Anteprima-Lasciatemi cantare

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Arnaldo Nesti

Lasciatemi cantare L’ethos diffuso degli italiani

Spunti di storia e antropologia sociale

Prefazione di Marco Politi Postfazione di Mons. Mansueto Bianchi

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© Il Segno dei Gabrielli editori, 2014 Via Cengia 67 − 37029 San Pietro in Cariano (Verona) Tel. 045 7725543 − fax 045 6858595 mail info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-241-3 Stampa Litografia de “Il Segno dei Gabrielli editori” San Pietro in Cariano (VR), Settembre 2014

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INDICE

Prefazione, di Marco Politi

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Introduzione

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1. Sul Risorgimento: allora credettero, ma cosa, come e dopo?

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2. Gli italiani, «i più pericolosi nemici d’Italia» (d’Azeglio) Un ideale etico e religioso per un’Italia altra nel primo Novecento

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3. Il fascismo: l’autobiografia della nazione (Gobetti)

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4. La Resistenza in Italia: un pro memoria

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5. Quale Italia post fascista negli anni «democristiani»? Fra continuità e rottura (De Gasperi, Dossetti) La presenza di Andreotti Dossetti: un progetto abbandonato? Un’intervista a Corrado Corghi 6. Ethos cattolico degli italiani. Aspetti di un dibattito storico-antropologico Ipertrofia rituale e moralismo La questione comunista: fra competizione e sfida di civiltà Pietà popolare, «Donna Bisodia» e il folclore Concludendo 7. La stagione del dissenso cattolico 8. Società di massa, la scomparsa delle lucciole, la spettacolarizzazione, il berlusconismo. Quale Italia?

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9. La ventata conciliare, la sfida dei consumi Il vento del Concilio Vaticano II La sfida del consumismo (Pasolini)

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Appendice 1 Sul berlusconismo fra gli italiani

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Appendice 2 Dopo le dimissioni di Benedetto XVI, papa Francesco

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Appendice 3 La povertà della Chiesa: the question Un’occasione storica perduta Per una umanizzazione globale

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Postfazione, di Mons. Mansueto Bianchi

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Prefazione di Marco Politi

Eh sì, cantano gli italiani. Ma non cantano nel coro di un sentimento nazionale condiviso o di una comune appartenenza allo stato. Insistono a cantare ognuno per conto proprio o al massimo la canzone del proprio clan sportivo, di affari, di micro-interessi politici. Centocinquant’anni dopo la creazione dell’Italia unita sarebbe vano cercare quello spirito collettivo che gli inglesi esprimono con right or wrong my country (a torto o ragione è la mia patria), i tedeschi con la Pflicht, il senso del dovere, i francesi con il culto dell’État (lo stato) e gli americani con l’incondizionata devozione agli Stars and Stripes, la loro bandiera a stelle e strisce. Arnaldo Nesti nel suo libro ricco di innumerevoli spunti non cede però all’indignazione di fronte all’esistenza di un’Italia senza etica (anche perché ci sono molte Italie animate da impegno autentico per il bene comune, con molte radici laiche, cattoliche e variamente ispirate da altre religioni), bensì affronta il problema, che è storico e antropologico insieme, seguendo anzitutto un approccio maieutico. Stimolando la memoria, pungolando il lettore a rileggere pagine salienti delle vicende nazionali, obbligandolo in un certo senso a confrontarsi con i personaggi e le voci che hanno segnato l’ultimo secolo e mezzo. Con una agilità e lievità di tocco che non indulge al “come eravamo” ma pone a tutti un interrogativo più profondo e scomodo: “Dove siamo arrivati, noi italiani?”. È un esercizio di memoria benefico e fondamentale, perché se è stato accertato che le giovani generazioni usano solamente 800 parole (e non sentono la mancanza delle altre migliaia) è altrettanto vero e preoccupante che la conoscenza del passato è ispirata a un analfabetismo storico diffuso. Chiunque può ve7


