Fiorella Corsi, In Fabula

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FIORELLA CORSI

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F A B U L A Storico Giardino Garzoni, Collodi 28 luglio 2011 - 29 febbraio 2012


© 2011 Fondazione Nazionale Carlo Collodi “Tutti i diritti riservati”

Exòrma Edizioni ISBN 978-88-95688-71-8

Traduzioni: Colm Molloy Immagine di copertina: Scultura per Piazza Italia - terracotta e ferro, h cm 700, part.


Indice

Fiorella Corsi o la ragione di una fiaba

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Michela Becchis Dialogo della terra e della luna Giacomo Leopardi (aprile 1824)

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Le opere

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Fiorella Corsi or the reason of a fable

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Michela Becchis Biografia

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Biography

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Il progetto “In Fabula” come ambientazione di arte contemporanea in un giardino storico è stato concepito e ambientato nello Storico Giardino Garzoni a Collodi (Toscana), maestosa architettura barocca, con il patrocinio e il sostegno della Fondazione Nazionale Carlo Collodi.

in fabula

“In Fabula” is a project of contemporary art in a historical garden setting. It has been conceived for and set in the Historic Garzoni Garden, an amazing baroque landscape architecture in Collodi (Tuscany), under the patronage and with the support of National Carlo Collodi Foundation.


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Michela Becchis

I quali sensi dotti i primi autori di quelle favole non intesero, […] anzi per questa istessa loro natura, concepirono le favole per narrazioni vere… delle loro divine e umane cose… G.B. Vico Fiorella Corsi lavora sempre con un grado alto, caldissimo di consapevolezza non solo della sua personale cosmografia simbolica e, di conseguenza, formale, ma soprattutto del suo orizzonte culturale, entro cui si muove con la grazia attenta, curiosa e vigile di un vero è proprio flâneur. Se ragionando un po’ sul suo fare artistico, quindi, ci si trova a mettere a fuoco qualche strumento utile a leggerne il senso dentro l’universo fortemente esplicativo delle forme simboliche di Cassirer, ebbene non bisogna avere consuetudine lunghissima per sapere che è stata lei stessa a metterci, con poche parole lievi e autobiografiche, su quella via. Cosa diventa per un’artista che intende il suo creare come una vera – e meticolosissima – battaglia con la materia, la concretezza della forma simbolica?

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E ancora di più, laddove l’artista si misura col mito, con la favola, dove si rintraccia quella che Cassirer stesso chiamava “la forma interna del mito”? Se ci possiamo concedere di considerare come dati puramente sensibili lo spazio e la luce di cui parla il filosofo tedesco nella parte della Filosofia delle forme simboliche dedicata al pensiero mitico, lettura che in una certa misura appare autorizzata dalle stesse pagine dell’opera, si ritrovano degli elementi puntuali, direi dirimenti per una lettura non solo dei lavori di Fiorella, ma di molto operare artistico. Nello spazio strutturale del mito il fatto fisico fondamentale si lega, anzi poggia, su un sentimento, inteso come semplice facoltà di sentire, di ricevere una sensazione, che non determina solo coordinate geometriche o geografiche, ma anche di valori non immediatamente empirici. «Lo sviluppo del sentimento mitico dello spazio prende le mosse dall’opposizione di giorno e notte, di luce e tenebra»; da questa dialettica spesso violenta, da questo prorompere dell’una sull’altra si crea quello spazio, quel “campo spaziale”, necessario al mito, a una forma cioè di conoscenza. E questa opposizione fondamentale non è un semplice accadimento, è ogni volta produzione originaria, un processo conoscitivo individuale e unico tanto per la creazione di un’intuizione mitica, quanto per quella di un’opera d’arte. In molti dei lavori di Fiorella Corsi l’elemento mitico si fa elemento artistico e ancora una volta il “suo” Cassirer scrive espressamente che queste coordinate di spazio e di luce non creano rapporti astratti-ideali, ma questa “formazione” subisce il massimo grado di elaborazione formale e di concreta realizzazione indipendente. Il rapporto mitico che Fiorella ha con la Natura si fa immagine vera e tangibile, con limiti ben circoscritti, dentro il suo bisogno di confrontarsi fisicamente con la materia, un corpo a corpo che si attua nella scelta costante, nella progettualità severa di uno spazio e di una luce. Determinata la sua lettura mitica, la sua idea mitica del mondo, Corsi non può concepire che l’idea non prenda forma in un’immagine, che possa essere esposta in altro modo e su questo cardine innesta un lavoro di ripetizione che, per volere stesso dell’artista, prevede la presenza dell’occhio dell’osservatore: innumerevoli


volti la cui differenza minima ricorda il procedere lento di un paesaggio visto da treni antichissimi, serie di dipinti, acquerelli o graffiti o altro, che raccontano con una narrazione fluente e stringata al tempo, la nascita e l’evoluzione della sua personale cosmogonia. Mai un “buco” nella partitura, mai un’interruzione nel vedere, Corsi crea una sorta di percorso della memoria, anzi un percorso che conduca e aiuti la memoria a sostenere la continuità della riflessione di chi si pone davanti alle sue opere. Guardando i suoi volti, le sue catene di oggetti non casuali, le sue sculture, i suoi libri, viene in mente che lei ha creato per se stessa e per noi una sorta di Teatro della memoria proprio alla maniera rinascimentale; un’immagine equivale a un concetto, fa riaffiorare nella mente un’idea e diventa strumento, verrebbe da dire utensile, perché Corsi non usa affatto gli oggetti che ad esempio appende al suo Albero della Cuccagna, come emblemata cinquecenteschi al modo dell’Alciati o del Ripa, rifiuta l’idea di un oggetto complesso entro, o dietro, cui nascondere figure o preposizioni filosofiche tanto complesse da divenire materia per pochi, anzi si prende gioco di questa dotta modalità un po’ come Cervantes quando snocciolava ironico il Libro delle Livree del “cugino umanista” di Don Quijote. I suoi oggetti sono semplicissimi, quotidiani e proprio in questa semplicità acquisiscono senso, diventano figure di idee utili per risalire indietro nel tempo, fino all’inizio del tempo, fino a una madre fertilissima, fino alla tremenda fatica del venire al mondo. Ma ci è concesso anche di scendere verso un futuro, un futuro non lieto, la cui apparente e falsa compiacenza Fiorella davvero non ama. L’artista sceglie, per condurre la sua critica, la via dell’ironia, romanticamente intesa come consapevolezza bruciante della finzione che ci circonda, ma anche dell’umorismo che è per Fiorella una costante di complicità. A ironia e umorismo affianca una sorta di schiva nostalgia per un rigore espositivo, per una limpidità formale che per lei sono elementi centrali del linguaggio artistico. Si potrebbe parlare allora della ricerca di un’ironica forma che in lei diventa ricerca e uso della luce. Ma quale luce? Perché la luce nella sua attuale, finta realtà immediata, si fa carico di un potenziale negativo che Fiorella individua nei nostri giorni. Questa

