Anteprima - Il pozzo dei fagioli

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Giorgio Zicchetti

Il pozzo dei fagioli “Un uomo non piange mai”

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Si ringrazia la dott.ssa Antonella Imolesi, Responsaboile dei Fondi Antichi, Manoscritti e Raccolte Piancastelli per la gentile collaborazione e per aver fornito la riproduzione dell'immagine di copertina ricavata dal disegno originale di Romolo Liverani conservato presso le Raccolte Piancastelli della Biblioteca Comunale di Forlì.

NOTA DOVEROSA: quasi tutti i nomi di persona sono di fantasia. Quando

non lo sono è per rammentare, e così far rivivere, i vari protagonisti.

© Il Segno dei Gabrielli editori, 2014 Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 mail scrivimi@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-238-3 Stampa Il Segno dei Gabrielli editori, Giugno 2014 In copertina Romolo Liverani “Veduta di San Mauro, come nel 1859”, disegno a penna macchiato all'acquerello (BCFo, Raccolte Piancastelli, Sez. Stampe e Disegni, Album Romolo Liverani 1/82). Retro di copertina Il pozzo dei fagioli (San Mauro Pascoli).

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A mia moglie Giovanna Ai nostri figli Milena e Diego

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RINGRAZIAMENTI Un grazie particolare al dott. Gianfranco Miro Gori e alla dott.ssa Liliana Formici per la loro partecipe collaborazione. Ringrazio inoltre Edo Zicchetti e tutti gli Amici del “Bar Gallo Nero�. Un grazie speciale a tutti coloro che mi hanno regalato, in un tempo oggi lontano, informazioni preziose.

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INDICE

Un uomo non piange mai premessa di Gianfranco Miro Gori Parte prima, Romagna papalina

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Parte seconda, Romagna socialista

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Parte terza, Romagna dolce paese

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Premessa Un uomo non piange mai

Questo è un libro che si fonda sulla memoria: è il racconto di una comunità, la comunità di San Mauro, per oltre un secolo, ricostruito sui ricordi. Ricordi dei ricordi. Ricordi orali soprattutto. Che l’autore non s’è limitato a riprodurre ma ha rielaborato e reinventato. In che misura non sono in grado di dire. Certo è che, appartenendo alla medesima comunità, trovo, nelle pagine che seguono, storie e personaggi che filtrano anche dalla mia memoria. Quella memoria che, secondo molti, è all’origine della letteratura. I suoi “ricordi” di San Mauro Giorgio Zicchetti li ha radunati suddividendoli in tre capitoli, ognuno dei quali caratterizzato da un incipit marziale: il passo (uno-due) scandito nel primo capitolo in francese, nel secondo in tedesco, nel terzo in italiano. Primo capitolo: San Mauro sotto lo Stato Pontificio, soldati francesi mandati da Napoleone III. Secondo capitolo: fango della prima guerra mondiale, soldati austriaci a fronte di italiani di San Mauro. Terzo: San Mauro, la seconda guerra mondiale è appena finita, partigiani che entrano nel paese. Dal che si deduce che la grande storia e la piccola s’incrociano e la dimensione politica – siamo in Romagna – è onnipresente. Non mancano l’antropologia e l’aneddotica relative alla piccola patria, che mi sembrano prevalere nel secondo e nel terzo capitolo; e almeno tre esplosioni di straordinaria violenza: due riguardano la sfera sessuale: seduzione e vendetta; stupro, vendetta e confessione-purificazione collettiva. La terza è violenza politica, e morte. Per raccontare la San Mauro di quegli anni non si può 9


