Seconda persona singolare

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Fred Baggen

Seconda persona singolare



Seconda persona singolare


Frammento dal libro con titolo originale Tweede persoon enkelvoud Copyright © 2009/2010 Fred Baggen Traduzione dall’olandese di Angela Federica Ruspini Foto di copertina Giulia Agostini Foto dell’autore Nicole van der Klaauw www.probatio-pennae.nl


Fred Baggen

Seconda persona singolare Per quell’unico amore giovanile irraggiungibile



La mia vita è come un libro Continuo a sfogliarlo all’indietro per scoprire ancora di che cosa trattava… — Dal mio diario



L’asintoto

È una comunissima cartella. Un oggetto di vitello, che si è afflosciato negli anni, con ai lati dei bordi arricciati, scivolosi, sporchi di unto. Mia moglie ha già riparato diverse volte la cucitura, e ogni volta che mi consegna la reliquia, mi fissa con uno sguardo di compassione. “Non ne compreresti semplicemente un’altra?” chiede poi, o mi segnala, nonostante anche lei come me ha superato la quarantina, che gli insegnanti al giorno d’oggi farebbero meglio a camminare in strada con uno zainetto, soprattutto se si appende l’aggeggio con nonchalance a una fascia sopra la spalla. Ma io non posso farlo. Non sono un tipo da zaino, e non posso separarmi dalla cartella che possiedo già dalla seconda media. In questa cartella c’è lo spirito della mia giovinezza, la cartella si è adattata al mio braccio e alla mia anca (il manico è rotto già da anni) e ha un odore così buono di pelle conciata e di libri ricoperti. Perché lo faccio ancora: ricoprire i miei libri di scuola. Potreste dire che è sentimentale, o addirittura superato. E avete ragione. Nella mia classe si contano sulla punta di una mano gli alunni che ancora ne hanno una. Ma le versioni attuali hanno dei rinforzi di plastica agli angoli, incollati sotto la pelle, e lo stesso nelle maniglie. Anche se queste cartelle vedranno il prossimo decennio, non avranno mai una resistenza simile alla mia cartella, con la sua stucchevole trama


in craquelé. Mi vanto del mio vero cuoio. Ha visto gli anni settanta. Devo ammetterlo: le chiusure sono arrugginite, e da una parte si è rotto un perno. Avevo già perso al tempo delle superiori le chiavi abbinate. Quindi la mia cartella non si può chiudere a chiave, e non è neanche necessario per me. Mi hanno comunque fatto notare che metto i compiti in classe che correggo a casa in una cartella che non si può chiudere a chiave, e mi hanno chiesto se sono consapevole del rischio che corro, e del rischio che corrono gli alunni. Ma non lascio mai la mia cartella incustodita, me la trascino dietro ovunque. Nello scomparto posteriore c’è una pila di compiti in classe della 2a B; nello scomparto centrale – il cui rivestimento di cartone feltro quest’anno si è tanto lacerato che rischiava di aprirsi un quarto scomparto un po’ pietoso, il che ha richiesto l’eliminazione rigorosa del risvolto lacero fino alla fibra – si trovano il giornale di ieri e i verbali manoscritti della riunione del comitato direttivo; davanti ci sono i libri di testo per la classe prima, un contenitore per il pranzo (la gamma dei profumi di una cartella per la scuola non è completa senza l’aroma del pane integrale e del formaggio che trasuda, che fuoriesce continuamente, in modo inspiegabile, attraverso il coperchio chiuso ermeticamente), e il diario di Lonneke, che ieri ha dimenticato in tutta fretta. Non c’è alcuna fretta di battere a macchina i verbali, e i compiti in classe posso correggerli con comodo settimana prossima. Il sole splende attraverso le finestre. È il primo giorno delle vacanze d’autunno. Ieri quando sono rientrato a casa ho portato subito di sopra la cartella, nel mio studio, e l’ho messa sulla mia scrivania, come faccio sempre, perché mia moglie detesta poche cose tanto quanto vedere la cartella in giro nel soggiorno, che lei chiama in modo molto moderno e molto 10


ostinato il ‘living’. Con grande ostinazione io continuo a chiamarlo ‘soggiorno’, semplicemente all’olandese, c’è già troppo inglese nella nostra società. Adesso che mia moglie è a Londra con le sue amiche per alcuni giorni, nessuno mi rimprovererebbe se lasciassi in giro dabbasso quel rottame che sa di muffa, ma l’ho sistemato comunque per bene di sopra, come sono abituato a fare. “Potresti dare una sistemata al tuo studio quando sono via settimana prossima?” mi aveva chiesto in macchina, quando l’avevo accompagnata all’aeroporto l’altra sera. Va bene, avevo detto, ma subito ero sembrato poco convinto. A chi andrebbe di farlo? Il mio studio è un caos. Pile di libri sulla mia scrivania, tirati fuori dall’armadio per cercare qualcosa, qualcuno l’ho letto a metà, la maggior parte dei libri non li ho letti, alcuni sono ancora nel cellophane, ma devo rimetterli tutti a posto o trovare un po’ di spazio fra le due librerie gigantesche già così piene. La prima è completamente piena di romanzi, soprattutto letteratura olandese, disposti in ordine alfabetico e, per autore, in ordine cronologico, l’altra contiene esclusivamente opere di riferimento ed è suddivisa, inoltre, per mensole in temi specifici; in primo luogo libri relativi alla letteratura olandese, anche questi in ordine alfabetico, e poi libri relativi ad argomenti che mi interessavano prima ma ora non più (libri a cui comunque non potrei mai rinunciare), libri relativi ad argomenti per i quali supponevo che avrei sviluppato forse un interesse, e libri che Dio solo sa perché li avevo comprati (e questi casi erano rari, dato che di quasi tutti i libri sapevo più o meno quando, dove e perché li avevo acquistati, e in ogni caso se li avevo sfogliati), tutti disposti accuratamente l’uno vicino all’altro nel senso della lettura, dal più grande al più piccolo. La mia libreria è ordinata tanto quanto la mia scrivania 11


