condizione personale fa presumere l’utilizzo di personale assunto irregolarmente31. L’altro orientamento, emerso soprattutto in materia di operazioni asseritamente inesistenti, appare maggiormente propenso a ritenere legittime le presunzioni applicate dall’Ufficio e richiede al ricorrente la prova rigorosa dell’esistenza effettiva delle operazioni32 o dello scostamento tra il reddito dichiarato e quello presuntivamente accertato33. L’accertamento dell’inesistenza di un’operazione in capo all’emittente di una fattura consente di presumere in modo grave, preciso e concordante che versi in una situazione di illiceità anche colui che ha annotato la fattura e l’accertamento è salvo sotto il profilo della corretta motivazione anche quando non sia stata eseguita alcuna verifica presso il soggetto intestatario della fattura stessa34. In materia di società la Commissione ha ritenuto possibile presumere la qualità di socio di fatto se dall’analisi delle movimentazioni del conto corrente bancario di una società a base sociale ristretta figurino versamenti o prelievi, effettuati dai genitori dei due figli soci di diritto, privi di una specifica giustificazione35.

600/1973, consente, sulla base della disamina della contabilità operata dall’Ufficio, di ricostruire l’esistenza di attività non dichiarate attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti; e questo valore possono assumere, se confortate da altri indizi, le difformità delle percentuali applicate in concreto rispetto a quelle mediamente riscontrate nel settore di appartenenza, quando vi sia uno scostamento che renda del tutto non credibile il risultato della dichiarazione». 29 Sez. I, sent. 15 gennaio 2008, n. 282, presidente de Marco, estensore Seidenari, che ha ritenuto sufficiente la prova di aver subito un intervento chirurgico. 30 Cfr. sez. VII, sent. 28 ottobre 2005, n. 94, presidente Tardino, estensore Roteglia; sez. IV, sent. 24 marzo 2006, n. 272, presidente ed estensore Pinelli. 31 Sez. VII, sent. 19 maggio 2006, n. 90, presidente Tardino, estensore

Scicchitano. 32 Sez. I, sent. 26 aprile 2005, n. 38, presidente Cavarra, estensore Previdi; sez. III, sent. 13 settembre 2005, n. 89, presidente Bruschetta, estensore Uzzo; sez. III, sent. 18 febbraio 2006, n. 198, presidente Pederiali, estensore Mottola; sez. VI, sent. 9 marzo 2006, n. 14, presidente Cigarini, estensore Brighenti. Una sentenza ha invece ritenuto onerate entrambe le parti rispettivamente della prova di inesistenza e di esistenza, cfr. sez. VII, sent. 19 luglio 2005, n. 73, presidente Nardi, estensore Roteglia. 33 Sez. I, sent. 22 novembre 2005, n. 101, presidente de Marco, estensore Alfieri. 34 Sez. I, sent. 6 luglio 2007, n. 205, presidente de Marco, estensore Previdi; sez. IV, sent. 1 ottobre 2007, n. 179, presidente De Robertis, estensore Alfieri. 35 Sez. IV, sent. n. 50 del 27 marzo 2006, presidente De Robertis, estensore Iurilli; sez. VII, sent. n. 51 del 7


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La presunzione ha portato ad attribuire ai genitori la qualità di soci di fatto dei figli al 25% con conseguentemente imputazione del reddito di partecipazione. All’obiezione avanzata dai ricorrenti che l’Agenzia non aveva considerato in via equitativa anche una percentuale di costi, la Commissione ha ritenuto di non avere «il potere di determinare “equitativamente” costi neri»36. Sempre in tema di società a ristretta base familiare abbiamo rinvenuto una sentenza che, in contrasto con la consolidata giurisprudenza della Cassazione37, ha ritenuto vinta la presunzione che gli utili extracontabili siano stati distribuiti a tutti i soci per il solo fatto che colui che amministrava in via esclusiva la società sia stato condannato in sede penale per bancarotta38.

marzo 2006, presidente Nardi, estensore Mottola. 36 Sez. VII, sent. n. 51 del 7 marzo 2006, presidente Nardi, estensore Mottola; sez. VI, sent. 22 agosto 2006, n. 110, presidente Cigarini, estensore Marchese Occhipinti. Con-

5. Notazioni conclusive La caratteristica che connota le sentenze esaminate in materia di presunzioni è la difficoltà che si percepisce nella giustificazione del collegamento logico-deduttivo tra fatto noto e fatto ignoto. Le sentenze esaminate mostrano una certa difficoltà a cimentarsi con questo raffinato procedimento di accertamento. La motivazione risulta spesso forse un po’ troppo sintetica e talora apodittica. Soprattutto nelle sentenze di accoglimento del ricorso sembra sussistere non soltanto una difficoltà al livello del procedimento inferenziale ma anche una sorta di resistenza verso le presunzioni, nelle loro varie forme (presunzioni legali, semplici e semplicissime) che sono fondate, come afferma la Cassazione, non su un principio di consequenzialità necessaria, ma secondo criteri di probabilità39.

tra, sulla possibilità di abbattere il maggior ricavo accertato della percentuale del 20% per presumibili maggiori costi (neri) sez. I, sent. 10 ottobre 2007, n. 233, presidente de Marco, estensore Previdi. 37 Cfr. ex plurimis Cass. civ., sez. trib.,

26 ottobre 2005, n. 20851, in Giust. Civ. Mass., 2005. 38 Sez. I, sent. 27 luglio 2005, n. 71, presidente de Marco, estensore Previdi. 39 Cfr. Cass. n. 6340/2002, n. 6465/ 2002, n. 2605/2000, n. 5052/1987.

COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE EUROPEA VERSO L’ESECUZIONE EFFETTIVA DELLE DECISIONI DELLA COMMISSIONE CHE INGIUNGONO AGLI STATI MEMBRI DI RECUPERARE GLI AIUTI DI STATO ILLEGALI E INCOMPATIBILI* 1. Introduzione - 2. I principi della politica di recupero - 3. Attuazione della politica di recupero - 4. Conseguenze della mancata esecuzione della decisione di recupero della commissione 5. Conclusioni 1. Introduzione 1. Nel 2005 la Commissione ha presentato il suo itinerario di riforma degli aiuti di Stato nel piano di azione nel settore degli aiuti di Stato1. Il programma di riforma migliorerà l’efficacia, la trasparenza e la credibilità del sistema UE degli aiuti di Stato. Il piano di azione è incentrato

* Il testo integrale della comunicazione 2007/C 272/05 risulta edito nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, serie C, del 15 novembre 2007, n. 272. La rivista pubblica i tratti salienti

sul principio «aiuti di Stato meno numerosi e più mirati». L’obiettivo centrale del piano consiste nell’incoraggiare gli Stati membri a ridurre il livello globale di aiuti e a riorientare al contempo le risorse riservate agli aiuti di Stato verso obiettivi aventi un chiaro interesse comunitario. Per conseguire tale finalità la Commissione si impegna a continuare ad adottare un atteggiamento rigoroso nei confronti dei tipi di aiuto che provocano le maggiori distorsioni di concorrenza, in particolare gli aiuti di Stato illegali e incompatibili. 2. In questi ultimi anni la Commissione ha di-

della comunicazione, cui segue la nota di LORENZO DEL FEDERICO, Recupero degli aiuti di Stato fiscali, procedure applicabili e principi di equivalenza ed effettività.

1 Piano di azione nel settore degli aiuti di Stato - Aiuti di Stato meno numerosi e più mirati: itinerario di riforma degli aiuti di Stato 20052009.


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mostrato che è pronta ad assumere una posizione ferma rispetto agli aiuti illegali. Da quando è entrato in vigore il regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio2 (“regolamento di procedura”), la Commissione ha sistematicamente ingiunto agli Stati membri di recuperare ogni aiuto illegale da essa giudicato incompatibile con il mercato comune salvo i casi in cui abbia ritenuto che tale recupero fosse in contrasto con un principio generale del diritto comunitario. Dal 2000 la Commissione ha adottato 110 decisioni di recupero. 3. È essenziale ai fini dell’integrità del sistema degli aiuti di Stato l’esecuzione immediata ed effettiva delle decisioni della Commissione che ingiungono agli Stati membri di recuperare gli aiuti di Stato illegali (in prosieguo “le decisioni di recupero”). Le informazioni raccolte dalla Commissione negli ultimi anni mostrano che vi è motivo di reale preoccupazione a questo riguardo. L’esperienza indica che praticamente non esiste un solo caso in cui il recupero sia stato completato entro il termine stabilito nella decisione di recupero. Le recenti edizioni del quadro di valutazione degli aiuti di Stato indicano inoltre che al 45% delle decisioni di recupero adottate nel periodo 2000-2001 non era ancora stata data esecuzione nel giugno 2006. 4. Nel 2004 la Commissione ha ordinato uno studio comparativo sull’attuazione della politica degli aiuti di Stato UE nei differenti Stati membri3 (in prosieguo lo “studio sull’attuazione”). Uno degli obiettivi dello studio consisteva nel valutare l’efficacia delle procedure e delle prassi di recupero in una serie di Stati membri. Gli autori dello studio hanno constatato che «l’eccessiva durata dei procedimenti di recupero è un tema ricorrente in tutte le relazioni redatte per i vari Paesi». Essi hanno riconosciuto che negli ultimi anni è lievemente migliorata l’esecuzione delle decisioni di recupero, ma hanno concluso che il recupero degli aiuti di Stato illegali e incompatibili continua ad incontrare una serie di ostacoli nella maggior parte degli Stati membri esaminati 5. Nel suo piano di azione nel settore degli aiuti di Stato la Commissione sottolinea la necessità di un’esecuzione effettiva delle decisioni di recu-

2 Regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell’articolo 93 del Trattato CE (G.U.C.E., 27 marzo 1999, L 83, 1).

