quaderno di storia contemporanea 46

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Redazione Giorgio Barberis, Giorgio Canestri, Franco Castelli, Graziella Gaballo, Cesare Manganelli, Fabrizio Meni, Daniela Muraca, Renzo Ronconi Federico Trocini, Luciana Ziruolo Quaderno di storia contemporanea semestrale dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria Direttore Laurana Lajolo Direttore responsabile Maurilio Guasco Segretario di redazione Cesare Panizza Anno XXXII, numero 46 della nuova serie Registrazione del Tribunale di Alessandria Via dei Guasco 49, 15100 Alessandria tel. 0131.44.38.61, fax 0131.44.46.07 e-mail: isral@isral.it

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Quaderno di storia contemporanea/46/Sommario Laurana Lajolo, Questo numero STUDI

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E RICERCHE

Stefano Musso, Per la storia del lavoro. Società, soggetti, organizzazioni, istituzioni

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Andrea Sangiovanni, Passato prossimo e futuro anteriore: la classe operaia nell’immaginario collettivo italiano

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Nino De Amicis, Il sindacato nella lotta al terrorismo “ rosso”. Il caso della FLM di Torino

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Fabrizio Meni, L’odore dei soldi. L’Eternit di Casale Monferrato: una storia esemplare

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NOTE

E

DISCUSSIONI

Franco Castelli, “Compagni dai campi e dalle officine”. Appunti sul canto sociale e politico in Italia

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Graziella Gaballo, Cercare acqua e trovare petrolio. I corsi 150 ore delle donne

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FONTI, ARCHIVI

E

DOCUMENTI

Alberto Ballerino, Gli anni delle occupazioni. Imes e Radioconvettori, due casi emblematici

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Inserto fotografico: Gli anni Settanta nelle immagini del fondo Dino Ottavi

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Dario Piccotti, Il mercurialismo. Il caso della Borsalino di Alessandria

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Bruno Bruna, L’ACNA di Cengio e il movimento per la rinascita della Valle Bormida

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Carla Nespolo, Una notte sul greto della Bormida

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IN MEMORIA Nerio Nesi, In ricordo di Gianfranco Pittatore

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RECENSIONI

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E SEGNALAZIONI

- JUDAICA



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Questo numero

Questo numero è il quinto quaderno monografico progettato dalla redazione con l’intenzione di proporre un approfondimento e una rivisitazione di processi storici complessi. Il numero 38 ha puntato l’attenzione sugli anticomunismi, prendendo in considerazione momenti e figure della storia italiana; il numero 40 ha affrontato le tematiche delle storie di genere con un’analisi dei femminismi dal punto di vista storiografico e culturale; il n. 42 ha esaminato i movimenti del 1977 nell’ottica degli apporti culturali, ma anche delle contraddizioni e delle ambivalenze; il n. 43 è stato dedicato a percorrere le fasi salienti della storia dell’ISRAL a trent’anni dalla fondazione. Questo ultimo propone ora la riflessione sulla stagione delle lotte operaie degli anni Settanta, seguendo la nostra impostazione di confrontare la situazione generale con il contesto locale. I saggi storiografici danno conto dello stato attuale degli studi sulla storia sociale del lavoro e delle nuove fonti utilizzate, mentre il conflitto tra sindacato e brigatisti negli anni Settanta viene ricostruito attraverso i documenti della FLM di Torino. L’esperienza delle 150 ore, in particolare per i corsi dedicati alle donne, viene riproposta come tappa di una diversa condizione femminile nel lavoro e nella società. La storia dell’Eternit di Casale Monferrato come la memoria del movimento contro l’inquinamento dell’ACNA e le proteste alla Borsalino per le conseguenze del mercurialismo diventano episodi emblematici dell’acquisizione di consapevolezza del diritto alla salute. L’occupazione delle fabbriche IMES del rione Cristo e della Radioconvettori di Quargnento, avvenute negli anni Settanta, rimandano alle modalità di lotta assunte dai lavoratori, che oggi rischiano il posto di lavoro, al fine di richiamare l’attenzione dei media su una crisi devastante per l’economia di interi comparti produttivi. 5

Quaderno di storia contemporanea

Laurana Lajolo


Quaderno di storia contemporanea/46

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Apre la sezione STUDI E RICERCHE, il saggio di Stefano Musso, Per la storia del lavoro, che propone una cronologia delle fasi della storiografia del mondo operaio. Una prima fase è quella che si conclude negli anni Sessanta con una ricostruzione militante della cultura e della strategia operaia, la seconda dei primi anni Settanta con la sottolineatura dello spontaneismo e dell’autonomia conflittuale e la terza fase, quella della crisi della labour history a partire dalla data simbolo della sconfitta alla FIAT del 1980, coincide con la perdita della centralità operaia nel panorama sociale e politico italiano. Quindi la storiografia ha cercato nuove direzioni di analisi, facendo ricorso a nuove fonti e temi che connettono la studio della fabbrica con lo studio del territorio, i percorsi migratori, i sistemi economici locali. La prospettiva è di giungere a una storia d’impresa in senso complessivo (impresa e operai), la congiunzione tra storia del lavoro e storia economica e lo studio del ruolo dello Stato e dei processi decisionali e funzionali delle istituzioni. Sostanzialmente una storia dei problemi sociali, di attori collettivi e istituzionali. Nel saggio Passato prossimo e futuro anteriore: classe operaia nell’immaginario collettivo italiano, anche Andrea Sangiovanni sottolinea la recente ripresa di interesse della storiografia per i temi legati al lavoro con un taglio di storia sociale più che politica e sindacale e dedica ampio spazio alle fonti che sorreggono attualmente la storia sociale del lavoro, dalla stampa al cinema. Interessante è il riferimento alle produzioni filmiche degli anni Sessanta e Settanta, dove la classe operaia è protagonista, mentre dal 1976 gli operai scompaiono dai film, soppiantati dalla figura grottesca dell’impiegato Fantozzi. È il cinema a noi contemporaneo, che riprende il tema del lavoro, descrivendo la progressiva perdita dello status dei lavoratori e la conseguente frammentazione e indeterminatezza del presente. Lo storico avanza, quindi, l’ipotesi che proprio lo studio delle trasformazioni culturali e sociali del lavoro possa offrire la chiave per comprendere il cambiamento del paese nel suo complesso. E conclude il saggio con due domande: chi, tra i soggetti sociali, abbia preso il posto della 6


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classe operaia e se, insieme alla classe operaia, sia scomparsa dall’orizzonte dei lavoratori l’idea di futuro.

Fabrizio Meni, in L’odore dei soldi, ripercorre la vicenda dell’Eternit di Casale Monferrato come paradigmatica delle tragiche contraddizioni ambientali e sociali dello sviluppo economico industriale novecentesco. Costruito nel 1906, l’impianto per la lavorazione delle fibre di amianto fu la più grande realtà occupazionale del Monferrato, divenendo la meta ambita di migliaia di lavoratori della terra che videro nell’ingresso in fabbrica un’uscita dalla miseria e la sicurezza del salario. Soltanto a partire dall’autunno caldo e dalle lotte degli anni Settanta, le maestranze cominciarono ad acquisire consapevolezza del rischio per la salute e a rifiutare la monetizzazione della nocività. Gli stessi abitanti della città subirono l’inquinamento dalla polvere della fabbrica che permeava l’aria. Alcune indagini scientifiche, non commissionate dall’impresa, dimostrarono il nesso causale fra esposizione all’amianto e l’insorgenza del mesotelioma, ma l’impresa mise in campo un’abile e capillare campagna di dis-informazione, che ebbe una sua efficacia per un certo periodo. Oggi le famiglie delle vittime hanno ottenuto un processo per i danni ambientali e alla 7

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Nella stessa sezione Nino De Amicis, sulla scorta delle carte della FLM torinese, ricostruisce l’atteggiamento del sindacato nei confronti del terrorismo brigatista in Il sindacato nella lotta al terrorismo “rosso”. Fino alla metà degli anni Settanta, il sindacato e il Partito comunista non riconoscono le Brigate rosse come un movimento a base operaia, ma piuttosto lo considerano come l’effetto di una macchinazione collocabile all’interno della più generale “strategia della tensione”. Soltanto nel biennio ’77-’78, anni cruciali per le vicende sindacali in particolare a Torino, fu chiaro che i brigatisti avevano reclutato adepti tra gli operai, e il sindacato, con nette contraddizioni interne, dovette confrontarsi, da un lato, con la strategia di Romiti mirata a modificare drasticamente gli equilibri delle relazioni industriali, e, dall’altro, con la violenza terroristica, prendendo la distanza dalle forme più radicali di lotta.


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salute e la nocività dell’amianto è ormai acclarata, ma questo materiale è ancora ampiamente utilizzato nei paesi poveri. Nella sezione NOTE E DISCUSSIONI vengono esaminate da Franco Castelli e da Graziella Gaballo due esperienze culturali molto significative: il canto sociale e i corsi delle 150 ore.

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Franco Castelli, in “Compagni dai canti e dalle officine”. Appunti sul canto sociale e politico in Italia, ricostruisce le fasi più interessanti del movimento culturale di ricerca sul canto sociale e popolare, che nacque negli anni Cinquanta sulla scorta della lezione di Ernesto De Martino e delle annotazioni di Antonio Gramsci sul folclore e la cultura delle classi subalterne, in particolare attraverso l’attività dei Cantacronache a Torino e del Nuovo Canzoniere Italiano a Milano, che coinvolge intellettuali torinesi come Fausto Amodei, Emilio Jona, Sergio Liberovici, Michele L. Straniero e milanesi come Gianni Bosio, Roberto Leydi, Ivan Della Mea, insieme a scrittori del calibro di Calvino, Fortini, a uomini di teatro come Dario Fo. Nel recupero delle tradizione del canto popolare vennero riproposti i temi del lavoro e della cultura delle classi subalterne, attraverso una ricerca sul campo fatta di interviste e di registrazioni dal vivo, che produssero un nuovo corso culturale non solo nel filone della canzone popolare, ma della ricerca antropologica, sottolineando il carattere antagonistico dei canti e la centralità della classe operaia. E vennero coinvolte anche le realtà provinciali come Alessandria, come ricorda in termini autobiografici lo stesso Castelli. Graziella Gaballo riflette sull’esperienza dei corsi delle 150 ore delle donne alessandrine, iniziati nel 1975 iniziati nel 1975 con Cercare acqua e trovare petrolio. L’istituzione dei corsi 150 ore per i lavoratori avvenne nel clima di mobilitazione degli anni Settanta e fu connotato dall’incontro fra il mondo del lavoro, la fabbrica, e i movimenti studenteschi. Essi offrirono l’opportunità non solo di conseguire il titolo di studio, ma di una crescita culturale e politica dei partecipanti, sollecitata dai contenuti dei corsi 8


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e dall’innovazione didattica. I corsi monografici rivolti alle donne affrontavano aspetti concreti della condizione femminile, con evidenti influenze dei movimenti femministi e trovano a volte la collaborazione dell’università. Attraverso la frequenza ai corsi le donne non acquisirono soltanto il titolo di studio e un accrescimento culturale, ma una diversa consapevolezza del proprio ruolo sociale.

Alberto Ballerino ricostruisce attraverso qualche intervista i casi di occupazione operaia della IMES di Alessandria, la vecchia “Mino”, e della Radioconvettori di Quargnento. La prima vicenda riguardò una fabbrica fortemente sindacalizzata e radicata nel territorio, che nella fase acuta della lotta ebbe il pieno appoggio delle istituzioni cittadine e degli abitanti del quartiere del Cristo, dove sorgeva. Nella fabbrica di Quargnento, invece, le maestranze non erano sindacalizzate, poiché i lavoratori erano in maggiorana di origine contadina e ex detenuti, sottoposti a un intenso sfruttamento. Furono giovani operai aderenti a Lotta continua che avviarono la protesta, partendo dalla quotidianità dei rapporti di fabbrica. Le due vertenze misero in luce la forte arretratezza tecnologica delle due imprese, investite, come buona parte delle aziende alessandrine, dall’avvio del processo di deindustrializzazione. Dario Piccotti, sulla base delle fonti inedite dei verbali delle Commissioni interne della Borsalino, documenta i casi di mercurialismo occorsi alle maestranze del cappellificio alessandrino. Il fenomeno più grave esplose nel 1943 e colpì soprattutto gli operai e le operaie del reparto follatura. Fu un fatto eccezionale per estensione e gravità, anche perché durante la guerra veniva uti9

Quaderno di storia contemporanea

Nella sezione FONTI, ARCHIVI E DOCUMENTI con i contributi di Alberto Ballerino, Dario Piccotti, Bruno Bruna, Carla Nespolo l’attenzione è puntata sulla storia territoriale attraverso la presentazione di alcune esperienze significative delle lotte in fabbrica avvenute negli anni Settanta, prima della deindustrializzazione, e della cultura operaia ancora egemone.


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lizzata una qualità scarsa del pelo e la salute degli operai era indebolita dal basso livello delle condizioni di vita. Ma anche in seguito il mercurialismo si configurò come una vera e propria malattia professionale per i cappellai, esposti in molte parti del ciclo produttivo all’inalazione dei vapori di mercurio. Negli anni immediatamente successivi alla guerra la Borsalino, su sollecitazione della Commissione interna, accettò di creare un fondo per l’assistenza e la prevenzione contro il mercurialismo, cofinanziato da impresa e operai. Ma nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta non venne fatto alcun ammodernamento degli impianti per diminuire l’incidenza del problema.

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Bruno Bruna, uno dei protagonisti del movimento per la rinascita della valle Bormida, fornisce un’interessante testimonianza sulla vicenda dell’ACNA di Cengio. Ricorda l’importanza delle proteste dei contadini degli anni Cinquanta, sostenute dal Partito comunista, e le iniziative assunte dai sindaci della valle Bormida nel corso degli anni Sessanta. A metà degli anni Ottanta le associazioni ambientaliste, con la diffusione di indagini epidemiologiche molto preoccupanti, chiesero la chiusura della fabbrica. Molto importante fu un servizio della RAI nel ’87 sul degrado ambientale della Bormida, che diede risalto nazionale al problema. Cominciò di lì un’efficace strategia di mobilitazione della popolazione locale, che coinvolse i giovani del luogo e puntò anche ai mezzi di comunicazione di massa. Pubblichiamo anche un articolo di Carla Nespolo, apparso nel 1988 sulle pagine de “Il Manifesto”, che in modo diretto e vivace testimonia il suo impegno di parlamentare a fianco dei cittadini della valle Bormida durante un presidio sul greto del fiume. Infine nella sezione IN MEMORIA ricordiamo, pubblicandone l’orazione funebre pronunciata da Nerio Nesi, la figura di Gianfranco Pitattore, Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, recentemente scomparso.

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Studi e ricerche

Per la storia del lavoro.

Stefano Musso

Le troppe storie italiane - “storia del movimento operaio”, “storia del movimento sindacale”, “storia della classe operaia”, “storia del lavoro”, “storia delle relazioni industriali” – sottolineano distinzioni dei campi di indagine che non hanno riscontro nel linguaggio anglosassone, nel quale la labour history è comprensiva di buona parte delle nostre articolazioni. Queste ultime, per quanto intrecciate e solo parzialmente separate da labili confini, andrebbero oramai considerate inadeguate se la storiografia sul lavoro e sui movimenti sociali connessi vorrà compiere un salto di qualità, necessario per tentare il superamento delle difficoltà, della ghettizzazione in cui è caduta la storia del lavoro, in Italia e non solo. La crisi è stata il prodotto di una serie di fenomeni che hanno investito tutti i paesi economicamente avanzati: un forte calo di interesse per il mondo operaio che ha interessato, in una circolarità di influenze reciproche, i mezzi di comunicazione di massa e il pubblico colto, il mondo accademico e l’editoria, riflettendosi in una diminuzione degli studenti e dei giovani ricercatori che si dedicano al campo. Delle due cause sottolineate da Marcel van der Linden - il collasso del socialismo reale e la perdita di status del lavoro nella società postindustriale 1 - la seconda è decisamente preminente nel caso italiano: i paesi del “socialismo reale” avevano cessato da tempo in Italia di fungere da punto di riferimento per gran parte della sinistra, mentre la giovane generazione di studiosi che negli anni Settanta avevano fornito nuove leve 11

Stefano Musso, Per la storia del lavoro. Società, soggetti, organizzazioni, istituzioni.

Società, soggetti, organizzazioni, istituzioni


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alla storia del lavoro era stata affascinata dal protagonismo operaio nel ciclo di lotte apertosi alla fine del decennio precedente. Nel nostro Paese lo spartiacque di maggior portata non è stato dunque il 1989, indicato da Jürgen Kocka, in prevalente riferimento al caso tedesco, come il momento forte della crisi e allo stesso tempo come l’apertura di nuove opportunità e prospettive 2. L’eccezionale durata della fase di alta conflittualità sociale nella penisola - i tredici anni che trascorrono dal 1968 al 1980 compreso, ma con un avvio del ciclo che va anticipato alla lotta degli elettromeccanici milanesi del 1960 - ha avuto la sua brusca conclusione nell’autunno del 1980 con la sconfitta della “lotta dei 35 giorni” alla FIAT, che ha segnato una svolta epocale e la fine della “centralità operaia” 3. Non si è trattato solo della disillusione provocata dalla sconfitta, ma della perdita di peso sociale degli operai delle grandi e medie fabbriche. La fine della centralità “politica” va considerata in rapporto alla fine della centralità “sociale” degli operai, e quest’ultima è stata la conseguenza dei processi di decentramento e ristrutturazione industriale e della crescente terziarizzazione dell’occupazione 4. La classe operaia in Italia, paese late comer, ha raggiunto la propria maturità, con elevati livelli di concentrazione e potere contrattuale, relativamente tardi, quando il modello fordista che l’aveva prodotta era ormai alla vigilia della sua crisi 5. Ora, la crisi della storiografia militante ha offerto, come spesso le crisi, non poche opportunità, favorendo un’apertura delle ottiche, rinnovamenti metodologici e un affinamento degli strumenti d’indagine con il ricorso a fonti nuove e assai diversificate, quali i libri matricola e le fonti orali, che hanno reso più critica, meno mitica e più realistica la storia della classe operaia prodotta nei primi anni Settanta. La storia orale ha discusso il tema della cultura delle classi subalterne 6 e prodotto indagini sulla famiglia, sui reticoli solidaristici, sui quartieri operai, sulla percezione degli spazi fisici e sociali, sul senso di appartenenza territoriale, sulla vita quotidiana, sulle forme della socialità 7. La “scoperta”, grazie allo studio dei libri matricola conservati in archivi aziendali 8, dell’instabilità occupazionale di parte non piccola dei 12


lavoratori anche nelle grandi imprese e nei settori moderni dello sviluppo industriale, ha messo in discussione la corrispondenza lineare, quasi automatica, postulata in precedenza, tra sviluppo dei settori industriali trainanti e formazione di una classe operaia centrale politicamente avanzata 9. I processi di decentramento industriale verso aree a bassa tensione sociale messi in atto a metà anni Settanta dalla grande industria italiana hanno spinto a osservare la piccola impresa e favorito la scoperta della “Terza Italia” dei sistemi distrettuali, dove il mercato, compreso quello del lavoro, presentava salde radici nei rapporti sociali, tanto che la sociologia delle istituzioni o l’antropologia economica si mostravano strumenti più adatti dell’economia classica a coglierne le dinamiche 10. Sono così state formulate nuove domande e nuove ipotesi sulle dinamiche dei processi storici nel mondo operaio, suscettibili di contribuire alla miglior comprensione dei mutamenti oggi in atto; un parallelismo sembra infatti delinearsi tra la prima industrializzazione e l’affacciarsi della società postindustriale: con la flessibilità del lavoro e la crisi del welfare pare di assistere, pur con tutte le evidenti distanze, al ritorno per le giovani generazioni di alcune delle condizioni di instabilità occupazionale e di mancanza di sicurezza sociale che hanno caratterizzato la nascita del proletariato industriale tra fine Ottocento e inizio Novecento. Tra i fattori di crisi della storia del movimento operaio va annoverata anche la nascita, alla fine degli anni Settanta, dei nuovi movimenti sociali, quello ambientalista e il movimento delle donne in particolare, che hanno messo in discussione la preminenza dell’appartenenza di classe nelle contraddizioni e nei conflitti sociali 11. L’impegno e l’interesse di molti giovani studiosi e studiose si è rivolto a campi diversi da quelli tradizionali, in particolare verso la storia delle donne, che portava alla luce un soggetto storico oscurato “aggiungendolo” ai soggetti già riconosciuti, e poi, con un ulteriore sviluppo, la storia di genere, con la quale si rimette in discussione l’insieme della ricostruzione storica, per le diverse modalità e prospettive con cui i generi vivono la storia 12. La sfida posta dall’ottica di genere nel campo della sto13

Stefano Musso, Per la storia del lavoro. Società, soggetti, organizzazioni, istituzioni.

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ria del movimento operaio 13 ha indotto a riflettere sui tratti culturali di un movimento prevalentemente maschile; ha stimolato a considerare, nei processi di formazione del proletariato industriale, i soggetti “deboli” dell’offerta di lavoro, che non per questo costituivano una componente marginale o numericamente irrilevante, quelli che non avevano occupazioni stabili e a tempo pieno, o le avevano per un periodo limitato del proprio corso di vita; ha sottolineato l’esigenza di studiare i bilanci familiari, il lavoro domestico, le piccole attività a tempo parziale che servivano non solo a integrare i guadagni del breadwinner ma spesso costituivano un pilastro del bilancio familiare 14; l’attenzione sul lavoro a domicilio ha portato a sottolineare le gravi lacune delle analisi sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro incentrate sui dati dei censimenti: anche nelle città che nel secondo dopoguerra imboccavano con decisione la strada della produzione fordista, le donne, anziché essere relegate nel ruolo di casalinghe, continuavano numerose a offrire il proprio importante contributo all’economia urbana, attraverso le forme disperse del lavoro di domestiche e sarte, poco visibili e difficilmente registrate dai censimenti 15. L’attenzione ai soggetti “deboli” ha spinto inoltre a indagare sull’importanza economica dei servizi prodotti dalle donne nell’ambito domestico, nelle reti di parentela e nelle più ampie reti comunitarie, collegando la storia della famiglia e delle reti sociali a quella del lavoro salariato; e ha indotto infine allo studio dell’infanzia e del lavoro minorile, in collegamento anche a prospettive di indagine basate sull’elemento generazionale 16. Tutti questi stimoli hanno contribuito, alla fine degli anni Settanta in Italia, al nuovo interesse per la storia sociale del mondo operaio o, meglio, dei mondi operai che venivano individuati nella loro pluralità. Schematizzando molto, si può sostenere che la storiografia del movimento operaio e del lavoro in Italia può essere suddivisa in tre fasi storiche, non separabili rigidamente nel tempo, ma almeno in parte sovrapposte e compresenti, nel senso che l’affermarsi di nuovi indirizzi non ha del tutto soppiantato quelli precedenti. Un primo momento, dominante fino alla fine degli anni 14


Sessanta, influenzato dall’idealismo storicista che alimentava un’impostazione etico-politica, ha prodotto lavori incentrati sullo studio del pensiero dei dirigenti, dei massimi protagonisti di partiti e sindacati. Spesso, in questi lavori, l’intento è stato quello di andare alla ricerca dei fili rossi delle tradizioni militanti e delle vicende che avevano portato all’affermazione o allo smarrimento della “linea giusta”. Il suo principale prodotto è stato la ricostruzione delle culture e delle strategie delle organizzazioni sindacali e politiche 17. In una seconda fase, affermatasi nei primi anni Settanta, sono stati presi in considerazione i gruppi sociali e le lotte dei lavoratori, in una prospettiva “dal basso”: sull’onda dell’accesa conflittualità e delle mobilitazioni in atto, un’ottica prevalentemente ideologica ha sottolineato la spontaneità e l’autonomia conflittuale della classe operaia. Il tema della formazione della classe operaia veniva declinato tutto all’interno del luogo di lavoro, in quanto nella fabbrica, come centro focale dell’organizzazione capitalistica del lavoro, si formava la coscienza di classe e si sviluppava la lotta di classe 18. Rispetto all’approccio “culturalista” di Edward P. Thompson, l’accento era posto in misura pressoché esclusiva sui fattori strutturali, mentre il making soggettivo della classe era desunto come conseguenza diretta dei rapporti di sfruttamento nel lavoro e dimostrato dai comportamenti conflittuali nei cicli di scioperi 19. Il principale prodotto di questa stagione di studi sono stati i quadri della composizione per sesso ed età delle maestranze, la suddivisione in categorie e i livelli di qualificazione, i differenziali salariali e la struttura della retribuzione in relazione al cottimo, l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro. Ciò che si indagava erano le condizioni di lavoro in rapporto ai comportamenti operai, per scoprire quali erano i fattori di unità e di forza all’origine della capacità di mobilitazione. Successivamente, a partire dagli anni Ottanta, un approccio metodologicamente più avvertito si è ispirato all’antropologia, all’individualismo metodologico e alla network analysis nello studio dei gruppi di lavoratori, ora considerati nelle loro articolazioni comunitarie e micro-comunitarie 20. Il centro dell’attenzione si 15

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spostava dalle strategie collettive a quelle familiari/individuali, dalla conflittualità alla acquiescenza (in relazione al periodo fascista), dai grandi eventi eroici della storia del movimento operaio alla vita quotidiana, dalla fabbrica alle comunità territoriali e alle reti di relazioni sociali. Nei primi anni Ottanta “gran parte dei giovani storici italiani si sono addormentati storici politici e si sono svegliati storici sociali” 21. Dalla svolta, notevolmente influenzata anche dalla microstoria, sono derivate lenti capaci di cogliere la complessità della realtà sociale, delle mentalità e dei comportamenti. Ma la storia sociale non ha saputo rapportarsi con la politica 22, né mettere in relazione le strategie individuali e famigliari con le strategie collettive: queste ultime, se pure richiedevano interpretazioni meno schematiche, erano nondimeno reali e si concretizzavano nelle organizzazioni mutualistiche, sindacali e partitiche 23. L’intrecciarsi delle tre impostazioni fece sì che la storia del lavoro e l’interesse dei ricercatori esplodessero negli anni Ottanta in molteplici direzioni e campi di ricerca, tuttora praticati. La formazione della classe operaia rimandava alla storia dell’industria e del processo di industrializzazione; i conflitti di lavoro allo studio delle politiche sindacali, non solo di parte operaia ma anche industriale, con le politiche paternalistiche di gestione delle maestranze 24 e, in senso più ampio, le politiche imprenditoriali di gestione dell’impresa 25; i conflitti di lavoro e la questione sociale rimandavano al ruolo dello Stato 26; lo studio del proletariato urbano-industriale e dei quartieri operai richiamava la storia delle città, dello sviluppo urbano 27, dei movimenti migratori 28; l’analisi delle condizioni di vita si allargava dai livelli salariali ai consumi, all’alimentazione e alla salute; la cultura operaia, oltre alle analisi di stampo antropologico, veniva indagata in riferimento ai livelli di alfabetizzazione e alla capacità di lettura, ai consumi culturali e all’uso del tempo libero 29. Scarsa influenza ha invece esercitato in Italia la svolta linguistica di impronta postmodernista e poststrutturalista 30, specie nelle versioni più estreme che hanno negato rilevanza e attenzione agli autori dei testi e ai contesti in cui i linguaggi sono prodotti. Più diffusi sono invece in Italia gli studi che 16


utilizzano la scrittura popolare 31 come fonte per lo studio della cultura, della mentalità, dei rapporti sociali e di potere, con un approccio fortemente contestualizzante (e il contesto in cui le classi subalterne usano la scrittura è eccezionale e sporadico). Che ne è oggi di quelle stagioni di studi? Mentre al loro sorgere le nuove impostazioni metodologiche suscitarono non poche polemiche tra “scuole”, negli anni Novanta sono prevalse inclinazioni a riconoscere gli elementi di validità contenuti nei vari approcci. Sono così nate impostazioni attente alla multidimensionalità: non pochi studi, specie quelli locali, utilizzano contemporaneamente fonti statistiche e fonti orali, studiano la fabbrica (come luogo dei rapporti di lavoro, dell’organizzazione del lavoro, delle strategie delle organizzazioni) assieme al territorio (come luogo della cultura materiale, delle relazioni familiari e sociali, dei percorsi migratori e dei legami con le comunità di origine, della mobilità residenziale, occupazionale e sociale); nell’analisi dei sistemi economici locali l’industria viene studiata unitamente all’agricoltura, per la numerosità e persistenza di figure miste di lavoratori agricoli e industriali 32, in un sistema diffuso di pluriattività duro a scomparire persino negli ambienti urbani industriali 33. Anche gli studi incentrati sulle organizzazioni del movimento operaio hanno recepito i risultati degli altri indirizzi e prodotto lavori di vasto respiro 34, arrivando a configurare una sorta di storia sociale delle organizzazioni 35. Benché spesso il focus delle indagini si concentri su un arco di fonti e di problematiche più limitato, si è delineato in più di un caso il tentativo di una storia a tutto campo delle comunità locali, che cerca di ricostruirne, nei limiti del possibile, l’evoluzione e il mutamento sociale connesso ai processi di industrializzazione nelle loro complessità 36, in particolare, la complessità propria sia delle collocazioni sociali e professionali che delle identità in cui tali collocazioni si rispecchiano, nonché delle modalità secondo le quali le identità, spesso multiple se non contraddittorie, influiscono sulla percezione degli interessi e sui comportamenti socio-politici da parte di singoli e gruppi. Tuttavia, anche gli studi sociali e politici metodologicamente 17

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più avvertiti corrono oggi un pesante rischio: quello della ripetitività. La dimensione locale o lo studio di caso sono scelta obbligata per poter condurre una storia in profondità e multidimensionale. Avviene così però che spesso il risultato di impegnative indagini sia poco più che l’ennesimo riscontro, nel nuovo caso di studio, di comportamenti e dinamiche socio-culturali già ampiamente assodate; si producono così ricerche che declinano a livello locale fenomeni già noti, relativi alle strutture familiari, ai reticoli e alle forme della socialità, alle catene migratorie, alle dinamiche di genere, alle culture professionali e del lavoro, alle strutture produttive, all’organizzazione del lavoro e alla composizione della classe operaia, alle politiche delle direzioni aziendali nei confronti del personale, alle forme della mobilitazione sindacale e della conflittualità operaia, e così via. Restano peraltro non pochi mondi del lavoro assai poco esplorati, tra i quali innanzitutto il mondo impiegatizio, che ha riscosso meno interesse da parte di una storiografia per lo più militante 37. I risultati delle tre fasi storiografiche inizialmente richiamate offrono infatti ormai salde acquisizioni relative a questi fenomeni, grazie a congrue messe di studi che hanno potuto mettere in evidenza modelli ricorrenti. La ricerca sulla storia del lavoro, dunque, ha bisogno di nuove domande, di nuove ottiche, di ampliare i campi di indagine. Tre mi sembrano i filoni di ricerca più interessanti emersi negli ultimi anni. Il primo è quello delle relazioni industriali, che sulla scorta delle suggestioni di Jonathan Zeitlin 38 cerca di superare la divaricazione tra storia del movimento operaio e storia dell’impresa, una divaricazione che è stata il risultato dello scontro ideologico tra organizzazioni di interesse che si sono storicamente negata in Italia una legittimazione reciproca 39; ne risulta arricchita la storia d’impresa ispirata al modello chandleriano, incentrato sulle determinanti tecnologiche, organizzative e di mercato: tale modello viene reso più complesso e adeguato estendendo l’indagine alle variabili sociali, politiche e culturali; le relazioni industriali, in questa impostazione, appaiono in grado di condizionare l’assetto dell’impresa e le scelte del management 40. Tra gli storici che più hanno contribuito all’allargamento delle 18


prospettive di ricerca va ricordato Duccio Bigazzi: a partire dai suoi primi lavori incentrati sulla fabbrica e l’organizzazione del lavoro, Bigazzi si collocò tra coloro che, pur condividendo la necessità di estendere l’analisi ai fattori culturali e ai legami comunitari, continuarono a sostenere l’importanza dei rapporti di lavoro: lo studio dell’organizzazione del lavoro, della composizione per sesso ed età della manodopera, dei livelli di professionalità, delle qualifiche, dei ventagli salariali e dei sistemi retributivi è indispensabile per comprendere le dinamiche sottostanti all’azione sindacale, all’attività negoziale e ai risultati della contrattazione collettiva. Le analisi approfondite sulla realtà della fabbrica hanno portato all’individuazione delle interazioni tra le strategie imprenditoriali e le strategie operaie nella determinazione dei processi di mutamento tecnologico e organizzativo, e alla scoperta delle successive trasformazioni della professionalità operaia, contro l’idea semplificatrice di una degradazione lineare e progressiva del lavoro lungo l’arco del secolo 41. L’organizzazione del lavoro è stata anche un canale attraverso il quale la generazione di Bigazzi ha scoperto il soggetto antagonista degli operai, gli imprenditori. Se lo studio della formazione e della composizione del proletariato comportava la ricostruzione della storia dei settori industriali, lo studio delle strategie di ammodernamento tecnologico e delle politiche di gestione del personale portava, con un passo breve, allo studio delle strategie d’impresa tout court. La storia d’impresa è stata così rilanciata in Italia su nuove basi, nel corso degli anni Ottanta, da studiosi nati come storici del movimento operaio e del mondo del lavoro 42. Il nuovo approccio considera le imprese come centri decisionali e spazi di relazioni sociali che costituiscono un punto nodale nel quale si intrecciano il progresso tecnologico, l’evoluzione dei mercati, i comportamenti operai e i conflitti sociali, gli orientamenti culturali e le scelte imprenditoriali e manageriali. Tuttavia, anche nelle storie delle singole imprese, promosse sovente dalle imprese medesime in occasione di anniversari, si corre ora il rischio della ripetitività, riferita questa volta a culture e strategie imprenditoriali. 19

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Il secondo filone tende a considerare un’ampia gamma di fenomeni relativi al mondo del lavoro, operando una congiunzione, sulla scorta di indirizzi che hanno iniziato ad affacciarsi in ambienti anglosassoni, tra storia del lavoro e storia economica, nella convinzione che per cogliere il mutamento economicosociale connesso ai processi di industrializzazione sia necessario conoscere le dinamiche interne al mondo del lavoro. La storia economica deve dunque considerare il lavoro come fattore produttivo: il mercato del lavoro è una risorsa economica a disposizione delle industrie; occorre pertanto analizzare le modalità di utilizzo del fattore lavoro da parte delle imprese, il che comporta lo studio sia del mercato del lavoro esterno all’impresa, sia del mercato del lavoro interno, sia del mercato del lavoro interno esteso 43, quello che utilizza le relazioni sociali dei dipendenti creando, si potrebbe dire, un canale di comunicazione particolare tra i mercati del lavoro interno ed esterno. L’analisi dei mercati del lavoro, non a caso al plurale, consente di cogliere i processi di adattamento reciproco tra lavoratori e industria, attraverso i rapporti tra forza lavoro, impresa e territorio 44. Il terzo filone, per la verità embrionale, sostiene l’importanza di studiare il ruolo dello Stato e delle istituzioni 45, ma secondo un’ottica particolare. Si tratta qui naturalmente delle istituzioni più vicine alla vita operaia: gli enti assistenziali e previdenziali, i servizi di collocamento, gli istituti di conciliazione e definizione delle controversie di lavoro, e così via: istituzioni che nascono come tentativi di risposta a problemi che emergono dalla realtà sociale del mondo del lavoro e che intervengono, con funzioni di regolazione e mediazione, nei rapporti tra soggetti sociali, sia individuali che collettivi. L’indagine viene incentrata sui processi decisionali che portano alla creazione di tali istituzioni e alle normative che ne regolano il funzionamento; in questi processi sono protagonisti gli imprenditori e gli operai, come singoli e come gruppi sociali, con le rispettive organizzazioni, le forze politiche e gli intellettuali, i tecnici della pubblica amministrazione. Gli attori collettivi elaborano una visione dei propri interessi e strategie politiche che nell’incontro/scontro degli interessi si tradu20


cono in normative e prassi consolidate; i singoli, dal canto loro, elaborano visioni dei propri interessi che nascono dalla propria particolare condizione sociale e che possono coincidere in tutto o solo in parte o per niente con quelle delle organizzazioni: ne nascono strategie di comportamento individuale riguardo a come utilizzare le istituzioni, eventualmente a come rifiutarle, ai limiti entro cui rispettare o aggirare le normative. Un buon esempio è l’istituto del collocamento, che nella sua storia secolare è stato ora privato, ora sindacale, ora pubblico, caratterizzato da restrizioni alla libertà di scelta dei datori di lavoro ora minime ora massime, ma in ogni caso abbondantemente disatteso data la preponderanza delle reti di relazione e dei canali informali nell’accesso al lavoro 46. Un altro esempio è costituito dall’intervento istituzionale a regolazione delle migrazioni, interne ed esterne, che ha influito, ma solo parzialmente, sulle decisioni individuali e sui conseguenti flussi della manodopera, anche in questo caso con accesi dibattiti e scarsi effetti sulle dinamiche reali 47. Una storia di problemi sociali, di attori, istituzioni e normative che sapesse cogliere (con analisi di periodo medio-lungo, per una corretta individuazione dei momenti di svolta) l’incontro e lo scontro delle risposte elaborate dai soggetti sociali e delle mediazioni operate dalle forze politiche può contribuire al superamento delle difficoltà che la storia sociale ha incontrato nell’affrontare la dimensione della politica.

NOT E 1. M. van der Linden (a cura di), End of Labour History?, Cambridge, Cambridge University Press, 1993. 2. J. Kocka, New Trends in Labour Movement Historiography: A German Perspective, in “International Review of Social History”, 1997, n. 42. 3. F. D’Agostini (a cura di), Operaismo e centralità operaia, Roma, Editori Riuniti, 1978. 4. M. Paci, Il mutamento della struttura sociale in Italia, Bologna, Il Mulino, 1992; G. Lerner, Operai. Viaggio all’interno della Fiat. La vita, le

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case, le fabbriche di una classe che non c’è più, Milano, Feltrinelli, 1988. 5. La considerazione, avanzata originariamente da Elimio Reyneri, è stata ripresa da chi scrive nell’introduzione a S. Musso (a cura di), Operai, Torino, Rosenberg & Sellier, 2006. 6. A. Portelli, Sulla specificità della storia orale, in “Primo maggio”, autunno 1979, n. 13; E. Franzina, Civiltà popolare o storia e cultura delle classi subalterne? Dai “documenti contadini” all’ “oral history”, in “Società e storia”, 1979, n. 6. 7. G. Levi, L. Passerini, L. Scaraffia, Vita quotidiana in un quartiere operaio di Torino tra le due guerre: l’apporto della storia orale, in “Quaderni storici”, 1977, n. 35; D. Jalla, Sviluppo urbano, quartieri operai e senso di appartenenza territoriale: Lingotto e Barriera di Nizza, in D. Jalla, S. Musso, Territorio, fabbrica e cultura operaia a Torino 1900-1940, Torino, Regione Piemonte, 1981; L. Passerini, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Roma-Bari, Laterza, 1984. 8. M. Lungonelli, Una fonte per un mutamento di prospettiva: la classe operaia italiana nei libri matricola, in “Archivi e imprese”, 1990, n. 1. 9. Il primo studio a imporre l’attenzione sulla instabilità occupazionale è stato F. Piva, G. Tattara (a cura di), I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione 1917-1940, Venezia, Marsilio, 1983. 10. A. Bagnasco, Tre Italie, Bologna, Il Mulino, 1977; id. La costruzione sociale del mercato, Bologna, Il Mulino, 1988; S. Brusco, S. Papa, Per una storia dei distretti industriali italiani dal dopoguerra a oggi, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Roma, Donzelli, 1997; A. Arrighetti, G. Serravalli (a cura di), Istituzioni intermedie e sviluppo locale, Roma, Donzelli, 1999; G. Becattini, F. Sforzi, Lezioni sullo sviluppo locale, Torino, Rosenberg & Sellier, 2002; A. Alaimo, Un’altra industria? Distretti e sistemi locali nell’Italia contemporanea, Milano, Angeli, 2002; A. Colli, I volti di Proteo. Storia della piccola impresa in Italia nel Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 2002. 11. Su genere e ambiente come prospettive che hanno modificato le vecchie percezioni del lavoro si sofferma M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Torino, Einaudi, 2001. 12. Le più recenti evoluzioni dell’analisi dei rapporti tra uomini e donne sfumano la coppia dominio maschile/subordinazione femminile in relazioni reciproche in cui le donne, pur da posizioni di debolezza, dispongono di una certa capacità contrattuale (patronage), fino a un parziale

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ribaltamento dei ruoli nell’eccezionalità dei periodi di guerra (maternage). Su quest’ultimo aspetto, A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza,1991. 13. Per gli studi sulla storia delle donne e l’ottica di genere ha svolto un ruolo primario in Italia la rivista “Memoria”. Sul lavoro femminile, C. Saraceno, Anatomia della famiglia, Bari, 1976; A. Groppi, Il lavoro delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1996; M. De Giorgio, Le italiane dall’Unità a oggi, Roma-Bari, 1992; F. Bettio, The Sexual Division of Labour. The Italian Case, Cambridge, Cambridge University Press, 1989; P. Nava (a cura di), Operaie, serve, maestre, impiegate, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992; V. De Grazia, How Fascism Ruled Women. Italy, 1922-1945, University of California Press, 1992; B. Curli, Italiane al lavoro 19141920, Venezia, Marsilio, 1998. 14. Per tali attività nel mondo contadino, S. Salvatici, Contadine nell’Italia fascista: presenze, ruoli, immagini, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999. 15. Su questi aspetti del lavoro femminile disperso e non registrato dalle statistiche ufficiali F. Ramella, Variazioni sul tema delle donne nelle migrazioni interne. Torino anni venti e trenta, in Donne e uomini migranti. Storie e geografie tra breve e lunga distanza, a cura di Angiolina Arru, Daniela Luigia Caglioti, Franco Ramella, Roma, Donzelli, 2008; A. Badino, Tutte a casa? Donne tra migrazione e lavoro nella Torino degli anni sessanta, Roma, Viella, 2008. Sulla figura e sul mestiere della sarta nella emancipazione femminile e nel cambiamento socioculturale V. Maher, Tenere le fila. Sarte, sartine e cambiamento sociale 1860-1960, Torino, Rosenberg & Sellier, 2007. 16. G. Di Bello, Soli per il mondo. Bambine e bambini emigranti tra Otto e Novecento, Milano, Unicopli, 2001; Giovani e ordine sociale, numero monografico di “Storia e problemi contemporanei”, a. XIV, n. 27, 2001. 17. Per la nascita della storiografia del movimento operaio in Italia si veda D. Bidussa, Storia e storiografia sul movimento operaio nell’Italia del secondo dopoguerra. Gli anni della formazione (1945-1956), in L. Cortesi, A. Panaccione (a cura di), Il socialismo e la storia. Studi per Stefano Merli, Milano, Angeli, 1998. 18. Il lavoro più significativo di questa stagione è S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880-1900, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1972-73.

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19. Su fattori strutturali e soggettivi nel dibattito internazionale sulla formazione della classe operaia si veda I. Zatznelson, A. Zolberg (a cura di), Working-Class Formation. Nineteenth Century Patterns in Western Europe and the United States, Princeton, Princeton University Press, 1986. 20. Questa stagione fu anticipata da Andreina De Clementi, che spostò il centro dell’attenzione, in tema di formazione della classe operaia, dall’organizzazione di fabbrica ai processi di proletarizzazione nelle campagne, ai movimenti migratori connessi alla crisi agraria degli anni ottanta dell’Ottocento, al mercato del lavoro e ai conflitti che si innescavano, in ambiente urbano, tra gli operai di origine artigiana e le nuove masse di ex contadini (La società inafferrabile. Protoindustria, città e classi sociali nell’Italia liberale, Roma, Edizioni Lavoro, 1986); e da Franco Ramella, che suggerì, contro l’esclusiva attenzione allo strutturarsi della domanda di lavoro da parte dell’industria, la necessità di considerare i fattori dal lato dell’offerta nella formazione di un mercato del lavoro industriale, fattori legati alle strategie delle famiglie e alle configurazioni delle comunità preindustriali (Terre e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1984). 21. N. Gallerano, Fine del caso italiano? La storia politica tra “politicità” e “scienza”, in “Movimento operaio e socialista”, 1987, n. 1-2. 22. G. Eley, K. Neild, Why Does Social History Ignore Politics?, in “Social History”, 1980, n. 2. 23. Un chiaro esempio di profondità di analisi delle strategie individuali e di completa assenza di considerazione per le strategie collettive è lo studio di M. Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino, Einaudi, 1987. 24. L. Guiotto, La fabbrica totale. Paternalismo industriale e città sociali in Italia, Milano, Feltrinelli, 1979; F. Levi, L’idea del buon padre, Torino, Rosenberg & Sellier, 1984; E. Benenati, La scelta del paternalismo. Un’azienda dell’abbigliamento tra fascismo e anni ‘50, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994. 25. La storia d’impresa in Italia ha vissuto nuovi sviluppi a partire dagli anni Ottanta, con un approccio che considera le imprese come centri decisionali e spazi di relazioni sociali che costituiscono il punto d’incontro nel quale si intrecciano il progresso tecnologico, l’evoluzione dei mercati, i conflitti sociali, gli orientamenti culturali e le scelte imprenditoriali e manageriali; l’impulso alla storia d’impresa è venuto non a caso

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da storici del lavoro quali Franco Amatori, Giuseppe Berta, Duccio Bigazzi, Renato Covino, Michele Lungonelli, Paride Rugafiori, Giulio Sapelli, Luciano Segreto. Una rassegna degli studi in D. Bigazzi, La storia d’impresa in Italia. Saggio bibliografico 1980-1987, Milano, Franco Angeli, 1990. 26. Uno dei primi campi di indagine, la classe operaia durante la prima guerra mondiale, si legava all’analisi del ciclo ventennale degli scioperi tra l’inizio del secolo e il biennio rosso, e spostava l’attenzione sul ruolo dello Stato, investendo il tema delle tendenze corporative, dei progetti di razionalizzazione produttiva e sociale, delle organizzazioni di interesse. G. Procacci (a cura di), Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale, Milano, Franco Angeli, 1983; G. Berta, Il governo degli interessi. Industriali, rappresentanza e politica nell’Italia del nord-ovest 1906-1924, Venezia, Marsilio, 1996. 27. M. Cattaruzza, La formazione del proletariato urbano. Immigrati, operai di mestiere, donne a Trieste dalla metà del secolo XIX alla prima guerra mondiale, Torino, Musolini, 1979; F. Della Peruta, Lavoro e società a Milano 1816-1914, Milano, Angeli, 1987. 28. P. Audenino, Un mestiere per partire. Tradizioni migratorie, lavoro e comunità in una vallata alpina, Milano, Franco Angeli, 1990; P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, Roma, Donzelli, 2001. 29. M.L. Betri, A. Gigli Marchetti (a cura di), Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo, Milano, Angeli, 1982; V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Bari, Laterza, 1981; S. Pivato, Movimento operaio e istruzione popolare nell’Italia liberale. Discussioni e ricerche, Milano, Angeli, 1986; S. Giuntini, Milano: la rinascita dello sport operaio (1945-1948), in, Milano operaia dall’800 a oggi, a cura di M. Antonioli, M. Bergamaschi, L. Ganapini, 2 voll., Bari, Laterza, 1992. 30. G. Eley, De l’histoire sociale au “tournant linquistique” dans l’historiographie anglo-américaine des années 1980, in “Genèses”, marzo 1992, n. 7. 31. Va ricordato l’impegno di storici quali Antonio Gibelli, Emilio Franzina, Mario Isnenghi nella Federazione degli Archivi di scrittura popolare. E. Franzina, L’immaginario degli emigranti. Miti e raffigurazioni dell’esperienza italiana all’estero tra due secoli, Treviso, Pagus,

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1992; A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati e Borighieri, 1989; A. Molinari, Le lettere al padrone. Lavoro e culture operaie all’Ansaldo nel primo Novecento, Milano, Angeli, 2001. 32. F. Piva, Contadini in fabbrica. Il caso Marghera: 1920-1945, Roma, Edizioni Lavoro, 1990; una discussione del legame tra agricoltura e industria come caratteristica di lungo periodo nel caso italiano è in A. De Bernardi, La formazione della classe operaia in Italia. Appunti sulla storiografia, in Storia e storie del lavoro. Vicende riflessioni immagini tra ’800 e terzo millennio, a cura di A. Varni, Torino, Rosenberg & Sellier, 1997. 33. S. Musso, Gli operai tra centro e periferia, in id.,Operai, cit. 34. M. Scavino, Con il Martello e con la lima. Operai e intellettuali nella nascita del socialismo torinese (1889-1893), Torino, Paravia Scriptorium, 1999. 35. L. Tomassini, Mutual Benefit Societes in Italy, 1861-1922, in Social Security Mutualism. The Comparative History of Mutual Benefit Societes, a cura di M. van der Linden, Berna-Berlino-Francoforte-New York-ParigiVienna, International Institute of Social History, 1996. 36. Così gli studi di caso raccolti in Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, a cura di S. Musso, “Annali” della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, a. XXXIII, 1997 (Milano, Feltrinelli, 1999). Tra i lavori successivi si segnalano AA.VV., La città delle fabbriche. Viaggio nella Sesto San Giovanni del Novecento, Cinisello Balsamo, Pizzi Editore, 2002; P. R. Willson, La fabbrica orologio. Donne e lavoro alla Magneti Marelli nell’Italia fascista, Milano, Angeli, 2003. L. F. Sudati, Tutti i dialetti in un cortile. Immigrazione a Sesto San Giovanni nella prima metà del Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2008; A. Pellegrino, Operai intellettuali. Lavoro, tecnologia e progresso all’Esposizione di Milano 1906, Mandria, Lacaita, 2008; N. Bigatti, L’altra fatica. Lavoro femminile nelle fabbriche dell’Alto Milanese 1922-1943, Milano, Guerini e Associati, 2008. 37. Contributi sul mondo degli impiegati in A. Varni, G. Melis (a cura di), Le fatiche di Monsù Travet. Per una storia del lavoro pubblico in Italia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999; id., Burocrazie non burocratiche. Il lavoro dei tecnici nelle amministrazioni tra Otto e Novecento, Torino, Rosenberg & Sellier 1999; G. Melis (a cura di), Impiegati, Torino,

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Rosenberg & Sellier, 2004; M. Coglitore, Il timbro e la penna. La “nazione” degli impiegati postali nella prima metà del Novecento, Milano, Guerini e Associati, 2008. 38. J. Zeitlin, From Labour History to the History of Industrial Relations, in “Economic History Review”, 1987, n. 2. 39. P. Causarano, La professionalità contesa. Cultura del lavoro e conflitto industriale al Nuovo Pignone di Firenze, Milano, Angeli, 2000. 40. G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat 19191979, Bologna, Il Mulino, 1998; in questo quadro di ampliamento critico del modello chandleriano si collocano molti dei saggi contenuti in F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti, L. Segreto (a cura di), Storia d’Italia, Annali 15, L’industria, Torino, Einaudi, 1999; sull’analisi congiunta delle strategie delle imprese e delle organizzazioni operaie si possono segnalare alcuni recenti studi settoriali: G. M. Longoni, L’arte dei cappellai. Lavoro, imprese, organizzazioni tra XIX e XX secolo, Sesto San Giovanni, Archivio del Lavoro, 2001; S. Ruju, Il peso del sughero. Storia e memorie dell’industria sugheriera in Sardegna (1830-2000), Sassari, Banco di Sardegna, 2002. 41. Postulata a suo tempo da H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo, Torino, Einaudi, 1978. 42. Tra i quali, oltre a Bigazzi, si possono ricordare Franco Amatori, Giuseppe Berta, Michele Lungonelli, Paride Rugafiori, Giulio Sapelli, Luciano Segreto, Pier Angelo Toninelli; una rassegna della storia d’impresa in Italia è stata scritta da Bigazzi: La storia d’impresa in Italia. Saggio bibliografico 1980-1987, Milano, Angeli, 1990. Tra le monografie più recenti, A. Tappi, Un’impresa italiana nella Spagna di Franco: il rapporto Fiat-Seat dal 1950 al 1980, Perugia, Crace, 2008. 43. T. Manwaring, The extendend internal labour market, in “Cambridge Journal of Economics”, 1984, n. 8. 44. P. Raspadori, Lavoro e relazioni industriali alla Terni, 1900-1914. Gli uomini dell’acciaio, Ancona, Proposte e Ricerche, 2001. Un approccio che accentua la dimensione tecnologica nell’analisi del lavoro come fattore produttivo in M. Vasta, Innovazione tecnologica e capitale umano in Italia (1880-1914). Le traiettorie della seconda rivoluzione industriale, Bologna, Il Mulino, 1999. 45. Lo studio della classe operaia e del movimento operaio sullo sfondo delle istituzioni pubbliche, dei sistemi di welfare, dei partiti e dei sistemi

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Stefano Musso, Per la storia del lavoro. Società, soggetti, organizzazioni, istituzioni.

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politici, è stato proposto da I. Katznelson, The “Bourgeois” Dimension: A Provocation About Institutions, Politics and the Future of Labor History, in “International Labor and Working-Class History”, 1994, n. 46. Collegati a questo ambito di ricerca si possono considerare i lavori che analizzano il ruolo dello Stato nei processi di istituzionalizzazione dei sistemi di relazioni industriali e nella legislazione sul lavoro. Spesso questi lavori si sono concentrati sulle novità introdotte dalla prima guerra mondiale: L. Tomassini, Lavoro e guerra. La “mobilitazione industriale” italiana 1915-1918, Napoli, Esi, 1997; M. Bettini, Fabbrica e salario. Stato, relazioni industriali e mercato del lavoro in Italia 1913-1927, Livorno, Belforte, 2002; P. Di Girolamo, Produrre per combattere. Operai e mobilitazione industriale a Milano durante la grande guerra. 1915-1918, Napoli, Esi, 2002. Più in generale, sulla storia dell’intervento pubblico nei conforti del lavoro D. Marucco, La riforma del Senato nel primo dopoguerra: i tentativi di trasformare il Consiglio superiore del lavoro in parlamento tecnico del lavoro, in “Trimestre”, 1988, n. 1-4; ead., L’amministrazione della statistica nell’Italia unita, Roma, Laterza, 1996. Un tentativo di sintesi di lungo periodo e di taglio divulgativo sulla storia sociale del lavoro e delle relazioni industriali è in S. Musso, Storia del lavoro in Italia dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio, 2002. 46. Ho cercato di applicare questo approccio in S. Musso, Le regole e l’elusione. Il governo del mercato del lavoro nell’industrializzazione italiana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2004. 47. S. Gallo, Governare la mobilità. Il servizio statale delle migrazioni nell’Italia fascista, tesi di dottorato, Università di Pisa, tutor Paolo Pezzino, 2008.

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Passato prossimo e futuro anteriore.

Andrea Sangiovanni

Ogni tanto gli operai sembrano riaffacciarsi all’attenzione dell’opinione pubblica. Era successo con l’incidente alla ThyssenKrupp nel dicembre del 2007 1; è successo quest’estate con la felice conclusione della vicenda INNSE e con il seguito di polemiche sulla spettacolarizzazione delle forme di protesta 2. Qualche volta se ne parla per denunciarne la scomparsa e la sostanziale rimozione 3; altre volte, magari in occasione dell’uscita di un film, se ne predice il ritorno 4. A voler essere ottimisti si potrebbe parlare di piccoli segnali di una ripresa d’interesse nei confronti di un argomento – il lavoro – e di un settore della società – gli operai – che negli ultimi decenni hanno conosciuto una progressiva esclusione dal dibattito pubblico: ma è una ripresa talmente episodica e contraddittoria che non lascia molto spazio all’ottimismo e che, forse, più che al peso delle classi o dei ceti nella società attiene alle dinamiche delle rappresentazioni collettive e della formazione degli immaginari pubblici; qualcosa che, dunque, ha a che fare più col sistema dei media che con la stratificazione sociale, anche perché gli operai fanno notizia soprattutto in caso di sciopero o in quello più disgraziato di incidente. Nessuna sorpresa, del resto: è noto infatti che “il sistema delle comunicazioni non ama le cose che sono già successe” e si nutre del “sempre nuovo” come ben 29

Andrea Sangiovanni, Passato prossimo e futuro anteriore: la classe operaia

La classe operaia nell’immaginario collettivo italiano


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dimostra la vicenda della Acciai Speciali Terni raccontata da Alessandro Portelli in un libro recente. Nel 2004 gli operai organizzano una serie di duri scioperi contro la decisione della multinazionale ThyssenKrupp di chiudere il reparto magnetico di Terni, fiore all’occhiello dell’industria siderurgica cittadina e nazionale; di fronte alla forte mobilitazione che, supportata da tutta la popolazione, arriva a occupare la stazione o la vicina autostrada l’azienda sospende la decisione. L’anno successivo, però, torna sui suoi passi e gli operai riprendono le manifestazioni. Ma stavolta, scrive Portelli, l’accoglienza dei media è ben diversa: “che gli operai di Terni occupino la stazione e l’autostrada non è più una novità, non fa più notizia. Anche se forse la notizia è proprio questa: che hanno ancora la necessità e il coraggio di farlo” 5. Tuttavia, anche il mondo della ricerca storica sta mostrando da qualche anno un rinnovato interesse per i temi legati al lavoro, all’impresa, al sindacato e ai mondi operai in generale. Un utile indicatore è costituito dagli annali della Società italiana di Storia contemporanea che recensiscono gran parte degli studi storici editi in Italia e secondo i quali negli ultimi tre anni sono stati pubblicati una trentina di studi 6; forse non sono tanti – e sicuramente non sono tutti quelli effettivamente pubblicati – ma danno la misura di un lavoro di analisi e di ricerca che continua a scavare in terreni che si pensavano fino a pochi anni fa completamente dissodati e che, invece, continuano a dare frutti. Evidentemente nel mondo un po’ appartato della ricerca storica è abbastanza diffusa la convinzione che l’analisi dei temi legati al lavoro possa ancora dirci molto: una convinzione che, a mio parere, è rinforzata dall’apparente scomparsa del tema dalla discussione pubblica 7. La domanda, allora, è: che cosa significa, oggi, fare storia del movimento operaio o dei complessi e variegati mondi operai? Per rispondervi bisogna tenere presente che l’interesse della storiografia italiana alle vicende legate al mondo del lavoro non è stato lineare e ha, anzi, conosciuto un andamento ondivago, sinusoidale, spesso legato alle vicende politiche: infatti, come notava anni fa Stefano Musso introducendo un volume dedicato ai 30


mondi operai nell’Italia del Novecento che ha segnato una nuova fase degli studi, la labour history è un settore di ricerca “forse più di altri sottoposto all’influenza degli umori dei tempi, delle congiunture sociali e politiche, dei problemi del presente e delle aspettative politiche per il futuro, dei cicli della conflittualità e del protagonismo dei gruppi operai (…) perché gli interessi e gli sforzi di ricerca in questo campo sono fortemente influenzati dall’impegno politico, implicito o esplicito, degli studiosi, dalla sensibilità verso le sorti dei gruppi sociali subalterni, della propensione alla riforma o al rivoluzionamento del sistema sociale e produttivo” 8. Così, la crisi degli studi in questo settore a partire all’incirca dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso è dovuta a un calo di interesse per i temi legati al lavoro che si è riflesso, in modo circolare, dai mezzi di comunicazione di massa al pubblico colto, per toccare infine il mondo accademico e i centri di ricerca: sono osservazioni che ritornano nel saggio di Musso ospitato su queste pagine, e ad esso rimando per un panorama storiografico e per uno sguardo ad alcune delle prospettive di ricerca possibili. Qui vorrei invece richiamare almeno una delle linee di tendenza lungo le quali si è assestato il panorama degli studi italiani tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta: in quel periodo, sulla scia della improvvisa fortuna della storia sociale tra gli storici italiani 9, si assiste a una proliferazione di nuovi indirizzi di studi su lavoro e lavoratori, che viene però considerata da molti l’equivalente sul piano storiografico del declino della centralità operaia; alla sensazione che alla moltiplicazione delle linee di ricerca corrispondesse soprattutto una dispersione degli studi contribuì anche l’eco – per quanto debole – che nel nostro paese ebbero il linguistic turn e, più in generale, la cosiddetta postmodern history. È vero che questi indirizzi storiografici hanno perso rapidamente la capacità di proporre nuove linee interpretative anche nei paesi di lingua anglosassone, dove il dibattito si era maggiormente sviluppato 10; e tuttavia penso che, a ben guardare, si possa rilevare una implicita sovrapposizione delle conclusioni della ricerca italiana e di quella inglese soprattutto sul 31

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piano della critica alla categoria analitica di “classe”. Ad essa, infatti, in Italia corrispose un complessivo spostamento delle ricerche dall’analisi degli operai come classe a quella degli operai come soggetti, una tendenza che in qualche modo veniva raccolta da Giovanni Gozzini quando affermava che “la storiografia sul movimento operaio non può non mettere in discussione la categoria stessa di classe sociale. Non solo e non tanto (…) nella contrapposizione tra oggettivo e soggettivo, tra collocazione sociale e modello culturale; quanto nell’accettare fino in fondo la scommessa di considerare la categoria di classe soltanto come il risultato eventuale di diversi percorsi individuali e del loro raccogliersi – in modo intermittente nel tempo e nello spazio – sotto una identità collettiva unitaria, fatta di comportamenti, valori, simboli, gesti” 11. Tutto sommato, la stessa ipotesi che ha accomunato le ricerche di Gareth Stedman Jones e le elaborazioni teoriche di Patrick Joyce, giusto per fare i nomi dei due fra gli studiosi più rappresentativi di quella corrente storiografica 12, a quegli studi italiani dai quali usciva “smitizzato il legame dell’operaio col mestiere, mentre si evidenzia[va] una realtà (…) fatta di instabilità occupazionale, di transitorietà della condizione operaia e di fluttuazione anche delle figure qualificate” 13. Ovviamente in quella stagione di ricerche si riflettevano le trasformazioni sociali e industriali che stavano attraversando il paese e che, insieme alla lunga crisi del sindacato, avrebbero condizionato la labour history in Italia: essa si sarebbe così ritrovata “costretta sulla difensiva”, innanzitutto “per la perdita di status del lavoro nella società postindustriale” 14, un cambiamento che Jeremy Rifkin avrebbe riassunto icasticamente parlando di “fine del lavoro” 15. In realtà non si trattava proprio della fine del lavoro e nemmeno della scomparsa della classe operaia, un’altra formula che avrebbe avuto fortuna 16, benché il tradizionale mondo del lavoro industriale subisse, com’è noto, un drastico ridimensionamento. Si possono richiamare alla memoria alcuni numeri, estremamente eloquenti: all’inizio degli anni Ottanta la Gran Bretagna perdeva circa il 25% della sua industria manifatturiera, mentre tra 32


il 1973 e la fine degli anni Ottanta gli addetti di quello stesso comparto industriale calavano di circa sette milioni di unità (un quarto del numero complessivo di impiegati in quel settore) nei sei paesi d’Europa di più antica industrializzazione, un ridimensionamento che è stato descritto come un “olocausto industriale” 17. Anche l’Italia ne era travolta: tra il 1981 e il 1983 l’indice della produzione industriale presentava “una caduta globale di 7,7 punti e [nel] quadriennio 1990-93 di 4,8 punti”, tanto che “nel 1994 l’industria (escluso il settore delle costruzioni) rappresenta[va] ormai solo il 26,5 per cento del prodotto interno lordo a prezzi di mercato” 18. Al ridimensionamento industriale 19 e alla crescita della disoccupazione si legavano poi i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nelle relazioni industriali, che passavano “dalla contrattazione rivendicativa alla contrattazione gestionale” 20, oltre che un riequilibrio dei rapporti di forza tra sindacato e governo e la fine della politica unitaria del sindacato stesso 21. Si era – è indubbio – di fronte alla fine di un ciclo, e la presenza di numerosi libri che, tra la fine degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta, raccontano i mondi operai attraverso la raccolta di memorie sembrano esserne un segno: essi potrebbero essere considerati una forma di “elaborazione del lutto” per una “classe che non c’è più” 22, ma – allo stesso tempo – sono sicuramente anche il lascito di una felice stagione di ricerca che ha permesso, grazie all’uso di nuove fonti e metodologie di indagine, di ripensare la vicenda del movimento operaio andando oltre le interpretazioni consolidate 23, E ciò vale anche per la storia del sindacato, la declinazione più politica che ha assunto la ricerca intorno ai temi del lavoro, la quale – come in genere accade alla storia politica – accoglie con insofferenza l’uso di fonti non tradizionali. In questo caso la risposta sul piano scientifico e storiografico alla crisi del sindacato è consistita nel ricostruirne la storia all’interno del quadro più generale della storia repubblicana, in un continuo confronto con le sue molteplici vicende sociali, economiche e politiche; la proposta, lanciata nel momento di massima crisi del sindacato 24, è stata raccolta nei decenni successivi da lavori che hanno esplorato le complessità del mondo sin33

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dacale sia sul piano delle strategie generali 25 che su quello di alcune sue innovative componenti 26. Oggi la pluralità delle ricerche, la proliferazione dei punti di vista e la moltiplicazione delle fonti sono il segno della vitalità e dell’attualità degli studi sul mondo del lavoro, tanto più che, nonostante la diversificazione degli approcci, essi sembrano convergere nella ricerca di una costante relazione con la storia generale d’Italia: la storia del lavoro non è più dunque una storia nel (e del) ghetto, come si paventava alla fine degli anni Ottanta 27: essa, anzi, viene sempre letta in relazione e in tensione con la cornice storica più ampia, nella convinzione che l’idea di mondi operai compiutamente ed esclusivamente modellati dal lavoro sia, appunto, solo un’idea e che essi costruiscano invece la loro identità anche nel contatto con la società al di fuori dei cancelli delle fabbriche. Questo approccio, ormai affrancatosi dall’ispirazione militante e dai suoi vincoli (anche se non dalla passione politica), consente di andare oltre quel modello tradizionale che vuole la storia del movimento operaio legata solo alle fasi del conflitto: anzi, è ormai riconosciuto che la lenta costruzione delle identità operaie avviene attraverso un complesso processo che si compie soprattutto durante le fasi ordinarie della vita di fabbrica e che mette in gioco componenti molto diverse come memoria collettiva e individuale, organizzazione del lavoro, militanza politica, appartenenza di ceto e generazionale. A questi temi le trasformazioni sociali ed economiche degli ultimi decenni impongono di aggiungerne altri, sui quali la riflessione si fa sempre meno eludibile: ad esempio, quale sia il ruolo della globalizzazione dell’economia sulle trasformazioni del lavoro, sia dal punto di vista delle politiche sindacali – costrette a mediare tra interessi locali e strategie internazionali – sia da quello delle culture operaie 28. Oppure, per rimanere su questo piano, quali siano le differenze intergenerazionali e in che modo l’indebolirsi della cultura politica nelle generazioni più giovani influenzi il formarsi di una cultura operaia o sindacale, oppure se ne impedisca in qualche modo il tramandarsi. E, ancora, la questione dell’adattamento della politica sindacale, che è fatta anche di memorie e tradi34


zioni – ad esempio di lotta – trasmesse a nuove generazioni di lavoratori, una componente significativa dei quali è composta di migranti 29. Di fronte a tali complessità, dunque, l’uso di una molteplicità di fonti è un’esigenza; sempre più spesso si usano quei materiali generalmente sottovalutati in questo tipo di ricerche, come ad esempio la stampa quotidiana che, come ha sottolineato Lorenzo Bertucelli, diventa uno strumento essenziale per ricostruire la vicenda sindacale nell’epoca della “crisi”, dal 1973 in poi, perché “da un lato (…) si assiste a un processo di ritorno al centro del processo decisionale [e] i gruppi dirigenti di CGIL e delle categorie utilizzano la stampa per riportare al vertice un potere eccessivamente disperso (…) [e] le dichiarazioni e le valutazioni sui giornali divengono messaggi e prese di posizione per orientare, recuperare e riassorbire il movimento dalla periferia al centro. Dall’altro, è il rilievo che il sindacato ‘soggetto politico’ ricopre per l’intero decennio che ne fa oggetto di attenzione quasi spasmodica da parte degli organi di informazione” 30. La pluralità delle fonti diventa inoltre un requisito essenziale per tutte quelle ricerche che vogliano ricostruire le vicende del lavoro e del movimento operaio con un taglio più vicino alla storia sociale e culturale che non a quella politica. Ad esempio, il processo a cui faceva riferimento Bertucelli, che porta operai e sindacato a essere considerati nuovi soggetti politici, un fenomeno che inizia sin dagli anni Sessanta, deposita molte “tracce” in tutte le espressioni del sentire comune e della cultura popolare, dai quotidiani ai periodici, dai film ai programmi televisivi, ma anche dai romanzi alle opere d’arte e perfino ai fumetti, tutte forme espressive che, da un lato, contribuiscono a creare una determinata immagine degli operai e, dall’altro, sono spesso il riflesso della presenza di quella determinata immagine nell’immaginario collettivo. In questo caso, dunque, l’uso di un insieme di fonti diverse è reso ancora più necessario dalla sfuggevolezza dell’immaginario collettivo 31 e dall’ambiguità epistemologica che connota i termini “immagine” e “rappresentazione” 32. Naturalmente ogni strumento di formazione dell’immaginario col35

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lettivo deve essere messo in rapporto sia alla cultura del suo tempo sia alla sua storia interna: così, ad esempio, la stampa quotidiana e periodica gioca un ruolo molto importante per tutto il corso degli anni Sessanta ma nel decennio successivo, in coincidenza con la sua crisi di metà anni Settanta, si rivela molto meno ricca di spunti 33; nel frattempo, la televisione, che fino alla fine degli anni Sessanta è una fonte molto povera, diventa sempre più importante (non a caso nel ’69 gli operai manifestano davanti alle sedi della RAI perché non sono soddisfatti del modo in cui i loro scioperi vengono raccontati dai telegiornali): durante gli anni Settanta è anche attraverso la TV – grazie a programmi come Cronaca che sono fatti anche da operai – che si sedimenta una determinata rappresentazione degli operai, una immagine che tuttavia – essendo fortemente influenzata da una autorappresentazione di gruppi politicamente attivi – non tiene conto dell’evoluzione del mondo operaio in quegli anni. E ancora: nei primi anni Cinquanta le rappresentazioni artistiche hanno una capacità di rappresentazione della società e una influenza sull’immaginario che sembrano smarrirsi negli anni successivi. E allo stesso modo, il cinema italiano tra anni Sessanta e primi anni Settanta (l’epoca d’oro della commedia all’italiana e del cinema di denuncia) è un’ottima fonte per descrivere alcuni mutamenti sociali, capacità che, schiacciato dalla forza di Hollywood e dalla sua stessa storia, e incalzato dall’emergere della televisione commerciale che gli sottrarrà pubblico, perderà nei decenni successivi. In questo modo, cercando costantemente di mettere in tensione differenti punti di vista (per confrontare rappresentazioni ed autorappresentazioni) e tenendo ben presenti le dinamiche evolutive della storia repubblicana, si possono rintracciare indizi sulla presenza degli operai nell’immaginario collettivo in forme espressive lontanissime tra loro e appartenenti, se questa distinzione ha mai avuto un senso, alla cultura “alta” e a quella “bassa”. Ad esempio, all’inizio degli anni Cinquanta la rappresentazione del lavoro è l’oggetto dei quadri della collezione Verzocchi esposta alla Biennale d’arte di Venezia nel 195034 e dei dipinti del 36


premio Suzzara 35: in entrambi i casi la grande fabbrica e l’operaio di officina sono raramente raffigurati mentre abbondano contadini, manovali, artigiani. Si tratta di uno specchio che riproduce in modo quasi perfetto la suddivisione del mondo del lavoro in quegli anni, mostrando anche un certo immaginario fatto di sudore, fatica, dignità. Venticinque anni più tardi, invece, in un panorama culturale completamente diverso, l’operaio metalmeccanico è ormai entrato nell’immaginario collettivo e vi occupa un posto di rilievo. Un indizio di questa egemonia si può rintracciare in un luogo impensato, fra le forme più basse dell’intrattenimento popolare, i tascabili erotici: tra quei fumetti di scarsa qualità ma di ampia diffusione compare in quegli anni una testata esplicitamente dedicata a un metalmeccanico, ambientata spesso nei luoghi di lavoro e intitolata, con un banale doppio senso, “Il montatore”. In realtà, il ruolo centrale della “tuta blu” nell’immaginario collettivo inizia a essere messo in discussione proprio in quegli anni e, ancora una volta, possiamo scorgere i segni di questo cambiamento grazie a una fonte poco usata nelle ricerche di storia del lavoro, i film. Infatti, benché il cinema sia ormai pienamente legittimato come fonte per la storia contemporanea, spesso è ancora usato con una pura funzione sussidiaria, per tratteggiare il milieu culturale di un determinato periodo 36; nella storia del lavoro, poi, più legata a una tradizione di ricerche di taglio politico, oppure di storia “dal basso” o, ancora, legate al mondo delle fabbriche o delle imprese, esso quasi non trova posto 37. E tuttavia il cinema è essenziale per cogliere i riflessi del mondo del lavoro nell’immaginario collettivo e, anzi, di più, riesce anche a suggerire in forma impressionistica alcune trasformazioni sociali ancora prima che esse siano colte dai sociologi o dagli osservatori più acuti del periodo. Ad esempio, come notava già Silvio Lanaro in un inciso apparentemente distratto e marginale della sua Storia dell’Italia repubblicana, attraverso “il ‘radiolibro’ e il ‘radiocane’, i soprammobili che troneggiano nel soggiorno proletario de La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri” si può scorgere il nuovo orientamento “verso stili di vita e consumi pseudo-opulenti” di una “classe operaia [che] ha cambiato volto” 38: il film è del 1971, un 37

