MAURIZIO NOBILE n. 21

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MAURIZIO NOBILE N. 21


n. 21


Maurizio Nobile n. 21 A cura di Marco Riccòmini


Quest’anno ho deciso di pubblicare un catalogo che comprendesse sia disegni che dipinti. Credo che questa scelta possa dare ad amici, clienti e colleghi un’idea più esaustiva e completa di quello che è il lavoro poliedrico e talvolta febbrile della mia galleria, che l’anno scorso ha raggiunto i trent’anni di attività. Ciò che vedrete sfogliando queste pagine è il risultato dell’ultimo anno di lavoro mio e del mio staff. Si tratta di opere che mi hanno emozionato, che ho amato e acquisito e sulle quali ho anche “scommesso”, perché più di una volta la ricerca di un’attribuzione, la definizione di una provenienza, l’aggiudicazione di un inedito mi hanno tenuto con il fiato sospeso. Tutte queste emozioni sono per me intrinsecamente legate a questi piccoli e grandi capolavori e alle loro storie passate e recenti, narrate con maestria dagli autori delle schede e dal curatore del volume Marco Riccòmini, con il quale ho avviato ormai da lunga data una solida collaborazione. A tutti loro vanno i miei più sentiti ringraziamenti. maurizio nobile


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Marco Palmezzano Forlì, circa 1459 – 1539

Martirio di san Sebastiano Olio su tavola, cm 90,8 x 59,4. In basso a sinistra, sul cartellino: «Marchus palmezanus / pictor foroliviensis / faciebat / MCCCCC ... ». Provenienza: Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle, inv. 405 (dalla fine del XIX secolo fino al 1965 circa); Vendita anonima; Lucerna, Galerie Fischer, 17 giugno 1972, lotto 53; Bologna, collezione privata; Christie’s, 28 gennaio 2015, lotto 138; Parma, collezione privata.

Bibliografia: Crowe - Cavalcaselle 1883 –1908, VIII, p. 361; Cyclopedia of Painters…1888, p. 388; Thode 1890, p. 251; Calzini 1894, p. 272; Ebe 1901, p. 27; Venturi 1913, pp. 65, 84; Buscaroli 1931, pp. 179-181, 227; Grigioni 1950, pp. 202-204; Grigioni 1956, pp. 99-100, 518, n. 44, ill. XXVIII; Berenson 1968, p. 315; Viroli 1991, I, p. 49; Mazza 1996, pp. 39-44, fig. 44; Nanni 2015, p. 206; Donati 2014, p. 67.

Una quiete sospetta; un tempo sospeso, aleggia attorno al santo narbonese, trafitto al tempo di Diocleziano. Sta nel mezzo, come fosse statua di cera sopra un piedestallo di pietra, gli occhi verso un punto distante, alto sopra il destino di chi ne prova umana compassione. Attorno armeggiano in quattro, posti agli angoli cardinali, come piedi d’un candelabro in bronzo patavino. Sguardi torvi e sospettosi, che rimbalzano dalla vittima allo spettatore, inquieti per un sinistro presagio. La Passio leggendaria li vuole suoi commilitoni, ma son secoli che han smesso insegne imperiali, vagando per boschi e per valli, armati di picche, archi e colubrine, a razziare bestiame, saccheggiare campagne. Son lanzi, giocatori di spada, dalle brache rosse e cappelli piumati, messi in fuga poc’anzi da un cavaliere corazzato (il santo, prima del martirio, sullo sfondo a destra), quando stavano per assalire una carovana di merci cammellate dirette verso una città turrita, Roma sopra un colle romagnolo, «che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude». Arrivarono da quelle parti a dar manforte all’esercito di Luigi XII nella vittoriosa e sanguinaria battaglia di Ravenna (1512), e negli anni di Palmezzano se ne faceva un gran parlare (sotto le insegne di Gaston de Foix, assieme a guasconi e picchieri tedeschi, dopo Brescia, dove trucidarono gli abitanti, misero a ferro e fuoco il borgo di Russi, a sole quattro ore di marcia da Forlì). 1. Buscaroli 1931, p. 170: «Iohannes Bellinus Inv. Pingebat». Riporta anche la presunta data: «1471». 2. Riccòmini 2016, n. 7. Tempera su tavola, cm 116 x 46. 3. Cséfalvay 1993, pp. 150-151, n. 131. Tempera e olio su tavola, cm 81 x 60.

Prima della recente pulitura era quello di Bellini il nome sul cartiglio, come a voler condurre la tavola verso il Veneto e un nome più noto1. La data non si legge del tutto, mancano gli ultimi numerali. Sarà contigua a quella della tempera speculare oggi presso La Quadreria di Palazzo Magnani a Bologna2, o a quella dove il bersaglio sacro rimane invece invariato, oggi presso il Christian Museum di Esztergom, in Ungheria, la latina Strigonia (inv. 55.221) (Fig. 1) 3, ossia attorno agli inizi del terzo decennio del Cinquecento. marco riccòmini

Fig. 1 Marco Palmezzano, Martirio di san Sebastiano. Esztergom, Keresztény Múzeum.


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Amico Aspertini Bologna 1474 – 1552

Tritone Penna, inchiostro bruno e bistro, tracce di matita nera e di nerofumo, mm 222 x 154. Incollato su foglio di supporto.

1. Lettera di Zacchi del 30 dicembre 2008. 2. Ongpin 2002, n. 1. 3. Inv. C 36-1860 e C 37-1860. 4. Faietti 1995, pp. 260-261, nn. 45-46.

Provenienza: Australia, collezione privata; Massa Lombarda, collezione privata; Roma collezione privata.

Il foglio raffigura un tritone da tergo che stringe nella mano destra una clava, mentre la lunga coda si attorciglia sul suo braccio sinistro, il cui gesto allude a qualcosa in lontananza. Considerato il più eccentrico dei pittori bolognesi del Cinquecento, Aspertini seppe fondere la conoscenza dell’antico con quella della pittura dei grandi maestri italiani e tedeschi a lui contemporanei. Sostenuto da un’insaziabile curiosità, elaborò un personalissimo linguaggio pittorico anticlassico dove fantasia, capriccio e immaginazione siglarono la sua inconfondibile cifra stilistica. Il foglio in esame è stato avvicinato da Zacchi1 ad un Satiro passato presso Jean-Luc Baroni Ltd.2, che condivide con il personaggio marino in esame la medesima posizione della mano sinistra. Simile è anche il tratteggio, così come la silhouette del tritone, studiata su sarcofagi antichi e modelli rinascimentali e che ritorna in due studi, custoditi nel Kupferstickabinett di Dresda: Schermaglia amorosa tra una Nereide ed un Tritone e Gli amori di un Tritone ed una Nereide 3. I due disegni, già datati dalla Faietti entro il primo decennio del Cinquecento, fanno ipotizzare anche per il foglio in esame una collocazione cronologica tra il 1505 e il 15104. Sono questi gli anni nei quali Aspertini rielabora in piena autonomia l’antico in chiave anticlassica e antinaturalistica e dove la sua fervida vena creativa licenzia opere come le due tavolette a monocromo con Tritoni, Nereidi e Amoretti (1505 –1506 circa) oggi nell’University Art Museum di Princeton. Ma sono soprattutto gli affreschi dell’Oratorio di Santa Cecilia a Bologna (1505 –1506) e quelli della cappella di Sant’Agostino in San Frediano a Lucca (1508 –1509) le opere in cui si colgono tangenze con il modello del nostro tritone: si vedano ad esempio alcuni personaggi presenti nella scena della Deviazione del fiume Serchio. L’attribuzione ad Amico Aspertini si deve a Marzia Faietti ed è stata confermata oralmente da Vera Fortunati, Alessandro Zacchi e dalla scrivente, dopo un esame diretto del disegno. daniela scaglietti kelescian


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Gerolamo Giovenone Vercelli, circa 1490 – 1555

San Sebastiano Matita, acquerello e biacca su carta nocciola, mm 512 x 347. Incollato su foglio di supporto. Sul foglio di montaggio, a penna e inchiostro bruno: «44»; «Sadeler»; «C. Dolci».

1. Per un aggiornato compendio critico sull’opera dell’artista si rinvia a Gaudenzio Ferrari, Gerolamo Giovenone…2004. 2. Patrucchi 2014, n. 35. 3. Romano 1986, p. 32.

Provenienza: Londra, Christie’s, 10 luglio 2001, lotto 27; Londra, Christie’s, 8 luglio 2009, lotto 106; Londra, Sotheby’s, 7 luglio 2011, lotto 60.

Nato a Vercelli intorno al 1490, Gerolamo Giovenone si formò forse al di fuori della città natale a contatto con il pittore casalese Giovanni Martino Spanzotti e il suo discepolo Defendente Ferrari, come dimostrano le consonanze stilistiche e le diverse collaborazioni nei primi anni di attività dell’artista1. A sostegno di tale ipotesi, un documento datato 2 agosto 1524, voluto da Amedeo Giovenone, padre dell’artista, a integrazione delle sue disposizioni testamentarie, precisa che all’epoca Gerolamo lavorava da molti anni e per proprio conto, possedeva un’abitazione e aveva una bottega indipendente. Intorno a questo periodo dovrebbe risalire la realizzazione di una pala d’altare, oggi conservata presso la collegiata di San Lorenzo a Mortara, raffigurante la Madonna col Bambino e i santi Rocco e Sebastiano 2. La presenza dei due santi protettori della peste ha permesso di ancorare la datazione del dipinto verso il 1524, anno in cui il morbo colpì Vercelli. Il nostro disegno, è uno studio della figura di San Sebastiano presente sulla destra della pala di Mortara (Fig. 2) 3. Rispetto all’ancona, nella quale il santo è posto all’estrema destra con il braccio sinistro che fuoriesce dalla tavola stessa, egli è qui rappresentato per intero nel mezzo di un paesaggio i cui dettagli sono resi con leggeri rialzi a biacca e trasparenti velature d’inchiostro acquerellato che infondono nei lontani del paesaggio un vaporoso atmosferismo già pervaso di quella dolcezza umbratile di matrice centroitaliana che si propaga anche all’armoniosa posa della figura. Altre piccole differenze intercorrono tra la pala d’altare e il disegno. In quest’ultimo in particolare il braccio destro rivolto verso l’alto, il volto leggermente più inclinato all’indietro e l’assenza dei dardi che caratterizzano l’iconografia del martire contribuiscono a una resa più libera della figura di Sebastiano che nella pala è quasi schiacciata fra il gruppo della Vergine col Bambino e la cornice lignea. davide trevisani

Fig. 2 Girolamo Giovenone, Madonna tra i santi Rocco e Sebastiano. Mortara (Pavia), Basilica di San Lorenzo. Archivio fotografico della Sezione Lomellina di Italia Nostra, su gentile concessione.


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Biagio Pupini detto Dalle Lame

Moltiplicazione dei pani e dei pesci

Bologna, documentato dal 1511 al 1551

Tempera nera, grigia, bianca, tracce di inchiostro bruno, mm 456 x 735. Incollato su supporto antico con finestra che lascia intravedere l’iscrizione sul verso. Al verso: «disegno famoso di frà bartolomeo di s. marco, quale per ordine di raffaele da urbino / suo maestro coppiò da un suo quadro ad’ / oggetto, che per la qualità della

1. Luca 9, 10-17; Giovanni 6, 1-14; Marco 6, 30-44; 8, 1-10; Matteo 14, 13-21; 15, 32-39. 2. Fioravanti Baraldi 1986, pp. 185-189. 3. Massari 1985, A XIV, p. 183. 4. Euboeus 1819, p. 101, n. 22; Zani 1821, VI, II, p. 280; Le Blanc 1854, I, p. 616, n. 11; Mariette 1857 – 1858, IV, p. 286; Ehrle 1908, p. 57. 5. Mariette 1857 – 1858, IV, p. 286. 6. Influente collezionista, incisore e disegnatore è stato una delle personalità di maggior spicco sulla scena artistica veneziana del Settecento, intrattenendo rapporti con i massimi esponenti della cultura europea del tempo. 7. Passavant 1891, p. 270. 8. Cordellier-Py 1992, II, pp. 640-641, n. 1050. 9. Si ringrazia la dottoressa Lhinares per aver confermato l’autografia di Anton Maria Zanetti dell’iscrizione sul verso. 10. Cfr. Lugt 2992f. Come si legge sul verso del foglio, Anton Maria Zanetti giudicò il disegno come la copia di un dipinto di Raffello condotta da Fra’ Bartolomeo e incisa da Giovani Battista Cavalieri.

composizione / et quantità delle figure fosse intagliato in rame, / vedesi la stampa col nome di raffaele, che è assai rara intagliata da giovanni battista / de cavalerij». Provenienza: Venezia, collezione Anton Maria Zanetti (Lugt 2992f ); Bruxelles, collezione privata.

Il foglio raffigura l’episodio narrato nei Vangeli della Moltiplicazione dei pani e dei pesci 1. Gesù ritiratosi su un monte nei pressi del mar di Galilea moltiplicò cinque pani e due pesci affinché la folla di fedeli accorsa ad ascoltarlo se ne potesse saziare. L’opera è del pittore e musicista Biagio Pupini dalle Lame, documentato tra il 1511 e il 1551, formatosi alla scuola di Francesco Francia e di Lorenzo Costa. Lavorò lungamente con Bartolomeo Ramenghi, detto il Bagnacavallo, aggiornando il suo linguaggio sulle opere di Raffaello, collaborando poi con Girolamo da Carpi e Girolamo da Treviso dai quali apprese la lezione del colorismo ferrarese e della Maniera arrivando a elaborare uno stile personalissimo e originale2. Il modello dell’opera è noto attraverso un’incisione realizzata in più esemplari da Giovanni Battista Cavalieri intorno alla metà del XVI secolo (Fig. 3),3 la cui inventio per lungo tempo è stata attribuita a Raffaello dai conoscitori di stampe antiche 4. Pierre-Jean Mariette nel suo Abecedario menziona l’incisione 5 e la pone in relazione ad un disegno che egli vide a Venezia nella collezione di Anton Maria Zanetti durante il suo viaggio in Italia6. Nel XIX secolo Passavant precisa che la grande composizione non è di Raffaello e che il foglio, dal quale è stata tratta l’incisione, si trova al Museo del Louvre 7. L’autore si riferisce ad un bel disegno del Bagnacavallo già in collezione Saint-Morys ed entrato nelle collezioni pubbliche francesi dopo la Rivoluzione (Fig. 4). Sino alla ricomparsa del foglio del Pupini in esame si pensava che il disegno del Louvre fosse l’esemplare visto da Mariette a Venezia8. Tuttavia è solo quello della galleria Nobile a presentare sul verso un’iscrizione di mano del Zanetti 9, che era solito utilizzare questo espediente per catalogare le opere della sua collezione precisandone l’attribuzione 10.

Fig. 3 Giovanni Battista de’ Cavalieri, Il Miracolo dei pani e dei pesci. Roma, Istituto Centrale per la Grafica, inv. fn 366, Fondo Pio, iv. Per gentile concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

Fig. 4 Bartolomeo Ramenghi detto il Bagnacavallo, Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Parigi Museo del Louvre, inv. 4283. © Musée du Louvre, Dist. rmn-Grand Palais / Suzanne Nagy.


11. Windsor Castle, inv. rcin 990044; cfr. Popham-Wilde 1949, p. 306, n. 783; Blunt 1971, n. 381. 12. Ruland 1876, n. XXIII, p. 43, n. 4. L’ipotesi è condivisa anche da Cordellier-Py 1992, II, p. 642, n. 1050. 13. Fioravanti Baraldi 1986, pp. 185-189. 14. «Il che fu cagione ch’egli facesse poi compagnia con Biagio Bolognese, persona molto più pratica nell’arte che eccellente; e lavorarono in compagnia a San Salvatore a’frati Scopettini, un refettorio, il quale dipinsero parte a fresco parte a secco; dentrovi quando Cristo sazia coi cinque pani e due pesci cinque mila persone. E quivi lavorarono an|cora nella libreria una facciata, con la disputa di Santo Agostino, nella quale fecero una prospettiva assai ragionevole» (Vasari 1550, ed. 1986, p. 776). 15. «La pittura in capo al refettorio fatta sul muro, rappresenta le turbe saziate nel deserto con cinque pani e due pesci. E opera di grande idea, e d’infinita fatica, eseguita dal Bagnacavallo, o sia da Maestro Bartolomeo Ramenghi, e dal Pupini, chiamato d’ordinario da Vasari Biagio Bolognese: ma ha patito non poco» (Trombelli 1752, p. 96). 16. «Il Refettorio poi e la libreria de’ canonici di S. Salvatore sendo stati posti in questo secolo ad uso di caserma di soldati, le famose pitture descritte singolarmente dal P. Trombelli nelle memorie di S. Maria di Reno hanno sofferto molti guasti: vennero però non ha molto riparate da un muro che le difende, e le lascia tanto spazio da poterne ancora vedere gli avanzi preziosi» (Vaccolini 1848, pp. 18-19). 17. Cantalamessa 1890, p. 91. 18. Maugeri 1994, pp. 317-318, 324-325; cfr. Serra in corso di stampa. 19. Popham-Wilde 1949, n. 394; Windsor Castle, inv. 0736. 20. Dominique Cordellier (comunicazione scritta, dicembre 2014, presso il Département des Arts Graphiques Musée du Louvre) Musée des Beaux-Arts de Besançon, inv. 4283 (D. 2652).

Nel 1876 Charles Ruland nel suo testo consacrato alle opere di Raffaello nelle collezioni di Windsor Castle aggiunge alcuni interessanti elementi per la nostra indagine. L’autore non solo mette in rapporto l’incisione di Cavalieri con il già noto disegno del Louvre ma menziona l’esistenza di un altro piccolo schizzo attribuito a Biagio Pupini 11 che raffigura la sola parte inferiore destra della figurazione (Fig. 5). Lo studioso è poi il primo ad individuare il disegno come preparatorio per l’affresco del refettorio del convento di San Salvatore di Bologna12. Tra il 1519 e il 1536 Pupini e Bagnacavallo attesero, a più riprese, alla decorazione di diversi ambienti del convento che da poco era stato ampliato13. Gli affreschi, già citati dal Vasari nella Vita del Bagnacavallo,14 erano ancora visibili nel 1752 quando il Trombelli li descrive sommariamente15. A distanza di un secolo il Vaccolini scrive che il complesso conventuale è stato trasformato in caserma e che le pitture «hanno sofferto molti guasti»16. Per molto tempo si è creduto che l’intera impresa del Pupini e del Bagnacavallo fosse andata perduta e così la dichiara Cantalamessa nel 189017. Recentemente, durante alcuni lavori di restauro della struttura (oggi adibita ad uffici della Direzione del VI Genio Militare), sono ricomparsi alcuni lacerti di decorazione parietale.18 Allo stato attuale delle ricerche però non è emerso alcun resto dell’affresco della Moltiplicazione dei pani e dei pesci, le cui uniche tracce sono perciò rimaste sulla carta. La grande scena dovette richiedere particolare impegno di progettazione ai due maestri che studiarono la composizione a più riprese e nei dettagli, come testimoniano i sopravvissuti disegni preparatori. Al già citato piccolo foglio di Windsor Castle attribuito al Pupini vanno aggiunte altre due prove grafiche. La prima, conservata nella stessa raccolta, è un frammentario studio della parte inferiore sinistra della composizione, già attribuito a Innocenzo da Imola19 e oggi ricondotto al Bagnacavallo (Fig. 6); la seconda è un inedito lacerto conservato al Museo di Besançon attribuito al Bagnacavallo da Cordellier 20. Le grandi dimensioni e il carattere di finitezza dei disegni del Louvre e della galleria Nobile lasciano pensare che questi due furono eseguiti per essere sottoposti all’esigente e colta committenza dei frati di San Salvatore affinchè potessero approvarne il progetto. Concordi sull’impaginato generale della scena i due maestri portarono minime varianti alla composizione lasciando su queste carte il loro personalissimo linguaggio e la testimonianza dell’interessante travaglio realizzativo dell’artista. Più compassato e meditato è il foglio del Bagnacavallo, mentre quello del Pupini, più di getto e ispirato, si presenta in un miglior stato di conservazione e si configura come il foglio più grande ad oggi conosciuto del suo corpus grafico. laura marchesini

Fig. 5 Attribuito a Biagi Pupini, Christ feeding the multitude. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2018, inv. rcin 990044.

Fig. 6 Bartolomeo Ramenghi, The Miracle of the loaves and fishes. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2018, inv. rcin 990736.



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Pietro degli Ingannati Documentato a Venezia tra il 1524 – 1529 e il 1548

Cristo in pietà tra la Madonna e san Giovanni Evangelista Olio su tavola, cm 69 x 91. Bibliografia: Marchesini 2011, pp. 51-53 («Atribuito a Jacopo de’ Barbari»).

1. Per un più recente contributo critico sul pittore veneto si veda: Caccialupi 1978. 2. Inv. n. 4. 3. Una replica della tavola qui in esame, d’esecuzione assai mediocre, in passato assegnata a Donato Veneziano e Girolamo da Santacroce, ma piuttosto lavoro alquanto ordinario di bottega, è conservata nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia (inv. n. 245). 4. Fra le opere firmate da Pietro degli Ingannati compare un Ritratto di giovane barbuto (Venezia, collezione Coin). Altri suoi dipinti firmati “Petrus De Inganatis p(inxit)” sono la Madonna con i santi Giovanni Battista, Maddalena, Nicola da Tolentino e una santa (già Berlino, Kaiser Friedrich Museum), distrutta nel 1945; una Madonna con san Giovanni Battista e una santa martire (Vercelli, Museo Borgogna); una Santa Caterina in un paesaggio (Portland, Art Museum). Resta tuttora di ubicazione ignota, l’unico dipinto firmato e datato dall’artista. Si tratta di una Sacra Famiglia col Battista e una santa (Orsola?), già in collezione Sellar e venduta nel 1931 presso Christie’s, Londra, recante la data 1548. 5. Sulla prassi seguita all’interno della grande bottega di Giovanni Bellini, in termini di organizzazione del lavoro di trasmissione e parafrasi dei modelli messi a punto nel tempo dal maestro e dai suoi più stretti collaboratori si veda: Tempestini 2010. Specie negli ultimi decenni di attività del grande caposcuola, questo compito sembra fosse affidato agli allievi più dotati di prima generazione rimasti per più ragioni legati al maestro anche quando già autonomi. Il processo formativo dunque, più che di prima, era di seconda o terza mano; è quanto a evidenza emerge dal referto stilistico delle opere del nostro pittore. 6. Inv. n. 61.40.