pero. É chiaro che l’esecuzione di siffatte decisioni è una responsabilità condivisa tra la Commissione e gli Stati membri e, affinché abbia successo, occorreranno notevoli sforzi da entrambe le parti. 6. La presente comunicazione si prefigge di spiegare la politica della Commissione in materia di esecuzione delle decisioni di recupero. Essa esamina le conseguenze che i Tribunali nazionali possono trarre dal mancato rispetto dell’obbligo di notifica e della clausola sospensiva di cui all’articolo 88, paragrafo 3, del Trattato CE. La Commissione ritiene necessario chiarire le misure che intende adottare per facilitare l’esecuzione delle decisioni di recupero e indicare azioni che gli Stati membri potrebbero adottare per conformarsi pienamente alle regole e ai principi enunciati dal diritto europeo e, in particolare, dalla giurisprudenza delle Corti comunitarie. A tal fine, la comunicazione innanzitutto ribadisce la finalità del recupero e i principi fondamentali su cui si basa l’esecuzione delle decisioni di recupero. In secondo luogo, presenta le implicazioni pratiche di questi principi fondamentali per ciascun soggetto interessato dal processo di recupero. 2. I principi della politica di recupero 2.1 Breve descrizione della politica di recupero 7. Ai sensi dell’articolo 88, paragrafo 3, del Trattato CE «alla Commissione sono comunicati, in tempo utile perché presenti le sue osservazioni, i progetti diretti a istituire o modificare aiuti. [...] Lo Stato membro interessato non può dare esecuzione alle misure progettate prima che tale procedura abbia condotto a una decisione finale». 8. Qualora gli Stati membri non notifichino alla Commissione progetti diretti a istituire o modificare aiuti prima che sia data esecuzione all’aiuto, l’aiuto è considerato illegale in base al diritto comunitario a decorrere dal momento in cui è stato concesso. 9. Nella sentenza Kohlegesetz4 la Corte di Giustizia europea ha confermato per la prima volta che la Commissione ha la facoltà di ordinare il recupero di aiuti di Stato illegali e incompatibili. [Omissis]

3 Study on the enforcement of state aid law at national level, Competition studies 6, Luxembourg, Ufficio per le pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee:

http://ec.europa.eu/comm/competition/ state_aid/overview/studies.html 4 Causa C-70/72, Commissione contro Germania, Racc. 1973, 813, 13.


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12. In un certo numero di sentenze recenti, la Corte di Giustizia europea ha ulteriormente chiarito l’ambito e l’interpretazione dell’articolo 14, paragrafo 3, del regolamento di procedura, evidenziando la necessità di un’esecuzione immediata ed effettiva delle decisioni di recupero9. Inoltre, la Commissione ha anche incominciato ad applicare più sistematicamente la giurisprudenza Deggendorf10. In virtù di detta giurisprudenza, la Commissione, qualora siano soddisfatte determinate condizioni, può ordinare agli Stati membri di sospendere il pagamento di un nuovo aiuto compatibile ad un’impresa fintantoché quest’ultima non abbia rimborsato il precedente aiuto illegale e incompatibile che formi oggetto di una decisione di recupero. 2.2 Finalità e principi della politica di recupero 2.2.1 Finalità del recupero 13. La Corte di Giustizia europea ha statuito in varie occasioni che la finalità del recupero consiste nel ripristinare la situazione esistente sul mercato precedentemente alla concessione dell’aiuto. Ciò è necessario per assicurare che sia mantenuta parità di condizioni nel mercato interno conformemente all’articolo 3, lettera g, del Trattato CE. In tale contesto la Corte di Giustizia europea ha sottolineato che il recupero di un aiuto illegale e incompatibile non è una sanzione11, bensì la logica conseguenza dell’accertamento della sua illegittimità12. Non può quindi ritenersi un provvedimento sproporzionato rispetto alle finalità perseguite dalle disposizioni del Trattato in materia di aiuti di Stato13. 14. Secondo la Corte di Giustizia europea, «il ripristino dello status quo ante è raggiunto quando gli aiuti illegali e incompatibili in parola sono stati restituiti dal beneficiario che, per effetto di tale restituzione, è infatti privato del vantaggio di cui aveva fruito sul mercato rispetto ai suoi concorrenti e la situazione esistente prima della corre-

9 Causa C-415/03, Commissione contro Grecia, (Olympic Airways), Racc. 2005, I, 3875 e causa C-232/05, Commissione contro Francia, (Scott), sentenza del 5 ottobre 2006, non ancora pubblicata. 10 Causa C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf GmbH contro Germania, (Deggendorf), Racc. 1994, I, 833. 11 Causa C-75/97, Belgio contro Commissione, Racc. 1999, I, 3671, 65. 12 Causa C-1 83/91 Commissione contro Grecia, Racc. 1993, I, 3131, 16. 13 Cause riunite C-278/92, C-279/92 e C-280/92, Spagna contro Commissione,

sponsione dell’aiuto è ripristinata»14. Per sopprimere eventuali vantaggi finanziari accessori all’aiuto illegale, le somme illegittimamente erogate devono essere recuperate maggiorate degli interessi. L’interesse deve essere equivalente al vantaggio finanziario derivante dalla disponibilità dei fondi in questione, a titolo gratuito, per un determinato periodo15. 15. Inoltre, la Corte di Giustizia europea ha insistito sul fatto che ai fini della piena esecuzione della decisione di recupero della Commissione, le azioni intraprese da uno Stato membro devono produrre effetti concreti per quanto concerne il recupero16 e il recupero deve essere immediato17. Perchè il recupero possa conseguire la sua finalità, chiaramente è essenziale che il rimborso dell’aiuto abbia luogo senza indugio. 2.2.2 L’obbligo di recuperare aiuti di Stato illegali e incompatibili e relative eccezioni 16. Ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, del regolamento di procedura «nel caso di decisioni negative relative a casi di aiuto illegali, la Commissione adotta una decisione con la quale impone allo Stato membro interessato di adottare tutte le misure necessarie per recuperare l’aiuto dal beneficiario». 17. Il regolamento di procedura pone due limiti alla facoltà della Commissione di ordinare il recupero di aiuti illegali e incompatibili. L’articolo 14, paragrafo 1, del regolamento di procedura stabilisce che la Commissione non impone il recupero dell’aiuto qualora ciò sia in contrasto con un principio generale del diritto comunitario. I principi generali di diritto più frequentemente invocati in questo contesto sono i principi di tutela del legittimo affidamento18 e della certezza del diritto19. È importante osservare che la Corte di Giustizia europea ha fornito un’interpretazione alquanto restrittiva di questi principi nel caso del recupero. L’articolo 15 del regolamento di proce-

Racc. 1994, I, 4103, 75. 14 Causa C-348/93, Commissione contro Italia, Racc. 1995, I, 673, 27. 15 Causa T-459/93, Siemens contro Commissione, Racc. 1995, II, 1675, 97-101. 16 Causa C-41 5/03, Commissione contro Grecia, citata alla nota n. 9. 17 Causa C-232/05, Commissione contro Francia, citata alla nota n. 9. 18 Sul principio della tutela del legittimo affidamento, cfr. la causa C24/95, Alcan, Racc. 1997, I, 1591, 25, e la causa C-5/89, BUG-Alutechnik, Racc. 1990, I, 3437, 13 e 14. Per un esempio in cui la Corte di Giusti-

zia europea ha riconosciuto l’esistenza di legittimo afffdamento avallato dal beneficiario, cfr. la causa C-223/85, RSV, Racc. 1987, 4617. 19 Sul principio della certezza del diritto, cfr. la causa T-115/94, Opel Austria GmbH contro Consiglio, Racc. 1997, II, 39, la causa C-372/97, Italia contro Commissione, Racc. 2004, I, 3679, 116-118, e le cause riunite C-74/00 P e C-75/00 P, Falck e Acciaierie di Bolzano contro Commissione, Racc. 2002, I, 7869, 140. Cfr. inoltre causa T308/00, Saltzgitter contro Commissione, Racc. 2004, II, 1933, 166.


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dura stabilisce che i poteri della Commissione per quanto riguarda il recupero degli aiuti sono soggetti a un periodo limite di 10 anni (il cosiddetto periodo di prescrizione). Il periodo di prescrizione decorre dal giorno in cui l’aiuto illegale è concesso al beneficiario a titolo di aiuto individuale rientrante in un regime di aiuti. Qualsiasi azione intrapresa dalla Commissione20 oppure da uno Stato membro, che agisca su richiesta della Commissione, nei confronti dell’aiuto illegale interrompe il periodo limite. 18. Ai sensi dell’articolo 249 del Trattato CE la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati. Pertanto lo Stato membro cui è destinata una decisione di recupero è tenuto ad eseguirla21.La Corte di Giustizia europea ha ammesso un’unica eccezione all’obbligo posto a carico di uno Stato membro di dare esecuzione a una decisione di recupero ad esso destinata, ossia l’esistenza di circostanze eccezionali da cui derivi l’impossibilità assoluta per lo Stato membro di dare corretta esecuzione alla decisione22. 19. Secondo le Corti comunitarie, l’impossibilità assoluta tuttavia non può essere semplicemente supposta. Lo Stato membro deve dimostrare che ha tentato in buona fede di recuperare l’aiuto illegale e deve collaborare con la Commissione conformemente all’articolo 10 del Trattato CE al fine di superare le difficoltà incontrate23. [Omissis] 2.2.3 L’utilizzazione di procedure nazionali e la necessità di una esecuzione immediata ed effettiva 21. Ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 3, del regolamento di procedura «il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dallo Stato membro interessato, a condizione che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione». 22. Se gli Stati membri sono liberi di scegliere, in base al loro diritto nazionale, i mezzi mediante i quali dare esecuzione alle decisioni di recupero, le misure scelte dovrebbero dare pienamente effetto alla decisione di recupero. é pertanto necessario che le misure nazionali adottate dallo Stato membro consentano l’esecuzione effettiva ed immediata della decisione della Commissione.

20 Per l’interpretazione della frase «qualsiasi azione della Commissione» cfr. la causa T-369/00, Département do Loiret contro Commissione, Racc. 2003, II, 1789.

