Primo Levi e il piemontese. La lingua de "La chiave a stella"

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Bruno Villata

Primo Levi e il piemontese La lingua de La chiave a stella

Introduzione di Lidia Brero Eandi In margine a ÂŤLa chiave a stellaÂť

Edizioni Savej


Primo Levi e il piemontese. La lingua de La chiave a stella Prima edizione: novembre 2013 Seconda edizione: febbraio 2018 Stampa: L’Artistica Savigliano, 2018 Š 2018 Fondazione Enrico Eandi Via Giovanni Battista Bricherasio, 8 10128 - Torino www.fondazioneenricoeandi.it info@fondazioneenricoeandi.it FondazioneEnricoEandi fEnricoEandi ISBN: 978-88-99048-04-4 Tutti i diritti riservati.


In margine a ÂŤLa chiave a stellaÂť di Lidia Brero Eandi

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La lingua de La chiave a stella 3 Parole non riportate dai dizionari italiani

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Calchi semantici

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Espressioni - Calchi traduzione

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Esclamazioni 45 Lemmi ed espressioni particolari

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Parole che sembrano di una lingua

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Linguaggio figurato ed immaginario popolare

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Fenomeni grammaticali

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Conclusioni 81 Bibliografia 87



In margine a «La chiave a stella»

I

Libertino Faussone. Certo Libertino come nome è piuttosto singolare. “Mio padre voleva chiamarmi Libero perché voleva che io fossi libero” dice Faussone. Ma il segretario comunale quel nome non l’aveva accettato, era “troppo fuorivia”, “lui non voleva grane”, “ci voleva il consenso del federale e magari anche quello di Roma”. Il nome “Libero” a quei tempi poteva far paura e così si era ripiegato su “Libertino” che non ne è propriamente il diminutivo, ma insomma qualcosa di “libero” ce lo ha comunque. Per la verità lo avevano poi chiamato Tino. E Tino Faussone ad esser libero c’è riuscito, proprio come desiderava suo padre. “Non si trattava di idee politiche, lui [il padre] di politica aveva solo l’idea di non fare la guerra perché aveva provato; per lui libero voleva dire di non lavorare sotto padrone”. In realtà Faussone il lavoro alla catena di montaggio l’ha anche provato, a Torino alla Lancia, ma ne è venuto via ben presto. E ha saputo diventare un tecnico, un operaio specializzato in un lavoro molto particolare, quello di montare gru, tralicci, torri di metallo, ponti sospesi, derrick e perfino scavatrici semoventi grandi come “sauri preistorici”. Ama il suo lavoro, ne è orgoglioso, ha esperienza e capacità e, piemontese anche in questo, è estremamente preciso e rigoroso. E in proposito Levi annota una frase divenuta famosa: “l’amore per il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la miglior approssimazione concreta alla fe-

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licità sulla terra”1. E più il lavoro si fa difficile, più Faussone s’impegna. “Io l’anima ce la metto in tutti i lavori, anche nei più balordi, anzi, con più che sono balordi, tanto più ce la metto. Per me ogni lavoro che incammino è come un primo amore”. Che sia bravo ed esperto i suoi capi lo sanno. “Dove mi mandano vado, anche in Italia, si capisce, ma in Italia mi mandano di rado perché io so il mestiere troppo bene. […] È che io mica per dire me la so sbrogliare più o meno in tutte le situazioni, e allora preferiscono mandarmi all’estero, e in giro per l’Italia mandano i giovani, i vecchi, quelli che hanno paura che gli venga l’infarto e i pelandroni” - dice Faussone senza falsa modestia. - “Del resto anche io preferisco: per vedere il mondo, che se ne impara sempre una, e per stare lontano dal mio caposervizio”. E quando si inizia un lavoro, nella sua squadra è sempre lui il capo. “Fin dal primo giorno è venuto come di natura che comandassi io, perché ero quello che aveva più mestiere: che poi fra noi è l’unica cosa che conti, i gradi sulla manica non ce li abbiamo”. Certo è molto orgoglioso delle sue capacità, anzi quello dell’orgoglio è il suo punto debole. E lo riconosce, parlandone con un buon pizzico di ironia. “Una volta mi è successo un lavoro che per me è stato peggio che andare in prigione”2. E per di più in un luogo poco distante da Torino “che quando tira vento e l’aria è pulita si vede Superga e la Mole; ma che l’aria sia pulita, da quelle parti non capita tanto sovente”. All’inizio il lavoro è relativamente semplice: si tratta di montare un traliccio a forma di torre, alto una trentina di metri. Farà da supporto “a un impianto di chimica abbastanza complicato, con delle colonne grosse e piccole, degli scambiatori di calore e un mucchio di tubazioni”. Un impianto di distillazione per recuperare l’acido dalle acque reflue. Faussone pensa che col montaggio il lavoro che gli competeva sia finito ma il committente gli corre appresso, gli dice di 1