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anno cioè in cui gli operai usciti dall’“autunno caldo” stanno ancora festeggiando i loro successi. Certo, un’analisi che si limiti ai soli significati simbolici ha un livello di aleatorietà così alto da non essere accettabile in una ricerca storica rigorosa; bisognerebbe invece analizzare il testo filmico a partire da un esame quantitativo dell’intera produzione cinematografica di un determinato periodo che individui le volte che una “tuta blu”, o un ambiente di fabbrica, entrano in un film, anche semplicemente sullo sfondo. Questo studio non è ancora stato realizzato ma la sua assenza non inficia la capacità del cinema di dirci qualcosa sugli operai, anche perché i film di finzione in cui essi hanno un ruolo di primo piano non sono molti: in estrema sintesi, il mondo operaio – quasi ignorato dal cinema durante gli anni Cinquanta – comincia ad apparire sugli schermi nei film degli anni Sessanta e il primo a proporcene un’immagine positiva e non monolitica è Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, nonostante il suo tema principale non sia il lavoro operaio ma l’immigrazione 39. In generale, nel cinema di quegli anni si riflettono, confrontandosi, due rappresentazioni tipiche del dibattito pubblico di allora: da una parte l’operaio “integrato” e, dall’altra, l’operaio “povero”. Nel primo caso l’immagine è quella di un operaio che non vuole più avere quelle “stigmate” tipiche della sua classe sociale: in questo senso l’aggettivo “integrato” è usato con un significato negativo dalla stampa comunista e, comunque, con un sottofondo moralistico anche in molta stampa “indipendente”, due interpretazioni che fanno velo al desiderio di avvicinamento ai ceti medi che caratterizza ampi settori operai e che il cinema riesce invece a esprimere con efficacia. Nel secondo caso, l’operaio è colui che, nella situazione di congiuntura economica del ’63-’64 e di irrigidimento padronale dopo i fatti del ’60 e del ’62, sta pagando il conto del miracolo economico: siamo, com’è noto, in un periodo in cui aumentano i licenziamenti o le riduzioni forzose dell’orario di lavoro ma contemporaneamente cresce anche la produzione, che evidentemente riposa tutta sull’intensificazione dei ritmi di lavoro. Nei film più interessanti di questo periodo troviamo entrambe 38


queste immagini: Pelle viva, un film quasi dimenticato del 1962 che si avvale della sceneggiatura di Carlo Castellaneta, descrive la vita di un operaio milanese pendolare e le sue giornate fatte di treni, fabbriche, osterie e tentativi di costruirsi una famiglia. Egli incarna l’operaio che tenta l’ascesa sociale (operaio integrato) ma senza riuscirci (operaio povero): le sue proteste in fabbrica per l’intensificarsi dei ritmi di lavoro lo porteranno al licenziamento e dovrà accontentarsi di un lavoro da manovale in cantiere, costretto a ignorare gli incidenti mortali che vi accadono per non perdere il posto. È un’immagine di sconfitta simile a quella che propone un altro interessante film di quegli anni, I compagni di Mario Monicelli (1963), ambientato nella Torino delle filande di fine Ottocento: entrambi, sebbene in modo diverso, registrano le tensioni sociali di quel periodo. Comunque, a grandi linee, la maggior parte dei film che parlano di operai si concentra nei primi anni Settanta: si potrebbe dunque ipotizzare l’esistenza di un rapporto diretto fra l’autunno caldo, i grandi scioperi, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, il nuovo protagonismo del sindacato e l’ingresso degli operai nell’immaginario collettivo. E tuttavia, a ben guardare, il processo attraverso il quale gli operai si spostano dalle piazze agli schermi non è così diretto: si è già accennato a uno dei molti elementi di complessità de La classe operaia va in paradiso, e si potrebbe continuare citando le scene che riguardano il rapporto con gli studenti oppure la famosa sequenza finale del sogno del protagonista. Si prenda invece un film apparentemente più semplice, una commedia di Mario Monicelli del 1974, Romanzo popolare, una pellicola particolarmente interessante perché, all’interno di una grammatica di genere, identifica apertamente il mondo operaio con quello popolare. Benché questa assimilazione risponda a un sentimento diffuso in quegli anni, nemmeno allora era un’equazione scontata: infatti la sceneggiatura iniziale prevedeva un’ambientazione romana e un altro mestiere per il protagonista e solo l’indisponibilità dell’attore inizialmente scelto per quel ruolo e la sua sostituzione suggerirono agli autori l’ambientazione milanese e operaia. Questo dettaglio mette in luce una 39

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caratteristica della fonte cinema: un film acquista alcune caratteristiche, anche simboliche, attraverso un percorso accidentato in cui interagiscono almeno tre soggetti, gli autori, lo stesso film e il pubblico. Così, il percorso che porta gli operai a diventare i rappresentanti eponimi del popolo al cinema non è né lineare né una diretta emanazione del nuovo status sociale che hanno conquistato con le lotte dell’“autunno caldo” ma avviene un po’ per caso, in sostituzione di un altro soggetto sociale, un impiegato (tale doveva essere il protagonista del film di Monicelli), figura molto più presente sugli schermi italiani. Se a questo si aggiunge che dall’anno successivo gli operai praticamente scompariranno dagli schermi e che il loro ruolo sarà occupato dalla maschera tragicamente comica dell’impiegato Ugo Fantozzi, si capisce come Romanzo popolare sia un film di confine che riesce a intuire una trasformazione sociale nel momento stesso in cui essa inizia a essere descritta dalla sociologia e ben prima che riesca a penetrare nel senso comune. In questo senso, allora, l’assenza può essere altrettanto significativa della presenza: la scomparsa degli operai dagli schermi italiani a metà anni Settanta anticipa un processo di dissoluzione dall’immaginario collettivo che arriverà a compimento solo un lustro più tardi e di cui, nel cinema, si ha traccia in qualche pellicola minore. Si prenda ad esempio un film di Steno che arriva nelle sale nel 1979 e che sin dal titolo, La patata bollente, strizza l’occhio alla commedia scollacciata. In realtà siamo un gradino più in alto dei film di quel genere che in quegli anni invadono gli schermi: la storia è quella di un operaio sindacalizzato, ex tiratore di boxe, berlingueriano che salva da un pestaggio un omosessuale e lo accoglie in casa: la sua presenza finirà per sconvolgergli la vita mettendone in crisi le convinzioni. Che cosa un film del genere potrebbe dirci sul mondo operaio nell’ultimo scorcio degli anni Settanta? Offre qualche notazione di costume sulla classe operaia? È almeno girato in fabbrica? Niente di tutto questo: la rappresentazione dell’operaio è assolutamente stereotipata, le scene in fabbrica sono pochissime (e per lo più ambientate in mensa), e la vita dell’operaio non è distinguibile da quella 40


di chiunque altro, sia esso impiegato o commerciante. Ma quello che interessa, in questo caso, è proprio l’impossibilità, a meno di non renderlo una macchietta stereotipata, di rappresentare un operaio “tipico”: proprio allora, infatti, si affaccia sulla scena una nuova generazione operaia che, come si incaricheranno di rilevare definitivamente le vicende del 1979-80 alla FIAT, è totalmente diversa dalle precedenti e ha perso tutti i suoi tratti “caratteristici”. E allo stesso modo un film di Nanni Loy di qualche anno più tardi, Mi manda Picone (1983), riesce a mostrarci – indirettamente ma con acume – la crisi degli operai, sia sul piano dell’immaginario collettivo che in quello della realtà quotidiana: infatti il motore narrativo del film, l’operaio Picone, non si vede mai e si rivela essere solo una “copertura sociale” per un uomo dai mille mestieri. Proseguendo lungo questo percorso si potrebbe arrivare fino ai giorni nostri per scorgere nel cinema i segnali della progressiva perdita di status del lavoro e del sindacato come ben mostra il recente Tutta la vita davanti di Paolo Virzì (2008) e la figura del sindacalista interpretato da Valerio Mastrandrea; ma si pensi anche, per altri versi, alla capacità di un film come Il posto dell’anima di Riccardo Milani (2003) di attirare l’attenzione sui cambiamenti di scala dei problemi legati al lavoro e sul modo in cui entrano in tensione la dimensione della fabbrica – che fa perno su comunità locali – e quella della multinazionale che la gestisce, le cui logiche economiche rimandano invece a strategie globali 40. Gli esempi potrebbero continuare esaminando altre fonti poco usate ma capaci di fornire suggestive chiavi di lettura, dalla fotografia 41 alla letteratura: quest’ultima, in particolare, potrebbe aiutare a capire meglio la persistenza di “eco di una mitologia” sui mondi operai che, ancora oggi, soprattutto nella pubblicistica e nel discorso collettivo, impediscono talora di coglierne le trasformazioni 42. Si pensi al peso che può aver avuto nel sedimentare un certo immaginario “rivoluzionario” del 1969 il racconto delle lotte operaie di quell’anno nato dalla penna di Nanni Balestrini nel romanzo Vogliamo tutto (1971): suggestivo, certo, ma per ampi tratti fuorviante con la sua descrizione del conflitto sociale 41

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e sindacale come “rivolta” e con l’identificazione dell’intero movimento operaio di quei mesi in una sua parte. Ma, allo stesso tempo, si pensi al ruolo anticipatore e rivelatore di molta “letteratura industriale”, che ancora oggi – sebbene sia quasi scomparsa – riesce a raccontare in modo esemplare, talora nello spazio di poche pagine, la trasformazione del mondo del lavoro 43. Benché non sia possibile in questa sede approfondire l’analisi di ciascuna di queste fonti, occorre sottolineare come ognuna di esse sia caratterizzata da una forte componente di soggettività che costringe lo studioso a un continuo confronto con i processi storici, economici e sociali del periodo in esame, e a intessere un dialogo fittissimo con le discipline “sorelle” della storia, la sociologia ad esempio, ma anche l’economia o le relazioni industriali. Talora questo confronto con le altre discipline è inevitabile; si consideri ad esempio una delle forme espressive della soggettività operaia più ricche di storia e di simbologie ma, allo stesso tempo, meno studiate dalla storiografia, i cortei 44. Penso che il loro esame diacronico potrebbe permettere di gettare una luce nuova su alcuni aspetti non irrilevanti delle culture politiche e operaie e sulla loro trasformazione: si prendano ad esempio il crescente allontanarsi dei cortei dalle aree limitrofe alle fabbriche e la progressiva “invasione” delle città, e si consideri quanto ciò influisca sulla percezione collettiva del movimento operaio e sulle autorappresentazioni degli stessi operai nel corso degli anni Sessanta; oppure, ancora, si rifletta sulle trasformazioni successive che portano i cortei a recuperare una coreografia rigidamente organizzata – che il ’69 sembrava aver dissolto – e a “chiudersi” all’interno di un cordone di sicurezza che li protegge da minacce esterne e interne ma, allo stesso tempo, li isola dalla società, perlomeno sul piano simbolico 45. E si consideri, infine, il modo in cui i cortei si trasformano nei decenni a noi più vicini, subendo talora l’influenza di altre forme di manifestazione, come ad esempio quelle delle tifoserie organizzate, oppure assumendo le forme coreografiche delle tradizioni locali: Portelli, ad esempio, sottolinea che le manifestazioni del 2004 degli operai di Terni “recuperano aspetti della cultura tradizionale, dal dialetto come riaffer42


mazione di un’identità che è insieme cittadina ed operaia (…) alle figure allegoriche dei carri del maggio” 46. In casi come questo lo storico ha bisogno di strumenti diversi da quelli tipici della sua disciplina e più simili, ad esempio, a quelli dell’antropologia, nonostante l’incontro con quest’ultima sia stato solo sfiorato. Proprio analizzando le ragioni di questo mancato incontro, Fabio Dei ha rilevato che ormai, pur potendo studiare la memoria degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, “non se ne può più fare etnografia” e che dunque bisogna ripartire dall’oggi: “sarebbe un errore drammatico (…) – ha scritto – attribuire autenticità alla cultura operaia degli anni Sessanta e Settanta, lamentandone l’odierna scomparsa e pensando che oggi non c’è più nulla di interessante da studiare”; e ha aggiunto che in questo modo si riprodurrebbero errori già commessi, “trascurare il presente inautentico accecati dalle nostalgie del passato. Si tratta invece di mettere a fuoco (…) ciò che ci sta sotto gli occhi, per quanto complesso, frammentato e sfuocato possa apparire” 47. Alessandro Portelli sembra raccogliere queste osservazioni quando nota che esistono delle contaminazioni reciproche fra cultura giovanile di massa e cultura di fabbrica: “come la condizione operaia non era poi tanto totalizzante quanto si è scelto di credere in passato (…) – scrive – anche la cultura giovanile contemporanea è declinabile in termini di rapporto con le forme e i tempi del lavoro [e] capita che anche le comitive giovanili del sabato sera debbano adattarsi ai tempi della fabbrica” 48. Così, proprio la frammentazione e l’indeterminatezza del presente rendono ancora più necessario interrogare il passato per cogliere la complessità del mondo del lavoro oltre la semplificazione delle categorie usate finora, cercando – ad esempio – di illuminare quelle zone rimaste più in ombra come quelle componenti operaie che si potrebbero definire “d’ordine”, un settore del mondo del lavoro subordinato che si può supporre molto ampio benché poco rappresentato. E, analizzando la trasformazione sociale e culturale degli ultimi trent’anni dall’angolo prospettico del lavoro, si potrebbe forse comprendere meglio il cambiamento del paese rispondendo in chiave storica a alcune delle 43

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domande che corrono sotto la superficie di molti lavori sociologici degli ultimi anni come, ad esempio, che ruolo abbia avuto il passaggio da un’economia fordista a una postfordista – fino ad arrivare alle forme più recenti di “capitalismo molecolare” – nel successo delle nuove formazioni politiche che hanno occupato la scena italiana a partire dagli anni Novanta 49; oppure, ancora, chi abbia preso il posto della classe operaia 50. Benché infatti gli operai non siano scomparsi – e, anzi, secondo alcuni dati FIOM, l’industria metalmeccanica rappresenterebbe più del 40% dell’occupazione e del sistema industriale italiano 51 – essi sono socialmente invisibili 52 e questa condizione, unita al fatto che una consistente percentuale di italiani continui a sentirsi parte della classe operaia 53, offre molti spunti di riflessione per una storia del lavoro che allarghi l’orizzonte dei propri interessi fino a farsi parte di una più ampia storia della società italiana: per esempio, ci si potrebbe chiedere “cosa ha comportato negare la centralità del lavoro operaio per sostituirla col precariato dei servizi come archetipo attuale di riferimento” 54, oppure domandarsi se la cosa che è veramente scomparsa dall’inizio degli anni Ottanta non sia tanto la “classe operaia” (o un modo di lavorare) quanto, piuttosto, un’idea del futuro 55.

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NOT E 1. A parte la pubblicistica – per cui si rimanda a D. Novelli e altri, ThyssenKrupp. L’inferno della classe operaiai, Milano, Sperling & Kupfer, 2008 – l’enorme emozione suscitata dall’episodio ha trovato decantazione in un film documentario di M. Calopresti, La fabbrica dei tedeschi (2008) e in uno di P. Balla e M. Repetto, ThyssenKrupp Blues (2008). 2. Cfr. l’intervista a L. Angeletti in L. Iezzi, INNSE e Colosseo, è la protestashow. Il sindacato non riesce a tutelare tutti, in “la Repubblica” del 17 agosto 2009; per una posizione diversa si veda invece l’intervista a F. Bertinotti di R. Barenghi, “Alla INNSE il progetto ha vinto più della gru”, in “La Stampa” del 17 agosto 2009. Le critiche nei confronti della “spettacolarizzazione” della protesta non sono nuove: si veda ad esempio il

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dibattito nato sulle pagine de “il manifesto” a partire da una lettera di Franco Astengo, allora segretario del PDUP di Savona, intitolata “Davvero gli operai si sono ridotti a questo?” e pubblicata l’8 gennaio 1984, in cui si lamentava l’uso dello sciopero della fame proposto dal consiglio di fabbrica per combattere contro la chiusura della Fornicoke di Vado Ligure e ci si chiedeva “tutto è ormai da affidare alla spettacolarizzazione di ogni gesto: alla amplificazione degli individualismi; alla risoluzione dei problemi consegnata alle tensioni emozionali?”. 3. I. Diamanti, La rimozione delle tute blu, in “la Repubblica” del 10 dicembre 2006. Si noti che anche all’inizio di quello stesso anno il quotidiano aveva dedicato agli operai un numero del suo inserto “Diario”: cfr. L. Gallino, Tute blu, quel che resta del mito, “Diario di Repubblica”, in “la Repubblica” del 20 gennaio 2006. 4. Il ritorno della classe operaia titolava “Il Corriere della Sera” il 26 agosto 2008 annunciando la proiezione al Bobbio Film Festival del film di Wilma Labate Signorinaeffe. 5. A. Portelli, Acciai speciali. Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione, Roma, Donzelli, 2008; p. 141, corsivo mio. Da questo libro ho tratto anche la citazione precedente. 6. Cfr. Il mestiere di storico, edizioni 2007, 2008 e 2009, il cui corpus di recensioni si riferisce al triennio 2006-2008. Essi sono consultabili all’indirizzo www.sissco.it nella sezione pubblicazioni. 7. Chi non nutre il mio stesso ottimismo potrebbe facilmente ribaltare l’affermazione giudicando questo ritorno d’interesse come il segnale che una fase della storia del movimento operaio e sindacale si è ormai completamente esaurita, al punto da essere diventata questione di esclusiva pertinenza della ricerca storica: a costoro si potrebbe ribadire, richiamando la nota affermazione di Croce per cui “ogni storia è storia contemporanea”, che le domande a cui gli storici cercano risposta nelle vicende passate del mondo del lavoro scaturiscono proprio dalla sua trasformazione attuale in cui probabilmente gli elementi di novità equivalgono agli elementi di persistenza. 8. S. Musso, Gli operai nella storiografia contemporanea, in Id. (a cura di), Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, in “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”, XXXIII, 1997, Torino, Einaudi, 1999; p.X. 9. Per un quadro complessivo si rimanda alla recente e penetrante sin-

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tesi di M. Salvati, La storiografia sociale nell’Italia repubblicana, in “Passato e Presente”, a. XXVI, n. 73, 2008; pp. 91-110. 10. Per uno sguardo d’insieme rimando al sintetico ma esaustivo articolo di G. Montroni, Il tramonto del concetto di classe e le vicende della storiografia sociale britannica, in La metamorfosi della storia sociale, in “Memoria e ricerca”, n.10, maggio-agosto 2002 (a cura di Maria Malatesta); pp. 23-39. Per avere un’idea del dibattito anglosassone sulle questioni si possono utilmente vedere P. Joyce, The end of social history?, in “Social History,”, Vol. XX, 1, 1995 e G. Stedman Jones, The Determinist Fix: Some Obstacles to the Further Development of the Linguistic Approach to History in the 1990s, in “History Workshop Journal”, n.42, autumn 1996. 11. G. Gozzini, La storiografia del movimento operaio in Italia: tra storia politica e storia sociale, in C. Cassina, La storiografia sull’Italia contemporanea, Pisa, Giardini, 1991; p. 273. 12. Rimando ai due lavori classici di questi autori, G. Stedman Jones, Languages of class: studies in English working class hisotry (1832-1982), Cambridge University Press, 1983 e P. Joyce, Vision of the People: industrial England and the question of class, 1848-1914, Cambridge University Press, 1991. 13. M. Salvati, La storiografia sociale nell’Italia repubblicana, cit.; p. 105. 14. Ivi; pp. 105-106. 15. J. Rifkin, La fine del lavoro, Milano, Baldini & Castoldi, 1995. 16. Si cominciò infatti a parlare di quella operaia come di una “classe che non c’è più”, mutuando la formula da un’efficace inchiesta di Gad Lerner: cfr. G. Lerner, Operai. Viaggio all’interno della FIAT. La vita, le case, le fabbriche di una classe che non c’è più, Milano, Feltrinelli, 1988. 17. L’espressione e le cifre sono in E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1998; p. 358. Per una veloce sintesi del caso italiano si può vedere S. Musso, Gli operai tra centro e periferia, in Id. (a cura di), Operai, Torino, Rosemberg & Sellier, 2006; p. 89 e ss. 18. Albert Carreras, Un ritratto quantitativo dell’industria italiana, in F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti, L. Segreto, L’industria, “Storia d’Italia”, Annali 15, Einaudi, Torino 1999; p.218. 19. Anche se il dato è incontrovertibile, si tenga presente anche per l’Italia l’avvertenza di Hobsbawm circa la reale natura della trasformazione in quegli anni: secondo lo storico inglese, infatti, il «tracollo» della

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classe operaia era soprattutto una «illusione (…) dovuta agli spostamenti avvenuti al suo interno e dentro il processo di produzione, piuttosto che a una emorragia demografica». Cfr. E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit.; p. 356 ss. 20. La definizione è di S. Musso, Storia del lavoro in Italia dall’unità ad oggi, Venezia, Marsilio, 2002; p. 245. 21. Su questi temi si veda L. Bertucelli, Piazze e palazzi. Il sindacato tra fabbrica e istituzioni. La CGIL (1969-1985), Milano, Unicopli, 2004, in particolare pp. 155 e ss. 22. Si veda ad esempio la postfazione di G.P. Cella a P. Crespi, La memoria operaia, Roma, Edizioni Lavoro, 1997 in cui si sottolinea la necessità della persistenza della memoria di fronte alla scomparsa della classe operaia: “Che ne è allora della classe operaia? È finita, assieme alla ‘questione’ (…) che l’aveva accompagnata nel corso della sua storia (…). È finita la questione che nasceva dalla contraddizione posta dalla situazione di una vasta moltitudine di soggetti, che pur occupando un ruolo centrale nelle sorti del progresso industriale e della accumulazione capitalistica, erano tenuti alle soglie della cittadinanza politica e ben lontani dalla completa cittadinanza industriale. Con la questione scompare la configurazione concreta, economica e sociale, che ha permesso il sorgere della classe operaia. E scompare quella rappresentazione, frutto della cultura variegata del movimento socialista nelle sue varie versioni, che aveva consolidato l’immagine della classe e la sua identità, con le sue capacità di autorappresentazione. La scomparsa è irreversibile”; pp. 112-113. 23. Per alcuni esempi si vedano M. Mietto, M. G. Ruggerini, Storie di fabbrica. Operai metallurgici a Reggio Emilia negli anni Cinquanta, Torino, Rosemberg & Sellier, 1988; L. Ganapini (a cura di), “Che tempi, però erano bei tempi…”. La Commissione interna della Magneti Marelli nella memoria dei suoi protagonisti, Milano, Franco Angeli, 1986 e G. Garigali, Memorie operaie. Vita politica e lavoro a Milano 1940-1960, Milano, Franco Angeli, 1995. 24. La proposta fu lanciata da Adolfo Pepe nel 1986 in un’intervista ad Alberto De Bernardi: “Io credo che (…) l’operazione scientifica da tentare (…) per rilanciare una storiografia sindacale e del movimento operaio adeguata, è un’operazione ambiziosa: riproporre attraverso la storia del sindacato e delle sue complesse interrelazioni una rilettura più larga

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e più attenta di tutti i soggetti che concorrono a formare (…) la storia dell’Italia contemporanea”. Cfr. ora A. Pepe, Il sindacato nell’Italia del Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996; p. 538. 25. L. Bertucelli, Piazze e palazzi. Il sindacato tra fabbrica e istituzioni. La CGIL (1969-1985), cit. 26. F. Loreto, L’“anima bella” del sindacato. Storia della sinistra sindacale (1960-1980), Roma, Ediesse, 2005, descritto dall’autore come “il tentativo di spiegare come questa componente [socialista di sinistra] della cultura politica italiana sia entrata nel sindacato e lo abbia in parte cambiato; e come, anche grazie all’apporto della sinistra sindacale, il sindacato abbia contribuito a cambiare la politica italiana e l’intero paese”; p. 24. 27. Cfr. F. Andreucci e G. Turi, La classe operaia: una storia nel ghetto, in “Passato e Presente”, n.10, 1986. 28. Alessandro Portelli ha notato ad esempio che gli operai degli stabilimenti ThyssenKrupp di Nasik, un importante centro religioso dell’India, “raccontano storie da prima generazione industriale”: cfr. A. Portelli, Acciai speciali, cit.; p. 117. Sul tema si veda anche C. Cristofori, Operai senza classe. La fabbrica globale e il nuovo capitalismo. Un viaggio nella ThyssenKrupp Acciai Speciali di Terni, Milano, Franco Angeli, 2009. 29. L’INAIL stima che un 12% dei lavoratori dell’industria metalmeccanica sia composto da stranieri. Poiché in una recente inchiesta di massa della FIOM si riconosce che il numero dei migranti intervistato sottostima fortemente il loro numero reale (sono il 3,4% del campione), e visto che più del 40% degli intervistati non era iscritto al sindacato, viene da chiedersi che grado di rappresentatività degli operai migranti ci sia nel sindacato: cfr. E. Como (a cura di), La voce di 10.000 lavoratrici e lavoratori, FIOM CGIL, 2008: una sintesi è scaricabile all’indirizzo http://www.fiom.cgil.it/inchiesta/materiali.htm. 30. L. Bertucelli, Il sindacato tra fabbrica e istituzioni. La CGIL (19691985), cit., pp. 19-20. 31. Con questo termine si intende quel sistema simbolico attraverso cui una collettività, un gruppo sociale, percepiscono se stessi e nel quale si riconoscono; cfr. B. Baczko, Immaginazione sociale, in Enciclopedia, vol. II, Torino, Einaudi, 1979; pp. 54-92. Per una analisi di questi percorsi dell’immaginario mi permetto di rimandare al mio Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 2006.

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32. Si ricordi quanto notava Carlo Ginzburg a proposito dell’ambiguità della rappresentazione, o dell’immagine: che “è al tempo stesso presenza e surrogato di qualcosa che non c’è”: C. Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano, Feltrinelli, 1998; p. 11. E si tenga presente inoltre che il termine “rappresentazione” può indicare sia la descrizione di un soggetto, sia quel processo che porta alla sua costruzione: il modo in cui un soggetto viene descritto, rappresentato, cioè, comporta anche la sua costruzione in quanto soggetto sociale, una costruzione che, in parte, si conforma all’immagine precostituita che esiste già in chi propone una determinata rappresentazione. L’ambiguità è ulteriormente amplificata dal fatto che una immagine è spesso il frutto del convergere di una rappresentazione e di una autorappresentazione. 33. Ma solo dal punto di vista dell’immagine pubblica degli operai: essa infatti in quegli anni riproduce un immaginario ormai consolidato ma, proprio per questo, diventa importante per una ricostruzione istituzionale e politica del sindacato come quella a cui faceva riferimento L. Bertucelli, Piazze e palazzi. Il sindacato tra fabbrica e istituzioni. La CGIL (1969-1985), cit. 34. Giuseppe Verzocchi era un industriale del mattone con una lunga consuetudine nell’uso pubblicitario di opere artistiche: già nel 1924 aveva costruito il proprio catalogo con i disegni di Depero e altri artisti e poi, nel 1948, aveva realizzato una campagna pubblicitaria sul “Corriere della Sera” con disegni commissionati a De Chirico, Carrà e altri. L’anno successivo aveva commissionato ai migliori artisti dell’epoca un’opera avente per tema il lavoro, con l’unico limite delle dimensioni della tela e dell’inserimento del logo della sua ditta: la raccolta rappresenta un panorama della migliore espressione artistica del tempo. 35. Il premio Suzzara viene inventato nel 1948 da Cesare Zavattini e Dino Villani, un pubblicitario che nel 1934 aveva diretto la Motta, su sollecitazione del sindaco comunista dell’omonimo paese in provincia di Mantova. Il premio ha per tema Lavoro e lavoratori nell’arte: le opere sono giudicate da una giuria di alto livello dove siedono anche un operaio, un contadino e un impiegato in omaggio alla volontà che anima la manifestazione di portare l’arte a livello popolare. Nelle prime edizioni il premio è in “natura” e viene dato dalle aziende locali: al vincitore viene dato un vitello e lo slogan, opera di Villani, recita “Un vitello per un quadro. Non abbassa il quadro: innalza il vitello”.

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36. Non mancano naturalmente casi di un uso raffinato del cinema come fonte: per un esempio recente si veda N. Zemon Davis, La storia al cinema. La schiavitù sullo schermo da Kubrick a Spielberg, Roma, Viella, 2007. Fra gli studiosi italiani si rimanda invece, a titolo esemplificativo, ai lavori di Crainz e De Luna. 37. A mia conoscenza l’unico studio che analizza il rapporto fra operai e cinema, a parte le osservazioni – spesso molto penetranti – degli storici del cinema, è C. Carotti, Alla ricerca del paradiso. L’operaio nel cinema italiano 1945-1990, Genova, Graphos, 1992. 38. S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992; p. 415. 39. Per una analisi più distesa ed articolata mi permetto di rinviare ancora a Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, cit. 40. Uno dei testimoni intervistati da Alessandro Portelli in Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione, cit., descrive sinteticamente questa tensione dicendo che la multinazionale è “un’entità invisibile” che ha “il potere de manda’ all’aria la storia, la vita delle persone in carne e ossa” (p. 131). “In passato – aggiunge Portelli – la durezza di classe andava in sintonia con una visione focalizzata del conflitto; l’arena era la città (…). Adesso, l’arena è globale (…); non basta produrre, bisogna confrontarsi anche coi problemi del mercato e della strategia aziendale (…). Ma – sottolinea – anche per questo gli operai si percepiscono in un contesto molto più vasto”: cfr. ivi; p. 129. 41. A mio parere i migliori esempi di questa analisi sono ancora i due lavori di L. Lanzardo, Dalla bottega artigiana alla fabbrica, Roma, Editori Riuniti, 1999 e Id., Un percorso di lettura delle fotografie del lavoro, 1840-1997, in S. Musso (a cura di), Tra fabbrica e società, cit; ma si veda anche E. A. Schatz, Fabbrica: uno sguardo difficile, in U. Lucas (a cura di), L’immagine fotografica 1945-2000, “Storia d’Italia. Annali”, vol. XX, Torino, Einaudi, 2004. 42. Ho preso la bella espressione eco di una mitologia da un romanzo di L. Ravera, La festa è finita, Milano, Mondadori, 2002, un libro in cui, malgrado le intenzioni, queste eco risuonano spesso. Esse, tuttavia, non suscitano solo nostalgia ma anche rimozione. Renzo Paris, ad esempio, ha raccontato un piccolo episodio rivelatore: “La storia profonda del movimento operaio oggi non interessa più a nessuno nemmeno l’editoria, se sto avendo molte difficoltà a ristampare un saggio intitolato Il mito

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del proletariato nel romanzo italiano che uscì nel 1977 da Garzanti, proprio per quella parola oggi scaduta. Diversi editori, compreso il primo, mi hanno detto: ma a chi lo vendiamo un libro così? E questo nonostante la parola ‘mito’ e la critica di quel mito di cui nessuno si accorse quando uscì”, R. Paris, A me basta essere uno scrittore un letterato, in “Liberazione” del 6 gennaio 2006. Nonostante risenta un po’ delle forme interpretative dell’epoca in cui uscì, effettivamente il testo di Paris fornisce molti spunti per un uso della letteratura come chiave di lettura dei mondi operai, una strada che – per quanto ne so – è stata poco battuta. 43. Si vedano ad esempio il romanzo di Simona Baldanza, Figlia di una vestaglia blu, Roma, Fazi, 2006, lanciato alla sua uscita come un “romanzo operaista moderno”, oppure il racconto Mescole gomma di Antonio Pennacchi, in Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni, Milano, Mondadori, 2006. 44. Non è un caso che le principali osservazioni sulla forma-corteo siano dovute a uno degli storici più capaci di “forzare” i limiti dei confini disciplinari, Mario Isnenghi, L’Italia in piazza: i luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Milano, Mondadori, 1994; per un confronto internazionale si veda D. Tartakowsky, Le pouvoir est dans la rue : crises politiques et manifestations en France, Aubier, Paris,1998. 45. Per una analisi più distesa rimando ancora una volta al mio Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, cit. 46. A. Portelli, Acciai Speciali.Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione; cit.; p. 48. 47. F. Dei, Antropologia e culture operaie: un incontro mancato, in P. Causarano, L. Falossi, P. Giovannini (a cura di), Mondi operaie, culture del lavoro e identità sindacale: il Novecento italiano, Roma, Ediesse, 2008; p. 145. 48. A. Portelli, Acciai Speciali.Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione; cit.; pp. 89-90. 49. Ho in mente soprattutto i lavori di Aldo Bonomi, da Il capitalismo molecolare. La società del lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino, 1997, a Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, Milano, Feltrinelli, 2008. Ma si veda anche, da una prospettiva diversa, G. Berta, Nord. Dal triangolo industriale alla megalopoli padana 1950-2000, Milano, Mondadori, 2008, in particolare i primi due capitoli. 50. Il riferimento in questo caso è, sin dalla scelta dei termini, allo stu-

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dio di M. Magatti e M. De Benedittis, I nuovi ceti popolari. chi ha preso il posto della classe operaia?, Milano, Feltrinelli, 2006. 51. Cfr. G. Cremaschi, L’ideologia del postfordismo e la realtà del moderno sfruttato, in E. Como (a cura di) La voce di 10.000 lavoratrici e lavoratori, cit. 52. Di “invisibilità sociale” ha parlato Ezio Mauro in Gli operai di Torino diventati invisibili, in “La Repubblica” del 11 gennaio 2008, scritto dopo l’incidente alla ThyssenKrupp. 53. Per quanto riguarda la percezione della propria classe sociale, nel 2006 il 40,2% degli italiani si sentiva parte della classe operaia (o dei ceti popolari. mentre il 53,7% riteneva di appartenere al ceto medio; nel 2008, invece, la percentuale di chi si sentiva parte del ceto medio era scesa al 48,8% e quella che si sentiva ceto popolare era aumentata al 46,1%. I dati sono stati elaborati da Demos Coop: cfr. F. Bordignon e L. Ceccarini, Gli italiani al voto: le classi sociali e le categorie socioeconomiche in www.demos.it. 54. La domanda è di M. Pirani, Due Italie in Europa una in testa l’altra in coda, in “La Repubblica” del 7 luglio 2006. 55. Cfr. A. Portelli, Acciai Speciali.Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione; cit., di cui ho parafrasato in forma interrogativa l’affermazione a p. 76.

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Il sindacato nella lotta al terrorismo “rosso”. Il caso della FLM di Torino Nino De Amicis

Dalla parte della reazione L’ottica con cui all’inizio il sindacato guarderà al fenomeno terroristico, in un arco di tempo che va dalle sue prime apparizioni al biennio 1975-’76, e al suo tentativo di radicarsi nella fabbrica, non si discosta di molto dall’analisi che di quell’esperienza venne fatta nell’ambito della sinistra politica. In un primo momento le azioni delle Brigate rosse venivano viste come provocazioni, la cui origine, al di là di quelli che venivano considerati camuffamenti ideologici, andava ricercata nella fenomenologia della violenza neofascista. Vanno lette in questa prospettiva alcune strisce su questo tema apparse sulla rivista I Consigli. Nella prima, pubblicata sul numero 4, anno 1974, si vede un personaggio avvolto nell’ombra che, brandendo un mitra, proclama in sequenza: “Padroni è la guerra! – Le Brigate Rosse combattono contro il potere, i suoi strumenti, i suoi servi! – Noi operiamo in gruppi armati e clandestini!”. Nell’ultima delle quattro strisce che compongono il quadro, l’anonimo brigatista è in luce ed appaiato da una coppia di quelli che verosimilmente sono agenti segreti, mentre Up il sovversivo, in versione metalmeccanica e rovesciato come suo solito, sentenzia sarcasticamente “Clandestini alle masse e conosciuti alla polizia, naturalmente!” . Nella seconda, a tre anni di distanza, il messaggio è analogo. Un rappresen53

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tante dei servizi, seduto alla sua scrivania, afferma in sequenza: “Conosciamo bene tutti i covi dove viene organizzato il terrorismo… - conosciamo gli indirizzi… - conosciamo esattamente nomi e cognomi…” per concludere in ultimo, circondato da altri agenti che sorridono sornioni,“È tutto personale scelto !” 1. L’analisi delle Brigate rosse tende a negarne la matrice di sinistra, denunciandone l’affinità, sul piano degli obiettivi non solo tattici, con quella strategia della tensione, prodottasi a partire da Piazza Fontana dall’intreccio tra destra neofascista e apparati dello stato, a cui vengono fatte risalire le sue prime azioni 2. È questo un leit motiv che ritorna, almeno fino agli inizi del 1977, anche nella gran parte della pubblicistica dei partiti della sinistra, PCI compreso, costituendo una sorta di schema mentale di cui è ammissione significativa quanto, a più di un decennio di distanza, confesserà Diego Novelli. Dopo aver sostenuto

“che il terrorismo [era] espressione di forze eversive, che in larga misura avevano radici a sinistra. I casi Amerio e Labate…non concedevano più dubbi sulla matrice politica degli autori dei due clamorosi gesti”.

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l’ex sindaco di Torino così concludeva: “Noi comunisti provavamo imbarazzo, rifiuto, pudore a pronunciare a Torino quell’aggettivo ‘rosse’, espresso in un marchio di brigantaggio” 3. La resistenza ad ammettere un’origine “autentica” del fenomeno brigatista, e le sue ascendenze all’interno dei movimenti postsessantotto, aveva cause precise, connesse all’esperienza della violenza neofascista e alla sua percezione diffusasi nei movimenti sociali, a partire dalla bomba di Piazza Fontana, letta a sinistra come una tappa miliare dell’eversione di destra e la cui evoluzione nei primi anni del decennio aveva contribuito a rafforzare. Nell’analisi dell’incipiente terrorismo la violenza neofascista operò come un freno che ne rallentò la comprensione: al di là 54


del suo richiamarsi ad alcuni momenti della storia del movimento operaio, la sua azione non poteva che essere oggettivamente fascista agli occhi di chi, anche su differenti versanti, militava all’interno delle organizzazioni che a quel movimento si richiamavano. Non altro significava la formula ricorrente delle “sedicenti Brigate Rosse” 4. Un’opinione del resto largamente condivisa se un notista illustre come Giorgio Bocca ancora nel 1974 “propende[ va] come la quasi totalità dei giornalisti di professione, per la tesi che le Brigate rosse [fossero] in realtà nere” 5. Dovuta a un’errata percezione del fenomeno, quest’incomprensione fu favorita anche dal riscontro obiettivo che fino al 1975, anno di svolta in questa vicenda e spartiacque del decennio, gli episodi di violenza politica erano in maggioranza riconducibili all’azione della estrema destra, come s’incaricheranno successivamente di rimarcare gli studi sul terrorismo in Italia, svolti dall’Istituto Cattaneo di Bologna 6. Lettura diffusa non solo a sinistra se, ancora nel marzo 1975, in una indagine conoscitiva sull’eversione fascista in Piemonte promossa dal Consiglio regionale, anche esponenti politici dello schieramento di centro concordavano sulla maggiore gravità dell’estremismo di destra rispetto a quello di sinistra 7. Ad avvalorare questa opinione contribuirà in parte anche la condizione dell’unica formazione che praticava la lotta armata sul fronte di sinistra, le Brigate rosse, la quale nel settembre 1974 era appena stata decapitata con gli arresti del suo gruppo dirigente, tra cui Renato Curcio e Alberto Franceschini e sembrava smantellata definitivamente.

L’“ingombrante presenza” del terrorismo

“Allora, nell’interno della classe operaia passava questa teoria, che era nata la nuova ‘primula rossa’, il nuovo Robin Hood della classe operaia. E nessuno se lo nasconde che in quel momento alcuni simpatizzavano per i metodi che usavano… Dopo i tempi sono cambiati.

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Le BR si sono proclamate braccio armato della classe operaia e hanno cominciato a sparare. Qui è avvenuta la rottura”

Era questa l’analisi elementare, ma non distante dalla realtà, di Nicola Iaccarini, delegato delle Meccaniche di Mirafiori al convegno torinese L’iniziativa del movimento sindacale contro il terrorismo “rosso” e per la trasformazione dello Stato, nell’aprile del 1980 8. Iaccarini confermava come con le prime azioni della “propaganda armata”, le BR erano riuscite, almeno in alcune frange di classe operaia, a conquistare una simpatia appena malcelata. L’azione del terrorismo in fabbrica, per quanto circoscritta, alla metà degli anni Settanta investiva diverse situazioni di grandi industrie 9. È un dato che non dovrebbe essere causa di eccessivo stupore, se si tiene conto che nei repertori delle azioni terroristiche, in particolare nel caso delle BR, l’incidenza degli obiettivi rivolti alle fabbriche era molto alta 10, un dato che non fa che attestare come esse avessero fatto di questo settore un terreno di elezione e di proselitismo. Si riscontra una prova di questo, seppur ridotto, radicamento sociale esaminando la posizione professionale dei militanti delle organizzazioni terroristiche, in cui la percentuale più consistente risulta essere quella delle occupazioni manuali dipendenti, con un secco 40 per cento di operai dell’industria 11. In fabbriche che vivevano da anni un aspro conflitto sociale, un numero sia pure estremamente limitato di operai aderì in prima persona alle organizzazioni terroristiche, condividendone fino in fondo tutte le scelte. La cronaca di quegli anni e quella giudiziaria in particolare ci restituiscono nomi e volti di terroristi con alle spalle una biografia operaia, una vita in fabbrica, a volte una presenza anche dentro il sindacato o nel Partito comunista 12. Si tratta di un fenomeno noto e molto limitato sul piano quantitativo. Diverso e più complesso è invece il discorso sulla sfera di simpatie che le azioni delle BR e del terrorismo in generale furono in grado di suscitare, quella linea grigia caratterizzata da quel fenomeno che è stato definito della “non ripulsa”, che si esprimeva 56


cioè in una forma di fascinazione verso certe azioni terroristiche e che si poteva manifestare secondo una gradualità che andava da sentimenti di indifferenza a espressioni di plauso. Era un fenomeno diverso, se non altro per i suoi referenti, da quella dichiarazione di neutralità, espressa nella parola d’ordine “né con lo Stato né con le BR” che attecchì durante i giorni del rapimento Moro presso alcuni intellettuali o in ambienti vicini alla sinistra extraparlamentare. A proposito dei ferimenti dei capi un anonimo operaio della FIAT così si esprimeva parlando con un giornalista del Manifesto:

“Agli operai non dispiaceva. Le BR venivano viste come giustizieri e, poi, dopo lo sparo vedevi che i capi erano più gentili, più morbidi e allora l’operaio non poteva non pensare che quelle pallottole qualche risultato lo avevano pure ottenuto” 13.

Laddove la violenza terroristica riscosse in fabbrica una certa adesione, essa si espresse per lo più, al di là del caso molto limitato di chi la sostenne facendola propria, come approvazione, soprattutto dell’azione esemplare, che si fermava all’atto in sé, in un atteggiamento che non implicava condivisione della strategia che era dietro di essa. Una valutazione di questa forma particolare di adesione si ricava a contrario dalla partecipazione alla risposta in fabbrica al terrorismo, in parte differenziata a seconda dell’azione terroristica stessa. L’anomala vicenda degli incendi dolosi nell’aprile del ’76 a Mirafiori, verificatasi in alcuni reparti della fabbrica (e la cui paternità in realtà non è mai stata ufficialmente rivendicata dalle BR a cui pure si attribuiscono), ricevette una risposta immediata che mise in campo un’esperienza di vigilanza di massa all’interno dello stabilimento, all’inizio anche contro la volontà dell’azienda. Analogamente in precedenza, il primo ferimento di un capo, quello di Paolo Fossat a Rivalta, che rappresentava un salto di qualità nell’azione brigatista in fabbrica, 57

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suscitava una reazione di protesta operaia in gran parte spontanea. Al contrario lo sciopero indetto dopo l’omicidio del vice direttore de La Stampa Carlo Casalegno, nel novembre del 1977, alla FIAT non riuscì, registrando una partecipazione che si era fermata in quell’occasione a un clamoroso e misero 15 per cento, mentre andò meglio in altre industrie torinesi. È probabile che esso cominciasse a modificarsi durante il sequestro Moro, nonostante forme di “qualunquismo operaio”, come quelle registrate da Mantelli e Revelli, non sparissero affatto in quel periodo ed è plausibile che questa superficiale forma di consenso iniziasse in parte a restringersi perché sempre più incalzata dall’azione sindacale, da tempo in campo nella condanna del terrorismo, ma ora con una consapevolezza maggiore a partire dalla scoperta che esso rappresentava una sfida rivolta in primo luogo alla sua egemonia in fabbrica. Da quel momento s’intensificò l’attenzione del sindacato, come si desume anche dalla frequenza delle assemblee di fabbrica contro il terrorismo, che crebbero di numero negli ultimi mesi del 1977, anche in relazione all’aumento degli attentati terroristici. Secondo la Federazione CGIL-CISL-UIL di Torino le assemblee di fabbrica furono 108 nel periodo novembre-dicembre 1977, dopo la tragica morte del giovane Roberto Crescenzio nel rogo dell’Angelo azzurro e l’assassinio di Casalegno, mentre dopo il rapimento Moro in sole due settimane, dal 21 marzo al 5 aprile 1978, le assemblee, spesso aperte a rappresentanti delle istituzioni e dei partiti politici, in fabbrica o in altri luoghi di lavoro, furono 82; nella settimana successiva, dal 6 al 12 aprile se ne tennero altre 32, di cui ben 20 alla FIAT Mirafiori 14. Nelle settimane del rapimento Moro due studiosi militanti, Brunello Mantelli e Marco Revelli, si recarono più volte, registratore alla mano, alle porte di Mirafiori per sondare su quell’avvenimento il sentire comune degli operai di quel laboratorio sociale che era stato negli anni passati la grande fabbrica torinese. Al di là della scientificità di quella strana inchiesta sul campo, né sociologica né rispettosa dei procedimenti della oral history, essa evidenziò il grado di profondità raggiunto ormai, nella grande 58


fabbrica fordista, dalla frantumazione dei processi collettivi che cedevano il passo a comportamenti differenziati, di disgregazione e di individualismo: alla ricerca di un autonomo “punto di vista operaio”, i due ricercatori conclusero che esso non esisteva più, essendosi scomposto in mille “dialetti” e in mille voci da cui era impossibile evidenziare un sostrato comune che non fosse assimilabile al “qualunquismo” che emergeva nei giudizi su Moro. “Neppure il cinismo delle ‘sparate ’ sanguinarie,” – commentavano i due – “po[teva] essere ricondotto a una qualche forma di simpatia politica, di sostegno d’opinione alle Brigate rosse” 15.

La prova generale alla FIAT. I 61 licenziati

Il triennio 1976-‘79 è il periodo di maggiore espansione della violenza terroristica in Italia. Il punto massimo si raggiunse a Torino nel corso del ’79: durante i primi due mesi la città registrò il terribile bilancio di 36 attentati. Per sua fortuna durante quell’acuta crisi sociale che la città visse con “i 35 giorni” della FIAT la violenza terroristica andò scemando, mentre a Milano e Genova la scia di sangue della “lotta armata” si prolungò fino all’80 16. Con insistenza maggiore che in passato, nel ’79 si sostenne che il terrorismo rosso si alimentasse direttamente dalla conflittualità esistente nelle fabbriche, ritornata alta durante la primavera per gli scioperi del rinnovo contrattuale 17: “teorema” che nella sua forma più attenuata mirava a rilevare tra le due vicende una contiguità culturale, in quella più oltranzista stabiliva una continuità diretta tra di esse. Entrambe le versioni chiamavano però in causa il sindacato per non aver preso le distanze da certe manifestazioni della lotta operaia in fabbrica – cortei interni, picchettaggi e blocco dei cancelli, occupazione degli uffici degli impiegati – in cui era implicito un certo tasso di violenza, sotto forma di una sua minaccia ostentata o sotto forma del dileggio all’indirizzo di capi o di lavoratori “ crumiri”. Il caso più clamoroso di questa campagna fu rappresentato dalla vicenda dei 61 59

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licenziati della FIAT, accusati dall’azienda di praticare il ricorso alla violenza durante gli scioperi, che insinuò che tra di essi si potessero celare anche aperti fiancheggiatori dei terroristi 18. Tra i 61 lavoratori, molti avevano alle spalle una lunga militanza di fabbrica, altri appartenevano alle ultime leve giovanili degli assunti in gran parte a cavallo tra il 1978 e il 1979; alcuni erano delegati sindacali, altri lo erano stati, in tanti facevano riferimento ai gruppi della sinistra extraparlamentare o a collettivi di base 19. Il giorno stesso in cui i 61 ricevettero le lettere, la FIAT consegnò alla stampa un dossier sugli attentati terroristici che avevano colpito dirigenti a vario livello dell’azienda, accompagnato da una nota introduttiva – su carta non intestata e nel processo successivo definita come “materiale di lavoro” – in cui l’accostamento tra lotte sindacali, violenza e terrorismo, era, seppure in modo implicito, in qualche modo prospettato:

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“… la FIAT non può ignorare quanto i suoi capi e i suoi operai vivono ogni giorno. Per questo la FIAT non può disgiungere nel giudizio gli atti criminali che si sostanziano in ferimenti e uccisioni, da quegli atti che, superando i limiti di un corretto confronto tra parti sociali, finiscono per contribuire ad un clima di tensione e di terrore” 20.

Gli effetti sull’opinione pubblica, amplificati dalla contemporaneità tra i provvedimenti di sospensione e il dossier per la stampa, furono immediati e finirono per costituire la cornice politica entro cui si svolse il contenzioso 21. Seppure i procedimenti riguardassero casi singoli, le organizzazioni dei lavoratori si sentirono messe sotto accusa e fatte segno di un vero e proprio “processo al sindacato”, che si trovò stretto a un bivio tra l’esigenza di difendere i licenziati e quella di salvaguardare la propria immagine nel caso in cui, per qualcuno dei lavoratori, l’accusa di violenza, o peggio di terrorismo, si rivelasse fondata. Da qui la scelta del ricorso individuale per ciascuno di essi, promossa conferendo 60


una delega specifica al collegio di difesa, costituito dagli avvocati torinesi e nazionali della FLM e dopo aver sottoscritto una dichiarazione non solo di condanna del terrorismo in tutte le sue sfumature, ma anche di piena condivisione dei “ valori fondamentali ai quali il sindacato ispira la propria azione”. Allorché il pretore dichiarò invalidi i licenziamenti per violazione delle procedure stabilite dal contratto, la FIAT promosse una nuova azione di licenziamento e nel corso del giudizio il legame tra violenza operaia in fabbrica e lotte sindacali emerse a più riprese nel dibattito già dalle prime battute. Nelle lotte operaie nell’autunno caldo molti commentatori avevano presto individuato la novità delle forme inconsuete e dirompenti, rispetto alla tradizione sindacale, che il conflitto prendeva in fabbrica: rivendicazioni “secche” e più controllabili dalla base, “pratica dell’obiettivo”, rifiuto della gerarchia 22. A esse si accompagnò da subito un qualche grado di coercizione, di espressione di forza. Le nuove forme di lotta assumevano di frequente un certo grado di violenza, a volte simulata o rappresentata, nei casi più estremi agita apertamente, anche perché il “teatro” in cui il conflitto si svolgeva era sempre più spesso interno alla fabbrica. In quella dimensione l’operaio era portato a individuare il “potere” dei padroni direttamente nell’attività vessatoria dei capi, primo gradino di quella sterminata piramide gerarchica che sovrintendeva al funzionamento della fabbrica fordista e da cui dipendeva agli occhi degli operai l’aumento dei ritmi o l’erogazione di multe. Nelle memorie operaie di quella stagione il ricorso a queste forme di lotta – il corteo interno che “spazza” le officine, il picchettaggio nelle sue espressioni più dure, gli sputi addosso agli impiegati – dichiarato senza infingimenti, viene spesso spiegato come violenza di riflesso, che reagisce cioè a quella della fabbrica o anche come sfogo liberatorio per una compressione sopportata per troppo tempo 23. Nel corso degli anni Settanta queste modalità di lotta non spariranno mai, ma non erano in genere la normalità, la faccia quotidiana del conflitto. Tendono a riesplodere in momenti particolari, in cui esso è particolarmente acceso: così è nella strana “occupazione” di Mirafiori 61

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del ’73, scelta per dare la spallata a una lotta contrattuale costata troppe ore di sciopero, così è ancora durante quella del 1979, quando i blocchi stradali furono escogitati per chiudere il contratto prima della chiusura estiva. Esse però acquisiscono una valenza diversa nel momento in cui l’azione del terrorismo, convitato di pietra sulla scena del conflitto sociale nella seconda metà degli anni Settanta, cercherà di inserirsi nella fabbrica, inquinando la dinamica del conflitto medesimo. La violenza terroristica produceva un effetto di retroazione contro cui la presa di distanza, anche quella che avviene all’interno dei settori più militanti delle lotte sindacali 24, risulterà per molti versi impotente. L’episodio dei 61 licenziati sollecitò una discussione aperta a sinistra e non solo nel sindacato. Con la irruenza e l’impetuosità che caratterizzavano il suo stile Giorgio Amendola fu tra i primi a intervenire, sulle colonne di “Rinascita”, criticando il sindacato per aver coperto la violenza in fabbrica. Rispolverando la categoria del “diciannovismo”, accusò i 61 come responsabili di atti che “ricorda[va]no troppo le violenze fasciste per non suscitare uno sdegno ed un disgusto che invece non si [ era] manifestato” 25. All’analisi di Amendola, forse troppo ancorata al mito gramsciano dei produttori, sfuggiva che il disegno “di ristabilire l’efficienza produttiva di una fabbrica senza ricorrere alla partecipazione consapevole del sindacato ed al controllo sui piani di investimento e sui metodi di organizzazione del lavoro” era tutt’altro che folle, come egli era portato a ritenere, configurandosi come una scelta che il nuovo management della FIAT, quello dell’era di Romiti, aveva ormai maturato e intendeva perseguire con estrema determinazione, per modificare a proprio favore i rapporti di forza e ridisegnare un assetto nuovo delle relazioni industriali, in cui il ruolo del sindacato usciva drasticamente ridimensionato. A questa linea “dura” 26 che, dal suo punto di vista, uscì rafforzata anche dall’insuccesso degli scioperi contro il licenziamento dei 61 che segnalavano un cambiamento di clima, la direzione dell’azienda si era convinta per l’azione convergente di diversi processi. In primo luogo quella che veniva definita nelle sue prese di posizioni ufficiali l’ingovernabilità, dovuta a una microconflittua62


lità continua e i cui indubbi effetti sulla produttività, individuale e generale, in calo prolungato ormai da dieci anni, essa imputava solamente al protagonismo sindacale e operaio che aveva profondamente indebolito la rigida catena gerarchica della grande fabbrica 27. Verso quella direzione essa era anche spinta o almeno rafforzata dai progetti, già in corso e in previsione di espansione, di massicci investimenti tecnologici che, continuati dopo lo “scontro finale” dell’autunno 1980, avrebbero radicalmente modificato il volto di Mirafiori e Rivalta 28, ma che già prima di quella data avevano iniziato a trasformarne i gangli dell’organizzazione del lavoro più vulnerabili e più esposti alle lotte. Segnali di un cambiamento di clima si avvertono anche in altri contesti, a esempio nella grande stampa d’informazione, in cui il declino della centralità operaia diventa materia di scoop e il fascino che essa aveva fin lì esercitato comincia a diminuire. È in questo torno di tempo che importanti maître à penser dell’informazione italiana, i Bocca, i Pansa, i Turani, allora firme di prestigio de “La Repubblica”, iniziano a guardare con occhi diversi la fabbrica, fino a poco tempo prima considerata laboratorio sociale, e il sindacato, meritevole di unanime rispetto negli anni precedenti della supplenza sindacale, vede ora opacizzarsi la propria autorevolezza a gran velocità. Mirafiori diventa ora “una gabbia” e quelli che un tempo erano i prestigiosi dirigenti sindacali “i signori dello sciopero” 29. Il ruolo degli operai appare in dissolvenza anche nell’immaginario collettivo, come ha raccontato Andrea Sangiovanni: non più soggetto sociale, ormai più né classe nazionale né “rude razza pagana”, ma magmatico melting pot di cui la saggezza malinconica del Cipputi di Altan rappresenta un po’ il controcanto, essi, perduto il punto di forza che era l’unità interna, si avvierebbero inesorabilmente lungo il viale del tramonto 30. A fronte dei mutamenti di clima nella società e nella fabbrica – di cui una inchiesta di massa sugli operai FIAT, voluta dal PCI e realizzata dal CESPE e dall’Istituto Gramsci 31 era stata un campanello d’allarme – l’episodio dei 61 viene a configurarsi come una sorta di “prova generale” in previsione dello scontro finale e diretto con il sindacato che l’azienda intraprenderà con le richie63

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ste dei 15 mila licenziamenti nell’ottobre 1980 32. Più che a combattere il terrorismo, come essa dichiarava apertamente – da cui la FIAT era stata pesantemente colpita nel corso dell’anno in uno stillicidio di ferimenti che giungeva fino all’omicidio di Carlo Ghiglieno – quell’iniziativa non era estranea all’intento di “saggiare il campo” in vista di quella futura prova di forza. Nel mutato clima di fabbrica degli ultimi anni Settanta, avvelenato dal terrorismo, il sindacato iniziò a mettere in discussione il comportamento assunto nei confronti della violenza di fabbrica, superando una certa tendenza alla rimozione del problema presente in molti suoi militanti: un atteggiamento ufficialmente di condanna e di presa di distanza, ma che a volte nelle sue istanze di base veniva interpretato in chiave di una sostanziale acquiescenza verso l’espressione di comportamenti ritenuti nei fatti inevitabili, che rientravano nella naturale asperità dello scontro di classe e che il sindacato aveva il compito di limitare. Almeno a partire dal 1977 la FLM, resa consapevole che “essa poteva essere non solo utilizzata e strumentalizzata, ma crea[ re] un supporto, anche culturale, all’azione terroristica”33, iniziò a esercitare un’azione più diretta di controllo delle sue propaggini organizzative di fabbrica, coinvolgendo nella discussione sull’inutilità della violenza militanti e delegati; ma anche ricorrendo a forme di esplicita autocensura, ad esempio nel linguaggio dei propri volantini, nei quali, diversamente da quello che era avvenuto negli anni passati, si evitava ora di indicare con nome e cognome quelle figure di capi a cui venivano attribuite responsabilità specifiche. Una posizione che non si traduce mai nell’adesione esplicita alla pratica della non violenza, a cui pure si accenna in qualche rara occasione 34, che in quanto tale non era, né poteva essere altrimenti, nel patrimonio di quel sindacato per come si era andato configurando in quel contesto storico. Infine va ricordato come la battaglia contro il terrorismo, lo sforzo per isolarlo e impedire che attecchisse nelle fabbriche, vicenda che si risolse in positivo anche per il ruolo fondamentale svolto in essa dal sindacato, venne ad aggiungersi agli altri suoi impegni, assorbendo energie e risorse considerevoli. Rifiutando 64


l’assimilazione delle lotte operaie al terrorismo il sindacato, quello metalmeccanico in particolare, assunse tra le proprie responsabilità anche quella della lotta contro il terrorismo, senza per questo rinunciare a mantenere alto il livello dell’iniziativa sindacale. Fu una scelta che si rivelò lungimirante per molti aspetti, non ultimo perché in questo modo si continuava a tenere aperto un terreno in cui il conflitto potesse esercitarsi in forma collettiva e per via democratica, svolgendo così anche un ruolo di prevenzione rispetto a quanti potessero, davanti al suo venir meno, rischiare di essere attratti dalle deliranti sirene del terrorismo. Se, come è stato argomentato con un alto grado di verosimiglianza, l’azione del PCI, a Mirafiori, ma forse nella situazione delle grandi fabbriche, esercitò una funzione “metaregolatrice” del conflitto, impedendo che esso superasse certi livelli di soglia nelle sue fasi più accese 35, si può ritenere che un ben più ampio ruolo di “metaregolamentazione” venisse plausibilmente svolto in quel contesto dal sindacato, il quale anche per questa via rappresentò un impedimento obiettivo alla diffusione del terrorismo.

I questionari sul terrorismo Nei primi mesi del ’79 Torino fu coinvolta dalla travagliata discussione sul questionario di massa contro il terrorismo. L’Indagine sugli atti di violenza politica e di terrorismo a Torino, questa la denominazione ufficiale, così come compare sui moduli dei consigli di quartiere Parella e S. Paolo, dell’inchiesta voluta dal PCI torinese, soprattutto per l’impegno in prima persona di Dino Sanlorenzo, presidente del Consiglio regionale del Piemonte, intendeva realizzare un salto in avanti nella lotta della città contro il terrorismo, coinvolgendo in modo attivo il più alto numero di cittadini, nella convinzione che, per l’estensione raggiunta ormai dal fenomeno, essa non potesse essere demandata alle sole forze dell’ordine 36. Nelle intenzioni dei promotori l’iniziativa non era finalizzata solo a una maggior conoscenza della violenza e a una opera di sensibilizzazione, anche se la prospet65

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tiva di far discutere della violenza terroristica “nelle case, nelle famiglie”, era l’obiettivo minimo che i promotori si davano, mossi dal bisogno “di non stare ad assistere passivamente agli attentati”: lo scopo era la realizzazione di un’ “inchiesta di massa contro il terrorismo, per contribuire ad individuare anche i singoli terroristi”, come s’incaricò di precisare l’assemblea di quartiere della circoscrizione Aurora-Rossini, che si fece promotrice in una prima fase del progetto. Tra le sei domande del questionario, nelle sua iniziale formulazione, le prime tre chiedevano di esprimersi sulle cause generali del terrorismo, sugli ostacoli da rimuovere per favorirne l’isolamento e la scomparsa, sul ruolo che – a ogni livello – le istituzioni avrebbero dovuto svolgere nella lotta contro di esso. A causare le polemiche più accese furono però la quarta, con la quale si invitava a segnalare fatti di terrorismo conosciuti di persona e soprattutto la quinta, che era così formulata: “Avete da segnalare fatti concreti che possono aiutare gli organi della Magistratura e le forze dell’ordine ad individuare coloro che commettono attentati, furti, aggressioni?” 37. Nel dibattito, allargatosi anche a livello nazionale, presero la parola politici, intellettuali, giuristi e magistrati. Da parte dei molti detrattori si paventarono i rischi connessi a quello che veniva letto come un esplicito invito alla delazione di massa e il clima di caccia alle streghe che avrebbe potuto innescarsi sulla base di questionari anonimi 38. Un punto, questo dell’anonimato, contro cui scese in campo a manifestare una assoluta opposizione gran parte del sindacato torinese. Dal questionario dei quartieri i sindacati nel loro insieme, CGIL, CISL e UIL di Torino e regione, presero le distanze realizzandone uno diverso e autonomo. Sulla dibattuta questione del rapporto tra Stato e cittadini, e sulle diverse strategie di lotta al terrorismo che esso evocava, si rivendicava un ruolo specifico per i consigli. Per ovviare alla possibilità che il questionario 39, con la contestata richiesta della quinta domanda, ingenerasse un generale e incontrollabile clima di sospetto o ancora peggio che potesse diventare per qualcuno strumento di vendetta personale, si proponeva che

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“si dovesse stabilire un nuovo e diverso rapporto deilavoratori con le istituzioni, perciò realizzando anche la più precisa denuncia di fatti concreti di terrorismo assumendone collettivamente e come sindacato le responsabilità”.

Realizzando una compilazione collettiva dei questionari, si aggirava il nodo della denuncia anonima, per una scelta di coinvolgimento dei lavoratori non più a titolo individuale, ma in quanto soggetto collettivo e organizzato. A un eventuale riscontro di fatti precisi “che si configura[va]no come appoggio al terrorismo (volantini, scritte murali o altre iniziative di esaltazione del terrorismo) o addirittura come sue dirette manifestazioni (distribuzione di volantini di gruppi terroristici, telefonate o lettere con minacce di attentati a persone o cose, altri atti di terrorismo)” era il sindacato ad assumersi il compito della denuncia, emersa nel corso di assemblee o in riunioni di gruppo dei lavoratori, agli organi istituzionalmente competenti e alla magistratura. L’“inchiesta di massa” chiamava pertanto a esprimersi, con l’indicazione privilegiata delle risposte collettive, “ i consigli di fabbrica e di azienda, i gruppi omogenei, anche suddivisi in sottogruppi, attraverso il delegato; oppure i singoli lavoratori” 40. Del questionario sindacale, che Bocca giudicava “meno impegnativo”, non è esatto affermare che di esso “non si conoscerà mai il risultato” come asserito dal giornalista. Diffuso a Mirafiori tra gli oltre 800 gruppi omogenei, ne vennero raccolti all’incirca 1300, i più elaborati collettivamente, relativi a un campione che rappresentava il 2,56 % degli operai delle sue diverse sezioni 41. Quanto ai suoi risultati, contribuì, non diversamente da quello voluto da Regione e quartieri, insieme alle mille iniziative svolte nelle fabbriche, a quell’opera di progressivo isolamento politico tra la classe operaia, senza la quale il terrorismo non avrebbe potuto essere sconfitto 42.

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“Terroristi non passerete mai, contro di voi ci sono gli operai”. I convegni sul terrorismo L’azione contro il terrorismo esercitata dal sindacato si realizzò, oltre che nella capillare opera di denuncia e di discussione promossa con le assemblee di fabbrica e le molte iniziative sul territorio, anche con importanti convegni che rappresentarono il momento di sintesi in quella battaglia e attraverso cui si mise a punto nel sindacato l’analisi del fenomeno terroristico. Voluti ed organizzati dalla FLM insieme alle confederazioni, a Torino essi videro nel consiglio di fabbrica della Mirafiori e nella V Lega FLM il loro motore propulsore e registrarono il concorso di quanti si battevano per la riforma della polizia e della magistratura. Il primo, intitolato Lotta al terrorismo e trasformazione dello Stato, nel maggio ’79, si svolse in un momento drammatico dell’emergenza terroristica. Pochi mesi prima si era consumato infatti l’assassinio a Genova di Guido Rossa, a cui era seguito dopo cinque giorni a Milano quello del giudice Emilio Alessandrini. La nuova fase del terrorismo colpiva ora direttamente il sindacato, ridottosi ormai, nella visione farneticante delle BR a pura espressione “della gerarchia di comando e del controllo sindacale” in fabbrica, un’immagine la cui distanza dalla realtà, alla luce dell’emozione che la morte di Rossa provocò tra gli operai, accorsi in massa al suo funerale, appare netta e incolmabile; e quanti, nelle istituzioni, gli erano più vicini, secondo quella strategia che mirava a colpire per primi gli esponenti democratici della magistratura 43. In quest’occasione tornano elementi già presenti nella analisi del sindacato, a partire dalla ribadita differenza abissale tra le lotte operaie, “fatte da migliaia di uomini a viso aperto, ed il terrorismo”, che “ alle lotte di massa sostituisce l’assassinio ed il ferimento premeditato e vigliacco” 44. Un elemento centrale in questa analisi, che ritorna anche in successivi convegni torinesi sul terrorismo, riguarda l’analisi dello Stato, la cui trasformazione rimane per il sindacato lo strumento migliore per prosciugare la vasca entro cui i terroristi nuotano e bonificare così preventivamente l’area dei suoi possibili 68


simpatizzanti. All’ideologia brigatista, che riduce lo Stato a un insieme ristretto di apparati repressivi, secondo una lontana e ormai decisamente cristallizzata matrice terzinternazionalista, fa da contraltare una visione per cui esso è “terreno storicamente segnato dalla presenza e dal peso delle lotte operaie”. Da questa prospettiva la stessa lotta al terrorismo doveva essere portata avanti mantenendo saldo lo Stato di diritto – da qui nascono le critiche del sindacato verso la legge Reale e alcuni aspetti delle misure di lotta al terrorismo – perché uno degli obiettivi del terrorismo era provocare “un’involuzione autoritaria della società e delle istituzioni”. Il terrorismo non era causato geneticamente dalla crisi sociale, ma piuttosto di questa si alimentava. Operai e sindacalisti avevano sollevato nella discussione il tema della presenza di operai nel “ partito armato”. Si poneva al sindacato un problema nuovo, che si evidenziava nel tema del tradimento morale, di cui si rendeva responsabile chi operava la scelta del terrorismo provenendo dalle fila della classe operaia 45. Il paradosso da spiegare era come un operaio potesse diventare terrorista, tradendo la fiducia dei propri compagni di “classe”, una realtà terribile che si era materializzata tragicamente nella vicenda di Guido Rossa. L’operaio che diveniva brigatista smetteva di essere parte della classe operaia e della gente che con lui viveva, un dato che veniva dimostrato dalla pratica della “doppia vita” e dall’abbandono stesso della fabbrica, della comunità dei compagni di lavoro, per entrare nella clandestinità, come è nei percorsi degli operai brigatisti. Non era stata solo la denuncia morale a rendere efficace l’azione del sindacato contro il terrorismo. In quella battaglia il movimento sindacale aveva affinato i propri strumenti di analisi arrivando a individuare e riconoscere con sufficiente precisione differenze ideologiche e politiche, ma anche organizzative, tra le diverse anime del terrorismo. In un documento interno della V Lega FLM, in cui si traccia un primo bilancio nella lotta contro il terrorismo, anche con accenti autocritici 46, si offriva un panorama abbastanza dettagliato delle formazioni terroristiche, delineando un quadro che coglieva, come le ricostruzioni storiche successi69

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ve s’incaricheranno di avvalorare, le differenze principali tra le Brigate rosse, con il loro caratteristico tratto di “setta centralizzata e clandestina”, “l’ortodossia ‘marxista-leninista’ che in realtà si rivela[va] una mistificazione ed una tragica caricatura del marxismo e del leninismo”, e Prima linea, invece “in grado di fare presa fra i giovani più delle BR”, per i cui militanti l’arruolamento è semi-clandestino, “mentre per l’appartenente alle BR la clandestinità è totale” e le aree di “terrorismo diffuso”, contigue ad Autonomia e legate alle pratiche dell’esproprio e del sabotaggio. Arrivato con ritardo ad individuare il nefasto ruolo che svolgeva nella crisi della società italiana, il sindacato svolse nella seconda metà degli anni Settanta una funzione essenziale nella lotta contro il terrorismo rosso, così come nella prima metà del decennio aveva ricoperto un ruolo centrale contro il terrorismo stragista e di marca neofascista. Lo fece in una situazione estremamente difficile, in un clima diffuso di paura e sospetto, che arrivò a toccare in parte le sue strutture organizzative, quelle, come le realtà di base, più esposte al pericolo di infiltrazione 47 e che avrebbe potuto paralizzarne l’azione. La consapevolezza che “le Brigate Rosse [erano] contro i lavoratori” non era sufficiente di per sé a immunizzarlo dal rischio concreto che, in una grande organizzazione di massa, potessero nascondersi anche militanti che aderivano alla logica aberrante della violenza 48. Se quel fenomeno poté essere sconfitto, oltre che sul piano giudiziario e della repressione da parte dello Stato, su un terreno politico, che portò al suo rigetto nella società, non può essere dimenticato il contributo che il sindacato diede nel favorire la maturazione di un orientamento generale che quel rifiuto rese possibile. Proprio per il suo essere luogo d’incontro di migliaia di uomini e di donne, il sindacato aveva al suo interno gli anticorpi necessari per produrre quel rigetto. La sconfitta del terrorismo fu resa possibile dall’isolamento in cui esso venne a trovarsi nella società italiana, un obiettivo questo che fu raggiunto con il contributo essenziale del sindacato, che all’impegno concreto della mobilitazione di massa contro il terrorismo seppe aggiungere la non secondaria azione di lotta culturale e ideale. È questa una 70


verità che non può essere messa in discussione. I timori dell’ex operaio FIAT Angelo Azzolina, che la sua lotta contro il terrorismo venisse col tempo messa da parte e che un giorno suo figlio potesse annoverarlo tra i nemici della democrazia, per effetto di uno dei tanti tentativi di revisione della storia, si sono, almeno finora, dimostrati infondati 49.