prescindere da un confronto con la lingua del paese: il dialetto. Come risolverlo? Essendo uno tra i primi lettori, se non il primo, del manoscritto di Zicchetti, ricordo (tanto per rimanere in tema) di una stesura, mi pare la prima, direttamente in dialetto. Accanto a essa o poco dopo il testo in lingua italiana. Zicchetti, alla fine, ha optato per la lingua italiana, conservando tuttavia nel racconto vocaboli, brevi frasi e, soprattutto, soprannomi coi quali molti personaggi vengono indicati: un uso assai diffuso in Romagna e a San Mauro. Che giustamente egli ha voluto salvaguardare. Troviamo, per citare i primi tre esempi della casistica testé riportata: muntilaza (la ghiacciaia comune), “U si vòid (Ci si vede)”, Sberaglia (all’anagrafe Eugenio Baldinini, garibaldino, che secondo la voce popolare sarebbe debitore del nomignolo a Pascoli medesimo, il quale l’avrebbe ricavato dall’italiano assai improbabile, “sberagliare” utilizzato da Baldinini nel resoconto delle sue imprese belliche)... Che Zicchetti abbia scartato la versione del tutto dialettale, pur mantenendo ampi esempi della lingua della piccola patria, lo si deve, suppongo, alla necessità di allargare la platea dei potenziali lettori – a scapito, forse, della coerenza e della forza che sarebbero potute scaturire dalla radicalità del dialetto. Un altro sammaurese, il pittore Armido Della Bartola, che aveva pubblicato direttamente in dialetto una sua “autobiografia” assai attenta al “carattere” paesano, Arcurd ad viaz sla voja de zacul (“Ricordi di viaggio con la voglia dell’anitra”; all’epoca qualcuno chiosò che la parlata autoctona richiede zaqual e che zacul si doveva all’emigrazione di Armido a Rimini), decise in seguito di farne un’edizione in lingua italiana. Il pozzo dei fagioli ha un leitmotiv. Che risuona in molte parti e nel finale. Indugio sul tema, in conclusione, anche perché mi ha coinvolto e mi coinvolge ed è oggetto, ancorché non proprio direttamente, di un bel libro uscito poco meno di un anno fa, Le lacrime degli eroi di Matteo Nucci. Lo introduco con le parole ricorrenti di Zicchetti: 10


“Un uomo non piange mai!”. Sono le donne che piangono. Personalmente l’ho affrontato – chiedo venia per l’autocitazione – in un poemetto intitolato Cantèda de falói (“Canzone del fallito” e più in generale del “fallire”) caratterizzato da un ritornello: “E’ va e’ palòun, bum... (Va il pallone, bum...)”. Che emerge dai ricordi della mia infanzia. Lo spiego. Quando uno di noi bambini era sul punto di piangere, gli altri gli facevano corona e intonavano il refrain; e lo “sfortunato” scoppiava in lacrime. Un drammatico fallimento. Uno dei primi. Perché, se è pur vero che di bambini si trattava, i bambini erano maschi, cioè uomini in potenza. E gli uomini non piangono. Nella memoria di ognuno di noi, almeno credo, c’è un padre che dice, e a lui era stato detto: non piagnucolare, fa l’uomo. Così ha funzionato e funziona (oggi forse meno) la nostra civiltà, per così dire. Aggiungo, en passant, che all’ingresso del paese di San Mauro c’era – lo imparo da Il pozzo dei fagioli – un albero maestoso I guzlót ad Elia (alla lettera: “I gocciolotti di Elia”) che rimanda alla pioggia ma pure alle lacrime. Il grande albero assolve il pianto di tutti gli uomini del paese? Non saprei. Certo è che sulle lacrime degli uomini risuonano le parole di Nucci. Il quale, con notevole padronanza della materia omerica, ci mostra come il pianto sia una caratteristica fondamentale degli eroi di Omero. Confesso che dalle mie reminiscenze scolastiche sgorga sì il pianto di Achille e di Odisseo, ma non la pervasività, la radicalità, la centralità del pianto degli eroi, di tutti gli eroi. Perché se è vero che fu Platone – come ci spiega Nucci – a stabilire, per affermare una nuova paideia, che il pianto non s’addice all’uomo, prima di lui gli eroi lacrimavano senza vergogna: con la forza di non celare la propria debolezza. San Mauro Pascoli, 2 aprile 2014

Gianfranco Miro Gori

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Parte prima ROMAGNA PAPALINA

Un-Deux, Un-Deux, Un-Deux... Siamo ormai a settembre inoltrato. Il caldo è ancora afoso. Anche oggi come da milioni d’anni, ininterrottamente, la giornata volge al tramonto: il sole a ponente, una palla infuocata sospesa nello spazio; di un color rosso cupo, è ancora abbastanza alto da dare luce e abbastanza basso per poterlo guardare in tutta la sua maestosità e bellezza. Qua e là sparse delle nubi sottili, allungate come lance, anch’esse tinte di rosso. A levante, dove ormai il cielo ha assunto il colore blu della notte con nuvole nere all’orizzonte, si scorgono lampi, ma senza il fragore dei tuoni: è il caldo del giorno che inizia a scontrarsi col fresco notturno, sono bagliori che danno segni di temporale, ma preannunciano che domani sarà un’altra giornata rovente. Queste ore sono le più belle e riposanti della giornata per gli uomini della Bassa Romagna. Dopo un’estate faticosa per i contadini di queste terre, (la terra è qui l’unica risorsa) questa è la sola piccola pausa durante il primo quarto di settembre; fra poco verrà infatti la vendemmia dove la fatica, nel piccolo paese chiamato San Mauro che conta poco più di cinquecento abitanti, sarà ancora più grande perché, più dei padroni sfruttatori e molto esigenti, sono tiranni i fattori che, sfruttatori a loro volta e spioni, per fare bella figura spremono fino all’osso i contadini poi li gettano come fossero stracci. La sola fonte di lavoro d’altro genere è la filanda: venti operai, donne all’ottanta per cento. I vecchi per fare in 13