rificare che la generazione dei trentenni odierni – ed è una stima largamente per difetto – possiede ormai in dimensioni amplissime una percezione estremamente confusa e carente della storia italiana ed europea, persino di quei grandi fenomeni che sono stati la seconda guerra mondiale, lo scontro Est-Ovest, il crollo dell’Unione sovietica e l’emergere delle nazioni dopo la fine del colonialismo. Per non parlare della perduta conoscenza della “storia delle idee”, che ha caratterizzato il nostro come altri paesi. In questo deserto, come la colomba di Noè sulle acque limacciose post-diluvio, Lasciatemi cantare porta ramoscelli di memoria con personalità come quelle di d’Azeglio, Salvemini, Croce, Gramsci, Gobetti, Prezzolini, Dossetti, ma anche il ricordo delle canzoni disperate dei soldati al fronte della prima guerra mondiale o i frammenti di “teologia domestica” delle donne tutte rosario e culto dei santi. O il drammatico appello sulla «scomparsa delle lucciole» del poeta (e tante altre cose ancora) Pier Paolo Pasolini Una profonda discrasia si è creata in questi ultimi decenni tra il mondo dell’economia e la sfera della politica. Mentre le grandi imprese multinazionali analizzano, pianificano, confrontano, “studiano” passato e presente delle congiunture, investendo in ricerche sul “futuro”, il mondo della politica si è appiattito penosamente sul presente e di pari passo una gran massa di cittadini, rinunciando ai diritti-doveri (e perché no... anche ai piaceri) di una cittadinanza attiva e partecipativa, si è abbandonata al flusso di una comunicazione mediatica incentrata unicamente su frammenti dell’“oggi”. Senza riferimenti ai contesti, alla memoria, alle radici degli eventi, alla complessità dei fenomeni. Arnaldo Nesti porta il lettore a ripensare – almeno per le ore o i giorni dedicati alla lettura di un libro – ai grandi nodi della nostra storia. L’avverarsi concreto dell’Unità nazionale, il difficile assestarsi del nuovo stato unitario, il trauma della prima guerra mondiale, l’irrompere del fascismo (parentesi come voleva Croce o non piuttosto epifania di alcuni dei vizi più radicati del paese?) e il manifestarsi della Resistenza, la costruzione dell’Italia repubblicana fino al trionfo del berlusconismo: stadio supremo di quel paese “senza carattere” cui Massimo d’Azeglio avrebbe voluto inculcare il senso del dovere. 8


Inevitabile che in questo passaggio ai raggi X non emerga l’interrogativo sull’esistenza o meno e in che misura di un (mancato) ethos civile degli italiani. Senza riandare ad una esplorazione delle radici lontane (... fu colpa della Controriforma? L’etica protestante della responsabilità è più educativa? Ma allora come spiegarsi il senso dello stato di un paese come la Spagna ancora più controriformista nel suo passato e oggi così largamente laico?...) colpisce l’allarme per una serie di debolezze, lanciato di decennio in decennio da alcune delle migliori teste pensanti della nazione. Di d’Azeglio si è già detto. Colpisce tuttavia l’attualità della sua descrizione di quanti misurano il dovere da svolgere soltanto in base al fatto se “diverte o frutta”. Resta egualmente attuale la preoccupazione di un grande liberale come Giovanni Amendola per un paese, che sia soltanto «collezione di individui». Altrimenti detto, seguendo Piero Gobetti: l’endemica assenza di coesione del popolo italiano. Che al volgere del millennio diventerà – secondo Alberto Asor Rosa – un vero e proprio «spappolamento socio-economico» della collettività nazionale. Sono tutti gufi, secondo la terminologia di moda con cui vengono liquidati coloro che segnalano contraddizioni, imperfezioni e problemi? Difficile sostenerlo. Piuttosto – anche se è sbagliato voler riportare il fenomeno complesso di una nazione sotto un’unica cifra – non è da sottovalutare una caratteristica della collettività italiana nel suo oscillare tra frenetica cura dei propri interessi particolari e però continua invocazione di uno stato che funzioni. L’attesa ciclica e poi l’affidamento del governo ad un “redentore”. È successo – al netto delle forti differenze dei personaggi e delle loro responsabilità – con Mussolini nella crisi del primo dopoguerra, con Berlusconi negli anni Novanta, con Renzi, per certi aspetti, nella crisi economica attuale. È come se una parte consistente della nazione, di fronte a situazioni di grande difficoltà, non fosse capace di produrre leadership normali, di normale impegno attuativo, di normale determinazione a sciogliere i problemi sul tappeto, ma sentisse il bisogno impellente di evocare figure mitologiche. Da non discutere. Il cui agire non va sottoposto al noioso esame della concretezza, ma circondato immediatamente dall’alone dell’appoggio totale o della inimicizia feroce. 9


