Wolf-Ferrari

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Alberto Cantù

ERMANNO WOLF-FERRARI La musica, la grazia, il silenzio

Prefazione di Alberto Batisti

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© 2011 Il Segno dei Gabrielli editori Via Cengia, 67 – 37029 S. Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 fax 045 6858595 e-mail info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-155-3 Stampa Il Segno dei Gabrielli editori, Febbraio 2012 Progetto grafico copertina Lucia Gabrielli In copertina: Ettore Tito (1859-1941), Ritratto di Ermanno Wolf-Ferrari, olio su tela. Venezia, collezione privata. Allegato CD (che non può essere venduto separatamente) con la registrazione live del Concerto in re maggiore op. 26 per violino e orchestra di Ermanno Wolf-Ferrari

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Alle Donne curiose del Soroptimist di Ferrara: a Camilla, a Gigliola, a...

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INDICE

Prefazione WOLF-FERRARI, IL DESAPARECIDO 9

di Alberto Batisti Ouverture...

15

... di buon auspicio

19

L’imbroglio della «Generazione dell’Ottanta»

22

Puccini e Wolf-Ferrari

24

Isolato: non neoclassico

28

Venezia-Roma-Monaco

31

Monaco-Venezia

34

Venezia-Milano

37

Lavori strumentali di scuola e di gioventù

39

Il prodigio della Serenade

41

Le due Sonate a confronto

43

Trii e Quintetto

45

Sinfonia da camera op.8: uno “studio d’orchestrazione”

49

Monaco. E a sorpresa Venezia

51

A Planegg

53

La fortuna del teatro di Goldoni a fine Ottocento

55

Non solo Falstaff: l’opera buffa (e goldoniana) nell’Ottocento

57

Wolf-Ferrari e la “rivelazione Goldoni”

60

Goldoni e Wolf-Ferrari, commedia e libretto

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Le donne curiose di Goldoni

66

Le donne curiose con Wolf-Ferrari

66

Rusteghi ma non troppo aspri

72

Susanna e gli aromi d’un fil di fumo

75

L’equivoco del Verismo musicale

78

Gioielli e coltelli

80

Da L’amore medico al silenzio degli anni di guerra

84

L’Italia si apre a Wolf-Ferrari

89

Sly: tradizione e fin-de-siècle

91

Sly e la malinconia di Wolf Ferrari

93

Le scaltrezze d’una Vedova

94

Qualche considerazione sul Campiello

98

Campiello: il radicamento d’una poetica

100

Autunno strumentale. Quasi inverno

101

Capolavori sinfonici: Suite veneziana, Divertimento, Trittico, Arabeschi

103

La voce a oboe, fagotto e corno inglese

105

Wolf-Ferrari e Guila Bustabo: un Concerto «per lei, e solo per lei»

107

Un Concerto per “tenore lirico puro” e una “non Sinfonia”

110

Addio «Venezia bella»

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CATALOGO DELLE OPERE DI ERMANNO WOLF-FERRARI

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BIBLIOGRAFIA

119

NOTE E RINGRAZIAMENTI

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Prefazione WOLF-FERRARI, IL DESAPARECIDO di Alberto Batisti

