Critica della forma-sindacato e limiti dell'autorganizzazione proletaria

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CRITICA DELLA FORMA-SINDACATO E LIMITI DELL'AUTORGANIZZAZIONE PROLETARIA «La rivoluzione non è un problema di organizzazione» (JEAN BARROT, Capitalismo e comunismo) 1. Il rifiuto della pratica sindacale è, senza alcun dubbio, un passaggio imprescindibile per qualsivoglia critica teorico-pratica dell'esistente che si pretenda “radicale”. Tuttavia, se non si articola un'analisi dei meccanismi che sono alla base dell'integrazione della forma-sindacato all'interno dello Stato e della dinamica capitalistica, la critica rischia di svilirsi in mera presa di posizione ideologica. L'analisi cui alludiamo, fu abbozzata per la prima volta, negli anni '20 e '30 del secolo scorso, dalle sinistre comuniste fuoriuscite o espulse dalla Terza Internazionale (o quanto meno da una parte di esse); a dimostrazione del fatto che non si tratta per niente di un fenomeno nuovo. Al contrario, gli esordi di quello che si presenta come un lento processo involutivo, spalmato sull'arco di alcuni decenni, e di cui la burocratizzazione rappresenta soltanto uno dei sintomi, si possono far risalire, in alcune aree capitalistiche avanzate, addirittura alla fine del XIX secolo, allorché si ebbe una prima parziale legalizzazione delle organizzazioni sindacali. Il fatto che, nel 1914, la quasi totalità dei sindacati appoggiasse senza remore lo sforzo bellico dei rispettivi Stati nazionali, impegnati nella carneficina della Prima guerra mondiale, la dice lunga sullo stadio avanzatissimo già raggiunto, a quell'epoca, dal processo di integrazione. Il punto che ci preme sottolineare, tuttavia, è che quest'ultimo fu il frutto non tanto di un presunto “tradimento” delle dirigenze riformiste; quanto, piuttosto, di un'evoluzione – implicita nella natura stessa della forma-sindacato – determinata dallo sviluppo capitalistico (passaggio dal dominio formale al dominio reale del capitale sul lavoro e sulla società): «Altri elementi importanti della fine del periodo [della sussunzione formale] corrispondono [all']adeguamento delle modalità della sottomissione del proletariato, all'estrazione del plusvalore relativo. È il caso, in particolare, dello sviluppo dei sindacati e dei partiti operai, che marca l'integrazione progressiva dell'insieme dei fattori della riproduzione proletaria all'interno dell'auto-presupposizione del capitale. Sindacati e partiti affrontano allora il capitale su un terreno che, nel quadro degli sforzi permanenti di quest'ultimo volti a sottomettersi il proletariato, sta diventando un arcaismo: assenza di diritti sindacali e politici, durata della giornata lavorativa, [basso] livello dei salari. Ma tutto ciò concerne soltanto la fine del periodo [della sussunzione formale] e la transizione verso quello della sussunzione reale.» (BRUNO ASTARIAN, Éléments sur la périodisation du mode de production capitaliste).

In altri termini, il passaggio al dominio reale, che si incarna in quel “compromesso” fordistakeynesiano la cui genesi, il cui sviluppo e la cui lunga crisi (tuttora in corso), sono di fatto coincisi con l'intero arco del Novecento, conduce all'istituzionalizzazione dei sindacati, che diventano un momento fondamentale della regolazione del rapporto produttività-salari e della sottomissione della forza-lavoro agli imperativi della valorizzazione capitalistica. 2. Il sindacato è un organismo che svolge una funzione di mediazione all'interno del rapporto tra capitale e lavoro: il suo compito consiste nel negoziare le condizioni di vendita e di utilizzo della forza-lavoro. Questa semplice verità, implica necessariamente che l'organizzazione sindacale debba essere legittimata, nell'esercizio della sua funzione, da entrambi i poli del rapporto: i salariati e i capitalisti. Dunque, essa presuppone un delega trasmessa dalla “base”, da un lato, e un riconoscimento da parte dei gestori del capitale e del loro Stato, dall'altro. La legittimazione, in entrambi i casi, è chiaramente condizionata: a) quanto al primo aspetto, va innanzitutto notato come ogni trasmissione di delega, intesa come