Si badi, paesi in crisi come l’Irlanda, la Spagna o la Grecia si stanno risollevando con primi ministri del tutto normali, persino grigi si potrebbe dire, semplicemente impegnati in programmi concreti. L’Italia – una parte almeno – invoca l’eroe. Non potevano mancare, in un’opera di uno studioso appassionato di sociologia religiosa come Nesti, capitoli illuminanti sul complesso rapporto tra Chiesa e Stato e sulle molteplici forme assunte dal cattolicesimo nazionale. Pagine acute sui cattolici che hanno contribuito a “fare” la Costituzione, sulla stagione conciliare, sugli intrecci di potere tra l’episcopato e il regime democristiano e in seguito con il regime berlusconiano. Nella storia recente italiana la compagine multidimensionale del cattolicesimo è sempre stata di volta in volta risorsa e problema, a seconda dei protagonisti entrati sulla scena. Per ogni cardinale Ruffini, che nega i rapporti tra clero e mafia, c’è sempre un cardinale Lercaro che si batte per una Chiesa povera (precorrendo con i suoi confratelli conciliari del “patto delle catacombe” la visione di papa Francesco). Nesti, a proposito dell’irrompere sulla scena del papa argentino, formula una osservazione precisa: «I termini della rottura (rispetto alla Chiesa di Benedetto XVI) sono netti. Si ricomincia dall’esperienza umana [...] La fede di Francesco e la coscienza dell’uomo si incontrano nel rifiuto della rassegnazione di fronte ai mali del mondo». È una sfida per la Chiesa. Ma anche per gli italiani che alla domenica guardano il telegiornale e plaudono silenziosamente al nuovo papa. Perché poi bisogna decidere quali sono i mali che si intendono combattere e quale strada si vuole imboccare. Cantare e applaudire non basta.

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Introduzione

Arise, ye who refuse to be bondslaves! ... Indignation fills the hearts of all our countrymen, Arise !Arise! Arise! In piedi, voi che rifiutate di essere schiavi! ... L’indignazione riempie i cuori di tutti i nostri compatrioti, In piedi! In piedi! In piedi! P. Roth, L’indignazione, 2008 L’italiano – Lasciatemi cantare... Toto Cutugno, 1983

Ho lasciato da alcuni anni l’insegnamento universitario, ho ridotto le iniziative culturali extra moenia, come pure i viaggi all’estero, ma non mi sono rassegnato a restare disoccupato, destinato, fra un pranzo e l’altro, ad aspettare “l’arrivo di Godot”. Nonostante tutto non ho cessato di osservare e di appassionarmi alle vicende della vita. Ho continuato a guardare e a scrutare il mondo, la società, la vita politica. Non ho potuto fare a meno di reagire con forza, dentro di me, e spesso di indignarmi. Anzi, la rabbia è andata crescendo di fronte a situazioni drammatiche emergenti del mondo giovanile. Anni fa Aldo Bonomi1 parlava del rancore come radice collettiva del malessere del Nord e ne descriveva le piccole fredde passioni. Recentemente, nel 2013, Concita De Gregorio2 è costretta ad andare oltre. Oltre le iden1 Cfr. A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del nord, Milano, Feltrinelli, 2008. 2 Cfr. C. De Gregorio, Io vi maledico, Torino, Einaudi, 2013.

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tità locali, oltre lo spaesamento e la protesta antistatalista. Le tasse aumentano, i prezzi pure, il valore degli immobili scende, i consumi crollano, la fuga dei cervelli continua e la disoccupazione giovanile tocca livelli record. In Italia c’è un 50% di elettori composto da borghesia asociale e plebe incosciente alla quale, di fronte a questa politica di lacrime e sangue, non è rimasto altro che una risata di scherno. Che le chances del «Cavaliere» di tornare alla guida dell’Italia siano pari a zero interessa meno, ma il personaggio fa notizia di per sé, le sue foto nelle pose più bizzarre o i suoi fotomontaggi servono a vivacizzare le solitamente austere prime pagine tedesche: attorniato dalle donne del «bunga-bunga», come ha fatto lo «Spiegel», o galleggiante in una tazza del water, come è apparso sulla «Süddeutsche Zeitung», le cronache da «Silviolandia» sono tornate a rappresentare in Germania il piatto principale dell’informazione concernente l’Italia. Non ho potuto e non posso essere tollerante di fronte all’esplosione dell’oppor­tunismo, del servilismo, dell’ipocrisia. Non ne posso più di fronte all’assuefazione al qualunquismo, ad un forte, egoistico personalismo. Non è tollerabile l’astensionismo, in omaggio a una propria decantata purezza e indisponibilità al compromesso. I vizi, i difetti, l’immoralità allignano in tutti i paesi e in tutti i ceti, ma da noi hanno un’intensità particolare che deriva da un atteggiamento di generale disprezzo verso le istituzioni e verso lo Stato che tutte le contiene. Lo Stato è considerato un corpo estraneo o addirittura nemico, che taglieggia i cittadini, impone immotivati sacrifici e fornisce pessimi servizi. Chi lo rappresenta viene odiato. La scarsa efficienza e il tasso di corruzione di chi giudica le istituzioni è sicuramente più elevato che altrove, ma purtroppo non si limita alla sfera del potere pubblico: ha gli stessi vizi anche in quella parte della società civile dalla quale emerge la classe dirigente economica. Ogni paese ha la classe dirigente che si merita poiché quest’ultima non spunta dal cielo ma ha le sue radici nella terra che amministra. In modo polemico è ritornante la convinzione che l’Italia è una Repubblica fondata su un sistema che fa rima con spintarelle e bustarelle. Agli italiani, a molti, piace vivere nel caos: la ragione è sempre di chi strilla più forte, 12