NOT E 1. Non sembri estemporaneo un ragionamento sulla lettura del terrorismo fatta dal sindacato a partire dalle strisce disegnate da Alfredo Chiappori, allora ospite fisso della rivista della FLM. In esse spesso si condensa quel sentimento diffuso nella Federazione, che rappresenta il comune sentire dei suoi militanti e vi si può leggere in filigrana un’eco della loro coscienza soggettiva. Inoltre anche per l’alta tiratura de I Consigli, che si indirizzava in particolare ai delegati di fabbrica, essa svolgeva un ruolo anche pedagogico, i cui messaggi sono di frequente veicolati attraverso le immagini. Del resto anche i volantini diffusi in fabbrica dopo ogni attentato comprovano questa lettura. Si veda, ad esempio, quello diffuso dal c.d.f. della Magneti Marelli dopo l’attentato nello stabilimento di Crescenzago ancora nell’ottobre del 1977: “Al di là di ogni sigla (Br o Avanguardia nazionale, Nap o Ordine nuovo) chi compie questi atti si pone dalla parte della reazione e, come tale, è fascista”, riportato in M. Cavallini (a cura di), Il terrorismo in fabbrica. Interviste con gli operai della FIAT, Sit-Siemens, Magneti Marelli, Alfa Romeo, Roma, Editori Riuniti, 1978; p. 159. Per le strisce prese in esame cfr. I Consigli, n. 4, maggio 1974; pag. 16 e n. 36, maggio 1977, quarta di copertina. 2. Mentre le prime azioni delle BR – incendi di auto, diffusioni di volantini – avvengono nel milanese nel 1970, a Torino le prime apparizioni risalgono al 1972, con l’incendio di auto di sindacalisti della CISNAL e di capireparto, a cui seguiranno, facendo registrare un primo salto di qualità, il rapimento lampo di Bruno Labate, il 12 febbraio dell’anno successivo durante la vertenza per il rinnovo del contratto e, il 10 dicembre, quello di Ettore Amerio, direttore del personale della FIAT Auto, con cui le BR sigleranno il primo sequestro che non si conclude nel giro di poche

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ore. La ricostruzione più esauriente del dispiegarsi del terrorismo brigatista nelle grandi fabbriche, almeno fino al 1978, è in M. Cavallini (a cura di), Il terrorismo in fabbrica, cit. 3. Cfr D. Novelli, N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano, Garzanti, 1988; pag. 46. Di avviso contrario Dino Sanlorenzo, secondo cui i ritardi di analisi del fenomeno brigatista durarono almeno fino agli inizi del 1976 e vennero definitivamente superati nel novembre del 1977 (cfr. D. Sanlorenzo, Gli anni spietati. I comunisti nella lotta contro il terrorismo. Torino 1972 - 1982, Roma, Edizioni associate, 1989; pp. 137-140. 4. Fa parziale eccezione a questo discorso la posizione di Lotta continua, l’unica tra le organizzazioni della sinistra extraparlamentare ad attribuire al rapimento di Labate un segno di sinistra, che così forse fornì il destro a quella posizione per cui negli anni successivi i militanti delle BR erano“ compagni che sbagliavano” (ma l’espressione era stata coniata, in chiave ironica, dal radicale Marco Pannella). Le critiche di LC si esercitavano quasi su di un piano di confronto politico. Il giornale dell’organizzazione denunciava infatti “il carattere irresponsabile ed esibizionista di un’azione del genere” e “la profonda sfiducia nell’iniziativa politica delle masse e nei livelli di organizzazione raggiunti” che l’azione delle BR metteva in luce. Cfr. “Brigate rosse”: velleitarismo pratico e confusione ideologica, in “Lotta continua” del 15 febbraio 1973. Dello stesso tenore il commento alla vicenda del rapimento Amerio, avvenuto dieci mesi dopo e di cui, dopo aver sottolineato che a Mirafiori all’arrivo della notizia avevano pianto solo i suoi colleghi nello sfruttamento, si aggiungeva “Ma nei commenti degli operai c’è anche la misura della separazione politica fra un’azione come questa e la linea che la ispira, e i problemi, che stanno di fronte all’attenzione delle masse, tanto più vivi in questa fase”. Cfr. Torino: rapito un dirigente FIAT, con la firma delle Brigate rosse, in “Lotta continua” dell’11 dicembre 1973. 5. Cfr. G. Galli, Storia del partito armato. 1968 – 1982, Milano, Rizzoli, 1986; p. 92. 6. Ci riferiamo in particolare al volume di D. Della Porta e di M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani, Bologna, Istituto Cattaneo, 1984, cfr. p. 55: “... il primo periodo individuato, gli anni tra il 1969 e il 1975, è caratterizzato dalla pressoché esclusiva presenza dei gruppi di destra. Nel caso degli episodi di violenza, il peso dell’attività

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di destra è pari al 95 per cento tra il 1969 e il 1973, all’85 per cento nel 1974, al 61 per cento nel 1975. Più contenuta la presenza della destra quando si passa agli attentati rivendicati e a quelli diretti contro persone. La percentuale di episodi ad essa riconducibili è rispettivamente del 59 per cento e del 50 per cento tra il 1969 e il 1973 e del 57 per cento e del 46 per cento nel 1974. Nel 1975, diversamente da quanto accadeva per gli altri due indicatori, la destra perde rapidamente terreno rispetto alla sinistra” . 7. Cfr. Sanlorenzo, Gli anni spietati, cit.; p. 78. Si veda l’opinione di Valerio Zanone, all’epoca consigliere regionale del Partito liberale, secondo il quale la copertura degli squadristi da parte dei dirigenti del Movimento sociale italiano era “l’elemento o uno degli elementi che ci persuade a differenziare l’estremismo di sinistra dall’estremismo di destra e ad attribuire all’estremismo di destra una pericolosità più grave per le istituzioni democratiche”. 8. Il convegno, tenutosi il 22 e il 23 aprile, era promosso dalla FLM, dalla Federazione CGIL – CISL– UIL, dalla V Lega FLM e dal Consiglio di fabbrica di Mirafiori. Cfr. Esperienze sindacali, n. 2, luglio 1980; p. 68. 9. Il caso più eclatante è forse quello della Sit-Siemens di Milano, da dove provenivano nove brigatisti della prima ora, esponenti a diverso titolo dell’organizzazione, a cui erano approdati da precedenti esperienze di militanza in fabbrica. Secondo alcune ricerche anche da lui condotte, per il sociologo Luciano Gallino tra gli operai della FIAT “l’area di potenziale consenso [era] dell’ordine del 25 - 30 per cento”. Cfr. “Mondo operaio”, marzo 1980. 10. Cfr. A. Della Porta, Il terrorismo di sinistra, Bologna, Il Mulino; p. 216. La percentuale delle azioni delle BR rivolte direttamente al mondo della fabbrica è secondo questo studio del 40 per cento. Per le azioni delle organizzazioni più vicine al movimento del ’77, si aveva invece una prevalenza di azioni più genericamente di “propaganda sociale”. 11. Secondo una stima verosimile di Della Porta, che però fa riferimento all’elaborazione di dati, tratti dagli atti giudiziari, parziali, relativi in particolare a 530 situazioni su un universo di 1220 casi. Cfr. A. Della Porta, Il terrorismo di sinistra, cit.; p. 144. Il secondo gruppo per importanza è quello degli impiegati, il 18,7 per cento. 12. I casi più noti sono, limitandosi a Mirafiori, per il sindacato quelli di Lorenzo Betassa, ucciso in via Fracchia a Genova, Luca Nicolotti, Nicola D’Amore, delegati sindacali della FIM-CISL (ma quest’ultimo iscritto per un

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certo periodo anche al PCI); di Antonio Savino, Angelo Basone, Cristoforo Piancone, passati in forme diverse nel PCI. Si tratta naturalmente di situazioni e percorsi differenti: si va da casi di presumibile infiltrazione e di simulazione ad altri in cui è possibile ipotizzare evoluzioni all’interno di un percorso di fabbrica. Ecco cosa riferisce Rinaldo Camaioni, dirigente FIAT alle Carrozzerie di Mirafiori e una delle vittime del terrorismo: “… nessuno di noi, allora, avrebbe capito che il terrorista non doveva andarlo a cercare tra le persone violente, tra quelle che [facevano]casino… Bisognava andare a cercarli tra le persone di cui mai avresti sospettato! Quando mi hanno telefonato… che in via Fracchia avevano trovato Betassa, credevo stessero scherzando!”. Cfr. G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla FIAT, Bologna,. Il Mulino, 1998; p. 191. Si veda pure la significativa testimonianza di Giuseppe Caroppoli, nel 1978 responsabile del PCI alla FIAT Mirafiori: “ Basone era iscritto al PCI dal ’72 ed era entrato a far parte anche del direttivo della sezione di Mirafiori: uno dei molti giovani operai che le lotte del ’68-69 avevano spinto verso il nostro partito. Era un ragazzo sensibile, un bravo compagno. Faceva politica seriamente, con impegno. Sul lavoro era combattivo. Le prime azioni delle BR in fabbrica le aveva condannate, diceva che erano dei provocatori. Negli ultimi tempi però aveva assunto posizioni critiche verso il partito… Poi la sua militanza si è rarefatta, in sezione non si vedeva praticamente più. E anche in reparto era molto meno attivo, meno presente”. Cfr. M. Cavallini ( a cura di ), Il terrorismo in fabbrica. Interviste con gli operai della FIAT, Sit-Siemens, Magneti Marelli, Alfa Romeo, cit.; p. 66. 13. Cfr. G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla FIAT 1919 - 1979, cit.; p. 189. 14. Questi dati vengono indicati da Sanlorenzo in Gli anni spietati. I comunisti nella lotta contro il terrorismo. Torino 1972 – 1982, cit.. All’epoca egli era Vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte e il giorno dei funerali di Casalegno, si recò insieme al Presidente, il socialista Aldo Viglione, a volantinare ai cancelli di Mirafiori l’o.d.g. contro il terrorismo votato pochi giorni prima dal Consiglio. Cfr. Aa.Vv, Il Piemonte e Torino alla prova del terrorismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004; p. 128. 15. Cfr. B. Mantelli, M. Revelli, Operai senza politica. Il caso Moro alla FIAT e il qualunquismo operaio, Roma, Savelli, 1979; p. 188. A ben vede-

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re le conclusioni a cui approdavano i due autori andavano al di là del caso Moro, che rappresentava un po’ la cartina al tornasole dei processi di espropriazione della politica di cui gli operai di Mirafiori erano vittima, ammutoliti “su versanti opposti, dall’ iniziativa armata di un terrorismo che vuole trovare legittimazione proprio nella paralisi politica di quella classe operaia e dalla strategia di governo di un partito comunista che sulla centralità di una classe operaia silenziosa tenta di fondare compiutamente la propria autonomia di ceto politico”, ivi, p. 196. Al di là di questa analisi politica, va segnalato il lucido giudizio finale, anticipatore di processi che di lì a breve si sarebbero messi in moto, sui destini della “classe operaia” di Mirafiori: “… ci troviamo cioè di fronte ad una situazione di sconfitta politica della classe operaia senza che a ciò corrisponda, per ora, la consumazione di una sconfitta materiale vissuta dalla classe sul terreno della propria forza strutturale, all’interno del rapporto di produzione”, ivi, p. 196. 16. Cfr. D. Novelli, N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo; pp. 58-60; A. Della Porta, Il terrorismo di sinistra, cit.; p. 127. A Torino gli eventi terroristici furono 45 nel 1977, 39 nel 1978, 57 nel 1979 e 5 nel 1980. 17. Sulle colonne de La Stampa tornano in quei mesi con grande frequenza i titoli che drammatizzano le iniziative della lotta contrattuale. Eccone alcuni: “Violenze e danni alla Mirafiori di gruppi sfuggiti ai sindacati”, 7 giugno ’79; “Violenze fuori dalle manifestazioni sindacali”, 8 giugno ’79; “Polemiche per i licenziati FIAT. Ieri sciopero calmo a Mirafiori”, 27 giugno ’79; “Piazze, corsi, caselli autostradali, ferrovia e aeroporto bloccati dagli operai in lotta”, titolo “freddo”, ma il cui occhiello era “La circolazione sconvolta da cortei, manifestazioni, picchetti: nessun incidente”, 5 luglio ’79; “Torino, devastata sede FIAT. Blocco di operai: lite e spari”, 13 luglio ’79, in cui si accostano tra loro due fatti diversi e da cui risulta che la lite è stata provocata da un pregiudicato, che ha sparato contro gli operai che facevano il blocco. 18. Cfr. G. Ghezzi, Processo al sindacato, De Donato, Bari 1981. Quella di Ghezzi, che fece parte del collegio di difesa dei licenziati FIAT promosso dalla FLM, è la ricostruzione più completa delle diverse fasi del contenzioso giudiziario, che portò il sindacato a scegliere in un primo momento una strategia di difesa “minimalista”. Essa si articolò nella richiesta di immediata reintegrazione dei licenziati in base all’art. 700 del

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Codice di procedura civile, a cui i singoli ricorrenti si appellavano per vizi di forma ovvero per la genericità degli addebiti contestati, evitando, come chiedevano soprattutto la FIM e i licenziati, di scegliere la strada del ricorso all’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, ritenendo la strada della denuncia del comportamento antisindacale, più rischiosa nell’immediato e valutandola percorribile come extrema ratio. Si trattava di un’alternativa di scelte non solo tecnico-giuridiche, ma eminentemente politica, come dimostrava la decisione di dieci dei 60 licenziati (una donna aveva intanto infatti rinunciato al ricorso) di affidarsi a un collegio difensivo “alternativo”, sostenuto da avvocati vicini alla sinistra extraparlamentare, ritenendo di non poter sottoscrivere l’adesione ai valori fondamentali del sindacato “in quanto oggi si rispecchiano nella linea politica dei sacrifici, della cogestione, della produttività, dell’attacco di opposizioni autonome in fabbrica”, ivi, pag. 57. Quando, l’8 novembre, il pretore del lavoro accoglierà le ragioni dei ricorsi, dichiarando nulli i provvedimenti della FIAT, questa li licenzierà di nuovo inviando nuovi provvedimenti disciplinari, contestando questa volta addebiti specifici. A quel punto il sindacato imboccherà la via dell’art. 28, richiedendo però solo in modo indiretto la reintegrazione dei licenziati attraverso “la rimozione degli effetti del comportamento antisindacale della FIAT” una volta che questa fosse “giudizialmente accertata”. 19. Secondo la testimonianza successiva di Cesare Romiti la lista dei licenziati comprendeva inizialmente “circa duecento violenti da allontanare”, ridotta poi per ragioni “ umanitarie”. Cfr. C. Romiti, Questi anni alla FIAT, Milano, Rizzoli, 1988; pp. 99-100. Quasi tutto l’universo delle fabbriche torinesi della FIAT era comunque rappresentato nell’elenco dei licenziati: 8 lavoravano alla FIAT Rivalta, 5 alla Rivalta Presse, 13 alle Meccaniche e 19 alle Carrozzerie di Mirafiori, 8 alla Mirafiori Presse, 8 alla Lancia di Chivasso. Cfr. B. Guidetti Serra, Le schedature FIAT, Torino, Rosenberg&Sellier, 1984; p. 159. Per mettere forse in ulteriore difficoltà il sindacato, erano stati selezionati anche per l’orientamento critico nei suoi confronti. Cfr. N. Tranfaglia, B. Mantelli, Apogeo e collasso della “città- fabbrica”: Torino dall’autunno caldo alla sconfitta operaia del 1980, in Storia di Torino, IX, Gli anni della Repubblica, Torino, Einaudi, 1999; pag. 842: “Se una caratteristica comune la maggior parte di loro la possedevano era quella di far parte di un’area di quadri operai il cui rapporto con il sindacato era più dialettico che d’identificazione, ed il cui

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riferimento esterno erano le leghe territoriali della FLM più che le Confederazioni”. Questo dato è confermato da un appunto a mano ritrovato in un archivio, in via di sistemazione, conservato nella sede torinese della FIOM, e da cui risulta che tra i 61, 34 risultano iscritti alla sola FLM senza scelta confederale, 6 alla FIOM, 3 alla CISL, 1 alla UIL e 17 non iscritti a nessun sindacato. L’ipotesi giornalistica che la lista dei 61 licenziati fosse stata compilata dal sindacato, avanzata da G. Bocca, appare del tutto priva di fondamento e senza nessun riscontro documentale. L’iniziativa del provvedimento era stata annunciata dall’azienda al sindacato sia ai massimi livelli, nelle persone dei tre segretari nazionali, Lama, Carniti e Benvenuto, sia al sindacato torinese e all’Esecutivo del C.d.f. di Mirafiori. Cfr. G. Bocca, I signori dello sciopero, Milano, Mondadori, 1980, p. 95; C. Romiti, Questi anni alla FIAT, cit.; p. 96; Aa. Vv, Cento…e uno anni di FIAT: dagli Agnelli alla General Motors, Bolsena, Massarri, 2001; p. 83. 20. Cfr. G. Ghezzi, Processo al sindacato, cit.; p. 8. Dalle inchieste della Magistratura torinese solo uno dei 61 licenziati è risultato militante di gruppi armati, mentre altri tre risultarono collegati, in un periodo precedente, a gruppi terroristici. Cfr. Tranfaglia – Mantelli, Apogeo e collasso della “città- fabbrica”: Torino dall’autunno caldo alla sconfitta operaia del 1980, cit.; p. 849; Aa. Vv, Cento… e uno anni di FIAT, cit.; p. 85. 21. Il tenore dei titoli, del 10 ottobre, giorno dopo l’arrivo delle lettere, della stampa d’informazione faceva proprio il nesso tra violenza e terrorismo: Terrorismo? La FIAT licenzia (“Il Messaggero”); A pochi giorni dall’assassinio di Carlo Ghiglieno, la FIAT sospende 61 operai per violenza in fabbrica (“Il Giornale Nuovo”); La FIAT e il terrorismo. Con i 61 se ne andrà la paura (“La Gazzetta del popolo”); Linea dura alla FIAT. Sospesi 61 operai. Sono terroristi? (“Il Mattino”). 22. Cfr. Pizzorno, Le due logiche dell’azione di classe, cit., pag. 63. 23. Ne è un esempio il racconto di Luciano Parlanti, entrato alla Mirafiori nel 1959 e protagonista diretto delle lotte del ’69, in G. Polo, I tamburi di Mirafiori, Torino, Cric, 1989: “Perché man mano che li facevi i cortei erano sempre più grossi, la gente ci trovava non tanto un mezzo per ottenere più soldi o più ferie, quanto la libertà. Si sentivano nuovamente uomini, provavano soddisfazione, perché avevano rotto le catene dopo tanto tempo”, ivi, p. 64; “Anche per questa eredità del passato agli inizi c’era questo clima violento. Perché erano tanti anni che gli sciope-

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ri sindacali non riuscivano e il capo spadroneggiava e c’era quella paura che doveva essere rotta con la violenza”, ivi; pag. 68. Cfr. pure D. L. Norcia, Io garantito, Frammenti di vita e di pensieri di un operaio FIAT, Roma, Edizioni Lavoro, 1980; p. 49, che definisce quella operaia una “controviolenza”, mutuando forse l’espressione dal “contropotere” di cui aveva parlato la FIM di Macario. 24. Nell’assemblea di tutti i delegati al Palazzetto dello sport di Torino indetta il 16 ottobre in risposta ai 61 licenziamenti si esprimeva senza mezzi termini Angelo Caforio nel suo intervento a nome di tutti i licenziati: “…io voglio essere molto chiaro su questo punto. Voglio dire che le lotte che abbiamo fatto, fossero esse scioperi, picchetti o cortei, sono separate da un abisso dagli atti di terrorismo. Questo abisso è morale, pratico, politico”, in G. Ghezzi, Processo al sindacato, cit.; pag. 29. 25. Cfr. G. Amendola, Interrogativi sul “caso” FIAT, in “Rinascita”, n. 43, 9 novembre 1979; pp. 13 – 15. In realtà la questione dei 61 licenziati rappresenta nell’intervento di Amendola il pretesto per una lunga e accesa requisitoria contro il “sindacato dei consigli”, contro cui egli si era schierato fin dalla sua nascita, e di cui egli non salva nulla, nemmeno l’impegno per gli investimenti nel Sud, parola d’ordine diventata a suo dire “ una semplice copertura di una politica tesa a difendere e a migliorare le condizioni delle categorie occupate ed organizzate, a spese dei giovani e dei disoccupati meridionali”. La furia “iconoclastica” del leader della “ destra” comunista arriva ad affermare che dei consigli di fabbrica non si era mai riuscito a sapere quanti fossero davvero operanti. Era troppo anche per un dirigente “moderato” come Lama, che gli rimprovererà in quest’occasione “ l’unilateralità complessiva”, mentre a Pio Galli, allora segretario della FIOM, toccherà ribattere, dati alla mano, come con i C.d.f. il sindacato avesse visto una partecipazione e una rappresentanza mai raggiunta prima. Cfr. P. Galli, Facciamo i conti con i nostri errori ma per andare avanti, in “Rinascita”, n. 45, 23 novembre 1979; pp.13 – 14. 26. Come tutte le affermazioni posteriori, anche quelle di Romiti che minacciavano il suo abbandono dell’azienda nel caso anche uno soltanto dei licenziati fosse rientrato in fabbrica, vanno prese col beneficio dell’inventario, ma sono indubbiamente rivelatrici delle scelte imboccate ormai dal vertice della FIAT. Cfr. C. Romiti, Questi anni alla FIAT, cit.; pag. 99. Lo stesso atteggiamento trapela da molte altre dichiarazioni di altri

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suoi esponenti. A proposito dello sciopero dei cabinisti della verniciatura, verificatosi il mese precedente, Cesare Annibaldi dichiara apertamente che l’atteggiamento di rottura dell’azienda era “insignificante in termini sostanziali, fondamentale in termini di principio”. Cfr. G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla FIAT, cit.; p. 196. Di una direzione disposta a investire in scioperi, oltre che in tecnologia, parla Magnabosco, in T. Dealessandri, M. Magnabosco, Contrattare alla FIAT, Roma, Edizioni lavoro, 1987; p. 176. 27. Ricavandoli da fonti FIAT che egli stesso valuta “in alcuni casi nettamente sovrastimate” ecco i dati forniti da Berta: dopo i quasi 2 milioni di ore perse nel 1970, negli stabilimenti del gruppo vi furono nel 1973, anno di rinnovo contrattuale, oltre 5 milioni di ore perse, che scendevano a circa 3,5 milioni nel 1974 e a poco più di 1,5 nel 1975; erano oltre 3,5 milioni di ore nel 1976, 3,3 nel 1977, anno anch’esso di rinnovo contrattuale, per scendere, in concomitanza col la strategia dell’Eur, al minimo storico del decennio, 653 mila ore nel 1978. Si impenneranno di nuovo verso l’alto in occasione del contratto del 1979, quando si raggiunsero quasi 6 milioni di ore. Dopo il 1975 alle ore di sciopero “l’azienda tendeva ora ad assommare quelle di mancata produzione per il dilagare dell’assenteismo operaio”. Cfr. G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla FIAT, cit.; pp. 142-143. 28. La tecnologia fu per Revelli l’arma vincente “all’origine di[ quella] strana rivoluzione industriale realizzata ‘in una sola impresa ’”, autore che ripercorre le tappe di questo processo: i primi esperimenti di robotizzazione risalgono al 1973, il 1976 è l’anno del Digitron, il 1978 quello del Robogate per la Ritmo e il 1979 quello per la Panda. Nel 1980 entra in funzione il LAM ( Lavorazione motori asincrona). “Alla fine del decennio – alla vigilia dello scontro frontale con i suoi operai – la FIAT aveva dunque terminato il primo ciclo d’innovazione intensiva, quello più impegnativo e devastante, relativo ai punti chiave del processo lavorativo”. Cfr. Revelli, Lavorare in FIAT, cit.; p. 119. Anche i dati relativi agli investimenti dopo il 1975 si leggono agevolmente in questa prospettiva: 201 miliardi nel ’75, 813 nel ’76, 1.000 nel ’77, 1.021 nel ’78, 962 nel ’79, 960 nell’80. Si veda G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla FIAT, cit.; p. 141. Dati, sia detto en passant, alla cui luce l’analisi del PCI della crisi FIAT, fatta dopo la vertenza sulla Cassa integrazione dell’autunno 1980, che accusava la direzione FIAT di non aver realizzato

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“negli anni scorsi tempestivamente processi di ristrutturazione e di rinnovamento delle produzioni” appare per lo meno attardata a un produttivismo d’altri tempi. Cfr. PCI, La lotta alla FIAT. Il giudizio del PCI torinese. Documento approvato dal Comitato federale, pag. 4, Archivio PCI, Federazione provinciale di Torino, b. 172, presso la Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci di Torino. 29. Il riferimento è a G. Pansa, Nella gabbia di Mirafiori, in La Repubblica dell’11 ottobre 1979; e a G. Bocca, I signori dello sciopero, cit. 30. È il tema evocato, tra tanti, da G. Bocca in La classe operaia che non c’è più, in “La Repubblica” del 1 marzo 1978. Sull’intera questione cfr. A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola della classe operaia nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma 2006. 31. Iniziata sul campo nel gennaio, i suoi primi risultati vennero diffusi alla Conferenza operaia sulla FIAT nel febbraio 1980, circolando tra gli studiosi sotto forma di bollettino. In seguito essa si è tradotta in diversi contributi pubblicati dalla rivista del CESPE, focalizzati su singoli aspetti; ancora nel 1990 il testo del bollettino veniva pubblicato da “Politica ed economia”, a firma di A. Accornero, A. Baldissera, S. Scamuzzi, con un titolo significativo: Le origini di una sconfitta. Gli operai FIAT alla vigilia dei 35 giorni e della marcia dei quarantamila, ivi, n. 12, 1990; pp. 3339. La redazione della rivista giustificava la pubblicazione di un testo di dieci anni prima, perché in esso “emergeva chiaramente la discrasia fra posizioni dell’avanguardia operaia e delle maestranze FIAT nel loro insieme”. La realtà della classe operaia FIAT, divisa tra una maggioranza relativa di lavoratori collaborativi, il 44,4%, una consistente fetta di lavoratori conflittuali, il 29,4%, e una minoranza, il 25,7% di “lavoratori antagonisti”, avrebbe messo “in discussione l’immagine di compattezza materiale e ideale del tradizionale nucleo di riferimento della classe operaia italiana”. Il fatto che la ricerca non approdasse mai a un’opera compiuta, a fronte della quale la comunità scientifica avrebbe potuto meglio giudicarne il merito, non può che essere visto come un altro segno di quanto la vertenza dei 35 giorni sia stata oggetto, negli anni Ottanta, di un generale disinteresse che perdura tuttora. 32. Una delle più esaurienti ricostruzioni in sede storiografica del conflitto industriale alla FIAT, non condivisibile in toto nei suoi giudizi ma sempre stimolante, quella di G. Berta, si arresta all’episodio dei 61 licen-

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ziati, senza affrontare la vicenda dell’autunno ’80 perché “quell’agitazione e il suo esito, conclusivi anche sul piano simbolico del periodo dell’alta conflittualità, non rappresentano che l’epilogo rispetto alle decisioni e agli eventi maturati un anno prima, nell’autunno del 1979”. Cfr. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla FIAT, cit.; p. 205. 33. Cfr. T. Dealessandri, M. Magnabosco, Contrattare alla FIAT, cit.; p. 62. Dealessandri, all’epoca coordinatore del gruppo FIAT per la FLM, ritiene che da quella data in poi, “gli atti di violenza avvenuti, durante le iniziative di lotta, all’interno degli stabilimenti siano stati inferiori rispetto a quelli degli anni precedenti”; ma erano puntualmente registrati dalla FIAT e dai suoi comunicati che ora iniziava a sanzionare anche fatti individuali come il diverbio tra due operai. 34. Si veda ad esempio l’introduzione di Gianni Vizio, a nome della V Lega, al convegno Lotta al terrorismo e trasformazione dello Stato, svoltosi il 3 maggio 1979 a Torino, in cui vi è un rapido passaggio sulle forme di lotta non violente. Cfr. “Esperienze sindacali”, numero senza data. In diversi interventi di rilievo in questa fase si insiste molto sul fatto che il sindacato, oltre che con la lotta, opera attraverso la persuasione. Si veda ad esempio di Pio Galli il già citato intervento in risposta ad Amendola su “Rinascita”. Il nodo non violenza-legalitarismo rimaneva non affrontato per Bruno Manghi. Cfr. Declinare crescendo: note critiche dall’interno del sindacato, Bologna, Il Mulino, 1977; pp. 37 - 38. Si veda anche L’iniziativa del movimento sindacale contro il terrorismo “rosso” e per la trasformazione dello stato, in “Esperienze sindacali”, n. 2, luglio 1980. 35. È l’ipotesi sostenuta da G. Bonazzi, La lotta dei 35 giorni alla FIAT: un’analisi sociologica, in “Politica ed economia”, n. 11, 1984. 36. La genesi dell’indagine, e del questionario che ne fu il veicolo, presenta alcune divergenze nella ricostruzione di Sanlorenzo, che se ne attribuisce la paternità e in quella di Diego Novelli. Secondo la prima egli, dopo averne parlato in modo informale con alcuni compagni di partito (Giuliano Ferrara, Domenico Carpanini e Angela Cappelli, presidente del Consiglio di circoscrizione Aurora-Rossini) e discusso in un’assemblea aperta del Comitato regionale antifascista tenutasi a Palazzo Nuovo il 24 gennaio, giorno in cui Guido Rossa venne assassinato dalle BR, formulò una prima stesura delle domande in margine a un’assemblea della circoscrizione Aurora del 27 gennaio che ne approvò il progetto;

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nella ricostruzione dell’ex sindaco Novelli la formulazione del questionario avvenne il 9 febbraio durante un’assemblea del quartiere Madonna di Campagna-Lanzo. Alla fine l’iniziativa risultò promossa dai singoli consigli di circoscrizione che se ne assunsero la responsabilità, votandola con maggioranze diverse, dal Comune (che fece stampare i centomila questionari) e dalla Provincia, oltre che dalla Regione Piemonte e dal Comitato per l’affermazione dei valori della Resistenza e dei principi della Costituzione repubblicana. Cfr. D. Sanlorenzo, I comunisti nella lotta contro il terrorismo. Torino 1972-1982, cit.; pp. 175 – 177; D. Novelli, N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, cit.; pp. 56-57; si veda anche Scalambrino, Il fascino oscuro del liocorno. PCI torinese e “terrorismo rosso”, in B. Maida (a cura di), Alla ricerca della simmetria. Il PCI a Torino. 1945/1991, Torino, Rosenberg & Sellier, 2004; pp. 396-405. 37. Cfr. D. Novelli, N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, cit.; pp. 57 - 58. Dopo l’ampio dibattito sul questionario del quartiere di Madonna di Campagna-Lanzo, sviluppatosi anche sulle colonne della rivista “Nuova società”, le domande diventarono otto e la quinta venne articolata in due quesiti differenti: “Volete aggiungere altri elementi concreti che vi sembrino utili per aiutare gli organi della magistratura e le forze dell’ordine?”, a cui seguivano le opzioni sì e no;“Se siete stati (o siete) a conoscenza di fatti che andavano denunciati alla magistratura o alle forze dell’ordine: lo avete fatto?”. Cfr. Scalambrino, Il fascino oscuro del liocorno. PCI torinese e “terrorismo rosso”, cit.; p. 400. 38. Dubbi si insinuarono in momenti diversi anche tra chi accolse in modo favorevole la proposta, interpretandola come uno strumento utile per allargare la sensibilità e la partecipazione contro il terrorismo. Il giudice Caselli riteneva a esempio che il radicamento del terrorismo si fosse “sul piano delle masse […] a un certo punto fermato per effetto delle molte iniziative contro il terrorismo” alludendo alle assemblee nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole. Luciano Violante, favorevole da subito al questionario, precisava però che la quinta domanda non avrebbe potuto in nessun caso dare il via a “vere e proprie denuncie di reato”, le quali dovevano essere indirizzate soltanto ai preposti organi di magistratura e di polizia. Per questa ragione si accettò alla fine la soluzione proposta da Giorgio La Malfa, di predisporre due moduli, di cui uno solo contenente la domanda n. 5, da inviare per lo spoglio direttamente alla

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magistratura. Ivi, pp. 401-402. 39. Cfr. Federazione CGIL, CISL, UIL, Piemonte e Torino, Documento – inchiesta di massa per una discussione ed una iniziativa di massa, in “Esperienze sindacali”, s.d. 40. Quello del sindacato si presentava, rispetto al questionario dei quartieri, più elaborato ed articolato per la complessità dei temi affrontati. Dopo una premessa politica in cui si ribadiva come il terrorismo spingesse a “impedire il confronto sociale sul terreno suo proprio”, seguivano 11 domande: alcune come la n. 5, ricalcavano la formulazione definitiva della stessa domanda nel questionario voluto dalla Regione, altre esplicitavano battaglie sindacali generali, come la n. 7, che invitava i lavoratori a pronunciarsi sui temi della riforma e della sindacalizzazione della polizia o, come la n. 2, chiedeva di indicare, in un item di sei opzioni, i fattori che di più contribuivano ad alimentare il terrorismo. Altre, seppure in modo indiretto, alludevano al nodo lotte sindacali-violenza. 41. Cfr. G. Bocca, I signori dello sciopero, cit.; p. 95. I risultati vennero analizzati in un documento interno del sindacato, Questionario sul terrorismo. Note per utilizzo analisi campione, che mi è stato fornito da Carmelo Inì, allora operatore sindacale alla Mirafiori. Sulla sua base venne preparata la relazione per il convegno Lotta al terrorismo e trasformazione dello Stato. 42. I risultati del questionario della Regione e dei quartieri sono fortemente enfatizzati da Novelli, secondo cui esso determinò lo scompiglio nell’organizzazione torinese di Prima Linea, creando il vuoto attorno ai suoi militanti. Cfr. D. Novelli, N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, cit., p. 60. Più equilibrato il giudizio di Scalambrino, in Il fascino oscuro del liocorno. PCI torinese e “terrorismo rosso”, cit.; p. 404: “Il risultato maggiore si ebbe probabilmente sul piano della maturazione di una maggiore consapevolezza del pericolo terroristico che ebbe come effetto una graduale accentuazione dell’isolamento sociale del terrorismo, non certo sul piano dell’azione giuridica: soltanto 35 furono le schede contenenti informazioni contenenti informazioni giudicate utili per le indagini contro le BR e Prima linea da parte dei magistrati che eseguirono lo spoglio”. 43. Per i funerali di Rossa, operaio e sindacalista all’Italsider di Genova, membro del direttivo provinciale della FLM di quella città, i sindacati tori-

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nesi riempirono tre treni speciali, interamente pagati da una sottoscrizione senza precedenti per slancio e partecipazione. Più di 3300 i partecipanti. Cfr. M. Cassi, Per vincere l’eversione occorre fare come lui: denunciare le BR, in “La Stampa” del 28 gennaio ’79. La perdita del senso della realtà nelle analisi delle BR è in questa fase del tutto evidente, se confrontata con le risoluzioni precedenti alla svolta del 1975. Si veda ad esempio il documento del gennaio 1973, in cui si affermava che “il PCI e[ra] una grande forza democratica che persegu[iva] con coerenza una strategia esattamente opposta alla nostra”, cfr. G. Galli, Storia del partito armato, . 1968 – 1982, cit.; pag. 55. 44. Una contrapposizione rivendicata con orgoglio da Gianni Vizio che a quel convegno tenne, a nome della V Lega, la relazione introduttiva: “Il terrorismo è l’esatto contrario delle lotte sindacali, il terrorismo è clandestinità, agguato vile, disprezzo della democrazia, mentre le lotte sindacali sono state in questi anni nella nostra società processo di emancipazione, di progresso, in quanto hanno reso il lavoratore non più appendice del processo produttivo, ma soggetto della sua trasformazione”. 45. L’idea di tradimento “di coloro che da delegati, da compagni operai che hanno lottato insieme a noi, sono passati all’altro campo, nel campo del nemico di classe... per cui per esempio Betassa non era solo clandestino a Dalla Chiesa, ma era clandestino anche al suo gruppo omogeneo, ai lavoratori con cui aveva discusso, con cui aveva lavorato” era sostenuta da Gianni Marchetto nei lavori della I° Commissione. Cfr. del movimento sindacale contro il terrorismo “rosso” e per la trasformazione dello Stato, cit.; p. 39. 46. Bozza di documento sul tema: lotta contro il terrorismo e contro i tentativi di involuzione autoritaria. Bilancio di un anno di lavoro, approfondimento dell’analisi sul terrorismo in questa fase, del rapporto tra efficienza e democrazia e iniziative per le prossime settimane, Torino, 14/1/1980. Forse in relazione al questionario si sottolinea di non aver attuato “il piano di inchiesta CGIL, CISL e UIL così come ci eravamo proposti”, Archivio Fiom, b. 51, fasc. 3. 47. Il rischio di infiltrazione fu denunciato anche con toni eclatanti nel giugno del 1981. In relazione al rapimento, da parte delle BR, di Renzo Sandrucci, dirigente dell’Alfa Romeo di Milano, Vincenzo Mattina, allora in carica nella segreteria UIL, sottolineò come “nel frasario degli inquirenti” (i rapitori delle BR, nda) si ritrovassero assonanze “con ragiona-

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menti e forme espressive che apparten(evano) alla cultura della sinistra e del sindacato” e il dibattito giornalistico e sindacale si alimentò ulteriormente con l’arresto di Vittorio Alfieri, esponente di spicco della colonna Walter Alasia, che era stato per un breve periodo membro dell’esecutivo dell’Alfa in quota FIM-CISL. Cfr. A. Galantini, Infiltrazioni e insinuazioni, in “Rassegna sindacale”, n. 29, 23 luglio 1981; pp. 3-4; M. Sai, La lezione che ci viene dall’Alfa, in “Rassegna sindacale”, n. 41, 12 novembre 1981; pp. 3-5, secondo il quale la presenza del brigatista nell’esecutivo del C.d.f. dell’Alfa, in cui egli intervenne pochissimo, non significò affatto una radicalizzazione dell’azione sindacale, come testimoniava la vertenza sui gruppi di produzione conclusa positivamente con pochissime ore di sciopero. 48. Una Nota per gli operatori FLM diramata a Torino in data 28/5/1980 affrontava il problema della sospensione dagli incarichi FLM e dalla iscrizione al sindacato “per coloro che essendo coinvolti in procedimenti penali concernenti reati ascrivibili a ‘partecipazione e/o organizzazione di banda armata, o associazioni sovversive’ siano in stato di arresto”, prevedendo l’espulsione automatica “qualora l’interessato dichiari di essere prigioniero politico, o dopo che il giudizio di primo grado ne riconosca la colpevolezza” e la sospensione dagli incarichi sindacali, che scattava automaticamente al momento dell’arresto sottoforma di sospensione cautelare. Cfr. Archivio FLM presso FIOM di Torino, in via di sistemazione. Un analogo provvedimento era in vigore presso la FLM di Milano, dove nel luglio 1981 si svolse pure un importante convegno sindacale contro il terrorismo. Cfr. Sai, La lezione che ci viene dall’Alfa, cit.; p. 3. 49. Si veda il suo intervento in Aa. Vv., I 35 giorni alla FIAT 15 anni dopo. Confronto al Lingotto, Roma, Metaedizioni, 1996; p. 48: “In questo dibattito ho sentito emergere ancora una volta un’opinione che mi preoccupa, non vorrei che mio figlio, tra 15 o 20 anni, mi rimproverasse di essere stato un nemico della democrazia; non vorrei che studiasse sui libri di storia cose che non corrispondono alla realtà”.

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L’odore dei soldi. L’Eternit di Casale Monferrato: una storia esemplare Fabrizio Meni

“Quando un’organizzazione criminale procura un danno ambientale, si parla di ecomafia. (…) Ma quando l’organizzazione non è criminale? Anzi, quando non dovrebbe esserlo? E quando l’ambiente non è solo inteso come la natura, ma comprende l’uomo, che cos’è? Un Genocidio? Una strage? Che cos’è?”

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Patrick Fogli, Vite spericolate

La vicenda dell’Eternit, la più grande fabbrica di Casale e del Monferrato per tutto il XX secolo, con le migliaia di vittime di mesotelioma che la produzione dell’amianto-cemento ha causato, è oggetto, in questi ultimi mesi, di grande attenzione e di numerose pubblicazioni giornalistiche, saggistiche e persino narrative. L’ampio risalto, anche televisivo, è connesso con una prima parziale e provvisoria vittoria giudiziaria: la sentenza che rinvia a giudizio i proprietari della multinazionale, lo svizzero Stephan Schmidheiny e il belga Jean-Louis de Cartier de Marchienne per disastro doloso. In questa sede, più che ricostruire la storia della fabbrica o il faticoso iter giudiziario, vorremmo trattare la vicenda “Eternit” come paradigmatica dello sviluppo industriale e di certe forme di capitalismo del XX secolo, sotto molteplici aspetti. 86


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Per decenni l’amianto è stato considerato il “materiale del XX secolo” 1, miracoloso ritrovato tecnologico che ha avuto l’apice di sfruttamento e utilizzo negli anni Settanta: milioni di tonnellate estratte dal mondo intero e 3000 prodotti in amianto sul mercato. La fabbrica Eternit viene fondata a Casale nel 1906. È un impianto moderno che apre prospettive occupazionali inattese. La fame atavica del mondo contadino sembra possa essere sconfitta con un impiego che è una “vera e propria conquista dell’America” senza dover emigrare, come nel caso delle generazioni precedenti. Il contadino della pianura e soprattutto della collina monferrina vede, infatti, nell’Eternit l’“America” a casa propria: un lavoro ben retribuito a orari stabiliti che concede anche del tempo residuo per l’orto o la piccola vigna. Ma soprattutto rappresenta un futuro di benessere stabile e duraturo per i propri figli non più costretti a spezzarsi la schiena, come braccianti nei campi, o come minatori o nella mai sufficiente piccola proprietà terriera parcellizzata di collina, sempre in balia degli imprevisti naturali: basta una grandinata o la filossera ed è miseria. La fabbrica comunque va. Va e produce il materiale del futuro. È significativo che nei suoi atti, documenti e nelle sue pubblicità, non sono tanto tubi o lastre ondulate a essere prodotti, quanto la “pietra artificiale”. È il potere che l’uomo crede di avere sulla natura, fino a credere di poterne fare a meno, in uno dei tanti miraggi, dei sogni che si traducono in certezze inconfutabili sulla potenzialità della tecnologia a sovvertire in meglio la vita degli uomini, prima di tradursi in un incubo da cui è difficile uscire. Esempio paradigmatico di quel processo che Illich chiama “controproducibilità tecnica” 2, l’oltrepassamento di quella soglia che rende il progresso tecnologico solo un apparente beneficio in quanto generatore di molti più problemi di quanto fosse inizialmente chiamato a risolvere. Non è solo avidità di profitto dei singoli, ma è avidità generale, di una intera società, una sete di progresso, un anelito di cambiamento di modi di produrre e di vivere, molto spesso fini a se 87

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La fabbrica della pietra artificiale


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stessi. Come nel caso della sostituzione delle coperture dei tetti, tradizionalmente in tegole d’argilla, con i manufatti in amianto, un progresso non paragonabile certo ad altre innovazioni nella storia come ad esempio la penicillina o la sterilizzazione dei ferri nel parto. Eppure la fabbrica a Casale è il progresso che si materializza. La fama di ritrovato industriale “miracoloso” esce dai confini della fabbrica e dell’edilizia. Tutto quello che era Eternit era “buono”: i bambini lo utilizzavano per costruirsi capanne, gli adulti per delimitare gli orti e i giardini, per spianare e rifare cortili. Era un vanto per molti, ad esempio, riuscire a costruirsi da soli, una casetta abusiva (“la baracca”) in riva al Po, dove trascorrere, tra grigliate e partite a carte e a bocce, le estati o i fine settimana. I depliant distribuiti dall’azienda, vantavano le meraviglie della fibra-cemento per pollai, conigliere, casette prefabbricate, cabine da spiaggia, ghiacciaie, scuole e palestre “smontabili”, rifugi alpini e molto altro ancora, tutti accompagnati immancabilmente dall’aggettivo “razionale”, la vera parola d’ordine per entrare nel futuro.

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Padroni e operai: uomini e no Un primo tratto paradigmatico della storia riguarda il modo con cui operaio e imprenditore venivano concepiti e concepivano se stessi. In un documento della “commissione di fabbrica” istituita dal CLN, all’indomani della Liberazione, per le indagini sui profitti di guerra e sui soprusi e crimini fascisti all’interno delle varie industrie dell’estrazione e della lavorazione del cemento, leggiamo di molte denunce della disumanità dei sorveglianti in camicia nera. Era normale e quindi accettato da tutti che si lavorasse a cottimo, che si fosse assunti anche a giornata, che si attendesse ore per poter lavorare, allungando così all’incredibile la giornata lavorativa, che le condizioni di fatica di gran parte delle mansioni di minatori e fornaciai fossero al limite delle forze umane. Non era normale che oltre a questo ci fossero ulteriori maltrattamenti che nulla avevano a che fare con l’organizzazione 88


del lavoro. Tra le tante ci appare significativa la denuncia di un fornaciaio che accusa il proprio sorvegliante di trattamenti disumani: “io l’ho [sic] accuso di maltrattamenti continui e provocazioni dicendomi che intanto che ero alle sue dipendenze non mi avrebbe più permesso di sfruttare la moglie, dissanguandomi lui col lavoro e proponendosi di farmi venire il viso come quello di un topo” 3. Non ci interessa, qui, sapere se le accuse si dimostrarono fondate, quanto riflettere sulla concezione antropologica che si aveva dell’operaio e che in fondo l’operaio aveva di se stesso: una bestia da soma. In questa denuncia ci colpisce oggi l’equiparazione tra l’essere umano sfruttato e l’animale. Ma se ci collochiamo in quel contesto la denuncia è sullo sfruttamento oltre misura, cioè sull’aver ecceduto nello spremere l’essere umano, non sull’averlo equiparato alla bestia. Come se nei suoi riguardi non ci fosse stata la stessa attenzione a non superare i limiti naturali dello sfruttamento che si impiegava nei confronti degli animali da lavoro. La disumanità sta in questo. E nel ricatto. La divisione sociale tra un’élite istruita e colta, che deteneva il comando di ogni ingranaggio della società, e una massa ignorante e succube, che poteva contare solo sulla propria forza e sul proprio lavoro che uniti equivalgono a fatica, è un dato di fatto. Gli uni sapevano non solo leggere e scrivere ma sapevano parlare. Gli altri, analfabeti, comunicavano solo attraverso i mille dialetti, oggi felice oggetto di studi di cultura popolare o rivendicati politicamente come presunto legame identitario da difendere e far rivivere nelle scuole, ma ieri grande ostacolo spesso avvertito, da chi poteva esprimersi solo in quel modo, come limite e come inevitabile vergogna di chi non possiede, per destino imperscrutabile, le parole. Come le bestie. Animali da lavoro senza linguaggio. Al massimo ci si poteva limitare a mormorare, imprecare o bestemmiare tra sé, contro una sorte ingrata. Ma quello che oggi appare non credibile è che tale separazione fosse giustificata da una visione antropologica indiscussa. Le élite erano tali per la loro superiorità intellettuale e spirituale. La massa era fatica perché materia in cui non brilla la luce dello 89

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spirito. Al massimo possono arrivare ad attingere la luce caritatevole dello spirito cristiano fatto per loro: “beati i poveri di spirito…”, ma che non può essere loro concesso se non attraverso la mediazione di un’altra casta, di un’altra élite, quella dei sacerdoti e dei preti. Solo molto tardi nella storia italiana questa divisione ha iniziato a essere concepita come iniqua e priva di alcun fondamento. Probabilmente con le generazioni che entrano nel mondo del lavoro e della lotta sindacale negli anni Sessanta e che hanno nell’autunno caldo del 1969 il loro apice. Forse la guerra, e l’esperienza resistenziale, che ha portato con sé, nelle classi sociali più basse, l’equiparazione scontata tra antifascismo e socialismo, figlia dell’altra equiparazione semplicistica tra “padrone” e “fascista”, hanno mutato un poco l’atteggiamento della classe operaia, che si sente ora portatrice di valori autentici proprio nella sua operosità e per un poco crede di poter contribuire con il proprio lavoro alla costruzione di una società migliore per il futuro. L’orgoglio di lavorare in fabbrica: pura archeologia industriale. Ricordiamo il racconto di un partigiano combattente all’indomani della Liberazione. Di fronte alla desolazione della miseria e, se vogliamo, del mondo tornato sui suoi secolari cardini, con sopra chi comanda e sotto il popolo che ubbidisce, dopo la parentesi del ribaltamento resistenziale, si reca alla dirigenza dell’Eternit ancora armato e chiede, per usare un eufemismo, che gli assumano la propria compagna. Il più grande risarcimento per le azioni compiute contro l’occupazione nazifascista: il lavoro per l’ape nata operaia. Ma non un lavoro qualunque in questo caso. All’Eternit: il posto è quello del “lavoro sicuro”, buono quanto il “posto in banca” 4. Le vecchie generazioni che lavorano a fianco a fianco a quelle nuove anche negli anni Sessanta e Settanta, continuano ad avere un sentimento di riverenza verso quella élite che li comanda, pronti comunque a chiamarli “signori” con un certo rispetto, riconoscendo loro, con il capello in mano sul petto, uno stato di 90


fatto che solo nei sogni (o nel carnevale) pensano di capovolgere (non di distruggere). Visione semplicistica e riduttiva certo, ma è difficile comunque contestare l’idea che la lotta di classe, il socialismo e il comunismo siano stati vissuti dalla maggior parte del movimento operaio della prima metà del Novecento, come speranza e desiderio di capovolgimento dei ruoli, in quella mai sopita vena carnevalesca descritta da Bachtin. D’altra parte la povertà, la miseria erano vissute come delle fatalità, in un modo usuale di “prendere le cose” della vita come se fossero mandate da Dio. Bestie lo si era e ci si sentiva. Erano uomini e donne sostanzialmente analfabeti, che l’obbligo scolastico aveva portato a scuola solo saltuariamente fino alla terza elementare e comunque sempre controvoglia e senza coinvolgimento, poiché la scuola elementare era di fatto, per loro, una realtà estranea, un impedimento che nulla avrebbe loro concesso in termini di prospettive di cambiamento, simbolicamente rappresentato dall’uso di una lingua “straniera”, l’italiano. La dignità la si acquisiva più che nel sapere, nel fare. Erano uomini e donne che ci sapevano fare con le mani. La dignità del lavoro e l’etica del lavoro erano la loro controparte, la moneta del riscatto non sociale ma umano. In fondo l’élite era accusata di non “fare”, di non saper “lavorare”, dove il lavoro che rende degni è quello del “sudore della fronte”, necessario a meritarsi il “pane”. Lavorare all’Eternit rendeva possibile tutto questo con minor dispendio di fatica e con maggior sicurezza di stabilità nei profitti rispetto alla terra o alla miniera. Inoltre se di fronte al padrone ci si inchinava comunque sempre, un altro atteggiamento era concepito rispetto alla fabbrica, come spazio fisico. Era la fabbrica che si “poteva fottere”. Alzando lo sguardo, rallentando se il sorvegliante non guardava. Portandosi a casa pezzi e materiali. Un modo anche questo per sentirsi privilegiati rispetto a chi in quella fabbrica non lavorava e si spaccava la schiena in campagna, cotto di rughe e vecchio a quarant’anni o che marciva, ingobbito, nelle miniere delle colline che circondavano le ciminiere. E pazienza, se di quel lavoro, si poteva morire. Con la stes91

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sa rassegnazione con cui “si veniva al mondo”, così si accettava la morte. Comunque sia, “le bestie” muoiono. E comunque vada, è la vita che ha in sé la morte, e dunque, è nella logica delle cose morire di “fatica” e morire “di lavoro”. Poco importa se è la polvere che accelera il processo. Si muore e basta. Al massimo si parlava genericamente di malattie. In genere la diagnosi per i lavoratori dell’Eternit era quella di “bronchite cronica riacutizzata”. Quella dei fumatori incalliti. Ci si può spingere fino a parlare di “cancro”, ma la sola associazione che è normale fare è quella con il proprio lavoro, inteso come condizione esistenziale. Si lavora, ci si ammala e si muore. Con la terra, in miniera o nella fabbrica poco importa. Anzi, essere malati di lavoro era vissuto quasi con orgoglio. Come una medaglia al valore conquistata sul campo di battaglia: amara tragica consolazione simile a quella del fante di trincea che, in un anonimo gesto eroico, nel disperato e fatalistico assolvere al proprio dovere, trova nel proprio sacrificio il senso del riscatto del suo essere comunque tra “gli ultimi”. “Io ho la polvere sai!”, in una confessione sbandierata con composta dignità, come se quella “polvere nei polmoni”, oltre a dare il diritto a un supplemento di paga e la speranza di un pensionamento anticipato, rappresentasse anche il nobile marchio di chi ha sudato più degli altri, fino a sudare letteralmente sangue, per guadagnarsi il pane quotidiano. La polvere, dunque, come una promozione al merito, conquistata con la fatica e la forza dignitosa nel proprio essere uomini “da soma”. Lo stesso segno distintivo nel fumare il tabacco trinciato, le “senza filtro”, le “alfa” che spaccavano i polmoni, ma davano consolazione e con cui soltanto ci si sentiva “uomini”. “Uomini da lavoro”. L’orizzonte di questa gente era la fabbrica e le “bettole” dove bere vino, fumare e giocare a carte. C’era la famiglia certo, ma una famiglia come luogo di riproduzione, dove ci si dava del lei tra moglie e marito e tra figli e padri. Accanto a una descrizione paradigmatica della classe operaia dell’Eternit, è possibile una descrizione altrettanto emblematica della classe imprenditrice che ha guidato la fabbrica – quelli che gli operai hanno sempre chiamato “i padroni” e solo gli intellet92


tuali chiamano “capitalisti” – soprattutto quando entra nelle mani del gruppo multinazionale elvetico della famiglia Schmidheiny 5. La famiglia Schmidheiny fino agli anni Ottanta possedeva fabbriche “Eternit” in 16 paesi con 23 mila addetti, con un giro d’affari annuale di circa 2 miliardi di franchi svizzeri. Per tre generazioni gli Schmidheiny si sono sempre autorappresentati come profondamente animati da un senso del dovere e della missione spiccato, da quegli stessi ingredienti, che uniscono, secondo Weber, lo spirito del capitalismo all’etica calvinista. Certo l’intraprendenza epica non manca a nessun livello generazionale: Jacob, il capostipite, semplice tessitore dalla salute cagionevole, realizza quasi miracolosamente il suo sogno di diventare capitano di industria, acquistando con l’aiuto misterioso di un benefattore un castello in cui insedierà la sua prima manifattura di mattoni. Il figlio Ernst, poi, intuisce, nel 1906 che il futuro è nel cemento e poi nell’amianto dando avvio alla vera e propria fortuna mondiale del proprio gruppo. Nell’agiografia familiare non compaiono tuttavia altri fattori importanti per lo sviluppo capitalistico dell’impresa, eventi che hanno a che fare più con lo spirito del capitalismo (pecunia non olet) e meno o nulla con l’etica protestante. Come ad esempio il successo economico nella Germania nazista grazie ai buoni uffici prima con il governo hitleriano, e allo sfruttamento poi, in tempo di guerra, di un campo di concentramento per l’utilizzo di manodopera coatta. Oppure, l’uso di lavoratori neri, in condizioni di semi-schiavitù nelle miniere del Sudafrica dell’apartheid 6. O ancora la fortuna di poter ricostruire con l’amianto-cemento il Nicaragua devastato dalla guerra civile e dal terremoto del 1976, utilizzando gli aiuti internazionali e la partecipazione finanziaria del dittatore Somoza 7. L’ultimo erede è Stephan Schmidheiny: oggi è rappresentante dell’ONU per lo sviluppo sostenibile, consigliere di Clinton, docente di economia presso alcune università pontificie, ideatore della Swatch, azionista della Ubs e della Nestlè, ma soprattutto è uno degli uomini più ricchi del pianeta. La sua carriera inizia molto presto dirigendo Everite, l’azienda sudafricana, negli anni peg93

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giori dell’apartheid. Dal 1970 guida tutte le imprese “Eternit” all’estero. Quando prende in mano l’intero gruppo, nel 1975, ha solo 28 anni ma già una grande capacità di intuizione industriale: grazie a lui nel 1976 vengono introdotte sul mercato la lastra ondulata a pressione, un successo clamoroso per l’Eternit che riesce a vendere questo innovativo ritrovato anche agli strati più poveri della popolazione. Solo alla fine degli anni Ottanta si sbarazza delle funeste miniere d’amianto, di molte imprese di produzione di derivati dell’amianto, e, con la stessa velocità, si sbarazza anche delle conseguenze drammatiche generate nel corso degli anni 8 per ritirarsi a scrivere libri sulla natura e sull’ambiente come un contadino no-global alla Josè Bovè. Si sa: “fondamentalmente io credo che solo colui che non fa nulla, non commette errori e non subisce critiche, è normale” 9. Ma errori sembra non averne commessi, se ascoltiamo il suo punto vista, o nessuno se consideriamo il patrimonio finale del gruppo da lui guidato. D’altra parte ciò che in certi sistemi di valori (religiosi ed etici) appare come vizio o peccato, nel capitalismo dobbiamo accettarlo come virtù: l’avidità è capacità di trarre profitto, la sete di potere con ogni mezzo è abilità nella ricerca del successo e l’arrivismo individualista senza regole e senza scrupoli è la realizzazione senza ostacoli dei propri talenti, o meritocrazia. Ed è in quest’ottica che la multinazionale Eternit, che aveva sempre sostenuto che non esisteva un materiale che potesse sostituire l’amianto, forte di questo argomento riuscì a imporre ai governi, preoccupati della crescente sensibilità dell’opinione pubblica sui problemi legati alle fibre d’amianto, una strategia di abbandono “volontario” dell’utilizzo dell’amianto per tappe. Per questo si tardò, nonostante le evidenze, sino al 1992 in Italia, al 1993 in Germania e in Francia. Ma in questo modo l’immagine della multinazionale ne esce bene: un’industria che volontariamente fa il primo passo, perché sensibile all’ambiente e alla salute dei lavoratori, malgrado si sia garantita dieci anni di attività 10. Se è vero che i ritardi possono essere stati anche causati dall’opposizione interna al suo gruppo 11, o dalla difficoltà oggettiva di conciliare la conduzione delle 94


imprese con i propositi ideali, la pratica diffusa di regalare agli operai ma anche ai cittadini di Casale, gli scarti di lavorazione, le lastre o i tubi fallati, la polvere per coibentare gli edifici e i cortili, non è più solo un atto di negligenza compiuto in buona fede, ma si configura come una pratica criminale.

Il sindacato e le lotte sindacali Un altro aspetto paradigmatico è rappresentato dalla storia dell’impegno e delle lotte sindacali per la tutela della salute dei lavoratori dell’Eternit. È una storia che intreccia molte storie: quella della diffusione dei dati sulla pericolosità dell’amianto, quella della negazione di questi dati da parte della lobby dell’amianto e del cemento e in mezzo la storia della piccola realtà sindacale casalese. Le prime avvisaglie sulla nocività dell’amianto risalgono all’inizio del secolo, anche se solo a partire dagli inizi degli anni Sessanta che si ha la certezza scientifica della correlazione tra amianto e mesotelioma 12. Affinché tali risultati scientifici fossero riconosciuti in Europa ci vollero più di trent’anni. Il solo paese a utilizzare i dati scientifici fu, negli anni Settanta, la Svezia che proibì parzialmente l’utilizzo dell’amianto in alcuni materiali da costruzione. Ancora nel 1984 Max Schmidheiny, padre di Stephan, continuava a negare l’evidenza delle ricerche scientifiche sostenendo l’innocuità dell’amianto imprigionato nel cemento 13. Proprio l’atteggiamento degli industriali è una delle principali ragioni perché la proibizione dell’utilizzo dell’amianto conosce un ritardo di decine di anni rispetto agli studi scientifici sulla sua assoluta nocività 14. Per ritardare il più possibile la messa al bando dei prodotti in amianto le multinazionali produttrici, con l’Eternit capofila, organizzarono, dunque, una vera e propria azione di lobby in grado di influenzare le legislazioni dei vari paesi nella convinzione che l’utilizzo dell’amianto fosse “sotto-controllo” (controlled-use) e quindi privo di tossicità per i lavoratori e la 95

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popolazione a contatto 15. Non solo. Per creare maggiori sbocchi nell’utilizzo del cemento-amianto l’Eternit pubblica centinaia e centinaia di pubblicazioni informative dedicate ad architetti e ingegneri per illustrare le possibilità inedite di utilizzo del materiale. Pubblicazioni gratuite, ben fatte e soprattutto senza concorrenza, non essendoci state per anni pubblicazioni di settore indipendenti che potessero confutarne i dati e i principi esposti. Organizza, inoltre, corsi di formazione e di aggiornamento gratuiti, per le categorie professionali interessate. Ed anche dei concorsi per l’invenzione di nuovi utilizzi dell’amianto-cemento. Che le condizioni di lavoro fossero pessime e che per questo si rischiasse la propria salute, a Casale gli operai, però, lo sapevano bene. E lo sapevano da un secolo. La maggior parte delle donne lavorava al modellamento delle lastre, martellandole e sfrangiandole con delle cesoie, poi più tardi con dei martelletti pneumatici: “mettevamo un foulard affinché i nostri capelli non fossero troppo bianchi per la polvere” 16. Per decenni i convogli pieni di sacchi di amianto sfuso arrivavano alla stazione di Casale per poi essere scaricati manualmente, a forza di braccia e messi sui carretti destinati ai singoli reparti di lavorazione. Il tutto veniva fatto con i “tridenti”, cioè i forconi, trattando quelle fibre minerali come fieno da imballare, paglia essiccata, letame da dare ai campi. L’amianto veniva accumulato in silos molto alti. E dagli sportelli nuovamente ripreso coi forconi per essere lavorato. Poi c’erano le sfilacciatrici, per rendere più soffice e quindi amalgamabile l’amianto grezzo. Sempre a mano. È noto che persino le vigne circostanti apparivano imbiancate per effetto della polvere. L’azione sindacale fino ai primi anni Sessanta non poteva che limitarsi a quelle azioni genericamente qualificate come “rompere le balle ai padroni” e cioè, chiedere con insistenze mascherine, filtri, ventilatori e ogni altra forma di protezione da quella polvere. Ma in genere per “chi rompeva” in questo modo c’era il “Cremlino”, il reparto dalle condizioni più dure e insalubri, dove finivano gli operai sindacalizzati: era un reparto per la rifinitura dei tubi, con mucchi di tornitura ad altezza uomo e i soffitti molto 96


bassi. “Quelli che hanno lavorato lì dentro sono quasi tutti morti prima dei sessant’anni” 17. Filtri per polvere furono installati solo a partire dalla fine degli anni Settanta, ma ciò non faceva che dislocare il pericolo: di notte, infatti, i filtri venivano aperti e il vento trasportava la polvere sopra la città. L’opinione pubblica in generale non poteva, in quegli anni, che essere dalla parte della fabbrica, qualificando le proteste degli operai come delle classiche rivendicazioni salariali e si sa che gli operai tendono a chiedere sempre più di quanto possa effettivamente essere loro concesso, con in più (e la monetarizzazione del rischio poteva in effetti essere letta in questo modo), la sensazione diffusa che quelle proteste fossero una grande mancanza di rispetto e di riconoscenza per chi aveva portato lavoro, progresso e sviluppo in una piccola città di provincia (circa due mila posti di lavoro in una città di 37 mila abitanti). Nel 1961 un’agitazione sindacale, basata proprio sulla questione dell’ambiente di lavoro, sfociò nel blocco totale del ponte sul Po, con scontri con le forze dell’ordine e arresti. Ma poi tutto ritornò come prima. L’azienda tendeva a minimizzare i rischi per la salute fino a negare la presenza della polvere nei reparti. E gli operai, in fondo, accettavano il sacrificio del rischio per il futuro e il benessere della propria famiglia e dei propri figli. La polverosità degli ambienti, del resto, era considerata alla stregua della fatica: un effetto collaterale inevitabile del lavoro. Il rischio eventuale di ammalarsi faceva parte del gioco, legato alla scelta del lavoro che uno poteva fare, in base al proprio livello sociale e culturale, come il carabiniere deve mettere in conto il rischio di essere ferito o ucciso in uno scontro a fuoco. Ma all’Eternit non solo si lavorava – questa era l’opinione diffusa tra la gente – con ritmi che apparivano meno faticosi che in altri settori, con una retribuzione da favola, e con incentivi anche nell’uso gratuito dei materiali che la fabbrica generosamente elargiva (il litro d’olio d’oliva al mese a ciascun operaio suona oggi forse come un’elemosina, ma non appariva tale in quegli anni) ma anche con controlli sanitari periodici che poche altre aziende allora mettevano a disposizione degli operai (il furgone medico che visita periodi97

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camente gli operai all’ingresso della fabbrica) e “promozioni facili” e incentivi economici per chi “non rompeva le scatole”. Poi si sa a protestare sono i “comunisti”, quelli che vogliono fare la rivoluzione. Insomma se a partire dagli anni Settanta si inizia ad avere la consapevolezza che a Casale di amianto si muore, l’allarme arriva però da operai e sindacalisti, una voce contrapposta a quella della classe dirigente dell’Eternit con la sua capacità di contro-informazione in grado di condizionare gran parte dell’opinione pubblica. “Perché si è arrivati in ritardo a trovare cancerogeno l’amianto? Per pregiudizi antisindacali, antioperai, anticomunisti. A Casale dalla nostra parte solo qualche medico e qualcuno che militava nei gruppi ambientalisti” 18. E anche nella maggior parte degli operai dell’Eternit certe posizioni decise apparvero rischiose. Se si pensa che negli anni Settanta gli operai godevano di una “indennità di polvere” di 24 mila lire al mese e che i dirigenti minacciavano di cancellarla se fossero continuati gli scioperi e le proteste si comprende il senso di quanto dice Nicola Pondrano, dal 1975 rappresentante del Consiglio di fabbrica: “mi presentai in un’assemblea con 700-800 persone e se non mi hanno messo le mani addosso c’è mancato poco” 19. Comune a tutti gli ex operai è il ricordo sul divieto di fumare: “Ci dicevano di non fumare. Ma non sapevamo perché”. Ma l’azienda probabilmente lo sapeva, il perché, dato che con i risultati degli studi di Selikoff si diffonde anche la teoria dell’effetto co-carginogeno del fumo da sigaretta, in grado di far aumentare fino a 50 volte la probabilità di contrarre il mesotelioma o un tumore al polmone per i lavoratori esposti all’amianto 20. È a partire emblematicamente dall’autunno caldo e poi negli anni Settanta che l’impegno sindacale all’Eternit assume un grado di incisività superiore. In genere, tuttavia, di fronte ad attività lavorative a contatto con sostanze pericolose o in luoghi di produzioni insalubri, il sindacato si batteva per ottenere delle compensazioni salariali per i lavoratori e non per la limitazione o l’interdizione della produzione. “Chiudere la fabbrica” sarebbe stato un progetto folle che metteva a rischio migliaia di posti di lavoro, 98


cancellare per il Monferrato quel sogno dell’“America in casa” del lavoro “buono come un posto in banca” che l’Eternit rappresentava. Anche nel sindacato casalese l’inizio delle lotte fu rappresentato dalla tutela individuale del lavoro. Ma l’azione locale si è presto intrecciata con quella della tutela della salute a fronte della constatazione innegabile delle malattie polmonari che i lavoratori contraevano, anche se più genericamente chiamate asbestosi o silicosi o ancora più modestamente “polvere nei polmoni”. Ciò fu dovuto, secondo Bruno Pesce, alla dimensione territoriale e locale con cui erano strutturate le organizzazioni sindacali. Il sogno politico degli anni Settanta, il decentramento e l’organizzazione territoriale dei “comprensori” che ebbe breve vita a livello politico, funzionò in pieno nei sindacati. Esso permise una piena autonomia di scelta di lotte e di strategia da parte dei rappresentanti sindacali, soprattutto per quanto riguarda la CGIL, non solo rispetto alle linee e alle scelte nazionali ma anche a quelle provinciali. “La dimensione territoriale – ricorda Bruno Pesce – fu funzionale per tramutare in azione politica e in lotta sindacale, obiettivi noti e chiari a chi viveva a contatto con l’Eternit”. In questo modo dagli anni Settanta la difesa e la tutela del lavoro si intreccia con la causa della difesa della salute, coinvolgendo il patronato e la medicina legale in un solo obiettivo: “una delle più piccole camere del lavoro d’Italia apre più contenziosi con l’INAIL della CGIL di Milano”. Ed è proprio in quegli anni – gli anni Settanta – che si inizia a parlare apertamente di mesotelioma non mediato da asbestosi. Il vantaggio della dimensione territoriale autonoma del sindacato consisteva nel poter fare un’iniziativa sindacale senza aspettare le autorizzazioni o le mediazioni dei dirigenti regionali o nazionali. Lo svantaggio fu l’isolamento nella lotta e l’incomprensione spesso anche delle sue motivazioni. “Ancora nei primi anni Novanta, occuparsi a fondo dell’amianto era avvertito, fuori da Casale come una anomalia”. Era evidentemente strano che ci si battesse a fondo, a tutto campo, su un problema che fuori da Casale poteva al massimo essere considerato come “uno dei problemi”, accanto a quello ben più importante della difesa del 99

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posto di lavoro. Ciò ha reso più arduo l’impegno dei sindacalisti casalesi, sia per la diffidenza dei lavoratori dell’Eternit a condividere una battaglia che metteva a rischio il loro stesso lavoro, sia per l’ostilità degli ambienti estranei alla fabbrica 21 a condividere l’impegno contro la più importante risorsa economica del territorio. Questo atteggiamento è mutato quando iniziarono a morire in maniera sistematica e non episodica anche uomini e donne che mai avevano avuto un contatto diretto con la fabbrica. Tuttavia “ancora nei primi anni Novanta, mi dicevano che era colpa nostra se l’Eternit nel 1986 aveva chiuso” 22. Da una parte, dunque, la CGIL e dall’altra la fabbrica. Nel 1981 la direzione Eternit incarica un’agenzia esterna, la Hayek Engineerin AG di Zurigo, di studiare una strategia aziendale da seguire. Lo studio, confidenziale, conclude che la cifra stanziata per la ricerca di materiali sostitutivi (l’1,1% del fatturato) è insufficiente. Rimprovera a Eternit di non avere una strategia difensiva ben chiara e di non aver pensato in modo deciso al modo di rinviare il più a lungo possibile l’interdizione legale dell’uso dell’amianto. Se Eternit voleva salvare il salvabile, aveva urgentemente bisogno di una nuova pianificazione che partisse dall’ipotesi della inevitabilità della messa al bando dell’amianto, che era solo una questione di tempo. Un tempo che doveva essere strategicamente e sapientemente dilatato proficuamente negli anni, in un’azione che doveva coinvolgere anche i lavoratori e sindacati 23. E ciò ha avuto successo con la sola eccezione rappresentata dalla opposizione della CGIL locale, che oltre a dover fronteggiare lillipuzianamente la multinazionale, doveva affrontare l’altra grande questione: conciliare la tutela della salute e l’incolumità non solo dei lavoratori ma anche dei cittadini, con la difesa del posto di lavoro, priorità fondamentale dell’azione sindacale a livello nazionale ancora negli anni Ottanta, che, in casi come questi, si proponeva l’obiettivo del riconsocimento del rischi per ottenere una giusta compensazione salariale. La monetarizzazione del rischio è, di fatto, una priorità sociale in un’epoca in cui essere operai significa ancora assicurare il futuro proprio e dei propri figli contro la precarietà della fame e 100


della miseria o la necessità di emigrare per sopravvivere. La prima metà del Novecento ha come orizzonte due guerre e il periodo di più intensa emigrazione nazionale. Gli anni Cinquanta e Sessanta continuano spiritualmente a essere figli di questa epoca, con la guerra e la distruzione fisica e materiale del tessuto sociale ed economico ancora ben viva nei ricordi degli uomini e delle donne che cercano attraverso il lavoro il proprio riscatto sociale nella prospettiva di una vita migliore per i propri figli, anche a costo di un sacrificio di sé in un lavoro insalubre ma maggiormente retribuito. Negli anni Ottanta l’orizzonte antropologico è differente. Si è totalmente immersi in un modello consumistico, in cui lo “star bene” è qualcosa di ben diverso e soprattutto è qualcosa che non si è disposti a rinviare alle generazioni future: il benessere ora e subito, non rimandato a un orizzonte escatologicamente posto nella società futura su cui grazie anche ai nostri sforzi di “bestie da soma” brillerà il sol dell’avvenire. Sono anche anni, gli anni Ottanta, in cui per la prima volta anche la stampa si occupa di questi problemi, e, nel nostro caso, della pericolosità della lavorazione della fibra d’amianto. A livello locale, ma soprattutto a livello nazionale e internazionale, iniziano a comparire articoli di denuncia e di accusa. Ma è decisivo soprattutto il fatto che a comparire nelle statistiche relative ai decessi per mesotelioma per esposizione all’amianto sia ormai indifferente aver lavorato o meno all’Eternit, appartenere o meno alle classi sociali più basse. Nel 1988 si costituisce a Casale l’“Associazione esposti all’amianto”, poi trasformatasi in Associazione “vittime”, quando ormai era scientificamente provata non solo la correlazione tra mesotelioma e amianto, ma anche che la mortalità a Casale era superiore alla media nazionale. Si scontrava, nelle assemblee cittadine, tuttavia, con uno scetticismo generalizzato di fronte allo scenario cupo di morti e tumori legati all’amianto che da dieci anni i sindacalisti casalesi, Pesce e Pondrano, tentavano di disegnare: “fino a poco tempo prima tutti erano abituati a pensare che quella fabbrica era la vita per tante famiglie, cosa volevano dimostrare adesso quei rompiballe? Forse che se la gente moriva 101

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di cancro era colpa dell’Eternit?” 24. Anche da un altro punto di vista la vicenda casalese è paradigmatica. Rappresenta lo scontro tra un impegno pragmatico per necessità, perché parte dalla dimensione locale e della conoscenza non tanto di casi o di statistiche ma di uomini e di donne che si conoscono per nome e cognome, contro l’impegno altrettanto nobile per certi altri aspetti, dettato dalla difesa di posizioni teoriche o conseguente ai principi della propria militanza politica. Vi sono infatti attriti e frizioni tra l’“Associazione esposti amianto” di Casale con la più grande territorialmente e più strutturata Associazione nazionale (l’AFLED). Diretta da esponenti di Medicina democratica, ex militanti di Lotta continua, in area DP, erano “operaisti duri e puri” e quindi tenaci oppositori delle organizzazione sindacali “compromesse con il potere capitalistico”. Oppure si scontra con le radicali posizioni delle associazioni ambientaliste nazionali più intransigenti e meno disposti a mediare nel tentativo di tenere in considerazione anche la difesa del lavoro. Insomma se a prima vista sembra, e in quegli anni drammatici di lotte operaie lo è sembrato davvero, una battaglia tra la difesa dei valori liberali del capitalismo e del libero mercato e le idee comuniste sostanzialmente anticapitalistiche, in realtà fu ben altro. Sicuramente vi furono accenni del tipo “crepa padrone”, ma sostanzialmente la lotta sindacale, come ci ricorda Bruno Pesce, ha avuto sempre una linea guida ispirata al pragmatismo – difesa della fabbrica come risorsa prima di tutto di posti di lavoro –, una posizione pragmatica, questa che, in quegli anni fortemente ideologizzati, ha avuto gli oppositori più tenaci nella sinistra più radicale. È d’altra parte chi difendeva l’azienda contro l’azione comunque ritenuta sovversiva del sindacato e degli operai, tendeva a difendere un capitalismo che comunque era visto come fondamentale portatore di ricchezza, benessere e progresso. Ma a ben vedere il capitalismo e il suo principio guida – quello del libero scambio e del libero mercato – presuppongono una serie di condizioni che sono state disattese dalla multinazionale svizzera. 102


Il libero mercato si fonda e fonda la democrazia stessa e, presupponendo la leale e libera concorrenza, implica la libertà di informazione e di espressione. Ora manipolare l’informazione, far tacere le voci dei risultati delle ricerche scientifiche, diffondere notizie false spacciate per dati scientifici, fare corsi di aggiornamento e diffondere pubblicazioni per le categorie degli architetti e degli ingegneri per incentivare l’uso dell’amianto al posto dei materiali tradizionali, è un comportamento che va contro i principi guida dello spirito del capitalismo stesso. Va da sé che finché il denaro non puzza…

Amianto e globalizzazione Tre sono le componenti vantaggiose di un’impresa capitalistica: lo sviluppo, il benessere, il profitto. Perché, nel nostro caso come in molti altri d’altro tipo, sostituire le tradizionali e secolari tegole d’argilla con le lastre di fibra d’amianto? Sviluppo no. È difficile per quanto ci si impegni, sostenere le prove di un salto qualitativo nell’ordine del progresso tecnologico tra una tegola d’argilla e una lastra in fibrocemento. Per profitto certo. Immettendo sul mercato un nuovo prodotto a prezzi vantaggiosi e senza concorrenti, si può realizzare profitto. Gli Schmidheiny in sole tre generazioni sono passati da garzoni di bottega a uomini più ricchi sulla Terra. Bene se crea benessere. E sono migliaia le famiglie che hanno avuto benessere attraverso un impiego nelle aziende che producono denaro. Ma i costi della competitività del proprio prodotto sono stati ottenuti grazie alla concentrazione monopolistica, che può rientrare nella logica dal mercato (“se non puoi battere un concorrente associati!” è il motto del capostipite Schmidheiny) e soprattutto non tenendo conto delle esternalità negative che la produzione può comportare e che, in questo caso, sono direttamente proporzionale al successo economico ottenuto. Se alla luce dei risultati scientifici delle indagini epidemiologiche del 1964 di Selikoff che dimostrava la certezza della correla103

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zione tra mesotelioma e amianto, l’Eternit avesse subito riconvertito la produzione impiegando altri materiali e non la fibra d’amianto, e non aspettato 20 anni per dare soltanto inizio a questo processo che è terminato dieci anni dopo, non avrebbe potuto detenere il monopolio della vendita di questi prodotti. E oggi forse gli Schmidheiny non sarebbero gli uomini più ricchi della Terra e uno non viaggerebbe per il mondo per amore dell’arte e l’altro non risiederebbe per metà del suo tempo nel Costa Rica. Ed è quello che accade con ancor maggior frequenza oggi. Dal 1994 a ora non c’è stata una diminuzione della produzione di amianto ma un trasferimento verso altri paesi. In Europa la proibizione dei prodotti in amianto è solo del 2005. Negli USA la proibizione riguarda la produzione ma non l’importazione o la vendita. E così in molti altri paesi. I prezzi delle merci, in questa produzione “dirottata” si sono abbassati scaricando alcuni costi all’esterno della produzione, non rispettando i parametri di sicurezza, di salvaguardia dell’ambiente e di rispetto della salute e dei diritti dei lavoratori. Se poi questo avviene nei paesi in via di sviluppo la cosa sembra non riguardarci. Se oggi si produce più amianto di ieri la cosa ci tocca meno dato che questa produzione avviene in Cina, in India o in Vietnam. Sono decenni oramai che prodotti con fibre alternative sono stati messi a punto, ma l’amianto è di gran lunga ancora meno caro. Per questo il suo utilizzo è sempre più elevato nei paesi in via di sviluppo. Attualmente, l’amianto è il primo prodotto industriale tossico e provoca la maggior parte dei tumori professionali. Un quarto soltanto dei paesi membri dell’OMS hanno proibito nel loro territorio l’amianto 25. Secondo i dati dell’OMS circa 125 milioni di persone sono oggi a rischio di esposizione da amianto. Circa 100 mila persone sono destinate a morire all’anno di malattie legate all’amianto, soprattutto in Asia e in Russia. La Cina è oggi il più grande consumatore di amianto al mondo: non solo possiede le principali miniere del pianeta (circa 24 mila minatori impiegati), ma è diventato il primo paese importatore d’amianto. 104


La lobby dell’amianto continua a utilizzare nei paesi in via di sviluppo i vecchi trucchi e i vecchi argomenti usati in Europa trenta, quaranta anni fa: studi “scientifici” che dimostrano la sicurezza della lavorazione dell’amianto bianco. Nel 2007 a Taiwan un simposio “scientifico” organizzato dalla Camera di commercio canadese, ha avuto come tema l’“utilizzo controllato” (controlled use, ma guarda!) dell’amianto bianco, dimostrando la sua innocuità se imprigionato nel cemento. La maggior parte dei lavoratori dell’amianto in Cina, nei paesi degli “Stans”, in Russia e in India non conoscono le misure di sicurezza né i valori di pericolosità e di tossicità delle sostanze che lavorano. Proprio come gli operai di Casale nella prima metà del Novecento. Si difendono dal generico fastidio della “polvere” con dei fazzoletti sul viso. In Cina gli operai a domicilio, contadini e contadine, lavorano in casa le fibre d’amianto in lunghezza per poi portarle in fabbrica per il loro utilizzo. In India si aprono i sacchi di amianto con i coltelli per versarne il contenuto nell’amalgama con il cemento. Nella maggior parte delle fabbriche ci sono ventilatori anziché aspiratori 26. In India vi sono 49 industrie che producono 2,4 milioni di tonnellate di prodotti finiti. L’azienza principale, Visaka Ltd, ha lanciato una massiccia campagna promozionale per la sostituzione dei tradizionali tetti in legno delle case contadine con le lastre di cemento-amianto, proprio come ha fatto Eternit mezzo secolo fa da qui da noi. Un’altra tragedia contemporanea è costituita dallo smantellamento delle navi che furono costruite con la coibentazione dell’amianto. È ufficiale che solo in Italia trecento militari della Marina italiana sono deceduti per mesotelioma pleurico per l’amianto contenuto nelle navi militari. Il lavoro di smantellamento viene compiuto in India nella baia di Alang dove lavorano a questa impresa fino a 40 mila operai. Per due dollari al giorno, a piedi nudi, protetti solo da un foulard sulla bocca, grattano l’amianto contenuto nelle pareti e nelle condutture, spesso lo fanno seccare al sole per rivenderlo e arrotondare così lo stipendio (la nave francese Clemenceau smantellata nel 2005 conteneva circa 100 tonnellate di amianto). 105

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La delocalizzazione delle “bestie da soma”. Ma è una delocalizzazione che non può non essere definita criminale poiché non è contemporaneamente una “detemporalizzazione”. I risultati scientifici, cioè, che nel corso del tempo hanno innegabilmente dimostrato la pericolosità dell’utilizzo della fibra d’amianto, non possono essere ignorati, riavvolgendo il nastro del tempo e riportando tutto a trent’anni fa solo perché ci sposta in altri luoghi per estrarre e produrre l’amianto.