23. Nella sentenza Olympic Airways31, la Corte di Giustizia europea ha sottolineato che le misure di esecuzione adottate dallo Stato membro devono essere effettive e produrre un esito concreto in termini di recupero. Le azioni adottate dagli Stati membri devono portare all’effettivo recupero delle somme dovute dal beneficiario. Nella recente sentenza Scott32, la Corte di Giustizia europea ha confermato tale linea e ha sottolineato che le procedure nazionali che non rispettano le condizioni di cui all’articolo 14, paragrafo 3, del regolamento di procedura non dovrebbero essere applicate. In particolare essa ha respinto la tesi sostenuta dallo Stato membro, ossia che aveva adottato tutte le misure disponibili nel sistema interno, ed ha insistito sul fatto che dette misure dovrebbero inoltre produrre un concreto effetto in termini di recupero e ciò entro il termine stabilito dalla Commissione. 24. L’articolo 14, paragrafo 3, del regolamento di procedura stabilisce che alle decisioni di recupero sia data esecuzione effettiva e immediata. Nella causa Scott, la Corte di Giustizia europea ha sottolineato l’importanza della dimensione temporale nell’iter di recupero. La Corte ha precisato che l’applicazione di procedure nazionali non dovrebbe impedire il ripristino della concorrenza effettiva facendo ostacolo all’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione. Le procedure nazionali che impediscono il ripristino immediato della situazione antecedente e prorogano l’indebito vantaggio concorrenziale derivante dagli aiuti illegittimi e incompatibili, non soddisfano i requisiti previsti dall’articolo 14, paragrafo 3, del regolamento di procedura. 25. In tale contesto è importante ribadire che il ricorso di annullamento di una decisione di recupero proposto ex articolo 230 del Trattato CE non ha effetto sospensivo. Nell’ambito di siffatto ricorso, il beneficiario dell’aiuto può tuttavia chiedere la sospensione dell’esecuzione della decisione di recupero ai sensi dell’articolo 242 del Trattato CE. Le domande di sospensione devono precisare i motivi di urgenza e contenere gli argomenti di fatto e di diritto che giustifichino prima facie l’adozione del provvedimento provvisorio richiesto. La Corte di Giustizia o il Tribunale di

21 Causa 94/87, Commissione contro Germania, Racc. 1989, 175. 22 Causa C-404/00, Commissione contro Spagna, Racc. 2003, I, 6695. 23 Causa C-280/95, Commissione contro

Italia, Racc. 1998, I, 259. 31 Causa C-415/03, Commissione contro Grecia, citata alla nota n. 9. 32 Causa C-232/05, Commissione Contro Francia, citata alla nota n. 9.


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primo grado possono, quando reputino che le circostanze lo richiedano, ordinare la sospensione della decisione della Commissione che viene contestata. 2.2.4 Il principio di leale collaborazione 26. L’articolo 10 del Trattato obbliga gli Stati membri a facilitare l’adempimento dei compiti comunitari e impone doveri reciproci di leale collaborazione alle istituzioni UE e agli Stati membri al fine di conseguire gli obiettivi del Trattato. 27. Nel contesto dell’esecuzione delle decisioni di recupero, la Commissione e le autorità degli Stati membri devono quindi collaborare per conseguire l’obiettivo del ripristino delle condizioni di concorrenza nel mercato interno. 28. Uno Stato membro, il quale incontri difficoltà impreviste o imprevedibili in occasione dell’esecuzione di una decisione di recupero entro il termine stabilito oppure si renda conto di conseguenze non considerate dalla Commissione, deve sottoporre tali problemi alla valutazione di questa, proponendo appropriate modifiche della decisione stessa33.In tal caso la Commissione e lo Stato membro interessato devono collaborare in buona fede per superare le difficoltà nel pieno rispetto delle norme del Trattato34. [Omissis] 3. Attuazione della politica di recupero 30. Sia la Commissione che gli Stati membri hanno un ruolo essenziale da svolgere nella esecuzione delle decisioni di recupero e possono contribuire all’efficace attuazione della politica di recupero. 3.1 Il ruolo della Commissione 31. La decisione di recupero della Commissione impone allo Stato membro interessato l’obbligo di recupero. Essa esige che lo Stato membro interessato recuperi un certo importo di aiuto da un beneficiario o da un numero di beneficiari entro un determinato periodo di tempo. L’esperienza dimostra che la rapidità con la quale sono eseguite le decisioni di recupero dipende dal grado di precisione o di completezza di detta decisione. La Commissione pertanto continuerà ad adoperarsi per fare in modo che la decisione di recupero fornisca una chiara indicazione dell’importo (impor-

33 Causa C-404/00, Commissione contro Spagna, citata alla nota n. 22. 34 Causa C-94/87, Commissione contro Germania, Racc. 1989, 175, 9; causa C-348/93, Commissione contro Italia,

ti) di aiuto da recuperare, dell’impresa (imprese) tenuta a rimborsare l’aiuto e del termine entro il quale il recupero deve essere completato. Individuazione delle imprese presso le quali l’aiuto deve essere recuperato 32. L’aiuto illegale e incompatibile deve essere recuperato presso le imprese che ne hanno effettivamente tratto vantaggio37. La Commissione continuerà a seguire la prassi attuale, consistente nell’individuare nelle decisioni di recupero, laddove possibile, l’identità dell’impresa presso la quale l’aiuto deve essere recuperato. Se, nella fase di esecuzione, risultasse che l’aiuto è stato trasferito ad altri soggetti, lo Stato membro può dover estendere il recupero per includervi tutti i beneficiari effettivi in modo che l’obbligo di recupero non sia eluso. [Omissis] 35. Quando adotta una decisione di recupero concernenti regimi di aiuti di Stato, la Commissione, di norma, non è in grado di individuare, nella decisione in sé, tutte le imprese che hanno ricevuto aiuti illegali e incompatibili. É solo al livello del recupero degli aiuti da parte dello Stato membro interessato che si renderà necessario verificare la situazione individuale di ciascuna impresa interessata43. Determinazione dell’importo da recuperare 36. La finalità del recupero è realizzata «quando gli aiuti in parola, eventualmente maggiorati degli interessi di mora, sono stati restituiti dal beneficiario o, in altri termini, dalle imprese che ne hanno tratto effettivo vantaggio. Per effetto di tale restituzione, il beneficiario è infatti privato del vantaggio di cui aveva fruito sul mercato rispetto ai suoi concorrenti e la situazione esistente prima della corresponsione dell’aiuto è ripristinata»44. 37. La Commissione, come ha fatto in passato, specificherà chiaramente nelle sue decisioni di recupero le misure di aiuto illegali e incompatibili che formano oggetto di recupero. Qualora disponga dei dati necessari, la Commissione inoltre si adopererà per quantificare l’importo esatto di aiuto da recuperare. È chiaro tuttavia che la Commissione non può e non è legalmente tenuta a fissare l’importo esatto da recuperare. È sufficiente che la decisione della Commissione con-

citata alla nota n. 14, 17. 37 Causa C-303/88, Italia contro Commissione, Racc. 1991, I, 1433, 57;causa C-277/00, Germania contro Commissione (SMI), Racc. 2004, I, 3925, 75.

43 Causa C-310/99, Italia contro Commissione, Racc. 2002, I, 2289, 91. 44 Causa C-277/00, Germania contro Commissione, citata alla nota n. 37, 74-76.


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tenga elementi che permettano al destinatario della decisione stessa di determinare senza difficoltà eccessive tale importo45. 38. Nel caso di un regime di aiuti illegali e incompatibili, la Commissione non è in grado di quantificare l’importo di aiuto incompatibile da recuperare presso ciascun beneficiario. Ciò comporta l’analisi dettagliata da parte dello Stato membro dell’aiuto accordato in ciascun singolo caso sulla base del regime in questione. Pertanto, nella sua decisione, la Commissione indica che lo Stato membro deve recuperare tutti gli aiuti a meno che siano stati concessi a un progetto specifico che, all’epoca della concessione, rispondeva a tutte le condizioni richieste dai regolamenti di esenzione per categoria o di un regime di aiuti approvato dalla Commissione. 39. In base all’articolo 14, paragrafo 2, del regolamento di procedura, all’aiuto da recuperare ai sensi di una decisione di recupero si aggiungono gli interessi calcolati in base ad un tasso adeguato stabilito dalla Commissione. Gli interessi decorrono dalla data in cui l’aiuto illegale è divenuto disponibile per il beneficiario, fino alla data di recupero46. Il regolamento di esenzione stabilisce che il tasso di interesse è applicato secondo il regime dell’interesse comparato fino alla data di recupero dell’aiuto. Termini per l’esecuzione della decisione 40. In passato le decisioni di recupero della Commissione precisavano un unico termine di due mesi entro il quale lo Stato membro interessato era tenuto a comunicare alla Commissione le misure adottate per conformarsi a una determinata decisione. La Corte di Giustizia ha riconosciuto che questo termine deve essere considerato il termine per l’esecuzione della decisione stessa della Commissione47. 41. La Corte ha inoltre concluso che i contatti e i negoziati tra la Commissione e lo Stato membro nel contesto dell’esecuzione della decisione della Commissione, non possono sottrarre lo Stato membro dal dovere di adottare tutti i provvedimenti necessari per dare esecuzione alla de-

45 Causa C-480/98, Spagna contro Commissione, Racc. 2000, I, 8717, 25 e cause riunite C-67/85, C-68/ 85 e C70/8 5, Kwekenij van der Kooy BV e altri contro Commissione, Racc. 1988, 219. 46 Cfr. in tale contesto le deroghe al caso causa C-480/98, Spagna contro Commissione, citata alla nota n. 45, 36 ss.