per cui qualcuno ha pensato di fare... Chiasso capitale d’Italia... non sapendo che quella è una città straniera. Constatare questa situazione non significa dare immediatamente un giudizio morale sugli italiani, in modo aprioristico, ma comporta la ricerca di un giudizio storico. Fu anticipato, quel giudizio, da Machiavelli e da Guicciardini che fecero nei primi anni del Cinquecento un’analisi accurata ed anche rattristata e memorabile della società in cui vivevano. Machiavelli arrivò alla conclusione che per creare lo Stato italiano ci volesse un Principe che con ogni mezzo, anche il più violento e immorale, unificasse un paese altrimenti ingovernabile. Guicciardini aborriva la violenza e constatò anche lui che il paese era ingovernabile perché ogni cittadino badava soltanto al suo «particulare» interesse e disprezzava quello pubblico e le regole che la convivenza sociale inevitabilmente comporta. Questi giudizi sono purtroppo ancora attuali, anche se la democrazia è ormai diffusa e ben radicata. Quell’indifferenza alla «res publica» che Guicciardini descrisse, perdura tuttora, anche perché lo Stato italiano nacque soltanto 150 anni fa, quando in tutta Europa gli Stati si erano formati tre o quattro secoli prima. Perciò la nostra indifferenza alla vita pubblica, la nostra scelta del «particulare», il tasso di corruzione, di evasione fiscale, d’illegalità, il nostro disprezzo per le regole, la nostra disponibilità alla demagogia, sono un derivato della nostra storia. «Francia o Spagna purché se magna» è un proverbio che sintetizza quattro secoli di servitù a potenze straniere e a Signorie servili e corrotte. In questi tempi sono rimasto particolarmente sdegnato anche per i comportamenti diffusi di qualificati uomini di Chiesa nei loro rapporti con la politica e per il loro coinvolgimento in spericolate gestioni bancarie e operazioni finanziarie In particolare, se la fiducia degli italiani per il Presidente della Repubblica negli ultimi tempi scende dal 62,1% al 44,7% (ancora non è chiaro se il Capo dello Stato sia entrato nella spirale della sfiducia, ormai strutturale, che gli italiani nutrono nei confronti dell’intero sistema), anche la Chiesa subisce un brusco calo di fiducia, crollando dal 47,3% dello scorso anno al 36,6% attuale. Mi è venuto spontaneo di far mio lo sdegno di Rosmini e di 13


reagire di fronte alle piaghe del mondo cattolico di oggi. A fronte di queste cifre, ha ancora ragione Benedetto Croce (18661952) che il 20 novembre 1942 pubblicò sulla sua famosa rivista «La Critica» il saggio Perché non possiamo non dirci «cristiani»? Dal punto di vista culturale, certamente sì, ma possiamo rilevare che il «dirsi cristiani» non ispira in maniera sostanziale le scelte sociali, morali, politiche e culturali degli italiani. Dalle ricerche emerge che la fede nella Chiesa cattolica diviene sempre più incerta ed individuale e caratterizzata da un crescente pluralismo interno. In ultima analisi, mentre persiste una forte domanda religiosa, si rafforza pure la propensione dell’individuo a costituirsi come ultimo criterio di validità di ciò in cui crede; è questo atteggiamento che alimenta il diffuso relativismo che, in termini popolari, assume la formula del «credo, a modo mio». Qualche illustre amico mi dice di star calmo e di non alterare il ritmo della pressione, turbando il fragile equilibrio acquisito in questi anni della mia pensione. Certo ho la fortuna di disporre sufficientemente del pane e del companatico quotidiano, ma come sta scritto «non di solo pane vive l’uomo». Ma come si può non fare i conti con l’effettivo scenario delle vecchie e delle nuove contraddizioni? Che fare di fronte al dramma degli esclusi e delle nuove povertà nel panorama del mondo contemporaneo? In particolare, come non tenere costantemente presenti i migranti in fuga, espulsi dalle guerre e dai cambiamenti climatici, o alla ricerca di migliori opportunità di vita? Che fare di fronte a quelli che scompaiono mentre attraversano mari, deserti e frontiere seguendo un sogno di lavoro e libertà? C’è un’umanità stanca, massacrata, agonizzante: per molto meno Jahvè si è mosso a compassione perché ha ascoltato un grido di disperazione ed è sceso a fianco di un popolo di schiavi (Es 3,7-8). Ci sono delle soluzioni per queste situazioni o «non c’è niente da fare»? Ho fatto un elenco di persone, di eventi e di situazioni che rischia di apparire moralistico e retorico rispetto allo scenario che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi. In un tempo di grande distrazione rispetto alle questioni fondative, oltre che del proprio esistere individuale, del vivere come stare insieme comunitario, ritengo di dover richiamare l’attenzione su alcuni momenti che 14