Vedi ‘Batter la lastra’.

2

Vedi ‘Clausura’.

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aver apprezzato molto ciò che ha fatto, insiste e gli prospetta un incarico di capomontatore per tutto quanto l’impianto. Faussone naturalmente accetta. Ma lo schema è così complicato che “quando ho cominciato con le tubazioni credevo di perdere la testa”. Sono di tutti i calibri, di tutte le lunghezze, di tutti i materiali, anche titanio - quelle in cui passa l’acido più concentrato - e con mille anse a gomito collegano la colonna grande con quelle piccole e gli scambiatori. Studia ogni giorno i disegni e la sera già li ha dimenticati. A lavoro ultimato l’impianto “sembrava la giungla di Tarzan e si faceva fatica a passarci in mezzo”. Dunque tutto bene, anche il lavoro più difficile è stato completato. Faussone saluta, ritira i soldi e parte per la Val di Lanzo a pescare le trote. E invece non è finita. Un errore grossolano del progettista “una topica marca Leone” - dice Faussone - ha compromesso gravemente la colonna principale, al momento completamente intasata. A parte il lavoro immane di ripulirla e recuperare due tonnellate di acido che può inquinare tutta la zona, si tratta di mettere in opera il nuovo progetto di distillazione. Dall’interno della colonna, cominciando dal basso, va fissato ogni mezzo metro d’altezza un disco di acciaio inossidabile forato, perché vi passi il vapore. In salita, uno dopo l’altro fino alla cima. “Ma la cima era alta trenta metri”. Diametro della colonna: un metro. Dischi forati da montare: circa una cinquantina. Ma chi è in grado di fare un lavoro del genere? “Mi hanno fatto la corte, che un altro montatore come me non lo trovavano, che avevano fiducia, che era un lavoro di responsabilità e tutto. Insomma gli ho detto di sì, ma è perché non mi rendevo conto”. Che non si rendesse ben conto della difficoltà del lavoro è probabile, ma è sicuro che a spingerlo ad accettare è stato il suo spirito di orgoglio. “Farmi avanti quando tutti si fanno indietro a me è sempre piaciuto, e mi piace ancora, e loro hanno capito bene che tipo ero io”. Sin dall’inizio del lavoro, però, ad un paio di metri appena da terra, Faussone comincia a sentirsi “strano”. E in seguito è IX


