"Questo Amore di Tamburello"

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Federazione Italiana Palla Tamburello

CONCORSO LETTERARIO “QUESTO AMORE DI TAMBURELLO”

Raccolta delle opere partecipanti al Concorso indetto dalla Federazione Italiana Palla Tamburello



FIPT - Concorso Letterario “Questo Amore di Tamburello”

Tutti noi abbiamo un ... Amore ... per questo Sport che nasce da una storia personale, per bella o triste che sia, ci caratterizza e spiega la nostra vicinanza al Tamburello. Perché non raccontarla? La Federazione Italiana Palla Tamburello ha bandito un concorso letterario dal titolo “Questo Amore di Tamburello” per ragazzi ed adulti, per tutti coloro che abbiano voluto raccontare la loro personale storia che li lega a questo Sport, da secoli praticato nelle vie, nelle piazze e sui campi da gioco. Questa la raccolta delle opere che hanno partecipato al Concorso, nato dall’immagine del giocatore che si appresta a disputare una partita ...ma chissà come ci è arrivato su quel campo!? ... chissà come si è innamorato di questo Sport?! E poi, non solo giocatori. Lo Sport del Tamburello vive grazie a persone di buona volontà che prestano il loro tempo non solo al gioco ma lo vivono dal “dietro le quinte” di una panchina o da bordo campo, prendendo attivamente parte all’organizzazione attraverso le società, gli sponsor oppure come semplici spettatori... e questi che non sono giocatori, che motivazioni hanno!? ...qual è la loro storia!? ... perché, pur non giocando, si dedicano al Tamburello?! Un concorso aperto a tutti coloro che hanno voluto condividere la loro personale “storia d’amore” per questo Sport, tra i più antichi praticati dall’uomo. Buona lettura!


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ANDREA BELTRAMI “IL MIO AVEVA LE CORDE”


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Il mio tamburello aveva le corde, era fatto con corde di pelle d’asino. Quanta invidia mi facevano i pochi tamburelli di pelle usati dai giocatori veri – o presunti – che occupavano la piazza del paese le sere, dopo il rientro dalla campagna. Solo il pensiero di poterli toccare o vedere mi dava un senso di gioia: tutto quello che avrei potuto desiderare era di averne uno mio. Finalmente in paese si ha il desiderio di poter iscrivere una squadra al campionato Provinciale e, fatta colletta, i vari giocatori decisero di acquistare qualche tamburello nuovo. La ditta che li costruiva era in provincia di Verona: la ditta Giacopuzzi Tamburelli. Ne vengono comperati sei, nuovi fiammanti, con il cerchio in legno e fatti di pelle d’asino sopra. Ma più di tutto il nastro colorato che fa da chiusura sopra i chiodi piantati per tenere la pelle . Il mio preferito era quello azzurro con degli adesivi ovali color giallo e la firma del fabbricatore impressa. Quanto l'ho sognato, desiderato! Per fortuna era finito nelle mani di mio fratello più vecchio; appena lui usciva di casa correvo a guardarlo, toccarlo, mettevo la mano nell’impugnatura. Allora mi sentivo già giocatore e fantasticavo i colpi più belli e precisi, di quelli che nessuno sapeva fare. Le estati degli anni 70’ sono belle e calde, la piazza invita a giocare con la pallina da tennis, ma ahimè, solo quando i giocatori veri decidono di smettere, per me e il mio fratello gemello non c’è posto: siamo troppo piccoli ! E poi il mio tamburello con le corde non è gradito: non fa rumore, non ha colore. Credo che, sia tra i miei fratelli, sia tra i giocatori del paese viene percepito il nostro disagio e finalmente un vecchio tamburello marca Campedelli mi viene prestato per provare. Che sensazione! Tutto prende colore, sento il colpo, ha il nastro a strisce colorate sul fianco; non è azzurro come lo vorrei, ma poco male, è un tamburello vero e posso usarlo appena mi viene prestato. In poco tempo non conta più la nostra età: sia io che mio fratello seppur piccoli entriamo in piazza assieme ai giocatori che già compongono la squadra del paese e iniziamo a colpire anche con la pallina “federale” come la chiamiamo noi. Inutile dire che per entrare in campo esiste un pegno, ovvero andare a prendere la pallina ogni volta che finisce in qualche orto o su qualche tetto. Nemmeno una pallina presa in piena faccia non mi fa desistere: piango, vengo consolato da mio papà che ci sta guardando e riprendo subito il mio posto lì davanti. Giusto descrivere anche com'era la nostra meravigliosa piazza nel centro del paese; non certo un campo regolamentare, anzi. Era lunga circa 50 metri e larga 20, però tutta asfaltata e regolare come geometria. Chi stava davanti era a non più di 10 metri dal suo avversario e la pallina, velocissima, o la prendevi o eri bravo a scansarti. Con noi iniziano tutti i ragazzi del paese e ben presto si fanno le sfide tra di noi. Ogni mattina ci si alza con il pensiero di poterci trovare in piazza per giocare. Finita l’estate si torna sui banchi di scuola e la sofferenza del banco è appagata solo quando si


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torna a casa. Prima di sedermi a tavola un tocco al mio tamburello, divenuto nel frattempo azzurro, per il regalo di un elettricista che mi aveva dato un rotolino adesivo. La mia impugnatura l'avevo personalizzata, con bende rubate alla mamma dal cesto dei pochi medicinali. Quante prove a vuoto in quell’impugnatura! Le maniglie sono tutte enormi e la mia mano è piccolina, unico sistema le bende, ben tirate e fermate a dovere. Nel frattempo, la prima squadra, fatta di soli giocatori del paese, inizia a farsi valere sui vari campi provinciali. La domenica si fa di tutto per andare a guardarli, ma quando toccherà a me? Arriva anche il mio momento! Tutto diverso da come lo avevo immaginato. Senza tanta convinzione, il primo dirigente del paese iscrive una squadra di juniores al campionato. Figurarsi! La fascia d'età arriva fino ai diciotto anni e noi ne abbiamo appena undici e messi tutti assieme arriviamo a malapena a cinque giocatori. Anche un grave lutto ci segna: proprio il presidente della appena nata società muore in modo improvviso. Lo sconforto è grande per tutti e sembra che quello che è appena nato stia già per finire. Un sabato mattina di aprile siamo in piazza a giocare, arriva uno dei giocatori più anziani e ci dice: oggi pomeriggio dovreste andare a giocare la prima partita del vostro campionato juniores,

ma nessuno ha né il tempo né le macchine per portarvi. Come si può reagire a questa cosa se non defilarsi da tutti, per non essere preso in giro, e ritirarmi su un solaio in mezzo al fieno a piangere. Tutto potevo immaginare, ma non di certo una cosa del genere. In più se non ci si presentava era prevista una multa. Non avevamo una divisa, non avevamo un campo, non avevamo niente di niente, solo sconforto. Tutti i miei sogni si erano frantumati in un attimo. Credo che pure gli altri erano rimasti schioccati da tale notizia. Possibile che nessuno si prendesse cura di noi? Credo che le preghiere di un bambino hanno un valore diverso, credo che le cose devono accadere al momento giusto per dare più valore a quanto si desidera. Mia madre si accorge di quanto sta succedendo, lo capisce e mi rincuora da mamma, così almeno smetto di piangere. Prima di pranzo sento salire qualcuno dalle scale in legno di casa, si affaccia sulla porta un uomo del paese che, appassionato di sport so possa essere, ma anche marito di famiglia e quindi non capisco cosa voglia dirci. La prima parola che gli esce è: oggi dovete andare a giocare vero?

Sì! – dico io – ma nessuno ci porta! Mi era uscita questa frase pensando a quanto lo desideravo, ma allo stesso tempo, devo pure chiedermi, cosa ne può interessare a lui? Se volete vi porto io a giocare – rispose! Ecco il vero miracolo! Improvvisamente quest’uomo mi sembrava quanto di meglio ci fosse sulla terra! Noi a giocare su un campo vero? Ecco subito i primi dubbi: e la divisa? Non abbiamo niente. E le palline chi le


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porta? E come facciamo se siamo in 5 e abbiamo una sola macchina? Gilio, così si chiamava, mi disse: con me viene Ernesto, lui ha la macchina e quindi possiamo starci tutti. avvisa i tuoi

compagni che alle due partiamo. Il pranzo lo sorvolo, non posso pensare al mangiare, devo avvisare tutti, devo chiedere una maglia ai giocatori che erano iscritti al campionato: loro la maglia l’avevano. Era rossa con una striscia trasversale gialla, girava in paese da anni, ancora da una vecchia squadra di calcio che si era cimentata nelle sfide paesane. Ci viene prestata con l’obbligo di riportarla ancora la sera stessa, perché il giorno successivo serviva a loro. I giocatori erano distinti per il numero sui pantaloncini. La maglia ci può stare, anche se di quattro taglie più grande, ma i pantaloni nemmeno pensare di usarli. E allora proprio per non essere da meno, ricordo di aver ritagliato su un pezzo di carta il numero sei e di averlo incollato alla ben e meglio su di un paio di vecchi pantaloncini che usavo in piazza. Ora ero un vero giocatore ! Poter salire su quella vecchia 850 bianca non ha prezzo, non si può descrivere: le lacrime di prima avevano un senso. L’umore dei miei compagni è a mille, pur dovendo andare molto vicino a giocare quel viaggio non uscirà mai più dalla mia mente. Quante sensazioni, quanti commenti alle nostre divise, quante parole di euforia, tutto troppo bello! Arrivati a bordo campo, però, tutto cambia: spariscono i sorrisi, sparisce la nostra spavalderia; subentra, invece, la paura di cosa ci può succedere, di come andrà la partita, di cosa riusciremo a combinare. Da ricordare che il primo inizio è quanto di peggio ci possa capitare. Perdiamo sedici a zero! I nostri avversari ci sovrastano in tutto, nella forza, nella statura, nel modo di giocare. La prima parola di conforto ci viene proprio da Gilio: siete stati bravi! – disse: affrontare

avversari così grandi e capaci non è facile, alla prossima vedrete che andrà meglio! Ci volevano proprio queste parole di conforto, perché da quando eravamo scesi dalla macchina, nessuno aveva più fiatato e solo sedere sui sedili rossi della mitica 850 ci diede ancora un filo di voce per il ritorno a casa. I sabati successivi sono memorabili, zero vittorie, ma tanta passione e divertimento e qualcosa iniziamo ad imparare. Prima cosa il rispetto per i nostri compagni: nessuno di noi è più bravo di un altro, il rispetto per gli avversari, tutti ci sembrano troppo forti. Però non perdiamo più a zero, qualche gioco sudato lo portiamo a casa. L’anno successivo le cose cambiano: i giochi si fanno sempre di più e arrivano i primi punti. Tutto ha una logica: se non ci fossero state quelle sconfitte così pesanti, non ci saremmo impegnati così tanto per migliorarci e a fare allenamento in continuazione. A farne le spese è più che altro il portafoglio di mamma che di nascosto ci dà qualche soldino per comperarci le scarpe da ginnastica. L’asfalto è maledetto e le suole durano pochissimo. Guai dire a papà che ogni mese usciamo con il dito dalla suola e guai dire alla mamma che in tal caso si usano le scarpe che servono per andare a scuola! Ormai la gente del paese non passa più dalla piazza se non obbligata: troppo pericoloso, si rischia di prendere qualche pallina addosso. Ma non si


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lamentano, anzi! Le ore di gioco partono dal primo pomeriggio e finiscono la notte. Ogni giorno è così, estate e inverno; solo la neve ci ferma. I giocatori che compongono la squadra maggiore sono diventati veramente bravi, passano di categoria e iniziano ad uscire dal Trentino. Ogni domenica inizia un esodo verso i vari campi e il paese si svuota: il tamburello ha contagiato tutti, dai novantenni a noi, poco più che dodicenni. Qui si ha una vera trasformazione, ormai il paese è sulla bocca di tutti, così piccolo, così straordinario! La culla migliore, che un aspirante giocatore, come me, potesse avere! Giusto dare il merito a chi ci aveva preceduto, a chi si era preso cura di noi, a chi ci stava insegnando come e cosa fare in campo, ma credo che un giusto riconoscimento, di tutta questa straordinaria vicenda, vada agli abitanti del paese. Il tam tam del tamburello era incessante, gli specchietti delle macchine si rompevano, le finestre andavano in frantumi, ma nessuno osava dire la parola: basta! Ecco cosa era riuscito a fare questo sport in un piccolo paese. Anche papà e mamma ormai erano coinvolti in questa ascesa continua e i numerosi fratelli la impreziosivano con le loro giocate, discussioni e pronostici vari. Arrivano le prime vittorie, cosa non da poco conto, perché gli avversari che ci battevano regolarmente a zero iniziano a capire che le cose erano cambiate. La nostra piazza era diventata una palestra che nessuno poteva avere, ci insegnava che negli scambi corti o nel colpire la pallina di rimbalzo eravamo molto più preparati dei i nostri avversari. Dopo un paio di anni siamo sui campi italiani in categorie che nemmeno potevamo sognare. I tamburelli ora sono più di uno nelle borse, la plastica ha preso il sopravvento sui tamburelli in pelle. Ora sono colorati, il cerchio colorato, la tela con impresse varie marche o tipi di tamburello. Tuttavia l’esordio in serie B non si può dimenticare! Ormai eravamo un squadra a tutti gli effetti e qualche sponsor iniziava a farsi sentire. Il vedermi alle due del pomeriggio nello spogliatoio, alla prima partita di campionato contro una formazione veronese, tutti vestiti con tuta rossa e bianca, nuova fiammante, marcata e soprattutto con il nome del nostro paese ben impresso, mi dava una sensazione che non ha paragone. Mi sentivo arrivato, mi sentivo imbattibile. Niente di più sbagliato! Altra lezione! Quando pensavo di essere arrivato, era il momento di dover ripartire di nuovo da zero. Gli avversari veronesi ci sovrastano, anzi, mi sovrastano! La spavalderia si trasforma in paura, non riesco nemmeno nei colpi più elementari. Avevo a bordo campo i miei amici, i miei genitori, gli occhi di qualche ragazzina che pensavi di aver conquistato solo perché eri lì. Niente di tutto questo! Ogni cosa va ponderata, non bastano i pensieri, ci vogliono i fatti. I miei sedici anni sono bellissimi, ma mancano dell’esperienza necessaria per affrontare questo tipo di avversari. Per fortuna i compagni mi capiscono. Per fortuna il pubblico mi capisce e per fortuna i miei genitori mi capiscono. Pensavo di aver terribilmente deluso tutto e tutti e invece trovo solo


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parole di incoraggiamento. Iniziano i dubbi: perché ho giocato così male? Pensando e ripensando capisco il mio errore, ho immaginato gloria e vittorie, ho curato tutto l’aspetto esteriore, preparato i tamburelli, usato un po’ di civetteria nel vestirmi, in poche parole ho pavoneggiato per la mia posizione, ma non ho fatto la prima cosa che serviva: allenarmi duramente! Ecco la medicina giusta: niente viene per niente. Il pianto nel fienile ogni tanto mi tornava in mente e quando le cose non andavano per il meglio lui mi ricordava che dopo il buio tornava sempre la luce. E infatti gli anni seguenti si rivelano veramente densi di soddisfazione, conosco tutti i campi in giro per l’Italia, su uno di essi addirittura conosco quella che poi diventerà mia moglie. Quanto mi ha dato quel tamburello a corde incolore, quanto mi ha dato quel pianto sul fieno, quanto mi ha dato il tamburello azzurro! Non è corretto – credo – scrivere i nomi delle persone, del paese. Questa è una storia reale che qualsiasi bambino può e deve poter vivere. Il mio tamburello azzurro non passerà mai di moda e non scomparirà mai dai miei pensieri. Gilio ed Ernesto sì, quelli li devo segnalare perché sono stati la mia luce quando serviva!

Andrea Beltrami


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ANGELO BELTRAMI


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Tutto avrei pensato ma non che si trattasse di amore quando , più di 30 anni fa , all' età di circa 10 anni , mi sono avvicinato alla pratica di questa affascinante disciplina sportiva, la palla tamburello. Direi invece , che proprio “amore” è la parola giusta per definire la mia vicinanza e permanenza nel mondo di questo magnifico sport per tutti questi anni. Solo questo mi ha fatto perseverare nel praticare la pallatamburello nonostante le numerose tentazioni e difficoltà che mi hanno fatto pensare più volte di smettere e di fare altro. Nonostante io abitassi a Rovereto, cittadina in provincia di Trento, e tutti i miei compagni di scuola giocassero a calcio nella squadra dell' oratorio vicino a casa io iniziai la pratica del tamburello da ragazzino in un paesino della valle di Gresta , a Nomesino, durante le estati che trascorrevo nella casa di montagna dei miei genitori, paese di origine di mio padre ( .. e del padre di Manuel Beltrami che tutti conosciamo e ammiriamo per le sue imprese ….). All' inizio era un passatempo per noi bambini, in quanto era l' unico sport che si praticava nella piazza del paese, allora non c' era nemmeno il campo, ma mi piaceva talmente tanto che iniziai a giocare nella locale squadra dei pulcini fin dal 1981 e poi tutte le categorie giovanili, tralasciando il calcio della città e altri sport sicuramente più comodi da praticare per me. Finita l' attività giovanile, qualche dissapore con la società però mi allontanò dal tamburello dai 19 ai 21 anni e mi misi a fare atletica , lancio del giavellotto, approfittando della velocità di braccio che mi aveva dato il tamburello, cambiando completamente mondo sportivo e amicizie. Ma l' amore per il tamburello mi ha giocato un brutto scherzo. Nonostante mi fossi ripromesso di non mettere più piede su un campo , due persone che non smetterò mai di ringraziare, Mario Bridi e Giuliano Caliari, allora dirigenti dell' U.S.MARCO, società di tamburello vicino a casa mia, mi convinsero a ritornare a giocare ricominciando da zero, quella decisione condizionò tutta la mia vita sportiva. Da li la voglia di rivincita per dimostrare che anch' io potevo dire qualcosa in questo sport, campionati su campionati e la lenta ascesa nelle varie categorie .. C .. B .. fino ad arrivare alla “ambita” serie A. E da lì ci sono in mezzo 20 anni tra A e B con altalenanti soddisfazioni e delusioni sportive, ma sempre inserite in una sana competizione sia sportiva che di vita. Ho giocate in varie società sia trentine, che venete che lombarde, delle quali , per ognuna conservo un bellissimo ricordo sia dei dirigenti che dei giocatori. Sportivamente, in tutti questi anni non ho vinto niente di importante a parte due titoli italiani di serie B , qualche promozione in serie A ma, aihmé, anche qualche retrocessione dalla serie A.


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Ma la vittoria più importante sono state le tante persone conosciute in questo mondo, le amicizie, i compagni di squadra, gli allenatori, i dirigenti, i tifosi, tutte persone che mi hanno aiutato a crescere sia come sportivo che come uomo. Mi sono sempre considerato un buon giocatore di serie B prestato per qualche anno alla serie A , categoria nella quale ho sempre dovuto dare il meglio di me stesso per cercare di non sfigurare troppo nei confronti dei miei più quotati avversari. Tutt' oggi all' età di 44 anni e qualche acciacco fisico dovuto a tutti questi anni di attività, percorro centinaia di chilometri in macchina sia per gli allenamenti che per le partite e devo dire che nonostante qualche volta la voglia non sia più quella di una volta … mi spaventa l' idea di dover smettere di giocare e di dovermi staccare da questa parte di mondo ancora molto genuino, per me pieno di ricordi indimenticabili. Spero sia più in la possibile... La cosa più importante che il tamburello mi ha insegnato , comunque , è la consapevolezza che nello sport come nella vita, nulla si ottiene per caso e senza sacrifici ….. Viva il tamburello !!!!! Angelo Beltrami


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MATTEO BRESCIANI


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“Ti potrebbe piacere?” Furono queste le parole rivolte a mio fratello, l'inverno di qualche anno fa, facendogli vedere un volantino trovato in modo del tutto casuale, con cui partì tutta la sua avventura agonistica e anche la mia passione per questo sport. Lui, come sempre, non mi rispose subito. Attesi, allora, qualche giorno e gli rifeci la fatidica domanda: quale fu la sua risposta? “Portami che vorrei provare se mi piace.” Il giorno dopo lo portai al campo dove si doveva svolgere l'allenamento. Mi misi, quindi, in un angolo, dove mio fratello non mi potesse vedere, per cercare di capire le sue reazioni: sembrava proprio gli piacesse!!! Continuò, infatti, a presentarsi per ogni allenamento, e io a portarcelo; iniziarono anche le prime partecipazioni alle partite, tanto che ora l'impegno “tamburello” è settimanalmente presente sulla sua agenda. Forse, anzi ne sono praticamente certo, che le grandi passioni, proprio come questa, nascono un po' per caso, senza volerlo. Matteo Bresciani


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ALESSANDRA BRUNETTO TAM-AFFAIRE


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-Professoressa, gentilmente potrebbe andare più lentamente?- chiede il mio compagno di università Marco. Postazione in prima fila, super concentrato a ogni lezione, quaderni su quaderni di appunti, espressione convinta e autorevole di chi ne sa, fonte inesauribile di novità su testi di studio, modalità d’esame e professori, nonché ripetente. Terza volta che prova questo esame… quando l’apparenza inganna, si dice! Va detto però che questo topo di biblioteca della Val di Ledro, seppur strampalato è una persona squisita, disponibile e simpatica. Io sono nella mia solita terza fila dell’aula. Posto strategico per vederci bene e stare attenti e ideale pure per fare qualche chiacchierata con Federica e Martina. Oggi l’attenzione è minore seppur a tali esercitazioni io mi sforzi al massimo per stare concentrata. Dal giorno dell’iscrizione all’Università di Trento - Facoltà di Economia, questo esame è la mia preoccupazione maggiore. Colpa di un biennio poco produttivo alle superiori dove le basi si sono costruite su di una palude e quindi sono poco solide e resistenti. È proprio vero, con il senno di poi, che gli insegnanti severi e capaci sono sempre i migliori per la propria formazione didattica e pure morale. Oggi mi sto tormentando su questo e sottobanco ne sto parlando con Federica. Lei ha fatto il liceo scientifico e la matematica le è sempre piaciuta quindi non teme particolarmente questo esame; ha timore piuttosto per quello di ragioneria perché non digerisce la partita doppia. Un concetto allo stesso tempo semplice e complesso, chiaro e fosco. A ognuno il suo insomma. Ad economia regna la necessità di essere elastici. Dallo statistica al diritto del lavoro, dalla contabilità alla storia economica ce n’è per tutti i gusti. Il gusto della matematica a me non piace molto anche se ha un invitante retrogusto di sfida e competizione con me stessa. Il chiacchiericcio deve essere divenuto insistente perché l’insegnante si volta indignata: -Lì in terza fila avete finito di disturbare?- chiede e ovviamente le nostre teste immediatamente si prostrano sul quaderno di appunti. La lezione procede per altri venti minuti e poi viene fatta la consueta pausa di cinque minuti. C’è chi esce, chi chiacchiera con i vicini, chi controlla il cellulare e chi sfinito posa il capo sul banco. Martina, Federica ed io riprendiamo a chiacchierare e il nostro discorso si sposta sul fine settimana. È appena martedì ma pensare al weekend dà sempre una nota di allegria all’inizio della settimana.