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luce da cui siamo bombardati, che non cessa mai, azzera quell’indispensabile rapporto che abbiamo detto dialettico col buio, impedisce il naturale succedersi del tempo, scivola sugli oggetti, sulla loro materia più o meno lavorata, in una sorta di carezza solo seduttiva, distratta, proprio come il Consumo oggi impone e comanda; oppure a volte finge di impigliarsi, cade nei recessi di un oggetto o di un fatto, ma anche di un’opera d’arte, diventando il Taciuto, il non detto, l’occultato di un tempo che non lenisce, ma nasconde il dolore. Questo falso, artificiale e continuo albèdo non interessa l’artista che sceglie allora di raccontare una fiaba. È il rapporto tra materia e luce che diventa fiaba e come ogni buona fiaba un percorso morale, desiderio di comprendere, interpretare, capire. In una sorta di razionalissima e calibrata alchimia, gli oggetti e le immagini che l’artista di volta in volta sceglie e crea, queste sue figure insomma, si dispongono, senza mai raggrumarsi, in un ordine narrativo che approfitta del carattere versatile della favola e trova così un’affascinante sequenza. Ma chiunque abbia mai raccontato una fiaba a un bambino ha ricevuto dal bambino stesso un insegnamento, nel modo più lineare e convincente di qualsiasi altra riflessione teorica: una fiaba ha un nocciolo, una sostanza che rimane invariata nel tempo e che deve rimanere tale, pena la sua evaporazione, il suo dissolvimento in un altro genere assai meno affascinante. Ma della fiaba esiste anche una “cornice” che, altrettanto imperiosamente, deve cambiare, assumere forme diverse, modificarsi nel tempo e con il tempo, con la storia. L’artista sfida l’osservatore a cogliere la funzione di questa continua mutazione: anche nelle sue opere si preserva quel nocciolo che accomuna la fiaba e l’arte e che si fa senso per tutti poiché diventa, attraverso una solida, tangibile narrazione, evento irripetibile per ognuno. Come il vivere e il saperlo raccontare. L’impasto magico (ma quanta fatica umana c’è in questo tipo di magia!) rende la creta o la terracotta epidermica, serica, sottile, luminosa, non più consumata, ma compresa dall’occhio che la guarda e ne intende i rimandi concettuali, il rapporto dialettico con la realtà non mascherata, oppure densa, compatta, scabra, pronta a riconoscere il senso vero del buio come alterità e ad accoglierlo come


momento di pausa e di comprensione. Allo stesso modo nella pittura, nei densi acquerelli, diventa esplorazione incessante del variare del nero o l’improvviso squarciarsi della luce nei colori più vividi. La materia, che sia creta o pigmento, mostra la sua natura di Proteo, si piega e diventa metafora, mai metamorfosi. I suoi volti schiacciati, deformati, dai nasi allungati, tutto sotto il peso della materia scabra che l’artista impone loro, non sono mai mostruosi, nella loro differenza ci appaiono così simili a noi che li guardiamo quasi temendo il ritratto. I suoi dipinti, i suoi Sciami, i suoi Big Bang, sono l’espressione dell’evoluzione di un cosmo che in ogni essere umano assume il cammino del pensare. Non per nostalgia si è citato Proteo, ma per utile ricordo della lettura che ebbe quell’antico mito proprio nel Rinascimento citato a proposito degli oggetti di Fiorella e che mi sembra suggestivo affiancare alla favola di quest’artista. Come scriveva Paolo Rossi in un ormai lontano libro di lettura del pensiero di Francis Bacon, grande cerimoniere e materialista ermeneuta delle favole antiche, Proteo, secondo l’interpretazione baconiana, può essere obbligato a rivelare la verità: la natura forzata dall’arte, può essere costretta a assumere forme che vanno al di là delle specie ordinarie. Chi conoscerà le passiones e i processus della natura, sarà giunto all’essenza delle cose “Proteo, il Veritiero, colui che di tutto il mare conosce gli abissi”, diceva Omero, si trasformava in tutti gli elementi e in mille altre cose disparate, doveva essere costretto a non addormentarsi affinché potesse rivelare il senso della realtà, “personificazione” di una materia che può diventare tutto, ma anche può essere inerte, incapace di indicare un senso. Una favola questa che al meglio indica l’essenza del fare arte, della capacità di un artista di dare rapidamente senso alla materia che sceglie di interrogare. Facile quando ci si misura con il rapporto tra un artista e la fiaba, il mito, divenire preda di suggestioni letterarie. Facile, ma arduo nel procedere, andare con la mente a certi dialoghi leopardiani in cui il dolore sembra, certo solo in apparenza, stemperarsi nell’ironia. Nel Dialogo della terra e della luna, Leopardi, con un umorismo che rasenta il brio grottesco, fa sciorinare alla Terra tutto il suo insulso e frivolo geocentrismo, chiamiamolo pure antropocentrismo, a discapito di

