Lookout News Magazine n. 16 maggio-giugno 2015

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REPORTAGE TURCHIA I Faccia a faccia con l’ISIS

IL BUIO

IL MEDITERRANEO

www.lookoutnews.it

Campi profughi, rotte dei migranti, frontiere europee, la posizione di Malta. Lo speciale immigrazione

anno III - n. 16 maggio-giugno 2015 |

OLTRE


Sono veri e propri quartieri. talvolta, intere città. Sulle cartine non esistono, eppure vi abitano 60 milioni di persone. o i campi profughi, rifugi temporanei divenuti ormai permanenti

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| anno III - numero 16 - maggio-giugno 2015 sicurezza 12 reportage

da aKÇaKale

Faccia a faccia col nemico 16 stati uniti L’era dei droni 19 libia Vogliamo parlare della Libia?

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geopolitica

osservatorio sociale

22 Mediterraneo Un rifugio di plastica

Monitoraggio dei principali eventi e fenoMeni ribellistici ed eversivi nel nostro paese

26 Campi profughi: i casi più eclatanti

le rubriche

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teMpesta in arrivo il Mondo industrializzato è entrato in una fase di stagnazione secolare?

20 l’araba fenice L’ascesa del reclutamento jihadista femminile 42 spy gaMes Francis Walsingham, il fondatore dell’intelligence moderna 48 do you spread? Europrevisioni. Il fantasma della desertificazione

28 Vocabolario del migrante 55 borsa energetica OPEC, nulla cambia

30 Malta La Valletta chiama, Bruxelles che fa?

58 osservatorio sociale La pressione investigativa sugli antagonisti

32 Tutti i muri del mondo

60 dietro lo specchio L’ultima lezione del Professore

36 balcani La rotta balcanica

econoMia 44 europa Tempesta in arrivo 50 iran È arrivata l’ora dell’Iran. Sì all’accordo per il nucleare (con riserva) 54 arabia saudita Alleati cercasi

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la vignetta

“wikileaks: l’nsa americana spiava i l g ove r no f r anc es e ”

tratto da: le journ al du siecle


IL MURO DELL’IGNORANZA DI MARIO MORI

l’editoriale

entre la Grecia sembra scivolare via sempre più lontano dal cuore politico ed economico dell’Europa, sul palcoscenico della geopolitica è comparso un protagonista incontrollato e incontrollabile: il migrante. Figlio di situazioni tragiche, di guerre civili e di crisi economiche, il migrante oggi pretende libero accesso ai Paesi dell’Occidente, mettendone rapidamente in crisi i valori etici e le capacità di risposta politica. Le scene alle quali abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a Ventimiglia e a Calais indicano non soltanto che il tasso di egoismo in Europa sta crescendo pericolosamente, ma anche che di fronte a una simile crisi i governi del Continente sembrano incapaci di trovare soluzioni razionali e coerenti. La crisi dei migranti è l’ultimo e più clamoroso sintomo dell’incapacità europea di governare situazioni avverse che spesso ha contribuito a scatenare. Siamo andati in Libia convinti di esportare la democrazia e vi abbiamo esportato soltanto

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disordine, guerra civile e criminalità diffusa. Con la stessa superficialità abbiamo affrontato la crisi siriana e la disgregazione dei fragili equilibri iracheni, senza peraltro essere in grado di esprimere una politica coerente e razionale nei confronti di una Turchia che gioca spregiudicatamente alle porte di casa sua incoraggiando i jihadisti dello Stato Islamico a combattere non solo contro il nemico Assad, ma anche contro quei curdi le cui istanze nazionali tolgono da decenni il sonno ai governanti di Ankara. Su tutti questi temi abbiamo polarizzato la nostra attenzione in questo numero, che affronta la questione migranti con criteri lontani dal mainstream giornalistico, tentando di fare luce sui meccanismi del fenomeno e sulle possibilità di controllarne gli effetti. Abbiamo analizzato la questione dei “muri” contro i migranti, la cui inefficacia è lì a dimostrare che il vero muro che dobbiamo abbattere è quello della nostra ignoranza di fronte a problemi che, se non sono governati, non possono che essere subiti.


