#3 Dicembre 2010

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feedback fanzine di musica indipendente

anno I numero 3 DICEMBRE 2O1O www.feedbackmagazine.it EDITORIALE ‘68 REVIVAL

Mi sembrava giusto, cari lettori, dedicare un piccolo spazio, anche su questa fanzina all’attualità, a quello che sta succedendo (in questi giorni di stesura dell’articolo) nelle piazze e nelle stazioni italiane. Il malcontento (non solo degli studenti) è traboccato e si è tradotto in manifestazioni di piazza, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni (di scuole, monumenti e posti di lavoro). Il pensiero va subito lì, a quel Maggio Francese che ha cambiato per sempre il modo di pensare e che dalla Francia ha attraversato tutta Europa; uno degli avvenimenti più importanti del ‘900. Tuttavia non dobbiamo farci trarre in inganno, perchè un simile insieme di movimenti di rivolta è irripetibile, figurarsi nella nostra società di oggi. In quel periodo accaddero molte cose significative: la morte di Ernesto Che Guevara (1967), il conflitto in Vietnam e la presa di coscienza da parte degli americani di quel che fosse realmente quella guerra, e infine stava nascendo una nuova sinistra, che abbandonava finalmente il sogno sovietico, per aprire gli occhi su problematiche attuali. In Italia cosa succedeva? Basterebbe prendere un film come “Il Sorpasso”; il boom economico si stava lentamente sgonfiando, come una mongolfiera che inizia a precipitare, rendendo ormai chiarto che solo le classi più alte avevano beneficiato dei vantaggi e dei miglioramenti del boom, mentre i ceti medi e bassi erano rimasti tali e quali a prima. Tutti i movimenti e le contestazioni iniziarono però dagli studenti; il mondo per i giovani cominciava a cambiare, c’era stata una liberalizzazione del sapere, con lo sviluppo delle università, erano i tempi dei Beatles e dei Rolling Stones, si andava sviluppando una coscienza di cultura di massa. Furono, paradossalmente, i luoghi “per pochi” come la Sorbonne e l’ Ecole Supérieure, che fecero partire un movimento per tutti: Althusser, per esempio, formò studenti di idee marxista-leniniste e Pierre Bourdie parlava di riproduzione sociale, con la quale le èlites continuavano ad esistere. Oggi la situazione è cambiata enormemente; viviamo nell’era del post-consumismo (Pasolini docet), la cultura si è ampliata a dismisura, ognuno ha la possibilità di studiare, anche se questo paradossalmente non è servito a niente, e manifestazioni di dissenso come quelle passate, restano un po’ un’utopia. ...segue a pagina 11

IN QUESTO NUMERO: Brian Eno . Salem . Caribou . Four Tet . John Coltrane . Avey Tare . Einsturzende Neubauten . Andrea Belfi . Barn Owl. XTC 1


feedback - DICEMBRE 2010

ARTISTA DEL MESE

BRIAN ENO un’eredità infinita

Descrivere in poche righe l'elefantiaca discografia di questo personaggio è cosa alquanto ardua: sia perchè stiamo parlando di un'artista nel quale nutro un'immensa stima, sia perchè in una carriera lunga più di 40 anni il nostro ne ha combinate di tutti i colori. Seguirà quindi un'estremamente soggettiva ripercorrenza. Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno (preoccupatevi, la carriera artistica è più lunga del nome!) nasce il 15 maggio 1948 a Woodbridge vicino a una base militare americana, dove conosce il rock and roll grazie alle trasmissioni radiofoniche della NATO. Negli anni 60 studia arti visive a Ipswich ma è alla Winchester School of Art, nella quale consegue la laurea nel 69, dove conosce la musica sperimentale del tempo: la musique concrète. In quel periodo crea la figura del "non-musicista", tecnicamente del tutto incompetente ma dotato di genio creativo: infatti il compositore non-musicista manipola solo i nastri (ovvero le registrazioni), non prende parte all'esecuzioni. Dopo la laurea lavora come grafico per mantenersi da vivere e si offre come tecnico del suono del gruppo glam rock Roxy Music di Bryan Ferry e Phil Manzanera. Due anni dopo entra nel complesso in pianta stabile come addetto al sintetizzatore, aiutando a creare due album di culto: Roxy Music del 1972 e For Your Pleasure del 1973. Subito dopo la svolta solista. Here Come The Warm Jets del '73 risente di un passaggio graduale nel liberarsi dal suono roxy, producendo un rock obliquo molto teatrale e un po' freak. Contemporaneamente alla rilettura rock, Eno si dedica al versante opposto, quello della sperimentazione attraverso tecnologie d'avanguardia (sintetizzatori, equalizzatori, unità di eco, unità di delay, registratori) collaborando insieme a Robert Fripp, chitarrista dei King Crimson. Ne escono due dischi: l'eccellente No Pussyfooting del 1973 e Evening Star del 75. In questi lavori viene fatto uso della tecnica "frippertronics", un sistema di tape-delay e feedback creato da Eno che consentì a Fripp di sovraincidere più volte le improvvisazioni della sua chitarra. Il risultato è The Heavenly Music Corporation, 21 minuti di ripetizioni alla Riley e sovrapposizioni di arabeschi chitarristici. Del 74 è invece Taking Tiger Mountain (By Strategy) che vanta l'illustre personaggio Robert Wyatt alle percussioni e ancora Phil Manzanera alla chitarra. Vengono introdotti timbri e ritmi provenienti dall'estremo oriente (disco inizialmente concepito come musica per un balletto rivoluzionario cinese!) mescolati a strumenti rock e ad uno spiccato piglio dadaista goliardico. Mother Whale Eyeless e Burning Airlines sono costruite tramite ripetizioni ossessive in crescendo del refrain rendendo il tutto nevrotico e schizoide. Segue nel 75 un bellissimo disco di transizione Another Green World, altra super-produzione con la chitarra di Robert Fripp, la batteria di Phil Collins e la viola di John Cale. La qualità del suono si fa più cristallina, aumenta l'apporto dell'elettronica nelle musiche e diminuisce il ruolo guida del cantato. In questo disco il rock viene ancora più destrutturato e contaminato riuscendo così a creare veri e proprio paesaggi sonori. Con canzoni come The Big Ship, la title track, e la meravigliosa Becalmed nasce il genere ambient. Il rock è definitivamente trasceso dietro muri di sintetizzatori emotivi e immaginifici che mai avevano avuto tale libertà compositiva. Sempre nello stesso anno, Brian fonda una propria etichetta, la Obscure Records, per la quale incide Discreet Music. Il disco è una traccia di mezz'ora ove avvengono piccolissimi interventi; una musica che, come dice il nome stesso, è "discreta" e può essere ignorata. Eno pubblica anche due libri Music For Non Musicians e Oblique Strategy, in cui espone le sue teorie "non-musicali" Ma è nel 77, l'anno fabuloso che arriva la summa di "tutto quello precedentemente detto e anche di più": Before And After Science. Concepito in gran parte in Germania, dove ha soggiornato in compagnia di Fripp e David Bowie e dove ha stretto amicizia con i Cluster, Brian Eno è in stato di grazia ed ogni cosa che fa è determinante e lascia solchi profondi. Il disco è strutturalmente diviso in due parti. La prima più rock e la seconda anima ambient. No One Receiving, prima traccia, è una bomba a mano. Da sola anticipa di qualche anno il postpunk etnico funky dei Talking Heads, Gang of Four, Wire, The Pop Group e scusate se è poco. King's Lead Hat (anagramma di Talking Heads, guardacaso) è scatenata, nevrotica e un'enorme eredità per Devo e affini. Here He Comes è la partenza per la seconda metà del disco di cui fanno parte i due capolavori massimi: By This River, senza dubbio la canzone più famosa dell'artista, è pura pace dei sensi, raccoglimento mistico e sensuale, ove Eno semplicemente canta con voce dimessa e rassegnata, di quelle che ti feriscono nel profondo accarezzandoti, sopra un rarefatto piano. E la conclusiva Spider And I, creata un'atmosfera sognante ci viene sussurrato un ipotetico addio. Sempre nel 77 a Berlino, collabora con David Bowie e insieme danno vita ad una grandissima trilogia del dandy: Low, Heroes (con Fripp alla chitarra) e Lodger sanciscono una nuova rinascita del duca in veste elettronica/sperimentale. Sempre in quel periodo e nei successivi anni produce e mette le mani su Talking Heads (More Songs About Buildings And Food, Fear Of Music e Remain In Light), Ultravox, Devo, Cluster. Il passo successivo si ha con Music For Films (1978). 18 frammenti strumentali punto d'incontro tra Discreet Music e Another green World. 18 tracce per film che non esistono: la musica inventa il film, la musica è il film. 18 piccole gemme di un'impressionismo ieratico ma romantico e melanconico. Music For Airports (1978) è il coronamento di tutti i lavori precedenti e, da parte di chi scrive, il capolavoro massimo: l'opera fa parte di un progetto di "musica per ambienti". Con esso Eno si pone alla testa di un movimento che intende dedicarsi alla produzione di musica di sottofondo, la quale è proibito ascoltarla con attenzione. Si immagini la musica del disco come colonna sonora del gran via vai di persone nelle vaste hall degli aeroporti. Musica quindi con un forte rapporto con lo spazio in quanto il suono si sprigiona lentamente in maniera astratta, pittorica, celebrale e contribuisce a definirne la percezione spaziale, fin quasi a fondersi con esso, disperdendosi. Il primo brano 1.1, un'ouverture estatica di sedici minuti, sono suonati da Robert Wyatt in persona e manipolati al mixer da Eno. Semplici e splendide frasi di pianoforte reiterate all'infinito sopra un mantra elettronico fatto di riflessi e frammenti di luce. La seconda traccia 1.2 è costruita su echi e sovrapposizioni di un coro a cappella femminile che per certi mi ricorda alcuni passaggi della colonna sonora di Koyaanisqatsi composta da Philip Glass qualche anno più tardi di Music For Airports. Solo che qui c'è bisogno di meno liricità possibile (contrariamente alla musica epica e barocca del film) per svuotarti completamente la mente. E ci riesce maledettamente bene: inconsciamente o ben prima di accorgersene questa musica ti rapisce e ti porta su altre galassie (o forse in paradiso?). E' un disco che potrebbe durare ore che celebra la stasi fisica e mentale attraverso fluttuazioni di luce e ombre, pattern ipnotici e ripetitivi è una suspence infinita. Immenso. Nell'81 collabora a due con David Byrne in My Life In The Bush Of Ghosts; l'incontro e la simbiosi artistica tra i due produce un altro capolavoro sfolgorante di pura avanguardia. Acquista successo planetario come produttore grazie a The Unforgettable Fire e The Joshua Tree degli U2; negli anni ‘90 organizza istallazioni visive, opere multimediali (il pallino per l'arte lo avrà sempre d'ora in poi: verrà invitato nei più prestigiosi musei d'arte contemporanea, tra cui di recente la sonorizzazione all'ara pacis di una mostra di Paladino) e per Microsoft i suoni di Windows 95 e del videogioco Spore. Altre sue produzioni/collaborazioni lasciano il segno come Us di Peter Gabriel, Achtung Baby e Zooropa degli U2 e Outside, album di rilancio di David Bowie. Proprio su Bowie dice: "È all'avanguardia su tutto il mondo, in materia di immaginazione e di espressività". Parole che potrebbero giustamente essere spese su di lui dopo tutto quello che ha creato/prodotto/influenzato in 40 anni di illustre attività. Ma la modestia è un'altra sua qualità. - mr potato 2