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una Luna ben più consapevole della realtà, cioè della relatività di quella infinita congerie di supposti elementi assoluti. Per la Terra se la Luna è popolata ci devono essere uomini, ma fatti come? Di che colore? E hanno mai provato la conquista questi uomini che stendono il bucato al sole? E l’ambizione? La cupidigia? Le arti politiche? Le armi? E le strade? Sono larghe o strette? Perché la Luna è molestata dai cani che di notte le abbaiano contro? Luna sei femmina o maschio? Sarà vero che sei fatta di formaggio? Le tue donne sono ovipare? Che sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno? Come fa a stare in cima ai minareti? Stupefacente, solo a cambiare qualche parola, la similitudine con certo ottimismo ottuso e ignorante carico di oggetti e di concetti come un odierno centro commerciale. Eppure, nella seconda parte del dialogo, se le due interlocutrici si mettono a fare elenchi insieme – ancora una volta la dialettica si fa comprensione, veggenza – i punti in comune tra tutti i Mondi deflagrano, come quasi sempre improvviso deflagra il dolore, la percezione del male, il rifiuto. Dopo la fiaba e da questa sorretta, mi permetto di invitare il lettore a fare un gioco: si provi a leggere qualche passo dell’Operetta leopardiana velocemente e con un tono non alto, da tragedia, ma da colloquio quotidiano, da scambio occasionale in strada e a inframmezzare gli elenchi dei due pianeti con gli oggetti di Fiorella. Quel corvo, quella frutta, quel seno femminile così volutamente posticcio, quell’ex voto o il rosario, oggetti simbolo di una speranza perduta che si affida al Cielo, quei pezzi di miseria, caducità, che la nostra artista appende ai nostri occhi. Il gioco si fa duro, cogliamo in quell’ironia, che mai diventa misantropia ma anzi resta sempre umana partecipazione, tutto il senso di finitezza, di superficialità, di inutilità del nostro affollarci sotto il bastone insaponato e viscido di un eterno Albero della cuccagna. Corsi però non ci invita a uscire dall’orizzonte della nostra quotidiana e illusoria fiaba anzi, semmai a trovare la grandezza del nostro essere infinitamente piccoli volgendo lo sguardo al suo racconto di un universo spalancato, di una Via Lattea, che sempre dal buio conduce a qualche possibilità di scegliere la luce, il colore, la ragione.


Dialogo della terra e della luna

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Giacomo Leopardi (aprile 1824)

Terra. Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una persona, secondo che ho inteso molte volte da’ poeti: oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in quell’età ragionevolmente debbono essere acutissimi. Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono né più né meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci molti figliuoli. Sicché non ti maraviglierai di sentirmi parlare. Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il numero, io non ti ho fatto mai parola insino adesso, perché le faccende mi hanno tenuta occupata in modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare. Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso dire che vanno co’ loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia: però fo conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi molto pensiero dei fatti tuoi; quando non abbia a essere con tua molestia. Luna. Non dubitare di cotesto. Così la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura che tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; che quantunque amica del silenzio, come credo che tu sappi, io t’ascolterò e ti risponderò volentieri, per farti servigio.

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Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti? Luna. A dirti il vero, io non sento nulla. Terra. Né pur io sento nulla, fuorché lo strepito del vento che va da’ miei poli all’equatore, e dall’equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch’è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte e sei l’ottava corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l’odo. Luna. Anch’io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l’odo: e non so di essere una corda. Terra. Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei tu popolata veramente, come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto mi sforzi di allungare queste mie corna, che gli uomini chiamano monti e picchi; colla punta delle quali ti vengo mirando, a uso di lumacone; non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene odo che un cotal Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una volta certi, che spandevano un bucato al sole. Luna. Delle tue corna io non so che dire. Fatto sta che io sono abitata. Terra. Di che colore sono cotesti uomini? Luna. Che uomini? Terra. Quelli che tu contieni. Non dici tu d’essere abitata? Luna. Sì: e per questo? Terra. E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi. Luna. Né bestie né uomini; che io non so che razze di creature si sieno né gli uni né l’altre. E già di parecchie cose che tu mi sei venuta accennando, in proposito, a quel che io stimo, degli uomini, io non ho compreso un’acca. Terra. Ma che sorte di popoli sono coteste? Luna. Moltissime e diversissime, che tu non conosci, come io non conosco le tue. Terra. Cotesto mi riesce strano in modo, che se io non l’udissi da te medesima, io non lo crederei per nessuna cosa del mondo. Fosti tu mai conquistata da niuno de’ tuoi? Luna. No, che io sappia. E come? e perché?


Terra. Per ambizione, per cupidigia dell’altrui, colle arti politiche, colle armi. Luna. Io non so che voglia dire armi, ambizione, arti politiche, in somma niente di quel che tu dici. Terra. Ma certo, se tu non conosci le armi, conosci pure la guerra: perché, poco dianzi, un fisico di quaggiù, con certi cannocchiali, che sono instrumenti fatti per vedere molto lontano, ha scoperto costì una bella fortezza, co’ suoi bastioni diritti; che è segno che le tue genti usano, se non altro, gli assedi e le battaglie murali. Luna. Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. Io dico di essere abitata, e tu da questo conchiudi che gli abitatori miei debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e tu consentendo che sieno altre creature, non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de’ tuoi popoli; e mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli: che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che io non so dove me gli abbia. Terra. Dunque non sarà né anche vero che le tue province sono fornite di strade larghe e nette; e che tu sei coltivata: cose che dalla parte della Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono chiaramente. Luna. Se io sono coltivata, io non me ne accorgo, e le mie strade io non le veggo. Terra. Cara Luna, tu hai a sapere che io sono di grossa pasta e di cervello tondo; e non è maraviglia che gli uomini m’ingannino facilmente. Ma io ti so dire che se i tuoi non si curano di conquistarti, tu non fosti però sempre senza pericolo: perché in diversi tempi, molte persone di quaggiù si posero in animo di conquistarti esse; e a quest’effetto fecero molte preparazioni. Se non che, salite in luoghi altissimi, e levandosi sulle punte de’ piedi, e stendendo le braccia, non ti poterono arrivare. Oltre a questo, già da non pochi anni, io veggo spiare minutamente ogni tuo sito, ricavare le carte de’ tuoi paesi, misurare le altezze di cotesti monti, de’ quali sappiamo anche i nomi. Queste cose, per la buona volontà ch’io ti porto,