cisione entro il termine prescritto48. 42. La Commissione riconosce che il termine di due mesi per l’esecuzione delle decisioni della Commissione è troppo breve nella maggior parte di casi ed ha pertanto deciso di estendere tale termine a quattro mesi. D’ora in poi la Commissione specificherà due termini nelle proprie decisioni: - un primo termine di due mesi a decorrere dall’entrata in vigore della decisione, entro il quale termine lo Stato membro deve informare la Commissione dei provvedimenti previsti o adottati; - un secondo termine di quattro mesi a decorrere dall’entrata in vigore della decisione, entro il quale termine la decisione della Commissione deve essere stata eseguita. 43. Se incontra gravi difficoltà che gli impediscono di rispettare l’uno o l’altro di questi termini, lo Stato membro interessato deve informare la Commissione di dette difficoltà fornendo una giustificazione adeguata. La Commissione può allora prorogare il termine, conformemente al principio di leale collaborazione49. 3.2 Il ruolo degli Stati membri: dare esecuzione alle decisioni di recupero 3.2.1 Chi è responsabile dell’esecuzione della decisione di recupero? 44. Gli Stati membri sono responsabili dell’esecuzione della decisione di recupero. In base all’articolo 14, paragrafo 1, del regolamento di procedura lo Stato membro interessato adotta tutte le misure necessarie per recuperare l’aiuto dal beneficiario. 45. In tale contesto è importante tener presente che la Corte di Giustizia ha ribadito in varie occasioni che la decisione indirizzata dalla Commissione a uno Stato membro è obbligatoria per tutti gli organi di questo, ivi compresi quelli giurisdizionali50. Ciò significa che ciascun organo dello Stato membro coinvolto nell’esecuzione di una decisione di recupero deve adottare tutti i provvedimenti necessari per garantire l’attuazione immediata ed effettiva di siffatta decisione. [Omissis]

47 Causa C-207/05, Commissione contro Italia, Racc. 2006, I, 70, 31-36; cfr. inoltre la causa C-378/98, Commissione contro Belgio, Racc. 2001, I, 5107, 28, e causa C-232/05, Commissione contro Francia, citata alla nota n. 9. 48 Causa C-5/8 6, Commissione contro Belgio, Racc. 1978, 1773. 49 Sentenza dell’1 giugno 2006 nella

causa C-207/95, Commissione contro Italia. 50 Causa 249/85, Albako Marganinefabrik Maria von der Linde GmbH & Co. KG contro Bundesanstalt für landwirtschaftliche Manktondnung, Racc. 1987, 2345.


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3.2.2 Esecuzione dell’obbligo di recupero 47. L’articolo 14, paragrafo 3, del regolamento di procedura impone allo Stato membro di effettuare il recupero senza indugio. Come indicato nella sezione 3.1, la decisione di recupero deve specificare il termine entro il quale lo Stato membro è tenuto a fornire informazioni precise sulle misure che ha adottato e previsto per eseguire la decisione. In particolare, lo Stato membro è tenuto a fornire informazioni complete sull’identità dei beneficiari dell’aiuto illegale e incompatibile, sugli importi di aiuto in questione e sulle procedure nazionali applicate per il recupero. Inoltre, lo Stato membro è tenuto a fornire una documentazione attestante che ha notificato al beneficiario l’obbligo di rimborsare l’aiuto. Identificazione del beneficiario dell’aiuto e quantificazione dell’importo da recuperare 48. La decisione di recupero non sempre contiene informazioni complete sull’identità del beneficiario né sugli importi di aiuto da recuperare. In tal caso gli Stati membri devono individuare senza indugio le imprese oggetto della decisione e quantificare l’importo esatto di aiuto da recuperare presso ciascuna di esse. 49. In caso di regimi di aiuti illegali e incompatibili, lo Stato membro dovrà effettuare un’analisi dettagliata di ogni singolo aiuto concesso in base al regime in questione. Per quantificare l’importo esatto dell’aiuto da recuperare presso ogni singolo beneficiario nell’ambito del regime, esso dovrà determinare in che misura l’aiuto è stato concesso a un progetto specifico che, al momento della concessione, soddisfaceva tutte le condizioni dei regolamenti di esenzione per categoria o un regime di aiuti approvato dalla Commissione. In tali casi, lo Stato membro può anche sostanzialmente applicare i criteri de minimis vigenti al momento della concessione dell’aiuto illegale e incompatibile oggetto della decisione di recupero. 50. Nulla osta a che le autorità nazionali prendano in considerazione l’incidenza del sistema fiscale al fine di determinare l’importo da rimborsare.

52 Causa T-459/93, Siemens contro Commissione, Racc. 1995, II, 1675, 83. Cfr. inoltre la causa C-148/04, Unicredito S.p.A. contro Agenzia delle Entrate - Ufficio Genova I, Racc. 2005, I, 11137, 117-120. 53 Cfr. pagine 522 e seguenti dello studio. 54 A questo proposito lo studio illustra il recente tentativo delle autorità tedesche di dare esecuzione a un ordi-

Qualora il beneficiario di un aiuto illegale e incompatibile abbia pagato imposte sull’importo ricevuto, le autorità nazionali possono, in forza della propria normativa interna, tenere conto del pagamento già effettuato a titolo di imposta recuperando soltanto l’importo netto ricevuto dal beneficiario52. Secondo la Commissione, in siffatti casi, è necessario che le autorità nazionali si accertino che il beneficiario non potrà beneficiare di un’ulteriore detrazione fiscale adducendo che il rimborso ha ridotto il suo reddito imponibile, poiché ciò significherebbe che l’importo netto del recupero è inferiore all’importo netto ricevuto inizialmente. La procedura di recupero applicabile 51. Gli autori dello studio sull’attuazione forniscono ampie prove del fatto che le procedure di recupero variano considerevolmente da uno Stato membro all’altro. Lo studio mostra anche che, perfino entro uno stesso Stato membro, possono essere applicate procedure diverse per effettuare il recupero di aiuti illegali e incompatibili. Nella maggior parte degli Stati membri, la procedura di recupero applicabile, di norma, è determinata dalla natura della misura su cui si basa la concessione dell’aiuto. Complessivamente, le procedure amministrative tendono a essere più efficaci delle procedure di diritto civile in quanto le ordinanze amministrative di recupero sono o possono essere rese immediatamente esecutive53. 52. Il diritto comunitario non prescrive la procedura che lo Stato membro deve applicare per eseguire una decisione di recupero. Tuttavia gli Stati membri dovrebbero essere consapevoli del fatto che la scelta e l’applicazione di una procedura nazionale sono subordinate alla condizione che detta procedura consenta l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione. Ciò implica che le autorità responsabili devono vagliare attentamente l’intera gamma di strumenti di recupero disponibili in base al diritto nazionale e selezionare la procedura più idonea a garantire l’esecuzione immediata della decisione54. Es-

ne di recupero nel caso Kvaernen Warnow Werft in cui l’aiuto era stato concesso in base ad un accordo di diritto privato. Quando il beneficiario ha rifiutato di rimborsare l’aiuto, l’autorità competente ha deciso di non adire i tribunali civili, ma ha adottato un atto amministrativo in cui ordinava l’immediato rimborso dell’aiuto, Inoltre, ha dichiarato che l’atto era immediatamente esecuti-

vo. Il Tribunale amministrativo superiore di Berlino-Brandeburgo ha ritenuto che l’autorità competente non era obbligata a recuperare l’aiuto nello stesso modo in cui era stato concesso e ha ammesso che l’effetto utile della decisione della Commissione esigeva che l’autorità competente potesse recuperare l’aiuto attraverso un atto amministrativo. Qualora tale sentenza sia conferma-


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se dovrebbero, ove possibile, utilizzare procedure rapide previste dall’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro. Secondo i principi di equivalenza ed effettività, queste procedure non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario55. 53. In generale gli Stati membri non possono opporsi in qualsivoglia modo a una decisione di recupero della Commissione56. Di conseguenza, le autorità dello Stato membro sono tenute a non applicare disposizioni di diritto nazionale che possano ostacolare l’esecuzione immediata della decisione della Commissione57. La notifica e l’esecuzione degli ordini di recupero 54. Una volta determinati i beneficiari, l’importo da recuperare e la procedura applicabile, gli ordini di recupero dovrebbero essere inviati ai beneficiari dell’aiuto illegale e incompatibile senza indugio ed entro il termine prescritto nella decisione della Commissione. Le autorità responsabili dell’esecuzione del recupero devono assicurarsi che detti ordini di recupero siano eseguiti e che il recupero sia completato entro il termine precisato nella decisione. Qualora un beneficiario non si conformi all’ordine di recupero, gli Stati membri devono ottenere l’esecuzione immediata delle loro richieste di recupero in base al diritto nazionale. 3.2.3 Contenzioso dinanzi ai tribunali nazionali 55. L’esecuzione delle decisioni di recupero può dare luogo a contenzioso dinanzi ai tribunali nazionali. Benché esistano differenze alquanto significative tra le tradizioni e i sistemi giudiziari degli Stati membri, si possono distinguere due principali categorie di contenzioso inerenti al recupero: le azioni promosse dall’autorità incaricata del recupero volte a ottenere un’ordinanza del giudice per obbligare un beneficiario reticente a rimborsare l’aiuto illegale e incompatibile e le azioni promosse dai beneficiari per impugnare l’ordine di recupero. 56. L’analisi effettuata nel quadro dello studio sull’attuazione fornisce prove da cui risulta che l’ese-

ta in ulteriori procedimenti, si può prevedere che in Germania, in futuro, il recupero degli aiuti in principio sarà effettuato secondo norme di diritto amministrativo. 55 Causa C-13/01, Safalero, Racc. 2003, I, 8679, 49-50.