LIVE

feedback - DICEMBRE 2010

CARIBOU + FOUR TET GRUBBS - BELFI - PILIA EINSTÜRZENDE NEUBAUTEN

CARIBOU + FOUR TET Bologna, 06/11/2010

Il 2010 sarà un anno da ricordare per Dan Snaith e Kieran Hebden, rispettivamente Caribou e Four Tet. Infatti i loro due album hanno ottenuto grandiosi consensi in tutto il mondo sancendo la loro definitiva consacrazione nell'olimpo dell'elettronica. Due facce della stessa medaglia, poichè il secondo ha aiutato il primo nella realizzazione dell'album Swim, formando così un rapporto osmotico tra le due menti influenzando i rispettivi sound. Azzeccata quindi l'accoppiata della serata. Purtroppo siamo in Italia e tocca pagare (nonostante sia novembre) una tessera duemiledieci del locale per entrare. L'evento era infatti stato pensato dal Locomotiv, ma per motivi di spazio spostato al Link sempre a Bologna. Posto carino (per quanto si possa dire di un simil androne di un megacondominio abbandonato) ma un po' fuorimano (sfilavano taxi a non finire). Arrivo in macchina come al solito troppo presto ma stavolta è colpa degli orari assurdi: Caribou inizia a suonare all'undici e Four Tet finisce alle due. Non male per chi arriva da fuori. Finalmente inizia il tutto, Caribou sale sul palco accompagnato da una band di supporto. Un batterista a cui spesso si aggiunge lo stesso Snaith suonando pure lui la batteria in molti pezzi, un bassista e seconda voce e un chitarrista che in molte canzoni affianca il frontman al synth. L'avvio è un po' stentato, condizionato da volumi regolati male (suoni in generale parecchio impastati tra loro e la tastiera di snaith doveva essere più in primo piano). C'era da aspettarselo, l'acustica del posto non è buona per questo tipo di elettronica dai suoni cristallini. Nonostante questo (e qui sta la bravura, del gruppo e del fonico) il live è stato molto intenso. A quanto ricordo son stati scelti pezzi prevalentemente dall'ultimo album. In Bowls e Leave House in particolare il gruppo ha tirato fuori le palle, canzoni che hanno fatto scatenare il pubblico con le loro sezioni ritmiche metronomiche e le linee di synth catchy. La chiusura dell'esibizione è una combo epica con Odessa (accolta con un boato e accompagnata con grande entusiasmo) e con un'ancora più bella Sun, allungata di diversi minuti con un crescendo fuzz/elettronico. Termina così il concerto di Caribou, coinvolgente. Approfitto per comprare al banchino il cd Swim e in omaggio ricevo Swim Remixes, che come dice il nome è una raccolta di remix del disco fatta da gente illustre come Gold Panda, Holden, Ikonika e Fuck Buttons. Lo consiglio calorosamente. Poco dopo inizia Four Tet per il quale nutro un'aspettativa troppo alta e quindi per forza di cose in parte tradita. La partenza è lenta, sorniona, fino ad un brusco cambio di ritmo e la partenza delle prime note riconoscibili di Sing (stravolta e stirata) accolta dall'entuasiasmo dancereccio. Altri episodi assolutamente degni di nota sono Angel Echoes, Plastic People e una grandissima Love Cry, tutte provenienti da There is Love in You. Il mood di tutto il live è tiratissimo, molto impostato sui beat e ritmi serrati, contrariamente che su disco (l'ultimo ma anche Rounds) dove l'atmosfera trasognata e i suoni magici sono da sempre il marchio di fabbrica. Se dovessi accostare un disco al live direi l'ep Ringer. Ed è un limite questo, come è un limite anche la durata del live, un'oretta scarsa, data la non certo esigua discografia e la vasta quantità di ottimi pezzi che potrebbero essere proposti. L'appesantire molto le tracce rende la musica in alcuni momenti ripetitiva e quasi pedante. Non voglio essere troppo negativo poichè non mancano i momenti esaltanti come già detto, ma la sensazione è che il buon Hebden si stia quasi risparmiando. Sarà l'aspettiva spropositata che mi ero creato, sarà l'acustica del luogo a cui magari Hebden è dovuto scendere a patti, ma un po' d'amaro in bocca c'è, anche solo per il fatto che avrei voluto sentirlo suonare per ore. - mr. potato

DAVID GRUBBS - STEFANO PILIA - ANDREA BELFI Venezia, 12/11/2010

- Ma dai! Ma che era quella roba! E' farsi le s%&@e con la chitarra!-. - Ma poi il batterista: non c' entrava niente. Faceva i rumorini con le spazzole. Ma un po' di ritmo, su! -, - Vabbè, faceva ambient...-, - Macché ambient, era una m%@#a!-. Più o meno erano dello stesso tenore gli altri commenti che sentivo fuori da teatro di Fondamenta Nuove a Venezia. Murano e l' isola di San Michele in piena notte mi distraevano dalla carrellata di giudizi al vetriolo, che facevano da cornice al concerto di David Grubbs (post-rock, ambient, slo-core), che per l'occasione ha collaborato con il batterista, percussionista, ed esploratore dell' elettronica Andrea Belfi e con il chitarrista Stefano Pilia. Inutile dire che lo scenario del teatro con muri di mattone da magazzino del sale, ed un' atmosfera a luci soffuse, non aveva prezzo. Un concerto di quattro pezzi di lunghezza chilometrica: partivano dall' aritmia del tapping chitarristico fino ad arrivare a dei wall of sound distorti, accompagnati dal suono di piatti modificato in tempo reale grazie all' apposita microfonazione. Il concerto era “impari”: i volumi di David Grubbs alle stelle oscurava gli altri due musicisti. Al di là di questa pecca fonica, non posso certo dire di non essermi fatto trasportare nei luoghi di eterna nebbia luminosa dei luoghi ancestrali dell' immaginario etereo e violento della divinità antropomorfa. Sapete cosa!? Al prossimo concerto, e in questi luoghi, ci andrò da solo.

EINSTÜRZENDE NEUBAUTEN Bologna, 13/11/2010

- gorot

Il viaggio in treno per Bologna l’ho fatto con un mio compagno di università con parlata à la Gad Lerner, storico, accompagnato da uno studente di lingue orientali con occhiali da vista stile James Joyce, e da uno studente di ingegneria di Pavia. Rimembravamo l’ evento della band industrial per antonomasia di due anni prima, nello stesso luogo. Arrivati a Bologna facciamo un’ aperitivo atomico: la scelta era tra un Negroni e un Americano ( non ho ancora capito cos’è ... vabbè ). Prendiamo da asporto al cinese; mangiamo, camminando, vermicelli insipidi; corriamo dalla fermata soppressa verso quella effettiva da cui, proprio in quel momento passava il numero 25. Sul bus ragazzi con eskimo e cappotto pesantissimi. Scendiamo e, con tutti quelli del pullman, ci incamminiamo dal parco verso l’ Estragon ( l’ esercito più brutto della storia ). Mi becco con un collega/amico/collaboratore a cui avevo portato una porzione di ravioli cinesi. Avevo lo zaino troppo pesante e così al controllo d’ ingresso si rifiutano di investigare, lasciandomi passare. Da veri tedeschi cominciano a suonare alle 22.00, come era scritto sul biglietto. Blixa era ancora più brutto di due anni fa, ancora più grasso, e con degli orripilanti capelli a siparietto. Tutto inizia con The Garden. La bruttezza scompare di fronte alle urla del frontman. Un ingresso nel giardino che continuerà per le fumanti industrie con lame rotanti ( Installation #1, Die interimsliebenden ), con una vera e propria cascata di chiave inglesi e brugole da una carrucola condite a trapani e sirene ( Haus Der Luge ), e con una rimemorazione del futurismo con tanto di lettura scalcagnata di versi di Marinetti ( Let’s do it Dada! ) in cui alla fine Blixa si rivolge al pubblico chiedendo: Come sta il Duce?. Generosi con tre Encore ( con pezzi come Silence is sexy e Total Eclipse of the Sun ) dando due ore e mezzo di concerto. Antipatici e boriosi, scomposti e invecchiati, a volte fuori tempo con le loro ferraglie...ma stiamo parlando di una band che suona da trent’ anni, e che per trent’ anni ha seguito la propria via. Meditate gente, meditate. - gorot 3