fondamento dei meccanismi di rappresentanza sindacale e politica, trovi il proprio presupposto nello stato di atomizzazione – e quindi di passività – in cui versano i proletari: nella loro incapacità di intraprendere autonomamente un'azione collettiva dotata di un minimo di efficacia; stato determinato non solo e non tanto da fattori ideologici, ma in primo luogo da dispositivi materiali (dalla gerarchizzazione delle condizioni salariali e lavorative che accompagna la divisione sociale e tecnica del lavoro, fino alla stessa organizzazione del processo lavorativo all'interno del singolo stabilimento, in cui la non neutralità della tecnologia gioca un ruolo a dir poco fondamentale sul piano del disciplinamento della forza-lavoro). Ne consegue che qualsivoglia organismo politico o sindacale – il cui unico fine, in ultima istanza, è la propria autoriproduzione in quanto organizzazione separata – attuerà uno sforzo permanente volto a mantenere e rafforzare l'atomizzazione dei salariati e a riprodurne le divisioni interne. «Le rappresentanze, dunque, agiscono fondamentalmente sulle coscienze, utilizzando tutta la forza della propria organizzazione: si fanno valere antichi legami, memorie e fedeltà, nel tentativo di convincere alle proprie ragioni i singoli del collettivo, si introducono divisioni politiche, si cooptano negli organismi rappresentativi i delegati di base, si alimenta la diffidenza e la paura, ma sopra ad ogni altra cosa si presenta la propria unità come l’unica unità possibile e tutto ciò che contrasta questa astratta unità come fonte di disgregazione e principio di sconfitta. […] Ma da tutto questo non sortirebbero effetti duraturi se al contempo da parte del capitale non venisse messo in moto un processo di disarticolazione della struttura materiale del processo produttivo» (RAFFAELE SBARDELLA, Astrazione e movimento reale)

Ciò non toglie, d'altronde, che la trasmissione della delega richieda un minimo di fiducia e di consenso del “rappresentato” verso il “rappresentante”; e che, quindi, il secondo debba farsi in qualche modo carico delle istanze provenienti dalla base, pur annacquandole, distorcendole e mistificandole. b) Quanto al riconoscimento di parte capitalista, che la funzione di mediazione assolta dal sindacato richiede, risulta evidente come esso sia condizionato alla capacità dell'organizzazione sindacale di esercitare un controllo rigido e capillare sui comportamenti della classe; controllo volto a mantenere ogni manifestazione di quest'ultima entro i limiti delle compatibilità sistemiche, e in ogni caso a minimizzarne/neutralizzarne l'impatto. Di qui, ad esempio, il riconoscimento del cosiddetto diritto di sciopero, che coincide con la crescente irreggimentazione e la sostanziale neutralizzazione, di quella che rappresenta un'arma potentissima nelle mani dei salariati. Riassumendo: il comportamento di una qualsivoglia struttura burocratico-sindacale è invariabilmente la risultante di due fattori: gli umori e le spinte provenienti dai salariati, e le pressioni esercitate dal capitale. Essa, in qualche modo, è sempre la “serva di due padroni”, benché il vero padrone sia in ultima istanza quello socialmente più forte: il capitale. Soprattutto, la sua è una mediazione attiva, che non si limita a registrare un rapporto di forza preesistente, ma che agisce su di esso in mille modi, sia dal punto di vista ideologico che materiale: annacquando i contenuti e le forme delle lotte, contenendo le spinte più radicali provenienti dalla "base" (sia attraverso un atteggiamento direttamente censorio/repressivo, sia facendole impantanare nella palude della burocrazia e delle dinamiche interne al sindacato); e soprattutto alimentando le divisioni e l'isolamento dei singoli, che entrano in rapporto tra loro soltanto attraverso la mediazione dell'organizzazione. Tutti i fenomeni inerenti la pratica sindacale che spesso vengono denunciati (adesione alle compatibilità capitalistiche, difesa dell'economia nazionale, corporativismo e settorializzazione delle lotte, trasformazione delle organizzazioni in erogatori di servizi per conto dello Stato etc.), non sono che conseguenze della dinamica appena descritta. Nondimeno, in una fase di crisi conclamata dell'economia capitalistica (non ci pronunciamo circa la sua presunta “irreversibilità”), in cui, da un lato, i margini di mediazione su cui il capitale può contare si azzerano e, dall'altro, i rapporti di forza tra le classi sono talmente sfavorevoli ai proletari, da poter parlare di guerra di classe “a senso unico”, la dialettica della rappresentanza entra anch'essa in crisi. Così, le burocrazie sindacali o si trasformano in puri e semplici “portavoce


