partire da zero - grafica sociale e fenomeni migratori

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da zero

partire
grafica sociale e fenomeni migratori francesco paolo incantalupo

RUFA — Rome University of Fine Arts Anno Accademico 2020/2021

Diploma accademico di Primo Livello in Graphic Design

Francesco Paolo Incantalupo Matricola 02131

Relatore Guido Lombardo

Stampa e rilegatura Tipografare, via della Magliana 1098 — 00148 Roma RM

No.

Composto

Work Sans (Wei Huang,

copie 5
in
2015)

partire da zero

sociale e fenomeni

grafica
migratori francesco paolo incantalupo

ai più bisognosi, a chi combatte ogni giorno, a chi ce l'ha fatta e a chi non è arrivato alla fine del viaggio

Indice

introduzione

storia della grafica sociale isotype albe steiner massimo dolcini grafica di pubblica utilità carta del progetto grafico prospettive ed opinioni personali

migratori e accoglienza un mondo pieno di muri il concetto di migrazione nei secoli focus italiano sistema di accoglienza l'importanza delle definizioni intervista a miriam castaldo

al servizio dei migranti casi studio di social design intervista a latte creative studio primi passi a roma un centro a bassa soglia invervista a valentina aquilino

fenomeni
conclusioni 11 15 17 23 31 41 45 49 53 55 61 67 73 77 85 97 99 107 121 125 129 137
introduzione

Il graphic design è una disciplina ampia che abbraccia campi culturali molto diversi tra loro andando a supportare chi ha bisogno di comunicare un messaggio a qualcuno. Nell'immaginario comune la grafica è legata alla pubblicità e alla vendita di prodotti; tuttavia ci sono state correnti di pensiero volte a scardinare questo pregiudizio e grafici che hanno dedicato la loro vita e il loro lavoro alla società e ad enti del terzo settore. Seguendo questa attitudine etica ho voluto realizzare una tesi alla scoperta degli interventi grafici che hanno influenzato la società, dei movimenti internazionali e italiani che hanno preso una posizione riguardo il design, e dei progetti più recenti dedicati al tema delle migrazioni. La ricerca svolta e le interviste fatte con professionisti del settore come antropologi, copywriter, art director e operatori sono state preparatorie alla progettazione strategica delle azioni della cooperativa Civico Zero Onlus. Parte del lavoro svolto per questa tesi verrà utilizzato e sarà d'aiuto agli operatori di Civico Zero per comunicare meglio con gli stranieri minori non accompagnati e con i donatori e gli stakeholder che supportano la cooperativa.

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Questo volume ha al suo interno capitoli diversi tra loro. Il primo e il secondo trattano temi molto differenti: nella prima parte ho cercato di ricostruire la storia della grafica sociale con una lente di ingrandimento sull'Italia e sul straordinario periodo della grafica di pubblica utilità, esempio unico e raro di collaborazione tra comunicazione visiva e amministrazioni comunali. Nel secondo capitolo ho trattato il tema delle migrazioni da più punti di vista: statistico, filosofico, burocratico, professionale. Ritengo questo studio fondamentale per l'acquisizione della giusta sensibilità nell'approccio ad un tema tanto discusso quanto pieno di pregiudizi. Il terzo capitolo introduce la progettazione strategica e l'identità visiva della cooperativa Civico Zero Onlus: ho analizzato diversi progetti e casi studio di social design e approfondito la situazione romana, sia dal punto di vista della comunicazione che da quello degli operatori.

13introduzione

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storia della grafica sociale

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Isotype

Il mondo della segnaletica che ci circonda ogni giorno, così come i sistemi di icone che utilizziamo continuamente sui nostri smartphone, non sarebbero quelli che conosciamo se nei primi anni ’30 non fosse stato inventato il sistema ISOTYPE (International System of Typographic Picture Education). Il contesto storico in cui viene sviluppato questo linguaggio è la Vienna post prima guerra mondiale e si deve la sua nascita ad Otto Neurath, sociologo, economista e filosofo austriaco. Neurath, oltre ad aver studiato matematica e fisica all’Università di Vienna e scienze politiche e statistica all’Università di Berlino, abbraccia sin da subito l’ideale filosofico Marxista e ricopre diversi ruoli politici, a Monaco prima e a Vienna poi. Fonda nel 1924 il Museo della società e dell’economia con lo scopo di istruire ed educare, in materie particolarmente ostiche, la società viennese con un basso grado di alfabetizzazione. Per raggiungere questo scopo fu creato un vero e proprio team di esperti, probabilmente una prima bozza di quello che è un attuale studio grafico, di cui facevano parte sua moglie, Marie Reidemeister, e dal 1929 una figura chiave per la creazione visiva del sistema Isotype, l’illustratore Gerd Arntz. L’abilità di Neurath fu capire che, per aiutare tutte quelle classi sociali che non avevano avuto nessun tipo di istruzione, non era possibile comunicare con parole scritte e stampate, segni incomprensibili per chi non sapeva leggere, ma bisognava ricorrere alle illustrazioni, alle rappresentazioni per immagini. Alla base del pensiero del sociologo austriaco ci sono le discipline della pedagogia visiva e della statistica visuale, fondamenti di una concezione della cultura visiva che rende l’informazione comprensibile a tutti. Le oltre 4000 illustrazioni, o meglio icone, disegnate da Arntz possono essere considerate come un dizionario di simboli riconoscibili paragonabile a quello della parola parlata, ed è un fondamentale mezzo di conoscenza estesa alla società che deve riuscire

17storia della grafica sociale
01 Otto Neurath.
02 Gerd Arntz.
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Un esempio del sistema Isotype ideato da Otto Neurath e sviluppato da Gerd Arntz.

a comprendere e capire i problemi del mondo. L’impatto sulla comunità del linguaggio ISOTYPE è verificato, sostanziale, mette da parte i fronzoli estetici per mettere sullo stesso piano tutti i cittadini di diversificati ceti sociali: l’obiettivo è molto concreto, impegnato e avveniristico se pensiamo che è stato sviluppato tra gli anni venti e gli anni trenta. La semplicità del segno utilizzato, unito al mezzo artigianale della xilografia, ha dato vita ad una rappresentazione adatta a tantissimi campi del design e dell’educazione. Durante lo sviluppo del linguaggio Neurath stesso nota come in realtà abbia sviluppato un modo di comunicare al viaggiatore che, in qualunque paese o parte del mondo si trovi, riesce a capire le informazioni base per affrontare le sue azioni ma, allo stesso tempo, la matrice educativa rende queste rappresentazioni adatte all’insegnamento e all’apprendimento da parte dei bambini; non a caso anni dopo saranno create collaborazioni con case editrici legate all’infanzia.

I principi base del linguaggio ISOTYPE sono semplicità, riconoscibilità e immediatezza, motivo per cui le linee sono più pulite e semplici possibile e si evitano troppi dettagli che ne priverebbero l’utilizzo a piccole dimensioni. I colori utilizzati sono nero, bianco, rosso, blu, giallo, verde e marrone, una tavolozza abbastanza variegata ma che mantiene un grado di distinguibilità tra i vari colori anche

storia della grafica sociale

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04 Il marchio della fondazione Isotype. 05 Alcune icone disegnate da Gerd Arntz. 20

a primo colpo. I livelli di lettura secondo Neurath non devono essere più di tre: il primo deve comunicare tutte le informazioni più importanti dell’oggetto rappresentato; il secondo sguardo percepisce gli elementi meno influenti; il terzo livello richiama i dettagli e non dovrebbe esserci nient’altro da trasmettere all’osservatore. Si può probabilmente affermare che questo tipo di linguaggio anticipasse il concetto di Less is More che qualche anno più tardi vedrà la sua nascita nell’ambito del Design.

Il sistema ISOTYPE vedrà la sua diffusione prima in Olanda, a l’Aia, dove Neurath e Arntz fuggirono nel 1934 a causa della guerra civile Austriaca, e successivamente, nel 1940, ad Oxford. Alcuni assistenti di Neurath porteranno il linguaggio nell’Unione Sovietica e negli Stati Uniti e, anche dopo la morte di Otto, nel 1945, il lavoro della fondazione sarà portato avanti da Marie Neurath fino al 1971. L’anno successivo il sistema di icone progettato da Otl Aicher per le olimpiadi di Monaco del 1972 porrà le sue basi nel sistema ISOTYPE.

21storia della grafica sociale

Albe Steiner

Quando si parla di progetto grafico al servizio della società è impossibile non citare uno dei massimi esponenti italiani: il designer partigiano Albe Steiner. Nato a Milano il 15 novembre del 1913, affronta un’infanzia e un’adolescenza segnate da lutti legati al rapporto di contrasto della sua famiglia con il nazifascismo: ha solo 11 anni quando vive l’assassinio di suo zio Giacomo Matteotti. Dopo aver studiato ragioneria, decide di affrontare da autodidatta la conoscenza del costruttivismo Russo e del Bauhaus e, a soli 20 anni, comincia il suo percorso professionale con una collaborazione con lo Studio Boggeri. Nel 1938 sposa sua moglie Lica con cui aprirà lo studio LAS (Lica Albe Steiner). Durante la seconda guerra mondiale i due coniugi sono in prima linea nella resistenza partigiana milanese per cui stampano e distribuiscono volantini clandestini: durante questo periodo Albe perderà il fratello Mino, internato a Mauthausen, il suocero e due cugini della moglie, durante la strage di ebrei a Meina. Queste esperienze di vita portano Albe Steiner ad elaborare una metodologia e un pensiero del progetto grafico ben radicato: «un buon progettista deve essere una persona colta, consapevole delle condizioni della società in cui opera, capace di percepire le aspirazioni della comunità e all’occorrenza indirizzarle mediante messaggi visivi di chiara comprensione».1 Subito dopo la Liberazione, Steiner, chiamato da Elio Vittorini, diventa grafico e redattore del settimanale di cultura contemporanea Il Politecnico, la cui progettazione visiva prende ispirazione dall’astrattismo europeo e dal costruttivismo sovietico. Il focus del giornale sono i contenuti e le soluzioni grafiche adottate sono assolutamente funzionali alla leggibilità e alla fruizione da parte del lettore. La testata è un carattere bastoni

1 D. Piscitelli, First Things First. Comunicare le emergenze. Il design per una Contemporaneità Fragile, ListLab (2019), p. 52.

23storia della grafica sociale

inserito al negativo su una banda rossa che la rende subito riconoscibile; i filetti neri introduttivi sono utilizzati al meglio per staccare un articolo dall’altro o diversificare le rubriche. Una delle innovazioni assolute apportate da Steiner è l’eliminazione del filo di divisione tra colonna e colonna che, se da un lato trova l’opposizione degli operai tipografi, dall’altra ha un riscontro positivo nella leggibilità degli articoli, tant’è che oggi quasi tutti i giornali adottano

07 Il settimanale Il
Politecnico con la testata e la griglia disegnate da Albe Steiner.
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questa soluzione. Come per i testi, anche le fotografie o le immagini inserite a corredo degli articoli non hanno una funzione puramente estetica ma sono parte integrante dei contenuti e apportano valore alla comprensione.

08 Albe Steiner, manifesto per la Mostra della Ricostruzione (1945). 25storia della grafica sociale

La grafica non può e non deve essere solo estetica ma anche servizio attivo, rigore etico, passione civile.

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Nel 1946 Steiner si trasferisce in Messico dove, assieme all’ex direttore del Bauhaus Hannes Meyer, collabora alla campagna nazionale di alfabetizzazione del Paese e al Taller de Grafica Popular, un’officina culturale fondata da diversi pittori messicani. Arte e grafica sono più che mai fondamentali all’impatto sociale di un’intera nazione. Quando nel 1948 torna a Milano, Steiner avvia un periodo di fitte collaborazioni che spaziano dall’editoria (Einaudi, Feltrinelli, Zanichelli) alle riviste (Domus, Edilizia moderna, Metron), dai giornali, soprattutto di sinistra (l’Unità, Il Contemporaneo, Rinascita, Vie Nuove, Movimento operaio, ecc.), alle aziende (Pirelli, Coop, Olivetti). Negli anni le collaborazioni con gli enti istituzionali come Rai, Piccolo Teatro, la Triennale di Milano, il Teatro Popolare Italiano, Italia ’61 e la Biennale di Venezia hanno portato Steiner a influenzare la cultura visiva della nazione tra gli anni ’50 e gli anni ’60.

La figura di Albe Steiner è stata, però, fondamentale in Italia per la costruzione della professione di Grafico: dal 1950 al 1954 svolge il ruolo di Art Director presso la Rinascente e instaura il premio Compasso d’Oro, maggiore riconoscimento del design di produzione industriale, oggi gestito da ADI, Associazione per il Disegno Industriale, di cui Steiner è socio fondatore. La trasmissione alle nuove generazioni di quello che è il mestiere di Grafico e Art Director è espressa attraverso gli anni di insegnamento che Steiner ha affrontato in molte città d’Italia. La sua visione «con la didattica e con l’idea di fondo che la grafica non potesse e non dovesse essere solo estetica ma anche servizio attivo, rigore etico, passione civile»2 è sviscerata attraverso i suoi insegnamenti, e ne abbiamo prova tangibile nell’identità territoriale della città di Urbino. Partendo dall’araldica del comune marchigiano, Steiner ha asciugato il segno fino a renderlo pulito ed essenziale attraverso un marchio logotipo che riuscisse a trasmettere lo spirito e la storia di quella comunità. Con gli allievi dell’allora Istituto d’Arte di Urbino, poi ISIA, ha progettato i sistemi razionali, gli stampati istituzionali, gli orari degli autobus, la segnaletica pedonale e veicolare, dando una solidità e riconoscibilità unica a tutta l’identità visiva. A pochi anni dalla sua morte, avvenuta nel 1974, Steiner ci lascia in eredità la summa

2 R. Pieracini, F. Bucci – M. Dolcini – G. Sassi. Artigianato e cultura del progetto nella Pesaro degli anni ’60-‘90, Aiap Edizioni (2017), p. 22.

27storia della grafica sociale

della sua filosofia con questo progetto di identità: il designer studia il significato profondo dell’oggetto, lo rielabora in chiave non solo estetica ma soprattutto sociale, e lo riconsegna al fruitore attraverso una forma che porta beneficio alla comunità; e tutto questo ha una chiave educativa poiché sviluppato assieme ai suoi studenti, tra i quali spicca un’altra figura importantissima nel legame tra grafica e società: Massimo Dolcini.

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Albe Steiner, identità urbana di Urbino.

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Dettaglio della segnaletica per gli edifici di interesse culturale.

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Segnaletica

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di pubblici servizi di Urbino. 29storia della grafica sociale

Massimo Dolcini

Figura troppo poco ricordata nell’ambito del design italiano ma che ha dato un contributo notevole al rapporto tra grafica e società è stata quella di Massimo Dolcini, pesarese nato nel 1945. Frequenta e si diploma nel 1969 presso il Corso Superiore di Arte Grafica della Scuola del Libro di Urbino dove è allievo di due maestri come Albe Steiner e Michele Provinciali. Sono anni cruciali in cui, durante il corso di grafica per le città tenuto da Steiner, si comincia a parlare di Grafica di Pubblica Utilità. Proprio alla fine del biennio 1967-1969 viene organizzato un convegno ad Urbino in cui partecipano, oltre alle scuole di design di Roma e Firenze, anche le amministrazioni locali e gli enti pubblici di Marche, Toscana ed Emilia Romagna; ed è proprio qui che Dolcini conosce la giunta pesarese e in particolare l’assessore ai lavori pubblici Giorgio Tornati. Questo incontro sarà fondamentale per la carriera di Dolcini che seguirà la comunicazione del comune di Pesaro dal 1971 al 1991, dando vita ad un rapporto unico nella storia del Graphic Design. All’inizio la collaborazione prevedeva il rifacimento della segnaletica stradale del comune marchigiano ma il sindaco Marcello Stefanini voleva qualcosa di diverso, voleva trovare un modo per parlare alla cittadinanza e tenerla informata di tutti i passi che l’amministrazione avrebbe compiuto. Non fu affidata la comunicazione ad un ufficio interno ma ad un collaboratore esterno nella persona di Dolcini che, dalla sua, impose alcune condizioni: «produrre una grafica semplice, che sollecitasse le emozioni, che parlasse della città e fosse contemporaneamente coordinata e costante nelle sue uscite. Era inoltre indispensabile che la gestione della comunicazione fosse concentrata nelle mani di chi decideva, cioè del sindaco, e non delegata a un ufficio tecnico separato»3.

3 R. Pieracini, F. Bucci – M. Dolcini – G. Sassi. Artigianato e cultura del progetto nella Pesaro degli anni ’60-‘90, Aiap Edizioni (2017), p. 151.

31storia della grafica sociale

Questo tipo di impegno presupponeva l’uscita ogni 15 giorni di svariati manifesti e locandine e, per supportare tale mole di stampa, fu allestita una tipografia all’avanguardia all’interno del Comune di Pesaro, oltre ad essere agevolata l’apertura di una serigrafia esterna. Il giornale comunale fu prodotto sempre all’interno del Centro Stampa per avere tempi di diffusione rapidissimi, grazie anche al lavoro dell’ufficio stampa coordinato dal direttore Alberto Ridolfi. Dolcini amava definirsi grafico condotto proprio perché come un medico di base con i suoi pazienti era sempre disponibile e presente nel recepire i messaggi dell’amministrazione e tradurli in comunicazione verso la cittadinanza. L’eccezionalità dell’esperienza Pesarese è dovuta, secondo Dolcini, al rispetto di alcune condizioni: «una città di medie dimensioni governata dalla sinistra, un grafico qualificato e un gruppo politico dirigente intelligente e colto che avesse, più che fiducia,

12 Massimo
Dolcini all'Isia di Urbino nel 1977.
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manifesto per la Camminata della Pace (1980).

necessità della comunicazione. E tanta energia»4. L’abilità di Dolcini sta anche nel modo in cui tratta ogni argomento, che sia politico, sociale o culturale, e nella velata ironia che restituisce nei suoi manifesti. L’illustrazione, spesso utilizzata, gli permetteva di unire campi semantici differenti

4 R. Pieracini, F. Bucci – M. Dolcini – G. Sassi. Artigianato e cultura del progetto nella Pesaro degli anni ’60-‘90, Aiap Edizioni (2017), p. 151.

13 Massimo Dolcini,
33storia della grafica sociale
14 Massimo Dolcini, alcuni manifesti realizzati per il Comune di Pesaro 34

e creare, attraverso le figure retoriche, manifesti che fossero comprensibili a chiunque. Il tratto “grasso” e i caratteri tipografici utilizzati rendevano subito riconoscibili le affissioni che facevano riferimento alla comunicazione del Comune di Pesaro, ed erano talmente tanto apprezzati che quasi si era instillata nella cittadinanza la trepidante attesa per ogni nuova uscita, al punto che qualche pesarese cominciò anche a collezionare i manifesti comunali.