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DISCO DEL MESE Minimalismo 2000

TRISTAN PERICH 1 Bit Symphony [Cantaloupe, 2010]

Tristan Perich è un compositore contemporaneo e un rinomato sound-artist. Le sue composizioni sono formate partendo dal suono di uno, un solo, bit elettronico. Quest’opera è costruita da questo solo bit, messo in sequenza e lavorato ad hoc, tramite un microchip, che viene successivamente unito a dei circuiti all’interno della custodia di un cd, provvisto di un’uscita cuffie da cui gustarsi questa grande sinfonia, divisa in cinque movimenti (su Vimeo, consiglio la visualizzazione del video in cui lo stesso artista spiega il funzionamento di questo marchingegno). Perich non è nuovo a questi marchingegni, la sua precedente opera (1 Bit Music), aveva una struttura simile, anche se il suono non era maturo come in questa e si rifaceva più al white noise, che ai grandi lavori orchestrali, pur mantenendo come ispirazione fondamentale il minimalismo. Al perchè di questa idea, Perich ha risposto dicendo che voleva riportare le persone nei negozi di dischi, e ci prova, creando un’opera in cui la musica e il suo contenitore hanno la stessa importanza. Geniale l’idea quindi, anche di una riproduzione che non è lettura di un CD ma una vera e propria esecuzione, come la farebbe un gruppo di musicisti sul palco. Ma passiamo alla musica. Le prime cose che saltano alla mente sono il minimalismo e l’elettronica chiptune, in particolare il minimalismo rileyano di A Rainbow In A Curved Air aggiornato alla tecnologia odierna, unito alle geometrie ripetitive di Riley. La sinfonia si divide in 5 movimenti di rara bellezza e intensità durante i quali ci troviamo in India con il guru in versione cyber, davanti ad un tè verde. Inutile fare una recensione tracciatraccia, il suono deve essere concepito nel suo insieme, nel suo flusso, con le normali caratteristiche di una sinfonia nel senso classico del termine, con variazioni, temi principali, affogati in questo melange sonoro, talvolta al confine con il rumore bianco, talvolta con le orchestrazioni più classiche, border-line tra Philip Glass e il Terry Riley più enfatico. Nella riproduzione della musica tramite supporto fisico, spiega lo stesso Tristan su Vimeo, l’opera è in potenza infinita, infatti il suono finale si dipana all’infinito, finchè non viene abbassato il volume o la batteria finisce la carica, creando un drone infinito che, nel momento di chiusura, ti fa precipitare dalle nuvole per ritorvarti di nuovo per terra, con le tue cuffie, nella tua stanze. Il disco, uscito per la Cantaloupe (etichetta tutta da scoprire, piena di progetti interessanti), è una delle vette musicali di questo 2010. Rendiamo merito a Perich, che ha saputo concepire un’opera simile, riuscendo a creare un ponte immaginario tra quei signorotti anni ’70 (Terry Riley, Steve Reich e più tardi Philip Glass) e l’elettronica che spopola al giorno d’oggi, l’elettronica volutamente retrò e volutamente cheap, in un unico flusso sonoro che si dipana tra piano e forti, tra allegri/ moderati e tra adagi. Il tutto ovviamente orchestrato da un solo chip. Minimalism is the way. - matmo Percussive Art-Electronic-Rock /Soundtrack For Non-Existent Film

BRIAN ENO Small Craft On A Milk Sea [Warp, 2010]

Il lascito del percorso artistico di Brian Eno è pesante, ingombrante e non si può nascondere. L'etichetta per cui esce questo disco ha da sempre trovato in Eno una fonte d'ispirazione. Il disco sancisce un'ipotetica chiusura del cerchio. Brian Eno ha ormai sessantadue anni portati molto bene, ma dentro si sente ancora un ragazzino dentro un parco giochi di suoni con cui può sperimentare a piacimento. Come sua abitudine non gli piace divertirsi da solo, infatti stavolta si è circondato di talentuosi giovani musicisti d'avanguardia che potremo definire suoi allievi: Leo Abrahams alle chitarre, Jez Wiles alle percussioni e Jon Hopkins al synth. Il disco è composto da 16 tracce/frammenti in maniera simile a Music for Films o Another Green World. Ci sono rimandi (i marroni della copertina e alcuni titoli dei componimenti) alle varie ere preistoriche o a tipi di rocce calcaree, per questo mi piace pensare che il disco sia ipoteticamente una colonna sonora di una spedizione speleologica nei recessi più oscuri e inesplorati delle cavità del sottosuolo. Il disco inizia in maniera dimessa con Emerald and Lime e le due tracce a seguire (Complex Heaven è pura emotività oscura, badalamentiana), per poi cambiare completamente rotta con Flint March: una frana di una friabile parete rocciosa fatta di tribalismi spinti e rumorosi e di accenni elettronici d'avanguardia. La parte centrale del disco ci porta fino in fondo alle cavità nel cuore pulsante dell'opera composta da tracce come 2 Forms Of Anger e Dust Shuffle ove regnano ritmi krauti aggiornati e industrial/ drum and bass. In Paleosonic, traccia conclusiva della parte centrale del disco, la chitarra nevrotica e il synth avant-tronico fanno schizzare la traccia fino a liquefarla. Dopo, torna la parte più ambient umorale paesaggistica di cui siamo abituati a sentire da Eno. Una calma notte ammanta Lesser Heaven e piccole stelle cadenti ci illuminano la via del ritorno. Calcium Needles è una magnifica immersione tra le pareti rocciose dove l'acqua filtra tra le asperità e l'atmosfera umida ci toglie il respiro. Torna l'anthem del disco con Emerald and Stone che ci trascina lentamente via dall'oscurità e Written, Forgotten ci fa ricordare che antiche civiltà hanno lasciato una traccia fragile ma indelebile in posti difficili come questo. il loro segno permea ancora questi luoghi dimenticati e fa pulsare la musica. Late Anthropocene ci fa capire che la preistoria non è poi così lontana, ma che anzi la stiamo vivendo tutt'ora. Ne risulta un'opera misteriosa come antichissime pitture rupestri (il richiamo all'inizio di Koyaanisqatsi è vividissimo), che necessita di una pazienza d'ascolto e dimostra l'importanza dell'istinto passionale e dell'improvvisazione per un musicista. 7 - mr. potato 4


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RECENSIONI Witch House

SALEM King Night [I Am Sound, 2010]

I Salem sono composti da John Holland, Heather Marlatt e Jack Donoghue e prendono il nome sia dal romanzo di Stephen King, sia dalla città, famosa per le streghe americana. Ed è proprio qui il punto, le streghe e l’immaginario dark sono la pietra d’angolo di questa musica, che fonde tanto l’esoterismo quanto il dubstep e l’house. Sono arrivati al formato del long-playing dopo essere stati identificati come next big thing americana, tutta questa attenzione è dovuta all’hype immenso che si è creato dopo la pubblicazioni dei, non mancano mai, 7 e 12 pollici. King Night si apre con un trittico da paura, dove a risaltare è Asia, che inizia con dei battiti industriali distorti e che poi si avventura in una valle di paura, con un synth che più evocativo non esiste, mentre la voce drogata lo asseconda. Il disco mantiene alta la tensione nella sua parte centrale in particolare con Trapdoor, dove una base al confine tra l’hip-hop e il trip-hop viene devastata da suoni random e da un rappato che mostra i denti. Anche il finale non delude con uno dei pezzi migliori del disco, Killer, un rito funebre per base, rumori bianchi e voce, al confine con il non comprensibile; questo pout-pourri si apre quando arriva il synth, elementare, che trasforma il pezzo in un bad trip dovuto a troppo acido. Il disco è travolgente, costruito bene, a livello di suoni e di sensazioni, l’hype per questo gruppo è meritatissimo, il migliore del calderone witchhouse, che ci ha regalato il migliore esordio dell’anno. Le atmosfere da brivido sono in primo piano, non c’è spazio per deboli di cuore in queste canzoni. E come scrive Stephen King in Le notti di Salem, “Il terrore assoluto!”. Paurosi. 7 - matmo Easy-Dubstep/Synth-pop

DARKSTAR

North

[Hyperdub, 2010]

Svolta easy listening per il duo elettronico londinese che dopo due anni di pubblicazioni molto interessanti (singoli ed Ep) in ambito dubstep da un bel calcio alla loro ricerca sonora facendo uscire un disco che di dubstep non ha niente ma che ha invece le caratteristche del più commerciale electro-pop. In realtà l’uscita dell’ultimo singolo Aidy’s Girl Is a Computer poteva suonare come campanello di allarme per quelli che si aspettavano un disco dub in tutto e per tutto, ma in pochi pensavano di trovarsi ad ascoltare un disco così, non perchè il cambiamento sia il male assoluto ci mancherebbe ma perchè la leggerezza e la scontatezza di alcune tracce rivelano

un ‘innegabile mancanza di idee che si ripercuote sui pochi pezzi ben costruiti e architettati. La scelta di James Young e Aiden Whalley di affidare la voce, che per la prima volta non passa da uno dei loro computer, a James Buttery (molto più tradizionalista) è la prima novità di North insieme all’inclusione di due pezzi già usciti e una cover remixata (Gold degli Human League) e alla scelta di mettere da parti i duri beat dub per resuscitare una versione recente (ma non esageriamo) del synth-pop anni ottanta. Sicuramente ci sono alcuni aspetti positivi: il coraggio dei due di cambiare rotta e uno studio più ampio delle tracce e delle possibilità che offre l’elettronica li fa maturare sotto il punto di vista musicale ma le atmosfere che cercano di ricreare in questo disco non gli appartengono ancora un gran che. Sintetizzatori a tutto spiano e poi xilofoni, drum machine, pianoforte e chi più ne ha più ne metta in un tentativo di colmare i 40 minuti scarsi mal riuscito. Sicuramente un buon disco se si vuole stare al caldo di un caminetto nelle sere invernali a riflettere, peccato che noi però il caminetto non ce l’abbiamo e ci andiamo a scaldare nei locali con la dubstep. 5 -w