cuzione di una decisione di recupero può essere ritardata per anni quando le misure nazionali adottate in vista della sua esecuzione sono impugnate dinanzi ai giudici. A maggior ragione quando la decisione di recupero di per sé è impugnata dinanzi alle Corti comunitarie e quando ai giudici nazionali è richiesto di sospendere l’applicazione di misure nazionali in attesa che le Corti comunitarie si pronuncino sulla validità della decisione di recupero. 57. La Corte di Giustizia europea ha statuito che il beneficiario di un aiuto che avrebbe indubbiamente potuto impugnare dinanzi ad una Corte comunitaria una decisione di recupero della Commissione in forza dell’articolo 230 del Trattato CE non può più contestare la validità della decisione in procedimenti dinanzi a un giudice nazionale eccependo la legittimità della decisione58. Ne consegue che il beneficiario di un aiuto che avrebbe potuto proporre ricorso alle Corti comunitarie in forza degli articoli 242 e 243 del Trattato CE e non lo abbia presentato non può chiedere una sospensione delle misure adottate dalle autorità nazionali per dare esecuzione alla decisione in questione invocando motivi connessi alla validità della medesima. Ciò è di competenza delle Corti comunitarie59. 58. D’altro canto, quando non è manifesto che un ricorso di annullamento nei confronti della decisione contestata proposto dal beneficiario sarebbe stato ammissibile, si deve offrire al beneficiario dell’aiuto una protezione giuridica adeguata. Qualora il beneficiario dell’aiuto contesti l’esecuzione della decisione nell’ambito di procedimenti dinanzi un giudice nazionale eccependo l’illegittimità della decisione di recupero, il giudice nazionale deve presentare richiesta di pronuncia pregiudiziale relativa alla validità della decisione contestata dinanzi alla Corte di Giustizia conformemente all’articolo 234 del Trattato CE60. 59. Se il beneficiario chiede inoltre la sospensione temporanea di provvedimenti nazionali di esecuzione della decisione di recupero invocando la presunta illegittimità della decisione di recupero della Commissione, il giudice nazionale deve valutare se il caso di specie riunisca le condizioni stabilite dalla Corte di Giustizia europea nelle cause

56 Causa C-48/71, Commissione contro Italia, Racc. 1972, 529. 57 Causa C-232/05, Commissione contro Francia, citata alla nota n. 9. 58 Causa C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf GmbH contro Germania, citata alla nota n. 10.

59 Come ribadito nella causa C-232/05, Commissione contro Francia, citata alla nota n. 9. 60 Causa C-346/03, Atzeni e altri, Racc. 2006, I, 1875, 30-34.


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Zuckerfabnik61 e Atlanta62. Secondo giurisprudenza consolidata, la sospensione provvisoria può essere ordinata dal giudice nazionale a condizione che: 1) tale giudice nutra gravi riserve sulla validità dell’atto comunitario e provveda direttamente ad effettuare l’invio pregiudiziale, nell’ipotesi in cui alla Corte non sia già stata deferita la questione di validità dell’atto contestato; 2) ricorrano gli estremi dell’urgenza, nel senso che i provvedimenti provvisori sono necessari per evitare che la parte che li richiede subisca un danno grave e irreparabile; 3) il giudice tenga pienamente conto dell’interesse della Comunità; 4) nella valutazione di tutti questi presupposti, il giudice nazionale rispetti le pronunce della Corte o del Tribunale di primo grado in ordine alla legittimità dell’atto comunitario o un’ordinanza in sede di procedimento sommario diretta alla concessione, sul piano comunitario, di provvedimenti provvisori analoghi63. 3.2.4 Il caso specifico di beneficiari insolventi 60. Come osservazione preliminare, è importante ribadire che la Corte di Giustizia ha costantemente dichiarato che il fatto che un beneficiario sia insolvente o oggetto di una procedura fallimentare non ha alcuna incidenza sul suo obbligo di rimborsare un aiuto illegale e incompatibile64. 61. Nella maggior parte dei casi relativi ad un beneficiario di aiuto insolvente, non sarà possibile recuperare l’integralità dell’aiuto illegale e incompatibile (inclusi gli interessi) dato che i beni del beneficiario non saranno sufficienti per soddisfare tutti i creditori. Di conseguenza non è possibile ripristinare interamente la situazione quo ante nel modo tradizionale. Visto che la finalità ultima del recupero consiste nel porre fine alla distorsione di concorrenza, la Corte di Giustizia europea ha statuito che la liquidazione del beneficiario in tali casi può essere considerata come un’opzione ammissibile al recupero65.La Commissione ritiene pertanto che una decisione che ingiunge allo Stato membro di recuperare un aiu-

61 Cause riunite C-143/88 e C-92189, Zuekerfabrik Südendithmarschen A.G. e altri, Racc. 1991, I, 415, 23 ss. 62 Causa C-465/93, Atlanta Fruchthandelsgesellschaft mbH e altri, Racc. 1995, I, 3761, 51. 63 Causa C-465/93, Atlanta Fruchthandelsgesellschaft mbH e altri, citata nella nota n. 61, 51. 64 Causa C-42/93, Spagna contro Com-

to illegale e incompatibile presso un beneficiario insolvente possa essere considerata correttamente eseguita una volta che sia effettuato il recupero integrale oppure, in caso di recupero parziale, quando la società sia liquidata e i suoi attivi siano venduti a condizioni di mercato. [Omissis] 4. Conseguenze della mancata esecuzione della decisione di recupero della Commissione 69. Si ritiene che lo Stato membro si sia conformato alla decisione di recupero quando l’aiuto è stato integralmente rimborsato entro il termine prescritto oppure, nel caso di un beneficiario insolvente, quando la società sia stata liquidata a condizioni di mercato. 70. La Commissione può anche accettare, in casi debitamente giustificati, l’esecuzione provvisoria della decisione qualora essa sia oggetto di controversia dinanzi a tribunali nazionali o comunitari (ad esempio, il pagamento dell’importo integrale dell’aiuto illecito ed illegale in un conto di deposito bloccato70). Lo Stato membro deve accertarsi che cessi nei confronti dell’impresa il vantaggio derivante dall’aiuto illegale e incompatibile71. Lo Stato membro dovrebbe presentare per approvazione, alla Commissione, la giustificazione dell’adozione di siffatti provvedimenti provvisori e la descrizione completa del provvedimento provvisorio previsto. 71. Qualora lo Stato membro in questione non si conformi alla decisione di recupero e non sia stato in grado di dimostrare l’esistenza dell’impossibilità assoluta, la Commissione può avviare il procedimento di infrazione. Inoltre, purché siano soddisfatte determinate condizioni, la Commissione può, in applicazione del principio Deggendorf, chiedere allo Stato membro in questione di sospendere il pagamento di un nuovo aiuto incompatibile al beneficiario o ai beneficiari interessati. [Omissis] 4.2 Applicazione della giurisprudenza Deggendorf 75. Nella sentenza pronunciata nella causa Deggendorf, il Tribunale di primo grado ha statuito

missione (Merco), Racc. 1994, I, 4175. 65 Causa C-52/84, Commissione contro Belgio, Racc. 1986, 89. 70 In pratica, il pagamento dell’importo dell’aiuto, comprensivo di interessi, su un conto bloccato può essere definito in un contratto specifico, sottoscritto dalla banca e dal beneficiario, in base al quale le parti stabiliscono che l’importo sarà sbloccato

a favore dell’una o dell’altra una volta risolta la controversia. 71 Contrariamente alla creazione di un conto bloccato, l’utilizzazione di garanzie bancarie non può essere considerata un provvedimento provvisorio adeguato in quanto l’importo totale dell’aiuto resta a disposizione del beneficiario.


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che «quando la Commissione esamina la compatibilità di un aiuto con il mercato comune, essa deve prendere in considerazione tutti gli elementi pertinenti, ivi compresi eventualmente il contesto già esaminato in una decisione precedente nonché gli obblighi che tale decisione precedente ha potuto imporre ad uno Stato membro. Ne consegue che la Commissione era competente a prendere in considerazione, da un lato, l’eventuale effetto cumulato dai precedenti aiuti [...] e dei nuovi aiuti [...] e dall’altro, il fatto che gli aiuti [vecchi] dichiarati illegali [...] non erano stati restituiti»74. In applicazione di detta sentenza, e per evitare una distorsione di concorrenza contraria al comune interesse, la Commissione può ordinare allo Stato membro di sospendere il pagamento di un nuovo aiuto compatibile ad un’impresa che abbia a sua disposizione un aiuto illegale incompatibile oggetto di una precedente decisione di recupero e ciò fino a quando lo Stato membro si sia accertato che l’impresa in questione ha rimborsato il precedente aiuto illegale incompatibile. 76. Da qualche anno ormai la Commissione applica il cosiddetto principio Deggendorf in una maniera più sistematica. In pratica, nel corso dell’indagine preliminare di una nuova misura di aiuto, la Commissione chiede allo Stato membro di impegnarsi a sospendere il pagamento di nuovi aiuti a favore di qualsiasi beneficiario che debba ancora rimborsare un aiuto illegale e incompatibile oggetto di una precedente decisione di recupero. Se lo Stato membro non fornisce tale impegno e/o in assenza di dati chiari sulle misure di aiuto in questione75 che impediscono alla Commissione di valutare l’impatto globale del vecchio aiuto e del nuovo aiuto sulla concorrenza, la Commissione adotterà una decisione finale subordinata a condizioni in base all’articolo 7, paragrafo 4, del regolamento di procedura chiedendo allo Stato membro interessato di sospendere il pagamento del nuovo aiuto fintantoché non sia accertato che il beneficiario in questione ha rimborsato il precedente aiuto illegale e incompatibile, inclusi gli interessi di mora maturati. 77. Il principio Deggendorf nel frattempo è stato integrato negli Orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazio-