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mi è paruto bene di avvisartele, acciò che tu non manchi di provvederti per ogni caso. Ora, venendo ad altro, come sei molestata da’ cani che ti abbaiano contro? Che pensi di quelli che ti mostrano altrui nel pozzo? Sei tu femmina o maschio? perché anticamente ne fu varia opinione. È vero o no che gli Arcadi vennero al mondo prima di te? che le tue donne, o altrimenti che io le debba chiamare, sono ovipare; e che una delle loro uova cadde quaggiù non so quando? che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno? che sei fatta, come affermano alcuni Inglesi, di cacio fresco? che Maometto un giorno, o una notte che fosse, ti spartì per mezzo, come un cocomero; e che un buon tocco del tuo corpo gli sdrucciolò dentro alla manica? Come stai volentieri in cima dei minareti? Che ti pare della festa del bairam? Luna. Va pure avanti; che mentre seguiti così, non ho cagione di risponderti, e di mancare al silenzio mio solito. Se hai caro d’intrattenerti in ciance, e non trovi altre materie che queste; in cambio di voltarti a me, che non ti posso intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un altro pianeta da girartisi intorno, che sia composto e abitato alla tua maniera. Tu non sai parlare altro che d’uomini e di cani e di cose simili, delle quali ho tanta notizia, quanta di quel sole grande grande, intorno al quale odo che giri il nostro sole. Terra. Veramente, più che io propongo, nel favellarti, di astenermi da toccare le cose proprie, meno mi vien fatto. Ma da ora innanzi ci avrò più cura. Dimmi: sei tu che ti pigli spasso a tirarmi l’acqua del mare in alto, e poi lasciarla cadere? Luna. Può essere. Ma posto che io ti faccia cotesto o qualunque altro effetto, io non mi avveggo di fartelo: come tu similmente, per quello che io penso, non ti accorgi di molti effetti che fai qui; che debbono essere tanto maggiori de’ miei, quanto tu mi vinci di grandezza e di forza. Terra. Di cotesti effetti veramente io non so altro se non che di tanto in tanto io levo a te la luce del sole, e a me la tua; come ancora, che io ti fo gran lume nelle tue notti, che in parte lo veggo alcune volte. Ma io mi dimenticava una cosa che importa più d’ogni altra. Io vorrei sapere se veramente, secondo che scrive l’Ariosto, tutto quello che ciascun uomo va perdendo; come a dire la gioventù, la bellezza, la sanità, le fatiche e spese che si mettono nei buoni studi per


essere onorati dagli altri, nell’indirizzare i fanciulli ai buoni costumi, nel fare o promuovere le instituzioni utili; tutto sale e si raguna costà: di modo che vi si trovano tutte le cose umane; fuori della pazzia, che non si parte dagli uomini. In caso che questo sia vero, io fo conto che tu debba essere così piena, che non ti avanzi più luogo; specialmente che, negli ultimi tempi, gli uomini hanno perduto moltissime cose (verbigrazia l’amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine), non già solo in parte, e l’uno o l’altro di loro, come per l’addietro, ma tutti e interamente. E certo che se elle non sono costì, non credo si possano trovare in altro luogo. Però vorrei che noi facessimo insieme una convenzione, per la quale tu mi rendessi di presente, e poi di mano in mano, tutte queste cose; donde io penso che tu medesima abbi caro di essere sgomberata, massime del senno, il quale intendo che occupa costì un grandissimo spazio; ed io ti farei pagare dagli uomini tutti gli anni una buona somma di danari. Luna. Tu ritorni agli uomini; e, con tutto che la pazzia, come affermi, non si parta da’ tuoi confini, vuoi farmi impazzire a ogni modo, e levare il giudizio a me, cercando quello di coloro; il quale io non so dove si sia, né se vada o resti in nessuna parte del mondo; so bene che qui non si trova; come non ci si trovano le altre cose che tu chiedi. Terra. Almeno mi saprai tu dire se costì sono in uso i vizi, i misfatti, gl’infortuni, i dolori, la vecchiezza, in conclusione i mali? intendi tu questi nomi? Luna. Oh cotesti sì che gl’intendo; e non solo i nomi, ma le cose significate, le conosco a maraviglia: perché ne sono tutta piena, in vece di quelle altre che tu credevi. Terra. Quali prevalgono ne’ tuoi popoli, i pregi o i difetti? Luna. I difetti di gran lunga. Terra. Di quali hai maggior copia, di beni o di mali? Luna. Di mali senza comparazione. Terra. E generalmente gli abitatori tuoi sono felici o infelici? Luna. Tanto infelici, che io non mi scambierei col più fortunato di loro. Terra. Il medesimo è qui. Di modo che io mi maraviglio come essendomi sì diversa nelle altre cose, in questa mi sei conforme.

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Luna. Anche nella figura, e nell’aggirarmi, e nell’essere illustrata dal sole io ti sono conforme; e non è maggior maraviglia quella che questa: perché il male è cosa comune a tutti i pianeti dell’universo, o almeno di questo mondo solare, come la rotondità e le altre condizioni che ho detto, né più né meno. E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi udita da Urano o da Saturno, o da qualunque altro pianeta del nostro mondo; e gl’interrogassi se in loro abbia luogo l’infelicità, e se i beni prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti risponderebbe come ho fatto io. Dico questo per aver dimandato delle medesime cose Venere e Mercurio, ai quali pianeti di quando in quando io mi trovo più vicina di te; come anche ne ho chiesto ad alcune comete che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno risposto come ho detto. E penso che il sole medesimo, e ciascuna stella risponderebbero altrettanto. Terra. Con tutto cotesto io spero bene: e oggi massimamente, gli uomini mi promettono per l’avvenire molte felicità. Luna. Spera a tuo senno: e io ti prometto che potrai sperare in eterno. Terra. Sai che è? questi uomini e queste bestie si mettono a romore: perché dalla parte dalla quale io ti favello, è notte, come tu vedi, o piuttosto non vedi; sicché tutti dormivano; e allo strepito che noi facciamo parlando, si destano con gran paura. Luna. Ma qui da questa parte, come tu vedi, è giorno. Terra. Ora io non voglio essere causa di spaventare la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il maggior bene che abbiano. Però ci riparleremo in altro tempo. Addio dunque; buon giorno. Luna. Addio; buona notte.