(‘desk’ dice sempre mia moglie) e il pavimento sono un disastro. Sicuramente da quando il rivestimento in legno del ripostiglio adiacente ha iniziato a imbarcare acqua, e ho dovuto trasferire in tutta fretta il mio archivio personale, che consiste soprattutto di carta e altre cose che non amano le infiltrazioni d’acqua piovana. Da allora il pavimento del mio studio è ricoperto di scatoloni, pieni di altri libri, scritti, disegni, della collezione di monete della mia gioventù, di raccoglitori, di sette annate di Paperino, del leprotto di peluche che avevo ricevuto dalla nonna quando ero bambino. Cose del passato. Non sono mai riuscito ad allontanarmi dal passato. E stamattina sono passato fra quegli scatoloni nel corridoio rimasto libero sulla moquette per andare alla mia scrivania stracolma, pensando alle parole di mia moglie e con l’intenzione di non deluderla. Ho cominciato dal lavoro meno pesante: i libri. Quando dopo un’ora tutti avevano trovato il loro posto nella libreria, avevo preso due piccioni con una fava: le librerie erano ancora impeccabili e la scrivania era molto più libera. Il pavimento, però, doveva rimanere così, l’idraulico aveva detto che sarebbe venuto subito dopo le vacanze. Sono rimasto un attimo in dubbio se guardare prima le mail arrivate o se continuare, invece, a riordinare. Sapevo che, se avessi acceso il computer, non avrei più messo a posto. Il mio sguardo si era posato sulla cartella. Correggere i compiti in classe? Non mi sembrava un’attività adatta per il primo giorno delle vacanze. Ignorare la cartella. Prima volevo vedere ovunque solo il legno. Non solo i libri, ma anche le scartoffie lasciate in giro, i cd, il caricabatterie: dalla scrivania doveva sparire tutto. Poi una passata con lo straccio umido, e a quell’ora probabilmente avrei voluto bere un caffè. Questa prospettiva mi incoraggiava. Mi ci sono voluti circa tre quarti d’ora prima di poter andare alla caffettiera. 12


Con la mia tazza preferita e un altro biscotto sono salito nuovamente al piano di sopra e ho guardato la stanza soddisfatto, evitando accuratamente gli scatoloni sul pavimento. Tranne il pavimento, mi dicevo, la mia camera era uno splendore. Poi ho tirato fuori i fogli dalla cartella, i verbali fuori dalla vista, i compiti in classe in un contenitore. Avrei voluto accendere il computer quando un oggetto rosa in fondo alla cartella aveva attirato la mia attenzione. Il diario di Lonneke. Era circa mezzogiorno. Se avessi letto le mail non avrei combinato più niente per il resto della giornata. Lonneke della 2a B, la figlia minore della signora Van Boven, la nostra insegnante di greco e latino, somiglia in maniera lampante alla ragazza dei miei sogni dei tempi lontani. Proprio come lei, Lonneke ha le braccia tipiche delle ragazze: lunghe ed esili, con i gomiti che possono ruotare estremamente all’indietro. Lonneke non ha il minimo sospetto che, alcuni anni prima della sua nascita, c’era una ragazza che era proprio come è lei adesso: lo stesso taglio degli occhi, gli stessi capelli, lo stesso modo di ridere, semplicemente raccapricciante. Soltanto che Lonneke ha l’apparecchio, lo si vede solo se ride. Conosco più Lonneke della persona che le somiglia. Da oggi conosco Lonneke meglio di quanto vorrei. Me ne sono accorto subito, il primo giorno di scuola dopo le vacanze estive. Circondato da allievi che si erano liberati del giogo di essere primini, mettevo la chiave nella toppa, aprivo la porta della classe e lasciavo entrare l’orda. Lonneke era entrata in classe di corsa gesticolando in modo concitato, indossava dei vestiti nuovi, si era messa uno strato abbondante di ombretto azzurro, e si godeva l’attenzione dei compagni. Era avvenuta una piccola metamorfosi. Nelle vacanze estive, il periodo per eccellenza per subire 13


