Le tredici tacche. Romanzo - Renzo Cagliari

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Renzo Cagliari

Le tredici tacche romanzo


© Il Segno dei Gabrielli editori, 2020 Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-6099-427-1 Stampa Mediagraf (Padova), Aprile 2020 Foto di copertina e nell’interno del libro, di Renzo Cagliari.


s o m m a ri o

Prologo

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Dai nonni

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La prima tacca

23

La seconda tacca

31

La terza tacca

48

La quarta tacca

63

la quinta tacca

72

La sesta tacca

80

La settima tacca

87

L’ottava tacca

97

La nona tacca

107

La decima tacca

119

L’undicesima tacca

126

La dodicesima tacca

134

La tredicesima tacca

142

Epilogo 153 Ringraziamenti 158

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Prologo

Mancava poco all’alba, il buio era trafitto dai raggi di una luna splendente anche se mezza coperta da una grigia nuvoletta, lasciata probabilmente indietro dai cumuli del temporale della sera precedente. La piccola nube, trasportata dal vento in quel cielo stellato, sembrava sforzarsi per non coprire del tutto quella creatura luminosa, unica fonte di luce per chi si muoveva in quella grande e impervia montagna. C’era un silenzio irreale, solo le ruote di un carro trainato da un cavallo risuonarono improvvisamente sui ciottoli di una sterrata, emanando scintille che nel buio parevano decine di lucciole vaganti. Era già mattinata inoltrata quando il carro arrivò alla stazione di un piccolo villaggio, composto da una ventina di case e una chiesetta, famosa per i suoi coloratissimi affreschi settecenteschi, e costruita ai bordi del bosco con annesso il suo piccolo campo santo. Ne scese un uomo alto e robusto, aveva ormai raggiunto i sessantacinque anni, ma ne dimostrava almeno una decina di meno: i capelli ormai da tempo erano divenuti bianchi come la neve, la folta e candida barba gli sfiorava l’ampio e forte petto, mentre sul viso si potevano intravedere due lunghe rughe che sembravano due cicatrici di vecchie ferite e che si allargavano o restringevano a seconda dell’umore. L’anziano, che si chiamava Giovanni, entrò nell’edificio e si diresse all’unico sportello che fungeva da biglietteria, posta e informazioni. Chiese a che ora sarebbe arri7


R e n z o C a g l i a ri

vato il treno, il solo che una volta alla settimana arrivava in quello sperduto villaggio di montagna. Avuta con gentilezza la risposta si sedette sulla panchina e pazientò in sala d’aspetto. Non passò molto tempo che si sentì un fischio provenire da fondo valle e subito dopo si intravide in lontananza una colonna di fumo nero salire al cielo, era la locomotiva a vapore che arrivava puntuale con il solito e unico vagone passeggeri al traino. Si fermò sbuffando nuvole di vapore da tutte le parti. Scesero due passeggeri: uno era un uomo sulla quarantina con un’enorme valigia, l’altro era un giovanotto in divisa da postino con una grossa borsa in pelle a tracolla, con la quale trasportava la posta per la gente di tutta la vallata. Un ragazzo di circa dodici anni con uno zainetto a spalle rimase seduto al suo posto e, col naso schiacciato sul finestrino, frugava con lo sguardo in tutte le direzioni alla ricerca di qualcuno. Non gli ci volle molto a individuare l’anziano fermo all’entrata della sala d’aspetto. Nel vederlo il giovane si alzò di scatto, scese e con due salti si ritrovò nelle forti braccia del nonno mentre gli baciava la guancia barbuta. Era Giulio, aveva finito le scuole con profitto e, come premio, i suoi genitori gli avevano concesso di passare le vacanze dai nonni in montagna. Per arrivare aveva dovuto fare tre cambi di treno, ma solo l’ultimo tutto da solo. Il papà infatti l’aveva accompagnato nei due tratti precedenti, poi lo aveva messo sul terzo treno con la certezza che ad attenderlo ci sarebbe stato sicuramente il nonno e che comunque la linea ferroviaria del piccolo villaggio sarebbe finita alla stazione. A sigillare la fine di quel percorso vi erano delle alte e invalicabili montagne che si innalzavano davanti al capolinea come delle piramidi. No8


Prologo

nostante questo il papà, prima di salutarlo con gli occhi lucidi, lo aveva riempito di raccomandazioni e gli aveva stampato un bel bacio sulla fronte. Con il cuore trepidante, ma allo stesso tempo contagiato dalla felicità del figlio, rimase immobile fin quando il treno non sparì dalla sua vista. Dopodiché si diresse verso il vagone fermo sul binario che portava nella direzione opposta e fece ritorno al suo paese in una provincia della regione confinante. Nonno e nipote, dopo quell’interminabile abbraccio, salirono subito sul carro e partirono verso la casetta in cima alla montagna, dove nonna Angela li stava aspettando. Giulio, tutto esultante, incalzava il nonno con mille domande, non era mai stato da loro prima d’ora e non aveva mai dormito una notte lontano dai genitori e il desiderio che più lo emozionava era la scoperta della vita di montagna. Ne aveva sentito tanto parlare dalla mamma, unica figlia di nonno Giovanni e di nonna Angela. Lei era nata proprio in quel paradiso terreno dove gli alberi si flettono al soffio del vento omaggiando le alte cattedrali rocciose immerse nell’oceano azzurro di quel cielo intenso e pulito. Laddove gli animali girano liberi nei prati e nei boschi e le aquile, con lunghe e vigorose ali, volteggiano dove solo loro possono osare. In quel posto la quiete e il rispetto padroneggiavano su tutto quel mondo incantato.