Tiriamo un bel sasso nello stagno. Mentre esce questo libro, infatti, la scena musicale italiana, e quella lirica in particolare, oscilla fra l’immagine dell’acquitrino e quella della palude. La crisi, la paura di veder deserti i botteghini, più probabilmente la mancanza di idee e di curiosità, portano le nostre istituzioni a proporre invariabilmente gli stessi titoli, che vanno dal Barbiere a Turandot, passando per esecuzioni sempre più grigie di Rigoletto, Traviata, Cavalleria, Bohème, Tosca, Butterfly. Pilastri del repertorio certo, ma dove è finita quella funzione di ampliamento del catalogo e di educazione alla scoperta che è una delle missioni di ogni buona istituzione musicale? Il pubblico assomiglia sempre di più a un matto che si reca regolarmente in libreria a comprare lo stesso libro, o al massimo gli stessi dieci titoli. Ormai pare che siamo condannati per cruda legge condivisa a riconoscere e non più a conoscere. Questa nuova fatica, che si aggiunge al ricco catalogo di lavori di Alberto Cantù, è il sasso nello stagno. Riaccendere i riflettori su Ermanno Wolf-Ferrari è un’operazione utile e soprattutto giusta. Con qualche sporadica e benemerita eccezione, la sua produzione lirica è praticamente scomparsa dalle scene, almeno dagli anni Cinquanta. Quanto alle opere strumentali, solo qualche compagnia discografica alla ricerca di rarità rende possibile l’ascolto di pagine immancabilmente accattivanti, spesso poetiche, –9–


sempre di squisita fattura, ma condannate per iniqua sorte a giacere mute negli scaffali degli archivi musicali. Wolf-Ferrari, come benissimo ricostruisce Cantù, fu un protagonista della vita musicale europea e internazionale nella prima metà del Novecento. La sua musica fu diretta dalle più importanti bacchette italiane (e non solo) del tempo, primi fra tutti Toscanini e De Sabata, senza dire di Marinuzzi. Al di là del palcoscenico d’opera, era frequente ascoltare in concerto gli estratti sinfonici di partiture preziose come I quatro rusteghi, La vedova scaltra, I gioielli della Madonna, Il campiello, che volentieri venivano accomunate alla felicissima sorte degli intermezzi sinfonici di Mascagni, Puccini, Leoncavallo, Giordano. Cos’è accaduto, per provocarne la quasi totale scomparsa? Leggendo lo studio di Alberto Cantù si trova più di una risposta. Proviamo a elencarne alcune. Wolf-Ferrari, fin da quel curioso doppio cognome, è un italo-tedesco, e non solo all’anagrafe. La sua formazione monacense, la sua perizia nel contrappunto e nell’armonia e la sua capacità d’orchestratore, provenienti dall’insegnamento di Rheinberger, ne fanno un musicista più germanico che italiano. La sua sensibilità melodica, favorita da una vena non comune, lo identifica invece come italiano. Probabilmente egli non fu né questo né quello. Alla stregua di un pur diversissimo Busoni, come suggerisce Cantù, fu un apolide, costretto a riparare in Svizzera durante la Prima Guerra Mondiale per non schierarsi dall’una o dall’altra parte. Questa ambiguità vale anche per la sua musica, che ha le proprie radici tanto nei Meistersinger quanto nel Falstaff, riuscendo a trovarne una originalissima sintesi. Se allora dovessimo trovare un perfetto punto di equilibrio per connotarlo, diremmo allora che è veneziano. E non solo per la sua devozione a Goldoni, ma soprattutto per una categoria, la grazia, che è tipicamente veneziana, a partire dal suono cantilenato di quel dialetto, che in verità – 10 –