Questo primo, e probabilmente unico, esempio di Grafica di Pubblica Utilità, durato circa 20 anni, ha la sua celebrazione più grande nelle tre mostre allestite al Beaubourg di Parigi nel febbraio/marzo 1988 dal nome Images d’Utilité Publique. Nel 1989 Dolcini sarà chiamato dall’istituzione governativa Francese ARTIS 89 e dal collettivo francese Grapus a partecipare con un suo manifesto alla mostra Pour les droits de l’homme. Historie(s) Image(s) Parole(s), allestita per la commemorazione del Bicentenario della Rivoluzione Francese. Tra il 1991 e il 1993, sarà invitato a presentare, assieme all’assessore Gianfranco Mariotti, 20 anni di esperienza pesarese nel contesto del convegno Le signe et la citoyenneté, svolto nel Palais de Tokyo di Parigi oltre a diverse mostre in paesi internazionali come Ungheria, Finlandia e Giappone.

35storia della grafica sociale

dedicata a Massimo Dolcini nella sua Pesaro per i 30 anni del manifesto

diritto di Essere Deboli (2019).

Manifesti prodotti da Massimo Dolcini per il Comune di Pesaro tra il 1971 e il 1991.

15 Mostra
Il
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L’eredità di Albe Steiner è molto forte in Massimo Dolcini, motivo per cui il suo lavoro di grafico si è sempre intrecciato e ha avuto un legame indissolubile con la cifra sociale e politica, l’ideologia della professione slegata dalla pubblicità e unita allo scopo della partecipazione del fruitore. Oltre al Comune di Pesaro il suo studio Fuorischema, aperto in collaborazione con gli exallievi Jole Bortoli e Mauro Filippini nel 1973, ha avuto tanti committenti sempre legati al partito Comunista o ad istituzioni pubbliche per cui hanno prodotto manifesti, locandine, identità e soprattutto veste grafica di giornali. Alcuni esempi sono i lavori fatti per CNA dell'Emilia Romagna, Rossini Opera Festival, Triennale di Milano, Riccione TTVV, Fondazione Scavolini, Festival di Santarcangelo, Festival Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Sagra Musicale Malatestiana di Rimini, Università di Siena, il giornale Tazebao per Avanguardia Operaia, FLM – Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici di Pesaro. Importante è la collaborazione con Gianni Sassi per la prima serie del periodico La Gola, dove si parlava di cultura materiale, tra i primi a trattare il viaggio enogastronomico e a dare valore intellettuale al cibo. Assieme a Marta Alessandri e Franco Panzini crea Umus (Maggioli Editore), un bimestrale che aveva come target la pubblica amministrazione e in particolare il settore culturale. Sempre con Marta Alessandri fonda nel 1989 la casa editrice APSA, con lo scopo di pubblicare riviste, saggi, cataloghi di mostre, ricerche storiche e storico artistiche. Dolcini è anche art director del mensile della cooperazione italiana con i paesi in via di sviluppo, chiamato appunto Cooperazione (Ministero degli Esteri).

Dolcini, dopo aver concluso gli studi, insegnerà all’Accademia di Belle Arti prima, e all’ISIA poi, Fotografia, Grafica e Sistemi Grafici, fino al 2005, anno della sua morte. Quello che Dolcini ha lasciato in eredità alla Grafica Italiana è un ruolo di apripista nel rapporto con le amministrazioni, gli enti e i cittadini, una filosofia del mestiere di grafico in simbiosi coi propri ideali e una produzione smisurata di lavori che hanno ispirato e continuano ad ispirare tante generazioni di nuovi art director.

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Una città di medie dimensioni governata dalla sinistra, un grafico qualificato e un gruppo politico dirigente intelligente e colto che avesse, più che fiducia, necessità della comunicazione.
E tanta energia.
[Massimo
Dolcini]
39storia della grafica sociale

Copertina del catalogo della Prima Biennale della Grafica di Cattolica (1984). 18 Pagina a fianco. Allestimenti della Biennale a cura di Gaddo Morpurgo.

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Grafica di Pubblica Utilità

Come visto in precedenza Albe Steiner è il primo in Italia a teorizzare il concetto di Grafica di Pubblica Utilità e Massimo Dolcini, grazie all’esperienza pesarese che va dal 1971 al 1991, è uno dei maggiori esponenti di questa filosofia di progetto. Ci sono state, però, in Italia tante realtà che hanno portato avanti gli stessi principi e hanno contribuito a diffondere una cultura del graphic design finalizzato alla partecipazione del fruitore e al coinvolgimento della società. La nascita di questo movimento è stata agevolata sicuramente dal clima culturale degli anni settanta e ottanta in cui c’era richiesta da parte dei cittadini di coinvolgimento all’interno delle decisioni prese dalle amministrazioni. L’etimologia stessa definisce questa volontà e, se nella parola pubblica si rispecchia sia il committente (spesso amministrazioni comunali, partiti politici, istituzioni ed enti) che il destinatario (cittadini e militanti), nel termine utilità vi è tutta la predisposizione etica del miglior modo per trasmettere l’informazione e favorirne l’apprensione a qualunque livello sociale e culturale. Il medium erano spesso linguaggi visivi semplici e diretti, svuotati dalla retorica persuasiva della pubblicità commerciale. A partire dal 1974 si tengono, soprattutto all’interno di università e scuole, una serie di convegni, dibattiti, mostre, esibizioni e seminari che alimentano la volontà di fare il mestiere di grafico senza per forza passare dal campo pubblicitario.

41storia della grafica sociale

Questo gruppo di grafici e studiosi si estende per tutta Italia e sono esempi di maggior importanza le esperienze di Aosta con Franco Balan, Pesaro con Massimo Dolcini, Milano con Giovanni Anceschi, Gianni Sassi e Roberto Pieraccini, Torino con Armando Ceste, Paolo De Robertis e Gianfranco Torri, Venezia con Gaddo Morpurgo, Gianluigi Pescolderung e Enrico Camplani, Modena con Elisabetta Ognibene e Filippo Partesotti, Firenze con Andrea Rauch, Salerno con Gelsomino D’Ambrosio e Pino Grimaldi e Ravenna con Massimo Casamenti. Tra le varie mostre svolte si ricordano nel 1985, La città allo specchio a Pesaro e Progetto Grafico a Roma; nel 1987 Urbano Visuale a Ravenna; nel 1989 Manuali creativi a Roma; nel 1990 Manifesti di una città mediterranea a Matera. Una delle più importanti fu però La Prima Biennale della Grafica, svolta a Cattolica nel 1984. Nell’intenzione degli organizzatori c’era il desiderio di creare un appuntamento fisso che fosse un momento di riflessione e di raccolta della produzione che ruotava attorno alla Grafica di Pubblica Utilità. I protagonisti principali di quell’esposizione furono Franco Balan, che tra tutti era colui che da più tempo produceva manifesti legati al territorio e alla cultura, e l’equipe Grapus, collettivo francese fondato nel 1970 da Pierre Bernard, François Miehe e Gérard Paris-Clavel, con forti inclinazioni di sinistra e committenze legate a cause educative e istituzioni sociali, teatri sperimentali e amministrazioni progressiste, oltre al partito comunista.

La stagione della grafica di pubblica utilità vede il suo declino alla fine degli anni ottanta e lascia, come ultimo contributo al dibattito sulla comunicazione visiva, una dichiarazione d’intenti che viene riassunta nella Carta del Progetto Grafico stilata il 24 giugno 1989, ad Aosta, in occasione della preassemblea nazionale Aiap, Associazione Italiana Design della Comunicazione Visiva.

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collettivo

collettivo

19 Pierre Bernard fondatore del
Grapus. 20 Alcuni manifesti del
Grapus. 43storia della grafica sociale
21 Carta del Progetto Grafico. 44

Carta del Progetto Grafico

Verso la fine degli anni ottanta la grafica italiana vive anni di fermento: se nel 1978 Steiner pubblica il volume Il mestiere del grafico come rivendicazione di una professione che lui per primo ha contribuito a far riconoscere in Italia, nel 1989, dopo due decenni di convegni, seminari e mostre riguardo la grafica di pubblica utilità, il movimento creatosi ha sentito la necessità di sottoscrivere quello che rappresenta un manifesto programmatico della comunicazione visiva fino a quel momento e nella sua prospettiva futura. Durante la preassemblea nazionale Aiap del 24 giugno 1989 un gruppo di cosiddetti estensori (Giovanni Anceschi, Giovanni Baule, Gelsomino D’Ambrosio, Pino Grimaldi, Giancarlo Iliprandi, Giovanni Lussu, Alberto Marangoni, Gianfranco Torri) ha affidato la redazione della Carta ad un comitato formato da Giovanni Anceschi, Giovanni Baule e Gianfranco Torri. Presentata il 27 novembre 1989, presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, la Carta è un documento di 7 articoli che cerca di mettere in risalto due concetti fondamentali: «da un lato la necessità di istruire dei percorsi formativi istituzionali e formalizzati all’interno dei quali formare coscienze consapevoli di progettisti calati in una più ampia cultura del progetto, e in grado di tradurre le culture della professione in culture dell’agire responsabile, e dall’altro lato il ruolo politico di quella Carta indicava la grafica come un'attività da collocare dentro al sistema generale della progettualità orientata alle necessità dell’uomo e, per tale motivo, rivendicava la responsabilità del progettista e il principio della centralità dell’utente»5. L’intenzione degli autori è stata anche quella di produrre un atto fondativo aperto e questo si evince nel sottotitolo stesso, Tesi per un dibattito sul progetto della comunicazione, che presuppone

5 D. Piscitelli, First Things First. Comunicare le emergenze. Il design per una Contemporaneità Fragile, ListLab (2019), p. 54.

45storia della grafica sociale
22 Giovanni Anceschi, tra i redattori della Carta. 23 Una mostra sulla Carta tenuta a Catania nel 2014. 46

l’esigenza di trarre le conclusioni degli incontri fatti durante gli anni, ma anche la volontà di aprire un dibattito pubblico ed estendere la discussione.

Nel primo articolo si prende atto del fatto che la grafica sia più che mai figlia della contemporaneità e elemento imprescindibile per la comunicazione dell’informazione, ma allo stesso tempo inizia a delinearsi nel panorama italiano un grande inquinamento visivo e molta saturazione comunicativa. Si continua nell’articolo due ad affermare che il progetto grafico ha la capacità di conferire esistenza alle strutture della società ed è elemento centrale, interfaccia amica della quotidianità delle persone. Infatti, nell’articolo successivo, la grafica è elevata al pari di discipline come l’urbanistica, l’architettura, il design industriale e il disegno ambientale con cui interagisce nei sistemi, nelle iconografie e nell’uso della parola scritta. L’articolo quattro è uno dei più importanti e assegna alla grafica il ruolo guida delle discipline del progetto negli anni novanta, così come l’architettura lo è stata negli anni trenta e il design industriale negli anni sessanta. L’articolo cinque, oltre a indagare i diversi settori creativi in cui agisce il progetto grafico e a restituirne unità professionale, apre il dibattito sulla mancanza istituzionale e formativa del sistema universitario italiano cercando di tracciare e consigliare quale debba essere l’iter da percorrere per le facoltà dedicate al progetto di comunicazione. Nell’articolo sei si sottolinea la dimensione etica della Carta e la responsabilità del progettista grafico nei confronti dell’utenza, impegno e devozione nei confronti dell’agire dentro i sistemi che producono degli standard e che devono essere qualitativamente adeguati alla società in cui viviamo. Conclude l’articolo sette con una dichiarazione di impegno sia sul versante sociale che presso la committenza, con la presa in carico di un calendario di iniziative di divulgazione e l’espansione della filosofia della Carta oltre i confini nazionali.

sociale

47storia della grafica

25 Il manifesto first things first del 1963.

24 Ken Garland
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Prospettive ed opinioni personali

Nel panorama internazionale e nella storia del design ci sono stati altri movimenti e altri manifesti che hanno provato a smuovere l’opinione pubblica e hanno avuto l’utopia di cambiare il mondo. Ken Garland, graphic designer inglese, nel 1963 scrive il manifesto First Things First in cui, per la prima volta nella storia, si sottolinea il ruolo sociale e pubblico del grafico. In una società all’apice del boom economico in cui i pubblicitari cercano di vendere qualunque cosa con l’arte della persuasione, 22 grafici in tutto il mondo sottoscrivono il documento per distinguersi ed affermare il valore etico e professionale di un lavoro che è dedicato alle persone e alle attività pubbliche e culturali. La comunicazione richiede una funzione di utilità con attenzione a quelle che sono le priorità assolute, i bisogni e le necessità dell’utente; «è la richiesta di divorzio tra chi progetta prevalentemente per la comunicazione commerciale e chi si ritaglia uno spazio all’interno della comunicazione pubblica»6. Nel 2000 lo stesso manifesto fu ripreso e rilanciato da Adbusters, magazine canadese molto attento alle tematiche sociali, con la partecipazione di 33 progettisti, tra cui spiccano le firme di Milton Glaser, Steven Heller ed Erik Spiekermann. Nel 1987 i fratelli Guzzini promuovono il manifesto Design Memorandum, dall’etica del progetto al progetto dell’etica, per i 75 anni della fondazione. Un gruppo di studiosi e teorici del design, affrontò la tematica dell’etica del design nell’era industriale arrivando all’obiettivo di dare coscienza critica al progetto poiché specchio della società e della cultura in cui si trova. In particolare furono tre i principi su cui ruotava la narrazione: cultura dell’ambiente, come responsabilità dell’uomo sugli effetti che le sue azioni producono alla terra, cultura della pace, come interventi con attenzione alla collettività e al rispetto e tolleranza

6 D. Piscitelli, First Things First. Comunicare le emergenze. Il design per una Contemporaneità Fragile, ListLab (2019), p. 53.

49storia della grafica sociale

di ogni specie, cultura del rispetto, ovvero onorare i diritti e i doveri dell’uomo e la trasparenza di informazioni su tutto quello che concerne la vita. Col passare degli anni la società si è evoluta sempre più e i problemi legati alla globalizzazione sono emersi con prepotenza. È per questo che nel 2017 la Montréal Design Declaration si prefigge obiettivi in linea coi tempi moderni, con la consapevolezza che il design ha un ruolo da protagonista nelle sfide sociali, ambientali, culturali ed economiche che interessano il nostro pianeta. A differenza dei precedenti manifesti, si capisce l’importanza di coinvolgere e sottoscrivere un documento con le istituzioni stesse affinché la collaborazione avvenga sin dal principio. Durante il World Design Summit del 24 ottobre 2017, ben 700 tra Università, Associazioni, Organismi Internazionali, ONG, e diverse organizzazioni governative provenienti da 89 paesi del mondo, tra cui Unesco, Un-Habitat e Un-Environment, hanno sottoscritto la Dichiarazione con l’intento di sviluppare una Agenda Mondiale del Design affinché il design stesso venga riconosciuto come agente di cambiamento, motore di sviluppo e strumento di modellazione del mondo. Oggi, nel 2022, a fronte di una pandemia che dura da circa due anni, la riflessione sul legame tra grafica e società è diventata ancor più necessaria e urgente. Tutti i manifesti, e in particolare la carta del progetto grafico, sono documenti che hanno raccolto importanti testimonianze da parte di professionisti e addetti ai lavori nella devozione della grafica all’etica e agli ideali di chi la pratica e, allo stesso tempo, sono stati fondamentali per rivendicare la posizione sociale del graphic designer. Soprattutto in Italia, sono serviti a rendere l’offerta formativa universitaria più costruita e al livello di altre discipline storiche. Probabilmente non si è riusciti a comprendere a pieno come si sarebbe evoluta la società dopo venti o trent’anni. La comunicazione, attraverso i social media, è diventata davvero alla portata di tutti ed è alquanto utopico pensare di cambiare attraverso il progetto grafico le sorti del mondo. Il clima politico attuale è molto diverso rispetto a quello degli anni settanta/ottanta e la classe dirigente non sembra essere così interessata alla partecipazione della cittadinanza, talmente è satura di commenti sulle varie bacheche dei social network.

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Qual è quindi il ruolo del designer etico e impegnato nel 2022?

L’idea di una tesi che non fosse l’ennesimo esercizio di stile dimenticato nella biblioteca universitaria o nella libreria domestica ma che potesse essere utile ai più deboli è sorta proprio durante il primo lockdown di marzo 2020, dovuto alla diffusione del coronavirus. Per assurdo, in un’Italia particolarmente colpita da due mesi di chiusura forzata, si è respirato un sentimento di coesione collettiva come mai nei decenni precedenti: ci si interrogava tutti su cosa si potesse fare per dare il proprio piccolo contributo in una situazione di estrema emergenza. È stato in quel momento che è nato in me il desiderio di aiutare attraverso il progetto grafico gli ultimi, gli invisibili, coloro che non sono privilegiati. Con l’ascesa dei partiti di estrema destra in Europa, compresa l’Italia, il clima di odio e paura verso gli immigrati è cresciuto a dismisura. Persone che hanno affrontato viaggi della speranza attraverso il mare o attraverso i cosiddetti corridoi umanitari si vedono respinte alle porte della “moderna” Europa, trattate come numeri o come invasori portatori di malattie. La crescente globalizzazione e la recente pandemia hanno portato a galla tutte le debolezze della nostra società: è giunto il momento di pensare come un unico organismo collettivo, come un’unica famiglia in cui tutti devono darsi una mano per creare le condizioni necessarie al prosieguo della vita su questo pianeta.

Sarà compito delle nuove generazioni ereditare un mondo malato e guarirlo dalle ferite subite. Sarà compito dei designer comunicare al meglio con la società in questo periodo di presa di coscienza collettiva.

51storia della grafica sociale

fenomeni migratori e accoglienza

53fenomeni migratori e accoglienza
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Un mondo pieno di muri

Da quando l’uomo è comparso sulla terra le migrazioni umane sono sempre state frequenti e necessarie. Sono molte le motivazioni che spingono un determinato gruppo di persone a spostarsi da un luogo all’altro e, spesso, le ragioni di un cambiamento così drastico sono determinate da dinamiche esterne alla volontà di quell’individuo. Negli ultimi anni abbiamo assistito, a più riprese, a momenti di esodo da parte di popolazioni dell’Africa e dell’Asia che, a causa di guerre, povertà e disastri climatici, hanno tentato in ogni modo la traversata verso l’Europa, faro di speranza e di migliori condizioni di vita. Nel 2001, a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle, il governo Americano, sotto la presidenza di G.W. Bush, ha cominciato una ventennale guerra in Afghanistan che, dopo poco tempo, ha portato quantità enormi di popolazione a migrare verso terre più tranquille e con prospettive future più adeguate. Nel 2010, la primavera araba ha contribuito a rimescolare gli equilibri di tutto il Nord Africa, dando vita a nuovi governi e andando a creare dinamiche internazionali nuove. In particolare la Siria ha avviato un processo di trasformazioni e cambiamenti che ha portato ad una guerra civile interna, con Russia e Stati Uniti ad appoggiare fazioni opposte: proprio per questo motivo, nel 2015, l’Europa ha subito una delle più grandi ondate migratorie nel corso della sua storia. In un clima di emergenza così alto, però, l’accoglienza non è stata la prima risposta, anzi, grazie ad accordi con la Turchia, sono stati completamente bloccati i corridoi umanitari che passavano attraverso i Balcani. Il popolo Siriano, in stato di povertà e disperazione, ha tentato in tutti i modi di raggiungere le vicine isole Greche, soprattutto via mare, e questo ha creato decine di vittime inghiottite dalle onde. Molte altre sono le situazioni di instabilità che, al momento, creano migrazioni di massa: in Somalia ed Eritrea le continue persecuzioni da parte di dittature

55fenomeni migratori e accoglienza

Murale a Francoforte sul Meno, in Germania, dedicato al piccolo Alan Kurdi, morto durante una traversata.