una trasformazione, era iniziata una nuova fase di maturazione, e Lonneke la metteva in pratica il primo giorno di scuola. Emanava intorno a sé un’aura di energia e di luce. Un anno prima non era mai stata una persona fuori dal comune. Come tre quarti delle ragazze di quell’età aveva anche lei i capelli lunghi, alle elementari si considerava per molto tempo un onore avere i capelli lunghi oltre le scapole, e negli anni seguenti le forbici erano diventate tabù. I suoi movimenti impacciati sono uguali a quelli di tutti gli altri ragazzi (non mi sentirete mai pronunciare la parola “kids”), e anche lei abusa del fascino tanto vistoso, dell’ambivalente fragilità espressa in modo così avvincente nella canzone “Ragazze di 13 anni”.1 Per me è diventata una tradizione ascoltare tutti gli anni questa canzone con i ragazzi di prima. E ogni anno fra i ragazzi c’è uno spiritoso che alla frase Non ancora donne, sì, cautamente sopra guarda una ragazza un po’ più sviluppata o la indica e dice in classe qualcosa di compromettente. L’anno scorso ce n’è stato uno che ha avuto un approccio ancora più creativo. Durante la canzone era rimasto seduto a leggere il testo sul foglio e, al momento della frase in questione, aveva cantato a squarciagola, guardando sfacciatamente i seni di Tamara, la ragazza che era seduta vicino a lui: “Già abbondantemente donna, con un di sopra importante.” Ma le ragazze di oggi non sono più le ragazze di una volta. Hanno già visto e sentito troppo in tenera età. “Questa resterà sempre una fantasia edipica per te, maniaco del sesso,” gli aveva gridato con la sua bocca grande, e mentre lo diceva, si prendeva con entrambe le mani i seni, in effetti già voluttuosi, e li sollevava un po’ insieme al maglione. Ilarità ovunque. Il ragazzo in questione era figlio 1 È una canzone olandese di Paul van Vliet che tratta la tematica delle adolescenti di 13 anni, non più bambine e non ancora donne.

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di (voglio dire: cresciuto da) una coppia omosessuale, e non mi piace combattere contro i pregiudizi che questo comporta. Non ho detto niente, per non peggiorare la situazione. Le ultime frasi della canzone si sono perse nel brusio. Lonneke aveva dovuto ridere di questo, come tutti, ma in sala insegnanti ho sentito dire da qualcuno più tardi che ha parlato spontaneamente al ragazzo e gli ha chiesto di non prendersi gioco dei seni della ragazza in questione perché aveva già abbastanza problemi a causa del suo aspetto prosperoso. Lonneke è così: intelligente, sensibile, e non può sopportare l’ingiustizia. Quello che Tamara ha là, Lonneke ce l’ha qui. È strano vedere quasi tutti i giorni la sosia del proprio amore giovanile. Certamente se non si è riusciti a dimenticare i sentimenti profondi che si nutriva per lei. Per qualcuno che è come un muro di gomma (così vengono considerati gli insegnanti da alcuni allievi, l’ho sentito dire proprio da loro) è una situazione veramente sgradevole. Già troppe occhiate furtive vengono interpretate male, e le amiche della ragazza in questione costituiscono un sistema di avvertimento da non sottovalutare: più rapidamente di quanto io riesca “in un batter d’occhio” a mandare sms, tutti ne sono già al corrente. Si viene marchiati a fuoco prima ancora di potersene rendere conto. Finché un collega ti prende in disparte con discrezione in un’aula insegnanti vuota, e allora, diventi pallido per la paura quando la notizia arriva anche a te: collega, corre voce che … così e così … sii prudente, non soffiare sul fuoco … la nostra scuola ha sempre goduto di ottima fama, e ancora … soltanto perché tu lo sappia … eccetera. Da quel momento pensi di notare un sospetto in ogni movimento sulla piazza della scuola, in ogni sopracciglio aggrottato sul viso di una ragazza. Improvvisamente gli scherzi che hai sempre fatto sembrano inopportuni, o prove per accuse future. Le pac15


che sulle spalle (quelle letterali) sono diaboliche. Nessun contatto! Il tuo fascino, che prima era tanto apprezzato, sembra che ti si ritorca contro. Visi silenziosi in classe. I tuoi allievi ascoltano attentamente l’argomento della lezione oppure aspettano un lapsus, un possibile passo falso? Risolini soffocati. Ti stai soltanto immaginando tutto? Forse sei un po’ paranoico? La tua autorità, per farla breve, è sparita. Ma non ti fai riconoscere. Non hai niente da nascondere. Quindi soffi sul fuoco. Non nelle classi inferiori, dove le ragazze confondono ancora le loro fantasie con la realtà; nell’ultimo anno del liceo, lì si può. Pensi. “Dal momento in cui la parola ‘sex’ non è più stata scritta con la ‘x’ in olandese, la parola ha perso di colpo lo smalto, la sua mistica. È diventata asessuata. Se le mettiamo una vicina all’altra, perfino un cieco vede la differenza. Sex. Seks. Mentre la prima parla di peli pubici crespi, gemiti ansimanti sotto lenzuola di flanella, la seconda biasima molte di queste qualità. ‘Seks’ è un po’ ibrido, un po’ blando, e non ha niente di quello che rappresentava la sillaba di tre lettere. Sarà questo il motivo? Il numero di lettere? Quelle che da bambini chiamavamo parole sporche erano composte soprattutto da tre lettere. Non che ‘sex’, o la sua variante moderna, siano parole sporche, lungi da tutto ciò. Ma quella quantità minima di lettere evocava proprio il massimo della sfrenatezza. In quelle tre lettere si nascondevano racconti. ‘Sex’ è una biro della mia giovinezza con una foto in bianco e nero di una modella con peli pubici lussureggianti, che spuntavano quando la tenevi a testa in giù; ‘sex’ avviene in privato, dove, nella sua bellezza misteriosa e istintiva, è il motore della nostra felicità e della nostra sopravvivenza. ‘Sex’ ha in sé una promessa, una forza atavica; sentire è sporco, sentire sporco è bello. ‘Sex’ è sexy. ‘Sex’ acquista, se vedi abbastanza spesso la parola, un’autorità superiore al dizionario. ‘Sex’ è semplice. ‘Sex’ è fragile. 16