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Alla conversazione si associa anche Marco che lascia la prima fila e nel discorso coinvolge pure Luca e Guido. Il primo sarà addetto alla griglia nella festa di paese, Luca sarà ad arrampicare con la compagnia di amici e Guido avrà un allenamento in palestra in preparazione all’imminente avvio della stagione di tamburello che avrà luogo tra un paio di settimane. -Scusa, che cos’è il tamburello?- interrompo subito Guido. Devo avere un’espressione piuttosto bizzarra visto che mi guarda sorridendo. -E’ uno sport!- risponde. -Si è uno sport parecchio praticato qui in Trentino- aggiunge Martina che è di Aldeno. -Non preoccuparti. Non sei la sola.- mi rincuora lui in qualche modo. -Tamburello? Si neanche io l’ho mai sentito in quel di Vicenza- si affretta ad aggiungere Federica. -Si, si lo posso immaginare. In Veneto è diffuso soprattutto nel veronese e nel trevigiano. A Vicenza e a Rovigo è semmai praticato nelle scuole.- frena lui. -No, non l’ho mai visto neanche a scuola!- lo apostrofa subito Federica. -Beh allora appena inizia la stagione potete venire a vedere una mia partita! Vi aspetto!-Affare fatto!- rispondono in coro Martina, Federica e Marco. -E tu Livia, sarai dei nostri?- mi chiede infine Guido ma non ho il tempo di rispondere perché l’insegnate richiama all’ordine la classe e ci troviamo di nuovo tutti schierati e rivolti verso la lavagna. La lezione procede ritmata dagli esercizi e al termine delle due ore è il momento di andare a casa. Io sono di corsa perché devo andare in piscina e quindi volo via dall’aula con un veloce saluto. Mi fermo un attimo solo per dire a Guido che ci sarò pure io e nel viso gli vedo uno strano bagliore. Non mi interrogo più di tanto sulla cosa visto che lui è sempre gentile con me e con tutti e volo in piscina pronta per la mia ora di completo relax e chiacchiere con la mia amica Maria. Oltre a condividere lo stesso appartamento Maria ed io siamo accomunate dalla passione per il nuoto. Ella, che è una mia amica d’infanzia e come me si trova a Trento per studiare, si associa molto volentieri per fare un po’ di sana attività fisica, per fare due chiacchiere e soprattutto per lo SpritzHour che seguirà. Ormai siamo iniziate a questo “rituale” da vari mesi. Un modo per stare assieme, parlare e conoscere altri giovani. La cosa che mi piace di più è la sensazione di stare in famiglia. Essendo piuttosto lontana da casa, godere di questi momenti di ritrovo regala l’idea di


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stare in una seconda famiglia. Maria ed io siamo in attesa dell’arrivo di Federica e Martina che non tardano di molto e così assieme andiamo a mangiare un pizza come era da programma. Lì a sorpresa troviamo Guido con una ragazza. -Altro che bagliore negli occhi!- dico ad alta voce. -Che hai detto Livia?- mi chiedono Maria e Federica. -No niente, straparlavo tra me e me!- rispondo io dissimulando. Guido ci vede e ci saluta apertamente e fatalità vuole che ci venga apparecchiato a fianco al suo tavolo. Guido presenta la ragazza come una sua amica e noi presentiamo Maria. Chiacchieriamo per qualche minuto del più e del meno e poi al loro tavolo arriva la pizza così ci congediamo per lasciarli cenare. Devo dire che ogni tanto mi trovo a guardare di sottecchi lui e pure la ragazza. I momenti in cui mi volto trovo sempre lo sguardo di Guido puntato su di me e la cosa mi inquieta piacevolmente. La ragazza pare non accorgersi e costantemente gli rivolge degli sguardi adoranti. Sento che parlano di un’organizzazione che nella loro valle organizza attività per giovani e tra tali attività pure dei viaggi. Noi ragazze stiamo parlando del film che abbiamo in programma di andare a vedere il mercoledì. È un film che proietteranno in un’aula della facoltà di Sociologia ed è rivolta a tutti gli studenti con un minimo contributo per parteciparvi: una bella iniziativa. Varie sono le attività di questo tipo utili per creare momenti di aggregazione e condivisione. I ragazzi, conclusa la cena, si alzano e Guido ci saluta cordialmente. A nostra volta salutiamo e fermiamo la cameriera che è venuta a sparecchiare il loro tavolo per ordinare un dolcetto da dividere tra noi. -Ma poteva uscire a cena con te Livia?! Non con quella. Continuava a fissarti!- prorompe Federica non appena la cameriera se ne è andata. -Non so che intendi dire…- ribatto subito. -Si Livia, ho visto chiaramente anche io che quel Guido ti ha guardato ripetutamente.- si affrettano a precisare Maria e Martina. -Vi state sbagliando!- dico in tono imperativo. -Io glielo dico sempre che secondo me quel ragazzo ha un debole per lei ma Livia pare far orecchie


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da mercante.- continua Federica. -Io ripeto che state travisando e che è meglio se la piantate!- rispondo bruscamente. -Ehi Livia, ma allora anche tu non sei indifferente sennò non replicheresti in modo così aspro.affermano tutte in tono beffardo. Provvidenzialmente arriva la fetta di strudel che stronca sul nascere ulteriori commenti. Rientrando a casa mi ritrovo a pensare alla serata e a Guido e devo ammettere che l’idea di rivederlo tra due giorni un po’ mi rattrista. Vederlo domani sarebbe stato meglio ma il tempo scorre in fretta e la lezione che avremo in comune il giovedì arriverà presto. Il giovedì, in serata, al termine delle lezioni comuni quando tutti se ne sono andati vedo che Guido mi aspetta sull’uscio dell’aula. Onestamente mi chiedo che cosa voglia. -Sei libera una mezz’oretta che ti offro un caffè?- mi chiede. -Mmm… certo!- rispondo dopo un breve tentennamento. -Ok allora andiamo! Individua tu il locale.- ribatte allegramente. -Va bene, seguimi!- dico. Ci avviamo verso il centro e ci fermiamo per una cioccolata in un bar poco distante dalla facoltà. Parliamo un po’ del più e del meno, degli studi, degli esami e degli amici. Lui mi racconta dei numerosi amici e conoscenti incontrati grazie allo sport. Il discorso quindi si indirizza verso il suo sport ed è indubbia la mia curiosità al riguardo. Lo sguardo si illumina e un guizzo di vivacità si propaga sul suo viso quando inizia a raccontarmi di tale attività sportiva. Mi parla anzitutto delle due principali distinzioni: il tamburello indoor e outdoor e di dove essi siano diffusi. Il primo si gioca in palestra e questo aspetto ne ha agevolato la diffusione. Ci sono delle distinzioni con il tamburello all’aperto anzitutto circa le dimensioni del campo, il numero dei giocatori e l’uso di una palla più morbida. Guido si sofferma soprattutto sulla significativa estensione di tale attività nel centro e sud Italia e anche oltre confine. Ciò crea un rete di amicizie e conoscenza importanti e rilevanti per la crescita del movimento. Il secondo, la sua passione, è diffuso principalmente nel nord Italia. Sono delle associazioni sportive a curarne il vivaio giovanile ed assicurarne la prosecuzione dell’attività agendo di concerto con la Federazione italiana. La cosa che mi colpisce in questa descrizione è che questa disciplina si pratica in zone periferiche, alcune volte anche isolate dove il numero di abitanti è spesso risicato e tale sport permette di agire da collante per la comunità. Mi cita alcuni esempi del Trentino, Veneto, Piemonte e Lombardia e rispettivamente: Noarna, Mazzurega, Viarigi e


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Castellaro. Realtà simili sono presenti anche altrove e sono contesti apparentemente marginali ma che si dimostrano vitali ed energici. Esprimo le mie perplessità nel senso che non è un’attività sportiva che è pubblicizzata. Guido mi spiega che purtroppo è vero. Il tamburello pur essendo uno sport dell’era contemporanea nato, così come lo conosciamo oggi, nella seconda metà dell’Ottocento, ha purtroppo scontato la mancata affermazione alle olimpiadi nel primo novecento. Tale obiettivo naufragato, unito nel tempo alla perdita di consistenza come sport agonistico ha fatto calare un po’ l’interesse per questa disciplina. Un periodo florido si è avuto dopo la seconda guerra mondiale quando, per molte realtà del Nord Italia, questo sport ha rappresentato un momento di condivisione, aggregazione, gioia e spensieratezza dopo le molte privazioni della guerra. Il tamburello si giocava in piazza con una cornice di pubblico vivace, di nuovo vitale e partecipe. -Davvero si giocava nelle piazze?- chiedo sorpresa a Guido. -Ora gli sport sono praticati solo in strutture specifiche, attrezzate e ben equipaggiate; strano è immaginare lo svolgersi di un’attività sportiva di gruppo in zone di passaggio e di uso quotidiano.- rifletto ad alta voce. -Hai ragione Livia, oggi è quasi inconcepibile tutto ciò causa del traffico, della fretta che attanaglia grandi e piccoli, dei pericoli che scorgiamo in ogni dove ascoltano i TG e via dicendo. Pare davvero impossibile ed è un peccato! - conclude Guido. Si, lo è davvero ragiono tra me e me. Si è persa la spensieratezza, la spontaneità e anche un po’ di leggerezza che forse era una cosa buona e giusta. -Ad ogni modo c’è ancora il tamburello a muro che resiste come sport di piazza ma di questo ti parlerò in futuro. Allora tra alcune settimane verrai a vedere una partita? Informerò anche gli altri ragazzi e valuteremo tutti assieme il da farsi.- dice Guido distogliendomi dalle mie riflessioni. -Ehm… si certo, okay! Ora però devo proprio andare! Caspita sono già le 20.30!- osservo guardando accigliata l’orologio. Il tempo è volato. -Oh certo, va bene. Ti accompagno!- propone Guido. Io acconsento e il rientro a casa è un poco imbarazzante. Come da film romantico che si rispetti sulla porta di casa, prima del saluto, ci dovrebbe essere il bacio… e c’è davvero! Sulla guancia però. Ugualmente molto elettrizzante anche perché passa qualche secondo prima che Guido si ritragga


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e la sua vicinanza mi inebria e confonde. Sono oltremodo irrigidita ma dentro è tutto molle e fluttuante. -Scusate… permesso!- dice qualcuno alle nostre spalle. -O scusi. Prego, passi pure!- farfuglio al condomino che sta uscendo dal portoncino d’ingresso con in mano un sacchetto di spazzatura. L’uscita del vicino stempera un po’ l’imbarazzo e successivamente mi congedo da Guido salutandolo e ringraziandolo per la piacevole chiacchierata. Nei giorni successivi ci ritroviamo spesso in aula e conversiamo amabilmente. Con Federica per il momento non faccio parola dell’accaduto per non rendere il tutto “infernale”. È davvero una fantastica ragazza e piena di vita ma è pure una peste con quelle sue domandine pungenti! Per ora intendo rivivere e metabolizzare tra me e me il bel pomeriggio trascorso con Guido. Arriva il giorno della consacrazione al tamburello. Assieme agli altri ragazzi, infatti, ci siamo accordati per assistere al match di Guido la domenica a venire. Federica ed io siamo rimaste a Trento nel fine settimana per poter seguire la partita. Marco ci raggiunge in piazzale San Severino all’ora concordata e poco dopo arriva Guido. Saliamo tutti a bordo dell’auto di quest’ultimo e ci dirigiamo verso lo sferisterio di Faedo. -Hai visto che grazie al mio intervento ti ho portato Livia?- lo punzecchia subito Federica. -Certo, grazie! Sono molto contento che ci siate anche tu e Marco.- risponde lui con diplomazia. Il paese cui siamo diretti, Faedo, dista circa venti chilometri da Trento e durante il viaggio incessanti sono le nostre domande a Guido. Siamo parecchio incuriositi da questa giornata imperniata su tale attività sportiva! Lui risponde con piacere e senza problemi. Una volta arrivati al paese iniziamo a salire per la montagna. Il campo si trova in una radura e tutt’attorno c’è una folta vegetazione. -Ma la squadra avversaria è composta di folletti?- chiede in modo ironico Federica. -Ahahah… forse!- risponde stando al gioco. -C’è anche un buon profumino...- interviene Marco. -Già! Porchetta, lombatina, pasta di maiale, patatine e numerose altre cose vi attendono al chiosco. Noi sappiamo come intrattenere i nostri tifosi con stuzzicanti piatti genuini e della tradizione! Beh, ora vado a cambiarmi. Prendete pure posto. A più tardi!- dice Guido.


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-Ok, a dopo!- rispondiamo in coro. -Scusa ma cos’è la pasta di maiale? Il profumo è delizioso davvero!- chiedo a Marco. -E’ una sorta di hamburger ma molto più gustoso e invitante – mi spiega. Intanto, dopo aver un po’ curiosato in giro, decidiamo dove andare a sedere. La gente è ancora poca ma non tarderà ad arrivare ci ha detto poco fa Guido, perché oggi lo scontro è tra due belle formazioni. Lui, i suoi compagni e la squadra del Faedo dopo pochi minuti sono già in campo pronti per il riscaldamento che dura circa mezzora poi segue il fischio d’inizio dell’arbitro e via tutti in campo. Nel lancio della moneta vince il campo il Faedo, mentre inizia a battere la squadra di Guido. -O no, ancora quella?- dice improvvisamente Federica. -Chi?- chiede Marco. -No niente, mi pareva di avere riconosciuto una ragazza della facoltà ma mi sono sbagliata.tergiversa Federica. -Si è la ragazza della pizzeria che stava con Marco.- noto a mia volta. -Anche qui ce la dobbiamo trovare? Basta che stia lontana dal tuo Guido!- afferma lei a bassa voce. -Beh non è mio veramente…- preciso io, anche se devo ammettere che Federica non conosce alcuni dettagli e novità tra Guido e me. Federica intanto riprende a parlare con Marco della vastità del campo e degli aspetti che più la impressionano. Io, fra me e me, mi soffermo notando la presenza di vari bimbi accompagnati dai genitori. Chiaramente l’attività sportiva è molto importante per il bambino e per il ragazzo in quanto consente di socializzare, contribuisce alla formazione di una propria identità e favorisce la partecipazione. L’essere inserito in un’attività sportiva in giovanissima età, inoltre, insegna a rispettare il proprio compagno e l’avversario e quindi aiuta a drenare la propria irruenza e aggressività tipica di quella fase di vita. Le restrizioni nello sport vengono accettate più facilmente che in altri contesti, come la scuola, perché la componente del divertimento è così importante da mettere in ombra altre limitazioni. Osservando il match mi colpisce anche la coesione tra i membri di ciascuna squadra e la loro frequente comunicazione atta a dare istruzioni, suggerimenti, incitare e motivare e non finalizzata solo a chiamare la palla per identificare chi la prenderà. Per creare tale collaborazione deve esserci un bell’affiatamento e una forte unione perché in un gruppo sportivo forte è la


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componente emozionale; inoltre, ciascuno occupa una posizione ben specifica e condivisa dal gruppo e da ciò emerge anche la tenuta o meno dello stesso. Può purtroppo accadere che manchi il feeling e quindi venga meno, nonostante la superiorità tecnica, il raggiungimento dello scopo. Combinare queste complesse dinamiche con le caratteristiche tangibili di questo sport non è semplice e ciò denota la maestria di questi atleti. Di tangibile c’è, ad esempio, la dimensione del campo. È davvero gigantesco! Occorrono forza e coordinazione per colpire la palla e metterla nel posto desiderato. Discorso che vale anzitutto per i giocatori a fondo campo. La direzione di gioco spetta sicuramente al centrocampista e riflessi pronti e lucidità sono prerogativa dei terzini. Gli scambi più belli sono quelli tirati che ti fanno stare con il fiato sospeso, meno enfasi hanno invece i colpi con un’ampia parabola. Le mie riflessioni sono interrotte da un’ovazione: -Siii, grande Guido!- sento infatti urlare alle mie spalle. In effetti ha fatto un gran bel punto; una scivolata a terra e distendendo il braccio ha recuperato la palla e l’ha buttata nella zona scoperta dell’altro campo. Rimesso in piedi si volta verso di me e non posso che agitare le braccia ed applaudire a cotanto dinamismo e precisione. Lo stesso fanno Marco e Federica, quest’ultima dandomi pure una gomitata eloquente sull’occhiata di Guido. La partita prosegue con colpi sorprendenti e coinvolgenti. Dalle notizie preliminari fornitemi da Guido riesco a comprendere abbastanza bene anche come funziona il punteggio. La partita si svolge sulla distanza dei 13 giochi. Ogni gioco si compone di punti: 15, 30, 40, gioco. Particolarmente eccitanti sono i 40 pari dove le due squadre duellano sino all’ultimo con maestria e abilità per conquistare il gioco. Il pubblico si scalda e il clima si fa molto elettrizzante. Un’emozione unica e generalizzata che si diffonde tra tutti i presenti, giocatori e sostenitori. -E’ gioco, è gioco!- urla a improvvisamente un uomo seduto alle mie spalle. -E’ fallo arbitro!- affermano due ragazzi poco più avanti. Così su due piedi effettivamente non è chiaro a chi tocchi questo gioco. Con un atteggiamento che mi sorprende notevolmente vedo che il terzino della squadra di Guido fa capire all’arbitro che il punto è dell’altra squadra. -Incredibile!- pronuncio ad alta voce. Anche Marco e Federica sono attoniti.


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Una signora seduta alla mia sinistra, vedendoci spaesati dall’atto, ci spiega che tale ammissione dell’errore prende il nome di fair play. Un atteggiamento quasi sconosciuto negli sport dove l’interesse economico è molto forte e in una società contemporanea che punta anzitutto all’individualismo. Tale atto parla di rispetto e amicizia, di stima e di una competizione sana che inizia e finisce in campo. Campo, questo di Faedo, che è davvero curioso notiamo noi ragazzi che ora ci guardiamo anche un po’ attorno. In mezzo al verde tra pini, fiori e una brezza fresca. Un campo di recente restauro, molto bello e voluto con il cuore dalla società sportiva, dalla comunità e dalle amministrazioni locali. Un bel esempio di rinnovo in un periodo duro per gli sport minori a causa dei venti di crisi, della scarsità di fondi pubblici e privati ed a un pubblico che fatica un po’ a “ringiovanire”. Qui invece di giovani ce ne sono. Un ottimo sprint per tale sport. Un bel gruppetto di bimbi incuriositi sono disposti in mezzo alle gradinate dove c’è una zona cava. In un cambio campo chiedo alla signora che mi ha dato informazioni sul fair play notizie su tale tunnel e lei mi spiega che un tempo era l’accesso ad una miniera, attività che ha permesso al paese di svilupparsi e crescere. Un bell’esempio di comunione tra storia e sport e di valorizzazione della propria cultura sotto svariati punti di vista. -Ma che gli sta appiccicata quella? Tanto lui nemmeno la vede.- sento dire a Federica. Ringrazio la signora e realizzo che Federica si riferisce alla ragazza amica di Guido che in effetti gli sta parecchio incollata nei cambi campo. Da un po’ fastidio anche a me ma non do seguito al discorso di Federica anche perché per forza deve seguire i giocatori perché è colei che passa uno speciale tamburello al battitore. Il gioco riprende e siamo sullo 6 a 9 per la squadra di Guido, il Valle San Felice. -Panino con pasta di maiale ragazze?- propone Marco. -Si, di corsa!- approviamo Federica ed io. -Ti vengo a dare una mano!- aggiungo. Il chiosco è davvero carino. Somiglia alle casette di Natale dei mercatini. Dentro c’è un bel movimento: chi cucina, chi prepara le bibite, chi sta alla cassa. Tutti volontari, un grande segno di coesione e partecipazione della comunità. I panini che ci arrivano sono davvero invitanti e appena li addentiamo l’esplosione di gusto è unica. -Davvero golosi!- sentenzia infatti Federica.