questi trent’anni, si dimostrano pedestri fin dai fondamentali. Basso acustico, chitarra elettrica e batteria suonata (malissimo) in piedi, tali e quali i Violent Femmes. Riciclata anche l’idea di accostare canottiere e stivaloni, che regala ai ragazzotti l’aspetto di tre comparse di un film dei fratelli Coen. Cosa possiamo aspettarci dall’ascolto del disco dunque? Nient’altro che i soliti stereotipi del genere, reiterati senza un briciolo di originalità o carattere. Il cantante – forte di occhi pallati alla Brian Molko – cerca di imitare persino il timbro dell’orrendo dei Placebo, con risultati ovviamente penosi tra vocali apertissime e piattezza espressiva. In tutto il disco non c’è una melodia azzeccata. I riff di chitarra sono sciatti cliché di terza mano, appena conditi da tremolo e distorsioni, il basso si rifugia in figure elementari. Quando parte il primo «yeah yeah» si sfonda la soglia del ridicolo. Se volete un disco di blues-punk non faticherete a trovare di meglio. Se invece non sapete cosa fare la sera e vengono a suonare al paesello vostro tenete duro. Leggete un bel libro, accendete la tv. Andate a farvi un giro in bici o a mangiare un piatto di tagliatelle. Andate a ballare in discoteca; ci sono tanti dj bravi in giro e le ragazze sono molto più carine di questi tre. 3 - bobi raspati

New Wave da barzelletta

CRIMINAL JOKERS This Was Supposed To Be The Future

Ambient/Drone

I Criminal Jokers sono tre giovani fresconi di Pisa, che suonano un punkettino ingenuo e scipito come il nome che portano. Presentati come l’ennesima speranza del rock italiano, sono in realtà un gruppo terribilmente noioso, senza mordente né perizia strumentale. Il loro nume tutelare è il tipo degli Zen Circus, vale a dire la protesi italica delle reliquie dei Violent Femmes: grazie al suo supporto i ragazzi hanno ricevuto attenzioni mediatiche superiori ai meriti e hanno fatto parecchi concerti. Questo la dice lunga riguardo alle miserande condizioni in cui versa la musica leggera nel nostro esausto paese. Inutile dire che senza giornalacci come XL o siti internet come Rockit, a nessuno importerebbe nulla dei Criminal Jokers. Inutile dire che vivremmo benissimo (o malissimo) lo stesso. Piccola digressione storica. Durante gli anni ‘80 diversi gruppi americani tentarono di divincolarsi tra l’influenza del punk e una sincera ossessione per la tradizione blues, rockabilly e country. Cramps, Gun Club e Pussy Galore sono solo alcuni dei nomi eccellenti che animarono quella scena. È qui che i Jokers, come già i padrini Zen Circus, rubacchiano i propri riferimenti estetici, nonostante Pisa non sia uno stato del Midwest e questo non sia il 1983. Arroccati su una indefessa ottusità stilistica e disinformati riguardo agli infiniti revival new-wave accaduti nel mondo in

[Thrill Jockey, 2010]

[Ice For Everyone, 2010]

BARN OWL Ancestral Star I Barn Owl sono Even Caminiti e Jon Porras, duo californiano incline a sconfinamenti dronici e a fluttuazioni cosmiche. La loro musica (chitarra super effettata, synth, violino e piano a impreziosire) è stata definita in mille modi, e tutti hanno a che fare con l’onirico, l’assoluto o il primordiale. La copertina di questo Ancestral Star, del resto, parla da sola (perché hanno scelto come nome Barn Owl, letteralmente “barbagianni”, piuttosto che “Dreamlike Luminescences”?). La formula si ripete in tutte le dieci tracce: tempi dilatatissimi, crescendo drone, modulazioni di synth, a creare un’atmosfera solenne che, tuttavia, sconfina più di una volta in momenti di stanca durante i quali il livello emozionale si abbassa sensibilmente. Né grandi picchi né grandi pecche, dunque, in queste canzoni che parlano di albe, di stelle ancestrali e di crepuscoli. Tutto sommato, niente di nuovo sotto il sole. 5/6 - zorba (Another) Singer - Songwriter

AGNES OBEL Philharmonics [Pias, 2010]

La copertina potrebbe ricordare giusto un po’ un ritratto fiammingo del primo ‘400, di quelli in cui il soggetto emerge dal fondo scuro con un’espressione non proprio briosa, attento alla costumatezza, nordico d’aspetto e di 5


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portamento. In effetti Agnes Obel è danese, anche se ora vive a Berlino, ed ha un debole per la bellezza formale, ce ne rendiamo subito conto ascoltando Philharmonics, il suo album d’esordio che esce per la Pias Recordings (già casa di Joan As Police Woman e Soap&Skin). Agnes, molto diligentemente, scrive, suona (piano e arpa), registra e produce tutto in proprio, riuscendo a sfornare un’opera che colpisce all’istante, forse, però, più per l’immediatezza dei toni che per il loro effettivo valore artistico. L’austero fascino iniziale delle ballate per piano, infatti, si perde un po’ per strada man mano che si va avanti con gli ascolti, quando la freschezza inizia a diventare leziosità e quando i pezzi strumentali (e non solo quelli) sembrano apparire sempre più dei semplici riempitivi. Non bastano le melodie azzeccate di Just So e di Avenue o la rievocazione di I Keep A Close Watch di John Cale a risollevare le sorti di un album artificioso, in cui a farla da padroni è soprattutto la noia. State attenti a non abusarne, il pericolo saturazione è dietro l’angolo. 5 - visjo Cantautorato Rap

DARGEN D’AMICO D’ (Parte Prima e Parte Seconda) [Giada Mesi, 2010]

Giunto alla terza prova solista, Dargen D’Amico spariglia ancora una volta il mazzo. Tanto è bravo che questo disco, ancora una volta, sarà incondizionatamente amato da alcuni, ma risulterà indigesto ai più. Parliamo di disco per pigrizia, visto che si tratta di due EP acquistabili in via esclusiva su internet per soli 5 euro. In un periodo storico in cui il meglio della musica italiana dovrebbe essere rappresentato da gentaglia come Baustelle e Luci della centrale elettrica, nessuno ha trovato il coraggio di pubblicare un’opera audace e difficile come questa. Se tali sono le condizioni da accogliere per poter produrre musica libera, accettiamo di buon grado l’album digitale e auguriamo a Dargen il successo che merita. Gli ortodossi del rap non lo apprezzano perché usa basi sintetiche, perché gioca coi Crookers e tratta argomenti spinosi con levità, non fa free-style e non fa il figo. Gli indie-rockers col ciuffo non riescono a sopportare la voce artificiosamente impastata e le spiritosaggini, il vocoder e le smargiassate. Non è hip-hop, eppure rappa. Rappa, eppure bada sempre al senso di quel che dice invece che alla mera stilosità delle rime. Chi ha le orecchie foderate di prosciutto e il cuore di pregiudizi non lo riconoscerà come un cantautore, nonostante sia più profondo del mare. Tante sono le strade che conducono a Dargen D’Amico, tante quante le canzoni che ha finora scritto: chi pretende seriosità incominci da Moderata crisi e Prima fila Mississipi, chi crede negli 6

Uochi Toki si ripassi Tra la noia e il valzer, chi conosce l’ironia prosegua e si perda negli infiniti rimandi tra i testi. Dopo Musica senza musicisti e Di vizi di forma virtù, il primo dominato dalle cento anime di un qualsiasi quartiere di Milano e il secondo dalle ossessioni private del suo autore, il nuovo D’ è una monografia sull’amore. La prima parte è uscita in giugno ed è una parodia delle canzoni da chioschetto: i ritornelli sono insistiti e sfacciati, le trovate ritmiche e armoniche pacchiane (su tutte Ma dove vai e Bere una cosa, apice comico dell’opera). Musica da kebabbaro insomma, la stessa musica che la maggior parte dei ragazzi sotto i venti si beve da mane a dì, mentre le riviste italiane ci abborbano con le nenie di Dente. La seconda parte è invece uscita in ottobre e inscena la caduta delle foglie, tra riverberi che rimandano ai vecchi lavori della Warp, suoni terreni e voci angelicate. D’ Cuore (D’Amico D’Amore) è il pezzo più bello dell’anno, la finale Briciole Colorate si schianta su un muraglione di archi e canti in autotune. I testi sono il vero collante dell’operazione. I protagonisti delle canzoni vanno a puttane, predicano l’amore occasionale e talvolta lo desiderano senza speranza, non disegnano pratiche sadomaso e accettano di buon grado trapianti di cuore a base di frutta. Sebbene non sia cosa da tutti riconoscersi, ogni verso è un’odissea di significati e c’è spazio per ciascuno di noi. Se esiste qualcosa di più originale e profondo qualcuno me lo faccia sapere. A mio vedere un altro bel disco per il miglior cantautore italiano dai tempi di Dalla. 8 - bobi raspati

Italian Pop

NON VOGLIO CHE CLARA Dei Cani [Spleeping Star, 2010]