del padrone” (è il caso dei sindacati firmatari degli accordi di Pomigliano e Mirafiori); oppure continuano a recitare il loro ruolo “tradizionale”, ma declinandolo in modo sempre più ideologicospettacolare e sempre più sganciato dalle istanze e – laddove si esprime – dalla volontà di lotta dei salariati. 3. L'autorganizzazione, cioè la gestione diretta delle lotte da parte dei proletari, dei senza riserve, di coloro, insomma, che sono o saranno costretti a (cercare di) vendere la propria forzalavoro in cambio di un salario, è certamente condizione necessaria, anche se non ancora sufficiente, a una ripresa della lotta di classe di parte proletaria; ovvero alla costruzione di un “fronte di classe” che sappia opporre una valida resistenza all'attacco – frontale e ormai totalmente dispiegato – che il capitale sta portando alle nostre condizioni di sopravvivenza. Tuttavia, l'autorganizzazione in quanto tale è una mera forma, un involucro privo di vita, del tutto indifferente rispetto al proprio contenuto. Qualsiasi cosa può essere “auto-organizzata”, incluso il proprio sfruttamento! Basti pensare alla storia del movimento cooperativo; oppure ai diversi tentativi di autogestione della produzione che hanno punteggiato la storia del movimento operaio: dall'occupazione delle fabbriche torinesi, nel 1919-20, fino al più recente caso della Zanon, in Argentina. Lo stesso movimento dei Consigli, nella Germania del Primo dopoguerra – autentico focolaio di rivoluzione in quegli anni – si collocava per lo più in una prospettiva di autogestione del capitalismo. Quest'ultimo, infatti, contrariamente a quanto molti credono, può continuare a esercitare la sua dittatura anonima, incentrata sull'inerzialità di un rapporto sociale che si esprime nella legge del valore, anche senza i capitalisti. Questo, soltanto per rilevare come l'autorganizzazione non sia necessariamente incompatibile con l'attuale ordinamento sociale; anzi, in un ipotetico (e auspicabile) futuro rivoluzionario, declinata in certe forme particolari, essa potrebbe persino rappresentare la sua ultima ancora di salvezza. Pensare che l'autorganizzazione rappresenti la “panacea di tutti i mali”, significa peccare di “formalismo” e attribuire a una forma organizzativa delle virtù salvifiche che non possiede e non possiederà mai. 4. Come abbiamo già avuto modo di annotare, la rivoluzione non è più concepibile nei termini di un'affermazione del proletariato in quanto polo dominante della società, e perciò come estensione di un contropotere o di una controsocietà già esistenti; non può più essere confusa con l'instaurazione di una dittatura politica (Partito o Consigli) e con l'avvio di una fase di transizione volta a creare le condizioni del comunismo. Non solo quest'ultimo, lungi dall'essere identificabile in un modo di produzione “superiore” al capitalismo, va inteso come radicale soppressione dell'Economia e del lavoro, liberazione dell'attività umana e delle relazioni tra gli individui da ogni mediazione sociale alienata; ma le sue condizioni sono già pienamente esistenti. Da questo punto di vista, se l'autorganizzazione rappresenta il primo atto della rivoluzione, essa nondimeno «ha cessato di essere il principio di qualsivoglia rifondazione societaria, non è più la prefigurazione della comunità futura»1. La rivoluzione non potrà che essere la negazione e il superamento di questo suo primo momento. Per noi, l'(auto-)organizzazione non è che l'(auto-)organizzazione dei compiti posti dalla lotta di classe, sia al livello delle lotte quotidiane, sia nel quadro del processo rivoluzionario. In generale, affermiamo che la rivoluzione non è un problema di organizzazione. Non perché essa non debba darsi dei “livelli organizzativi” adeguati allo scontro (anche militare) con l'avversario di classe; bensì per il semplice fatto che questi ultimi non possono essere determinati a priori, ma nasceranno dalle lotte stesse, come semplice portato dell'attività dei proletari rivoluzionari, impegnati nel processo della propria autonegazione in quanto classe (ciò che chiamiamo comunizzazione). «[...] la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversibile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita 1 IL LATO CATTIVO , Chi siamo, cosa vogliamo, a chi ci rivolgiamo, Bologna, 2011.


nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.» «La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.» («NonostanteMilano»)

Il “problema dell'organizzazione” – così come quello riferito al dilemma “attendismo” o “attivismo” – è un “problema” soltanto per i militanti; per chi, cioè, concepisce la rivoluzione unicamente in termini di potere (che sia per conquistarlo o per distruggerlo). Il corso della lotta di classe prescinde tanto dal primo, quanto dai secondi. Bologna, 31 gennaio 2011


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