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-Si sono molto gustosi, ci stava proprio!- conveniamo Marco ed io. Non appena Guido si gira verso di noi sventoliamo allegramente il nostro fragrante spuntino. Lui sorride e mette il dito indice a fianco della guancia per confermare che sono deliziosi. -Anche questo è sport!- diciamo ridendo tra noi. Ed è vero, anche questi aspetti sono componenti di un’attività sportiva a misura di persona, senza ansie di fatturati e incassi. Il tamburello è uno sport semplice e pulito che ha riguardo di coloro che stanno in campo e anche degli spettatori. -Ehi ragazze, ci siamo quasi: 8-12 per Guido!- avverte Marco. -Forza Guidooo!- urliamo all’unisono. Lui si volta e sorride compiaciuto. Seguono ancora alcuni scambi importanti segno che la squadra del Faedo non vuole mollare ma il fischio dell’arbitro arriva perentorio decretando la vittoria del Valle San Felice per 9-13. I giocatori si salutano porgendo la mano gli uni agli altri in modo gioviale; poi tutti negli spogliatoi. Intanto pure le gradinate iniziano a svuotarsi e i presenti cominciano a fare capannello per parlare della partita e delle vicende quotidiane. Noi ci appostiamo vicino all’uscita degli spogliatoi per attendere Guido e congratularci con lui e infatti di lì a poco esce assieme ad altri atleti. Tutti si siedono ad un tavolo comune allestito dalla società ospitante e iniziano a sbocconcellare panini, pasta e altre delizie preparate dalle signore e dai volontari della società. Guido poco dopo ci raggiunge ben rifocillato. È chiaramente felice e ci offre una birra per festeggiare la sua vittoria e la nostra presenza alla partita. -Ehi, ma quei ragazzini chiedono i tamburelli degli atleti?- chiede Marco. -Si esatto! E’ una pratica diffusa tra i bambini quella di chiedere ai loro idoli i tamburelli come ricordo. Ci sono delle vere e proprie collezioni e gli atleti sono sempre ben disposti a regalarli. Tale simpatico fenomeno si accentua in serie A.- spiega Guido. -Che forte, beh è sintomo di partecipazione e di interesse da parte dei più giovani!- conclude Marco. Effettivamente, pensandoci, il tutto si traduce in buone speranze per il futuro sia per quanto riguarda la partecipazione agli eventi, sia per l’inserimento e per la prosecuzione dei piccoli


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nell’attività sportiva con conseguente rinnovo e rinfoltimento del vivaio giovanile. Come accade in molti ambiti, la combinazione tra l’esempio e l’incoraggiamento dei genitori rappresenta la chiave di volta per la buona riuscita di un progetto. Ora ragazzi, penso che sia il caso di rincasare.-Si certo, ritorniamo a Trento!- rispondiamo. Durante il viaggio di rientro chiacchieriamo del piacevole pomeriggio appena trascorso. Ci ritornano alla mente i giochi combattuti fino all’ultimo, il pubblico in visibilio a seguito di certi scambi, la storia e il paesaggio del luogo che si fonde con la grinta del gioco e l’operatività dei volontari. Una mescolanza di piacevoli ricordi ed emozioni ci animano ancora. Al rientro ci salutiamo calorosamente. Federica scatta velocemente verso la stazione dei treni perché è in arrivo una sua coinquilina e quindi ne approfitta per fare il rientro a casa assieme; Marco inforca subito la sua auto perché di lì a poco dovrà consegnarla al fratello che ne usufruirà per la serata e io mi avvio a mia volta verso il mio appartamento. Saluto e ringrazio ancora una volta Guido e compiuti appena quattro o cinque passi mi sento afferrare vigorosamente per un braccio. Chiaramente immagino già chi è e ne sono felice. Da questa giornata ho capito di essere anche io sinceramente interessata a Guido. Mi fermo. La presa si allenta e sto per voltarmi lentamente un po’ frastornata, un po’ emozionata, un po’ in attesa di ciò che accadrà di lì a pochi secondi, minuti, ore, giorni, mesi e chissà forse anni. In pochi attimi mi chiedo: chi sa quando è il momento di incontrare la persona predestinata e le modalità per farlo? Nessuno. Tutto ciò può avvenire durante una estenuante lezione di matematica all’università. Durante un’esercitazione, scandita da un frenetico ritmo di esercizi su matrici, logaritmi, limiti e via dicendo. Da un terreno considerato arido come tale scienza può nascere un fiore delicato e profumato come l’amore. Amore inteso nelle sue molteplici sfaccettature: per lo sport, per un ambiente e per una persona. Sentimento ed emozioni a tutto tondo. Ha avuto inizio così la mia esperienza personale mediante la scoperta di un nuovo sport: la palla tamburello e un di ambiente ospitale e genuino: il Trentino. Infine, ma non meno importante, di una persona: Guido, ma questa è un’altra storia. Alessandra Brunetto


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PIERPAOLO CAMERA “TAMBURELLO BUCATO”


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“Dai attenti, potrebbe essere l'ultima palla!” dice il nostro mister. “Fai presto a dire così anche un'ora fa era l'ultima palla, e adesso siamo ancora qui: quelli adesso non sbagliano più sono troppo forti”. “Si ma in questo gioco vinciamo 40 a zero e siamo ancora avanti 12 a 11”. “Appunto erano a 7 sono già ad 11”. “Dai siamo arrivati fin qui non possiamo mollare proprio adesso.” “Fine time out” gracchia il megafono dello speaker. “Ok tutti insieme: concentràti ma soprattutto...duri duri duri!”

Fa caldo...caldo...maledettamente caldo...le magliette sono madide di sudore...scarpe e calze sono un tuttuno indistinguibile arrossate dalla terra battuta...e come se non bastasse un rivolo di sudore scende costantemente dalla mia fronte da più di un'ora; non è bastata l'acqua gelata a dare sollievo alla mia gola riarsa ne’ la salvietta che ho tenuto costantemente in testa durante il time out: il caldo e questa sensazione di spossatezza mi penetrano fin nelle ossa. “Punto facile del terzino: 40 a 15”

Eppure siamo qui in collina, a casa nostra, trecento metri sulle fresche alture carpenetesi. Le stesse facce, solo un po' invecchiate, di quando bambini giocavamo sulla piazza della chiesa con Fina e Vittorina che si infuriavano perché dovevano chiudere le persiane se non volevano vedersi infrangere i vetri delle finestre; Don Angelo che se la prendeva con noi perché non lasciavamo uscire da messa le vecchine impaurite; il maresciallo che diceva che non potevamo mettere un cartello e sbarrare le strade così a piacimento....mentre il sindaco Pietro dal canto suo che chiudeva un occhio “sempre meglio che stiano qui a giocare piuttosto che in giro con chissà chi”. “Bel recupero del fondocampista: 40 a 30”

Iniziavamo sempre così, a maggio, sul finir della scuola, senza un appuntamento. D'altronde non c'erano cellulari, si usciva, si andava in piazza e quando eravamo almeno in quattro si cominciava a tirare. Come richiamati da un suono familiari “poc”che si perde nella notte dei tempi i vecchi (per noi erano tutti vecchi passati i quaranta) uscivano dalla Società e cominciavano a commentare “ah non così”, “troppo forte”, “troppo piano”, “troppo tesa”, ”troppo alta”, “eh se ci fossi io”, “se non mi facesse male la gamba gliela farei vedere io”. Persone che in vita nostra mai avevamo visto impugnare un tamburello ma che erano prodighe di consigli, battute, commenti e scherni. “Ancora una chiusura del mezzo volo: 40 pari”.


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E naturalmente poi qualcuno dei nostri padri si univa e diceva: “Sa, facciamo questa, ma senza vantaggi: sul 40 pari chi fa il primo punto vince il gioco”. E si faceva la partita vera e propria ma col muro (anzi le due mura, quella della chiesa da una parte e quella del castello dall'altra), e sull'asfalto e non come adesso sul bel campo in terra battuta senza mura e a campo libero. Gli scambi erano veloci tranne quando a fondo campo c'erano Nano e Rossano...allora basta...la partita per noi ragazzi che stavamo davanti (solo poi ho scoperto che ricoprivamo il ruolo di terzino e mezzovolo), dicevo, a quel punto per noi la partita era finita. I palleggi da fondo campo, infatti, diventavano interminabili e cominciavano i famosi colpi a campanile (mai termine fu più azzeccato giocando sul sagrato della chiesa). La pallina arrivava su in alto e scompariva coperta dalla luce accecante del sole e ricadeva sull'altro campo per ricompiere in senso opposto la medesima traiettoria, per una, due, cinque, dieci volte.... Veniva colpita sempre uguale, né più forte né più piano, né più alta né più bassa, come se a giocare fossero due profondi conoscitori della geometria, capaci di disegnare perfette parabole, e non i nostri vicini di casa. Ancora un palleggio, il ventesimo forse (ho perso il conto), e poi d'improvviso il “poc” dei colpi diventava un “tac”, quel diverso suono era il segnale che sarebbe arrivava una stilettata quasi rasoterra, il colpo dell'arrotino lo chiamavamo (un tiro forte e tagliato), che era sempre punto per chi lo eseguiva e se su quella palla si interveniva debolmente faceva sentire quel dannatissimo rumore di risposta...“stac”: il tamburello che si bucava ed erano dolori riuscire a farsene comprare uno nuovo...Massì è vero! Perché non ci avevo pensato prima, tanto, perso per perso, e come un fulmine a ciel sereno grido: “Raga ve lo ricordate il colpo dell'arrotino?” “Ma vuoi scherzare quello lo facevamo i nostri vecchi in piazza!” “Appunto non possono aspettarselo: non lo conoscono!”

Ed ecco che alla ripresa del gioco al mio“tac” risponde uno stac”: mai fu più dolce il rumore di un tamburello che non risuonerà più... arrivano urla, abbracci, applausi, secchiate d'acqua. Ora come d'incanto non sento più il caldo e l'afa, il sudore e i commenti negativi della gente, la fatica degli allenamenti di tutto l'anno e le delusioni delle trasferte, le partite rimandate per pioggia e i recuperi giocati a metà settimana senza neppure i parenti. È proprio vero che certe partite ripagano più di qualsiasi cosa, ti fanno stare bene, ti riconciliano con tutto, ti fanno sentire uniti ai tuoi compagni e alla tua gente, e ti fanno capire di essere come appartenenti a qualcosa di importante che è più grande di te, a un mondo che c'era prima di te e continuerà ad esserci dopo. Un mondo pieno di piazze di paese dove ci sono tante Fina e Vittorina, Don Angelo e Pietro, Nano e Rossano.


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È un qualcosa che non si può spiegare e neppure capire.... forse perché lo si può solo amare. Pierpaolo Camera


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ROBERTO CARRETTO “IL TAMBURELLO PORTACOMARESE”


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Sono circa le ore diciotto di un mercoledì estivo degli ultimi anni cinquanta del secolo scorso, puntuale sulla piazza di Portacomaro si ferma, come ogni giorno, la vecchia corriera blu proveniente da Asti, tra i molti passeggeri, di ritorno dal mercato cittadino, c’è un giovane alto di corporatura robusta, stringe tra le mani una vecchia cartella di scuola, non porta libri, ma la pietanziera che conteneva il suo frugale pasto consumato nel breve intervallo di turnista alla Fiat. Si avvia verso la sua casa posta nella contrada “sottochiesa” (Via Alfieri) attraversando il campo del gioco del tamburello, al fondo del quale suo padre lo aspetta: un breve saluto, poi i due si scambiano la cartella con un tamburello; non rientra nemmeno in casa ma è subito pronto a “battere” la palla verso i compagni di allenamento già presenti sul campo. Lui è Ercole Rasero, io sono un bambino di poco più di 11 anni che osserva quasi giornalmente questa scena. Ora sul campo ci sono gli adulti che si allenano e noi bambini li osserviamo dal bordo, tra loro ci sono: Aldo Calosso, Carlo Verrua (detto il mancin), Gianni Gambaruto, Attilio Gabri, terzino eccezionale, l’anziano Scassa Ubaldo che gioca ancora molto bene rispetto all’età, e altri più o meno giovani; il nostro compito adesso è quello di recuperare le palle che finiscono nel cortile delle scuole sopra al bastione, o giù dalla “riva di gaggie” sotto il campo. Lo spettacolo è stupendo i tamburelli: “Campedelli e/o Giacopuzzi” e qualche vecchio: “Berruti e/o Giaccone” di vera pelle (la plastica non esisteva ancora) schioccano seccamente nel ricacciare la palla che vola a mezz’aria come una saetta innescando effetti e giravolte contro il muro medioevale del ricetto; i giocatori corrono a destra e a sinistra, sollevando nuvolette di polvere, per rincorrerla quasi in una danza senza musica, ma ritmata dal tonfo delle pelli. Giocheranno fino al tramonto fino a quando il sole illuminerà l’ultimo metro del campo. Per tutti l’attesa è grande, presto ci sarà la festa patronale di San Bartolomeo (24 agosto) e per allora i giocatori dovranno essere pronti atleticamente per affrontare le squadre che verranno a contendersi il prestigioso trofeo. Sarà gara per tutta la durata della festa parteciperanno tutti i più grandi giocatori del momento, arriveranno: l’atletico Mara che si arrampica letteralmente sul muro per intercettare la palla, Cagna, Pentore, Riva, e molti altri suddivisi nelle varie “quadrette”: perché allora le squadre erano composte da 4 elementi. Celestino Ponzone, battitore fantastico, rientrerà da Torino, alla casa paterna per dare manforte alla squadra locale. Era sempre un’ emozione vederlo battere la prima palla, prendendo la rincorsa dalla “stercia” (strettoia) tra le case in fondo al gioco, riusciva ad infilarla dietro alla sporgenza del “torrione” mettendo in forte difficoltà il “ricacciatore” guadagnando molto spesso il punto. Non tutti forse sanno che i giocatori di allora indossavano sempre una divisa composta da pantaloni lunghi in cotone di colore bianco e la maglia di lana di colore diverso per le due “quadrette”; le scarpe erano le “Superga” da ginnastica in tela blu e suola in gomma bianca. Gli arbitri ufficiali erano già allora, come adesso, in divisa tutta bianca. Il fondo del campo era in terra battuta e, nell’occasione della festa, veniva sistemato aggiungendo uno strato di sabbia finissima e cilindrato per bene per molti giorni ed era interdetto al gioco di noi bambini: “non si doveva rovinare” dicevano gli organizzatori; per noi erano disponibili due piazzette vicine più che sufficienti ed alla nostra portata. Un apposito


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steccato chiudeva l’accesso e la vista al campo: gli adulti pagavano il biglietto, ma noi bambini potevamo accedere gratuitamente a patto però di continuare a recuperare le palle finite fuori gioco. Tra i bambini che si divertono ci sono anche dei futuri campioni come: Franco Capusso (2 volte campione italiano), Riki Durando, Francesco Durando, Eros Capusso, e tanti altri che si limiteranno a divertirsi praticando questo sport. Il bastione con la sua torre sono lì quasi da mille anni, il campo del tamburello è presente però solamente da circa 200 anni in quanto prima era coltivato e gli sport sferistici si praticavano sull’attuale Piazza Marconi subito adiacente. A Portacomaro si è anche praticato il gioco del pallone con bracciale ed elastico che ha dato famosi campioni dell’epoca come: Cerrato Battista (citato dal De Amicis nel libro: ”Gli azzurri e i rossi”) il nipote Cerrato Rinaldo, Canepa Egidio. Per noi portacomaresi il tamburello fa parte della vita di ogni giorno, quasi tutti lo hanno praticato anche solo per puro divertimento senza pretese di diventare, un giorno, dei campioni. Ti entra nell’anima a poco a poco diventando un caro amico del quale non riesci poi a farne a meno. Anche se non lo pratichi più da una vita quando senti il tonfo, ormai un po’ attutito dei tamburelli di plastica, la tua anima ti sobbalza dentro e le gambe ti portano, quasi automaticamente, a bordo campo a vedere le “nuove leve” ed è un piacere osservare che questo sport continua a “mietere nuove vittime”: è la vita che continua inesorabile il suo percorso i “vecchi giocatori” lasciano il posto a quelli in erba tra i quali speriamo nasca qualche campione per continuare la tradizione della “grande Famiglia portacomarese”!!!! Roberto Carretto


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DOMENICA CELESTRE “CANTARE E’ D’AMORE, CANTARE E’ IL TAMBURELLO”


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ISABELLA FERRARIS “MILLE RICORDI IN TRE RINTOCCHI”


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Erano da poco passate le nove di un assolato martedì di agosto, quando Armando, tirando su il secchio dal pozzo, udì in lontananza il rintocco della campana del paese. Non era un suono festoso. Si fermò e sedette sul bordo di una cisterna ormai in disuso. Contò i rintocchi : tre. I tre rintocchi sospesi nell’aria, intervallati da una piccola pausa, annunciavano il lutto per un uomo e Armando capì che se n’era andato Pietro, il suo vecchio amico del tamburello. Si levò il cappello di paglia, tirò fuori il fazzoletto scozzese e se lo passò sul capo per alleviare un po’la calura. Ripensò alla sua giovinezza, all’incontro con Pietro e al loro amore verso il gioco del tamburello. Ricordò quando in sella alla bici , agganciava il tamburello al manubrio e giù per la discesa in mezzo ai campi, arrivava alla piazza del paese e incominciava a giocare contro il muraglione .Ricordò anche quando , tanti , tanti anni prima stava palleggiando contro il muro e, mentre rincorreva la palla al salto , si accorse che da sopra, qualcuno lo stava osservando. Allora lui, sentendosi importante, aveva accelerato il gioco facendo rimbalzare la palla più velocemente. Si spostava saltando come un grillo facendo attenzione a non perdere colpi fino a che non si stancò, riprese la sua bici e se ne andò per la via di casa. Armando tornava sotto il muraglione a giocare col tamburello ogni volta che , finiti i lavori nei campi , poteva “svignarsela” come gridava sua madre. Ma il tamburello era la sua passione , da quando Ferruccio glielo aveva regalato lui non lo aveva più mollato un attimo e, imitando i ragazzi più grandi , aveva iniziato a frequentare la piazza del paese: in cuor suo sentiva che questo gioco lo avrebbe portato in altri paesi, sotto altri muraglioni , ma che soprattutto gli avrebbe fatto incontrare tanti amici. Un giorno, un ragazzino suo coetaneo lo raggiunse mentre stava giocando e rimase a seguirlo fino a che Armando si girò e gli chiese: - Vuoi provare? –. -Grazie- rispose – io mi chiamo Pietro e tirò fuori dalla tasca una mela che aveva preso apposta da offrirgli; Armando sedette per terra e il suo nuovo amico prese in mano il tamburello ed esclamò: - Bello, ma di cosa è fatto e dove l’hai preso?-- Me l’ha regalato Ferruccio , l’ha fatto proprio lui con le sue mani. È di pelle vera; è un mago a fare i tamburelli, quando posso lo vado a vedere - .Ferruccio tirava la pelle sul cerchio con cura e delicatezza e intanto raccontava le sue storie e gli diceva – Và Armadino che è un’arte fare i tambass: come li faccio io, non li fa nessuno, mica per niente vengono a prenderli dalla forcaSolo dopo molto tempo il ragazzino capì che quella era un’espressione per dire che la gente arrivava da lontano per comprare i tamburelli di Ferruccio. Pietro incominciò a palleggiare ma non riusciva a prendere la palla di rimbalzo. – Devi stare più vicino al muro- gli diceva Armando. –Almeno all’inizio fino a quando non prendi la mano, fai dei palleggi corti e poi piano piano ti allontani sempre di più.- Così iniziò la loro amicizia e il muraglione divenne luogo di appuntamento per giocare a tamburello.. Il cerchio si allargò; si unirono a loro altri compagni di gioco tra cui il fratello di Pietro. Ferruccio continuava a


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“forgiare” tamburelli perfetti : prima di metterli da parte per la vendita li rigirava tra le mani più volte osservando ogni particolare. I ragazzi facevano “la ronda” al suo laboratorio : - Ferruccio, se te ne viene qualcuno storto ce lo dai per poco?-E lui che conosceva la loro passione, non si faceva pregare. Un giorno seppe da un abituale acquirente che una ditta astigiana stava cercando una squadretta che potesse rappresentarla; Ferruccio pensò subito ai suoi ragazzi che ormai da troppo tempo giocavano a tamburello a tempo perso; viste le loro qualità era ora che si facessero conoscere anche altrove e che qualcuno si occupasse di loro. Li mandò a chiamare tutti insieme e spiegò il suo progetto: - Voi formerete una vera e propria squadra; vestirete la divisa col nome dell’azienda, iscriveremo la squadra in modo che possa giocare regolarmente , io sarò il vostro allenatore e fornitore di tamburelli; ci faremo conoscere di paese in paese, avremo un “nome” e un prestigio, giocheremo , giocheremo diventeremo sempre più bravi e soprattutto diventeremo sempre più amici. Così iniziarono gli allenamenti, questa volta regolari, con tanto di giorno e ora scanditi; Armando contava le ore che batteva il campanile perché all’ora stabilita se la doveva “svignare”. Il gioco del tamburello li aveva fatti conoscere e aveva fatto loro percorrere tanta strada insieme di paese in paese, di muro in muro , di serie in serie , di torneo in torneo, di festa in festa ma sempre uniti. .E ora l’ultimo amico di Armando se n’ era andato, e mentre lui si asciugava la fronte col fazzoletto scozzese ricordò quando tanti, ma tanti anni prima, Pietro era comparso sotto il muraglione del paese mentre Armando si allenava col tamburello . Lui gli aveva chiesto :- Vuoi provare? – E Pietro per ringraziarlo gli aveva regalato una mela. Da lì era iniziata la loro amicizia , proprio così, da un tamburello che Ferruccio aveva forgiato con l’arte che lo contraddistingueva. Isabella Ferraris


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MARCO FORMOLO “CHE MERCOLEDI’ DA LEONI”


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Marco Formolo


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ALBERTO GHIA “DAVANTI AL MURO” (Riflessioni Monferrine)


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Ho una grande passione per il tamburello, soprattutto per la specialità principale della mia terra: il muro. Assistere ad una partita di muro per me è una performance che, oltre ad essere manifestazione sportiva, porta in sé un qualcosa di quel sacro che stringe insieme le nostre radici e il nostro avvenire. Ogni volta che vado su un campo, penso a quanti lo hanno fatto prima di me. Penso a chi si spostava da questa a quella collina, da quel paese il cui nome ricorda un ricaccio, tunch, a quegli altri pieni di asprezze, duri come la terra su cui si sono radicati, grassàn, ròca, rincorrendo la fama dei giocatori, scrosci di tuono, pali di vigna, agili felini esperti nell'arte di arcassare la palla che con i loro compagni di squadra se ne andavano a caccia di trofei. Giocatori forti, orsi delle nostre colline, che apparentemente senza sforzo mandavano le palle-proiettile, prima nere, poi rosse, infine bianche, ben oltre l'ultima riga del campo. Mentre il guardalinee restava con la sua bandiera in aria a salutare il volo del piccolo bolide, al pubblico in attesa di un nuovo intra altro non restava che immaginarsi la prosecuzione del viaggio della pallina. Chi non ha vissuto il tempo di questi uomini ne ha però sentito i racconti, canti di eroi armati solo d'un cerchio di legno coperto di pelle che hanno espugnato muri tenacemente ostili, che i bambini amano più di quelli su popoli antichi e vuoti cavalli di legno su spiagge lontane. I compaesani dedicano alla loro memoria partite con annuale cadenza nei giorni di festa; è impressionante la perseveranza con cui da quarantadue anni il mio piccolo paese ricorda il suo campione ed ogni anno è un grande evento, che mette assieme tutti i suoi abitanti. Mentre sono in campo, il passato lascia spazio al presente; lascio che ogni mio senso goda dello spettacolo e che, sfruttando tutta la determinazione dell'uomo, nello spettacolo riassunta, il mio spirito si rigeneri e ritrovi la combattività e la sana voglia di fare. Ascolto il sibilo del fischietto, i commenti di giocatori e spettatori nel policromo arabesco delle lingue madri d'Italia, quelle che stanno là sulle colline e fanno da guardia alla storia; ascolto i discorsi dentro e attorno al campo, i commenti ed i paragoni, positivi e non, che ogni giocatore porta su di sé. Annuso l'odore di vaniglia delle palle nuove, che presto cederà il passo al bruciato, per le ripetute percosse che la palla subirà nel suo vagare; respiro il tabacco di sigarette accese da spettatori nervosi, vedendo la propria squadra in una difficoltà; sento l'odore della fatica e della terra, che sollevandosi dal campo si è aggrappata ai giocatori e con il sangue di qualche caduta di troppo ed il sudore della fatica si è fatta scudo e segno di tanti recuperi che hanno destato la meraviglia e gli applausi del pubblico. Tocco gli spalti caldi di sole, l'asfalto dei giochi nel centro del paese e la terra degli sferisteri; stringo le mani dei giocatori, per saluto; provo a valutarne la determinazione in diretto rapporto con la forza della stretta.