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conflitti interni costringono una buona parte della popolazione a fuggire. In Venezuela la recente crisi umanitaria sta devastando il paese e si sta creando un flusso che nei prossimi anni potrebbe superare quello siriano: in particolare i venezuelani cercano salvezza in Colombia, Trinidad e Tobago e Perù, trovando sempre più spesso confini militarizzati e città inospitali. A Myanmar, o Birmania, l’attuale governo ha creato delle condizioni di oppressione e persecuzione che costringe più di cinquecentomila Rohingya, gruppo di fede musulmana tra i più poveri del paese, a fuggire in Bangladesh o ad ammassarsi nei campi rifugiati, spesso colpiti da incendi e alluvioni e in cui la situazione umanitaria è altamente precaria.

Nel 2021 le migrazioni hanno subito un leggero calo, soprattutto dovuto alla pandemia da Covid-19 che ha prodotto una serie di restrizioni in tutto il mondo e aumentato le difficoltà di passaggio da una nazione all’altra. Molte sono le difficoltà, sia per uscire dal proprio paese che per rientrare, così come ottenere un permesso di soggiorno non potendo avere accesso alle vaccinazioni del paese ospitante. Ancora oggi, nonostante questo, il numero di persone che si spostano da un luogo all’altro è una percentuale che può sembrare piccola, ovvero solo il 3,6%, ma che rapportato alla popolazione mondiale significa 281 milioni di esseri umani che per i motivi più disparati lasciano il proprio posto d’origine, contribuendo ad un processo di globalizzazione senza precedenti. Quella che spesso viene chiamata emergenza dai media nazionali ed internazionali, è diventata col tempo la normalità e, i paesi più potenti, hanno visto in questi anni prolificare partiti di estrema destra che, cavalcando l’onda mediatica, hanno sfruttato la paura del migrante per raccogliere consensi e porsi in posizioni decisionali all’interno delle amministrazioni statali. Uno dei casi più eclatanti è stata sicuramente l’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti d’America che, come obiettivo primario della sua campagna elettorale, ha dichiarato di voler rafforzare e costruire nuove porzioni del muro al confine tra Stati Uniti e Messico. Ma i muri nell’ultimo periodo si ergono un po’ in tutto il mondo e soprattutto nell’Europa Orientale, da Nord a Sud: Estonia, Lettonia e Lituania separano il loro territorio da quello russo, Orbàn in Ungheria ha fatto costruire un muro lungo

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175 km al confine con la Serbia, seguito da Macedonia, Austria e Slovenia, la Grecia con la sua barriera di 40 km al confine con la Turchia per evitare gli episodi avvenuti nel 2015 e Erdoğan stesso, presidente della nazione turca, ha predisposto la costruzione di un muro lungo 295 km al confine con Iran e Iraq.

Insomma siamo nel 2022 e, a più di 30 anni dalla caduta del muro di Berlino, la situazione è nettamente peggiorata: la popolazione mondiale è sempre più divisa da barriere fisiche ma anche sociali. E pensare che se andassimo a vedere le vite dei nostri antenati, quasi sicuramente siamo qui e adesso a causa, o grazie, ad una migrazione.

281 milioni di migranti nel 2021 ↓ 3,6% della popolazione mondiale

59fenomeni migratori e accoglienza

Il concetto di migrazione nei secoli

C’è stato un momento nella storia dell’umanità in cui si è sentita la necessità di proclamare un diritto alla migrazione. I dibattiti riguardo il tema sono cominciati con l’età moderna e con la conquista delle Americhe da parte degli Spagnoli. Come giustificare le barbarie e l’invasione di terre occupate da altre culture e metterle in accordo con la morale cristiana? In questo contesto, nel 1493, il papa Alessandro VI, Rodrigo Borgia, emana la bolla Inter coetera divinae dove, grazie alla “pienezza del potere apostolico”, concede il possesso delle terre non ancora scoperte, a partire dal meridiano a Ovest delle Azzorre, ai re di Castiglia. Quest’azione suscita sgomento soprattutto tra i sovrani cattolici; del resto i conquistadores stessi definivano gli indios in maniera contradditoria: in alcuni casi come bestie sanguinarie e in altri come persone disposte al dialogo e alla socializzazione.

Il 27 gennaio 1512 il re di Spagna convoca una giunta a Burgos dove teologi, filosofi e frati cominciano a dibattere su quella che sarà una disputa lunga più di un secolo. Che ne è della morale cristiana in rapporto alla schiavitù? Che ne è del diritto allo spostamento e al passaggio? Come stabilire delle leggi per qualcosa di intangibile come il mare? Dopo anni di invasioni, genocidi e schiavitù, attraverso la grande menzogna del diritto all’ospitalità e allo jus migrandi, gli europei ammettono di aver utilizzato questi come alibi per sottomettere gli indios. Cambia l’idea di ospitalità che, se per gli antichi era sacra e inviolabile, nell’Europa di fine ‘600 diventa un favore elargito dal sovrano. Nel 1795, il filosofo tedesco Immanuel Kant pubblica il saggio Per la pace perpetua in cui, in alcune pagine, affronta il tema dell’ospitalità e dell’accoglienza.

Per la prima volta nella storia il punto di vista è quello dello straniero a cui viene riconosciuto il diritto di ospitalità in un paese estraneo senza esser per forza visto come nemico.

61fenomeni migratori e accoglienza

Chiunque nel mondo sferico e limitato deve trovare il suo posto senza esser ritenuto ostile. La pace perpetua non predica né amore, né odio per lo straniero ma piuttosto rispetto, affinché le stragi come il genocidio dei nativi americani da parte dei conquistadores non abbiano più luogo. Ma se da un lato l’apertura di Kant è lodevole e innovativa, dall’altro il filosofo tedesco non riconosce allo straniero il diritto di residenza, ovvero il tempo di stallo in una nazione diversa deve essere limitato e non c’è possibilità di essere coinquilini nella stessa casa, se non per diversa decisione del sovrano. Un secolo dopo, invece, c’è una nazione che accoglie, senza troppi fronzoli, tutti quei disperati e senza dimora

27 Immanuel Kant in un ritratto di Johann
Gottlieb
Becker (1768). 62

alla ricerca di un posto dove stare sulla terra. Gli Stati Uniti, infatti, rappresentavano, tra il 1870 e il 1920, la speranza di una vita più agiata, di un posto dove trovar fortuna e, non a caso, molti Italiani sono emigrati in quel periodo nel Nuovo Mondo. I primi passi per cercare di gestire questo gran flusso di persone furono fatti nel 1892 con l’inaugurazione del centro di smistamento di Ellis Island. Migliaia di persone arrivavano estenuate dopo giorni di viaggio sui transatlantici e, dopo aver visto la Statua della Libertà, diventata icona di speranza per i poveri del Vecchio Continente, sbarcavano sull’isola per procedere al riconoscimento: ventinove domande a bruciapelo che potevano segnare l’ingresso negli Stati Uniti e la nuova vita dopo qualche ora, o giorni e mesi di controlli prima dell’accertata cittadinanza o del rimpatrio. C’è da dire che solo il 2% veniva respinto e che, chi riusciva a calpestare il suolo newyorkese si trovava spesso in condizioni molto precarie, tra lavori di 15 ore in fabbrica e infrastrutture non ancora adeguate al gran numero di persone in entrata. Pian piano il governo federale cominciò a stabilire delle misure restrittive al limite del razzismo. Nell’Immigration Act del 1917 si etichetta come “indesiderabili” omosessuali, anarchici e pazzi, oltre agli asiatici che già da qualche decennio prima erano messi al bando. Nel 1924, invece, con il National Origin Act si limita l’immigrazione dai paesi dell’Europa orientale e meridionale e, quindi, anche agli Italiani. Così, gli USA, che in meno di un secolo avevano quadruplicato i loro cittadini, chiudono le frontiere alla maggior parte della popolazione mondiale. Che ne è della Costituzione americana che dichiara che tutti dovrebbero essere uguali? La memoria dei primi arrivati sulle coste del Nuovo Mondo è svanita dalle menti di coloro nati sul suolo statunitense e che con quella nascita hanno pensato di aver acquisito il diritto di scegliere a chi “donare” la cittadinanza americana. Si ripropone così l’ordine statocentrico che da anni era la norma in Europa. Gli avvenimenti dei primi anni del Novecento pongono sempre più insistentemente l’attenzione sulla migrazione, a causa di paesi Europei e non governati da dittature da cui le persone, ridotte in condizioni di povertà estrema, fuggivano senza pensarci due volte. Tuttavia, solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, il 28 luglio 1951, viene stipulata la Convenzione di Ginevra che, a differenza di tutti i provvedimenti presi in precedenza, mette al centro

63fenomeni migratori e accoglienza
28 Firma della Convenzione di Ginevra (1951).

dell’attenzione il singolo individuo e non un intero gruppo etnico; infatti si riconosce lo status di “rifugiato” a tutti coloro che temono persecuzioni nella loro nazione d’origine e che per questo sono impossibilitati nel ritornarvi. Sebbene sia stato fatto un passo in avanti sul concetto di accoglienza resta di grande ambiguità il significato della parola persecuzione, anzi si crea una distinzione considerevole e si tende a guardare con occhi sospettosi chi scappa dal proprio paese per necessità economiche e di povertà. Si creano così dei migranti di serie A, che sono perlopiù coloro che provengono dall’est Europa, e migranti di serie B, che sono coloro provenienti da Africa e Paesi Arabi. Si instilla piano piano nelle teste dei cittadini Europei la paura del diverso, con governi sempre più legati alle ideologie di estrema destra, che ricevono sempre più consensi e attuano politiche che denigrano i migranti del nuovo millennio. Ancora oggi, quando si parla di migrazione, lo si fa dalla prospettiva degli stati con le economie più potenti e si utilizzano termini come gestione dei flussi, emergenza o crisi migratoria che presuppongono una dinamica di attacco, di invasione del territorio nazionale. Si tende a pensare lo Stato come una proprietà privata, i cui cittadini, dall’alto della loro condizione privilegiata di nascita in quel territorio, possono decidere il destino e il percorso di vita di stranieri che sfuggono a condizioni precarie o a persecuzioni. Sembra che le politiche dell’ospitalità servano più a giustificare il passaggio/stallo sul suolo nazionale che ad aiutare e accogliere chi con un sacco in mano ha rischiato la propria vita in cerca di un futuro migliore.

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Focus Italiano

Da ciò che si evince dagli ultimi dati dell’UNCHR, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, i flussi migratori partono spesso dal sud del mondo per arrivare al nord: tantissimi sono anche gli spostamenti interni ad America Latina, Asia ed Africa, ma tendenzialmente gli spostamenti vanno in questo senso Sud/Nord. Ciò rende il Mar Mediterraneo, a tutti gli effetti, ponte e porta dell’Europa con, Spagna e Grecia ai suoi estremi e l’Italia nel mezzo. Per conformazione geografica la nostra nazione è una lingua che si sporge verso il continente Africano e che nel suo comune più a sud, l’isola di Lampedusa, dista solo 113 chilometri dalla costa Tunisina. Questa breve distanza ha agevolato un flusso migratorio via mare che, da più di 30 anni, è meta di numerosi clandestini africani, provenienti soprattutto da Tunisia e Libia, ma anche da zone più remote del continente: spesso la traversata del Mediterraneo è solo l’ultimo step di un viaggio durato mesi, in cui i migranti hanno dovuto affrontare molteplici difficoltà. Nonostante il presidio continuo delle motovedette della Guardia Costiera, della Guardia di Finanza e delle varie ONG sulle tratte marittime dei migranti, annualmente si verificano naufragi e tragedie dovute alle pessime condizioni di viaggio, tra imbarcazioni di fortuna che trasportano il doppio della capienza consentita e condizioni meteo che non sempre agevolano la traversata: solo nel 2021 sono oltre 1400 i morti in mare e i dati sono sicuramente al ribasso poiché di molti naufragi non si ha traccia. Molti sono anche i salvataggi in mare e le azioni di recupero da parte di navi umanitarie che, grazie al loro impegno e alla loro audacia, portano in salvo decine di bambini, donne e uomini che, altrimenti, aggraverebbero la statistica sui deceduti. Dopo il leggero stop del 2020, gli sbarchi in Italia nel 2021 sono aumentati del 94%, passando dai 32.500 dell’anno precedente a 66.700 (dato fermo al novembre 2021). Molti meno rispetto al record di 181 mila sbarchi registrato nel 2016.

67fenomeni migratori e accoglienza
68 29.30.31 Alcune tragiche immagini del naugragio nel canale di Sicilia del 22 Aprile 2021, costato la vita a più di 130 migranti.

Le politiche sulle migrazioni devono cominciare a prevedere percorsi di inclusività e di autonomia abitativa e lavorativa del migrante, provare ad accogliere questo enorme capitale umano come una risorsa fondamentale alla crescita del Paese.

69fenomeni migratori e accoglienza

Come da conformazione storica la maggior parte degli arrivi sono di nazionalità tunisina (oltre il 20%) e si conferma la tendenza degli arrivi dal Bangladesh (12%). Per la prima volta si registra un flusso di cittadini egiziani in entrata (12,5%), superiore ai bengalesi. Gli altri arrivi riguardano sempre popolazioni del continente Africano o derivanti dal Medio Oriente. Gli ingressi però non avvengono solo via mare e, dagli ultimi dati Istat disponibili, si può constatare che nel 2020 sono stati rilasciati più di 105 mila permessi di soggiorno a cittadini non comunitari, dato più basso degli ultimi dieci anni. In Italia si può accedere legalmente solo attraverso quattro motivazioni: visita, affari o turismo –studio o formazione – lavoro (stagionale o autonomo) –ricongiungimento familiare. Anche gli ingressi non clandestini, quindi, sono in netto calo rispetto agli anni precedenti. Nonostante questo la comunicazione, come da trend mondiale, ci dà una percezione del fenomeno completamente distorta e, complice la retorica dei partiti di destra, si guarda all’immigrato come ad un invasore che si appropria di uno spazio dedicato al nostro sistema. In realtà problemi come il declino demografico e le lacune di manodopera in alcuni contesti lavorativi, soffrono tantissimo la tendenza al ribasso per gli ingressi extracomunitari e, con l’arrivo della pandemia da Covid-19 a inizio 2020, si sono già sottolineate le problematiche legate soprattutto al mondo dell’agricoltura e dei lavori stagionali. Le politiche sulle migrazioni devono cominciare a prevedere percorsi di inclusività e di autonomia abitativa e lavorativa del migrante, provare ad accogliere questo enorme capitale umano come una risorsa fondamentale alla crescita del Paese. Si può pensare a creare dei percorsi o a rafforzarli per far sì che i rifugiati stessi considerino l’Italia come una nuova casa dove restare e costruire la loro vita. Prima di arrivare a tutto questo però, c’è un passo enorme da fare, ovvero scrollarsi di dosso tutte le paure, i pregiudizi e i dubbi riguardo lo straniero. Molti anni fa i nostri nonni sono stati costretti a cercare fortuna in altre nazioni come l’America e, date le nuove emergenze climatiche e la nuova conformazione che il mondo sta per affrontare, potremmo essere noi stessi, in un futuro non troppo lontano, costretti a lasciare la nostra terra e a chiedere ad altre nazioni di poterci ospitare. Per cambiare atteggiamento c’è bisogno di capire bene come funzionano le cose qui in Italia

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ed è per questo che ho voluto concentrarmi sul sistema di accoglienza Italiano e la sua complicata burocrazia, e sull’importanza delle definizioni che si attribuiscono al migrante: un mondo in cui il linguaggio è comprensibile e compreso da tutti non può che essere più consapevole dei problemi e ipotizzare una soluzione ideale per la condivisione, l’inclusione e la tolleranza nei confronti di questi esseri umani.

71fenomeni migratori e accoglienza

PRIMA ACCOGLIENZA

RICHIESTA D'AS I LO ENTRO48h

no SECONDA ACCOGLIENZA

hotspot o centri di prima accoglienza CPR centri di permanenza e rimpatrio

enti no proft enti no proft+ enti proft

SAI (ex SPRAR)

esaurimento posti

CAS centri di accoglienza straordinazia

accoglienza collettiva (problematica)

accoglienza diffusa (come i SAI)

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Sistema di accoglienza

Il sistema di accoglienza Italiano è spesso soggetto a modificazioni che seguono la corrente politica di chi amministra il Paese. Quanto fatto qualche anno fa dall’ex ministro dell’interno Marco Minniti, che nelle intenzioni cercava di rendere più chiaro il sistema delle sigle dei centri di accoglienza, ha subito un drastico cambiamento da parte dell’ex ministro dell’interno e della sicurezza Matteo Salvini che, a dicembre 2018, con un decreto ha cercato di rendere più severe le regole sull’accoglienza. Tale decreto è stato nuovamente modificato a ottobre 2020 dalla ministra Luciana Lamorgese. Districarsi tra i continui cambiamenti apportati alla legge e i vari decreti è situazione ardua e complicata, anche per gli addetti ai lavori, ma si può tentare di suddividere il sistema di accoglienza in due macro aree: prima accoglienza e seconda accoglienza. Quando il migrante sbarca in Italia viene condotto negli hotspot o nei centri di prima accoglienza dove vengono effettuate tutte le procedure di riconoscimento e di screening sanitario e, in genere, si procede con la richiesta di protezione internazionale per ogni persona sbarcata. Attualmente gli hotspot in Italia sono solo 4, divisi tra Lampedusa, Pozzallo, Messina e Taranto, e con poche centinaia di posti disponibili. Per questo motivo entro 48 ore dallo sbarco i migranti vengono spostati nei centri di prima accoglienza che sono solo 9 e sono divisi in 5 regioni: Sicilia, Puglia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Calabria. I migranti che non fanno domanda d’asilo, per i motivi più disparati, vengono invece trasferiti nei CPR (centri di permanenza e rimpatrio) dove sono rinchiusi in attesa dell’espulsione o rimpatrio che, in genere, deve avvenire entro 90 giorni. Attualmente in Italia ci sono 9 CPR dislocati tra Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (GO), Macumer (NU), Palazzo San Gervasio (PZ), Torino, Roma e Trapani.