può a buon diritto dirsi lingua, considerati gli altissimi esiti letterari che è in grado di sfoggiare. La grazia, che porta con sé la tenerezza, non è certo moneta estetica che abbia avuto gran corso nel Novecento. È questa, allora, un’altra risposta alle cause dell’oblìo calato su Wolf-Ferrari. Grazia e tenerezza, a partire dal secondo dopoguerra, sembrano categorie inattuali, almeno per la storiografia ufficiale. La funzione di balsamo attribuita da sempre alla musica viene negata, e viceversa si tende ad accettare per buona e giusta quell’arte che mette il sale sulle ferite. In molti ne hanno fatte le spese, e tra questi anche nomi più importanti di Wolf-Ferrari, come ben ricorda Alberto Cantù nelle sue pagine iniziali. Eppure, oggi che il nettare mozartiano ha conquistato una popolarità mai raggiunta prima, grazia e tenerezza sono tornate evidentemente ad esser necessarie, forse indispensabili, in barba alle proscrizioni novecentesche. Mozartiano avant la lettre, Wolf-Ferrari potrebbe tornare a vivere una seconda giovinezza e, laddove si è avuto non dico il coraggio, ma almeno l’intelligenza di programmarlo, il pubblico ha sempre festeggiato. Certo, eseguire bene Wolf-Ferrari non è facile. La sua scrittura raffinata e cristallina chiede all’orchestra, più che ai cantanti, spolvero virtuosistico e leggerezza. Basta ascoltare l’esecuzione toscaniniana dell’Ouverture dalle Donne curiose per farsene un’idea, laddove neppure il mitico puntiglio del direttore riesce a venire a capo di tutti i problemi. Un altro argomento non irrilevante nel causare il mancato radicamento di Wolf-Ferrari sulle nostre scene e nelle nostre sale da concerto è certamente, come sottolinea Cantù, l’esser stato pubblicato da editori tedeschi, in tempi in cui in Italia la protezione dei due principali editori faceva il bello e il cattivo tempo. Solo in extremis Casa Ricordi s’avvicinò a Wolf-Ferrari acquisendo Il campiello, – 11 –


ma in realtà facendo pochissimo per promuoverlo. Tuttora, se mettiamo il naso nello spartito canto e piano dei Rusteghi, tanto per fare un esempio, ci troviamo di fronte i vier Grobiane, secondo il titolo originale dell’edizione Weinberger. Per un’opera nel veneziano di Goldoni, è ben curioso leggere quel titolo ‘todesco’, pur sapendo che Wolf-Ferrari, tanto per non venir meno alla sua natura bifronte, pubblicò le sue opere sempre in versione bilingue. Quanto alla musica strumentale, essa ha sempre goduto di maggior fortuna in area mitteleuropea che non in Italia. Ne è un esempio illustre il destino de La vita nuova, nelle intenzioni monumento dantesco d’italianità, nei fatti praticamente sempre ignorato dalle orchestre del Bel Paese. L’unica edizione discografica è stata realizzata a Berlino. Senza voler a tutti i costi parva componere magnis, non è privo di significato se le vite di Richard Strauss e di Ermanno Wolf-Ferrari, per tanti aspetti più simili di quanto si pensi, abbiano chiuso il loro splendido crepuscolo d’isolamento con due concertini, uno per oboe e uno per corno inglese, tornando ancora una volta alla purezza mozartiana, come ad acqua fresca che lenisce le profonde ferite della storia e dell’inattualità. Anche questo libro sana una ferita, oltraggiosa per la cultura musicale italiana. Un libro su Wolf-Ferrari mancava e ora, finalmente, c’è. Ed è un bene che a raccontarci questo personaggio schivo, rimasto nel cantuccio di una Storia della Musica scritta con l’inchiostro dell’ideologia più che con quello della verità artistica, sia un conoscitore finissimo di cose novecentesche come Alberto Cantù, anch’egli vittima d’ostracismo, quello riservato agli onesti e ai competenti nell’Italia dei disonesti e degl’ignoranti. Ora che ha lasciato anche l’insegnamento in Conservatorio, dove più che la storia ha insegnato l’amore per la musica, per correre migliori acque il suo ingegno alza le vele, colmando con queste pagine una lacuna più che grave, ingiusta. – 12 –


Con l’onestà intellettuale che gli è congenita, Alberto dà voce a tutti coloro che prima di lui si sono misurati con la musica di Wolf-Ferrari, costretto per lo più ad attingere all’effimero arcipelago dei programmi di sala, quello strumento prezioso di cui oggi si assiste alla penosa banalizzazione, se non all’estinzione. È lui, però, che riesce come in un puzzle a ricomporre l’immagine del musicista, mettendo al loro posto tutti i tasselli e dando al lettore la sintesi d’un ritratto critico, in cui è evidente il crescente moto di simpatia per il soggetto, dal quale alla fine ci stacchiamo con profonda nostalgia. È questo il miglior servizio che si potesse rendere a Ermanno Wolf-Ferrari.