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È l'occhio il più sollecitato, ad ammirare quella che è stata definita bellezza cinetica. La vista fotografa istanti di perfezione tecnica (busti protesi in avanti; braccia armate da tambàss, perfettamente perpendicolari al petto; l'occhio a scrutar lo spavento per la propria palla, imprevedibile; fronti zeppe di sudore, che piano scivola a terra) su sfondi rossi di mattone o grigi di cemento, eleganti e ieratiche icone, parimenti degne di devozione. Vedo due piedi brevi, piccoli passi prima del lungo sbraccio che manda in cielo la palla, con specchiata epica eleganza; osservo i rapidi fraseggi dei mezzovolo, impegnati in una gara d'abilità dialettica: vincerà chi avrà osato maggiormente. Mentre la partita volge al crepuscolo, con una squadra che prende il largo e l'altra che cede il passo, penso al futuro, se anche questo nobile muro crollerà al suono di flauti mortali o corni angelici: temo che i racconti che hanno accompagnato la mia giovinezza si svuotino di senso e da canto si facciano cronaca, che queste icone non siano più esemplari per nessuno; temo che un ricambio generazionale non ci sarà e che tra qualche anno i campionati saranno un'ombra pallida di quello che sono stati. Dopo il triplice fischio, un brulicare investe le tribune; bambini mi passano a destra e a sinistra, scorrono verso i giocatori per farsi fare una firma su quello che riescono a trovare, poi prendono i tamburelli e si mettono a giocare contro il muro; un padre, a bordo campo, fa le prove con il figlio di pochi mesi: si fa stringere il dito e grida a tutti “ha una presa forte, verrà una spalla!”. Intanto, si sono accese le luci per una nuova partita: allora sì, possibilità ce ne sono: il nostro muro vivrà. Alberto Ghia


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FLORA GIACOPUZZI (Il Tamburello veste Armani)


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Scrivere di tamburello in 5.500 battute per me è un problema: nel mio caso potrebbe non bastare un libro. La mia vita l'ho vissuta ogni santo giorno al fianco di questo meraviglioso sport, infatti il lavoro che la mia famiglia faceva, quello che fa adesso e quello che ho sempre fatto io è produrre tamburelli per tutti. I tamburelli Giacopuzzi. Ho visto passare vicino a me generazioni di campioni, ho conosciuto migliaia di persone nel mondo del tamburello, abbiamo prodotto, e produciamo ancora, questo meraviglioso oggetto per l'Italia e per il mondo. Sui campi alla domenica e al lavoro in settimana sempre a fianco del tamburello. Certo, “questo amore di tamburello” non avrebbe potuto essere diversamente. Capite quindi che avrei centinaia di aneddoti da raccontare, migliaia di situazioni belle e brutte che mi hanno legato ormai in maniera indissolubile a questo sport. Così, per me e la mia famiglia, diventa normale l'impegno nel lavoro quanto per il club, per la Federazione, per la Nazionale… e purtroppo a volte succede che anche quei momenti belli e piacevoli sfuggano di vista e scivolino via senza attenzione, perché questa è volta alla gara o all'impegno lavorativo. Ma è proprio quando tutto sembra “routine” che puo' succedere un qualcosa che ti fa pensare o che comunque rimane impresso nella tua mente più di tante altre importanti situazioni. Ed è cosi che circa due anni fa conobbi un signore di mezza età piemontese, mai visto prima, che mi chiamò in ditta per ordinare una serie di tamburelli, particolari, personalizzati, insomma utilizzando una notevole precisione nell'ordine. Non resistetti alla curiosità di sapere dove giocasse e con chi; mi rispose che non giocava da molti anni e voleva semplicemente riprendere tenendo in mano un Giacopuzzi, ne fui felice e gli fornimmo i tamburelli. Fin qui tutto normale ma il bello venne proprio il giorno che ci conoscemmo di persona. Questo signore, parlando naturalmente di tamburello, mi spiegava la sua voglia di giocare di nuovo con i suoi vecchi amici, era contento di avermi conosciuto e mi raccontò un fatto accaduto qualche mese prima a casa sua. La moglie, straniera, fino a quel momento aveva sentito solo vagamente parlare di tamburello, cosi la domenica seguente quel famoso ordine telefonico, quando erano anche presenti i suoi anziani, ma arzilli genitori egli disse alla sua famiglia “vi dico che ho comprato 5 Giacopuzzi”. Sgranati gli occhi dei genitori che ben sapevano cosa ciò significasse, la prima più veloce a reagire fu la moglie che chiese con stupore “ma cos'è Giacopuzzi?”.


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Tanto veloce quanto dolce e sorridente fu la risposta della suocera ottantenne “cara, Giacopuzzi è l'Armani del tamburello”. A quel punto la moglie capì subito quel che il marito aveva comprato. Tutto ciò lasciò me e mio marito che stavamo ascoltando pieni di gioia. Un momento semplice, parole sincere raccontate da persone semplici, persone che vivono a centinaia di chilometri di distanza, persone che non ho mai conosciuto, hanno potuto veramente farmi toccare con mano che c'era qualcuno che già molti anni fa apprezzava il nostro lavoro e lo apprezza e lo rispetta ancor più a tutt'oggi. Non posso non gridare la mia soddisfazione di aver avuto cotanto paragone, non posso dimenticare queste belle parole di una signora anziana con tanta memoria e non posso che dirvi di essere felicissima, assieme alla mia famiglia, di far “vestire Armani” ai nostri tamburelli. Grazie a tutti come sempre. Flora Giacopuzzi


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ALESSANDRO LOCO


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La mia passione per questo fantastico sport è nata a Curno, un piccolo paesetto in provincia di Bergamo, dove la mia casa era separata dal campo di tamburello solo dall’ orticello di famiglia. All’età di soli 10 anni, entusiasmato dal frastuono del ‘‘tam-tam’’, incominciai ad avvicinarmi sempre più al campo, finché un giorno decisi di prendere in mano il mio primo tamburello e di entrare per dare i miei primi colpi ed ero incoraggiato da chi in quel momento stava già giocando. Subito capii che io e il tamburello saremmo diventati una cosa sola. La passione che mio papà, pur non avendo mai giocato a tamburello ma partecipando solo come spettatore, era infinita: era così felice all’idea che io iniziassi a praticare uno sport del quale era sempre stato un accanito tifoso a tal punto che, quando necessitavo di tamburelli, lui andava di persona in bicicletta dal signor Pagani, situato a Seriate, sempre in provincia di Bergamo, a procurarmene di nuovi. Da lì, io e i miei amici, abbiamo creato un gruppo così desideroso di giocare che un giorno la società ‘‘Polisportiva Curno’’ decise di far nascere una squadra competitiva che partecipasse ai campionati. Per i primi due anni abbiamo subito dure e pesanti sconfitte, ma noi non ci siamo mai arresi e, partita dopo partita, il nostro gruppo si rinforzava e abbiamo iniziato a vincere i primi incontri, fino ad arrivare a dei buoni risultati a livello provinciale. Io, al contrario dei miei compagni, avevo una possibilità in più di allenarmi: mio papà lavorava in una fattoria di fianco a casa mia, dove toglieva i macchinari dal fienile cosicché io potevo allenarmi contro il muro e pian piano miglioravo sempre più. Quando, all’età di 14/15 anni, ho esordito per la prima volta in prima squadra, in serie C, ma frequentavo sempre i campionati giovanili. A 17 anni, causa amicizie e compagnie varie, mi sono allontanato sempre più da questo sport, finché non smisi di giocare. Poi, però, il destino volle che io conobbi una ragazza, nonché la mia attuale moglie, il cui padre, accanito guardialinee ufficiale della ‘’Polisportiva Curno’’, quando andavo a casa sua parlavamo del più e del meno di questo sport. Lì la mia passione inconscia iniziava a maturare sempre di più e la voglia di tornare a giocare continuava a crescere. 8 anni dopo decisi di riprendere in mano il tamburello, restando per le prime volte in panchina, ma, grazie al mio impegno negli allenamenti, al mio rispetto verso le regole e verso gli altri, ripresi il posto titolare in prima squadra. Negli anni seguenti ricevetti numerose offerte per cambiare società, a livello della serie B e della vecchia A2, togliendomi delle belle soddisfazioni. Tutt’oggi, all’età di 53 anni, gioco ancora a tamburello e negli ultimi 10 coinvolgo parecchi giovani dell’età di 16-20 anni e, alternando la serie C e la D, cerco di trasmettere la mia passione e far capire loro che l’età più bella per divertirsi e giocare a questo magnifico sport è proprio quella in cui io decisi di abbandonare.


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Nel campionato di serie D del 2014, oltre ai ragazzi con cui sto giocando da 2 anni, si aggiungerĂ anche mio figlio, di 14 anni, e, tutti insieme, cercheremo di far bene creando un gruppo affiatato provando ad ottenere risultati positivi, centrando i play-off e farci conoscere anche a livello nazionale. In questa pagina riassuntiva, in cui ho descritto tutta la mia vita legata a questo fantastico sport, ho cercato di entusiasmare tutti quelli che mi circondano, sperando di averlo fatto anche con voi. Evviva il tamburello!!!!! Alessandro Loco


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FRANCO LONGO


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La mia passione per il tamburello, nasce in maniera un po’ casuale. Credo che questo sia l’ aggettivo più corretto. Infatti, non ho mai avuto modo di praticare questo sport. Raccontando tutto con più chiarezza diciamo che mi sono avvicinato al tamburello per motivi di lavoro. Avevo iniziato da qualche anno a collaborare con la Redazione Sportiva di un noto quotidiano di Trento. All’ inizio seguivo solo il calcio ovvero lo sport che seguo da sempre come appassionato, tifoso e che ho avuto modo di praticare. Un giorno mi chiamò il mio capo servizio chiedendomi di seguire una partita di tamburello. Avevo mostrato inizialmente un po’ di scetticismo, lui mi obbligò a seguire questa disciplina. Alla fine decisi di accettare per una questione di professionalità, comunque di tutte le ramanzine che ho ricevuto nella mia vita, forse quella è stata la più piacevole e utile, perché mi ha permesso di conoscere uno sport che poi mi ha colpito, una disciplina davvero bella e di cui si parla purtroppo troppo poco. All’ inizio avevo provato a fare commenti facendomi raccontare le partite al telefono. Risultato? Facevo molta fatica a capire e a scrivere articoli precisi in grado di dare informazioni ai lettori ( visto che non avevo mai visto una partita). Capire cosa fosse un trampolino, un 40 pari, un fallo per me era complicato. Il concetto di fallo all’ inizio pensavo che fosse un po’ come nel calcio, ovvero un contatto fisico, che può fare male all’ avversario. Invece no è solo la pallina che esce dal campo, anche perché nel tamburello a differenza del calcio non possibile vedere contrasti di gioco o contatti fisici. A questo punto inizio a vederlo e da li capisco qualcosa di più. Chiedo spiegazioni all’ arbitro della partita, una persona che poi avevo conosciuto, molto a modo. Un anno dopo appresi della sua morte, ovviamente la cosa mi era dispiaciuta. Da quel giorno inizio a essere presente sui campi con regolarità. La mia passione viene notato dall’ allora Addetto stampa della Federazione, con il quale instauro subito un bel rapporto professionale, ma soprattutto umano. Dopo un po’ di tempo, ricevo una sua telefonata, perché aveva bisogno di un commento per la Televisione, non potendo vedere la partita si rivolge al sottoscritto. Per me fu una grandissima soddisfazione. Da illustre sconosciuto ad addetto a fare commenti per conto dell’ Ufficio Stampa, della serie progressi notevoli perché o commenti furono giudicati in maniera positiva. Sentire il mio nome e la testata giornalistica per la quale collaboro per me fu un’ altra grande gioia. Nel dicembre del 2008, entro a far parte dell’ Ufficio Stampa, con la qualifica di Membro e la mia notorietà inizia a crescere. Non mi accontento valuto un po’ il modo di lavorare e decido di apportare delle modifiche, il tutto ovviamente

dopo una serena e ponderata analisi. La modifica da me

apportata, quella che ad oggi mi ha dato più lavoro e più soddisfazione è stata quella relativa al tamburello femminile, trascurato anche a livello di serie A. Da anni ormai faccio presentazioni del campionato, delle giornate e dei resoconti nel complesso molto apprezzati. In sintesi, per concludere posso dire che la mia passione è stata per motivi di lavoro, ma caratterizzata da un crescendo notevole, perché al tamburello dedico molto tempo, amo conoscere dirigenti giocatori e instaurare rapporti. All’ inizio andavo solo sul campo di Mezzolombardo ( paese dove abito) a vedere partite poi ho iniziato a fare trasferte anche in Piemonte, nel mantovano, nel veronese. La cosa mi ha dato molta soddisfazione professionale anzitutto perché credo che con l’ impegno e la


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serietà si possa svolgere una carica molto impegnativa come quella di membro dell’ Ufficio Stampa, inoltre i miei progressi sono stati abbastanza evidenti e questo ( che vale anche nella vita) si chiama seminare per poi raccoglierei i frutti. Con l’ impegno arrivano anche le soddisfazioni. Questo in sintesi è il passato per quanto riguarda il futuro posso dire con certezza assoluta che poichè adoro la mia carica federale, voglio continuare a svolgere al meglio la mia mansione. La seconda anche perché ormai tramite tamburello ho conosciuto tante persone con le quali si è instaurato un rapporto di amicizia. Ritengo tuttavia doveroso ringraziare tutte quelle persone che mi aiutano sempre molto volentieri, il loro contributo per me è di fondamentale importanza. Il tamburello merita di essere seguito e questo è un messaggio che lancio volentieri ai colleghi della Carta Stampata in primis,ma anche alle radio e alle televisioni. Avvicinatevi a questo sport minore rispetto ad altri, tenendo presente che può regalare incontri spettacolari. Franco Longo


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ALICE MAGNANI “UN AMORE A PRIMA VISTA”


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Il profumo, le caviglie colme di terriccio rosso, la fronte piena di sudore, gli occhi ancora fissi e l’anima gonfia d’emozioni. Ogni domenica è così, e se non è così è perché mi trovo con i miei bolidi attaccati al suolo di una palestra e il braccio carico per colpire quella palla giallo girasole. Non credo al destino, ma io e lui ci siamo trovati a vivere insieme all’improvviso senza tempo per scegliere. Ad ogni passo un brivido, ad ogni tocco era un’emozione. Credo sia stato amore a prima vista. Io ho scelto lui e lui ha scelto me. Semplice. Sono dell’idea che il rapporto perfetto richiede attrazione fisica, mentale e sentimentale. Se manca una componente, il rapporto è claudicante, se ne mancano due è passatempo, se mancano tutte e tre è puro masochismo. Bè, tra me e lui c’è attrazione fisica, mentale e soprattutto sentimentale. Sono passati già tredici anni da quando ho iniziato a conoscerlo, amarlo e viverlo. Tredici lunghi anni, ricchi di momenti fantastici che mi hanno fatto provare gioie quasi ultraterrene, ma anche di periodi bui colmi di lacrime e delusioni. Un vero rapporto include anche questo, non credete? I primi anni, come in ogni relazione, tutto era perfetto, nessun litigio, nessuna incomprensione. Tutto andava a gonfie vele. Con il passare del tempo però i problemi e le difficoltà non hanno si sono fatti attendere. Ma l’amore, l’amore vero non può perdersi mai. Molte volte ho pensato di mollarlo, di cambiare vita, di cambiare abitudini, ma poi mi sono fatta un esame di coscienza e ho realizzato che solo lui mi completa e che la mia vita senza di lui non sarebbe nulla: il mondo che mi circonda, la maggior parte delle persone che ho conosciuto e mi stanno accanto le ho conosciuto grazie a lui, e così sono tornata sui miei passi. Ammetto che quando è successo pochi anni fa è stata dura rialzarsi, ma le emozioni e i brividi che mi fa provare sono molti di più delle delusioni e dei problemi che mi crea. Tutto è iniziato nella primavera del 2002. Un nostro comune amico mi ha presentata a lui. Ricordo tutto come fosse ieri: le sensazioni provate, il tremolio delle mani per l’attesa di quell’incontro che mi avrebbe cambiato la vita. L’ho conosciuto in casa di questo nostro comune amico: era azzurro cielo, splendido, e tutto mio. Da allora sono partite le nostre sfide al muro di casa, sfide che ahimè ho sempre perso. In una giornata d’aprile arrivò una chiamata dal paese Noarna che diede inizio ai nostri primi due anni insieme e alle prime gioie. I quattro anni successivi siamo tornati a vivere nel nostro paese natale, Segno. Quanti pomeriggi passati a divertirsi, a migliorare e crescere insieme! Arrivò però il momento di cambiare nuovamente aria e provare insieme nuove esperienze. Per i tre anni successivi siamo stati a Tuenno. Tre inverni intensi e pieni d’amore e fatica. Ricordo particolarmente il secondo anno. Una delle più grandi vittorie insieme. Una conquista inaspettata e sudata fino all’ultimo attimo. Nel 2011 ci fu però l’addio anche a questa nuova


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dimora. Separazione sofferta, per com’è finita quell’esperienza che mi ha portata a vivere emozioni incredibili e a crescere intensamente. E’ durante quei tre anni che nelle stagioni primaverili abbiamo iniziato a viaggiare molto, sempre insieme, sempre uniti, con la stessa voglia di viverci del primo giorno. Il 22 febbraio 2009 primo allenamento a Palazzolo. Prima volta fuori regione. Stagione da incorniciare, gruppo da vivere, vittorie da ricordare. Ma neanche il tempo di ambientarsi e via. Altra meta altra esperienza. Nella primavera del 2010 ci trasferimmo a Camerano Dove? Bè, un piccolo paesino nell’astigiano. Un paese dove ho lasciato il cuore, non tanto per l’esperienza passata insieme, io e lui, ma per le persone stupende che ho incontrato in quel luogo. Ci furono infatti mesi di agonia e sofferenza che hanno rischiato di staccarci per sempre . Non lo amavo più. Ero arrivata a non sopportarlo. La sofferenza che mi recava era diventata più grande del sentimento, e nonostante le mille vittorie volevo abbandonare questo amore. Mi sono presa una pausa, pausa che mi ha portata a capire che non era lui il problema, assolutamente no. E così lo ripresi con me. Scappammo insieme, e sulla via del ritorno arrivò quella che è stata per me la salvezza. In una calda mattina dell’agosto 2010 arrivò la notizia che ci avrebbe fatti tornare assieme più forti di prima. San Paolo d’Argon. Il sogno ebbe inizio. Tre anni insieme, io e lui. Tre anni che ci hanno portato a migliorare, maturare egioire insieme a tante altre persone fantastiche. Avevamo trovato la nostra casa, quel luogo che comunque andavano le cose ti faceva sentire al sicuro. L’amore per lui era cresciuto enormemente, e dopo il secondo anno di permanenza in quel paesino di Bergamo siamo arrivati due volte a vedere la cima della montagna, senza ahimè conquistarla. La seconda volta ha fatto male, fa tanto male ancora. Abbiamo lottato vicini insieme, abbiamo per un attimo sognato, ma alla fine siamo crollati e le lacrime non finivano più. Lacrime che non finivano più, per la delusione di non avercela fatta, di non esserci riusciti. Qualche settimana di pausa e poi la riappacificazione, arrivata per sfinimento nel vederci distanti. L’anno seguente era iniziato nel migliore dei modi, ma poi, l’abbandono di una caro amico fece andare a rotolo tutto. Ero arrabbiata, arrabbiata pure con lui che non ne poteva nulla. Orgoglio e voglia di dimostrare che insieme possiamo tutto ci ha portato a terminare quei tre anni con dignità, ma anche con tanto tanto amaro in bocca. Durante quegli anni però non ci siamo sentiti soli mai. Nemmeno ora che ci siamo, purtroppo, dovuti separare dai nostri amici. E’ stata la nostra casa e rimarrà sempre tale: ma visto che io e lui siamo degli amanti del caldo, il 2012 e il 2013 l’abbiamo e lo stiamo passando a correre nella palestra dell’Aeden Santa Giusta. Bè, ve l’ho detto, ci piace viaggiare, con ogni tipo di mezzo: macchina, treno, bicicletta, aereo, ma sempre e comunque uniti. Primo anno difficile, ma ancora una volta, insieme, siamo riusciti a prenderci le nostre piccole soddisfazioni. Ma non eravamo a conoscenza che il meglio doveva ancora arrivare. Come avete capito io e lui siamo una coppia incredibilmente forte. Insieme abbiamo conosciuto persone da ricordare e portare nel cuore, abbiamo vissuto momenti epici, sia positivi


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che negativi. Lui è la mia certezza, l’unica mia sicurezza, l’unica vera forza sempre presente, l’unico sentimento che sono certa non tradirei mai e mai mi tradirebbe. Sì. Sono innamorata, tantissimo, e lo scrivo con il sorriso sulle labbra e il cuore che batte forte. Sono innamorata di lui. Lui, il mio tamburello, il mio compagno di vita. Alice Magnani


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GIORGIA MAINARDI “LA FAVOLA CONTINUA”


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Vi racconto questa storia che non è solo d’amore puro per questo sport unico, io lo chiamo “miracolo”. Non so scrivere e non è neanche mia abitudine provare a farlo, ma appena ho letto di questo concorso non ho potuto fare a meno di emozionarmi solo al pensiero di poter raccontare questa “favola” e che qualcuno lo avrebbe letto anche solo con un pizzico di curiosità. Sono una casalinga di 46 anni, sposata con tre splendidi figli di venti, diciotto e diciassette anni e.. gioco a tamburello! Come ci sono arrivata? Con la mia squadra di amiche, tutte più o meno della stessa età, ci siamo ritrovate dopo circa ventidue anni di nuovo in campo, più appassionate e convinte che mai! Nell’1980/81 circa tutte noi ci siamo trovate per la prima volta nel campo di tamburello del nostro paesino delle Marche, Mombaroccio, avevamo circa 14-15 anni e quasi per scherzo iniziammo ad allenarci prima a muro, ognuna con il suo tamburello e la sua pallina, poi andammo avanti piazzandoci a provare i diversi ruoli, in un certo senso volendo copiare i maschi, che già da tempo avevano la squadra e giocavano in varie zone d’Italia, e allora perché non fare una squadra femminile? Ci appassionammo tutte e iniziammo a fare sul serio, in poco tempo formammo la squadra, vincemmo un incontro e passammo il turno per andare ai “Giochi della gioventù” a Roma! Neanche a farlo apposta siamo arrivate prime! Medaglia d’oro, incredibile, come primo anno niente male! Praticammo questo sport per cinque anni favolosi, con vittorie e non, esperienze uniche in tutta Italia (Asti, Desenzano, Paestum, Bagnacavallo..). Furono viaggi, esperienze, emozioni che non ho mai dimenticato e ho sempre portato nel cuore. Come dicevo, dopo cinque anni di attività, la società sportiva chiuse e finì tutto. Il “miracolo” dov’è? Nel 2007 venni a sapere che da qualche anno si era riformata la squadra maschile del mio paese (anche loro giocavano da ragazzini) e dopo tanti anni ho rivisto una partita di tamburello, non mi sembrava vero (a pochi chilometri dal paese nessuno conosce questo sport!). Nel pubblico rivedo dopo diversi anni un’amica di squadra, dopo i saluti non ho potuto fare a meno di chiederle: <Perché non riproviamo a giocare? Ci prendiamo uno spazio per noi e torniamo ragazzine!>. Ella mi promise che appena avrebbe rivisto le altre avrebbe proposto la cosa, sarebbe piaciuto anche a lei, chissà! Quella notte non dormii solo al pensiero che questo desiderio poteva anche solo sfiorare la realtà e comunque per farla breve, meno di un mese dopo ci siamo ritrovate in campo con tamburello, palline e un entusiasmo alle stelle, dopo ventidue anni non vi sembra una cosa speciale? Il regalo più bello per i miei 40 anni! Abbiamo ripreso il tamburello dal chiodo e questo è il nostro sesto anno consecutivo, e all’inizio nessuno credeva che tra lavoro, famiglia e impegni vari, potevamo continuare, invece siamo qui e in questa “Seconda stagione” siamo riuscite tra le altre cose a partecipare ad un campionato di Serie B (non diciamo la classifica..) e a vincere un “Trofeo Nazionale di Tamburello Femminile C eccellenza” ed a essere per la seconda volta nell’albo d’oro in due diverse fasi della vita, fantastico. Forse qualcuno dirà: <Ma che saggio è?>, boh! Sicuramente niente di ché, avrò fatto una figuraccia ma per il tamburello questo ed altro.. è una vita che non ho il batticuore a scrivere qualcosa. Mi viene da ridere perché non so se avrò il coraggio di dire alle mie amiche cosa mi è venuto in mente di fare, per questo amore di tamburello.. mi mancava solo questo!