Albero della Cuccagna - ferro terracotta alluminio plastica e tela, 2011, cm 80 - h cm 400.

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Albero della Cuccagna - ferro terracotta alluminio plastica e tela, 2011, cm 80 - h cm 400, part.

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Scultura per Piazza Italia terracotta e ferro, 2011, h cm 700.



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Cosmografie Fantastiche - pittura ad acqua, 2011, cm 40x30.


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Foresta di nasi, installazione (Fondazione Nazionale Carlo Collodi) mq 50, 2000, h cm 250-350.

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Naso balena - terracotta, 2000, cm 140x60.

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I quali sensi dotti i primi autori di quelle favole non intesero, […] anzi per questa istessa loro natura, concepirono le favole per narrazioni vere… delle loro divine e umane cose… G.B. Vico Fiorella Corsi has always worked with the greatest awareness not only of her own personal symbolic, and consequently formal, cosmography but above all with an awareness of her own cultural horizons within which she moves with the care, grace and alert curiosity of a true flâneur. If in considering her artistic production therefore we quickly begin to recognize the usefulness of Cassirer’s universe of symbolic forms as an explicative tool, however it also does not take long to recognize that it is the artist herself, linked to her studies of the German philosopher, who with a few words of autobiography has put us on that path. What becomes of the concreteness of the symbolic form for an artist who intends her work as a highly meticulous battle with her material? And where the artist measures herself against myth and against fable, where is what Cassirer himself called “the internal form of mythology” to be found?

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If we allow ourselves to consider the space and light of which the German philosopher talks in the part of The Philosophy of Symbolic Forms dealing with mythical thought as purely sensible data, a reading which that section would seem to support, one finds precise, even conclusive elements for a reading not only of the work of Fiorella Corsi but of much artistic production. In the structural space of the myth, the fundamental physical fact is tied to, or rather is supported by feeling, a sentiment, as intense as the simple sense of touch, of perceiving a sensation which does not just determine geometric and geographic coordinates but also values which are not immediately empirical. “The development of the mythical sentiment of space stems from the opposition of day and night, of light and darkness”; from this often violent dialectic, from this bursting out of the one onto the other is created that “spatial field” necessary for myth, for a form of knowledge. And this fundamental opposition is not a simple event, it is always an original production, an individual and unique cognitive process as much for the creation of the mythic intuition as for the creation of a work of art. In many of Fiorella Corsi’s works the element of myth becomes an artistic element and once again Cassirer expressly writes that these coordinates of space and light


do not create abstract-ideal relations, but this “creation” undergoes the highest level of formal elaboration and independent concrete realization. The mythic relationship which Fiorella has with nature is real and tangible with well-defined limits determined by her need to match herself physically against her material, body to body, which comes into being through the constant choice and in the severe planning of a space and a light. With her mythic reading and her mythical idea of the world determined, Corsi cannot conceive that the idea does not take form through an image which can be revealed in another way and on this cornerstone she grafts on a work of repetition, which through the will of the artist, anticipates the eye of the observer: innumerable times minimal differences remind us of the slow passing of a landscape as if seen from old trains, series of paintings, water colours drawings or other, which recount the birth and evolution of her personal cosmogony in a terse, fluent narrative. Never is there a “hole” in the score, never is vision interrupted, Corsi creates a pathway of memory, a path which guides and aids memory bear the continuity of reflection undertaken by anyone who stands before her work. Looking at her faces, her chains of objects (not chosen at random), her sculptures and her books, the idea that comes to mind is that she has created for herself and for us a sort of Renaissance style Theatre of Memory; an image is

equated to an idea and becomes an instrument, or rather an implement, because Corsi does not use the objects which, for example, she hung on her Albero della Cuccagna (Greasy Pole) as sixteenth century emblemata in the manner of Alciati or Ripa, she rejects the idea of a complex object within which or behind which to hide philosophical propositions so complex as to become accessible to only the few, rather she toys with this erudite process in a way similar to Cervantes who ironically rattles off Don Quixote’s humanist cousin’s Book of Liveries.

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Her objects are simple and everyday and it is in their simplicity that they acquire sense, they become figures of ideas which can serve to take us back in time, until the beginning of time, to a fertile Mother and to the great labour of coming into the world. We are also permitted to move towards a future, although not a happy future, whose apparent false complacency Corsi certainly does not enjoy. In undertaking her critique, the artist chooses the path of irony which is as romantically intense as the burning awareness of the pretence which surrounds us, but she also chooses humour which is for Fiorella a constant expression of complicity. Along with irony and humour she places a reserved nostalgia for a rigour of expression, for a formal clarity which for her are central elements of the artistic language. One could, therefore speak of the search for an ironic form which in Fiorella becomes a

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search for and a use of light. But what light? Because light in its current, falsified reality and immediacy takes on a negative potential which Fiorella identifies in our time. The light with which we are constantly, incessantly bombarded nullifies the indispensable relationship which we have already defined as a dialectic with darkness, it impedes the natural flow of time, it slips over the objects, over their material worked on to a smaller or greater degree, in a sort of seductive distracted caress, exactly as Consumption demands today; or sometimes it pretends to lodge itself, falling into the recesses of an object or fact, but also of a work of art becoming the Unsaid, the hidden element of a time which does not ease, but hides suffering. This false, artificial and continuous pith does not interest the artist who then chooses to tell a tale. It is the relationship between material and light which becomes fable and like every good fable it becomes a moral journey, a desire to understand and interpret. In a sort of highly rational and calibrated alchemy, the objects and the images which the artist from time to time selects and creates – her figures – display themselves, without ever losing fluidity, in a narrative order which takes advantage of the versatile nature of fable and in that way develops into a fascinating sequence. But whoever has even once told a tale to a child has himself received form that