inbox il direttore editoriale risponde

emergenza immigrati: le risposte che l’italia non sa dare Mi sembra una strumentalizzazione politica attribuire alle “sinistre” la teoria dell’accoglienza senza limiti. Credo invece che siano diffuse posizioni culturali attribuibili alle cosiddette “anime belle” che vengono sbrigativamente assimilate alla sinistra. L’accoglienza illimitata, casomai, può essere attribuita in modo preciso alle gerarchie cattoliche, che si sono sempre battute anche contro la pianificazione delle nascite.

iran, i missili e il nucleare Applicare schemi di ragionamento occidentali per spiegare la strategia iraniana non è possibile. Pertanto né l’Arabia Saudita né Israele possono sentirsi al sicuro, nemmeno sapendo che in caso di attacco di Teheran sarebbero protetti dalla capacità nucleare statunitense. gregorio Willy

L’attuale classe dirigente iraniana governa un Paese impoverito da decenni di sanzioni, che mira a risollevarsi con una duplice strategia: un accordo pragmatico con l’Occidente sul tema del nucleare e un impegno diretto anche militare a sostegno dei regimi sciiti (alawiti-siriani compresi) impegnati nel durissimo confronto che divide e continuerà a dividere le due anime dell’Islam. Oggi Teheran guida una coalizione politico militare che mira a contendere ai regimi sunniti il controllo delle anime e delle terre del Medio Oriente.

pierpaolo Battistini

In effetti oggi adoperare le categorie tradizionali di “destra” e di “sinistra” è sempre più difficile e potenzialmente fuorviante. In tutta Europa emergono forze politiche, da Podemos ai Cinque Stelle, da Marin Le Pen a Syriza passando per la Lega di Salvini, che sfuggono ai tentativi di etichettarle con le unità di misura del Novecento. Abbiamo più volte sostenuto che il tema dell’accoglienza dei migranti è un falso problema: quando i barconi arrivano sulle nostre coste non possiamo far altro che accogliere i loro “passeggeri”. Altra questione è fermare i flussi alla radice e per questo ci vuole prima di tutto un forte impegno politico-diplomatico alla ricerca di accordi con i governi dei Paesi fonte del contagio migratorio. Non ci dimentichiamo che dopo il contestato accordo con il governo italiano, Gheddafi tenne fermo un milione di migranti pronti a partire per l’Europa.

il regime di assad collasserà entro l’estate? Sono quattro anni che si dice che il regime di Assad ha i giorni contati. Lo si disse pure nell’estate del 2012. La verità è che questa guerra non vede al momento nessuna delle due fazioni prevalere sull’altra. Vincerà quella che continuerà a ricevere sostegni dall’esterno. Francesco mastromatteo

La caduta di Palmira e i successi dell’ISIS vanno spiegati con l’improvviso aumento qualitativo e quantitativo dei rifornimenti di armi dalla Turchia ai ribelli siriani. Questo cambiamento di strategia è stato deciso in un vertice segreto tenutosi a Riad alla fine del mese di aprile quando Re Salman, d’intesa con l’emiro del Qatar e il presidente turco Erdogan, ha deciso di aumentare il sostegno militare a tutte le forze che nella regione combattono contro gli sciiti. È probabile che a questo aumento dell’impegno sunnita corrisponderà un parallelo incremento del sostegno iraniano al regime di Assad e ai “fratelli sciiti” iracheni. Probabilmente Assad non cadrà entro l’estate ma è certo che la Siria alawita di domani avrà confini diversi e molto più ridotti rispetto a quelli attuali.

iraq‬, il ritorno di ‬moqtada al sadr SCRIVI A: direttore@lookoutnews.it redazione@lookoutnews.it

Stiamo parlando dell’amico degli amici di Bush figlio. Questo basta per capire cosa possiamo aspettarci da questo personaggio. Bartolomeo merisi

facebook.com/LookoutNews twitter.com/lookoutnews

Sì, parliamo della stessa persona. Una persona che ha dato filo da torcere agli americani prima e al governo di Al Maliki dopo. Una persona legata a filo doppio a Teheran, che si sostiene non col carisma ma con la forza delle armi di decine di migliaia di miliziani che probabilmente, quando scenderanno in campo, determineranno l’esito del conflitto con i sunniti dell’ISIS.