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Il processo – la giustizia La storia del processo alla multinazionale che controllava l’Eternit, è un altro capitolo, a nostro parere, paradigmatico. Erano stati numerosi gli esposti fatti alla Magistratura di Casale alla fine degli anni Ottanta e negli anni Novanta. Ma nessuno aveva dato inizio ad indagini o istruttorie. Le indagini epidemiologiche furono per alcuni anni tenute nel cassetto. La maggior parte del mondo politico era del resto contraria ad azioni così nette. Negli anni Ottanta chiudere le fabbrica è impensabile. “C’era anche chi mi accusava di far fuggire i turisti dal Monferrato con azioni allarmistiche e terroristiche” 27. Malgrado una prima condanna in sede civile e dal limitato raggio d’azione, nulla sembrava poter intaccare le responsabilità dei vertici dell’Eternit, soprattutto in sede penale. Come per Tangentopoli ci volle la casualità di un’azione di separazione legale tra due coniugi (uno di questi era il “mariuolo” Chiesa a cui la moglie sembra chiedere “troppo” per il giudice) a far scattare la catena di inchieste, così, nel caso dell’Eternit, fu la coincidenza di un esposto di 12 lavoratori italiani della sede svizzera di Niederurnen morti per mesotelioma rientrati in Italia nei comuni di residenza sotto la competenza territoriale della procura di Torino, a permettere al procuratore Guariniello di aprire nel 2001 un’inchiesta che ha finalmente potuto coinvolgere i numerosi esposti e le migliaia di denunce dei lavoratori e dei cittadini di Casale. Fu il caso a permettere al procuratore Guariniello l’inizio 106


di un’inchiesta giudiziaria alla fine mastodontica che, di fatto, si fonda su un’evidenza elementare: il processo di riconversione, a fronte degli studi epidemiologici e delle certezza scientifiche, è durato 20 anni, allungando a dismisura il numero delle potenziali vittime tra i lavoratori e tutti i cittadini di Casale esposti alle fibre lavorate nello stabilimento casalese 28. Il processo è tutt’ora in corso e da mesi ormai a Casale c’è un animato coinvolgimento volontario di cittadini, medici, studiosi e avvocati per una battaglia che viene profondamente sentita come una battaglia di giustizia e che da un punto di vista oggettivo può essere vista come una giustizia solo consolatoria ma che, dal punto di vista del coinvolgimento emotivo, può rappresentare il riscatto di una comunità di “ultimi” contro la prepotenza dei “grandi”: Davide contro Golia. Sembrerebbe un lieto finale. Come quello rappresentato dal “nobile gesto” spontaneo di Thomas Schmidheiny, fratello di Stephan, ma prosciolto dall’inchiesta, che ha donato 3 milioni di euro alla città di Casale. Evidentemente il denaro ha iniziato a puzzare.

Conclusioni Casale Monferrato, via XX settembre oggi: nella zona, dominata per un secolo dall’Eternit, la “fabbrica della morte”, c’è un grosso vuoto con una colata di cemento sopra e molteplici resti di edifici da funerea archeologia industriale. Le morti denunciate per mesotelioma, quelle cioè per le quali è stato aperto un fascicolo giudiziario sono quasi tremila (e tutte a partire dalla fine degli anni Settanta). Dopo il fallimento e la chiusura, ci sono voluti 20 anni per iniziare la bonifica, a fronte di lotte e di dati di fatto sulla innegabile contaminazione dei luoghi 29. Si stima che circa 23 milioni di tonnellate di amianto siano state lavorate, a Casale. Una concentrazione di polvere d’amianto inferiore a un milione di fibre per m3 non è visibile a occhio nudo. Fino al 1992 (e illegalmente anche dopo) tutto finiva nelle comuni discariche per inerti quando si era rispettosi dell’ambien107

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te e delle normative. Se no, sotto terra e lungo i fossi. Da qui al 2020/2030 moriranno circa 50 abitanti di Casale Monferrato all’anno a causa dell’amianto. Il fatto che sia indifferente averci lavorato ha indotto molti a paragonare l’Eternit a Chernobyl. Solo in Europa ogni cinque minuti, una persona muore per una malattia legata direttamente alla lavorazione o utilizzazione dell’amianto. Secondo uno studio dell’Unione europea da oggi sino al 2030 circa mezzo milione di persone moriranno nella sola Europa per un cancro dovuto all’amianto. A Casale tutto ciò è dovuto alla presenza di una fabbrica, l’Eternit, che rappresenta in fondo un paradosso. Esempio di un capitalismo non sempre coerente con i propri principi (o meglio coerente con la difesa del principale principio: pecunia non olet): nazismo, apartheid, lobby, strategie segrete, condizionamento di governi, ecc., eppure generazioni di famiglie monferrine devono essere riconoscenti alla “fabbrica” per averle tolte dalla miseria, dato loro una vita dignitosa e una prospettiva economica e di scalata sociale ai propri figli. Se prendiamo poi in considerazione la produzione di amianto oggi nei paesi in via di sviluppo, non si può che essere pessimisti: non si tratta di scegliere tra essere a favore del capitalismo o essere anticapitalisti. Si tratta di costatare che i principi ispiratori del capitalismo sono lettera morta. Svanita l’alternativa di una società differente poiché il sogno “comunista” si è rivelato un incubo, anche il modello dello sfruttamento capitalismo appare inquietante. Se l’Unione sovietica sfruttava le proprie miniere d’amianto e manco si sognava di porre al centro delle sue strategie economiche la salute dell’ambiente e dei lavoratori (non solo nei paesi del socialismo reale il denaro non puzzava ma sembrava profumare di palingenesi sociale, sol dell’avvenire, uomo nuovo, ecc.) il capitalismo non è in grado, al momento, di coniugare sviluppo, benessere, profitto con salute e difesa del territorio e dell’ambiente, se non a parole. Ci vogliono “catastrofi” per modificare un modo di produzione generalizzato come una catastrofe appare la tragedia di Casale. Per cambiare rotta sul clima, ad esempio, dovremmo aspettare una 108


catastrofe generalizzata, perché se, per esempio, accadrà che Venezia sarà sommersa, è probabile che questo non basti per coinvolgere la Cina. Quindi avanti con la prossima catastrofe, si tratta solo di sapere se sarà prima quella legata al surriscaldamento del pianeta, o al nucleare o agli organismi geneticamente modificati. Ma è un fatto che nell’era della globalizzazione e del capitalismo planetario anche le catastrofi devono essere globali e planetarie. E se sono tali nessuno in fondo si sente direttamente responsabile. È una riflessione che anche l’attuale proprietario dell’Eternit sembra condividere: “L’uso dell’amianto costituisce un capitolo oscuro della storia industriale e riguarda l’insieme della società, non quella o quell’altra impresa. Ci saranno sempre prodotti il cui utilizzo è problematico, anche se a prima vista i loro vantaggi sembrano innegabili. Si pensi ad esempio ai telefoni cellulari, ai motori diesel, alle nanotecnologie. Chi sa che cosa ne uscirà?” 30. Ma intanto realizziamoci profitto. Per queste ragioni a Casale Monferrato il quartiere dove sorgeva la fabbrica ha un volto inquietante. E non solo perché tra i suoi resti aleggiano i nomi di migliaia e migliaia di morti. E non solo perché attende da tempo, da troppo tempo, il nuovo volto promesso dagli amministratori locali. Oggi, vicino ai resti della fabbrica c’è un’industria di apparecchi frigoriferi: il personale è composto esclusivamente di immigrati, per lo più albanesi. Nessuno sa se quei locali sono contaminati. D’altra parte si sa, gli immigrati non sono uomini. Sono le nuove bestie da soma.

NOT E 1. Materiale miracoloso già noto a Strabone, Plutarco e Plinio, per Marco Polo “lana di salamandra” usata nell’Oriente, componente essenziale del mirabiliante tessuto della tunica di Carlo Magno, ottiene il nome “Eternit” in età industriale dall’austriaco Ludwig Hatschek, inventore di una macchina per filare l’amianto, il cui brevetto passò poi ad un gruppo francese e poi a partire dal 1920 al gruppo Schmidheiny in Svizzera. 2. Già Bacone in Dedalus sive Mechanicus preconizzò l’ambiguità della tecnologia: “colui il quale ideò i meandri del labirinto ha mostrato la

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necessità del filo. Le arti meccaniche sono infatti di uso ambiguo e possono al contempo produrre il male e offrire un rimedio al male”. 3. Documenti simili relativi alle indagini delle commissioni di fabbrica istituite dal CLN sono conservati presso l’Archivio dell’Istituto Piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Torino. Tra le altre leggiamo: “tenendomi impegnato per dodici ore al giorno a sua disposizione per lavorare otto ore. E quando si faceva otto ore di seguito ci proibiva di mangiare un pezzo di pane e ci negava persino l’acqua da bere”, “era sua abitudine molte volte di farmi venire dal paese allo stabilimento e poi rimandarmi a casa senza avvertire”. 4. Anna Maria Giovanola, assunta all’Eternit nel 1955, ricorda come ottenne il posto grazie ai consigli del proprio medico che la esortava a entrare in fabbrica perché quello era il “posto della vita”: “37 mila lire al mese, non si prendono da nessuna altra parte”. “Per un operaio era come per un impiegato riuscire ad entrare in banca. Un posto sicuro dove si prendevano dei bei soldi. Poi anche lui morì di mesotelioma”. 5. Niederurnen in Svizzera non è solo la sede del gruppo Eternit della famiglia Schmidheiny ma anche uno dei principali centri mondiali dell’amianto-cemento: all’epoca d’oro della produzione, circa 23 mila persone lavoravano per il gruppo Schmidheiny, nei cui uffici era “ospitata” la SAIAC, un cartello dei produttori internazionali dell’amianto-cemento di cui Ernst Schmidheiny fu il primo presidente. 6. M. Roselli, Amiante et Eternit, fortune et forfaitures, Losanna, ed. D’En bas, 2008: “Dal 1942 circa 55 mila persone hanno lavorato nelle diverse imprese degli Schmidheiny sotto il regime dell’aparthheid, la maggior parte di loro era nero e senza diritti”; ivi; p.113. 7. La Duralit, controllata dall’Eternit insieme a Somoza, si riprese economicamente anche grazie ai miseri salari degli operai nicaraguesi che lavorarono privi di tutela e di diritti minimi. 8. Ad esempio, il problema in Sudafrica, come in altre parti del mondo, resta: chiuse le miniere e le fabbriche restano a tutt’oggi le discariche a cielo aperto, i locali industriali da bonificare, oltre al fatto che migliaia e migliaia di persone di colore vivono in città in case dai tetti e dalle pareti fatte di amianto deteriorato. A Soweto la presenza di amianto rilevata è superiore di dieci volte quella consentita dalla legge. 9. Ultima intervista alla televisione svizzera – luglio 2004 – di Stephan Schmidheiny.

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10. Proprio per questo al summit di Rio nel 1992 è stato salutato come il pioniere dell’abbandono dell’amianto, ottenendo grandi riconoscimenti con il suo apprezzato intervento a favore di “un capitalismo duraturo, intelligente e compatibile con l’ambiente”. 11. “Mio padre non mi ha certo messo ostacoli sul mio cammino, ma non voleva credermi, aveva un altro punto di vista. Era convinto che il problema dell’amianto sarebbe stato superato come qualunque altro problema. Non svegliare il cane che dorme. Ma io dicevo: ma non lo sentite abbaiare? È da tempo ormai che non dorme più” (intervista alla Televisione svizzera). 12. Già nel 1918 negli Stati Uniti alcune assicurazioni sulla vita rifiutavano polizze ai lavoratori dell’amianto in seguito ai numerosi casi di morte per asbestosi. Negli anni Quaranta era noto che l’amianto provocasse un tumore al polmone (anche se poi nelle maschere antigas della seconda guerra mondiale si usò l’amianto blu, quello più pericoloso) e negli anni Sessanta il mondo scientifico portò le prove che le persone esposte all’amianto correvano un serio rischio di contrarre quella malattia mortale che ebbe finalmente un nome dichiarato: mesotelioma maligno. Epocale fu lo studio del ricercatore americano Irving Selikoff che conclude, nel 1965, lunghi studi epidemiologici affermando – in un congresso internazionale sulle patologie d’amianto – che la correlazione tra amianto e mesotelioma, non solo per gli operai e i minatori ma anche per gli abitanti che vivono vicino alle imprese che lo utilizzano, è “non una congettura ma una certezza”. 13. “Sì, negli anni Sessanta ho sentito parlare del signor Selikoff. Ma si diceva che favoleggiasse, che faceva ricerche solo per guadagnarsi del soldi. Noi affermiamo che Eternit produce in modo assolutamente non pericoloso, poiché le fibre sono imprigionate nel cemento. Assolutamente senza pericolo” Werner Catrina, Der Eternit-Report, in M. Roselli, Amiante et Eternit, fortune et forfaitures, cit.; pag. 60. 14. Furono diverse le strategie adottate dalla lobby dell’amianto. Quando, ad esempio, nel 1960 i ricercatori inglesi guidati da Chris Wenger dimostrarono la correlazione tra mesotelioma e amianto, furono a tal punto diffamati e boicottati che non riuscirono mai a pubblicare i loro studi, riuscendo a ottenere, dopo due anni, soltanto una distribuzione interna agli istituti di ricerca, sostituendo la parola “cancro” con “tubercolosi”. Quando una ventina d’anni dopo, nel 1978, un’altra ricerca condotta sui

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minatori in Sudafrica, ribadì le stesse conclusioni scientifiche, il cartello dei produttori d’amianto divulgò un documento scientifico di cinque pagine, quattro delle quali evocavano le difficoltà in simili tipi di studi, mentre nell’ultima era contenuta la conclusione delle precedenti lunghe premesse: è criminalmente sbagliato condurre sulla popolazione studi di incerta fondatezza per l’ingiustificato allarmismo che possono diffondere. Lo studio quindi non ottenne la pubblicazione. Tali casi sono stati ricostruiti dalla giornalista inglese Laurie Flynn nel numero di New Scientist del 22 aprile 1982. 15. Un ruolo importante fu giocato da “Consiglio indipendente dell’industria dell’amianto” presieduto da un medico del lavoro di Erlangen, così come un analogo istituto di ricerca tedesco sempre fondato dal gruppo Eternit. “In pratica nessuna ricerca sull’amianto in Germania è stata condotta senza fondi provenienti dall’Eternit”. Roselli parla di “diplomazia segreta” a proposito ad esempio dell’operato dell’AIA (Asbestos International Association) che coordina le azioni dell’industrie dell’amianto di 35 paesi. Negli anni Settanta un suo rapporto conclude affermando l’assenza di rischi per la popolazione in generale dell’amianto. Le autorità europee ripresero per buono quel rapporto divenendo base per la legislazione sull’utilizzo dell’amianto, basata sulla leggenda che fosse possibile utilizzare l’amianto “sotto-controllo” (controlled-use), rinunciando a sostenere per anni la ricerca su materiali sostitutivi. (M. Roselli, Amiante et Eternit, fortune et forfaitures, cit.; p. 188). 16. Testimonianza di Anna Maria Giovanola. 17. Ivi. 18. Testimonianza di Bruno Pesce segretario della Camera del Lavoro di Casale dal 1979 e primo e principale organizzatore di tutte le lotte di denuncia della pericolosità della lavorazione dell’amianto sin dal suo arrivo a Casale nello stesso 1979. Fu lui a portare Nicola Pondrano alla direzione del patronato INCA con cui organizzò le prime battaglie per il riconoscimento di indennizzo da parte dell’INAIL per centinaia di operai. Dopo molte agitazioni sindacali e scioperi furono Pesce e Pondrano a ottenere un sopralluogo per un indagine ambientale sulle condizioni di lavoro che fosse attendibile e obiettiva (non gestita cioè dall’Eternit stessa). E fu proprio quell’indagine a determinare la chiave di volta anche nello scontro sindacale. Risultata innegabile la nocività degli ambienti e della produzione, la dirigenza reagì procedendo al ridimensionamento

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degli organici licenziando con incentivi economici, in cambio della rinuncia a presentare domanda all’INAIL per il riconoscimento della “rendita di passaggio”. In quel drammatico 1981 Pesce e Pondrano cercarono di convincere ad uno ad uno i 120 operai scelti dall’azienda, chiedendo loro un ulteriore ma determinante sacrificio: la rinuncia alla pensione anticipata e ben remunerata per continuare in un impegno di lotta senza precedenti. Una lotta che portò alla costituzione dell’“Associazione esposti amianto”, sempre per iniziativa di Bruno Pesce e Nicola Pondrano, poi alle denunce, alla lotta per la riconversione industriale e infine alla raccolta collettiva di tutte le costituzioni di parte civile nel processo contro i dirigenti dell’Eternit. Un percorso di vita sindacale tutto dedicato principalmente a questa causa, in anni dominati dall’ostilità e dall’indifferenza generali, che ha portato a un successo parziale: il processo ma anche la chiusura della fabbrica proprio quando, come ricorda Pesce, “il limone è stato ben bene spremuto”. 19. Testimonianza di Nicola Pondrano, operaio Eternit e dagli anni Ottanta distaccato al Patronato INCA della Camera del Lavoro di Casale. 20. L’Eternit, infatti, istituì il SIL, Servizio igiene del lavoro, con un bollettino informativo, ben scritto e ben stampato che si faceva circolare tra gli operai. Tra le sue iniziative che vengono ricordate come irriverenti e di cattivo gusto fu quella della campagna antifumo tra gli operai. “Ricordatevi di non fumare. Il fumo fa male” viene oggi ricordato come una beffa. Ma a pensarci meglio e considerando gli anni in cui questa partì, la fine degli anni Settanta, si ha il sospetto che questa campagna possa essere una prova indiretta della consapevolezza da parte della classe dirigente dell’Eternit della nocività dell’amianto con una presa d’atto degli studi scientifici che circolano in quegli anni, tra i quali quello sulla co-cancerogenità di più fattori uniti insieme (il fumo aumenta di 50 volte la possibilità per chi è esposto all’amianto di contrarre il tumore). Come dire “cerchiamo di non farli fumare per diminuire la possibilità statistica delle morti per amianto”. 21. Un tempo si sarebbero definiti “borghesi”. Pesce con linguaggio più espressivo ha usato il termine “la-Casale-bene”. 22. Testimonianza di Bruno Pesce. 23. Le misure proposte consistevano in: creazione di un dispositivo solido di difesa e di una linea di difesa strategica nel dibattito incorso su amianto e ambiente, al fine di guadagnare più tempo possibile; la ricer-

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ca di punti deboli da sfruttare negli argomenti dei sostenitori della messa al bando; l’impiego di istituti e di esperti competenti e riconosciuti al fine di mettere in piedi più e più discussioni sull’amianto e l’ambiente; la verifica della affidabilità e dell’utilità di trovare alleati. 24. G.P, Rossi, La lana della salamandra, Roma, Ediesse, Roma, 2008; p. 35. 25. Paesi come il Canada, il Brasile, la Russia e alcuni stati asiatici prosperano grazie allo sfruttamento dell’amianto. Tre quarti della produzione annuale di amianto proviene dalla Russia, dalla Cina e dal Kazakhstan. Miniere di amianto sono in attività anche in Argentina, Bulgaria, Colombia, India, Iran, Serbia e Montenegro: la maggior parte di loro oggi sono a cielo aperto. Una delle principali miniere al mondo si trova in Russia: una miniera a cielo aperto di 12 km di lunghezza, 2 km di larghezza e 300 metri di profondità, per una superficie totale di 90 km2. 26. Le stesse condizioni di lavoro presenti nei fotogrammi del film celebrativo della “nuova fabbrica” di Casale del 1924. 27. Testimonianza di Bruno Pesce. 28. L’accusa è rivolta ai vertici che erano a conoscenza sin dagli anni Settanta degli studi scientifici ed epidemiologici sulla pericolosità dell’amianto e che, nonostante ciò, “hanno fattivamente operato per distorcere e occultare informazioni e conoscenze continuando nell’esercizio di attività industriali che diffondevano gravissime patologie”, nella documentata convinzione che in tutte le fabbriche del mondo si applicavano rigidamente gli ordini emanati dalla sede centrale svizzera. Alla luce di testimonianze rese pubbliche di alcuni dirigenti, sin dagli anni Settanta sarebbe stata avviata una strategia a livello mondiale che ha portato il gruppo a riconvertire con la massima lentezza possibile le proprie produzioni in amianto in altre attività meno rischiose. 29. Negli anni Novanta ad esempio, la Lega Ambiente casalese fece una grande battaglia per sensibilizzare gli uomini politici e gli amministratori casalesi che minimizzavano il pericolo, arrivando a scalare di nascosto le pareti chiuse e sigillate della fabbrica dismessa per fotografare gli interni proibiti dimostrando la presenza di enormi quantità di amianto in sacchi rotti e cumuli di fibre a cielo aperto. La discarica poi dei detriti a cielo aperto sul fiume Po è stata rimossa solo un decennio dopo la chiusura delle attività del gruppo. 30. Intervista a Anders Holte, manager di Eternit, 2007 in M. Roselli, Amiante et Eternit, fortune et forfaitures, cit.; pp. 139-144.

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“Le parole greche amiantos – incorruttibile - e asbestos – incombustibile – indicano bene le caratteristiche essenziali di questa sostanza. Un silicato a struttura fibrosa presente in certe rocce – crisolite o amianto bianco e crocidolite o amianto blu – che se estratta e lavorata si trasforma in un materiale con temperature elevate di fusione (1500°), inattaccabile dagli acidi, più resistente dei fili d’acciaio del medesimo diametro con il vantaggio di essere relativamente leggero. L’amianto è stato giustamente definito il “materiale dalle mille possibilità” (ferri da stiro, asciugacapelli, frizioni e freni, bottoni, telefoni, quadri elettrici, ma anche come abrasivo nei dentifrici 115


Quaderno di storia contemporanea/46 o nei filtri delle sigarette) rivestimenti di edifici. Ma l’uso certamente più diffuso è quello dell’amianto-cemento per la fabbricazione di condotte, tubi e delle lastre per la copertura dei tetti”

“A partire dal primo Novecento il cementoarmato conquista ogni settore, espellendo ogni altro materiale edilizio, ad eccezione dei rivestimenti dei tetti, delle pareti e dei solai. Ed è lì che si impone l’amianto-cemento. Poiché le fibre di amianto sono meno sensibili alla corrosione si può arrivare a fabbricare lastre molto sottili. Per fare questo non basta mischiarle e colarle poi 116


in uno stampo. Occorre metterle su una forma, dopo averle arrotolate come si impasta la pasta sfoglia. Poi occorre tagliarla e metterla in forma con l’aiuto di presse e delle mazze. A questo lavoro si dedicavano, all’Eternit di Casale, soprattutto le donne”

“Per decenni i convogli pieni di sacchi di amianto sfuso arrivavano alla stazione di Casale per poi essere scaricati manualmente, a forza di braccia e messi sui carretti destinati ai singoli reparti di lavorazione. Il tutto veniva fatto con i ‘tridenti’, cioè i forconi, trattando quelle fibre minerali come fieno da imballare, paglia essiccata, letame da dare ai campi. 117


Quaderno di storia contemporanea/46 L’amianto veniva accumulato in silos molto alti. E dagli sportelli nuovamente ripreso coi forconi per essere lavorato. Poi c’erano le sfilacciatrici, per rendere più soffice e quindi amalgamabile l’amianto grezzo. Sempre a mano”

Le immagini riprodotte sono tratte da un documentario pubblicitario autoprodotto nel 1924 dalla Eternit. Custodito all’Istituto Luce di Roma, oggi è agli atti del processo Eternit in corso al tribunale di Torino.

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Note e discussioni

Appunti sul canto sociale e politico in Italia

Franco Castelli

in memoria di Ivan della Mea

Una canzone “sindacale” pre -’68: O cara moglie In un numero di rivista dedicato alla storia operaia del secondo Novecento può avere un senso qualche riflessione sulle origini e sul significato della ricerca sul canto sociale in Italia, vista (sulla base dell’esperienza diretta di chi scrive) in rapporto alla più generale indagine sulla cultura popolare o ricerca demoetnoantropologica, per dirla in termini scientifici. Occasione di questi appunti è, purtroppo, una perdita: la scomparsa di Ivan Della Mea, cantautore, poeta e scrittore che ci ha lasciati il 14 giugno scorso, a 69 anni. Direttore dell’istituto Ernesto de Martino di Sesto Fiorentino dal 1996, Ivan Della Mea è stato uno dei personaggi simbolo della canzone militante italiana che dagli anni Sessanta in poi ha rappresentato la colonna sonora della lotta politica. Con Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Michele Straniero aveva fatto parte del Nuovo Canzoniere Italiano 1, gruppo per la ricerca e la riproposta del patrimonio di canto sociale, con un’intensa attività di spettacoli (da Bella ciao, 1964 a Ci ragiono e canto, 1966) e di incisione di dischi della famosa collana i Dischi del Sole. Se resta memorabile il suo primo LP, Io so che un giorno, che realizzava una felice sintesi di storia personale e storia collettiva del dopoguerra, il suo brano più conosciuto 119

Franco Castelli, “Compagni dai campi e dalle officine”. Appunti sul canto sociale

“Compagni dai campi e dalle officine”.


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è certamente O cara moglie, canto sindacale che ha accompagnato le lotte dell’autunno caldo.

O cara moglie, stasera ti prego, dì a mio figlio che vada a dormire, perché le cose che io ho da dire non sono cose che deve sentir. Proprio stamane là sul lavoro, con il sorriso del caposezione, mi è arrivata la liquidazione, m’han licenziato senza pietà. E la ragione è perché ho scioperato per la difesa dei nostri diritti, per la difesa del mio sindacato, del mio lavoro, della libertà . Quando la lotta è di tutti per tutti il tuo padrone, vedrai, cederà ; se invece vince è perché i crumiri gli dan la forza che lui non ha. Questo si è visto davanti ai cancelli: noi si chiamava i compagni alla lotta, ecco: il padrone fa un cenno, una mossa, e un dopo l’altro cominciano a entrar. O cara moglie, dovevi vederli venir avanti curvati e piegati; e noi gridare: crumiri, venduti! e loro dritti senza piegar.

Note e discussioni

Quei poveretti facevano pena ma dietro loro, là sul portone, rideva allegro il porco padrone: l’ho maledetto senza pietà . O cara moglie, prima ho sbagliato, dì a mio figlio che venga a sentire, ché ha da capire che cosa vuol dire lottare per la libertà ché ha da capire che cosa vuol dire lottare per la libertà.

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Anche solo a guardarlo in filigrana, il testo di questa canzone, datata 1966, mostra una serie di ascendenze significative, quasi emblematiche del percorso che vogliamo illustrare in queste note. Sin dall’incipit la canzone si ricollega a una formula del canto popolare moderno che si può definire “epistolare” o della “lettera a casa”, che presuppone una lontananza imposta da eventi dolorosi (guerra, emigrazione) da cui scaturisce un’esigenza di scrittura ai propri famigliari, genitori, madre o moglie che siano 2:

Cara moglie che tu non mi senti raccomando ai compagni vicini di tenermi da conto i bambini che io muoio col suo nome nel cuor...

Questa è una strofa di O Gorizia tu sei maledetta, duro canto di protesta antibellicista del 1915-18, recuperato non sui libri, ma con la ricerca sul campo e diventato celebre proprio con lo spettacolo Bella ciao di Leydi e Crivelli, andato in scena al Festival dei due mondi di Spoleto nel 1964 3. Ma con quell’incipit c’è un altro canto, stavolta di emigrazione, che proviene dal repertorio dei minatori della Val Trompia (Brescia):

Cara moglie di nuovo ti scrivo che mi trovo al confin dela Francia anche quest’ano c’è poca speransa di poterti mandar dei dané 4

Della Mea dunque arieggia moduli popolareschi recuperati dalla più schietta oralità e li attualizza in una “canzone sindacale” che proprio da questo intelligente innesto trae la sua forza comunicativa e – cosa quanto mai significativa – la capacità di disporsi senza sforzo in una catena di tradizione orale, come si trattasse di un testo folklorico. 121

Franco Castelli, “Compagni dai campi e dalle officine”. Appunti sul canto sociale

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Qui, proprio in questo vitale cortocircuito fra tradizione popolare del passato e attualità politica, sta la molla che negli anni Sessanta spinge parecchi giovani intellettuali di sinistra, a intraprendere un inedito lavoro di scavo sulla cultura popolare presente o sopravvivente in un dato territorio, con la forse un po’ ingenua ma sincera convinzione di recuperare valori antagonisti rispetto all’industria culturale e con la stessa forse ingenua ma sincera illusione di dare così forza a un discorso politico di coscientizzazione delle masse espropriate della loro cultura originaria.

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Il “folklore progressivo”: da Ernesto de Martino a Gianni Bosio Sull’onda delle stimolanti Osservazioni sul folclore di Gramsci apparse nel 1950 5, si instaura un rapporto tra ricerca folklorica e lotte popolari che prende le distanze dalla scienza folklorica tradizionale, astorica e regressiva, configurando un campo d’indagine definibile come “cultura delle classi subalterne”, che scaturisce più da una spinta politico-sociale che da una riflessione teorica. Le ricerche sul canto sociale in Italia decollano negli anni Sessanta, ma non se ne comprende la ragione se non inquadrandole nel contesto politico-culturale dell’Italia del dopoguerra, in quel fervore di dibattiti e di iniziative culturali che legano strettamente cultura di sinistra, folklore, movimento operaio. La ricerca etnologica e folklorica affronta quella che De Martino chiama “irruzione nella storia del mondo popolare subalterno”, affiancando le lotte per la terra dei contadini meridionali così come le lotte fortemente politicizzate della classe operaia. In questa cornice, si colloca un vasto movimento impegnato intorno all’ipotesi di realizzazione di un “democrazia progressiva” gestita dalle forze sociali e politiche scaturite dalla resistenza. Ricercatori come De Martino e Cirese, scrittori come Carlo Levi e Rocco Scotellaro per l’area meridionale, ma anche, al Nord, Vittorini, Pavese, Calvino, mostrano in vario modo un interesse nuovo verso le tradizioni e le condizioni di vita e di cultura del mondo popolare, con cui instaurano un rapporto se non di mili122


tanza, di simpatia e di adesione sincera 6. Nel 1948, anno cruciale per tanti versi, si affaccia un’ invenzione tecnica che avrà un peso determinante nell’opera di recupero della cultura e della memoria orale: il magnetofono 7. La possibilità di registrare in tempo reale il parlato e il cantato, come ogni altra manifestazione sonora del mondo popolare, spalanca possibilità inusitate di recupero e di analisi delle forme e degli stili espressivi della comunicazione orale tradizionale. In questo senso si pronuncia l’Elogio del magnetofono scritto da Gianni Bosio nel 1966, lo stesso anno in cui a Milano fonda, con Roberto Leydi e gli altri intellettuali e artisti che fanno capo alle Edizioni del Gallo, l’Istituto Ernesto de Martino “per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario” 8. Non a caso l’istituto si intitola a Ernesto de Martino (morto nel maggio del 1965), che è colui il quale elabora il concetto di folklore progressivo proprio dopo alcune esperienze di raccolta di canti da lui compiute nel 1951-52 in Lucania e in Emilia: “Vi è oggi in Italia – scriveva su ‘Il Calendario del popolo’ – tutto un patrimonio cospicuo, vero solenne commento canoro che accompagna nella sua storia il movimento operaio e contadino. Si tratta di canti che esprimono ora semplice protesta e ora aperta ribellione alla condizione subalterna a cui il popolo è condannato; ovvero di stornelli satirici contro il nemico di classe, di epiche memorie di lotte antiche e recenti, di lirici abbandoni all’appassionata anticipazione del mondo migliore di domani. Questo patrimonio folkloristico progressivo è stato sempre, per ovvie ragioni, trascurato dalla scienza folkloristica tradizionale, la quale proprio in questa ‘omissione’ rivela il suo più palese carattere classista. Spetta a noi raccogliere questo patrimonio, conservarlo, rimetterlo in circolazione e soprattutto stimolarne l’incremento: è questo un aspetto non trascurabile del nuovo umanesimo in cammino” 9. 123

Franco Castelli, “Compagni dai campi e dalle officine”. Appunti sul canto sociale

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In effetti le iniziative di raccolta sul campo dei materiali di storia orale, del canto popolare e politico, la diffusione di tali materiali attraverso dischi e spettacoli, in parte anticipate alla fine degli anni Cinquanta da Cantacronache e avviate dagli anni Sessanta in poi dal Nuovo Canzoniere Italiano e dai Dischi del Sole, sembrano, in una certa misura, la realizzazione del programma di lavoro demartiniano, così come lo sono spettacoli quali Bella ciao di Roberto Leydi e Filippo Crivelli e Ci ragiono e canto di Dario Fo, dove i “portatori di cultura popolare” sono finalmente in scena, e il folklore progressivo, insieme a quello tradizionale interpretato con una nuova consapevolezza, fanno il loro ingresso nel circuito della vita culturale nazionale.

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Una “storia” che parte da Torino: Cantacronache Alla radice di ciò, bisogna riconoscerlo una volta per tutte, c’è l’esperienza torinese di Cantacronache, con la sua rivolta contro la “canzone gastronomica” di Sanremo e il progetto di canzoni impegnate e alternative, fatte per “evadere dall’evasione”, cioè per far pensare e con ciò stesso protestare o semplicemente ironizzare sugli accadimenti e su certi aspetti dell’Italia in trasformazione di quegli anni 10. Non è un caso che ciò avvenga a Torino, la cittadella dell’auto, company town per eccellenza, per certi versi laboratorio vivace di sperimentazioni sociali e culturali, che in quegli anni riesce a instaurare un originale, fervido rapporto fra istituzioni, intellettuali, partiti e cittadini. Nell’Italia democristiana che si avviava al boom economico, che assisteva all’esodo dalle campagne e al decollo della gigantesca emigrazione dal Sud al Nord del paese, era nata la “canzone d’autore”. Italiana, ma certamente debitrice a modelli d’oltralpe, come le canzoni di Eisler e Weill per i drammi di Brecht e la chanson francese (di Brassens, di Brel, di Ferré). Sebbene movimento abbastanza elitario e di nicchia, cresciuto nei salotti torinesi di Giulio Einaudi e di Carlo Galante Garrone, Cantacronache sarà la vera culla dei cantautori italiani, com’è 124


stato riconosciuto dai maggiori di essi, da Guccini a De Gregori alla Marini. Ma Cantacronache segna anche l’avvio della ricerca sul campo di fonti orali e di canto sociale, e questo avviene per merito soprattutto di Sergio Liberovici e di Emilio Jona che, magnetofono alla mano, nel solco tracciato da Ernesto de Martino raccolgono canti e vissuti dalla bocca di anziani militanti politici della Torino operaia (1956-73), così come i cori delle mondine al lavoro nelle ultime campagne di monda nelle risaie del Vercellese (1960-70). Nelle sezioni del PSI e del PCI o nelle piole della vecchia Torino, nelle campagne e nei paesi di montagna, dalla memoria e dalla bocca di questi vecchi “compagni” saltano così fuori Il canto delle tessitrici (“Presto compagne andiamo, il fischio già ci chiama”), Le otto ore, La Maria Goia, Addio Lugano bella, Il feroce monarchico Bava e tante altre cantate. Vengono a galla i vecchi canti sociali del movimento anarchico, socialista e internazionalista: canti largamente diffusi nelle organizzazioni operaie, usati come bandiere nelle manifestazioni e nelle lotte del lavoro, sopravvissuti alla repressione fascista e riapparsi miracolosamente durante la stagione della Resistenza 11. Si innesta così un circolo virtuoso tra nuove e antiche canzoni di protesta, che Emilio Jona ha raccontato spiegando come i Cantacronache presero in considerazione ben presto quel repertorio, che rivelava una ricchezza insospettata, diventando essi stessi ricercatori e ripropositori. Da una piccola casa editrice legata al Partito comunista, Italia Canta, vengono prodotti i primi dischi 33 giri che fanno conoscere queste scoperte attraverso una collana di “Canti di protesta del popolo italiano”, a cura di Emilio Jona e Sergio Liberovici 12. La prima uscita pubblica del gruppo avviene in occasione del corteo operaio snodatosi sotto la Mole il Primo Maggio 1958: da un altoparlante collegato a un giradischi su un furgone vengono diffuse tre canzoni che fanno da colonna sonora del corteo: Dove vola l’avvoltoio? di Calvino-Liberovici (“Un giorno nel mondo finita fu l’ultima guerra, il cupo cannone si tacque e più non sparò...”); Gelida manina, ovvero “della coscienza politica”, di 125

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De Maria e Amodei; Viva la pace di Straniero-Liberovici (“Bombe, missili, cannoni / decisioni in quantità, / il tutto per difendere la nostra civiltà”). “Da quel giorno – scrive Sergio Liberovici – i concerti, le esibizioni, le conferenze stampa si susseguirono innumerevoli e a ritmo incalzante. Si andò per teatri, per circoli culturali, sezioni di partito, sale da ballo, pubbliche piazze, salotti, comizi; due anni di intenso lavoro. E non ci fu avvenimento importante che non cantammo: le elezioni politiche del 1958, i fatti di Reggio del 1960, la sofisticazione dei cibi, le ingerenze del clero, la Resistenza e il conformismo di certi intellettuali, gli scioperi dei metallurgici, e Tambroni, il sindaco Peyron e il bambino che morì di freddo alle Casermette di Torino” 13. Franco Fortini, che col gruppo collaborò scrivendo vari testi (tra cui un sarcastico inno nazionale che inizia “Fratelli d’Italia tiriamo a campare”), di Cantacronache offre questo arguto ricordo:

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“Si facevano due generi di canzoni: quelle lugubri a base di morti nelle miniere e quelle scherzose. Quelle burlesche erano le migliori. Uno dei componenti del gruppo era Fausto Amodei. Con lui partecipai alla prima marcia per la pace, la Perugia-Assisi. C’era anche Calvino. Mi ricordo che improvvisavamo delle strofette: per queste strofette io poi fui denunciato al Tribunale militare di Torino” 14. A sfogliare oggi l’antologia che ricostruisce quell’“avventura politico-musicale degli Anni Cinquanta” 15, si colgono bene i segni di una volontà di entrare in campo, con la musica e le parole, contro la stupidità dei contenuti e la funzione narcotizzante delle “canzoni della cattiva coscienza” 16, “ritornando a cantare storie, accadimenti, favole che riguardino la gente nella sua realtà terre126


na e quotidiana, con le sue vicende sentimentali (serie, più che sdolcinate, comuni più che straordinarie), con le sue lotte, le aspirazioni che la guidano e le ingiustizie che la opprimono, con le cose insomma che la aiutano a vivere e a morire” 17. Ai Papaveri e papere, ai Vecchi scarponi, alle Casette in Canadà, alle Corde della mia chitarra e a Son tutte belle le mamme del mondo, in queste canzoni nuove e diverse (alternative) si contrappongono persone normali con i loro problemi di tutti i giorni, ed è significativo che per la prima volta trovino espressione la condizione operaia e la realtà della fabbrica, rappresentate con stile neorealistico o con beffarda ironia: si veda per esempio la bellissima Canzone triste scritta da Calvino su musica di Liberovici 18 (“Erano sposi, lei s’alzava all’alba / prendeva il tram, correva al suo lavoro...”), cui fa da controcanto l’ironica Canzone lieta di Emilio Jona (“Io lavoro alla miniera, tralalà”) 19. Se Torino il cuore muore di Guido Seborga mette in scena con qualche rigidezza letteraria, “il duro strazio della fabbrica” con gli operai “annientati dalla forza d’ingranaggi crudeli” 20, Qualcosa da aspettare è una poetica e dolente descrizione dell’alienazione urbana 21, mentre La zolfara di Michele Straniero denuncia con forte pathos il tema delle morti sul lavoro (“Otto sono i minatori / ammazzati a Gessolungo...”)22 e gli scioperi e le manifestazioni operaie dei primi anni Sessanta ispirano il Canto del bastone di Franco Antonicelli (“Venite con noi, impiegati e studenti / qui c’è pane per i vostri denti...”)23 nonché La canzone della Michelin di Amodei 24. Ma certo il vertice dell’incisività e dell’efficacia comunicativa lo tocca quel capolavoro di canzone di lotta che è l’intenso inno Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei 25, scritto nel 1960 dopo la sanguinosa repressione dei moti popolari divampati in tutta Italia contro il governo Tambroni, nato con i voti dell’MSI.

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Da Torino a Milano: il Nuovo Canzoniere Italiano Chi funge da interfaccia fra la Torino di Cantacronache e la Milano del Nuovo Canzoniere Italiano è Michele L. Straniero (19362000) 26, giornalista, estroso poeta e saggista che, oltre a compiere ricerche etnomusicologiche in varie regioni d’Italia, non esita a calcare il palcoscenico come raffinato esecutore di canzoni proprie o della tradizione orale 27. Sarà lui che, assieme a Fausto Amodei, traghetterà l’esperienza torinese nella Milano di Bosio e Leydi, dove si sposta nel 1964 per lavorare alle Edizioni Avanti!, passando il testimone ai cantautori “politici” della seconda generazione come Giovanna Marini, Gualtiero Bertelli, Paolo Pietrangeli. Nel 1962 esce il primo numero della rivista “Il nuovo Canzoniere italiano”, a cura di Roberto Leydi e Sergio Liberovici e, nell’anno successivo, Roberto Leydi pubblica il primo volume di Canti sociali italiani 28. Il decollo della rivista favorisce la formazione del gruppo di ricerca milanese (di cui però fanno parte i cantacronache Amodei e Straniero) che alla ricerca intende affiancare la riproposta in una chiave di provocazione politica, mediante dischi e spettacoli. Per Gianni Bosio 29, direttore della Edizioni Avanti!, storico del movimento operaio italiano e importante figura di organizzatore culturale, si trattava di operare il passaggio dalle forme espressive proprie del mondo contadino a quelle del movimento operaio, dalla campagna alla città, dalla cultura contadina alla cultura urbana. Suo è l’impegno, sulla linea Gramsci-De Martino di un folklore progressivo, di uno scavo appassionato all’interno delle culture orali per riscoprire il carattere sovversivo e autonomo di talune memorie e di talune culture popolari e di classe 30. Ascoltare le voci di base e costruire con esse una storia collettiva e comune 31 era un suo ambizioso progetto, solo in parte realizzato con la pubblicazione, negli “Archivi sonori”, di una serie di dischi dedicati alla Storia d’Italia attraverso le canzoni. Progetto che aveva trovato in me, allora giovane insegnante nella scuola dell’obbligo, un fervente adepta, fornendomi, oltre a documenti preziosi per una didattica della storia, ulteriori stimoli alla ricerca di fonti 128


orali già cominciata in ambito familiare. Sul versante accademico, sono di quegli anni varie interpretazioni e analisi delle Osservazioni sul folclore di Gramsci, in particolare a opera di Lombardi Satriani e Cirese, il primo con la teoria del folklore come cultura di contestazione 32, il secondo con la teoria dell’“alterità” e dei dislivelli interni di cultura nelle società superiori 33. Per Bosio la volontà programmatica di dare ascolto alle voci di base solleva il problema della pluralità della cultura operaia e su questo punto, ancor prima di cominciare a lavorare con le fonti orali, si scontra con un’ortodossia storiografica che pretende di ricondurre la storia della classe a storia delle organizzazioni e dei loro dirigenti, escludendone le esperienze di minoranza, le correnti eretiche, le varianti locali e svalutando radicalmente ogni forma di autonomia non controllata della soggettività di base 34. Questo approccio antiaccademico e “ideologico” mette in discussione le barriere disciplinari fra storia da un lato, antropologia e folklore dall’altro, cosa che nasce dalla constatazione semplicissima, persino banale, che la storia e il folklore si occupano in fondo dello stesso oggetto, e cioè delle persone (lo aveva già detto autorevolmente Marc Bloch trent’anni prima) 35. Tenerli separati e incomunicanti equivale a tenere fuori della storia i protagonisti delle culture popolari, che invece, soprattutto attraverso i movimenti operai e contadini, nella storia agiscono in maniera determinante. Di qui allora l’attenzione a tutte le loro forme di comunicazione: l’oralità in tutte le sue dimensioni (tradizionali e formalizzate, e non), e la musica. Nella Nota introduttiva a L’intellettuale rovesciato di Gianni Bosio, si dichiara esplicitamente che il Nuovo Canzoniere Italiano, sorto all’inizio del “miracolo economico” come azione politico-culturale di un gruppo di militanti animati da “una testarda volontà di andare contro corrente”, ha come punto di riferimento principale la città e la classe operaia. Anche il lavoro di ricostruzione-interpretazione di canti sociali della tradizione contadina, artigiana, operaia o la creazione di nuovi canti sociali, “possono essere compresi appieno solo tenendo presente che il principale destinatario è la classe operaia”. Attraverso gli spetta129

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coli le viene anzitutto proposto il patrimonio di canti che operai e contadini hanno espresso nel corso della loro storia e delle loro lotte. I contenuti di queste canzoni vengono vissuti come politicamente attuali perché esprimono “il punto di vista di larghi settori popolari, operai e democratici”, per cui quei canti sociali “finiscono così per assolvere la funzione di una ‘propaganda elementare’ urbana, saldamente ancorata agli ideali socialisti” 36. Una protagonista del lavoro culturale svolto dal Nuovo Canzoniere Italiano come Giovanna Marini, conferma questa linea e, sulla base della sua esperienza didattica all’estero, testimonia: “Questo fatto di unire il sociale, quindi anche il politico, alla ricerca e riproposta del canto popolare, è accaduto solo in Italia, fra i Paesi europei, e connota tutto il lavoro di quei ricercatori italiani in un modo unico e particolarmente attraente per i giovani di tutti i Paesi” 37. Tensione politica e impegno militante sono dunque la cifra dominante in quegli anni, e la canzone politica come la cultura popolare vengono recuperate in quanto “strumento di comunicazione e di lotta”, come recita il titolo di un libro di Sergio Boldini sul canto popolare, edito dall’Editrice Sindacale Italiana nel 1975 38. Sul versante che più ci interessa, lo scandalo di Bella Ciao del 1964 apre la strada ad altre iniziative di base e così a Spoleto fa seguito, nel 1965-‘66, l’organizzazione a Torino, su iniziativa del Comitato studentesco dell’Accademia Albertina, dei due più grandi Folk festival mai realizzati in Italia 39. Decolla il folk music revival che significa riscoperta delle radici, della ricerca di un linguaggio profondamente “interno” alla nostra storia e finalmente non più succube dell’imitazione dei modelli stranieri.

Eskimo e chitarre: le canzoni dell’autunno caldo The times they are a-changin’ Bob Dylan aveva già cantato nel 1963. Anche da noi l’ovattato mondo della canzone tenta di aprirsi alle novità, da quando la stessa Sanremo, roccaforte della canzone melodica all’italiana più ipocrita e melensa, è stata scossa dall’urlo di Modugno, Volare! (Nel blu dipinto di blu, 1958). La 130


guerra del Vietnam, le trasformazioni sociali indotte dal boom economico, l’industrializzazione selvaggia e le preoccupazioni per la salvaguardia della natura, i fermenti che a livello internazionale maturano nel mondo dei giovani, si riflettono anche nel campo della allora florida industria della musica italiana, ruotante attorno alla radio (allora canale principale, monopolista e politicamente controllato, di promozione). Si formano gruppi elettrici con voce e canto su argomenti sedicenti “sociali”: sull’aria di un successo straniero, i Rokes cantano Che colpa abbiamo noi e aprono la via alla cosiddetta “linea verde” 40 che vorrebbe raggruppare i cantanti che affrontano tematiche d’impegno vagamente sociale e di tipo ecologico (di qui il colore), presentate come prodotto giusto per i giovani “contro”. Indipendentemente dalla superficialità dei temi di quella “linea” della canzone di consumo, che sarà spazzata via dal ’68, è l’epoca del Ragazzo della via Gluck di Celentano (1966), di Morandi che canta C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, di Guccini che inizia a comporre canzoni come Auschwitz per la nascente Equipe 84 (1964) e Dio è morto per i Nomadi (1965). Alla “Linea verde” il Nuovo Canzoniere Italiano contrappone La Linea Rossa 41, etichetta che, causa la totale assenza di una copertura mediatica e promozionale, inizialmente è un insuccesso quanto a penetrazione nel mondo giovanile pre-sessantottesco, ma che funziona nel momento in cui Linea Rossa si salda al movimento del Sessantotto non più marginale e minoritario, diventando la colonna sonora di quel momento storico in Italia. In quegli anni la vendita delle chitarre si moltiplica a dismisura: messe da parte batteria e chitarre elettriche dei gruppi beat, si sviluppa una generazione di cantori-musicisti che non delega più l’esecuzione dei suoi brani ad altri, ma (come avevano iniziato a fare i Cantacronache) in barba alle regole del bel canto, ristabilisce un contatto con quella che era stata la tradizione popolare italiana del canto di dissenso e di contestazione sociale. Nel maggio 1966 all’Università di Roma avviene la prima occupazione studentesca in seguito all’assassinio fascista dello studente Paolo Rossi: all’indomani Paolo Pietrangeli scrive Contessa 131

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che diventerà popolarissima (Compagni, dai campi e dalle officine / prendete la falce, portate il martello,/ scendete giù in piazza, picchiate con quello,/ scendete giù in piazza, affossate il sistema…), così come canterà la cronaca di uno dei primi scontri tra studenti e polizia in Valle Giulia, che col suo rabbioso refrain (No alla scuola dei padroni! ) diventa una delle canzoni più diffuse nei circuiti informali del movimento studentesco. Va sottolineato infatti che caratteristica peculiare della canzone militante è la sua totale estraneità alle logiche di mercato: nessuno degli artisti militanti si è mai posto il problema di “promuovere” un disco o di scalare le classifiche della hit parade. Con la contestazione studentesca e la grande stagione di lotte sindacali dell’“autunno caldo” nascono in ogni parte d’Italia gruppi di ricerca e di intervento che producono nuove canzoni di protesta e di lotta: sono canti che commentano e contrappuntano le varie fasi del movimento, accompagnando scioperi, occupazioni, cortei e manifestazioni. Accanto agli slogans su cartelli e striscioni, al suono dei fischietti e dei tamburi nelle strade e nelle piazze è tutto un fiorire di nuovi canti di lotta, che svariano dal massimalismo più acceso e virulento a forme che recuperano in qualche misura l’antica ironia dei canti sociali tradizionali, con forme di detronizzazione, rovesciamento parodico, corrosiva demistificazione. Nella produzione di nuovi canti si distinguono il Canzoniere Pisano appartenente a Potere operaio 42, entrato poi in Lotta continua trasformandosi in Canzoniere del Proletariato; il Canzoniere delle Lame di Bologna, vicino al PCI, il Canzoniere dell’Armadio di Roma, il Canzoniere di Rimini ecc. Per molti di questi canti la considerazione estetica è un fuori luogo: ciò che conta, è la funzione pragmatica di propaganda barricadiera, l’enunciazione ritmata dalle chitarre di slogan da scandire in coro per inneggiare alla lotta di classe contro i padroni, contro il “sistema”, contro il Potere. La stessa Giovanna Marini, autrice della memorabile ballata I treni per Reggio Calabria sulla grande mobilitazione operaia dell’ottobre 1972 contro il pericolo di un’insorgenza fascista, nel suo recente libro autobiografico, fornisce un ritratto impietoso della qualità musicale di tanta produzione mili132


tante di quella stagione. Merita invece di essere segnalato il fenomeno della creazione, da parte della base operaia, di nuovi canti germogliati nel corso di lotte e occupazioni: canti che si inseriscono nell’alveo della tradizione popolare più autentica adottando la cifra della parodia, cioè la tecnica di inserire parole nuove su arie vecchie, tradizionali o della canzone di consumo. Il fenomeno è assai vasto e generalizzato, dal nord al sud del paese, e viene documentato nella realtà dei conflitti sindacali più diversi, dalle aziende tessili torinesi 43 all’Apollon di Roma e alla Ignis di Trento, dall’Italsider di Piombino alla Marta di Torino, alla Crouzet di Milano ecc.44. In molti casi la nuova canzone operaia trova il modo di circolare e propagandarsi in simbiosi con il teatro politico: è questo il caso del Collettivo teatrale di Parma con lo spettacolo La grande paura, rievocante l’occupazione delle fabbriche nel “biennio rosso” 45, così come di Dario Fo e del Collettivo La Comune, che dal 1966 per quasi un decennio, con le varie edizioni successive di Ci ragiono e canto, svilupperanno una fitta sequenza di spettacoli in cui si fondono canto di tradizione e canto di nuova opposizione.

Una ricerca che vuol essere “globale”: Alessandria L’esperienza di Alessandria si connette a tutto questo fervore di iniziative prendendo le mosse dalle ricerche sul campo iniziate individualmente da chi scrive nel 1966: ricerche che diventano lavoro di gruppo quando, in occasione dell’indagine sulle emergenze di cultura popolare affidata all’Istituto Ernesto de Martino dal Comune di Alessandria per l’ottavo centenario di fondazione della città, Gianni Bosio nel 1967 mi invita a far parte dell’équipe di ricerca con Franco Coggiola e Riccardo Schwamenthal. In un appassionato lavoro sul campo, dalla città alla campagna, in pianura e nelle valli appenniniche, nell’arco di quattordici mesi registriamo canti di lavoro e di protesta, musiche e ballate arcaiche, giochi e credenze magiche, proverbi e bosinate: da tutto questo materiale 46 filtrato, assemblato e reinterpretato con un montaggio stimolante e provocatorio, 133

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si realizza nel dicembre 1968 uno spettacolo presentato per due sere consecutive in un affollatissimo Teatro Vescovado, dove le “chitarre contro” dei nuovi canti politici fanno da contrappunto alla riproposta delle antiche ballate e dei canti di questua contadini e la canzone sindacale si sposa all’Infanticida alla forca (Majulin bèla Majulin) eseguita dal vigoroso coro spontaneo dei “portatori di Cosola” scesi dalla Val Borbera 47. Le acque erano già state smosse alcuni mesi prima, con lo spettacolo Le canzoni dell’altra Italia, cui avevano partecipato Michele Straniero, Luisa Ronchini, i Piadena, Giovanna Daffini 48 con il marito violinista Vittorio Carpi. Non mancò una coda polemica per il carattere sociale e politico di questi canti, soprattutto per quelli relativi alla Grande Guerra (era ancora nell’aria la denuncia per vilipendio alle forze armate scattata a Spoleto per la canzone di Gorizia). Al seminario dell’Altra Italia indetto dall’Istituto de Martino “sulla comunicazione orale nella città e nella provincia di Alessandria”, il 15 giugno 1968 Tullio Savi in una impegnativa relazione dal titolo Utilizzazioni della ricerca ed elaborazione ideologica 49 aveva ribadito con forza sia il carattere antagonistico della cultura popolare sia il valore della ricerca, “atto di scienza proprio perché intervento politico”. Tracciando una sintesi del lavoro sino allora compiuto dal Nuovo Canzoniere Italiano, Savi disegnava un profilo dell’attività complessiva con le sue articolazioni interne:

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“La ricerca proponeva dunque del materiale e delle ipotesi; le ipotesi davano vita agli spettacoli; gli spettacoli a una loro organizzazione; l’organizzazione perseguiva una verifica alla base – piazze e teatri – sulla contemporaneità della comunicazione di classe; i risultati tornavano in sede di ricerca; la ricerca ripartiva per arricchirsi eccetera. Non era questo un moto cronologico, ma un ciclo logico (dalla ricerca all’azione, dall’azione alla ricerca) che è stato il metodo costante del nostro lavoro. Tutto ciò è chiaro se ripercorriamo rapidamente la storia parallela della ricerca e degli spettacoli. 134


Nella sua prima fase, la ricerca ha tratto dalla cultura di base i documenti della condizione operaia. I primi spettacoli (Teatro del Popolo e primissime rassegne antologiche del tipo Cantacronache) hanno tentato di dare una immagine della condizione operaia attraverso l’esibizione di quei documenti. Il momento successivo della ricerca ha dato consistenza all’ipotesi di una cultura popolare alternativa, ancorché disorganica. Il primo ciclo de L’Altra Italia e gli spettacoli che ne derivarono diedero la documentazione (disorganica anch’essa, ma con l’aspirazione ad una estensione sistematica) della complessità della cultura popolare, nelle sue forme espressive. Superata la fase del documento si entrava nella realtà contemporanea. Il terzo momento cercò di cogliere la qualità nella quantità esibita: e cioè la coerenza, la compattezza, l’autonomia espressiva (specifico stilistico) del mondo popolare, e la sua contemporaneità. Fu “Bella Ciao” a provare la validità dell’uso contemporaneo del materiale della ricerca e a verificarne l’esplicita portata contestativa rispetto ai contenuti e ai modi della tradizione ‘artistica’ borghese” 50. Non mancavano forti accenti di critica agli apparati di partito, sospettosi nei confronti di una ricerca fuori dagli schemi, avvertita come una forma di guerriglia culturale di difficile controllo: “Ma la burocrazia non solo teme ed ignora la ricerca: l’avversa anche e la rifiuta come metodo di lavoro politico, persuasa che la verità nasca dai Comitati centrali. Noi, con la ricerca e la riproposta, abbiamo documentato il dissenso della base operaia e contadina” 51. Il contatto tra l’Istituto de Martino e i ricercatori locali aveva creato premesse positive per il recupero della cultura popolare alessandrina: di lì a poco, infatti, nasce il Canzoniere popolare alessan135

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drino, associazione 52 fondata da chi scrive con un gruppo di appassionati ruotanti attorno a un gruppo musicale formato da Gianni Ghè, Gianfranco Calorio, Corrado Ricci (I Nuovi Trovieri), che sviluppa una breve ma intensa stagione di recital, concerti, conferenze-spettacolo nei circoli, nelle case del popolo, nei festival dell’Unità, nelle SOMS di paese 53. Vista la buona accoglienza da parte del pubblico di queste proposte culturali, l’ARCI provinciale di Alessandria nel 1976 promuove una sezione Cultura popolare, primo nucleo del Centro di cultura popolare “Giuseppe Ferraro” che due anni dopo troverà la sua sede nell’appena costituito Istituto per la storia della Resistenza, presieduto da Carlo Gilardenghi. La mia personale esperienza sul campo, col magnetofono, alla ricerca del canto sociale (e non solo) sul nostro territorio provinciale è prodiga di emozioni e di sorprese: impossibile elencarle tutte, mi limito ad alcuni flash memoriali. La prima, più intima, avviene in famiglia. Di mio padre (classe 1908, artigiano di paese) sin da piccolo conoscevo il gusto del “cantar lavorando” e dell’affabulazione, ma solo prestando attenzione a ciò che cantava accompagnando il suo lavoro di falegname e solo cominciando ad annotare le strofette e le canzoni che mille volte avevo ascoltato senza dar loro importanza alcuna, mi rendevo via via conto della significanza (storica e antropologica) di ciò che pareva insignificante o della rilevanza dell’irrilevante. Perché, a prestarci un po’ d’attenzione, si scopriva nel suo cantare un fiume di riferimenti storici dove si mescolavano il General Cadorna e Cecco Beppe, Garibaldi e la regina Taitù, la Fumagalli che la va in giarden e il naufragio del “Mafalda”, Bandiera rossa e Mamma non piangere: un gomitolo arruffato di memorie cantate che sui miei taccuini cercavo di districare e ricondurre ai perduti contesti, faticosamente ricostruendo cronologie e personaggi. Mi trovavo di fronte alla storia diventata folklore, fabulazione dinamica continuamente soggetta a un’elaborazione espressiva e parodica. Per mia madre, classe 1910, in gioventù contadina sui colli di Quargnento, fu tutta una scoperta: i canti di mio padre che trascrivevo sui taccuini e quelli che ascoltavamo dalle prime incisioni originali di Italia Canta e dei Dischi del Sole non facevano che riac136


cendere miracolosamente il ricordo di un canto collettivo perduto: dalle rime infantili alle strofe di lavoro, dai canti di questua alle ballate del Gentil galant e di Malbruc Marion, da Io parto per l’America ai Vigliacchi di quei signori che han voluto questa guerra… In entrambi i casi, però, l’esperienza diretta, ovvero questa full immersion nel pozzo di San Patrizio della comunicazione e dell’espressività orale-tradizionale mi faceva nettamente e concretamente percepire l’importanza, direi l’assoluta necessità di una ricerca non settoriale, non ristretta al genere (alquanto spurio) dei “canti di protesta”, ma aperta a 360 gradi su tutto l’arco della comunicazione popolare cantata, senza restrizione alcuna e, anche questa, nel contesto globale della cultura e della vita storica delle “classi subalterne”. Questa ferma consapevolezza mi distingueva in qualche misura da ricerche coeve o posteriori 54 e in qualche misura mi aiutava a superare le facili ironie di chi, pur tra amici e compagni politicizzati, giudicava “regressivo” o “folkloristico” il mio andare col magnetofono “sulle aie solatie” mentre tutt’attorno divampava la contestazione studentesca e operaia. Vivevo così un mio particolarissimo “Sessantotto a ritroso”, ossia un viaggio per me appassionante e sempre più convinto alla scoperta della “cultura altra”, alle radici più profonde non tanto di una presunta “contestazione” o dell’antagonismo di classe, quanto della vera essenza della diversità culturale. In questo scavo partecipe e tutt’altro che archeologico, rinvenivo la concreta dimensione politica della mia ricerca. Di questo mi rendevo sempre più persuaso, a ogni nuovo incontro con quei personaggi straordinari che erano i miei “testimoni” portatori di cultura popolare, “fonti orali” che in concreto erano persone in precisi contesti storici: anziani contadini e operai, antifascisti, ex partigiani, militanti politici di base. Nella primavera del 1968 intervisto a Castelceriolo Maddalena Cattaneo, classe 1900, ex mondina ed ex filandiera: eccezionale esempio di memoria folklorica (ballate arcaiche che solo in Nigra potevi trovare e qualcuna neanche lì o in altre raccolte!) e nello stesso tempo di coscienza storica e politica, che mi rapisce con il racconto fermo, pacato e preciso del lavoro in risaia (le otto ore, 137

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le cariche della cavalleria, le compagne arrestate, Si fermi solo Provera Maria…) e poi gli scioperi delle filandiere, il primo maggio sotto il fascismo (il fiore rosso nella bacinella dell’acqua fresca…), i batticuori nel ’43-45 per il marito partigiano in montagna. Qualche mese dopo, in città, ecco Rosa Foco Antiporta, contadina di un sobborgo sposata a un militante socialista, diventata operaia della Borsalino, che mi racconta e mi canta (intonatissima!) un’epopea da “Novecento” di Bertolucci, con le strofe della Lega e i ricordi delle violenze squadristiche (il marito, tecnico del Teatro del Popolo, che piange con Basile dinanzi al rogo dai fascisti appiccato al tempio della cultura proletaria), le canzoni di satira urbana sulle “cappellaie” e la ballata del bèl Moran d’Inghiltèra, l’occupazione delle fabbriche e i canti anarchici e socialisti intrecciati al canto epico-lirico d’origine medievale. Nello stesso tempo, nella scuola elementare dove insegno, la madre della bidella, “nonna Maria” d’Astuti, contadina moglie di un antifascista appartenente alla cellula di Ottavio Maestri (operaio comunista condannato dal Tribunale Speciale a molti anni di galera), mi spalanca lo scrigno degli stramòt endecasillabi, facendomi dono della poesia e della mobile arguzia di un repertorio antichissimo che svaria dalla serenata allo sberleffo, dal “rispetto” al “dispetto”, dal madrigalesco all’invettiva. Vurrijsa che lu ciel al fijsa carta, inizia un suo strambotto che viene da molti secoli prima, mentre scopro Ivan Della Mea che, in un disco del Sole, canta Se il cielo fosse bianco di carta, musicando le parole scritte da Chaim, ragazzo ebreo morto in un campo di sterminio nazista 55. Un altro di quei “cortocircuiti” prodigiosi che fa scattare lo scavo nella miniera dell’oralità popolare tradizionale.

Antecedenti storici e bilanci in rosso Già abbiamo visto che per Cantacronache la riesumazione dei canti politici italiani della tradizione serviva da sfondo e da legame con i nuovi testi espressione dell’attualità politica: per questo l’immenso lavoro etnomusicologico di Jona e Liberovici ebbe 138


solo una parziale, limitatissima comparsa sui piccoli 33 giri di Italia Canta. Era doveroso valorizzare quell’ingente, pionieristico lavoro sul campo: questo è stato reso possibile solo negli ultimi anni, per una fortunata convergenza di fattori determinata in primo luogo dall’eccellente conservazione dell’archivio sonoro, depositato presso il CREL56 e splendidamente digitalizzato e inventariato; in secondo luogo (data la mole notevole dei materiali raccolti) dalla disponibilità di due ricercatori che hanno affiancato il protagonista superstite, Emilio Jona, nel difficile lavoro di ordinamento, trascrizione, analisi e interpretazione dei nastri originari. Ne sono scaturiti due grossi volumi corredati da CD audio57, che danno conto delle due consistenti indagini storiche, compiute in anni precoci, sul canto di monda e sul canto del proletariato di fabbrica torinese. Ricerche che non si limitavano a registrare il testo delle canzoni, ma che con grandissima sensibilità storicoantropologica, molti anni prima dell’avvento dell’oral history, collocavano quei canti all’interno di precisi quadri sociali, di comunità, di quartiere, di famiglia, nel vissuto concreto di “storie di vita” di lavoratori e di militanti politici di base. È un repertorio palesemente composito e stratificato, come tutto quanto appartiene a una tradizione a prevalente trasmissione orale. In questo contesto, però, spiccano per la loro originalità e “diversità” quei testi riconducibili alla definizione di cantata operaia, che si caratterizzano per la capacità di veicolare messaggi ideologici forti (l’orgoglio operaio, la solidarietà di classe, l’internazionalismo proletario ecc.) con un linguaggio popolare e dialettale di forte pregnanza stilistica e di grande efficacia comunicativa: da Guarda là su la pianura a Ma la vita (Sü cantuma), da Nella risaia dal sole bruciata a Dei socialisti il nucleo. Questi testi, quasi tutti riconducibili ad autori organici alla classe operaia (parecchi vengono attribuiti ad Antonio Mazzuccato, singolare ma interessantissima figura di maestro di musica, poeta civile e pedagogo politico), contrassegnano una stagione particolarmente feconda di elaborazione e crescita dell’idea socialista e rappresentano, fino a prova contraria, un’esperienza originale del “caso torinese”. Si tratta di un canto popolare che attraversa i quartieri e i circoli proletari, un canto essenzial139

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mente parodico, che intreccia l’ideologia anarchica e socialista e la rappresentazione degli spazi fisici e mentali operai, che è dominato dalla contaminazione e dalla mimesi dei generi più disparati dell’espressività colta e di consumo del tempo. Credo che da tali lavori di sintesi si possano trarre non pochi spunti di riflessione sia sul senso del “cantare dal basso”, sia sul “cantare protestando”: certamente “ieri”, cioè in un contesto ancora abbastanza organico di trasmissione e comunicazione della cultura orale, e forse anche “oggi”, in un contesto totalmente cambiato 58. Un canto, quello sociale, che ben lungi dall’essere l’effimero della canzone, rappresenta pensiero e vita, idee e speranze di uomini e donne in carne e ossa. Non uomini folklorici, ma uomini storici, nel senso di uomini e donne dentro la storia in movimento. Per cui il canto sociale, più di tanti altri documenti, ci aiuta a capire la storia e i suoi mutamenti.

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A mo’ di conclusione Non è questo il luogo per tentare compiute sintesi storiografiche, ma certo viene da chiedersi cosa sia rimasto oggi in vita (nel comune sentire o nella cultura diffusa) di tutto questo percorso articolato e complesso, denso di passione civile e di tensione utopica, che qui si è cercato confusamente di tratteggiare. La sensazione è che quella feconda esperienza di rapporto-raccordo fra tradizione popolare e canzone militante esemplarmente vissuta e rappresentata da un Della Mea abbia compiuto la sua parabola ed esaurito il suo ciclo vitale alla fine degli anni Settanta. Alla mercificazione del “folk” è seguito infatti un decennio di sonno, rimozione, stanchezza (e la politica culturale della sinistra ha le sue colpe, non avendo saputo – o voluto – gestire la sfida della cultura di massa) 59 cui ha fatto seguito, accanto alla moda commerciale della world music con i suoi esotismi premasticati, una rinascita di gruppi che sviluppano un linguaggio di controcultura (musica rap, fenomeno delle Posse, centri sociali) anche questa però ghettizzata in circuiti alternativi assolutamente minoritari, 140


invisibili ai più. In questi anni, insomma, di fronte a un incredibile allargamento degli strumenti per catturare suono e immagini, che teoricamente offrono indubbiamente nuove opportunità, suggerendo potenziali strumenti alternativi di “lotta” politica, si ha la sensazione che nulla intacchi lo strapotere del mainstream, della Cultura Ufficiale che detiene il monopolio dei media e orienta opinioni e consumi. In questi anni di YouTube e MySpace, di fronte a un sistema di comunicazione monopolistico pervasivo, molto di quella “storia cantata” si è perso per strada 60, lasciando una sensazione di devastazione culturale e di impotenza 61. “Nonostante l’esperienza fondamentale dei centri sociali nati nel corso degli anni Novanta (oggi in evidente crisi), che hanno rappresentato nuovi contesti di espressione dell’antagonismo giovanile soprattutto attraverso la cultura Hip-Hop, lo scenario contemporaneo si presenta decisamente ridimensionato in termini di pratica militante e rifunzionalizzazione della canzone di protesta com’era intesa nei Sessanta e Settanta” 62.