‘Sex’ è bello. ‘Sex’ è breve. ‘Sex’ è quello che è. Purtroppo anche la parola, grazie ai nostri bravi linguisti, è diventata ex. ‘Sex’ aveva il fattore X. Chi parla inglese fortunatamente se ne rende conto, loro non sono rimasti vittime della furia dei cambiamenti fonetici. Da quando ‘sex’ è scomparso dalla nostra società (ad eccezione forse di parole come ‘paringsexperiment’), la parola è legata un po’ tristemente alle associazioni che il sostituto ‘seks’ risveglia in noi. ‘Seks’ è ovunque su internet e in tv. ‘Seks’ è estremamente noioso.” La maggior parte degli allievi mi guarda in modo un po’ apatico. Si erano immaginati un argomento di lezione molto diverso per quest’ultimo anno, che deve prepararli intensivamente per l’esame finale di letteratura. Non hanno mai sentito così spesso la parola ‘sex’ (o ‘seks’) in classe, e per di più in bocca all’insegnante. Proseguo nella lettura. “È risaputo che ai tempi del duetto televisivo Het Simplisties Verbond la trascrizione fonetica regnava incontrastata. Approssimativamente dalla fine degli anni ’60 fino al periodo della regina Beatrice si incontrava la grafia fonetica qua e là nei testi delle canzoni olandesi famose: ‘kommersjeel’ (invece dell’attuale commercieel), ‘30 sentjens’ (invece dell’ attuale 30 centjes) (il prezzo di un numero del settimanale Hitweek di quel periodo), e sì, anche ‘seks’. Nell’ edizione del 1970 del dizionario olandese Van Dale si trova anche lì con l’annotazione fonetica. Dieci anni dopo, quando io stesso ero in seconda media, imparavamo nelle lezioni di Kramers che bisognava scrivere questa parola con ‘ks’, ma che si poteva scrivere anche con la ‘x’, e tutti la scrivevamo così. E nel dizionario del 1990 regnava la confusione più totale: sexboetiek e sexfilm, ma seksistisch e seksueel. Ah! L’album di debutto senza titolo dei Doe Maar del 1979 utilizzava lo ‘spelling fonetico’, che era molto di moda. Così i gruppi ‘-ct’ e ‘x’ dello spelling ufficiale diventarono 17


‘-ks’: il produttore tal dei tali firmava per la produksie e il tecnico del suono tal dei tali aveva remikst l’album; anche il titolo della loro canzone Karneval apparve scritto come lo si pronuncia (invece adesso si scrive Carnaval); nel loro secondo disco ‘-ks’ dello spelling ufficiale venne ritrasformato per l’occasione in ‘x’ (Nix voor jou), e i segni di interpunzione sostituirono intere parole (De laatste � ×2). Il gruppo era all’avanguardia nella tendenza di utilizzare i numeri come segni di interpunzione: 4us, Sinds 1 dag of 23. Questa tecnica venne impiegata spesso anche da artisti come Prince.” Poso il mio testo sulla cattedra e guardo la classe. Tutti hanno seguito con attenzione quello che ho letto. “Chi conosce ancora qualche altro esempio?” Silenzio. Poi qualcuno alza la mano con esitazione. Annuisco. “Nothing compares 2 U,” si sente dall’ottava fila. Sì, conosco questa canzone. Sollevo il gesso e la scrivo sulla lavagna. Alzate di mano di ragazze. Non aspettano che arrivi il loro turno, dicono: “U’re gonna C me,” “When 2 R in love.” Prince infatti è ancora di gran lunga popolare. Il gesso stride. “Watskeburt?!”4 si impone la voce di un ragazzo. Molto bene, annoto l’esempio. Esempi più sciocchi: c6, b8, r8, 610. La classe detta lo spelling, io scrivo sulla lavagna. Ma la mia trattazione suscita anche domande impreviste in alcuni allievi: “Che cos’è il Simplisties Verbond?”

2 De laatste × � (L’ultima ×) è il titolo di una canzone del gruppo olandese Doe Maar. 3 4us (Virus) è il titolo del quarto album del gruppo olandese Doe Maar, Sinds 1 dag of 2 (Da due giorni) è il titolo di una canzone molto famosa, sempre dei Doe Maar.