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cuba

venezuela

algeria

egitto

Obama e Castro annunciano per il 20 luglio la riapertura delle ambasciate a Washington e a L’Avana. La prossima tappa verso il disgelo sarà l’annullamento dell’embargo commerciale su Cuba.

L’Iran ha concesso al presidente Maduro una linea di credito da 500 milioni di dollari per la fornitura di beni di prima necessità. Per Caracas una boccata d’ossigeno dopo mesi di sofferenza economica.

Mokhtar Belmokhtar è vivo. La primula rossa d’Africa non solo non è stato ucciso da raid USA in Libia, ma sarebbe a capo di un piano di Al Qaeda per contrastare l’avanzata di ISIS nel Maghreb.

Gli attacchi sferrati nel nord del Sinai certificano la presenza capillare dello Stato Islamico in Egitto. Il presidente Al Sisi ha solo un modo per salvare il Paese: impedire l’arrivo di altri jihadisti dal valico di Rafah.


russia

arabia saudita

oMan

cina

ISIS scalza Al Qaeda dall’Emirato del Caucaso. Daghestan, Cecenia, Inguscezia e KBK si sono riunite sotto la bandiera nera dello Stato Islamico e da adesso rispondono al leader Abu Muhammad al Qadari.

Il principe saudita Al Walid bin Talal devolverà in beneficenza il suo patrimonio di 32 miliardi di dollari. Il suo modello è Bill Gates, ma il rischio è che parte di questi soldi possano finire nelle casse dei gruppi jihadisti.

Forse solo il soft power del Sultanato dell’Oman risolverà la crisi in Yemen. A Muscat proseguono i negoziati tra esponenti di Arabia Saudita, Iran e dei ribelli sciiti Houthi. Dietro le quinte al lavoro anche agenti della CIA.

Pechino risponde alle pressioni degli Stati Uniti nel Mar Cinese Meridionale rafforzando l’alleanza militare con la Russia. A giugno i due Paesi hanno avviato nuove operazioni congiunte nel Mar del Giappone.


ACCADDE

OGGI

STRONG TOWER

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A una settimana dal decennale degli attentati del 2005, Londra è stata teatro della più vasta esercitazione antiterrorismo degli ultimi tempi, nome in codice “Strong Tower”. L’esercitazione ha coinvolto circa mille agenti di polizia, oltre a militari e personale dei servizi di emergenza che per due giorni hanno simulato un attacco terroristico di vaste proporzioni. Scotland Yard ha creato anche una nuova unità antiterrorismo ad hoc per prevenire azioni pubbliche. Si chiama CTSFO ed è composta da 130 agenti addestrati dalle forze speciali SAS e dotati di armi sofisticate.

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regno unito |

di Luciano Tirinnanzi

7 luglio 2005 Dieci anni dagli attentati di Londra Sono le 8 e 49 minuti a Londra. È un tranquillo giovedì estivo per la capitale britannica, fino a che una bomba molto potente non esplode nella Tube, la celeberrima metropolitana londinese, tra le stazioni di Liverpool Street e Aldgate East. Alle 8 e 56, neanche dieci minuti dopo, un’altra esplosione dilania un treno della linea Piccadilly, tra le stazioni di King’s Cross e Russell Square. Ancora venti minuti e, alle 9 e 17, una terza esplosione sulla linea Circle verso la stazione di Edgware Road in direzione Paddington apre una breccia nel muro e colpisce un altro treno metropolitano. Londra è nel caos. Morti sottoterra e feriti terrorizzati fanno scattare i primi soccorsi, mentre nel resto della città il traffico va in tilt. E non è finita qui. Meno di un’ora dopo, alle 9 e 47, anche un double-decker, i famosi autobus rossi a due piani, salta in aria squarciando la tranquilla mattina di Russel Square. La scena è la medesima ovunque. Cadaveri sull’asfalto e sulle banchine della metro, rottami e lamiere scaraventati a decine di metri di distanza. Sangue, polvere, ambulanze, polizia, pompieri, incredulità e paura. Tanta paura. Scotland Yard fa una dichiarazione prima delle 11 del mattino. La matrice terroristica degli attentati non proviene