modo che quei pochi soldi che le famiglie guadagnano possano aumentare di qualche centesimo, dopo quattordici o sedici ore di duro lavoro giornaliero, accatastano nelle case oppure, chi la possiede, in una capanna, fasci di sterpi ben legati e coltivano i bachi da seta per portarne poi i bozzoli alla filanda di cui, tutti ammucchiati – i bozzoli di San Mauro e dei paesi vicini – costituiscono la materia prima. In queste ore in cui il giorno va spegnendosi nel tramonto, mentre i giovani e tutti gli idonei stanno lavorando nei campi, gli anziani si portano in luoghi freschi, ognuno con la propria sedia, qualcuna malandata, qualcuna aggiustata da poco dall’impagliatore e, seduti all’ombra in fondo alla via del mulino, parlano, parlano... di cose già dette e ridette. Ogni tanto c’è chi aggiunge una novità: ricordi vissuti, oppure sentiti raccontare durante l’infanzia nelle stalle, l’inverno, dai genitori; ricordi di gioventù. All’ombra di una gigantesca quercia dietro il campanile c’è Martino Buzzi: un vecchio ciabattino, ancora con il davantale addosso, con la mano che ancora profuma del rattoppo di scarpe vecchie e sporche. È seduto proprio dirimpetto al meraviglioso spettacolo che è il tramonto. Il sudore gli bagna l’ampia fronte, la testa un po’ brizzolata è leggermente riversa all’indietro e indossa una camicia a quadri ancora madida, sulla schiena e sotto le ascelle, del lavoro compiuto; dietro, sui pantaloni scuri, due toppe rosse. Seduti in quel luogo sono in cinque. Prende la parola Paolo Gessi che nonostante l’avanzata età (oltre la settantina) fa il guardiano alla filanda; sulla nuca, tutta pelata e lucida, i pochi capelli rimasti gli formano un’aureola, quasi a coronare tutti i sacrifici fatti lavorando per la famiglia nella sua lunga vita. Sta contemplando il tramonto, come fosse il primo che ammira: – Quello di ieri l’ho dimenticato, oggi mi sembra più bello – commenta. Poi si porta alla bocca, coperta da lunghi e spessi baffi ben curati, la sua pipa e solo quella: 14


Mio nonno

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– Perché questa – dice – sono sicuro, questa è di radice buona, è fatta tutta d’un pezzo di radice di bosso. L’ho rubato di notte alla siepe del contadino del prete. Non sarà fine, è poco rifinita, ma tira che è una meraviglia. Mentre Martino, mezzo assonnato, piano piano china la testa, Pietro Ricci, il falegname del paese con ancora la segatura fra i capelli e una sedia in mano, gli si avvicina prendendo la parola a voce alta: – L’hai ricordato tantissime volte, tutte le sere ci racconti come hai fatto a farla. Alle gracchiate parole di Ricci, Martino alza il capo di colpo, spalanca gli occhi all’inverosimile e con la voce spezzata da qualche colpo di tosse sogghigna e brontola cose incomprensibili, poi: – Arriva la vecchia cornacchia; sentiamo cosa ha aggiustato oggi... Ed ecco che la tosse gli smorza la parola. – Amici! – comincia Pietro ignaro di quello che ha detto Martino – Cari amici, oggi ho aggiustato la cassapanca del signor (si fa per dire) Anselmo Pari – (Anselmo è il padrone dell’unico emporio del paese e del vicinato, quindi il più benestante tra questi poveri vecchi) – indovinate che cosa c’era dentro: due scarafaggi. Un signore come lui non si può permettere il lusso di avere questi bacherozzi che girano per casa. Altrimenti noi poveri dovremmo averli come animali da cucina. Anselmo, seduto fra Martino e Paolo, si alza, con la mano agguanta il cuscino che è sulla sedia e lanciandolo a Pietro, colpendolo in pieno volto, emette un forte grido mascherato da qualche imprecazione: – Stai zitto – urla eccitato – vecchia cornacchia rimbecillita. Quindi si rimette seduto e grattandosi con il mignolo la pancia scoperta continua, in dialetto, un brontolio inafferrabile dal poco udito rimasto ai vecchietti seduti al fresco serale. Infine, appoggiato al muro, c’è Annibale Crispi. La sua vita è stata sfortunata. Gli è venuta a mancare la giovane 16


