Elio Ciol - Concrete astrazioni

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ELIO CIOL

ELIO CIOL

concrete astrazioni

concrete astrazioni ISBN 88-902036-7-6

â‚Ź 9,90


ELIO CIOL

concrete astrazioni

Motta di Livenza, Palazzo “La Loggia” 24 marzo – 1 maggio 2007

Promossa da Circolo dell’Immagine “La Loggia” A cura di Sergio Momesso e Carlo Sala Coordinamento e assistenza Adriano Girotto e Maurizio (Memi) Vendramini Testi di Angelo Maggi Sergio Momesso Carlo Sala

ISBN 88-902036-9-2 Copyright by Elio Ciol / Punto Marte edizioni


ELIO CIOL

concrete astrazioni

a cura di Sergio Momesso e Carlo Sala



verso una nuova poetica del paesaggio: astrazione e bellezza naturale nelle fotografie di Elio Ciol Angelo Maggi Le pietre posseggono un non so che di solenne, di immutabile e di estremo, di imperituro o già finito. Sono seducenti per un’intima bellezza, infallibile, immediata, che non deve niente a nessuno: necessariamente perfetta, esclude però l’idea della perfezione, proprio per non permettere approssimazioni, errori o eccessi. Questa naturale bellezza anticipa e supera il concetto stesso di bellezza, ne offre insieme garanzia e sostegno. In tal senso questa naturale, genuina beltà anticipa e supera il concetto stesso di bellezza. Roger Caillois, L’écriture des pierres, Genève 1970.

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lio Ciol è senza alcun dubbio uno dei grandi maestri italiani della fotografia di paesaggio. Il suo lavoro è noto a molti cultori dell’immagine fotografica per l’alta qualità della stampa, per il lirismo del soggetto selezionato, e soprattutto per l’immaginario po-

etico che evoca. Forse troppo spesso paragonato ai più importanti fotografi americani di paesaggio, qui, mi preme insistere sul forte carattere di italianità nella visione di Ciol, evidente negli scatti realizzati durante i cinquanta anni di prestigiosa carriera. Si passa dall’incanto della campagna friulana ai contorni e agli arabeschi di linee che l’autore identifica durante gli innumerevoli viaggi in ogni angolo della terra. La percezione dei dati visivi è fortemente condizionata dallo sguardo attento e allenato in quanto fotografo d’arte e d’architettura. Con la stesso acume con cui tratterebbe una superficie pittorica o scultorea egli ricerca quei codici dell’arte del nostro paese nelle forme del paesaggio che sembrano vivere di una propria vita estetica. Leptis Magna in Libia, Garni e Novarank in Armenia, Meteora in Grecia, sono solo alcuni dei luoghi dove Ciol ha messo in atto questa abilità. Goethe, nella Teoria dei colori, afferma che il semplice guardare non ci permette di progredire, ma è necessario vivere il piacere della contemplazione attraverso la rappresentazione dei luoghi. Per Ciol la fotografia, come arte della rappresentazione, diviene atto della visione e del sentimento che dalla ricezione si trasforma in riflessione estetica e narrazione sulla natura. L’opera fotografica Concrete astrazioni entra a far parte di questa gioia cosciente della percezione estetica tesa ad un coinvolgimento più ampio e ad un intreccio di emozioni.