Un malinconico disco di musica pop cantautorale portato ai nostri giorni e condito con parsimonia di influenze post rock. A 4 anni dall'uscita dell'ultimo disco, Clara è parecchio cambiata, maturata potremmo dire: alla disillusione si è aggiunta la malinconia. Le premesse ci sarebbero tutte eppure il risultato non è entusiasmante. Alcuni brani presi singolarmente avrebbero sicuramente qualcosa da dire ma la monotonia prevale e l'ascolto si fa pesante. La mareggiata del 66 è la quintessenza dei Festival di Sanremo di una volta, con tanto di immancabile arrangiamento orchestrale. Il tuo carattere e il mio ci butta improvvisamente giù dal palco dell'Ariston. Il sintetizzatore iniziale fa presagire un cambiamento che poi non si trasformerà in realtà. Dopo la delusione ci accoglie Le guerre, brano che non aggiunge né toglie niente a quanto il gruppo bellunese ha detto finora. Pianoforte e voce, la fine di un amore, Gli anni dell'università è uno dei pezzi più

riusciti: modesto e delicato, porta un soffio di consolazione. Ricordi meno dolorosi in Gli amori di gioventù e L'inconsolabile che accelerano il ritmo. Con L'estate la penna di Fabio de Min da una bella prova, riuscendo a tenersi ben lontano dalla banalità. L'ultimo pezzo. La stagione buona apre uno spiraglio di speranza nell'abisso di angosce. Il violoncello chiude il disco nel caos distorto del finale. Da segnalare per dovere di cronaca nei confronti di chi è allergico la presenza di echi baustelliani che infestano alcuni brani. Il finto vintage nella moda come nella musica ha seri limiti ma lascia spazio anche ad alcune immagini interessanti, che non è poco. 6 - comyn Marshy-electro-experimental

AVEY TARE Down There [Pow Tracks, 2010]

Forse per invidia verso il compagno musicista o forse semplicemente per voglia di condividere il proprio stato d’animo, che a detta sua lo attanaglia da un bel po’ di tempo, Dave Portner al secolo Avey Tare, ovvero una delle menti creative di quel gran miracolo musicale chiamato Animal Collective, esce con il suo primo disco solista Down There tracciando un percorso che si distacca da quello della band non per l’aspetto sonoro che rimane prettamente elettronico ma per la visione generale che offre all’ascoltatore. Dave raccoglie in 34 minuti tutti i dubbi e le domande che lo assalgono in questo periodo creando un atmosfera di dubbio e malessere che percorre il disco attraverso la sua voce effettata; i 6 minuti di Laughing Hieroglyphic toccano i temi della protezione e della famiglia, in Heather In The Hospital si ricorda la lotta della sorella contro il cancro mentre Heads Hammock sembra sopraffatta dal malessere interiore che fa scomparire la voce sotto un tappeto di beat e percussioni. L’energica Oliver Twist risveglia l’animo di Avey Tare e gli concede la forza per resistere ai pessimi periodi che ha passato ma non lo libera dal pensare continuamente alle cause che gli hanno procurato tanta sofferenza, la sua non è rabbia per lo schifo di mondo che lo circonda ma difficoltà a trovare risposte agli interrogativi che si pone dentro se stesso e che riflette nelle canzoni. Due le tracce più classiche (Ghost of Books e Glass Bottom Boat) che cullano con arpeggi di chitarra e lentamente cercano di ristabilire la pace mai trovata. Lucky 1 chiude il disco con echi, loop e sonorità pesanti completando un viaggio introspettivo che porta alla eliminazione del passato, onde evitare altre sofferenze. Il viaggio stilistico invece conduce “laggiù” nell’oscurità dell’animo, nel profondo dello spirito, dove attanagliato da un ‘atmosfera negativa e torba come l’acqua di una palude fangosa coi suoi mille pericoli e le sue mille forme nuota il coccodrillo di Avey Tare, solo e melanconico distaccato da tutti gli altri animali. 6/7 -w


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ROVISTANDO IN SOFFITTA Psychedelic Rock

LOVE Forever Changes [Elektra, 1967]

Era il 1967: Dopo la famigerata "Summer of Love" emergevano dal panorama musicale psichedelico i Love, gruppo californiano capeggiato dalla personalità geniale e controversa di Arthur Lee, con il loro terzo album Forever Changes, in my humble opinion uno dei più belli della storia del rock. Ascoltandolo fin dalle prime note veniamo avvolti da uno scenario di sogno e i nevrotici fraseggi di chitarra rendono evidente che non siamo incappati nell'ennesima band nata dalla sottocultura hippie ma in un gruppo con una propria retorica (che avrebbe poi ispirato artisti post-punk come The Jesus and Mary Chain), artefice di un album tutt'altro che floreale. Peter Albin (dei Big Brother) ha infatti detto di loro: "Their name should be Hate rather than Love" a causa dei testi tormentati e delle sonorità talvolta malinconiche (proprie di A House Is Not A Motel, The Red Telephone e Andmoreagain). Forever Changes è un disco caleidoscopico, ricco comunque di accenni alla corrente visionaria dello psych folk, ma percorso da una strisciante inquietudine dettata dalla voce tremula di Lee e dall'utilizzo di chitarre ora acide ora distorte e di archi. I Love infatti sono accompagnati durante le registrazioni da un'orchestra (leggenda vuole che al momento di entrare in sala d'incisione la maggior parte dei membri del gruppo fossero sotto l'effetto di stupefacenti, così che il produttore dovette ingaggiare dei session men e un'orchestra per supportare i musicisti impossibilitati a suonare), che si intromette negli arrangiamenti con ritmi in alternanza foschi e vivaci in continua evoluzione (The Daily Planet, You Set The Scene) e creando in alcune canzoni (Alone again or) interessanti atmosfere latineggianti, conferendo all'album un magnetismo inaspettato. Disco di ombre e luci, Forever changes incarna il precario equilibrio delle menti dei musicisti californiani, segnate dall'eroina che alcuni anni dopo porrà la fine del gruppo stesso. - zuma

“This is pop!”

Garage Rock

[Virgin Records, 1979]

[Twin/Tone Records, 1984]

XTC Drums And Wires Che gli XTC fossero dei geni della melodia se ne accorsero tutti ascoltando Skylarking, quel campionario di raffinatezze sonore, frizzante e cremoso, che li consacrò definitivamente perfetta “macchina pop”. Esso altro non era che il punto di arrivo di un discorso musicale nato dieci anni e diversi cambi di formazione prima dalla stravagante mente di Andy Partridge (chitarra e voce) e di Colin Moulding (basso), durante lo scalpitante clima New Wave della scena inglese di fine anni Settanta. Un discorso in continua evoluzione che trovò, dopo le irrequietezze punk-clownesche dei White Music e Go 2 d’esordio, una prima sostanziale svolta nel capolavoro Drums and Wires. Come dare torto a Moulding, che lo definì un “jukebox nel quale si sarebbe potuto trovare di tutto”: con Terry Chambers e Dave Gregory rispettivamente alla batteria e alla chitarra (Drums and Wires, appunto), gli XTC erano più che mai disposti ad affrontare l’argomento pop in tutte le sue sfaccettature. Non stupiamoci dunque se a farla da padrone non sono solo frenetiche hit potenzialmente da classifica (Making Plans for Nigel), ma anche sghembi intermezzi ritmicamente frammentati (Day in Day Out), caricature punk (Outside World), divagazioni marziali (Millions). Gli XTC, ormai si è capito, benché non snobbassero certo sonorità sofisticate, maligne, complesse, erano in grado di tradurle in qualcosa di irresistibilmente orecchiabile, fresco e, in questo senso, popolare. La chiusura dell’opera è affidata a Complicated Game, nella quale, in un vertiginoso crescendo, Partridge sfoggia con gusto feroce tutto il suo catalogo di balbettii, parole soffocate in gola, singhiozzi, fino alla masticazione del microfono, all'urlo primordiale. Ascoltatelo, non ve ne pentirete. - zorba

LOVE I Love nascono nel 1965 a Los Angeles. Risultato dell’incontro tra diverse influenze (garage rock, rock and roll, psichedelic rock, folk rock made in Byrds), sono tra le band più importanti della storia del rock psichedelico e del rock in generale; punta di diamante del gruppo è Arthur Lee, polistrumentista (ma sopratutto chitarrista) che già da qualche anno si è fatto un nome in varie formazioni rhythm’n’blues. Dopo un 45 giri, Little Red Book, nel 1966 esce l’album di esordio, Love, nel quale spiccano Hey Joe, Mushroom Clouds e Signed D.C e dove si fa notare l’altro componente fondamentale dei Love, Bryan MacLean. È il turno poi di Da Capo (1967), in cui si nota l’ormai definitivo avvicinamento alla psichedelia, un notevole perfezionamento della tecnica e l’introduzione dei fiati (affidati a Tjay Cantrell) nelle composizioni. Un nuovo grande disco esce nel dicembre dello stesso anno di Da Capo, Forever Changes; il rock delle corde di Lee si fonde con orchestrazioni classiche e, insieme, accompagnano racconti surreali e visioni allucinogene; degne di nota sono Old Man, Alone Again Or, Andmoreagain e A House Is Not a Motel. Negli anni successivi escono Four Sail, Out Here e False Start, che però non riconfermano il successo dei precedenti lavori; dopo uno scioglimento e una reunion (dalla quale nacque il deludente Reel To Real), l’esperienza Love termina definitivamente con la metà dei Settanta. Bryan MacLean e Arthur Lee sono scomparsi rispettivamente nel 1998 e nel 2006.