Si deve ad Andrea De Marchi la corretta integrazione dell’opera al catalogo di Pietro degli Ingannati1. L’immagine, dal forte impatto emotivo, incentrata sul nodo creato intorno a Cristo dalle figure della Vergine e dell’Evangelista Giovanni, a sorreggerne il corpo esanime per esporlo allo sguardo compassionevole del devoto, deriva da una ben nota composizione di Giovanni Bellini – o da una successiva variante elaborata in seno al suo grande atelier – attestata dalla tavola, non autografa, degli Staatliche Museen di Berlino2. Rispetto al modello berlinese, la nostra tavola differisce tuttavia per la fisionomia data alla figura dell’Evangelista 3 ; la caratterizzazione dei tratti del volto e l’insistente fissità dello sguardo, lasciano pensare che possa trattarsi di un possibile ritratto, genere nel quale l’Ingannati sembra essersi cimentato4. La citazione quasi palmare del modello di Berlino palesa nell’Ingannati un iter formativo svoltosi, forse sul principio del secolo, all’interno della vivace e folta bottega del maestro 5. Veneto con certezza, ma non veneziano di nascita, le sue prime tracce a Venezia si registrano a cominciare da 1529, la critica più avveduta ipotizza un suo avvio sotto la guida di Alvise Vivarini. Il suo stile noto attraverso le suo opere firmate, rivela altresì l’influenza di Vincenzo Catena, assidua presenza in quegli anni dell’atelier di Giovanni Bellini, di Benedetto Diana, specie per la tavolozza cromatica, e progressivamente di Palma il Vecchio; la fusione cui l’Ingannati perviene di tutti questi variegati, pur quando prossimi, idiomi belliniani, ha portato spesso la critica a confonderne lo stile con quello di Francesco Bissòlo. Alcun dubbio permane circa l’autografia della tavola come attesta un confronto con alcune sue opere certe, un esempio per tutte la Santa Caterina in un paesaggio, firmata, dell’Art Museum di Portland6: identico il trattamento sfumato degli incarnati, il disegno degli occhi, così come l’effetto appiattito dato allo scorcio dei volti e la resa filiforme, disegnata in punta di pennello, delle capigliature. davide trevisani


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Bartolomeo Passerotti Bologna 1529 – 1592

Ritratto di collezionista Olio su tela, cm 135 x 80. Provenienza: Ungheria e Germania, Collezione Esterházy; Londra, Sotheby’s, 19 gennaio 1966, lotto 28; New York, Sotheby’s, 19 marzo 1981, lotto 131; Milano, Collezione privata.

1. Ghirardi 1990, pp. 257-258, n. 82. Olio su tela, cm 120 x 98.

Bibliografia: Benati 1981, p. 31, tav. 42; Porzio 1984, II, p. 43; Franzoni 1984, p. 302, nota 104; Ghirardi 1986, II, p. 555; Höper 1987, II, p. 237, n. A 38; Benati 1988, n. 7; Ghirardi 1990, pp. 170-171, n. 20; Benati 2005, n. 5.

Non guarda in camera ma verso un punto lontano, oltre il margine della fine tela spigata e fuori dalla penombra della stanza, come istruito del pittore che gli siede davanti. Quasi fosse un lasciapassare, assieme ad un foglio ripregato scolorito dal tempo (e che avrebbe sciolto l’enigma del suo nome), mostra tra le dita della mano destra una medaglia dorata col profilo laureato d’un imperatore romano, riquadrata da una cornice laccata di nero. Alle sue spalle, ammassati sopra un tavolo da biblioteca coperto da un velluto rosso, stanno gli oggetti a lui più cari, coi quali voleva essere ricordato imperituramente (e forse anche sepolto, come antico monarca). Un torso in marmo, acefalo e monco, d’una sabina agguantata da un romano nella calca del celebre Ratto; un bronzetto patinato (e forse patavino) verdino dai riflessi aurei, un busto in marmo pario d’Atena di profilo, una testa calva e pensosa, anch’essa marmorea, così veritiera nell’espressione da farla credere rinascimentale e non di scavo, e una pigna di volumi stretti da lacci in vacchetta chiara. Uno di essi rimane aperto, e mostra incise a colori altre medaglie o fiori di conio d’epoche remote. Collezionista o mercante, il dubbio non si scioglie. Detto del bergamasco Moroni quando stava in Ungheria è, invece, prodotto felsineo, parto del bolognese Passerotti, come il fondo violaceo della stanza ci ha insegnato a riconoscere. Sta a fianco dell’anonimo ritratto presso l’Ambasciata italiana a Londra, pressappoco coevo (ossia del settimo decennio del Cinquecento), col quale divide la posa con la moneta in mostra, le sculture e i libri rari e preziosi ammonticchiati sul tavolo1. marco riccòmini


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Giovanni Battista Cremonini

San Giovanni Battista e i Farisei

Cento, circa 1540 – 1610

Olio su tela, cm 177,5 x 123. Provenienza: Bologna, cripta di San Michele in Bosco; Milano, collezione privata. Bibliografia: Malvasia 1686, p. 329; Guida alle pitture… 1792, p. 416; Zucchini 1943,

1. Benati 2005, p. 128. 2. Giovanni: 1, 19-23. 3. Giovanni: 1, 29. 4. Malvasia 1686, p. 329; Guida alle pitture…1792, p. 416. 5. Zucchini 1943, p. 31. 6. Benati expertise 2014. 7. Riccòmini 1988, n. 5. 8. Micheli 2016, p. 78. 9. Palazzo Vassé 2009. 10. Clerici Bagozzi 2011. 11. Micheli 2016.

p. 31; Il patrimonio artistico 1979, p. 59; Riccòmini 1988, n. 5 («Bartolomeo Passerotti»); Benati 2005, p. 128; Clerici Bagozzi 2001, p. 300; Micheli 2016, pp. 77-78, fig. 84.

Spetta a Daniele Benati l’attribuzione a Giovanni Battista Cremonini di questo dipinto raffigurante san Giovanni Battista e i Farisei.1 Il soggetto fonde in un unico atto temporale due episodi evangelici della vita di san Giovanni Battista: la visita dei sacerdoti mandati dai Farisei ad interrogarlo su chi egli fosse e in nome di chi stesse battezzando2, e il Battista che scorgendo Gesù lo indicò come l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo 3. La rarità dell’iconografia ha consentito allo studioso di identificare l’opera con il San Giovanni Battista interrogato dalle turbe del Cremonini ricordato da Malvasia 4. Realizzata nel 1596 5, la pala era posta in uno degli altari della cripta della chiesa di San Michele in Bosco a Bologna. In effetti, anche le ridotte dimensioni dell’opera ben si accorderebbero con l’originaria ubicazione in una cappella ipogea6. Con le soppressioni napoleoniche parte del patrimonio del complesso conventuale si disperse e tra esso anche il dipinto, riemerso sul mercato antiquario 7, a restituire un’importante testimonianza del patrimonio artistico bolognese. La tela viene anche considerata il «capolavoro dell’artista per nobiltà di concezione e qualità della pittura»8, tassello fondamentale per la conoscenza del poco noto artista centese. Il Cremonini infatti dedicò la maggior parte della sua attività alla decorazione a fresco che più di ogni altro medium ha sofferto le ingiurie del tempo. Tuttavia recentemente la critica ha recuperato parte del suo corpus attraverso lo studio e la pubblicazione di cicli di affreschi conservati nei palazzi Pietramellara9, Zambeccari 10 e Bentiviglio11. laura marchesini


8

Antonio Maria Panico Bologna, circa 1555 - 1560 – Farnese (?) ante 1617

1. Con il parere di Roberto Longhi che lo riferiva a Domenichino il dipinto venne presentato in una pagina pubblicitaria sul ‘Burlington Magazine’ del 1968. 2. Brogi 1988, p. 42.

Santa Margherita Olio su tela, cm 68 x 51,5. Bibliografia: ‘The Burlington Magazine’, 1968, tav. XXII; Brogi 1988, pp. 42-43, tav. 85; Bertini 1995, p. 253.

Il vinto lacertide, fantasioso varano dei tempi in cui veniva trafitto in una celebre tela del fiorentino Doni (Paolo Uccello), non lascia spazio all’immaginazione. Quella che impassibile volge lo sguardo verso un punto distante - incurante sia del sauro, la cui coda squamata sfiora i suoi piedi nudi, sia di chi, come noi, guarda curioso dentro la tela - è la vergine Margherita d’Antiochia, la greca Marina. Lo dice anche la palma che ostenta, a memoria del martirio patito per aver rifiutato di sposare Olibrio, prefetto della provincia al tempo di Diocleziano (la Leggenda Aurea vuole che il mostro - Satana in persona - inghiottita la fanciulla quand’era in prigione sia quindi esploso al suo segno della croce, ma si tratta d’una versione apocrifa e Jacopo da Varagine è da prendere con le pinze). L’ubertoso paese alle sue spalle sarebbe, dunque, quello dell’antica Pisidia, nell’odierna Turchia meridionale, se non somigliasse piuttosto alla Campagna romana - col placido corso d’acqua tra rocce e forre e querce a fare ombra a un inizio d’Arcadia - codificata e riconoscibile a partire dai dipinti romani di Annibale Carracci e dei suoi allievi e seguaci. Tra quelli andrà cercato anche l’autore di questa tela, che un tempo non lontano si pensava addirittura del Domenichino1, ossia colui che tra i discepoli di Annibale a Roma scelse il paesaggio quale sua sigla distintiva. Formatosi a Bologna (Malvasia dice col Fontana, Calvaert e quindi Ludovico Carracci), Panico raggiunse Annibale al cantiere di palazzo Farnese a Roma, entrando presto al servizio di Mario Farnese, duca di Latera. Confinata a studi specialistici, la sua opera rimane ancora in larga parte oscura e legata alla committenza Farnese tra Roma e l’Alto Lazio. Con Annibale in mente, la sua Margherita “romana” fa mostra delle sue letture classiche, ricercando un risultato dichiaratamente neo-cinquecentesco, così che la tela si direbbe «una sorta di Giulio Romano in panni seicenteschi»2. marco riccòmini


9

Scuola spagnola, secolo XVII

Ritratto di giovane di sguincio Olio su tela, cm 64 x 46,5. Provenienza: Londra, Christie’s, 1 agosto 1929, lotto 165: «G. B. Moroni. Portrait

1. Vecellio 1664, p. 212. 2. Giustiniani (Chio 1564 - Roma 1637) 1628.

of a Gentleman, in brown doublet with dark sleeves and white collar, 23 1/2 in. by 17 1/2 in.».

Ci guarda di sbieco; il mento mal rasato, l’ombra del bigote sotto il naso a risaltare le labbra carnose, un ricciolo ribelle che esce sulla tempia da quella specie di kalpak che porta in testa, ovvero una «berretta alquanto alta», [con corredo di «una gorgiera, le lattughe ai polsi, le calze intere e le brache»], come si descrive l’abito del nobile spagnuolo nella stampa di fine Cinquecento del Vecellio, parente del più celebre Tiziano (Degli habiti antichi et moderni di diversi parti del mondo libri due, stampato a Venezia nel 1664) 1. Che sia iberico il giovane in posa è solo un sospetto, alimentato in parte dalla foggia del suo vestiario; che sia nobile lo si evince dalla qualità di ciò che indossa, dal colletto di fine pizzo di Fiandra, candido e inamidato. Ripreso di schiena in una stanza ombrosa, non si capisce cosa abbia tra le braccia. Oltre la spalla sinistra esce il profilo perduto (e in parte abraso, ottenuto a risparmio col bruno Terra di Siena della preparazione della tela) di quel che potrebbe essere un’arma, la canna d’una colobrina o, meglio ancora, il manico di un liuto (guitarra, mandola, o forse mandolina). Se così fosse staremmo guardando un suonatore, di mestiere o per diletto, sorpreso dall’amico pittore mentre accorda il suo strumento a lume di candela, preparandosi per una quartina di romances in recitado alla spagnola (come descriveva Vincenzo Giustiniani 2) nel silenzio d’una stanza, dalle pareti nude come quelle della cella d’un convento. marco riccòmini


10

Attribuito a Guido Cagnacci

Studio di volto muliebre

Santarcangelo 1601 – Vienna 1663

Sul verso a matita: studio di panneggio. Matita rossa su carta avorio, mm 214 x 279. Provenienza: Bologna, collezione privata.

La luce colpisce il volto sopra la tempia, rischiarando l’aperta guancia, ma lascia pozze arrotondate di ombra nella cavità oculare e sotto le parti più sporgenti. La morbidezza della sanguigna si fa ancora più dolce in quei bordi che si perdono nel gonfiore della carne. Anche lo sguardo è smarrito nella penombra, eppure aggiunge un’espressione partecipe al disporsi diagonale del capo. Sembra di una madre che contempla il figlio questo sorriso trasognato, uno sguardo verso il basso carico di tenerezza. Le ciocche sparse dei capelli fanno propendere poi per un soggetto muliebre, anche se non si esclude che in posa ci fosse un ragazzo. Lo stile soffuso del disegno indurrebbe a cercarne l’autore nel Seicento toscano, in quella cerchia di artisti della dolcezza, che va da Furini a Pignoni, ma alcuni caratteri somatici come l’arricciarsi della bocca o la pesante rotondità della palpebra, fanno spazio a un’ipotesi diversa e ricordano le languide modelle di Guido Cagnacci. Da tempo raccolgo prove sulla grafica del genio romagnolo ed è ormai chiaro che il suo modo di disegnare venga dalla lezione di Federico Barocci. L’atmosfera che restituisce la sanguigna, sfocata da un feltro, gli consentiva di anticipare sulla carta il senso di quel che avrebbe compiuto il pennello. Forse l’origine di quel profilo aggettante viene dall’Apollo di Ludovico Carracci, eseguito a Bologna nel palazzo Segni Masetti, ma nel corpus del Cagnacci il brano diviene motivo ricorrente e quelle palpebre ipertrofiche si attestano al pari di una firma. Sin dalla Madonna col Bambino (una versione a Milano, in collezione Koelliker (Fig. 7), l’altra a Firenze, in collezione Strozzi Sacrati), fino alle più conosciute eroine suicide, Guido adotta lo stesso scorcio di volto sporgente, che mostra un analogo gonfiore del mento. Anche la giovane serva nella Giuditta della Pinacoteca Nazionale di Bologna, nel distogliere il viso dalla testa mozzata di Oloferne, si pone in una posa simile. Altri disegni di Cagnacci sono eseguiti a due o tre matite, ma lo stile è di fatto il medesimo e si accosta ad un foglio firmato e quasi speculare del Museo di Stoccolma (Fig. 8). Va rilevato infine che, quasi nascosto dall’immagine del volto muliebre, si scorge il piccolo busto di un bambino, disegnato con tratto più lineare, in un diverso orientamento del foglio. Difficile applicare una datazione al foglio, ma ci si può orientare verso gli anni Quaranta, quando l’artista abbandona i netti chiaroscuri di vocazione caravaggesca. massimo pulini

Fig. 7 Guido Cagnacci, Madonna col Bambino. Milano, collezione Luigi Koelliker, inv. LK 1057. Archivio fotografico Pulini, su gentile concessione.

Fig. 8 Guido Cagnacci, Profilo femminile. Stoccolma Museo Nazionale, inv. 974. Archivio fotografico Pulini, su gentile concessione.


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Felice Ficherelli detto il Riposo

La punizione di Prometeo

San Gimignano 1603 – Firenze 1660

Olio su tela, cm 165,5 x 202,5. Bibliografia: Volpi 2008, p. 148. Provenienza: Roma, collezione privata.

1. La tela è passata di recente sul mercato antiquario fiorentino: Pandolfini, 24 novembre 2014, lotto 28. 2. Per la sua illustrazione si veda: Baldassari 2009, pp. 52 e 361, tav. XXXIII.

Prometeo, figura grande al naturale, sta subendo il supplizio inflittogli da Zeus per punirlo delle sfide lanciate agli dei. Il capo dell’Olimpo sfogò la propria collera sul paladino dell’umanità facendolo incatenare nudo ad una rupe del Caucaso e inviandogli tutti i giorni l’aquila a mangiargli il fegato che durante la notte ricresceva. La composizione teatrale, la gestualità ampia, la luce che accarezza le carni e l’addensarsi della materia pittorica che pur lascia intatto il disegno, come conveniva ad un fiorentino di razza, suggeriscono di attribuire il dipinto a Felice Ficherelli, pittore specialista di quadri da sala e da camera incentrati su soggetti tragici e violenti, tratti dalla storia romana e dalla mitologia. Formatosi con Jacopo da Empoli, Ficherelli, a partire dalla metà del quarto decennio, fece propria la lezione morbida e sensuale di Francesco Furini, per poi accostarsi negli anni Cinquanta allo stile più drammatico e turbato del coetaneo Cecco Bravo. È all’ultimo decennio dell’attività del nostro pittore che appartiene il Prometeo in esame, ispirato alle tele imperniate sulla tortura dell’eroe lasciate a Firenze da Salvator Rosa, verosimilmente note a Ficherelli che in questa tela tradusse il medesimo episodio con il consueto tono elegante e raffinato sorvolando su particolari più cruenti come l’urlo spasmodico del semidio o la descrizione delle viscere. La figura di Prometeo trova confronti ineccepibili con quella di Oloferne dipinta da Ficherelli nella tela con Giuditta e Oloferne già in collezione Giaquili Ferrini e poi Maestrucci a Firenze1. Simili sono i volti fortemente scorciati, le pose disarticolate in forte diagonale e perfino la morfologia delle mani e dei piedi dei protagonisti delle due tele. La conformazione del terreno e il cielo grigio striato di nuvole evocano il Giona e la balena di collezione Luzzetti a Firenze2. francesca baldassari



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Pier Francesco Mola Coldrerio 1612 – Roma 1666

Testa di donna Olio su carta, incollata su tela, cm 38,2 x 26,1. Sul retro della tela: «del Mola 175 (?)». Provenienza: collezione privata.

1. Sul pittore, con ulteriore bibliografia, si veda: Cocke 1972; Pier Francesco Mola 1612 – 1666… 1989; Petrucci 2012. 2. Si veda: Petrucci 2012, pp. 256, 264, nn. A24, A34.

Il ritratto, inedito, porta una tradizionale attribuzione a Pier Francesco Mola, attestata dall’antica scritta visibile sul retro della tela di rifodero e confermata dall’analisi stilistica1. Effettivamente appare tipica dell’artista ticinese la conduzione sciolta e pittorica, ottenuta attraverso una pennellata liquida accostata a tratti più materici, con risalti a colpi di biacca nelle parti in luce, sul profilo del naso, sopra la fronte, sugli zigomi e nel lembo di scialle in evidenza sulla sinistra. Il volto è in parte immerso in una penombra schiarita, ottenuta attraverso velature brune in trasparenza sulla preparazione rossiccia, lasciata in evidenza sul fondo. La stessa preparazione che forma il volume della capigliatura, segnata sopra la fronte da piccoli tocchi chiari a punta di pennello, specifici del Mola. Si tratta di un prodotto emblematico della sua ritrattistica, sempre in bilico tra il ritratto vero e proprio, l’allegoria e lo studio di carattere, che privilegia personaggi di estrazione popolare, dai lineamenti ruvidi e scabrosi, colti con grande realismo, talora al limite del grottesco, rispetto alla ricerca idealizzante propria della ritrattistica romana del tempo. Sono evidenti le caratteristiche carraccesche di un tale genere di ritrattistica, sulla scia delle “teste di carattere” di Annibale Carracci, anche nel procedimento tecnico che per questi studi spesso preferisce il supporto liscio e assorbente della carta su cui dipingere ad olio. Possiamo citare come confronto, sia in termini stilistici che iconografici, la Testa di donna della Galleria Doria Pamphilj e ancor più la Testa di vecchia della Galleria Pallavicini di Roma (Fig. 9), documentata nel testamento del cardinale Lazzaro Pallavicini del 1679: «Ritratto d’una Vecchia con un sciugatore in collo; et un altro in spalla di 1 ¾ tondo cornice intagliata dorata - del Mola». Lo stesso «sciugatore» al collo della nostra signora2. È plausibile una datazione del ritratto oggetto di questo studio attorno al 1645 –1650, in conformità con la vecchia Pallavicini, anteriormente alla svolta classicista avviata a partire dagli anni Cinquanta, dopo il definitivo rientro a Roma del pittore girovago. Non abbiamo elementi per stabilire l’identità della donna, dai capelli rossicci, un po’ scomposti ed arruffati, precocemente invecchiata e con poca cura del suo aspetto esteriore, forse una familiare del pittore. Si potrebbe pensare, compatibilmente con la datazione del ritratto, in via ipotetica alla madre, Elisabetta Cortesella, nata a Como attorno al 1596. francesco petrucci

Fig. 9 Pier Francesco Mola, Testa di vecchia. Roma, Galleria Pallavicini. Archivio fotografico Petrucci, su gentile concessione.


13

Alessandro Rosi Firenze 1627 – 1697

Paride Olio su tela, cm 65,7 x 49.

1. Parigi, Tajan, 21 giugno 2010, lotto n. 26.

Un giovane sofisticato, tagliato a mezzo busto, si staglia sul fondo azzurro; con la mano destra ci offre una mela cotogna dalle grandi foglie, con l’altra impugna una freccia. Sfoggia un abbigliamento ricercato, caratterizzato da vari strati sontuosi di stoffe, gonfiate da ampi panneggi. Il frutto con l’iscrizione latina «Detur pulchriori» ci svela la sua identità: è Paride pronto a consegnare il pomo d’oro alla dea prescelta fuori campo, Afrodite, che viene così a confondersi con l’osservatore, intensificando il coinvolgimento narrativo. I dati di stile indicano che siamo di fronte a un’opera di Alessandro Rosi, pittore cresciuto alla scuola di Cesare Dandini, come attestano i tratti acerbi ma sensualmente intriganti del volto del principe troiano. La condotta densa e pastosa della pennellata, il giallo solare e il rosso scarlatto, accostati ai bianchi cremosi della camicia, sono note preziose tipiche di Rosi, artista anticonvenzionale, che andava agghindato in pubblico con vesti fantasiose e bizzarre ed aveva un carattere animoso e un cervello stravagante, come raccontano i biografi antichi. Un temperamento estroso che si riflette ampiamente nelle sue opere, originali nell’invenzione e popolate di personaggi sensuali e seducenti, come il nostro Paride. La predilezione del pittore per questa figura mitologica è evidente dalle varie versioni autografe rimaste. Sul mercato francese è apparso un suo dipinto che vede il giovane in bella vista, Afrodite alle spalle e le dee sconfitte confinate in secondo piano1. In due versioni simili, una in collezione privata e l’altra alla Staatsgalerie di Stoccarda, Paride indossa un cappello piumato, rivestito di pelliccia, analogo a quello posto in testa al protagonista di questa tela che guarda nello stesso modo lo spettatore accennando alla mela tenuta nella mano sinistra. Per i rapporti ancora stretti con Cesare Dandini e l’avvenuta assimilazione della lezione del Lanfranco e di Pietro da Cortona, la tela appare la prima delle versioni a tutt’oggi note dedicate dal pittore al soggetto, collocabile agli sgoccioli degli anni Quaranta. francesca baldassari


14

Alessandro Rosi Firenze 1627 – 1697

Sant’Antonio resuscita il giovane morto e scagiona il padre Olio su tela, cm 143 x 115. Provenienza: Roma, collezione privata.

1. Sul pittore si veda: Acanfora 1994, e sul dipinto in particolare Acanfora, Alessandro Rosi: aggiornamenti al catalogo, in corso di pubblicazione.