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Ouverture... 1 Le ultime, remote apparizioni alla Scala del teatro di Ermanno Wolf-Ferrari riguardano i più reputati fra i cinque lavori da Carlo Goldoni: I quatro rusteghi e Il campiello. Con questi due “nuovi allestimenti” si arretra, rispettivamente, al 1950 e al 1954. I cartelloni elencano gli interpreti prestigiosi da cui queste opere non possono prescindere. Cantanti come Rossi Lemeni, la Carteri, Valletti, la Carosio; direttori quali Votto e Sanzogno. Vero è però che il Piermarini non si interessa molto ai lavori di Wolf-Ferrari quando, nei primi due decenni del Novecento, la Germania e il mondo se li contendono e li “scopre”, come peraltro gli altri teatri italiani, solo nel ventennio fra le due guerre. Quando tiene a battesimo, fra il 1927 e il 1936, ben tre titoli wolferrariani, Campiello incluso. Tale disinteresse corrisponde al periodo in cui Puccini e Richard Strauss, assieme al nostro compositore, sono gli autori di teatro viventi più eseguiti. Ugualmente indiscutibile è come sia un fatto compiuto intorno a metà Novecento il mutare del gusto e delle mode 1 Nelle citazioni, i tempi dei verbi, soprattutto il passato remoto, vengono trasformati in presente storico, indicato in corsivo (esempio: spinse; spinge)

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già così forte negli anni Trenta, poi nel dopoguerra. Allora la malinconia lagunare e il garbo squisitissimo di WolfFerrari, la grazia mirabile del cantore di Goldoni e anche il fil di fumo dell’Intermezzo-operina, breve ma esigentissima, Il segreto di Susanna sembrano cose d’altri tempi; poveri anacronismi se non addirittura reperti archeologici di scarso valore. Di conseguenza, dagli anni Quaranta-Cinquanta inizia a rarefarsi – oggi s’è persa – una tradizione tenuta viva, nella buca d’orchestra, ad esempio, da Piero Fabbroni (18821942) e da Manno Wolf-Ferrari (1911-1994), rispettivi allievo – prediletto – e nipote del compositore (Manno è figlio di Cesare, fratello di Ermanno Wolf-Ferrari e docente d’arpa al Conservatorio «Benedetto Marcello» di Venezia; studia direzione con Antonio Guarnieri, veneziano pure lui). Questo senza dimenticare bacchette quali Krauss e Mottl, Nikisch e Mahler, lo stesso Guarnieri, Toscanini, De Sabata, Capuana e Gavazzeni che sono da considerarsi “traini” fondamentali per la fama del drammaturgo. Nell’obbedire a ragioni di mercato, oggi il cd tace o quasi, salvo riedizioni storiche e benemerite eccezioni recenti. Tra queste ultime, Gianandrea Noseda con la BBC Philharmonic su etichetta Chandos – ampi scorci sinfonici da opere; la Suite-Concertino op.16 per fagotto – e una promettente «Wolf-Ferrari Edition» per la viennese philArtis di Friedrich Haider, autentico innamorato-studioso del compositore, con il direttore a capo della Oviedo Filarmonia. Beneaugurante è una nuova emissione della cpo, casa cui molto si deve per la diffusione del Wolf-Ferrari strumentale, con brani orchestrali tra cui il Divertimento (Ulf Schirmer dirige l’Orchestra sinfonica della Radio di Monaco) e della Tactus: il Concerto per violino con interpreti tutti italiani – Laura Marzadori, l’Orchestra «Città di Ferrara», Marco Zuccarini – che “fissa” su Cd quella che è anche la “prima” italiana del Concerto. – 16 –