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A volte, quando ne ho voglia, mi allontano dal programma della mia materia e faccio simili considerazioni linguistiche in classe. Provo a creare un dibattito, proprio come accadeva fra le colonne di marmo della Grecia ellenistica, con l’intento di disorientare l’atteggiamento comodo e consumistico della maggior parte dei miei allievi. Devono partecipare, pensare insieme a me. In realtà si può fare soltanto nel secondo ciclo delle superiori. Gli allievi del primo anno e dei due anni seguenti non sono ancora pronti per fare questo. Lonneke è un’eccezione in positivo. Ma lei vuole diventare una scrittrice. Me l’ha detto lei stessa poco dopo l’inizio di questo anno scolastico, in uno dei momenti in cui rimane ancora cinque minuti dopo l’ultima ora, e parla con me della lingua e dei suoi libri preferiti; sbattendo le ciglia in modo eloquente. Io, lieto del suo entusiasmo, le avevo detto in una di quelle occasioni che, quando avevo qualche anno più di lei, scrivevo volentieri racconti brevi, perfino poesie. Diventare scrittore non mi era mai venuto in mente, le avevo detto, e allora lei aveva risposto che potevo ancora diventarlo; mi chiedevo se l’avesse detto tanto per dire, oppure se avesse indovinato in un modo o nell’altro che nutrivo simili ambizioni, anzi ancora di più: che a casa avevo messo in un cassetto un manoscritto lasciato a metà, e che il mestiere dello scrittore fluttuava per il momento ancora come eventualità da qualche parte nella mia mente, anche se si era trasformato in un sogno, ancora irrealizzato. Avevo deciso di non approfondire, e le avevo detto che una volta il mio insegnante di letteratura aveva letto in classe uno dei miei racconti, e che poi una compagna si era lasciata sfuggire che avrebbe 4 Watskeburt è una storpiatura dell’espressione olandese “Wat is er gebeurd” = che cosa è successo, usata come titolo dal gruppo rap olandese De Jeugd van Tegenwoordig.

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potuto dire in seguito di essere stata in classe con me, che nel frattempo ero diventato uno scrittore famoso. L’insegnante, poi, mi aveva proposto di battere a macchina nella sua stanza il racconto, per pubblicarlo nel giornale della scuola. Intimidito da tutta quell’attenzione, forse temendo di essere considerato il preferito dell’insegnante, avevo rifiutato cortesemente, anche dopo ripetute insistenze. Così avevo perso la possibilità della mia prima pubblicazione, anche se si trattava soltanto di una pubblicazione di terza categoria su un ciclostile. Lonneke aveva ascoltato con ammirazione il mio racconto, non mi aveva tolto un secondo gli occhi di dosso. E ieri ha lasciato il suo diario in classe, e oggi l’ho sfogliato, seduto sulla mia sedia davanti alla scrivania ordinata. Non l’avessi mai fatto. Adesso vedo improvvisamente Lonneke con occhi molto diversi, mi sono avvicinato troppo; la barriera di osservazione a distanza fra adulto e ragazzo è scomparsa, e sembra perfino che questo abbia influenzato l’immagine che ho cullato per anni dell’amore della mia gioventù, che tanto le somiglia. È successo così. Ieri, ultimo giorno prima delle vacanze, era già evidente all’inizio della lezione che sarebbe stata un’ora agitata. Nelle menti degli allievi della 2a B ardeva il pensiero di una settimana di vacanza. C’era già qualcosa nell’aria quando la classe era entrata. Tirate di capelli, spintoni. Risate. Lonneke, rossa come un peperone, aveva oltrepassato la soglia; in un modo o nell’altro era la causa di tutto il chiasso che la circondava. Il baccano si era placato quando gli alunni erano entrati uno per uno e mi avevano visto seduto dietro la cattedra. C’erano state delle risatine. Avevo iniziato l’ora di lezione con il compito della volta precedente, esercizi di inserimento degli attributi e dei complementi, da correggere in classe. A seguire una parte di storia della letteratura. Avevo riservato gli ultimi venti minuti dell’ora per la discussione del compito di due setti20


mane prima: scrivere una poesia su un argomento a scelta. Chi se la sentiva poteva recitare la sua poesia alla lavagna. Ho guardato la classe. Nessun volontario. “Lonneke!” aveva detto qualcuno. “Nessuno che osi spontaneamente?” avevo chiesto. “Lonneke ha una bella poesia,” aveva detto una delle sue amiche, che soffocava a stento una risata. “Lonneke?” avevo domandato invitante. Era uscita riluttante dal banco, con un foglietto in mano. Era venuta avanti e mi aveva guardato arrossendo. Avevo aspettato che si facesse silenzio in classe. “Prego,” avevo detto. “Eh … Si intitola Sedia dei sogni,” aveva detto lei. Aveva recitato, un po’ tesa, ma la sua voce acquistava gradualmente forza: “Distrattamente sprofondo in una quiete vorticante Riflette soltanto la tua voce Come la risacca mi riavvolge serpeggiante Discesa in un’occhiata tranquilla ti vedo davanti a me I tuoi occhi sfavillano pallottole roventi nel mio cuore Un fuoco tonante che mi batte forte in gola E mentre il sole fumante mi osserva colgo fiori silenziosi soltanto per te Parole silenziose nella mia testa che vagano come brezza d’autunno che non osa soffiare verso di te.” 21