Tra i capolavori assoluti del filone negromantico del Seicento fiorentino, questo sorprendente dipinto inedito – intatto nelle dense pennellate di superficie e superbo nella grandeur compositiva – si ascrive facilmente allo «stravagante» Alessandro Rosi 1, cui lo ha indirizzato per primo Claudio Strinati. Il tema è riconoscibile nel miracolo che sant’Antonio compì a Lisbona per dimostrare l’innocenza del proprio padre, accusato ingiustamente dell’omicidio di un giovane trovato morto nel suo giardino. Di fronte al giudice – qui coronato e a cavallo come un imperatore antico –, il santo richiamò in vita il giovane, affinché potesse testimoniare e scagionare così il genitore. La scena, di grande concitazione, si incentra sul miracolo del santo, che si fa largo tra una moltitudine di armati e di accattoni, conducendo il padre ancora prigioniero, con le mani dietro la schiena. Nello sfondo paesistico, nelle teste accigliate degli armati e nei riflessi vivaci di lume sulle armature si intende uno spiccato interesse per il genere della battaglia e per Salvator Rosa. Sulla traccia del pittore partenopeo, che con probabilità aveva potuto conoscere direttamente da giovane a Firenze, Alessandro Rosi eseguì alcune singole teste di armati - come l’Uomo d’arme con l’orecchino in collezione privata (Fig. 10) - che anticipano significativamente le intense espressioni dei soldati qui raffigurati. Nell’aspetto caricato e nella gestualità grottesca del mendicante di schiena in primo piano (che ritorna simile nella sua Incredulità di San Tommaso, già sul mercato) si comprende, inoltre, che egli guardava al mondo dei buffoni e dei ‘gobbi’, temi che, attraverso le incisioni del Callot, erano stati sviluppati da Baccio Del Bianco, di cui penso in specie ai Ballerini e astanti, di collezione privata. Collocabile nella tarda attività del Rosi, all’incirca negli anni Ottanta del Seicento, il raro soggetto del miracolo del santo da Padova si trasforma in un inedito episodio picaresco, se pur con lo sfondo di nobili architetture classiche. Le maschere allucinate degli astanti, rese con magistrali tocchi veloci, e la rappresentazione insistita dei poveri mendicanti anticipano in modo straordinario la simile trattazione che Francisco Goya offrì molto più tardi nei celebri affreschi nella cappella di San Antonio de la Florida a Madrid (Fig. 11). elisa acanfora

Fig. 10 Alessandro Rosi, Uomo d’arme con orecchino, collezione privata. Archivio fotografico Acanfora, su gentile concessione.

Fig. 11 Francisco Goya, Il miracolo di Sant’Antonio, (particolare). Madrid, San Antonio de la Florida. Archivio fotografico Acanfora, su gentile concessione.



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Alessandro Rosi Firenze 1627 – 1697

Diana e il satiro Olio su tela, cm 87 x 73,2.

Tagliata di tre quarti, una Diana dall’incarnato diafano riluce contro il fondo blu del cielo in cui spicca la mezzaluna, simbolo immancabile postole sul capo a ricordare che, per i Greci, fu dea della luna con il nome di Artemide. Il suo volto di profilo, incorniciato da boccoli neri raccolti in ciocche dietro la nuca, fronteggia il satiro che pare spuntare quasi di sorpresa, pronto a cingerla alle spalle e a godere delle nudità del suo decolté, lasciato scoperto dalla camicia scesa. Gli emblemi dell’arco e della faretra con le frecce tra le mani, la presenza, alle spalle, della lepre predata, e, in primo piano, del cane, suo compagno fedele nelle ricorrenti scorribande venatorie, sottolineano la volontà del pittore di evidenziare il suo ruolo di dea-cacciatrice, anche qui irremovibile nel proteggere la propria verginità in nome di Amore, al quale aveva fatto dono di castità. Di fronte al malintenzionato satiro, dalle orecchie appuntite e la pelle scura, esaltata dal manto di pelliccia maculata, Diana risponde con uno sguardo deciso, irremovibile. Nell’abile narratore di questo dipinto si riconosce il fiorentino Alessandro Rosi abile nel gonfiare i panneggi con pennellate dense e pastose adoperando una tavolozza ricca e vivace. Molti i possibili confronti con il suo catalogo accertato, a partire dalla Salomé di collezione Pratesi a Firenze in cui compaiono la stessa modella e l’analoga contrapposizione ravvicinata dei volti dei due protagonisti della scena. L’impaginazione stipata della narrazione insieme alla dinamicità e complessità compositiva suggeriscono di collocare la nostra tela in un momento piuttosto avanzato della carriera di Rosi, intorno agli anni Sessanta-Settanta. A quest’altezza cronologica l’artista si è ormai affrancato dalla lezione dei fratelli Cesare e Vincenzo Dandini, dei quali aveva frequentato la bottega di via del Parioncino, per fare propri gli insegnamenti di Pietro da Cortona e del Lanfranco, raggiungendo esiti spettacolari. Indubbia, considerate le dimensioni e il soggetto dell’opera, la sua destinazione verso il collezionismo privato comune al Paride di cui a scheda n. 13. francesca baldassari


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Alessandro Magnasco Genova 1667 – Bologna 1749

Tre figure in Arcadia Penna, inchiostro bruno, bistro e biacca su carta nocciola, mm 187 x 260. Provenienza: Venezia, collezione privata.

1. Inv. PII 1025. Si veda: Franchini Guelfi 1999, pp. 107, 110-111, n. 15.

Bibliografia: Geiger 1945, tav. 38. Esposizioni: Alessandro Magnasco…1967, n. 22.

Due al pozzo, a riempire un’anfora in terracotta, se non fosse che poggiano sopra una roccia da cui non zampilla acqua. Brezza pomeridiana, che alza i panni del giovane, quasi un angelo caduto dal cielo, sopra una terra d’Arcadia. Che non si tratti d’una scena di vita quotidiana, che quei due non siano pastori della Campagna romana, né figuranti in un racconto delle Sacre Scritture (come sarebbero Rebecca ed Eliezer al pozzo), ci avverte quel satiro secco e scarmigliato che, seduto sopra un masso all’ombra d’un albero (di cui s’intravede solo il profilo del tronco), intona una melodia pagana col suo zufolo di legno. Mistura tipica del Magnasco (e di chi lo imita e lo segue negli stessi anni, dentro e fuori di Genova, tanto fu successo delle sue invenzioni), quella di immaginare una scena d’apparente vita bucolica con inserti tratti dal mito, e dalle favole antiche. Schizzo su carta grezza e già colorata, così che bastan pochi tocchi di pennello e qualche lume di biacca per dar vita e colore al foglio. Sta bene accanto a quelle Lavandaie oggi presso l’Ashmolean Museum di Oxford 1, foglio di lavoro di alta tenuta qualitativa, buono a preparare le macchiette sperdute in qualche paese dell’immaginifico Lissandrino (com’era scherzosamente anche detto il Magnasco, per via della sua piccola statura). marco riccòmini


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Donato Creti Cremona 1671 – Bologna 1749

Andromeda e Perseo Olio su tela, cm 51,5 x 35. Bibliografia: Riccòmini 2013, p. 55, nota 21.

1. Teogonia, 274-289. 2. Andromeda, frammenti 132, 128. 3. Salerno 1988, p. 327. 4. Roli 1967, p. 96, nn. 83-90. 5. Fantuzzi 1770, p. 319.

La scena è sospesa, trattenuta dal gesto largo delle braccia della nuda Andromeda, che chiede tempo, attende soccorsi; incatenata alla roccia, è offerta in sacrificio all’orrendo mostro marino per espiare la superbia della madre Cassiopea, che la voleva più bella di tutte le Nereidi. La scena è sospesa e non spira una bava di vento, eppure per magia un lungo shatush cobalto bordato d’oro zecchino prende fiato e s’alza in volo, e (per chiasmo) gira attorno alle spalle della vergine etiope, accartocciandosi tra i massi scuri. Ed ecco che finalmente da lontano, tra le nubi screziate d’un cielo vespertino color del mare, appare in volo Perseo, l’impavido eroe argivo, partorito da Danae per capriccio di Zeus, nel mito narrato da Esiodo1. Vestito d’un nastro malva che si gonfia come un vessillo issato sul pennone d’una nave, cavalca il bianco alato Pegaso, balzato dal collo reciso della vinta Medusa, la cui testa mozzata il liberatore brandisce minaccioso con la sinistra. Il lieto epilogo della storia già si conosce e non merita raccontare; resta solo l’eco della supplica della vergine alla vista del suo salvatore, così come vuole Euripide: «prendimi, straniero, prendimi con te dove tu vuoi; come schiava, come moglie, come serva»2. Creti ha probabilmente guardato «L’Andromeda, quadro grande» e già maturo (1648) di Guercino, dipinto per il «Sig. Commendatore Manzini», oggi a Palazzo Balbi Senarega a Genova3. Così si spiega quel digrignare dei denti del cetaceo Ceto (ketos), identico in entrambe le tele, come le pose e i gesti declamati dei due attori sopra un palcoscenico diviso in verticale dal profilo frastagliato del monte e tagliato a metà dalla linea distante dell’orizzonte. La misura minuta della tela, inedita e assente dalle fonti, aiuta a capirne la genesi e forse anche il destino. Questa, infatti, è uguale al centimetro a quella delle otto Scene astronomiche, dal 1932 presso la Pinacoteca Vaticana a Roma 4. Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno e Cometa furono commissionate a Creti (e al “micrografo” Raimondo Manzini, specialista in miniature e scrupoloso osservatore dei pianeti) dal conte Luigi Marsigli attorno al 1711, destinate in dono al pontefice Clemente XI, «per invogliare Sua Santità di una specola ... mostrando al tempo stesso la importanza ed utilità anche per la S. Chiesa di un Osservatorio Astronomico» 5. Di quel sogno celeste restano i quadri vaticani e qualche foglio che ritrae coi pianeti i lunghi e lucidi cannocchiali in ottone, vanto degli astronomi felsinei. Parte di quel sogno è, forse, anche questa teletta, su cui ora occorre alzare lo sguardo; e mirare oltre gli ignudi della favola antica, provando a perdersi nella contemplazione del suo marezzato cielo notturno, per trovarvi Andromeda (senza l’ausilio di lenti), costellazione nell’emisfero nord, e la brillante “Alpheratz” (dall’arabo «cavallo»), ossia Pegaso, ancora al suo fianco, dopo tutti questi anni. Pare che si vedano meglio nei mesi d’inverno, tra settembre e gennaio, e distano circa duecento anni luce da questa terra. marco riccòmini


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Marco Ricci Belluno 1676 – Venezia 1730

Paesaggio con borgo fortificato Tempera su carta, mm 293 x 441. Provenienza: Venezia, Collezione Italico Brass.

1. Scarpa Sonino 1991, p. 138, fig. 293, tav. XXXI. 2. Ibidem, fig. 294. 3. Ibidem, fig. 295. 4. Ibidem, fig. 190. 5. Londra, The British Museum. Inv. 1871,0812.5578.

Dev’esser caduto qualcosa, forse un animale è scivolato nella scarpata; guardan dabbasso, uno piegato sulle gambe, l’altra poggiata al tronco d’un giovane albero, il grembiule bianco ancora attorno ai fianchi sopra una veste cilestrina. Più lontano un mandriano s’affanna dietro le sue bestie. Accade tutto nei pressi d’un borgo fortificato, sopra il quale svetta uno snello campanile a coronamento conico in mattoni rossi. Lo precede e sovrasta per la mole una tozza torre di difesa, piatta alla cima, che lo sguardo traversa per l’arco d’accesso, transennato per lavori di manutenzione e forse non più in uso. Una fumata bianca più a valle assicura che però è abitato e che qualcosa bolle in pentola. Sopra tutto domina una città turrita, le cui difese abbracciano l’intera sommità d’un colle piuttosto scosceso, erboso e macchiato di rocce e d’arbusti, che assicura buona difesa in caso d’attacco. Siamo nel Veneto d’entroterra, ma questo non è un paese reale; piuttosto un luogo del cuore, un Arcadia sognata e sognante, che il nipote di Sebastiano Ricci popola di pastori togati, dalla dignità sospesa di filosofi antichi, quasi fossero ai piedi d’un Parnaso Euganeo. Alcuni topoi ricorrono nelle sue operette come, ad esempio, la torre massiccia che riappare identica nel Paesaggio con dama e bambino a Windsor Castle1, nel disegno che la prepara, sempre nelle collezioni reali di Windsor 2, e nella stampa che da questo trae qualche anno dopo Francesco Bartolozzi 3. E poi ancora - una tra tante - nella gouache con cavallo traghettato al di là di un fiume, sempre conservata nel castello di Windsor 4; la stessa (seppure con l’aggiunta di una garitta), che in una sua stampa protegge l’accesso ad un villaggio nei pressi d’un rivo (Fig. 12) 5. marco riccòmini

Fig. 12 Marco Ricci, Paesaggio con città nei pressi di un fiume. Londra, The British Museum.


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Girolamo Donnini Correggio 1681 – Bologna 1743

Achille a√dato a Chirone Olio su tela, cm 139 x 185. Provenienza: Bologna, Collezione Castaldi. Bibliografia: ‘The Burlington Magazine’,

1. Milano 1700. 2. Pajes Merriman 1980, p. 276, n. 150. 3. Roli 1967, p. 87, nn. 15-18, figg. 40-43, tav. V. 4. Ibidem, p. 88, n. 36, fig. 45, tav. VI. 5. Ibidem, p. 92, n. 57, fig. 46. 6. Già Finarte, 29 marzo 2001, lotto 682. Olio su tela, cm 186 x 360.

1974, p. CLIII; Roli 1977, pp. 99, 255, fig. 214b; Rinaldi 1979, p. 41, n. 17, tav. 20.

La scena s’apre una mattina di primavera dal cielo cristallino, presso la sponda d’un fiume. Sarà quella «Pianura alle Falde del Monte Ida, con picciolo Torrente», come recitava nel primo atto il melodramma di Pietro D’Averara, L’inganno di Chirone 1. Cinque giovani con abiti sgargianti e panni mossi da una leggera brezza gesticolano attorno a un neonato, liberato dalle fasce, raccolte in un cesto di vimini. Lo porgono a una figura biforme, mezzo uomo e mezzo cavallo, ovvero Χείρων, figlio di Filira e di Crono, signore dei Titani. Il bagno nelle acque medicamentose dello Stige imposto all’infante Achille dalla madre Teti, dea del mare, non assicurava, come sappiamo, una copertura completa dai rischi e dai pericoli d’una vita ardimentosa, ed era saggia precauzione fortificare il fanciullo. Ci penserà quindi il centauro a educare il figlio di Peleo, re di Ftia, avvezzo com’era a crescere dei ed eroi (sotto di lui eran passati il cacciatore Atteone, Asclepio, figlio di Apollo e dio dell’arte medica, e Giasone, alla testa degli Argonauti). Quei pittori che han tradotto il mito greco narrato da Omero nell’Iliade solitamente tralasciavano le corse estenuanti che il mezzo equino imponeva al giovane eroe (ma che alla fine gli valsero in Omero l’appellativo «piè-veloce»), o i lugubri pasti a base di interiora di leoni, orsi e cinghiali (perché gli trasmettessero la loro forza e il loro coraggio nella pugna), e si soffermavano, invece, sull’educazione al tiro con l’arco; metafora bella di come un giovane debba formarsi nel corpo e nella mente (ossia anche a rigare dritto, come si usa dire). E, a poca distanza (di tempo e di spazio) dal reggiano Donnini, allievo di Carlo Cignani, celebri sono rimaste le tele bolognesi di Giuseppe Maria Crespi, dipinta per il principe Eugenio di Savoia (oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna) 2, e quelle di Donato Creti, parte del lascito Collina Sbaraglia al Senato bolognese, oggi presso le Collezioni Comunali d’Arte di Bologna (Achille immerso nello Stige; Achille fanciullo affidato a Chirone; Chirone insegna ad Achille a tirar d’arco; che viaggiano assieme ad una quarta tela con Achille trascina il corpo di Ettore intorno alle mura di Troia) 3, cui si somma l’ovale con Achille tuffato nello Stige (Bologna, Pinacoteca Nazionale) 4, e la versione della collezione Molinari Pradelli 5. Come nella tela di Donnini, il tutto accade nel mezzo della placida Arcadia padana, folta di betulle e di rivi d’acqua, dove l’azzurro dei monti è solo una visione distante. Si direbbe il modello di grandi dimensioni e identico in ogni sua parte della tela monumentale transitata in asta a Milano, oggi a Reggio Emilia (Fig. 13) 6. marco riccòmini

Fig. 13 Girolamo Donnini, Achille affidato a Chirone. Reggio Emilia, Musei Civici.


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Francesco Monti detto il Bolognese

Scena allegorica

Bologna 1685 – Brescia 1768

Olio su carta, mm 280 x 425. Bibliografia: Frisoni 2012, pp. 110-112, n. 27.

Il fez che tiene in testa pare quasi un fortino medioevale, tanto che è detto, appunto, corona turrita. La porta con grazia (almeno dall’età ellenistica in poi) la Grande Madre, adorata fin dai tempi più remoti in Asia Minore, e nota ai romani col nome (greco) di Cibele. Protettrice delle città (da cui il forte sul capo), il suo culto era legato alla fertilità ed al risorgere della vita (e anche della vegetazione: come si vede dalle messi profuse e dalla cornucopia dell’abbondanza, che il vecchio alle sue spalle tiene tra le braccia). Tutto questo in un’orgia dionisiaca cui non era estraneo anche il giovane Bacco, che siede ai suoi piedi col capo pampinato, mentre s’appoggia ebbro ad un tralcio di vite.

1. Riccòmini 2001, n. 8.

Verdaille, brunaille: grisaille. Tra le tecniche favorite del Monti bolognese e di quelli della sua generazione; basti pensare ai monocromi del Creti, di Varotti e altri che, come loro, si dilettavano ad un colore solo, nel dimostrare destrezza e bravura. E nel mimare, al contempo chi, invece, usava la stecca e impastava i gessi, ossia gli stuccatori bolognesi, coi quali erano in perenne e scherzosa tenzone, giacché era un’arte nella quale molti dei pittori si dilettavano a tempo perso (a cominciare dallo stesso Creti fino, poi, ad Ubaldo Gandolfi). Starà a preparare qualche parete del bresciano, dove Monti finì a vivere e lavorare. E sarà a cavallo del quinto decennio del Settecento, in prossimità coi lavori per la chiesa di Santa Maria della Pace a Brescia, per la quale è noto proprio un grande monocromo su tela, scovato tempo fa da chi scrive1. marco riccòmini


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Pierre Subleyras Saint-Gilles-du-Gard 1699 – Roma 1749

Rinaldo scopre i suoi antenati accompagnato da Ubaldo e un vegliardo Sul verso: Venere distesa di spalle. Matita nera, inchiostro grigio, con rialzi di biacca su carta beige, tracce di incorniciatura a matita nera e sanguigna; verso: matita nera, mm 250 x 210.

1. Catalogo della vendita Bellanger, Parigi, 17 marzo 1788, n. 43. 2. Si veda Méjanès 1983, n. 96, p. 116, riprodotto, e p. 175, n. Ors. 622. 3. Roma, Palazzo Barberini, Galleria Nazionale d’Arte Antica, inv. 2529.

Opera in rapporto: un disegno dello stesso soggetto conservato a Parigi, Museo del Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 32925 (Fig. 14).

«I disegni di questo artista sono molto rari» già annotava nel 1788 il grande mercante ed esperto Jean-Baptiste Pierre Le Brun1. Il tempo non ha certo mutato simile condizione e la riapparizione di un disegno di Subleyras è sempre una scoperta alquanto interessante. In effetti, sono soltanto un centinaio i fogli a tutt’oggi assegnati con certezza alla sua mano, la maggior parte dei quali custoditi nel Museo del Louvre. Il foglio qui presentato è un primo pensiero per uno di questi disegni 2. Più completo e rifinito, di dimensioni assai prossime al nostro e anch’esso inquadrato con gli stessi tratti a matita nera, il disegno del Louvre ci svela il soggetto raffigurato: si tratta molto probabilmente di un episodio narrato nel XVII canto della Gerusalemme Liberata del Tasso, quello in cui Rinaldo, sotto la guida di un vecchio saggio e in compagnia di Ubaldo, scopre i suoi gloriosi antenati. L’intera composizione è abbozzata rapidamente a matita nera e lumeggiata con ampie stesure di tempera bianca che conferiscono alla scena il suo aspetto soprannaturale. Sfugge il motivo della creazione di questa composizione: si trattava forse di un progetto per l’illustrazione del poema del Tasso o, più verosimilmente, per un dipinto perduto? Sul verso del nostro foglio è presente una prima idea dell’episodio illustrato sul recto oltre che un piccolo schizzo ben abbozzato di una composizione sviluppata in un ovale raffigurante un nudo femminile disteso di spalle, in una posizione assai prossima al dipinto conservato a Roma in Palazzo Barberini 3. In questo primo abbozzo, speculare rispetto alla tela romana, la donna nuda sembra essere spiata da un personaggio che sbuca da dietro le cortine del letto, mentre un altro – Cupido? – sembra assopito ai suoi piedi. Il dipinto Barberini fu forse concepito come studio per una composizione più complessa? Nulla può darne conferma, ma la scoperta di questo piccolo schizzo permette nondimeno di considerare l’ipotesi piuttosto stimolante. nicolas lesur

Fig. 14 Pierre Subleyras, Episode de la Jérusalem délivrée. Parigi, Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 32925 recto © rmn-Grand Palais (musée du Louvre) / image rmn-gp.


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Giandomenico Tiepolo Venezia 1727 – 1804

Battesimo di Cristo Penna, inchiostro bruno e bistro, mm 290 x 200. In basso al centro: «Dom. Tiepolo f.». Provenienza: Venezia, forse di Francesco Guardi (morto nel 1793), zio di Giandomenico; Londra, Horace Walpole (morto nel 1797); probabilmente in collezione

1. Byam-Shaw 1962. 2. Tiepolo. Zeichnungen 1970, pp. 57-62, nn. 44-56. 3. Williamsburg, Muscarelle Museum of Art, The College of William and Mary in Virginia, inv. 183.042. Si veda: Knox 1996, p. 158, n. 87. 4. Inv. 1531. Penna, inchiostro bruno e bistro, mm 270 x 200. Si veda: Tiepolo. Zeichnungen, p. 58.

privata francese, nel novembre 1845; Inghilterra, vendita all’asta anonima, senza data, lotto 589; Inghilterra, The Rt. Hon. The Earl of Beauchamp, D.L., J.P., la sua vendita a Londra, Christies, 15 giugno 1965, lotto 14; Venezia, collezione privata.