Quanto ai teatri, salvo riprese propiziate, certo, dall’interesse per il titolo, ma indiscutibilmente dalla fama del cantante che ad esso si rivolge (nel caso di Sly, Josè Carreras e Placido Domingo), Wolf-Ferrari è, allo stato attuale, un compositore uscito di repertorio; da ripescare come “curiosità” per qualche sera ad esempio col pretesto di una ricorrenza – cinquantenario, centenario – dal battesimo dell’opera, fuggevolmente “riesumata” magari abbinandoci una ricorrenza goldoniana. Quello di Wolf-Ferrari è così un nome, pressappoco, da storia della musica. Senz’altro dimenticatissimo per quanto concerne gli oratori, la molta musica sinfonica, da camera e da concerto, giovanile e no che giacciono appunto in un limbo profondo. Come le Liriche vocali, tanto notevoli quanto singolari, d’un Canzoniere popolarissimo, invece, nei paesi di lingua tedesca sia in italiano, sia – i Sei canti per soprano del Secondo fascicolo, Seconda parte – nella versione tedesca prediletta da Elisabeth Schwarzkopf. Nemmeno i sessant’anni dalla morte del compositore (2008) sono riusciti a sollevare sul serio la cortina di disinteresse. Idem i novanta (Regio di Parma, 1996) o cento anni dalla prima rappresentazione dei Rusteghi, a Berlino, dove il battesimo è nella versione ritmica tedesca del dialetto veneziano. Quei Rusteghi il cui centenario – 1903-2003 – appare, sulle prime, foriero di un reale interesse con una produzione di rango nuovamente alla Fenice e una coproduzione Livorno-Lucca-Pisa esportata anche a Ravenna. A posteriori, un fuoco di paglia risulta pure l’allestimento alla Fenice di Venezia della prima opera da Goldoni di Wolf-Ferrari, Le donne curiose: nel 1968, a vent’anni dalla morte del compositore e con la regia di Cesco Baseggio, il grande attore veneziano dialettale – e non solo dialettale – 17 –


– che abbandona lo studio del violino per quello della recitazione proprio dopo l’impatto con La locandiera (l’esecuzione è fissata in un doppio cd live della Mondo Musica, direttore Oliviero De Fabritiis). Altro caso isolato, di nuovo a cent’anni dalla prima, è, ancora, quello de Le donne curiose, riprese al Filarmonico di Verona, apertura di stagione 2003 (dello spettacolo non è rimasto purtroppo un documento sonoro). Un punto interrogativo che il tempo scioglierà sono le apparizioni recenti, a sorpresa e molto fitte in un arco ristretto di tempo, di Sly. Troviamo infatti il lavoro all’Opernhaus di Zurigo nel 1998 dove viene ripreso nel 2000, quindi inscenato al Regio di Torino e al Liceu di Barcellona nel 2000 sempre con Carreras, come si diceva, nel ruolo del titolo e relativa emissione in 2 cd della Koch (da Barcellona, direttore David Gimenez). La “Leggenda-dramma” è allestita anche al Metropolitan di New York nel 2002 e all’Opera di Roma nel 2003 con un altro protagonista di fama e richiamo: Placido Domingo. Lo stesso discorso vale per la Vedova scaltra: Opéra di Montpellier 2004; Fenice, 2007. Dai due spettacoli sono nate altrettante produzioni in cd. Da Montpellier, direttore Enrique Mazzola, per l’etichetta Accord e dalla Fenice, direttore Karl Martin, per la Naxos che oltre al cd – fatto eccezionale per le opere di Wolf-Ferrari – rende disponibile la Vedova scaltra veneziana su DVD. A tirare le somme, si tratta però di promesse non mantenute o, appunto, di punti interrogativi. Come si diceva, resta infatti un’eccezione generalmente senza séguito la comparsa di questo operista e compositore deliziosissimo, orafo del melodramma e autore di titoli, teatrali e no, compresi tra la metà del 1890 e il 1947. Lavori che dunque, volenti o no, costituiscono uno dei modi d’essere del Novecento musicale. Perché sono davvero molti e diversi i modi d’essere, le – 18 –