73fenomeni migratori e accoglienza

Il sistema di seconda accoglienza, come quello di prima accoglienza, ha subito molti cambiamenti col susseguirsi dei governi nazionali. Nel 2002 in Italia vengono istituiti gli SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) a cui accedono sia i richiedenti asilo che i titolari di protezione. Nel 2018 l’ex ministro Salvini istituisce, attraverso il Decreto sicurezza, il SIPROIMI (sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) che di fatto ha limitato l’accesso alla seconda accoglienza solo a coloro che avevano già ricevuto una risposta positiva alla domanda d’asilo. Nel 2020 l’attuale ministro Lamorgese cambia nuovamente il sistema istituendo il SAI (sistema di accoglienza e integrazione) che, in pratica, è un ritorno alle regole degli SPRAR, quindi una maggiore apertura e tendenza all’accoglienza e all’inclusione. In questi centri i richiedenti asilo ricevono assistenza sanitaria, linguistica e legale, mentre i titolari di protezioni usufruiscono di servizi rivolti all’orientamento lavorativo e all’integrazione. Questo sistema si regge su una collaborazione tra Ministero dell’Interno e ANCI (associazione nazionale dei comuni italiani) per cui i Comuni che aderiscono al SAI hanno accesso a dei fondi ministeriali. Dopo aver organizzato una gara d’appalto a cui partecipano enti no profit (associazioni, cooperative, onlus), il Comune decide a chi affidare e far gestire questi fondi, in base alla bontà del progetto che deve sempre avere come principio fondamentale quello dell’accoglienza integrata. Si costituisce, infatti, una rete con enti del terzo settore e volontari per assicurare un’inclusione del migrante che sia lavorativa, sociale, scolastica, culturale, ma anche abitativa. Gli enti gestori dei progetti sono chiamati a trovare degli alloggi in cui i rifugiati possono restare tra i 6 e i 12 mesi, periodo nel quale si accompagna i richiedenti asilo verso una soluzione abitativa autonoma e verso la messa in atto di tutta la parte burocratica per l’ottenimento dei documenti di identità, permessi di soggiorno, codice fiscale, iscrizione al sistema sanitario nazionale. Inutile dire che la maggior parte dei fondi dedicati al SAI viene speso per la gestione del personale che deve accompagnare il migrante in questo percorso.

Il Sistema per come è stato pensato dovrebbe agevolare una reale inclusione nei confronti di queste persone ma, a causa della poca partecipazione da parte degli enti

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comunali, soffre di mancanza di personale rispetto al reale numero di migranti in arrivo ogni anno in Italia. Per questo motivo sono stati istituiti i CAS (centri di accoglienza straordinaria) che, in teoria, vengono chiusi e riaperti a seconda del flusso e della necessità: niente di più falso poiché questi centri sono diventati, dal 2015, la normalità e la loro nomenclatura è quanto di più lontano dalla realtà. La grande differenza con il SAI è che a questi fondi, distribuiti sempre dal Ministero dell’Interno, hanno accesso enti sia profit che no profit, e non è più il Comune a gestire le gare d’appalto ma le prefetture territoriali. I CAS sono molto diversi tra loro e col tempo si sono delineate due linee di accoglienza: la prima, più problematica, prevede centri in cui si possono ospitare anche centinaia di persone e presenta delle criticità di inclusione sociale e di qualità della vita. La seconda, più simile al SAI, prevede la dislocazione in diversi appartamenti ed una diffusione sul territorio che permette un minimo di inclusione sociale e abitativa. Nel 2020, con la riforma Lamorgese, si è cercato di far ritornare i CAS alla loro funzione iniziale ma, di fatto, con i pochi posti disponibili nel SAI, questi centri prolificano in Italia e sono, attualmente, più di cinquemila distribuiti su tutto il territorio Italiano, per un totale di 80 mila posti disponibili.

75fenomeni migratori e accoglienza

migranti immigrati emigrati richiedenti asilo rifugiati migranti economici migranti irregolari profughi sfollati extracomunitari esseri umani

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L’importanza delle definizioni

Negli ultimi anni la comunicazione sul tema migranti è stata spesso confusionaria ed aggressiva. Il proliferare delle destre e degli estremismi nei governi nazionali di tutto il mondo ha creato un clima di intolleranza verso i migranti e la loro presenza sul territorio nazionale. Ora, più che mai, le definizioni e i termini con cui vengono definite persone ed esseri umani sono indirizzate verso un’essenza filosofica e fanno da assist a politiche dell’accoglienza o del rifiuto. La filosofa Donatella Di Cesare afferma che «le parole non sono né irrilevanti, né indifferenti. Decidono la politica. Già parlare di “crisi” non è casuale: sottintende l’idea di un troppo-pieno e richiama l’esigenza di trovare “soluzioni realistiche”».7 Con questi preamboli è giusto analizzare le parole utilizzate in ambito giornalistico, ma anche nelle discussioni quotidiane e nel linguaggio comune e cercare di darne una definizione e distinzione che, se in ambito colloquiale non hanno molta differenza, in ambito burocratico e legislativo possono essere lo spartiacque tra l’inizio di una nuova vita e la genesi di un’odissea giuridica che spesso termina o con l’espulsione del migrante o con l’immigrazione clandestina.

MIGRANTE

Questa è la definizione più generica ma anche quella più utilizzata. Il suo significato si può riferire a uomini ma anche ad animali ed è genericamente usato per definire qualcuno che si sposta da un luogo ad un altro. Il migrante è una figura in transito ed è quindi difficile stabilire se sia arrivato alla fine del suo percorso o se sia ancora in viaggio. Nel linguaggio comune è una delle parole più utilizzate quando non si vuole approfondire le varie definizioni ed esprime un linguaggio qualunquistico e generalizzato,

7

una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri

Cesare,

77fenomeni migratori e accoglienza
D. Di
Stranieri Residenti,
(2017), p. 122.

genere espresso con accezione negativa: «migrante è una etichetta-frontiera, innalzata per immobilizzare chi pretenda di avvalersi liberamente del suo diritto di movimento».

IMMIGRATO/A

Con questa parola si definiscono tutte quelle persone che si sono trasferite dal luogo di origine e si sono stabilite in un altro paese/nazione. Potrebbero essere considerati dei migranti che hanno terminato il loro cammino ma, al tempo stesso, si può parlare anche di immigrati stagionali, ovvero coloro che emigrano in un paese straniero per brevi periodi e fino alla fine del contratto lavorativo che li lega all’azienda che li ha richiesti. In genere si tende ad utilizzare come criterio statistico per definire l’immigrato, la residenza in un determinato paese/nazione, ma anche qui ci sono tante ambiguità e questa definizione potrebbe contenerne altre due: migrante economico e rifugiato.

EMIGRATO/A

L’emigrato non è altro che l’immigrato visto dalla società di partenza, colui/colei che, definitivamente o temporaneamente, è espatriato per ragioni di lavoro o altre ragioni che giustificano lo spostamento. Nel linguaggio italiano comune si tende a pensare all’emigrato in accezione positiva poiché se ne parla dal punto di vista interno (es. gli emigrati italiani in America), mentre si tende ad utilizzare altre definizioni per gli emigrati “non desiderati”: se pensiamo, ad esempio, ai milioni di accampati siriani in Libano, che di fatto sono emigrati, vediamo che nel linguaggio giornalistico è più utilizzata la parola profughi.

RICHIEDENTE ASILO

Questa definizione è prettamente giuridica ed è assolutamente limitata e temporale. Infatti si riferisce a tutti coloro i quali, arrivati in un paese straniero, inoltrano la domanda di richiesta d’asilo e restano in attesa di una risposta che, una volta ottenuta, ne può cambiare lo status in rifugiato, migrante economico o migrante irregolare.

8 D. Di Cesare, Stranieri

Residenti, una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri (2017), p. 122.

78 in
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RIFUGIATO/A

Il rifugiato politico, o semplicemente rifugiato, è una persona che, scappata dal proprio paese a causa di persecuzioni per motivi di religione, nazionalità, razza, per le sue opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale, è accolta in uno stato straniero e, dopo procedure che accertino la veridicità della sua storia, viene riconosciuta e tutelata dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 1951. Anche qui le ambiguità sono molte e soprattutto dipendono dall’interpretazione della parola persecuzione e da come questa venga dimostrata a livello giuridico.

MIGRANTE ECONOMICO/A

Tra le definizioni che più fanno paura alla società odierna c’è quella di migrante economico, ovvero quelle persone che scappano dai paesi di provenienza per cercare migliori condizioni economiche in Stati tendenzialmente più ricchi. L’espressione è stata spesso utilizzata dalle fazioni politiche sovraniste per instillare nel proprio elettorato quella paura che serve a ottenere consensi e che ha plasmato un’idea positiva verso il rifugiato e un’idea negativa verso il migrante. Questa categoria di persone, infatti, non rientra nei criteri per ottenere lo status di rifugiato e quindi non beneficia della protezione internazionale anche se, a onor del vero, il confine tra una categoria e l’altra non è così netto e, spesso, sono i dettagli a far la differenza in una sentenza per il riconoscimento di status di rifugiato.

MIGRANTE IRREGOLARE

Il migrante irregolare, anche chiamato clandestino, è quella persona che è priva di uno status giuridico nel paese di transito o nel paese ospitante. Questo può avvenire a seguito di un ingresso irregolare o della scadenza dei visti di soggiorno. Questa categoria può contenere i profughi che spesso sono potenziali richiedenti asilo e/o rifugiati e che non possono ottenere i documenti necessari al viaggio dal paese di partenza.

79fenomeni migratori e accoglienza

È un termine generico che indica quella categorie di persone costrette ad abbandonare la propria terra a causa di guerre, persecuzioni, politiche o razziali, o cataclismi. Gli esodi di massa del 2015, causati dalla guerra siriana, sono un buon esempio per utilizzare questa parola.

SFOLLATO/A

Questa parola ha un significato praticamente identico a quella di profugo, quindi anche qui le persone sono costrette ad abbandonare la propria abitazione a causa di guerre, persecuzioni e catastrofi naturali ma, a differenza dei profughi, gli sfollati rimangono nel paese d’origine o dove si trovano in quel momento.

EXTRACOMUNITARIO/A

Questo termine è, per definizione, lontano dal tema delle migrazioni e sta a definire una persona esterna al contesto dell’unione Europea che non sia cittadina di nessuno dei 28 paesi membri. Nel dibattito italiano ha però assunto un’accezione negativa e viene utilizzata erroneamente per indicare i migranti.

L’italiano ci offre molte vie d’uscita e molte definizioni e il loro utilizzo può delineare una linea politica piuttosto che un’altra. La difficoltà interna viene ampliata se pensiamo alle varie lingue presenti nel mondo e alla interpretazione di traduzioni che non sempre corrispondono. Prendendo come esempio la lingua inglese che è tra quelle più parlate nel mondo, nel 2015, durante la crisi europea dei migranti/rifugiati, l’editoriale Al Jazeera ha aperto il dibattito tra la parola migrants e la parola refugees, accusando i media e la politica europea di utilizzare il termine ombrello migranti in accezione dispregiativa verso quelli che erano a tutti gli effetti rifugiati bisognosi di protezione internazionale.

80 PROFUGO/A
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For reasons of accuracy, the director of news at Al Jazeera English, Salah Negm, has decided that we will no longer use the word migrant in this context. We will instead, where appropriate, say refugee. At this network, we try hard through our journalism to be the voice of those people in our world who, for whatever reason, find themselves without one. Migrant is a word that strips suffering people of voice. Substituting refugee for it is – in the smallest way –an attempt to give some back.
[Barry Malone]

Un poliziotto a cavallo guida un gruppo di migranti vicino a Dobova, in Slovenia, il 20 ottobre 2015.

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Intervista a Miriam Castaldo

La seguente intervista è stata realizzata a Miriam Castaldo, medico antropologo dell’istituto San Gallicano di Roma. La sua è una figura innovativa e rara negli ospedali italiani ma estremamente utile nell’interpretazione della storia personale e individuale di ogni migrante.

FPI

Ciao Miriam, piacere di conoscerti. Come prima cosa vorrei sapere come si arriva a fare l’antropologo? Quali sono i tuoi percorsi di studio e il background personale?

MC

Ciao Francesco, piacere mio. Allora riguardo il background io mi sono laureata alla Sapienza di Roma con il vecchio ordinamento, quindi 4 anni, quando ancora non esisteva la laurea in antropologia e c’era la laurea in lettere con indirizzo antropologico. All’ultimo anno ho trienallizzato una delle antropologie che era antropologia sociale, per cui ho potuto chiedere la tesi ad un solo professore per una serie di circostanze burocratiche e se, lì per lì, è stata una scelta un po’ costretta, si è rivelata poi una fortuna. Questo professore lavorava soprattutto in America Latina ed era interessato ad alcune dinamiche antropologiche che avevano fondato parte della scuola di antropologia messicana. Quindi io ho fatto la tesi di laurea in Messico, dove sono stata per un anno, e durante la ricerca per la tesi ho vinto quello che lì si chiama una “maestria”, che non esiste in Italia, e quando ho fatto l’equipollenza è stata valutata come una seconda laurea in antropologia che è un corso di 2 anni propedeutico al dottorato. Ho quindi vinto questo concorso, sono tornata in Italia, mi sono laureata e sono ripartita per il Messico, dove poi sono rimasta 7 anni e dove ho continuato con questo percorso di studi fino alla fine del dottorato di ricerca in antropologia medica, perché alla fine ho seguito quello che volevo fare dall’inizio visto

85fenomeni migratori e accoglienza

che antropologia medica, in Italia e soprattutto a Roma, non era presente nei termini in cui volevo farla io.

Da subito mi sono occupata principalmente dei mal chiamati “disturbi dell’affiliazione culturale”. È molto complessa la riflessione intorno a quelli che sono stati così categorizzati, perché sarebbe come dire che esiste qualcosa di culturale e qualcosa di oggettivo: ad esempio a livello scientifico è come dire che la depressione esiste e ti fa diventare triste e invece non esiste perché è edificata dalla cultura, quindi a fronte di questa cosa che detta così sembra ovvia, invece si ragiona tantissimo e da giovane mi affascinava tanto questa cosa. Mi sono sempre occupata di quelli che localmente nelle comunità indigene in cui ho lavorato venivano identificati come disturbi mentali e soprattutto ero affascinata dalla maniera attraverso la quale i medici locali li trattavano e come le comunità dove lavoravo li interpretavano e in qualche modo li affrontavano. Quindi mi sono dedicata a questo per molto tempo. Quando sono tornata in Italia nel 2006 avevo una professionalità più accademica, mi ero formata per quello, quindi non sapevo come poter concretizzare il mio lavoro che non fosse attraverso l'Accademia. Quindi per un po’ ci sono stata a cavallo tra lavoro e Accademia, tra lavoro dell’antropologo e la solita università. Finché non sono riuscita a seguire un altro filone che mi piaceva molto, quello dell’etnopsichiatria critica e quello della psichiatria, che hanno rappresentato un grande connubio con l’antropologia medica e dà continuità al filone dell’interpretazione dei disturbi mentali, capire come questa macro-area dell'Occidente li affrontava, come la biomedicina li trattava. Quindi sono approdata al San Gallicano, ormai dal 2008, e ho chiesto collaborazione; avevo già esperienza rispetto a questo tema e quindi piano piano mi sono inserita nel dipartimento di salute mentale. Questa cosa è iniziata in Messico ed è continuata a Roma. È una disciplina che non esiste sostanzialmente a livello lavorativo perché ha ancora un ampio spazio soprattutto in Accademia, quindi a livello clinico funziona così.

Io mi occupo di tre grandi aree: una è la ricerca in ambito clinico che comprende varie forme, posso collaborare con medici, psicologi, psichiatri, in aree che riguardano la salute e la migrazione, e poi decido io dove andare e cosa indagare, lo decido con un’equipe; da un'altra parte faccio formazione, do lezioni a personale sociosanitario, principalmente,

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pubblico e privato; e poi c’è la fetta più difficile da spiegare per me perché le parole per spiegarla non sono così chiare, che è quello della collaborazione alla clinica; vuol dire che io collaboro con un’equipe che può essere eterogena, cioè mediatori culturali, sociologi, antropologi, assistenti sociali, educatori, psichiatra, psicologo, medico, dipende chi c’è e chi mi chiede aiuto, per cercare di capire che tipo di sofferenza portano persone che vengono da altri contesti socio-culturali; quindi se qualcuno parla di un male che il medico non capisce, che lo psicologo o lo psichiatra non capiscono, di un dolore che non si è mai visto dei manuali, di qualcosa che pur spiegandolo in un’altra lingua non trova traduzione e non ha soprattutto una base organica, vale a dire il medico non soltanto non lo capisce, non lo capisce nemmeno attraverso l'ausilio di un mediatore o mediatrice culturale, non capisce né la forma né il contenuto, va a fare le analisi che gli sembrano plausibili e non trova nulla; ecco lì alla fine intervengo io. Poi ti potrei pure dire che chi ha molta esperienza con persone migranti mi chiama in prima battuta e non in ultima per cercare insieme di capire che cosa succede, ma sarebbe una clinica molto avveduta e perspicace, non sempre è così. Questo, in grandissime linee, è quello che faccio.

FPI

Ci sono episodi o aneddoti di migranti passati attraverso il San Gallicano che ti sono rimasti impressi?

MC

Senza portarti nessun caso specifico e particolare, perché non vorrei culturalizzare troppo, non vorrei neanche darti un messaggio sbagliato, sono tanti temi che vengono portati in ambito sanitario che vanno compresi; per esempio uno fra tutti è la tratta, come poter individuare e poi aiutare una vittima di tratta, una donna che prevalentemente è nigeriana, ma perché soltanto nigeriana? Siamo molto abituati a pensare ai nigeriani come vittime di tratta. Anche questo è uno stereotipo importante da una parte e dall'altro un dato oggettivo; anche quelle competenze lì sono fondamentali per cercare di non distrarsi da chi si ha davanti, è importante riflettere sugli accompagnatori, su chi fa la domanda di aiuto; una donna che viene accompagnata da un'altra donna dell’africa subsahariana che vuole entrare per forza in una visita ginecologica,

87fenomeni migratori e accoglienza

chi è? che ruolo ha? È un’accompagnatrice ma che cosa ha a che vedere con questa ragazza? Tutte queste domande qui, che ci fanno interrogare anche su percorsi di prostituzione, appunto di tratta o di abuso, maltrattamenti, e idem per gli uomini, cioè uomo che accompagna uomo, uomo più grande che accompagna un uomo più giovane, tutti questi sono campanellini d’allarme sul quale bisogna interrogarsi. Non interrogarsi su questo, ancor prima di pensare al dolore e alla sofferenza portata, creano un gesto d’incuria, e sono molto pericolosi soprattutto quando parliamo di persone migranti, non perché parlare di persone migranti voglia dire necessariamente associarli a vittime, a piccoli uomini e piccole donne incapaci di difendersi o a violenza, non è così, ma vanno anche considerate tutte quelle trame di fragilità, tutti quegli interstizi nei quali si ubicano anche i giri economici di sfruttamento che a vari livelli interessano le persone che in un momento della propria vita si trovano senza reti, senza famiglia, senza amici, alle prese con un corpo molto spossato, stanco, violato il più delle volte, torturato, comunque depauperato. Basta non avere un lavoro o una casa per essere depauperati di un patrimonio. Ed è lì che bisogna guardare. Poi ti potrei dire che abbiamo tanti casi di possessione, abbiamo tanti casi di “camminamenti sottocutanei”, sensazione di vermi, di qualcosa che cammina sotto la pelle, poi però questo non vuol dire nulla, bisogna capire che cosa quella persona lì intende per quel sintomo specifico, quindi quello che mi interessa non è poi creare un manuale di quello che le persone portano ma capire dietro una singola possessione che cosa c'è? Dietro quella singola stregoneria e di che cosa si parla, di quale violenza forse, di quale traffico, di quale abbandono, di quale paura; sto molto attenta e con me parte di un’antropologia che fa questo lavoro, a non parlare rapidamente di stregoneria per quanto questo sia sicuramente molto affascinante, e te ne sto parlando perché lo so che poi chi lo sente evocare ne resta affascinato, perché lo è, è un universo veramente potente in tutte le sue sfaccettature, però altrettanto mi porta un coacervo di sofferenze, che sono quelle che vanno indagate, indipendentemente da quella che è l’interpretazione che ne dà la persona, ma quella persona specifica perché poi il rischio di sbagliarsi è di interpretare - allora si tratta sempre di stregoneria, allora si tratta sempre di possessione - senza chiedere ma di che cosa ci sta parlando questa persona, lei proprio. Quindi ti direi la soggettività prima di tutto, non la cultura nigeriana o congolese che sia, ma quella persona lì.