Momento fondante del Cristianesimo, del Battesimo di Cristo sulle rive del Giordano se ne parla nei Vangeli di Marco, Matteo e Luca. Il racconto neotestamentario deve in qualche maniera aver colpito Giandomenico, tanto da averci dedicato nell’arco della vita almeno una quarantina di disegni, perlopiù a penna e guazzo, tutti molto simili gli uni agli altri. Chi si è cimentato nell’impresa di passarli in rassegna1, ne ha evidenziato un nucleo importante presso la Staatsgalerie di Stoccarda: tredici di numero, tutti databili attorno al 1770 2. Altri sono sparsi in diverse collezioni, con pochissime varianti tra loro, salvo l’aggiunta nel foglio in questione e, ad esempio, in quello del Muscarelle Museum of Art di Williamsburg in Virginia, del Dio Padre, che assiste dall’alto delle nubi al rito propiziatorio, senza intervenire 3. Tra i fogli tedeschi di Stoccarda, uno in particolare mostra un Battista in posa simile a quella del foglio in esame (Fig. 15) 4. Diverso, però, è il suo destino collezionistico, essendo appartenuto anticamente (ossia già nel Settecento) alle raccolte inglesi di Walpole e Beauchamp. E faceva, verosimilmente, parte di un album, come si evince dai numeri scritti a penna sui margini superiori (in questo caso in alto a destra: «77»; che, assieme ai nn. «86, 89, 98» su altri fogli di quella raccolta, lascia intendere come in origine la serie dovesse contenere circa un centinaio di disegni). marco riccòmini

Fig. 15 Giandomenico Tiepolo, Battesimo di Cristo. Stoccarda, Graphischen Sammlung der Staatsgalerie Stuttgart.


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Giandomenico Tiepolo Venezia 1727 – 1804

Scaramuccia tra due satiri Penna, inchiostro bruno e bistro, mm 190 x 275. In basso al centro: «Dom. Tiepolo f.». Provenienza: Venezia, collezione privata.

1. Londra, The British Museum. Inv. 1885,0509.6. Penna, inchiostro bruno e acquarello grigio, mm 194 x 274. Si veda: Byam Shaw 1962, p. 41.

Corteggiamento a passo di danza, quella d’una fiera di paese, saltellando su una gamba sola (a zoppo galletto, si direbbe in certe filastrocche). Il maschio, di schiena, tiene alti due ciuffi di canna, quasi in segno d’offerta, ed uno più anziano armato di arco e faretra a tracolla sorveglia che tutto segua le regole. La balera è sopra un clivo proteso verso una valle dove siede lontano un castro turrito, difeso da un tondo bastione. Scena vagamente surreale se Satiri e Ninfe (e Pulcinelli) non fossero attori e protagonisti di molti fogli del figlio di Giambattista Tiepolo (Fig. 16)1, come a scanso d’equivoci si rende chiaro con la firma in basso al centro. E così come la figura grottesca della maschera napoletana si presta, col suo carnevalesco travestimento, ad interpretare le parti più comiche e salaci della commedia umana, così le bestie biformi della mitologia greca, partecipi della natura dell’uomo e del caprone (di cui hanno pure corna ed orecchie), si prestano ad interpretare le parti più impudiche della natura umana, quelle della sensualità aggressiva. Il fusto agitato al vento nelle mani del satiro non può, inoltre, non ricordare anche la fiaba arcade della ninfa Siringa che, inseguita dal ferino Pan (il romano Fauno o Silvano, dall’aspetto in parte umano ma con zampe e corna di caprone), si trasformò in esile canna palustre sulle rive del fiume Ladone (l’odierno Selleeis, nell’antica Elide). marco riccòmini

Fig. 16 Giandomenico Tiepolo, A satyress chasing birds with a dog. Londra, The British Museum.


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Laurent Pécheux

A.

Lione 1729 – Torino 1821

Nudo virile stante di fronte, testa sollevata verso sinistra, gambe divaricate, braccio destro teso e sinistro piegato nell’atto di tendere una fune Carboncino, sanguigna e rialzi di biacca su carta preparata beige, mm 570 x 425. In basso a destra: «1758 de 59».

B.

Numerato in basso a destra: «163». Bibliografia: Baldin 1983, p. 18, n. 2; Laveissière 2012, pp. 71-73, n. 5, fig. 5a.

Nudo virile stante di fronte con il capo chino, il piede destro su un blocco di pietra, il braccio destro lungo il corpo e il sinistro piegato Carboncino, sanguigna, gessi colorati e rialzi di biacca su carta preparata beige, mm 765 x 495 .

C.

Nudo virile con il ginocchio sinistro a terra in procinto di alzarsi, avambraccio sinistro appoggiato ad un blocco di pietra, il braccio destro teso verso l’alto Carboncino, sanguigna e rialzi di biacca su carta preparata beige, mm 640 x 500. In basso a destra: «1759».

D.

In basso a destra: «primum 1759». Bibliografia: Baldin 1983, p. 24, n. 5.

Bibliografia: Baldin 1983, p. 22, n. 4; Laveissière 2012, pp. 72-73, n. 6, fig. 6a.

Nudo virile seduto di trequarti su sedile di pietra, piedi incrociati e puntellato sulle mani Carboncino, sanguigna e rialzi di biacca su carta preparata beige, mm 765 x 500.

In basso a destra: «1759». Bibliografia: Baldin 1983, p. 20, n. 3.

Provenienza: Torino, Rosa Visetti; Torino, conti Valperga di Masino; collezione privata.

Questi studi di nudo virile dal vero furono eseguiti da Pécheux a Roma, dove risiedette dal 1753 al 1777. Si tratta di quattro «accademie» cosiddette «magistrali» che il pittore eseguì a scopo didattico per gli allievi che studiavano alla scuola di nudo privata che il Pécheux istituì in casa sua a palazzo Zuccari in via Gregoriana intorno al 1757. I quattro nudi sono estremamente rari, e preziosi per la storia dell’arte, poiché la cospicua raccolta di nudi accademici che Pécheux disegnò e raccolse durante la sua lunga carriera quale materiale didattico per i suoi allievi fu interamente trafugata nel 1940 dall’Accademia di Belle Arti di Torino, cui il pittore stesso l’aveva donata. L’insieme comprendeva gli studi accademici che Pécheux aveva riunito a Roma, sia per la sua accademia privata sia per la celebre Scuola del Nudo in Campidoglio (la palestra di tutti gli artisti europei dimoranti a Roma dove Pécheux insegnò a par-

A


1. Laveissière 2012, pp. 69-71, nn. 2-4.

tire dal 1762), e a Torino dal 1777, dove fu chiamato a dirigere l’Accademia di pittura e scultura che il re Vittorio Amedeo III stava rifondando. Ci sono giunte soltanto tre ulteriori accademie compiute a Roma da Pécheux, realizzate tra il 1763 e il 1764. Si conservano a Parigi, presso la Bibliothèque Nationale de France e il Louvre1. Tre accademie, ma più tarde, si trovano invece al Kupferstichkabinett di Berlino. Del Nudo virile stante di fronte nell’atto di tendere una fune (A) e del Nudo virile stante di fronte con il capo chino, il piede destro su un blocco di pietra (B) esistono due copie al Musée des Beaux-Arts di Digione, una firmata da François Devosge (1732 –1811). Il fatto che il Nudo virile stante di fronte nell’atto di tendere una fune (A) rechi la doppia data «1758 de 59» attesta probabilmente che l’artista riprese più volte questo foglio. francesco leone

C

B

D


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Gaetano Gandolfi San Matteo della Decima (Bologna) 1734 – Bologna 1802

La Sacra Famiglia con sant’Agostino Olio su tela, cm 230 x 152. Datato in basso al centro, sul gradino di pietra: «1761». Provenienza: Villa Monsignori, San Gio-

vanni in Calamosco (Bologna). Bibliografia: Biagi Maino 1995, pp. 345-346, n. 7, fig. 9.

Lo si vede dalla lastra impressa alla gelatina in bromuro d’argento, stampata attorno all’inizio del terzo decennio del Novecento (Fig. 17). Pavimento in graniglia a losanghe, che s’immaginano bianche e rosse. Alle pareti carta da parati con stilizzati gigli di Francia (o, forse, si tratta d’un decoro a graffito, com’era in voga in quegli anni). La paletta d’altare a terra, posta di sguincio per evitare riflessi, vestita appena d’un sottile listello dorato che corre lungo i fianchi e la cima, lasciando nuda la base, che poggiava sopra a un altare. Quello della cappella privata di Villa Monsignori, nella piana bolognese, verso Granarolo dell’Emilia; dove rimase fino a quando non fece i bagagli seguendo i suoi padroni, discendenti dell’antico committente, nel trasloco a Bologna. Chi siede ammantato d’una veste di raso, mitria e scarpini purpurei è il santo berbero, Padre della Chiesa, lo sguardo rivolto al Bambino, tra le braccia della Vergine. Lo denuncia, assieme ai paramenti e al bacolo dorato che spunta sotto le nubi, quell’angelo fanciullo, che mostra con la destra una conchiglia colma d’acqua. Rammenta, infatti, l’exemplum parabolico del suo incontro sulla spiaggia d’Ippona (l’odierna al-‘Annāba; che sia forse Plage de Juifs?) con un bimbo che cercava di svuotare il mare con una conchiglia e la risposta sorprendente che ne ricevette: «Augustine, Augustine, quid quaeris? Putasne brevi immittere vasculo mare totum?» (come a dire: «e tu pensi forse di poter comprendere il mistero della Fede con la tua sola mente?»).

1. Dall’Archivio dell’Accademia Clementina, in: Bagni 1992, p. 214.

Le fonti tacciono, ma la pala precede la nota del 1769 affidata a Marcello Oretti, con l’elenco delle operazioni condotte fino ad allora. Gaetano era appena tornato da Venezia, dov’era stato l’anno prima su invito di Antonio Buratti, suo mecenate, che aveva servito «con havergli disegnato molte delle più belle tavole d’altare che siano in questa città [Bologna], e le ha fatti ancora molti disegni che sono incisi nella bell’opera che detto sig. Buratti pubblicò pochi anni orsono»1. Ventisette anni, e le idee già chiare, e che lasciano poco spazio al gusto lagunare. marco riccòmini

Fig. 17 Fotografo anonimo, Pala di Gaetano Gandolfi. Gelatina bromuro d’argento su carta, mm 135 x 90. Archivio Fotografico della Famiglia Comelli (fascicolo: Fotografie di Calamosco), Palazzo Comelli (Camugnano), inv. MRC 48. Per gentile concessione dell’Amministrazione Comunale del Comune di Camugnano (BO).


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Gaetano Gandolfi San Matteo della Decima (Bologna) 1734 – Bologna 1802

Sacra Famiglia con san Giovannino Olio su tela, cm 88,8 x 69,4. Provenienza: Bologna, Raccolta Giovanni Ceschi; Parigi, collezione privata.

La palma in giardino spiega tutto; o quasi. Pensereste che la scena fosse ambientata in Palestina, magari nel cortile di casa del gruppetto Sacro, ma la pianta esotica, lontana oltre lo steccato di legno, richiama inevitabilmente l’Egitto. I testi sacri non ne fanno menzione, da nessuna parte si parla dell’incontro tra il Battista e il Redentore, prima del battesimo sulle rive del Giordano. Se ne parla invece in un testo redatto attorno alla metà del Trecento che ebbe grande diffusione e popolarità, le Meditationes vitae Christi del cosiddetto Pseudo-Bonaventura. Lì si narra per la prima volta di come la Sacra Famiglia, al ritorno dal paese delle piramidi (dopo la Fuga in Egitto e lo scampato pericolo all’editto di Erode), si fermò per qualche giorno da Elisabetta, cugina di Maria, e madre di Giovanni. E di come suo figlio mostrò da subito rispetto per quello di Maria. Qui il Battista è mostrato scalzo - una borraccia di zucca a tracolla, la pecorella ai suoi piedi - mentre gli porge la croce, sulla quale è arrotolato un filatterio con le parole che ancora oggi lo identificano tra i santi «Ecce Agnus Dei», e che sono rivolte al Cristo, agnello sacrificale, appunto.

1. Milano, Pinacoteca di Brera. Inv. 145. Pietra nera, carboncino, gessetto su carta grigia, mm 433 x 309. Si veda: Bagni 1995, pp. 232-233, n. 87.

Opera inedita e matura di Gaetano, di cui non sono note altre redazioni. Ma sul tema torna ripetute volte, in diversi formati, lungo l’arco della sua vita. Un foglio di Mauro Gandolfi, a matita nera e gesso bianco su carta grigia, oggi a Brera e proveniente dalla collezione di Francesco Acqua (Fig. 18) 1, dove il gruppo dei piccoli Salvatore e Battista è pressoché speculare, lascia intendere il successo che presso famigli e contemporanei avevano composizioni come questa, destinate alla devozione privata. marco riccòmini

Fig. 18 Mauro Gandolfi, Madonna col Bambino e san Giovannino. Milano, Pinacoteca di Brera.


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Jean-Pierre Péquignot Beaume-les-Dames 1765 – Napoli 1807 - 1808

Paesaggio con Omero Paesaggio con Ossian Tempera, cm 51 x 61,5.

1. Se la data di morte di Pequignot è ancora ignota, le esposizioni e le pubblicazioni dedicate in questi ultimi anni al pittore franco-contese e a Girodet hanno almeno permesso di precisare meglio degli aspetti della vita e dell’opera di questi due artisti. Recenti studi hanno permesso la riscoperta di documenti e di numerose opere di Pequignot: il Paesaggio con Mercurio e Argo del Museo di Quimper, in passato inventariato come Orfeo che suona la lira davanti a Euridice e attribuito a Bertin; il Paesaggio con un lago e dei cigni della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma; un paio di paesaggi agresti datati 1804 venduti a Roma presso s.a.l.g.a. il 27 maggio 1971, n. 476; il Paesaggio fluviale con una piramide e delle figure dell’antichità, venduto a Londra da Christie’s il 25 aprile 2007, n. 248; il Paesaggio classico con una scena mitologica (l’infanzia di Diana?), firmato, datato e ubicato «P. Pequignot. / à Naples 1807», Parigi, galleria Talabardon et Gautier nel 2009 e il Paesaggio montano con un satiro e una ninfa (Pan e Siringa?), Berlino, Villa Grisebach, 28 maggio 2014, n. 103. Si aggiunge un disegno a matita nera, Paesaggio neoclassico in miniatura, Parigi, Galleria De Bayser nel 2014. 2. Figlio del re d’Irlanda che visse nel III secolo, apparteneva alla casta dei Bardi; scriveva poemi che decantava accompagnandosi con l’arpa. 3. Macpherson 1810, II, pp. 459-460. 4. La prima edizione del 1765 è stata tradotta in francese nel 1777.

Formatosi alla scuola gratuita di Besançon e a quella di disegno dell’Accademia Reale di pittura e di scultura, il paesaggista Péquignot si afferma fin dal 1785 come uno dei principali rappresentanti del gusto neo-poussiniano. Trasferitosi a Roma verso il 1788, amico di Girodet, si stabilisce definitivamente a Napoli nel 1793 e sarà nella città partenopea che realizzerà la maggior parte delle sue opere: il Paesaggio con Diana e una ninfa addormentata (1796), i Paesaggi napoletani. Il mattino / La sera (1800), il Paesaggio classico con figure che piangono le ceneri di Ossian (1803) (Fig. 19) e, infine, il Paesaggio classico con una scena mitologica (l’infanzia di Diana?) (1807) 1. Della trentina d’opere che compongono ad oggi il suo catalogo, nessuna è eseguita a tempera, nonostante la gouache, di costo assai modesto, fosse molto apprezzata a Napoli. Concepiti come pendant, i due paesaggi qui in esame mettono a confronto l’universo epico, gaelico e romantico, del bardo Ossian (dall’iconografia piuttosto complessa) e quello più familiare della Grecia antica cantato dal vecchio Omero. Nel Paesaggio con Omero, il poeta trasmette con la lira la conoscenza ricevuta dai padri, tema anche del Paesaggio con una piramide e un tempio (o le avventure di Telemaco). L’ambientazione, la delicatezza dei passaggi cromatici, la grazia delle figure traducono la poesia del testo letterario. La seconda tempera evoca la storia di Ossian 2. I tre uomini raffigurati intorno alle due figure di donne sedute potrebbero essere Fingal, Ossian e Oscar (il padre, il figlio e il nipote), mentre la fortezza e il paesaggio sembrerebbero essere quelli del canto de «L’incendio di Tura» 3. Da poco pubblicato4, il testo di Macpherson era già stato illustrato da Gros, Duqueylar, Gérard e Girodet del cui lavoro Péquignot dimostra di essere informato poiché alcune sue figure riecheggiano quelle proposte da Gérard e Girodet. L’inglese Wallis, che dal 1788 al 1806 soggiorna a Roma e a Napoli, realizza nel 1801 due celebri paesaggi ossianici in cui la natura selvaggia, il cielo freddo coperto di spesse nuvole grigie possono aver ugualmente ispirato Péquignot. Si è tentati di datare queste due rare e preziose tempere fra il 1800 e il 1802, in altre parole, fra le prime versioni sul tema offerte dagli allievi di David e la redazione nel 1803 da parte di Péquignot di un’altra raffigurazione della leggenda di Ossian (menzionato più sopra). La composizione piuttosto gremita, la materia densa, confortano in effetti questa ipotesi. emilie beck saiello

Fig. 19 Jean-Pierre Péquignot, Paesaggio classico con figure che piangono le ceneri di Ossian, firmato e datato in basso a sinistra «P. Pequignot / à Naples / 1803». Per gentile concessione di Etienne Bréton Saint Honoré Art Consulting, Parigi.


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Antonio Basoli Castel Guelfo 1774 – Bologna 1848

1. Si rileva un timbro al verso del disegno: «a./basoli/fece» cerchiato. Le ricerche condotte sull’opera hanno messo in rilievo la presenza del medesimo timbro su altri disegni dell’artista. 2. Ferrario 1823, pp. 150-152. 3. Frattarolo 2008, p. 23. 4. Farneti-Riccardi Scassellati Sforzolini 2006, p. 18. 5. La vita artistica di Antonio Basoli 2006, p. 95.

Cave dei Guanci della Mauritania Penna, inchiostro bruno e acquarello grigio, mm 207 x 290. Al verso: «tratto da una descrizione / dei costumi del F. / Ferrario = Cave dei Guanci

nella Mauritania. / Antonio Basoli inventò e fece 1842»1. Provenienza: Bologna, collezione privata.

Il disegno è stato eseguito da Basoli nel 1842 come riporta l’iscrizione al verso, che precisa anche la raffigurazione del foglio. Si tratta delle Cave dei Guanci, popolazione originaria dell’isola di Tenerife che era solita scavare o utilizzare grotte già esistenti per inumare i propri defunti. I cadaveri venivano deposti in piedi o coricati su panche di legno, dentro custodie di pelle di capra conciate e cucite con maestria. Il soggetto è tratto dal volume di carattere enciclopedico Il costume antico e moderno di Cesare Ferrario dedicato all’Africa2. Grande appassionato di libri, Basoli raccolse presso la sua abitazione bolognese una ricchissima biblioteca dalla quale attingeva sistematicamente per elaborare paesaggi, scenografie, decori d’interni e scene d’invenzione, generi ai quali il pittore aveva consacrato la sua attività artistica e l’intera vita. Definito «il viaggiatore che resta a casa», Basoli non lasciò praticamente mai la sua amata Felsina, dove insegnava presso l’Accademia Clementina e dove godeva della stima e dell’apprezzamento delle più importanti famiglie bolognesi che a lui affidavano numerose commesse 3. In pieno spirito illuminista e mosso da una indole precisa e diligente Basoli lasciò numerosi manoscritti nei quali elencò i testi che aveva utilizzato per realizzare le sue opere e che corredò di disegni e annotazioni rielaborati in tomi destinati alle sue lezioni all’Accademia ed oggi ivi conservati 4. In questi autografi sono numerosi i riferimenti al testo di Ferrario dal quale Basoli si lasciò suggestionare per tutto l’arco della sua carriera, ispirato dalle meticolose descrizioni e dalle tavole illustrate allegate. Il soggetto del disegno è citato nell’autobiografia del Basoli alla data del 1842: «Ho inventato n. 4 quadri da dipingersi: 3 delle isole atlantiche-primo, Incendio di Madera, l’altro Le grotte dei Guanchi, e così Le ninfe oceaniche nella grotta - ed il quarto La maga della Tessaglia, d’Anacarsi» 5. La ricomparsa del disegno e l’iscrizione al verso con il preciso riferimento al testo letterario permette di aggiungere un ulteriore elemento alle note manoscritte del Basoli e alla conoscenza della sua opera. laura marchesini


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Wolfango Bologna 1926 – 2017

Gula. Penitente nel purgatorio Matita nera su carta, mm 500 x 370. Bibliografia: Wolfango disegnatore 2018, s. p. Provenienza: Bologna, Collezione Peretti Poggi.

Si tratta del disegno preparatorio eseguito circa tra il 1963 e il 1968 per una delle cento illustrazioni a colori delle tre cantiche della Divina Commedia di Dante, edite in tre sontuosi volumi rilegati in pelle, per conto delle edizioni Rizzoli, nel 1972. La testa scheletrica qui ritratta, che calza un copricapo con la scritta « GULA» in caratteri goticheggianti, è quella di un penitente che sconta il suo peccato di gola nel sesto girone del Purgatorio, assieme ad altri nella stessa condizione: pelle e ossa, come si suol dire. Uno di essi urla, riconoscendo Dante; e si può supporre che sia appunto quello qui ritratto. Fra quei peccatori, infatti, Dante scorge (vv. 55 e ss.) l’amico Forese Donati, poeta di nobile famiglia fiorentina; e per di più suo parente, visto che la moglie dell’Alighieri era, dal 1290, Gemma Donati, cugina di Forese. Il disegno non ha bisogno, mi sembra, di alcun commento: raffigura con grande vigoria di segno un teschio a bocca spalancata e urlante, nel cui antro restano un paio di denti, così come nel forame degli occhi s’intravedono pupille, e ai lati del cranio stanno ancora attaccate le orecchie. Dopo la sua recente scomparsa restano, nella casa di Wolfango, diversi altri disegni preparatori per quella memorabile impresa editoriale, tutti d’insolitamente grande dimensione, e tutti tratti dal vero. Oltre a Dante, Wolfango ha illustrato parecchi altri volumi. E tuttavia non li ha mai firmati col proprio nome, ma solo con diversi pseudonimi: La “Commedia”, ad esempio, reca come autore delle illustrazioni un “Anonimo bolognese del XX° secolo”, come si legge su questo foglio, in alto (la firma sottostante, «Wolfango» con il nome della moglie Chiara inserito nel cerchio della O, è posteriore). Grande illustratore, Wolfango (nei dipinti non ha mai usato il cognome, come prima di lui hanno fatto altri ottimi pittori italiani) ha dipinto per tutta la sua vita; e dalla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo ha eseguito tele spesso di vastissima dimensione, di sorprendente abilità mimetica, pressoché impareggiabile e sempre stupefacente. Solo a sessant’anni, e quasi forzato da pochi amici e dal sindaco della sua città, ha accettato di abbattere qualche muro della sua casa per far venire alla luce dipinti enormi e di mirabile destrezza, che furono esposti, senza catalogo, in una chiesa dismessa. Il pubblico, quasi tutto locale, fu assai numeroso. E così avvenne cinque anni dopo, ove quei dipinti, assieme ad altri, entrarono in un grande carcere dismesso. Wolfango non ha mai esposto alcun dipinto fuori della sua città. eugenio riccòmini


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Wolfango disegnatore, a cura di A. Peretti Poggi, Bologna 2018.

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In corso di pubblicazione: E. Acanfora, Alessandro Rosi: aggiornamenti al catalogo. R. Serra, Maestro Biagio et les dessins préparatoires au Miracle de la multiplication des pains et des poissons.