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sempre peggio, qualcosa gli contrae lo stomaco e gli chiude la gola, la mente gli fa strani scherzi con certi ricordi d’infanzia: la prozia entrata in convento di clausura - “chi passa da questa porta, non vien più fuori né viva né morta” - e il morto nella bara che però non era morto e di notte nel camposanto batteva coi pugni per uscire. E il tubo gli pare diventi sempre più stretto e la cima, da raggiungere in salita “a passetti di mezzo metro per volta”, sempre più lontana. Avrebbe una gran voglia di farsi tirar fuori ma “dopo tutti i complimenti” ricevuti non vuol fare una magra figura. Resiste, non rinuncia, da testa dura piemontese qual è, e alla cima ci arriva. Ma “dopo di allora, ogni tanto, così all’improvviso, quel senso di topo in trappola mi ritorna: più che tutto negli ascensori”. E “i montaggi nel chiuso li lascio fare agli altri” - “e giro al largo da tutte le colonne, i tubi e i cunicoli”. Meglio però che non si sappia in giro, conclude. Per fortuna nel suo mestiere “il più delle volte si sta ai quattro venti, magari si patisce il caldo, il freddo, la pioggia e le vertigini, ma con la clausura non ci sono problemi”. E così “con la chiave a stella appesa alla vita, perché quella è per noi come la spada per i cavalieri di una volta” si ritrova a lavorare in cantieri remoti, sperduti in qualche rigido paese sovietico oppure tra le nevi dell’Alaska o nel caldo estenuante dell’India o sotto le piogge torrenziali dei tropici. Ma non è certo questo che lo spaventa. “Io sono uno di quelli che il suo mestiere gli piace” - dice. E gli piace anche parlarne, raccontare nei particolari come e perché gli siano capitate certe avventure straordinarie sul lavoro. Dice Levi che il suo Faussone “non è un gran raccontatore”. Difficile da credere. Innanzitutto perché il linguaggio con cui si esprime, un italiano che attinge liberamente dal piemontese ricalcandone strutture, lessico e forme, conferisce ai suoi racconti un tono sorprendente di vivacità ed ironia. I prestiti dal piemontese sono pressoché continui: l’italiano non ne possiede l’arguzia o la ricchezza espressiva e le consuete pallide traduzioni non ne rendono lo spirito. X


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Come interpretare per esempio “la farlecca” (piem: “ferleca”) di una operazione? Con cicatrice? Ferita? Sfregio? Ma non sono la stessa cosa. E “grottolute” (piem: “grutulü”)? Grottolute sono certe saldature piuttosto mal fatte. Potrebbe valere all’incirca “ruvide” o “scabre” o meglio “bernoccolute” detto s’intende in un italiano non propriamente dotto. “Mucco mucco” (piem: “muc muc”) diventa lo scimmiotto amico di Faussone dopo aver quasi distrutto un traliccio appena terminato. Gli piacevano un po’ troppo i lumini rossi e verdi del quadro di comando. Il corrispondente italiano di “mucco mucco” potrebbe essere “mortificato, umiliato” ma non riesce certo a rendere l’arguzia del termine piemontese che si direbbe abbia quasi una valenza onomatopeica. “Piomba” è una “ciucca” di quelle solenni, sguardo addormentato, gambe fiacche, deambulazione ondivaga. “Avevano già la piomba alla mattina buonora”. Soggetto: diversi pelandroni in compagnia di un pintone di liquore. Da non escludere che potessero piombare “indormiti” da un momento all’altro. “Balengo” (piem: ”balengu”). “Facevo il balengo tutto il tempo”. Faussone parla di sé stesso al suo primo lavoro di saldatura fuori officina. Faceva “il balengo” andando pericolosamente su e giù per il traliccio, “lesto come Tarzan”, attaccandosi alle traverse e disdegnando la scaletta per esibire il suo ardimento alla ragazza che si era portato appresso e lo stava guardando a naso in su dal prato. “Proprio come dicono che faccia questo “erlo” con la sua “erla””. L’erlo è lo smergo, una anatra selvatica e Faussone per stupire la ragazza fa “l’erlo” - il bellimbusto - e fa il “balengo” - lo stupido, l’imbecille: ma l’accezione piemontese ha una bonaria venatura di ironia in più. E così avanti: si possono incontrare per esempio gli scherzosi “patamollo” (senza forze) o “tracagnotto” (basso di statura); i quasi onomatopeici: “nuffiava” (annusava), “gnaulano” (miagolano), “rabadàn” (baccano, fracasso); il venatorio “perXI