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child an education, in the most direct and convincing form compared with any other form of theoretical reflection: a fable has a kernel, a substance which remains unchanged across time and which remains such. Otherwise it will evaporate and dissolve into another less fascinating form. But the fable also has a “frame” which, equally urgently must change, assuming different forms, modifying itself in time, with time and with history. The artist challenges the observer to grasp the function of this continuous change: also in her works that kernel is preserved, a kernel which unites fable and art and which makes sense to everyone because it becomes, through a solid, tangible narration, a unrepeatable event for everyone. Like the act of living and the knowledge of how to recount it. The magic mixture (how much human effort there is in this kind of magic!) renders the clay or the terracotta with the qualities of an epidermis, silky, thin and luminous, no longer consumed by, but beheld by the eye which observes and understands the conceptual references, the dialectical relationship with an unmasked reality, compact and dense, ready to recognize the true sense of darkness as Other and to welcome it as a moment of rest and understanding. In the same way in painting, in the dense watercolours this becomes a ceaseless exploration of black or the sud-


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Uomo Istrice - terracotta e ferro, 2011, cm 60x60.

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den bursting out of light in the most vivid colours. Material, be it clay or pigment, shows her Protean nature, it bends and becomes metaphor, but never metamorphosis. Her faces, squashed, deformed, long-nosed, all beneath the weight of the rough material the artist forces on them, they are never monstrous, in their difference they appear to us so similar to us that we watch them almost fearing a portrait. Her paintings, her Sciami (Swarms), her Big Bang, are the expression of the evolution of a cosmos which in every human undertakes the path of thought. Not for mere nostalgia is Proteus cited, but as a useful reminder of the reading this ancient myth was given during the Renaissance which is cited consciously in her objects and which it seems evocative to place alongside the fables of this artist. As Paolo Rossi wrote in a study of the thought of Francis Bacon, a great master of ceremonies and hermeneutic materialist of ancient fables, “Proteus, according to the Baconian interpretation, may be forced to reveal the truth: the forced nature of art can be forced to assume forms which go beyond the ordinary kinds. Whoever knows the passions and processes of nature will be joined to the essence of things”. Proteus, the Truth, he who of the whole sea knows the abyss as Homer said, transformed himself into all the elements and into a thousand other disparate things and had to be

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forced not to sleep until he was able to reveal the meaning of reality, the “personification” of a material which can become everything but which can also remain inert, incapable of providing a meaning. This is a fable which best illustrates the essence of creating art, of the ability of an artist to quickly give meaning to the material chosen to explore. When confronting the relationship between the artist and fable it is easy for myth to fall prey to literary associations. It is easy to allow the mind to proceed to certain dialogues of Leopardi in which pain seems, certainly only apparently, to be dulled and diluted by in irony. In the Dialogue between the Earth and the Moon, Leopardi, with a humour that borders on the grotesque, pours out on the earth all his insipid and frivolous geocentricism, which certainly we may also call anthropocentricism, at the expense of the Moon which is much more aware of reality, that is of the relativity of that infinite heap of supposed absolute elements. For the Earth, if the Moon is populated it is to be by men, but of what kind? Of what colour? And have they ever experienced conquest these man who hang out washing to dry in the sun? And what of ambition? Cupidity? Politics? Weapons? And what of roads? Are they wide or narrow? Why is the moon disturbed by the dogs who bark at it at night? Moon, are you male or female? Is it true that you are made of cheese? Are your women oviparous? Is it true that you are full of holes like a cheese,


as a modern physicist believes? How is it possible to stay at the top of a minaret? It is striking, with just a change of a few words, the similarity with a certain blinkered, ignorant optimism laden with objects and concepts like a modern day shopping centre.

vite us to go out of the horizon of our daily, illusory fable; instead she invites us to find the greatness in our being infinitely small by turning our glance towards her tale of a wide open universe, of a Milky Way, which from darkness always leads towards some possibility of choosing light, colour and reason.

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Yet, in the second part of the dialogue, if the two interlocutors begin to make lists together – once again the dialectic makes for comprehension, prophesy—the points in common between all Worlds explode, as almost always pain suddenly bursts out, or the perception of evil, or refusal. After the fable and with its support, I would allow myself to invite the reader to partake in a game: try reading a passage or two from Leopardi’s Operetta quickly and with a low, somewhat tragic but conversational tone, and to intersperse the lists of the two planets with Fiorella’s objects. That Crow, that fruit, that feminine sense so deliberately false, that votive offering, that rosary, objects symbolic of a lost hope entrusted to Heaven, those pieces of poverty and transience which the artist hangs before our eyes. The game can become difficult, we grasp in that irony, which never becomes misanthropic but always maintains human participation, all the sense of the finiteness, superficiality and uselessness of our crowding beneath the greased, slippery surface of an eternal Greasy Pole. Corsi, however, does not in-