Secondo il fotografo, questa nuova elaborazione di immagini, rappresenta un reportage di un viaggio nei meandri della terra e della memoria, tra le forme rapprese di un immaginario plasmato dalla natura e inciso dal tempo, in balia di quei vortici di luci e ombre che rivelano e connotano i mondi reali e fantastici. Costituita per lo più da opere inedite e realizzate appositamente durante un viaggio presso l’Antelope Canyon, questa straordinaria raccolta fotografica è ricavata dal susseguirsi di singole fotografie scattate in un breve lasso di tempo al medesimo paesaggio, ruotando leggermente le coordinate di ripresa. Il risultato è un racconto per immagini cadenzato, variabile seppur rispecchiante un senso di continuità, in cui – con le piene e spontanee manifestazioni della natura – mutano le luci, i riflessi, le atmosfere. Il paesaggio letto o interpretato come la sequenza di un linguaggio spontaneo, e il fluire sistematico della percezione visiva dei luoghi, del resto, sono elementi fondanti in gran parte della produzione fotografica di Elio Ciol. Definito dagli esploratori americani come uno dei luoghi più suggestivi nel deserto dell’Arizona, l’Antelope Canyon è una piccola cavità sotterranea lunga circa 250 metri in territorio Navajo. Il canyon, con le sue pareti levigate, sinuose e ondulate, offre al visitatore l’incanto della bellezza che la natura ha saputo infondere con le sue trasformazioni, con i fenomeni dell’erosione. Da un punto di vista fotografico, la suggestione di questo luogo, divenuto Mecca non solo per gli amateur ma anche per molti professionisti, è determinata dalla luce zenitale che si irradia sulle rocce creando una maestosa prospettiva che si apre su di uno spazio fluttuante e immateriale. Condizione necessaria per viverne l’anima più profonda è essere al suo interno durante le due ore in cui filtra il sole, ovvero quando il canyon si illumina di colori che vanno dall’arancione al rosso. Anche nelle giornate più limpide però, la luce che attraversa la fenditura è così lieve da richiedere scatti con pose di 30 secondi, da conciliare con le orde di turisti armati di flash. Questa cavità naturale, dove la luce del giorno riesce misteriosamente a penetrare anche le parti più interne, esercita un forte fascino sull’autore quando ne viene a conoscenza attraverso le immagini realizzate dagli amici fotografi Luciano Monti e Mario Vidor. Nell’immagine potente di ciò che sembra l’espressione della più pura architettonicità della natura, il fotografo potrà individuare il modello ideale che il genio dell’artista saprà trasformare in forme astratte. Come Ciol stesso spiega:


Il mio amore per la fotografia mi ha spinto a utilizzare nuove tecniche per cercare di esprimermi meglio e con più forza. Nelle mie molteplici mostre ho sempre utilizzato singole immagini accostate tra loro per sviluppare dei temi. Ora, con la tecnica della stampa ai pigmenti di carbone, sono riuscito finalmente a legare le immagini tra loro, in un unico foglio, ricreando quell’emozione continua di forme e luci che ho potuto sperimentare mentre scattavo. E’ un racconto per immagini di ciò che ho vissuto nell’Antelope Canyon il 23 luglio 2005. In quel canyon c’era il senso del mistero; del tempo scivolato tra i tortuosi anfratti, del silenzio e della musica; del fragore assordante riflesso dalle tormentate e profonde pareti di pietra. In quel susseguirsi di emozioni mi sono reso conto di come il reale possa suggerire l’astratto. Ho titolato questa sequenza in immagini in bianco nero: “Concrete astrazioni”. Si tratta di 5 striscioni di 43 cm di altezza e lunghi quasi 18 metri stampati ai pigmenti di carbone. Per quanto ne sappia, finora non è mai stata fatta una stampa fotografica così lunga con una tale qualità di toni.

Lo specchiarsi delle forme naturali nelle forme d’astrazione e viceversa, nasce quando il paesaggio spontaneo si presenta ai nostri occhi riuscendo ad enunciare nella sua morfologia una vera poetica della quale l’arte dell’uomo si appropria. La natura, quando risalta, fa un tutt’uno col suo essere, per poi venire diversamente interpretata a seconda degli stili e degli artisti. Il paesaggio, come natura che si rivela esteticamente, sarebbe dunque dotato di una poetica implicita. Esiste un segno che divide l’astrazione dalla rappresentazione e ne orienta la percezione? Una immagine si ritiene sia maggiormente familiare se raggiunge un certo grado di somiglianza con quanto conosciamo, se ci permette di accedere a quella che potremmo chiamare una identificazione il più possibile semplice e immediata. Ma quanti elementi che ad un primo sguardo ci sfuggono permettono invece a un immagine di nascere, tanto nella ripresa del soggetto che nel processo di stampa? Elio Ciol, che non ha mai cessato di confrontare la propria fotografia con questo interrogativo, sovvertendo le regole della rappresentazione figurativa, accosta queste immagini in una visione panoramica di gesti antropomorfi della natura. Quello che ne deriva è un nuovo paesaggio talmente strano e stupefacente che lo spettatore si sente trasportato in un altro mondo. E’ qui che il fotografo si interroga sui confini tra astratto e reale, ritornando al problema