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dall’IRA né da altre frange nazionali o europee. Tutti pensano subito ad Al Qaeda e, del resto, è passato solo un anno dalla strage di Madrid. Londra è pietrificata, inaccessibile dall’esterno e sigillata al suo interno. La sequenza di morte potrebbe non essere finita qui. A mezzogiorno, il numero uno di Downey Street, Sir Tony Blair, si trova a Gleneagles, in Scozia, per il G8, impegnato insieme ai capi delle altre sette nazioni economicamente più forti per parlare di ambiente e debito dei Paesi poveri. Blair interrompe la riunione in corso per presentarsi di fronte alle telecamere e spiegare cosa sta accadendo a Londra. Le sue parole confermano che si tratta di attentati terroristici: “Non permetteremo a nessuno di cambiare la nostra società. Il terrorismo non vincerà, saremo noi a prevalere” sono le poche parole che il premier riesce a dire, parlando a braccio e forse anche sotto choc, prima di lasciare la riunione e volare nella capitale britannica. Mentre Blair sta parlando, ancora inconsapevole dell’origine precisa della minaccia e del gruppo terroristico che ha armato la mano degli attentatori, quasi in contemporanea arriva la

rivendicazione ufficiale degli attentatori. Si firmano Gruppo segreto della Jihad di Al Qaeda in Europa e inneggiano alla nazione dell’Islam. “Felicitati, o nazione araba, è giunta l’ora della vendetta nei confronti del governo crociato sionista britannico, in risposta alle carneficine commesse dalla Britannia in Iraq e in Afghanistan”. Alla fine della giornata, le vittime saranno più di cinquanta e la ferita, per quanto riassorbita dagli inglesi, brucerà ancora a lungo. Al punto che dieci anni dopo, il rischio di attentati a Londra non solo non è diminuito, ma è accresciuto. In relazione soprattutto con l’impressionante numero di combattenti islamici che ogni giorno lasciano l’Inghilterra per combattere la “guerra santa” dello Stato Islamico in Siria e Iraq. Cifre ufficiali non esistono, ma si parla di un numero che oscilla tra le 600 e le 1.600 unità. La tensione in Europa è alta, e Londra ha ragione di temere forse più di chiunque altro. @luciotirinnanzi

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FACES

I volti pi첫 significativi del mese Grexit e altri disastri

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ABU BAKR AL BAGHDADI Il principe del male ha compiuto 44 anni, festeggiati con il sangue di civili e militari in Tunisia, Kuwait, Egitto. Il suo regno del terrore minaccia il futuro dei Paesi arabi.

WOLFGANG SCHAUBLE Il coriaceo ministro tedesco si autodefinisce Sisifo, condannato a dover sempre ricominciare da zero dopo aver quasi raggiunto la vetta. Vedi la disfida greca.


ALEXIS TSIPRAS Grexit o non Grexit? Questo è il problema del premier ellenico, inflessibile ma non al punto da perdere la poltrona, vittima del dilemma esistenziale shakespeariano.

FRANCOIS HOLLANDE Anche il presidente francese è stato intercettato dalla NSA, secondo Wikileaks. Chissà se gli spioni americani hanno trovato prove di un suo nuovo flirt.

HILLARY RODHAM CLINTON La lady di ferro a stelle e strisce rappresenterà i democratici nella grande sfida presidenziale del 2016. Ma rappresenta anche gli interessi cui è legato il nome di famiglia.

JEB BUSH È il terzo Bush che corre per i repubblicani verso la presidenza. Il dilemma per lui è se prendere o meno le distanze dalle discutibili opere dei suoi consanguinei.


sicurezza TURCHIA Voci di confine

STATI UNITI L’impero dei droni

LIBIA La grande incognita

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FACCIA A FACCIA COL NEMICO

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REPORTAGE

DA AKÇAKALE


sul confine turco-siriano a poche centinaia di metri dagli avamposti di isis di Joshua e Valerio Evangelista