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Biografia Fiorella Corsi vive e lavora a Roma. Si è laureata in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Roma con una tesi in Filosofia della Storia. Contemporaneamente ha frequentato i corsi liberi di pittura presso l’Accademia di Belle Arti, tenuti da Giulio Turcato. Ha esordito come pittrice partecipando a varie mostre personali e collettive. Negli anni Novanta comincia ad operare nella scultura, per un bisogno fisico di instaurare un rapporto con la materia e lo spazio. Gli elementi prediletti sono la terracotta, il ferro e la cartapesta. La sua attività va dall’incisione alla pittura, dalla scultura all’installazione; noti sono gli allestimenti che ha realizzato in ambienti pubblici e privati. Recenti mostre personali dedicate esclusivamente alla scultura: dal 28 luglio 2011 al 29 febbraio 2012 sono esposte presso lo Storico Giardino Garzoni a Collodi (PT), in collaborazione con la Fondazione Nazionale Carlo Collodi, due sculture di grandi dimensioni dal titolo Albero della Cuccagna e Scultura per Piazza Italia, per il nuovo ciclo In Fabula dedicato al tema della fiaba. L’8 ottobre 2011, per la giornata del Contemporaneo e per la giornata del Fai, ha realizzato nella limonaia della Soprintendenza Archeologica di Salerno una installazione dal titolo: “In uno dei mondi possibili”; nella stessa data, presso la Gal-

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leria André di Roma, è stata esposta la mostra “In Fabula n. 2”. Nell’ottobre del 2010, presso la Galleria André di Roma vengono presentate le pitture su carta che l’artista per anni ha prodotto, sempre sul tema della natura. Esse fanno parte di un ciclo che va sotto il nome di Cosmografie. Dal 2008 al 2009 ha portato a termine un’opera permanente nel Comune di Catania per il nuovo spazio destinato all’Arte Contemporanea, su progetto di “Fiumara - Arte”: bassorilievo in terracotta di 49 mq (cm 700 x 650) dedicato alla Grande Madre. Nell’allestimento voluto dall’Assessorato alla Cultura della Provincia di Roma, in collaborazione con Torino Capitale Mondiale del Libro con Roma, per l’anno – Aprile 2006 Aprile 2007 – presso il Complesso Monumentale del Vittoriano, la scultrice ha esposto la mostra Pagine di Sabbia. In questa occasione l’installazione La Scrittura del Vento (un vero e proprio work in progress) è stata arricchita di tre nuovi elementi, diventando una foresta evocativa. La scultura che ha dato il titolo all’evento Pagine di Sabbia (h cm. 330) era costituita da una serie di pagine in terracotta, impilate ad un sostegno di ferro, totem della memoria. Nel Luglio del 2005, presso il Forte del Sangallo di Nettuno, in occasione di Mediterranea - Festival Intercontinentale della

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Letteratura e delle Arti, ha presentato Minareto di Terra (h. cm. 320), opera in terracotta e legno, ispirata all’architettura Butabu, dell’Africa occidentale. Nel Dicembre dello stesso anno la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma ha ospitato la sua nuova produzione, dal titolo Tra Cielo e Terra - Linguaggi e Scritture, dove il tema della scrittura attraversava i vari generi, dalla poesia (Canto Notturno), alla preghiera (…e le parole volano in cielo). In tale occasione erano presenti cinque installazioni in terracotta, ferro, piombo e tessuto, all’interno delle quali il pubblico veniva invitato a lasciare una testimonianza – tracce grafiche, conservate per le future edizioni. Contemporaneamente ha partecipato a mostre collettive, nazionali e internazionali. Nell’Ottobre del 2004 sulla nuova edizione dell’Enciclopedia dell’Arte, edita da Zanichelli, è comparsa una voce dedicata al suo lavoro. Nel 2003, su invito della Libreria Einaudi e del Comune di Roma per il Palazzo Medici-Clarelli (Via Giulia), ha elaborato il suo primo allestimento sul tema della scrittura, dalle sue origini al segno in natura (la Scrittura del Vento), che ha occupato gli spazi interni ed esterni, compresa la strada che li collega. La materia privilegiata per l’occasione è stata la terracotta. La medesima esposizione fu proposta dal Comune di Roma in occasione de “La Notte Bianca”(settembre 2003). Nel 2001 nella Galleria “La Cuba d’Oro”

di Roma, ha esposto una personale sul tema del mito di Gea, con opere in terracotta e ferro, dove venivano rielaborati i simboli più rappresentativi della Dea Madre, nella loro drammaticità contemporanea. Nel 2000, presso il Museo-Laboratorio del Parco di Collodi (Pistoia) l’installazione Il Naso (in terracotta, rete metallica e cartapesta), ispirata al personaggio di Pinocchio, ha occupato una superficie di 350 mq. La stessa mostra, promossa dall’Unicef, dal 20 Dicembre 2001 al 6 Gennaio 2002, è stata ospitata dal Comune di Firenze, presso il Museo degli Innocenti, nel salone del Brunelleschi, in occasione della manifestazione de’ I Mai Visti, capolavori presentati al pubblico, per la prima volta, dai depositi degli Uffizi. Alcune mostre collettive – Palazzo della Regione, Assessorato Pari Opportunità, Firenze; – Zvereskij Contemporary Art Centre, Moscow; – Jasnaja Poljana Art Gallery, Tula; – Central’nyj Dom Chudoznjka, Moskow; – Open Book Festival, London; – Pontedera (LU); – Palazzo Venezia, Roma; – Palazzo Stolfi Ridolfi, Certaldo (FI) (2008); – Rocca Paolina, Perugia; – Castello Orsini di Vasanello, Viterbo (2007); – Biblioteca Nazionale Centrale, Roma; – Ex Magazzini Generali, Roma (2006); – Galleria Arturarte, Viterbo; – Museo Laboratorio Arte Contemporanea, Roma; – Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea, Genazzano; – Galerie Kiron, Parigi (2005); –