essenziale del nostro percepire. Questo nuova frontiera della visione sembra appartenere ad una civiltà ultraterrena. Nella ricerca soggettiva delle somiglianze la fotografia ci restituisce i segni visibili dei profili dei quattro Presidenti scolpiti nella roccia su Mount Rushmore, o meglio ancora le pieghe del velo che ricopre il corpo del Cristo nella scultura più famosa presente all’interno della Cappella Sansevero a Napoli. In questo paesaggio così etereo si manifesta una svolta cruciale nello stile dell’autore. In esso è più che evidente l’interesse ossessivo e appassionato per la descrizione della luce vibrante e delle sue forme d’ombra. Non si può non paragonare l’inattesa e imprevedibile ricerca di Ciol ad un passo straordinariamente visivo e “fotografico” di Scenes in America Deserta (1982) di Reyner Banham dove le rocce, i canyon, le montagne ma anche le forme ancora più immateriali come la luce, il vento e i colori sono nell’occhio dell’osservatore, nelle tracce impresse sui bastoncelli e sui coni della retina che inviano gli impulsi alla corteccia celebrale e che la mente considera tanto misteriosi quanto entusiasmanti, poiché sembrano trasmettere qualcosa che non si sarebbe mai ritenuto possibile: una pura reazione estetica.




il senso del tempo

Sergio Momesso

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o conosciuto Elio Ciol nel 1992, a Padova, al principio dell’estate, nelle vesti di abile professionista della riproduzione di opere

d’arte antica attraverso la fotografia. Egli difatti è prima di tutto un fotografo che lavora su commissione. Cresciuto nel labora-

torio del padre, a Casarsa, prima di elaborare un personalissimo linguaggio espressivo che nelle foto coniuga la fisicità e la spiritualità dei luoghi ha maturato una straordinaria sensibilità visiva e una profonda competenza tecnica non nel fotografare ciò che, per così dire, quel tal giorno gli viene bene di fare, ma nel tradurre in immagini fotografiche oggetti molto antichi. Opere d’arte che spesso richiedono un notevole sforzo di interpretazione insieme ad un rigore inflessibile nell’uso degli strumenti del mestiere. Ciol è uno dei pochi fotografi che sa ancora magistralmente riprodurre un dipinto o una scultura, così come una cattedrale o un sito archeologico, tanto in uno splendido fotocolor quanto in una immagine in bianco e nero poi stampata a regola d’arte. È su questo arduo tirocinio tecnico che, a mio avviso, si fonda anche la sua fotografia più libera ed espressiva. Il complesso rapporto che il fotografo instaura con la committenza e con l’oggetto da tradurre fedelmente in una immagine è da lui affrontato con grande serietà e per certi versi come in un esercizio a corpo obbligato. Ma, come sanno bene tutti atleti, ci sono esercizi a corpo libero e a corpo obbligato, e solo chi sa eseguire divinamente questi ultimi, sa fare bene anche quelli a corpo libero. Nel ’92 Ciol è chiamato ad eseguire una campagna fotografica per una infinita monografia bassanesca, di cui ho avuto la fortuna di essere spettatore, soprattutto in alcuni momenti che a me sembrano davvero significativi. Un vecchio quaderno di appunti mi aiuta ora a non essere troppo impreciso e ad aggiungere qualche piccola osservazione. Il primo incontro avviene una mattina di giugno presso la Chiesa di Santa Maria in Vanzo, dove si trova una grande pala d’altare di Jacopo Bassano con il Trasporto del corpo di Cristo nel sepolcro. Un’opera del 1574 in cui il soggetto è completamente immerso e fuso in un paesaggio quasi notturno. Il sole muore nel breve e lontano orizzonte ma già si accendono i lumi artificiali sul primo piano. Dove si accalcano i sacri personaggi illuminati però da una luce che viene da sinistra, fuori del dipinto. Una tela scura, ricoperta da una vernice che con riflessi imprevedibili rendeva molto difficile il lavoro del fotografo. La preparazione di ogni scatto è perciò quasi una danza lentissima, senza tempo, ritmata dai movimenti infinitesimali degli strumenti per curare l’illuminazione, in una estenuante ricerca della