Mio caro Michele, ricordi la lotta, le grida infuocate? “La fabbrica è nostra, così è la città, è nostra la vita!”, ma poi qualcosa è cambiato, Michele.

Così Ivan Della Mea registrava la delusione e l’involuzione seguita all’utopia sessantottina, riprendendo ancora il “modulo epistolare” nella canzone Lettera a Michele, incisa nell’album dedicato alla scomparsa di Gianni Bosio, Se qualcuno ti fa morto (1972). Non tutto, però, è andato perduto. Come scrivevo su questa stessa rivista alcuni anni fa 63, si sono registrati negli ultimi anni alcuni nuovi segni di interesse verso la canzone popolare e il recupero di storia collettiva che la sua analisi comporta. Si vedano per esempio, la bella esperienza di Materiali Resistenti che a 141

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metà degli anni Novanta ha riproposto brani del repertorio resistenziale reinterpretati da alcuni dei più affermati gruppi rock 64, così come nel 1998 l’iniziativa di rilancio in grande stile (nelle edicole) dell’antologia Avanti popolo. Due secoli di canti popolari e di protesta civile promossa da un marchio della grande distribuzione editoriale e dall’Istituto de Martino 65, così come ancora, nel 2002, l’imprevedibile successo del disco Il fischio del vapore di Francesco De Gregori e Giovanna Marini 66, che riporta a galla alcuni “classici” del canto sociale, dal Feroce monarchico Bava all’Attentato a Togliatti, da Bella ciao al Sirio ai canti delle mondine. Per concludere questi nostri appunti, tentiamo un sia pur minimo bilancio di questi quarant’anni che sono l’arco di tempo da che un drappello di valorosi raccoglie, elabora, archivia, diffonde le voci di cui è fatta la storia di base del nostro paese. Anche se è una storia vissuta ai margini, con ostacoli e difficoltà, senza risorse e senza ricompense, in un senso molto reale, questa, a ben guardare, è una storia di successo, come afferma con giusto orgoglio (e un pizzico di ottimismo della volontà) un amico-compagno di viaggio in quest’avventura, come Cesare Bermani: “A pensarci ora, sembra incredibile che un lavoro di ricerca sul “canto sociale”, in fondo così settoriale, abbia potuto esercitare un’influenza così ampia sulla nostra cultura: ha organizzato un corpus di canti riguardanti la storia del nostro paese, ha fornito un repertorio che si è ben radicato nella sinistra italiana a livello di massa, ha prodotto spettacoli teatrali (“Bella ciao”, “Ci ragiono e canto”) entrati nella storia del teatro italiano, ha aperto la strada a un modo diverso di affrontare i problemi della conoscenza della cultura e della storia delle classi non egemoni, è stato all’origine della nostra ‘storia orale’” 67.

Un grande laboratorio, dunque, in cui la canzone libertaria e la ricerca demologica, intrecciate nel segno (sogno?) del demarti142


niano “folklore progressivo”, hanno fornito una grande occasione di recupero della memoria storica della nostra cultura e della nostra società, per riscoprirne le radici, interpretandone i sogni, le angosce, le tensioni e le utopie 68. Al di là degli inni barricadieri che hanno segnato il tempo infuocato delle lotte (Morti di Reggio Emilia, Contessa), cosa resta di tutta la gran produzione di canti degli anni Sessanta e Settanta? Cosa resta dei temi della condizione operaia e della vita di fabbrica? Forse non moltissimo, ma certo qualcosa passa e si sedimenta nella più avvertita e sensibile canzone d’autore degli anni Settanta: da De André a Dalla, da Guccini a De Gregori e pochi altri. Si vedano per esempio alcune “perle” come La locomotiva di Guccini (1972), La canzone del Maggio di De André (1973), L’operaio Gerolamo di Lucio Dalla e Roberto Roversi 69, la canzone di Jannacci, Vincenzina e la fabbrica. Quest’ultima, datata 1974 70 ha un testo in cui è di scena una donna del sud, probabilmente giunta nella metropoli lombarda in cerca di lavoro: la realtà descritta la vediamo attraverso i suoi occhi, in un misto di stupefazione, stanchezza, pena, dove la speranza fatica ormai a farsi strada. Non c’è patetismo né crepuscolarismo, ma un tono fermo e dolente sorprendentemente simile a quello della Canzone triste di Calvino-Liberovici che una ventina d’anni prima introduceva la realtà operaia nella canzone. Lo stesso tono fermo che ritroviamo, nel 1967, nella intensa e struggente Nina ti te ricordi di Gualtiero Bertelli. Tre canzoni queste ultime (Canzone triste, Nina, Vincenzina e la fabbrica) che, come O cara moglie di Della Mea, affrontano la condizione operaia da un’angolazione “dal basso”, di quotidianità e di fatica del vivere, e che per ciò stesso riescono ad esprimere un sentimento popolare autentico, senza nostalgia né archeologia, tutto teso sull’angoscia di una problematica umana e sociale contemporanea. Questi mi sembrano alcuni esiti interessanti, di verità e di poesia, che ci ha lasciato quella stagione intensa e irripetibile. E sono, guarda caso, le stesse considerazioni che ritroviamo pari pari nell’affettuoso ricordo che di Ivan Della Mea ha scritto Sandro Portelli sul “Manifesto” del 16 giugno 2009:

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“Non è stato un cantore di vittorie, di sorti magnifiche e progressive di un comunismo portato dall’onda della storia. A ripensarci, tante delle sue canzoni parlano di sconfitte, di compagni uccisi (Serantini, Ardizzone), di lotte andate a male – e della orgogliosa determinazione a ricominciare. La sua canzone più cantata, quella entrata davvero nella tradizione orale, O cara moglie, è la storia di uno sciopero sconfitto, di un operaio licenziato, del ricatto padronale che convince o costringe tanti operai a chinare la testa e rientrare in fabbrica – e gli scioperanti che gli gridano crumiri e venduti, ma vedono la loro umiliazione anche come un’offesa fatta a se stessi. Ma la storia è raccontata nel calore di una cucina operaia, condivisa con l’amore familiare, con la proiettività nei confronti del figlio che si trasforma in orgoglio e insegnamento. Alla grande violenza della repressione e dei licenziamenti risponde, stavolta, la “piccola” resistenza dei sentimenti, dell’amore, della dignità. E da qui si ricomincia, oggi come allora”.

(.....) e a meriggiare mi avanzan le ore dice l’esubero senza lavoro alla miseria che rima in dolore non c’è poeta che renda decoro

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ho visto il viale di ogni tramonto di una classe chiamata operaia storia e memoria non fan più di conto restan gli avanzi di satira gaia (....) e alla chitarra di antica protesta io chiedo solo la corda ben tesa per dare suoni di gioia e di festa ché se si canta si canti alla stesa 71.

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1. Il canto delle tessitrici (raccolta a Torino da E. Jona e S. Liberovici nel 1960)1 Presto compagne andiamo il fischio già ci chiama mentre la ricca dama stanca d’amoreggiar comincia a riposar. Sono le cinque appena già il padrone ci vuole ci aspettano le spole corriamo a lavorar il ricco ad ingrassar. Batti telaio in fretta contro l’affranto seno così il padrone almeno per questo mio penar nell’or potrà sguazzar Se mi si strappa il filo il direttor m’insulta e poi con una multa ei mi dimezza il pan non mangerò diman Presto compagne in lega più nulla temeremo se unite noi saremo non dovrem più soffrir ché nostro è l’avvenir. Compagni socialisti alzate le bandiere con le ribelli schiere pur noi vogliam pugnar il diritto a conquistar.

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APPENDICE


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2. Battan l’otto (raccolta da Caterina Bueno a San Giovanni Valdarno, Arezzo, 1965)2 Battan l’otto ma saranno le nove, i miei figlioli ma son digiuni ancora ma viva il coraggio, ma chi lo sa portare infame società, dacci mangiare. Viva il coraggio, ma chi lo sa portare l’anarchia la lo difenderebbe ma viva il coraggio, ma chi lo sa portare i miei bambini han fame, chiedono pane. Anch’io da socialista mi voglio vestire bello gli è i’ rosso, rosse son le bandiere ma verrà qui’ giorno della rivoluzione infame società, dovrai pagare. Verrà qui’ giorno della rivoluzione, verrà qui’ giorno che la dovrai pagare ma verrà qui’ giorno della rossa bandiera infame società, dovrai pagare. Bella è la vita, più bello gli è l’onore amo mia moglie e la famiglia mia ma viva i’ coraggio, ma chi lo sa portare infame società, dacci mangiare. Dei socialisti è pieno le galere, bada governo, infame maltrattore ma verrà qui’ giorno della rivoluzione infame società, dovrai pagare.

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3. Canzone triste (testo di Italo Calvino, musica di Sergio Liberovici, 1958)3 Erano sposi, lei s’alzava all’alba prendeva il tram, correva al suo lavoro. Lui aveva il turno che finisce all’alba, entrava il letto e lei n’era già fuori. Soltanto un bacio in fretta posso darti; bere un caffè tenendoti per mano. Il tuo cappotto è umido di nebbia. Il nostro letto serba il tuo tepore.

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Dopo il lavoro lei faceva spesa – buio era già – le scale risaliva. Lui era in cucina con la stufa accesa, fanno da cena e poi già lui partiva. Soltanto un bacio in fretta posso darti... Mattina e sera i tram degli operai portano gente dagli sguardi tetri; di fissar la nebbia non si stancan mai cercando invano il sol, fuori dai vetri. Soltanto un bacio in fretta posso darti... 4. La canzone della Michelin (Fausto Amodei, 1962)4 Cantiamo questa sera una canzone per tutti i cittadini di Torino, che serva a darci a tutti uno scrollone e a dire pane al pane e vino al vino. Noi crediamo fascista vero solo chi ha l’orbace nero; ma ci son quelli colla camicia bianca ed i gemelli. Fascisti, qui da noi, sono i padroni di oggi alla Michelin, ieri alla Lancia: se non riusciamo a farli stare buoni finisce a casa nostra come in Francia. Non nutriamo le pretese di chiamarci il “Bel paese”: questo è retaggio, al massimo, di un tipo di formaggio. Sentite, impiegati e contadini, sentite voi, studenti ed artigiani: ci son quattromila cittadini che da due mesi sono senza pane. Stan lottando, per noi tutti, contro i vecchi farabutti che, guarda caso, da un secolo ci menan per il naso; che ci hanno sempre e solo comandati,

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ci han fatto far le guerre in casa altrui, che ci hanno addormentati e comperati per fare sempre i comodacci sui. Cerchiam d’esser cittadini e non sudditi cretini: dobbiam capire che è finito il tempo di servire. Togliamoci di dosso ‘sta mania che chi ci ha i soldi deve aver ragione: piantiamola così di darlo via in cambio a un’auto e ad un televisore, che diventa un fatto comico ’sto miracolo economico se tanta gente da ben due mesi vive senza niente. Facciamolo noi altri, ‘sto miracolo di unirci nella lotta all’ingiustizia: su questa strada non esiste ostacolo che possa trattenere chi la inizia. La bandiera del lavoro è di noi, come di loro: andiamo avanti, tenendoci per mano tutti quanti. 5. La Santa Caterina dei pastai (Gruppo Padano di Piadena, 1962)5

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Per Santa Caterina dei pastai il mio padrone ha fatto una bella festa il mio padrone ha fatto una bella festa insieme a tutti i suoi operai Una bella festa tutta pagata dalla minestra all’insalata e alla fine della bella festa una sigaretta...a testa! O come è generoso il mio padrone, dice che siam bravi a lavorare dice che bisogna collaborare per costruire nuovi capannoni

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Parlato: Sì, però i capannoni, la Ferrari, la villa a Viareggio, l’è roba nostra, e la Santa Caterina lo sa, ma la ‘un lo dice, da dentro la su’ cornice!

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Per Santa Caterina dei pastai il mio padrone ha fatto una bella festa il mio padrone ha fatto una bella festa insieme a tutti i suoi operai Una bella festa tutta pagata dalla minestra all’insalata e alla fine della bella festa una sigaretta...a testa! E alla fine della settimana sulla busta paga abbiam trovato la trattenuta della bella festa una trattenuta...a testa! 6. Vedrai com’è bello (Gualtiero Bertelli, 1966)6 M’hanno detto a quindici anni di studiare elettrotecnica è un diploma sicuro, d’avvenire tranquillo, con quel pezzo di carta non avrai mai problemi, non avrai mai padroni, avrai sempre il tuo lavoro. Vedrai com’è bello lavorare con piacere in una fabbrica di sogno tutta luce e libertà! M’hanno detto a quindici anni fai la specializzazione, è importante, nella fabbrica farai il lavoro che ti piace. lo l’ho fatta, ed a vent’anni poi mi sono diplomato e ad un corso aziendale m’hanno pur perfezionato

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Vedrai com’è bello… Tutto quello che hai studiato dentro qui non serve a niente, non importa un accidente cosa poi tu voglia fare Il diritto più importante è catena di montaggio, modi e tempi di lavoro ogni giorno, ogni ora. Qui dentro non c’è tempo, non c’è spazio per la gente qui si marcia con le macchine e non si parla di libertà. La tua libertà resta fuori dai cancelli, la puoi ritrovare fra le mura di casa. Vedrai com’è bello… 7. Padrone Olivetti (Canzoniere pisano, 1968)7 Padrone Olivetti, un nostro compagno ha perso la testa, s’è andato ad ammazzare tu potrai dire che era malato ma noi la sappiamo la verità.

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Padrone Olivetti, una macchina o un uomo nei tuoi progetti han la stessa funzione; tu vedi solo la produzione e quel che si guasta si deve buttar. Padrone Olivetti, la tua baracca resterà in piedi, finché ti si ascolta le tue invenzioni sono la morsa che noi soltanto potremo spezzar. “Dividi e comanda”: è il motto di sempre di tutti i padroni di questa terra la nostra vita è tutta una guerra a stare attenti a non farci fregar! Tu ci hai divisi in categorie

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chi è più capace guadagni più ma il tuo discorso, davanti alla pressa è una menzogna, non regge più.

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E quest’inganno, uno dei tanti è il loro giuoco per farci tacere; siam tutti uguali senza il potere e tutti assieme dovremo lottar. 8. Contessa (Paolo Pietrangeli, 1966)8 “Che roba contessa, all’industria di Aldo han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti; volevano avere i salari aumentati, gridavano, pensi, di esser sfruttati. E quando è arrivata la polizia quei pazzi straccioni han gridato più forte, di sangue han sporcato il cortile e le porte, chissa quanto tempo ci vorrà per pulire...”. Compagni, dai campi e dalle officine prendete la falce, portate il martello, scendete giù in piazza, picchiate con quello, scendete giù in piazza, affossate il sistema. Voi gente per bene che pace cercate, la pace per far quello che voi volete, ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra, vogliamo vedervi finir sotto terra, ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato, nessuno piu al mondo dev’essere sfruttato. “Sapesse, mia cara che cosa mi ha detto un caro parente, dell’occupazione che quella gentaglia rinchiusa lì dentro di libero amore facea professione... Del resto, mia cara, di che si stupisce? anche l’operaio vuole il figlio dottore e pensi che ambiente che può venir fuori: non c’è più morale, contessa...” Se il vento fischiava ora fischia più forte le idee di rivolta non sono mai morte; se c’è chi lo afferma non state a sentire,

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è uno che vuole soltanto tradire; se c’è chi lo afferma sputategli addosso, la bandiera rossa ha gettato in un fosso. Voi gente per bene che pace cercate... 9. Gino della Pignone (Canzoniere pisano, 1968)9 Gino è ’r nome der Manfredi che lavora alla Pignone; alle cinque egli è già ’n piedi per quer porco der padrone. Dai, pedala, vai più in fretta, la sirena non ti aspetta. Una sera, giù ar partito, Gino affronta chi è deluso: “Se lo sciopero è fallito il conflitto non è chiuso: Sabotar la produzione: non c’è altra soluzione!” Una notte l’han trovato che scriveva “W Mao! Socialisti col padrone!”: dal partito l’han radiato. Sabotar... Una volta era il partito che ci dava gli obiettivi; ora anch’esso ci ha tradito, ma noi siamo sempre vivi.

Note e discussioni

Sabotar... 10. Sciopero interno (Parole e musica di Fausto Amodei, 1969)10 Abbiam trovato un metodo d’azione per romper meglio le scatole al padrone è il sistema più rapido e moderno

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Note e discussioni

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e che si chiama lo sciopero interno. Sciopero interno da dentro l’officina noi perdiam poco e Agnelli va in rovina se si sta a scioperar dentro i cancelli chi ci rimette è soprattutto Agnelli. Basta che siamo duecento scioperanti tutta la FIAT non può più andare avanti ci rimette la paga poca gente ma tutti gli altri non producon niente. Sciopero interno caliamo il rendimento ed abbassiamo il cottimo giù a cento che con lo scasso della produzione noi riusciremo a battere il padrone. Sciopero interno vuol dire che in sostanza oggi io lotto e non che sto in vacanza ma che incontro i compagni con lo scopo di migliorare la lotta il giorno dopo. Sciopero interno facciamo l’assemblea ai nostri capi gli viene la diarrea nel veder che senza chieder permesso noi comandiamo in fabbrica già adesso. Sciopero interno facciamo anche i cortei I nostri capi stan lì come babbei nel vedere che dentro queste mura noialtri non abbiamo più paura. Forza compagni facciam sciopero interno non c’è demonio – e non c’è padreterno che ci possa oramai più trattenere – d’andare avanti e prendere il potere.

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11. La ballata della Fiat (Alfredo Bandelli, 1970)11 Signor padrone questa volta per te è andata proprio male siamo stanchi di aspettare che tu ci faccia ammazzare. Noi si continua a lavorare e i sindacati vengono a dire che bisogna ragionare, di lottare non si parla più. Signor padrone ci siam svegliati, e questa volta si dà battaglia, e questa volta come lottare lo decidiamo soltanto noi. Vedi il crumiro che se la squaglia, senti il silenzio nelle officine, forse domani solo il rumore della mitraglia tu sentirai. Signor padrone questa volta per te è andata proprio male, d’ora in poi se vuoi trattare dovrai rivolgerti soltanto a noi. E questa volta non ci compri con le cinque lire dell’aumento, se offri dieci vogliamo cento, se offri cento mille noi vogliam.

Note e discussioni

Signor padrone non ci hai fregati con le invenzioni, coi sindacati, i tuoi progetti sono sfumati perché si lotta contro di te. E le qualifiche, le categorie, noi le vogliamo tutte abolite Le divisioni sono finite: alla catena siam tutti uguali. Signor padrone questa volta noi a lottare s’è imparato, a Mirafiori s’è dimostrato e tutta Italia lo dimostrerà. E quando siamo scesi in piazza tu ti aspettavi un funerale, ma è andata proprio male per chi voleva farci addormentar.

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Ne abbiamo visti davvero tanti di manganelli, scudi romani, però s’è visto anche tante mani che al sampietrino cominciano a andar. Tutta Torino proletaria alla violenza della questura risponde ora, senza paura: la lotta dura bisogna far. E no ai burocrati e ai padroni! Cosa vogliamo? Vogliamo tutto! Lotta continua a Mirafiori e il comunismo trionferà . E no ai burocrati e ai padroni! Cosa vogliamo? Vogliamo tutto! Lotta continua in fabbrica e fuori e il comunismo trionferà! 12. Chi non vuol chinar la testa è comunista 1971)12

(Canzoniere delle Lame,

Scrive la Gazzetta “Non c’è pace sociale” e che gli operai son sempre a scioperare “Fabbriche occupate, scuole picchettate qui non si produce più”. I giornali dei padroni gridan “rossi sovversivi” ci vuol ordine c’è troppa libertà. “Ci vuole repressione, ordine sociale bisogna eliminare la lotta sindacale” “Ci vuole l’uomo forte con la dittatura e il manganel bisogna usar”. Ma questo è l’ordine fascista non si può chinar la testa chi non vuol chinar la testa è comunista. Ordine vuol dire combattere i fascisti ordine vuol dire no alla violenza ordine vuol dire la lotta di classe e alla destra dire no. E se non vuoi chinar la testa fatti aggiungere alla lista chi non vuol chinar la testa è comunista. Ordine vuol dire poter lavorare ordine vuol dire non dovere emigrare

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Franco Castelli, “Compagni dai campi e dalle officine”. Appunti sul canto sociale

Note e discussioni


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ordine vuol dire aver la dignità di non partire e di star qua. E se non vuoi chinar la testa... Ordine vuol dire combattere la mafia ordine vuol dire no allo sfruttamento ordine vuol dire lotta per la terra e agli agrari dire no. E se non vuoi chinar la testa... 13. Se c’è la crisi per il padrone (Canzoniere del proletariato, 1971)13

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Sindacalisti, padroni e governo vengono adesso a parlarci di crisi a noi operai, che questo inferno noi lo viviamo da quando siam nati; parlan di crisi dell’economia e dei pericoli per la nazione, ma questa crisi è solo del padrone, la sua rovina è la nostra forza. Se c’è la crisi per il padrone vuol dir che avanza la rivoluzione, che s’avvicina la resa dei conti, dovran pagare tutto fino in fondo; ora i padroni la loro Indocina l’hanno a due passi, nell’officina. La nostra crisi esiste da sempre, crescano i prezzi, le tasse, la fatica, e questa miseria la chiamano vita, a questa miseria ci voglian condannare: ma per ogni colpo alla produzione cresce più forte l’organizzazione; forza lottiamo contro questo ricatto, prendiamoci tutto quello che è nostro! Se c’è la crisi per il padrone... 14. Stato e padroni, fate attenzione (Potere Operaio, 1971)14 La classe operaia, compagni, è all’attacco, Stato e padroni non la possono fermare, niente operai curvi più a lavorare ma tutti uniti siamo pronti a lottare. No al lavoro salariato, unità di tutti gli operai; Il comunismo è il nostro programma,

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con il Partito conquistiamo il potere. Stato e padroni, fate attenzione, nasce il Partito dell’insurrezione; Potere operaio e rivoluzione, bandiere rosse e comunismo sarà. Nessuno o tutti, o tutto o niente, e solo insieme che dobbiamo lottare, o i fucili o le catene: questa è la scelta che ci resta da fare. Compagni, avanti per il Partito, contro lo Stato lotta armata sarà; con la conquista di tutto il potere la dittatura operaia sarà. Stato e padroni... I proletari son pronti alla lotta, pane e lavoro non vogliono più, non c’è da perdere che le catene e c’è un intero mondo da guadagnare. Via dalle linee, prendiamo il fucile, forza compagni, alla guerra civile! Agnelli, Pirelli, Restivo, Colombo, non più parole, ma piogge di piombo! Stato e padroni... Stato e padroni, fate attenzione... nasce il partito dell’insurrezione; viva il Partito e rivoluzione, bandiere rosse e comunismo sarà! 15. Vincenzina e la fabbrica (Enzo Jannacci, 1974)15 Vincenzina davanti alla fabbrica, Vincenzina il foulard non si mette più. Una faccia davanti al cancello che si apre già. Vincenzina hai guardato la fabbrica, come se non c’è altro che fabbrica e hai sentito anche odor di pulito e la fatica è dentro là... Zero a zero anche ieri ’sto Milan qui, sto Rivera che ormai non mi segna più, che tristezza, il padrone non c’ha neanche ’sti problemi qua. Vincenzina davanti alla fabbrica, Vincenzina vuol bene alla fabbrica, e non sa che la vita giù in fabbrica non c’è, se c’è com’è ?

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16. L’operaio Gerolamo (Testo di Roberto Roversi, musica di Lucio Dalla, 1973)16 S’alza il sole sui monti E sono ancora a casa Cala il sole sull’acqua E mi trovo nella polvere della strada S’alza il sole sui monti E adesso sono a Torino Cala il sole sull’acqua E mi trovo solo come un cane in angolo Dentro una mescita di vino S’alza il sole sui monti E sono arrivato in Germania Cala il sole sull’acqua E sono in una baracca disteso Al buio con un vecchio maglione addosso E una lampada che non funziona S’alza il sole sui monti E mi trovo a Nanterre, periferia di Parigi Cala il sole sull’acqua E sono con gli altri compagni a vegliare un povero italiano, il mio amico Luigi.

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S’alza il sole sui monti E sono arrivato a Malano Città dell’abbondanza e dei miracoli e della Madonna Cala il sole sull’acqua E non ho nemmeno la forza di guardarmi la mano S’alza il sole sui monti E mi trovo qui braccato nella campagna Cala il sole nell’acqua Se qualche santo m’aiuta mi trovo alla fine in una grotta buttato S’alza il sole sui monti E sono ferito a morte, ferito al petto e condannato Povero operaio, povero pastore, povero contadino S’alza il sole sui monti E un altro al posto mio è già arrivato.

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Cesare Bermani, “Guerra guerra ai palazzi e alle chiese…”. Saggi sul canto sociale, Roma, Odradek, 2003. Gianni Borgna, Storia della canzone italiana, prefazione di Tullio De Mauro, Laterza, Bari, 1985. Piero Brunello, Storia e canzoni in Italia: il Novecento, con allegati due CD di canzoni a cura di Antonella De Palma e Cesare Bermani, Comune di Venezia, Assessorato Pubblica Istruzione, Itinerari educativi, 2000. “Canzoniere del Lavoro”, supplemento di “Vie nuove”, n. 17, 29 aprile 1965. Canzoniere della protesta, 1, Milano, Edizioni del Gallo, 1972. Canzoniere della protesta, 2. Canti della Resistenza armata in Italia, Milano, Edizioni del Gallo, 1972. Canzoniere della protesta, 3. Canzoni comuniste, Milano, Edizioni del Gallo, 1973. Canzoniere della protesta, 4. La linea rossa della canzone, Ed. Bella Ciao, Milano, 1973. Canzoniere della protesta, 5. Ivan Della Mea,Ed. Bella Ciao, 1976. Canzoniere della protesta, 6. Paolo Pietrangeli, Ed. Bella Ciao, 1977. Franco Castelli, Cultura popolare valenzana. Canti proverbi testimonianze, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1982. Franco Castelli, Ballate d’amore e d’ironia. Canti della tradizione popolare alessandrina, Alessandria, Il Quadrante, 1984. Castelli, F - Jona, E. – Lovatto, A., Senti le rane che cantano. Canti e vissuti della risaia, Donzelli, Roma, 2005, con CD audio. Luca Ferrari, Folk geneticamente modificato, Viterbo, Stampa Alternativa, 2003. Istituto Ernesto De Martino, Avanti popolo, due secoli di canti popolari e di protesta civile, 12 CD, Casa Ricordi - BMG Ricordi Spa, Hobby & Work - Alabianca, 1998. Emilio Jona, Sergio Liberovici, Franco Castelli, Alberto Lovatto, Le ciminiere non fanno più fumo, Canti e memorie degli operai 159

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R IF E R I M E NTI BI BL IOGR AF I C I


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torinesi, Roma, Donzelli, 2008, con CD audio. Emilio Jona, Michele L. Straniero (a cura di), Cantacronache, un’avventura politico-musicale degli anni Cinquanta, Torino, DDT & Scriptorium Associati, 1995. Roberto Leydi, Canti sociali italiani, Milano, Edizioni Avanti!, 1963. Sergio Liberovici, Emilio Jona, Lionello Gennero, Michele Straniero, I canti di protesta, in “Il contemporaneo”, Roma, 1960-1961; 1. Canti di Matteotti, n. 23, marzo 1960; 2. I canti anarchici, n. 25/26, maggio-giugno 1960; 3. L’inno dei lavoratori, n. 29, settembre 1960; 4. Giovinezza, n. 32, dicembre 1960/gennaio 1961; 5. Contro la “grande guerra”, n. 37, giugno 1961. Felice Liperi, Storia della canzone italiana, Roma, Rai-Eri, 1999. Franco Lucà, FolkClub. Da Cantacronache a Maison Musique passando per l’Italia, Genova, Liberodiscrivere, 2006. Dora Marucco, “Operaia, non lasciare che decida solo il padron”, “Movimento operaio e socialista”, VI, 2, 1983. Stefano Pivato, La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana, Il Mulino, Bologna, 2002 Stefano Pivato, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Bari, Laterza, 2005 Alessandro Portelli, Tipologia della canzone operaia, “Movimento operaio e socialista”, VI, 2, 1983. Tito Saffioti, Enciclopedia della canzone popolare e della nuova canzone politica,Teti Editore, Milano, 1978 . Leoncarlo Settimelli, Il ‘68 cantato (e altre stagioni), Civitella in Val di Chiana, Ed. Zona, 2008 Leoncarlo Settimelli-Laura Falavolti, Canti anarchici, Roma, Samonà e Savelli, 1972. Leoncarlo Settimelli-Laura Falavolti, Canti socialisti e comunisti, Roma, Savelli, 1973. Gianluca Testani, Carlo Bordone, Oggi ho salvato il mondo. Canzoni di protesta 1990-2005, Roma, Arcana, 2006. Giuseppe Vettori (a cura di), Canzoni italiane di protesta (1794-1974), Roma, Newton Compton, 1974. 160


Note e discussioni

1. Il Nuovo Canzoniere Italiano nasce nel 1962, a opera di Roberto Leydi e Gianni Bosio, e produce una rivista, una collana discografica e spettacoli. Cfr. Cesare Bermani (a cura di), Il Nuovo Canzoniere Italiano, Milano, Mazzotta, 1979; Cesare Bermani, Una storia cantata. 1962-1997: trentacinque anni di attività del Nuovo Canzoniere Italiano/ Istituto Ernesto de Martino, Milano, Istituto Ernesto de Martino/Jaca Book, 1997. 2. Si veda, fra i tanti, alcuni canti della Grande guerra come Addio padre e madre addio (R. Leydi Canti sociali italiani, Milano, Edizioni Avanti!, 1963; pp. 368-70) o Cara mamma ti saluto (F. Castelli, Ballate d’amore e d’ironia. Canti della tradizione popolare alessandrina, Alessandria, Il Quadrante, 1984; pp. 137-38) o del repertorio di monda, come O cara mamma vienimi incontra (R. Leydi, Roberto Leydi Canti sociali italiani, 1973; pp. 322-23). 3. Per una vivace descrizione delle polemiche suscitate dal canto, si veda Giovanna Marini, Una mattina mi son svegliata. La musica e le storie di un’Italia perduta, Milano, Rizzoli, 2005; pp. 161-73. 4. Registrato da Bruno Pianta dai fratelli Bregoli di Pezzaze, il 17 aprile 1974, in R. Leydi-B. Pianta (a cura di), Brescia e il suo territorio, Mondo popolare in Lombardia, 2 voll., Milano, Silvana editoriale, 1976; pp. 11112. Questo canto è stato raccolto e pubblicato dopo la composizione del testo di Della Mea, e non fa che confermare la sensibilità dell’autore, perfettamente in sintonia con lo stile popolare. Questa volontà politica di immergersi e farsi cultura proletaria induce in alcuni settori dell’extrasinistra, ad una identificazione mitica e ideologica che porta a scrivere sotto il testo di alcune canzoni: “parole e musica del proletariato”. 5. Scritte nei Quaderni del carcere e pubblicate in A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950. 6. “Proporsi di andare verso il popolo è in sostanza confessare una cattiva coscienza. Ora, noi abbiamo molti rimorsi ma non quello di aver mai dimenticato di che carne siamo fatti”: così scriveva Cesare Pavese nell’articolo Ritorno all’uomo, su “L’Unità” di Torino, 20 maggio 1945. Vedilo in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1962. 7. È curioso notare come allo stesso anno 1948 si faccia risalire l’invenzione dell’elaboratore elettronico: memoria “artificiale” che si affianca

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allo strumento che recupera su banda magnetica la memoria “naturale” della tradizione popolare orale. 8. Cfr. G. Bosio, L’intellettuale rovesciato, Milano, Edizioni Bella Ciao, 1975. 9. Ernesto de Martino, “Il Calendario del popolo”, n.7, 1951, p. 989. Dall’estate del 1951 al maggio 1952 de Martino avvia una serie di ricerche che svolgerà direttamente o attraverso propri incaricati in EmiliaRomagna intorno ai temi del folklore progressivo, ma che influenzeranno anche la sua riflessione sulla poesia dialettale e il “teatro di massa”. A tali ricerche fanno riferimento due articoli pubblicati sulla rivista “Emilia”, nel settembre 1951 e nel maggio 1952 e due articoli pubblicati sul “Calendario del popolo” nel novembre 1951 e nel febbraio 1952. 10. Cfr. Gianni Borgna, La grande evasione. Storia del Festival di Sanremo: 30 anni di costume italiano, Roma, Savelli, 1980. 11. A cura di alcuni Cantacronache (Lionello Gennero, Emilio Jona, Sergio Liberovici, Michele Straniero) sulla rivista “Il Contemporaneo” (Roma) compare nel 1960-1961 una serie di articoli dal titolo I canti di protesta: Cante di Matteotti, n. 23, marzo 1960; I canti anarchici, 25/26, maggio-giugno 1960; L’inno dei Lavoratori, n. 29, settembre 1960; Giovinezza, n. 32, dic.1960/gen. 1961, pp. 146-151; Contro la “grande guerra”, n. 37, giugno 1961. 12. Sono tre i dischi 33 giri/17 cm che riportano canti popolari e popolareschi di contenuto politico-sociale, soprattutto del periodo 1890/1920, parte in registrazioni originali, parte in nuove esecuzioni. 13. S. Liberovici, Cantacronache, in Almanacco socialista 1961, Milano, Edizioni Avanti!, 1961; p. 386. 14. Risposte su Canzone e poesia. Intervista a Franco Fortini, in Lorenzo Còveri (a cura di), Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana, Novara, Interlinea, 1996, p. 55. Le strofette cui allude Fortini vennero pubblicate col titolo La marcia della pace, nel disco di Maria Monti, Le canzoni del no, a cura di R. Leydi, Dischi del Sole, DS 24 (1961). 15. È il sottotitolo del volume a cura di E. Jona e M.L. Straniero, Cantacronache, Torino, DDT e Scriptorium Associati, 1995. 16. È il titolo del volume edito da Bompiani nel 1964 e scritto a più mani da alcuni esponenti del gruppo (Straniero, Jona, Liberovici, De Maria) sull’industria della canzone in Italia.

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17. E. Jona e M.L. Straniero, Cantacronache, cit.; p. 131. 18. Ivi; pp. 162-63. Si veda il testo in Appendice, 3. 19. Ivi; pp. 162-63. 20. Ivi; pp. 222-23. 21. Ivi; pp. 119-20. Interpretata da Enzo Jannacci nello spettacolo 22 canzoni, a cura di Dario Fo, 1964. 22. Ivi; p. 192. 23. Ivi; p. 194. 24. Ivi; pp. 95-96. Si veda il testo in Appendice, 4. 25. Ivi; , pp. 116-17. 26. Cfr. G. Straniero, M.Barletta, La rivolta in musica. Michele L. Straniero e il Cantacronache nella storia della musica italiana, Torino, Lindau, 2003. 27. È proprio Straniero che a Spoleto 1964, cantando la strofa più violenta di Gorizia (“Traditori signori ufficiali”) fa scoppiare il “caso” su tutta la stampa nazionale. Cfr. “Il Nuovo Canzoniere Italiano”, 5, febbraio 1965, pp. 62-67. 28. Vol. I, Edizioni Avanti!, Milano, 1963. Nella nota introduttiva, Bosio e Leydi scrivono: “il canto sociale rappresenta il momento di base del ‘folklore’ nell’età in cui le masse popolari acquistano coscienza e si autofigurano nel proletariato sia contadino che urbano. Dalla dissoluzione della civiltà tradizionale, legata a una società popolare [...] in sostanza costretta dalle strutture economiche e sociali [...] a una condizione di rassegnata accettazione di uno stato di cose ingiusto, nasce il nuovo ‘folklore’ che trova appunto il suo momento più compiuto nel canto sociale e politico”. 29. Nato nel 1923 e morto ancor giovane nel 1971. 30. Si veda, nel già cit. libro di Giovanna Marini, Una mattina mi son svegliata, la Parte seconda, dal titolo L’ipotesi di lavoro di Gianni Bosio, pp. 139 ss. 31. Si veda la ricerca microstorica di Bosio sulla propria comunità d’origine, iniziata negli anni Cinquanta e rimasta incompiuta, Il trattore ad Acquanegra, pubblicata postuma a cura di Cesare Bermani, Bari, De Donato, 1981. 32. Luigi Lombardi Satriani, Il folklore come cultura di contestazione, Messina, Peloritana, 1966, cui fanno seguito Folklore e profitto nel 1973 e Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna nel 1974

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(entrambi Firenze, Guaraldi). 33. Titolo del saggio apparso in “Problemi”, marzo-aprile 1968, n. 8, ora in A.M. Cirese, Folklore e antropologia tra storicismo e marxismo, Palermo, Palumbo, 1974. Cfr. sull’argomento Pietro Clemente, Maria Luisa Meoni, Massimo Squillacciotti, Il dibattito sul folklore in Italia, Milano, Edizioni di Cultura Popolare, 1976. 34. In questo senso l’esperienza di Bosio si pone a fianco di quelle di Danilo Montaldi e dei “Quaderni Rossi”. Si veda in proposito Stefano Merli, L’altra storia: Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra Milano, Feltrinelli, 1977. 35. “Il buon storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda”. M. Bloch, Apologia della storia o il mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1998; pp. 22-23. 36. C. Bermani, C. Longhini Bosio, Nota introduttiva a L’intellettuale rovesciato, cit.; pp. 5-6. 37. G. Marini, Una mattina mi son svegliata, cit.; p. 63. 38. Sergio Boldini, Il canto popolare strumento di comunicazione e di lotta, Roma, ESI, 1975. 39. Il modello è statunitense, come il folk festival di Newport, dove nel 1963 Phil Ochs, Bob Dylan e altri avevano fatto propria la causa dei neri cantando contro i “signori della guerra”e protestando contro gli abusi del capitalismo americano. Cfr. le antologie in disco Folk Festival 1,Torino 35 settembre 1965, Dischi del Sole, DS 125/27/CL (1966); Folk Festival 2, Dischi del Sole, DS 176/78 (1967). 40. Sponsorizzata da un discografico attento (Giulio Rapetti in arte Mogol), ancorché criticata da cantautori seri come Sergio Endrigo e Luigi Tenco, la “Linea Verde” durò meno di un anno ed ebbe persino un contraltare in una fantomatica “Linea gialla” in difesa del disimpegno e critica verso i “capelloni” e il movimento beat. 41. Dal 1967 al 1974 sono 21 i dischi 45 giri della serie Linea Rossa, che annovera tra i suoi interpreti Assuntino, Balestreri, Bertelli, Canzoniere Popolare Veneto, Ciarchi, Daffini, Della Mea, Marini, Pietrangeli, Ronchini, Straniero. 42. Vedi ne I dischi del Sole: Canzoni per il Potere Operaio, DS 67 (1967), Quella notte davanti alla Bussola, DS 69 (1968). 43. Cfr. le due canzoni riportate da Marucco 1983: una del Cotonificio Valle Susa, 1961, l’altra dell’Alpina di Torino, 1968.

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44. Si veda al riguardo nel volume di Boldini 1975 (pp. 155 ss.) e in Vettori 1974, i nn. 199, 200, 206, 219. 45. Spettacolo La grande paura. Settembre 1920. L’occupazione delle fabbriche, da cui il disco Le canzoni de “La grande paura”, Dischi del Sole, DS 1000/2, su materiale raccolto da C. Bermani, G. Bosio e F. Coggiola. 46. La ricerca sul campo condotta da Coggiola, Schwamenthal e Castelli portò alla registrazione di 134 nastri per più di 200 ore di ascolto. 47. Domani Alessandria ieri, oggi noi, spettacolo del Nuovo Canzoniere Italiano a cura di Franco Coggiola, con Michele Straniero, Luisa Ronchini, Gianni Ghè, Policarpo Lanzi, Carlo Siliotto. 48. La manifestazione avrebbe dovuto tenersi in piazza della Libertà ma si era poi scelto il “Vivaldi” a causa del maltempo. Malgrado ciò il pubblico fu numerosissimo come documenta il servizio fotografico sul Piccolo del 26 giugno 1968. 49. Vedi testo e brani del dibattito seguito alla relazione, su “Il Nuovo Canzoniere Italiano”, 9-10, novembre 1968. 50. Ivi; pp. 7-8. 51. Ivi; p. 11. 52. Associazione culturale costituitasi con atto del notaio Parodi in Alessandria, 18 febbraio 1969. Vedine lo statuto sul “Piccolo” di Alessandria del 23 marzo 1969. 53. Cfr. l’articolo di chi scrive in 60 Anni di Festa de “l’Unità” in provincia di Alessandria, Villanova Monferrato, Diffusioni Grafiche, 2005; pp. 27-31. 54. Compresa, pur nelle tante analogie, quella di un Cesare Bermani, “storico scalzo” (così ci si definiva polemicamente negli anni Settanta) che si racconta nel saggio Esperienze politiche di un ricercatore di canzoni nel Novarese, sulla rivista “Il Nuovo Canzoniere Italiano”, 4, 1964 (ora in C. Bermani, “Guerra guerra ai palazzi e alle chiese…”. Saggi sul canto sociale, Roma, Odradek, 2003; pp. 275-94). 55. Eseguita da Giovanna Marini nel disco 33/17 dei Dischi del Sole, DS 36, Ho letto sul giornale, poi riproposta dallo stesso Della Mea, col titolo Lettera di Chaim, nel LP Se qualcuno ti fa morto (1972). 56. Centro Regionale Etnografico Linguistico fondato da Franco Lucà e attivo a Rivoli presso la Maison Musique. Cfr. Lucà 2006. 57. Castelli-Jona-Lovatto 2005 e Jona-Liberovici-Castelli-Lovatto 2008.

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58. Questo era, tra l’altro, il tema di un recente incontro su Canzone sociale e mondo globale, organizzato da Sandra e Mimmo Boninelli a Ponteranica (BG), 21 marzo 2009, in cui incontrai per l’ultima volta Ivan della Mea. 59. Sulla cultura musicale delle Feste dell’Unità, cfr. Stephen Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca. La sfida della cultura di massa, Firenze, Giunti, 1995. 60. Mentre i canali “ufficiali” (e non solo quelli) ignorano totalmente il patrimonio e la storia della canzone “alternativa”, si segnala la positiva presenza in rete di alcuni siti (come Il Deposito, ildeposito.org e “Canzoni contro la guerra”, antiwarsongs.org) che si propongono di valorizzare e riproporre il patrimonio (o alcuni filoni) della canzone di protesta. 61. “Ma dov’è finita questa classe? Dove è finito il proletariato incazzato, oggi che gli operai continuano a morire di morti bianche, e le fabbriche chiudono una dopo l’altra? Con chi si aggregano oggi, i contadini che devono schiacciare con le ruspe i loro prodotti e sono, al Sud, sempre sotto la minaccia della mafia? Che è successo? Ai ragazzi che avevano fatto politica furono offerte negli anni Settanta alternative allettanti, basta guardare com’è finito il brillante quadro dirigente di Lotta Continua. Il berlusconismo ha cominciato a dare i suoi frutti”. G. Marini, Una mattina mi son svegliata, cit.; p. 215. 62. Dall’intervento di Luca Ferrari al forum 1968-2008: la contestazione in Italia, ventesima edizione del Busker Festival di Pelago (Fi) (cito dal sito web dell’autore). 63. F. Castelli, Che ne è del canto popolare oggi?, in “Quaderno di storia contemporanea”, n. 34, 2003; pp. 99-117. 64. Materiale Resistente, album realizzato in occasione delle celebrazioni del 50° della Resistenza durante una festa-concerto promossa dal Comune di Correggio, con la partecipazione di Modena City Ramblers, Officine Schwartz, Rosso Maltese, Yo Yo Mundi, Acid Folk Alleanza, Ustmamò (1995). 65. Istituto Ernesto de Martino, Avanti popolo, due secoli di canti popolari e di protesta civile, 12 fascicoli con CD allegati, Casa Ricordi - BMG Ricordi Spa, Hobby & Work , Alabianca, 1998. 66. Il fischio del vapore, Caravan, Sony Music, COL 510218 2 (2002): 14 brani (10 tradizionali, 4 d’autore), disco lanciato con grande battage pub-

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blicitario, ha incontrato un inatteso successo di pubblico ma ha diviso la critica. 67. Cesare Bermani, Il decollo della ricerca sui canti sociali italiani, relazione al convegno internazionale del Laboratorio Etnoantropologico di Rocca Grimalda 2003, L’albero dei canti (in corso di stampa). 68. L’etichetta I Dischi del Sole pubblicherà, fino al 1980, ben 276 LP. Alla fine degli anni ‘90 il catalogo è stato acquistato da Ala Bianca (etichetta distribuita dalla EMI Italiana), che ha ristampato in CD moltissimi degli LP della casa discografica. La sua storia è raccontata nel documentario I Dischi del Sole, diretto dal regista Luca Pastore (2004). 69. “Torino, la Germania, la banlieue parigina, Milano (con accento terrone): posti dove si va a lavorare. Dove si va a morire di lavoro. Dove va l’operaio Gerolamo, che è tutti gli operai, che è tutti gli immigrati, che è tutti i sud. Che è tutti i ritmi di lavoro uguali, ossessivi, disumani. Che è tutta la fabbrica dell’abbondanza e dei miracoli altrui. Che è tutta quella cosa che si chiamava comunanza, e che a volte si chiamava pure lotta di classe. Che è tutta la solitudine della produzione per il padrone. Che è la stanchezza della sera. Il sole s’alza e poi cala; l’operaio Gerolamo è ovunque. Ancora” (dal sito web Canzoni contro la guerra). Vedi il testo in Appendice, 16. 70. Canzone apparsa prima in 45 giri, poi nell’album Enzo Jannacci, Quelli che...(1974). Vedi il testo in Appendice, 15. 71. Ivan Della Mea, La Cantagranda, sull’aria della ballata Gli anelli (“Prinsi Raimund”), relazione cantata al convegno “Musiche contro: la canzone di protesta in Italia, da Cantacronache a oggi”, Sesto Fiorentino, mattina del 31 maggio 1997. In “Il De Martino”, n. 7, 1997; pp. 31-32.

Not e a p p en di c e 1. G. Vettori, Canzoni italiane di protesta (1794-1974), Roma, Newton Compton, 1974; n. 58, pp. 104-05. Il testo proviene dalla ricerca sui canti operai torinesi: Jona-Liberovici-Castelli-Lovatto 2008, pp. 405-08. La testimone Anna Bertolina fa risalire il canto agli scioperi del 1906 con cui si rivendicavano le dieci ore di lavoro. 2. G. Vettori, Canzoni italiane di protesta cit.; n. 59, pp. 105-06. Il canto

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si riferisce probabilmente agli scioperi del 1907 delle acciaierie di Terni. 3. Registrata nel primo disco Cantacronache sperimentale, EP 45/CS, segnalato con Premio Viareggio 1958. Il disco (copertina di Lucio Cabutti e Lionello Gennero, presentazione di Massimo Mila) conteneva 4 canzoni eseguite da Franca Di Rienzo: Colloquio con l’anima di Emilio Jona, Canzone triste e Dove vola l’avvoltoio? di Italo Calvino, Ad un giovine pilota di Giorgio De Maria. Cfr. Jona-Straniero 1995; p. 131. 4. E. Jona, M.L. Straniero (a cura di), Cantacronache, un’avventura politico-musicale degli anni Cinquanta, Torino, DDT & Scriptorium Associati; pp. 95-96. Canzone composta nella primavera 1962, a sostegno della lotta degli operai della Lancia e della Michelin di Torino, impegnati in scioperi a oltranza (25 giorni alla Lancia, due mesi alla Michelin). 5. Satira al nuovo paternalismo padronale, da una poesia-canzone di Mario Lodi, su un’aria popolare toscana (trescone Levatevi dal sonno o ’briaconi); in “Il Nuovo Canzoniere Italiano” 6, sett. 1965; p. 35. 6. G. Vettori, Canzoni italiane di protesta cit.; n. 174; pp. 248-49; eseguita prima su 45 g. Dischi del Sole DS 206, poi su LP Addio Venezia addio, DS 173/75. 7. G. Vettori, Canzoni italiane di protesta cit.; n. 152, p. 213. Dal disco Canzoni per il Potere operaio, Dischi del Sole DS 67; inserita nello spettacolo di Dario Fo, Ci ragiono e canto n. 2 e nel repertorio di Giovanna Marini (Controcanale ’70). 8. G. Vettori, Canzoni italiane di protesta cit.; n. 148; pp. 209-10. Scritta in occasione della prima occupazione studentesca dell’università a Roma, in seguito all’assassinio da parte fascista di Paolo Rossi, la canzone divenne tra le più eseguite durante il Maggio del Sessantotto. Disco Mio caro padrone domani ti sparo, , Dischi del Sole, DS 197/99 (1969). 9. G. Vettori, Canzoni italiane di protesta cit.; n. 153, pp. 213-14. Dal disco Canzoni per il Potere operaio, Dischi del Sole DS 67. 10. Testo scritto nel ‘69, durante l’autunno caldo, su sollecitazione di delegati di reparto della FIAT che militavano nel PSIUP. Inciso in Due canzoni sindacali di F. Amodei per l’autunno caldo, 45 giri, Dischi del Sole DS 210; Avanti popolo: Compagni dai campi e dalle officine CD. 11. G. Vettori, Canzoni italiane di protesta cit.; n. 181. Dal disco Fabbrica Galera Piazza, Dischi del Sole DS 1039/41, ma incisa primariamente dal suo autore in un 45 giri di Lotta Continua (LC 1) con la dicitura “parole e musica del proletariato”.

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12. Disco 33 giri/17 cm Le mani a te padrone, io no, non te le bacio, Ed. PCI, Reggio Calabria, 1973. 13. G. Vettori, Canzoni italiane di protesta cit.; p. 297. Disco 45 giri di Lotta Continua, LC 4. 14. G. Vettori, Canzoni italiane di protesta cit.; pp. 297-98. Disco 45 giri edito in proprio da Potere Operaio (voce solista Oreste Scalzone). 15. Contenuta nella colonna sonora del film di Mario Monicelli, Romanzo popolare (1974), poi nell’album Enzo Jannacci, Quelli che... (Ultima spiaggia, 1974), è un omaggio sentito e commosso all’umanità proletaria. 16. Dall’ album Lucio Dalla, Il giorno aveva cinque teste, RCA, 1973.

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Franco Castelli, “Compagni dai campi e dalle officine”. Appunti sul canto sociale

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Cercare acqua e trovare petrolio. I corsi 150 ore delle donne

Graziella Gaballo

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A seguito del contratto dei metalmeccanici del 1973 furono istituiti dei corsi per lavoratori, noti come corsi delle 150 ore, che prevedevano – appunto – 150 ore di tempo lavorativo retribuite dalle aziende per permettere ai dipendenti di migliorare la propria istruzione, a patto che i corsi stessi (non necessariamente finalizzati alla formazione professionale) durassero almeno il doppio del tempo pagato dalle imprese. Si trattava di una conquista decisamente importante e, a suo modo, rivoluzionaria: basti pensare che, precedentemente, nei contratti di categoria esistevano unicamente delle facilitazioni per lavoratori studenti; in particolare, prima del 1970 erano previsti solo l’esonero dal lavoro straordinario e dal lavoro festivo per i frequentanti corsi serali o festivi, e la possibilità di ottenere permessi per sostenere gli esami finali.

I corsi 150 ore All’origine della richiesta e dell’istituzione delle 150 ore, c’era la FLM – Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici in cui erano raggruppate in modo unitario FIOM CGIL, FIM CISL e UILM UIL – nata nell’ottobre 1972 e vissuta, di fatto, come un sindacato nuovo. Essa, in tal modo, coglieva e sottolineava la concordanza tra l’incisività delle lotte studentesche e quelle degli operai 1, e cercava 170


di dar vita a un fertile rapporto, non puramente solidaristico, tra scuola e società, incentrato sulla battaglia contro la falsa neutralità dell’organizzazione scientifica del lavoro e sulla ricomposizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale 2. Il tutto va inserito in un contesto in cui operano varie sinergie: la sfida della scolarizzazione di massa, il dibattito sulla “scuola di classe”, il disagio (o rifiuto) nei confronti del sapere tradizionale e, fertile retaggio del Sessantotto, la cultura dei movimenti. E va sottolineato che, se il fenomeno dell’istruzione degli adulti è tra gli elementi qualificanti la rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta del Novecento 3, questa particolare esperienza italiana presenta un “di più”, dovuto al fatto che non si trattava semplicemente di una scuola per adulti, ma di un esperimento culturale gestito in prima persona dalle avanguardie del sindacato, che avocarono a sé la scelta di obiettivi e di metodi di studio, contrattarono con lo Stato i riconoscimenti formali per i programmi di studio, formarono gli insegnanti. Non quindi solo un processo di acculturazione finalizzato alle esigenze del mercato del lavoro, ma un serio tentativo di riappropriazione e cambiamento della cultura, della sua destinazione, del suo uso, del suo senso, con alla base, anzi tutto, una forte carica democratica: la rivendicazione di un diritto, la speranza di un riscatto 4. Inizialmente, la priorità era data all’acquisizione, da parte di tutti i lavoratori, del diploma della scuola dell’obbligo e al recupero delle abilità strumentali di base, portato avanti nei corsi di alfabetizzazione. Si ottenne che lo Stato mettesse a disposizione le scuole pubbliche per ospitare i corsi, pomeridiani o serali, e riconoscesse il programma presentato dal sindacato, attribuendo alle prove finali dei corsi il valore equivalente al diploma ufficiale della scuola. Nei soli primi due anni ne usufruirono centomila metalmeccanici, seguiti ben presto da altre categorie di lavoratori e da disoccupati e casalinghe. Un importante elemento innovativo e qualitativo delle 150 ore fu però l’utilizzo del monte ore, inteso come un momento collettivo di riappropriazione e gestione della scuola da parte dei lavoratori, contro le tentazioni di un uso individualistico della propria 171

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formazione, ad esempio finalizzato alla carriera: si insisteva soprattutto sulla centralità della ricerca, della discussione collettiva, del lavoro di gruppo, dello stretto rapporto studenti/docenti per la programmazione didattica, per la scelta dei contenuti e la gestione del corso. Tutto questo determinò un momento di rottura e di innovazione in campo didattico, con importanti ricadute anche sulla “scuola del mattino”. C’erano, da una parte, gli studenti con una domanda di strumenti, linguistici e matematici soprattutto (saper leggere la busta paga, saper affrontare e produrre un testo scritto) e, dall’altra, gli insegnanti, che ricercavano riferimenti teorici e modalità operative funzionali alla novità dell’esperienza messa in campo: bisognava decidere quali contenuti privilegiare, come riuscire a valorizzare le risorse dei corsisti, come condurre le lezioni (compresenze, lavori di gruppo, ecc.). Il sindacato organizzò perciò appositi corsi di formazione, in collaborazione con gli allora provveditorati o con altri enti qualificati, consapevole del fatto che non bastavano entusiasmo e una generica disponibilità, ma che ad essi dovesse affiancarsi anche una preparazione particolare. E, per sostenere adeguatamente questo modo nuovo di “fare scuola” venne coinvolto anche il mondo accademico con la richiesta all’Università di fornire un supporto scientifico a tale organizzazione dello studio, partendo dalle domande e dalle esigenze dei lavoratori. Ciò comportò non solo un cambiamento interessante del metodo ma anche degli strumenti didattici; si lavorava in équipe, si elaboravano e producevano i materiali didattici, c’era il rifiuto del libro di testo, sostituito dalla predisposizione di materiali specifici e dalla costituzione di biblioteche di corso. E non è certo un caso che sia nato proprio in quegli anni un ricco filone dell’editoria legato alla didattica 5.

I corsi monografici Un aspetto di grande interesse in questa esperienza furono i corsi monografici, non aventi come scopo un titolo di studio. Se 172


il conseguimento di un diploma era una via individuale di emancipazione, infatti, le 150 ore venivano invece concepite come finalizzate alla costruzione di una cultura condivisa; la finalità di questi corsi, cioè, non riguardava più una appropriazione privata del sapere, ma si trasformava in conquista collettiva a favore di una classe sociale che in quegli anni aspirava a diventare, da classe subalterna, classe dirigente. I primi corsi erano frequentati soprattutto da operai e delegati sindacali e avevano al proprio centro la centralità della fabbrica; ma, quando si moltiplicarono e diffusero sul territorio, i gruppi di interesse si ampliarono e si aprirono anche a nuovi soggetti, iniziando ad aggregare persone esterne alla fabbrica, fra cui donne, lavoratrici e casalinghe. E ciò costituiva un riconosciuto valore aggiunto; come si disse, sarebbe come restare delusi se, scavato un pozzo d’acqua, si trova il petrolio.

I corsi delle donne Furono soprattutto questi corsi monografici a conoscere una forte partecipazione femminile, tanto che se ne attivarono molti rivolti esplicitamente alle donne, su tematiche specifiche, che ruotavano attorno ai contenuti della loro esperienza concreta: la condizione lavorativa, la famiglia, la salute. Le donne individuarono infatti in questo strumento una straordinaria opportunità di formazione, ma soprattutto un’occasione di incontro e di felice e fertile contaminazione tra la cultura ufficiale e quella elaborata dal movimento femminista nel corso degli anni precedenti. E il “separatismo” trasportato dalla pratica dei collettivi femministi ai corsi 150 ore, segnava, come osserva Elda Guerra, uno scatto di metodo: “era il partire da sé, dal racconto del proprio vissuto e delle proprie esperienze rispetto al lavoro, alla famiglia, alla sessualità, alla maternità. L’allontanamento dallo sguardo maschile ne diveniva 173

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così un presupposto non solo per la maggiore facilità insita nel “parlare” tra donne, ma proprio per creare uno spazio altro non segnato da quello sguardo” 6. Le motivazioni della forte partecipazione femminile a questa esperienza vanno ricercate nella possibilità di migliorare la propria condizione di lavoro o di venir fuori da uno stato di non lavoro, oppure ancora, in quella, molto sentita, di acquisire strumenti per poter meglio seguire i propri figli a scuola; era forte l’esigenza di accrescere la propria cultura personale e di uscire da una condizione di subalternità e inferiorità culturale, dando avvio a un processo di emancipazione. I corsi erano inoltre vissuti come momento di crescita, in uno spazio per sé, fuori dall’isolamento delle mura domestiche; incontrare altre donne con cui confrontarsi significava anche poter valorizzare le proprie potenzialità, acquistare autonomia e fiducia in se stesse, dedicarsi del tempo. Un ciclostilato in proprio prodotto dal corso 150 ore presso la scuola media di via Gabbro a Milano 7 – una delle tante raccolte di scrittura che furono prodotte dai corsi dove si sperimentò un lavoro tra donne basato sull’intreccio tra vita e cultura – era significativamente intitolato Più polvere in casa meno polvere nel cervello. D’altra parte, erano quelli anche gli anni in cui, passato il periodo “claustrale” dell’autocoscienza stretta, lo stesso movimento femminista cercava sbocchi di maggiore visibilità sociale, contatti con donne d’altre esperienze, classe, storia: questi corsi divennero perciò luogo privilegiato di incontro fra donne separate in precedenza da differenze culturali e sociali. Lo scambio era nelle due direzioni: le docenti erano alla ricerca di una professionalità che esprimesse anche delle scelte politiche – alcune insegnanti dei corsi “150 ore” erano femministe; altre furono conquistate proprio dalla potenza delle storie individuali di donne tanto diverse –, le corsiste volevano capire meglio e dotarsi di strumenti culturali per tentare di cambiare un percorso di vita segnato. Ed era chiaro che quel luogo collettivo, dove lo studio si accompagnava alla festa – si studiava ma anche si mangiava 174


insieme, si cantava, si ballava – e dove si partiva spesso dalle storie personali, non solo come momento propedeutico a collegare esperienza di vita e cultura, ma anche come modo per partire da sé (metodo che aveva costituito il nucleo forte dell’autocoscienza nei piccoli gruppi) salvava da solitudini profonde, dava voce a sofferenze prima mai espresse o mai ascoltate, diventava costruzione di nuovo senso e nuova vita: luogo sociale di un’esperienza individuale e condivisa. Il sindacato, come organizzatore culturale e valore di riferimento, era sempre più ai margini o sullo sfondo e il corso si costruiva intorno a un rapporto solidale tra donne, insegnanti comprese. Significativa, ad esempio, la storia di due donne milanesi, Emilia e Amalia, frequentanti appunto un corso di 150 ore e dove Amalia, dopo aver sentito più volte raccontare da Emilia la propria storia, decide di scriverla e di fargliene dono, restituendole, con il proprio sguardo identità e unicità; significativa, perché dà conto di quella rivoluzione simbolica della rappresentazione di sé e delle proprie simili in rapporto al mondo 8. E non casualmente, quindi, mentre gli operai, una volta terminato il corso, se ne andavano, diventavano sindacalisti o membri degli organismi di quartiere, tornavano al lavoro politico e di fabbrica, le donne, soprattutto le casalinghe, si ripresentavano, magari anche per ri-frequentare lo stesso corso dell’anno precedente, perché si rifiutavano di abbandonare quello spazio dove si lasciavano parlare le vite.

Le esperienze di Torino e di Genova In tutta Italia, tra il 1975 e il 1981 questi corsi, con diffusione soprattutto al nord, ma presenti in tutte le aree del paese, coinvolsero circa 15.000 donne 9. I primi a carattere monografico furono organizzati nel 1975 a Milano e a Torino e ruotavano intorno a tre soggetti diversi: le donne impegnate nel sindacato, cui spettava il compito di organizzare e coordinare; le docenti o “esperte”; le corsiste. Ma le esperienze di riferimento per la nostra pro175

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vincia furono soprattutto quella di Torino e quella di Genova. A Torino 10, il primo corso monografico delle 150 ore “sulla condizione della donna e l’occupazione femminile” venne organizzato all’Università nel 1974, curato da Anna Bravo (Istituto di storia moderna, presso la Facoltà di magistero) e Maria Clara Rogozinsky (Facoltà di scienze politiche) e aveva tra i suoi obiettivi anche quello della formazione di quadri sindacali femminili. Ma, nel marzo del 1975, un gruppo di delegate e lavoratrici delle grandi fabbriche e dei servizi, dissentendo dall’impostazione del corso, decise di riunirsi settimanalmente nella sede della CISL per affrontare i nodi dell’emancipazione femminile e diede vita, ad aprile, all’“Intercategoriale delle delegate CGIL-CISL-UIL di Torino”: di qui hanno inizio nelle sedi sindacali riunioni femminili separate, per cui non valevano più le classiche divisioni sindacali per organizzazione, categoria, componente. Il gruppo si proponeva, in particolare, di affrontare e analizzare, come movimento sindacale, gli aspetti specifici della condizione delle donne sul lavoro; oltre alle questioni di metodo (creare dei “nuclei di lega” per portare avanti il dibattito in maniera decentrata e promuovere assembleee nelle fabbriche a prevalente manodopera femminile) 11, proponeva alla discussione quattro temi: l’organizzazione del lavoro, la nocività, i servizi sociali e l’occupazione femminile in Piemonte. All’interno di questo contesto le 150 ore diventarono negli anni successivi luogo di incontro tra femministe, operaie, impiegate e studentesse e insieme di presa di coscienza e di organizzazione 12; in esse si intrecciano, di fatto, due diversi percorsi: da una parte quello delle donne provenienti da una militanza sindacale consolidata, cui il femminismo offriva strumenti per una diversa lettura della realtà, anche di quella sindacale e, dall’altra, quella di donne con biografie meno definite – operaie, casalinghe, disoccupate – che erano rimaste estranee o ai margini della prima fase del femminismo e che, coinvolte in questa esperienza, iniziarono a prendere la parola 13. E così, dopo tre anni (dal 1975 al 1977) di seminari “sulla condizione della donna”, le compagne di Torino lanciarono un corso di 150 ore su un altro tema, quello della salute, svoltosi in colla176


borazione con la Facoltà di medicina e con il Coordinamento dei consultori. “Non ci sentiamo più di riproporre un corso di 150 ore sulla condizione della donna generico. Vogliamo costruire un rapporto meno episodico con la pratica del movimento delle donne” recitava un volantino del 5 ottobre 1977, dal titolo 150 ore Donne gestiamoci insieme la salute! 14: la proposta raccolse 1.300 adesioni; le iscritte furono distribuite in 64 corsi e tutto il dibattito fu registrato e trascritto in quaderni 15. Tra i suoi obiettivi, questo seminario si proponeva anche quello di incidere sulla realtà, modificandola, ed era perciò strutturato in due parti: una prima fase di autocoscienza e di analisi e una seconda che doveva servire per individuare obiettivi di modifica di alcune strutture, ma che finì con il coincidere con l’occupazione dell’ospedale Sant’Anna, indetta dal Coordinamento dei consultori, dall’Intercategoriale CGIL-CISL-UIL e dal Coordinamento 150 ore sulla salute della donna. L’esperienza di questa occupazione, che si protrasse dal 3 al 9 novembre 1978, esperienza unica, per l’ampiezza della partecipazione e per risultati, è particolarmente significativa e può essere legittimamente letta come un momento periodizzante, a partire dal quale il percorso delle donne si articolò lungo coordinate diverse, che andarono nelle direzioni sia dell’associazionismo di base sia del rapporto con le istituzioni 16. In questo contesto va collocata anche la costituzione a Torino di “Sindacato Donna”, per “una rappresentanza sociale di sesso, attraverso l’affermazione dell’autonomia e della contrattualità tra donne” 17, dove le idee portanti sono quelle della differenza come valore e del lavorare per l’attuazione delle politiche di pari opportunità donna-uomo contro le discriminazioni e le disuguaglianze nel mondo del lavoro, ma anche nel sindacato, per mettere in discussione il modo di lavorare, la divisione dei ruoli, la gerarchizzazione, gli orari. Punto di riferimento per la sperimentazione alessandrina fu anche l’esperienza di Genova, dove, a partire dal 1975 iniziarono a formarsi i Collettivi o Coordinamenti di fabbrica: all’Ansaldo di Campi, all’Italsider Oscar Sinigaglia, all’Italsider sede, all’Elsag, al 177

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Tubettificio Ligure, all’Italimpianti e in molti servizi (banche, sanità, enti locali) 18. Contemporaneamente iniziarono gli appuntamenti settimanali presso la sede provinciale della FLM: ogni venerdì alle diciotto decine di donne metalmeccaniche e di ogni altro settore di lavoro, incluse studentesse e casalinghe, si riunivano per elaborare documenti, progetti, linee di azione. Le donne fanno rete, da una fabbrica all’altra si incrociano strategie e pratiche messe in atto per coinvolgere tutte le lavoratrici, formulare delle proposte e confrontarsi efficacemente con il sindacato che si trova disorientato, è colto alla sprovvista e assume atteggiamenti ambigui – a volte contraddittori o addirittura apertamente ostili. “[…] scoprire che i lavoratotri hanno due sessi diversi e che fino a quel momento l’azione sindacale si è rivelata estremamente deficitaria (se non discriminatoria!) nei confronti della tutela di uno di essi, costituisce uno shock non da poco per i colleghi e i compagni delegati” 19. In molte aziende furono distribuiti i Questionari sociali e professionali delle lavoratrici – in cui si indagavano la condizione delle donne sul lavoro, il rapporto con la famiglia, le ore spese in lavori domestici, le influenze subite nella scelta degli studi, le aspirazioni, il desiderio e gli impedimenti rispetto alla realizzazione di sé nella professione, nella politica, negli affetti, nelle attività ricreative e culturali – e le piattaforme aziendali iniziarono a includere obiettivi proposti dai coordinamenti delle donne. Possibilità oggi utilizzate da tutti nacquero allora, non senza polemiche, sulla spinta delle donne della FLM: un esempio fu quello della introduzione dell’orario elastico, che costò alle donne della Italsider l’accusa di concentrarsi su obiettivi élitari che interessavano solo gli impiegati, e che all’Elsag dovette passare attraverso una votazione alle tre del mattino della delegazione trattante, per decidere se accettare o meno la disponibilità, finalmente conquistata, dell’azienda. Sulla spinta delle donne nacquero anche il Consultorio di Cornigliano e asili e strutture sociali in altri quartieri, pagati con il salario sociale delle fabbriche. Altri obiettivi di allora, quali quello di estendere ai padri il 178


diritto di assentarsi per malattia dei figli, di elevare il limite di età dei bambini per cui ciò era possibile, e di prevedere permessi anche per l’assistenza alle persone anziane, dopo un lungo cammino, fanno oggi parte della legge sui congedi parentali 20. Ma nelle piattaforme entrarono anche i temi della organizzazione del lavoro, della formazione, dell’avanzamento professionale e della salute delle donne. Parallelamente a tutto ciò, nasceva, appunto, anche l’istituzione delle 150 ore, con lo scopo di “leggere e analizzare dalla parte delle donne sia la cultura ufficiale, sia la propria esperienza, fino ad oggi oggetto dell’analisi altrui”. I corsi si svolgevano sia per gruppi ristretti (15-20 donne) che si riunivano in sedi decentrate (Cornigliano, Sestri Ponente, Genova Centro, etc.) sia per incontri collettivi presso le Facoltà universitarie. I primi due anni di seminari costituirono un momento iniziale di incontro, fondamentale per la formazione dei vari gruppi di lavoro che impararono in questo periodo a conoscersi, mettendo in contatto tra loro donne che provenivano da percorsi ed esperienze diverse di vita, lavoro, impegno politico e sociale. I titoli dei seminari disegnano quel percorso culturale e politico: il primo fu Il territorio delle donne che aveva come progetto quello di ricostruire, attraverso fonti orali, il rapporto tra le donne e il “loro” territorio, costituito da casa, scuola, famiglia, lavoro “[…] perché in quell’epoca all’interno dell’università, il territorio era uno dei temi su cui anche l’università lavorava [...]. Per cui, di fatto, questo voleva essere un modo diverso di affrontare un tema che all’interno di quella facoltà era presente” 21. Il Consiglio di facoltà bocciò questa proposta, ma la vicenda assunse subito risonanza nazionale poiché venne raccolta da giornali come “il manifesto” 22 e resa pubblica come episodio emblematico della resistenza da parte della cultura accademica a dare spazio e legittimare i corsi 150 ore; e alla fine, grazie alla combattività delle donne più che del sindacato, il corso si svolse e, anzi, venne reiterato anche l’anno seguente. Ad esso seguì poi un corso dal titolo Il nostro corpo che chiaramente riecheggia il titolo del libro Noi e il nostro corpo, sulla 179

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conoscenza e l’autogestione del corpo e della sessualità da parte delle donne, scritto dal Collettivo delle donne di Boston e tradotto e pubblicato in Italia tre anni prima. Anche questo seminario ebbe durata biennale, ma la sede si spostò in questa occasione dalla Facoltà di lettere a quella di medicina. Le partecipanti erano suddivise in nove sottogruppi che facevano riferimento alla dislocazione sul territorio non più delle sedi del sindacato, bensì di quelle dei consultori, istituiti di recente attraverso una legge nazionale 23. Seguirono Nascere, far nascere, svoltosi anch’esso presso la Facoltà di medicina, con tre gruppi decentrati – e in cui si ampliò il significato del “nascere, far nascere” a tutte le esperienze della vita: lavorare, creare opere d’arte, prendere coscienza della propria condizione storica, costruire la propria identità individuale e collettiva – e Prostituzione, in cui il tema venne approfondito attraverso letture collettive di saggi e di raccolte, quali Lettere dalle case chiuse (una raccolta di lettere scritte nei primi anni Cinquanta da alcune prostitute alla senatrice Merlin 24 e Donne di vita, vita di donne, un’antologia di interviste a prostitute degli anni Settanta, relative alle loro condizioni materiali di vita 25. All’interno del seminario venne inoltre organizzata anche una rassegna cinematografica – dal titolo Cinema Prostituzione – dedicata ad alcuni film che fornivano immagini e proponevano interpretazioni della prostituzione assai eterogenee tra loro. L’ultimo dei corsi separati, realizzati da e per le donne, fu quello del 1993, su Devianza femminile: prostituzione e criminalità, che si svolse sempre alla Facoltà di medicina, ma con il coinvolgimento di numerosi docenti di giurisprudenza per gli approfondimenti relativi alla parte di diritto penale e di antropologia criminale. Proseguiva intanto, parallelamente agli altri, il seminario Espressione corporea che ebbe un suo autonomo percorso alla ricerca di una nuova modalità espressiva attraverso la comunicazione non verbale e alla riscoperta del corpo, della sua espressività potenziale. Curioso, infine, un interessante esperimento legato all’esperienza di questi corsi di 150 ore delle donne; si trattava del tentativo di coinvolgere alcuni compagni sindacalisti – quelli che 180


avevano dimostrato maggiore apertura e interesse nei confronti della pratica delle donne nella conduzione dei gruppi – in una serie di riunioni organizzate sul modello delle 150 ore femminili: tentativo che si rivelò un autentico fallimento a causa delle resistenze maschili a mettersi in gioco.

In provincia di Alessandria Anche nella nostra provincia si istituirono corsi di questo genere, in tempi e su temi diversi. La prima esperienza è ad Alessandria, con un corso che si svolse nel 1975 sulla condizione della donna, organizzato da un gruppo molto ristretto, che di fatto raccoglieva quasi esclusivamente persone già impegnate in politica. Il seminario, che era uno dei primi di questo tipo a livello nazionale, risentì però molto degli scontri politici tra le varie componenti; lezione, questa, di cui fu fatto tesoro quando, l’anno seguente, se ne organizzò un altro analogo sullo stesso tema a Tortona. Qui, grazie anche ad un’opera di propaganda e sensibilizzazione, si ebbe un pubblico più ampio e più vario; ma, purtroppo, non fu possibile memorizzare gli incontri per lasciarne tracce, né continuare a incontrarsi in seguito.