Qualcuno aveva battuto le mani, un ragazzo aveva fatto un fischio con le dita. Diversi compagni avevano battuto le mani. Il resto della classe li aveva seguiti. L’inevitabile ‘uuh!’ era risuonato nella stanza. “Era bella, Lonneke, grazie,” avevo detto. I suoi occhi splendevano. Improvvisamente si erano presentate altre due ragazze, e anche loro avevano recitato la loro poesia. Ma quando la terza era arrivata a metà, l’attenzione della classe era calata, e nonostante il fatto che avessi chiesto ripetutamente di fare silenzio, il mormorio fra i banchi si era trasformato in un baccano insopportabile. Avevo alzato la voce, la declamazione della poesia era selvaggiamente disturbata. Davanti al mio naso, dalla seconda alla terza fila di banchi, e ancora più indietro, qualcosa passava dalle mani che la afferravano alle braccia fulminee, in aria. Lonneke aveva lanciato un urlo di sgomento. Il suo diario! Avevo richiamato all’ordine la truppa e avevo intimato a uno dei ragazzi dell’ultimo banco di restituire l’oggetto. Cinque minuti dopo eravamo ancora allo stesso punto. Per la seconda volta la proprietà di Lonneke passava in mani ingorde, come un bottino di caccia. Lei aveva gridato. L’agenda mi era stata lanciata. Non ne potevo più. Ero venuto avanti, avevo sequestrato il diario e l’avevo messo sulla cattedra. “E questa cosa rimane qui fino alla fine della lezione,” avevo detto. Lonneke aveva delle chiazze rosse sul collo, aveva lo sguardo fisso in avanti. All’improvviso si era spostata dalla sedia senza ulteriori commenti. Con la bocca tremante aveva abbandonato in fretta l’aula. Lacrime? Non era più tornata; alla fine della lezione una delle sue amiche aveva preso lo zaino di Lonneke. Solo quando la classe si era svuotata ed era tornata la calma, avevo visto il diario. Sulla cattedra. Nessuno può avercela con me per averlo preso e messo 22


nella mia cartella, in modo da poterlo restituire a Lonneke dopo le vacanze. Nessuno può avere qualcosa da ridire sul fatto che ho voluto proteggere dagli sguardi dei curiosi questo oggetto così importante per le ragazze, non tanto come diario di scuola quanto come diario privato, specchio dei segreti più intimi. Nessuno avrebbe potuto aspettarsi che avrei ceduto alla tentazione. Nessuno avrebbe potuto sospettare quello che avrei trovato nel suo diario, oltre ai comuni moti dell’animo. Il pomeriggio era appena iniziato. Dopo aver svuotato la mia cartella ero rimasto seduto per un po’ a fissare quello strano diario dai colori vivaci, che soppesavo fra le mani a disagio. Una piuma così comica di una tinta abbinata, che proveniva apparentemente dalle ali di un kiwi o dal petto ostentato di una paradisea, ma un sottoprodotto di una razza di pollame occidentale ornava in maniera estremamente semplice la copertina. A causa dei colpi, il lucchetto rosa di plastica, che aveva una funzione principalmente simbolica, si era rotto. Ho aperto la copertina lucida e ho cominciato a sfogliare le pagine con circospezione. Le pagine non erano affatto diverse dal solito: dati personali, indirizzi di amiche e anche alcuni nomi di ragazzi che avevano avuto la possibilità di confermare la loro esistenza comparendo in questa solenne cronistoria di scuola media, più avanti un orario delle lezioni, pagine piene di curiosità delle celebrità, indirizzi della metropoli e miscugli redazionali di ‘consigli e truchi’ per migliorare il proprio look. Truchi, sì. Anche nei diari scolastici ci sono gli errori, la cosa non mi sorprende neanche più. Le persone che lavorano alla redazione di un prodotto di questo genere appartengono alla generazione che era nei banchi di scuola quando il livello dell’insegnamento era già in calo, quando, ad eccezione di quei maledetti sms ricevuti a ogni piè sospinto, non si leggeva quasi più e 23


non si usava più lo spelling corretto. Comunque esiste sempre il correttore di Word, caro signore. Non è più necessario aver partecipato al quiz linguistico “Tien voor taal” per diventare redattori, e questo è il risultato. Allora, dopo molte altre cose superflue, il diario era già a metà e iniziava finalmente la prima settimana dell’anno scolastico. E la seconda. Compiti annotati in lettere ordinate, da ragazza, scritte con penne di colore diverso. Piano piano, verso la fine di settembre, la calligrafia diventava già un po’ più sciatta, come già sapevo dai compiti in classe del precedente anno scolastico. Il mio interesse era diminuito, quello che rimaneva erano i giorni della settimana non ancora riempiti, la continuazione dell’anno scolastico appena cominciato. Avevo scorso con l’indice il resto delle pagine. Uno spostamento d’aria rarefatta diffondeva un po’ di profumo di penna, di carta di cicca. Certe cose non cambiano mai. In fondo, in uno scomparto seminascosto della copertina posteriore, c’erano dei fogli di carta piegati. Ora si trovano accanto a me sulla mia scrivania accuratamente ordinata, proprio come il diario, e ogni tanto li prendo in mano, come se non credessi a quello che ho appena letto. Perché non deve essere visto da sguardi indiscreti. Sia il racconto, scritto da Lonneke, che quanto ho letto ancora delle sue confidenze, è privato, e io l’ho letto, forse perché mi sono convinto di avere alcuni diritti, come se mi considerassi il mentore della scrittrice in erba, forse perché Lonneke mi fa pensare tanto alla ragazza indimenticabile della mia gioventù. Il racconto non è male. Lonneke ha certamente talento. Ho letto. Rileggo. Il racconto ha dei collegamenti innegabili con la sua vita, anche se la protagonista ha un altro nome. Quando il lillà fiorirà, sta scritto all’inizio della pagina. Il suo racconto narra la ricerca incerta di quasi ogni ado24