perfezione tecnica. Il pomeriggio dello stesso giorno la troupe si sposta a Vicenza, nella Chiesa dei Carmini, dove lo stesso grande pittore veneto ha collocato una paletta d’altare ancora con quel soggetto e di poco successiva, circa 1574-75, ma che ha gli stessi problemi di ripresa del quadro padovano e che per giunta si trova su un altare un po’ incassato nella parete della Chiesa. Dopo diversi tentativi, si decide di salire sull’altare, di levare il quadro e di portarlo in una cappella vicina in attesa che finisca la messa. Lo si colloca quindi sul presbiterio, disteso orizzontalmente di fronte all’altare maggiore, dove c’è tutto lo spazio per l’attrezzatura e per i movimenti del fotografo. La Chiesa viene chiusa e dentro si lavora in solitudine con lentezza e precisione fino a consumare tutto quel giorno che sembrava non voler finire. Mentre si lavora attorno al dipinto è possibile scrutarlo a fondo come non mai e prendere appunti e scambiare opinioni con il fotografo sul rosso rubino della veste di Nicodemo, sullo sfrigolio della torcia accesa le cui calde volute di fumo si impastano con i colori della notte, oppure sul bianco caldo delle Marie e sul bianco freddo, un po’ azzurro, del lenzuolo che avvolge Cristo... Un paio di giorni dopo si sale sull’Altopiano dei sette comuni e quasi un’intera giornata, fino a notte fonda, viene spesa per qualche scatto ad un’altra pala d’altare che sta appesa molto in alto nella Chiesa parrocchiale di Enego. La pala di Santa Giustina, circa 1560, con quei colori difficili, come i rossi e i bruni soffocati o i verdi freddi, raffinatissimi.1 Avevo poco più di vent’anni (così come Stefano Ciol, allora garzone nella bottega del padre) sicché facilmente quei momenti si sono impressi nella mia memoria come un esempio potente di un modo di lavorare alla ricerca della perfezione tecnica fino all’esaurimento di ogni energia mentale e fisica, senza badare al tempo, al danaro o ai giusti rimproveri di un parroco che vuole chiudere per andare a cenare. Più tardi mi è parso di poter accostare, in un certo senso, questi esempi alle più rigorose stampe di riproduzione d’inizio Ottocento. Come quelle della scuola di Giuseppe Longhi, a Brera, quando i grandi quadri di Raffaello sono riprodotti, a bulino, in due o tre anni di duro lavoro. Tempi lunghissimi, e oggi incredibili, ma che trovavano una ragione d’essere anzitutto nello sforzo interpretativo dell’incisore, secondo un concetto completamente opposto rispetto a quello vigente ai giorni nostri, in cui si crede di poter avere, grazie alla tecnologia,


fedeli riproduzioni il più possibile oggettive e neutrali, in questo forzando lo stesso carattere della fotografia che, come è ormai comunemente riconosciuto, è anche essa interpretativa rispetto alla realtà.2

È un vero e proprio prodotto dello scorrere del tempo, della sabbia, dell’aria e dell’acqua l’Antelope Canyon, nella terra degli indiani Navajo, in Arizona. Lo slot canyon più visitato e più fotografato di quella parte degli Stati Uniti, dove l’erosione degli elementi naturali ha prodotto forme di straordinaria bellezza, esaltate dalla luce accecante che per alcune ore del giorno sprofonda nelle cavità e si riflette sulle pareti creando variazioni chiaroscurali senza fine. Un soggetto tanto affascinante quanto difficile da riprodurre bene, con intelligenza. Ciol sembra essere stato attratto verso di esso per la purezza elementare dei valori formali e luminosi. Il suo occhio sembra comportarsi come quello di un critico formalista, un antico “visibilista”, che finalmente incontra un soggetto senza elementi illustrativi, senza iconografia (vedi Leptis Magna), un soggetto che è pura forma, pura luce e ombra in continua metamorfosi. La sua fotografia che per la prima volta astrae completamente dalla rappresentazione del paesaggio, dell’architettura e di quanto creato dalla mano dell’uomo, ribadisce con forza però la consueta estenuante acribìa della lettura formale e chiaroscurale, enfatizzata dall’uso dell’amato bianco e nero, così come attraverso le qualità tecniche della stampa ai pigmenti di carbone (perché Ciol, bisogna dirlo, è anche un grande stampatore, come non ce ne sono più, soprattutto per il bianco e nero). Si capisce del resto come di fronte a tanta astrazione egli senta il bisogno di legare le immagini ad un dato concreto e di strutturarle nel racconto di un giorno di riprese in Arizona (23 luglio 2005). E come selezioni quindi, tra tutto il materiale realizzato, quarantasei immagini che vengono stampate in cinque sezioni, su una carta lunga in totale diciotto metri. Cinque lunghi fregi o cinque movimenti di una vasta sinfonia. Nei primi tre movimenti si susseguono cinque coppie di immagini di formato verticale. Il ritmo è sostenuto, cadenzato. Ad un momento introduttivo, molto mosso e verticale, dove c’è ancora la sabbia a ricordarci che abbiamo i piedi per terra, segue un tempo più contrastato e frammentato, ma dove fa già capolino il motivo centrale della composizione: la forma tormentata delle rocce che si slarga e si distende