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Giorgia Mainardi


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ALDO MARELLO (DETTO “CEROT”) “ALLA PUZZA DELLE MIE SCARPE”


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“Le mie scarpe! …Ancora una volta, come sempre, pronte per l’uso: succede ormai da tanto tempo!... . Certo! Non sono le stesse scarpe di allora, gomma bianca, tela azzurra, “scarpi’ed

ciapa”, unica alternativa a quelle “belle” per la scuola e la domenica, ma un sussulto malandrino mi dice che queste saranno cronologicamente le ultime. Il sudore, il terreno, gli acciottolati, gli asfalti le hanno ormai ridotte a puzzolenti sformate ciabatte, quasi inservibili, non più degne di proseguire una splendida carriera sportiva iniziata per scommessa e continuata per anni ed anni a seguire. E non riesco ad odiare il loro odore nauseabondo, le loro sfilacciature, le loro rughe segnate come un pallido volto scavato dal vaiolo, perché loro hanno di pari passo percorso con me un’ incredibile esistenza, a tratti controversa, partendo da una piazzetta di un borgo come tanti, transitare in altre piazze ed alla fine della corsa calpestare veri sferisteri, segnati dalle gesta di mitici e consacrati atleti e traboccanti di focosi ed esaltati tifosi. Loro, ausilio continuo e necessario, per superare di volta in volta ogni ostacolo e permettermi di sfogare gioie, umori e voglie ancora oggi mai completamente appagate. Un segreto c’è in tutto questo ricordo e, nel mio caso, si chiama da sempre solamente AMORE, con la lettera maiuscola, per una fede senza limiti verso un gioco, per me divertimento totale, chiamato TAMBURELLO, dal nome dell’attrezzo che mi ha permesso di non essere uno dei tanti affezionati ma credo, con orgoglio e non falsa modestia, di praticante estremo per antonomasia. Nessun altro strumento è stato per me importante come quel “coso” rotondo, usato per colpire e rimandare una pallina di gomma, lontano, sempre oltre una linea immaginaria, oltre un traguardo che ha segnato la mia vita sin dalla prima infanzia. Fu mio padre a regalarmi il primo, da gara, per la mia promozione in prima media, consigliandomi di tenerlo sempre con me, come un amico leale, affettuoso e sincero, al quale aggrapparmi nei momenti lieti ed anche quando le sorti e le vicende umane apparivano avverse. Quello, il primo, era di legno, di forma “quasi” sferica, sul quale era stata fissata, con chiodi e martello da ciabattino, una pelle conciata in modo artigianale, ma capace di rispondere alle continue e provocanti battute: le palline d’allora erano piccole e nere, poi cambiarono colore, rosse, poi bianche ed anche gialle, per una miglior resa ed una vista migliore. Ed con l’avvento della plastica anche i tamburelli cambiarono radicalmente, metodicamente industriali e più accessibili anche per le tasche meno abbienti. Ma, nonostante le continue varianti, il mio passatempo preferito non cambiò mai diventando con il trascorrere degli anni la mia vera passione. In inverno, d’estate, in autunno e in primavera: non era importante per me conoscere i rivali, la posta in palio, le scommesse, le gare ufficiali o le sfide del lunedi o martedi di festa, e se il gioco era a “libero” o contro i bastioni: io volevo soltanto giocare, perché avevo capito e scelto, dopo profonde ed attente riflessioni da quale parte stare. Ed è giusto che voi sappiate, e mi rivolgo anche a quelli che ancora oggi non conoscono questa disciplina, che il tamburello può diventare una forma d’ ARTE, come la pittura, la scultura, l’architettura, oppure una musica dolce e suadente, capace di innestare ”refrain” nostrani su antichi ritornelli e trasformarsi, all’improvviso, segnate e repentini

in aggressivi ritmici

spasmi di afro-americano, con pause

cambi di marcia. Stessi ritmi, stessi tempi propri dei rintocchi del


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tamburello, che accomunano uno stile diverso, mai banale dei singoli, alla calma o all’irruenza dell’ approccio sino a diventare la sintesi di personali intrinseche potenzialità come la fantasia, la concentrazione, la precisione, la resistenza alla fatica ed alla sopportazione ma soprattutto l’equilibrio di accettare le vittorie e le sconfitte in modo sereno, se davvero si è fatto di tutto per raggiungere la meta sfuggita di mano, magari, per un colpo vincente negato da un malaugurato scherzo del destino. Come Celentano torno sui miei passi, anzi vado indietro nel tempo e fisso la prima data. 1965: per iniziativa di alcuni “sognatori” prendeva il via tra l’indifferenza generale il I° Torneo del Monferrato, con sei squadre ai nastri di partenza, cosa che mai prima di allora si era vista alle nostre latitudini. Il c’era una volta di tale rinascita fu Giuseppe “Pinot” Ferrero, di Cocconato, falegname almeno sulla carta ma in realtà innamorato pazzo del tamburello, che riuscì a convincere il Dottor Bonasso, uno “svogliato” dentista pensionato di Torino, tennista per diletto, accasato di fatto a Murisengo, a percorrere in automobile le splendide colline circostanti, tra la neve e le nebbie d’inverno, al fine di trovare “partigiani” e volontari tifosi, uniti per portare uno svago, un sano motivo di sfida e divertimento nei paesi durante i caldi pomeriggi estivi domenicali. Una cosa assurda, pensarono in molti e di conseguenza pochi credettero in quel progetto e l’iniziativa non riscosse l’effetto desiderato, anche per la superficialità dei quotidiani che snobbarono l’avvenimento. A quel tempo frequentavo le magistrali alla Fulgor ad Asti, giocavo al calcio ma riuscivo a “fuggire” tutte le domeniche al pomeriggio per dare con gli amici di allora i “quattro colpi al tambass” , unico ricostituente medicinale contro la nostalgia. L’anno successivo, 1966, arrivò per il nostro tamburello l’atteso trionfo e le formazioni salirono a 14. Era iniziato il “boom”. E c’era sin d’allora l’usanza di far giocare prima delle gare ufficiali i giovani, cosidetti “espoirs”, secondo una strozzata definizione francofona. Quasi a forza fui inserito nella formazione del mio paese, e giocai la mia partita migliore, che i più vecchi ancora ricordano, sullo sferisterio di Grazzano Badoglio, impattando con i locali, vincitori di quel primo torneo giovanile. Così, su un campo difficilissimo, iniziò la mia escalation sportiva. L’anno dopo vinsi la serie C con il mio paese, poi la B a Monale. Dopo mille vicissitudini, anche personali ma legate soprattutto all’abolizione dei mitici sferisteri a muro, approdai nel 1969 alla corte di Sandro Vigna, a Castell’Alfero, “patron” di uno dei più blasonati e vittoriosi quintetti di ogni tempo. Iniziò così una incredibile caccia all’uomo e dal lombardo-veneto calarono orde di affamati mercenari, chiamati dalle società nostrane per riempire i tanti vuoti lasciati vacanti da una gestione ed una crescita troppo frettolosa. Passò un solo anno e nel 1970 cucii sul petto quel titolo Italiano che pochi anni prima appariva come un irrealizzabile sogno proibito. Ricordo ancora oggi con grande gioia e profondo rispetto i miei compagni, Uva, rimettitore senza macchia di Varengo, Pentore, poderoso battitore, richiamato a furor di popolo per potenziare il Castell’Alfero, suo paese natio, l’idolo locale Luigi Casalone, terzino di classe e d‘esperienza, Felice Negro, l’estroso Beppe Conrotto: e, “dulcis in fondo”, arrivò Mario Riva, un misto di acume e di intelligenza tattica, già Campione d’Italia nel 1960 con il Fiat di Torino, veronese di Breonio, trabalzato in


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Piemonte, al tempo del primo grande boom economico. E con le vittorie arrivò anche la fama e la certezza che optando per il tamburello, sport da molti considerato minore, avevo di fatto scelto il mio futuro e rinforzato la mia fede, che ora non conosceva più tentennamenti. Era lui, il tamburello, il suo gioco, la sua storia, la sua gente lo scopo primario della mia vita. Il resto, che tralascio per non tediare, è ormai scontata attualità, inserita nei tabellari

sportivi e

correttamente classificata nel mio archivio personale, ormai quasi giunto alla saturazione. Calato con il tempo il mito del giocatore ad ogni costo diventai divulgatore e missionario e per questa mia passione, ormai sclerotizzata, ho iniziato a cercare come un topo da biblioteca cimeli, articoli, fotografie, attrezzi ormai dimenticati, dipinti e quant’altro per fare in modo che nulla della vicenda umana e sportiva del “tambass” andasse perso nell’orrido buio della dimenticanza e dell’oblio. La mia casa diventò un reliquiario di tutto quanto può servire per scrivere la storia, gli avvenimenti e le vicende dei grandi giocatori e dei campioni, ma anche le vicissitudini dei semplici, dei gregari, degli umili portatori d’acqua: di quanti non avranno mai la gioia e la soddisfazione di essere inseriti negli almanacchi, nelle statistiche e nelle squallide e fredde tabelle degli album dei record. Intanto continuo a rigirare le mie scarpe tra le mani in attesa di una ultima doverosa collocazione: loro potrebbero scrivere molto su questa storia, più di un racconto, forse addirittura un poema: in molti hanno dissertato sulla passione della sferistica in genere: poeti, vati, storici e scrittori, ma le mie scarpe ormai consunte saprebbero scrivere soprattutto con il cuore di chi ha vissuto intensamente una strana storia, iniziata per caso sulla piazzetta di un paese di collina, prima di allargare il proprio sguardo ben oltre i segnati e meravigliosi orizzonti, sempre alla ricerca di quell’ultima “intra”, inevitabile suggello di un obiettivo fissato sin dal principio ed alla fine

finalmente raggiunto. Ora la mia vicenda è giunta al termine e questa breve

narrazione è il testamento ufficiale di un amore intenso, che ha permeato l’intero spazio della mia vita, segnata dai colpi secchi di un tamburello che hanno centrato il cuore di molti tifosi ed estimatori, ai quali andrà per sempre la mia profonda ed eterna riconoscenza. Perché l’amore, quello vero, dovrebbe nascere soltanto dalle cose belle ed in loro rimanervi per sempre. Aldo Marello


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GIULIA MARINO “GALLETTO FU QUEL TAMBURELLO…!”


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Sono nata in un piccolo paese della provincia di Salerno (Capaccio), molto caratteristico, meta di turisti provenienti da ogni parte del mondo. Sono cresciuta fra le pietre dei templi antichi, dove giocavo con i miei amichetti e sognavo il futuro, come tutte le bambine della mia età. Ero molto vivace ed irrequieta, non stavo mai ferma e avevo voglia di esprimere la mia vitalità, la voglia di muovermi. Nel piccolo quartiere dove vivevo, c'era una polisportiva, dove si praticava sport in più discipline e i miei genitori mi iscrissero a questa “palestra” che è stata per me non solo motivo di attività fisica, ma anche di aggregazione e socializzazione. Era il 1976, ero poco più che una bambina, quasi alle soglie dell’adolescenza e mi tuffai in quella avventura con tutta la gioia e la foga dei miei verdi anni. Ebbi la fortuna di conoscere il cav. Mario Napoli, una figura importante per noi ragazzi, una personalità da imitare. Capo di tutte le attività sportive, ci studiava per poterci indirizzare secondo le nostre predisposizioni alla scelta della disciplina più consona alla nostra indole. Un giorno mi condusse sul campo e mi consegnò un tamburello. D’estate avevo giocato spesso sulla spiaggia con le mie sorelle e i miei amici a tamburello, ma quella volta fu diverso: mi sentii investita da una responsabilità superiore al semplice gioco, al puro divertimento. Ora dovevo dimostrare la mia abilità, la mia capacità ad impegnarmi nella riuscita della performance. Ho ancora in mente il fascino di quel campo, che pur essendo di calcio, in pochi colpi di tamburello assunse un sapore diverso, quasi magico. Ad ogni tiro, l’eco si trasformava in un suono, ogni azione diventava una danza, un ritmo perfetto… Volteggiavo con un entusiasmo che mi riempiva il cuore. Finalmente avevo trovato la mia dimensione in quello sport, che mi aveva letteralmente rapito! Cominciai a frequentare assiduamente il campo della polisportiva ed in breve tempo mi venne consegnato il mio primo "Tamburello" Harpast, col bordo rosso rubino, la forma rotonda, perfetta: quella figura geometrica racchiudeva tutte le mie aspettative, tutto il mio mondo. E’ sorprendente come qualcosa che ci affascina possa diventare così straordinaria ai nostri occhi. Per me, quel tamburello era un gioiello, un monile prezioso! Divenne il mio compagno fedele, di cui ero orgogliosissima e gelosa. Lo tenevo a fianco a me la notte, e insieme a lui progettavo grandi avvenimenti. Per me era un amico, al quale confidavo i miei sogni e riponevo in lui tutte le mie speranze di vittoria. La mattina non vedevo l'ora di alzarmi, di scorgere il sole dalla finestra, prepararmi i fretta e recarmi a scuola dove già lì dedicavo le mie prime ore del giorno ad allenarmi, per continuare nel pomeriggio insieme alla mia squadra. Furono gli anni più belli della mia vita! Con la mia tenacia e la mia passione ottenni risultati al di sopra delle mie aspettative: era infatti il 1982 quando a Fano (AN) divenni campionessa italiana insieme alle mie compagne. Da allora è stato un excursus di vittorie e riconoscimenti, grazie alle partecipazioni annuali, ai Giochi della Gioventù ed a tornei federali. Il mio impegno è stato anche quello di far conoscere


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questa disciplina sportiva, di divulgarla e farla apprezzare a livello agonistico. Era il 1987. La bambina, intanto, era diventata una giovane donna. Come tutte le ragazze della mia età sognavo l’amore, il “principe azzurro”… E proprio grazie allo sport, conobbi l’uomo, che divenne in seguito mio marito e il padre delle mie due splendide figlie. Ci incontrammo durante un torneo e simpatizzammo subito. Lui proveniva da un'altra regione, la Calabria, e aveva nel cuore la mia stessa passione: il Tamburello. Questa fu una cosa che ci accomunò molto e quando si hanno gli stessi interessi, il passo fra l’amicizia e l’amore è breve. Un giorno, seduti su una panchina a bordo del campo, parlando del più e del meno, ci ritrovammo a scrivere i nostri nomi su un tamburello, disegnando un cuore… Fu allora che decidemmo di unire le nostre vite, in un connubio di affetto, di emozioni e di condivisione di questa bellissima disciplina sportiva. Il tamburello è stato il nostro complice, il nostro trait d’union e, ancora oggi, quando racconto la mia vicenda personale di vita e di sentimenti, rido fra me e me, pensando “Galeotto fu quel

tamburello!...” Dopo il matrimonio, mi trasferii in Calabria, lasciando la polisportiva Libertas Capaccio, ma continuai con mio marito a praticare tamburello nella società sportiva Acli Luigi Bruno e nella Eden Santa Giusta di Oristano. La nostra vita è stata piena di avvenimenti sportivi, ricca di successi (nazionali ed europei) che ci hanno portato in giro dappertutto, e nonostante gli impegni della vita familiare, la crescita delle mie figlie e il mio lavoro, sono ancora qui, dopo 26 anni, con lo stesso orgoglio e la stessa dedizione di sempre, a coltivare questo meraviglioso sport, al quale ho dedicato la mia vita. Giulia Marino


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TANYA MERELLI


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«E tu giocheresti a tamburello? » «Io? No no, non fa per me…» Invece mi sbagliavo. Quello stesso anno presi per la prima volta tra le mani un “cröel”, come lo chiamano da noi, ed oggi, cinque anni dopo, non posso fare a meno di giocare, seguire e parlare quotidianamente di tamburello. A Dossena, nel piccolo paese in cui vivo, il tamburello ha una storia antica; da più di cent’anni esiste lo spiazzo che oggi è un vero e proprio campo da gioco, attorno al quale sono state costruite numerose case, una delle quali è proprio la mia. La Società Dilettantistica Dossenese vanta oltre cinquant’anni di attività in cui si susseguirono parecchi giocatori del paese e non solo, tra i quali mio padre, i miei zii e mio cugino che proprio con il Dossena vinse il titolo italiano per la categoria pulcini e due anni dopo quello per la categoria allievi. Quattro sono in totale i titoli nazionali ottenuti quando il tamburello a Dossena e nei paesi limitrofi attraversava una fase di splendore, attirando ogni domenica una grande partecipazione di tifosi e appassionati su quel terreno che all’epoca non era ancora di colore rosso. Da sempre quindi conosco “òl sok dèl cröel” (il gioco del tamburello) a causa soprattutto della profonda passione per questo sport che coinvolge tutta la mia famiglia chissà da quanti anni, forse in parte dovuta alla grande vicinanza al campo da gioco, che ha spinto un po’ tutti, nonna compresa, a prendere almeno una volta tra le mani un tamburello. Nonostante questa forte influenza familiare, come già accennato, il tamburello non era nei miei interessi e quando a Dossena si iniziò a pensare di affiancare ad una squadra maschile una femminile, alla richiesta di intraprendere una nuova esperienza risposi un “no”, che cambiò dopo qualche mese in un “ni”, per poi diventare un “si” poco convinto. Iniziammo in una decina di ragazze, spinte più dalla curiosità e dalla volontà di stare insieme, che dall’interesse per questo sport, di cui veramente conoscevamo poco al di là della realtà locale. Ai primi allenamenti in palestra seguirono poi quelli all’aperto e nonostante gli scarsi risultati, nel giro di qualche anno si formò una squadra femminile, la prima nella storia dossenese. Anni più tardi ci fu la svolta. La mia concezione del tamburello cambiò a fine agosto del 2010, ai Campionati Italiani Giovanili ad Asti a cui partecipammo passando “di diritto”, senza aver mai disputato una partita di qualificazione, a causa dell’assenza di altre squadre per la categoria Juniores in tutta la provincia di Bergamo. Per la prima volta quindi, ad Asti, ci confrontammo con altre ragazze che si dedicavano al tamburello con passione e dedizione e notai subito la differenza rispetto a me, che non prendevo abbastanza sul serio quest’attività. Un secco 13 a 1 nella prima partita contro il Monale, poi vincitore del titolo, mi chiarì le idee: non rimasi sconvolta dal risultato ma dalle capacità, dall’impegno e dalla voglia di vincere di quelle ragazze, che erano, e tutt’oggi sono, veramente in gamba sia sul campo che fuori, come poi ho


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avuto il piacere di scoprire durante questi anni. In quei tre giorni seguii quante più partite possibili spostandomi sui vari campi dell’astigiano: l’esempio di quei ragazzi e di quelle ragazze che da anni giocavano a tamburello fece crescere in me, incontro dopo incontro, la voglia di migliorare e la convinzione che con la volontà si possono ottenere risultati. Estasiata com’ero dal gioco e dall’ambiente sano e competitivo che avvolgeva ogni partita, mi commossi molto l’ultimo giorno sul campo di Lungo Tanaro, dove si svolsero le finali. Pur non conoscendo i ragazzi in campo, il clima era talmente coinvolgente che finii per fare il tifo fianco a fianco al padre di uno dei giocatori, il quale dopo la vittoria venne ad abbracciarmi pur non conoscendomi. L’inno nazionale, le partite combattute fino all’ultimo quindici seguite poi dalle lacrime di gioia di chi vince e di quelle amare di chi arriva secondo, gli applausi di un pubblico divertito e commosso e la celebre canzone “We are the champions” durante la cerimonia di assegnazione dei titoli italiani: un mix di emozioni che mi rimasero impresse nella mente e che ricordo ancora vive come fossero accadute ieri. Furono quei tre giorni ad Asti ad aprirmi le porte sul mondo del tamburello, che oggi, tre anni dopo, è la mia unica e grande passione che mi spinge ogni sabato e domenica a calcare la terra rossa, come giocatore o spettatore, poco importa. Che sia Piemonte, Lombardia, Trentino o Veneto sono sempre su un campo e difficile ormai è farne a meno; sono tante le squadre che ho seguito e tifato in questi anni e ancor di più le persone che ho avuto il piacere di conoscere, con cui ancora ho un forte legame al di là dalla distanza che ci separa. Tutti siamo accomunati da questo grande amore che è il tamburello e che mai avrei pensato mi avrebbe dato tanto. Ho sentito spesso dire da amici e parenti che “chi inizia a giocare a tamburello non smette più” ed avevano ragione, contrariamente a quanto mi aspettassi all’inizio della mia avventura: adoro sentire la terra rossa sotto i piedi, guardare quella palla che arriva alta da fondocampo e sentire il suono del mio tamburello che impatta la palla. Non ho ottenuto grandi risultati e vincere uno scudetto rimane un sogno lontano da raggiungere, ma è una vittoria ancor più grande ogni domenica avere nuovi stimoli e sempre maggior voglia di continuare a far parte di questo mondo. Tanya Merelli


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SERGIO MIGLIETTA “SUONI LONTANI DAL QUEENSLAND”


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“Tam…tam…tam…”. È questo il suono che dà origine alla parola tamburello? Non lo so, ma devo confessare che, se così fosse, mi farebbe piacere. È un’eco bellissima lontana e struggente. Certe armonie affascinano, rapiscono come il pifferaio magico di Hamelin e portano in luoghi lontani e sconosciuti. Non mi credete? Ora vi voglio raccontare una storia, ascoltatemi con attenzione. Siamo a Vignale Monferrato, in un bel pomeriggio d’inizio estate, ragazzi e ragazze si muovono sul campo di gioco accompagnando il vento con lunghi colpi armoniosi, alternati ad altri, vere folate che tagliano l’aria alla ricerca di punti vincenti. I giocatori sono tutti giovanissimi, è piacevole ascoltare il suono delle loro parole: “ Se mai…”, “Ci sono…”, forme cortesi per segnalare la propria presenza e il desiderio di aiutare il compagno, diverse dall’aggressivo “Mia!” che si sente urlare in altri sport di palla e posizione. Stiamo giocando a tamburello e voci e suoni sembrano venire da un mondo lontano e hanno il potere di ammaliare. Dalla porticina in fondo al campo, quella che dà sulla ripida strada che scende dalla piazza alta, entrano quattro ragazzi, hanno circa vent’anni, sono alti, biondi e abbronzati, il loro aspetto presenta qualcosa di strano, sembrano venire da lontano. Sono stati attirati dalla magia del suono, “Tam…tam…tam…”. « Where are we? », chiedono meravigliati. La domanda, per fortuna non è rivolta a me, ma a Manuela che parla bene l’inglese. « We are playing an old traditional sport, typical of these territories, called “Tamburello” ». Con un sorriso chiedono di poter rimanere per seguire le fasi del gioco e, lentamente, si avvicinano al centro del campo, dove mi trovo ad arbitrare la partita. Sono curiosi e fanno molte domande; non avevano mai visto quel gioco e lo trovano affascinante per l’eleganza dei gesti e la bellezza del luogo. Cerco di rispondere, ma il mio inglese è un’arida terra di sassi e facciamo fatica a comprenderci. Decido allora di sospendere l’allenamento e chiamo tutti vicino a me, tra noi c’è chi parla molto bene la loro lingua ed è ora di fare amicizia. Loro sono Gregory, Michael, Robert e Mary, australiani del Queensland in vacanza da alcuni giorni a Vignale sulle colline del Monferrato. Io sono il “Prof” e i ragazzi che stavano giocando sono miei ex allievi della scuola media di Villanova Monferrato, impegnati in un allenamento su uno sferisterio antico e glorioso. In un attimo il terreno di gioco è tutto un sorriso e un miscuglio di lingue, si va dal dialetto piemontese all’inglese del Queensland, ma ci si capisce benissimo; Babele era una crisi di sentimenti, non di parole.