Texte Franรงais


Cette année, j’ai décidé de publier un catalogue comprenant à la fois dessins et peintures. Je crois que ce choix offrira aux amis, aux clients et aux collègues une idée plus précise et complète du travail polyvalent, parfois fébrile, de ma galerie qui fêtait l’année dernière ses trente ans d’activité. Ce que vous verrez en feuilletant ces pages est le fruit de cette dernière année de travail personnel et celui de mon équipe. Il s’agit d’œuvres qui m’ont touché, que j’ai aimées, achetées, et sur lesquelles j’ai également « parié ». À plus d’une reprise la recherche d’une attribution, la définition d’une provenance ou l’adjudication d’une œuvre inédite m’ont retenu le souffle. Toutes ces émotions sont pour moi liées de façon intrinsèque à ces petits et grands chefs-d’œuvre et à leurs histoires passées, récentes, racontées avec brio par les auteurs des notices et le responsable de ce volume, Marco Riccòmini, avec lequel j’ai débuté, il y a longtemps, une solide collaboration. À tous, j’adresse mes plus sincères remerciements. maurizio nobile


1

Marco Palmezzano Forlì, vers 1459 – 1539

Martyre de saint Sébastien Huile sur bois, cm 90,8 x 59,4. En bas, à gauche, sur le cartel: «Marchus palmezanus / pictor foroliviensis / faciebat / MCCCCC ... ». Provenance: Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle, inv. 405 (depuis la fin XIX siècle jusqu’en 1965 environ); Vente anonyme; Lucerne, Galerie Fischer, 17 juin 1972, lot 353; Bologne, collection particulière; Christie’s 28 janvier 2015, lot 138; Parme, collection particulière.

1. Sous les insignes de Gaston de Foix, aux côtés des gascons et des hallebardiers allemands, ils trucidèrent après Brescia les habitants et mirent à feu et à sang le bourg de Russi situé à tout juste quatre heures de marche de Forlì. 2. Buscaroli 1931, p. 170: «Iohannes Bellinus Inv. Pingebat». Il porte aussi la date de : «1471». 3. Riccòmini 2016, n. 7. Détrempe sur bois, cm 116 x 46. 4. Cséfalvay 1993, pp. 150-151, n. 131. Détrempe et huile sur bois, cm 81 x 60.

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Un calme suspect. Le temps s’est arrêté autour du saint narbonnais, fléché au temps de Dioclétien. Il est placé au centre de la composition telle une statue de cire sur un piédestal de pierre et regarde au loin, en haut, vers celui qui observe son destin avec compassion. Tout autour s’affairent quatre hommes, placés aux angles cardinaux comme les pieds d’un candélabre de bronze padouan. Les regards torves et suspects se déplacent de la victime au spectateur, inquiets d’un sinistre présage. La Passio légendaire veut que ce soient ses compagnons d’armes mais cela fait plusieurs siècles qu’ils ont cessé de porter les insignes impériaux, allant par bois et vallées, armés de piques, d’arcs et de colubrine pour massacrer les élevages, saccager les campagnes. Ce sont des lansquenets, des joueurs d’épée, aux bragues rouges et aux casques plumés ici mis en fuite par un cavalier cuirassé (le saint avant le martyre placé au fond, à droite) alors qu’ils s’apprêtaient à prendre d’assaut une caravane de chameaux avec des marchandises dirigées vers une cité fortifée: Rome sur une colline romagnole «che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» («qui de toutes parts occupait l’horizon»). Les troupes de Louis XII arrivent pour prêter main-forte dans la bataille victorieuse mais sanguinaire de Ravenne (1512). À l’époque de Palmezzano on en parlait de toutes parts1. Avant le récent nettoyage, c’était le nom de Bellini qui apparaissait sur le cartel comme si on avait souhaité orienter le tableau vers l’école vénitienne et un nom plus célèbre 2. La date est illisible car il manque les derniers numéros mais elle est proche de celle de la détrempe semblable, aujourd’hui conservée à La Quadreria di Palazzo Magnani à Bologne 3, ou encore à la composition qui présente le saint de façon identique conservée au Christian Museum d’Esztergom en Hongrie, la latine Strigonia (inv. 55.221) (Fig. 1) 4, à dater au début des années 1530. marco riccòmini


2

Amico Aspertini Bologne 1474 – 1552

Triton Plume, encre, bistre, traces de pierre noire et de noir de fumée sur papier, mm 222 x 154 Collé sur papier de support.

1. Lettre de Zacchi datée du 30 décembre 2008. 2. Ongpin 2002, n. 1. 3. inv. C 36-1860 et C 37-1860. 4. Faietti 1995, n. 45-46, pp. 260-261.

3

Gerolamo Giovenone Vercelli vers 1490 – 1555

Crayon, aquarelle et blanc de céruse sur papier couleur noisette, mm 512 x 347 Collé sur feuille de support. Inscription sur le montage à la plume et encre brune: «44»; «Sadeler»; «C. Dolci».

Provenance: Australie, collection particulière; Massa Lombarda, collection particulière; Rome, collection particulière.

Le dessin représente un triton de dos tenant dans sa main droite une massue tandis que sa longue queue s’enroule autour de son bras gauche, répondant à un élément au loin. Considéré comme le plus excentrique des peintres bolonais du XVIe siècle, Aspertini sut fondre la connaissance de l’antique avec celle de la peinture des grands maîtres italiens et allemands de son temps. Poussé par une insatiable curiosité, il élabora un langage pictural très personnel, anticlassique, dans lequel la fantaisie, le caprice et l’imagination constituèrent son inimitable code stylistique. Le présent dessin a été rapproché par Zacchi1 d’un Satyre passé chez Jean-Luc Baroni Ltd.2 lequel, comme le monstre marin, a la même position de la main gauche. Le traitement des hachures est lui aussi semblable, ainsi que la silhouette du triton inspirée par les sarcophages antiques et les modèles renaissants, identifiée dans deux études conservées au Kupferstickabinett de Dresde: Jeux amoureux entre une Néréide et un Triton et Les amours d’un Triton et d’une Néréide 3 . Les deux dessins, jadis datés par Faietti avant 1510, suggèrent que le présent dessin se situe chronologiquement entre 1505 et 15104. Cela correspond à la période à laquelle Aspertini réélabore en toute autonomie l’antique en clef anticlassique et antinaturaliste au profit d’une veine créatrice débordante qui autorise des œuvres comme les deux tablettes monochromes avec des Tritons, Néréides et Amours (vers 1505 – 1506) aujourd’hui conservées à University Art Museum de Princeton. Mais les similitudes avec le modèle de notre Triton se retrouvent en particulier dans les fresques de l’Oratoire de Sainte Cécile à Bologne et celles de la chapelle de Saint Augustin de l’église San Frediano à Lucques (1508 – 1509) car on y voit par exemple certains personnages présents dans la scène de la Déviation du fleuve Serchio. L’attribution à Amico Aspertini revient à Marzia Faietti, confirmée par Vera Fortunati, Alessandro Zacchi et par le présent auteur après un examen attentif direct du dessin. daniela scaglietti kelescian

Saint Sébastien

1. Pour un contenu critique mis à jour sur l’œuvre nous renvoyons à Gaudenzio Ferrari, Gerolamo Giovenone … 2004. 2. Patrucchi 2014, n. 35. 3. Romano 1986, p. 32.

Provenance: Londres, Christie’s, 10 juillet 2001, lot 27; Londres, Christie’s, 8 juillet 2009, lot 106; Londres, Sotheby’s, 7 juillet 2011, lot 60.

Né à Vercelli vers 1490, Gerolamo Giovenone suit une formation hors de sa ville natale auprès du peintre casalese Giovanni Martino Spanzotti et son disciple Defendente Ferrari comme en témoignent les consonances stylistiques et les diverses collaborations des premiers temps d’activité de l’artiste1. Cela est confirmé par un document daté du 2 août 1524 signé d’Amedeo Giovenone, père de l’artiste: il précise dans ses dispositions testamentaires que Gerolamo travaillait depuis de nombreuses années à son compte, qu’il possédait une habitation et avait un atelier indépendant. C’est à cette période qu’il faut rattacher la réalisation d’un retable d’autel, aujourd’hui conservé à la collégiale de San Lorenzo à Mortara, représentant la Vierge à l’Enfant avec les saints Roch et Sébastien2. La présence des deux saints protecteurs de la peste a permis de fixer la datation du tableau vers 1524, année durant laquelle l’épidémie frappa Vercelli. Notre dessin est une étude pour la figure de saint Sébastien présent à droite du retable de Mortara (Fig. 2) 3. Au contraire du retable dans lequel le saint est positionné à l’extrême droite avec le bras gauche débordant en hors cadre, il est représenté ici entier. Placé au centre d’un paysage, les détails sont rendus avec de légers rehauts de blanc de céruse. Les voilures transparentes d’encre aquarellée confèrent aux parties lointaines du paysage une atmosphère vaporeuse déjà empreinte de cette douceur ombreuse - issues des influences techniques du centre de l’Italie - qui se propage aussi vers l’harmonieuse pose de la figure. On relève quelques autres différences entre le retable et le dessin: dans celui-ci le bras droit est levé vers le haut, le visage est légèrement plus incliné en arrière et les flèches qui caractérisent l’iconographie du martyre sont absentes. Ces éléments contribuent à un rendu plus libre de saint Sébastien par rapport au retable dans lequel il est presque écrasé entre le groupe de la Vierge avec l’Enfant et le cadre de bois. davide trevisani


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Biagio Pupini dit Dalle Lame

La Multiplication des pains et des poissons

Bologne, documenté entre 1511 et 1551

Détrempe noire, grise, blanche, traces d’encre brune, mm 456 x 735. Collé sur un montage ancien avec une fenêtre laissant l’inscription située au verso lisible. Au verso: «disegno famoso di frà bartolomeo di s. marco, quale per ordine di raffaele da urbino / suo maestro coppiò da un suo quadro ad’ / oggetto, che per la qua-

lità della composizione / et quantità delle figure fosse intagliato in rame, / vedesi la stampa col nome di raffaele, che è assai rara intagliata da giovanni battista / de cavalerij». Provenance: Venise, collection Anton Maria Zanetti (Lugt 2992f ); Bruxelles, collection particulière.

1. Luc 9, 10-17; Jean 6, 1-14; Marc 6, 30-44; 8, 1-10; Mathieu 14, 13-21; 15, 32-39. 2. Fioravanti Baraldi 1986, p. 185-189. 3. Massari 1985, A XIV, p. 183. 4. Euboeus 1819, p. 101, n. 22; Zani 1821, VI, II, p. 280; Le Blanc 1854, I, p. 616, n. 11; Mariette 1857 – 1858, IV, p. 286; Ehrle 1908, p. 57. 5. Mariette 1857 – 1858, IV, p. 286. 6. Collectionneur, graveur et dessinateur influent, Zanetti fut l’une des personnalités majeures de la scène artistique vénitienne du XVIIIe siècle; il entretenait par ailleurs des rapports avec les plus grands représentants de la culture européenne. 7. Passavant 1891, p. 270. 8. Cordellier-Py 1992, II, p. 640-641, n. 1050. 9. Nous remercions Mme Lhinares pour la confirmation de l’autographie d’Anton Maria Zanetti sur l’inscription au verso. 10. Voir Lugt 2992f. Selon l’inscription au verso de la feuille, Anton Maria Zanetti considérait le dessin comme une copie d’un tableau de Raphaël réalisée par Fra’ Bartolomeo et gravée par Giovanni Battista Cavalieri. 11. Windsor Castle, inv. RCIN 990044; voir: Popham-Wilde 1949, p. 306, n. 783; Blunt 1971, n. 381. 12. Ruland 1876, n. XXIII, p. 43, n. 4. L’hypothèse est partagée par Cordellier-Py 1992, II, p. 642, n. 1050. 13. Fioravanti Baraldi 1986, pp. 185-189. 14. «Il che fu cagione ch’egli facesse poi compagnia con Biagio Bolognese, persona molto più pratica nell’arte che eccellente; e lavorarono in compagnia a San Salvatore a’frati Scopettini, un refettorio, il quale dipinsero parte a fresco parte a secco; dentrovi quando Cristo sazia coi cinque pani e due pesci cinque mila persone. E quivi lavorarono ancora nella libreria una facciata, con la disputa di Santo Agostino, nella quale fecero una prospettiva assai ragionevole» (Vasari 1550, ed. 1986, p. 776). 15. «La pittura in capo al refettorio fatta sul muro, rappresenta le turbe saziate nel deserto con cinque pani e due pesci. E opera di grande idea, e d’infinita fatica, eseguita dal Bagnacavallo, o sia da Maestro Bartolomeo Ramenghi, e dal Pupini, chiamato d’ordinario da Vasari Biagio Bolognese: ma ha patito non poco» (Trombelli 1752, p. 96).

Le dessin illustre l’épisode rapporté par les Évangiles sur la Multiplication des pains et des poissons 1. Jésus dans sa retraite sur une colline proche de la mer de Galilée multiplie cinq pains et deux poissons afin que la foule de fidèles accourue pour l’écouter puisse être rassasiée. Ce dessin est une œuvre du peintre et musicien Biagio Pupini Dalle Lame, documenté entre 1511 et 1551, formé auprès de l’école de Francesco Francia et Lorenzo Costa. Il travailla longuement avec Bartolomeo Ramenghi dit le Bagnacavallo, renouvelant ainsi son langage sur les œuvres de Raphaël, puis collabora avec Girolamo da Carpi et Girolamo da Treviso avec lesquels il approfondit la leçon sur le coloris ferrarais et la maniera jusqu’à l’élaboration de son propre style personnel et original 2. La composition de cette œuvre était connue grâce à une gravure réalisée en plusieurs exemplaires par Giovanni Battista Cavalieri vers la moitié du XVIe siècle (Fig. 3),3 dont l’inventio a longtemps été attribuée à Raphaël par les connaisseurs d’estampes anciennes 4. Pierre-Jean Mariette dans son Abecedario mentionne la gravure 5 et la met en relation avec un dessin qu’il vit alors à Venise dans la collection d’Anton Maria Zanetti 6 durant son voyage en Italie. Au XIXe siècle, Passavant précise que la grande composition n’est pas de Raphaël et que le dessin duquel est tirée la gravure se trouve au Musée du Louvre 7. L’auteur faisait référence à un beau dessin de Bagnacavallo, issue de la collection de Saint-Morys, entré dans les collections publiques françaises après la Révolution (Fig. 4). Jusqu’à la réapparition du présent dessin de Pupini, on pensait que le dessin du Louvre constituait l’exemplaire vu par Mariette à Venise8. Toutefois, seul le dessin de la galerie Nobile reporte au verso l’inscription de la main de Zanetti9; celui-ci avait recours à ces inscriptions pour cataloguer les œuvres de sa collection en y précisant l’attribution 10. En 1876, Charles Ruland dans son texte dédié aux œuvres de Raphaël conservées dans les collections de Windsor Castle, mentionne certains éléments importants pour notre enquête: non seulement l’auteur rapproche la gravure de Cavalieri avec le dessin du Louvre mais il mentionne aussi l’existence d’une autre petite esquisse attribuée à Biagio Pupini11 illustrant uniquement la partie inférieure droite de la représentation (Fig. 5). Le spécialiste fut d’ailleurs le premier à qualifier le dessin de préparatoire à la fresque du réfectoire du couvent de San Salvatore de Bologne12. Entre 1519 et 1536 Pupini et Bagnacavallo s’occupèrent à plusieurs reprises de la décoration de divers espaces du couvent qui avait été agrandi depuis peu 13. Les fresques, jadis citées par Vasari dans la Vie de Bagnacavallo 14, étaient encore visibles en 1752 lorsque Trombelli les décrit sommairement 15. À distance d’un siècle, Vaccolini écrit que le complexe religieux est transformé en caserne et que les peintures «ont souffert de nombreux dommages»16. Ainsi, on a longtemps cru que l’entreprise de Pupini et de Bagnacavallo était perdue,

16. «Il Refettorio poi e la libreria de’ canonici di S. Salvatore sendo stati posti in questo secolo ad uso di caserma di soldati, le famose pitture descritte singolarmente dal P. Trombelli nelle memorie di S. Maria di Reno hanno sofferto molti guasti: vennero però non ha molto riparate da un muro che le difende, e le lascia tanto spazio da poterne ancora vedere gli avanzi preziosi» (Vaccolini 1848, pp. 18-19). 17. Cantalamessa 1890, p. 91. 18. Maugeri 1994, p. 317-318, 324-325; voir: Serra in corso di stampa. 19. Popham-Wilde 1949, n. 394; Windsor Castle, inv. 0736. 20. Dominique Cordellier (comunication écrite décembre 2014 Département des Arts Graphiques Musée Du Louvre) Musée des Beaux-Arts de Besançon, inv. 4283 (D. 2652).

comme le déclarait Cantalamessa en 1890 17. Néanmoins, durant les récents travaux de restauration de la structure (aujourd’hui confiée aux bureaux de la Direction du VIe Génie Militaire), certains pans de décoration pariétale sont réapparus18. À ce jour, les recherches n’ont pas identifié les restes de la fresque en question illustrant la Multiplication des pains et des poissons, par conséquent les dernières traces du décor demeurent pour l’instant sur le papier. La réalisation de la grande scène généra certainement un important travail de préparation aux deux maîtres qui étudièrent la composition à plusieurs reprises dans le détail comme en témoignent les dessins préparatoires conservés. Aux côtés du dessin déjà cité de Windsor Castle attribué à Pupini, il faut mentionner deux autres dessins liés au sujet. Le premier, conservé dans le même recueil, est une étude fragmentaire de la partie inférieure gauche de la composition jadis attribué à Innocenzo da Imola19 et aujourd’hui reconduit à Bagnacavallo (Fig. 6). Le second est un morceau inédit conservé au musée de Besançon, attribué à Bagnacavallo par Dominique Cordellier 20. Les grandes dimensions et le caractère délicat des dessins du Louvre et de la galerie Nobile suggèrent que les deux dessins furent réalisés pour être soumis aux commanditaires, les frères de San Salvatore, exigeants et cultivés, afin qu’ils puissent approuver le projet. En syntonie sur la mise en page générale de la scène, les deux maîtres portèrent d’infimes variantes à la composition, laissant sur le papier leur langage personnel et l’élaboration de leur processus créatif. Le dessin de Bagnacavallo a été davantage médité et peaufiné tandis que celui de Pupini, plus spontané et inspiré, présente un meilleur état de conservation et constitue à l’heure actuelle le plus grand dessin connu de son corpus graphique. laura marchesini


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Pietro degli Ingannati documenté à Venise entre 1524 – 1529 et 1548

Christ de piété entre la Vierge et saint Jean évangéliste

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Bartolomeo Passerotti Bologne 1529 – 1592

Huile sur toile, cm 135 x 80. Provenance: Hongrie et Allemagne, Collection Esterházy; Londres, Sotheby’s, 19 janvier 1966, lot 28; New York, Sotheby’s, 19 mars 1981, lot 131; Milan, Collection privée.

Huile sur bois, cm 69 x 91. Bibliographie: Marchesini 2011, pp. 51-53 («Attribué à Jacopo de’ Barbari»).

1. Pour une critique récente sur le peintre vénitien voir Caccialupi 1978. 2. Inv. n. 4. 3. Una réplique de la présente œuvre conservée dans les galeries de l’Accademia à Venise, de facture assez médiocre, a été attribuée dans le passé à Donato Veneziano et Girolamo da Santacroce, mais il s’agit plutôt d’un travail ordinaire d’atelier (inv. n. 245). 4. Parmi les tableaux signés par Pietro degli Ingannati citons un Portait d’un jeune homme barbu (Venise, collection Coin), Parmi ses tableaux portant la signature «Petrus De Inganatis p(inxit)» citons la Vierge avec les saints Jean-Baptiste, Madeleine, Nicolas de Tolentino et une sainte (autrefois à Berlin, Kaiser Friedrich Museum), détruite en 1945; une Vierge avec saint Jean-Baptiste et une sainte martyre (Vercelli, Musée Borgogna), une Sainte Catherine dans un paysage (Portland, Art Museum). Par contre, la Sainte Famille avec Jean-Baptiste et une sainte (Ursule ?), autrefois conservé dans la collection Sellar et vendue en 1931 chez Christie’s Londres portant la date de 1548, demeure l’unique tableau signé et daté par l’artiste mais le lieu actuel de conservation est inconnu. 5. Sur les pratiques suivies au sein de l’atelier de Giovanni Bellini en terme d’organisation du travail, de transmission et d’utilisation des modèles émis au temps du grand maître et de ses plus étroits collaborateurs voir Tempestini 2010. Ce travail semblait être confié aux élèves plus doués de la première génération restés pour des raisons affectives liées au maître même lorsqu’ils étaient déjà autonomes, en particulier dans les dernières années d’activité du grand chef d’atelier. Le processus formatif donc, plus qu’avant, était de seconde ou de troisième main; c’est en tout cas ce qui émerge de l’analyse stylistique des œuvres de notre peintre. 6. Inv. n. 61.40.

Portrait de collectionneur

L’intégration correcte de l’œuvre au catalogue de Pietro degli Ingannati est due à Andrea De Marchi 1. L’image, au fort impact émotif, se concentre sur le nœud créé autour du Christ par les figures de la Vierge et de Jean qui l’encadrent et supportent le corps pour l’exposer à la compassion du fidèle. L’ensemble dérive d’une célèbre composition de Giovanni Bellini - ou d’une variante élaborée au sein de son grand atelier - comme en témoigne un retable, non autographe, conservé à la Staatliche Museen de Berlin2. Par rapport au modèle berlinois, la présente peinture diverge par la physionomie donnée au visage de saint Jean 3 car le caractère de ses traits et le regard insistant font penser à un véritable portrait. Un genre dans lequel Ingannati semble s’être distingué 4. La citation évidente de la version berlinoise révèle chez Ingannati un iter formateur développé, peut-être au début du siècle, au sein de l’atelier animé et affairé du maître5. Vénète mais non vénitien de naissance, ses première traces à Venise s’enregistrent à partir de 1529. La critique la plus avisée suppose une formation sous l’égide d’Alvise Vivatini. Son style connu par ses œuvres signées, révèle par ailleurs l’influence de Vincenzo Catena, peintre assidu durant ces années dans l’atelier de Giovanni Bellini, l’influence de Benedetto Diana, en particulier pour la palette chromatique, puis progressivement celle de Palma le Vieux. Bien que proche du langage de Bellini, la combinaison de tous ces effets à laquelle Ingannati parvient, a souvent conduit la critique à confondre son style avec celui de Francesco Bissòlo. Aucun doute ne subsiste sur l’autographie de l’œuvre comme en témoigne la confrontation avec certaines de ses œuvres attestées telles que la Sainte Catherine dans un paysage, signée et conservée à l’Art Museum de Portland 6, identique dans le traitement des nuances des carnations, le dessin des yeux ainsi que l’effet aplati du raccourci des visages et le rendu filiforme de la chevelure dessiné avec la pointe du pinceau. davide trevisani

1. Ghirardi 1990, p. 257-258, n. 82. Huile sur toile, cm 120 x 98.

Bibliographie: Benati 1981, p. 31, tav. 42; Porzio 1984, II, p. 43; Franzoni 1984, p. 302, note 104; Ghirardi 1986, II, p. 555; Höper 1987, II, p. 237, n. A 38; Benati 1988, n. 7; Ghirardi 1990, p. 170-171, n. 20; Benati 2005, n. 5.