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FPI

Pensando alla soggettività risulta davvero difficile lavorare con queste persone che, anche a livello lessicale e comunicativo, hanno difficoltà ad essere inquadrate dalla burocrazia. Su un piano identitario quanto confonde il soggetto questa rete di terminologie?

MC

Pensa anche a quanti status, anche per te che devi fermare in una grafica, devi essere in qualche modo lapidario, tu fermi delle cose perché le devi scrivere in un tempo e in uno spazio, pensa a quanto velocemente la persona diventa clandestina per alcuni, richiedente protezione internazionale per me, rifugiata per altri senza aver titolo di essere rifugiata/o, quindi ad un certo punto viene attribuito il rifugio quando ancora non ce l’hanno, diventano dublinati/e, ricorrenti, reiterate, ed ogni categoria costituisce un passaggio legale, un bacino nel quale queste persone si devono muovere, sono però categorie che vanno rapidamente.

FPI

Per quanto riguarda la migrazione, la comunicazione politica e giornalistica tende spesso a parlare di “emergenza”. Pensi sia davvero così oppure i flussi sono all’ordine del giorno?

MC

No, penso che non lo sia, non lo sia mai stata, è un processo nel quale siamo, nel quale siamo sempre stati, del quale siamo più o meno coscienti anche in base a delle norme che la nostra società, e dunque il paradigma politico che attraversiamo definisce per noi. D’altronde, se ci pensi, proprio tu che fai del cercare di tradurre in parole, immagini, senso, che lavori con la semantica, immagino quanto per te possa significare la parola emergenza, che ci fai con la parola emergenza quando poi la devi risignificare e ricontestualizzare ogni volta? Io niente. Così come la parola verità, a me non serve, cioè le narrazioni. Mi chiedono spesso - “sarà vero quello che dicono?” - ci sono delle parole che sono proprio svuotate, che non hanno proprio senso per i lavori che uno fa. L’emergenza non è un qualcosa di reale, non c'è insomma.

89fenomeni migratori e accoglienza

FPI

Effettivamente sì, se vediamo anche la storia dell’uomo e le migrazioni documentate nella storia. C’è sempre stata. Però quali sono le conseguenze dell’uso di questa parola?

MC

Queste sono parole. Queste forme vengono riempite di significati se c’è la necessità, direi, politica. A me la parola emergenza fa paura, perché ogni volta che la sento a cicli capisco che sta per nascere l’ennesima categoria, l’ennesima frammentazione. Un po’ come quando ci è stato il passaggio ai nuovi permessi umanitari. Queste nuove categorie cosa implicano? Implicano che le persone arrivano e si trovano di fronte all'ennesima impossibilità: “puoi stare però puoi stare soltanto un anno, però questa volta non sarà rinnovabile”, e quindi serve ecco a creare queste nuove categorie in cui perderci. Per me possono non avere un senso epistemologico, alla mia conoscenza non cambia nulla. Io imparo queste parole, so che cosa sono e imparo a gestirle sul lavoro. Le persone che ci rimangono imbrigliate, però, per loro queste parole sono dei macigni perché definiscono quello che loro potranno fare o non fare, dai ricongiungimenti famigliari a tante altre cose, cambia loro la vita.

FPI

Nel tuo lavoro ti capita spesso di lavorare con minori o tratti principalmente maggiorenni?

MC

I minori li vedo ma mi è capitato di vederne molto pochi nel tempo, anche perché per vedere un minore o si tratta di minori non accompagnati…secondo la mia esperienza che però la puoi considerare micro rispetto a quello che c'è in Italia, quindi considera che non sono dati, ti parlo di una cosa empirica, di quello che vivo io. Io ho visto soprattutto uomini però dipende anche dai flussi migratori di questi ultimi anni. Ho vissuto una grossa fase, ricordo appena arrivata al lavoro, di giovani afghani, una fase che vivremo quando, fra 4/5 anni, ci renderemo conto noi qui di cosa sta accadendo adesso in Afghanistan. Quindi quando i ragazzi riuscivano a scappare c'è stato per anni un grandissimo flusso di minori non accompagnati. Ma minori accompagnati è perché venivano definiti così o si autodefinivano così. Non importando a me l’età, c’è poca differenza tra un ragazzo di 17 anni e uno di 20

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anni, sono dei bestioni enormi con la barba, coi peli, sono dei giovani uomini che poi ancor più hanno attraversato il mondo, hanno attraversato il mare, hanno mollato le famiglie e hanno visto e subito di tutto, per cui coi minori hanno poco a che vedere. Questo dal punto di vista semantico generale, questo per quanto riguarda i minori non accompagnati ma secondo la mia esperienza. Invece i minori proprio è più difficile vederli da soli per quanto riguarda il mio lavoro perché i minori stanno con le proprie famiglie, quindi quando vengono anche ragazzi o ragazze li vedo di solito coi genitori, ma mai da sola, con psicologi, medici, in base a quello che mi viene richiesto. Quindi è un tema a cui stiamo molto attenti perché anche noi arrivando in ospedale abbiamo bisogno dei documenti della madre, spesso è complesso accoglierli anche per questo, perché spesso vengono con mamme che affermano di essere la madre, ma bisogna dimostrarlo quindi è un po' difficile.

FPI

La tua figura quindi è un po’ tra lo Stato e gli psicologi e cerca un po’ di stendere una relazione del background di ogni soggetto per dare una risposta migliore nella patologia e nel malessere?

MC

Allora il background sì, ma non soltanto migratorio, proprio quello personale. Quindi è come se si cercasse insieme, perché poi non è un senso che do da sola, si ragiona proprio a voce alta insieme quando si ha la possibilità e quando si riesce a lavorare con una equipe come quella con cui lavoro io, quando si lavora da tanto tempo insieme e ci si conosce anche e ci si può dire, che non è semplice dire perché lavorare coi dolori degli altri e con i traumi degli altri spesso fa ecco, mette anche me stessa, il nostro corpo a confronto e diventi anche tu un soggetto dell'azione; non è che io sono al di fuori di quello che le persone mi dicono, faccio un po' da cassa di risonanza, per cui tutto quello che loro mi dicono passa attraverso di me e viene reinterpretato anche in base alle mie esperienze. Quindi è un lavoro lungo e quindi ha bisogno di essere altrettanto lunga la riflessione che c’è intorno, perché non è una cosa univoca. Non si può dire “è così” ma “io credo che possa essere così perché…” allora si comincia a leggere intorno a delle cose che mi sembrano e si cerca conferma anche in altri colleghi, in altre colleghe, si ragiona intorno a un sintomo, ad una sofferenza,

91fenomeni migratori e accoglienza

ad una parola, si chiedono tante traduzioni. Per questo ti dico che è un lavoro lungo. Ci si può lavorare se si hanno molti dubbi, intorno al senso di una sofferenza che può portare o no, questa mia riflessione, ad una soluzione terapeutica ma non è detto che questa arrivi. A me quello che dice lo Stato importa nel momento in cui da quello dipende la salute delle persone. Nel momento in cui una persona è stata diniegata va dalla psicologa e soffre moltissimo perché non capisce perché la commissione territoriale ha detto che non gli crede. Non so se hai mai letto i verbali ma viene proprio scritto “la persona non è credibile perché…”. Queste parole sono molto potenti, sono dei macigni. E allora su questa credibilità ci si lavora molto in terapia, in psicoterapia. Quindi a me interessa ad un certo punto il diniego perché va ad incidere potentemente su una salute già intaccata delle persone su ogni possibilità di progetto di vita. Quindi quello che faccio io spesso per loro è fare delle relazioni in cui cerco di spiegare al giudice perché, quali sono le ragioni della migrazione di quel determinato soggetto. Quindi una parte del mio lavoro consiste nello spiegare al giudice come mai e perché quella persone è emigrata. Da un’altra parte, se però la persona ne necessita, lavoriamo su quella ragione migratoria in terapia, perché una cosa è spiegarla al giudice una cosa è lavorarci a livello di salute. Una cosa è che qualcuno dica “io sono scappato perché mi volevano ammazzare” allora tu gli spieghi al giudice perché quella setta esiste, da un’altra parte devi lavorare sul fatto che questo avrà subito chissà che cosa e che cosa pensa su che cosa ha riflettuto, lui, la sua famiglia, il padre, la madre, se ci sono ancora, bisogna tracciare l'albero genealogico, capire come funziona l’organizzazione familiare lì, poi non lì ma da lui o da lei. Per questo ti dico è un lavoro lungo, perché tra lo Stato e la psicologa o un medico ci sono delle sfumature che sono immense, perché sono due istituzioni con una pretesa d’oggettività: lo Stato vuole capire la verità di queste persone mentre lo psicologo o il medico vogliono categorizzare la loro sofferenza attraverso dei grossi manuali e delle diagnosi. Io sto in mezzo che faccio da tira e molla sgretolando le diagnosi che per me sono dei significanti culturali pure quelle e la stessa cosa lavorando sui codici che porta l’istituzione Stato perché il più delle volte mi sgretola la persona che ho davanti perché non capisce perché la commissione non gli crede. Quindi su questo uno lavora che è la cosa più difficile; perché la questione è che io gli credo ma bisogna capire come comportarci con la commissione.

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FPI

Cosa pensi si possa fare qui a Roma, sia a livello di istituzioni che di singolo cittadino, per migliorare la situazione dei migranti?

MC

Guarda forse la prima cosa che mi è venuta in mente, non perché sia la più significativa, ma perché i bisogni di base sono fondamentali, sarebbe di liberare tutti gli alloggi sfitti e le case inutilizzate, le caserme inutilizzate, tutte le istituzioni inutilizzate, per fare dei macro-centri di accoglienza per eliminare le persone senza dimora con o senza diritto, indipendentemente dai documenti, quindi dare loro uno spazio dove dormire, cibo, alloggio e salute garantiti. Poi una volta che tutto questo è garantito si può iniziare a lavorare su altri fattori. È chiaro che nel mio mondo ideale la parola confine o permesso di soggiorno non dovrebbe esistere, ma questa è un’altra cosa, non è una soluzione. Per Roma sapendo che ci sono tante istituzioni vuote e persone per strada, già con questo potremmo dare delle soluzioni molto rapide con bassissimi costi. Da dove comincio a pensare la persona migrante? Da quale punto della salute cominci a lavorare? Da tutto quello che è stato nel paese d’origine? Dei motivi migratori? Da tutto quello che è successo durante il viaggio migratorio? Da tutto quello che gli è successo in Libia (la maggior parte delle persone arriva da li)? Da tutto quello che succede da quando sbarcano in Italia? Noi abbiamo a che fare con spettri la maggior parte delle volte, con persone asciugate da qualsiasi possibilità. Poi appunto sono a Roma, non trovano posto nei centri di accoglienza e vivono per strada, ma che domanda di salute vuoi che ti portino?

Quindi perlomeno una garanzia di alloggio, di accoglienza che dia poi la possibilità di poter ragionare e lavorare su tutto quello che è successo; questo potrebbe essere un inizio. È molto fattibile questo che stiamo dicendo, senza utopie.

FPI

Ci sono aspetti del tuo lavoro che ritieni fondamentali e di cui non abbiamo ancora parlato?

MC

Una cosa pericolosa è l’eccessivo pathos, l’eccessiva empatia che per quanto possa essere un sentimento estremamente

93fenomeni migratori e accoglienza

favorevole anche all’approccio terapeutico, può avere quell'aspetto così caritatevole tanto da portarti e vedere solo la povertà, la gente poverina senza strumenti e noi come salvatori di questi poveri esseri umani che camminano come spettri. Invece il riconoscere le tue fragilità come operatore, la ricerca di strumenti altri per far fronte a tutta una serie di cose che non capirai mai, perché parzialmente le comprendi, parzialmente rimani senza strumenti, cercare l'alleanza con altre discipline, il fatto di non lavorare mai solo/a, perché lavori sempre a più livelli con tutta una serie di sofferenze a cui non sei preparato/a. Tutto questo è fondamentale dirlo e riconoscerlo. Voler lavorare da solo o da sola credo sia la cosa più fallimentare, così come l'estrema culturalizzazione o l’estrema empatia e non riuscire invece a tenere una posizione che è quella che ti permette di aiutare l’altro. Tante volte mi è capitato di mediatrici culturali che all’inizio del proprio lavoro, ma anche io quando ero più giovane, le forti emozioni che trapelavano quando una persona parla di violenze e torture. Ma non perché io non ne abbia, ce ne ho tantissime, però so dove metterle dopo il colloquio, so come ricentrarmi, e tutto questo esercizio qui è un esercizio enorme, non perché non mi metta a piangere, magari lo faccio anche ma non davanti alla paziente. Mi è successo di emozionarmi questo ora non mi succede e non mi può succedere.

FPI

Su un piano comunicativo e iconografico qual è l’approccio che cercate di far prevalere?

MC

Noi, come antropologhi, cerchiamo da anni di cambiare un po’ l’approccio. È piuttosto critica quella immagine che spesso viene data delle persone migranti. Non utilizziamo più foto, neanche per le nostre lezioni, cosa che invece molti anni fa facevamo anche come denuncia. Però c’è stata un po' questa strumentalizzazione, un approccio molto piagnone, un po’ catto-caritatevole intorno alla figura del migrante, preso di spalle, preso per le mani, sofferente, soltanto le torture, soltanto le ferite, e quindi abbiamo pensato di non mostrare più queste punte di fragilità perché alla fine mostreremmo cosa? Sempre un corpo nero perché ti serve che sia nero altrimenti non è migrante, ferito perché se non è ferito non è abbastanza bisognoso,

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una donna col velo perché sennò non è abbastanza aliena all’universo cattolico cristiano. Quindi ecco tutto questo l’abbiamo messo in discussione e spesso le foto ce le facciamo noi al lavoro quando vogliamo far vedere delle parti del nostro lavoro, che strumenti utilizziamo per lavorare, che nel mio caso è computer, penna, taccuino, ecc... Quindi c’è un ripensamento proprio in generale sull’iconografia del migrante, però questo è più una cosa che fa l’antropologia medica e non l'ospedale in generale; se tu guardi il nostro sito probabilmente tutte quelle foto che ti dicevo, che non mi piacciono, le troverai perché c’è un po' un rischio intorno a questa roba qua. Però ti posso dire che sono appena tornata da Parigi, dove ho fatto una piccola collaborazione per un ospedale che si chiama Avicenne a Bobigny. Mi sembra molto interessante perché mi sono riportata dietro delle cartoline, che mi sono piaciute tanto, di divulgazione preventiva in sanità per mille cose, soprattutto rivolte alle donne in considerazione del fatto che quell’area di Parigi, quella di Bobigny, sono tutti migranti quindi si cambia proprio lingua, non si parla francese; e le ho trovate molto interessanti come iconografie perché ci sono ragazze sedute sul letto che chiacchierano e sono disegnate, non c’è la foto ma il disegno, e ti devo dire che l’ho apprezzato molto. Trattano anche di malattie sessualmente trasmissibili, sul consenso sessuale, come dire di no anche al proprio compagno, le frasi da utilizzare, l’ho trovato molto carino al dispetto della solita mentalità che troviamo qui.

FPI

Grazie mille Miriam per aver condiviso con me la tua esperienza.

MC

Figurati, è stato un piacere, a presto.

95fenomeni migratori e accoglienza

al servizio dei migranti

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98 33 I progettisti di Talking Hands con i ragazzi del CAS di Treviso. 34 Un'esibizione del progetto Stregoni. 35 Il laboratorio del progetto Senza peli sulla lingua.

Casi studio di social design

L’Italia per la sua posizione centrale nel mediterraneo è diventata, con gli anni, punto di riferimento per le rotte dei migranti, sia via mare attraverso le regioni meridionali, sia attraverso i corridoi umanitari che sfociano nelle regioni nord-orientali. Il tema è spesso argomento di dibattito, soprattutto nel mondo politico, e il design ha sviluppato negli ultimi anni una spiccata sensibilità al tema. Molti sono i progetti che sono stati sviluppati in un’ottica di inclusività e integrazione, da nord a sud, cercando di creare workshop, performance, campagne di comunicazione, convenzionali e guerrilla. Nel 2019 Matteo Moretti, designer, ricercatore e docente presso la Facoltà di Design e Arte della Libera Università di Bolzano e presso l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, pubblica il libro Socio-SocialDesign, estensione del portale online Design for Migration, in cui sono raccolti una serie di progetti «che esplorano lo spazio tra socio e social design, che combinano inclusione e trasformazione attraverso gli oggetti, che si muovono oltre le definizioni, indicando nuovi modi di includere e mettere in relazione»9 .

Tra i casi studio più importanti in questo libro c’è il progetto Talking Hands, in cui i ragazzi del CAS (centro di accoglienza straordinaria) di Treviso sono stati coinvolti da alcuni designer nella realizzazione di indumenti, tessuti e artefatti. La metodologia applicata prevede la diversificazione dei ruoli e la rotazione nella gestione di ogni momento del processo creativo e produttivo: i ragazzi sono così spinti a imparare la lingua, ad attraversare la città, a confrontarsi con i rivenditori e ad essere loro stessi intermediari per la vendita degli oggetti creati.

9 M. Moretti, Socio- Social- Design. Design practices for new perspectives on migration, Corraini Edizioni (2019), p. 15.

99al servizio dei migranti

Nel progetto Stregoni, pensato dal musicista Johnny Mox, l’inclusione e la creatività si sviluppano attraverso la musica. Gli smartphone sono un elemento fondamentale per il viaggio e la vita di un migrante e servono per orientarsi in zone sconosciute del mondo, per mantenere contatti con la famiglia, per cercare informazioni utili nei luoghi in cui arrivano. Componente fondamentale è anche la musica presente in questi dispositivi e questa stessa viene campionata e resa base per le performance artistiche di quella che si definisce “la band più grande del mondo” con all’attivo collaborazioni con più di 5000 ragazzi sparsi per i centri di accoglienza di tutta Italia. Un altro progetto interessante è Senza peli sulla lingua che concentra la propria attenzione sulle donne migranti. Attraverso l’uso del ricamo messaggi di inclusione, denuncia, aiuto, identità, vengono impressi su t-shirt bianche che vengono poi vendute per sostenere il progetto stesso. Le donne escono così dallo spazio domestico in cui spesso sono relegate e ritrovano una nuova socialità che le aiuta a sentirsi parte di una comunità più ampia.