REPLACEMENT Let it be “Undici tracce pervase dallo spirito di un rock sporco, brutto e cattivo, che, pur recuperando la tradizione garage e punk, la fa propria colorandola di un pop epico e appassionato”: così un redattore cinquantenne gravemente affetto da emorroidi liquiderebbe l’opera somma dei Replacements. Chi crede che la musica sia prima di tutto passione e sentimento potrebbe parlarne invece come di un “turbinio di turbe di adolescenti turbati, dove le insicurezze vengono a galla in modo graffiante, ingigantite poi dall’incontenibile dolore esistenziale insito nel timbro vocale di Westerberg”. Può darsi che entrambe queste definizioni siano vere: ciononostante, Let It Be nasce come secondo ufficiale sfogo di quattro ragazzi proletari di Minneapolis, che, almeno nel 1984, non hanno nessuna voglia di fornire emanazioni liriche alla “blank generation” ormai placidamente accomodatasi sugli allori. A ciò Paul Westerberg, frontman del gruppo, penserà più tardi, quando avvierà la sua controversa carriera solista: nel 1984 (che, vale la pena ricordarlo, è lo stesso anno in cui gli Husker Du di Mould, Hart e Norton sconvolgono l’universo hardcore con Zen Arcade), ai Replacements interessa, ancora e prima di tutto, fare grande musica. Il risultato è effettivamente gigantesco: l’anima delle note vibra come solo raramente capita di sentire, e cercare di spiegare perché sarebbe come cercare di spiegare il fine ultimo della stessa arte musicale. Il motivo non è da ricercarsi nell’innovazione, in quanto il disco riprende piuttosto pedissequamente gli schemi della canzone pop-rock, mescolandola con un po’ di punk (We’re Comin Out, vero inno di strada, o Tommy Gets Its Tonsils Out, divertente e iperdistorta novelty) o proponendola in forma di distese ballate (Sixteen Blue, Unsatisfied) e riuscendo decisamente meglio nelle seconde; non è la perizia tecnica, dato che i quattro Rimpiazzi suonano, appunto, come rimpiazzi (in senso buono); non è la bellezza delle liriche, che, come già detto, quando provano a trattare tematiche “difficili” (Androgynous, Answering Machine) suonano piuttosto acerbe (ciononostante i due pezzi sopraccitati sono entrambi da lacrime, il primo di commozione il secondo di rabbia). Basta però un pezzo, il primo, per capire non dico la causa, ma l’animalesco istinto che conduce a tanta sfolgorante bellezza: I Will Dare, glorioso anthem punk-pop, profuma allo stesso tempo di Trainspotting e di Stand By Me, e la sua ingenua felicità che tutto abbraccia ci lascia con la pace nel cuore e con una gran voglia di vento tra i capelli. - samgah

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DEEP INSIDE

JOHN COLTRANE a love supreme

I quasi cinque decenni ormai trascorsi da quello che fu il periodo di massimo splendore del jazz ci permettono di dire senza timor di smentita che John William “’Trane” Coltrane (Hamlet, 1926 – New York, 1967) si può fregiare di averlo portato ai massimi livelli di eccellenza. Ciò per innumerevoli motivi: la tecnica sopraffina, certo, ma anche le molte innovazioni e contaminazioni e la sempre crescente tensione spirituale della sua opera. A detta di molti, il punto della sua carriera in cui questa caratteristica meglio si sposa con la sua irruenta eppur raffinata musicalità è nelle registrazioni degli anni 1964-1965 e, in particolare, in A Love Supreme. Registrato in una sessione di un giorno (9 Dicembre 1964) con il suo celeberrimo Quartet (con lui c’erano tre dei musicisti migliori dell’olimpo del jazz di sempre: McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al contrabbasso e Elvin Jones alla batteria), l’album è, concettualmente, strutturato come un viaggio, della mente prima e del corpo poi, verso Dio. Musicalmente parlando, si potrebbe definire una moderna Messa(nel senso musicale del termine), dunque un’unica celebrazione formata da diversi movimenti; alcuni temi e frasi ricorrono infatti per l’intera durata del disco, inducendoci a pensarlo come un unicum. Tutta l’opera vive di questo intersecarsi del piano concettuale con quello musicale e della loro complementarità, che si traduce per l’ascoltatore in un continuo stimolo melodico, ritmico e cerebrale. Cibo per l’anima e nulla più, di questo si tratta. Cibo che il Coltrane-sacerdote generosamente offre ai fedeli-ascoltatori, mentre cerca di lottare contro gli eccessi di cui la sua fama si era sempre alimentata. Da questo punto di vista, dunque, Acknowledgement, il pezzo d’apertura, è la visione che dà inizio al viaggio (e il colpo di gong che lo apre ci introduce ad un’atmosfera che ha già perso quasi tutti i connotati umani) e che prepara al viaggio (che non è più trip ma journey). Dopo un primo attacco frontale del tenore, Coltrane lascia che la ritmica e il piano elaborino le prime fasi della visione, per poi ritornare con il suo assolo in veste di divinità: proprio questa teatralizzazione e, più nello specifico, divinizzazione del suono, è caratteristica fondamentale dell’opera (“Il mio talento appartiene a Dio” era solito affermare). Questo Heavenly Horn, incessantemente sostenuto da un Quartet che suona più dinamico che mai, invita istericamente e spasmodicamente alla redenzione. Quando, in un girotondo estatico, Trane ripete le stesse quattro note in differenti tonalità (imitato successivamente dalla sua stessa voce campionata che declama il titolo del disco), il messaggio è ormai stato recepito e, incredulo, lo spirito è pronto a decollare in Resolution. Dopo un rapido preludio di solo contrabbasso, che fa da collante tra il primo e il secondo pezzo, una frase di sax destinata a rimanere negli annali dà avvio senza cerimonie al “journey”: la batteria vorticosa e la nevrotica espressività di Tyner (che ci delizia con un solo eclatante) devono nella parte finale del pezzo cedere le luci della ribalta al tenore, che in pochi minuti crea frasi, le fa proprie, le distorce fino a renderle irriconoscibili e si spinge fino ai limiti della sua estensione, per poi ritornare pacatamente alla frase iniziale, quasi vergognandosi dell’esuberanza di poco prima. Pursuance, il terzo pezzo (idealmente unito al precedente, in quanto seconda parte del solito viaggio), si spinge oltre, in un processo di purificazione interiore senza eguali. Dopo l’assolo di batteria del primo minuto e mezzo (vivosudatoepulsante) un breve intervento di sax introduce un altro liquido e meraviglioso assolo di piano, che dopo due minuti rallenta prima di cedere di nuovo il passo al tenore. Quest’ultimo suona più che mai strozzato, irrazionale, visionario, evidentemente ansioso di arrivare alla meta prefissata ma allo stesso tempo vibrante di eccitazione. Sempre più tutt’uno con gli altri elementi del Quartet (Jones in particolare), Trane si concede tre minuti di pura forza liberatoria. Quando lo Heavenly Horn tace è il turno di Jimmy Garrison, che nei suoi tre minuti riesce a esserne degna continuazione, seppur con un’attitudine molto più “pura” e delicata. Ma è giusto così, perché l’anima ormai è prossima ad arrivare e l’ansia si è ormai placata in favore di una completa e totale fede. Di quest’ultima Psalm è assoluta esternazione: tra sventaglii di piatti, rimbombi di timpani e tesi accordi di piano galleggia l’accorata invocazione del sax. Che ormai si è fatto voce, poichè Coltrane “canta” con lo strumento le parole di un inno a Dio da lui stesso scritto: una nota per ogni sillaba, pacatamente il sassofono recita la preghiera dell’anima di fronte alla luce che tutto avvolge. Elation. Elegance. Exaltation. All from God. Thank you God. Amen. Non è più jazz. Non è più (solo) musica. - samgah 8


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Witch House

tremate, tremate le streghe sono tornate Ennesimo movimento del sottobosco americano, figlio del peer to peer, della gioventù 2.0 e figlio nella stessa misura di quel calderone ipnagogico, da dove è uscita fuori la natura più perversa e dark. Chiamata anche Haunted House, Drag. Proprio tramite l’hauntologia possiamo cercare di trovare l’estetica di questo movimento di (consapevole?) provenienza derridiana, “The paradoxical state of the spectre, which is neither being nor non-being” ed è proprio qui che possiamo fermarci, le atmosfere musicali sono in bilico tra reale ed irreale, immagini sfocate che si muovono in bianco e nero attraverso pareti decrepite. Il genere fonde una versione oscura e sporca dell’house e l’occultismo dei synth e delle voci filtrate, sotto una doverosa patina lo-fi. Per partecipare a questa orgia di rimandi eighties è necessario occultarsi anche a livello di moniker e troviamo così nomi assurdi, inesplorabili come i loro creatori. Ci aggiriamo sospettosi tra asterischi, croci, triangoli, che rendono difficile la ricerca in rete nomi come ▲, †‡†, Gr†ll Gr†ll, Pwin ▲ ▲ Teaks. A dividersi le streghe due etichette, la Tri-Angle e Disaro, sempre in prima fila per proporre nuove bestie del sottobosco americano. Difficile parlare di discografie, il movimento vive on-line, tramite il passaparola (consigliatissima però la compila Isvolt, stampata da Robot Elephant). Tra la miriade di gruppi sconosciutissimi, alcuni progetti iniziano però ad accaparrarsi un po’ di pubblico, gente come oOoOO, Salem, White Ring e Balam Acab, gruppi che si muovono su coordinate che pur non avendo presupposti originali, creano un’unica mescolanza di beat, echi dalle caverne, porte cigolanti in case infestate da fantasmi, omosessualità e tossico-dipendenza (cercate i video dei Salem su Youtube per capire meglio). I Salem vanno ancora più in là, mischiano le influenze sopracitate con un elemento che potrebbe non entrarci nulla, l’hip hop, presente nei loro pezzi, in particolare nelle basi, uno dei tre ha dichiarato di amare produttori rap. Non sappiamo se sia un nuovo fuoco di paglia, di quei movimenti che finiscono poco dopo essere iniziati (come succede molto ultimamente) o se sia un nuovo capriccio musicale, fatto sta che, le idee sono molto interessanti e perfette per questo periodo dell’anno. Da non ascoltare in stanze buie. - matmo