Alessandria 1978: “La salute della donna” Nel 1978, di nuovo ad Alessandria, si svolse un altro corso, questa volta più seguito, sulla salute e sulla nocività nell’ambiente di lavoro – casa o fabbrica – e su quella del tipo di lavoro, ripetitivo e alienante, ritenuti temi in grado di coinvolgere direttamente tutte le donne. Questa esperienza sfociò nella preparazione collettiva e nella pubblicazione di un libro 26, segno di una volontà di divulgazione e del desiderio di estendere le proprie conquiste conoscitive anche ad altre donne e ad altre situazioni, costruendo un primo livello di memoria storica per se stesse e per le altre. Sulla scelta del tema, va notato come due convegni 181

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nazionali organizzati entrambi nel 1978 dalla FLM, sui corsi 150 ore delle donne 27, avessero messo in luce come molti corsi femminili, fra quelli fino ad allora avviati, avessero al proprio centro la questione della salute e si fossero interrogati anche sul dopo, cioè sulle iniziative che sarebbero seguite a questi seminari. Il corso alessandrino si svolse in collaborazione con la Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino e venne riconosciuto e “fiscalizzato” a Storia moderna, presso la Facoltà di magistero dell’Università di Torino: le docenti interessate erano Anna Bravo e Lucetta Scaraffia, mentre collaborarono alla sua realizzazione il collettivo delegate FLM, i collettivi femministi e l’UDI. Vi parteciparono soprattutto studentesse universitarie (16) e liceali (18), operaie (23), impiegate (9) e infine casalinghe (7): costante la frequenza delle prime, probabilmente anche perché gli incontri erano fiscalizzati e servivano per gli esami universitari, mentre le liceali videro di volta in volta diminuire il loro numero; assidue nella presenza le impiegate e le operaie – benché quest’ultime si fossero dichiarate poi in parte deluse dal fatto che al corso non fosse seguita, come loro speravano, un’immediata e efficace azione sindacale atta a migliorare le loro condizioni di lavoro –, più discontinua, infine, probabilmente anche per motivi familiari la frequenza delle casalinghe, la cui presenza, tuttavia, è stata ritenuta estremamente importante per il lavoro del gruppo. La scelta, come anche negli altri corsi, fu quella di alternare incontri autogestiti a incontri con docenti o cosiddetti “esperti”; ogni volta, comunque, si relazionava sull’incontro precedente o si distribuivano fotocopie del verbale e ogni settimana si riuniva il gruppo di lavoro, aperto a tutte – anche se, di fatto, la gestione era soprattutto nelle mani delle compagne di Avanguardia operaia – per una valutazione dell’incontro precedente e la valutazione di quello successivo.

Casale 1979: “Donne: la fatica di star bene” A Casale, verso la fine del 1978, in un momento che era di 182


crisi per il Collettivo femminista 28, a dare una svolta positiva al lavoro del movimento fu l’incontro avvenuto in consultorio con un gruppo di operaie di una fabbrica metalmeccanica, la Sacelet, per discutere i loro problemi di salute derivanti dall’ambiente di lavoro. Si decise di approfondire questo discorso, si predispose un questionario e da questi incontri nacque poi l’idea di un corso 150 ore sul tema, anche in questo caso, della “salute della donna” che si realizzò nel 1979. Il corso fu organizzato in collaborazione con il Coordinamento CGIL-CISL-UIL-Diritto allo studio-150 ore, ma fu gestito in prima persona dalle donne del collettivo, con la collaborazione delle docenti dell’Università di Torino Anna Bravo e Maria Clara Rogozinsky. Gli incontri si tenevano una volta la settimana, il mercoledì; ma il gruppo si riuniva, con tutte quelle che volevano e/o potevano partecipare, anche il lunedì, per la programmazione. Gli obiettivi che le organizzatrici si erano proposte erano: conoscere e prendere coscienza dei problemi della propria salute; migliorare la conoscenza del proprio corpo; acquisire gli strumenti per conoscere e modificare l’ambiente di lavoro rispetto alla nocività; socializzare le esperienze; produrre materiali per una sensibilizzazione del territorio sui temi della salute della donna 29. Anche in questo caso, venne trasferita nel corso la metodologia dei Collettivi femministi: discussione a piccoli gruppi; partire dalla propria esperienza; rotazione nell’assunzione dei ruoli; programmazione collettiva; verifica periodica sia del metodo sia dei contenuti; negazione del ruolo cattedratico dell’esperto. Su una settantina circa di donne iscritte, quarantacinque frequentarono con regolarità e il Collettivo femminista iniziò a firmare i propri interventi sul “Monferrato” come “Gruppo donne corso 150 ore” a riprova della voglia di sentirsi una realtà che coinvolgeva e aggregava più donne. Si fecero anche incontri in ospedale con il personale di ginecologia e ostetricia, i delegati sindacali e il personale del Consultorio, per discutere dei temi che le donne stavano affrontando e in particolare per chiedere che venissero usati i metodi Leboyer per il parto 30 e il metodo Karman per l’interruzione volontaria di gravidanza 31. 183

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Anche questa esperienza fu raccolta e resa pubblica attraverso la pubblicazione di un libro, dal significativo titolo Donne: la fatica di star bene 32: a differenza della pubblicazione alessandrina, qui però non si scelse di dar conto in modo ordinato e cronologico dei vari incontri, ma si privilegiò un percorso per temi. Era proprio “la fatica di star bene” il nodo in cui pubblico e privato si potevano intrecciare e l’introduzione del volume – la cui prefazione è di Anna Bravo – evidenzia già il filo conduttore di quell’esperienza, che bene è resa, come nota Elda Guerra, dall’uso della forma riflessiva e di quella transitiva dello stesso verbo: cambiarci e cambiare 33. Cambiarci, cioè cambiare se stesse, prendendo coscienza dei problemi di salute, imparando ad avere un ruolo attivo nei confronti del medico, imparando a socializzare le esperienze, e cambiare, cioè, attraverso un’indagine sulle strutture socio sanitarie del territorio, formulare proposte pratiche per migliorarle e acquisire strumenti che permettano di conoscere e modificare l’ambiente di lavoro 34. A corso concluso, si riuscì ad indire ed organizzare una assemblea sui temi trattati, con Maria Teresa Torti, della Scuola di formazione superiore di Genova 35, con il coinvolgimento dell’intera cittadinanza.

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Novi Ligure 1980: “Donne e lavoro” A Novi il Collettivo decise di gestire un corso di 150 ore nel 1980, facendo però la scelta di occuparsi non di salute e nemmeno di sessualità e maternità, ma di lavoro: dei temi trattati e delle riflessioni che ne sono scaturite dà conto una pubblicazione curata da Lisetta Francesconi e da chi scrive36. Non si tratta, a differenza di quanto avvenuto per gli altri corsi, di un volume collettivo e contemporaneo o quasi all’esperienza; il libro uscì infatti più di dieci anni dopo, in un momento in cui i temi trattati in quel corso sembravano essere nuovamente di grande vitalità e attualità, al punto da spingere le due curatrici a riprendere in mano i materiali prodotti e a cercare di costruire su questi un discorso e una riflessione più complessiva, stimolate anche da un 184


bando di concorso della Provincia di Alessandria sul tema “Donna e lavoro”, nel 1990, vinta appunto dall’elaborato che aveva al proprio centro l’esperienza novese e che, rivisto ed ampliato, costituisce il testo edito nel 1992. Alla base della scelta del tema era stata la consapevolezza che il lavoro si configurasse per le donne in modo molto diverso rispetto agli uomini, sia per le modalità che lo caratterizzavano sia per i valori e le gerarchie di rilevanza che vi entravano in gioco, e che quindi occorreva guardare a questa realtà con uno sguardo nuovo, segnato dall’appartenenza di genere. Per ridefinire il tema del lavoro dal punto di vista femminile, il corso ha allargato il campo dell’indagine, mettendo in relazione l’esperienza lavorativa con altre esperienze di vita ugualmente importanti nel percorso esistenziale delle donne – gli affetti, la famiglia, la cura, il tempo per sé, ecc. – e riesaminando i ruoli sessuali nella società. E la prima parte del libro che dà conto di questa esperienza – la seconda è dedicata alla presentazione e all’analisi di una proposta di legge di iniziativa popolare (Le donne cambiano i tempi) e della legge 125 del 10 aprile 1991 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna) – è suddiviso in capitoli i cui titoli di fatto danno già conto della ricchezza dei temi affrontati e dello sguardo con cui li si è letti: le due presenze, il lavoro casalingo, il lavoro retribuito; i tempi e i modi delle donne.

Oltre le 150 ore Non è certo facile dare una risposta al perché della fine dell’esperienza dei corsi monografici delle 150 ore, così come non lo è mai per la fine di ogni tipo di movimento. Ogni processo di esaurimento è infatti sempre molto delicato e complesso e ha ragioni fisiologiche e spiegazioni contingenti così strettamente intrecciate che non è facile – e talora non è nemmeno possibile – individuarne alcune come prioritarie. Forse risulta più utile e più interessante, da una parte, ragionare su questo fertile incontro tra femminismo e movimento sindacale, su cui finora una 185

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riflessione un po’ esaustiva e conclusiva non è ancora stata prodotta – mentre credo che sarebbe una pagina interessante da scriversi e che ormai i tempi siano maturi per poterlo fare – e, dall’altra, andare a individuare i frutti che da quei semi sono nati. Ad esempio, a Genova, il Coordinamento donne FLM, una volta conclusa l’esperienza delle 150 ore, si trasformò e diede luogo alla nascita del Coordinamento donne lavoro cultura, oggi suddiviso in tre macrogruppi: le Archinaute, inserite in una rete nazionale chiamata Lilith che si occupa della costituzione di archivi storici dedicati all’esperienza delle donne; l’associazione Laboratorio politico donne, impegnata nella promozione di attività culturali e politiche femministe e, infine, un gruppo che discende dalla pratica dell’espressione corporea e che conta numerosi circoli sparsi sul territorio dove le donne continuano a incontrarsi per lavorare insieme con il corpo. E altrove, dal problema di dare uno “sbocco” a questi corsi che continuavano a crescere, e dalla necessità e dal tentativo di dare loro un’autonomia, culturale e organizzativa, è nato un altro pezzo di storia del movimento delle donne, culminato nella creazione di quelle libere università che furono il Centro culturale Virginia Woolf di Roma e la Libera Università delle donne di Milano. E un altro aspetto legato a questa esperienza è stata la possibilità, per le donne di trovare legittimità e spazi autonomi nella costituzione di commissioni, coordinamenti femminili e nel sindacato coordinamenti intercategoriali delle delegate e poi intercategoriale donne, mentre inizialmente il separatismo veniva visto dalla dirigenza maschile con diffidenza. E, nella nostra provincia, cosa resta dell’esperienza delle 150 ore? Restano i docenti e, soprattutto le docenti, che mettono in atto una sorta di staffetta tra i “vecchi” corsi delle 150 ore e i nuovi corsi EDA (educazione degli adulti). Alla fine degli anni Novanta, infatti, anche nella nostra provincia si riorganizzarono i corsi 150 ore e nacquero i Centri Territoriali Permanenti 37 a Casale Monferrato, ad Alessandria e infine ad Acqui Terme, Ovada e Novi Ligure: l’educazione in età adulta venne inserita nello scenario dell’istruzione e della formazione permanente, in una pro186


spettiva nella quale ogni persona, a qualunque età, sia posta in grado di governare il proprio apprendimento, di partecipare a processi di riconversione e di usufruire di offerte d’istruzione che consentano di migliorare la qualità della vita. L’esperienza delle 150 ore ha rappresentato in molte situazioni la base su cui sono innestate le nuove attività rivolte agli adulti, che dopo una prima fase, hanno ripreso vigore e diffusione in un contesto mutato, diventato multietnico, in cui la parte femminile – sia tra i docenti, sia tra i corsisti – è risultata preponderante. Le ex docenti delle 150 ore alessandrine hanno accompagnato il passaggio dai corsi 150 ore ai corsi CTP e, da subito, hanno saputo cogliere le esigenze e gli stimoli offerti dalle “nuove cittadine”, cercando la collaborazione tra scuola, comunità locali e mondo della formazione professionale. Rispetto alle 150 ore di un tempo, la situazione era certamente cambiata: la maggior parte delle corsiste era straniera e molte donne migranti provenivano da realtà in cui la condizione femminile era associata a un limitato accesso all’istruzione, basato su discriminazioni di genere o dovuto a situazioni di difficoltà economica; inoltre gli insegnanti si trovarono alle prese con un nuovo problema, la mancanza di strumenti per l’alfabetizzazione. In alcuni casi poi, quando le donne, grazie alla scuola, cercavano di mettere in pratica percorsi di emancipazione, venivano scoraggiate dalla componente maschile della famiglia o della comunità o manifestavano un certo disorientamento riflettendo sul proprio cambiamento. Anche per queste ragioni si è cercato di arricchire l’offerta formativa dei Centri e, se nel passato venivano proposti corsi monografici, nei CTP sono stati istituiti dei veri e propri laboratori al femminile che si proponevano di andare oltre l’acquisizione e il consolidamento di competenze e conoscenze specifiche finalizzate al conseguimento di un diploma: ne sono un esempio le Scuole delle mamme, rivolte a donne straniere, dove sono attivati moduli di legislazione scolastica, di educazione alla salute, etc. o le esperienze teatrali di narrazione autobiografica, realizzate grazie alla collaborazione, per citare solo alcuni nomi, di Vittoria Russo e Alessandra Ferrari. 187

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NOT E 1. La stagione delle lotte, che si era aperta con la nascita del movimento studentesco e con la discesa in piazza poco dopo del sindacato per rivendicare nuovi contratti e maggiore democrazia nel mondo del lavoro, lungi dall’esaurirsi nell’arco temporale che va dal maggio Sessantotto all’autunno caldo del Sessantanove, investì l’intero decennio seguente. 2. Cfr. Documento sulla scuola dell’esecutivo unitario FLM (25 febbraio 1972) in cui si lamenta “l’assenza di una scelta dei sindacati industriali sulla questione della scuola e delle lotte studentesche nel quadro di un limite più generale nel costruire a livello di massa rapporti di tipo nuovo tra iniziative di fabbrica e lotte sociali”. Cfr. anche Seminario Interprovinciale, Democrazia nella fabbrica, democrazia nella scuola, Bologna, 11 e 12 ottobre 1972. 3. Cfr. E.J. Hobsbawn, Il secolo breve. 1914-1991, Milano, Rizzoli, 1995. Il riferimento è ad esempio, alla campagna di alfabetizzazione a Cuba, all’esperienza di “pedagogia degli oppressi” di Freire in Brasile, alle campagne di educazione degli adulti in Cile, ma anche ad alcuni corsi per adulti in Francia o per immigrati in Germania. 4. Cfr. su questi temi M.L. Tornesello, Il sogno di una scuola. Lotte ed esperienze didattiche negli anni Settanta: controscuola, tempo pieno, 150 ore, Pistoia, Editrice petite plaisance, 2006. 5. Si veda, ad esempio, la collana di manuali per insegnanti Lavoro e studio. Materiali per le “150 ore” dell’editore Mazzotta e, per citarne solo alcune, quelle di Editori Riuniti, Guaraldi, De Donato. 6. Cfr. E. Guerra, Una nuova presenza delle donne tra femminismo e sindacato. La vicenda della CGIL, in G. Chianese (a cura di), Mondi femminili in cento anni di sindacato, Roma, Ediesse, 2008, vol. II; p.246. 7. Il cosiddetto “corso di via Gabbro”, tenuto da Lea Meandri, fu uno dei corsi “storici” per le casalinghe: si costituì presso la scuola media nell’ottobre 1976 dietro richiesta di una ventina di donne di varia età, desiderose, però, più che di una licenza media, di una formazione culturale personale e di un’occasione di incontro con altre persone. Per rendere possibile l’avvio di questo corso, visto che il numero minimo di partecipanti richiesto era di sessanta si fecero confluire in quella sede anche operai di piccole aziende del circondario. Cfr. M. L. Tornesello, Il sogno di una scuola. Lotte ed esperienze didattiche negli anni Settanta: contro-

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scuola, tempo pieno, 150 ore, cit., p. 81. 8. Cfr. Libreria delle Donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Torino, Rosenberg& Sellier, 1987; pp. 123-124. 9. Cfr. F. Fantoni et alii, Donne a scuola. Bisogno di conoscenza e ricerca d’identità, Bologna, Il Mulino, 1981. 10. Per l’esperienza torinese, il rimando è a P. Zumaglino, Femminismi a Torino, Milano, Franco Angeli, 1996; e a L. Ellena, Spazi e culture politiche del femminismo torinese, in T. Bertilotti e A. Scattigno (a cura di), Il femminismo degli anni Settanta, Roma, Viella, 2005. 11. Cfr. “Esperienze sindacali”, n. 4/5 , 1976; p. 3. 12. La successiva evoluzione di questo intercategoriale è ben documentata dalle due raccolte di documenti.La spina all’occhiello. L’esperienza a Torino dell’Intercategoriale donne CGIL-CISL-UIL attraverso i documenti. 1975-1978, Torino, Musolini editore, 1979; e Il sindacato di Eva, Torino, Centrostampa FLM, Torino, 1982, che coprono rispettivamente gli anni dal 1975 al 1978 e dal 1979 al 1981. 13. Cfr. L. Ellena, Spazi e culture politiche del femminismo torinese,cit. 14. Il volantino è pubblicato in La spina all’occhiello. L’esperienza a Torino dell’Intercategoriale donne CGIL-CISL-UIL attraverso i documenti. 1975-1978, cit.; pp. 149-150. 15. Cfr. Corso monografico di 150 ore sulla salute della donna, Riprendiamoci la vita. La salute in mano alle donne, Torino, Controstampa FLM, s.d., ma 1978. 16. Per un approfondimento su questi aspetti si rinvia a CGIL-CISL-UIL, Fare la differenza. L’esperienza dell’intercategoriale donne di Torino. 19751986, Torino, Edizioni A. Manzoni, 2007. 17. Cfr. V. Lorenzoni, Perché sindacato donna, in “reti”, n. 3-4, 1988. 18. Per l’esperienza genovese, si veda A. Frisone, Per una storia del movimento femminista a Genova negli anni Settanta, tesi di laurea presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova, 2008; e l’Archivio del Coordinamento Donne Lavoro Cultura che contiene i fondi dell’Ente e fondi personali di donne, attive nel femminismo genovese dagli anni Settanta del Novecento, riordinati, descritti informaticamente e consultabili sull’OPAC Lilarca. 19. Cfr. A. Frisone, Per una storia del movimento femminista a Genova negli anni Settanta, cit.; pp. 60-61. 20. Si tratta della legge 53 del 2000.

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21. Testimonianza di Livia, in A. Frisone, Per una storia del movimento femminista a Genova negli anni Settanta, cit.; p. 77. 22. Cfr. Genova. La facoltà di lettere (PCI in testa) boccia un corso delle 150 ore voluto dalle donne. Ma si farà lo stesso, in “il manifesto2, 17 aprile 1977. 23. Legge 405 del 29 luglio 1975. 24. Lina Merlin e Carla Barberis, Lettere dalle case chiuse, Milano, Edizioni del Gallo, 1955; ora riedita come Cara senatrice Merlin… Lettere dalla case chiuse, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2008. 25. G. Blumir e A. Sauvage, Donne di vita, vita di donne, Milano, Mondadori 1980. 26. 150 ore Alessandria, La salute della donna, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1979. 27. Il primo a Firenze, al centro studi CISL e il secondo all’Impruneta, centro studi CGIL: entrambi sono citati anche nella Premessa al volume alessandrino, firmata da Paola Piva della FLM nazionale. 28. Per la storia di questo come degli altri collettivi in provincia di Alessandria, mi permetto di rinviare a G. Gaballo, Il movimento femminista alessandrino negli anni Settanta: storia e riflessioni, in “Quaderno di storia contemporanea”, numero monografico “Storie di genere”, n. 40, 2006. 29. Corso monografico 150 ore “donne e salute”, Donne: la fatica di star bene. Riflessioni di donne sulla salute, Alessandria, Edizioni lotte unitarie, 1981; pp.17-18. 30. Il metodo Leboyer prende il suo nome dal ginecologo e ostetrico francese che lo ha messo a punto ed è finalizzato a rendere l’evento della nascita meno traumatico possibile. Vanno evitati rumori, movimenti bruschi e luci troppo intense; inoltre è considerato molto importante il contatto tra mamma e bambino, per cui, appena nato, il piccolo è appoggiato sul corpo della mamma, accarezzato e massaggiato, e il cordone ombelicale è reciso solo dopo che ha smesso di pulsare. 31. Il metodo Karman è un metodo abortivo tra i meno traumatici: prende il nome da una cannula che si introduce nell’utero della donna e attraverso la quale si aspira il materiale fetale. 32. Corso monografico 150 ore “donne e salute”, Donne: la fatica di star bene. Riflessioni di donne sulla salute, cit.. 33. Cfr. E. Guerra, Una nuova presenza delle donne tra femminismo e

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sindacato. La vicenda della CGIL, in Gloria Chianese, Mondi femminili in cento anni di sindacato, cit.; p. 249. 34. Corso monografico 150 ore “donne e salute”, Donne: la fatica di star bene, Riflessioni di donne sulla salute, cit.; p.18. 35. Maria Teresa Torti (1951-2001) fu sociologa, esperta di culture giovanili e docente all’Università di Genova. 36. Cfr. E. Francesconi e G. Gaballo, Donna e lavoro: spazi da difendere, spazi da costruire, Novi Ligure, Edizioni Danibel, 1992. 37. O.M. 455 del 29/07/1997. L’ordinanza ha inteso riordinare, coordinare e sviluppare le attività di istruzione e formazione in età adulta per rispondere alle domande di alfabetizzazione culturale ed innalzamento degli standard formativi; acquisizione e consolidamento di competenze di base, di opportunità d’integrazione sociale; acquisizione e sviluppo di competenze professionali.

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Quaderno di storia contemporanea/46

Gli anni delle occupazioni. Imes e Radioconvettori, due casi emblematici

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Alberto Ballerino

Le occupazioni rappresentano sicuramente uno degli aspetti più interessanti e meno studiati delle lotte operaie nella provincia di Alessandria negli anni Settanta. Le motivazioni non sono le stesse in tutti i casi. La prima iniziativa di questo tipo di cui si ha notizia avvenne il 4 giugno 1971 a Quargnento alla Marabese, piccola fabbrica produttrice di accessori per vasche da bagno in cui lavoravano un centinaio di persone. Si trattava di un’impresa in cui fino a quel momento non c’erano mai stati problemi sindacali. In questo caso le rivendicazioni riguardavano le condizioni salariali: i dipendenti sostenevano infatti di avere stipendi tra i più bassi della provincia. Di fronte alle difficoltà della vertenza, essi decisero l’occupazione cui l’azienda rispose con la serrata. La crisi finì velocemente grazie all’intervento del prefetto Veglia. L’accordo raggiunto era molto favorevole ai lavoratori. Nella maggior parte dei casi però l’occupazione era la risposta ultima alla minaccia di licenziamenti o addirittura di chiusura dell’azienda in un contesto generale di difficoltà del mondo dell’industria che ha caratterizzato larga parte del decennio. Tuttavia, anche se unite dall’obiettivo della difesa del posto di lavoro, queste occupazioni presentano caratteristiche diverse sotto una molteplicità di aspetti. In un caso, quello della SAFIZ di San Giuliano Nuovo, i lavoratori ebbero la forza di rilevare addirittura l’azienda, con l’aiuto della CGIL, per tentare di dare vita a un’esperienza 192


di carattere cooperativo. Si trattò dell’unico esperimento di questo tipo nell’alessandrino e meriterebbe uno studio approfondito. Emblematici, per le caratteristiche radicalmente opposte, i casi delle interviste qui riportate che riguardano la IMES di Alessandria e la Radioconvettori di Quargnento. La IMES era una fabbrica profondamente radicata in un quartiere, il Cristo. Pur appartenendo al Gruppo Montedison, per molti era ancora la vecchia Mino, azienda risalente addirittura alle origini dell’industria alessandrina. Si trattava di una fabbrica fortemente sindacalizzata, con un’egemonia completa della CGIL. In risposta al pericolo di una drastica ristrutturazione, l’occupazione inizia il 23 novembre 1971 e si conclude il 23 febbraio 1972, con un accordo soddisfacente per i lavoratori. Gli operai trovano un appoggio importante non solo nel sindacato ma anche nel quartiere che partecipa persino alle iniziative di socializzazione che vengono organizzate in fabbrica. Poco prima dell’occupazione, il 28 settembre, all’assemblea nella fabbrica partecipano i membri del consigli di quartiere del Cristo, il sindaco socialista Piero Magrassi, molto legato al territorio (per tutti era il “dottore del Cristo”), e gli assessori della giunta comunale di centro sinistra, diversi consiglieri comunali, regionali e provinciali. Si costituisce un Comitato cittadino per la piena occupazione, presieduto dal sindaco e composto da un rappresentante della giunta comunale, uno della giunta provinciale, uno per ciascun partito coinvolto e uno per ciascuno dei sindacati, chimici, metalmeccanici e confederali. Questi ultimi proclamano uno sciopero generale provinciale di due ore. Da parte sua il Comune fa affiggere un manifesto in cui esprime pubblicamente solidarietà agli operai della IMES e mette ben cinque milioni a disposizione delle famiglie dei lavoratori. La SOMS del Cristo a sua volte dà un’offerta di 100 mila lire, la scuola della CGIL apre una sottoscrizione, la Cassa di Risparmio offre un prestito agevolato. Dalle interviste emerge una classe operaia che vive i giorni difficili dell’occupazione in un clima di amicizia e di solidarietà, in cui non mancano anche i momenti di svago e di allegria. A Quargnento troviamo invece una situazione radicalmente 193

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Quaderno di storia contemporanea/46

diversa. Un’azienda in cui parte dei lavoratori sono detenuti con pesanti condanne alle spalle e facilmente ricattabili. Il sindacato è praticamente assente, in un clima generale di intimidazione anche fisica e di sfruttamento. L’ingresso in fabbrica di un gruppo di giovani dell’area di Lotta continua si scontra in termini anche duri con questa situazione ma con il tempo la modifica completamente. La vicenda si inserisce bene nella storia del movimento fondato da Sofri, anche se le occupazioni avvengono quando questo è già stato sciolto, la seconda addirittura nei drammatici giorni del rapimento Moro. Gli ex detenuti, dopo i duri confronti iniziali, partecipano alle lotte che si svolgono nell’azienda. In fabbrica vengono portati temi nuovi come i rapporti uomo-donna e, addirittura, gli operai ottengono i finanziamenti per la costituzione di una delle prime radio libere della zona.

L’occupazione della

IMES

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Enrica Beltrami all’epoca era un’impiegata, addetta alla contabilità. Assunta alla fine del 1967, nel periodo dell’occupazione, tra il 1971 e il 1972, non aveva ruoli sindacali. Orlando Novelli invece era nel gruppo di delegati che proposero l’occupazione 1.

Novelli: “Io sono andato a lavorare alla IMES il 23 aprile 1963 e ci sono rimasto fino al 23 aprile 1973. Ero delegato di fabbrica, abbiamo deciso di fare questa occupazione perché nell’azienda correva voce che si voleva licenziare 50 persone su 120. Sapendo che l’azienda non andava molto bene, puntavamo, attraverso la forzatura dell’occupazione, a trovare uno sbocco nelle fabbriche della Montedison, del cui gruppo la IMES faceva parte. La decisione di occupare è stata travagliata. Qualcuno pensava che fosse come andare al mare, invece non era così. Su 120 in assemblea, l’unico che disse di no all’occupazione ero io perché mi rendevo conto che occupare voleva dire assumersi la responsabilità della fabbrica, di tutto quello che c’era dentro. C’era la possibilità che 194


qualcuno facesse dei danni. La responsabilità ricadeva tutta sul consiglio di fabbrica, che allora si chiamava dei delegati. Bisognava decidere anche come fare la notte: occupazione vuole dire stare giorno e notte in fabbrica. Abbiamo subito stabilito che le donne (erano in otto) non facessero i turni di notte. Già la prima notte, però, siamo rimasti solo in quattro. È stato come il vecchio detto: armiamoci e partite. Si era fatta anche una dimostrazione con i metalmeccanici davanti alla prefettura. Erano una novità le occupazioni ad Alessandria, non tutti ritenevano ci fosse la necessità di coinvolgere tante forze perché 120 persone non erano un numero abbastanza elevato. Avevamo avuto solidarietà da qualche politico, il sindacato nel suo insieme. Però in linea di massima la popolazione non è stata molto coinvolta, con l’eccezione del Cristo, dove la vecchia SOMS forse era l’unica a puntare sui lavoratori. Disoccupammo la fabbrica il 27 febbraio, quando facemmo l’accordo in base al quale cinquanta persone andarono a lavorare alla Montedison. Paradossalmente molti di quelli trasferiti alla Montedison non erano d’accordo perché avevano paura per la loro salute. Però la IMES ha finito per fallire mentre la fabbrica di Spinetta c’è ancora. Qualcuno è andato via dopo l’occupazione. Io pensavo che, una volta deciso di farla, bisognava rimanere. Conclusa l’occupazione, dopo qualche mese sono andato via”. Come era il lavoro alla

IMES?

Novelli: “Negli anni Sessanta la IMES era nata dalla vecchia Mino GB. La Cerruti di Milano l’acquistò perché più che altro gli interessava il complesso del fabbricato nel suo insieme. Per evitare la speculazione, mise su questa azienda che era un supporto della fabbrica di Milano. Quando avevano dei lavori urgenti, li mandavano qui, come la tornitura. Trasferirono alla IMES un reparto che a Milano stava un po’ sulle scatole. Si facevano un po’ tutti i tipi di ingranaggi, si lavorava anche per la ricerca aeronautica. Questi ingranaggi andavano in America. Erano i lavori necessari alla Cerruti di Milano e alla Santa Andrea di Novara. Però un lavoro 195

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Quaderno di storia contemporanea/46

proprio non l’ha mai fatto, una sua produzione non c’è mai stata. Si è messo in piedi un inscatolamento del riso ma non è andato a buon fine. C’è stato un altro esperimento di fare dei bracci meccanici per caricare e scaricare dalle presse ma anche questo non è andato bene”. Era un lavoro duro?

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Novelli: “Era un lavoro da metalmeccanico. Non si facevano grandi produzioni, non c’era la catena di montaggio. Era un lavoro singolo, si faceva i turni su una macchina con due persone. Non era un lavoro duro. Certo, chi veniva dalle piccole fabbriche trovava già la diversità. I turni al massimo erano due al giorno, poi c’era quello di notte. Andavamo anche a lavorare fuori. Siamo andati a Terni e a Venezia a lavorare per la IMES. Se lavoravamo per la Sant’Andrea di Novara andavamo a Terni per fare i tappeti di polymer. A Venezia facevamo il filato sintetico. In questo caso, il lavoro era duro perché lavoravamo con un calore tremendo. Era sempre un lavoro per altri, la fabbrica non produceva niente di suo. Erano come subappalti. Comunque non era un lavoro duro. Naturalmente c’è quello che si lamenta e allora non finisce più. Ricordo che di notte qualcuno lo mettevamo sopra la gru così non si lamentava più”. Beltrami: “Le perplessità erano tante anche perché a quei tempi non c’era la cassa integrazione. Occupazione voleva dire stare senza salario, il che non era cosa da poco. Tre mesi, per una famiglia in cui l’unica fonte di reddito era la fabbrica, era un’impresa pesante. Diciamo che comunque, a parte le difficoltà delle notti, la partecipazione durante la giornata è sempre stata grande. C’era anche una minoranza che per ragioni di sopravvivenza aveva cercato qualche lavoretto per arrotondare. La maggior parte però faceva i turni. Il lavoro grosso è stato organizzare proprio questi tre mesi: organizzare la mensa, i turni, gli spettacoli. C’erano le feste: l’occupazione continuò anche il giorno di Natale con un bello spettacolo e all’ultimo dell’anno”. 196


Perché gli spettacoli? Novelli: “Non sapevamo quando sarebbe finita l’occupazione, avevamo paura di finire isolati nel quartiere. Allora abbiamo organizzato degli spettacoli per invitare la gente da fuori della fabbrica. La sala della mensa era piena per questi spettacoli, c’era partecipazione più per questo aspetto di svago che per il fatto politico. Ma a noi, comunque, interessava perché così c’era un esito propagandistico. Avevamo bisogno di essere sostenuti. Questa presenza di gente che entrava nella fabbrica ci ha rafforzato nella contrattazione”. Beltrami: “C’era gente che si portava i figli a vedere”. Come erano gli spettacoli? Beltrami: “Riviste, dipendenti che raccontavano barzellette, Marco recitava le poesie di Trilussa, proponevamo musica con un coro. C’erano personaggi che si prestavano molto a ruoli comici, in fondo la IMES era anche una fabbrica di comici. Dove c’è tanta gente, c’è anche qualcuno un po’ strano”. Un gruppo particolare. Novelli: “Era diventato un bel gruppo. Alla fine si viveva in fabbrica. Andavo a casa una volta alla settimana per cambiarmi, forse perché ci sentivamo troppo responsabilizzati. Tre volte al giorno venivano le pattuglie dei carabinieri a controllarci, non era tutto all’acqua di rosa. Facevano il giro dentro la fabbrica per controllare se c’era qualcosa che non andava e non chiamavano il primo che trovavano ma il responsabile. C’era anche un responsabilità diretta e bisognava rimanere dalla parte della ragione, non doveva diventare un vandalismo. C’è sempre qualcuno che pensa che la cosa migliore sia rompere”. Beltrami: “Abbiamo avuto tanta solidarietà. Ogni tanto si faceva 197

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la scappata al Bar di Pierino, che era vicino alla IMES. Andavamo a prendere pasticcini e caffè, poi lui si alzava e diceva: ‘Ci dovete fare lo sconto perché siamo in occupazione’. Pazienza lo sconto per i beni di prima necessità, ma sui pasticcini… Addirittura una volta lui voleva comprare un peluche per mia figlia e per convincere il negoziante: ‘Siamo in occupazione, ce lo dia gratis’. In effetti qualche negozio ci dava dei generi alimentari perché noi cucinavamo, avendo la mensa. Avevamo organizzato i pasti e cercavamo con delle questue di avere pasta, ecc.” Novelli: “Andavamo a fare la spesa a Casalbagliano, dove avevamo già lo sconto inizialmente”. Beltrami: “Facevamo un po’ a turno con la mensa dei pranzi”. Novelli: “Si è arrivati a un punto che non c’erano più soldi e niente da mangiare. Nel frigo, però, c’erano quei lardi di una volta, spessi così. Abbiamo tagliato questo lardo fine fine. Inizialmente faceva un po’… Alla fine abbiamo capito che il lardo era buono”.

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Beltrami: “Soprattutto noi donne il lardo non lo mangiavamo, lo usavamo solo per cucinare. Loro hanno insistito e alla fine, tagliato sottile con il pane, ci è piaciuto”. Ho letto sul Piccolo che il sindaco Magrassi aveva fatto affiggere un manifesto di solidarietà. Novelli: “Magrassi, la prima sera dell’occupazione è venuto in fabbrica”. Quale presenza aveva il sindacato in fabbrica? Novelli: “Era una fabbrica CGIL. Solo due non erano iscritti. Il sindacato ci ha sostenuto nelle azioni che portavamo avanti. Come delegati di fabbrica abbiamo sempre informato il sindacato”.

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Beltrami: “Quando sono stata assunta nel 1967, non c’era un impiegato iscritto al sindacato. Non solo, non partecipavano alla vita sindacale. Ma questo era nello spirito dei tempi. Ricordo che quando ho incominciato a partecipare alle riunioni venivo considerata una mosca bianca, era una cosa che stupiva. Io avevo questa mentalità già sindacale. Ricordiamoci che eravamo prima dello Statuto dei lavoratori. Se volevamo discutere dei problemi della fabbrica, si doveva fare fuori dagli orari di lavoro, spesso di nascosto, in un bar e in un altro locale. Prima di andare alla IMES, in un’altra fabbrica, al primo giorno di lavoro mi metto a chiacchierare con gli operai, prevalentemente donne perché era un’azienda che fabbricava cinturini. Il giorno dopo mi chiama il proprietario della fabbrica che mi dice: ‘Signorina, loro sono operaie, lei è un’impiegata. Non deve fermarsi a parlare con loro’. A raccontarle oggi, sembrano cose dell’altro mondo ma all’epoca era una realtà consolidata: gli impiegati da una parte e gli operai dall’altra. Quando sono entrata alla IMES non c’era nessun impiegato che si interessasse di sindacalismo. Poi, poco per volta è cambiato”. Come è successo? Beltrami: “Qualche operaio mi ha invitato ad alcune riunioni, magari sull’orario di lavoro, e ho partecipato”. Novelli: “Abbiamo pensato: se entra uno è più facile che recuperiamo anche gli altri. Ci vuole pazienza ma l’importante è trovare uno disposto a coinvolgerli. Lei ci sembrava la persona giusta. In effetti gli impiegati poco per volta si sono aggregati. All’occupazione c’eravamo quasi tutti”. Il rapporto con la dirigenza della fabbrica? Novelli: “Quando iniziò l’occupazione diffidammo l’azienda dal fare nomi. Il problema era che se dicevano chi era da licenziare, automaticamente quelli che non rientravano nell’elenco non 199

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sarebbero più stati coinvolti nella lotta. Il direttore della fabbrica, Cavallina, è stato sempre abbastanza onesto con noi. Era anche lui un impiegato della Cerruti e capiva le nostre esigenze. Quando gli abbiamo chiesto di non fare nomi, lui ha accettato e invece poteva benissimo comportarsi diversamente”. È vero che ha passato il Natale in fabbrica con la bambina? Beltrami: “Con questa scelta dei turni, ci eravamo divise tra chi passava in fabbrica la notte di Natale e chi l’ultimo dell’anno, anche se noi donne non facevamo proprio la notte ma la sera. Alla vigilia di Natale così ho portato marito e figlia, all’epoca proprio piccola, a uno spettacolo un po’ comico”. Come venne vissuta giornalmente l’occupazione?

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Novelli: “Dopo i primi giorni dell’occupazione la tensione si è un po’ allentata e allora si è cercato di occupare spazio e tempo. È vero che di notte eravamo pochi, ma durante la giornata, dalle 8 del mattino alle 11 di sera era ben diverso. Abbiamo trovato il modo di divagarci. Durante la giornata si discuteva tanto su temi vari. C’era chi voleva andare sui tetti e tagliarsi le vene per smuovere l’opinione pubblica. Abbiamo avuto anche questi episodi che siamo riusciti a contenere, persone estrose che volevano fare iniziative per richiamare l’attenzione”. Quali erano i temi delle richieste sindacali? Beltrami: “Abbiamo fatto battaglie per la difesa dell’ambiente, della salute, non solo del salario. Posizioni all’avanguardia dal punto di vista sindacale. Eravamo molto uniti, bastava un piccolo sgarbo al rappresentante sindacale e ci fermavamo tutti. Avevamo anche una controparte con la quale abbiamo sempre trovato un accordo. Non siamo mai andati allo scontro, tolto la questione dei licenziamenti”.

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Anche la Cassa di Risparmio si interessò all’occupazione? Novelli: “Abbiamo fatto un accordo con la Cassa di Risparmio per avere un finanziamento agevolato per le famiglie bisognose. Inizialmente in assemblea tutti avevano bisogno. Una volta fatto l’accordo, nessuno volle questi soldi. Allora siamo andati a prenderli noi delegati che non ne avevamo bisogno”. Beltrami: “La necessità economica c’era perché il salario dell’uomo era spesso l’unica entrata. Il prestito, però, aveva spaventato tutti. I delegati per rispettare l’accordo con la Cassa di Risparmio lo hanno chiesto loro”. Novelli: “Mi sembrava il minimo che si poteva fare perché avevamo coinvolto il direttore della Cassa. Se non andava nessuno facevamo la figura dei cioccolatai. Così noi quattro che avevamo fatto l’accordo, siamo andati a prendere il prestito”. Dopo l’occupazione? Novelli: “Sono andato a lavorare negli appalti ferroviari. I nostri rapporti non erano più con il padrone”. Beltrami: “Nel 1978 è di nuovo andata in crisi, c‘è stata cassa integrazione. Nel 1984 è stata acquistata da un privato, ha proprio fatto fallimento e ha chiuso. Abbiamo chiesto al Comune di intervenire per conservare qualche locale a ricordo di questa fabbrica. Allora si era interessato Renzo Penna e abbiamo ottenuto che fosse mantenuta l’entrata e qualche ufficio. Adesso ci sono gli ambulatori dell’ASL dove prima c’erano i nostri uffici”.

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L’occupazione della Radioconvettori Giuseppe Ciardullo quando entra nel 1973 alla Radioconvettori di Quargnento è un giovane studente di Lotta Continua. La sua esperienza nel movimento di Adriano Sofri continua fino alla partecipazione al congresso dell’autoscioglimento. Successivamente riprenderà il suo impegno politico nelle file del PCI e quindi dei DS. Recentemente ha aderito a Sinistra e libertà 2.

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Quali caratteristiche aveva questa fabbrica? “Una fabbrica particolarissima. Si fabbricavano radiatori per il riscaldamento e comprendeva circa 120 persone. In realtà si lavorava su due turni e il terzo era coperto solo dagli straordinari. Negli operai c’era un altissima presenza di ex detenuti, inseriti grazie alle amicizie del responsabile dell’epoca di cui si vociferava che il padre fosse uno della banda Giuliano e che aveva partecipato alla strage di Portella della Ginestra. Francamente non so se fosse vero, diciamo che era letteratura dell’epoca. Tutti questi lavoratori provenienti dalle carceri erano ricattabilissimi. Per la condizione economica che vivevano e anche per il tipo di passaggio: entravano lì per raccomandazione. C’era chi gestiva completamente la loro vita, dal trovargli lavoro al garantirgli magari le cambiali con cui comprare la casa. E questo lo pagavano a caro prezzo, facevano dai tre ai quattro turni consecutivi. C’era gente che faceva magari 8-16 ore di lavoro e dormiva 4-5 ore sul lettino messo in una stanza a fianco e poi ripartiva per altre 8-12 ore di lavoro consecutive. Sindacalizzazione zero rispetto al sindacato tradizionale. Altissimo livello di tesseramento alla CISNAL”. Quanti erano gli ex detenuti? “Se ricordo bene su 120 erano circa 60. Per quanto riguarda gli altri, quasi nessuno era tesserato alle tre confederazioni. Questi erano assolutamente osteggiati con manifestazioni non di insofferenza ma di minaccia palese. Qui ci si tesserava alla CISNAL o si 202


andava fuori o peggio. Io sono arrivato nell’autunno del 1973, ho visto subito questa situazione ma ho trovato anche qualche faccia nota. Mi occupavo già di politica, vivevamo i movimenti. Ci siamo conosciuti e abbiamo cominciato a organizzarci in termini diversi di sindacalizzazione. Abbiamo fatto riferimento all’FLM, costituendo un primo nucleo e abbiamo cominciato piano piano a fare dei ragionamenti proprio sull’ambiente di lavoro, sulle risorse finanziarie, sulle migliorie dei salari, sulle condizioni dei turni, sui diritti, sulla libertà di associarsi. Forse non eravamo neppure operai ma solo studenti intellettualoidi prestati alla politica, desiderosi di vivere quella che chiamavamo la classe operaia, quel percorso che pensavamo ci avrebbe portato alla rivoluzione proletaria”. Come siete riusciti a fare vita sindacale in questa fabbrica? “Il problema di operare a livello sindacale doveva fare i conti con un tipo particolare di composizione. Da una parte detenuti, con questa specificità ricattabile che difficilmente avrebbero potuto affrancarsi da minacce ecc. Il resto composto quasi tutto da giovani, in gran parte provenienti da paesi, quindi con bassa sindacalizzazione e basso interesse per certe tematiche. Un livello alto di anziani, anche questi in buona parte provenienti da paesi e quindi con situazioni del tipo: di giorno in fabbrica e il resto del turno in campagna, in una cascina. Perciò altri lavoratori con poco interesse rispetto alla partecipazione. Infine uno zoccolo duro di operai che provenivano da Alessandria e che avevano già vissuto esperienze di lotta negli anni passati. È stato un lavoro duro, di convincimento, di ricostruzione, partendo proprio da quelle che erano le esigenze quotidiane: il salario, la capacità di migliorare la qualità della vita. Poi abbiamo cominciato a parlare di temi che tra gli operai erano inconsueti. Per esempio, la cogestione. Oggi se ne parla con una certa facilità, all’epoca non solo era difficile parlarne, ma dal punto di vista ideologico era considerata una cosa da traditori o comunque di connivenza con il padronato. Grosso modo tutta l’attività politico sindacale era por203

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tata avanti da un gruppo centrale di giovani che faceva riferimento a Lotta continua e che operava all’interno del sindacato, portando avanti certi temi e cercando di ampliare il consenso politico oltre a quello sindacale. Abbiamo visto crescere l’adesione strada facendo. La gente, gradualmente, dismetteva la tessera della CISANL e si associava alla Federazione metalmeccanici nelle sue diversi componenti, la FIOM, la FIM, la UILM. Per la prima volta si ragionava in termini unitari e in quella fabbrica nasceva uno spirito di gruppo. E si andavano affermando tematiche assolutamente inconsuete per quell’epoca. Per la prima volta in fabbrica gli operai parlavano di problemi familiari, dell’aborto, del rapporto uomo-donna. Ed era una fabbrica essenzialmente maschile, non c’erano figure femminili. Avevamo introdotto temi molto forti rispetto anche ai meccanismi che governavano la società, organizzavamo delle cooperative per gli acquisti diretti e la distribuzione di pacchi di carne a prezzo popolare, prendevamo il pane da panettieri che lo producevano a prezzo equo e lo distribuivamo nelle piazze a prezzo politico, dimostrando che si poteva guadagnare anche senza speculare in maniera particolare. Mi piace ricordare la battaglia molto forte nelle caserme. Tutti temi abbastanza inconsueti nelle fabbriche. Ci si occupava di lavoro, di questioni sindacali vere e proprie ma a fianco maturava questa coscienza. Dopo 31 anni ci si incontra con alcune di queste persone (molte non ci sono più, erano già anziane allora) e ancora oggi c’è quel desiderio di sentirsi, di parlarsi come facenti parte di un gruppo che ha lasciato una traccia indelebile, un senso di comunità molto forte. Le vicissitudini vissute in quegli anni ci avevano portato a interessarci l’uno dei problemi dell’altro e a quei temi come i problemi della vita familiare di un operaio che non facevano parte neanche della cultura generale”. Quando avvennero le due occupazioni? “La prima occupazione avvenne nel 1977 a seguito di un periodo molto turbolento di rivendicazioni e scioperi. C’era un progetto economico da cui traspariva la volontà di chiudere. Nessuna 204


garanzia che ci fosse la volontà di proseguire nonostante i tentativi di avere chiarimenti. Nella primavera del 1977 fu fatta un’occupazione di circa un mese nell’ambito della quale la dirigenza aveva assunto degli impegni per un progetto industriale nuovo. In realtà c’era già la volontà di chiudere questa fabbrica. Producevamo radiatori a lastre. Con il cambio dei criteri di valutazione venuti dalla prime leggi di contenimento energetico, sulla definizione di produzione di calore, il livello di produzione del calorie di questo radiatore rispetto alle normative era troppo alto. Il prodotto non era più concorrenziale. La vertenza era chiusa a maggio-giugno. Si era ripreso con dei periodi più o meno di cassa integrazione, di ferie anticipate. Un calvario fino alla primavera successiva, quando fu chiaramente evidente che si andava verso la chiusura. Cosi, nel 1978, in pieno periodo Moro, scattò la seconda occupazione. Andò avanti fino ai primi di giugno. C’eravamo subito accorti che c’era poca speranza. L’occupazione venne organizzata con le sottoscrizioni solite all’interno dei consigli di fabbrica della zona di Quargnento, Felizzano, Quattordio. Tutto il coordinamento faceva riferimento specificatamente alle fabbriche metalmeccaniche: c’era un legame forte con dirigenti sindacali, sindacalisti di base, rappresentanti dei consigli di fabbrica. Avevamo fatto un tenda permanente in piazza Marconi, quindi un presidio e varie manifestazioni davanti alla fabbrica, nella piazza del paese, nella plaga. Parecchia attività in tre mesi. Loro hanno iniziato una procedura fallimentare. Concordammo un’uscita, una collocazione di tutti gli operai di una certa età laddove era possibile o non avessero scelto a livello personale di operare in maniera diversa. Ci fu un periodo di cassa integrazione speciale o disoccupazione speciale che durò fino al dicembre 1978”. I risultati più rilevanti delle vostre lotte? “Quando abbiamo chiuso la prima occupazione, abbiamo fatto un accordo che sarebbe stato di una straordinaria valenza, se fosse andato in porto. Per la prima volta si era concordato l’assunzione di un certo numero di persone con il contributo diretto 205

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del consiglio di fabbrica. Insomma, una quota dei lavoratori veniva scelta dal consiglio di fabbrica. Quindi era una forma di partecipazione alle decisioni dell’azienda che valeva anche sul piano tecnico per quanto riguarda i criteri della scelta della programmazione, cioè la tecnica di lavoro, il controllo dei meccanismi di lavoro. C’era stata la disponibilità dell’azienda a cedere una parte di questa autonomia e a lavorare insieme, era una qualche forma di cogestione. Inoltre questo accordo era migliorativo addirittura rispetto a quello di un paio di anni prima. Mi riferisco a una delle prime radio libere di Alessandria, Radio Veronica. Era nata da un’idea di movimento e da una vertenza sindacale dell’epoca in cui avevamo posto il problema dell’aspetto culturale della vita di fabbrica e dell’aspetto ludico. Ottenemmo un milione di contributo per questo progetto. Si era fatto un consiglio di amministrazione e una cooperativa che sorreggevano questa radio Veronica che si occupava di informazione, di politica, di sociale. Quindi un altro aspetto dell’anomalia di un percorso di crescita. Guardi, a distanza di anni, ragionando con senso critico, non era l’espressione della volontà di una pseudo avanguardia, era un sentimento condiviso. Tutti si sentivano coinvolti. L’operaio anziano, alle soglie della pensione, per la prima volta sentiva che partecipava a un progetto importante, anche se magari non lo capiva completamente. Per i giovani era uguale, per la prima volta partecipavano a qualcosa anche in termini di assunzione di responsabilità. Avevamo alcuni dei nostri operai semplici, non militanti, nel consiglio di amministrazione della cooperativa. Andavano a gestire uno strumento di informazione, di aggregazione. Tutte esperienze nuove per quell’epoca. Era anche un’assunzione di responsabilità sul piano personale non da poco”. Come avete gestito la chiusura dell’azienda? “Siamo riusciti a gestire e a contrattare strada facendo un procedimento accompagnato, tra i nostri compagni di viaggio nessuno ha pagato un peso. Tutti hanno recuperato i soldi che avanzavano e hanno avuto una collocazione. La forte sindacalizzazione ci 206


ha portato alla fine a poter contrattare questo. L’ufficio del lavoro, la stessa Confindustria hanno preso impegni. In altre realtà come la RIF di Solero, fabbrica di freni e frizioni (era dove oggi c’è la Zimetal), dall’oggi al domani 100-150 operai si trovarono tutti sulla strada. Non tutte le vertenze si risolvevano alla stessa maniera, erano tante le situazioni di questo tipo. Poi c’erano fabbriche che appartenevano a settori economici che avevano delle possibilità e su cui valeva la pena investire. Oppure il livello di sindacalizzazione era tale che una federazione si impegnava a sostenerla comunque. La nostra era invece una realtà da liquidare perché, pur essendo molto sindacalizzata, era legata a una sinistra extraparlamentare. Soprattutto i temi che portava erano molto provocatori per quell’epoca, anche per un Partito comunista. Io ho militato negli anni a venire nel PCI e anche nei DS, sono molto legato a quel partito, ha fatto parte della mia vita. Però sarei disonesto se negassi questo”. Come avete fatto a coinvolgere gli ex detenuti nelle vostre lotte? “Siamo riusciti intanto perché abbiamo sempre evitato di criminalizzarli, cercando di essere partecipi dei loro problemi con rispetto. Abbiamo fatto come con un gatto diffidente, si aspetta che sia lui ad avvicinarsi, ad annusarti. Sentivamo come nostre quelle tematiche di affrancamento da quel tipo di sfruttamento. Abbiamo rispettato questa loro incapacità di affrancarsi in maniera diretta e gradualmente abbiamo creato la situazione perché qualcuno di loro sentisse la necessità di rompere quegli schemi. La contrapposizione iniziale era addirittura fisica, l’aggressione era quasi giornaliera. A essere iscritti all’FLM si rischiavano delle martellate in testa, io ho preso la mia. Loro usavano molto la paura, gli dicevano: ‘se vincono questi voi perdete il posto di lavoro’. All’inizio abbiamo lavorato molto sul gruppo in termini umani e sul piano salariale. Poter presentare un risultato economico che non era per chi aveva partecipato alla lotta ma per tutti fu importante. Scoprire che qualcuno aveva lottato per te e tu ci guadagnavi… Molte di queste persone avevano dei trascorsi tra207

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gici, una buona parte erano ex ergastolani. Gente che sul piano della sensibilità non aveva nulla da imparare, anzi aveva molto da insegnare. Sicuramente avevano questa capacità critica di discernere. Scoprire che da un mondo dove ognuno pensava a se stesso, qui trovavano un gruppo che comunque pensava a loro, gradualmente ha incrinato la loro corazza, piano piano ha portato più di uno a domandarsi perché dovevano fare i martellatori per conto di altri. È vero che avevano questo debito per il fatto che erano usciti e avevano avuto una possibilità di inserimento in un contesto non facile. Però lo pagavano caro con il loro lavoro perciò questa presa di coscienza gradualmente è cresciuta. Avere delle persone vicine che ti davano una mano in maniera disinteressata, anzi sentirsi coinvolti in questo percorso… probabilmente il segreto è stato quello”.

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Qualche episodio particolare? “Un aneddoto, al primo anno. Ero andato nel magazzinetto dove lavorava un anziano, un ex ergastolano (me lo hanno spiegato dopo). Cercavo un paio di guanti di ricambio. Questo mi chiama da una parte e con una maniera molto paternale mi dice: ‘Sai, tu sei giovane, hai la testa un po’ calda, sarebbe il caso che capissi che qui c’è un sistema anziché un altro, ne abbiamo da guadagnare tutti. Anche tu potresti guadagnare qualche soldo in più, avere più considerazione da parte della direzione’. E io, che ero infatuato da una serie di cose, gli dico: ‘Senta Giorgio perché non pensa un pochino agli affari suoi e non lascia fare a noi quello che non avete il coraggio di fare voi?’ Lui sorridendo dice: ‘Guarda che ti sbagli, facendo così hai da rimetterci’. E io, prendendola quasi come una minaccia, gli dico: ‘Tu non sai cosa dici, non hai idea di cosa rischi a minacciarmi in questa maniera’. Lui mi guarda con questo sorrisetto bonario, quasi sardonico. Fatto sta che quando esco parlo con uno degli anziani e, allarmato, mi dice: ‘Guarda che quello ne ha ammazzati tre’. Qui c’erano veramente delle persone che avevano passato la vita con delle condanne pesantissime. Erano riusciti ad uscire e ad avere una pos208


sibilità. Diventa facile essere ricattabili in questo contesto. Diventa facile, se non trovi ragioni altrettanto forti, allinearti su coloro che ti avevano dato qualcosa. Questo è il clima che avevamo trovato. Piano piano si riuscì a rompere questo muro di diffidenza. Negli anni a venire molti di loro sono diventati i nostri migliori sostenitori, i nostri migliori amici”.

Conclusioni I casi delle due interviste qui riportate ci riconducono a situazioni completamente diverse che rispecchiano aspetti differenti della storia del movimento operaio alessandrino. La lotta nella IMES richiama un mondo sindacale precedente al 1968: in questa azienda non c’è l’uomo massa della catena di montaggio che è il protagonista degli scioperi dell’autunno caldo alla FIAT e in altri grandi stabilimenti. Ci troviamo di fronte a una fabbrica di metalmeccanici che ha conservato molti tratti tradizionali. Non c’è stata negli anni Sessanta la forte immigrazione proveniente dal Meridione che ha trasformato completamente il volto della classe operaia di grandi centri urbani come Torino. Esiste un legame forte rispetto al territorio, con l’identificazione tra stabilimento e quartiere. La IMES è la fabbrica del Cristo, dove lavorano molte persone che abitano nel rione: una situazione antica che risale a prima ancora della guerra, quando l’azienda si chiamava Mino. Non a caso, molti nella parlata comune continuavano a chiamarla con il suo vecchio nome. Il legame con la fabbrica rimane così forte che anche quando viene cambiata la destinazione dell’immobile finisce per essere accolta la richiesta di mantenere l’entrata e alcuni uffici nel loro aspetto originario. La stragrande maggioranza degli operai sono iscritti alla CGIL, aspetto che non stupisce se si considera che il Cristo era una roccaforte del PCI. Il legame dei lavoratori con il resto del quartiere finisce per portare a un coinvolgimento delle principali istituzioni della città, dal comune a guida socialista e democristiana fino alla Cassa di Risparmio. 209

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Un’altra caratteristica dell’occupazione della IMES è l’assenza di gesti disperati e situazioni di particolare tensione. Il sindacato mantiene il controllo della vicenda dall’inizio alla fine e la risolve sul piano contrattuale, incontrando fin dal principio una disponibilità dell’azienda che accetta di non rendere noti i nomi delle persone che dovrebbero essere licenziate. Certo, la rete di solidarietà che si crea intorno alla IMES appare molto lontana anche dal mondo operaio di oggi, che non ha la stessa facilità a interagire con il territorio. Infine, la tipologia di fabbrica che emerge è quella di una realtà industriale abbastanza arretrata e in difficoltà. Non sono un caso in effetti le numerose occupazioni di questo periodo nella provincia, spesso ultima disperata azione volta a tamponare gli effetti di processi di ristrutturazione ormai improcrastinabili. Il caso della Radioconvettori è completamente opposto a quello della IMES: una fabbrica i cui lavoratori sono in buona parte detenuti, con pene anche pesanti da scontare, a cui è stata data una possibilità di uscita dall’alienazione dell’universo carcerario. È una classe operaia priva di diritti sindacali, sottoposta a ricatto e che si trova in condizioni di duro sfruttamento dove non manca anche l’intimidazione violenta. In queste condizioni estreme irrompe un gruppo di giovani e di studenti di Lotta continua che riesce a cambiare completamente la situazione: dopo le tensioni iniziali, gli ex detenuti vengono coinvolti nelle lotte che acquistano caratteristiche estremamente avanzate, andando al di là degli aspetti salariali. In pratica la fabbrica di Quargnento diventa un piccolo laboratorio del movimento di Sofri con l’apertura al mondo carcerario e alle sacche di emarginazione, l’idea di portare la classe operaia su un terreno nuovo che tocca anche l’intimità personale, problemi familiari, il ruolo della donna. Si giunge addirittura al coinvolgimento dei lavoratori nell’esperienza di una delle prime ‘radio libere’. Un aspetto peculiare è anche la spinta ideologica che induce alcuni di questi studenti a entrare nell’azienda più che altro per confrontarsi con il mito operaio. L’unico elemento che accumuna questo caso alla IMES è l’ennesima situazione di un capitalismo che si sta ridefinendo, apprestandosi a eli210


minare impianti ormai improduttivi e obsoleti, ma l’intensità dello scontro è sicuramente più radicale. Le occupazioni della Radioconvettori avvengono in una un’azienda che ha poche possibilità di sopravvivere alle leggi del mercato. Tuttavia, pur nell’ambito di una situazione fin dal principio con scarse prospettive, emerge una carica utopica, che, tra speranze e illusioni, rende queste lotte estremamente lontane da quelle a cui abbiamo assistito recentemente in Italia e in Europa sotto la spinta della crisi.

NOT E 1. Orlando Novelli nasce il 10 ottobre 1937 a Codigoro, in provincia di Ferrara. Si trasferisce nel 1953 ad Alessandria e lavora prima nella fabbrica Gho e quindi dal 1963 nella IMES. Nel 1973 passa agli appalti ferroviari, prima con la Berruti e quindi con la Mascoli. Iscritto alla CGIL, è stato delegato sindacale in tutte le aziende in cui ha lavorato. È in pensione dal 1988. Enrica Beltrami nasce ad Alessandria il 20 ottobre 1946. Diplomata in Ragioneria, entra a lavorare come impiegata nella LICO nel 1966 e l’anno successivo passa alla IMES. Nel 1984 vince un concorso e diventa dipendente nel Comune di Valenza, nel 1995 ottiene il trasferimento nel Comune di Alessandria e nel 2000 passa alla Provincia. Dal 2003 è in pensione. È stata delegata sindacale dell’FLM e successivamente della FIOM nella IMES e del Comune di Valenza. Ora è segretaria della Lega SPI CGIL della Fraschetta. 2. Giuseppe Ciardullo è nato il 23 agosto 1955 ad Acquaro in provincia di Vibo Valentia in Calabria. Nel 1973 si trasferisce in provincia di Alessandria ed entra nella Radioconvettori di Quargnento. Chiusa quest’esperienza, lavora come geometra prima in proprio e quindi come impiegato tecnico. Militante sin dai primi anni Settanta nel movimento studentesco e in seguito in Lotta continua sino allo scioglimento, e contemporaneamente, attivista sindacale iscritto alla FLM con attività di base nei consigli di fabbrica e coordinamento interzone. Dalla fine degli anni Ottanta iscritto al PCI ed in seguito al PDS ed ai Democratici di Sinistra (DS) ricopre per circa dodici anni la carica di segretario politico dell’unità di

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base di Castellazzo Bormida ed è per due mandati congressuali membro della Direzione Provinciale di Alessandria. Nel 2004 è candidato alle elezioni provinciali in rappresentanza dei DS nel collegio VI. Dal 2008 coofondatore dell’Associazione Sinistra Plurale e del Gruppo Provinciale di Sinistra Democratica. Nel 2009 candidato alle elezioni provinciali nel collegio VI per Sinistra e Libertà è tra i costituenti del’omonima formazione a livello di zona alessandrina e provinciale. Incarichi amministrativi: nei primi anni Novanta, membro del Consiglio d’amministrazione della fondazione Asilo Prigione di Castellazzo Bormida in rappresentanza del Comune. Carica ricoperta sino allo scioglimento dell’IPAB. Dal 2004 eletto nel Consiglio Comunale di Castellazzo Bormida, è immediatamente nominato assessore ai Lavori Pubblici e Patrimonio (carica tuttora ricoperta) e per breve tempo assessore con delega ai rapporti con la Polizia Municipale.

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Gli anni Settanta nelle immagini del fondo Dino Ottavi

Nelle pagine che seguono, per documentare alcuni momenti delle lotte operaie e studentesche nella provincia di Alessandria, pubblichiamo alcune fotografie scattate nel corso degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta da Dino Ottavi, agli alessandrini noto come il “cittadino che protesta”. Si tratta di una piccola parte delle centinaia di fotografie scattate da Dino Ottavi dall’inizio degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta, già oggetto di una mostra allestita nell’aprile del 2005 nell’ambito della “Fiera di San Giorgio” con il patrocinio del Comune di Alessandria. L’intero archivio fotografico è stato poi donato dalla famiglia alla Fototeca comunale; circa 500 sono i libri di politica e attualità appartenenti agli Ottavi e donati, alla morte di Lia, alla Biblioteca interdipartimentale “Norberto Bobbio” della sede di Alessandria dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale; infine il complessivo fondo documentale di Dino e Lia Ottavi è in fase di classificazione grazie alla collaborazione dell’ISRAL con la Facoltà di Scienze Politiche della stessa Università. [N.d.R,]

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Quaderno di storia contemporanea/46

Dino Ottavi nasce a Pisa l’11 marzo 1927 da Raimondo Ottavi e Alabarda Abati. Nel ’35, alla morte del padre (di origine ligure, militare nella Guardia di Finanza, morto nella guerra di Etiopia), viene affidato insieme al fratello maggiore all’istituto assistenziale maschile di Pisa in via della Qualconia. Tra i compagni dei non facili anni alla Qualconia, da dove esce nel settembre del ’43, gli restano amici per la vita Edo Cecconi e Luciano Della Mea. Diplomato disegnatore tecnico, si distingue per la curiosità e la vivacità intellettuale, che già in età giovanile lo spinge a acquisire una considerevole e eclettica cultura. Nel ’46 si iscrive al PCI e comincia a lavorare come funzionario di partito. In tale veste conosce nel ’50 la compagna Lia Bonicolini, che sposerà quello stesso anno presso il municipio di Arezzo. Vanno ad abitare a Pisa, nello stesso stabile in cui ha sede la federazione provinciale del PCI. Lia era nata il 13 maggio 1929 a La Tronche in Francia, dove i suoi genitori, Giuseppe Bonicolini e Vittoria Neri, operai antifascisti di Arezzo, erano per breve tempo emigrati. Diplomata ragioniera, appassionata militante del PCI e dell’UDI, Lia era anche stata dirigente della federazione giovanile comunista aretina. Nel ’51 nasce la loro prima figlia, Marina, e nel ’54 il secondogenito, Fabio: nel frattempo Dino e Lia avevano assunto la gestione della contabilità di numerose cooperative pisane, ma le divergenze politiche e personali con l’ambiente dei comunisti pisani, aggravate nel 1956 dal dissenso per l’invasione sovietica dell’Ungheria, li portano a rompere con il partito e a perdere il lavoro. È del ’57 la registrazione al Tribunale di Pisa del giornale murale “Il Grido del popolo”, polemico strumento di battaglia, ideato e realizzato da Dino Ottavi, pubblicista e direttore responsabile. L’arrivo degli Ottavi ad Alessandria, nell’autunno del ’57, si deve al concorso pubblico vinto da Lia per un impiego all’Ufficio Fiduciario prima e poi all’Ispettorato del Lavoro. Dino intraprende invece l’attività di libraio ambulante, che poi fornì il contesto e il pretesto per i suoi primi guai giudiziari. Per quattro anni la coppia - lasciati i figli ad Arezzo dai nonni 214


materni, non potendo provvedere al loro mantenimento - vive in due stanze ammobiliate, molto umide, nel centro storico, in via Verona. A causa delle cattive condizioni di vita, Dino si ammala di polmonite e nel ’58 viene anche ricoverato per sei mesi, in sanatorio, a Villa Maria. Nell’estate 1959, con la residenza, Dino ottiene l’autorizzazione per la gestione di una bancarella e una vetrina libraria nella Galleria Guerci. Contestualmente intensifica la sua partecipazione alla vita pubblica della città, intervenendo ai dibattiti politici e culturali e assistendo, come giornalista e fotografo accreditato, alle sedute dei Consigli comunale e provinciale, spesso entrando in contrasto con le forze dell’ordine, e in particolare con i Vigili urbani, a causa delle sue intemperanze verbali. Inizia così a essere conosciuto come “il libraio terribile” e “il cittadino che protesta”. Nell’autunno del ’61, ottenuta l’assegnazione di un alloggio IACP in via Parnisetti, i coniugi Ottavi possono finalmente portare ad Alessandria anche i figli, mentre Dino ottiene un lavoro da disegnatore in una piccola azienda produttrice di case prefabbricate, l’ALMA. È del 1962 la registrazione al Tribunale di Alessandria del giornale murale “L’Indicatore”, che nel corso degli anni accompagnerà le sue battaglie politiche e le sue vertenze sindacali. Più volte arrestato (tre volte tra il ’66 e il ’75) sempre per reati di opinione e per oltraggio a pubblico ufficiale (per esempio, in occasione di una conferenza tenuta nel ’62 al Liceo Musicale da Padre Ernesto Balducci, che al processo testimoniò a suo favore), Dino Ottavi anticipa il movimento del ’68 denunciando le condizioni dell’istituzione carceraria e quelle dei “lager” manicomiali, dove veniva mandato, con richiesta di perizia psichiatrica, a causa del suo comportamento in carcere (scioperi della fame e forme radicali di protesta per difendere i propri diritti e quelli dei detenuti che gli capitava di conoscere). Nel ’68-’69 Dino, con Lia, appoggia la protesta degli studenti che ben presto si allarga a tutta la società e si collega alle lotte del movimento operaio. Come ha scritto Corrado Malandrino nell’articolo in memoria di Dino Ottavi, pubblicato nel n.20/1996 sul 215

Alberto Ballerino, Gli anni delle occupazioni. Imes e Radioconvettori, due casi emblematici

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Quaderno di storia contemporanea/46

“Quaderno di storia contemporanea” dell’ISRAL, la sua fu “una testimonianza civile, che si trasformò in attesa rivoluzionaria nell’atmosfera imperante tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. A tali obiettivi fu sottesa tutta l’attività accanto ai giovani del COES/AL, il Collettivo operai e studenti di Alessandria, che Dino cercò di far vivere negli anni Settanta” quando all’età di quarantacinque anni fu assunto dalla Morteo Soprefin di Pozzolo Formigaro come operaio, ricorrendo alle quote protette in quanto “orfano di guerra”. Gli anni del COES/AL, dal 1972 al 1977, sono gli stessi dell’impegno nell’Associazione per la lotta contro le malattie mentali (ALMM), costituita a Alessandria in collegamento con l’omonima Associazione torinese e il movimento degli psichiatri che fanno capo a Franco Basaglia: sia il COES/AL che l’ALMM hanno sede a casa Ottavi, che è anche il recapito per la Lega degli ex carcerati, altra associazione creata da Dino in base alla sua diretta esperienza, e il ritrovo del collettivo femminista cui partecipa attivamente Lia. Dopo il licenziamento da parte della Morteo nel 1973, e la mancata assunzione alla Delta di Serravalle Scrivia (pur obbligata da una sentenza del tribunale in seguito a vertenza), nel 1974 Dino viene assunto dalla SAMI-Michelin di Spinetta Marengo e qui combatte le sue battaglie fino ai primi anni Ottanta: dalla contestazione del suo licenziamento nel ’75, poi ritirato dall’azienda per un’ordinanza del pretore di Alessandria che gli dà ragione, alle vertenze per maggiori aumenti salariali rispetto alle stesse richieste sindacali, alle prese in giro della dirigenza aziendale per il fatto che preferiscono pagarlo senza farlo lavorare pur di non farlo entrare nello stabilimento per “sobillare” i lavoratori. Conclude così Corrado Malandrino nel succitato articolo: l’assunzione alla Michelin segna “una nuova stagione di lotte, con e contro il sindacato: l’avvicinamento a posizioni libertarie, radicali, l’interesse rinnovato alla ‘giustizia giusta’ in favore dei più deboli, degli emarginati. Al termine dello scorso decennio, in contro corrente rispetto alla stabilizzazione moderata ispirata dal patto socialista-democristiano in Italia e alla liquidazione dell’eredità 216


comunista a livello internazionale seguita all’iniziativa gorbacioviana e alla caduta del Muro di Berlino, Dino, forse seguendo il riflesso a lui più congeniale, si rifece alle problematiche di classe della sua giovinezza, al comunismo sempre inteso nel ‘suo’ senso libertario. Ma, di questo periodo, contraddistinto dal pensionamento e dalla caduta in uno stato di prostrazione psicologica dopo la scomparsa improvvisa e tragica del figlio Fabio, nel 1987, non restano testimonianze scritte, se non la documentazione dell’iniziativa - questa sì! riuscita - di istituire la Fondazione Fabio Ottavi, i cui fondi raccolti furono utilizzati per arredare una salagiochi dell’ospedalino dei bimbi in Alessandria”. Dino Ottavi muore il 5 dicembre 1994 e, quasi otto anni dopo, l’11 giugno 2002 muore Lia. Per entrambi ha svolto l’orazione funebre la senatrice Carla Nespolo, attuale presidente dell’ISRAL. [Marina Ottavi]

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Alberto Ballerino, Gli anni delle occupazioni. Imes e Radioconvettori, due casi emblematici

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Quaderno di storia contemporanea/46

28 agosto 1972: volantinaggio del Collettivo operai e studenti di Alessandria (COES/AL) di fronte alla Morteo Soprefin di Pozzolo Formigaro. Nella foto si riconoscono Marina e Dino Ottavi.

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Un’altra istantanea del volantinaggio del COES/AL alla Morteo Soprefin di Pozzolo Formigaro.

Sempre di fronte ai cancelli della Morteo Soprefin di Pozzolo Formigaro: in primo piano Corrado Malandrino.

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Quaderno di storia contemporanea/46

26 ottobre 1972: sciopero alla Morteo Sobrepin di Pozzolo Formigaro.

Un’altra immagine dello sciopero alla Morteo Sobrepin.

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Marzo 1977: Dino Ottavi durante un presidio ai cancelli della Michelin di Spinetta Marengo.

Marzo 1977: operai della Michelin di Spinetta Marengo durante una vertenza sindacale.

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Quaderno di storia contemporanea/46

Marzo 1977: assemblea sindacale alla Michelin di Spinetta Marengo.

Marzo 1977: esposizione del giornale murale “L’Indicatore� in piazzetta della Lega.

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14 marzo 1980: cambio di turno alla Michelin. Sullo sfondo un gruppo di operai legge il giornale “L’Indicatore” affisso da Dino Ottavi all’esterno dell’impianto in occasione di una assemblea sindacale.

14 marzo 1980: assemblea sindacale alla Michelin di Spinetta Marengo.

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Quaderno di storia contemporanea/46

14 marzo 1980: operai durante un’assemblea sindacale alla Michelin di Spinetta Marengo.

14 marzo 1980: operai durante un’assemblea sindacale alla Michelin di Spinetta Marengo.

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Il mercurialismo.