74 Cause T-244/93 e T-486/93, TWD Deggendorf contro Commissione, Racc. 1995, II, 2265, 56. 75 Ossia nel caso di regimi di aiuti illegali e incompatibili nei quali non erano noti alla Commissione né

ne di imprese in difficoltà76 nonché nei recenti regolamenti di esenzione per categoria77. La Commissione intende integrare tale principio in tutte le prossime norme e decisioni in materia di aiuti di Stato. 78. Infine, la Commissione si rallegra dell’iniziativa dell’Italia di inserire una specifica clausola Deggendorf nella sua legge finanziaria 2007, in base alla quale i beneficiari di nuove misure di aiuti di Stato sono tenuti a dichiarare che non hanno a loro disposizione aiuti di Stato illegali e incompatibili78. 5. Conclusioni 79. Il mantenimento di un sistema di libera concorrenza senza distorsioni è uno dei fondamenti della Comunità europea. Nel quadro della politica di concorrenza europea, la disciplina degli aiuti di Stato è essenziale per garantire che nel mercato interno continuino a vigere condizioni di parità in tutti i settori economici in Europa. Rispetto a questo compito essenziale, la Commissione e gli Stati membri condividono la responsabilità di garantire la corretta attuazione della disciplina sugli aiuti di Stato e, in particolare, l’esecuzione delle decisioni di recupero. 80. Mediante la pubblicazione della presente comunicazione, la Commissione intende accrescere la consapevolezza dei principi della politica di recupero degli aiuti illegali e incompatibili, quali definiti dalle Corti comunitarie, e chiarire la prassi che essa segue in materia di politica di recupero. La Commissione si impegna a conformarsi ai suddetti principi testè ribaditi e invita gli Stati membri a chiedere consiglio ogniqualvolta incontrino difficoltà nell’esecuzione delle decisioni di recupero. I servizi della Commissione restano a disposizione degli Stati membri per fornire, se necessario, orientamenti e assistenza. 81. In cambio, la Commissione si attende dagli Stati membri il rispetto dei principi della politica di recupero. Soltanto grazie agli sforzi congiunti della Commissione e degli Stati membri, la disciplina in materia di aiuti di Stato potrà essere attuata e conseguire l’obiettivo auspicato, ossia il mantenimento di una concorrenza senza distorsioni nell’ambito del mercato interno.

l’importo né i beneficiari. 76 G.U.C.E., 1 ottobre 2004, C 244, 2, 23. 77 Regolamento (CE) n. 1628/2006 della Commissione del 24 ottobre 2006, relativo all’applicazione degli

articoli 87 e 88 del Trattato sugli aiuti di Stato per investimenti a finalità regionale, G.U.C.E., 1 novembre 2006, L 302, 29. 78 Legge 27dicembre 2006, n. 296, art. 1223.


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RECUPERO DEGLI AIUTI DI STATO FISCALI, PROCEDURE APPLICABILI E PRINCIPI DI EQUIVALENZA ED EFFETTIVITÀ di Lorenzo del Federico

Il tema del recupero degli aiuti di Stato è di grande attualità, e quindi opportunamente la Commissione europea si preoccupa di sensibilizzare gli Stati al rispetto dei principi della politica di recupero, emanando a tal fine questa importante comunicazione. Si tratta di una comunicazione interpretativa e di indirizzo – del tutto analoga alle nostre circolari ministeriali – volta a far conoscere agli Stati e agli operatori i diritti e gli obblighi ad essi derivanti dal diritto comunitario, in particolare alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale. Si tratta quindi di un atto privo di valenza normativa e certamente non vincolante, che tuttavia esprime l’autorevole opinione della Commissione in merito alla politica di recupero, e pertanto è meritevole della massima considerazione. Il particolare interesse della comunicazione è poi dovuto al fatto che essa affronta i profili procedimentali e processuali dell’azione di recupero, che sino ad oggi sono risultati alquanto trascurati rispetto alle più note ed esplorate problematiche sostanziali in tema di aiuti di Stato1. Per quanto riguarda gli aiuti di Stato fiscali il punto centrale della comunicazione è certamente il 21, laddove viene chiarito che ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 3, del regolamento di procedura n. 659/1999 «il recupero va effettuato senza indu-

1 Per quanto riguarda la dottrina italiana sugli aiuti di Stato v.: ORLANDI, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario, Napoli, 1995; PINOTTI, Gli aiuti di Stato alle imprese nel diritto comunitario della concorrenza, Padova, 2000; sugli aiuti di Stato fiscali v.: FICHERA, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992; Id., Gli aiuti fiscali nell’ordinamento comunitario, in Riv. Dir. Fin., 1998, I, 84; RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi comunitari in materia di aiuti di Stato: i poteri del giudice nazionale, in Rass. Trib., 2003, 330; LAROMA JEZZI, Principi comunitari e controllo sopranazionale sugli aiuti fiscali, in Rass. Trib., 2003, 1074; GALLO, L’inosservanza delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato e sue conseguenze sull’ordinamento fiscale interno, in Rass. Trib., 2003, 2282; FANTOZZI, Problemi di adeguamento dell’ordinamento fiscale nazionale alle senten-

gio secondo le procedure previste dalla legge dallo Stato membro interessato, a condizione che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione». Risulta così confermata la tesi secondo cui in caso di recupero di aiuti di Stato fiscali, attuati mediante agevolazioni, esenzioni, riduzioni, ecc., qualsiasi contestazione dovrà essere portata alla cognizione del giudice tributario, sia in ragione della ormai raggiunta generalità della giurisdizione tributaria, sia in ragione della tipologia e della natura degli atti e delle azioni esperibili; a nulla potrà rilevare l’illegittimità comunitaria, la disapplicabilità delle norme nazionali, la carenza di potere, ecc., per poter sottrarre la controversia alla cognizione del giudice tributario. Le controversie su agevolazioni, esenzioni, ecc., saranno pur sempre riconducibili ad uno degli atti «la cui emanazione è prevista dalle singole leggi d’imposta all’esito dei procedimenti di controllo rivolti alla rettifica dell’imponibile o alla riliquidazione dell’imposta; pertanto si tratterà, comunque, di un atto rientrante nel catalogo degli atti impugnabili previsti dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992»2. Tale impostazione trova conforto nel punto 52 della comunicazione, laddove viene chiarito che «il diritto comunitario non prescrive la procedura

ze della Corte di Giustizia europea e alla decisioni della Commissione CE, in Rass. Trib., 2003, 2262; PIZZONIA, Aiuti di Stato mediante benefici fiscali ed efficacia nell’ordinamento interno delle decisioni negative della Commissione UE. Rapporti tra precetto comunitario e procedure fiscali nazionali, in Riv. Dir. Fin., 2005, 380; DEL FEDERICO, Agevolazioni fiscali nazionali ed aiuti di Stato, tra principi costituzionali ed ordinamento comunitario, in Riv. Dir. Trib. Internaz., 2006, 32; AA.VV., Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di Salvini, Padova, 2007; TESAURO, Processo tributario e aiuti di Stato, in Corr. Trib., 2007, 3665. 2 Così RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi comunitari, cit., 350-351; in senso analogo DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospet-

tiva italiana, ed. provv., Montesilvano, 2003, 197-199; GALLO, L’inosservanza delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato, cit., 2282; PIZZONIA, Aiuti di Stato mediante benefici fiscali ed efficacia nell’ordinamento interno, cit., 384; CIAMPOLILLO, Incompatibilità e recupero degli aiuti, in AA.VV., Aiuti di Stato in materia fiscale, cit., 397-403; TESAURO, Processo tributario e aiuti di Stato, cit., 3666-3667. Viceversa si mostra parzialmente favorevole alla concezione extratributaria FANTOZZI, Problemi di adeguamento dell’ordinamento fiscale nazionale alle sentenze della Corte europea, cit., 2267, secondo il quale la natura dell’obbligazione restitutoria perderebbe l’originaria connotazione tributaria laddove lo Stato dia corso all’azione di recupero mediante appositi interventi normativi.


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che lo Stato membro deve applicare per eseguire una decisione di recupero. Tuttavia gli Stati membri dovrebbero essere consapevoli del fatto che la scelta e l’applicazione di una procedura nazionale sono subordinate alla condizione che detta procedura consenta l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione. Ciò implica che le autorità responsabili devono vagliare attentamente l’intera gamma di strumenti di recupero disponibili in base al diritto nazionale e selezionare la procedura più idonea a garantire l’esecuzione immediata della decisione. Esse dovrebbero, ove possibile, utilizzare procedure rapide previste dall’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro. Secondo i principi di equivalenza ed effettività, queste procedure non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario». Orbene, è a tutti noto che le procedure tributarie, rispondono puntualmente alle esigenze di esecuzione immediata ed effettiva della pretesa fiscale, giacché caratterizzate da notevoli e penetranti privilegia fisci connaturati al tradizionale predominio dell’interesse fiscale (attività di polizia tributaria, poteri istruttori, atti autoritativi, autotutela esecutiva, devoluzione delle controversie alla giurisdizione tributaria, ecc.). Anche volendo prescindere dalla natura tributaria del rapporto, non avrebbe senso alcuno ipotizzare l’utilizzo di strumenti di recupero di matrice civilistica – si pensi ad es. alla ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c. – caratterizzati da rapporti paritetici, con la naturale cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, e tutti

3 Limitatamente alla dottrina italiana per i riferimenti essenziali v.: DANIELE, La restituzione dell’indebito nel diritto comunitario, in Riv. Dir. Eur., 1981, 425; IURILLI, La ripetizione dell’indebito nell’ambito del diritto comunitario, in Dir. e Prat. Trib., 1988, II, 455; FREGNI, In tema di tributi riscossi in violazione di norme comunitarie, in Riv. Dir. Fin., 1991, II, 10; AMATUCCI, I vincoli posti dalla giurisprudenza comunitaria nei confronti della disciplina nazionale del rimborso d’imposta, in Riv. Dir. Trib., 2000, I, 291; DEL FEDERICO, Azioni e termini per il rimborso dei tributi incompatibili con l’ordinamento comunitario, in Giur. Imposte, 2003, 271; DI VIA, La ripetizione dell’indebito, in AA.VV., L’attività ed il contratto, in Trattato di diritto privato europeo, a cu-