moglie, dopo soli due anni di matrimonio, in una tragica giornata di molto tempo addietro dove trovarono la morte altre persone, giovani e meno giovani, in seguito a un’epidemia di cui in quei tempi non si conosceva la causa, che fu chiamata la “morte bianca”, e lo lasciò solo col figlioletto di un anno. Come se ancora quella disgraziata famiglia non avesse pagato il suo tributo alla vita coniugale, ad Annibale, un mese dopo la scomparsa della moglie, mentre lavorava nella sua fucina da maniscalco si scagliò contro un cavallo, molto nervoso. Dopo un primo calcio, col quale lo fece cadere, il cavallo lo calpestò provocandogli una brutta frattura al bacino. Da quel giorno la sua vita è appesa a due stampelle. Ma se le sue gambe sono rimaste rigide, in lui resta tuttora intatta la gaiezza di quei tempi... di quei tempi in cui era giovane. Oramai è vecchio e rassegnato. Resta il fatto che, a tutti coloro che gli passano vicino, lui è sempre pronto a lanciare con battute scherzose le sue buffonate. Tutte le sere, quando non piove, questi cinque vecchietti si riuniscono all’ombra del campanile ad osservare, come questa sera, il tramonto, unico spettacolo e svago del paese. *** Ma questa sera di fine settembre non è come le altre. Si sente in lontananza, proprio in fondo al viale di fronte alla chiesa, e continua attraverso il paese fino al cimitero proseguendo per Savignano, una voce che scandisce parole incomprensibili. Una piccola nube di polvere si alza verso l’alto come se dei cavalli corressero sfrenati. La voce continua con tono marziale e ripete sempre le stesse parole: – Un-Deux, Un-Deux, Un-Deux... Sono i soldati di Napoleone III di stanza nello Stato Pontificio ed inviati in massa in Romagna per “domare” questo popolo di accoltellatori. “Accoltellatori”. Così erano chiamati i Romagnoli. I militari, richiamati nella capi17


tale per sedare delle sommosse patriottiche, lasciano la caserma di un paese vicino e, per andare a Roma, attraversano proprio San Mauro. La colonna, disposta in fila per due, che conta una cinquantina di militari più quello in testa con la bandiera francese e uno sulla sinistra che scandisce il tempo di marcia ad alta voce, è attorniata da molti bambini scalzi e malvestiti che corrono ai suoi lati. All’altezza dei cinque vecchietti viene dato l’ordine di battere il passo, così una nube di polvere densa e irrespirabile li avvolge. Martino tossisce sputando da un lato, gli altri si battono con la mano gli abiti tutti impolverati. Finalmente viene dato il “via”. Seguiti dalla nuvola di polvere e dai bambini, i francesi sfilano al centro del paese sotto gli occhi della popolazione che li guarda con una piega di contentezza in viso e molta nel cuore – cuore romagnolo anticlericale-. Qualcuno ancora giovane, ma non abbastanza, sogghigna esprimendo sotto voce: – Un passo verso la libertà. Ormai i militari sono scomparsi in fondo al lungo viale, mentre la nube di polvere lentamente si rarefà lasciando spazio alla vista dei rami dei platani che sovrastano la via per tutta la sua lunghezza. In fondo, dove finisce il paese, i rami sono tanto larghi e d’estate così pieni di foglie da formare una lunga galleria. Adesso la stagione estiva va finendo e le foglie cominciano a diradarsi. Cadendo si lasciano cullare dal vento, toccano terra, poi un altro soffio le solleva... fino a far loro trovare un posto definitivo. Sulla strada e sui campi resta tutto un tappeto color ruggine che calpestato emette un gradevole scricchiolio. Il sole, ormai scomparso all’orizzonte, ha lasciato dietro di sé una lunga lingua rosso cupo e un cielo che si oscura sempre più e trasforma il suo azzurro in blu scuro e poi nero. I vecchi guardano con disinvoltura il passaggio dei francesi senza parlare e senza sapere cosa sta succedendo lontano di lì, dove la loro fantasia non può arri18