TURCHIA asta che superi questo palazzo e la vedi”, ci dice Ahmed, un professore di matematica fuggito da Raqqa che ora insegna frazioni ed equazioni ai figli dei profughi siriani. E in effetti è così: oltre una recinzione spinata, a circa 300 metri, si erge nel cielo la ben nota bandiera nera con la shahada bianca, stendardo dello Stato Islamico. Prima del Trattato di Ankara del 1921, Akçakale e Tell Abyad erano un’unica città. E i rapporti commerciali sono stati buoni fino al 2011, quando le relazioni tra Turchia e Siria si sono incrinate irrimediabilmente. Nel 2012 i colpi di mortaio provenienti dalla Siria hanno ucciso cittadini turchi e così Akçakale, 30mila abitanti per lo più di etnia araba, è diventata per alcuni mesi il crocevia dei politici di Ankara, che non hanno mai pensato di sgomberare la città nonostante le polemiche tra l’AKP, il Partito Giustizia e Sviluppo del presidente Erdogan, e le opposizioni progressiste. Con Raqqa definitivamente sotto lo Stato Islamico, Akçakale è diventata terra di nessuno, nonostante la presenza costante dei servizi

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sicurezza

insieme ad altri intellettuali un movimento per conservare le specificità culturali di Tell Abyad nonostante il conflitto in corso. “Ci rapportavamo con l’Esercito Siriano Libero da indipendenti. Anzi, nel giornale che distribuivamo in città eravamo anche liberi di criticarli. Qualche problema l’avevamo con gli islamisti, dicevano che eravamo miscredenti. Eravamo armeni, turcomanni, arabi, musulmani e cristiani: le origini non facevano differenza, volevamo solo raccontare noi stessi e le nostre culture. Un modo per preservarci nonostante i bombardamenti del regime”. Poi l’arrivo di ISIS e l’arresto. “Hanno dei tecnici informatici molto esperti, possono vedere anche i file cancellati e quelli criptati. Così non ho avuto scampo, hanno trovato tutte le conversazioni su Facebook in cui parlavo male di loro. Mi hanno appeso in strada, a testa in giù e col ghiaccio tra le gam-

Foto di Monica Ranieri

segreti turchi. Ultimo avamposto nemico per i foreign fighters arrivati da tutto il mondo per combattere a servizio del Califfato, primo centro abitato oltre frontiera per i siriani in fuga. Raqqa e Tell Abyad sono separate da appena 100 chilometri di strada. Una volta arrivati al confine, entrano in gioco i trafficanti affiliati allo Stato Islamico. Prima della guerra smerciavano beni tra i commercianti, ora persone. Donne e bambini senza cibo e case da una parte, giovani barbuti pronti a impugnare il kalashnikov dall’altro. Così Akçakale è diventato, stando ai racconti dei profughi, un prolungamento dell’ISIS in terra turca. “I confini sono controllati costante- KURDISTAN mente dai combattenti, ci sono anche SIRIANO Il confine turco è degli italiani tra quelli che fanno avanti teatro di scontri e indietro per monitorare i flussi”, ci di- per il controllo ce Hussein, un giovane muratore appe- del territorio tra na arrivato in Turchia. Vive in una barac- ISIS e YPG. ca di cemento di venti metri quadri insie- Ankara per il momento me alla madre, una zia, cinque figli e la sta a guardare. moglie ventitreenne. È scappato da Raqqa dopo che la sua casa è stata bombardata dagli aerei della coalizione guidata dagli USA. Vicini di casa di Hussein sono 13 parenti, unici membri della famiglia a essere sopravvissuti ai bombardamenti. Per loro un’altra baracca, leggermente più piccola, con un paio di materassi da spartire. “La nostra Siria è diventata come la Somalia che vedevamo in televisione”, racconta Mariam, arrivata da pochi giorni ad Akçakale. Ma non sono il velo integrale, i jeans vietati o le altre strette imposizioni morali a indignare maggiormente i profughi: “Con l’arrivo di Daesh (l’acronimo arabo dello Stato Islamico, ndr) è finito il lavoro. Ceceni, africani, asiatici ed europei ci hanno impedito di svolgere le nostre attività. E il costo del pane è diventato immorale”, spiega Mariam, un’anziana vedova. Camminando tra i rifugi dei profughi le storie si confondono: intere aree di Raqqa sono senza elettricità, è impossibile acquistare il pane, non c’è lavoro. E qui, oltre confine, le cose non vanno molto meglio. “Avevo con me solo 15 lire turche (circa 5 euro, ndr). Ma la scorsa notte qualcuno è entrato e le ha rubate”, ci racconta una giovane mamma in lacrime. Decine di bambini orfani giocano nel fango, manca il latte per i neonati e i luogotenenti dell’ISIS girano impuniti. Si stima che circa mille famiglie al giorno oltrepassino il confine per arrivare in Turchia. Tre mesi fa era stata la volta di Tarek, un attivista che nel 2011 aveva fondato