36 I poster del progetto È permesso? la mia parte nel mondo, in affissione a Rimini.

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L'infografica di Stories

Behind a Line con la descrizione della storia del viaggio.

I migranti hanno tante storie da raccontare e la conoscenza di questi diari di bordo della loro vita rimane spesso nascosta dalle difficoltà comunicative e sociali. Il laboratorio educativo È permesso? La mia parte nel mondo ha provato a immagazzinare le storie degli studenti stranieri del Centro per l’Istruzione Adulti di Rimini e a restituirle attraverso il manifesto. Il processo creativo ha permesso ai ragazzi di apprendere la lingua italiana utilizzando i principi di comunicazione visiva e fotografia, e le affissioni sono diventate il mezzo per amplificare la loro voce.

Il viaggio è anche il tema del progetto Stories Behind a Line dell’information designer Federica Fragapane. Attraverso l’utilizzo dell’infografica vengono raccontate le storie di sei richiedenti asilo arrivati nel comune di Vercelli, e con la razionalizzazione del dato statistico si riesce meglio a comprendere i sacrifici e le difficoltà degli spostamenti che, dall’Africa o dal Medio Oriente, vengono compiuti con differenti mezzi di trasporto o camminando per svariati giorni. Frammenti di ricordi vengono esplicitati durante il percorso accentuando il dramma della perdita di amici e familiari o di mesi passati in carcere con il sogno di evadere e raggiungere lo stivale.

L’Italia però non sempre si rende ospitale e, quando nel 2018 l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha affermato che le ONG avrebbero visto l’Italia solo in cartolina, il collettivo Creative Fighters ha creato la campagna di protesta epistolare Solo in Cartolina.

101al servizio dei migranti
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Attraverso un contest sono state raccolte più di 300 cartoline e, dopo una votazione online aperta a tutti, sono state stampate le migliori dieci cartoline per un totale di 10.000 copie. Durante due giornate tra le piazze di Roma e Milano è stato chiesto ai cittadini di scrivere il proprio messaggio al Ministro, firmare e imbucare le cartoline in una grandissima cassetta delle lettere per poi arrivare a consegnare tre scatoloni pieni di migliaia di messaggi da tutta Italia alla responsabile dell’ufficio stampa di Matteo Salvini.

Una call to action, come la precedente, è stata portata avanti nel 2020 da Amir, rifugiato nel campo profughi di Moria, e Noemi, fotografa Spagnola, quando hanno deciso di pubblicare immagini provenienti dal campo sull’isola di Lesbo per denunciare le condizioni da prigionia in cui vivevano i migranti. Attraverso il progetto now you see me Moria è stato possibile prendere queste fotografie, inserirle all’interno di poster di denuncia creati da graphic designer di tutto il mondo e successivamente far stampare e affiggere i manifesti in moltissime città. Partita come una call to action, Now You See Me Moria, è diventato un movimento per i diritti umani che cerca di far conoscere all’opinione pubblica le gravi mancanze delle politiche europee sulla gestione della crisi migratoria.

Tra i progetti più virali creati sul tema migranti e rifugiati c’è la campagna di guerrilla Made by Refugee ideata e portata avanti da due studenti della Miami Ad School Kien Quan e Jillian Young. L’obiettivo è quello di ricordare alla gente quanto hanno impattato sulla storia o su prodotti di uso quotidiano i rifugiati di ogni parte del mondo, da Freddie Mercury ad Albert Einstein, da Bob Marley a Carl Djerassi, uno degli inventori della pillola anticoncezionale. Il mezzo è umilissimo quanto impattante: un semplice adesivo che viene incollato sui prodotti, sui cd, sui libri, a dimostrazione che a volte non servono grandi risorse ma grandi idee.

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103al servizio dei migranti 38.39 Alcune grafiche del progetto solo in cartolina. In basso la raccolta delle cartoline in piazza. 40 La mostra dei poster di Now you see Me Moria.
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105al servizio dei migranti 41.42.43.44 Pagina a fianco. Alcuni poster del progetto Now you see Me Moria. 45.46.47 Gli adesivi e i poster del progetto Made by Refugee.
106 48 Gli ambienti dello studio Latte Creative.

Intervista a Latte Creative Studio

Per approfondire meglio il rapporto tra progetto grafico e temi sociali ho deciso di intervistare i componenti di un’agenzia molto attiva sul suolo romano e nazionale: Latte Creative Studio. In particolare ho avuto il piacere di parlare con l’art director Antonella Romano, il digital strategist Claudio Riccio e la copywriter Nicole Romanelli.

FPI Ciao, piacere di conoscervi. Come prima cosa vorrei chiedervi come siete arrivati all’interno di Latte Creative Studio e se siete coinvolti in associazioni di volontariato.

AR

Noi siamo molto coinvolti, siamo attivisti, chi impegnato in progetti collaterali, ecc. Siamo coinvolti ma ovviamente siamo anche oggettivi nel momento in cui ci approcciamo ad un cliente, soprattutto ad uno che conosciamo già, perché ogni campagna è diversa, ogni richiesta è diversa, quindi bisogna avere anche un’oggettività che si unisce alle competenze, che va oltre il trasporto che si ha verso la campagna o il tema. Io sono a Latte Creative Studio da 6 anni e mi sono avvicinata principalmente per questo, perché mi piace lavorare su progetti che portino temi a impatto sociale, di questo genere.

NR

Chiaramente il punto fondamentale, io credo, sia che la nostra persona debba essere sensibile a tematiche del genere, poi chiaramente ognuno di noi sostiene dei progetti ma nemmeno che sostenga tutto quanto, perché questa cosa non è sostenibile né a livello psicologico né a livello soggettivo. La grande differenza è che nel nostro lavoro, quindi oltre e prima di una sensibilità personale, c’è una professionalità, e purtroppo questa cosa potrebbe essere nella vita reale uno scoglio per quanto riguarda

107al servizio dei migranti

le organizzazioni più piccole e molto spesso, capita di sentire, che lavori nel sociale e quindi sembra che fai volontariato. Non è questo il nostro caso, noi siamo tutti professionisti e chiaramente il fatto che lavoriamo per il sociale, per alcuni è una scelta, per altri no. Perché ci sono comunque persone nella nostra agenzia che non sono attivisti o che magari sì, sono vicini a certi temi, ma non si definirebbero attivisti. Quindi è fondamentale avere determinate professionalità.

AR

Sì, più che attivismo possiamo parlare di valori condivisi, come dice Nicole però, la professionalità prima di tutto.

CR

È ovvio che c’è una connessione quando si lavora su determinate tipologie di progetti, anche sulla dimensione valoriale, quindi per me è sicuramente un motivo in più, quindi una cosa che mi dà più motivazione, più determinazione nel seguire una serie di progetti in cui credo. Si sente meno l’alienazione quando si lavora su un progetto in cui si crede rispetto a uno in cui, come capita in tante agenzie e realtà, di dover comunicare o veicolare messaggi molto lontani dalle proprie idee, questo sicuramente è uno sprono in più, un elemento che aiuta. Io personalmente, sono da quando ero ragazzino attivista, anche se non sopportavo questa parola, ma insomma faccio politica nel sociale da quando sono ragazzino, appena esco dall’agenzia, vado a fare riunioni, ma come diceva Nicole lo faccio spesso in contesti differenti rispetto a quelli delle grandi organizzazioni con cui lavoriamo, che vuol dire anche contesti con cui ci si interfaccia molto differenti; nel senso che una piccola organizzazione ha delle dinamiche che sono, anche dal punto di vista della comunicazione o del lavoro che viene realizzato, molto differenti, in cui la comunicazione non viene gestita professionalmente, anche se ci lavorano a tempo perso dei professionisti, che magari fanno i grafici da qualche parte o social media manager in altre realtà, ma poi nei ritagli di tempo fanno in maniera meno professionale un determinato tipo di lavoro, quindi sono due cose molto distinte.

FPI Sì spesso queste organizzazioni “minori” non hanno budget da destinare alla comunicazione, giusto?

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Guarda se pur c’è budget nelle organizzazioni grandi, ce n’è praticamente niente rispetto al profit, quindi anche in organizzazioni come Amnesty, Medici senza Frontiere, ecc. Guarda io venendo da un’agenzia profit, ricordo bene che quando arrivai a Latte rimasi sconvolta dai budget che mi sembravano ridicoli, quindi chiaramente anche le grandi organizzazioni hanno dei budget ma non è assolutamente niente in confronto alla comunicazione.

CR

Anche perché ovviamente se fai un budget per una campagna di raccolta fondi funzionale ad aiutare le popolazioni nel sud del mondo, non puoi spendere in comunicazione più di quanto pensi. Quindi insomma c’è questa motivazione che però porta ad avere dei budget differenti.

AR

In realtà è anche stimolante dal punto di vista creativo perché spesso ci ritroviamo a farci bastare il budget, quindi ti devi sforzare di proporre delle soluzioni che rientrano nell’economia della campagna. Da un certo punto di vista è stimolante, sì. Con Greenpeace spesso e volentieri ci è capitato di creare un kit che però dovesse essere sostenibile o che avesse dei limiti, sia economici, sia inerenti alla campagna, sono stimolanti da quel punto di vista. Poi mettici anche appunto l’impatto della campagna e del progetto, però quella è una variante puntuale, quella dei budget, che spesso influisce sulla creatività, in positivo e in negativo.

FPI

Nella progettazione di una campagna di comunicazione sociale cosa è più importante tra lo scritto e il visivo? Meglio partire da un buon copy o da un buon visual?

CR

Nel processo creativo noi proviamo a partire in modalità più “free style” e poi c’è chi, alcune volte la faccio io nel processo creativo, altre volte il project manager alla fine del processo, fa la parte antipatica di dire “no non c’è budget per questa idea”. In realtà si parte dall’obiettivo e da una sintesi estrema del messaggio che si vuole dare, quindi il primo passo non è definire lo slogan e quello che è

dei migranti

109al servizio
NR

l’output finale, ma innanzitutto avere chiaro quello che si vuole fare, quindi perché sto facendo questa campagna, e insomma la base di ogni brief è saper dire veramente in una frase quello che è l’obiettivo della campagna. Poi trovi le strade creative per veicolarlo, esplori territori di messaggi, filoni narrativi in cui puoi stare, inizi a ragionarci su, però insomma partiamo soprattutto da quello. Intanto nel processo creativo sbatti contro i paletti che ti trovi, che possono essere quello legati al budget ad esempio, oppure possono essere sostanzialmente quelli legati a dei problemi strategici e di obiettivo. Nel senso che posso trovarmi un cliente la cui proposta creativa che ho è disallineata rispetto al tono di voce del cliente o rispetto a un obiettivo di relazione istituzionale. Magari una proposta creativa su natura critica al ministro dell’interno sul tema migrazioni ma quell’associazione ha un tavolo aperto col ministro dell’interno in quelle settimane e quindi non puoi attaccarlo. Quindi i paletti possono essere di natura differente.

AR

Oppure se contatti Zerocalcare o un’altra persona e hai in mente di fare una campagna in uno stile preciso sai che comunque comunicherà in un certo modo, quindi dai già una linea che prescinde dal copy, come il contrario. Cioè se impronti la campagna o il progetto più sul testo o sul messaggio la parte visiva può avere un peso diverso, l’impronta che dai alla comunicazione.

CR

E anche lì conta il target, perché se devo fare una campagna funzionale alla raccolta fondi, io devo puntare su un target che ha una disponibilità economica tale da poter contribuire al progetto. Se invece sto facendo una campagna di awerness, cioè per far conoscere alle persone la possibilità di richiedere dei sussidi per i più poveri, ho un altro tipo di target e di messaggio e soprattutto di obiettivo, quindi vai a cambiare tutto. Per quello ti dicevo che è importante avere chiaro l’obiettivo della campagna. Poi ci possono essere dei paletti che sono legati alla identity dell’organizzazione. Le organizzazioni più grandi hanno delle linee guida più stringenti rispetto alle cose che puoi fare, soprattutto quelle con più respiro internazionale, mentre le organizzazioni più piccole sono anche prive di cose di sto tipo se non a livello implicito, cioè che magari un’organizzazione non ha un brand book però negli anni alla fine uno stile l’ha tirato fuori e quindi

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lo devi capire tu, come fare qualcosa che mantenga un minimo di sintonia, sono cose che hanno a che fare con quel tipo di percorso.

FPI

Quali sono le campagne che più vi hanno entusiasmato o che hanno funzionato meglio? Il tono della comunicazione è sempre diverso ma c’è una strategia per arrivare al cuore delle persone?

NR

Qui secondo me il discorso è più lungo, nel senso che ci sono più livelli. Prima di tutto dipende da chi la giudica. Se la dovessimo giudicare noi, per noi la campagna che funziona meglio non è necessariamente quella più bella o che ci piace di più. Come diceva Claudio, siccome fondamentalmente si parte da un obiettivo, forse esiste la campagna più giusta, che non è necessariamente la più bella. Cioè dipende. A volte riusciamo a fare il match con figo, bello, che funziona, ma non sempre ci riusciamo. Anche perché quello che è bello per te non è bello per il cliente, quindi si ritorna ad un altro tipo di complessità. Poi chiaramente noi come comunicatori sentiamo anche la responsabilità della narrazione che proponiamo quindi è anche il lavoro nostro impostare una narrazione, perché chiaramente anche la comunicazione no profit ha un impatto sulla percezione che le persone hanno. Non posso non dirti che le campagne “piagnone” non funzionano, perché in realtà funzionano. Proviamo però con tutte le nostre forze a fare qualcosa di diverso? Sempre. A volte ci riusciamo, a volte no.

CR

Banalmente il tasso di conversione, che significa quanta spesa in advertising io ottengo in donazioni, il tasso di conversione di un bambino denutrito in africa che ti appare sui social confrontato con una bella campagna, con un’illustrazione, con un bel gioco di parole e un messaggio chiaro, è imparagonabile. Cioè vince totalmente la prima.

NR

A volte incontri organizzazioni che anche loro credono che sia fondamentale e importante dare una narrazione diversa dei beneficiari, delle persone che poi vengono aiutate e dare loro una dignità, perché poi di questo si parla:

111al servizio dei migranti

rappresentare le persone con dignità. Per noi è fondamentale. A volte incontriamo dei clienti – questo poi riguarda principalmente il fundracing, in cui tu poi di fatto devi raccogliere i soldi, aspetto molto più tangibile – che la pensano esattamente come noi e si prendono anche il rischio di un periodo di comunicazione più blando, che magari subito non paga ma nel tempo pagherà di più; a volte invece i clienti vogliono proprio “il bambino gobbo”.

AR

Ad esempio con INTERSOS ci siamo riusciti con la campagna “è un attimo”. Se tu vedi tutte le campagne di Intersos sono tutte in bianco e nero, col migrante con la coperta. È una campagna che abbiamo fatto un anno fa e siamo riusciti, con una campagna multi soggetto con foto più positive, quindi a trasmettere il messaggio in un modo diverso. Poi ovviamente vanno valutati gli obiettivi della campagna, che sono diversi rispetto ai soliti.

CR

Poi il problema rispetto a questo è che ad un certo punto, dopo qualche mese, arriva il momento in cui devono fare la riunione del settore foundracing, devono dire quanto hanno raccolto quest’anno - quest’anno c’è stato un calo del 15% della raccolta fondi. Perché? Cosa abbiamo cambiato? Abbiamo smesso di mettere il bambino “gobbo” - quindi poi si va indietro di due passi. Il senso è che quello è un problema che ha a che fare con tanti aspetti della pubblicità.

NR

Ovviamente questo è molto vero quando l’obiettivo è il fundracing. Quando l’obiettivo è diverso, si può provare a sperimentare di più. Ad esempio quando l’obiettivo è firmare una petizione, fare un’azione di advocacy, fare una campagna di sensibilizzazione, di fatto non dovendo poi raccogliere dei soldi, in queste tipologie di campagne riesci ad avere tendenzialmente più spazio nella narrazione. Questo dipende dal posizionamento dell’organizzazione. Prima citavi Amnesty, che è un’organizzazione che nasce per fare advocacy e quindi di conseguenza avrà sempre un linguaggio di quel tipo perché da poco fa una comunicazione di raccolta fondi, male, infatti ha una crisi di identità, nel senso che li raccoglie in maniera diversa rispetto al one to one, e si può permettere di mantenere quella linea. Invece un’organizzazione che secondo me

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è un buon esempio bilanciato che sta cambiando è Actionaid, che sta cambiando comunicazione per arrivare alla generazione Z, ai ragazzi più piccoli, quindi stanno sperimentando una serie di formati. Rimane sempre sulle sponsorizzate con il bambino “gobbo”, però parallelamente stanno costruendo una narrazione molto positiva.

CR

Io però mi riferivo a quando c’è il conflitto, non il conflitto inteso come scontro, ma come le esigenze di fare un bilancio tra i tentativi di innovare, trasformare, usando un tema narrativo differente e il fatto che poi quando si tratta di raccogliere dei soldi per l’adozione a distanza, l’immagine del bambino adottato a distanza funziona di più funziona rispetto ad altre attività, anche se ogni tanto le blocchi. Ad esempio i video fatti con Cane secco, uno youtuber che ha fatto una serie di contenuti video molto leggeri, carini, motivanti sull’adozione a distanza hanno funzionato benissimo, proprio in termini di tasso di conversione. Quindi è possibile liberarsi da quel tipo di messaggio. Però appunto siamo arrivati a dirlo perché Nicole stava facendo giustamente un riferimento alla differenza tra bello e giusto, rispetto all’obiettivo.

FPI

Ci sono delle reference internazionali a cui guardate e allo stesso tempo, a livello nazionale e internazionale, se ci sono delle campagne che vi sono sembrate eticamente scorrette?

AR

Io credo che tutto quel tipo di comunicazione che è totalmente scollegata dal target o comunque completamente assuefatto - non tanto Save the Children perché magari lo centra il target – però pensando anche ai giovani quanto siano scollegate da quello che dovrebbe essere il target dei giovani. Sono tante che magari vorrebbero includere i giovani ma poi vanno su un target abbastanza generico.