vare. I giovani invece, i figli di Martino, Anselmo, i figli di Annibale, Paolo e Pietro, sì, i loro “figliuoli”, come loro li chiamano perché ai loro occhi sono ancora ragazzini anche se sono dei giovanotti, loro sì che lo sanno, lo sanno bene cosa succede: i francesi, informati dell’avanzata di Garibaldi, si affrettano a rinforzare le loro file. È la fine di un’era dura e piena di sacrifici sotto il dominio dei papi e dei signorotti nobili e tiranni; è l’inizio di un’era nuova e carica di speranze. Ormai il buio è sceso; i vecchietti si dirigono, a passo lento e barcollante, ognuno verso la propria abitazione. L’indomani alcuni uomini coraggiosi dell’esercito di Garibaldi, infiltratosi nei territori dello Stato Pontificio per incitare la popolazione alla rivolta, annunciano un comizio a Rimini, cittadina a circa quindici chilometri da San Mauro. Molti sono i giovani che accorrono al richiamo di quelli che sarebbero i nuovi liberatori. Uno addirittura già arruolato nei Garibaldini, un certo Baldinini Eugenio, anni dopo il ritorno dal fronte, in una cena, alla quale è presente anche il poeta Giovanni Pascoli, dice: – Quel giorno li abbiamo sberagliati tutti. E il Pascoli in quell’istante lo soprannomina Sberaglia. Approfittando della bella giornata, diversi giovani partono a piedi e qualcuno, i più benestanti, in bicicletta. Nell’aria mite di un settembre ancora estivo, qualche contadino si avvia a cavallo, un gruppetto sale su di un carro trainato da buoi bianchi. Alle undici del mattino a Rimini, al balcone di una lussuosa casa, si affacciano tre persone, tutte hanno il braccio avvolto in una fascia verde, bianca, rossa: tra la folla si sussurra che quella fascia dovrebbe essere la nuova bandiera del Regno d’Italia. La folla numerosa accorre da tutto il circondario. Su di un barroccio ci sono nove giovani esultanti. Sono i figli dei cinque vecchietti amici anch’essi come i loro padri. Il barroccio è trainato da un vecchio cavallo. Hanno dovuto sudare non poco per convincere il vecchio Pari, l’unico contadino del gruppo, a lasciare il figlio libero di andare con gli amici e, 19


ancor più, a concedergli il barroccio col cavallo. La piazza è colma di gente vestita quasi tutta allo stesso modo: uno spinato color grigio, più chiaro o più scuro, come fosse una divisa. Si notano i più benestanti perché hanno una capparella estiva: tutto quello che la miseria offre, stoffa da poco e senza tante scelte. Qualcuno mostra la sua idea anarchica e rivoluzionaria mettendosi al collo un fazzoletto nero annodato a farfalla e un fazzolettino rosso nel taschino della giacca; altri professandosi repubblicani e facendosi chiamare massoni, si distinguono per lunghe barbe e folti baffi e stanno sempre uniti fra loro. I vicini di questi ultimi si sussurrano: – Sono tutti massoni. Di questi tempi molto numerosi nel ravennate, ma poco dalle nostre parti. C’è anche chi, già molto informato, porta al collo un fazzoletto blu alla Garibaldina. Il comizio comincia. Dall’alto giungono incitazioni. Dal basso applausi e approvazioni ad alta voce e con cenni del capo. In alto un signore vestito con pantaloni blu e camicia rossa, ai piedi un paio di stivali neri lucidissimi, un fazzoletto blu, ha un berretto rosso con visiera che di tanto in tanto si toglie, solleva e agita per incitare il popolo. Accanto a lui due signori elegantemente vestiti di nero, con camicia bianca e sul capo un cilindro nero sventolano una bandiera, nuova per molti, non più bianca e gialla con insegne papali, ma di color verde bianco e rosso con al centro uno stemma con croce rossa in campo bianco: lo stemma del re d’Italia. Altri ad alta voce gridano: – Viva Garibaldi! Viva l’Italia! Anche San Mauro ha una sua rappresentanza sulla piazza. Assieme alle autorità comunali (non si sa se sono qui per criticare, spiare, oppure per acclamare), ci sono Marco e Amilcare, i due figli di Anselmo; c’è Giulio, un vero anarchico antipapalino, figlio del vecchio Martino; c’è il figlio di Annibale Crispi, Sergio, il più esaltato; tutti e tre i figli di Pietro, Aldo, Eros e Rinaldo; Luigi il figlio di Gessi: questo un po’ “ritardato”, ma molto simpatico 20


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