tendenze e gli orientamenti del XX secolo: di quello che chiamiamo «Novecento storico». Valga qualche esempio. Il biennio 1905-1906, a ridosso de Le donne curiose e de I quatro rusteghi, è infatti anche quello de La mer di Debussy, della Sesta e Settima sinfonia di Mahler, della Kammersymphonie di Schönberg, di Feux d’artifice e Scherzo fantastique del giovane Stravinskij. Il 1905 è pure l’anno in cui Vienna e l’Austria impazzano per La vedova allegra di Léhar come ad esorcizzare il crollo prossimo venturo d’un mondo. Ancora. Nel 1927, l’anno della prima assoluta di Sly, vengono «rappresentate anche la kleistiana, tetra Penthesilea di Othmar Schoek, il jazzistico Jonny spielt auf di Ernst Krenek, il magniloquente, tardoromantico Das Wunder der Heliane di Erich Wolfgang Korngold (assai apprezzato da Berg), senza contare il neoclassico Oedipus Rex di Igor Stravinskij, dato a Parigi» (Johannes Streicher).

... di buon auspicio Oggi, forse, Wolf-Ferrari può essere “riabilitato”. Il tempo del successo popolare legato al teatro – del successo tout court –, come abbiamo visto, è passato, certo; e non può tornare. È passato però anche il tempo in cui si credeva in un Novecento obbligatoriamente ribelle e iconoclasta, comunque nemico giurato della tradizione e di qualsiasi possibilità di un eventuale suo ripristino-ripensamento. È trascorso il “Novecento duro e puro” per cui Theodor Wiesegrund Adorno nella sua Filosofia della Musica (1949) vede in Stravinskij un atteggiamento di restaurazione da riprovare mentre profetizza l’autentico progresso in Arnold Schönberg. Profezia rivelatasi errata perché – 19 –


errato è l’approccio: filosofico, appunto, e ideologico; non storico. Questo perché, come osserva Piero Rattalino, la storia «la scrive la collettività, gli storici la spiegano e magari la certificano. E la collettività ha deciso nella seconda metà del Novecento che il più affascinante compositore della prima metà, di area tedesca, è Richard Strauss, non Schönberg». Lo Strauss che per Adorno non esiste, che il filosofo considera indegno persino «di una stroncatura [tanto che] nella Filosofia della musica moderna non gli vengono riservate più di tre righe sprezzanti in una nota a pie’ di pagina e poche citazioni, sempre in negativo, di alcuni suoi lavori». Il Novecento detto storico, insomma, è diventato finalmente, tra la fine del XX secolo e i primi lustri del XXI secolo, storico per davvero. Tanto da poterlo esaminare con la stessa attenzione e serenità sia per autori le cui musiche hanno segnato il loro tempo, sia per altri che di esso ne sono stata espressione artistica rilevante anche se non fondante. Discorso valido per figure quali Britten e Šostakovic la cui medaglia è stata posta tanto a furore di popolo quanto a posteriori. L’augurio è che questa monografia critica possa stimolare cantanti, solisti di strumento e gruppi da camera, direttori d’orchestra, teatri e istituzioni concertistiche oltre, s’intende, ai colleghi studiosi. Che li spinga a guardare un po’ più da vicino e al di là di pregiudizi appunto ideologici, una produzione cospicua e notevole, molto differenziata, talvolta curiosa, spesso sorprendente, ad esempio, in quel terreno da arare che è l’ambito strumentale di Wolf-Ferrari. Terreno, come vedremo, che va dalla Suite sinfonica al Concerto al Concertino a raccolte cameristiche. Indagini da compiersi appunto senza preconcetti quali innovazione contro accademismo, modernità contro tradi– 20 –


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