Le collectionneur ne regarde pas vers la chambre mais vers un point au loin, au-delà de la fine toile à la trame en épi et hors de la pénombre de la pièce, selon les instructions du peintre assis devant lui. Tel un laisser-passer, il tient dans la main gauche une feuille décolorée par le temps (qui aurait pu résoudre l’énigme de son nom), et tient entre les doigts de la main droite une médaille dorée avec le profil couronné de laurier d’un empereur romain encadrée par un bord laqué noir. Derrière lui, amassés sur une table de la bibliothèque recouverte d’un velours rouge, se trouvent des objets précieux à ses yeux, avec lesquels il souhaitait être immortalisé (et peutêtre même enseveli tel un ancien monarque). Un torse de marbre d’une sabine, acéphale et sans bras, enlevée par un romain durant le célèbre rapt, un bronze patiné (peut-être padouan) légèrement vert aux reflets dorés, un buste de marbre de Paros illustrant Athéna de profil, une tête chauve et penseuse, elle aussi de marbre, à l’expression si réaliste qu’elle pourrait passer pour renaissante et non issue de fouilles. Enfin, des volumes étroits avec des lacets en cuir de vachette claire dont l’un d’entre eux, laissé ouvert, présente d’autres médailles gravées en couleur ou des fleurs de cornes des temps passés. Collectionneur ou marchand, il est difficile de trancher. Attribué au bergamasque Moroni lorsque le tableau se trouvait en Hongrie, il s’agit en réalité d’une œuvre bolonaise, produite par Passerotti comme on peut le voir au fond violacé de la pièce, caractéristique du peintre. L’œuvre est très proche du portrait anonyme conservé à l’Ambassade italienne de Londres, probablement contemporain (autrement dit autour de 1570) du présent portrait avec lequel il partage la pose accompagnée avec la monnaie mise en valeur, les sculptures et les livres rares et précieux posés sur la table1. marco riccòmini


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Giovanni Battista Cremonini

Saint Jean-Baptiste et les Pharisiens

Cento, vers 1540 – 1610

Huile sur toile, cm 177,5 x 123. Provenance: Bologne, crypte de San Michele in Bosco; Milan, collection particulière. Bibliographie: Malvasia 1686, p. 329; Guida alle pitture… 1792, p. 416;

1. Benati 2005, p. 128. 2. Giovanni, 1, 19-23. 3. Giovanni, 1, 29. 4. Malvasia 1686, p. 329; Guida alle pitture…1792, p. 416. 5. Zucchini 1943, p. 31. 6. Benati expertise 2014. 7. Riccòmini 1988, n. 5. 8. Micheli 2016, p. 78. 9. Palazzo Vassé 2009. 10. Clerici Bagozzi 2011. 11. Micheli 2016.

Zucchini 1943, p. 31; Il patrimonio artistico 1979, p. 59; Riccòmini 1988, n. 5 («Bartolomeo Passerotti»); Benati 2005, p. 128; Clerici Bagozzi 2011, p. 300; Micheli 2016, p. 77-78, fig. 84.

L’on doit à Daniele Benati l’attribution à Giovanni Battista Cremonini dont le tableau représente saint Jean Baptiste et les Pharisiens.1 Le sujet juxtapose en un unique acte temporel deux épisodes évangéliques de la vie de saint Jean-Baptiste : la visite des prêtres envoyés par les pharisiens pour l’interroger sur son identité et le nom de celui qu’il baptisait 2 puis le baptiste désignant Jésus comme étant l’agneau de Dieu qui enlève les péchés du monde 3. La rareté de l’iconographie a permis à Benati de mettre en relation cette œuvre avec le Saint Jean-Baptiste interrogé par la foule de Cremonini rappelée par Malvasia4. Réalisé en 1596 5, le retable était situé au-dessus de l’un des autels de la crypte de l’église de San Michele in Bosco à Bologne. En effet, les dimensions réduites de l’œuvre s’accordent elles aussi avec l’emplacement originel d’une chapelle dans un hypogée6. Avec les suppressions napoléoniennes, une partie du patrimoine du complexe religieux a été dispersé, notamment le présent tableau récemment réapparu sur le marché de l’art 7. Il restitue un important témoignage du patrimoine artistique bolonais. La toile est considérée le «chef-d’œuvre de l’artiste pour la noblesse de sa conception et la qualité de la peinture»8, une pièce fondamentale pour la connaissance de l’œuvre de l’artiste, peu connu, originaire de Cento. Cremonini en effet consacra la plupart de son activité à la décoration à fresque qui, plus que toute autre technique, a souffert au fil du temps. Toutefois, la critique a récemment récupéré une partie de son corpus avec l’étude et la publication de cycles de fresques conservés dans les palais de Pietramellara9, Zambeccari 10 et Bentiviglio11. laura marchesini

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Antonio Maria Panico Bologne, vers 1555-1560 – Farnese (?) avant 1617

1. La Légende dorée veut que le monstre, Satan en personne, engloutisse la jeune fille emprisonnée avant d’être détruit par le signe de la croix. Mais il s’agit d’une version apocryphe car Jacques de Voragine doit être lu avec prudence. 2. Sur avis de Roberto Longhi qui l’orientait vers Domenichino, le tableau fut présenté dans une page publicitaire du ‘Burlington Magazine’ du 1968. 3. Brogi 1988, p. 42.

Sainte Marguerite Huile sur toile, cm 68 x 51,5. Bibliographie: ‘The Burlington Magazine’, 1968, pl. XXII; Brogi 1988, p. 42-43, pl. 85; Bertini 1995, p. 253.

Depuis que le varan imaginaire des temps anciens, lacertidès, vit son corps transpercé par une flèche dans la célèbre toile du florentin Doni (Paolo Uccello), il n’y avait plus de place laissée à l’imagination. La femme qui dirige, impassible, le regard au loin - insouciante vis à vis du cheval saure dont la queue écaillée effleure ses pieds nus et à l’égard de celui qui, comme nous, regarde curieux dans la toile - est la vierge Marguerite d’Antioche, Marine chez les Grecs. Parmi les attributs qui permettent son identification la palme qu’elle présente en mémoire de son martyre subi pour avoir refusé de prendre pour époux Olybrius, préfet de la province au temps de Dioclétien1. Le paysage fécond derrière la sainte serait donc celui de l’ancienne Pisidie, dans l’actuelle Turquie méridionale - s’il ne ressemblait pas à un paysage de la Campagna romaine - avec le cours d’eau entre les rochers, ravins et les chênes créant de l’ombre tel un début d’Arcadie, codifiée et identifiable par les œuvres romaines d’Annibale Carracci et de ses élèves et suiveurs. C’est d’ailleurs parmi eux qu’il faut chercher l’auteur de cette toile qui un temps avait été rapproché de Domenichino2, disciple d’Annibale, qui à Rome choisit le genre du paysage comme élément distinctif. Formé à Bologne (selon Malvasia auprès de Fontana, Calvaert et de fait Ludovico Carracci), Panico rejoint Annibale sur le chantier du palais Farnèse à Rome, entrant rapidement au service de Mario Farnèse, duc de Latera. Limitée aux seules études de spécialistes, son œuvre reste aujourd’hui encore en grande partie obscure et liée au mécénat Farnèse entre Rome et le Haut Latium. Avec les œuvres d’Annibale à l’esprit, sa Marguerite «romaine» témoigne de ses lectures classiques, à la recherche d’un résultat clairement neo-cinquecentesco; la toile pourrait être considérée «une sorte de Giulio Romano dans les draps du XVIIe siècle»3. marco riccòmini


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École Espagnole, XVIIe siècle

1. Vecellio 1664, p. 212. 2. Giustiniani (Chio 1564 - Rome 1637) 1628.

Portrait de jeune de trois-quarts Huile sur toile, cm 64 x 46,5. Provenance: Londres, Christie’s, 1 août 1929, lot 165: «G. B. Moroni. Portrait of a

10 Attribué à

Gentleman, in brown doublet with dark sleeves and white collar, 23 1/2 in. by 17 1/2 in.».

Il nous regarde de biais, le menton mal rasé. L’ombre du bigote sous le nez rehausse les lèvres charnues, une boucle rebelle sur la tempe s’échappe d’une sorte de kalpak qu’il porte sur la tête ou un «béret assez haut» - et tout un attirail «une fraise, les ailerons aux poignés, les chausses et les bragues» - selon les descriptions de la tenue du noble espagnol dans l’estampe de la fin du XVIe siècle signée de Vecellio, parent du plus célèbre Titien (Degli habiti antichi et moderni di diversi parti del mondo libri due, imprimé à Venise en 1664)1. Le fait que ce jeune homme soit ibérique n’est qu’une supposition en partie alimentée par les composantes de son habit. Son appartenance à la noblesse est par contre confirmée par la qualité de ce qu’il revêt, notamment la collerette aux fines dentelles des Flandres, candide et empesée. Portraituré de dos dans une pièce sombre, on ne comprend pas ce qu’il porte dans les bras. Au-delà de l’épaule gauche un profil émerge (en partie abrasé, obtenu par l’économie du brun composé de Terre de Sienne dans la préparation de la toile). Cela pourrait être une arme, la canne d’une couleuvrine ou, mieux encore, le manche d’un luth (guitare, mandole ou mandoline). Si cela était le cas, nous serions en présence d’un joueur, de métier ou de passion, surpris par l’ami peintre tandis qu’il accorde son instrument à la lumière des chandelles, se préparant pour un quart de romance, en un recitado à l’espagnole comme le décrivait Vincenzo Giustiniani 2, dans le silence d’une pièce aux murs nus comme ceux d’un couvent. marco riccòmini

Guido Cagnacci Santarcangelo 1601 – Vienne 1663

Étude pour un visage féminin Au verso Étude de drapé. Sanguine sur papier ivoire, mm 214 x 279. Provenance: Bologne, collection particulière.

La lumière frappe le visage au-dessus de la tempe, éclaircissant la joue couverte mais laissant des zones rondes d’ombre au niveau de la cavité oculaire et sous les parties les plus saillantes. La douceur de la sanguine est accentuée au niveau des contours qui se fondent dans le modelé de la chair. Le regard se perd dans la pénombre bien qu’il ajoute une expression participant à la position diagonale de la tête. Le sourire ébahi rappelle celui d’une mère qui contemple son enfant, un regard posé vers le bas rempli de tendresse. Les boucles ébouriffées des cheveux suggèrent une étude pour une tête féminine, bien qu’il ne soit pas exclu que le modèle soit un garçon. Le style voilé du dessin suggère un auteur du XVIIe siècle toscan, autour du cercle d’artistes de la douceur, de Furini à Pignoni, mais certains caractères somatiques telles que les lèvres ourlées ou encore la forme ronde et pesante des paupières suggèrent une hypothèse différente et rappellent les modèles langoureux de Guido Cagnacci. Il y a longtemps que je recueille des indices sur le style graphique du génie romagnole et il est désormais clair que sa façon de dessiner est héritière de la leçon de Federico Barocci. L’atmosphère que restitue la sanguine, estompée par un buvard, lui permettait d’anticiper sur le papier la perception de ce qu’il aurait pu réaliser avec le pinceau. Peut-être que l’origine de ce profil en saillie est dérivé de l’Apollon de Ludovico Carracci réalisé à Bologne au palais Segni Masetti? Mais dans le corpus de Cagnacci le morceau devient un motif récurrent et ces paupières hypertrophiées peuvent être considérées comme une signature de l’artiste. Depuis la Vierge à l’Enfant (une version est conservée à Milan dans la collection Koelliker Fig. 7, l’autre à Florence, dans la collection Strozzi Sacrati), jusqu’à la plus connue de ses héroïnes suicidaires, Guido adopte le même choix de raccourci sur le visage saillant, avec un gonflement analogue du menton. La jeune servante Judith de la Pinacoteca Nazionale de Bologne est également présentée dans une pose semblable au moment où elle détourne son visage de la tête décollée de Holopherne. D’autres dessins de Cagnacci sont réalisés avec deux ou trois crayons mais le style est le même. Il est par ailleurs proche d’une feuille signée, quasi spéculaire, conservée au musée de Stockholm (Fig. 8). Relevons enfin que l’on aperçoit le petit buste d’un enfant, pratiquement caché par le visage féminin, dessiné avec un trait plus linéaire et avec une orientation différente de la feuille. Il est difficile de fournir une datation à cette feuille mais elle peut être placée autour des années quarante lorsque l’artiste abandonne les clairs-obscurs nets d’inspiration caravagesque. massimo pulini


11 Felice Ficherelli dit il Riposo

San Gimignano 1603 – Florence 1660

1. La toile est récemment passée sur le marché de l’art florentin : Pandolfini, 24 novembre 2014, lot 28. 2. Pour son illustration voir: Baldassari 2009, pp. 52 e 361, pl. XXXIII.

La punition de Prométhée

12 Pier Francesco Mola Coldrerio 1612 – Rome 1666

Tête de femme

Huile sur toile, cm 165,5 x 202,5. Bibliographie: Volpi 2008, p. 148. Provenance: Rome, collection particulière.

Huile sur papier collée sur toile, cm 38,2 x 26,1. Au verso de la toile: «del Mola 175 (?)». Provenance: collection particulière.

Prométhée, grande figure d’après nature, est en train de subir le supplice infligé par Zeus pour le punir des défis lancés aux dieux. Le chef de l’Olympe décharge sa colère sur le paladin de l’humanité en l’enchaînant nu à un rocher du Caucase afin que chaque jour un aigle lui mange le foie qui se recréait chaque nuit. La composition théâtrale, la gestuelle amplifiée, la lumière caressant les chairs ainsi que la densité toujours plus lourde de la matière picturale tout en laissant intact le dessin - en bon florentin de souche - orientent l’attribution de l’œuvre vers Felice Ficherelli, un peintre spécialisé en tableaux de chevalet centrés sur des sujets tragiques et violents, extraits de l’histoire romaine et de la mythologie. Formé auprès de Jacopo da Empoli, Ficherelli, suit à partir des années 1642 environ la leçon douce et sensuelle de Francesco Furini pour se rapprocher par la suite du style dramatique et tourmenté de son contemporain Cecco Bravo dans les années cinquante. De fait, c’est à cette dernière décennie de son activité qu’appartient le présent Prométhée. L’œuvre est inspirée par les toiles fondées sur l’illustration de la torture du héros laissées à Florence par Salvatore Rosa, vraisemblablement connues par Ficherelli. Il traduit ici le même épisode avec son habituel ton élégant et raffiné, survolant les détails les plus cruels tels le hurlement spasmodique du demi-dieu ou la description des entrailles. La figure de Prométhée réunit des éléments indiscutablement proches avec la figure d’Holopherne peinte par Ficherelli dans la toile avec Judith et Holopherne autrefois conservée dans les collections Giaquili Ferrini puis Maestrucci à Florence1. Les visages sont fortement raccourcis, les poses sont désarticulées en diagonale, la morphologie des mains et des pieds des protagonistes des deux toiles sont semblables. La conformation du terrain et le ciel gris strié de nuages évoquent le Jonas et la baleine de la collection Luzzetti à Florence 2.

Le portrait, inédit, a une attribution traditionnelle à Pier Francesco Mola, attestée par l’inscription ancienne lisible au verso de la toile de support et confirmée par l’analyse stylistique1. Le traitement libre et pictural obtenu grâce aux coups de pinceau liquides est complété par des traits chargés de matière avec des rehauts de blanc de céruse dans les parties éclairées, sur le profil du nez, sur le front, sur les paumes et sur le pan de châle mis en évidence sur la gauche. Le visage est en partie immergé dans une pénombre éclaircie obtenue grâce aux ombres brunes traitées en transparence sur la préparation rougeâtre laissée en évidence au fond de la composition. La même préparation, qui rend forme au volume de la chevelure, est marquée sur le front par de petites touches claires réalisées avec la pointe du pinceau, caractéristique de Mola. Il s’agit d’un élément emblématique de ses portraits, toujours en équilibre avec le véritable portrait, l’allégorie ou l’étude de caractère qui privilégie les personnages issus des milieux populaires aux traits rugueux et scabreux, saisis avec grand réalisme, à la limite du grotesque par rapport à la recherche du portrait idéal propre au portrait romain de cette période. L’influence des portraits des Carracci est ici évidente, notamment celle des «têtes de caractère» d’Annibale, y compris dans le processus technique qui favorise généralement pour ces études le support lisse et absorbant du papier sur lequel peindre à huile. En guise de confrontation, citons - aussi bien en termes stylistiques qu’iconographiques - la Tête de femme de la Galleria Doria Pamphilj et surtout la Tête de vieille femme de la Galleria Pallavicini de Rome (Fig. 9), documentée dans le testament du cardinal Lazzaro Pallavicini daté 1679: «Portrait d’une vieille avec un torchon au cou; et un autre de profil de 1 ¾ rond cadre incisé doré - del Mola». Le même «torchon» autour du cou que porte notre personnage2. Une datation autour de 1645 – 1650 peut être avancée pour ce portrait, par rapport à l’œuvre de la collection Pallavicini, antérieur au tournant classiciste initié à partir des années cinquante, après le retour définitif du peintre à Rome. Nous n’avons pas les éléments nécessaires pour établir l’identité de la femme, des cheveux roux, un peu décoiffés et ébouriffés, vieillie de façon précoce et un aspect physique extérieur peu soigné, peut-être un membre de la famille du peintre. On pourrait penser, par rapport à la datation, à la mère - c’est une hypothèse - Elisabetta Cortesella, née à Côme vers 1596.

francesca baldassari

1. Sur le peintre, avec une bibliographie complémentaire, voir: Cocke 1972; Pier Francesco Mola 1612 – 1666… 1989; Petrucci 2012. 2. Voir Petrucci 2012, pp. 256, 264, nn. A24, A34.

francesco petrucci


13 Alessandro Rosi Florence 1627 – 1697

Pâris

14 Alessandro Rosi Florence 1627 – 1697

Huile sur toile, cm 65,7 x 49.

1. Paris, Tajan, 21 juin 2010, lot n. 26.

Un jeune homme sophistiqué, présenté à mi-buste, se détache du fond bleu. Avec la main droite, il nous offre une pomme reinette aux grandes feuilles, de l’autre il tient une flèche. Il arbore un vêtement recherché, caractérisé par diverses couches d’étoffes somptueuses, gonflées par d’amples drapés. Le fruit qui contient l’inscription en latin «Detur pulchriori» nous dévoile son identité: il s’agit de Pâris prêt à remettre la pomme d’or à la déesse choisie, hors cadre, Aphrodite, qui est ici confondue avec l’observateur grâce à l’interactivité narrative. Les données de style indiquent que nous sommes face à une œuvre d’Alessandro Rosi, peintre qui a grandi au sein de l’école de Cesare Dandini, comme en témoignent les traits acerbes mais sensuellement intrigants du visage du prince troyen. La facture dense et pâteuse des coups de pinceau, le jaune solaire, le rouge écarlate harmonisé aux blancs crémeux de la chemise constituent de précieuses notes, caractéristiques de Rosi. Artiste anti-conventionnel, il se présentait costumé en public vêtu de costumes fantaisistes et bizarres. D’après les anciennes biographies, il avait un caractère fougueux et un esprit extravagant; un tempérament étrange qui se reflète pleinement dans ses œuvres à l’invention originale, peuplées de personnages sensuels et séduisants tels que notre Pâris. La prédilection du peintre pour cette figure mythologique est évidente comme en témoignent les diverses versions autographes conservées. Un de ses tableaux est apparu sur le marché de l’art français: le jeune berger y est mis en beauté, Aphrodite se trouve derrière lui et les déesses perdantes sont confinées au second plan1. Dans deux versions semblables, l’une en collection particulière et l’autre à la Staatsgalerie de Stuttgart, Pâris revêt un chapeau plumé de fourrure analogue à celui de la présente toile et s’adresse de la même manière au spectateur, signalant la pomme dans la main gauche. Par ses rapports étroits avec Cesare Dandini et l’assimilation de la leçon de Lanfranco et de Pierre de Cortone, la toile apparaît comme la première des versions aujourd’hui connues traitant ce thème. Elle peut être datée aux dernières lueurs des années quarante. francesca baldassari

Saint Antoine ressuscite le jeune mort et délivre le père Huile sur toile, cm 143 x 115. Provenance: Rome, collection particulière.

1. Pour le peintre voir Acanfora 1994; sur le tableau en particulier voir Acanfora, Alessandro Rosi: aggiornamenti al catalogo, à paraître.

Parmi les chefs-d’œuvre du courant nécromancien du XVIIe siècle, il faut insérer ce surprenant tableau inédit. La densité des coups de pinceau restée intacte en superficie et la superbe grandeur de la mise en page évoquent facilement l’extravagant Alessandro Rosi1, nom suggéré par Claudio Strinati. Le thème est celui du miracle de saint Antoine survenu à Lisbonne pour démontrer l’innocence de son père injustement accusé du meurtre d’un jeune homme retrouvé dans son jardin. Face au juge, ici couronné et à cheval à la manière d’un empereur antique, le saint rappelle à la vie le jeune homme afin qu’il puisse témoigner et libérer son père. La scène, très agitée, se concentre sur le miracle du saint qui prend place parmi la multitude d’hommes armés et de mendiants et conduit le père encore prisonnier avec les mains nouées derrière le dos. À l’arrière plan, les têtes renfrognées des hommes armés et les vifs reflets de lumière sur les armures indiquent un réel intérêt pour le genre de la bataille et pour les œuvres de Salvator Rosa. Sur les traces du peintre napolitain - qu’il avait très probablement connu dans sa jeunesse à Florence - Alessandro Rosi réalise quelques études de têtes armées, telle l’Homme d’arme à la boucle d’oreille (Fig. 10) conservée en collection particulière, qui anticipent significativement les expressions intenses des soldats ici représentés. L’approche chargée et la gestualité grotesque du mendiant vu de dos au premier plan – que l’on retrouve dans son Incrédulité de saint Thomas, autrefois apparu sur le marché de l’art – nous font comprendre que l’artiste regardait le monde des bouffons et des «bossus». Des thèmes qui avaient été développés par Baccio Del Bianco à partir des gravures de Jacques Callot; je pense en particulier au Danseurs et assistants, conservé en collection privée. L’œuvre doit être rattachée à l’activité tardive de Rosi, vers les années 1680. La rareté du sujet se transforme en un épisode inédit picaresque sur un fond de nobles architectures classiques. Les masques hallucinés des personnages réalisés avec extrême aisance, et la représentation insistante des mendiants annoncent de façon extraordinaire le ton que Francisco Goya emploiera dans ses célèbres fresques de la chapelle de Saint Antoine de la Florida à Madrid (Fig. 11). elisa acanfora


15 Alessandro Rosi Florence 1627 – 1697

Diane et le satyre

16 Alessandro Magnasco Gênes 1667 – Bologne 1749

Huile sur toile, cm 87 x 73,2.