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niciare” (aspettare al freddo, morire dal freddo; propriamente “lasciar frollare la selvaggina al freddo”)… Oltre ai lemmi, sono altrettanto frequenti certe espressioni ricche di quella vivacità ironica propria del piemontese: ad esempio “a trucco e branca” (in modo approssimativo), “cavare il fiato” (assillare), “mostrano ai gatti a rampicare” (insegnare a chi sa), “fargli la fisica” (gettare il malocchio), “far venire il latte ai gomiti” (annoiare), “si somigliano nella piega dei gomiti” (assomigliarsi per niente), “mettere berta in sacco” (tacere), “come succhiare un chiodo”, “grazioso come il mal di pancia” … E naturalmente ci sono anche errori di grammatica e di sintassi riconducibili al sostrato piemontese. Eppure questi errori (o licenze espressive?) hanno il pregio di rendere ancora più colorito ed immediato il discorso narrativo. Perché quello di Faussone è un codice parlato dallo stile quotidiano in cui possono trovar luogo appunto sgrammaticature e forme scorrette. Levi è stato geniale nell’elaborare questo linguaggio così “fuorivia”, essenziale e quasi rude e nel contempo incisivo e ricco di forza espressiva. Ecco ad esempio il racconto della piena travolgente del fiume indiano sul quale è in atto la costruzione di un ponte poi destinato a crollare sotto la violenza del vento3. L’acqua sta divorando a pezzi interi l’argine e allagando a perdita d’occhio la pianura. Il fiume è amplissimo e giù lungo la corrente “arriva di tutto”, “pezzi di sponda tutti interi”, “piante intere o coricate”, “isole galleggianti” che corrono via veloci o vanno a schiantarsi contro il basamento del ponte frantumandosi. E quando la piena sarà rientrata e la costruzione del ponte - ormai sono passati diversi mesi - pressoché ultimata, ecco che un mattino si alza il vento. Di lontano si sente un suono, una sorta di musica: “era come se sotto quel fiato di vento, anche il ponte si stesse risvegliando”. Un brivido lo scuote tutto, da un capo all’altro. La carreggiata prende a muoversi da destra a sinistra e poi anche in verticale “ma non erano più 3

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Vedi ‘Il ponte’.


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vibrazioni, erano onde alte uno o due metri”. Poi il vento rinforza e le onde che scuotono la carreggiata arrivano a quattro o cinque metri “e si sentiva tremare la terra e il fracasso delle sospensioni verticali che si allentavano e si tendevano”. Infine si strappano di netto con colpi come di cannone e nel contempo la carreggiata si contorce, si dissalda, cade a pezzi nel fiume. “Poi è finito tutto: tutto è rimasto lì fermo come dopo un bombardamento” […] “salvo il fiume che continuava a correre come niente fosse stato”. Nessuno più corre né grida; il vento soffia rabbioso e gli operai guardano immobili, impietriti dal terrore. Faussone annota: “vedere venire giù un’opera come quella, e il modo poi com’è venuta giù, un pezzo per volta, come se patisse, come se resistesse, faceva male al cuore come quando muore una persona”. Off-shore4. In alto mare. Questa volta si tratta di un impianto per l’estrazione del petrolio, in Alaska. “In Alasca io credevo di trovarci un paese tutto fatto di neve e ghiaccio, di sole anche a mezzanotte, di cani che tirano le slitte e di miniere d’oro e magari anche di orsi e di lupi che ti corrono dietro”. Come nei romanzi di Jack London che Faussone aveva letto da ragazzo. E aveva firmato il contratto con un certo entusiasmo. Non è propriamente questa l’Alaska in cui si ritrova. Gli avevano detto che il lavoro consisteva nel finire il montaggio di un derrick5 da trasportare e poi issare in mare. “Si fa presto a dire: vai e monta un derrick […] ma questo, con tutto che non era ancora finito, da coricato era già lungo un duecentocinquanta metri, come da […] piazza San Carlo a piazza Castello”. Si parla di Torino, naturalmente. Quando dall’alto della collina, a dieci chilometri di distanza, Faussone scorge l’enorme traliccio “in mezzo all’aria grigia sulla riva del mare” si sente mancare il fiato. “Sembrava lo scheletro di una balena lungo e nero e coricato sulla riva, già tutto arrugginito perché da quelle parti il ferro viene ruggine in un momento, e io a pensare che mi toccava metterlo 4

Vedi ‘Off-shore’. Il derrick è un traliccio metallico speciale, una torre di perforazione e trivellazione per la ricerca di petrolio e gas naturale. 5

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