Pinacoteca Comunale, Latina; – Museo della Scienza, Napoli; – “La Notte Bianca”, Roma; – Ipogeo dell’Annunziata, Napoli (2004); – Riparte Arte Contemporanea, Roma; – La Notte Bianca, Comune di Roma (2003); – Palazzina Liberty Arte Contemporanea, Milano; – Facoltà di Architettura, Politecnico di Milano; – Espace Culture, Roquevaire (Francia); – Grandi Stazioni Arte Contemporanea, Roma; – Ex Fabbrica Mindol Formitrol, Alessandria; – Sala della Ragione, Comune di Anagni (2002); – Opera Paese Arte Contemporanea, Roma; – Chiesa di San Leone, Pistoia; – Galleria Comunale Arte Contemporanea, Videoteca, Roma; – Sala della Ragione, Comune di Anagni; – Fabbrica Dobfar, Anagni; – Biblioteca Civica, Alessandria; – Macef, Milano; – Istituto di Cultura Italiano, New York; – Lavatoio Contumaciale, Roma (2001); – Galassia Gutemberg, Napoli; – Chiesa di San Leone, Pistoia; – Galleria Comunale di Arte Moderna e Contemporanea Mediateca, Roma (2000). Pubblicazioni – “Cosmografie” ed. Lithos (2010); – “Un altare per Gea” Lithos editrice (2009); – “Magis” ed. Morgana, Firenze (2008); – Rossana Dedola e Mario Casari “Pinocchio in volo tra Immagini e Letterature” ed. Bruno Mondadori (2008). Enciclopedia dell’Arte ed. Zanichelli (2004); – “Una Città - Un Dio - Tre Religioni, film documentario, (ricerca storico iconografica),

Comune di Roma (2000); – “La Scrittura del Vento” ed. Lithos (2003); – “L’arredo Virtuale Urbano”(atti convegno) Salone del Libro, Galassia Gutemberg, Napoli (1999); – Michele Mancini e Giuseppe Perrella “Michelangelo Antonioni - Architetture della Visione” (1986).

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Hanno scritto Adele Cambria; Michela Becchis; Silvia Bordini; Valentina Bernabei; Alessandra Borsetti Venier; Pierfrancesco Bernacchi; Angela Carusone; Mario De Candia; Raffaele D’Andria; Rossana Dedola; Elena Del Drago; Arianna Di Genova; Ivana D’Agostino; David Fiesoli; Pinella Leocata; Toni Maraini; Barbara Martusciello; Peter Mason; Danilo Maestosi; Antonella Ottai; Maura Picciau; Cesare Sartori; Vincenzo Maria Vita; Nori Zandomenego; Nathania Zevi.

Contatti www.fiorellacorsi.it fiorellacorsi@libero.it

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Biography Fiorella Corsi lives and works in Rome and holds a Degree in Education from the University of Rome. Her university studies were combined with the study of painting at Rome’s Academy of Fine Arts under Guilio Turcato. She debuted as a painter, taking part in several individual and group exhibitions. In the 1990s she turned to sculpture, drawn by a need to develop a relationship with material and space. Her preferred materials are terracotta, iron and papier mâché and her work ranges from etchings to painting and from sculpture to installations. She has held high-profile exhibitions in prestigious public and private settings. Recent individual exhibitions dedicated exclusively to sculpture: In 2000 she presented an installation Il Naso (The Nose) at the Parco di Collodi museum. The work is in terracotta, wire and papier mâché covering an area of 350m² and is inspired by the character of Pinocchio. This exhibition was presented for a second time on the invitation of Florence City Council with the support of Unicef and was held in the Brunelleschi room of the Degli Innocenti museum on the occasion of the I Mai Visti (Never Seen Before), an exhibition of works from the Uffizi repositories, which ran from December 20, 2001 to January 6, 2002. In 2001 she held a solo exhibition of works

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in terracotta and iron on the theme of the myth of Gaia held at the La Cuba d’Oro Gallery, Rome. In 2003, on the joint invitation of the Einaudi bookshop and Rome City Council, she presented an installation on the theme of writing with works in terracotta arrayed in various settings in Palazzo MediciClarelli, Rome. The same exhibition was repeated on the occasion of the ‘White Night’. An entry on this work appears in the 2004 edition of The Encyclopedia of Art, published by Zanichelli. In July, 2005 her sculpture Minareto di Terra (Minaret) (h. 320 cm) in terracotta and wood featured in Mediterranea – the Intercontinental Festival of Literature and the Arts, held in the Forte del Sangallo, Nettuno. The work was chosen as the logo to represent the festival. In December the same year, her new work Tra Cielo e Terra – Linguaggi e Scritture (Between Heaven and Earth – Language and Writing) was hosted by the Central National Library, Rome. The work is composed of a series of five installations in terracotta, iron, lead and textile. Each contained an invitation to the public to leave a testimony in words or images to be conserved for future presentations. At the same time she took part in national and international collective exhibitions. In the prestigious Vittoriano complex (The Victor Emmanuel Monument in Piazza Venezia, Rome), she presented Pagine di Sabbia (Sand Pages) which in-


cluded the installation La Scrittura del Vento (The writing of the Wind) a true work in progress incorporating three new elements transforming the work into an evocative forest. The sculpture which gave its name to the event, Sand Pages (h. 330cm) is a totem to memory composed of a stack of pages in terracotta supported by iron. The exhibition was organized by the Culture Department of the Province of Rome in collaboration with Turin World Book Capital and ran from April 2006 to April 2007. In 2009 the artist completed a bas-relief in terracotta (49m²), dedicated to The Great Mother, for Catania City Council as part of the “Fiumara – Art” project. The work is placed permanently in the City’s new contemporary art space. In the meantime Corsi returned to painting and in October 2011 in the André Gallery, Rome she exhibited a series of large scale works entitled “Cosmografie” (Cosmographies) (water based paint). “Cosmografie Fantastiche” are on show in the guest lodge in the gardens of Villa Garzoni, Collodi Foundation, until 29 February 2012. Two large scale sculptures are also on show in the garden: “L’Albero della Cuccagna” (The Greasy Pole) and “Una Scultura per Piazza Italia”. (A Sculpture for Piazza Italia). For the Contemporary Art Day, 8 October 2011 she was invited to participate both by the André Gallery, where she showed a new version of the exhibition “In Fabula”,

and by the Archaeological Department of the province of Salerno and Avellino, in whose gardens she arranged an installation entitled “In Uno dei Mondi Possibili” (In One of the Possible Worlds).

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Finito di stampare nel mese di Dicembre 2011 a cura di omgrafica srl, Roma




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