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Si decide di farli giocare: il signor Bollo spiega i primi rudimenti, distribuisce tamburelli ai nuovi arrivati e lancia palle facili da colpire. Ognuno dei giocatori monferrini adotta un australiano e cerca di consigliarlo nel modo migliore. Presto si vedono i primi risultati, forse i tempi non sono perfetti e lo stile è approssimativo, ma forti e coordinati i nostri amici imparano velocemente. E se si disputasse una partita? Le squadre sono presto fatte. I quattro australiani si sistemano due per parte nel ruolo di terzini e i ragazzi e le ragazze di Villanova completano le formazioni in modo equilibrato. È una vera sfida. I complimenti si sprecano, ma si gioca per vincere. I ragazzi del Queensland ci mettono grande impegno e fanno la loro figura, compiendo strane e acrobatiche evoluzioni che le antiche mura del borgo non avevano mai visto. La partita, molto combattuta, si risolve al trampolino di spareggio. L’ultimo punto, quello decisivo, è realizzato da Gregory, che libera il suo entusiasmo con un urlo e una danza Maori accompagnata dalle risate di tutti. Finito l’incontro, è apparecchiato il tavolo in fondo al campo con un salame, una pagnotta croccante e una bottiglia di Barbera. La partita continua in modo diverso, seduti all’ombra di un secolare castagno con il sapore delle cose buone. Questa volta sono gli australiani a essere i migliori in campo e, in poco tempo, la merenda finisce in gloria con un ultimo brindisi festoso. Giunge il momento dei saluti e succede qualcosa di molto bello. Manuela è la prima a regalare il proprio tamburello, poi il signor Bollo aggiunge il suo e così fanno altri ragazzi. E’ un gesto imprevisto e fa bene al cuore vedere con quale naturalezza sono portati i doni. Cerco di collaborare anch’io e, da uno scatolone posto al limitare del campo, tiro fuori cinque palline nuove di zecca. Non sono regali da poco, l’attrezzatura manca sempre, ma il pensiero che i nostri attrezzi vadano a giocare dall’altra parte del mondo affascina tutti. Qualche tempo è passato ma capita ancora che, durante un allenamento, in certe giornate particolarmente limpide e permeate di magia, si smetta di giocare per qualche minuto e si senta, molto lontano, l’eco di questo suono: “Tam… tam… tam… “ Se poi si chiudono gli occhi, l’unico modo per vedere cose fantastiche, può darsi che appaia un’immagine straordinaria: quattro ragazzi in un’immensa pianura che giocano a tamburello circondati da un pubblico molto particolare, entusiasta e saltellante. Sono i canguri del


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Queensland che incitano con passione, insieme a qualche timido koala, seduto in disparte, che commenta la partita con aria sapiente, come i vecchi delle nostre colline. Tam… tam… tam… Sergio Miglietta


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FABIO MIGLIORATI “COSI’, PER CASO”


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A me piace molto il tamburello, può sembrare un incipit banale, ma non lo è. Mi piace perché non é uno sport di forza, ma di precisione, uno sport raffinato. Da studente universitario di matematica non esiste uno sport più affascinante del tamburello. Uno sport che richiede un'incredibile lucidità, attenzione e voglia di mettersi in gioco. Certo, il tamburello ho sempre saputo cosa fosse, sebbene abbia iniziato a praticarlo solamente 4 anni fa. Ricordo che da piccolino (all'età di 6/7 anni) andavo dalla nonna materna a pranzo sia il sabato che la domenica. Un giorno, sceso in cortile trovai uno strano aggeggio di legno, rotondo ricoperto di pelle. Chiesi allo zio cosa fosse e lui mi spiegò che era il vecchio tamburello del mio bisnonno che, negli anni '30, praticava questo sport. Mi disse, anche, che lui stesso aveva militato in squadre di tamburello di serie A , così, recuperati i tamburelli messi in uno scatolone come ricordo, iniziai a giocare. Era uno sport curioso, uno sport che non si vedeva in televisione, uno che non insegnavano nelle scuole (almeno a Brescia...). Qualche anno dopo nacque la squadra dell'oratorio (u.s.o. San Domenico Savio, Capriano del Colle) e inizió nel 2009 il campionato di serie D; io quell'anno fui un semplice spettatore, ma, verso settembre, partecipai ad un torneo per i soli abitanti di Capriano amanti del tamburello. Così mi chiesero di entrare a far parte della neopromossa squadra. Io accettai. E così mi sono innamorato di questo sport. Ed é iniziata la mia avventura. Quell’anno (2010) vincemmo il campionato italiano di serie C, anche se io ero solo una riserva a causa della mia inesperienza in questo sport. In un anno migliorai molto giocando con persone molto più forti di me. L’anno successivo, in serie B, venne introdotta la regola che almeno uno dei cinque giocatori titolari dovesse avere meno di 25 anni di età e così, anche se non mi sentivo del tutto pronto, venni schierato nel ruolo di terzino. Nello stesso anno mi innamorai di una ragazza del paese, Beatrice, e ci fidanzammo. Non ho scritto ciò per fare del futile gossip ma perché anche lei gioca a tamburello. Quindi immaginate quando guardo la persona che amo, praticare lo sport che amo; è una sensazione indescrivibile… Fino a poco fa non si sapeva se a Capriano del Colle ci sarebbe stata una squadra di serie B nella stagione 2014 e pochi giorni fa, è stato confermato dai dirigenti della società che il Capriano schiererà una formazione nella serie cadetta. Sono entrato in casa con un sorriso a trentadue denti, ma che a trentadue, almeno a sessantaquattro denti. Subito mia mamma disse: “a quanto vedo l’anno prossimo fate la serie B”. Fabio Migliorati


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IRENE MUSSO “PAPA’TAMBURELLO”


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Un giocatore di tamburello è uno sportivo impavido. Non teme la pioggia battente che entra nelle ossa e nelle scarpe trasformando il campo in una saponetta bagnata, il caldo afoso di un ferragosto senza braciole, il vento del nord e il muro dell'ovest che deviano la traiettoria della bianca pallina. Non sfugge davanti ad un quaranta pari o ad una riga spostata. Non indietreggia davanti agli abbaglianti raggi del più incurante sole che sta scomparendo dietro la montagna o all'armata di moscerini del campo di Goito che aspetta un "miaaa" per tentare l'assalto. Eppure ogni giocatore (o pseudo) di tamburello ha un dolorante tallone d'Achille per cui tenta una fasciatura (inefficace per la maggioranza dei casi): lo sguardo tra curioso-divertitoincredulo-scettico-profano di un compagno di università, di un collega, di un nuovo amico alla frase: "Gioco a tamburello". E quello sguardo si traduce in parole: "Tamburello? Che cos'è?". Il giocatore di tamburello sorride, istintivamente, come quando chiedono notizie della tua dolce nonnina acciaccata o quando a Santo Stefano racconti agli amici come hai passato il Natale. È involontario. Chi ama il tamburello si riconosce subito da quel sorriso che sgorga direttamente dal cuore. Il giocatore di tamburello comincia a pensare, a cercare le parole giuste per trasmettere l'essenza di quello sport che non è solo sport. Non c'è una definizione univoca da proporre, iniziano a prendere forma una moltitudine di immagini diverse. Tamburello è entrare nell'autogrill di Cremona e incontare altre tre squadre a metà strada nel viaggio della trasferta domenicale, salutarsi come al bar del paese davanti ad un abbondante piatto di pasta. È il tuo allenatore che nella corsa di riscaldamento si complimenta sinceramente felice per il buon esito di un esame proprio come se avessi appena chiuso il 40 pari della partita. È la doccia con le tue compagne di squadra dopo la prima sconfitta stagionale, quando la rabbia e la delusione per i quindici mancati scema in una risata collettiva nella felicità di essere intimamente amiche. È l'urlo di incitamento gridato a gran voce. È iniziare la giornata sorridendo quando al mattino vedi passare in stazione il miglior terzino del tambumercato. È la cascata di adrenalina che invade la colonna vertebrale quando chiudi in quell'unica frazione di secondo possibile la palla tirata del mezzovolo avversario. Il tamburello è fatto di attimi vissuti. Vissuti per davvero, di quella vita che non è esistere ma essere. Il tamburello è la corsa in campo di tua mamma e tuo fratello ad abbracciare felici la tua squadra appena risultata vincente. Poco importa che tu neanche giocavi, loro non abbracciano la tua vittoria ma la vittoria dello spirito tamburellistico per cui hanno appena finito di tremare. Il tamburello è girarsi e vedere il tuo grande e grosso papà con le lacrime agli occhi, emozionato dagli scambi perfetti di marziani che si stanno contendendo la finale scudetto. Piange davvero, piange perché non c'è altro modo di manifestare lo stupore e il coinvolgimento che si sente in corpo nel vedere un quindici da manuale. Ma non è solo ammirazione sportiva, quella non sarebbe abbastanza. È pura emozione, incontrollabile. Gli occhi dell'amico pagano sono ancora lì, quasi beffardi, che attendono una risposta alla loro domanda. Il giocatore di tamburello vorrebbe trasmettergli quel film mentale di vissuto quotidiano che gli scorre nella mente, vorrebbe fargli sentire il sentimento che gli attraversa le vene, ma non può, non capirebbe. È un affare privato. Chi ama il tamburello lo ama per ogni singolo attimo di vita che questo sport gli dona, lo ama per quello che è, come uno di famiglia. Ecco forse la vera definizione di tamburello: famiglia. Le compagne di squadra che ti affiancano nel comune obiettivo e che ti incitano nella buona come nella cattiva sorte, sempre gli


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stessi volti di appassionati che ti sorridono ad ogni manifestazione, gli anziani del paese che si danno appuntamento con orgoglio al campo per acclamare la squadra del campanile, le cene passate a discutere delle partite e dell'organizzazione. Il tamburello ti fa sentire in famiglia ed è famiglia. È come un genitore, c'è sempre stato, non c'è ricordo di un frammento di vita senza la sua presenza. Si è imparato ad amarlo attimo dopo attimo, emozione dopo emozione, per ogni singolo secondo di gioia e tristezza che ci ha gratuitamente donato. Ed è per quelle emozioni che negli anni si continua a dedicargli attenzioni, quasi a volerlo ringraziare per tutto ciò che gratuitamente trasmette ed insegna. La vita senza un turbine di emozioni non può definirsi vita, è sopravvivenza. E il tamburello è quel turbine vorticante composto da mille sfaccettature. Tutto molto logico. Eppure il nostro giocatore di tamburello non è ancora riuscito a proferir parola, è fermo su quella fatidica domanda. Potrebbe esporre i suoi mille pensieri, potrebbe raccontare l'affetto filiare che prova. Invece con un ultimo sguardo agli occhi del forestiero amico coglie una strana incontestabile verità: è su una lunghezza d'onda diversa, è figlio di un altro padre, non capirà mai la tradizione del tamburello, non è nelle proprie radici. I giocatori di tamburello sono figli del tamburello, un mondo che si può comprendere solo se ne si è parte, rare le adozioni in tarda età. E con un lapidario "È uno sport simile al tennis." abbandona la scena, trascinandosi dietro il suo tallone dolorante. Irene Musso


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GIUSEPPE OLIVIERi “IL TAMBURELLO MI PARLAVA”


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È il 1991 quando, poco più che ventenne, decido di non giocare più a tamburello: una scelta sofferta, ma convinta, dopo qualche anno di militanza in dignitose società. Per 20 anni continuo a “leggere di tamburello” con un po’ di malinconia al circolo del paese e, in vacanza in giro per l’Europa, a misurare a passi piazze e spazi pubblici cercando di ricavare un “80 per 20” sotto lo sguardo perplesso degli amici. Nel 2010 una doppia svolta alla mia vita: sposo una ragazza di Siauliai, sperduta cittadina nel nord della Lituania e faccio pace con il tamburello ricominciando a giocare con la voglia di riassaporare le emozioni dei vent'anni. Le competizioni “a muro” mi portano così a giocare nei centri dei nostri paesini del Monferrato accompagnato da mia moglie che, insieme ai panorami e all’arte della nostra terra Astigiana, scopre anche questo meraviglioso sport. È proprio tornando a Siauliai con mia moglie per una vacanza che porto qualche tamburello e inizio a palleggiare per scherzo con amici lituani. Nel dicembre 2011 conosco Emilio Crosato, il nostro Presidente. È lui, saputo di queste mie trasferte famigliari in Lituania, a dirmi che in luglio, proprio a Siauliai si sarebbero svolte “The 5th TAFISA WORLD SPORT for All Games” ossia le “V° Olimpiadi dei Giochi Tradizionali”. Al momento registro la cosa come nota di cronaca senza rendermi conto di quanto mi stava per succedere. Gli eventi che seguirono mi travolsero. Qualche mese dopo, con il Presidente Crosato, la FIPT, la fondamentale collaborazione di mia moglie e sopratutto entusiasmo e incoscienza da vendere organizzai la trasferta del tamburello italiano a Siauliai e, cosa ancora più incredibile, partecipai a questo appuntamento internazionale con la Nazionale Italiana di Tamburello indossando una maglia ufficiale, quella azzurra! Che Siauliai fosse considerata in Lituania una città “benedetta” lo sapevo, ma che proprio a me toccasse lì, nella città di mia moglie, spiegare al mondo (sì, al mondo!) cosa fosse e come si giocasse questo sport, nell’anno in cui avevo ripreso a giocare, mi fece pensare che… “il tamburello mi parlava!”. Come al solito mi misi a misurare a passi piazze e spazi pubblici di Siauliai per ricavarne un “80 per 20”, ma questa volta con uno scopo preciso. Poi iniziarono le esibizioni di gioco, i meeting, le interviste e un frenetico lavoro di propaganda del nostro sport… fu così che finii in quella grande sala. Una sala che non dimenticherò più: gremita di personalità politiche e sportive provenienti da ogni parte del globo. Toccava a me presentare il tamburello: indossavo la divisa Olimpica, quella di Pechino 2008 e per quelle persone che, con le cuffie della traduzione simultanea ben calcate in capo, stavano per ascoltarmi rappresentavo certo il Tamburello, la Federazione, il Coni, ma soprattutto l'Italia. Le gambe mi tremavano, sentivo una responsabilità


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fortissima, non dovevo sbagliare, occorreva essere all’altezza della situazione, senza se e senza ma. Su quel palco ci sono salito e ho gridato con passione quanto bello è il nostro sport e quanto è sport il nostro tamburello, prendendo tutta l'energia che avevo da quei venti anni di silenzio! Improvviso e inaspettato si levò un applauso, forte, vivo, convinto… con l’intera delegazione giapponese a complimentarsi in piedi: il tamburello era nel mondo e “PARLAVA” forte e chiaro. Ma il tamburello aveva parlato anche a me, dopo 20 anni avevo di nuovo sentito la sua voce, che non era solo il “toc - toc” della domenica, ma era una voce carica di ricordi, di emozioni sempre nuove e inaspettate. Il tamburello non aveva ancora finito “il suo discorso”: quella “benedizione di Siauliai” me la portai dietro fino a settembre, quando inaspettatamente arrivò una chiamata che mi gelò il sangue. Fui convocato al primo mondiale ufficiale di tamburello che si sarebbe svolto a Gignac, Francia. Dovevo essere l'ultima delle riserve, il decimo o forse l'undicesimo… insomma facevo numero, ma ero autorizzato a indossare nuovamente e questa volta in una competizione (e che competizione!) la maglia azzurra. Anche in questa occasione arrivò inesorabile un momento della verità: immobile sul campo a fianco dei miei compagni, qualche secondo e poi l'inno partì… ma le note dell’inno non mi impedirono di sentire di nuovo quella voce, la voce del tamburello! Avrei voluto piangere così forte che solo il canto a squarciagola mi permise di evitare lo sfogo di questa indescrivibile emozione. La storia a qualcuno è nota, per cause di forza maggiore, e non certo per capacità tecniche, non fui l'undicesimo giocatore, ma il settimo. Giocai così qualche partita minore accanto ai campioni, quelli veri, che si dimostrarono campioni non solo di sport ma anche di umanità, facendomi sentire uno di loro. Ho sofferto per non aver avuto le capacità tecniche per aiutare i miei compagni, in una finale con la Francia della quale ricordo con uguale intensità l’amaro della sconfitta e l’orgoglio di esserci stato. Capii quanto si soffre in queste occasioni e come nascono quelle crisi di pianto e di sconforto dei più forti atleti del mondo che si vedono in televisione. “Il tamburello mi parlava.”

“Spero di averti accontentato: nonostante tu mi abbia abbandonato per qualche anno, ti ho offerto un’Olimpiade a fianco della persona che ami e un mondiale che, per onestà tecnica, non ho potuto farti vincere. Mi auguro che potremo stare fianco a fianco ancora per molto tempo. A presto”.


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Tuo Tamburello. Giuseppe Olivieri


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MONICA PERAZZOLO “IN VIAGGIO CON IL TAMBURELLO


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Nello scorrere incessante della routine frenetica nella quale si vive oggi giorno, si rischia di essere sopraffatti dai mille impegni, obblighi, doveri tralasciano quelle che sono le cose più importanti. Ho sentito il bisogno di fermarmi per un attimo, di prendermi uno spazio tutto mio, ma per capire quello di cui avevo bisogno sono ritornata indietro nella memoria per ricordare i giorni gioiosi,le esperienze che mi hanno reso più forte e che hanno influenzato le mie scelte. Dopo tanti anni ho capito che dovevo ricominciare a giocare a palla tamburello; uno sport che mi ha dato tanto e a cui devo tanto. Dopo una vana ricerca nel sito della Fipt per cercare una polisportiva a Bologna, mentre sto chiudendo la pagina web sconsolata, leggo un bando riguardante un saggio breve sul tamburello, subito mi si accende una lampadina. Contatto subito il mio professore delle medie che mi ha insegnato tanto di questo sport e che mi ha fornito la possibilità di partecipare alle manifestazioni più importanti e dopo una chiacchierata e come se fossi tornata indietro con una macchina del tempo ed entrata nella sua mente capisco quello che voleva trasmettermi e quello che dovrò diventare quando diventerò, spero, insegnante di Educazione Fisica. Osservavo che i ragazzini in prima media erano sempre meno pronti nell’usare il braccio per lanciare, battere, prendere o colpire un oggetto (palla, palline, attrezzi vari)… Ormai passavano sempre meno tempo all’aperto, a fare le cose che abbiamo sempre fatto: correre nei prati, saltare i fossi, arrampicare sugli alberi, fare rimbalzare i sassi sull’acqua, battere la lipa il più lontano possibile. Sono le immagini di un lungo film girato fra palestre e campetti, fra grida di gioia, fiatoni di fatica e sudore, negli anni trascorsi nelle scuole elementari e alle medie i miei periodici test di valutazione mi davano la certezza che i movimenti che prima facevo svolgere normalmente in 3°elementare, non si potevano più proporre neanche in prima media, cioè molto tempo dopo di quanto mi aspettassi e non sapevo come fare.