I CONFINI SONO CONTROLLATI DAI COMBATTENTI, CI SONO ANCHE ITALIANI

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be: le stesse tecniche che usavano i torturatori di Assad”. Mentre ci racconta i soprusi, Tarek prende il cellulare e scorre le immagini. Ci mostra la fotografia di una fossa comune. “Mi hanno portato qui, mi hanno detto che se avessero trovato altre cose sul mio conto mi avrebbero semplicemente buttato in mezzo agli altri cadaveri. La notte stessa sono fuggito, in direzione Akçakale”.


sicurezza

TERRITORI CONTROLLATI DALLO STATO ISLAMICO Oltre a Siria e Iraq, nuove azioni dimostrative e vere e proprie operazioni militari del Califfato si registrano nel Sinai, al confine con Gaza, in Libia e Tunisia e in Kuwait, in concomitanza con l’inizio del Ramadan (18 giugno 2015).

Attacchi Azioni militari dell’ISIS

Presenza ISIS ISIS Zone sotto il controllo Territori e popolazioni che supportano il Califfato diretto del Califfato

50 miglia 50 km

TURCHIA Azaz

Kobane

Aleppo

Mosul

Fiume E ufra te Raqqa

Arbil

Kirkuk

Deir al-Zor Homs

Regione autonoma curda

Mosul dam Sinjar

Baiji refinery

S IRIA

Tikrit

Palmyra

al Qaim

LIBANO Beirut

Haditha

Samarra

IRAQ Ramadi

Damasco

IRAN

Baghdad

Fallujah

Fiu

Turaibil

m e T i g ri

Kerbala

GIORDANIA

Najaf Fium e Eu frate

ARABIA SAUDITA Basra

Fonte: institute for the study of War; syrian observatory for human rights. (isW) map data is as of may 22, 2015

38 Tunisia

27 Kuwait

LE VITTIME DELLA STRAGE DI TURISTI NELLA SPIAGGIA DI SOUSSE

I FEDELI SCIITI MORTI NELL’ATTENTATO ALLA MOSCHEA AL-IMAM AL-SADEQ

+70 Egitto

I SOLDATI E I CIVILI DECEDUTI NELL’ATTACCO SIMULTANEO AI CHECKPOINT NEL NORD SINAI

+50

Somalia

I SOLDATI VITTIME DI AL-SHABAAB CONTRO LA BASE AMISOM A SUD DI MOGADISCIO

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sicurezza

STATI UNITI ino a meno di dieci anni fa, il Pentagono aveva in azione meno di cinquanta UAV, (Unmanned Aerial Vehicles), ovvero i droni. Oggi le forze armate di Washington ne possiedono almeno 7mila. Ma nessuno sa quanti siano quelli attualmente in azione nel mondo, a est come a ovest. Peraltro, una delle maggiori aziende di UAV utilizza tecnologie made in USA ma li assembla nella zona economica speciale di Shenzen, in Cina. Paese, quest’ultimo, tra i maggiori produttori al mondo sia per scopi militari che civili. Sul piano militare, la guerra dei droni rappresenta la quadratura del cerchio tra azione offensiva e impatto minimo sull’opinione pubblica, facilmente suggestionabile dai media o, più spesso, dalle azioni di psyops del nemico.

F L’ERA DEI DRONI

LA POLITICA MILITARE ESTERA DEGLI USA OGGI PUNTA TUTTO SUGLI UAV

Vittime, scenari di guerra, investimenti e, nel futuro, la possibilità che i velivoli senza pilota finiscano nelle mani sbagliate. Come quelle di ISIS o Al Qaeda di Marco Giaconi