per accogliere ombre profonde, rialzate da luminescenze morbide e polverose o alte e nette. Nel terzo movimento - di raccordo tra la parte iniziale e il grande finale - solo un ciuffo d’erba riarso accenna al reale, mentre ormai il discorso si è fatto completamente astratto ed è già del tutto espresso il tema del racconto fotografico, che è alto e sublime: lo scorrere lento e inesorabile del tempo che trasforma anche la pietra più dura, il silenzio profondo e insondabile rotto da fragori improvvisi o da toni bassi e vellutati, un po’ come in una preghiera di Turoldo o in una stampa di Rembrandt. Senza però che mai si consumi nella luce l’estrema perspicuità ottica del dettaglio, la resa perfetta di ogni dato di luce e di forma. Nelle ultime due sezioni infatti lo spazio è occupato solo da otto grandi immagini, di formato orizzontale e non più appaiate. Secondo un ritmo quindi che si fa sempre più largo e maestoso. La frase diviene estremamente fluida e lenta, grandiosa e semplice. Le onde della pietra si sciolgono in un profondo silenzio. E la luce, che viene dall’alto, si raccoglie in rivoli sempre più magri o ristagna nei più minuti avvallamenti, trasparente, come, dopo un temporale, l’acqua più pura e sacra.

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Le fotografie realizzate da Ciol nel 1992 sono state pubblicate da Alessandro Ballarin negli anni seguenti. Il confronto tra le pale di Padova e

Vicenza, a colori, si può vedere in A. Ballarin, Jacopo Bassano. Volume I : Scritti 1964-1995, a cura di V. Romani, 2 tomi, Cittadella, 1995, Tomo I, figg. 96 (pala di Santa Maria in Vanzo, intero) e fig. 97 (pala dei Carmini, intero). Il quadro di Enego è invece pubblicato con profusione di dettagli in A. Ballarin, Jacopo Bassano. Volume II: Tavole (Parte prima, 1531-1568),

3 tomi, Cittadella, 1996, in bianco e nero nel Tomo II, figg. 751 (intero), 753 (partic.), 754 (partic.), 756 (partic.), 758 (partic.), 779 (partic.); a colori nel Tomo III, figg. 350 (intero), 351 (partic.), 354 (partic.), 357 (partic.), 366 (partic.).

2

E. Spalletti, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna (1750-1930), in Storia dell’arte italiana, To-

rino, 2, p. 419.




concrete astrazioni: considerazioni sulla forma e l’evocazione Carlo Sala

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i sono molti modi per avvicinarsi alla natura ed Elio Ciol ha scelto da sempre quello più immediato e più antico: si cala in essa in modo totale con l’occhio e l’orecchio attenti a percepire ogni vibrazione perché, come succede alle persone sagge, prima ancora di par-