Présentée de trois-quarts, Diane au teint laiteux resplendit sur le fond bleu du ciel où pointe une demie lune, symbole incontournable de la divinité placé sur sa tête rappelant qu’elle fut pour les Grecs la déesse de la lune sous le nom d’Artémis. Son visage de profil, encadré par des boucles noires recueillies en mèches derrière la nuque, affronte le satyre surgi de nulle part, prêt à l’embrasser et profiter de la nudité de son décolleté laissé à la vue par la chemise défaite. Les emblèmes de l’arc et du carquois avec les flèches entre les mains, la présence à l’arrière du lièvre ciblé et, au premier plan, celle du chien, son fidèle compagnon lors des récurrentes excursions de chasse, soulignent la volonté du peintre de mettre en évidence son rôle de déesse de la chasse mais aussi la protection immuable de sa virginité au nom de l’Amour auquel elle avait fait don de chasteté. Face au satyre mal intentionné, les oreilles pointues, la peau sombre exaltée par le pelage maculé, Diane répond avec un regard décidé et ferme. L’habile narrateur de ce tableau n’est autre que le florentin Alessandro Rosi, talentueux dans le traitement des drapés avec des coups de pinceau denses et pâteux caractérisé par l’emploie d’une palette riche et vive. Les similitudes avec son œuvre peint sont nombreuses, à commencer par la Salomé de la collection Pratesi à Florence dans laquelle apparaît le même modèle ainsi qu’une contraposition analogue rapprochée des visages des deux protagonistes de la scène. La mise en page très narrative, soutenue par une approche dynamique, et la complexité de la composition suggèrent une insertion de notre toile dans une phase plutôt avancée de la carrière de Rosi, autour des années 1660 – 1670. Une période au cours de laquelle l’artiste s’était affranchi des leçons des frères Cesare et Vincenzo Dandini dont il avait fréquenté l’atelier situé via del Parioncino et avait fait siens les enseignements de Pierre de Cortone et de Lanfranco, atteignant des résultats spectaculaires. Au vu de ses dimensions et du sujet de l’œuvre, sa destination est sans aucun doute dirigée vers le collectionnisme privé comme le Pâris présenté à la notice 13. francesca baldassari

Trois figures en Arcadie Plume, encre brune, bistre et blanc de céruse sur papier couleur noisette, mm 187 x 260. Provenance: Venise, collection particulière.

1. Inv. PII 1025. Voir Franchini Guelfi 1999, pp. 107, 110-111, n. 15.

Bibliographie: Geiger 1945, pl. 38. Exposition: Alessandro Magnasco…1967, n. 22.

On pourrait penser à deux personnages au puits remplissant une amphore en terre cuite s’ils ne s’appuyaient pas sur une roche depuis laquelle il ne jaillit aucune eau. Une brise d’après-midi soulève les drapés du jeune homme, tel un ange venu du ciel, sur une terre d’Arcadie. La présence d’un satyre maigre, aux poils ébouriffés, nous indique qu’il ne s’agit pas d’une scène de la vie quotidienne, que les deux personnages ne sont pas des bergers de la Campagna Romana, qu’elle n’illustre pas les Saintes Écritures (telles que Rebecca et Eliézer au puits). Assis sur un rocher à l’ombre d’un arbre dont on n’entrevoit que le profil du tronc, le satyre entonne une mélodie païenne avec sa flûte. Nous sommes en présence du schéma caractéristique de Magnasco – et de fait de ses imitateurs et suiveurs, dans et hors de Gênes, tant ses inventions eurent du succès – qui consiste à imaginer une scène d’apparente vie bucolique avec l’insertion de traits mythologiques et de fables antiques. Il s’agit d’une esquisse sur un papier brut déjà coloré qui consentait avec quelques retouches au pinceau et quelques rehauts de blanc de céruse de donner vie et couleur au dessin. Il s’harmonise parfaitement avec les Lavandières aujourd’hui conservé à l’Ashmolean Museum d’Oxford1, dessin de très haute qualité, parfait pour la préparation d’esquisses insérées dans quelques contrées de l’imaginaire du «Lissandrino» (comme était surnommé en plaisanterie le Magnasco en raison de sa petite taille). marco riccòmini


17 Donato Creti

Crémone 1671 – Bologne 1749

1. Théogonie, 274-289. 2. Andromède, fragments 132, 128. 3. Salerno 1988, p. 327. 4. Roli 1967, p. 96, nn. 83-90. 5. Fantuzzi 1770, p. 319.

Persée et Andromède

18 Marco Ricci

Belluno 1676 – Venise 1730

Paysage avec village fortifié

Huile sur toile, cm 51,5 x 35. Bibliographie: Riccòmini 2013, p. 55, note 21.

Gouache sur papier, mm 293 x 441. Provenance: Venise, Collection Italico Brass.

La scène est arrêtée, immobilisée par un geste large des bras d’Andromède nue qui invoque le temps, elle attend un secours. Elle est enchaînée au rocher, offerte en sacrifice à l’horrible monstre marin afin d’expier la superbe de la mère Cassiopée qui souhaitait qu’elle soit la plus belle des Néréides. La scène est figée, il n’y a pas un brin de vent, pourtant, par magie, un long drapé cobalt bordé d’or pur se déploie, s’envole et, en chiasme, tourne autour des épaules de la vierge éthiopienne, le corps lié aux masses rocheuses sombres. Et voici finalement apparaître au loin, parmi les nuées bigarrées d’un ciel vespéral couleur mer, Persée en vol, l’intrépide héros argien, enfanté par Danaé sur caprice de Zeus dans le mythe rapporté par Hésiode1. Vêtu d’un ruban mauve déployé comme un drapeau hissé sur le mat d’un navire, il chevauche Pégase le cheval blanc ailé, bondissant, avec le cou tranché d’une Méduse défiée dont la tête coupée est brandie de façon menaçante par la main gauche du libérateur. L’épilogue heureux de l’histoire est bien connu et ne mérite pas d’être raconté. Il ne reste que l’écho de la vierge suppliante à la vue de son sauveur comme le veut Euripide: «prends-moi étranger, prends-moi avec toi où tu veux, comme esclave, comme femme, comme servante»2. Creti a probablement regardé «L’Andromède, grand tableau» (1648) d’un Guercino déjà mature peint pour «Mons. Commendeur Manzini», aujourd’hui conservé au Palais Balbi Senarega à Gênes 3. Cela explique le grincement de dents du monstre Cetus (ketos), identique dans les deux toiles tels les poses et les gestes déclarés des deux acteurs sur une scène divisée de façon verticale par le profil escarpé du mont et coupé à moitié par la ligne distante de l’horizon. Les dimensions réduites de la toile, inédite et absente des sources, nous aide cependant à en comprendre la genèse et peut-être même le destin. En effet, cette toile est identique au centimètre près à celle des huit scènes intitulées les Scènes astronomiques conservées depuis 1932 à la Pinacothèque du Vatican à Rome 4. Soleil, Lune, Mercure, Vénus, Mars, Jupiter, Saturne et Comète furent commandées à Creti (et au «micrographe» Raimondo Manzini, spécialiste en miniature et observateur scrupuleux des planètes) par le conte Luigi Marsigli vers 1711. La série devait constituer un don au pape Clément XI «pour donner envie à Sa Sainteté d’avoir un speculum … tout en montrant l’importance et l’utilité pour la S. Eglise [de posséder] un Observatoire Astronomique» 5. De ce rêve céleste il ne reste que les tableaux du Vatican et quelques feuilles qui illustrent avec les planètes les longues et brillantes lunettes d’étain, orgueil des astronomes bolonais. Une partie de ce rêve est, peut-être, la présente toile, robuste, sur laquelle il faut lever les yeux et regarder au-delà des nuées de la fable antique pour se perdre dans la contemplation de son ciel nocturne moiré afin de trouver Andromède (sans l’aide de lentilles), une constellation de l’hémisphère nord et la brillante «Alpheratz» (de l’arabe «cheval») autrement dit Pégase encore à ses côtés après tant d’années. Il paraît qu’on les voit mieux durant les mois d’hiver, entre septembre et janvier, à environ deux cents années-lumière depuis la terre.

Quelque chose a dû se passer, peut-être qu’un animal a glissé derrière le talus. Vus d’en-dessous, l’un a les jambes fléchies, l’autre est appuyé sur le tronc d’un jeune arbre avec un tablier blanc autour des hanches sur une veste couleur céleste. Un peu plus loin, un berger essoufflé derrière ses animaux. Tout se passe près d’un bourg fortifié duquel pointe un fin clocher qui couronne le cône de briques rouge. Il est précédé et dominé par une masse, une puissante tour défensive, plate en sommet que le regard traverse grâce à l’arc d’accès clôturé par des travaux d’entretien et qui n’est peut-être plus en fonction. Une fumée blanche un peu plus bas dans la vallée confirme que le bourg est habité avec quelques bouillons en cuisson sur le feu. Au-dessus de l’ensemble une cité dotée de tours dont les défenses embrassent toute la partie haute d’une colline escarpée domine, recouverte d’herbe et rythmée de roches et d’arbustes qui assurent une bonne défense en cas d’attaques. Nous sommes dans le Vénète, à l’intérieur des terres mais cela n’est pas un village réel. Il s’agit plutôt d’un lieu du cœur, une Arcadie rêvée et rêveuse que le neveu de Sebastiano Ricci peuple de bergers en toges, de la dignité immuable de philosophes antiques comme s’ils étaient aux pieds d’un Parnasse Euganéen.

marco riccòmini

1. Scarpa Sonino 1991, p. 138, fig. 293, pl. XXXI et fig. 294. 2. Ibidem, fig. 295. 3. Ibidem, fig. 190. 4. Londres, The British Museum. Inv. 1871,0812.5578.

Certains topoi reviennent dans ses petites œuvres telles que la tour massive qui réapparaît à l’identique dans le Paysage avec une dame et un enfant et son dessin préparatoire conservés à Windsor Castle1 et à partir duquel Francesco Bartolozzi 2 réalise quelques années plus tard une gravure. Et puis encore - un exemple parmi d’autres la tour revient dans la gouache avec un cheval conduit au-delà d’une rivière, elle aussi conservée au château de Windsor3. La même tour mais avec l’insertion d’une guérite - protège l’accès à un village près d’un ruisseau dans l’une de ses gravures (Fig. 12) 4. marco riccòmini


19 Girolamo Donnini

Correggio 1681 – Bologne 1743

Achille confié à Chiron Huile sur toile, cm 139 x 185. Provenance: Bologne, Collection Castaldi. Bibliographie: The Burlington Magazine

1. Milano 1700. 2. Pajes Merriman 1980, p. 276, n. 150. 3. Roli 1967, p. 87, n. 15-18, fig. 40-43, pl. V. 4. Ibidem, p. 88, n. 36, fig. 45, pl. VI. 5. Ibidem, p. 92, n. 57, fig. 46. 6. Già Finarte, 29 mars 2001, lot 682. Huile sur toile, cm 186 x 360.

20 Francesco Monti 1974, p. CLIII; Roli 1977, p. 99, 255, fig. 214b; Rinaldi 1979, p. 41, n. 17, pl. 20.

La scène se déroule un matin de printemps, sous un ciel cristallin, au bord de la rive d’un fleuve. Il s’agit probablement de la «Plaine aux pieds du Mont Ida, avec sa petite rivière» rapporté dans le premier acte du mélodrame de Pietro D’Averara, La ruse de Chiron 1. Cinq jeunes gens aux habits colorés et drapés en mouvement dans une brise légère gesticulent autour d’un nouveau né, libéré de ses langes recueillis dans un panier d’osier. Ils le présentent à une figure polymorphe, mi-homme mi-cheval c’est-à-dire Χείρων, fils de Philyra et de Cronos, seigneur des Titans. Le bain dans les eaux médicinales du Styx imposé au petit Achille par la mère Thétis, déesse de la mer, ne protégeait pas entièrement l’enfant des risques et des dangers d’une vie hardie. Il convenait donc de prendre de sages précautions pour protéger l’enfant. Ce fut donc le centaure qui se chargea d’éduquer le fils de Pélée, roi de Phtie, habitué à élever dieux et héros (le chasseur Actéon ou encore Asclépios, fils d’Apollon et dieu de la médecine, puis Jason qui sera à la tête des Argonautes étaient passés entre ses mains). En général, les peintres qui ont illustré le mythe grec raconté par Homère dans l’Iliade laissaient de côté les courses exténuantes que le centaure imposait au jeune héros (mais qui lui vaudront le surnom par Homère de «pied-agile»), ou les immondes repas à base d’entrailles de lions, ours et sangliers car elles transmettaient leur force et leur courage dans le poing, au profit de l’éducation du tir à l’arc. C’est une belle métaphore qui exprime la façon dont un jeune homme doit entraîner son corps et nourrir son esprit (ou «comment marcher droit» pour ainsi dire). À peu de distance (en temps et en espace) de Donnini, élève de Carlo Cignani, les célèbres toiles bolonaises de Giuseppe Maria Crespi, peintes pour le prince Eugène de Savoie (aujourd’hui conservées au Kunsthistorisches Museum de Vienne) 2 nous sont parvenues, ainsi que celles de Donato Creti, qui constituent une part du legs Collina Sbaraglia au Sénat de Bologne aujourd’hui conservées dans les Collezioni Comunali d’Arte de Bologne (Achille immergé dans le Styx, Achille jeune garçon confié à Chiron, Chiron enseigne à Achille à tirer à l’arc auxquelles il faut ajouter une quatrième toile qui les accompagne, celle illustrant Achille traîne le corps d’Hector autour des murs de Troie) 3 aux côtés d’Achille immergé dans le Styx (Bologne, Pinacoteca Nazionale) 4 et celle conservée dans la collection Molinari Pradelli 5. Comme dans la toile de Donnini, tout se passe dans une Arcadie sereine telle la pleine du Pô, remplie de bouleaux et de ruisseaux où le bleu des collines n’est qu’une vue distante. Par ses grandes dimensions et le fait qu’il soit identique en tout point, cette œuvre pourrait être le modello de la toile monumentale passée aux enchères à Milan, aujourd’hui à Reggio Emilia (Fig. 13) 6. marco riccòmini

dit il Bolognese

Bologne 1685 – Brescia 1768

1. Riccòmini 2001, n. 8.

Scène allégorique Huile sur papier, mm 280 x 425. Bibliographie: Frisoni 2012, pp. 110-112, n. 27.

Le fez que le personnage porte sur la tête a la forme d’un petit fort médiéval justement appelé «couronne en tour». La Grande Mère la porte avec grâce (du moins à partir de l’époque hellénistique), adorée depuis les temps les plus reculés en Asie Mineure et connue chez les Romains sous le nom grec de Cibèle. Protectrice de la cité - dont elle est couronnée - son culte était lié à la fertilité et à la renaissance de la vie et de la végétation comme on peut le voir aux moissons de la corne d’abondance que tient le vieux personnage derrière elle entre ses bras. Tout ceci est une orgie dionysiaque à laquelle le jeune Bacchus n’était pas étranger: assis à ses pieds et couronné de pampres, il s’appuie ivre, à un serment de vigne. Parmi les techniques privilégiées par Monti durant sa période bolonaise et ceux de sa génération citons la verdaille, brunaille et grisaille. Il suffit de penser aux monochromes de Creti, de Varotti et d’autres qui, comme eux, se délectaient à ne travailler qu’une seule couleur afin de démontrer leur dextérité et leur talent. D’un autre côté, ces artistes marchaient en même temps sur les pas de ceux qui utilisaient l’ébauchoir et gâchaient les plâtres, autrement dit les stucateurs bolonais avec qui ils étaient en perpétuelle tension taquine puisque c’était un art auquel beaucoup de peintres s’adonnaient durant leurs heures perdues (de Creti lui-même jusqu’à Ubaldo Gandolfi). On imagine que la présente œuvre est préparatoire à quelques murs de la province de Brescia où Monti restera pour vivre et travailler. D’ailleurs on retrouve le peintre à proximité vers 1750, avec les travaux pour l’église de Santa Maria della Pace à Brescia pour laquelle il réalise un monochrome sur toile de grandes dimensions, retrouvé il y a longtemps par le présent auteur 1. marco riccòmini


21 Pierre Subleyras

Saint-Gilles-du-Gard 1699 – Rome 1749

Renaud découvrant ses ancêtres avec Ubalde et un vieillard Pierre noire, lavis gris et rehauts de gouache blanche sur papier beige, traits d’encadrement à la pierre noire et à la sanguine; verso: esquisses à la pierre noire pour Vénus couchée de dos dans un ovale et mise en place de la composition du recto, mm 250 x 210.

1. Catalogue de la vente Bellanger, Paris, 17 mars 1788, n. 43. 2. Voir Méjanès 1983, n. 96, p. 116, reproduit, et p. 175, n. Ors. 622. 3. Rome, Palazzo Barberini, Galleria Nazionale d’Arte Antica, inv. 2529.

22 Giandomenico Tiepolo Venise 1727 – 1804

Plume, encre brune et bistre, mm 290 x 200. Inscription en bas, au centre: «Dom. Tiepolo f.». Provenance: Venise, peut-être Francesco Guardi (mort en 1793), oncle de Giandomenico; Londres, Horace Walpole (mort en 1797); probablement en collection pri-

Œuvre en rapport: un dessin de même sujet conservé à Paris, Musée du Louvre, département des Arts graphiques, inv. 32925 (Fig. 14).

«Les dessins de cet artiste sont très-rares» releva avec justesse le marchand et expert Jean-Baptiste Pierre Le Brun en 1788 1. Le temps n’a pas modifié son appréciation et la réapparition de l’un d’entre eux est toujours une découverte intéressante. Seule une centaine de feuilles de Subleyras, en effet, est aujourd’hui identifiée avec certitude, la majorité conservée au musée du Louvre. Ce dessin forme une première pensée pour l’une de ces feuilles 2. Plus achevé, de dimensions voisines et lui aussi encadré à la pierre noire, le dessin du Louvre nous éclaire sur le sujet des deux œuvres: il s’agit très vraisemblablement de Renaud et Ubalde découvrant les glorieux ancêtres de Renaud sous la conduite d’un vieux sage, épisode qui forme le chant XVII de la Jérusalem délivrée du Tasse. La composition est rapidement esquissée à la pierre noire et rehaussée de vastes aplats de gouache blanche qui confèrent à la scène son aspect surnaturel. Nous ignorons en revanche tout de la destination de cette composition: s’agit-il d’un projet d’illustration ou, plus probablement, d’un tableau perdu? Au verso du dessin figure une première mise en place de la scène ainsi qu’un croquis rapide d’une composition ovale représentant une femme nue couchée de dos, dans une position très proche de l’académie féminine peinte conservée à Rome 3. Sur le croquis, inversé par rapport au tableau romain, la femme nue semble épiée par un personnage soulevant le rideau du lit derrière elle, tandis qu’un autre - un amour? - paraît dormir à ses pieds. Le tableau Barberini fut-il conçu comme une étude pour une composition plus aboutie? Rien ne permet de l’affirmer mais la découverte de ce croquis permet d’envisager cette hypothèse stimulante. nicolas lesur

Baptême du Christ

1. Byam-Shaw 1962. 2. Tiepolo Zeichnungen 1970, p. 57-62, n. 44-56. 3. Williamsburg, Muscarelle Museum of Art, The College of William and Mary in Virginia, inv. 183.042. Voir Knox 1996, p. 158, n. 87. 4. Inv. 1531. Plume, encre brune et bistre, mm 270 x 200. Voir Tiepolo Zeichnungen cit., p. 58.

vée française, en novembre 1845; Angleterre, vente aux enchères anonyme, sans date, lot 589; Angleterre, The Rt. Hon. The Earl of Beauchamp, D.L., J.P., sa vente à Londres, Christie’s, 15 juin 1965, lot 14; Venise, collection privée.

Moment fondamental du christianisme, le baptême du Christ sur les rives du Jourdain est rapporté par les Évangiles de Marc, Matthieu et Luc. Le récit du Nouveau Testament doit en quelque sorte avoir touché Giandomenico au point d’y avoir consacré tout au long de sa vie bien une quarantaine de dessins, la plupart à la plume et bistre, tous semblables entre eux. Qui s’est aventuré à les recenser 1 a mis en évidence un noyau important conservé à la Staatsgalerie de Stuttgart: treize feuilles, toutes datables autour de 17702. D’autres sont dispersées dans diverses collections, avec peu de variantes entre elles, à l’exception de l’insertion dans le dessin en question et dans une feuille conservée au Muscarelle Museum of Art di Williamsburg en Virginie de Dieu le Père qui assiste depuis les cieux au rite propitiatoire sans intervenir 3. Parmi les feuilles allemandes de Stuttgart, une en particulier présente un Jean-Baptiste dans une pose semblable à notre personnage (Fig. 15) 4. Par contre, son iter de provenance est différent puisqu’il avait appartenu dès le XVIIIe siècle aux recueils anglais de Walpole et Beauchamp. Il faisait d’ailleurs partie d’un album comme l’indiquent les numéros inscrits à la plume sur les marges supérieures; dans le cas présent en haut, à droite: «77» qui s’ajoute aux numéros «86, 89, 98» sur les autres feuilles de ce recueil. Cela suppose que la série devait être constituée à l’origine d’au moins une centaine de dessins. marco riccòmini


23 Giandomenico Tiepolo Venise 1727 – 1804

Escarmouche entre deux satyres

24 Laurent Pécheux

A.

Lyon 1729 – Turin 1821

Plume et encre brune, bistre, mm 190 x 275. En bas, au centre: «Dom. Tiepolo f.». Provenance: Venise, collection privée.

1. Londres, The British Museum. Inv. 1885,0509.6. Plume et encre brune, mm 194 x 274. Voir Byam Shaw 1962, p. 41.

La cour à pas de danse, celle d’une fête de village, sautant sur une seule jambe (à cloche-pied, comme diraient certaines comptines). L’homme, de dos, brandit en hauteur deux roseaux comme en signe d’offrande tandis qu’un autre plus âgé, armé d’un arc et d’un carquois en bandoulière surveille que tout se passe dans les règles. Le bal se déroule sur une sorte de plateforme située en hauteur, étendue vers une vallée où siège au lointain un château fortifié, défendu par un bastion. La scène donnerait l’impression d’être surréelle si les Satyres et les Nymphes - et Polichinelle - n’étaient pas les acteurs et les protagonistes de nombreux dessins du fils de Giambattista Tiepolo (Fig. 16) 1 ; on note d’ailleurs la signature en bas, au centre afin d’éviter toute confusion. Ainsi, la figure grotesque du masque napolitain avec son travestissement carnavalesque interprète les aspects les plus comiques et salaces de la comédie humaine, telles les bêtes polymorphes de la mythologie grecque mi-hommes mi-caprins (dont ils possèdent aussi les cornes et les oreilles) qui se prêtent elles aussi à l’interprétation des parties les plus impudiques de la nature humaine, notamment celle de la sensualité agressive. La tige entre les mains du satyre, agitée au vent, évoque par ailleurs la fable arcadienne de la nymphe Syrinx qui pourchassée par le bestial Pan se transforme en une fine canne de roseaux sur les rives du fleuve Ladon (l’actuel Selleeis, de l’antique Élide).