Gershwin in Love La lista (intesa come puro e semplice elenco di nomi o situazioni) è stata per un mese protagonista indiscussa del dibattito in Italia, usata come efficace mezzo di denuncia e veicolo immediato di informazioni. Non riesco dunque a desistere dal presentate un piccolo elenchino anch'io. A voi “Pellicole che utilizzano la Rhapsody in Blue di Gershwin come colonna sonora”: Fantasia 2000 di Disney (chiunque non abbia in mente con chiarezza quei fantastici 10 minuti è pregato di correre su Youtube), Manhattan del geniale Woody Allen (sia in apertura che in chiusura), la pubblicità di una nota compagnia aerea, di uno shampoo, di una marca di cioccolato (un sacco di pubblicità in effetti...). Queste erano solo le prime posizioni, che non necessitano certo di una ricerca approfondita. Il sinuoso glissato su scala di Si bemolle, per qualsiasi scopo sia utilizzato, ci trascina indietro verso un mondo (perduto) fatto di musical hollywoodiani e lustrini. “Un caleidoscopio musicale dell'America - la definì l'autore stesso - coi nostri blues, la nostra pazzia metropolitana”. Gerswhin riuscì a trasmettere con la sua musica qualcosa di palpabilmente cinematografico e non c'è artista che non abbia riarrangiato una sua aria, da Frank Sinatra a Madonna. Figlio di ebrei russi nacque a Brooklyn ed in meno di venti anni di carriera scrisse più di 700 canzoni, la maggior parte delle quali insieme al fratello e paroliere Ira. Durante il suo periodo parigino frequentò Ravel e scrisse An American in Paris, una delle più celebri commedie musicali dello scorso secolo. Oggi la sua musica conserva intatto il proprio magnetismo. A prova di questo, entrando in un negozio di dischi, due lavori molto diversi ci presentano estratti dall'opera del maestro americano. A Brian Wilson, noto beach boy, è stato concesso, da Todd Gershwin, pronipote di George, l'onore di attingere liberamente dall'archivio di famiglia. Reimagines Gershwin per la Disney Records è il risultato di questo incontro che Wilson definisce come “il progetto più spirituale al quale io abbia mai lavorato”. Immaginate di entrare in possesso di 104 canzoni lasciate incompiute dal mito della vostra infanzia, chi non si accosterebbe con timore reverenziale? Questo non ha impedito a Wilson di regalarci 40 minuti di musica apprezzabile, in cui l'ammirazione per il maestro è percepibile in ogni singola nota. L’ album contiene due canzoni sviluppate partendo da frammenti di Gershwin, portati a nuova vita: The Like in I Love You e Nothing But Love. Il pianista jazz Stefano Bollani registra Rhapsody in Blue e il Concerto in F diretto dal maestro Riccardo Chailly e accompagnato dalla prestigiosa Gewandhaus Orchestra di Lipsia. L'accoppiata apparentemente atipica risulta in realtà vincente: Bollani improvvisa e rinnova mentre Chailly lo tiene a freno. Persino la rigorosa orchestra tedesca si lancia nello swing. La rilettura proposta è perfetta per coloro che vogliono avvicinarsi per la prima volta a questo grande autore. Il disco prodotto da Decca ha ottenuto un successo straordinario, che lo ha portato nella top ten delle vendite in Italia e su Itunes. Spesso si cade nell'errore di credere che il compositore americano intendesse ingabbiare jazz rendendolo meno selvaggio e quindi più appetibile. In realtà, come più volte affermò lui stesso, nella sua musica intendeva descrivere i pensieri e le aspirazioni, essere specchio dei tempi e delle persone. Pochi musicisti oggi hanno l'ardire di intraprendere un progetto così ambizioso, ancora meno sono quelli in grado di portarlo a termine con successo. Non ci rimane che tenere le orecchie bene aperte nell'attesa di qualcuno che ci regali il suono della nostra epoca. - comyn

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VIAGGI EXTRASONORI

FACECOOL the social network

Tutto ha inizio nella stanza di uno studente di Harvard. E’ il febbraio 2004 e il diciannovenne Mark rientra in camera dopo essere stato lasciato dalla ragazza, sconfitto e solo come un cane. Mezzo ubriaco, in cerca di un’idea che gli “faccia dimenticare il bel viso della ex”, decide di indire un sondaggio per eleggere la ragazza più carina di Harvard. Le adesioni sono numerosissime, la rete di connessione va in tilt: è il primo passo verso Facebook. Ma questo non è un articolo sul social network più famoso (e chiacchierato, perdio) del mondo, fatevene una ragione. L’incipit era, piuttosto, un ripiego per catturare l’attenzione di voi fan della notifica, e solo un pretesto per introdurre qualcosa sul caso cinematografico dell’anno, un film (a sua volta) non sul fenomeno facebook, ma sul fenomeno che sta dietro a facebook. The Social Network è l’ottava fatica di David Fincher, l’Autore trait d’union tra nicchia e massa per eccellenza, l’Autore dell’ansia all’interno di una società che insegna l’egocentrismo, dello squilibrio claustrofobico di chi ha bisogno di comunicare e non ci riesce. Un autore che si conferma tale, mai stato così maturo, così consapevole della propria poetica, la cui personalità, ormai, non dipende più dal virtuosismo dietro la macchina da presa. Del manierismo dei primi tempi è rimasto veramente poco, anche nei metodi di regia. “David vuole girare le scene moltissime volte. La scena d’apertura del film, quella di Mark e Erica al bar, è stata girata 99 volte e questo mi ha permesso di capire sempre più profondamente il mio personaggio. David è l’unico regista che lavora in questo modo, anche se i tempi di lavorazione si allungano” ha dichiarato Jesse Eisenberg, l’alter ego cinematografico di Mark Zuckerberg, alla presentazione italiana del film. E’ un Fincher impegnato, stavolta, alla rappresentazione della scalata sociale e della rincorsa incontinente al successo, in una parabola sul neocapitalismo americano che, sotto sotto, getta uno sguardo impietoso ai sistemi che lo regolano. Eppure non si cade mai nel retorico. Non c’è posto per diretti attacchi moralistici, anzi, tutto rimane aperto al libero giudizio dello spettatore, spinto proprio da quello straniamento verghiano che permette all’autore di creare un senso di non condivisione, di prendere le distanze dai propri personaggi, pur adottando (tutti) i loro punti di vista. Ma il vero punto di forza è che il dramma riesce benissimo a improvvisarsi teen movie, affidando ai ritmi serrati dell’adolescenza una storia fatta esclusivamente di personaggi e situazioni. L’abilità più grande di Fincher è quindi quella di riuscire a rendere avvincente qualcosa che di base non lo è: il plot risulta appassionante pur non presentando impennate d’azione, non sbiadisce nel dipanarsi tra i vari processi da yuppie finanziario. Il merito va anche allo strabiliante lavoro di Aaron Sorkin sulla sceneggiatura. “Avevamo una sceneggiatura molto importante e completa scritta da Sorkin. In genere le sceneggiature sono di 110 pagine, mentre la sua, già alla prima stesura, era di 160. Dentro c’era tutto ciò che dovevamo fare e dire”, spiega Eisenberg. I dialoghi mantengono salda l’attenzione dello spettatore per l’intero film, le battute sono rapide, incessanti, taglienti, ma sempre imparziali: nemmeno lo script si preoccupa di emettere sentenze nette. Ciò che appare è solo estremamente “cool”, emotivamente coinvolgente, un po’ “come la moda”, un po’ come Facebook: “è veramente forte, apparte il fatto che è assolutamente una droga, io ci vado almeno cinque volte il giorno” si dice a metà film, o ancora: “non sappiamo ancora di cosa si tratta, non sappiamo ancora che cosa sia. Non sappiamo cosa può essere, non sappiamo cosa sarà. Sappiamo solo che è fico, e questo è un valore inestimabile a cui non rinunceremo”. In effetti ci vide bene Mark, a suo tempo, e Fincher, ora, sembra in possesso della stessa perfetta alchimia: tutto lavora proprio come il social network a banda blu, è qui che sta il miracolo. Ma non dimentichiamoci di nessuno: un discorso a parte se lo meritano anche le musiche, affidate all’ex Nine Inch Nails Trent Reznor in collaborazione, ancora una volta, con l’arrangiatore e co-produttore di Ghosts I-IV, Atticus Ross. Non alle prime armi con le OST (Reznor figurava come composer anche nello staff di Lost Highway, il capolavoro di David Lynch) il duo riesce a sfornare una colonna sonora che susciterebbe l’invidia del maestro Badalamenti. I temi messi in scena da Fincher sono sostenuti da un sottofondo tenebroso, che esalta i toni cupi dell’opera snodandosi tra le sonorità più disparate: si va dall’elettronica pura alla musica d’ambiente, passando per la techno, la drone music, la noise, l’industrial tipicamente NIN. Lo spettatore/ascoltatore si ritrova inchiodato alla seggiola, immerso in una morbosa claustrofobia psichica, in atmosfere cupe, ossessive: non si scappa, sembra suggerirci l’Autore. E se è vero che in The Social Network la musica si sposa alla perfezione con l’immagine (e con quello che le sta dietro), ascoltando la soundtrack ci si accorge che la musica da sola, pur essendo lontana dal concetto di canzone, non fa meno bella figura. Reznor e Ross non sono solo gli artefici di una delle colonne sonore più belle degli ultimi anni, ma anche di un disco da avere, ascoltare e riascoltare, magari anche senza aver visto il film (ma in tal caso fatelo al più presto). - visjo

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EDITORIALE

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VIAGGI EXTRASONORI

(continua dalla prima pagina)

I presupposti ci sarebbero anche, la sempre citata crisi che sta iniziando, dopo tanti annunci, con la sua falce a mietere vittime e questa controversa riforma, pur avendo scatenato l’ira di migliaia di studenti, non è stata minimamente rritoccata. Quindi qual è stato il lascito di ciò che è successo trenta, quaranta anni fa per noi giovani di oggi? Il ‘68 non è conosciuto, se non da una ristretta cerchia di ragazzi, che hanno una sensibilità politica e anche la storia ha sempre avuto uno sguardo controverso su quegli anni; citando Eugenio Scalfari “non c’è nessuno che disprezza il sessantotto, ma non c’è neanche nessuno che lo adora”. E forse è anche per questo che il suo lascito non è stato preponderante, perchè non è stato trasmesso con amore. E poi gli studenti di adesso hanno una situazione psicologica diametralmente opposta a quella di 40 anni fa, “I ragazzi di adesso dovrebbero fare 10000 sessantotto” ironizza Cacciari, ma ora lo studente non è più al centro dell’attenzione, sugli studenti ci si puo’ passare sopra senza troppi rimorsi; nel ‘68 gli studenti erano gli assoluti protagonisti, avevano il ruolo di protagonisti alla Scala di Milano, mentre oggi possiamo trovarci ad un caffè-letterario a recitare un’opera da quattro soldi davanti a trenta persone. Oggi ci avviciniamo pian piano all’autodistruzione della specie, il mondo è troppo piccolo per tutti, è un periodo molto ingrato per noi. Allora chissà, se ci fossimo stati noi 40 anni fa, forse, sarebbe stato tutto più semplice ed avremmo ottenuto ciò per cui lottavamo. Forse. - matmo