lare e giudicare (nel suo caso, di fotografare), è capace di ascoltare.1 In queste poche righe Roberto Mutti riesce a riassumere il rapporto intrinseco tra Elio Ciol e il paesaggio. Di certo il fotografo friulano è ascrivibile nel novero dei pochi autori italiani che hanno saputo portare avanti una ricerca carica di spunti innovativi su tale tematica. Pur partendo dalla tradizione estetica americana, Ciol non ne è succube. Sempre Mutti, parlando dei rapporti tra fotografia del vecchio continente e americana, afferma che alcuni hanno un contatto diretto con quest’ultima, in altri casi, però, gli autori sono del tutto inconsapevoli di avere dei modelli statunitensi: è il caso di Elio Ciol.2 Quindi un rapporto innegabile, ma senza soggezione ai modelli d’oltreoceano, che sono superati verso esiti peculiari. Mediante le sue immagini Ciol porta un punto di vista personale, assurgendolo ad un ruolo essenziale. Non si tratta di un semplice rapporto visivo con il reale. Nei suoi lavori non traspare solo il luogo rappresentato, bensì è presente una forte dinamica soggettiva, sottesa all’opera. Nella rappresentazione è fortemente trasposto il dato emozionale e interiore di Elio Ciol. Tutto questo con grande lucidità, attenzione e un’abilità tecnica unica nel panorama italiano. Nell’osservare le sue campagne fotografiche si trova grande attenzione e coerenza del particolare, ma senza la rigidità del tecnicismo sterile e fine a se stesso. Una pratica che coniuga maestria alle emozioni di un occhio indagatore del reale e del substrato nascosto.

Ciol è certamente un autore che ama confrontarsi con la natura e il paesaggio in ogni sua sfaccettatura. Lo fa nei luoghi più diversi. Dalle prime visioni della campagna friulana, evocata mediante un riflesso intimistico. Passando per gli angoli più remoti del mondo, fino ai recenti reportage di Leptis Magna in Libia e dell’Antelope Canyon negli Stati Uniti. Quest’ultimo è oggetto della serie di scatti intitolati Concrete Astrazioni. Una sequenza che dimostra l’estrema volontà di Elio Ciol di rinnovare il suo linguaggio, dopo oltre cinquant’anni di carriera.


Invece di realizzare un mero accostamento di scatti a fini tematici, riesce a unire tra logo varie immagini in modo più profondo: è creata una sorta di interdipendenza. Una suggestiva sequenza, quasi a restituire il contatto diretto con il sito statunitense. Voler rendere ai successivi fruitori il magico e fascinoso attimo in cui il suo sguardo si è posato in quei luoghi. L’Antelope Canyon è immortalato da numerosi fotografi, ma nessuno finora ha saputo imprimere la poesia e le suggestioni create dal maestro friulano. Un testimoniare l’attimo fuggente, il preciso istante in cui ombre e luci si fondono nelle grotte americane. Nelle venature della pietra emergono riflessi che sanno creare profonde suggestioni. Il risultato è una fotografia che rende il valore del silenzio, della contemplazione di un luogo avvolto da una sorta di insita sacralità.

Questi lavori recenti di Ciol testimoniano una sfida affascinante: far convivere nel medesimo scatto suggestioni visive contrastanti, che si fondono tra loro per trovare un nuovo equilibrio. Da un lato emerge il formalismo e la solidità delle rocce. Un impianto visivo immutabile nel tempo, testimone del fluire della storia. Dall’altro queste scene pur tratte dalla realtà sanno dipanare il senso dell’astratto. Le venature del canyon ricordano il vigore e l’energia di una pennellata astratta. I riflessi che si creano possono suggerire numerosi rimandi alla storia novecentesca. Magari l’energia di una pennellata di Emilio Vedova. Oppure la fluidità dei cromatismi di Paul Jenkins. E per tornare indietro nei secoli, si potrebbero ricordare la stesura pittorica di alcuni autori della scuola veneta. Un rapporto tra forma del reale e impressione astratta che non ha né vincitori né vinti. La forma non è piegata, bensì adattata ad una suggestione, e resa funzionale a questa. La rappresentazione ha cambiato scopo. Vi è un mutamento d’intenti. Come affermava Kandinsky è la necessità di passare da una superficie esteriore (e puramente fisica) ad una necessità interiore.3 Il problema del conflitto non si pone. La fotografia non è altro che l’immenso repertorio del possibile - che esiste già nel reale - traslato dal fotografo. Ed ogni suggestione successiva non può porsi in contrasto con la funzione primaria ed essenziale della visione. Un luogo quello rappresentato da Ciol che incute quasi timore per la sua grandiosità. Di certo porta a riflettere sullo scorrere lento