“Avevo 11 non sapevo cosa volesse dire stare davanti ai videogiochi, il mio tempo libero lo passavo giocando con il cane, pattinando o andando in bicicletta. Due volte a settimana andavo agli allenamenti di pallavolo ma, iniziavano a starmi stretti, sentivo l’esigenza di trovare un qualcosa che mi desse l’opportunità di esprimermi appieno; di lì a poco avrei iniziato la prima media, di sicuro non sarebbero mancate novità e opportunità.” Sentivo il bisogno di inventare nuovi mezzi per sviluppare questo aspetto specifico nel programma triennale di educazione fisica. Un giorno passando al solito supermercato, nel reparto giocattoli, vidi delle racchette da tennis da quattro soldi, ne presi una ventina ed insieme al bidello della scuola tagliammo i manici e limata l’impugnatura il gioco era fatto: ora la mano aperta dei ragazzi poteva essere a pieno contatto con il telaio della racchetta! Gli esercizi che facevo fare prevedevano cambiamenti nel


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setting sia in termini di superfici che in termini spazi, passando dall’individuale alla coppia fino al piccolo e al grande gruppo. Lavoravo sull’orientamento spazio temporale e sulla differenziazione cinestesica utilizzando palline di materiali e peso differenti. Giornalmente percepivo e rilevavo i miglioramenti, si riuscivano a muovere nel campo, con obiettivi sempre più precisi e con una maestria motoria che di lì a presto li avrebbe condotti verso l’apprendimento di un automatismo. Tutto questo sotto forma di gioco, nelle sfide a ping-pong a terra, tennis al volo, go-back non mancava mai il divertimento. A scuola mi arrivò il programma di proposte del Provveditorato per l’aggiornamento annuale: “il tamburello?” L’unica associazione che mi veniva in mente era in ambito musicale, ma ci andai comunque, il corso era vicino alla mia scuola e mi tornava comodo non dover fare tanta strada. Eravamo una ventina di professori a presenziare, scoprii che il tamburello era uno sport italiano; iniziarono dalla sua storia sociale e sportiva, per poi passare all’evoluzione dell’attrezzo e infine alla pratica. Mi misi in gioco come i miei ragazzini per provare i movimenti e i gesti di uno sport che sarebbe stato ancora per poco sconosciuto ai miei orizzonti sportivi di ex atleta e di professore di educazione fisica. Tornai a scuola deciso: “ Preside, in maggio partiamo per Rimini io e il bidello e venti ragazzi/e di 2°media, mi manda l’adesione alla manifestazione? È organizzata dalla Fipt e dal MIUR, abbiamo tre mesi di tempo, preparo gli studenti delle classi 2° così l’esperienza rimane viva dentro la scuola anche per il prossimo anno”. La Federazione come promesso regalò il Kit, ma partii per il lago di Garda, fino al paese dove si trova la fabbrica e tornai con la macchina piena di tamburelli e palline. A scuola, nei pomeriggi di avviamento alla pratica sportiva, i ragazzi sembravano ipnotizzati dal suono secco della pallina sul tamburello, affascinati dai colpi al volo, dalle difese acrobatiche, la pallina viaggiava velocissima e nella piccola palestra scolastica sembrava di essere dentro ad un flipper enorme. Quell’estate mi trovavo in vacanza nel dintorni del lago di Garda, ma non persi occasione di assistere a vere partite di palla tamburello; in mezzo alla gente, ascoltavo i loro commenti, le loro osservazioni, percepivo con loro l’atmosfera della partita e catturavo tutti i particolari che attiravano la mia attenzione, per ore e giorni interi. Poi sempre più convinto partii in aereo per la Sardegna, io ed un gruppo di professori provenienti da tutta Italia eravamo stati chiamati a raccolta per elaborare un grande progetto per tutte le scuole del nostro Paese; sarebbe stato un successo straordinario perché ai ragazzi piaceva davvero la palla tamburello. A settembre, con il nuovo anno scolastico, i ragazzi/e ritornano a scuola nei pomeriggi sportivi


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per giocare e imparare questo nuovo gioco, ed i genitori organizzavano i turni e facevano la spola tra la casa e la palestra, si fermavano a spiare dietro le porte, volevano capire cosa attraeva i loro ragazzi, il perché di tanto entusiasmo. Un prof d’italiano mi fece leggere un tema: “ Un’altra esperienza che mi ha fatto capire tante cose è stata quella di palla

tamburello…Sinceramente, in prima e in seconda media non mi interessava molto questo sport; ma adesso…dopo aver visto come si svolgono queste gare comincia ad interessarmi…. Nonostante questo però non so se potrò essere utile alla squadra, perché io pratico uno sport individuale, dove se sbaglio, ci rimetto solo io, invece nella palla tamburello, se dovessi sbagliare, ci rimetterebbero tutti i componenti della squadra e per questo ci starei molto male: forse questo potrà essere un motivo che potrebbe impedirmi di dare il meglio di me, per le mie compagne e sopratutto per me. Un altro mio grosso problema è che quando devo fare una cosa, sono sempre in ansia, un po’ troppo, sia a scuola, prima di verifiche e interrogazioni, che prima di gare di ginnastica ritmica, o anche prima di qualsiasi cosa, sono sempre agitata, e questa può far sì che io possa sbagliare e se dovesse succedere starei ancora più male, perché non sarei riuscita a dare il massimo di quello che potevo dare. Spero, col tempo di riuscire a tranquillizzarmi e a stare più calma, prima di ogni piccola cosa che devo fare e spero che la palla tamburello mi possa aiutare a cambiare, come mi ha aiutato fino ad ora.”….. Iniziai ad applicare concetti psicomotori negli esercizi individuali, sviluppare logiche situazionali di gruppo, li allenavo ad utilizzare la rappresentazione mentale per fare scelte sempre più rapide, affinché diventassero automatiche, in questo modo il loro bagaglio motorio si ampliava e riuscivano sempre a trovare la soluzione vincente, era si più impegnativo, ma loro si divertivano sempre di più! Li seguii singolarmente passo passo, ogni giorno, sudavano, giocavano ma soprattutto si divertivano… vinsero la Finale Nazionale maschile dei Giochi Sportivi Studenteschi. In paese non si parlava d’altro eravamo Campioni d’Italia. La nuova preside ci aspettava con una grande festa a scuola. In piazza sul palco erano presenti tutte le autorità locali e sportive di Padova, la banda suonava l’inno di Mameli e i ragazzi erano impietriti sull’attenti con la loro medaglia d’oro al collo. A scuola le nuove iscrizioni arrivarono a 150 sull’invidia di chi non ci credeva e nell’entusiasmo dei ragazzi, nasce così la società sportiva di tamburello, anche se all’inizio non fu facile per nessuno...e infatti, il solito prof d’italiano, mi fece leggere un altro tema:


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“Verso la metà della seconda media avevamo cominciato a fare degli allenamenti pomeridiani, ragazze e ragazzi divisi. Attraverso questi allenamenti scoprii di essere portata per questo gioco, più bello della pallavolo ormai abbandonata da 4 anni. Verso fine anno ci furono le partite: amichevole, provinciale, regionale e nazionale… mio padre, avendo saputo che per andare alle nazionali si doveva rimanere in Toscana cinque giorni, mi obbligò a non andarci. Fui disperata, perché ci tenevo a tamburello più di qualsiasi altra cosa. Mi sentivo come se il mondo mi crollasse addosso. Capisco che non sia facile lasciare andare via la propria figlia più giorni, ma non è giusto privarla della propria passione, dopo essersi impegnata il più possibile… E’ come buttare nel cestino una cosa a cui tieni molto, che vorresti riprendere, ma che qualcuno cerca di allontanare . Tra i banchi di scuola a Solesino, c’è una nuova competenza: la palla tamburello. Le manifestazioni si susseguivano incessanti un Direttore Didattico di Varese chiamò la Preside perché voleva con sé per un mese il suo prof. di ginnastica per insegnare tamburello nelle scuole elementari del suo distretto: le maestre di quella zona l’avevano sentito ad un corso d’aggiornamento. Ma ci aspettava la finale nazionale a Cagliari! Il livello del gioco si era alzato di molto, ai genitori avevo richiesto ferie e sudore, serietà e rispetto e 89 allenamenti. Le ragazze all’ultima partita d’allenamento contro i ragazzi vinsero 2 a 0: erano mentalmente più forti! In una delle tante feste e premiazioni per le campionesse d’Italia, la serata fu aperta con il contributo ad un promettente calciatore che aveva appena esordito in serie A ed era stato convocato in Nazionale, lo speaker lo presentò in una suggestiva cornice scenografica al suono della canzone “Uno su 1.000 c’è la fa” fra i tanti applausi, alla presenza di tutte le autorità sportive, istituzionali e politiche con vari onorevoli. Più tardi, uscito il futuro campione e finita la musica “ Ecco a voi, la squadra vincitrice della medaglia d’oro di palla tamburello ai Giochi Sportivi Studenteschi di Cagliari”; dopo gli applausi lo speaker mi passò il microfono per spiegare cos’è questo sport ed io: “ecco, io sono semplicemente uno di tanti prof. che tutti i giorni cerca di coinvolgere nella palla tamburello gli altri 999 ragazzi…”

“Iniziai la mia nuova avventura e uno dei primi giorni ci portarono in palestra per la presentazione della squadra femminile della scuola, vincitrice della finale nazionale di palla


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tamburello. -Palla tamburello?- La curiosità mi assalì, le 8 ragazze indossavano una bellissima tuta rossa e al collo portavano una medaglia. -Vorrei essere una di loro- pensai subito. erano tutte sorridenti e i loro occhi luccicavano, si potevano intravedere le emozioni e gioie che avevano provato, e come in un puzzle si riusciva a ricostruire l’esperienza che avevano vissuto. Sicuramente il loro doveva essere stato un percorso in salita che aveva richiesto fatica e sacrificio, ma sicuramente ne era valsa la pena. Tutti i pomeriggi andavo nella palestra della scuola ad allenarmi (coordinazione, destrezza, capacità aerobica, forza, gioco), ebbene si, ero entrata anch’io nel fantastico mondo della palla tamburello. Dopo un anno di allenamenti fui convocata e cominciai a partecipare alle partite. In corriera, le nuove canzoni sparate a palla nelle orecchie e accanto le tue amiche del cuore con le quali hai condiviso gioie e fatiche, cosa avrei potuto volere di più?. La destinazione era Lignano Sabbiadoro per i Giochi Sportivi Studenteschi 2002, finalmente le tante ore di lavoro avrebbero dato i loro frutti; avevo l’opportunità di confrontarmi con altre squadre, ed ancora una volta essere parte del mio gruppo. Questo accadde per ben due anni consecutivi nel 2002 ad Aulla e 2003 a Latina ci classificammo rispettivamente seconde e terze alle finali nazionali; ma al di là dei risultati ottenuti, c’è qualcosa che resta indelebile e sono i momenti che costruiscono questo ricordo. Sarebbe troppo lungo raccontare tutto, troppi dettagli sono fervidi nella mia mente ma voglio condividere ciò che mi ha formata e ciò che ha fatto di me quello che sono ora: una laureata in scienze motorie che lavora con i bambini per cercare di tirare fuori il meglio di loro non solo dal punto di vista motorio, ma soprattutto umano. Umiltà, rispetto dell’altro, condivisione, fatica, sacrificio, impegno, capacità di organizzazione, gioia nello sforzo sono parole con un comune denominatore: PALLA TAMBURELLO. Devo ringraziare il nostro allenatore, il nostro professore, il nostro esempio; se ho iniziato a giocare a questo sport il merito è suo, ha saputo trasmettermi la passione, la grinta,la costanza e la voglia di non arrendersi mai.” Anni prima in un paese della bassa veneziana, dove non c’erano attività sportive senza mai aver fatto un vero corso specifico di allenatore, ho iniziato e coinvolto ragazzi e genitori con la pallavolo a scuola. Dieci finali nazionali, l’interesse tecnico e sportivo professionistico, un titolo di campione d’Italia ed 14 milioni in borse di studio alle ragazze: una storia di emozioni, scritta e raccontata sulle pagine dei giornali locali e nazionali, sulle riviste sportive, una storia scritta nei cuori della gente. Un’esperienza che mi ha formato come persona, insegnante e tecnico


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professionista. Un’ esperienza di studio ed organizzazione che non sapevo mi sarebbe servita, anni dopo… Con la palla tamburello ho ritrovato l’essenza del gioco vero e popolare, l’elegante bellezza nella sua semplicità e potenza gestuale, il totale coinvolgimento emotivo dei ragazzi/e affascinati e insaziabili nelle ore e giornate passate a giocare in palestra, in campetti improvvisati negli spazi liberi del loro paese, un nuovo modo di cercarsi fra di loro per continuare a giocare ed il suono dei colpi secchi del tamburello a rimbalzare fra le case del paese (con il più alto sviluppo artigianale d’Italia…). Un viaggio dentro un mondo di cultura, valori umani e sportivi che non immaginavo potessero ancora esistere nella nostra società: uno sport vero, che ogni scuola dovrebbe far conoscere ai propri studenti, e non potranno che innamorarsi per sempre di questo nostro sport italiano: il Tamburello!

Monica Perazzolo


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BEATRICE PERONI “IL COLORE DELLA POLVERE


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Ci sono persone che nascono con il tamburello nel sangue; per queste esso è la tradizione della propria terra, è ciò che respirano nell’aria ogni giorno. Per altri invece non è così. E’ un amore che nasce pian piano nel tempo. Così è stato per me. Mi è stata lanciata una sfida ed io non mi sono certo tirata indietro. Mi è stato detto di provare a giocare e mi sono buttata. Mi sono innamorata di questo sport giorno per giorno, rendendomi conto che non potevo farne più a meno. Qualche anno fa, infatti, non esisteva ancora una squadra femminile a Capriano. Da poco il tamburello era rinato e l’oratorio aveva deciso di impegnarsi nel settore giovanile. I primi regionali indoor sono stati dopo solo un mese dalla prima volta che vidi un tamburello. Pare inutile dire che fu un vero e proprio disastro. In realtà la squadra, sebbene molto cambiata nel tempo, non ha mai conseguito successi importanti, forse per la scarsa capacità delle giocatrici o della poca volontà. Quest’anno siamo state iscritte per la prima volta al campionato di serie B. La parola “massacro” non riesce neanche lontanamente a rendere l’idea di quanto disastroso sia stato. Non avremo vinto nessuna partita, né dato il meglio di noi ma non posso non ammettere che questa sia stata un’esperienza davvero meravigliosa. La competizione è qualcosa che ti unisce alla squadra, che sa forgiare il carattere, che permette di renderti conto di cosa davvero puoi raggiungere se ci metti tutto l’impegno e dando tutta te stessa. La scelta più semplice – nel tamburello come nella vita – credo sia quella di mollare, di lasciar correre, di fregarsene di tutto e di tutti: l’ho fatto, ed ho sbagliato. Ho pensato di poter lasciare il tamburello perché mi sembrava di non essere all’altezza; ho creduto che lasciare la squadra fosse la scelta migliore perché non arrivavano risultati concreti. Eppure dopo tutte le sconfitte, dopo tutti i rimproveri, dopo tutti i litigi ho deciso di continuare perché se questo non è un dono allora cosa? Questa voglia che mi ha portato a continuare ad allenarmi, che forse vale più del talento innato posseduto da alcuni, è la stessa che mi ha portato a giocare nella squadra nazionale under diciotto la scorsa estate. La convocazione è arrivata inaspettatamente e prima che potessi realizzare la situazione, mi sono trovata in ritiro per tre giorni con la squadra. Sapevo benissimo che avrei trovato delle compagne molto più forti di me; del resto conoscevo alcune di loro e più di una volta erano state mie avversarie. Ho deciso di provarci e di prenderla come una sfida e lì, su quel campo, ho compreso che avrei imparato più di tamburello in quei giorni che in tutta la mia vita, perché lì l’ho respirato e l’ho vissuto. Ho visto tante giocatrici indossare la mia stessa divisa ma ben poche hanno iniziato con me e tuttora lo fanno. Ho visto delle ragazze che pur di giocare viaggiano per chilometri e chilometri, ed altre che malgrado la loro difficile situazione familiare continuano a ripresentarsi sul campo, allenamento dopo allenamento. Ho visto tante ragazze della mia stessa età battersi alla pari contro donne più grandi e con molta più esperienza. Ho visto il fuoco che brucia nei loro occhi ad ogni singola pallina che colpiscono, e l’ho sentito anch’io qualche volta sulla mia pelle. Ho


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sentito il formicolio delle gambe quando l’inverno impedisce di giocare spesso, lo stesso che provo ora mentre scrivo, e quell’intenso bisogno di sfogarsi che solo il campo rosso può soddisfare. La passione si coltiva negli anni. Qualcuno un giorno pianta un semino dentro di te, un piccolo germe di vita che diventa passione pura. Chi se ne prende cura deve far si che essa non appassisca, ed è mettendo passione in tutto ciò che si fa che si può continuare anche nelle difficoltà, superando i propri limiti di tempo, di energia, di volontà. Forse il tamburello non è un gioco come tutti gli altri. Mi piace pensare che sia uno sport per pochi, nel senso che quando qualcuno ti chiede che sport fai, tu sai certamente che questo rimarrà stupito dalla tua risposta. È bello sapere che ci sono delle società come la mia dove nessuno prende un euro per tutto il lavoro che fa, cosa che in altri sport non è neanche lontanamente immaginabile. Sono circa cinque anni che mi sono avvicinata a questa realtà ed ogni giorno mi entusiasma ricordarmi della fortuna che ho avuto. A volte mi stupisco e sorrido al pensiero che quella polvere rossa con la quale mi mescolo insieme a tante altre persone, sia diventata per me così importante in così poco tempo, e sono orgogliosa di conoscere questo sport, di praticarlo e di portare avanti una tradizione importante per il nostro paese. Questo è il racconto di come la mia vita sia stata cambiata profondamente da uno sport che è entrato come una baraonda e ha sconvolto la mia personalità e il mio carattere; di come questo mi abbia fortificato, mi abbia legato a delle persone meravigliose sparse in giro per l’Italia e a tante persone che mi erano già molto vicine ma delle quali ignoravo il vero valore. Beatrice Peroni


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MATTEO PORRICOLO


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Una delle persone che nel corso della mia vita più ha contribuito a farmi conoscere e amare quel magnifico sport che è il tamburello è stato mio nonno, Bruno Porricolo. Ex carabiniere, agricoltore nell’ultima parte della sua vita, egli fu -a detta di chi l’ha conosciutouna persona buona, simpatica, un briciolo eccentrica: una di quelle che fa piacere incontrare. Mio nonno fu da sempre appassionato di tamburello e ne divenne un fanatico nei gloriosi anni ’70 -decennio d’oro per le squadre astigiane-, proprio quando il suo paese, cavalcando l’entusiasmo del periodo, fondò una squadra, che riuscì, come massimo obiettivo raggiunto, a militare in serie B. Pochi si ricorderanno del “Montemarzo” (che oggi, per di più, è il mio paese), anche perché nel giro di pochi anni quel sogno finì. I giovani si allontanarono dal mondo del tamburello e così la popolazione, la stessa gente che fino a pochi anni prima accalcava i lati del campo del paese. Di lì non mancò molto che la squadra si sciogliesse e, come triste epilogo, il campo venisse abbandonato, al punto da divenire una piantagione di pioppi, quale purtroppo è tuttora. Ma la passione in mio nonno non svanì: finita quell’avventura, continuò a seguire il suo amato tamburello nel vicino paese di Azzano, dove si continuava a giocare (e si continua tutt’oggi). Ne divenne, mi raccontano, un tifoso sfegatato. Insistette perché potesse essere nelle gare ufficiali il segnalinee di parte a coadiuvare l’arbitro. E, talvolta, di parte era davvero: accadeva che desse, con un pizzico di malizia, palle buone laddove erano falli… ed era un attimo che volassero parole grosse con gli avversari. Egli era, però, uno di quelli che dalle nostre parti si chiamano “cani da pagliaio”, che tanto abbaiano, ma che in realtà non farebbero male ad una mosca. Da quel momento non si perse più una partita, col bello e col cattivo tempo, in casa come in trasferta. Raggiungeva Azzano con la sua mitica Vespa e di lì, in caso di trasferta, veniva caricato in macchina con giocatori e tifosi, alla volta del paese ospite. Entrava nel campo con il suo stile inconfondibile, in canottiera e camicia in spalla: un suo marchio di fabbrica. Le bizzarre storie su di lui sono innumerevoli, ma non ebbi la fortuna di vivere in prima persona tutte quelle vicende, al fianco suo, siccome smise di seguire il tamburello quando io ero ancora in tenera età; così ho dovuto accontentarmi sempre dei racconti degli altri. Capita, infatti, ancora adesso che, girando nei paesi dei dintorni, quando presentandomi dico il mio cognome, le persone anziane subito mi chiedono se sono il nipote di quel Porricolo e di lì mi intrattengono riportandomi vicende divertenti della sua vita. Alcune quasi imbarazzanti. Ci fu, però, un episodio della mia infanzia, quando avevo all’incirca dieci anni, che mi legò a lui


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e al gioco del tamburello in modo indelebile per il resto della mia vita. Ricordo che un pomeriggio mi portò nella soffitta della sua casa di campagna dove viveva. In un angolo polveroso e nella penombra, accatastati assieme a mille inclassificabili cianfrusaglie, giacevano quattro vecchissimi tamburelli in pelle, che gli erano appartenuti. Tramite un paio di viti in ferro arrugginite, le vecchie maniglie, d’un cuoio consunto, erano fissate ai vetusti cerchioni in legno, che presentavano gli evidenti segni dell’intaccatura dei tarli. La pelle era oramai d’un giallo antico, floscia e logorata dagli anni. Mi colpì il fatto che il suo spessore si facesse più sottile nel centro, a causa dell’usura, laddove quasi sembrava un vecchio foglio di carta. Recavano sul retro della pelle le scritte “Campedelli” e “Gavassa”, come scoprii dopo, i nomi dei produttori d’un tempo. Con la pazienza che è tipica delle persone anziane, mi spiegò, allora, i segreti della loro fabbricazione: come si curvasse il legno del cerchione, come su quest’ultimo si tendesse la pelle d’asino o di cavallo. Mi raccontò che già allora questi tamburelli rappresentassero oggetti molto preziosi, la cui rottura costituiva una vera tragedia per il loro possessore. Quel giorno così me ne fece dono, riempiendo di gioia il bambino quale ero; ma mi pregò di non utilizzarli mai, vista la loro debolezza e preziosità. Quei magnifici tamburelli li possiedo ancora gelosamente, come il suo ricordo più caro. Mio nonno se n’è andato nel 2003, quando io purtroppo ero ancora lontano dal mondo del tamburello. Non mi ha mai visto giocare: iniziai a “dare i primi scambi” di lì a poco, negli anni successivi. Quel che è certo è che oggi, se fosse ancora qui, sarebbe orgoglioso di vedermi vestire la lunga divisa bianca, di arbitro federale. Matteo Porricolo


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ILARIA RATTO “I MIEI 7300 GIORNI DI… TAMBURELLO”


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Nascere a Ovada significa avere il tamburello nel sangue, significa passare i pomeriggi in quel che resta dello sferisterio, e a volte sentire ancora le voci di 4000 persone che riempivano gli spalti negli anni ‘70. Significa ricordarsi o sentir raccontare di “Mara” al Bar della Croce verde, di Tretter portato in spalla per Ovada dopo una storica vittoria e dello scudetto dell’Ovada nel 1979. Io a Ovada sono nata, cresciuta e ancora ci vivo, a nove anni ho iniziato a giocare a tamburello e da allora sono passati 20 anni e non solo mi sono innamorata di questo sport, ho imparato a amarlo sempre più, l’ ho fatto attraverso gli scudetti del Castelferro, con il mio idolo capitan Giuseppe Bonanate, poi a Tagliolo M.to alla Coppa

Italia, a Cremolino, a Carpeneto, ogni

domenica sugli spalti, come a casa mia, in un mondo di persone che sono oltre che compagni, amici, perché il nostro sport è anche questo; essere avversari in campo e amici fuori, e poi dopo lo scontro inizia il terzo tempo del tamburello quello con il panino, la torta e un bicchiere di vino. Si inizia con le giovanili, si cresce insieme girando tutta Italia da nord a sud tra open e indoor, e ogni volta torni a casa con un amico in più, guardi i più forti e inizi a sognare di diventare come loro, e allora i pomeriggi li passi a giocare, lasci stare i compiti e corri al campo, giochi e giochi ancora e i colpi diventano 9-10-20, diventi bravo. Le sere d’estate le passi al “Torneo dei castelli”, e senti le rivalità tra paesi vicini, i commenti dei giovani, i racconti degli anziani. Poi scopri famiglie come la mia dove mia mamma vedeva il tamburello da bambina in piazza a Casale m. to e papà giocava vicino a casa a Ovada, con il tamburello in pelle d’asino, e un amico, ed essendo scarsi si soprannominavano “bidone e cisterna”, e lì capisci che la passione non ha limite, capisci perché quando a 10 anni ho intasato lo scarico del tetto di casa con una pallina, giocando contro il muro e mio papà silenziosamente è andato a cercare di risolvere il danno, quando oltrepassando casa con un palleggio troppo alto ho fatto spaventare una signora che passava per strada, per non parlare dei colpi finiti nella corda per distendere la biancheria o nelle persiane chiuse di corsa per salvare i vetri. Ho imparato cosi a giocare a tamburello, sono diventata campionessa d’ Italia, ho giocato la Coppa Europa e ho realizzato il mio sogno più grande, far parte dei convocati in nazionale per Italia – Francia, non sono un campione sono una ragazza normale, sono la bambina di 9 anni che andava a Cremolino alla Coppa Italia e guardava i campioni di serie A che giocavano, sono diventata ragazzina poi donna, e ho visto quei signori lasciar spazio ai giovani e in alcuni casi essere campioni ancora ora, ho passato 20 anni sui campi, ho visto passare tante persone, molte non ci sono più, ho visto ogni cosa in modo diverso, perché la vita e lo sport fanno crescere, ho trovato amici sinceri che magari a 300 km di distanza se non addirittura a 1000 hanno saputo dare un ulteriore senso, e un’ ulteriore profondità all’ amore infinito che ho per questo sport.