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Dai nonni

Durante il percorso non davo il tempo al nonno di rispondere a una domanda che già lo incalzavo con un’altra. Ero talmente agitato dall’emozione che non mi accorsi della pericolosità della stradina che stavamo percorrendo. Fu lui ad ammonirmi di stare il più possibile fermo sulla panca del piccolo carro. Le ruote da un lato lisciavano la roccia formata da lastre di pietra con orli taglienti come lame di coltelli e dall’altro rasentavano il bordo sopra una forra lunga e profonda. Il cavallo, con tranquillità, sicurezza e consuetudine, procedeva come se fosse in un prato pieno di fiori e non su ciottoli che le ruote ferrate scheggiavano contro la parete o verso il dirupo. Ma era la maestria del nonno che mi meravigliava e mi dava la forza di vincere la mia giustificata paura, la sua confidenza con le redini e con il sottile frustino che certamente non aveva mai usato per colpire, ma soltanto per accarezzare con affetto la schiena del cavallo, indicandogli, con colpetti garbati, di spostarsi di qualche centimetro a destra o a sinistra della carraia. Tolsi lo sguardo dai pericoli del percorso, soprattutto dalla parte del precipizio e osservai il volto del nonno, lui se ne accorse e, senza togliere lo sguardo dalla stradina, fece un gran sorriso: la barba e i folti baffi lo nascosero, ma le due grosse rughe che gli solcavano il viso non lasciavano dubbi. Era tanto tempo che non vedevo i nonni, erano venuti a trovarci in treno due anni prima durante le feste pasquali, 10


Dai nonni

il periodo in cui la montagna permetteva loro di scendere. Il volto di mio nonno non era cambiato: neppure l’aggiunta di una piccola ruga ai due solchi della fronte, e i capelli c’erano ancora tutti. Sembrava che per lui il tempo si fosse fermato. Gli occhi scuri emanavano dolcezza: era lo sguardo di una persona di buon cuore ma anche determinata e sicura di sé, come si doveva essere per poter sopravvivere in quei posti dimenticati dal mondo. Dopo circa tre ore uscimmo da quelle rocce e dirupi e davanti a noi si aprì un immenso prato verde. Il percorso era segnato in mezzo all’erba dalle tracce delle ruote di carri passati di là chissà quante volte. Guardavo a bocca aperta quelle bellezze e il mio sguardo spaziava senza ostacoli su quel meraviglioso ambiente che mi circondava. Mi ripresi solo quando sentii il nonno che con voce ironica mi disse: «Giulio, chiudi quella bocca se non vuoi fare colazione con le mosche o, peggio, con qualche tafano». Mi girai verso di lui e scoppiai in una fragorosa risata che echeggiò per due o tre volte nella vallata sottostante. Il carro procedeva tranquillo su quell’erba soffice e in quella quiete gli ultimi raggi di sole ci accarezzavano le guance. Fui io a rompere quel silenzio incantato per chiedere: «La nonna come sta? È là che ci aspetta?». «Sì» mi rispose rabbuiandosi, come se si aspettasse da tempo quella domanda. «Sicuramente sarà alla finestra a guardare il sentiero che esce dal bosco, se non ci affrettiamo si preoccuperà e questo lo voglio evitare, perché ultimamente non sta molto bene, il dottore dice che ha problemi di cuore. Nulla di grave, ma non deve fare sforzi. Io cerco di fare tutto il possibile per aiutarla, ma lei dice sempre che sta bene e che per le faccende di casa vuole arrangiarsi». 11


R e n z o C a g l i a ri

Rimasi senza parole per un po’. Non riuscivo a immaginare la mia dolce nonna ammalata. L’ultima volta che l’avevo vista era di una vigoria sorprendente, mai stanca, invidiabile anche da donne molto più giovani di lei. Ci lasciammo dietro i prati e proseguimmo fra dune di terra ed erba ingiallita, fino ad arrivare al grande bosco di querce e faggi. Era quasi mezzogiorno quando guadammo un piccolo torrente spumeggiante, era la stagione migliore per goderci lo splendore della natura. Proseguimmo per una bianca stradina incorniciata da rododendri e ginepri, poi iniziarono gli alti abeti mescolati a larici e a pini: erano così fitti e alti da impedirci di vedere la luce del sole. Un piccolo scoiattolo nel vederci fuggì da un albero all’altro, copiato da stormi di uccelli. Il nonno me li indicava dicendomi il nome di ogni specie: «Guarda Giulio! Quelli neri laggiù sono corvi. Quello là dietro a quel ramo è un picchio che cerca di perforare il tronco per prepararsi la casa per quando formerà la sua famigliola. Quelli là invece sono dei tordi, ma sono solo di passaggio. Vedi dietro a quelle foglie? Quelli sono passeri e merli». continua....


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