lescente, la preparazione all’amore, il grande momento in cui la ragazza sa di essere pronta per ‘la prima volta’. Il titolo è incentrato su una frase della madre nel racconto, che ha fatto un po’ di educazione sessuale alla figlia adolescente durante una serie di discorsi. In uno di questi discorsi ha chiesto con enfasi a sua figlia di usare i contraccettivi quando sarà il momento. La mamma ha comprato una confezione di preservativi, la consegna alla figlia. Le dice che, quando arriverà il momento – “non è necessario che io sappia quando” – vuole che la figlia li usi. Ma la figlia non è preparata a questa apertura della madre, che vuole essere per lei come un’amica, e si rifugia prima in una risata, e poi in uno sguardo imbronciato. La madre prova un’altra strategia. Soltanto l’astinenza è un profilattico più sicuro, dice, ma sa bene che può dimenticarsi di questo. Racconta la propria prima esperienza, quando aveva vent’anni e studiava lettere classiche, la racconta nella tradizione delle Metamorfosi di Ovidio: il poeta classico che prendeva l’ispirazione, fra le altre cose, dalla mitologia greca. Inizia a paragonare l’organo sessuale femminile a un fiore quasi sacro: il bel lillà odoroso, il fiore che già presso i greci era il simbolo dell’innocenza. Della purezza. E dell’amore primaverile, il primo amore. Forse proprio l’amore im-pos-sibi-le, così la voce narrante di Lonneke fa dire alla madre veramente seria nei confronti della figlia spensierata, e poi segue una disquisizione comica, messa in bocca alla figlia, che si burla della metafora ovidiana con la quale la madre la mette in guardia dai pericoli del sesso non sicuro: segue la riproduzione, con le sue parole (e qui Lonneke, giovane scrittrice in erba, esagera un po’), del racconto che la madre preoccupata le ha appena narrato: il mito della meravigliosa ninfa Siringa, che fu inseguita dal dio dei boschi Pan. Lonneke conosce la strada, le strade. Per i giovani tutte le strade portano a Wikipedia. Così: Pan era un caprone arra25


pato e durante uno dei suoi vagabondaggi solitari nella foresta il suo pisello sporgeva rigido come il ramo di un albero in aria. Era sua abitudine saltar fuori all’improvviso e scoparsi la vergine che aveva scelto. Quando Pan un giorno osservò la donna dei suoi sogni, “la ninfa Siringa, che al giorno d’oggi potrebbe essere paragonata alla ragazza più bella della classe”, scrive Lonneke, era perdutamente innamorato. Doveva averla e l’avrebbe avuta. Come era solito fare, era comparso dal nulla, il suo membro già duro, pronto all’attacco, precisamente nel momento in cui la ninfa sognante si specchiava in uno stagno del bosco. Esaltato da quella vista, Pan afferrò il suo membro e disse con voce rauca: “Cara ninfetta, come sei bella!” La ragazza si spaventò, ma si riprese in fretta, era abituata a quel tipo di corte di altri satiri focosi, ma non aveva mai ceduto alle tentazioni del corpo. Avrebbe voluto che lui se ne andasse, perché era troppo brutto per lei, con quelle ghirlande di foglie ricoperte di muschio sulla testa cornuta. E poi quel coso deforme fra le zampe di capro! Ma Pan non voleva far altro che montarla e prepararsi, il seme fuoriusciva già dal suo membro. Pan saltava verso di lei, ma Siringa fu più veloce e scappò dal bosco, finché arrivò ad un fiume. Quando Pan l’aveva quasi raggiunta, torcendosi le mani per il piacere imminente, la vide rimanere ferma sulla riva. Siringa chiese alle ninfe della fonte di renderla invisibile. Proprio in quel momento Pan la afferrò e voleva montarla da dietro, doggy style, così aveva scritto Lonneke per giunta. Ma la supplica di Siringa era già stata ascoltata, e il dio arrapato non aveva tenuto fra le mani le maniglie dell’amore del corpo della sua ninfa prosperosa, ma soltanto un fascio di steli vuoti di canne palustri. Le sorelle dell’acqua avevano salvato la casta Siringa, e l’avevano trasformata in una canna. Pan gridò “cazzo!” e il suo membro infuocato si spense con un sibilo nell’acqua fresca. Sospirò 26