i conseguenziali profili di debolezza tipici dell’esecuzione ordinaria delle pretese obbligatorie. I passaggi della comunicazione su cui si ritiene opportuno soffermarsi sono quindi due: a) il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dallo Stato membro interessato, a condizione che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva; b) secondo i principi di equivalenza ed effettività, queste procedure non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dell’azione di recupero. Invero è ormai pacificamente esclusa la configurabilità di una specifica azione di ripetizione dell’indebito comunitario. Tutti gli interventi ripristinatori della legalità comunitaria, aventi ad oggetto rapporti patrimoniali, fiscali o extrafiscali, fra Stati e cittadini, amministrati, contribuenti, ecc., debbono essere attuati nei modi e termini previsti da ciascun ordinamento nazionale per le normali azioni equivalenti3. E ciò indifferentemente, sia per le azioni di rimborso dei tributi, o degli altri prelievi pubblici, riscossi in violazione del diritto comunitario, sia per il recupero degli aiuti di Stato indebitamente fruiti. Gli unici due limiti posti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia4 a specifica garanzia dell’ordinamento comunitario riguardano: - le condizioni, le modalità e i termini dell’azione, che non debbono essere disciplinati in modo differenziato, con regime meno favorevole di quello relativo alle normali equivalenti azioni di diritto interno5; - l’effettiva possibilità di esperire l’azione, nel sen-

ra di Lipari, Padova, 2003, III, 682. 4 Tra le tante v.: Rewe, 16 dicembre 1976, causa 33/76, in Foro It., 1977, IV, 192; Denkavit italiana, 27 marzo 1980, causa 69/79, 25-28, e Meridionale industria salumi, 27 marzo 1980, cause riunite 66/79, 127/79 e 128/79, 18-21, entrambe in Rass. Avv. Stato, 1980, I, 534; Deutsche Milchkontor GmbH, 21 settembre 1983, cause C205/82 e C-2015/82, in Foro It., 1984, IV, 298; San Giorgio, 9 novembre 1983, causa 199/82, in Foro It., 1984, IV, 298; Edis, 15 settembre 1998, causa C-231/96, 19, 34-39, in Rass. Trib., 1998, II, 1063; Marks & Spencer, 11 luglio 2002, causa C-62/00, 34, in Dir. e Prat. Trib. Internaz., 2003, 308. Per quanto riguarda la dottrina italiana v.: TIZZANO, La tutela dei pri-

vati nei confronti degli Stati membri dell’Unione europea, in Foro It., 1995, IV, 24; DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, cit., 144; Id., Giurisdizione comunitaria e mezzi di tutela del contribuente, in Dir. e Prat. Trib. Internaz., 2006, 1; TESAURO, Giurisdizione tributaria e diritto comunitario, in Corr. Trib., 2007, 466. 5 C.G.C.E.: Barra, 2 febbraio 1988, causa 309/87, in Foro It., 1988, IV, 422; Deville, 29 giugno 1988, causa 240/87, in Dir. e Prat. Trib., 1990, II, 987; Ansaldo, 15 settembre 1998, cause C-279/96, C-280/96 e C-281/96, 29, in Guida al diritto, 1998, 38, 15 ss.; Edis, 15 settembre 1998, causa C231/96, cit., 36; Dilexport, 9 febbraio 1999, causa C-343/96, 27, in Racc., I, 579, e Giur. Trib., 2000, 97.


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so che la disciplina nazionale (quand’anche non differenziata) non deve essere così restrittiva da rendere praticamente impossibile l’esercizio dei diritti6. In conclusione riprendendo il passaggio fondamentale della comunicazione, secondo cui il recupero va effettuato senza indugio secondo le procedure previste dalla legge dallo Stato interessato, a condizione che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva (punto 21, conf. all’art. 14, par. 3, del regolamento di procedura n. 659/1999), va radicalmente censurato il comportamento del legislatore italiano che invece tende ad emanare di volta in volta disposizioni appositamente dedicate

6 C.G.C.E., 17 novembre 1998, causa C-228/96, Aprile, 18, in Racc., I, 7141; Dilexport, 9 febbraio 1999, causa C-343/96, cit., 25 e 41-42; 8

al recupero di ogni specifico aiuto. Tale comportamento risulta pernicioso e illegittimo sotto diversi punti di vista: - richiede tempi lunghi di elaborazione e approvazione delle apposite disposizioni; - fa si che molto spesso le apposite disposizioni entrino in vigore quando ormai sono vanamente decorsi i termini prescrizionali o decadenziali contemplati dalla naturale disciplina di settore medio tempore applicabile; - crea incertezze, strumentalizzabili, sui profili del regime giuridico e della tutela giurisdizionale; - consente agli operatori di pianificare sofisticati escamotages di contrasto all’azione di recupero.

marzo 2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft, 85, in Racc., I, 1727; Marks & Spencer, 11 luglio 2002, causa C-62/00, cit., 34-

38; 24 settembre 2002, causa C255/00, G.I., 35-37, in Fisco, 2002, 7563.

SULLA LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA NULLITÀ DEI CONTRATTI DI LOCAZIONE NON REGISTRATI di Elisabetta Rispoli

La norma sulla nullità del contratto di locazione non registrato, introdotta dalla legge finanziaria per il 2005, ha superato il vaglio di costituzionalità. La Corte costituzionale con l’ordinanzan. 420 del 5 dicembre 20071 ha, infatti, dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, nella parte in cui prevede la nullità dei contratti non registrati. È stata considerata, dunque, legittima la scelta operata del legislatore che, al fine di contrastare le condotte evasive perpetrate in ambito immobiliare, aveva introdotto una disposizione sanzionatoria, che aveva alimentato un ampio dibattito dottrinale sulla natura e sugli effetti della mancata registrazione del contratto. Come noto, la legge finanziaria per il 2005 (art.

1 «È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, censurato, in riferimento all’art. 24 Cost., nella parte in cui prevede che i contratti di locazione sono nulli se non sono registrati. Appare, infatti, non conferente il parametro evocato, dal

1, comma 346, della legge n. 311 del 2004) aveva riservato una novità non gradita ai locatori prevedendo che «i contratti di locazione o che comunque costituiscono diritti reali di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati». Per avere un quadro normativo completo nella materia, occorre rammentare, inoltre, che, ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. n. 131 del 1986, Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, sono soggetti a registrazione «a) gli atti indicati nella tariffa, se formati per iscritto nel territorio dello Stato; b) i contratti verbali indicati nel comma primo dell’art. 3 [...]». Il successivo art. 3 del D.P.R. n. 131 del 1986 prevede che siano soggetti a registrazione «i contratti verbali a) di locazione o af-

momento che nell’ordinanza di rimessione non è chiarito sotto quale profilo sia prospettata la sua violazione, stante il carattere sostanziale della norma denunciata, che non attiene alla materia delle garanzie di tutela giurisdizionale. Il rimettente adombra, altresì, un profilo di irragionevolezza, pur non evocando for-

malmente l’art. 3 Cost., ma tale censura rappresenta un mero argomento teso a supportare la denunciata violazione dell’art. 24 Cost.». Ordinanza n. 420 del 5 dicembre 2007, presidente Bile, relatore Finocchiaro.


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fitto di beni immobili esistenti nel territorio dello Stato e relative cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite». Infine, secondo l’art. 5 della Tariffa del sopra menzionato D.P.R., sono soggetti a registrazione in termine fisso gli atti di «locazione e affitto di beni immobili: a) quando hanno per oggetto fondi rustici; b) in ogni altro caso». I primi interpreti facevano discendere, dalla lettura coordinata delle disposizioni citate, la nullità di tutti i contratti di locazione, ovvero dei contratti di locazione che costituiscono diritti reali di godimento, sottoscritti in data successiva all’1 gennaio 2005 e non registrati2. Questa era anche l’opinione del Tribunale di Torino che, con l’ordinanza dell’1 giugno 20063, aveva sollevato, in riferimento all’art. 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria per il 2005), nella parte in cui prevede la nullità dei contratti di locazione, comunque stipulati, nell’ipotesi di mancata registrazione. Il giudice rimettente, chiamato a pronunciarsi su un’intimazione di sfratto per morosità con contestuale citazione per la convalida, rilevava, in sintesi, che la disposizione in questione, subordinando la validità del rapporto civilistico di locazione all’adempimento di un onere fiscale, qual è la registrazione, appariva in contrasto con la citata norma costituzionale, in quanto condizionava all’espletamento di una tale formalità l’esercizio del diritto del locatore di agire in giudizio. Infatti, osservava il giudice a quo, la verifica dell’avvenuta registrazione del contratto di locazione è circostanza del tutto estranea alle finalità del giudizio principale. Quest’ultimo è diretto, in par-

2 NATTA-POZZI, «La locazione di immobili ad uso non abitativo», Rimini, 2005, 352-357, secondo cui, però, «dal tenore letterale della norma citata, sembra che questa trovi applicazione solo per i contratti di locazione e di comodato, con esclusione del contratto di affitto, visto che quest’ultimo ha per oggetto a norma dell’art. 1615 del c.c., il godimento di una cosa produttiva mobile o immobile, e non l’unità immobiliare. Per unità immobiliare si intende qualsiasi tipologia di edificio, abitativo e non abitativo, ma non anche gli immobili che non siano edifici, quindi la norma non interessa i terreni»; CAPOLUPO, Riviste le norme per i redditi di fabbricati, in Fisco, 2004, 43, 7233 ss.; contra, SCRIPELLITI, Ganasce fiscali sulle locazioni non

ticolare, all’accertamento dell’inadempimento da parte del conduttore degli obblighi nascenti dal contratto di locazione e, quindi, in definitiva, ad una pronuncia di risoluzione del rapporto, cui consegue il rilascio dell’immobile occupato; al contrario, la nullità è diretta a colpire e disincentivare i comportamenti di coloro che, non provvedendo alla registrazione del contratto, pongono in essere locazioni produttive di redditi non dichiarati ai fini delle relative imposte. Aggiungeva, inoltre, il rimettente che proprio il tenore letterale della norma impugnata induceva a ritenere che la stessa abbia voluto prevedere la sanzione della nullità in tutti i casi di omessa registrazione del contratto di locazione. Si determinerebbe, così, l’introduzione nel nostro sistema di un’ipotesi di invalidità del tutto differente rispetto a quelle stabilite nell’art. 1418 c.c., che si caratterizzano, come noto, dalla mancanza dei requisiti essenziali del contratto, ovvero dalla illiceità degli stessi. Il giudice a quo osservava, ancora, che la nuova disposizione avrebbe subordinato gli effetti del contratto di locazione all’esistenza di un requisito estraneo e successivo alla manifestazione di volontà delle parti e alla formazione del contratto, cosicché si sarebbe determinato, in questi casi, un ulteriore elemento costitutivo del contratto, nuovo rispetto a quelli già previsti dall’art. 1325 c.c. Inoltre, sempre secondo il medesimo giudice, sembrerebbe irragionevole collegare la sanzione della nullità alla violazione di un incombente di natura fiscale, in quanto la mera omissione di un adempimento di natura tributaria imposto ad entrambe le parti, successivo alla formazione del sinallagma contrattuale e, peraltro, affidato alla competenza di un organo amministrativo estra-