NR

Per me una campagna sui migranti, che parla di queste tematiche che è figa e funziona, come la farei io, è “a mani tese” che giocava sui luoghi comuni, come “capra”, “torna a casa tua”, “vai a zappare la terra”. Sì quella è molto centrata.

dei migranti

113al servizio

Vorrei aggiungere una cosa di senso opposto. Una cosa che a me non piace è quando davanti a campagne che hanno l’obiettivo di parlare al beneficiario, come una campagna che si riferisce ad un segmento povero di cittadinanza e fargli sapere che può fare domanda di reddito di cittadinanza, oppure una campagna che serve per sensibilizzare o informare i rifugiati su una quesitone legata ai loro diritti, poi in realtà sono fatte totalmente dal punto di vista del bianco occidentale antirazzista. Sono campagne che finiscono col compiacere chi di noi è antirazzista, condivide una determinata impostazione e quindi girano tanto in quel segmento, vedi interazioni, condivisioni tra italiani e bianchi, senza alcun punto di connessione e relazione col soggetto a cui parli. Per questo è importante il target. Una cosa è se io devo fare una campagna per chiedere al governo di modificare una legge sulla cittadinanza e quindi devo parlare a chi ha potere di pressione sul governo. Un’altra cosa è se invece parliamo a chi è un soggetto più fragile. Riporto una discussione in una situazione di un banco alimentare in cui se tu dai una comunicazione della povertà che è quella stereotipata e piena di condizioni estreme, quindi il povero è sempre rappresentato come quello che chiede sempre l’elemosina o è quasi ai bordi della strada, davanti ad un contesto in un paese in cui tu hai 5 milioni e mezzo di persone in povertà assoluta, che non hanno casa e hanno però una famiglia, un lavoro, di fatto alimenti uno stigma e se il mio obiettivo è avvicinare la persona che è un nuovo povero entrato da poco in una situazione di difficoltà e lo devo portare a chiedere una mano, non lo farò perché non mi riconosco in quella raffigurazione, in quella rappresentazione della povertà. Quindi queste sono due tipologie di errori in cui si rischia di cadere.

AR

Questo poi si ricollega al fatto di cui parlavo, cioè quando la campagna è scollegata dal target reale. Io do quasi per scontato ma mi rendo conto che fuori non è per niente scontato: la scelta dei soggetti. Per fare una campagna si è spesso abituati a mettere l’uomo bianco o la donna bianca. Noi in particolare che sia sulle scelte fotografiche o illustrazioni, poniamo molta attenzione al colore, ai soggetti che scegliamo per le foto, all’ambientazione. Sono tanti dettagli che devi considerare quando ti approcci in generale

114 CR

a tutte le campagne che riguardano il sociale, ma su alcuni temi più sensibili c’è questa attenzione che spesso e volentieri non c’è da quello che vedo. Noi l’abbiamo assimilata come cosa ma mi rendo conto che al di fuori non è così. Come anche le parole che usi. Spesso è anche il cliente che ti pone dei limiti sulle parole da usare.

FPI

Vi facevo questa domanda anche perché in un’intervista che ho fatto a Miriam Castaldo, un’antropologa che lavora al san Gallicano, lei stessa mi diceva che da operatrice e persona esterna che non fa la comunicatrice quasi le dà fastidio questo modo un po’ italiano di trattare il tema dei migranti, in cui il migrante dev’essere per forza ferito, torturato, la donna deve avere il velo, che deve istigare quel senso di pietà al fruitore.

CR

Io sono d’accordo con l’osservazione critica, non penso sia un fenomeno soltanto italiano purtroppo. Se vediamo le campagne internazionali, piccole ma locali, sono piene di rimandi di questo tipo. La Francia è forse un pochino diversa perché diverso è il rapporto con la multiculturalità. Lì c’è una differente attitudine alla rappresentazione delle persone, perché fa parte di una quotidianità consolidata da generazioni.

NR

Su questo ovviamente parliamo non solo di sociale ma anche di scontro politico. È esagerata nel bene e nel male anche per una strumentalizzazione del linguaggio. D’altra parte, noi abbiamo delle caratteristiche che non possiamo far finta di non avere. Uno: noi siamo un paese vecchio e hanno una rappresentazione della multiculturalità di un determinato tipo. Due: la situazione di multiculturalità è molto diversa. Io in classe durante il mio percorso delle scuole non ho mai avuto qualcuno di non italiano in classe con me. Vedo i miei studenti che probabilmente vivono questo in maniera totalmente diversa.

AR

A Roma ad esempio ci sono delle scuole, proprio per la presenza politica, penso a Torpignattara, i rappresentanti dicono: “voi siete totalmente scollegati. Qui vivono tutti

dei migranti

115al servizio

benissimo con le classi multiculturali e venite a comunicare certe cose che non sono più reali”.

NR

Cambiare le narrazioni è giusto, però è un processo lento. Non può avvenire da un giorno all’altro. Noi facciamo quanto più ci è possibile ma bisogna anche capire le tempistiche. La realtà è complessa e da un punto di vista della comunicazione bisogna lavorare su più livelli contemporaneamente, che è quello che si sta facendo per poi alzare di più il livello.

FPI

Ci sono degli aneddoti, o degli episodi, che vi hanno particolarmente colpito, in merito a campagne percepita in maniera diversa, registrati sia da parte dei committenti che da parte dei clienti?

NR

In realtà il processo di lavoro è condiviso nei vari step quindi che ci siano delle grandi sorprese vuol dire che qualcosa è andato storto. Quando una buona campagna pensi che funziona di solito non ci sono grandi sorprese. Anche perché posso dirti la sincera verità un’altra grande pecca del mondo del sociale è che è ancora purtroppo molto indietro nella raccolta dei dati e quelli che ci restituiscono molto spesso sono parziali. Ora questa cosa sta migliorando, man mano che si va avanti, ma anche perché ci sono dei limiti strutturali. Quando fai una campagna del 5x1000 sai se è andata bene dopo 3 anni, alcuni limiti sono strutturali. Ci sono campagne i cui clienti sono contenti, dicono che sono andate bene. Non tantissimo riguardo il tema migrazione, non misurabili per la percezione di averci detto che sono andate bene.

CR

Va detto che tranne le campagne fatte da realtà più piccole, cose con grosso hype l’hanno avuto piccole organizzazioni con grosso impatto mediatico come le ONG. Noi ad esempio con Latte abbiamo un progetto di nome “Worth Wearing” che si occupa del merchandising di 400 organizzazioni e ad esempio nelle fasi di alta polarizzazione del dibattito politico intorno al tema salvataggi in mare, le campagne di merchandising e quindi di fundraising di quelle organizzazioni sono andate benissimo a livelli enormi.

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Però a parte queste, non è che quelle organizzazioni fanno, proprio per limiti strutturali, cioè sono organizzazioni piccole che mettono tutto il loro impegno sulla parte legale, di navigazione, quindi non ti fanno la grande campagna di sensibilizzazione ma la fa un po’ in house, gestendo i social media e dedicano poco a quello. Così come le organizzazioni che si occupano di accoglienza in maniera più verticale, quindi non in diversi ambiti, verticalmente su quello, non hanno tanti soldi per fare campagne in agenzia strutturate. Quindi sono meno, al di là di quelle che facciamo o altre agenzie, ma comunque ci sono poche campagne definibili tali sul tema accoglienza. Questo è un po’ un tema da analizzare perché poi si ha bisogno di un lavoro strutturato e continuativo, non episodico e non legato all’hype mediatico su questi temi.

FPI

Per assurdo, quando il dibattito politico si infervora queste campagne risultano essere più produttive. Ultima domanda a livello personale: al di fuori dello studio siete coinvolti in associazionismo, volontariato. Ovviamente se lo si fa di professione, porta a vedere queste situazioni più da vicino o non sempre?

AR

Io sono volontaria Emergency da qualche anno. Faccio volontariato nel tempo libero. Da un paio di anni sono stata inserita, perché hanno fatto un questionario proprio all’interno della ong e ci sono persone varie, anche su Milano, che sono all’interno di altre agenzie di comunicazione quindi supportiamo sia localmente gruppi che hanno bisogno di fare locandine oppure se c’è proprio da metter mano su cose di alto livello. Abbiamo creato un gruppo di persone più competenti. Ovviamente tu dai più supporto al tuo gruppo locale, però poi abbiamo creato quest’altro gruppo più vario a livello nazionale. Credo dipenda dall’organizzazione.

FPI

È una domanda che mi interessava perché io faccio parte degli Studenti AIAP Lazio, associazione di grafici italiani. Abbiamo creato un progetto di studenti per aiutare alcune associazioni locali, aiutati dai senior dell’associazione. Volevo capire se ci fossero altre realtà di volontariato grafico.

117al servizio dei migranti

Non faccio solo cose legate alla comunicazione, ma sono cose sulle quali ho sviluppato una competenza e faccio sia nel circolo Arci di cui faccio parte sia nel banco di mutuo soccorso che nella rete nazionale si chiama UP, seguo anche la parte comunicazione, non solo ma do una mano anche su quello. Noi come agenzia facciamo progetti pro buono. Non te lo puoi permettere sempre perché ha un costo interno alto, perché bisogna farlo comunque bene, ma periodicamente lo facciamo. Oppure siamo noi che troviamo un finanziamento di una fondazione per aiutare un’organizzazione e farle un lavoro senza costi per l’organizzazione. Su queste cose ci lavoriamo soprattutto quando ci piacciono.

AR

In realtà “Worth Wearing” è nato come uno spin off di Latte, da un’idea del nostro fondatore che in realtà poi dà la possibilità alle associazioni più piccole di avere visibilità. Era una piattaforma e-commerce, insomma crei il tuo store, il tuo e-commerce online vendendo magliette disegnate per raccogliere fondi per la tua causa e non ha costi per l’organizzazione. Per esempio per la campagna “Umani” abbiamo fatto lo store, abbiamo fatto una call to action proprio per illustratori, designer che volessero partecipare a votazione sui social e poi abbiamo fatto una cernita delle magliette che volevano caricare, comunicazione. È andata molto bene, loro non se l’aspettavano. È stato un bellissimo esempio. Doveva essere online per 3 mesi ed è ancora online. È uscita anni fa. Sta andando bene anche a livello di vendite, anche offline. Siamo andati al festival di Internazionale di cui Medici è partner, quindi era lì con lo stand, vendette tantissimo e poi loro decisero di lasciarlo online. Il visual della campagna originale è stata poi fatta da un’altra agenzia, ma in realtà quella che è andata meglio è sicuramente quella delle magliette. È un bell’esempio per farti capire che anche come agenzia ci sono dei modi per arrivare alle stesse organizzazioni con cui anche noi facciamo campagne, però su alcuni temi, alcune cose in particolare magari bisogna avere un approccio diverso.

NR Io adesso faccio molto meno. Io faccio parte di un collettivo con cui facciamo una campagna che fondamentalmente scegliamo noi, che però non la facciamo per un’organizzazione sola. Lavorare con un’organizzazione è complesso e anche

118 CR

quando tu gli regali la campagna, passi molto più tempo a discutere perché secondo loro non va bene, quindi abbiamo fatto una scelta più radicale. Noi prendiamo delle tematiche sociali, creiamo eventualmente una rete di organizzazioni però la parte decisionale è nostra. È come se collettivo lanciassimo noi la campagna e poi chi vuole aderire aderisce. L’ultima campagna che abbiamo fatto quest’anno si chiama “Libera di abortire”. Di fatto noi nasciamo con la campagna “Solo in cartolina”, una campagna sulla migrazione. Abbiamo fatto lo spin off con la scuola holden, sui migranti che attraversano le alpi. Facciamo delle cose in cui però non siamo noi che offriamo i nostri servizi ad un’organizzazione o ad una ong, ma siamo noi a scegliere una tematica, anche in base alle relazioni che ci sono in quel momento e lanciamo una campagna dove noi abbiamo, come su “Libera di abortire”, fornito tutto il materiale e se la son vista loro, e in altri casi come in “solo in cartolina” abbiamo gestito tutto noi e tendenzialmente cerchiamo di fare un progetto l’anno. Ci vuole tanto tempo. Non sempre tutte le persone riescono a dare il cento percento e va bene così.

FPI

Vi ringrazio davvero tanto per questa intervista e speriamo di vederci presto.

NR

È stato un piacere, per qualsiasi cosa siamo qua! Ciao.

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p resso alcuni ufci p ostali p ressoil municip i o dellaDimora p resso punti Ro m a facile p resso luogh i di culto presso Centri di Orie ntamentoalLavoro presso bibliot e che diRom a o C AIP pressoASL p resso sportello u n i c o p resso Age n zia dell'Entr a t e 120 ARRIVO A ROMA PERMESSO DI SOGGIORNO CARTA D'IDENTITÀ NAVIGAZIONE INTERNET RELIGIONE INSERIMENTO LAVORATIVO E CORSI DI FORMAZIONE IMPARARE L'ITALIANO ISCRIZIONE AL SSN SALUTE INFORMAZIONI CODICE FISCALE SPID TESSERA SANITARIA CAV E CONSULTORIO FEMMINILE

Primi passi a Roma

Quando un migrante arriva a Roma deve effettuare una serie di passaggi per rendere legale il suo soggiorno. Il comune mette a disposizione alcune brochure e alcuni info point che però non sempre sono del tutto accessibili e comprensibili, soprattutto per chi conosce a malapena o per niente la lingua italiana. Lo sportello unico è un primo approdo per chi ha bisogno di servizi di accoglienza e di ricerca lavoro e supporto legale ma purtroppo, nel caso del comune di Roma, è aperto per sole 6 ore a settimana, in determinati orari e determinati giorni; sono tuttavia forniti dei numeri di telefono e delle mail a cui rivolgersi. I documenti sono necessari per molte azioni da compiere sul suolo italiano ma è possibile riceverli solo con una determinata sequenza. Il primo da possedere è il permesso di soggiorno che è possibile ottenere compilando uno specifico kit che distribuiscono solo in alcuni uffici postali.

In secondo luogo sarà possibile osservare lo svolgimento della pratica attraverso un sito dedicato. Successivamente all’ottenimento del permesso si può procedere con la richiesta del codice fiscale attraverso l’agenzia delle entrate.

Per quanto riguarda la carta d’identità, invece, è indispensabile avere una dimora all’interno del Comune di Roma e si può ricevere attraverso l’ufficio anagrafe del Municipio corrispondente. Solo dopo l’iscrizione anagrafica è possibile ricevere la carta d’identità elettronica attraverso la quale richiedere lo SPID – Sistema Pubblico di Identità Digitale, necessario per molte pratiche burocratiche. Per agevolare queste pratiche sono messi a disposizione dei computer con rete internet in vari punti Roma facile sparsi per il territorio. Tutti questi documenti sopra citati sono necessari per l’iscrizione al SSN, sistema sanitario nazionale, che si effettua presso la ASL di competenza. Verrà così rilasciata la tessera sanitaria, valida fino alla scadenza

121al servizio dei migranti

Lo sconforto e il disorientamento che si può provare in condizioni di estremo disagio personale trovandosi di fronte a mille passi da fare per legittimare la propria presenza su un territorio straniero, senza comprendere bene cosa accade e soprattutto senza percepire i rischi in cui si può incorrere.

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del permesso di soggiorno e fondamentale per l’accesso ai servizi sanitari, molti dei quali gratuiti. Per i servizi riguardo la salute c’è un occhio di riguardo per le donne con gli interventi di prevenzione che possono essere richiesti presso il consultorio femminile, o in caso di violenze e maltrattamenti, abusi e sfruttamento, è possibile rivolgersi ai CAV, centri anti violenza, sparsi per il territorio romano a cui è possibile anche rivolgersi attraverso il numero 1522. Una delle difficoltà più grandi una volta arrivati a Roma, o in generale in Italia, è proprio la poca conoscenza della lingua ed è per questo che il Comune mette a disposizione presso le proprie biblioteche dei corsi per imparare la lingua italiana.

Tutti i corsi sono gratuiti e prevedono anche delle uscite esterne con visite guidate e guide ai servizi per i cittadini offerti dal territorio. Le informazioni per i corsi si possono ottenere attraverso i CPIA, centri per l’istruzione e la formazione degli adulti. Imparare l’italiano è necessario anche per cercare e trovare lavoro: nel comune di Roma è possibile rivolgersi ai Centri di Orientamento al Lavoro per depositare il proprio curriculum vitae, usufruire di servizi mirati all’inserimento lavorativo e di corsi di formazione e per ricevere supporto. Non ultimo è garantito il diritto alla professione del proprio credo religioso e il Comune stesso fornisce degli elenchi delle varie moschee, templi, chiese e sinagoghe presenti nella Capitale.

Insomma, un migrante appena arrivato a Roma, con scarsa o nulla capacità di linguaggio, si trova davanti ad una rete di pratiche di difficile comprensione anche per un cittadino italiano. Non oso immaginare lo sconforto e il disorientamento che si può provare in condizioni di estremo disagio personale trovandosi di fronte a mille passi da fare per legittimare la propria presenza su un territorio straniero, senza comprendere bene cosa accade e soprattutto senza percepire i rischi in cui si può incorrere. Per fortuna esistono cooperative come Civico Zero Onlus che aiutano i migranti nel processo di inclusione e integrazione e li proteggono da problematiche esterne di sfruttamento.

123al servizio dei migranti
124 49.50.51 Alcuni laboratori all'interno della cooperativa Civico Zero Onlus.

Un centro a bassa soglia

Nell’anno accademico 2019-2020 l’intera RUFA è stata coinvolta in un progetto di place identity chiamato San Lorenzo Cultural District che ha visto tutti i corsi impegnati nella riqualificazione e nella elaborazione dell’identità visiva del quartiere San Lorenzo. All’interno del corso di Graphic Design II, il primo semestre è stato completamente dedicato alla conoscenza del quartiere e alla raccolta di dati e interviste delle persone che quotidianamente vivono il territorio, proprio per promuovere un approccio all’identità visiva che partisse dal basso e soddisfacesse le esigenze di chi quel quartiere lo abita e lo frequenta costantemente. In questo contesto ho conosciuto la cooperativa Civico Zero Onlus, centro diurno per minori stranieri non accompagnati, e già dalle interviste svolte in quel periodo ho apprezzato l’attitudine dei coordinatori e degli operatori che popolano la struttura. In particolare è molto interessante il concetto di bassa soglia: come visto nel paragrafo precedente e nell’intervista con l’antropologa Miriam Castaldo, quando un migrante arriva in Italia deve compiere una serie di passaggi per ricevere i documenti necessari ad accedere ai servizi primari che noi, da cittadini Italiani, siamo abituati a dare per scontato. Centri come Civico Zero sono definiti a bassa soglia proprio perché offrono servizi base di prima necessità richiedendo solo nome, cognome, nazionalità e numero di cellulare e diventano poi fondamentale punto d’appoggio e d’aiuto per il percorso di inclusione sociale che il migrante dovrà affrontare: questi sono punti cardine della mission della cooperativa che promuove anche l’autonomia abitativa e lavorativa e l’opportunità di realizzare i propri desideri. Prima di tutto questo però, viene garantita l’accoglienza e la protezione dei minori che, giunti in Italia, si trovano spesso in condizioni di sfruttamento, abuso e marginalità sociale. Gli operatori effettuano, infatti, delle uscite di outreach, una serie di interventi mobili su strada

125al servizio dei migranti

o nei contesti di vita o aggregazione dei minori, che permettono di mappare e mantenere sempre aggiornato il monitoraggio delle condizioni di vulnerabilità, informare e far conoscere il centro ai minori e quindi ridurre i danni dovuti a questo fenomeno. Una volta all’interno della struttura è possibile accedere a progetti socio-educativi, come il cantiere linguistico in cui si favorisce l’apprendimento della lingua italiana, e servizi psico-sociali, come il supporto psicologico e lo sportello legale per la tutela nei confronti di soggetti svantaggiati. La grande forza di Civico Zero, però, sono anche i tanti laboratori espressivi e artistici che sono un vero e proprio fiore all’occhiello della cooperativa. Infatti all’interno della struttura è possibile accedere a laboratori di fotografia, teatro, video, scrittura, musica rap e percussioni, con la possibilità di usufruire degli spazi ampi del centro al cui interno è anche presente una sala d’incisione. I momenti di aggregazione che si vengono a creare sono fondamentali per il benestare dei ragazzi che hanno così modo di esplorare diverse dimensioni personali e rafforzare competenze volte a favorire un migliore processo di integrazione. Da queste esperienze sono stati prodotti due cortometraggi, un piéce teatrale ed è nata la compagnia teatrale Tokos e il gruppo musicale Le Percussioni di Civico.