profondamente. Il suo respiro faceva frusciare le canne e il suono era così bello che ne rimase incantato. Interpretò il rumore roco come consenso di Siringa a essere comunque ancora amata da lui. E Pan tagliò la canna, e realizzò per sé uno strumento a fiato formato da canne di diversa lunghezza, sia più corte che più lunghe del suo membro sempre eretto, e soffiava tutto il santo giorno sul suo flauto di canne, per essere sempre circondato dalla voce della sua amata irraggiungibile. Soltanto quando faceva l’amore con una ninfetta voluttuosa che era meno difficile da raggiungere, posava con cautela lo strumento, ma dopo l’atto soffiava ancora come sempre. Nel sonno abbracciava teneramente questo flauto, che fin dall’inizio è stata chiamata ‘siringa’ dai greci. Era l’unica cosa che aveva, l’unica cosa tangibile che gli ricordava la donna dei suoi sogni. Ma dopo questa violenza verbale sarcastica della figlia adolescente, Lonneke fa fare una virata alla sua protagonista, ora più accomodante, in un dialogo successivo con la madre: la figlia accetta il dono che la madre ha per lei. Con un gesto affettuoso, senza emozioni teatrali o scherzi fuori luogo, la madre consegna la confezione alla figlia. “Qui li hai già, cara, per il momento in cui il lillà fiorirà,” dice dolcemente la madre. Il racconto non è male, ho pensato dopo la prima lettura. Anzi, per una ragazza di terza media ritengo che sia molto buono, ma lei non verrà mai a sapere il mio giudizio. Non devo conoscere questo racconto. Dopo averlo letto, ho piegato ancora i fogli uno dentro l’altro sorridendo. Non male, Lonneke. Oppure il carattere furtivo della lettura illecita aveva reso più mite il mio giudizio? Ho letto nuovamente il racconto. Ho provato a ricostruire come la ragazza si era seduta al computer, come si era imbattuta in siti internet pieni di consigli degli orticoltori sui lillà, e aveva trovato il poeta romano su Wikipedia, 27


dove aveva letto che dovette trascorrere in esilio l’ultimo periodo della sua vita, dove era venuta a conoscenza del mito che è opera sua, il mito di Siringa e Pan, la versione greca antica di Ina Damman e Anton Wachter5. La mia capacità di valutazione era confusa. Non ne venivo a capo. Così questo pomeriggio riflettevo su quando avevo letto per la prima volta il racconto nel diario di Lonneke, e così rifletto ancora adesso. In uno degli scatoloni sul pavimento ho trovato il mio vecchio diario, dopo aver cercato per un po’; l’oggetto è in uno stato ancora peggiore della mia cartella, ma ha un valore infinitamente superiore. Qui. Stanno. I. Segreti. Della. Mia. Adolescenza. Sfoglio con circospezione, leggo quello che un tempo ho affidato alla carta, lascio inalterato l’ordine dei fogli staccati. Gli strappi, i bordi ingialliti, le orecchie sui fogli sono sincere e pure, rispecchiano le ferite mai curate del cuore infranto di un ragazzo, un cuore che può essere curato solo lentamente, scrivendo dell’arma con cui quelle ferite sono state inflitte: l’amore.

5 Protagonisti del romanzo olandese Terug tot Ina Damman di Simon Vestdijk (1898-1970), che è incentrato sulla storia di un amore impossibile, in cui il giovane Anton viene respinto da Ina.

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(continua)


Seconda persona singolare È il primo giorno delle vacanze autunnali. Il protagonista, un docente olandese di lettere sulla quarantina, trova il suo diario di adolescente, pieno di osservazioni, dei testi delle canzoni e delle poesie che aveva composto, l’impatto di tre anni che all’epoca erano stati dominati dai suoi sentimenti intensi per una ragazza che non era abbastanza grande per l’amore. A causa della timidezza del ragazzo e della differenza d’età non era successo niente e lei era scomparsa per sempre dalla sua vita. Adesso che legge per la prima volta dopo molti anni le sue osservazioni, riaffiorano i ricordi, più vividi e irruenti che mai. Anche adesso dovrà togliersi dalla testa la musa che già da tempo non è più la ragazza i cui lineamenti continua a vedere davanti a sé. Ma come si fa a liberarsi di un fantasma del passato? E in questo processo qual è il ruolo svolto da Lonneke della 2a B, l’allieva attraente che assomiglia come una goccia d’acqua all’amore giovanile di un tempo? Riflettendo fin nei minimi dettagli sui suoi ricordi di quell’unico amore giovanile irraggiungibile, l’uomo prova a scoprire se tutto quello che ricorda di lei, e che allora ha tanto idealizzato, esercita ancora adesso lo stesso fascino. Si trova di fronte all’effetto che l’età adulta ha sui sentimenti un tempo vissuti in modo così intenso. Questo cambiamento è al centro di Seconda persona singolare. Fred Baggen (1967) ha scritto il suo racconto Seconda persona singolare come ode a quell’ unico grande innamoramento che, se ti capita, può essere veramente un’ossessione, si impone su tutto quello che c’è dentro di te e intorno a te, ed è un sentimento che puoi rimpiangere disperatamente per tutta la vita.


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