del tempo e sul senso della memoria, caratteristica umana, ma anche dei luoghi. Antelope Canyon è imbevuto di storia, è parte di un procedimento di mutazione che dura da milioni di anni. Sembra fermo, ma in realtà vive e continua a evolversi. E proprio per questo la sua è un’immagine che va oltre la dimensione temporale. Anche le foto della serie Concrete Astrazioni posseggono questa caratteristica, il dominio della percezione temporale. Non per niente Fabio Amodeo attribuiva ai lavori di Ciol la capacità di collocarsi al di fuori del tempo, definendo l’autore un a-moderno.4 Infatti in questo catalogo emerge in modo evidente uno dei pregi dello “sguardo” di Ciol. Saper cogliere le suggestioni di un luogo, in modo totale, attribuendo allo scatto un valore assoluto, che trascende il momento e il contesto in cui è realizzato.

R. Mutti, in Elio Ciol. L’incanto della visione, Pasian di Prato, 2000.

R. Mutti, Il dialogo ripreso: cultura americana e fotografia italiana nel dopoguerra. Relazione presentata in occasione della Giornata di studi

1

2

Americani per Bruno Armellin, tenutasi presso la Falcoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano il 3 marzo 2000.

3

W. Kandinsky, Dello spirituale nell’arte, in Idem, Tutti gli scritti, a cura di Ph. Sers, Milano, 1974 (ed. or.: Über das Geistige in der Kunst, München

1912).

4

F. Amodeo, Il dialogo tra le immagini, in Elio Ciol. Il fascino del vero, catalogo della mostra, a cura di F. Amodeo e R. Mutti, Cornuda, 2004.



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note biografiche

Elio Ciol nasce il 3 maggio 1929 a Casarsa della Delizia dove tuttora risiede e lavora. Fin da ragazzo inizia ad aiutare il padre nel laboratorio fotografico, maturando una vasta esperienza tecnica. Dal 1955 al 1960 fa parte del Circolo Fotografico La Gondola a Venezia. In quegli anni partecipa al concorso Popular Photography International di New York ottenendo due premi nel 1955 e altri nel 1956 e nel 1957. Nel 1962 partecipa come fotografo di scena al film Gli Ultimi di padre David Maria Turoldo e Vito Pandolfi. Nel 1963, a Milano, collabora con Luigi Crocenzi alla realizzazione della “Fondazione Altimani per lo studio e la sperimentazione di ogni forma di linguaggio per immagini”. Nel 1969 esce il suo primo fotolibro Assisi, pubblicato in cinque edizioni in diverse lingue, con testi di David Maria Turoldo, Paolo Cavallina e Pietro Bargellini. Seguirà negli anni un intenso lavoro per l’editoria. Nel 1975 il critico Alistair Crawford, dopo aver acquistato il fotolibro Assisi, lo vuole conoscere per promuovere una sua mostra itinerante in Gran Bretagna. La mostra chiuderà nel 1978 a Londra al Polytechnic of Central London Gallery. Crawford, con il suo entusiasmo per la fotografia di Ciol, si prodigherà per farla conoscere oltre che in Gran Bretagna anche negli Stati Uniti. Nel 1985 viene pubblicato il fotolibro Italia Black and White con testi di Giovanni Chiaramonte e Alistair Crawford. Nel 1991 esce un nuovo fotolibro Assisi con testi di Alistair Crawford e Franco Cardini. All’edizine italiana seguiranno le edizioni francese e tedesca nel 1992 e quella giapponese nel 1993. Il fotolibro riceverà a Londra il premio Kraszna-Krausz 1992 per uno dei migliori fotolibri a pari merito con i libri di Sebastian Salgado, Irving Penn e Paul Strand. Nel 1993 Elio Ciol viene invitato dall’Istituto Italiano di Cultura di Dakar a esporre la mostra Dove l’infinito è presente. Due anni dopo l’Istituto Italiano di Cultura di Berlino promuoverà la stessa mostra a Potsdam, Halle, Amburgo, Greifswald, Wolfburg. Nel 1995 realizzerà il fotolibro Venezia con testo introduttivo di Carlo della Corte, cui seguiranno le edizioni giapponese e francese. Il fotolibro riceverà a Londra il premio internazionale Kraszna-Krausz 1996 per uno dei migliori fotolibri a pari merito con i libri di Robert Doisneau, Erich Hartmann e Naomi Rosemblum. Nel 1995 riceve dal C.R.A.F. di Spilimbergo (Pordenone) il premio speciale Friuli-Venezia Giulia fotografia. Nel 1996, in occasione della mostra nella Galleria Le logge del Comune di Assisi, viene edito il libro catalogo Dove l’infinito è presente che raccoglie dieci suoi portfolio in bianco e nero, con testi di Charles-Henri Favrod, Carlo Sgorlon, Elio Bartolini, Giuseppe Turroni, Giuseppe Mazzariol, Fabio Amodeo, Alistair Crawford, Fred Lict, Margaret Harker, Roberto Mutti e Giuseppe Barbieri.