Il successo delle attività di partecipazione sta portando all’introduzione, in questi mesi, dell’attività sportiva come ulteriore strumento di aggregazione e inclusione sociale. In particolare attraverso il calcio sarà possibile offrire un ulteriore output alla soddisfazione dei bisogni personali dei minori che frequentano il centro.

Per riuscire a comprendere meglio i vari aspetti della cooperativa ho raccolto i materiali sviluppati durante gli anni, parlato con diversi operatori e coordinatori del centro e effettuato alcune interviste con delle domande specifiche su alcuni argomenti.

127al servizio dei migranti

Intervista a Valentina Aquilino

La seguente intervista con Valentina Aquilino, coordinatrice della cooperativa Civico Zero Onlus, arriva dopo una serie di incontri con la presidente Laura Cucinelli e la project manager Chiara Macci. L’incontro si è svolto dal vivo e sono stati mostrati diversi materiali di comunicazione prodotti dalla cooperativa durante gli oltre dieci anni di vita e l’obiettivo principale era quello di comprendere a pieno tutte le dinamiche che si intersecano all’interno della struttura e cominciare ad elaborare un piano di comunicazione e di azioni strategiche da rafforzare o introdurre.

FPI

Ciao Valentina. Puoi illustrarmi le attività che svolgete all’interno di Civico Zero e i materiali che utilizzate?

VA

Ciao. Allora principalmente noi abbiamo materiali che si rivolgono ai ragazzi cioè che noi utilizziamo all’interno di Civico Zero perché sono rivolti ai ragazzi e materiali invece che si rivolgono più all’esterno e non ai ragazzi, perché magari sono materiali di comunicazione rivolta ad altri attori della rete, per esempio, organizzazioni che lavorano come noi in questo settore o eventuali donatori oppure finanziatori nell’ambito dei progetti, quindi c’è questo doppio livello: da una parte i materiali che sono più pensati e rivolti ai ragazzi e dall’altra parte materiali destinati ad attori esterni, immaginiamo adulti. Abbiamo quindi una distinzione. In questo senso noi abbiamo anche sviluppato delle cose in momenti poi differenti immaginandole con stili completamente diversi perché magari da una parte anche la grafica che si rivolge ai ragazzi può essere più semplificata in qualche modo dall’altra parte invece un po' andare ad agire anche su altri livelli.

129al servizio dei migranti

FPI

Per questi ragazzi si parla appunto di materiali di formazione come ad esempio la guida da sviluppare per il progetto di orientamento linguistico?

VA

Vario genere: abbiamo per esempio materiali che distribuiamo in qualche modo fuori, tipo pubblicitario, tipo questo è molto semplice è stato immaginato per essere distribuito, e poi è tradotto anche nelle varie lingue, a ragazzi: dà delle piccole indicazioni dei recapiti, come raggiungerci e descrive molto brevemente quelli che sono i servizi che un ragazzo può trovare qui a Civico. A livello di grafica avremmo immaginato di lasciare il rosso perché è poi uno dei colori che ci caratterizza e poi renderlo in questo formato che è tascabile pensando che i ragazzi poi alla fine hanno le tesserine che sono tutte più o meno tipo tessera. Questo per esempio era un tipo di materiale che abbiamo sviluppato per loro. Altra tipologia, ma sempre rivolto ai ragazzi, per esempio sono i materiali, e qui forse noi non abbiamo mai avuto un modello che fosse un modello civico zero, materiali per esempio di valutazione nell’ambito delle nostre attività, questo ne è un esempio, questo è nato nell’ambito di un progetto per cui di fatto a livello grafico ha i classici loghi cioè contiene i vari loghi delle persone e dei partner coinvolti nel progetto. Quale era la funzione di questo materiale? E poi in realtà noi su questo ambito ci troveremo a lavorare tanto, quindi per questo te lo racconto, cioè spingere sempre di più nell’ottica di lavorare sull’impatto che le azioni di Civico Zero hanno sui ragazzi. Questo è relativo alla scuola, è quasi un questionario di gradimento, immaginiamo di poter avere dai ragazzi dei feedback anche sul tipo di lavoro che noi abbiamo fatto rispetto a quella determinata azione. In questo caso era molto semplice. Considera sempre che sono fatti in questo modo perché diversi ragazzi non hanno grande padronanza con la scrittura e la lettura per cui anche il sistema delle faccine era più immediato rispetto ad una valutazione numerica, una scala, non c’è un progetto grafico su questa cosa. Per esempio su questo ambito noi per nostro progetto futuro ovviamente poiché nel corso del prossimo triennio vorremmo lavorare tanto proprio in questo senso, cioè continuare a far cogliere dai ragazzi dei feedback che rendano in qualche modo il nostro lavoro sempre più adatto e aderente alle aspettative dei ragazzi, quindi non farlo solo relativamente alla scuola di italiano ma magari immaginare

130

che qualsiasi ragazzo che venga a Civico Zero per un’attività in un modo che può essere quella di lasciare una propria testimonianza, possa raccontarci qualcosa dell’esperienza che ha fatto in modo che noi possiamo poi ovviamente rimodulare, riadattare, ecc.

FPI

Per quanto riguarda le scuole, la formazione, oltre la scuola di italiano quali sono gli altri ambiti?

VA

Ci sono diverse attività. Abbiamo per esempio tutti i laboratori, quindi raccogliere feedback dei ragazzi rispetto a tutte le attività di laboratorio. Le attività di civico zero più strutturate sono: il servizio legale con uno sportello a cui accedono i ragazzi; lo sportello lavoro; la scuola di italiano; laboratorio di teatro; laboratorio video, fotografia, musica rap, percussioni, scrittura. Adesso partiremo con una attività sportiva di calcio e poi, periodicamente, integriamo e anche qui ci piacerebbe utilizzare allo stesso modo degli strumenti di raccolta di feedback dei ragazzi, attiviamo dei progetti specifici, ad esempio, di consultazione, focus group, su tematiche varie. In particolare adesso stiamo lavorando sul tema della salute, su un progetto con il ministero della salute, che è relativo alle misure di prevenzione per contrastare il covid e stiamo svolgendo delle attività di consultazione con i ragazzi. Anche lì ci vorremmo immaginare di poter avere dei materiali che possano restituirci qualcosa di quello che poi i ragazzi prendono da quei momenti stessi. Questo è uno degli ambiti. Però in generale noi con i ragazzi utilizziamo tantissimi strumenti: dai volantini a sviluppare nel corso del tempo magari delle attività informative sui loro diritti, informativa legale. Però non abbiamo mai avuto un fil rouge.

FPI

Verso i ragazzi c’è altro? Per esempio quando stanno qui e giocano a ping pong o biliardino, ci possono essere delle situazioni in cui possono servire dei materiali informativi o segnaletica, magari hanno bisogno più di una parte iconica piuttosto che scritta perché c’è diversità di lingue?

131al servizio dei migranti

Si, noi abbiamo sempre sviluppato tematiche che magari utilizzavamo sia nell’ambito di attività che svolgiamo in gruppo con loro che però fossero magari appese. Per esempio noi avevamo realizzato sempre per i ragazzi nell’ambito di una delle attività di informativa che poi è anche un pannello che per un periodo avevamo esposto all’interno di Civico, questo qui lo abbiamo tenuto nella zona ludica più frequentata perché comunque era una informativa indiretta cioè che magari stimolava l’interesse verso una determinata attività. Sempre nell’ambito di questa attività sui diritti avevamo sviluppato questo tipo di materiale per il momento dei diciotto anni, che è quello più delicato per i ragazzi, e poi questo è pensato, un muro, sempre su idea dei ragazzi. Perché poi alla fine avevamo raccolto un po' di loro idee, sempre nell’ambito di un percorso partecipativo, e qui l’idea era di mettere delle cose per questo Martina portava dei pezzetti, cioè come costruisco questo muro attraverso dei mattoni che fanno parte del mio percorso in Italia, le buone relazioni, la scuola, e di volta in volta fare questo ragionamento con i ragazzi quindi far sì che da loro venga fuori quali sono i mattoni importanti per costruire il percorso in Italia. Che cosa mi può servire per far sì che il mio sia un percorso positivo, come un muro in costruzione con mattoni che mi fanno accumulare dei pezzetti che mi portano a qualcosa.

FPI

Invece verso l’esterno quali materiali e azioni svolgete?

VA

Verso l’esterno abbiamo una storia più recente. Perché noi abbiamo un lunghissimo lavoro in cui ci siamo molto proiettati sui ragazzi, verso l’esterno abbiamo iniziato a lavorare in termini di comunicazione più recentemente quindi abbiamo sviluppato meno cose anche lì su esperienze specifiche; per esempio questa era una campagna di raccolta fondi e sensibilizzazione sulla scuola, avevamo sviluppato questo volantino e questo che invece raccontava di Civico sempre però alle persone esterne quindi non tanto ai ragazzi tanto per il linguaggio ovviamente che era diverso rispetto a quello che può cogliere un ragazzo, ma anche qui in ottica promozionale del nostro intervento con l’obiettivo di farci conoscere all’esterno e raccontare chi siamo e in qualche modo anche creare il nostro posizionamento sul tema.

132 VA

È descrittivo delle nostre attività, c’è una piccola descrizione di tutto quello che svolgiamo, più rivolta a una persona che può essere un addetto al settore o un interessato, piuttosto che al ragazzo.

FPI

Mentre on line c’è qualcosa?

VA

On line c’è qualcosa su tutto quello che nel tempo abbiamo creato, ha avuto sempre un formato che poteva essere condiviso sui social, in particolar modo sulla comunicazione verso l’esterno. Verso i ragazzi invece abbiamo sviluppato molto meno la parte della comunicazione tramite social ai ragazzi, a livello grafico, perché magari utilizzavamo semplicemente il post o la visione di una immagine senza magari immaginare uno strumento ad hoc. Nel periodo, per esempio, del lockdown invece ci siamo ritrovati a rendere vivi i social anche per i ragazzi perché i ragazzi di fatto avevano sempre avuto un uso discontinuo. Quello è stato un po’ uno spartiacque perché dopo di quello, non solo noi in qualche modo, ma anche i ragazzi hanno scoperto la potenzialità della comunicazione attraverso uno strumento digitale anche della comunicazione con Civico; tant’è che prima di quello i ragazzi spesso anche da lontano si recavano a Civico o comunque ci chiamavano telefonicamente per informazioni. Oggi utilizzano anche quel canale. In quel periodo noi abbiamo, in maniera molto artigianale, lavorato per comunicare attraverso video principalmente tutta una serie di cose appunto relative a informazioni sul tema salute principalmente e pensando non tanto però a sviluppare dei progetti grafici, piuttosto abbiamo utilizzato la strategia dell’uso della faccia dell’operatore, attraverso il racconto, il video dell’operatore arriva al ragazzo un’informazione più diretta, immediata, in lingua, di una determinata situazione.

FPI

La lingua è un grosso ostacolo?

VA

Sì, perché noi lavoriamo tanto con ragazzi che sono arrivati da poco in Italia e che hanno delle competenze linguistiche basse e, quando le hanno un po’ più elevate, spesso sono solo comunicative.

migranti

133al servizio dei

FPI

Quale potrebbe essere la strada che unisce tutti loro?

Un inglese base?

VA

Sì tant’è che anche qui, per esempio, le parole erano poche ridotte all’osso però comunque ci sono, si immaginava di rendere esplicita l’immagine.

FPI

Avete priorità a livello di materiale da sviluppare?

VA

A livello grafico stiamo finalizzando il discorso di scrittura e non abbiamo ancora ragionato su come proporre una grafica in questo senso, sicuramente è un lavoro che dovremo fare non so quando ma a strettissimo giro sì.

FPI

Elaboro un piano e poi andiamo a specificare alcune cose. Si può pensare di predisporre un modello replicabile per ogni elaborato grafico con una coerenza visiva e che andasse oltre la lingua, un po' più iconico, figurativo e dedicato?

VA

Sì secondo me potrebbe essere una buona idea. Mi viene da pensare che sarebbe molto interessante. Ho visto un lavoro che tu hai fatto “spartiti emotivi” dove c’era una coerenza simbolica. Questo tipo di cosa sarebbe molto bella da sviluppare rispetto ai materiali dei ragazzi, perché oggi manca del tutto perché c’è il progetto nello stile classico che non attrae per niente e l’una tantum sviluppato nell’ambito di una attività con i ragazzi.

FPI

Negli anni magari si è evoluto Civico Zero che è nato con un presupposto e poi si evolve. Ora sarebbe bene fare un recap di tutte le attività che ci sono e una volta che hai una struttura di tipo ad albero che evidenzia cosa è Civico Zero, puoi fare delle icone, un sistema di colori, un sistema che vada a delineare ogni campo però rendendo il tutto identitario.

134

VA

Questa cosa del sistema dei colori mi fa venire in mente una cosa. Noi abbiamo per esempio una nostra ideale raffigurazione di quello che è il percorso che i ragazzi fanno qui dentro che corrisponde a tre livelli, che non tutti percorrono necessariamente, che però in qualche modo distinguono gli ambiti: ambito di bassa soglia, dell’accoglienza, dei servizi di base; poi c’è l’ambito dei laboratori espressivi, di tutto quello che è il lavoro sull’empowerment dei ragazzi attraverso l’espressione e il coinvolgimento in attività informali. Poi c’è tutta l’area dell’accompagnamento all’autonomia quindi in particolare la scuola e lo sportello di accompagnamento al lavoro, di inserimento lavorativo e abitativo. Per noi sono dei livelli distinti quindi già immaginare di avere dei colori che rappresentano queste tre aree di intervento potrebbe essere già una soluzione. Noi abbiamo sempre immaginato come l’accoglienza, l’integrazione, l’inclusione sociale, l’autonomia. Cioè immaginare appunto di dare una coerenza, ma anche una rappresentatività di quella che poi è la grafica. Quindi immagino un domani tutto il materiale attinente a quel tipo di ambito possa avere un certo tipo di grafica che lo accompagna.

FPI

Infatti è importante perché da un lato vai tu stesso a mettere ordine (per te stesso) e dall’altro dai anche all’esterno un servizio migliore per i ragazzi che anche già dal colore e dalla forma riescono a capire bene in che ambito sono perché c’è chi fa laboratori, chi sportello legale, chi fa altre cose, per cui può essere carino dare oltre alla lingua parlata anche questa sensazione più primitiva, più sensoriale.

VA

Esatto, poi immaginare che tutto quello che attiene a quel determinato servizio o area possa avere anche solo il colore di riferimento è, già solo a livello grafico, ti aiuta a distinguere una determinata cosa. Cioè noi abbiamo sviluppato tante cose random perché noi siamo cresciuti nel tempo e abbiamo ampliato i nostri servizi, siamo nati da una tesserina che prevedeva solo nome, cognome e nazionalità, che era l’unica cosa che serviva con il numero di telefono di civico. Poi si è inserito il social, ma tempo dopo. Con i ragazzi abbiamo condiviso tante cose però anche lì partendo molto dal basso. Per esempio la condivisione della programmazione

135al servizio dei migranti

settimanale dei laboratori, una bacheca con i giorni nelle varie lingue e l’icona delle percussioni oppure del rap, però anche lì a proprio libera manualità. Un domani potrebbe essere carino su quello stesso cartellone mettere anche tutti gli altri servizi caratterizzandoli per esempio di rosso tutti i laboratori, verde l’orientamento al lavoro, viola lo sportello legale, ecc. In questa fase posso raccontarti tutto quello che attiene le determinate aree, se poi riteniamo di coinvolgere alcune delle persone a quel punto ti faccio da ponte. Può essere utile creare l’impianto al di là del dettaglio, di dare il senso.

FPI

Iniziare a fare un ragionamento, andare a dividere gli ambiti è già qualcosa che, non sembra, ma aiuta tanto e ti chiedo di lasciarmi qualcosa del materiale che avete.

VA Va bene. Ti passo tutto e andiamo avanti.

FPI

Va bene, grazie e ci aggiorniamo.

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137al servizio dei migranti conclusioni

Alla fine di questa ricerca sorgono alcuni quesiti sulla natura teorica della grafica sociale. È ancora possibile un periodo come quello della grafica di pubblica utilità in Italia? In una società così legata al capitalismo e al consumismo ha ancora senso parlare di social design? Il rapporto tra comunicazione visiva e amministrazioni comunali si è perso molto all'inizio degli anni '90 e oggi, se da una parte si è recuperata la necessità della comunicazione, soprattutto attraverso i social network, dall'altra vediamo anche una qualità più scarsa e banale dell'informazione, finalizzata solo al contenuto rapido e più alla costruzione di una reputazione che di una reale volontà di scambio di opinioni con la cittadinanza. Oggi probabilmente ha più senso parlare di social design, progetti a tutto tondo, rivolti soprattutto ai migranti, finalizzati all'inclusione sociale e all'integrazione. Sono molti i campi d'intervento legati alle tematiche d'attualità e alla comunicazione rivolta ai più bisognosi o a coloro che vivono situazioni di degrado e disagio. L'abilità del designer in questo tipo di lavori deve essere quella di saper coinvolgere tutti i partecipanti, dare in mano ad ognuno di loro un compito da portare a termine e da questi elementi estrapolare l'elaborato umano. Fondamentale è creare o avere una rete con gli altri enti del territorio o con le amministrazioni che, in alcuni casi, possono aprire fondi regionali o europei per sostenere le cooperative o i collettivi che operano nel settore. Nel volume 2 di questa tesi ho elaborato una mappa con alcuni interventi utili alla creazione di un piano di comunicazione per Civico Zero Onlus, cooperativa con sede nel quartiere romano di San Lorenzo. Ogni azione porta ad un elaborato umano, stampato o digitale che può essere utilizzato sia per la gestione dei laboratori espressivi e artistici che per il sostegno degli stranieri minori non accompagnati in tutte le fasi del loro soggiorno a Roma. Allo stesso tempo è fondamentale pensare ad una comunicazione rivolta verso l'interno per la formazione degli operatori che si approcciano per la prima volta alla cooperativa, sia verso l'esterno per far conoscere tutte le attività che si svolgono all'interno della struttura.

139conclusioni

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per gentile concessione di Latte Creative Studio

50, 51 per gentile concessione di Civico Zero Onlus

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La natura e il fine del progetto sono di carattere didattico, non commerciale e non lucrativo. L'utilizzo di materiali protetti da copyright segue le regolamentazioni realtive al fair use.

Finito di stampare nel mese di Febbraio 2022 presso Tipografare, via della Magliana 1098 — 00148 Roma RM
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