contrassegnano la nostra storia nazionale, non sottovalutando, anzi dando una particolare attenzione alla presenza persistente degli «apoti» (dal greco ápotos, cioè «coloro che non se la bevono»), di ieri e di sempre, secondo il richiamo gobettiano. Inizio queste pagine ri-ascoltando alcune canzoni che ripercorrono i momenti più significativi dell’ultimo secolo e mezzo. Attraverso il canto affiora un’altra lettura della Storia: di quegli uomini e di quelle donne che hanno sperato, combattuto, sofferto e qualche volta vinto, ma solo qualche volta, da anonimi, senza enfasi, senza retorica. Che fare dunque? Il quesito è analogo a quello che si pone Bauman:3 esistono ancora modi di pensare, stili di comportamento, momenti di relazione capaci di costituire il terreno comune su cui fondare la fiducia reciproca? Davanti alla situazione di qualunquismo diffuso e di menefreghismo conclamato, un mio giovane e affezionato nipote mi tempesta di interrogativi e di insistenti richieste: «Ma zio, ma come fai a restare chiuso nella tua nicchia? Perché anche tu non “scendi” in campo, perché non ti fai sentire? Perché non prendi posizione senza mezzi termini contro questo “cicisbeismo” politico e culturale?». Citandomi nomi e situazioni concrete con riferimento alla vita quotidiana locale, insiste provocandomi ulteriormente: «Hai visto il senatore... che si dice cattolico? Ha lasciato la moglie e sta con l’amante in una villa a Roma. Hai visto il “compagno” S.N. di origini modeste? È oggi uno dei più ricchi della città, spende e spande; ma da dove prende i soldi? ecc. ecc.». C’è un’aria irrespirabile, ha ragione mio nipote. Che dire poi del rinascente narcisismo anche in uomini intellettualmente dignitosi e ritenuti virtuosi? Lo ascolto, lo ringrazio per l’affetto e la stima che nutre per me, ma senza farla lunga gli faccio capire, senza con questo darmi l’assoluzione, che non ho più... vent’anni. Non mi stanco di ripetergli che indignarsi non significa solo gridare, far leva su alcuni poteri politici, di fronte ad alcune scandalose situazioni evidenziate anche dalla stampa. Occorre tenere salda la spina dorsale, lucido il giudizio critico, resistere alle folate del vento delle lusinghe. La pensione 3

Cfr. Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, Milano, B. Mondadori, 2005.

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per me non deve significare un tempo per cercare un albero a cui appoggiarsi e poi lasciarsi cullare dal sonno che non è... sogno. In questi ultimi anni, nonostante tutte la mie prese di posizione di distacco critico ed emotivo dal mondo ecclesiastico, torno spesso a guardare con ammirazione all’originale figura di un alto prelato, da poco scomparso: il cardinale Martini. Del resto un nuovo futuro dell’Italia non è pensabile senza un forte rinnovamento della Chiesa cattolica. Faccio mio, in questo momento, nonostante lo sfascio e il trionfo della chiacchiera, il suo coraggioso invito: «Lasciateci sognare». La nuova stagione aperta da papa Francesco induce a ben sperare. Ringrazio l’illustre prefatore Marco Politi. Come ringrazio Mons. Mansueto Bianchi. Mi onorano e spero, in modo particolare, che siano occasioni di stimolo. Un ulteriore ringraziamento va alla dott.ssa Anna Maria Franchi che ha cortesemente controllato e corretto il testo.

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