Nel 1997 riceve ad Amsterdam dal World Press Photo il terzo premio nella categoria “Natura e Ambiente” per dodici foto bianco e nero intitolate “Sculture e disegni nella campagna friulana”. Nel 1999 è invitato dai Civici Musei di Udine a esporre un’antologica nell’ex Chiesa di S. Francesco a Udine. In collaborazione con l’Editore Federico Motta di Milano viene edito un ricco catalogo della mostra, Elio Ciol: cinquant’anni di fotografia, a cura di Giuseppe Bergamini con testi di Roberto Mutti, Andrea Emiliani, Carlo Sgorlon, Mark Haworth-Booth, Giuseppe Barbieri, Guido Ferrara, Licio Damiani, Manfredo Manfroi, Luciano Padovese, Marco Pelosi, Ian Jeffrey, Luciano Perissinotto, Cristina Donazzolo Cristante. Nel 2000 è invitato dalla June Bateman Gallery a esporre a New York una serie di foto dal titolo Immagini d’Italia; contemporaneamente espone alla Maison de l’Italie nella Cité Internationale Univesitaire de Paris. Per l’occasione viene stampato il catalogo L’enchantement de la vision a cura di Roberto Mutti. Nel 2001 riceve a Padova, durante la manifestazione “Fotopadova 2001”, il premio “Dietro l’obiettivo: una vita”. Nello stesso anno esce il volume Turoldo e gli ultimi. Elio Ciol fotografo di scena con le foto di scena del film girato quaranta anni prima. Nel 2002 è invitato dal Centro Nazionale di Fotografia, Assessorato alla Cultura, Comune di Padova, a esporre la mostra L’Incanto della Visione nel Palazzo del Monte di Pietà di Padova. Nel 2003 il libro Ascoltare la luce viene premiato da “Fotopadova 2003” come migliore fotolibro. Nel 2004 la provincia di Pordenone promuove, nei nuovi spazi espositivi della Provincia, la mostra Il fascino del vero. Trittici e dittici in bianco nero, con relativo catalogo. Da dicembre 2004 a gennaio 2005 la Veneto Banca espone nel nuovo palazzo dirigenziale di Montebelluna, la mostra Il fascino del vero con un nuovo catalogo riservato alla Banca. Nel 2005 La Galleria De Faveri Arte di Feltre commissiona ed espone una raccolta di foto sul paesaggio feltrino: Naturali Armonie. Da dicembre 2006 a gennaio 2007 la Cohen-Amador Gallery di New York lo invita ad esporre una raccolta di immagini titolata Visioni. Sue fotografie sono presenti nel: Metropolitan Museum of Art, New York; International Museum of Photography, Rochester, New York; Centre for Creative Photography Tucson, Arizona; Humanities Research Centre, University of Texas, Austin; The Art Museum, Princeton University, New Jersey; Centre Canadian d’Architecture, Montreal Canada; The Art Institute of Chicago; The University College of Wales, Aberystwyth; Victoria & Albert Museum, Londra; Musèe de la Photographie, Charleroi; Civici Musei e Gallerie di Storia e Arte, Udine; Museo Diocesano e Gallerie del Tiepolo, Udine; Galleria di Arte Contemporanea Pro Civitate Christiana, Assisi; Museo Diocesano e Gallerie del Tiepolo, Udine; e in numerose gallerie private. Elio Ciol ha finora esposto le sue foto in 111 mostre personali, che hanno ottenuto un grande successo di stampa, e in altre 115 mostre collettive. Ha inoltre illustrato con le sue immagini circa190 libri.


con il gentile sostegno di


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