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Ci sono stati momenti brutti, momenti in cui ho dovuto affrontare ingiustizie e delusioni, momenti in cui i sorrisi sono stati sostituiti dalle lacrime, ma come in ogni grande storia d’ amore ci sono i periodi negativi, dai quali però se ne esce più forti e innamorati di prima, in quei momenti in cui il tamburello resta nella borsa si capisce quanto sia bella la sensazione di quando con l’aria in faccia apri il braccio, fai il passo avanti e colpisci la palla, con tutta la forza e la passione che hai dentro, e in quell’ attimo il mondo sparisce, esisti tu, il campo, la pallina e il tamburello, come se staccandoti da terra avessi iniziato a volare nel sogno più bello. Volete sapere perché amo questo sport? Perché noi tamburellisti saremo un po’ matti, giochiamo per passione, passiamo le domeniche in giro, ma non possiamo immaginare la nostra vita senza il tamburello, perché il nostro sport con le sue difficoltà, con la sua bellezza, con i suoi volti entra nel cuore e ci resta per sempre. Ilaria Ratto


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VALENTINA TONINI “UN TAMBURELLO PER AMICO”


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Molte persone siedono sugli spalti in attesa che inizi la partita e tra queste ci sono anch’io. Tifosi dell’una e dell’altra squadra in attesa del fischio d’inizio. C’è chi pronostica, chi chiacchiera del più e del meno, un vociferare che rende tutti amici anche chi non si conosce. Il tamburello è anche questo un connubio di passione ed amicizia. Non importa se sei tifoso dell’una o dell’altra squadra, l’aria che si respira è di amicizia anche se nemmeno sai che è la persona che ti siede accanto. Sono passati diversi anni da quando ho conosciuto questo sport. Una tradizione di famiglia ed una passione che mi ha travolto regalandomi tante emozioni. Emozioni che provo ogni qualvolta ne parlo con qualcuno od in occasione di partite, tornei, manifestazioni. Quando varco il portone d’ingresso al campo mi tornano alla mente ricordi di molte partite e non so il perché ma quelle giocate in notturna son sempre state le mie preferite. Il cielo buio tutt’intorno dove solo i fari illuminano il rettangolo di sabbia rossa. Sembra quasi di sentire il tocco del tamburello che ribatte la palla, di sentire il brusìo delle voci ed il fischio dell’arbitro. Quanti ricordi. Sembra quasi di trovarmi in una vecchia mansarda colma di tante cose, dove ad ognuna di queste appartiene un ricordo, che non si è mai spento. Comincio così ad avvicinarmi e m’immergo in quel passato … Chiudo gli occhi e ripenso a quando da piccola andavo a vedere le partite dove giocava mio papà. Non ci capivo gran molto e detto francamente non che mi sforzassi di capirne qualcosa ma ciò che m’importava allora era che la squadra di mio papà vincesse. Confesso che non mi piaceva granché perché le partite duravano molto ma col tempo ho imparato ad apprezzare questo sport e diventarne appassionata desiderando fortemente di farne parte anch’io offrendo il mio piccolo contributo all’interno della società e tentando anche qualcosa di più. Ecco, che nel 2000 con tanto orgoglio conquisto il “tesserino bianco” di istruttore. Felicissima di questo traguardo raggiunto che mi ha permesso di iniziare una nuova avventura e dove ho avuto l’onore di sedere in panchina al fianco di mio padre e seguire con lui ogni gara alternandomi come direttore tecnico e cambio tamburina. Un ottimo maestro che mi ha dato la possibilità di vivere appieno questo sport sia a livello agonistico e sia a livello umano. E’ stata un’esperienza meravigliosa dove ho avuto l’opportunità di conoscere tante persone e realtà che coltivano come molti di noi questa passione. Un lungo lavoro di tanti amici e sostenitori che con il loro impegno permettono di coltivare questa passione senza nulla chiedere in cambio. Credo vivamente che gli attori del tamburello non siano soltanto i giocatori ma chi in qualche modo ci mette del suo per essere partecipe al funzionamento di questa grande macchina… ed è proprio a loro che dobbiamo un grazie ed un lungo applauso … a chi crede che


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uno sport di natura popolare possa divertire ed offrire molto. A chi crede nei sani valori dell’amicizia sportiva e ne è la dimostrazione quando in occasione d’importanti manifestazioni s’incontrano persone appartenenti a varie società sportive che ti tendono la mano anche solo per un saluto. Un piccolo gesto che fa capire quanto una passione può offrire umanamente. Tra amicizie, gare, riunioni e tante altre cose una che mi ha divertito parecchio è stata quella di scrivere per i quotidiani locali un breve articolo che raccontasse della gara disputata o per la presentare una manifestazione. Adoravo anche conservare qualsiasi articolo che raccontasse della mia squadra. Raccoglievo articoli di giornale e foto che poi catalogavo ed alla fine dell’anno racchiudevo il tutto in un “piccolo giornale” che raccontasse la storia di quell’annata sportiva della mia squadra. Piccole cose che con il tempo rimangono ricordi piacevoli. Lo trovo uno sport bellissimo che son certa continuerà e crescerà perché ha radici ben salde e sani valori che se trasmessi come sono stati trasmessi a me ed a tutti noi appassionati, fanno sì la differenza. Il giocatore di tamburello non ha la notorietà di un calciatore ma può essere orgoglioso e vantare l’onore di portare avanti una tradizione costruita mattone dopo mattone da persone vere che da uno sport semplice hanno creato una passione che unisce giovani e meno giovani in una società dove purtroppo i valori “di una volta” vanno piano piano scomparendo… Valentina Tonini


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SERGIO VAGGI


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Tutti hanno avuto dodici anni: gambe lunghe, voce instabile, brufoli che ostacolano i primi baffi… un’età interlocutoria. Io avevo dodici anni e in più tre fratelli, due cani, una mamma ipercinetica e un papà ironico e importante. Ero nato terzo … a un passo dai campioni ma il terzo posto non mi era congeniale: troppo alto per la mia età, troppo testardo per obbedire ai fratelli maggiori, troppo orgoglioso per non volere fare tutto come loro e meglio di loro, anche nello sport. Avevo la testa dura, un fisico massiccio, un innato bisogno di muovermi, e dovevo sopravvivere anche e soprattutto in casa.

Siamo cresciuti in campagna, trascinati fin da piccoli da due genitori impietosi e imprudenti su ogni tipo di terreno. Ogni sport e ogni piccola conquista hanno lasciato il segno, su ognuno di noi: una distorsione per le prime discese con gli sci, un polso rotto sulle prime arrampicate in palestra di roccia, tre punti di sutura per la prima pedalata senza rotelle… L’attività fisica non ci mancava, non ci fermava il mal tempo, non ci spaventava la fatica. Implacabili i nostri amati papà e mamma con incrollabile entusiasmo organizzavano la nostra vita quotidiana, le nostre domeniche e le nostre vacanze. Abbiamo viaggiato, nuotato, pedalato, camminato, pagaiato, disceso torrenti, salito montagne, pattinato, cavalcato senza sosta e tutti insieme. Siamo una famiglia declinata al maschile e la nostra casa è sempre stata piena di lavatrici da fare, borsoni da svuotare e attrezzature per ogni sport. A dodici anni avevo già praticato molti sport, in nessuno eccellevo e in tutti mi divertivo. Ma volevo di più, avevo un fratello capitano di rugby, un bravo velista e un discreto tennista, ed io ? Il calcio mi piaceva ma era troppo banale, ero troppo piccolo per iniziare attività lontano da casa, e a Voltri, dove abitavo, non eravamo particolarmente originali.

La scuola m’inviava a tutte le manifestazioni sportive, saltavo e correvo bene ma l’atletica non mi divertiva. Mi piaceva la competizione, meglio se con una squadra… dove però dovevo essere almeno il capitano! La palla tamburello è iniziata proprio a scuola per iniziativa di una nuova professoressa di ginnastica. Mai avevo pensato alla palla tamburello, forse neppure ne conoscevo l’esistenza. La palla tamburello mi evocava il secolo scorso e un mondo di ragazze: mi sembrava uno sport troppo gentile per un “ vero” uomo. Ho iniziato comunque il corso facoltativo pomeridiano, mi avevano scelto con altri e questo mi


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faceva talora saltare qualche ora di scuola: una motivazione sufficiente. Da subito il tamburello è stato una sorpresa, forse anni di tennis mi avevano preparato, il tamburello era docile e ubbidiente nelle mie mani. Ero bravo e con naturale facilità. Tutto mi piaceva: la potenza e la velocità del gioco, la tecnica, la squadra, la rabbia e il sudore un po’ maschi, le urla. La palla tamburello era allegra, intensa e popolare, ben lontana dal bianco pulito del tennis. La squadra era un gruppo vivo e la gioia della vittoria o la delusione per la sconfitta erano corali. Non c’era la tensione cattiva ed esasperata della competizione solitaria. Giocavo e rigiocavo ormai tutti i pomeriggi, la squadra si formava ed eravamo pronti ai tornei cittadini. Ma anche la palla tamburello chiedeva il suo pegno e doveva lasciare un segno, non era ancora diventata un pezzo del mio destino. Piccoli fatti simbolici segnano talora i momenti salienti delle nostre vite. Per me è stato così. Durante un allenamento scolastico, al mattino, un vicino un po’ maldestro ha distrutto in un sol colpo i miei incisivi superiori. E non erano denti da latte… Sono caduti: sbriciolati da un colpo di tamburello. Sangue, corsa dal dentista, prima ricostruzione a cui ne sono seguite almeno un altro paio. Ogni tanto un pezzetto si sgretola tuttora… Quella mattina sono usciti due denti dalla mia bocca ma la palla tamburello non mi ha più lasciato. Tornei, campionati e poi il corso da istruttore e da quest’anno alleno da solo e per la prima volta la mia prima squadra. Ho pagato un piccolo pegno allo sport che è diventato il mio e mi ha fatto crescere non solo nei muscoli. Le cose importanti lasciano il segno: il mio va cercato ogni volta che sorrido e per fortuna sorrido spesso! Sergio Vaggi


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NATASCIA VANO “UN’ALTRA OCCASIONE”


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Non potrò mai dimenticare il giorno in cui ho visto un tamburello per la prima volta in vita mia. Avevo 12 anni, e quando il mio insegnante di Ed. Fisica entrò in aula con quello strano oggetto tra le mani, pensai che fosse matto! Mossa da curiosità, provai a praticarlo, e da allora non ho più smesso. Ricordo con nostalgia la mia ultima partita ai Campionati Nazionali Open del 2004, disputata su uno dei campi di Asti, in Piemonte: categoria Allieve, eravamo l’unica squadra del sud riuscita a classificarsi per le gare nazionali, sapevamo di dover affrontare squadre molto competenti nel Tamburello all’aperto, ma siamo scese lo stesso in campo con la voglia di giocare nel miglior modo possibile, e così abbiamo vinto la prima partita. 3° posto assicurato, ma volevamo di più! Faceva caldo, il terriccio rosso sembrava fuoco sotto le nostre scarpette, eravamo stanche, stavamo giocando dalla mattina ininterrottamente, poi ci siamo ritrovate in finale, e anche quella è stata una partita molto dura. 12 giochi pari, trampolini: la prima squadra che faceva 2 punti di scarto rispetto all’altra, era Campione d’Italia. Non abbiamo vinto, ma io mi sentivo lo stesso al settimo cielo, perché eravamo la seconda squadra più forte in Italia, mi sono sentita importante, avevo dato davvero il massimo ed ero soddisfatta di me, sfinita ma orgogliosa. Tutte quelle emozioni insieme mi spronarono a fare sempre di più.. purtroppo, però, cause di forza maggiore mi obbligarono a lasciare il Tamburello: la nostra società sportiva subì un grave lutto, la mia squadra si sciolse, e non potei partecipare ai vari Campionati Italiani nella categoria Juniores. Quattro anni di fermo: interminabili! Pensai che non avrei mai più sentito l’adrenalina che il mio corpo riusciva a sprigionare solo impugnando un tamburello, il senso di grandezza quando una schiacciata potente spiazzava gli avversari, e la bellezza di un colpo in sottomano che donava ai miei palleggi un’eleganza estremamente rara da trovare in altri sport.. mi sembrava tutto perso, finito. E per tanto tempo ho custodito la mia passione in vecchie fotografie e cari ricordi che, al contempo, riuscivano ad alimentare quel po’ di speranza che non mi aveva mai abbandonata. Infatti, poco dopo, ho iniziato ad affiancare il mio allenatore nella preparazione atletica di ragazzi giovanissimi per il Tamburello. Non avevo compagne con cui formare una squadra, non potevo più partecipare ai Campionati Giovanili, mi sentivo la sola nella mia città a provare ancora una passione così forte per questo sport, e fare soltanto da spalla al mio allenatore non bastava più, mi serviva una svolta. Avevo voglia di tornare a giocare davvero, come tutte le altre ragazze d’Italia le cui foto venivano pubblicate sui vari social network. Erano bravissime, riconosciute e stimate nel mondo del Tamburello, ma ciò che più mi faceva soffrire era il fatto che loro, semplicemente, fossero più fortunate di me perché vivevano in regioni d’Italia in cui questo sport era come pane quotidiano quasi per tutti. Ancora oggi quando le vedo sudare e soffrire in campo, e dare il meglio di se stesse per un titolo importante, nutro una grande stima, ma allo stesso tempo le invidio, perché loro possono fare tutto questo, mentre io no. In realtà, poi, la vita mi ha riservato delle sorprese.. già, perché nel marzo 2011 ho ricevuto una telefonata che ha cambiato il mio futuro nel Tamburello: “a giugno abbiamo da disputare una


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Super Coppa Internazionale a Ragusa, vuoi far parte della nostra squadra?” Non riuscivo a crederci, perché cercavano proprio me? “Abbiamo bisogno di una giocatrice forte e mossa da una grande passione, e.. tu fai proprio al caso nostro. Ti vogliamo in squadra con noi!” Mi è sembrato di vivere un sogno in quel momento, tant’è che ho accettato subito la proposta, da quell’esperienza in poi sono entrata a far parte di una delle poche squadre di Tamburello presenti al sud, e ho anche partecipato a due campionati di Serie A nella specialità Indoor. Potrà sembrare poco, ma per me è già un grande risultato! Gioco solo per un breve periodo dell’anno, ma quando entro in campo e so che quella è l’unica occasione per mostrare ancora una volta a tutti che valgo davvero, sprigiono un’energia e una passione che probabilmente non ho mai provato per nessun’altra delle attività della mia vita. Continuo a vivere emozioni indescrivibili grazie a questo sport, giro l’Italia, conosco gente nuova, faccio sacrifici pur di praticarlo; immagino spesso di stare tra le ragazze che hanno un nome nel mondo del Tamburello, chiudo gli occhi e spero di riuscire ad andare sempre più avanti e diventare sempre più forte. Mi sembra di percepire la loro stessa gioia quando scoprono di essere state convocate nella formazione della squadra nazionale, e dovranno così misurarsi con le atlete francesi, ungheresi, spagnole.. lo so, ho una fantasia sfrenata, ma, chissà, magari un giorno riuscirò davvero a realizzare anche quest’altro sogno e a condividerlo con loro! Si dice sempre che non bisogna mai smettere di inseguire i propri sogni, e io non lo farò.. con coraggio e determinazione so che posso realizzarmi sempre più in questa disciplina sportiva, e fare in modo che anche il mio nome entri a far parte della storia del Tamburello. In fondo, sarebbe solo un’altra occasione per me, e io non esiterò a coglierla, così come ho già fatto nella mia vita passata. Natascia Vano


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STEFANO VAROTTO “SPIAGGE DI PIANURA”


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Seduto su una pietra del molo accartoccio la bottiglietta, deglutisco l’ultimo sorso d’acqua e guardo verso Est. Il cielo terso si colora d’arancio e soffia una brezza leggera, calda, piacevolmente vespertina. Uno stretto lembo di sabbia mi separa dalla riva. Chissà quante volte la gente fantastica sull’orizzonte, immaginando una terra sconosciuta al di là del mare. Posti lontani, magari migliori, forse così affascinanti solo perché mai visti prima. Non questa volta, penso stiracchiandomi per non sentire formicolii: dall’altra parte riposa la bellissima Sardegna ed io sono già all’estero, come emigrato che qualche giornale patrio definisce cervello in fuga. In realtà non mi sento così intelligente, né tantomeno un fuggitivo, semplicemente sono un giovane veneto lontano da casa con in tasca una laurea e pochi soldi. Non si sta ancora male, in Veneto, la crisi non ha ancora morso e prima che in questa regione arrivi fino all’osso la carne è piuttosto abbondante. Chi parte da Padova, Vicenza, Verona è ancora un esploratore con qualche garanzia. Si torna facilmente a casa dove almeno un lavoro, seppur mal pagato, ancor lo si trova. Intanto il presente parla catalano e spagnolo, specialmente in cantiere con i colleghi, mentre di notte fra sangria e vino del Penedès sembra che ti sussurri in lingue sconosciute. Il tramonto avanza sul mare tranquillo, le poche onde ansimano contro gli scogli. Devo tornare a casa, con i pattini il lungo mare finisce presto, poi però la leggera e lunga salita di Avinguda Paral·lel ti aspetta, e da lì per arrivare al barrio di Sants rischi di vedere chiuderti sul naso la porta del supermercato sotto casa. Non faccio mai la spesa per più di 1 giorno e la fame bussa. Ammicco al mare, lo saluto promettendogli che tornerò presto e mi alzo pigro. Mi rimetto i calzini, mi siedo nuovamente e infilo i Rollers. Mentre li prendo vedo però una pallina arancione arrivarmi vicino. La segue un ragazzo con in mano una pala rotonda. Mi affascinano quei colori: -“che bel racchettone”-, penso. Da bambino ne usavo di pessimi, più piccoli e in legno sbiadito con pelle finta. Il suo era tutto sgargiante. M’incuriosisco, sfilo i pattini e mi sdraio a scrutare il giocatore che ritorna al campo da beach volley. Non mi ero accorto. La palla non rimbalza assordante, eppur si fa rispettare! Incredibile, non avevo notato nulla prima. Com’ero assorto. I colpi sfilano secchi, duri, a volte aspri. Gli scambi durano molto più di quando senza denti giocavo con mio padre allora quarantenne. Ora in mezzo ci sono una rete e un campo infinito. Certo, mi ripeto, i giocatori sono degli abusivi perché occupano una rete da beach, invece di preferire il lungo mare come dovrebbe competere ai racchettoni. Allo stesso tempo, sbalordito, mi divertivo e apprezzavo. Era uno sport strano, fuori luogo, profano, eppur brillava nella sera avvolgente. Non l’avevo mai visto prima e così rimango a fissare la palla ancora un bel pezzo. Vorrei chiedere informazioni, ma non mi espongo. Mi preparo e ritorno a casa. Pattinando quel pensiero fisso


Concorso Letterario “Questo Amore di Tamburello” - FIPT

s’insinua per tutto il tragitto dentro di me. Pochi giorni dopo un mio amico mi vede e dice che sì, che ha visto un gioco strano in spiaggia del porto. Come i discepoli di Emmaus a cena, mi sciolgo. Era lo stesso del molo, era destino, m’innamoro. Recuperiamo tosto dei tamburelli usati, decidiamo che erano fin troppo nuovi. Li usiamo ripetutamente a Barceloneta, alla spiaggia del Port Olímpic, al Masnou, a Ocata. Il gioco ci assale, ci diverte e crea coesione, abbraccia perfino gli spettatori che ansimano, pur di provare. Il gruppo è fatto. Decidiamo di partecipare al nostro primo torneo di Vilanova. Ci piazziamo bene. Da lì è amore infinito. Lunghi fine settimana passati sul filo di net, con la temperatura che non intimorisce nessuno: la felpa nelle ore calde invernali protegge, i calzini nelle ore bollenti d’estate salvano i piedi da fastidiose scottature. Dopo qualche anno arriva la crisi, e con essa il tempo di lasciare l’avventura e ritornare a casa. All’inizio è dura. Padova non ha spiagge come Barcellona, al massimo qualche ansa di esondazione mista a melma sulle rive del Bacchiglione. C’è per fortuna qualche campo artificiale e lì ci si prova. Come un tesoro prezioso scoviamo un corso indoor all’università. E la corrente cresce. Dopo mesi iniziali difficili la gente si avvicina, intuiamo lo spiraglio e la fiamma sempre sopita e mai spenta ritorna a fulgere. Non abbiamo uno sferisterio né chissà quale tecnica, certo, ma il tempo dirà. Per ora ci accontentiamo di una nascente A.S.D. padovana che come un seme prezioso crescerà vivo, guardando da lontano il mare. Da Barcelona 2008 a Padova 2013 Stefano Varotto



Concorso Letterario “Questo Amore di Tamburello” - FIPT

COMPLIMENTI A TUTTI VOI E GRAZIE PER AVER PARTECIPATO!!!


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