Dario Piccotti

Uno dei primissimi atti della Commissione interna della Borsalino 1, a quindici giorni dal suo insediamento, fu la richiesta di una fornitura di latte per il reparto soffiatrici “sia in fabbrica che a casa”. La Direzione rispose che avrebbe interessato il medico di fabbrica “per ottenere l’assegnazione di un maggiore quantitativo di latte da consumarsi a domicilio” 2. Il mese successivo la Commissione interna rivolse una richiesta analoga per i lavoratori della Taglieria pelo 3, con la precisazione che il supplemento venisse corrisposto in fabbrica e non a domicilio, mentre a marzo venne caldeggiata l’installazione di “un impianto di riscaldatori affinché il latte da consumarsi in fabbrica dagli operai esposti al rischio di intossicazioni venga distribuito caldo”4. Queste brevi considerazioni presenti nei verbali della Commissione interna possono a prima vista apparire marginali: in realtà sono l’unico – sbiadito – riferimento a una situazione di estrema gravità concernente la salute dei lavoratori impiegati nei reparti in “bianco”, quelli cioè preposti alle operazioni iniziali di fabbricazione del cappello di feltro. Di tale situazione è uno specchio estremamente fedele la comunicazione presentata a Londra, in occasione del IX Congresso internazionale di medicina del lavoro (13-17 settembre 1948) dal prof. Enrico Vigliani e dal dott. Giorgio Baldi avente per titolo Una insolita epidemia di mercu-

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Dario Piccotti, Il mercurialismo. Il caso della Borsalino di Alessandria

Il caso della Borsalino di Alessandria


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Quaderno di storia contemporanea/46

rialismo in una fabbrica di cappelli di feltro e successivamente pubblicata sulla rivista “La medicina del lavoro”. L’azienda di cui si parla, “la più importante fabbrica italiana di cappelli di feltro”, è inequivocabilmente la Borsalino 5. Il documento raccoglie i risultati di una indagine che i due studiosi avevano avviato nella fabbrica alessandrina dopo che erano stati certificati, nel maggio del 1943, alcuni casi di mercurialismo, una malattia professionale caratterizzata da tremore alle mani, che colpiva soprattutto i lavoratori dei reparti bagnaggio6 e folle coq7, addetti alla feltratura dei cappelli. Nel corso di tale operazione, infatti, il pelo di coniglio veniva trattato con soluzioni a base di mercurio, dalle quali si sprigionavano vapori tossici. I due studiosi, dopo aver precisato che sebbene nell’azienda in questione non si fosse mai riscontrato alcun caso di mercurialismo prima del 1942, rilevavano comunque che “alcune operaie dei reparti bagnaggio e follatura avevano sofferto di gengivite con perdita di molti denti, di tremori, di esaurimento nervoso, di artralgie e cefalea” 8. Liquidati inizialmente come casi sporadici, a partire dal dicembre dello stesso anno si fecero sempre più frequenti cosicché nel 1943 oltre la metà dei lavoratori dei due reparti risultava intossicata e una ventina di operai avevano dovuto abbandonare il lavoro “con segni gravi e alcune volte gravissimi di mercurialismo” 9. Fra maggio, giugno e luglio un’altra ventina di operai dovettero abbandonare il lavoro, poi l’epidemia diminuì di intensità per cui nell’ultimo trimestre dell’anno i casi tornarono a essere sporadici. Dopo questa sintetica analisi dell’evoluzione e della rarefazione dell’epidemia, i due medici procedevano a una disamina analitica di dati clinici e statistici sulla base della quale essi giungevano a definire con precisione l’entità de fenomeno. La prima osservazione riguardava la localizzazione della malattia professionale: essa aveva riguardato esclusivamente operai del reparto bagnaggio e folle coq, costituiti in gran prevalenza da donne. Su 132 operai del reparto, 84 avevano evidenziato segni di intossicazione tali da dover abbandonare il lavoro: di essi 226


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“Noi osservammo 78 degli 84 casi – si legge nella loro relazione – e su di essi si basa la nostra descrizione, che qui, per brevità, ricorda solo le particolarità più interessanti dell’avvelenamento. Le alterazioni nervose furono le più gravi: il tremore, di tipo non solo intenzionale, ma anche statico, in 26 casi era lieve, in 30 ostacolava notevolmente la scrittura, in 7 la rendeva impossibile e in 5 casi era così grave e generalizzato da impedire di mangiare e di vestirsi 10. L’ipertonia, cioè la rigidità abnorme degli arti, era uno dei segni più tipici dell’intossicazione da mercurio e fu riscontrata in 8 pazienti: una di esse, di 53 anni, con 36 anni di lavoro alle folle coq, fu colpita alle gambe e al braccio in maniera così grave da diventare completamente inabile al lavoro. L’altra sintomatologia peculiare del mercurialismo era l’insonnia. “Buona parte delle ammalate passava la notte sveglia, a volte camminando per la camera” 11. Questa patologia era comunque del tutto banale rispetto alle più gravi “alterazioni psichiche” ,fra cui “la cosidetta isteria mercuriale”, caratterizzata da “anestesie o ipoestesie tipicamente isteriche” 12 come crisi improvvise di spasmi alla laringe della durata di 5 o 6 minuti, talmente intense da far rischiare il soffocamento. Nell’autunno del 1943 più di 30 lavoratori intossicati furono inviati in una stazione termale e curati con bevande e bagni solforosi: la maggior parte ebbe un significativo miglioramento e in alcuni il tremore scomparve quasi completamente. Ritornati in città, però, molti ebbero delle ricadute anche senza più esporsi al mercurio. Su questo fatto si soffermano a lungo i due medici al fine di smentire un luogo comune del tempo, secondo il quale dal mercurialismo era possibile guarire dato che il suo sintomo più caratteristico, il tremore, spariva non appena si allontanava il malato dal contatto col mercurio.

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Dario Piccotti, Il mercurialismo. Il caso della Borsalino di Alessandria

55 ebbero una rendita per invalidità.


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Quaderno di storia contemporanea/46

“Purtroppo la nostra esperienza è diversa – affermavano – non solo molti operai non sono guariti, ma parecchi sono peggiorati dal 1943 ad ora e qualcuno non solo nella sintomatologia psichica, ma anche in quella nervosa” 13. Come sintesi della loro indagine, veniva poi allegata una tabulazione del decorso dei casi più gravi di mercurialismo, da cui risultava che su 55 pazienti solo 16 erano migliorati 14. I due studiosi avevano anche provveduto a esaminare le urine di un centinaio di operai addetti alla follatura che non presentavano segni di malattia, riscontrando come in tutti i campioni fosse presente il mercurio, in quantità variabili fino a un massimo di 2 mg per litro; e come cessato il contatto col mercurio la sua quantità nelle urine diminuiva rapidamente. Questo fatto tuttavia non garantiva che la patologia non fosse in fieri, visto che anche nei conclamati casi di mercurialismo era normale che dopo 2-3 mesi dall’allontanamento dal reparto la presenza del mercurio nelle urine scendesse. Per giudicare se l’intossicazione negli operai addetti alla follatura fosse avvenuta solo per via inalatoria, o anche per il contatto della pelle con le acque contenenti mercurio, venne fatto un esperimento. Scriveva il prof. Vigliani: “Due operaie sono state fatte lavorare alle folle coq una con le mani nude e l’altra con mani e braccia protette da guanti di gomma: in tutte e due il mercurio comparve nelle urine il terzo giorno di lavoro; nei giorni seguenti le urine delle due donne contenevano quantità eguali di mercurio” 15. Fu giocoforza concludere che l’assorbimento avveniva per inalazione e non per via cutanea. Allo scopo di risalire alle cause dell’epidemia di mercurialismo del 1943, furono eseguite negli anni immediatamente successivi numerose misurazioni del contenuto in mercurio del pelo, delle acque di follatura e dell’atmosfera in diverse condizioni sperimentali e di lavorazione. Le conclusioni cui pervennero i due ricercatori furono estremamente chiare e rigorose: presenza di mercurio nel pelo: appena essiccato, il pelo conteneva dal 1,8 al 2,8% di mercurio, mentre nelle spuntature e nei residui più scadenti le percentuali arrivavano anche al 6 %.

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presenza di mercurio nelle acque di follatura: immergendo per 30 minuti il pelo in acqua acidulata il pelo cedeva alle acque molto mercurio, anche il 50 %. Dunque, “le acque di follatura contengono sempre mercurio: noi ne abbiamo trovato fino a 30 mg per litro. La quantità di Hg aumenta proporzionalmente al numero di feltri follati e a parità di condizioni, le acque delle macchine con caldaie piccole contengono più mercurio delle acque delle macchine con caldaie grandi” 16. Mercurio nell’ambiente di lavoro: i valori più alti vennero riscontrati in inverno con le finestre chiuse e con in funzione la sola ventilazione artificiale, quelli più bassi nell’estate a finestre aperte. Nel reparto folle coq gli aspiratori contenevano mercurio, in quantità proporzionale a quello contenuto nelle acque. La spiegazione dell’epidemia di mercurialismo del 1943 – a detta del prof. Vigliani e del dott. Baldi – andava tuttavia ricercata in una serie di cause concomitanti, quali: l’utilizzo di peli più scadenti del solito e pertanto con maggior quantità di mercurio; l’impiego alle folle coq di una caldaia più piccola per diminuire il consumo di carbone, con conseguente maggior concentrazione del mercurio nelle acque di follatura; l’intensificazione dell’orario di lavoro fino a 9 e anche 10 ore al giorno; la lavorazione dal marzo al giugno 1943 di cappelli militari più pesanti e fabbricati col pelo di scarto, che conteneva perciò elevate quantità di mercurio; i razionamenti dovuti alla guerra che indebolivano la resistenza individuale verso le intossicazioni. In effetti “il periodo culminante dell’epidemia fu nell’aprile 1943, e cioè dopo parecchi mesi di lavoro con le finestre chiuse, e quando si era iniziata da un mese la fabbricazione dei cappelli militari” 17. Quanto alla pericolosità dei reparti in relazione alla malattia professionale in esame, al primo posto risultavano le folle coq, seguite da tintoria, soffiatura, bagnaggio, visitaggio, folle a mano, americane, macchinette e imbastitura. Solo in questi reparti, si erano riscontrati in diversa misura casi di mercurialismo. Nell’immediato dopoguerra, nuovi casi di mercurialismo si ebbero nel novembre del ’45, allorché “quattro operaie delle

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Folle coq, mercuriate o sospette” 18 si lamentarono per la faticosità del loro lavoro chiedendo di poter lavorare da sedute. L’impresa obiettò che le peculiarità delle loro mansioni rendeva “estremamente difficile” una soluzione nel senso da loro desiderato e non diede seguito alla richiesta. Pochi giorni dopo sei lavoratrici dei reparti in nero, addette cioè alle operazioni finali della fabbricazione del cappello, rifiutarono di essere spostate nel reparto di follatura, non per ragioni “di capriccio o indisciplina” – come spiegarono i rappresentanti della Commissione interna – “ma bensì per ragioni di salvaguardia della salute” 19. Il mese successivo altre operaie dello stesso reparto chiesero, tramite la Commissione interna, di essere retribuite “con la tariffa degli uomini o quanto meno di ricevere una razione di viveri supplementare a carico della ditta per fortificare l’organismo contro la malattia professionale del mercurialismo” 20. La Direzione si riservò di rispondere, ma dai verbali successivi non risulta che avesse accondisceso alle loro richieste. Pochi mesi dopo la situazione si sarebbe aggravata: 8 operai dovettero abbandonare il lavoro pur con una sintomatologia più lieve di quella del 1943. La situazione peggiorò ulteriormente in seguito alla decisione del Comune, a causa della scarsità di latte, di “sopprimere la concessione del mezzo litro” distribuito quotidianamente ai lavoratori dei reparti a rischio di mercurialismo: le donne del Reparto Scatole “morbosamente tormentate dal sospetto di essere affette da sintomi di avvelenamento” 21, chiesero e ottennero di essere sottoposte a visita medica. Successivamente, per analoghi motivi, venne concesso un “aiuto finanziario” (1200 lire) in forma di anticipo ad alcune dipendenti che dovevano raggiungere una località di cura. Nel contempo, portata a termine la loro indagine i due medici proposero una serie di misure preventive, fra cui: controllo ogni 2 mesi della salute degli operai; creazione di un fondo monetario, alimentato per 6/7 dall’impresa e per i 1/7 dagli operai con il quale provvedere a somministrare “mezzo litro di latte al giorno agli operai, a tutte le cure dentarie, a quelle di caratte-

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re preventivo e all’invio in stazioni termali o in luoghi di riposo per 15 giorni di tutti gli operai esposti al pericolo o presentanti i primi segni di intossicazione” 22; controllo sistematico del mercurio nelle urine degli operai, nei peli, nelle acque e nell’ambiente di lavoro; miglioramento dei sistemi di ventilazione artificiale e di aspirazione localizzata, specialmente nei reparti folle coq e pomesatura” 23. Sollecitata da queste indicazioni, “a seguito degli ultimi scambi di idee avvenuti per tramite del prof. Vigliani, direttore della clinica del lavoro dell’Università di Milano” e spronata dalla Commissione interna, l’azienda decise di creare un “ente speciale avente per scopo l’assistenza dei lavoratori esposti al pericolo di intossicazioni da mercurio”. Chiese però come contropartita “la dichiarazione di recesso da parte di tutti quei lavoratori” che avevano intentato causa alla Borsalino” 24. Da ciò si deduce che era in atto una inchiesta in seguito alla denuncia presentata da un certo numero di operai, sicuramente assistiti dalla Camera del Lavoro di Alessandria, contro l’azienda, in seguito al diffondersi di casi di mercurialismo e alla scarsa disponibilità della Borsalino di intervenire con misure adeguate. Fra Commissione interna e azienda era inoltre in atto anche una sorta di contenzioso riguardo ai reparti che dovevano beneficiare della distribuzione di latte, come si può dedurre da un passaggio dei verbali in cui la Direzione dichiarava di essere disponibile a fornire la razione ai nuovi assunti a patto che la Commissione interna accettasse la revoca delle “concessioni di latte che furono erroneamente fatte al personale che nulla ha a che vedere coi reparti in cui si manifesta il pericolo di mercurialismo” 25. In dicembre, con la consegna da parte della Commissione interna del “testo definitivo dell’atto costituzionale” 26 fu formalizzata l’istituzione di un Fondo di assistenza contro le intossicazioni da mercurio (FAPIM), alimentato dai contributi dei lavoratori dei reparti in bianco con lo 0,60% della retribuzione lorda e da versamenti da parte dell’impresa in misura superiore al monte contributivo degli operai. Il Fondo, amministrato da un consiglio composto da tre rappresentanti della Borsalino e da tre

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lavoratori, era presieduto da uno specialista di Medicina del lavoro: suoi compiti erano attivare misure preventive e terapeutiche, oltre a erogare rendite integrative degli assegni INAIL. Nel 1947 i casi nuovi diminuirono ancora di numero e gravità: “eccetto 2 o 3 casi di lieve tremore, furono notate solo più gengiviti espulsive in vecchi operai” 27. Da parte sua la Borsalino appariva seriamente intenzionata a debellare, o perlomeno a ridurre, l’incidenza di questa malattia professionale. Ce lo testimoniano alcuni significativi episodi riportati dai verbali della Commissioni interne: il sollecito rivolto alla Commissione interna perché sensibilizzasse gli operai a iscriversi al fondo antimercurialismo, avendo rilevato come mancassero ancora “200 adesioni” 28; il permesso concesso a tre operai affetti da mercurialismo per effettuare un breve soggiorno in una casa di cura, accettando di considerarli “momentaneamente sospesi dal lavoro” 29 onde potessero fruire “del trattamento della Cassa Integrazione guadagni”; la pretesa di una dichiarazione scritta che sollevasse l’impresa da ogni responsabilità formulata a due operaie che, contrariamente al parere del medico dell’INAIL, intendevano tornare al reparto dal quale erano state allontanate per intossicazione 30; il parere richiesto al prof. Vigliani in merito alla richiesta delle operaie del reparto imbastitici di ricevere “qualche altra sostanza” in luogo del latte 31; la semplificazione della procedura di distribuzione del latte alle maestranze con la concessione a “tutti coloro che si notificheranno al proprio capo, di un buono per il prelevamento gratuito presso un lattivendolo da designarsi” 32. Nel 1949, il Fondo temporaneo d’assistenza e prevenzione contro le intossicazioni da mercurio, fu riconfermato con un Atto istituzionale frutto di “studi consensualmente condotti dai rappresentanti dei lavoratori e da quelli dell’Azienda” 33. Il cosiddetto FAPIM II annoverava, fra i tre membri operai del consiglio di amministrazione anche il futuro segretario nazionale del sindacato cappellai Stefano Ongarelli. Nel frattempo la Commissione interna si era attivata per alleviare i costi delle cure termali cui dovevano sottoporsi gli operai affetti da mercurialismo. Poiché la Cassa malattia

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richiedeva a ciascun paziente un contributo di L. 9000, ottenne dall’impresa che fosse loro corrisposto un anticipo da scontare sullo stipendio nella misura di “L. 500 per quattordicina” 34. Nel 1951, alla scadenza biennale del fondo antimercurialismo, la Commissione interna chiese formalmente di mantenere in essere l’istituzione e la Borsalino notificò “la sua buona disposizione a studiare la cosa”, precisando però che il nuovo FAPIM sarebbe comunque risultato come fondo di “nuova creazione”. Al di là dei distinguo formali questo significava che il problema del mercurialismo, seppur sotto controllo, restava ancora aperto, con la Commissione interna che si preoccupava di conoscere la “disponibilità di medicine per cure e prevenzione mercuriale” 35. Cinque mesi dopo, nel gennaio del ’52, l’impresa presentò infatti uno schema di Regolamento del nuovo fondo di prevenzione delle malattie mercuriali, denominato FAPIM III, sollecitando la Commissione interna a far pervenire al più presto alla Direzione l’approvazione necessaria per permettere agli operai di “fruire dell’assistenza che fino ad oggi hanno dimostrato di gradire” 36. In realtà l’organismo sindacale attraverso una serie di tergiversazioni fece in modo che le elezioni per la nomina dei dirigenti operai del fondo slittassero a fine anno 37. C’è ragione di credere che la Commissione interna ritenesse che l’azienda, anche se era effettivamente impegnata ad affrontare il mercurialismo sul piano terapeutico, non facesse alcuna opera di prevenzione. Questa ipotesi sembra suffragata da un documento riservato – finito sicuramente per errore nei verbali della Commissione interna – inoltrato al comandante dei carabinieri di Alessandria. Si tratta di un dettagliatissimo rapporto sul XII Congresso nazionale dei Cappellai, tenutosi in Alessandria l’11 ottobre. L’estensore, oltre che a citare testualmente stralci di discorsi degli intervenuti, dedicava ampio spazio alle parole del segretario della Camera del lavoro, Ongarelli, che, dopo aver denunciato tre casi accertati di mercurialismo, accusava formalmente i dirigenti della Borsalino non solo di celare la verità sul fenomeno, ma di esserne i responsabili mettendo “in lavorazione

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il pelo prima che questo sia stagionato, generando i casi di intossicazione” 38. Nel novembre del ‘54 venne istituito il FAPIM IV con la sollecitazione della Commissione interna affinché l’impresa aumentasse “la quota di erogazione” 39 ai dipendenti bisognosi di cure termali. Il fondo antimercurialismo venne rinnovato regolarmente negli anni successivi a scadenze biennali fino al 1960: nei verbali della Commissione interna tuttavia non sono presenti osservazioni in grado di fornirci dati sull’andamento della malattia. Già dalla fine degli anni ’50 sembra profilarsi nella Borsalino un atteggiamento sempre più defilato riguardo al mercurialismo, come se la Ditta ritenesse il problema non più significativo e non intendesse investire in esso ulteriori risorse. Comunque è certo che il problema del mercurialismo non era stato affatto risolto, se nel 1962 un esponente della Commissione interna di area CGIL chiedeva che l’azienda “istituisse visite di controllo preventivo” ed “esami del sangue” per tutelare i lavoratori dalle intossicazioni di mercurio. Ma la Direzione ribattè che la Borsalino attivava “unica nella categoria, importanti misure preventive basate sui consigli della più apprezzata scienza medica”: quanto agli esami del sangue dichiarò che il medico di fabbrica li aveva giudicati irrilevanti ai fini della prevenzione 40. Analogo atteggiamento assunse l’anno successivo, quando la Commissione interna, per tutelare la salute degli operai del reparto di Informatura di prima, chiese che fosse loro estesa “l’assistenza” del fondo antimercurialismo: la direzione fece osservare che “l’atto istituzionale non comprendeva il personale di detto reparto” 41. Per tutto il periodo fra il ’64 e il ’69 non si hanno notizie di alcun genere sulla gestione del FAPIM, se non che, agli inizi del ’67, esso venne ricostituito e che attraverso questo fondo si organizzavano in settembre turni di “cure” alle Terme di Salice 42.

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1. Chi scrive ha ricevuto in dono dalla signora Giovanna Raisini Usuelli, in ricordo del nonno, Pasquale Zunino, portinaio della ditta nel periodo tra il 1935 e il 1968, la collezione completa (6 volumi) dei verbali della Commissione interna (1943-1971) della Borsalino di Alessandria. Nei verbali sono contenuti: i resoconti degli incontri fra rappresentanti dell’azienda (definiti Direzione) e membri della Commissione interna. La discussione inizia con l’approvazione del verbale precedente, cui seguono le richieste della Commissione e le repliche della Direzione secondo un ordine del giorno che appare più dettato dalle esigenze del momento che da una precisa procedura burocratica; annotazioni inerenti scioperi, interruzioni del lavoro, chiusura anticipata dei reparti per carenza di commesse, ecc.; allegati vari presumibilmente dimenticati (come ad esempio una relazione di un sottufficiale dei carabinieri su un’assemblea tenuta alla Camera del Lavoro, inviata, forse per conoscenza all’azienda). Il verbalizzante è sempre un dirigente dell’azienda: è pertanto inevitabile che i verbali, pur sottoposti a verifica e a controfirma degli esponenti sindacali, lascino trapelare la “sovrastruttura ideologica” dei loro estensori, che mentre verbalizzano il dibattito non possono fare a meno, anche involontariamente, di filtrarlo attraverso il proprio angolo visuale di dirigenti e rappresentanti degli interessi dell’azienda. Nonostante ciò essi sono di grande utilità per ricostruire le relazioni sindacali alla Borsalino, tema assai poco frequentato se si fa eccezione delle vertenze più lunghe e più dure. Cfr. l’ipertesto Iniziative sindacali e lotte operaie alla Borsalino dal dopoguerra all’autunno caldo pubblicato sul sito dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria (www.isral.it/web/web/borsalino/index.htm). 2. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 28 dicembre 1943. 3. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 17 gennaio 1944. 4. Verbale della Commissione Interna della Borsalino del 31 marzo 1944. 5. E. Vigliani, G. Baldi, Una insolita epidemia di mercurialismo in una fabbrica di cappelli di feltro, in “La medicina del lavoro”, 1949; p.65. 6. Nel Reparto Bagnaggio il pelo di coniglio già ridotto a tessuto, veniva

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Dario Piccotti, Il mercurialismo. Il caso della Borsalino di Alessandria

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infeltrito mediante immersione in acqua bollente in cui erano disciolti nitrato di mercurio, acido solforico e formico. 7. Nel reparto Follatura (suddiviso in Folle coq e Folle a mano) i feltri venivano follati, cioè rassodati mediante pressione e sfregamenti e sottoposti all’azione di acidi. Le operazioni venivano svolte sia a macchina che a mano: in questo secondo caso gli operai, che lavoravano vicino a grandi vasche piene di acqua bollente e di sostanze acide, trattavano il feltro con le manipole, tavolette di legno legate alle mani. 8. E. Vigliani, G. Baldi, Una insolita epidemia di mercurialismo in una fabbrica di cappelli di feltro, cit.; p. 65. 9. Ivi; p. 66. 10. Ivi; p. 67. 11. Ibidem. 12. Ivi; p. 68. 13. Ibidem. 14. “Operai intossicati, 55; migliorati, 16; stazionari 23; peggiorati 13; morti, 3â€?. 15. E. Vigliani, G. Baldi, Una insolita epidemia di mercurialismo in una fabbrica di cappelli di feltro, cit.; p. 69. 16. Ibidem. 17. Ivi, p. 70. 18. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 21 novembre 1945. 19. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 28 novembre 1945. 20. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 5 dicembre 1945. 21. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 3 gennaio 1946. 22. E. Vigliani, G. Baldi, Una insolita epidemia di mercurialismo in una fabbrica di cappelli di feltro, cit.; p. 71. 23. Il reparto pomesatura era costituito da macchine per la smerigliatura dei cappelli. 24. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 21 ottobre 1946. 25. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 5 novembre 1946.

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26. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 13 dicembre 1946. 27. E. Vigliani, G. Baldi, Una insolita epidemia di mercurialismo in una fabbrica di cappelli di feltro, cit.; p.66. 28. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 22 gennaio 1947. 29. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 26 marzo 1947. 30. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 21 maggio 1947. 31. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 28 maggio 1947. 32. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 12 dicembre 1947. 33. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 24 agosto 1949. 34. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 5 ottobre 1949. 35. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 29 agosto 1951. 36. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 30 gennaio 1952. 37. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 20 novembre 1952. 38. Legione territoriale dei carabinieri. Alessandria. Squadra investigativa del gruppo. Promemoria riservato personale. Oggetto: XII Congresso cappellai, 12 ottobre 1952. 39. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 17 novembre 1954. 40. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 10 gennaio 1962. 41. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 13 febbraio 1963. 42. Verbale della Commissione interna della Borsalino del 23 agosto 1967.

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Dario Piccotti, Il mercurialismo. Il caso della Borsalino di Alessandria

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L’ACNA di Cengio e il movimento per la rinascita della Valle Bormida

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Bruno Bruna

L’ACNA nasce nel 1882 come SIPE (Società italiana prodotti esplodenti); la sua collocazione è strategica: al confine tra due regioni (la Liguria e il Piemonte), in una vallata ricca di acqua da sfruttare e popolata da contadini abituati alle dure fatiche dei campi e di poche pretese economiche, a cui il lavoro sicuro in fabbrica pare una manna caduta dal cielo.(1) Pochi anni dopo la costruzione dello stabilimento, però, si presentano i primi problemi e si registrano le prime denunce: il fiume è infatti già allora fortemente inquinato per decine di chilometri a valle della fabbrica. Nel 1909 il Pretore di Mondovì dichiara inquinati i pozzi di Saliceto, Camerana e Monesiglio, mentre, poco dopo, si procede alla chiusura dell’acquedotto di Cortemilia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, proprio quando stavano incominciando le prime cause per il risarcimento dei danni provocati dagli scarichi dello stabilimento, la SIPE si scopre industria militarmente strategica: lavorarvi comporta l’esonero, si cercano raccomandazioni per essere assunti, perché il veleno della fabbrica fa meno paura del piombo della prima linea. Cessano così le proteste, mentre lo stabilimento di Cengio arriva a occupare fino a 6000 operai. Nel dopoguerra la produzione si indirizza verso gli intermedi per coloranti; al 1929 risale la denominazione più nota, ACNA (Aziende chimiche nazionali associate, mutata pochi anni dopo, senza cambiarne l’acronimo, in Azienda colori nazionali e affini). La riconversione postbellica fu avviata dall’Italgas, costretta però pochi anni dopo a cedere la proprietà alla Montecatini e alla 238


Farben (la nota industria tedesca produttrice, tra l’altro, dello Zyklon-B, il gas utilizzato dai nazisti nelle camere a gas). A questo proposito Pier Paolo Poggio scrive che “il rapporto tra l’ACNA e l’I.G. Farben è illuminato dalla vicenda dell’applicazione delle leggi razziali del 1938; l’ACNA è l’unica azienda del gruppo Montecatini in cui l’epurazione contro gli ebrei viene applicata con rigore”. Proprio al 1938 risale una vicenda emblematica del rapporto fabbrica-contadini-autorità. In quell’anno 600 contadini denunciano l’impresa per danni alle colture; anche in questo caso, lo scoppio della guerra viene incontro all’azienda (nell’ottobre 1939 scoppia anche il reparto Pentrite, provocando cinque morti), rimandando la sentenza della causa al 1961: l’ACNA verrà assolta e i contadini condannati al pagamento delle spese processuali. La motivazione? Gli scarichi dello stabilimento contengono molte sostanze che possono essere considerate fertilizzanti! Fra la guerra e la sentenza del ’61 si consuma un altro ciclo di lotte, quello della metà degli anni Cinquanta, sicuramente il movimento più partecipato dalla popolazione prima di quello della fine degli anni Ottanta. In quegli anni, come ci ricorda Sergio Dalmasso, a far decollare la protesta furono determinanti “la nuova linea del PCI che sceglie una politica più attenta alle campagne e di larghe alleanze e la presenza nell’astigiano e nell’albese del Partito dei Contadini”. Pur in una zona tradizionalmente bianca, bianchissima, il movimento, vuoi per le condizioni estremamente difficili dell’agricoltura, vuoi per la non radicalità delle richieste (non si chiede, ad esempio, la chiusura dell’ACNA, ma più semplicemente un controllo degli scarichi ed il risarcimento dei danni) cresce in modo esponenziale, tanto che anche la Democrazia cristiana, che a lungo aveva tentato di ignorarlo o di sopirlo, a un certo punto cerca di inserirvisi, con istanze proprie, ma non molto dissimili da quelle presentate da Antonio Giolitti e dal Partito comunista italiano. Nel 1956 ci sono le prime “passeggiate contadine” a Gorzegno. Le manifestazioni assumono presto dimensioni di massa – a fianco dei contadini ci sono le mogli con i bambini al seguito – che con difficoltà le autorità e le forze dell’ordine cercano di arginare. A questo proposito Gino 239

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Borgna racconta come in occasione di una manifestazione a Gorzegno, dovettero affittare i pullmann a Varazze, perché il Prefetto di Cuneo aveva intimato a tutte le società di autotrasporti della provincia di non noleggiare vetture al movimento. Diversi contadini saranno denunciati e condannati. Arrivano però i fatti d’Ungheria, Giolitti abbandona il partito e presto anche il movimento si svuota. All’inizio degli anni Sessanta si ha un altro breve ciclo di lotte, questa volta di natura più istituzionale. Nell’aprile del 1962 i Sindaci della valle Bormida, riunitisi a Cortemilia, contestano il rinnovo alla Montecatini della concessione all’uso delle acque per i successivi 70 anni e si impegnano a tutelare la salute degli abitanti chiedendo la cessazione dell’inquinamento. La direzione della Montecatini, invitata, partecipa a diversi incontri e si impegna a costruire moderni impianti di depurazione; tutto rimarrà però lettera morta. I Sindaci, con alcune centinaia di valligiani, sfileranno davanti alla Prefettura di Cuneo nel 1965 e nel 1966, saranno ricevuti a Roma dal Ministro Fanfani che, secondo la testimonianza dell’allora Sindaco di Cortemilia Carlo Dotta, alla richiesta di intervento del Governo contro l’ACNA, pur non rifiutando il proprio interessamento, alla fine concluse, allargando le mani: “Il Governo passa, la Montecatini resta”. Dalla fine del 1966, per circa un ventennio, i problemi dell’inquinamento della valle Bormida furono sostanzialmente rimossi, anche se non mancarono denunce da parte di alcuni amministratori. Negli anni Settanta è soprattutto dentro lo stabilimento che si alza più forte il grido di protesta dei lavoratori. Nasce il giornalino “Gente e Fabbrica”, che informa gli operai circa la pericolosità delle sostanze da loro maneggiate e vi sono alcune iniziative sindacali, anche forti, dopo che nel 1979 esplode il reparto del cloruro di alluminio che provoca due morti. Ma ancora una volta si tratta di iniziative incapaci di sollevare un duraturo interesse attorno alla vicenda dell’ACNA. È solo con la metà degli anni Ottanta, soprattutto per opera di un gruppo di ambientalisti dell’acquese, che si ricomincia a parlare dell’inquinamento del fiume. Il Bormida, ormai da qualche 240


decennio, è biologicamente morto per oltre 70 chilometri, la sua acqua è inutilizzabile non solo a fini potabili e irrigui, ma anche a scopo industriale: un importante stabilimento dolciario dell’albese che avrebbe voluto aprire un impianto di produzione a Cortemilia desiste dal progetto perché l’acqua del fiume è talmente corrosiva da non poter essere utilizzata nemmeno per il raffreddamento dei macchinari. In quel periodo viene reso pubblico uno studio dell’USL di Carcare, realizzato in collaborazione con l’IST di Genova, che dimostra come la frequenza di alcune forme tumorali è fra la popolazione della valle Bormida nove volte superiore rispetto a quella riscontrabile in zone altamente industrializzate. Si giunge così all’organizzazione di un convegno a Bubbio da cui emerge come la situazione ambientale della valle, nonostante nel 1986 l’ACNA abbia finalmente costruito (dieci anni dopo l’entrata in vigore della Legge Merli) un impianto di depurazione, sia sempre più compromessa. Nell’agosto del 1987 due ragazzi di Vesime, Lillo ed Enrico, scrivono alla RAI denunciando lo stato di inquinamento della valle Bormida. Dopo pochi giorni, il secondo canale invia una troupe a documentare la situazione. Dietro le telecamere della televisione di Stato si radunano una ventina di ragazzi della vallata, che si spingono fino a Cengio per far filmare gli scarichi dello stabilimento; è lì, davanti a quell’acqua rossa e ai fumi immessi nel cielo dai 108 camini della fabbrica, che quei giovani riconoscono di dover “fare qualcosa”. Si organizzano allora alcuni incontri a Saliceto, Vesime, Cortemilia, Monastero Bormida, invitando la popolazione a partecipare. Sono soprattutto gli anziani a rispondere alle iniziativa ed è proprio da quei contadini che avevano partecipato alle lotte degli anni Cinquanta e Sessanta e in cui ci si sarebbe potuto aspettare il prevalere del disincanto, che arriva l’incitamento a riprendere la lotta. Nasce così l’Associazione per la rinascita della valle Bormida. Il primo compito che l’associazione si propone è quello di informare la popolazione attraverso l’organizzazione sistematica di assemblee popolari nei diversi paesi della valle: il risultato sarà il ritorno dopo più di vent’anni, della protesta di piazza. L’appuntamento è fissato per il 22 241

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novembre 1987, a Cengio, nella “tana del mostro”. L’organizzazione della manifestazione è un’incognita per l’associazione i cui militanti si interrogano su quanta voglia di mobilitarsi, dopo così tanto tempo, vi sia nella popolazione. La manifestazione si rivelerà un successo: quella domenica di novembre 600 persone si recheranno a Cengio, con pullman e autovetture private, in marcia fino allo scarico principale dello stabilimento per poi chiudere la manifestazione in piazza. Un solo striscione, premonitivo, “Delegazione organizzatrice delle prossime proteste”; un solo slogan, “Vogliamo l’acqua pulita”. Nel frattempo è stato istituito il Ministero dell’ambiente ed è proprio su proposta del ministro Ruffolo che il Consiglio dei ministri, nella seduta del 30 novembre 1987, decreta che la Valle Bormida è un’ “area ad elevato rischio di crisi ambientale”, dando ufficialità a ciò che in valle si sapeva da un pezzo. L’ineluttabilità della chiusura dell’ACNA per avviare il risanamento della valle viene chiaramente enunciata nel convegno di Cortemilia del 5 marzo 1988, “Valle Bormida. Un progetto per la rinascita”, in cui vengono annunciate le linee guida che caratterizzeranno l’attività dell’associazione negli anni successivi: chiusura definitiva dello stabilimento di Cengio; garanzia del salario agli operai; elaborazione di un Piano di bonifica del sito e di sviluppo socio-economico della valle. Il convegno, molto partecipato, precede la prima grande manifestazione di massa, quella del 20 marzo 1988, che porterà a Cengio oltre 5000 persone. Da quella domenica si avrà un’escalation di iniziative che porteranno l’ACNA e la valle Bormida al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, non solo nazionale. In questa sede, per ovvie ragioni, possiamo ricordare solo le iniziative più eclatanti, sebbene il proliferare delle attività, anche non di tipo mobilitativo, sia una delle caratteristiche specifiche dell’associazione. Il 30 maggio 1988 alcuni valligiani si incatenano nell’atrio della Regione Liguria, accusata di connivenza con l’ACNA. Tre giorni dopo, il 2 giugno 1988, un’azione dell’associazione consente alla valle Bormida di finire nei titoli di testa dei telegiornali nazionali e sulla stampa di tutto il mondo. L’undicesima tappa del Giro 242


d’Italia si conclude a Colle don Bosco. Due sere prima viene convocata un’assemblea di valle a Cortemilia dove si decide di andare a manifestare al Giro con l’intenzione di strappare qualche ripresa televisiva e la lettura di un comunicato. La difficoltà delle trattative con la RAI ritarda lo sgombero della linea del traguardo, per cui il direttore della corsa ciclistica, Vincenzo Torriani, decide di sospendere la gara a un chilometro e mezzo dall’arrivo e di assegnare la vittoria ex-aequo a tutti i corridori. Ma la vera vittoria è per le rivendicazioni del movimento: ormai il problema della valle Bormida è rimbalzato su tutti gli organi di stampa, mentre al Ministero dell’ambiente si incomincia a pensare a provvedimenti drastici nei confronti dello stabilimento. I mesi di giugno e di luglio sono di intensa attività: il 7 luglio due gruppi, da una parte i 700 operai dell’ACNA, dall’altra oltre mille valligiani, si fronteggiano davanti alla sede del Consiglio regionale piemontese; il 23 luglio una nube tossica fuoriesce dallo stabilimento e provoca l’immediata mobilitazione permanente dell’associazione. Il 26 luglio, a mezzanotte, una lunga carovana di macchine si reca ad Alessandria davanti alla Prefettura, dove si fermerà per due notti: si vuole fare pressione perché all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri del 29 luglio c’è una risoluzione sull’ACNA. Nella mattinata del 28 si ritorna nei paesi della valle e si raccolgono le adesioni per recarsi il giorno dopo a Roma. Saranno mille i cittadini che manifesteranno davanti a Palazzo Chigi; il Consiglio dei Ministri decreta la chiusura cautelativa dell’ACNA per 45 giorni. Da un lato il provvedimento sembra una beffa, perché è poco di più che una chiusura per ferie, dall’altro c’è anche soddisfazione, perché è comunque la prima volta che lo stabilimento viene chiuso. L’11 settembre viene vietata una manifestazione a Cengio, indetta per scongiurare la riapertura dell’ACNA, che avverrà otto giorni dopo. Tredici attivisti dell’associazione, imbavagliati e legati, inscenano una manifestazione davanti alla stazione di Cengio, mentre le campane della valle Bormida piemontese suonano a morto. Il ruolo del clero nel movimento per la rinascita è un’altra delle particolarità di questo ciclo di lotte, che si caratterizza proprio per l’adesione totale di tutta la popolazione. Si può dire che 243

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sotto le insegne dell’associazione, con adesione più o meno convinta, si siano ritrovati agricoltori e industriali, casalinghe e manager, sindaci e parroci. Ritornando al ruolo di questi ultimi, nelle fase iniziale della mobilitazione i vescovi piemontesi, sollecitati dai parroci della valle, avevano elaborato un documento in cui, partendo dalla vicenda ACNA, invitavano a una riflessione sul rapporto economia-ecologia arrivando a individuare nella riconversione di un certo tipo di produzioni la chiave per una migliore tutela dell’ambiente naturale, da salvaguardare perché creazione di Dio. Molti parroci ebbero così un ruolo fondamentale nel sensibilizzare la popolazione, non solo con le loro prediche domenicali, ma mettendosi anche a servizio del movimento (prestando la propria voce all’altoparlante che girava per i paesi per invitare alle manifestazioni, facendo da mediatori, partecipando essi stessi alle manifestazioni, celebrando la messa durante il presidio eccetera). Il 24 settembre 1988, duemila valligiani manifestano a Cuneo in occasione della visita del Presidente della Repubblica; il 27 novembre dello stesso anno settemila persone manifestano a Cengio. Il 17 gennaio 1989 vengono consegnate a Strasburgo 15000 firme raccolte in valle perché il Parlamento europeo si occupi della vicenda, mentre il 25 febbraio 1989 circa duemila manifestanti arrivano a Sanremo in occasione del Festival. Il 21 marzo 1989 l’USL di Carcare è oggetto di un vero e proprio blitz in quanto accusata di non effettuare i controlli cui è tenuta: alcuni attivisti si incatenano nell’atrio. Nel frattempo nasce il giornale “Valle Bormida Pulita” che avrà un ruolo di fondamentale importanza per il movimento. L’Associazione per la rinascita della valle Bormida non aveva infatti una struttura definita, non esistendo cariche al suo interno, pur se col tempo, a livello locale come a livello generale, si erano formate delle leadership che avevano assunto il ruolo di portavoce del movimento. Le decisioni venivano però assunte in pubbliche assemblee che era prassi organizzare nei paesi dove c’era un maggior numero di attivisti, mentre l’assemblea generale aveva luogo quasi sempre a Cortemilia, sia per la sua centralità 244


nella valle sia perché era la comunità in cui la mobilitazione si era dimostrata più forte. Per il buon funzionamento dell’associazione, che aveva gruppi attivi da Saliceto fino a Castellazzo Bormida, distanti tra loro oltre 100 chilometri, era quindi fondamentale il buon funzionamento del passaparola tra gli attivisti. Occorreva però anche uno strumento di informazione che fosse in grado da un lato di circolare più capillarmente tra i valligiani e dall’altro di rappresentare le istanze della valle all’esterno. “La Valle Bormida pulita”, pur non essendo l’organo ufficiale dell’associazione, assolveva a entrambe queste funzioni. Tra le campagne più note portate avanti dal giornale, ci fu quella relativa al Piano di risanamento. Dopo la dichiarazione di Area ad alto rischio di crisi ambientale, il Ministero dell’Ambiente aveva incaricato l’Ansaldo di progettare il Piano di risanamento della Valle Bormida, con un risultato insoddisfacente. Esso infatti non solo non affrontava il problema alle radici ma, come denunciò il giornale, era per molte parti copiato in maniera speculare dal Piano di risanamento del Lambro-Olona-Seveso. L’associazione Rinascita, in collaborazione con i sindaci, elaborò allora un Contropiano di risanamento e di sviluppo socioeconomico della valle nel quale la chiusura dell’ACNA viene presentata come il presupposto essenziale per il risanamento del territorio, mentre al centro del progetto vi è il fiume, che da fogna passa a risorsa, per le sue potenzialità di depuratore naturale, di alimentatore delle falde, di produttore di paesaggio e vita fluviale; la spina dorsale del progetto sono le risorse locali, materiali ed immateriali. Se il blocco del Giro d’Italia aveva portato il problema all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, il presidio popolare che si insediò sul greto del fiume, davanti al muro di cinta dell’ACNA, ininterrottamente, 24 ore su 24, dal 19 aprile al 19 maggio 1989, rappresentò l’apice della battaglia e costrinse al “pellegrinaggio” a Cengio giornalisti della carta stampata e della televisione, tecnici, consiglieri e assessori regionali, parlamentari nazionali ed europei, ministri. In quel mese l’ACNA fu messa a nudo. Il 19 aprile 1989 mentre la televisione trasmette Milan-Real Madrid, da una voce amica all’interno della fabbrica, arriva una 245

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telefonata a Renzo Fontana, uno dei leader del movimento, che lo avvisa che sta succedendo qualcosa nei pressi dello scarico. Parte il solito passaparola fra gli attivisti, che conduce una decina di essi e due sindaci a recarsi sul greto del fiume: una pompa sta cercando di riportare all’interno un liquido scuro e maleodorante che, defluendo da sotto il muro di cinta, sta per sversarsi nel Bormida. Vengono avvisati l’USL e i carabinieri, che però, anziché accertare eventuali infrazioni da parte dell’ACNA, porta in caserma i valligiani, che saranno trattenuti fino alle quattro del mattino. Essi decidono di non fare rientro a casa e di insediarsi sul greto del fiume, dando così inizio al presidio popolare, che sarà rimosso con la forza dal Reparto antisommossa della Questura di Genova un mese dopo, il 19 maggio. In quel mese arrivano a Cengio migliaia di persone e tutte le autorità che, a vario titolo, si occupano dello stabilimento di Cengio. Dopo la rimozione del presidio, in occasione delle elezioni per il Parlamento europeo l’associazione invita allo sciopero elettorale: il 18 giugno in valle la percentuale di astensione è del 91,7%. Tre giorni dopo duecento valligiani partecipano all’assemblea degli azionisti Montedison. Nel mese di luglio del 1989 il Ministro dell’ambiente ordina nuovamente la chiusura cautelativa dell’ACNA per sei mesi. È un altro importante successo per il movimento, che però ora si deve confrontare con una nuova insidia. Con il falso obiettivo della bonifica l’ACNA ha infatti proposto la costruzione di un impianto, denominato Re.Sol. (Recupero Solfati), per trattare i 300.000 metri cubi di reflui stoccati nei cosiddetti lagoons all’interno dello stabilimento. L’associazione denuncia come in realtà non si tratti di un impianto di produzione, ma di un inceneritore per lo smaltimento dei rifiuti tossiconocivi, che consentirebbe all’ACNA, le cui produzioni, a causa anche delle continue fermate, sono sempre più in pericolo, di sviluppare un business in un settore che presenta grossi margini di guadagno. Si denuncia quindi il tentativo di trasferire l’inquinamento dall’acqua all’aria e per questo motivo viene avviata un’attività di mobilitazione anche al di fuori della valle, perché se l’acqua ha un percorso definito, l’aria è molto meno controllabile. 246


Incominciano così le assemblee nei comuni delle Langhe, sia la marginale alta Langa che la ricca Langa albese, dove sono in pericolo i grandi vini. L’operazione ha successo: nell’albese nasce un Comitato contro il Re.Sol. che si affianca all’associazione. Da adesso in avanti quasi tutte le manifestazioni avranno il Re.Sol. come obiettivo polemico principale. Il 22 ottobre 1989 i cittadini di 41 Comuni della valle Bormida e dell’alta Langa sono chiamati a esprimersi pro o contro il Re.Sol. Vincono naturalmente i no all’inceneritore, con il 94,1% dei voti. Tra il novembre 1989 ed il gennaio 1990, l’associazione organizzerà ben cinque manifestazioni a Roma (di cui una in Vaticano all’udienza generale di Papa Giovanni Paolo II). Dopo la riapertura dell’ACNA, avvenuta nel gennaio del 1990, le manifestazioni si diradano (ne contiamo comunque ancora 9 tra l’aprile e il dicembre del 1990 e 6 nel 1991), ma non viene meno l’attività di controllo, di denuncia e di elaborazione di progetti di sviluppo socioeconomico del territorio. Nel 1992 si tengono due seminari a Cortemilia: il primo, il 26 giugno, dal titolo “Oltre l’ACNA”, coordinato dal Politecnico di Torino; il secondo, coordinato dall’Istituto per la storia della Resistenza e della Società contemporanea di Alessandria, dal titolo “ACNA-Valle Bormida cento anni. Un caso di studio di ecostoria per un approccio multidisciplinare”. Gli anni dal 1993 al 1996 vedono il susseguirsi di pronunciamenti da parte di organismi tecnici e di tribunali sulla legittimità della costruzione del Re.Sol., la raccolta di migliaia di firme contro il progettato inceneritore, l’accertamento della presenza di diossina all’interno dello stabilimento, la costituzione (giugno 1995) di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda ACNA, il costituirsi di nuovi presidi davanti alla Prefettura di Alessandria e davanti al municipio di Alba, dove, il 16 marzo 1996, si terrà l’ultima grande manifestazione di piazza, a cui parteciperanno circa cinquemila persone. Il lungo e incompleto elenco di cui sopra mette in evidenza un’altra delle caratteristiche del movimento e cioè la sua durata nel tempo. Per circa un decennio, pur con qualche alto e basso, l’associazione è riuscita non solo a portare avanti le proprie pro247

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poste progettuali e le attività di natura tecnico-legale, ma ha saputo coinvolgere migliaia di cittadini, anche con un trasferimento dell’attenzione dall’inquinamento idrico al potenziale rischio atmosferico. Il 3 giugno 1997 il Ministro dell’ambiente Edo Ronchi decreta la non compatibilità ambientale dell’inceneritore Re.Sol.. L’ACNA, ormai ridotta ai minimi termini, si avvia a un’inesorabile chiusura, che viene decretata nel mese di gennaio del 1999. Essa lascia un’eredità pesante: oltre alle migliaia di morti per cancro, un sito contenente alcuni milioni di metri cubi di rifiuti tossici interrati da bonificare. È la nuova sfida per la Valle Bormida. Il compito della bonifica viene affidato a un Commissario straordinario, l’avv. Stefano Leoni, proveniente dal WWF. Si tratta con ogni probabilità della più importante opera di bonifica dell’Europa occidentale; parliamo infatti di un sito la cui estensione supera i 50 ettari, in cui si sono stratificati, in oltre un secolo, centinaia di inquinanti per un totale stimato superiore ai tre milioni di metri cubi. Ci sono inoltre i 300.000 metri cubi di reflui sodici stoccati nei lagoons, per i quali l’ACNA aveva richiesto la costruzione dell’inceneritore. La proprietà dell’area è della Syndial, come ora si chiama l’impresa, con cui il Commissario deve necessariamente confrontarsi. L’avvio della bonifica (o, meglio, della messa in sicurezza del sito) è pertanto necessariamente lento, in quanto occorre procedere alla caratterizzazione completa del sito e delle aree adiacenti, oltre che delle acque, dei sedimenti e dei terreni della Valle Bormida. Il lavoro del Commissario Leoni si rivela efficace, in quanto riesce ad avviare lo smantellamento di alcuni reparti dello stabilimento, e ad asportare e a collocare in sicurezza , all’interno dell’area denominata A1, le collinette di rifiuti industriali presenti lungo l’alveo del Bormida, per un volume complessivo pari a 120.000 metri cubi. Si realizza lungo il perimetro prospiciente al fiume la cinturazione sotterranea e l’isolamento idraulico dell’intera area dello stabilimento mediante l’immorsamento nella marna di diaframmi plastici e la realizzazione di barriere che dovrebbero garantire per almeno cinquant’anni l’isolamento in sicurezza dell’enorme massa di rifiuti industriali. Si avvia 248


inoltre, e forse è questo l’aspetto più simbolico della bonifica, l’asportazione dei reflui salini dai lagoons. Martedì 28 novembre 2006, quando dallo scalo ferroviario interno all’ACNA parte il centottantacinquesimo e ultimo treno merci contenente i rifiuti stoccati nei lagoons con destinazione la miniera di salgemma di Teutshental, nella Germania orientale, si sancisce simbolicamente la chiusura della bonifica. In realtà i lavori si stanno solo effettivamente oggi, dopo 10 anni, avviando alla conclusione. La stessa vicenda della bonifica non è stato lineare: nel 2005, su richiesta della Regione Liguria, viene infatti sostituito il commissario Leoni con il prefetto di Genova Romano, il quale, dopo le roboanti promesse di concludere la bonifica entro il 2006, apporta in realtà alcune modifiche peggiorative alla gestione della stessa, come la ridotta o mancata consultazione delle associazioni locali e la mancata definizione del percorso che dovrebbe portare alla cessazione del prelievo delle acque del Bormida da parte dell’azienda. Permane inoltre una situazione di incertezza sul futuro dell’area, metà della quale (il sarcofago in cui sono stati depositati i rifiuti, la cui superficie è pari a circa 25 ettari) è inutilizzabile per qualsiasi scopo, mentre l’altra metà è a disposizione per eventuali insediamenti industriali. Così come rimane aperta la questione del risarcimento dei danni ambientali e dell’utilizzo dei fondi stanziati dal Ministero dell’Ambiente: se ben utilizzati, i fondi già stanziati e quelli che sarà possibile ottenere dall’ENI potranno far proseguire la valle nel suo percorso di rinascita. Ho scritto proseguire perché, nonostante i tanti problemi non risolti, non si può negare che la valle Bormida dal 1987 a oggi sia profondamente cambiata. Quello che allora sembrava un’utopia irrealizzabile, è oggi una realtà davanti agli occhi di tutti: il fiume è tornato pulito, tanto che ai ventenni bisogna raccontare la storia del fiume rubato e oggi ritrovato (Il fiume rubato è il titolo del monologo teatrale, tratto dal libro di Hellmann, che viene attualmente rappresentato in tutta Italia; Il fiume ritrovato è anche il titolo dell’ultimo libro sulla vicenda, curato da Enrico Polo e Maurizio Manfredi, dell’Associazione Rinascita). Il movimento ha vinto, e questa è un’altra particolarità, per249

Bruno Bruna, L’ACNA di Cengio e il movimento per la rinascita della Valle Bormida

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ché, di norma, le ragioni dell’industria e del profitto prevalgono su quelle della salute e dell’ambiente. A domandarsi, oggi, cos’è rimasto di quella fantastica esperienza, si può rispondere: è rimasta l’acqua pulita, è rimasto un paesaggio paradossalmente preservato proprio dalla presenza dell’ACNA, che ha impedito che la valle sia disseminata di capannoni. Ci sono anche tracce di rinascita, come i produttori che fanno il biologico, la vite che torna a essere coltivata, i turisti stranieri che percorrono i sentieri; si ritorna a credere alle proprie potenzialità. Non saprei dire se la coscienza ambientalista sia più matura qui che in altre zone che non hanno subito una tale devastazione; mi piace pensare che almeno un po’ lo sia, anche se voglio concludere con le parole che Ceronetti aveva scritto in un suo editoriale apparso su La Stampa il 24 giugno 1989, in occasione della campagna di astensione alle elezioni europee promossa dall’associazione: “Che cosa è l’ambiente? Già dire ambiente è porsi nel disumano, perché ambiente è un’astrazione. Io non sono un ambientalista: sono un essere umano offeso. Neanche gli elettori astensionisti della Bormida sono ambientalisti: è una popolazione fregata e offesa, così mite da dare, all’oppressione tecnica, al tumore industriale che gli sta sul petto, una risposta delle più calme, delle più civili: lo sciopero elettorale…”

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NOT E 1. A chi volesse saperne di più sulla vicenda ACNA -Valle Bormida consiglio la lettura del bel libro di Alessandro Hellmann Cent’anni di veleno – Il Caso Acna l’ultima guerra civile italiana, edito da Stampa Alternativa.

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Una notte sul greto della Bormida*

Tre parlamentari, una notte sul greto di un fiume inquinato e puzzolente, una pastasciutta scondita. Potrebbe essere l’inizio di una storiella ironica o di un racconto farsesco. È invece ciò che è successo, nella notte tra sabato 20 e domenica 21 maggio sul greto della Bormida, all’on. Rosa Filippini, al senatore Visca, al consigliere regionale ligure Lazagna e a me. La giornata di sabato è iniziata male, malissimo. Ricevo in prima mattinata la notizia che è stato disciolto con la forza il Presidio popolare che da 29 giorni è insediato sul greto del fiume Bormida, per controllare che non si nascondano (quante volte l’ACNA l’ha fatto?!) gli inquinamenti gettati direttamente nel fiume. Dopo un’assemblea con i lavoratori dell’amianto (altro inquinamento, altre vite umane distrutte da una produzione criminale) corro a Cengio. Quando arrivo c’è appena stata una carica della polizia, violenta e con lancio di lacrimogeni. Vedo un ragazzo (lo conosco, anche) con la testa rotta e un fazzoletto pieno di sangue. Una donna gettata per terra. Mi raccontano della notte precedente. Di queste persone del presidio, che prima sono state circondate da un gruppo di persone lasciate passare dalla polizia e poi portate tutte via. Vecchia tecnica. Credevo di non vederla più. Oggi ci sono moltissimi abitanti della valle Bormida che protestano pacificamente. Hanno un microfono, una macchina e sono venuti con qualche trattore e molti motorini e biciclette. Brave le donne, tante e in prima fila. Tra la gente ci sono i sindaci della vallata ed i dirigenti dell’Associazione rinascita valle Bormida furiosi e consapevoli e, si sente quasi fisicamente, in bilico tra la rabbia per ciò che è avvenuto e la consapevolezza 251

Carla Nespolo, Una notte sul greto della Bormida

Carla Nespolo


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che bisogna avere i nervi saldi per rispondere a un’intera vallata che chiede un fiume pulito, un’aria respirabile e che l’ACNA, fabbrica Montedison e ora Enimont chiuda definitivamente. Questa gente ha sempre chiesto (e lo dicono anche oggi) che i primi soldi che arriveranno in vallata siano per gli operai dell’ACNA, per difenderne salario e lavoro. Il mio amico Arturo Voglino, sindaco di Bistagno, m dice: “Fermati. Qui hanno caricato brutalmente, tu sei senatore, parla con qualcuno”. Va bene. Tiriamo fuori il tesserino parlamentare e andiamo a parlare con chi ha ordinato la carica. È il vice-questore di Savona. Mi sembra sull’orlo di una crisi di nervi. Discutiamo animatamente (come sono diplomatica, questa mattina!). Ma dove sono il questore ed il prefetto di Savona? Non li vedo e non li vedrò nelle prossime trenta ore. Cioè, non sono mai venuti. Ho telefonato a Roma all’on. Fracchia. Parla tu con Gava. Di qui non riesco. Ma Gava non c’è. Viene informato il suo capo-gabinetto. Gli chiederò (e ci sono altri colleghi che la pensano come me) che il prefetto e il questore di Savona vadano via. Non è così che si garantisce l’ordine pubblico. Sento la rabbia che mi sale dentro, ma so che è con la ragione che bisogna agire. Un amico, Flavio Strocchio, mi fa leggere un biglietto di Rosa Filippini: “sono qui, come a Fort Alamo, sotto una tenda...”. Infatti Rosa Filippini e altri sono sul greto del fiume a sostituire la gente del presidio, che ne è stata cacciata. Li raggiungo. Passo in mezzo a giovani poliziotti in assetto d’attacco, con elmetto, scudo e manganello. Molti hanno occhi partecipi. Dov’è il vice-questore? Lo informo che scendo. Non sa se può fermarmi o no. Gli spiego che non può. Vado sul greto di un fiume, su terreno demaniale. Non mi pare necessario spiegargli che vado a difendere interessi democratici fondamentali. Prima di tutto il diritto dei cittadini a un’informazione “vera” sui problemi ambientali. Trovo i colleghi sotto una tenda di fortuna. Ci sono due sindaci della zona (Eliana Barbarino e Topia) passati chissà come e due ragazzi della valle Bormida. Dopo molto tempo e trattative ci raggiunge il consigliere regionale ligure, Pietro Lazagna. Assieme a me era già sceso Mario Giachetta, consiglie252


re regionale ligure anche lui e l’on. Cipriani. Giachetta era con la gente la notte prima, mi racconta fatti impressionanti. Lui e Cipriani se ne vanno verso le 20,30, noi ci apprestiamo a passare la notte. Lunga notte. Preferisco ricordare i canti della Filippini e di Lazagna che l’andirivieni di militari e di funzionari della questura di Savona. Il questore e il prefetto no, non vengono. Il prefetto ci fa sapere che ci potrebbe ricevere a Savona! Della tarda serata preferisco ricordare la conclusione che l’inizio del dialogo con il sindaco di Cengio e il presidente della provincia di Savona. Abbiamo discusso per oltre due ore. Peccato che di quella discussione non ci sia una registrazione. È stata contraddittoria e umana. Non inutile. L’inizio è burrascoso, la gente che è con loro è esasperata. Però ci parliamo. Parla un giovane che dice: “Perché volete controllare, non siete dei tecnici!” Gli ricordo che il diritto all’informazione è sempre e soprattutto nei fatti di inquinamento ambientale, un diritto fondamentale e democratico. E che la gente della valle Bormida è esperta come il miglior tecnico. Sa tutto di percolato, dei muri di contenimento che dovevano essere fatti e non lo sono stati, nonostante l’impegno del governo formalmente scritto, dei fenoli e dei rifiuti fangosi sotto la fabbrica. Anche noi parlamentari abbiamo avuto un gravissimo esempio dell’inquinamento dell’ACNA. Verso le 20 di sabato dallo scarico della fabbrica è uscita acqua schiumosa e puzzolente. Raccogliamo tre bottiglioni di acqua inquinata; chiediamo al vicequestore di avvertire l’USSL di Carcare per fare prelievi e valutare l’inquinamento. Non arriverà nessuno, tranne una persona dell’USSL che però viene perché si batte contro l’inquinamento della valle Bormida e non ha compiti sui prelievi. Torno al discorso sotto la tenda. O Dio, non esageriamo: è fatta da un tetto di ondulina di latta e da plastica ai lati. La bella tenda data al presidio dalla provincia di Asti è stata distrutta la notte precedente, da chi ha disciolto il presidio. Ma insomma, parliamo sotto un tetto. Alla fine ci lasciamo chiedendo che il presidio, limitato e controllato, possa rimanere sul greto del fiume e spiegando che è proprio per garantire l’esistenza del presidio che 253

Carla Nespolo, Una notte sul greto della Bormida

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siamo lì noi parlamentari. Vogliamo però che si apra un dialogo tra le popolazioni delle due regioni. Il sindaco di Cengio e il presidente della provincia hanno un’assemblea in paese, spiegheranno alla gente cosa ci siamo detti. Bene, vorremmo andare anche noi, ma ci dicono che è meglio di no. Comunque, il ghiaccio è rotto. Se le popolazioni di Cengio e della valle Bormida si parleranno una cosa è certa: verranno fuori le responsabilità della Montedison e del governo italiano. Altro che dividerci fra liguri e piemontesi o tra “industrialisti” e “sostenitori dell’agricoltura”! Questi sono stereotipi che fanno tanto comodo a chi produce inquinamento. È quasi mezzanotte. Abbiamo fame e ci facciamo una bella spaghettata. Hanno disfatto il presidio e... si sono portati via anche il sale. Così gli spaghetti (amici ci fanno avere fortunosamente una pentola) sono buoni, ma insipidi! Mettiamoci tanto peperoncino. Quello, chissà perché, non se lo sono preso. Passa una lunga notte, durante la quale fraternizziamo con i carabinieri, sono 25, ed i discorsi sono sempre sul Bormida inquinato. Ci raggiunge per qualche minuto un giornalista de “La Stampa”. Verso l’una ci danno 5 coperte e un termos di caffè, amici di un bar di Saliceto dove due di noi sono andati a telefonare. Non vogliono nemmeno il nostro “grazie”. Al mattino presto arriva Voglino con le brioches e poi qualcuno di noi va a comperare i giornali. Penso che poche ore dopo ci sarà un comizio di Pajetta ad Alessandria con Chicco Testa e Voglino. Pajetta avrei voluto salutarlo e ringraziarlo per essere stato a Strasburgo con alcuni cittadini della valle. La giornata successiva è lunga, punteggiata da stanchezza e tensione, ma verso le 16,30 di domenica ritornano il sindaco di Cengio e il presidente della provincia e 5 operai dell’ACNA. Noi veniamo raggiunti da altri parlamentari, da alcuni sindaci della valle e soprattutto dalla gente. Non siamo in tanti e non c’è il kalumè della pace. Ma ci parliamo. Decidiamo che un presidio di 5 persone della valle Bormida resterà sul greto del fiume in permanenza. È democrazia. È informazione. Spero che tutti comprendano che non è interferenza o, peggio, provocazione. 254


La gente della Valle Bormida è su; sono arrivati in tanti; discutono e, mi pare sono ancora un po’ diffidenti, ma consapevoli che il primo passo è stato fatto. Qui vorrebbero che venisse il ministro Ruffolo per vedere con i propri occhi un inquinamento che dura da oltre 100 anni e che deve essere affrontato con decisione. Qui non possono vedere Donat Cattin, che li ha anche insultati. Qui i sindaci firmano una dichiarazione sostenuta dall’Associazione rinascita della valle Bormida con cui si impegnano a non usare i primi soldi che arriveranno in valle, se non per l’occupazione e per gli operai. Vuoi vedere che in questa piccola valle non riescono a fare il clientelismo governativo tradizionale? Su, non essere troppo ottimista, Carla Nespolo. Però ci spero. Vado a cena con Arturo Voglino, Valentino ed Ezio. Ho poca voce, ma qualche nota di ottimismo in più. Ho salutato i colleghi che hanno trascorso con me la notte sul fiume. Questo fiume puzzolente non lo dimenticheremo. Questa valle bella la vogliamo vedere risanata.

* L’articolo apparve su “il Manifesto” alcuni giorni dopo i fatti narrativi. All’epoca la senatrice Carla Nespolo era vicepresidente della Commissione ambiente del Senato.

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Carla Nespolo, Una notte sul greto della Bormida

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In memoria

In ricordo di Gianfranco Pittatore

Lo scorso 6 agosto ci ha lasciati il nostro amico e sostenitore Gianfranco Pittatore, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Per tanti di noi è stato un evento così improvviso e inaspettato da lasciarci sconvolti. Solo dopo, abbiamo saputo di una lunga malattia vissuta con estrema dignità e consapevolezza che non gli ha impedito di svolgere appieno, sino all’ultimo giorno della sua vita, il suo impegno civile e professionale. Il nostro istituto deve molto alla Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria: un contributo annuo per la pubblicazione di questa rivista che da più di trent’anni è una presenza costante nel panorama culturale alessandrino. Pittatore ha sempre creduto in questa iniziativa editoriale dimostrando di avere una concezione della cultura che non è quella della cultura come spettacolo. Grazie al contributo della Fondazione è stato poi possibile digitalizzare in questi anni il “Fondo Fedeli”, operazione nella quale egli ha rivelato grande competenza e interesse per l’innovazione tecnologica applicata alla ricerca storica. Era giovane Pittatore, non aveva neanche compiuto settant’anni, ma più ancora era giovane di mente e di cuore. Aveva i tratti migliori della nostra comunità: la discrezione e la passione civile. Per questo adesso che non c’è più è stata autentica e grande la dimostrazione di affetto e di rimpianto che la nostra provincia gli ha dimostrato. Ci mancherà un amico, un mecenate, un lettore. In questa situazione triste siamo rinfrancati dal fatto che il testimone sia passato a PierAngelo Taverna che già in passato ha sostenuto ricerche e pubblicazioni del nostro istituto come il libro d’onore della resistenza alessandrina. In queste pagine vogliamo onorare la memoria di Gianfranco Pittatore pubblicando l’orazione funebre tenuta il 6 ottobre scorso da Nerio Nesi, cui lo legava un rapporto di affettuosa amicizia.

Carla Nespolo 257

Mario Nesi, In ricordo di Gianfranco Pittatore

Nerio Nesi


In memoria

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Ho pensato spesso, in questi giorni, a quando ho conosciuto Gianfranco Pittatore: certamente molte decine di anni orsono. Eravamo entrambi cresciuti con le idee del socialismo lombardiano, di quella élite che cercava di creare l’humus culturale necessario alla formazione di una autonomo pensiero socialista. Eravamo infatti entrambi convinti che fosse necessario coniugare, sempre, le nostre visioni ideali con lo studio dei fenomeni economici e che fosse altrettanto necessario costruire capacità tecniche per affrontarli. Avevamo anche un comune convincimento: che la parte migliore della borghesia italiana avesse il dovere di riassumere quel ruolo che avevano avuto nel Piemonte del Risorgimento, i Cavour, i D’Azeglio, i Sella, i Nigra, gli Artom, i Rattazzi, i Lanza, i La Marmora, i Cadorna e, più tardi, i Giolitti e gli Einaudi. Negli anni che seguirono, Gianfranco non rinnegò mai le idee nelle quali si era formato nella prima giovinezza, pur manifestando, con me, una crescente delusione. Nei nostri incontri, non mi nascondeva la sua benevola ma spesso tagliente critica per la faciloneria con la quale si maneggiavano strumenti che implicavano gravi responsabilità perché incidono sull’avvenire di uomini e territori. Né contraddiceva a ciò il modo sorridente con cui soleva spesso esprimere i suoi giudizi, e che poi era la venatura pudica della sua serietà di fondo. Maturò così il suo interesse verso un’attività più pragmatica, nella quale potesse esprimere meglio quelle doti organizzative nelle quali eccelleva. Avevamo insieme intuito che il sistema bancario – come dettava la Costituzione – poteva diventare elemento fondamentale della economia italiana, pubblica e privata, alla condizione però, che riaffermasse il ruolo di supporto alla attività “reali”: la ricerca, l’industria, l’agricoltura, il commercio, la cultura. Erano questi i presupposti sui quali basammo la nostra linea d’azione, quando i casi della vita ci portarono entrambi ad assumere la responsabilità di istituti di credito. Lo facemmo entrambi senza dubbi, pur consapevoli dei pericoli personali che correvamo, via via che i successi della nostra attività ci portavano a scontrarci con le invidie umane e gli interessi costituiti. 258


È in questo quadro che egli diede un apporto importante al sistema delle fondazioni bancarie, partendo cioè dal presupposto che l’esistenza di una articolata rete di organismi che si pongano tra l’individuo e lo Stato favorisce il rafforzamento del tessuto sociale sul quale si fondano le moderne democrazie. Egli si era convinto – come era accaduto a me – che la dialettica sociale non si esaurisce nella dicotomia tra Stato e mercato; essa si giova dell’azione di gruppi intermedi in grado di coinvolgere i cittadini nel perseguimento di fini di utilità sociale. Gianfranco osservò fino alla fine la volontà e la capacità di essere legato a tutto il “nuovo” che si andava impetuosamente manifestando nel mondo del lavoro e delle imprese, ma anche della cultura e dell’analisi storica. La triologia, Alessandria, dal Risorgimento all’Unità d’Italia, da lui voluta, è l’ultima, bellissima manifestazione della sua straordinaria sensibilità per la storia della nostra Patria. Dobbiamo tutti essergliene grati. Glielo dissi, appena uscì il primo volume: “Gianfranco – gli dissi – lo presenteremo insieme nel castello di Cavour a Santena”. Di tutto questo parlammo alcuni mesi orsono, qui ad Alessandria, per lunghe ore: e fu in quel giorno che Gianfranco mi raccontò del male che lo aveva colpito e di come egli resisteva e avrebbe resistito in futuro. Lo fece, senza disperazione, nel modo, quasi distaccato che gli era proprio, forse velato, in quel giorno, di malinconia. L’abbraccio che ci scambiammo fu ancora più affettuoso del solito, come se, su entrambi, fosse improvvisamente calato il dubbio che potesse essere l’ultimo. All’ultima parte del nostro incontro, partecipasti anche tu, caro PierAngelo. Il compito di succedergli, che ti è stato affidato, è difficile. Sono sicuro che lo farai seguendo la strada che egli ti ha indicato. A te Costanza, amica carissima, resta il compito – amaro ma affascinante – di curare la memoria di un uomo con la U maiuscola che è stato per tutti esempio di come si possa amare appassionatamente la vita, e affrontare, consapevolmente e coraggiosamente, la morte. È il tuo, un dovere anche civile, in un mondo nel quale essere Uomini con la U maiuscola è sempre più difficile. 259

Mario Nesi, In ricordo di Gianfranco Pittatore

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Il titolo del libro è la traduzione del verso dialettale “I ciminé fan pa pì fum” di una canzone-chiave del repertorio operaio torinese (e piemontese), la cui origine è piuttosto controversa, in quanto c’è chi la riferisce ad uno sciopero dei tessili torinesi per le dieci ore nell’aprile-maggiodel 1906, chi a uno sciopero dei tessili biellesi a fine Ottocento, chi alle lotte per l’orario di lavoro di otto ore alla tessitura Mazzonis di Perosa Canavese, negli anni di poco precedenti la Grande Guerra. Le ciminiere non fanno più fumo, perché c’è sciopero, ed i padroni, dalla paura, si fanno proteggere da “coi ’d l’alum”, da quelli con la lucerna, cioè dai carabinieri. Questo libro, che ripaga la sua eccezionale mole con una accattivante leggibilità, è naturalmente collegabile, pur costituendone ben più di una riedizione, a un precedente Canti degli operai torinesi dalla fine dell’800 agli anni del fascismo di Jona e Liberovici (Ricordi/Unicopli, 1990). Quel che di comune c’è nei due libri è il materiale raccolto sul campo dagli stessi Jona e Liberovici nel corso degli anni dal 1958 al ’73, costituito da 19 “repertori”, forniti da ventun testimoni: repertori ricchi di oltre 300 canzoni e frammenti di canzoni, comprese in un percorso storico che va dal “socialismo dei professori” all’“Ordine Nuovo”, da De Amicis ad Antonio Gramsci. E c’è anche in comune una parte non accessoria del corredo critico, che ribadisce alcuni dei caratteri fondamentali dei repertori esaminati. In sintesi: l’abbandono sostanziale del folklore tradizionale di origine contadina, non solo nel suo linguaggio e nei suoi stilemi musicali, ma anche e soprattutto nella sua peculiare fissità e ritualità a-storica, che, pur esprimendo alterità rispetto alla cultura delle classi dominanti, non ne prefigura alcuna alternativa in positivo; l’assunzione di moduli linguistici, sia letterari che musicali, di matrice urbana, dove la cultura scritta prevale o almeno si affianca alla cultura orale, e dove chi la fa da padrone è la tradizione del 261

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Emilio Jona, Sergio Liberovici, Franco Castelli, Alberto Lovatto, Le ciminiere non fanno più fumo. Canti e memorie degli operai torinesi, Roma,, Donzelli, 2008; pp. 728, 44,00.


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melodramma ottocentesco o, nelle situazioni più ludiche, la più recente moda della canzonetta da cabaret e da avanspettacolo; infine la peculiarità contenutistica e formale del repertorio canoro dell’operaio torinese, sia rispetto ad altri strati sociali della città, sia rispetto alle realtà operaie di altre città e di altre regioni, dovuta alla specificità con cui a Torino è nata la grande industria fordista, assegnando al mondo operaio un rilevante e inedito ruolo di protagonista. Gli elementi che di fatto caratterizzano il nuovo libro rispetto a quello precedente sono parecchi e qualitativamente importanti. Per esempio di ognuno dei testimoni dei 19 repertori è riportata una ricca scorta di note biografiche, esaurienti sia dal punto di vista sociologico, che storico e politico, estremamente utili per caratterizzare e contestualizzare il senso dei repertori stessi e dei canti che li compongono, oltreché affascinanti per i “racconti di vita” a volte incredibili che vi si trovano. L’influenza decisiva del melodramma ottocentesco sui linguaggi sia letterari che musicali dei canti operai (soprattutto di quelli a contenuto politico) è sviscerata con un’accurata opera di individuazione delle singole arie d’opera orecchiate o letteralmente ricopiate dagli autori dei singoli canti, e questo nel quadro di un’accurata descrizione della realtà dei circoli operai e delle relative corali, organizzate e dirette a volte da dilettanti, ma spesso da professionisti, maestri del Teatro Regio o del Conservatorio; a riprova del riconosciuto prestigio dell’operaio e delle sue organizzazioni, capace di attivare la collaborazione di ceti sociali non proletari. Questo prestigio non è però una conquista della prima ora, anzi nasce da un processo sofferto, che all’inizio, quando c’è da affrontare il primo impatto con le regole e la disciplina di fabbrica, comporta una diffusa trasgressione a tali regole, che si concretizza fra l’altro nella cosiddetta “lunediana”, cioè nella frequente abitudine di disertare le fabbriche il lunedì, per smaltire le conseguenze degli stravizi domenicali in osteria: sregolatezza, questa, nata dall’esigenza di “ritemprare in modo violento e rapido il fisico indebolito e scombussolato da una settimana di lavoro (….) verso le botteghe e le bettole, dove (…) si sta fino alla tarda sera della 262


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domenica, bevendo vini e liquori, che debilitano l’organismo invece di rinvigorirlo”. Solo con la nascita e il rafforzarsi del movimento socialista, come movimento di riscatto sociale, questi fenomeni di intemperanza sono sottoposti a processi di “rieducazione” – soprattutto da parte della corrente riformista – caratterizzati da campagne contro l’alcoolismo, dalla smitizzazione della bettola come luogo di aggregazione popolare, fino a giungere alla esaltazione dell’operaio “provetto”, fiero delle proprie capacità professionali e delle proprie competenze tecniche. Di questo processo, che è una vera e propria rivoluzione culturale, c’è testimonianza ricca ed esauriente nei canti raccolti, che vanno da veri e propri inni al rifiuto del lavoro, inseriti a volte in “chansons à boire”, a canti di esaltazione del lavoro di fabbrica (“Fé largo citadin/ a custi uperai/ ch’a sun i primi ’d Türin / ant ël travaj”). Questo libro, rispetto al precedente del 1990, affronta ed approfondisce la questione dell’uso del dialetto, invece della lingua, non solo nei canti ma anche nelle altre diverse manifestazioni orali e scritte del periodo preso in esame. A fronte di un’opinione corrente per cui il dialetto sarebbe riservato all’oralità popolare di matrice prevalentemente contadina, mentre la scrittura, in lingua, apparterrebbe soprattutto alla realtà urbana, gli autori evidenziano il fenomeno, rilevante a Torino, della scrittura dialettale, cioè dell’uso letterario del dialetto, che si manifesta ormai da lungo tempo non solo nelle canzoni (si pensi al canzoniere di Angelo Brofferio organicamente inserito nel repertorio operaio), ma anche nei giornali, nel teatro, nella poesia “colta”. Per questo suo carattere non “di nicchia” il dialetto quindi ci guadagna in termini di ricchezza espressiva, di sottigliezza linguistica, di ampiezza nell’articolazione semantica, risultando in generale più genuino e più comunicativo dell’italiano, spesso usato nei canti politici in modo retorico, ampolloso e ridondante. Altro elemento di novità del libro è l’excursus ampio ed articolato nel territorio dei canti e delle memorie operaie nell’alessandrino, dove l’uso del dialetto ha una notevole rilevanza; excursus che offre alcuni succosi campioni di un


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materiale che si presenta enormemente ricco ed esteso, in misura tale che possiamo prefigurare, o auspicare, un’iniziativa editoriale riservata a questo specifico campo di ricerca e di indagine. Non si può infine tacere il singolare interesse di alcune prese di posizione di Antonio Gramsci e de “L’Ordine Nuovo” in merito al materiale, ad essi contemporaneo, oggetto di questo libro, che gli autori hanno giustamente riportato. Sintomatico in questo senso il suo giudizio sul verso “Bandiera rossa trionferà” da Gramsci considerato una frase priva di programma pratico, espressione di un massimalismo inerte, da far risalire a “una concezione fatalistica e meccanica della dottrina di Marx”.