sicurezza

le vittime uFFiciali (e non) In Pakistan, soprattutto nell’area delle FATA (Federally Administered Tribal Areas), dove si trova ancora oggi il nucleo dirigente di Al Qaeda e dei talebani, dal 2006 al 2013 si sono avuti oltre 415 missioni UAV ordinate dagli Stati Uniti, con 2.371 vittime, molte delle quali civili. Si immagini poi come un nemico potrebbe utilizzare come psyops le imprecisioni degli UAV, magari utilizzando la popolazione civile come scudo umano e scaricando le vittime sul conto del “nemico”. È proprio questo il vero problema, ovvero la relativa imprecisione degli UAV. Se in realtà il drone in missione può essere “coperto” dalla curiosità dei media, è peraltro vero che - proprio perché esso combatte in aree in cui il controllo è remoto e spesso difficile - la probabilità di vittime civili aumenta enormemente. Finora solo nella FATA ce ne sono state tra 423 e 962, a seconda delle fonti. In Yemen ci sono state fino a oggi 114 missioni, con un numero di vittime che oscilla tra 661 e 444 (anche qui il dato dipende dalle fonti). Mentre in Somalia, fino a quest’anno, le missioni sono state 13, 105 le vittime e, forse, nessun civile ucciso. In Afghanistan, malgrado l’importanza strategica dell’area, ci sono state solo 6 missioni (più, probabilmente, altre 7 missioni segrete) con un bilancio di 40-60 vittime. Proprio la carenza inevitabile di precisione, e la possibilità da parte dei ribelli di verificarne il passaggio con un certo anticipo, hanno consentito ai droni degli Stati Uniti e degli alleati occidentali di eliminare inutilmente anche 38 cittadini di Paesi dell’UE e degli USA, utilizzati dai talebani come scudi umani. La tecnologia bellica di punta è ormai quasi equamente distribuita tra le forze in campo. AQAP (Al Qaeda nella Penisola Araba) ha recentemente fatto circolare nei suoi siti internet di riferimento un video in cui si insegna ai terroristi come evitare la segnalazione da parte delle telecamere a infrarosso utilizzate dai Predator, i più diffusi droni da guerra americani.

i droni nelle mani dei gruppi jihadisti In questo scenario in continua evoluzione, nulla vieta che presto potrebbero iniziare a volare anche dei droni qaedisti o dello Stato Islamico. ISIS si finanzia tramite la vendita del petrolio, i rapimenti, le rapine alle banche, il contrabbando di oggetti d’arte e con le donazioni di governi e privati del mondo islamico sunnita. Sul fronte opposto, quello sciita, i droni iraniani, il Raad-65 e lo Yasir, sono programmati come gli shaheed: arrivano sull’obiettivo e fanno scoppiare la carica della loro testata. Entrambi operano da tempo in Siria, controllati dagli Hezbollah libanesi. Niente è più facile, quindi, di un acquisto di droni da parte di un intermediario che poi li possa girare a ISIS. Le grandi tecnologie globali sono oggi come internet: non si possono controllare pienamente e tendono a ripartirsi equamente tra tutti gli attori militari in campo. Basti pensare che qualche tempo fa un’associazione ambientalista radicale è arrivata a far atterrare un drone con una piccola quantità di materiale radioattivo sul tetto della casa del premier giapponese Shinzo Abe, “colpito” perché intende riattivare il nucleare a scopi civili nel Paese. quali scenari Futuri? Quando i droni saranno facilmente vendibili al pubblico (già quest’anno negli USA l’uso degli UAV per finalità civili potrebbe diventare del tutto legittimo), diventeranno protagonisti di uno scontro in cui non ci saranno più Stati o differenze tra militari e civili: tutti potranno minacciare tutti, e la stessa piccola dimensione degli UAV renderà difficilissima la gestione dei cieli e delle tipologie di minaccia. Certo, c’è da tenere conto anche della pars construens della tecnologia UAV. Ad esempio, si potranno soccorrere le popolazioni con estrema rapidità, o salvare vite umane colpite da gravi malattie in aree remote dei vari Paesi.

MAPPATURA DEL PERCORSO

I DRONI VOLANO SOTTO I 500 PIEDI

Exelis mini-ADS-B* ground relay stations

Non-FAA or mobile radar and surveillance systems

GLI AEREI VOLANO SOPRA I 500 PIEDI

Existing Exisiting FAA radar Exelis ADS-B* surveillance surveillance system towers

and cockpits

SYMPHONY RANGEVUE

1. I dati e i segnali sono trasmessi dal rispettivo velivolo o drone ai vari sistemi e torri di controllo (surveillance towers). 2. I dati vengono quindi mandati al sistema Symphony. I dati dall’FAA e dalle torri ADS-B vengono inviati anche alle torri di controllo del traffico aereo e alle cabine di comando (cockpits). 3. I piloti a distanza possono tracciare i movimenti e la rotta del drone da un tablet o un laptop. Nota: 500 piedi sono da considerare un’altezza approssimativa. *Automatic Dependent Surveillance-Broadcast