registrate: prime considerazioni su una nuova ipotesi di nullità, in Arch. loc., 2005, 111-114, secondo cui «una ipotesi ricostruttiva della norma espressa dal comma 346 deve intanto prescindere dal nomen juris (nullità), attribuendo piuttosto alla registrazione (rectius, richiesta di registrazione) il valore di fatto che integra e completa il procedimento (stipulazione e registrazione) che conduce al contratto, che così produrrà i suoi effetti tra le parti acquistando efficacia solo al momento del perfezionamento di quella che ora viene a configurarsi come una fattispecie contrattuale a formazione progressiva, e in deroga al principio di cui all’art. 1326 c.c., secondo il quale “il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha co-

noscenza dell’accettazione dell’altra parte” [...]. Se, dunque, si chiamano le cose con il loro nome e si riconosce che talvolta i nomina juris sono meri accidenti e non sostanza, si può convenire che il legislatore del comma 346 ha denominato nullità non una situazione patologica del negozio e nemmeno la perdita di efficacia del negozio quale sanzione per un inadempimento tributario [...], ma piuttosto ha inteso prevedere tra i requisiti del contratto, oltre alla volontà delle parti, l’ulteriore requisito della registrazione, in difetto del quale la locazione di immobili non si perfeziona e non è in grado di produrre effetti». 3 L’ordinanza è pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, edizione straordinaria del 26 aprile 2007.


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neo alla negoziazione, determinerebbe la conseguenza della caducazione del contratto. Proseguiva, infine, il Tribunale, osservando che il dubbio di costituzionalità della disposizione censurata si porrebbe anche alla luce degli effetti che un’eventuale declaratoria di nullità produrrebbe nel rapporto tra le parti. La nullità, infatti, investe in radice il contratto e determina, da un lato, la perdita del diritto del locatore di ricevere il canone di locazione e, dall’altro, qualifica lo stesso conduttore quale occupante sine titulo con diritto alla restituzione di tutto quanto già versato in precedenza in forza del contratto nullo. Peraltro, trattandosi di nullità rilevabile d’ufficio e da parte di chiunque vi abbia interesse, il Tribunale sottolineava che la possibile declaratoria di nullità del contratto non registrato esporrebbe lo stesso conduttore ad una situazione di incertezza per il rischio di veder caducato il proprio contratto di locazione ad opera di un terzo, acquirente dell’immobile già locato con contratto non registrato. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 420 del 5 dicembre 2007, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione sollevata. I giudici delle leggi, per ciò che concerne la presunta violazione dell’art. 24 Cost., rilevano l’inconferenza del parametro costituzionale invocato, dal momento che l’ordinanza di rimessione non chiarisce sotto quale profilo sia prospettata la violazione della citata disposizione costituzionale; ciò, in considerazione del carattere sostanziale della norma denunciata, che non attiene alla materia delle garanzie di tutela giurisdizionale, ma si limita a sancire una nullità non prevista dal codice civile. Gli stessi giudici, inoltre, sottolineano che la predetta norma – come esattamente evidenziato anche dalla difesa erariale – non introduce ostacoli al ricorso alla tutela giurisdizionale, ma

4 Si rammenta che l’Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 10 del 16 marzo 2005, aveva affermato che la norma in questione produce effetti solo in ambito fiscale. Negli stessi termini la Corte di Cassazione, sez. III, 27 ottobre 2003, n. 16089, in Giust. Civ., 2004, I, 961, aveva affermato che «Va anzitutto chiarito che, secondo la disciplina delle locazioni ad uso di abitazione dettata dalla legge n. 431 del 1998, la mancata registrazione del contratto di locazione non determina nullità». Più recentemente, si veda Cass., sez. II, 28 febbraio 2007, n. 4785, in Ced Cass., nella quale si afferma che «Le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad

eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la cui violazione determina la nullità del negozio, ai sensi dell’art. 1418 c.c. In merito, poi, alla presunta irragionevolezza della norma censurata, la Corte osserva che la stessa viene solo adombrata, in assenza di una formale evocazione del parametro di cui all’art. 3 Cost. e che, in ogni caso, il predetto richiamo alla irragionevolezza costituisce un mero argomento teso a supportare la denunciata violazione dell’art. 24 Cost. La sentenza in questione, dunque, con una sintetica motivazione, sembra voler porre termine al vivace dibattito dottrinale che si era sviluppato all’indomani dell’entrata in vigore della legge finanziaria per l’anno 2005, che aveva coraggiosamente introdotto una norma destinata a far discutere per la creazione di una categoria nuova di nullità non comminata dalla legge per condizioni o carenze originarie del contratto, ma per effetto di un adempimento di natura tributaria, imposto ad entrambe le parti del contratto successivamente alla stipula dello stesso. Quel che ormai sembrerebbe acclarato è che con questa sentenza la Corte sancisce in maniera inequivocabile che la violazione dell’obbligo della registrazione determina la nullità del negozio ex art. 1418 c.c. e che l’invalidità del contratto non esplica i suoi effetti solo ai fini fiscali4, ma anche in ambito civilistico. Ciò determina evidentemente delle gravi conseguenze per entrambi i contraenti e, in particolare, per l’inquilino che sembrerebbe subire gli effetti più gravi. Quest’ultimo, infatti, non avendo acquistato il diritto all’uso dell’immobile, sarà tenuto alla restituzione dello stesso secondo le norme civilistiche di cui agli artt. 1418 ss. c.c. e sarà esposto al rischio di dover anche corrispondere al proprietario una indennità a titolo risarcitorio per l’occupazione sine titulo dell’appartamento da lui posta in essere.

eludere, in tutto o in parte, la normativa fiscale, non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni». Infine, si rammenta la nota sentenza della Corte costituzionale n. 333 del 5 ottobre 2001, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 7 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, che pone quale condizione per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile locato, adibito ad uso abitativo, la dimostrazione, da parte del locatore, della regolarità della propria posizione fiscale quanto al pagamento dell’imposta di registro sul contratto di locazione, dell’I-

ci e dell’imposta sui redditi relativa ai canoni. Secondo i giudici delle leggi, infatti, «tale onere, imposto al locatore a pena di improcedibilità dell’azione esecutiva, ha fini esclusivamente fiscali e risulta privo di qualsivoglia connessione con il processo esecutivo e con gli interessi che lo stesso è diretto a realizzare, sicché esso si traduce in una preclusione o in un ostacolo all’esperimento della tutela giurisdizionale, in violazione dell’art. 24 della Costituzione». Su tali tematiche v. DEL FEDERICO, Sanzioni improprie ed imposizione tributaria, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di PerroneBerliri, Napoli, 2006, 519 ss.


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GiustiziaTributaria

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Indice cronologico delle sentenze

Commissione tributaria provinciale di Pistoia, sez. I, 22 gennaio 2007, n. 2 Commissione tributaria provinciale di Macerata, sez. IV, 25 gennaio 2007, n. 29

136 37

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. I, 21 febbraio 2007, n. 51

148

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. I, 8 marzo 2007, n. 17

149

Commissione tributaria regionale della Toscana, sez. XXVI, 13 marzo 2007, n. 14 Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XXIII, 13 aprile 2007, n. 66 Commissione tributaria provinciale di Lucca, sez. IV, 20 aprile 2007, n. 176

85 138 41

Commissione tributaria provinciale di Pisa, sez. II, 9 maggio 2007, n. 52

126

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. IX, 22 maggio 2007, n. 57

100

Commissione tributaria provinciale di Roma, sez. VIII, 27 giugno 2007, n. 246

158

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VI, 29 giugno 2007, n. 61

110

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. XV, 9 luglio 2007, n. 61

165

Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. VI, 10 luglio 2007, n. 67

47

Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, sez. I, 17 luglio 2007, n. 439

67

Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. X, 18 luglio 2007, n. 75

116

Commissione tributaria provinciale di Messina, sez. XIII, 19 settembre 2007, n. 228

87

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. I, 20 settembre 2007, n. 69

91

Commissione tributaria provinciale di Novara, sez. I, 3 ottobre 2007, n. 80

71

Commissione tributaria provinciale di Modena, sez. I, 10 ottobre 2007, n. 239

123

Commissione tributaria regionale del Veneto, sez. XXI, 15 ottobre 2007, n. 109

145

Commissione tributaria provinciale di Pistoia, sez. I, (decr. pres.) 19 ottobre 2007, n. 167

167

Commissione tributaria regionale della Puglia, sez. VII, 25 ottobre 2007, n. 21

95

Commissione tributaria regionale del Lazio, sez. XXI, 30 ottobre 2007, n. 118

169

Commissione tributaria provinciale di Benevento, sez. I, 31 ottobre 2007, n. 224 Commissione tributaria di II grado di Trento, sez. I, 14 novembre 2007, n. 110

54 171


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Indice cronologico 1 2008 205

Commissione tributaria provinciale di Genova, sez. XIII, 29 novembre 2007, n. 400

174

Commissione tributaria provinciale di Verona, sez. III, 20 dicembre 2007, n. 122

177

Commissione tributaria provinciale di Lecce, sez. V, 31 dicembre 2007, n. 417 Commissione tributaria provinciale di Cosenza, sez. I, 31 dicembre 2007, n. 570 Commissione tributaria provinciale di Lucca, sez. I, 28 gennaio 2008, n. 172

63 179 74


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Finito di stampare nel mese di giugno 2008 presso Genesi, CittĂ di Castello - Perugia




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