Fausto Amodei

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Paride Rugafiori, Rockfeller d’Italia. Gerolamo Gaslini imprenditore e filantropo, Roma, Donzelli 2009; pp. 206, 28,00. Sarebbe stata una perdita per la cultura storica se questo volume non avesse potuto essere stampato, come ha rischiato di succedere secondo quanto ci avverte l’A. in una breve premessa al testo. I pregi del lavoro non consistono soltanto nell’aver colmato una grave lacuna per ciò che concerne la biografia di Gerolamo Gaslini (1877-1964), inspiegabilmente negletto dalla storiografia, né nell’aver analizzato approfonditamente un’avventura imprenditoriale di successo tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento, che si estende dai settori industriali alimentari, chimici, agricoli, a quelli immobiliari e bancari, ma soprattutto nell’aver fornito una lettura e un’interpretazione originale dell’ingente opera filantropica per la cura, l’assistenza e la ricerca a favore dell’infanzia intitolata alla figlia Giannina prematuramente scomparsa. Gerolamo Gaslini è un self made man, che trova in famiglia il nucleo di partenza della sua avventura imprenditoriale, lavora264


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zione e commercio degli olii e che non abbandonerà mai ampliando piuttosto progressivamente il campo; la perdita della figlia nel 1917 fa di lui un “filantropo” che nel tempo maturerà una nuova versione di questa figura, frutto da un lato degli apporti della sua esperienza imprenditoriale, dall’altro del confuso panorama del terzo settore nei primi decenni dell’Italia repubblicana, soprattutto per quanto concerne il rapporto pubblico-privato. I capitoli in cui si articola il volume sono dedicati: all’ascesa imprenditoriale, che decolla con il trasferimento di Gaslini dalla nativa Monza a Genova nel 1896; alla creazione nel 1938, dopo una lunga gestazione, dell’Istituto pediatrico Giannina Gaslini; alla realizzazione nel 1949 della Fondazione Gerolamo Gaslini, una holding a sostegno dell’Istituto. La riclassificazione degli stati patrimoniali ufficiali e reali della Società Anonima Gaslini ( 1916-1963), curata da Roberto Tolaini, è posta in appendice. La chiave interpretativa dell’intero lavoro compiuto da Rugafiori è contenuta nelle riflessioni finali dedicate a dono, etica, impresa. L’A., che , oltre ad essere storico aduso frequentare gli archivi, anche in questo caso citati in gran numero a partire da quello Gaslini riordinato e inventariato dalla Fondazione Ansaldo, intrattiene un proficuo permanente colloquio con la storiografia più aperta a nuove problematiche, fornisce un’interpretazione dell’intera vicenda oggetto del suo studio alla luce del rapporto etica/impresa e etica/dono. Consapevole di battere un cammino poco praticato in Italia, dove finora ci si è concentrati sul paternalismo ideologico e pratico a fini di controllo sociale della forza lavoro, Rugafiori incita alla ricerca storica sulla filantropia imprenditoriale per analizzare l’ethos delle business communities. Ne dà un esempio, nel caso di Gaslini, caratterialmente non ostile a una politica autoritaria come quella praticata dal fascismo, a proposito dei suoi rapporti con Mussolini volti a ottenere appoggio sia per le operazioni d’affari proprie e della Corporazione olearia che rappresenta, sia per l’Istituto Gaslini, alla cui inaugurazione vuole presente il Duce. Gaslini indica come elemento di forza nei confronti del potere politico valori


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propri dell’etica imprenditoriale:” sono questi beni immateriali – commenta Rugafiori – l’onore, la fiducia, la correttezza, l’impegno del lavoro, a costituire “l’enorme capitale” (…) che Gaslini ribadisce di mettere in campo” (p. 73). Ancora più interessante e innovativa è la lettura offerta della costituzione nel 1949 della Fondazione Gerolamo Gaslini cui l’imprenditore dona in vita tutto il suo patrimonio al fine di garantire l’esistenza dell’Istituto Giannina Gaslini, lo sviluppo delle sue opere e delle attività scientifiche. La configurazione giuridica della Fondazione, il coinvolgimento dello Stato, il ruolo assegnato alla Chiesa, il mantenimento del controllo in mano privata costituiscono aspetti di natura istituzionale di grande complessità e insieme di notevole interesse, cui l’A. dedica particolare attenzione per la novità del caso, stante lo scarso utilizzo in Italia dell’istituto “fondazione” ancora negli anni Cinquanta e Sessanta e i pochi modelli esistenti in Europa. Rugafiori insiste nell’interpretare la cessione in vita del proprio patrimonio da parte dell’imprenditore genovese, al fine di sostenere e potenziare l’attività non profit dell’Istituto pediatrico, in chiave di dono, motivato esclusivamente da altruismo sociale, come afferma efficacemente:” Il dono di Gaslini, composto da beni materiali, ma anche immateriali, egualmente decisivi quali tempo e competenze, non consiste in un’elargizione estemporanea a fini paternalistici di controllo aziendale e sociale, bensì nella messa a disposizione continuata di risorse vitali per consentire a tutti la fruizione concreta di un diritto, quello alla salute, ancora parecchio trascurato dal modesto e ritardato welfare state nella giovane Italia repubblicana degli anni Quaranta e Cinquanta” (p. 156). Dora Marucco

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Il volume, curato dai ricercatori universitari Francesco Berti e Fulvio Cortese, rispettivamente dell’Università di Padova e di quella di Trento, raccoglie gli atti del convegno Il secolo dei genocidi svoltosi nel 2006 a Bassano del Grappa. Nella sua bella prefazione, Marcello Flores osserva come negli ultimi anni la letteratura sugli stermini di massa si sia fatta più ricca e articolata, affrontando il tema da approcci diversi, che vanno da quello storico a quello giuridico, da quello sociologico a quello politologico, da quello economico a quello culturale: e così è anche in questo libro, che, affronta, appunto, dai vari punti di vista (i saggi raccolti qui sono infatti di studiosi di discipline diverse o di esperti a vario titolo) i genocidi del ventesimo secolo, a partire dalla Shoah, cui è dedicato peraltro un unico saggio, comparativo, di Anna Foa, perché ritenuto da una parte un genocidio certamente paragonabile ad altri stermini operati nel Novecento ma, dall’altra, con tratti di “unicità” tali che non possono non farne un caso unico. Gli altri stermini di cui il libro tratta vanno da quello del popolo armeno alla carestia che provocò milioni di morti, indotta in Ucraina dal regime sovietico; dagli stermini in Cina per mano giapponese fino a quelli in Cambogia ad opera della follia polpottiana, e ai casi di Rwanda e Bosnia: massacri diversi e non tutti inquadrabili nella definizione giuridica di “genocidio”; tutti, però, frutto di una particolare miscela ideologica totalitaria e anti-moderna, nazionalista o classista, tipica del Novecento. Il testo è diviso in due sezioni. Nella prima, Storia, memoria, interpretazione, si analizzano i casi della Shoah, del genocidio armeno (anche attraverso una interessante intervista di Fulvio Cortese alla scrittrice Antonia Arslan, che l’ha raccontato nel suo romanzo La masseria delle allodole), della pulizia di classe e del totalitarismo in Unione sovietica (anche qui, il contributo è costituito da un‘intervista, questa volta di Francesco Berti a Victor Zaslavsky), degli ster267

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Francesco Berti e Fulvio Cortese (a cura di), Il crimine dei crimini. Stermini di massa nel Novecento, Milano, Franco Angeli, 2008; pp. 327, 25,00.


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mini in Asia orientale, di quello dei rom e dei sinti, della persecuzione nazista e fascista degli zingari e, infine, dell’odio etnico e del genocidio in Randa. La seconda parte, Diritto internazionale e comparato, affronta invece il genocidio da un punto di vista giuridico e di giustizia internazionale, a partire dalla convenzione del 1948 delle Nazioni unite e tratta anche del problema della protezione penale della memoria, che investe il tema, purtroppo sempre di grande attualità, del negazionismo. E il dato più sconvolgente che emerge da questi interventi è, almeno a mio parere, il comune denominatore delle difficoltà – e talvolta dell’impossibilità derivante da cavillosi impedimenti – incontrate presso la comunità internazionale per il riconoscimento dei crimini; e troviamo infatti, in vari saggi, una riflessione sugli ostacoli che il diritto – strumento per eccellenza di disciplina della violenza privata e pubblica – ha incontrato sia in sede di prevenzione o di repressione del genocidio e dei crimini contro l’umanità, sia nello sforzo di bilanciare l’esigenza di tutelare la memoria con la necessità di garantire la libertà di ricerca e di opinione. Conclude il volume una interessante post fazione di Giuliano Vassallo. Graziella Gaballo

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Claudio Rigon, I fogli del Capitano Michel, Torino, Einaudi, 2009; pp. 201, 13.50 Claudio Rigon è un fotografo vicentino, profondo conoscitore del territorio dell’Altipiano di Asiago. Nel 2006 ha pubblicato un interessante libro di fotografie sui cimiteri di guerra (Passato Presente. Sulle orme di C.D. Bonomo, fotografo: i cimiteri di guerra dell’Altipiano Ed. Galla, 2006). Con I fogli del Capitano Michel Rigon non ci propone un nuovo libro di fotografie ma, come dice il titolo, una lettura, approfondita e coinvolgente, di scritture della Grande Guerra. I “fogli” sono, infatti, dei messaggi (“fonogrammi” in gergo militare) con cui gli ufficiali dei 268


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reparti in zona di combattimento trasmettevano gli ordini seguendo la catena gerarchica di comando (divisione, battaglione, compagnia, plotone) e scambiavano tra di loro informazioni militari. Rigon li ritrova in un fondo archivistico: la “Donazione Michel”, depositata presso il Museo del Risorgimento di Vicenza. La donazione comprende fotografie, lettere, documenti, raccolti e conservati con cura da un ufficiale di complemento, Ersilio Michel (nel 1915, tenente nel corpo degli Alpini, promosso capitano nel 1916 e congedato nel 1919 con il grado di maggiore). Interessato, inizialmente, alla ricerca di sole immagini fotografiche del paesaggio di guerra sul Monte Ortigara, Rigon viene in seguito attratto da diversi foglietti di carta ripiegati in un unico blocco e riposti in una busta: i fonogrammi (duecentocinquantasette messaggi). “Sono stati recapitati muovendo per rocce, buche, anfratti, a volte presumo nel fango e sotto la pioggia, spesso mentre batteva il tiro nemico. Eppure sono integri, perfetti [...]”. Sono stati scritti rispettando sempre la forma, in bella calligrafia, per la maggior parte a matita, alcuni a penna, mentre altri (i fonogrammi dei comandi superiori) sono copie a carbone. I fonogrammi coprono poco più di un mese, dal 24 giugno al 29 luglio 1916, e vanno dal momento in cui il capitano Michel assume il comando del battaglione degli Alpini “Argentera” (ufficialmente il 26 giugno) alla fine della controffensiva italiana sull’Altipiano dei Sette Comuni. Ersilio Michel, in quanto capitano, avrebbe dovuto comandare una compagnia e non un battaglione (una compagnia era composta da circa duecentocinquanta uomini e un battaglione, formato da quattro compagnie, da circa mille uomini); ma l’Argentera, come molti altri reparti dell’esercito italiano, aveva subito gravissime perdite, sia tra i soldati che tra gli ufficiali, nei durissimi combattimenti che si erano svolti sull’Altipiano nel mese di maggio per contrastare l’avanzata dell’esercito austroungarico. Era, pertanto, sorta la necessità, urgente e inderogabile, di reintegrare l’organico del battaglione con la nomina di nuovi ufficiali e l’immediato invio, direttamente in zona di combattimento, delle nuove leve (i “complementi”). L’Austria aveva,


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infatti, dato avvio, il 15 maggio del 1916, alla “Strafexpedition”, la spedizione punitiva, per sfondare le linee nemiche, penetrare nella pianura veneta e accerchiare così le armate italiane impegnate sul Carso. Il 16 giugno iniziava il contrattacco italiano e il 24, a partire dalla notte, l’esercito austro-ungarico dava corso alla manovra di ripiegamento per attestarsi su un nuovo fronte che taglierà nel mezzo l’Altipiano in tutta la sua lunghezza e che avrà come caposaldo il monte Ortigara. In quel luogo, le trincee dei due eserciti si fronteggeranno a poche decine di metri le une dalle altre, trasformando quel territorio, già di per sé difficile e inospitale, nel teatro di una delle più grandi battaglie che siano mai state combattute in montagna durante la prima guerra mondiale. Contro la linea di difesa austriaca sull’Altipiano, in posizione dominante, dotata di una potente artiglieria e di numerose postazioni di mitragliatrici, con trincee profonde, gallerie scavate nella roccia, gli italiani cozzeranno nei loro reiterati quanto inutili assalti; e, alla fine, il bilancio delle perdite testimonierà l’enormità del sacrifico: per l’Italia circa 147.000 uomini contro circa 83.000 per l’Austria. I fonogrammi conservati dal capitano Michel sono compresi cronologicamente in questa fase della guerra sull’Altipiano e, come osserva Rigon, formano un ciclo, racchiudono cioè “un nucleo compiuto, un tratto di tempo che aveva avuto un inizio e una fine”; un solo mese che, però, per l’intensità dell’esperienza era stato capace di “segnare una vita”. La drammaticità degli eventi è resa perfettamente dalla successione di alcuni fonogrammi, mentre in altri vengono descritti, con precisione, indicandone la distanza, l’altezza e la profondità, i reticolati posti a difesa delle trincee austriache. Da tali informazioni non solo appare in tutta la sua plasticità il teatro di guerra, ma traspare, in modo evidente, la consapevolezza da parte dei soldati italiani dell’impossibilità di penetrare le linee nemiche, dell’inutilità dei loro assalti e del sacrifico delle loro vite, che in alcuni casi diventa anche rifiuto di avanzare o vera e propria diserzione con resa al nemico. Numerosi fonogrammi riguardano, invece, la routine di guerra 270


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o meglio la “normalità deviata” generata dalla guerra: la compilazione delle statistiche giornaliere delle perdite, il recupero sul campo di battaglia dei cadaveri e la loro sepoltura, il trasporto dei feriti, i problemi relativi alla distribuzione del rancio e ad altri aspetti della vita di trincea, caratterizzata dalla convivenza forzata di centinaia, di migliaia di uomini in spazi ristrettissimi, in condizioni ambientali e igieniche estreme. I fonogrammi militari sono fonti storiche, fanno parte a pieno titolo delle “scritture di guerra” insieme alle lettere e ai diari dei soldati, alle memorie dei reduci, ai racconti degli scrittori ex-combattenti. Meritano perciò di essere recuperati, utilizzati nella ricostruzione non solo degli avvenimenti bellici ma anche della vita di trincea, nello studio del profilo psicologico e culturale degli ufficiali che hanno scritto quei messaggi, del loro modo di esercitare il comando e di gestire i reparti. Li distingue dalle altre scritture di guerra il fatto di essere testi brevi, sintetici ed essenziali, che accompagnano gli avvenimenti in tempo reale e, in alcuni casi, li precedono determinandoli (ordini di attacco, spostamento di truppe, tiri di artiglieria eccetera). Vengono trasmessi per comunicare informazioni e dare disposizioni nel modo più chiaro e comprensibile, procedono nell’esposizione per punti, utilizzano un linguaggio che, proprio perché libero da fronzoli letterari, stupisce per la sua modernità. Pur non avendo finalità narrative, possiedono, tuttavia, una notevole forza descrittiva, una grande capacità di rappresentare la realtà. Grazie al libro di Rigon, la lettura dei fonogrammi del capitano Michel ci permette, oggi, di rivivere con un forte coinvolgimento emotivo, l’esperienza di guerra sull’Altipiano. Rigon descrive il capitano Michel come un comandante saggio ed equilibrato, un “buon padre di famiglia”, attento alle condizioni materiali di vita dei soldati, al morale della truppa. Nel riflettere sulla figura e sul ruolo degli ufficiali del battaglione Argentera, Rigon riconosce la necessità di superare lo stereotipo antimilitarista “di un esercito – dei suoi ufficiali – tanto vanaglorioso nell’immagine quanto fatuo e inconsistente alla prova dei fatti”. Dal punto di vista storiografico, Ersilio Michel e la sua


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vicenda personale, come uomo e intellettuale (storico del Risorgimento e personalità di spicco della così detta “scuola romana” legata alla figura di Gioacchino Volpe) meriterebbero un approfondimento. Così come lo meriterebbe il ruolo svolto dagli ufficiali di complemento che, appartenenti in gran parte al ceto medio e provenienti non dalle accademie militari ma dalla società civile, avevano una formazione culturale e professionale differente da quella degli ufficiali di carriera e, in molti casi, un diverso rapporto con i soldati: ruolo positivo, io credo, di coesione, di tenuta, nei momenti di crisi durante un conflitto che può essere ricondotto essenzialmente a una “guerra di resistenza” non solo nei confronti di un nemico meglio armato e organizzato, ma anche contro il logoramento continuo, di uomini e di mezzi, che l’esercito italiano subiva per effetto della strategia adottata dallo Stato Maggiore. Si tratta però di approfondimenti che certamente superano i confini del lavoro di Rigon, il quale scrive un libro che è a metà strada tra ricerca storica e narrazione. Veste i panni dello storico quando ricostruisce la sequenza cronologica dei fonogrammi, quando li posiziona sul territorio ritrovando esattamente i luoghi delle azioni, il teatro di guerra (in questo agevolato dal suo “occhio fotografico”), quando li inquadra nella storia generale degli avvenimenti bellici sull’Altipiano. Veste, invece, i panni dello scrittore quando ci racconta della scoperta dei fonogrammi, delle sue escursioni sulle pendici del Monte Ortigara, del suo rapporto, fisico e sentimentale, con quel paesaggio di guerra fatto non solo di pietre, di buche e di trincee (che Rigon dimostra di conoscere come le linee del palmo della propria mano), ma di uomini che hanno vissuto un’esperienza drammatica, di soldati che, per costrizione o per senso del dovere, hanno combattuto una guerra che non era la loro. E così pure quando, nel tratteggiare le figure degli ufficiali autori dei fonogrammi, in particolare quella del capitano Michel e del sottotenente Barbiani, per farne dei personaggi vivi del suo racconto, Rigon va oltre i limiti che sarebbero consentiti ad uno storico. Rigon vuole aprire un dialogo tra passato e presente, come un ponte che collega due sponde, 272


da percorrere nelle due direzioni, per ricercare, al di là delle specificità che caratterizzano e differenziano i singoli eventi o momenti della storia, ciò che unisce “ieri” e “oggi”, “loro” e “noi”. L’Altipiano dei Sette Comuni (il monte Ortigara in particolare) con i suoi campi di battaglia, le trincee che incidono ancora oggi, come solchi indelebili, il suo territorio, è il luogo perfetto per questo dialogo. Il capitano Michel e i suoi giovani tenenti (ragazzi poco più che ventenni) non appartengono solo alla Grande Guerra, ma escono da quello sfondo tragico e corale, acquistano un loro rilievo, per mostrarci un’umanità che ci accomuna. Siamo ormai prossimi ai cento anni dall’inizio del primo conflitto mondiale, una scadenza importante, non solo per convenzione storiografica, ma per l’opportunità, preannunciata dalla crescente mole di studi nazionali e transnazionali, di offrire un’articolata visione d’insieme di quell’evento epocale. Anche il piccolo ma intenso libro di Rigon offre un utile contributo alla conoscenza della realtà della guerra, riportando alla luce la microstoria di un gruppo di ufficiali del battaglione degli Alpini “Argentera”, dei loro soldati, sulle montagne dell’Altipiano, nell’estate del 1916: un frammento di vita, come annota Carlo Emilio Gadda nel suo Giornale di guerra e di prigionia, “notizie di piccole cose, tanto più importanti in quanto sfuggirebbero alla Storia”.

Leda Rafanelli tra letteratura e anarchia. A cura di Fiamma Chessa, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia, Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, 2008; pp. 287. Da diversi anni l’Archivio “Famiglia Berneri – Aurelio Chessa” di Reggio Emilia costituisce una delle realtà più vive nel campo della ricerca storica sul pensiero libertario e, più in generale, sulla storia del Novecento. Nato attorno alle carte paterne che 273

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Antonio Prampolini


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la secondogenita di Camillo Berneri, Giliana, volle affidare ad Aurelio Chessa, l’Archivio ha proseguito la sua attività sotto la responsabilità di Fiamma, figlia di Aurelio, non solo ampliando e sempre più rigorosamente catalogando il proprio patrimonio documentario, arricchitosi via via dei fondi Vernon Richards, Giuseppe Faravelli, Pier Carlo Masini, Ugo Fedeli e altri ancora, ma proponendosi come centro di animazione culturale e di ricerca scientifica tra i più attivi e vivaci. Un fondo di particolare interesse è legato alle carte di Leda Rafanelli (Pistoia, 1880 – Genova, 1971), il cui itinerario umano ed intellettuale, illuminato anche solo per brevi lampi, suggerisce una gran varietà di spunti e sollecitazioni, sullo scenario di una delle stagioni più interessanti del movimento libertario, che precede il colpo durissimo infertogli dalla dittatura fascista: una vita lunga e intensa, nelle vesti di scrittrice autodidatta, militante anarchica, fedele musulmana, tipografa e propagandista, romanziera, narratrice per l’infanzia, giornalista e chiromante. Il suo itinerario biografico si snoda attraverso luoghi talvolta cruciali nel panorama culturale e politico del primo Novecento: dalla comunità anarchica del Cairo alla Casa Editrice Sociale, dalle tipografie sovversive alle pagine del “Corriere dei Piccoli”, passando per la Milano del movimento futurista e di tutto il multiforme crogiolo intellettuale in cui prenderà forma lo scontro ideologico tra interventismo e neutralismo. Nel secondo dopoguerra la sua diventa una vita ritirata, stretta tra difficoltà economiche e dolori personali senza però rinunciare a vivere, pur privatamente, la propria diversità e indipendenza spirituale e politica. Un contributo decisivo alla conoscenza del personaggio viene oggi dal lavoro, che ha radici già profonde, condotto proprio da Fiamma Chessa per riordinare e rendere disponibili le carte della Rafanelli e di cui il convegno svoltosi nel 2007 a Reggio Emilia rappresenta un primo, anche se non definitivo, momento di raccordo e sintesi. Con questo volume gli studi sulla Rafanelli giungono ad una sistemazione indispensabile in chiave bio-bibliografica e critica, viene fornita un’ampia rassegna degli scritti editi e inediti e si iniziano ad affrontare in maniera 274


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ragionata gli snodi più stimolanti della sua vicenda. Tra questi, un indubbio interesse viene suscitato dalla sua duplice appartenenza al movimento libertario e alla religione islamica, una duplicità i cui interrogativi non appaiono del tutto riconducibili a una semplice fascinazione culturale, visto che la Rafanelli visse la propria religiosità certo con una non lieve dose di spregiudicata libertà di pensiero, ma nello stesso tempo con indubbia e continua devozione personale, con il necessario e faticoso apprendimento dell’arabo coranico e con una profonda interiorizzazione del patrimonio sapienziale islamico. Si tratta di un nodo difficile da districare e di un contrasto non risolvibile forse in sede teorica o teologica ma unicamente in termini di pratica di vita, come segno di una possibilità non altrimenti enunciabile, tanto che le stesse relazioni sul tema presentate al convegno (Gabriele Mandel Khân, Enrico Ferri), non giungono a risolvere del tutto l’apparente aporia ma, semmai, a sollevare nuovi interrogativi. Forse, però, non v’è da dispiacersi troppo della cosa, considerando che nemmeno la Rafanelli stessa aveva sentito il bisogno, in vita, di sciogliere, dinanzi agli altri, percorsi che potevano apparire tortuosi ma che, in fondo al proprio animo, dovevano rivelarsi del tutto appianati e riconciliati, come si evince dalle parole rivolte al giovane (ed ancora socialista) Benito Mussolini, cui Leda confida nel 1914: “Sono maomettana e fedele. Ho finito, nel novembre, il mio mese di digiuno, il Ramadan. [...] I miei compagni sono atei, e padroni di esserlo. Io sono credente. In tutte le questioni sociali siamo in armonia. Io non farò mai propaganda religiosa. A me non interessa affatto che gli altri siano religiosi: maomettani o buddisti. Amo esserlo io”. Una duplicità, dunque, intenzionalmente non chiarita nei suoi presupposti, che tuttavia costringe ad approfondimenti vivamente attuali, non solo per il tema delicato dei rapporti tra Islam e Occidente ma anche per quel che riguarda le relazioni tra l’appartenenza religiosa e la militanza politica; in questo senso, ci pare, quella della Rafanelli potrebbe costituire, anche, una importante lezione di laicità e di libera appropriazione del fatto religioso.


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Ad Alessandra Pierotti, autrice di una tesi di dottorato sulle carte Rafanelli, è spettato il compito di fornire un iniziale inventario ragionato della produzione della scrittrice, estremamente eterogenea, spesso dispersa, per buona parte inedita. Altri contributi (Alberto Ciampi, Mattia Granata, Franco Schirone) vertono sul ruolo avuto dalla Rafanelli nel momento intellettualmente più vivace e culturalmente più esposto della sua esistenza, vissuto a Milano negli anni che precedono la Grande Guerra e negli anni a seguire, fino all’avvento del fascismo. In quel periodo, Leda è una infaticabile animatrice culturale e l’avventura editoriale della Casa Editrice Sociale, ideata e gestita assieme al compagno Giuseppe Monanni, ne rappresenta la tappa più significativa. Da questo osservatorio Leda assiste al dipanarsi di una vicenda intellettuale e sociale tra le più gravide di conseguenze del ventesimo secolo: la progressiva coagulazione e frammentazione di gruppi, idee, posizioni che a cavallo tra futurismo, individualismo, anarchismo, socialismo, sindacalismo rivoluzionario porteranno al precipitare dell’interventismo e alla tragedia della guerra, fino al passaggio di tanta parte di quel mondo nelle fila del nascente fascismo. È lo sfondo del suo libro più noto, Una donna e Mussolini (Rizzoli, Milano 1946), che rievoca quella che De Felice definirà la “strana relazione sentimentale-intellettuale” con l’allora direttore dell’“Avanti!” e che rivela i maggiori motivi di interesse soprattutto per la vivida rappresentazione di quell’ambiente e di quel doloroso travaglio collettivo, nitidamente osservato nelle pieghe del carattere del futuro “duce”. Immersa in alcuni percorsi novecenteschi tra i più vivi e drammatici, la Rafanelli vi accede non per attestati ma per la singolare malia del suo profilo umano, per la volitiva brama di essere nelle cose e di stimolare il pensiero; pur sfiorandola in momenti tanto cruciali, non entra però a far parte della macchina culturale, anche per un ripiegamento necessario e scelto, con la nascita della dittatura, tale tuttavia da mostrare come anche certi arretramenti possano essere considerati forme, a loro modo, di resistenza. L’immagine di Leda Rafanelli che emerge da questo volume ci pare dunque quella di una donna dalla 276


militanza appassionata, non direttamente partecipe del dibattito ideologico e delle questioni di metodo ma, al tempo stesso, capace di concepire una intera vita come segno di appartenenza e di lavorare a una costruzione del sé che è segno e gesto, letterario e politico, ideologicamente connotato, pur senza l’orizzonte definito della sistemazione teorica. Proprio per queste ragioni la biografia per immagini (curata da Fiamma Chessa) che chiude il volume si fa estremamente significante, non un corredo dell’opera ma una sua parte vitale: la vecchia chiromante, ritratta in un eccentrico mosaico di abiti orientali, sullo sfondo dei giganteschi condomini di cemento armato nel quartiere genovese di Sturla rimane, ancora oggi, un’incarnazione libertaria di straordinaria forza evocativa. Renzo Ronconi

L’autrice, che ha vissuto il femminismo e il movimento delle donne, racconta qui la storia di un’altra donna, come lei coraggiosa e libera: quella della nonna, Flora Vitale, esponente della borghesia ebraica romana. Siamo negli anni Venti del Novecento e Flora è, suo malgrado, una “ragazza madre”: la figlia Luciana ha infatti come padre Alceste della Seta, anche lui ebreo e “uomo libero” che rifiuterà sempre il matrimonio in quanto “già sposato con il Partito Socialista”. E la prigione rosa, che dà il titolo al libro, è una antica villa di Albaro – un tempo luogo di villeggiatura dell’aristocrazia genovese, oggi quartiere elegante della città – che deve il suo nome a Charles Dickens, che abitò qui per un paio di mesi nel 1844 e che così la chiamava nelle sue lettere: in questa dimora trovano rifugio, lontano dalla famiglia d’origine, appunto Flora Vitale e la piccola Luciana. Eva Schwarzwald ricostruisce questa storia – la storia di una 277

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Eva Schwarzwald, La prigione rosa, Milano, Guerini e Associati, 2009; pp. 222, 20,00.


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donna coraggiosa che sfidò le convenzioni della sua epoca mettendo al mondo una figlia fuori del matrimonio – unendone i vari pezzi: quello che le ha raccontato la madre Luciana, le lettere di Flora, le cartoline e le foto scoperte quasi casualmente durante un trasloco…e ricostruisce così anche la propria genealogia femminile, riscoprendo e valorizzando la sua appartenenza a un gruppo familiare. In questo lavoro di ricerca, conosce e capisce le proprie radici e le affinità con i percorsi femminili della propria famiglia: una storia vissuta da donne coraggiose, consapevoli, attente ai valori profondi di un’ebraicità che non è religione, ma piuttosto rispetto dell’altro, passione per il riconoscimento dei diritti fondamentali degli uomini e delle donne e, insieme, una storia di famiglia, dove alla libertà interiore delle donne si associa sempre e comunque lo spirito di giustizia degli uomini, dal bisnonno garibaldino, al nonno socialista, tutti alla perenne ricerca di giustizia e libertà. Le vicende di Flora si intrecciano alle vicende storiche dell’epoca: l’uomo che ama, Alceste della Seta, è un avvocato romano, iscritto al PSI, eletto deputato nel 1913 e amico di Mussolini fino al 1915, quando le loro strade si separeranno; Alceste sarà più volte selvaggiamente aggrredito da squadre fasciste per le sue idee politiche e la coerenza del suo comportamento. Testimonianze – questa così come quella relativa alla epidemia di spagnola che sconvolse la vita di molti all’inizio del secolo scorso – di un periodo storico, ma non solo: ciò che qui viene raccontato è soprattutto è la storia appassionante e avvincente di tutte quelle donne che hanno osato sottrarsi al destino scelto per loro, alle convenzioni sociali, all’oppressione familiare, e hanno pagato un duro prezzo per la loro libertà. E la piccola protagonista della narrazione principale, Luciana bambina, non a caso ha sviluppato quelle radici nella sua vita professionale; curatrice di programmi culturali radio a Milano, impegnata nell’educazione e nella diffusione di base di cultura, antesignana di un’attenzione ai problemi della famiglia che si esprimeva attraverso una trasmissione radiofonica di grande successo,“Il Circolo dei genitori”, prima a promuovere la lettura del quotidiano in classe. 278


Così come Eva, la nipote di Flora, che attraverso questo percorso recupera nuova consapevolezza e forza che le permettono di guardare alla vita e al futuro con occhi diversi: non a caso il libro è da lei dedicato alle proprie figlie e ai propri nipoti, “bambine nuove, che diventeranno donne, che (…) dalle loro ave hanno imparato la libertà delle donne”. Graziella Gaballo

I due ricchi volumi traducono in saggi una lunga ricerca storica e una intensa fase di studio e riflessione – condotte in vista delle celebrazioni del centenario della CGIL, e coordinate da Gloria Chianese della Fondazione Di Vittorio, affiancata da altre tre storiche: Lucia Motti, Maria Luisa Righi e Teresa Corridori – e restituiscono in tutte le sue sfaccettature il mondo del lavoro femminile, a partire dall’Ottocento, attraversando categorie, territori, aziende, storie e memorie. Obiettivo è quello di dare visibilità al patrimonio di presenze e militanze femminili che hanno caratterizzato la lunga storia delle organizzazioni sindacali, facendo emergere questa presenza spesso sommersa e recuperandone la memoria, ma anche indagandone la complessità delle identità e del fitto intreccio dei percorsi individuali. Vari i filoni di indagine, che vengono affrontati anche con sguardi e approcci diversi: il rapporto tra lavoro e tradizioni sindacali femminili; il confronto tra sindacati e mondi femminili sul nodo della cittadinanza; l’analisi delle culture politiche e dei retroterra esistenziali delle sindacaliste. Nella prima sezione, Uno sguardo di lungo periodo, si affronta il primo dei nodi citati scegliendo come osservatorio alcune figure di donne lavoratrici che hanno avuto un ruolo chiave nelle organizzazioni sindacali: le tante storie di mondine, tabac279

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Gloria Chianese (a cura di), Mondi femminili in cento anni di sindacato, Roma, Ediesse, 2008, volumi 2; pp. 434 + pp. 561, 40,00


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chine, braccianti stagionali, trecciaiole, operaie tessili, conserviere, elettromeccaniche, insegnanti, telegrafiste, commesse, lavoranti a domicilio, immigrate, che hanno attraversato la storia sindacale, incrociandosi con le dinamiche economiche e sociali dell’Italia liberale, fascista e repubblicana consentono di scavare in profondità i molteplici aspetti del rapporto donnalavoro-sindacato (in particolare, mi permetto di segnalare, in questa sezione, i saggi La signorina a quadretti e altre lavoratrici insegnanti, di Aurora Delmonaco e “Non volo d’aquila, ma volo di rondine”: le impiegate tra società e sindacato di Emilia Tagliatatela). Conclude la sezione un’interessante analisi di Lucia Motti sulla rappresentazione del maschile e del femminile nell’iconografia del movimento operaio sino al fascismo. Il secondo nodo è sviluppato nella sezione Cittadinanza, parità, differenza. Come sappiamo, nel sindacato la cultura della cittadinanza è sempre stata declinata intrecciando la prospettiva dell’emancipazione femminile con la strategia di difesa della donna lavoratrice e di tutela della lavoratrice madre e tale intreccio è stato un elemento costitutivo della cultura politica di diverse generazioni di sindacaliste; ma il discorso investe altri ambiti che rimandano, ad esempio, al rapporto donna/corpo e donna/maternità, e che pongono il nodo della complessità e della specificità dell’identità femminile. Si segnalano in particolare, in questa sezione, i saggi di Simona Lunadei, Donne e sindacato. Gli anni del fascismo e di Maria Luisa Righi, Il lavoro delle donne e le politiche del sindacato: dal boom economico alla crisi degli anni Settanta. Infine, la terza sezione, Strumenti, ripercorre la complessa interazione tra strategie sindacali e culture femminili, in particolare con il saggio di Teresa Corridori, che elabora un percorso archivistico tra i fondi dell’Archivio CGIL e il contributo di Maria Paola Del Rossi, che scava nella produzione bibliografica e nella documentazione archivistica in ambito locale. Le testimonianze raccolte per approfondire, appunto, il rapporto tra culture politiche e retroterra esistenziale delle militanti, danno conto delle difficoltà incontrate; dei problemi di relazione (non sempre e solo con gli uomi280


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ni), dell’estraneità e della distanza del linguaggio burocratico rispetto alla ricchezza del vissuto; dei prezzi che si sono dovuti pagare, per la propria militanza, sul piano affettivo e familiare. Per le donne “fare sindacato” è stato sempre difficile, e non a caso un tratto costante pare essere quello dell’intermittenza della militanza femminile: molte storie di donne raccontano di stagioni sindacali vissute intensamente, a cui seguono ritorni a casa non voluti, ma subiti e di numerose ragioni di conflitto con l’ambiente familiare, di quotidiane mediazioni, aggiustamenti, rinunce. Ancora più aspre sono state, poi, le contraddizioni per le dirigenti, per le quali il modello proposto è stato quello della sindacalista con un forte senso di appartenenza all’organizzazione e che hanno perciò condiviso con le donne dei partiti e dell’associazionismo, la scelta di privilegiare la dimensione pubblica, pagando prezzi elevati sul piano della vita sessuale, affettiva, familiare. Da tutti i saggi emerge comunque il ruolo di primo piano esercitato dalle donne nel rapporto tra organizzazione sindacale, società italiana e Stato, e il loro forte contributo nel sancire diritti e cittadinanza per tutti i lavoratori, uomini e donne. Si riconferma, come asserisce Guglielmo Epifani nella presentazione che per le donne il lavoro ha rappresentato nel passato e rappresenta tuttora lo strumento più potente di emancipazione, attraverso la lotta, la conquista e la difesa di spazi crescenti di autonomia e libertà; ma, soprattutto, emerge il nodo problematico dell’autonomia del mondo femminile nel sindacato, che ha, tradizionalmente una configurazione fortemente maschile. E indagare tale aspetto implica analizzare anche se e come la cultura delle donne sia riuscita a ridisegnare strategie, obiettivi e pratiche politiche.


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Fiamma Lussana e Lucia Motti, La memoria della politica Eesperienze e autorappresentazione nel racconto di uomini e donne, Roma, Ediesse, 2007, pp. 342, 18,00. Il volume raccoglie una serie di saggi – contributi di riflessione e ricerche storiche – che vedono alcuni fra i maggiori studiosi italiani (Anna Bravo, Giovanni De Luna, Alessandro Portelli, Dianella Gagliani, per citarne solo alcuni) alternarsi a giovani ricercatori e ricercatrici impegnati sul difficile crinale del rapporto tra memoria e storia, in un fertile intreccio tra fonti tradizionali e fonti soggettive, ed è il risultato di un progetto promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci, e da Progetto Memoria, della SPI-CGIL, con il patrocinio del Comune di Roma (Assessorato alle Politiche culturali) e della Società Italiana delle Storiche, sulla base di un progetto scientifico curato dall’Archivio storico delle Donne “Camilla Ravera” . La raccolta di saggi, che trae origine dagli interventi tenuti al convegno di Roma del 2004, La memoria della politica. Alle origini della repubblica: donne e uomini tra esperienza e autorappresentazione, si muove intorno al perno dialettico di storia e memoria che, “pur avendo entrambe finalità esplicative e interpretative – ci ricordano nell’introduzione le due curatrici – si pongono tradizionalmente su due terreni separati (p. 15)”. E infatti la memoria è rigorosamente selettiva e riporta alla luce solo quella parte del passato che interagisce in modo significativo col presente, mentre la storia (e la storiografia) nutre l’ambizione di registrare sistematicamente ogni traccia del passato: per questo, storia e memoria ci raccontano storie diverse, e la memoria spesso illumina zone d’ombra che la storia non rileva; il ricordo umanizza la storia, le restituisce tridimensionalità. E allora, ecco il tentativo che sta dietro questo progetto: far interagire storia e memoria, permettendo così di allargare l’orizzonte interpretativo del racconto storiografico e aggiungendo profondità e complessità al rigido susseguirsi di un prima e di un poi. Le storie che qui ci vengono raccontate disegnano il quadro dell’antifascismo italiano e della nascita dell’Italia repub282


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blicana, con particolare attenzione ai percorsi umani individuali e collettivi e ci parlano di un passato in cui la militanza politica riempiva spesso l’intera esperienza esistenziale, in cui la storia faceva violentemente irruzione nel quotidiano, in cui grandi ideali erano ancora in grado di dare un senso a scelte anche radicali. Ricerche e testimonianze preziose che, prendendo in considerazione il senso che gli attori storici hanno attribuito alle loro azioni, ai loro pensieri e alle loro scelte, scavano nelle motivazioni e nei modelli di militanza, di impegno e di appartenenza politica. È un costante intreccio tra pubblico e privato, intreccio che è stato oggetto di uno dei più bei contributi del volume, a mio giudizio: quello di Anna Bravo, Pubblico e privato: una gerarchia instabile. La storica, prendendo le mosse dagli anni Trenta del Novecento, si sofferma in particolare sulla storia del PCI, e prende a esempio emblematico la relazione tra Nilde Iotti e Palmiro Togliatti, con il suo corredo di ingerenze e pressioni da parte della dirigenza del partito, la cui preoccupazione era quella di tenere all’oscuro di questa storia d’amore l’opinione pubblica e i suoi stessi militanti. E la cosa riuscì, almeno in un primo tempo: ne fa fede una ballata del 1948 sull’attentato al leader comunista, in cui si dice che a portarlo in ospedale fu la legittima moglie, Rita Montagnana. Ma, come ben sappiamo, la fermezza dei due protagonisti ha finito per riuscire a imporsi alla politica e ad avere la meglio sulla esplicita volontà del PCI di “nascondere” la loro relazione e di condannarla all’isolamento; una sorte ben diversa toccherà però, invece, a Teresa Noce che, membro della direzione del Partito comunista, ne verrà estromessa dopo aver reso pubblica e sollevata in quella sede la questione dell’annullamento del suo matrimonio con Luigi Longo, avvenuto a San Marino, voluto e deciso “unilateralmente” da lui e che la donna aveva appreso dai giornali. In questo modo, infatti, Teresa Noce aveva trasgredito all’imperativo del “mantenere i contrasti in famiglia”, una trasgressione più facilmente perdonabile a un uomo, ma che comportava invece per le donne un immediato isolamento.


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Certamente, seguire le tracce degli uomini e delle donne che hanno segnato con il loro impegno la nascita dell’Italia repubblicana e indagare i motivi delle loro scelte, spesso etiche prima ancora che politiche – come si fa in questo volume – non può però non portarci all’interrogativo sul perché la crisi di quella cultura politica sembra aver trascinato con sé anche le motivazioni etiche che ne erano alla base. E, infatti, la domanda sottesa a tutti i saggi raccolti nel volume pare essere come si possa rimotivare alla politica e rifondare un’idea di politica che sappia trovare ragioni forti. Le “memorie della politica – si legge nell’introduzione di Lucia Motti e Fiamma Lussana – riportano senso nel nostro presente: in quel ‘cimitero delle promesse non mantenute’ che per Ricoeur è lo spazio che separa lo storico dagli uomini del passato. Compito della politica, anzi di quanti hanno a cuore la cosa pubblica, è risvegliare quelle promesse e, se possibile, mantenerle. È questa l’etica del ricordo”. Graziella Gaballo

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Anna Rossi Doria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, 2007, pp. 320, 27, 00 Questo volume dà sistematizzazione a studi e interventi che hanno rappresentato l’articolazione del pensiero e della ricerca di Anna Rossi Doria negli ultimi decenni e intende, come enuncia appunto il titolo, dare forma al silenzio delle donne, antico, profondo, tenace, particolarmente pesante nella sfera politica. I primi saggi ricostruiscono momenti importanti della storia inglese, americana e italiana degli ultimi due secoli, caratterizzati, appunto, dalle lotte delle donne per ottenere cittadinanza politica, ma anche per ridefinirla, trovando parole nuove per dare, appunto, forma al silenzio cui per secoli erano state costrette e ne individuano e analizzano alcuni punti-chiave: dalla equiparazione, in Inghilterra, delle donne ai bambini con la loro conse284


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guente esclusione dal campo dei liberi attori della storia – ad opera sia dell’individualismo liberale che del nascente sindacalismo – alla elaborazione teorica e politica che si è sviluppata intorno al diritto del voto femminile, partita da una rivendicazione dei diritti politici e civili come espressione di autonomia e individualità, ma che porrà poi al proprio centro, invece, la tesi del valore collettivo della maternità. È proprio in nome dei servizi che le donne possono rendere sia nella famiglia che nella società che vengono motivate, infatti, dopo l’età delle guerre e dei totalitarismi, le rivendicazioni di accesso ai diritti politici per le donne, con la conseguenza, però, che poi l’esplicazione delle attività politiche femminili avverrà quasi esclusivamente nel campo della assistenza. Attenta e puntuale anche la ricostruzione della presenza delle donne sulla scena pubblica italiana e del dibattito politico nella Resistenza e nella fase di conquista del voto e nei lavori della Costituente. Il saggio su Diritti delle donne e diritti umani (2006) affronta poi il tema delle crescenti difficoltà di accesso delle donne a diritti riconosciuti come universali, per effetto della contrapposizionee dell’intreccio tra universalismo e particolarità (p. 308) che ha connotato tutta la battaglia per l’accesso delle donne ai diritti individuali e di cittadinanza degli ultimi due secoli. La seconda parte del volume è dedicata alle vicende del neo femminismo italiano degli anni Settanta, una stagione felice e breve di cui Anna stessa è stata protagonista. La studiosa propone una periodizzazione ormai condivisa: la nascita (1968-72); il fiorire dei collettivi (1972-74); il movimento di massa (197476); la crisi (1977-79), che non però significa fine del movimento, ma la sua trasformazione, il suo divenire femminismo diffuso, riversandosi nel lavoro culturale, fondando librerie, associazioni, riviste, e facendosi movimento carsico, che è tornato, negli ultimi anni, a riemergere, sui temi della difesa della 194 e della violenza contro le donne. Il libro si chiude con un’interessante appendice (in realtà, la vera “seconda parte” del volume) in cui l’autrice si riferisce ad alcune sue esperienze di insegnamento di storia delle donne,


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nei corsi del Virginia Woolf di Roma e in quello del Coordinamento Nazionale Donne dell’FLM nei lontani anni Ottanta, e, infine, a quelli presso le Università di Bologna e di Modena e presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli. I temi sono quelli del carattere sessuato del tempo, dell’eccesso femminile e dell’idea di uguaglianza, affrontati a partire dal porre domande diverse, andando quindi a intaccare il non detto su cui la storia si è strutturata e a evidenziarne la radicale parzialità. Graziella Gaballo

Mundus, rivista di didattica della storia, anno 1, n.1, Palermo, G.B.Palumbo editore, 2008; pp. 235, 25,00

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Antonio Brusa, Alessandra Ferraresi, Pierangelo Lombardi (a cura di), Un ‘officina della memoria. Percorsi di formazione storica a Pavia tra scuola e università. Omaggio a Giulio Guderzo, Milano, edizioni Unicopli, 2008, pp. 495, 20, 00. Negli ultimi tempi sono notevolmente aumentate le difficoltà dell’insegnare storia: per ragioni diverse, che vanno dalla sempre maggiore marginalizzazione della materia, con conseguente riduzione delle ore di insegnamento, alla complessità con cui i docenti devono confrontarsi e nella quale devono muoversi ed orientarsi, alla fatica sempre maggiore che costa ai nostri alunni comprendere testi e i problemi. E sembra ormai tristemente lontano il tempo in cui, pieni di entusiasmo e di progettualità, le/gli insegnanti parlavano di operatività, laboratori, rapporti col territorio e costruivano unità didattiche sui documenti. Adesso, mentre i temi dell’intercultura e della mondialità entrano con grande forza nelle nostre aule e si impongono alla nostra pratica quotidiana, diventa sempre più difficile selezionare i contenuti irrinunciabili, conciliare le varie dimensioni del quadro storico, da quella locale a quella mondiale, dare unità e senso alla narrazione storica e far sì che le alunne e gli alun286


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ni si impadroniscano degli strumenti del fare storia. In questo clima di crisi, rassegnazione, delusione sono segnali positivi l’apparire di una rivista, anche parecchio ambiziosa, sulla didattica della storia (dopo la scomparsa de I viaggi di Erodoto non ce ne erano più state) e di un volume che raccoglie e propone percorsi didattici, frutto di otto anni di lavoro, tra Laboratorio di didattica della storia e Scuola di specializzazione per l’insegnamento. Partiamo dalla rivista, semestrale, pubblicata dall’editore Palumbo e diretta da Antonio Brusa col supporto di un prestigioso comitato di esperti: interessante, innanzi tutto, la scelta del titolo, che non significa semplicemente “il mondo”. Mundus, ci viene spiegato nell’editoriale, era un luogo sacro, un pozzo al centro di Roma, dove il cielo si congiungeva con la terra; naturalmente destinato a diventare eponimo di ombelico, per una delle metonimie più imprevedibili della storia è diventato il nome del pianeta. La scelta di questo termine e di questo concetto è quindi significativa di una dialettica fra locale e globale, cui questa rivista si richiama, e di una profondità temporale, che è il valore distintivo del nostro mestiere, di insegnanti e di storici. Il periodico intende proporsi come luogo di discussione, ma anche come repertorio di strumenti e di soluzioni concrete, per il lavoro dei docenti (da quelli universitari agli insegnanti di qualsiasi ordine e grado, agli studenti delle Scuole di specializzazione) ed è organizzato in tre sezioni: la ricerca, la didattica e l’informazione. Vengono presentati dibattiti relativi all’insegnamento della storia che hanno investito la vita politica, sociale e culturale, italiana e mondiale e saggi attraverso i quali si consegnano al pubblico le risposte che la ricerca storico-didattica, italiana e internazionale, ha elaborato per affrontare i numerosi problemi dell’insegnamento. Vengono inoltre offerti strumenti di lavoro: relativi, nel Dossier, ad argomenti di studio, per i quali un gruppo di storici e di studiosi offre dei materiali utili per preparare la lezione, o direttamente utilizzabili in classe e, nel Laboratorio, a strumenti metodologici, quali l’uso del manuale, dei laboratori didattici, dei media.


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Nel primo numero, ad esempio, oggetto del Dossier è il Neolitico, cui faranno seguito, nei prossimi numeri, la rivoluzione industriale e la rivoluzione telematica, in modo da proporre materiali per una periodizzazione di base; mentre il laboratorio propone un tema caldissimo, quello dell’intercultura in una situazione di conflitto, dove insegnanti palestinesi e israeliani stabiliscono un dialogo in vista di una pace futura; un esempio di didattica concreta (come studiare e discutere in una scuola superiore della storia delle donne nel dopoguerra italiano, di Aurora Del Monaco del Landis) e due modelli di didattica “nuova”: (i giochi informatici, curati da José M. Cuenca, dell’Università di Huelva, e una escursione-gioco in un sito archeologico, sperimentata e raccontata da Historia Ludens). Inoltre, già dal prossimo anno, con il suo terzo numero, “Mundus” sarà affiancata da una edizione on-line, che curerà in particolare i rapporti con i lettori, i dibattiti e la produzione di materiali di insegnamento, la messa in rete di convegni e i legami con associazioni, scuole, e le relazioni con altri siti dedicati all’insegnamento della storia. Ben si accompagna alla rivista il libro a cura dello stesso Antonio Brusa, insieme con Alessandra Ferraresi e Pierangelo Lombardi, Un ‘officina della memoria, che raccoglie e presenta materiali di riflessione sulla storia e la didattica e propone, dopo aver spiegato il modo in cui si è lavorato nell’officina pavese, gli esiti di ben diciannove laboratori su temi che spaziano dalla storia antica a quella contemporanea, utilizzando fonti eterogenee e attraversando tematiche diverse, dalla storia di genere a quella militare, dalla storia dell’arte a quella sociale. I materiali didattici sono raccolti anche in un utile e corposo DVD, per essere immediatamente utilizzabili e “trasferibili” in classe. Quanto basta, insomma, per farci uscire dal grigiore della crisi e regalarci spunti e nuovi motivi per tornare a progettare, con un po’ più di speranza, di fiducia e di ottimismo. Graziella Gaballo

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Questo libro può essere letto in vari modi e su vari livelli di interpretazione, suscitando l’interesse di una tipologia piuttosto varia di lettori. In questa situazione mi trovo anch’io, come recensore, perché questo libro suscita ricordi legati a una parte consistente della mia esperienza di vita: anch’io, benché molto più giovane ho avuto piazza Mentana come “terreno di gioco”, senza contare che alcuni dei protagonisti del libro (starei quasi per dire “personaggi” quasi si trattasse di un romanzo) sono o sono stati amici di famiglia o almeno conoscenti. Al lettore che come me si identifica con le vicende narrate e con l’ambiente, I ragazzi di piazza Mentana appare legato al filo conduttore della nostalgia. Il libro appartiene al genere memorialistico – biografico; la narrazione si sviluppa attraverso i ricordi, per episodi, senza tentare una vera e propria ricostruzione storica o biografica generale, sul filo di una marcata soggettività. Ci sono naturalmente episodi in grado di suscitare una memoria più generalmente condivisa. Penso in particolare alla prima parte, dove si descrive la nascita del quartiere “Pista” e della piazza nel primo dopoguerra (la sezione fotografica è particolarmente significativa). Un altro episodio, tra l’altro ben conosciuto nella memoria collettiva del quartiere è quella del primo tragico bombardamento della città, nel 1944, quando le bombe alleate, dirette in un primo momento sulla ferrovia, colpirono i rifugi nella piazza e in via Galilei, causando la morte di decine di persone. Quasi tutte le persone anziane residenti nella Pista vecchia possono raccontare di chi, all’ultimo momento, preferì uscire o non andare in rifugio o di andarci, per seguire un familiare o una fidanzata. Il destino, come anche Colli racconta, sembra giocare, in circostanze come questa, strani scherzi. I rilievi che a una narrazione di questo tipo si possono fare sono proprio connessi con la pluralità e la differenza delle memorie. Alcuni protagonisti di queste vicende o testimoni, 289

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Walter Colli, I ragazzi di piazza Mentana, Recco, Le Mani-Isral, 2009; pp. 190, 16,00.


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come la prof.ssa Cavazzuti, che ha riconosciuto i suoi cuccioli ritratti insieme ai ragazzi – anche lei giocava nella piazza – hanno memorie differenti, una sua osservazione, interessante e caustica, mi permette di ampliare le mie considerazioni. Se dal punto di vista della memorialistica è perfettamente giustificabile la prospettiva di descrivere le gesta di una banda di ragazzi, come di un tutto omogeneo sia dal punto di vista di genere, sia dal punto di vista dei comportamenti, prospettiva ampiamente rispondente ai modi di vita e alla mentalità dell’epoca, dal punto di vista della storia manca la rielaborazione di queste memorie. Ciò di cui si parla, la caccia, lo sport (calcio o ciclismo che fosse), l’amicizia stessa resta confinato sul piano dell’anedottica. Famiglia, scuola, altri legami restano sostanzialmente sullo sfondo come resta sullo sfondo il legame con gli eventi della storia generale (Fascismo, Seconda Guerra Mondiale, Resistenza), specie in riferimento ad altre opere dello stesso genere (Canton d’i Rus di Carlo Gilardenghi, ad esempio). Ci sono da questo punto di vista elementi interessanti, come le vicende del giovane Ennio Massobrio, il più giovane caduto della guerra partigiana, narrata a più voci. Il riferimento a Carlo Gilardenghi non è casuale: da un punto di vista geografico e sociale il Canton d’i rus e la Pista vecchia degli anni Trenta costituiscono in città due poli opposti di attrazione e di questi due piazza Mentana costituiva una sorta di confine, una contrapposizione che i “vecchi alessandrini”, quei pochi rimasti, hanno ben presente. Da una parte c’è il cantone, la “vecchia” anima della città: vecchia cronologicamente, più antica, popolare e borghese – aristocratica al tempo stesso, ricordo di quel borgo Rovereto, dentro le mura, ma con un confine appena fuori, quasi nelle paludi che fiancheggiavano il fiume. La Pista invece erano i quartieri nuovi, il simbolo di un’Alessandria in espansione dal Tanaro verso la Bormida, legato al corpo della fabbrica Borsalino, ampliata oltre canale, dove era andata ad abitare la piccola e media borghesia del dopoguerra, proprio quella parte della città che conoscerà le 290


Antonella Ferraris

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maggiori devastazioni durante la guerra, proprio perché accanto alla ferrovia, come si è visto, considerata un elemento strategico. Meno significativa, molto più ridotta è l’ultima parte, dedicata al dopoguerra: le vicende della guerra e in particolare della Resistenza finiscono per dividere i “ragazzi”; la vita fa il resto: ciascuno segue un percorso di vita differente, che viene sintetizzato in poche righe. Questi percorsi sono ricostruiti nella parte finale, dove vengono ricostruite le biografie delle persone citate nel libro. Per il lettore estraneo alle vicende è un po’ come venire a sapere “come va a finire” un romanzo. E del romanzo ha spesso la struttura, fatta delle memorie dell’autore, ma anche di lettere e racconti prodotti dagli altri. In tal modo il lettore può farsi un’idea di un’Alessandria che non c’è più, una sorta di istantanea ingiallita, come le foto molto interessanti che costituiscono la sezione iconografica. È un libro che si legge piacevolmente e con curiosità, maggiore forse per colore che in quella vicenda o in quel periodo possono identificarsi, minore forse per i più giovani che meno possono identificarsi con un passato che non conoscono e che sembra lontanissimo (basta paragonare le descrizioni dell’attività sportiva negli anni Trenta e Quaranta rispetto a quella attuale per avere l’impressione di un radicale mutamento nei modi e nelle abitudini). Non è un saggio storico, poiché, come ho già detto, mancano sia una contestualizzazione delle storie, sia una loro interpretazione. L’autore è un abile giornalista, che scrive con abilità dando la struttura del romanzo alle vicende narrate – e paradossalmente proprio quello potrebbe interessare di più i giovani…


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Judaica a cura di Aldo Perosino

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Dolermo M.F., Presenze ebraiche a Nizza Monferrato in età moderna, Nizza M., Quaderni dell’Erca, 2008; pp. 79, s.i.p. Da anni, Dolermo studia la Comunità ebraica di Acqui, ormai scomparsa. Numerosi i suoi articoli su riviste, e libri. Tempo fa era uscito un suo libro La costruzione dell’odio. Ebrei contadini e diocesi di Acqui dall’istituzione del Ghetto del 1731 alle violenze del 1799 e del 1849 (Zamorani editore). Un testo molto importante in cui l’autore cercava di rispondere perché, nella quieta sua cittadina, avvennero due pogrom e quale ne sia stato il brodo di coltura, evidenziando sì l’antigiudaismo della chiesa cattolica, e in particolare della diocesi di Acqui, ma anche i fattori economici dell’incameramento da parte dei banchieri ebrei delle terre dei contadini a seguito di debiti non estinti, e il fattore demografico dell’alta percentuale degli ebrei rispetto alla popolazione cittadina. Molto utile e interessante il capitolo Lo sviluppo demografico della comunità ebraica. Un’analisi accurata, precisa, con un’importante bibliografia. Ora Dolermo prosegue le sue ricerche sulla Comunità di Nizza Monferrato. Partendo da un episodio tragico – l’uccisione di un ebreo da parte di un nobile, regolarmente non punito – egli studia i rapporti fra i banchieri ebrei e i nobili della cittadina, sempre affamati di denaro, i problemi politici col potere dei Savoia e dei dominatori francesi che rimasero in Acqui per 15 anni. Ciò gli permette di analizzare la comunità, il suo sviluppo demografico, le nascite e le morti a partire dal 1761, l’istituzione del ghetto, di cui egli ha trovato il progetto originario, le proprietà fondiarie, la lenta decadenza fino all’estinzione. Molto interessante per chi studia l’ebraismo piemontese l’elenco dei rabbini che officiarono in Nizza, nonché l’elenco delle varie con292


fraternite. Se, come dice la tradizione ebraica, ricordare significa far rivivere, Dolermo, con questo piccolo ma importante libricino, ci fa rivivere e ci fa ripensare a una piccola comunità che è storia nostra. Senza dimenticare la scrittura dell’autore, piana, scorrevole, piacevole.

L’appassionata e dotta ricerca che Luisa Rapetti ha compiuto sul Cimitero ebraico di Acqui Terme costituisce una ulteriore importante tessera di quel mosaico dell’ebraismo piemontese che, grazie alla fatica di tanti studiosi, si va sempre più definendo in tutta la sua rilevanza. Si tratta di un meticoloso lavoro di ricerca e di studio che ha impegnato l’autrice per vari anni, aiutata da vari esperti tra cui l’ing. Chiarlo che ha realizzato una dettagliata tavola planimetrica e di posizionamento delle lapidi (che sono ben 830!). Accostando i rilievi sul campo con lo studio di documenti d’archivio e bibliografici, l’autrice ricostruisce la vita della comunità acquese: dall’emancipazione e l’uscita dal ghetto, alla folta partecipazione alla vita politica e sociale, l’adesione al risorgimento, la grande guerra, il fascismo, le infami leggi razziali, la deportazione, la resistenza, il dopo guerra fino alla malinconica estinzione. Così riaffiorano i nomi degli ebrei che hanno segnato e influito sulla vita della città: i Debenedetti, i Levi, gli Ancona, i Bachi, gli Jona, gli Ottolenghi. Di molte famiglie l’autrice ricostruisce la genealogia fornendo un quadro complessivo delle stesse, indispensabile per una storia degli ebrei acquesi. Da ricordare la presenza di numerosi ebrei stranieri che venivano nella cittadina per le cure termali, qui deceduti e sepolti (molti di essi risiedevano nelle città liguri e vennero qui traslasti). Ma non si tratta solo di una ricostruzione storica: i numerosi i rimandi al testo biblico, alla tradizione ebraica ci forniscono la possibilità di interpretare ciò che si trova sui monumenti e sui manufatti oggetto della ricerca. Interessanti alcuni filoni iconografici, dal 293

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Rapetti L., Il cimitero ebraico di Acqui Terme, Acqui Terme, Editrice Impressioni Grafiche, 2009; pp. 333, 20.


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simbolismo zoomorfo a quello fitomorfo, dalla rappresentazione degli elementi del culto ebraico e quello derivante da contaminazioni con il culto della società cattolica circostante. L’analisi delle epigrafi ci permette di conoscere i riti funerari ebraici, i fenomeni migratori, la tragedia della Shoah che portò nei campi di sterminio tedeschi 25 ebrei acquesi. Una miniera di informazioni e di personaggi come ad. es. Jona Ottolenghi che a sue spese costruì l’asilo infantile dell’ospedale, la scuola per arti e mestieri, il ricovero, la società di mutuo soccorso. Personaggi spesso dimenticati. Grazie alla prof. Rapetti per averceli ricordati.

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Berr H., Il diario di Helene Berr , Milano, Frassinelli, 2009; pp. 265, 18.50.

“Sta piovendo Morte sulla terra”. Lo scrisse la giovane studentessa parigina Helen Berr, 22 anni appena, sul suo diario, il 1 novembre 1943. I suoi amici stavano scomparendo, giorno per giorno, deportati nei campi di sterminio. E lei sapeva che la rete si stava chiudendo anche per lei. “Sento che un grande e oscuro sentiero mi attende”, annota nel suo diario, destinato al fidanzato riuscito a scappare nella “Francia libera”. “Pensare che ogni persona che è stata arrestata ieri, oggi, ogni minuto, è probabilmente destinata a soffrire questo terribile destino. Pensare che non è ancora finita, e che tutto continua con diabolica regolarità. Pensare che se sarò arrestata stasera… tempo una settimana sarò... morta e tutta la mia vita, con l’infinito che io sento dentro di me, sarà spazzata fuori…”. Continuerà a scrivere fino al giorno in cui viene arrestata con i suoi parenti, nel sonno, e deportata ad Auschwitz. Era il giorno del suo compleanno, il 27 marzo 1944. Scrisse per tre anni l’orrore che incombeva sulla sua vita. Il diario fu ritrovato a casa del cuoco francese non ebreo che ospitò a lungo lei e la sua famiglia. Una preziosa testimonianza ritrovata di straordinario valore e autenticità.

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Casazza A., La fuga dei nazisti (Mengele, Eichmann, Priebke, Pavelic – da Genova all’impunità), Genova, Il Melangolo, 2008; pp. 152, 16. Il libro prende avvio dalla notizia dell’apertura degli archivi segreti del Centro di Immigrazione di Buenos Aires avvenuta nella primavera del 2003. Una desecretazione legata a filo doppio alla pubblicazione negli Stati Uniti, e quindi in Argentina, del saggio dello storico e giornalista Uki Goni “Operazione Odessa”, che accende i riflettori anche su Genova. La città, Medaglia d’Oro della Resistenza, viene indicata quale luogo di passaggio, soggiorno e imbarco di alcuni fra i più noti e sanguinari ufficiali delle SS, di collaborazionisti francesi e croati. Nel periodo che va dalla fine del 1948 agli inizi del 1951, la città fu trasformata nell’ultima tappa della “strada dei topi” che attraverso una serie di conventi permetteva ai criminali nazisti di arrivare a Genova per imbarcarsi alla volta dell’America. I frati francescani si distinsero per loro impegno a favore di questi criminali. Don Venturelli parroco di Genova ammette di aver aiutato a fuggire sia gli ebrei che i nazisti, mettendo sullo stesso piano civili innocenti e assassini delle SS. Una morale sconvolgente.

Tra il 1934 ed il 1938 piccoli gruppi di giovani ebrei, che aspiravano a divenire pionieri in Palestina, fecero il loro tirocinio di lavoratori della terra nell’Italia fascista. Provenivano dalla Germania nazista e da vari paesi dell’Europa orientale. In Toscana, in Piemonte ed in altre regioni questi giovani stranieri, quasi tutti di estrazione borghese, lavorarono a fianco dei contadini italiani per imparare a coltivare la terra. Erano ospitati in campi di addestramento indicati col termine ebraico di achsciaroth. Dopo un anno e più di permanenza in Italia speravano di ottenere il visto per emigrare in Palestina, allora sotto mandato bri295

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Forti C. - Luzzati W. H., Palestina in Toscana - Pionieri ebrei nel Senese (1934-1938), Firenze, Aska editori, 2009; pp.174, 24.


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tannico. A Ricavo di Castellina in Chianti iniziò a funzionare uno di questi campi nella primavera del 1934: nei quattro anni della sua esistenza vi passarono più di 200 ragazzi e ragazze, molti dei quali costruirono il loro futuro nella realizzazione dei loro ideali in kibbuz o in città nella Palestina di allora, oggi Stato d’Israele. Nel settembre del 1938 il governo fascista decretava la loro espulsione dall’Italia: la Gran Bretagna concedeva agli ebrei pochi permessi d’immigrazione in Palestina, altri paesi erano poco propensi ad accogliere profughi: i ragazzi di Ricavo furono smistati in alcuni paesi d’Europa dove li raggiunse la guerra. Molti perirono nella Shoah. Il libro, con la prefazione di Michele Luzzati, comprende 10 capitoli con documenti, interviste e foto.

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Kassow S., Chi scriverà la nostra storia: l’archivio ritrovato del ghetto di Varsavia, Milano, Mondadori, 2009; pagg. 550, 26. Nel 1940, mentre la Polonia veniva inglobata nel Terzo Reich e per gli ebrei polacchi iniziava una tragica parabola che avrebbe avuto una conclusione terribile, Emanuel Ringelblum fondò a Varsavia un’organizzazione clandestina votata a raccogliere e conservare tutti i documenti che potevano raccontare la storia della comunità ebraica sotto i nazisti. Man mano che la Soluzione finale si sviluppava, lui e i suoi compagni misero insieme un archivio preziosissimo e insieme spaventoso, in cui si trova la cronaca della graduale distruzione di un popolo. Nonostante arresti, deportazioni e uccisioni, l’archivio continuò a crescere durante tutta la seconda guerra mondiale e anche se il suo ideatore scomparve, come tutta la sua famiglia, nei campi di sterminio nazisti, prima della fine riuscì a mettere in salvo migliaia di documenti nascondendoli in bidoni per il latte e in scatole di alluminio. Dopo la fine della guerra, solo tre delle molte persone che avevano lavorato all’archivio erano sopravvissute, ma la testimonianza di quella incredibile raccolta non era andata perduta.

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Marchi V., Il dottor Sachs. Un medico ebreo in Friuli e la sua famiglia tra Otto e Novecento, Udine, Kappa Vu, 2008; pp. 351, 20. Un’opera complessa e ricchissima, incentrata sulla figura del dottor Ettore Sachs, medico condotto di Gonars e di San Daniele del Friuli tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, amato e benvoluto dalle popolazioni e osteggiato, invece, solo perché ebreo, da alcuni cattolici “benpensanti”. Il professor Marchi, con pazienza e passione, ci accompagna in questo viaggio per narrarci la storia “piccola e comune” di Ettore Sachs e della sua famiglia, portandoci non solo a scoprire le molte presenze ebraiche in Friuli, i legami tra i nuclei di israeliti di Gonars e San Daniele del Friuli, ma anche l’antisemitismo del tempo, culminante poi nella Shoah, e ampliando, di fatto, la conoscenza del nostro passato recente.

Nella nascita dello Stato di Israele il ruolo di Stalin è stato fondamentale. Lo dimostrano i documenti recentemente scoperti negli archivi sovietici, su cui questo testo si basa. Il voto determinante dell’URSS in sede ONU, a favore della nascita di Israele, è storia. Molto meno noto è che nel 1948 l’Unione Sovietica fornì armi allo Stato ebraico, violando l’embargo sostenuto da Stati Uniti e Gran Bretagna. Ha detto il primo ministro Golda Meir: “Non sappiamo se avremmo potuto resistere senza le loro armi”. Il giornalista e storico russo Leonid Mlecin ipercorre i passaggi salienti della politica estera sovietica nella gestione dei rapporti in Medio Oriente a partire dal 1917. Si tratta di documenti originali e in parte inediti, provenienti dagli archivi del Politburo, del Comitato centrale del Partito comunista, dei servizi segreti e del Ministero degli esteri dell’Unione sovietica, telegrammi cifrati degli ambasciatori, memorie di politici e diplomatici che hanno vissuto in prima persona quei cruciali avvenimenti. A riemergere è il progetto strate297

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Mlecin L., Perché Stalin creò Israele, Roma, Testi editore, 2008; pp. 212, 17.00.


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gico di Stalin, finalizzato alla costituzione di un presidio filosovietico in Medio Oriente. Questo testo, impreziosito dalla prefazione di Luciano Canfora e dall’introduzione di Enrico Mentana, si presenta come un importante strumento di approfondimento conoscitivo tanto per gli studiosi specialisti, quanto per chi è interessato alla questione mediorientale e intende guardare oltre i recenti sviluppi. Leonid Mlecin è giornalista, scrittore, storico, già vicedirettore del quotidiano “Izvestija”. Ideatore e conduttore di importanti trasmissioni televisive di analisi politica e storica. È autore di molte pubblicazioni di successo, tradotte nelle principali lingue mondiali.

Netanyahu I., Entebbe 1976. L’ultima battaglia di Yoni, Milano, Edizioni Libreria Militare, 2009; pp. 208, 21.

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Accurata ricostruzione dell’azione militare con cui Israele liberò gli ostaggi tenuti prigionieri all’aeroporto di Entebbe da parte del Fronte di liberazione della Palestina e in cui morì il Ten. Col. Jonathan Nethaniau, capo della operazione (fratello dell’attuale Primo Ministro di Israele). Fu un’operazione di risonanza mondiale che mostrò al mondo che Israele era in grado di difendere i propri cittadini ovunque, un’operazione senza precedenti effettuata da un’audace e segretissima unità di incursori. Un racconto veritiero di un evento unico e straordinario, ma soprattutto la storia di un individuo esemplare il cui nome, per il coraggio, l’acutezza del suo intelletto e la fermezza rimane nella storia di Israele. E non solo.

Verolme Hetty E., I bambini di Belsen, Roma, Città futura, 2009; pp. 343, 20. Hetty Verolme era una bambina quando, nel 1943 venne deportata con tutta la sua famiglia, dopo l’invasione nazista dei Paesi Bassi. Assieme ai fratelli, fu strappata ai genitori e internata nella 298


casa dei bambini all’interno del campo di concentramento di Belsen. Essendo la più grande, divenne la “piccola madre” del campo. In uno stile diretto e intenso, Hetty narra una delle storie più sconvolgenti e finora sconosciute dell’Olocausto, la straordinaria lotta per la sopravvivenza di un gruppo di bambini in quegli anni terribili.

Weil G., Conseguenze tardive, Firenze, Giuntina, 2008; pp. 123, 12.

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Le “conseguenze tardive” di cui narra Grete Weil sono quelle, terribili, dell’Olocausto in chi è sopravvissuto. Quella che l’autrice ci restituisce è un’umanità dolente, scampata agli orrori del lager, ma non viva. Donne e uomini che, pur avendo salva la pelle, non hanno salvato, a tanti anni di distanza, l’anima. Auschwitz è come un male per il quale non c’è cura. Grete Weil, nata Dispeker, ebrea tedesca, come lei stessa si definisce, fuggì in Olanda nel 1935 insieme al marito Edgar Weil che nel giugno del 1941 fu deportato nel campo di Mauthausen, dove muore il 17 settembre dello stesso anno. Grete, devastata dal dolore per la perdita di Edgar, sopravvive e nel 1947 torna a vivere in Germania, “la terra dei miei assassini e della mia lingua”. L’integrazione come scrittrice non è facile: la Repubblica Federale Tedesca degli anni Cinquanta e Sessanta poco volentieri si confrontava con le tragiche vicende del periodo nazista.

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