L’ULTIMO FILM DI MARIO

Il 29 Novembre 2010 è venuto a mancare Mario Monicelli, regista, sceneggiatore cinematografico e parte integrante della storia italiana, così anche la redazione di Feedback ha voluto rivolgere un saluto a colui che, per molti, è stato il maestro della commedia all’ italiana. Nei suoi 95 anni di vita Monicelli ha regalato alla storia del paese alcune pellicole talmente significative che non soltanto hanno cambiato e rinnovato il genere cinematografico, ma hanno contribuito a trasformare la società italiana in molti aspetti. É difficile per i giovani (tra i quali il sottoscritto) riuscire a capire a pieno le pellicole del regista viareggino e la novità che al tempo rappresentarono proprio perchè, non avendo vissuto quegli anni, è complicato rendersi conto delle situazioni narrate, dei personaggi e delle ambientazioni. Totò che nei panni di Dante Cruciani, vecchio ladro e delinquente controllato dalle autorità si guadagna da vivere istruendoi giovani fuorilegge, insegna ai quattro aspiranti rapinatori (sempre ne I Soliti Ignoti) ad aprire la cassaforte in una scena memorabile che segna il passaggio fra la nuova comicità e quella vecchia; la tragicità della guerra presa di tacco con situazioni tragicomiche che svariano da un estremo all’altro ne La Grande Guerra; la prima grande presa in giro delle forze dell’ordine in Totò e Carolina (censurato e tagliato fin dalla prima uscita); le scene di un singolare Medioevo tragicomico costellato dall’uso di un’inedita lingua maccheronica divenuta memorabile nel cinema italiano con L’Armata Brancaleone; le gag indimenticabili di Amici Miei attanagliate dalla tristezza, dal disincanto e dalla fine delle illusioni di benessere e le tensioni sociali che caratterizzano l’Italia negli anni settanta e che con il secondo capitolo sanciscono la fine della commedia all’italiana; e ancora la spocchia aristocratica del Marchese del Grillo che si fa beffa di tutto e tutti vivendo una vita libera ma mai fuori dai canoni della società. Una nuova comicità, che ereditando il testimone del neorealismo si apre alla quotidianità, alla realtà e innesta i personaggi su precisi riferimenti sociali, chiari al pubblico che li vive spesso in prima persona. Mario Monicelli era tutto questo e molto di più; uomo dichiaratamente di sinistra, non disdegnava parlare male del governo o della società ma non in termini passati come fanno molte persone anziane (“ai miei tempi...”), in termini attualissimi rivelando sempre, anche da vecchio, un’ acutezza mentale e di pensiero che supera di gran lunga quella di molti signori di mezza età che dovrebbero “rappresentare” il paese e i cittadini. Era esperto di rivoluzioni cinematografiche ma sognava prima di morire di riuscire a vederne una vera nelle piazze e nelle strade delle città con gente veramente incazzata che preferiva alla speranza dei padroni i fatti e ai cortei pacifici le uova in faccia ai politici. Amava il suo paese e soffriva a vederlo schiavo di tutti per questo desiderava la rivoluzione; per lui gli italiani erano stati schiavi per 300 anni e serviva una “bella botta”. Ha avuto il coraggio di scegliersi la morte buttandosi dal 5° piano dell’ospedale in cui era ricoverato per un male incurabile. Non è morto da stronzo. -w 11


feedback - DICEMBRE 2010

PAUL KLEE E PIERRE BOULEZ

la fertilità dell’artista

Cosa ci fa un compositore in compagnia di un pittore? Sono tutti e due artisti, o magari sono compagni di scuola, i loro genitori si sono sempre frequentati... No, a questo giro non è così. I due si trovano per costruire il loro paese fertile. Detta in questo modo potrebbe venir spontaneo credere che i due si mettano insieme a coltivare un orto smettendo di fare gli artisti. Ma non è questa l’idea. Diciamola in maniera più chiara ancora: rendere fertile il proprio terreno artistico. In che maniera avviene tutto ciò? Nel 1989 Pierre Boulez scrive un libro su Paul Klee o, più propriamente, sul rapporto di Klee tra musica e pittura. L’ammirazione che Boulez nutriva nei confronti di Klee fin dal 1947 è più che mai evidente. Si ricordi che nel primo decennio del Novecento Klee si immerge nella passione per la musica, per il violino, e specialmente si fa appassionare dai classici ( Bach, Mozart ), e non dai suoi contemporanei, come potrebbe sembrare ( Berg, Weber, Schoenberg, ecc. ). Ma perché sentire il bisogno di scrivere un libro su un pittore? Perché è anche autobiografico, è un’ esperienza personale che ha vissuto l’autore. Il rapporto tra partitura e dipinto, la composizione delle figure di Klee come nel quadro Case nel paesaggio: metodicamente scomponibili, ma sono in un insieme assolutamente indivisibile quando se ne apprezza la totalità. Il concetto che Boulez vuole sottolineare in Klee è l’ esperienza della totalità, il vedere l’unotutto sulla tela. La forma che diventa contenuto. Dice Boulez: - Si tratta di un’ interazione fra immaginazione e rigore, da cui risulterà un impulso colmo di forza verso la realtà di un’ opera. - Ma dove sta il dramma? Nell’impossibilità di arrivare alla realtà dell’opera. Klee sosteneva di non aver mai fatto un capolavoro, cioè, di non aver mai concluso un’ opera. Tutti lavori incompiuti. Klee ha abitato a metà strada tra il mondo delle idee e quello della rappresentazione. A mezza via tra i due scopi. Come poteva essere possibile l’esperienza della totalità se è impossibile salire interamente verso l’iperuranio? Lo totalità non verticale, ma orizzontale. Addio alla verticalità dello spazio delle partiture musicali, addio all’ascolto inevitabilmente parziale di una sinfonia, o di un quartetto. Addio all’incompletezza... O almeno, questo sarebbe stato ciò a cui Klee aspirava. I paragoni tra musica e pittura di Boulez non sono, comunque, del tutto sbagliati. Si ricorda un po’ un giovane Hegel: Klee ha dovuto usare la pittura per rendere completa la realtà, da cui si distaccava, per raffigurare la sua visione. L’ unico strumento per la rap-presentazione è la pittura. Klee non aveva scelta. Ma, del resto, non poteva nemmeno pensare che questo sogno si sarebbe avverato. Scopo di Klee,era quello di distruggere la mediazione tra visibile e invisibile, senza meccanismi di tipo dialettico, ma senza riuscirci. Scrive Massimo Donà: l’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile. Questo voglia essere Klee: la creazione come genesi sotto la superficie visibile dell’opera. Volta al passato la vedono tutti gli intellettuali, volta all’ avvenire soltanto chi sa creare. Per fare apparire l’Uno a dispetto dei molti, non poteva farlo che negando i molti. Il vedere la lontananza della terra dell’origine fertile, gli permette di essere produttivo nel proporre l’immagine. Lo sguardo, anche se troppo lontano, deve permettergli di essere artista. Artista che non disegna la linea, ma una linea imperfetta e abbellita; non il cerchio di Giotto, ma un cerchio ad una sola mano. Klee si oppone alla resa dell’idea perfetta poi ritratta. Klee, come ho già detto, non lo abita il mondo delle idee, ne è lontano. Si muove piuttosto nella Chora, nella regione dell’indistinto, nella regione della genesi ancor prima della creazione. Credo sia questo il senso della terra fertile dell’artista: non la ripetizione, o la genuina copia delle idee, anche se viste solo dal protagonista. Non più la visione e poi la propria raffigurazione. Bensì la c-reazione. La c-reazione come movimento di insubordinazione rispetto ai canoni, rispetto al dogma, rispetto alla divinità delle idee. Tutto questo si elimina e si dice: il divenire prevale sull’essere. La forme, come macerie, pronte per essere materia di astrazione. Il ritorno alla genesi: questo è il senso del paese fertile. Voler vedere, nell’avvenire, la nascita, la creazione che sta prima del differenziarsi nei molti. L’Uno e indistinto che si vede in lontananza e si cerca di ritrarlo “quasi possibilmente”. Klee, nel 1906, ha dichiarato nei suoi diari: Anche se venisse da me una delegazione e si inchinasse solennemente davanti all’artista grata per le sue opere, non mi meraviglierei davvero. Perché io sono stato là dove tutto ha inizio. Dalla mia adorata Signora delle origini, che è come dire essere fecondi. E Boulez, come ultima dichiarazione del suo libro, ricordando l’opera Monumento nel paese fertile, afferma: “Se non si è saputo evitare lo scoglio rappresentato dall’obbedienza a un desiderio di strutturazione priva di poetica, se la strutturazione prende il sopravvento e costringe la poetica alla inesistenza, ci si situa, sì, al limite del paese fertile, ma dal lato dell’infertilità. Se invece la struttura induce l’ immaginazione a entrare in una nuova poetica, ci troviamo allora nel paese fertile”. - gorot Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Andrea Lulli, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Giuseppe Carta, Alessia Mazzucato. Grafica, impaginazione e web a cura di Francesco Gori. Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel dicembre 2010. Per informazioni, critiche e consigli: info@feedbackmagazine.it 12


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