Nu masculin debout et de face, la tête levée vers la gauche, les jambes écartées, le bras droit tendu et le bras gauche plié en acte de tendre une corde Fusain, sanguine et rehauts de blanc de céruse sur papier préparé beige, mm 570 x 425. En bas, à droite: «1758 de 59».

B.

Nu masculin debout et de face, avec la tête inclinée, le pied droit sur un bloc de pierre, le bras droit laissé le long du corps et le bras gauche plié Fusain, sanguine, craies colorées et rehauts de blanc de céruse sur papier préparé beige, mm 765 x 495.

C.

D.

E bas, à droite: «primum 1759». Bibliographie: Baldin 1983, p. 24, n. 5.

Nu masculin avec le genou gauche à terre en acte de se lever, l’avant-bras gauche appuyé à un bloc de pierre, le bras droit tendu vers le haut Fusain, sanguine et rehauts de blanc de céruse sur papier préparé beige, mm 640 x 500.

marco riccòmini

Numéroté en bas, à droite: «163». Bibliographie: Baldin 1983, p. 18, n. 2; Laveissière 2012, pp. 71-73, n. 5, fig. 5a.

En bas, à droite: «1759». Bibliographie: Baldin 1983, p. 22, n. 4; Laveissière 2012, p. 72-73, n. 6, fig. 6a.

Nu masculin assis de trois-quarts sur un bloc de pierre, les pieds croisés soutenus par les mains Fusain, sanguine et rehauts de blanc de céruse sur papier préparé beige, mm 765 x 500

En bas, à droite: «1759». Bibliographie: Baldin 1983, p. 20, n. 3.

Provenance: Turin, Rosa Visetti; Turin, les comtes Valperga di Masino; collection particulière.

Ces études de nu masculin dessinées d’après nature furent réalisées par Pécheux à Rome où il résida de 1753 à 1777. Il s’agit de quatre académies dites magistrales que le peintre dessina dans un objectif didactique pour les élèves qui étudiaient dans son école du nu située chez lui au palais Zuccari à via Gregoriana autour de 1757. Les quatre nus sont extrêmement rares et précieux pour l’histoire de l’art car le riche recueil de nus académiques qu’il dessina durant sa longue carrière, et de fait un matériel important pour ses élèves, fut entièrement volé en 1940 à l’Académie des Beaux Arts de Turin à laquelle le peintre l’avait donné. L’ensemble comprenait des études académiques que Pécheux avait réuni à Rome, aussi bien pour son académie privée que pour l’École du Nu du Campidoglio (lieu d’exercice de tous les artistes européens séjournant à Rome où Pécheux enseigna à partir de 1762), et à Turin à partir de 1777 lorsqu’il fut appelé à diriger l’Académie de peinture et de sculp-


ture que le roi Victor Amédée III était en train de refonder. Seules trois autres académies dessinées à Rome par Pécheux nous sont parvenues, réalisées entre 1763 et 1764, aujourd’hui conservées à Paris à la Bibliothèque Nationale de France et au Louvre1. Trois académies, tardives, sont conservées au Kupferstichkabinett de Berlin. Il existe deux copies du Nu masculin en acte de tendre une corde (A) et du Nu masculin debout de face avec la tête baissée, le pied droit sur un bloc de pierre (B) au Musée des Beaux-Arts de Dijon, dont une est signée par François Devosge (1732 – 1811). Le fait que le Nu masculin debout de face en acte de tendre une corde (A) reporte la double date de «1758 de 59» confirme probablement que l’artiste mit main à plusieurs reprises sur le dessin.

25 Gaetano Gandolfi

San Matteo della Decima (Bologne) 1734 – Bologne 1802

La Sainte Famille avec saint Augustin Huile sur toile, cm 230 x 152. Daté en bas, au centre, sur le gradin de pierre: «1761».
 Provenance: Villa Monsignori, San Gio-

vanni in Calamosco (Bologne).
 Bibliographie: Biagi Maino 1995, p. 345346, n. 7, fig. 9.

On le voit à la plaque imprimée à la gélatine en bromure d’argent, gravée vers le début des années 1930 (Fig. 17): le pavement est en grenaille à losanges que l’on suppose blanches et rouges. Aux murs se trouve du papier peint avec les lys de France stylisés (ou peut-être s’agit-il d’un décor au graphite comme cela était la mode dans ces années). La pelle qui reposait sur un autel est posée à terre de travers, afin d’éviter les reflets. Elle n’est décorée que d’un let d’or qui descend le long des côtés et sur son bout, laissant ainsi la base nue. Elle appartenait à la chapelle privée de la Villa Monsignori, située dans la plaine bolonaise, vers Granarolo dell’Emilia, où elle resta jusqu’à ce que ses patrons, les descendants de l’ancien commanditaire, firent leurs bagages pour s’installer à Bologne.

francesco leone

1. Dall’Archivio dell’Accademia Clementina dans Bagni 1992, p. 214.

L’homme assis, paré d’un vêtement de satin avec une mitre et des escarpins pourpres, est le saint berbère, le Père de l’Église. Il a le regard posé sur l’Enfant entre les bras de la Vierge. C’est l’ange sous les traits d’un jeune garçon qui l’annonce avec les parements et le bâton doré qui pointe sous les nuages. Il montre avec la main droite une coquille remplie d’eau. Celle-ci rappelle en effet, l’exemplum parabolique de sa rencontre sur la plage d’Hippone (aujourd’hui Annaba; est-ce peut-être «Plage des Juifs»?) avec un enfant qui essayait de vider la mer avec une coquille et la réponse surprenante qu’il reçut à sa demande: «Augustine, Augustine, quid quaeris? Putasne brevi immittere vasculo mare totum?» (autrement dit: «tu penses pouvoir comprendre le mystère de la Foi avec ton seul esprit?»). Les sources ne nous disent rien, mais le retable précède probablement la note de 1769 de Marcello Oretti, avec la liste des opérations conduites jusqu’ici. À cette date, Gaetano était tout juste de retour à Venise, où il avait été invité un an plus tôt par son mécène Antonio Buratti qu’il avait servi «en lui dessinant nombre de ses plus beaux panneaux d’autel qui se trouvent dans cette ville [Bologne] et de nombreux autres dessins gravés dans la bel ouvrage que M. Buratti a publié il y a désormais quelques années»1. Vingt-sept ans et les idées déjà claires; des idées qui laissent peu de place au goût vénitien. marco riccòmini


26 Gaetano Gandolfi

San Matteo della Decima (Bologne) 1734 – Bologne 1802

Sainte Famille avec le petit saint Jean-Baptiste Huile sur toile, cm 88,8 x 69,4. Provenance: Bologne, collection Giovanni Ceschi; Paris, collection particulière.

Beaume-les-Dames, 1765 – Naples, 1807/1808

Paysage avec Homère Paysage avec Ossian Tempera (2), cm 51 x 61,5 .

Le palmier dans le jardin explique tout ou presque. Vous penseriez que la scène se déroule en Palestine, dans la cour de la maison du groupe Sacré mais la plante exotique au loin, située derrière la palissade rappelle inévitablement l’Égypte. Les textes sacrés ne font pas mention de la rencontre entre le Baptiste et le Rédempteur avant le baptême sur les rives du Jourdain. Par contre les Meditationes vitae Christi rédigées autour de 1350 par le dit Pseudo-Bonaventura connurent une grande diffusion et popularité. Le texte raconte pour la première fois comment la Sainte Famille, sur le retour du pays des pyramides (après la Fuite en Égypte et l’échappée dangereuse au moment de l’édit d’Hérode), s’arrêta quelques jours chez Elisabeth, cousine de Marie et mère de Jean. Le texte rapporte aussi la façon dont son fils démontra tout de suite respect à celui de Marie. Ici le Baptiste est présenté pieds nus, une gourde avec des lanières en forme de courge et la peau de chameau à ses pieds, présentant la croix sur laquelle un petit phylactère est enroulé. Il rapporte les paroles qui aujourd’hui encore le caractérisent parmi les saints: «Ecce Agnus Dei», adressées au Christ, l’agneau du sacrifice.

1. Milan, Pinacoteca de Brera. Inv. 145. Pierre noire, craie sur papier gris, mm 433 x 309. Voir: Bagni 1995, pp. 232-233, n. 87.

27 Jean-Pierre Péquignot

Il s’agit ici d’une œuvre inédite et mature de Gaetano pour laquelle aucune autre rédaction n’est connue. Par contre, l’artiste reviendra à plusieurs reprises sur le thème tout au long de sa vie, en plusieurs formats. Un dessin de Mauro Gandolfi, à la pierre noire et à la craie blanche sur papier gris, aujourd’hui conservé à Bréra et provenant de la collection de Francesco Acqua (Fig. 18) 1, présente le groupe du Sauveur et du Baptiste enfants presque en miroir. Cela laisse imaginer le succès que ce type de composition à vocation privée avait auprès des familles et des contemporains. marco riccòmini

1. Si elles n’ont pu encore déterminer la date de la mort de Péquignot, les expositions et les publications consacrées ces dernières années au peintre franc-comtois et à Girodet ont du moins permis de préciser bien des aspects de la vie et de l’œuvre de ces deux artistes. Elles ont aussi conduit à la réapparition récente de documents et de plusieurs tableaux de Péquignot: le Paysage avec Mercure et Argus du Musée de Quimper, autrefois inventorié comme Orphée jouant de la lyre devant Eurydice de Bertin, le Paysage avec un lac et des cygnes de la Galleria Nazionale d’Arte Antica de Rome, une paire de paysages pastoraux datés de 1804 vendus à Rome par S.A.L.G.A. le 27 mai 1971, lot 476, le Paysage de rivière avec une pyramide et des figures classiques, vendu à Londres par Christie’s le 25 avril 2007, n. 248, le Paysage classique avec une scène mythologique (l’enfance de Diane?), signé, daté et localisé «P. Péquignot. / à Naples 1807», Paris, Galerie Talabardon et Gautier en 2009 et le Paysage de montagne avec un satyre et une nymphe (Pan et Syrinx?), Berlin, Villa Grisebach, 28 mai 2014, n. 103. S’y ajoute un dessin au crayon noir, Paysage néoclassique en miniature, Paris, Galerie De Bayser en 2014. 2. Ce fils du roi d’Irlande, qui vécut au IIIe s. appartenait à la caste des Bardes; il écrivait des poèmes qu’il récitait en s’accompagnant de la harpe. 3. Macpherson 1810, II, pp. 459-460.

Formé à l’école gratuite de Besançon et à l’école de dessin de l’Académie royale de peinture et de sculpture, le paysagiste Péquignot s’affirme dès 1785 comme l’un des représentants du néo-poussinisme. Etabli à Rome vers 1788, ami de Girodet, il se fixe définitivement à Naples en 1793 et y réalise la majorité de ses œuvres : le Paysage avec Diane et une nymphe endormie (1796), les Paysages napolitains. Le matin / le soir (1800), le Paysage classique avec figures pleurant les cendres d’Ossian (1803) (Fig. 19) ou enfin le Paysage classique avec une scène mythologique (l’enfance de Diane ?) (1807) 1. Sur la trentaine d’ouvrages conservés de lui ne figure aucune tempera, bien que la gouache, de prix modique, fut en faveur à Naples. Mais l’iconographie savante de ses œuvres le desservent. Aussi oppose-t-il dans ces deux pendants le monde gaélique et romantique du barde Ossian et celui familier de la Grèce et du vieil Homère. Dans le Paysage avec Homère, le poète transmet sur sa lyre le savoir reçu de ses pères, thème du Paysage avec une pyramide et un temple (ou les aventures de Télémaque). L’atmosphère, la délicatesse des passages chromatiques, la grâce des figures traduisent la poésie du texte littéraire. La seconde tempera évoque l’histoire d’Ossian2. Les trois hommes groupés autour des deux femmes assises pourraient être Fingal, Ossian et Oscar (le père, le fils, le petit-fils), et la forteresse et le paysage suggérer ceux du chant de «L’incendie de Tura» 3. De publication récente (1765, trad. fr. 1777), le texte de Macpherson n’a encore pour illustrateurs que Gros, Duqueylar, Gérard et Girodet dont Péquignot connaissait sans doute les travaux car certaines figures rappellent celles de Gérard et de Girodet. L’Anglais Wallis, qui séjourne à Rome de 1788 à 1806 et à Naples, réalise aussi en 1801 deux célèbres paysages ossianiques dont la nature sauvage, le ciel froid couvert d’épais nuages gris ont pu aussi l’inspirer. Il est tentant de dater ces deux rares et précieuses tempera entre 1800 et 1802, soit entre les premiers travaux des élèves de David sur le sujet et la réalisation en 1803 par Péquignot, d’une autre représentation de la légende d’Ossian (cf. supra). La composition assez pleine, la matière dense, confortent cette hypothèse. emilie beck saiello


28 Antonio Basoli

Castel Guelfo 1774 – Bologne 1848

Carrières des Guanches en Mauritanie Plume et encre brune, aquarelle d’encre grise, mm 207 x 290. Au verso: «tratto da una descrizione / dei costumi del F. / Ferrario = Cave dei

1. Nous avons relevé un timbre au verso du dessin: «a./basoli/fece». Les recherches conduites sur l’oeuvre ont mis en relief la présence du même timbre sur d’autres dessins de l’artiste. 2. Ferrario 1823, pp. 150-152. 3. Frattarolo 2008, p. 23. 4. Farneti-Riccardi Scassellati Sforzolini 2006, p. 18. 5. La vita artistica di Antonio Basoli 2006, p. 95.

Guanci nella Mauritania. / Antonio Basoli inventò e fece 1842»1. Provenance: Bologne, collection particulière.

Le dessin a été réalisé par Basoli en 1842 comme le rapporte l’inscription au verso qui précise également le contenu de l’illustration. Il s’agit des carrières des Guanches, une population originaire de l’île de Ténériffe qui avait pour coutume de creuser la roche ou d’utiliser les grottes formées naturellement pour inhumer leurs défunts. Les cadavres étaient ainsi déposés debout ou repliés sur des planches de bois, à l’intérieur d’étuis en peau de chèvre adaptés et cousus avec un grand savoir-faire. Le sujet est tiré du volume à caractère encyclopédique Il costume antico e moderno de Cesare Ferrario consacré à l’Afrique2. Grand passionné de livres, Basoli avait recueilli dans sa demeure bolonaise une très riche bibliothèque dans laquelle il puisait systématiquement des éléments pour élaborer des paysages, des scénographies, des décors d’intérieur et des scènes d’invention, des genres auxquels le peintre avait dédié son activité artistique ainsi que sa vie entière. Défini comme « le voyageur casanier », Basoli ne laissa pratiquement jamais sa tendre Bologne où il enseignait à l’Académie Clémentine et où il jouissait d’une estime et d’une appréciation de la part des plus importantes familles bolonaises qui lui confiaient de nombreuses commandes 3. Avec son esprit pleinement luministe, marqué par une nature précise et diligente, Basoli laissa de nombreux manuscrits dans lesquels il réunit des descriptions précises des textes qu’il avait utilisé pour réaliser ses œuvres qu’il accompagna de dessins et annotations réélaborés en tomes pour ses leçons à l’Académie où ils sont aujourd’hui conservés 4. Parmi ces documents autographes, les références au texte de Ferrario sont nombreuses. Le texte en question le conditionna tout au long de sa carrière, inspiré par les descriptions minutieuses et les planches illustrées qui les accompagnaient. Le sujet du présent dessin est cité dans l’autobiographie de Basoli à la date de 1842: «J’ai inventé 4 tableaux à peindre: 3 sur les îles atlantiques, en premier L’Incendie de Madera, l’autre Les grottes des Guanches et ainsi Les nymphes océaniques dans la grottes, et le quatrième La magicienne de Thessalie, d’Anacarsi» 5. La réapparition du dessin et l’inscription au verso avec la référence précise au texte littéraire ajoutent une ultérieure précision aux notes manuscrites de Basoli et à la connaissance de son œuvre. laura marchesini

29 Wolfango

Bologne 1926 – 2017

Gula. Pénitent au purgatoire Pierre noire sur papier, mm 500 x 370. Bibliographie: Wolfango disegnatore 2018, s. p.

Il s’agit du dessin préparatoire réalisé entre 1963 et 1968 environ pour l’une des cent illustrations en couleur des trois cantiques de la Divine Comédie de Dante, éditée en trois somptueux volumes reliés en peau chez l’éditeur Rizzoli en 1972. La tête squelettique ici illustrée revêt un couvre-chef avec l’inscription «GULA» en caractères gothiques; c’est le pénitent qui purge son péché de gourmandise dans le sixième cercle du Purgatoire avec ses semblables, la peau sur les os. L’un d’entre eux hurle en reconnaissant Dante et l’on suppose qu’il s’agit de notre portrait. En effet, Dante apparaît parmi les pécheurs (v. 55 et suiv.) avec l’ami Forese Donati, poète issu d’une noble famille florentine, parent de Dante puisque Gemma Donati, cousine de Forese, était son épouse depuis 1290. Le dessin n’a pas besoin, il me semble, de commentaires: il représente, avec une grande vigueur de trait, un crâne à la bouche ouverte et hurlante dans laquelle il reste une paire de dents, on entrevoit dans les cavités oculaires vides des pupilles et sur les côtés du crâne des oreilles encore accrochées. Après la récente disparition de Wolfango, il restait dans sa demeure différents dessins préparatoires pour cette entreprise éditoriale mémorable, tous insolites car de très grandes dimensions, et tous réalisés d’après nature. Outre Dante, Wolfango a illustré de nombreux autres volumes sans cependant les signer de son propre nom mais avec des pseudonymes: La Comédie par exemple présente en signature des illustrations «Anonyme bolonais du XXe siècle», comme on peut le lire sur la partie haute du présent dessin (la signature «Wolfango» apposée au-dessous avec le nom de sa femme Chiara est postérieure). Grand illustrateur, Wolfango a peint toute sa vie. À partir de la fin des années 1960 il a réalisé des toiles de grandes dimensions, d’une habileté mimétique surprenante, presque inégalée, toujours stupéfiantes. Ce n’est qu’à soixante ans, forcé par ses amis et par le maire de sa ville, qu’il accepte d’abattre quelques murs de sa demeure pour révéler d’énormes tableaux peints de manière admirable. Ils furent alors exposés, sans catalogue, dans une église désaffectée. Le public, toujours local, fut assez nombreux. C’est ainsi que cinq ans plus tard, ces mêmes tableaux avec d’autres entrèrent dans une grande prison abandonnée. Wolfango n’a jamais exposé en dehors de sa ville natale. eugenio riccòmini


Liste des illustrations Fig. 1

Marco Palmezzano, Martyre de saint Sébastien. Esztergom, Keresztény Múzeum.

2

Girolamo Giovenone, La Vierge à l’Enfant avec les saints Roch et Sébastien. Mortara (Pavie), Basilique de San Lorenzo. Archive photographique de la Sezione Lomellina de Italia Nostra, avec l’aimable autorisation de.

3

Giovanni Battista de’ Cavalieri, Le Miracle des pains et des poissons. Rome, Istituto Centrale per la Grafica, inv. fn 366, Fonds Pio, IV. Avec l’aimable autorisation du Ministère des Biens et des Activités culturels et du Tourisme.

4

Bartolomeo Ramenghi dit le Bagnacavallo, La multiplication des pains et des poissons. Paris, Musée du Louvre, inv. 4283. © Musée du Louvre, Dist. rmn-Grand Palais / Suzanne Nagy.

5

Attribué à Biagi Pupini, Christ nourrissant la multitude. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2018, inv. rcin 990044.

6

Bartolomeo Ramenghi dit le Bagnacavallo, La multiplication des pains et des poissons. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2018, inv. rcin 990736.

7

Guido Cagnacci, Vierge à l’Enfant. Milan, collection Luigi Koelliker, inv. lk 1057. Archive photographique Pulini, avec l’aimable autorisation de.

8

Guido Cagnacci, Étude pour un visage féminin. Stockholm, Musée National, inv. 974. Archive photographique Pulini, avec l’aimable autorisation de.

9

Pier Francesco Mola, Tête de femme. Rome, Galerie Pallavicini. Archive photographique Petrucci, avec l’aimable autorisation de.

10

Alessandro Rosi, Homme d’arme à la boucle d’oreille. Collection particulière. Archive photographique Acanfora, avec l’aimable autorisation de.

11

Francisco Goya, Le miracle de saint Antoine, (détail). Madrid, San Antonio de la Florida. Archive photographique Acanfora, avec l’aimable autorisation de.

12

Marco Ricci, Paysage avec une ville prêt d’un fleuve. Londres, The British Museum.

13

Girolamo Donnini, Achille confié à Chiron. Reggio Emilia, Musei Civici.

14

Pierre Subleyras, Épisode de la Jérusalem délivrée. Paris, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 32925 recto © rmn-Grand Palais (musée du Louvre) / image rmn-gp.

15

Giandomenico Tiepolo, Le baptême du Christ. Stuttgart, Graphischen Sammlung der Staatsgalerie Stuttgart.

16

Giandomenico Tiepolo, Une satyre chassant des oiseaux avec un chien. Londres, The British Museum.

17

Photographe anonyme, Retable de Gaetano Gandolfi. Gélatine en bromure d’argent sur papier, mm 135 x 90. Archive photographique de la Famille Comelli (dossier: Photographies de Calamosco), Palais Comelli (Camugnano), inv. mrc 48. Avec l’aimable autorisation de l’Administration de la Commune de Camugnano (bo).

18

Mauro Gandolfi, Vierge à l’Enfant et le petit saint Jean Baptiste. Milan, Pinacothèque de Brera.

19

Jean-Pierre Péquignot, Paysage classique avec figures pleurant les cendres d’Ossian, signé et daté en bas à gauche «P. Pequignot / à Naples / 1803». Avec l’aimable autorisation d’Etienne Bréton Saint Honoré Art Consulting, Paris.


Maurizio Nobile

n. 21

A cura di Marco Riccòmini Si ringraziano: Fabrizio Agustoni, Attilio Luigi Ametta, Francesca Antonacci, Rebecca Ballestra, Elisabetta Bartoli, Enrico Bersellini, Atos Botti, Maurizio Canesso, Yadira Castellanos, Dominique Cordellier, Andrea De Marchi, Alessandra Di Castro, Eros Ferrari, Roberto Franchi, Eleonora Frattarolo, Elisabetta Gnignera, Julie Guilmette, Damiano Lapiccirella, Laurence Lhinares, Letizia Lodi, Catherine Loisel, Emanuela Mattioli, Ferdinando Mazzei, Olga Misley, Justine Noé, Alighiera Peretti, Davide Peretti, Giovanni Patrucchi, Jacopo Ranzani, Eugenio Riccòmini, Tiziana Sassoli, Roberta Serra, Adriano Silenzi, Ivo Soligo, Luca Squarcina, Famiglia Turra, Daniel Vanel, Giorgio Zamboni. Le traduzioni in francese sono a cura di Rachel George Progetto grafico: Filippo Nostri Impaginazione: Filippo Nostri, Giovanni Piazza Fotografie: Stefano Martelli, Studio Blow up, Crevalcore (bo ); Nuova Arte Fotografica, Roma; Andrea Samaritani, Bologna. © 2018 Marco Riccòmini isbn 978-88-98456-08-6



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