Fonte: exelis

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sicurezza

Oppure, si potranno usare i droni per il trasporto di beni, come peraltro ha già dichiarato Amazon, il maggior venditore di libri on line. Per non parlare della protezione della fauna e della flora, del controllo e della gestione delle colture o delle riprese televisive o cinematografiche. Sul piano legale, la FAA USA, l’agenzia che regola i voli, sostiene che non saranno richiesti certificati specifici per la guida dei droni. L’agenzia non gestirà un’attività di controllo e ispezione degli UAV, mentre richiederà la guida “a vista” dei droni da parte degli operatori a terra. Sul piano militare, gli UAV non sono finora coperti dal “Drone Strike Tran- FEDERAL AVIATION ADMINISTRATION sparency Act” propoFAA è L'AGenzIA sto da Adam Schiff, deL dIpArtIMento membro della House deI trASportI of Representatives uSA Che nordamericana, menSoVrIntende tre un recente testo ALL'AVIAzIone CIVILe. della CIA sostiene che gli effetti politico-militari delle operazioni con gli UAV sono minimi. È ovvio, però, che se dopo l’eventuale uccisione di un capo terrorista nel Waziristan o nei territori di ISIS, non si gestisce una reale operazione di penetrazione-controllo dell’area, i jihadisti ritornano, come le erbacce quando vengono tagliate ma non sradicate. La guerra, d’altronde, è un atto supremamente politico, non una tecnologia da usare comodamente seduti al tavolo di lavoro. Certo, la dottrina di utilizzo dei droni riguarda oggi soprattutto la segnalazione degli IED (Improvised Explosive Device) a terra, l’attacco al suolo di gruppi di miliziani, l’IMINT (Imagery Intelligence) aggiornata dei luoghi dello scontro. Ma, in ogni caso, i droni sono utili per fare una guerra di lunga o lunghissima durata, con il minimo dispendio di uomini, l’azzeramento o quasi delle perdite in azione, il minimo impatto sull’opinione pubblica. Lo scontro bellico non è però solo tecnologia e in futuro bisognerà controllare la proliferazione dei droni, che potrebbero facilmente cadere nelle mani sbagliate.

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DRONI STATUNITENSI IN SVILUPPO La Marina Americana ha fatto la storia dell’Aviazione da quando nel 2013 ha fatto decollare un jet senza pilota da una portaerei, facendo fare un passo in avanti nello sfruttamento dei droni appartenenti alle Forze Armate americane.

X47-B

Relative scale

Northrop Grumman Capace di decollare da una portaerei

MQ-4C TRITON Northrop Grumman Aereo spia sviluppato dalla Marina Militare

RQ-21A

Boeing Insitu Piccolo drone in via di sviluppo per i Corpi Speciali della Marina

Wingspan Length Gross take off weight Max. int. payload Max. altitude Max. velocity Max. range Max. endurance

18.9 m 11.6 m 19,958 kg 2,041 kg > 12.2km 667 knots 3,889 km > 6 hrs

Wingspan Length Gross take off weight Max. int. payload Max. ext. payload Max. range Max. altitude Max. velocity Max. endurance

39.9 m 14.5 m 14,628 kg 1,452 kg 1,089 kg 15,186 km 17.22 km 331 knots 28 hrs

Wingspan Length Max. payload Take off weight Max. altitude Max. velocity Max. endurance

4.8 m 2.2 m 17 kg 34 kg 4,573 m 80+ knots 24 hrs

BUDGET DELLA DIFESA PER LO SVILUPPO DI NUOVI DRONI (UAS - UNMANNED AERIAL SYSTEMS)

4000 3000

7.494*

2000

UAS

10.767* Manned aircraft

1000 0

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‘00

‘05

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*IN MILIONI DI DOLLARI

Fonte: manufacturers; congressional research service; *department of defense, unmanned systems integrated roadmap; 1military Balance 2010


sicurezza

Vogliamo parlare della Libia? di Alfredo Mantici

LIBIA

Nazioni Unite durante la Rivoluzione del 2011. Egitto, Giordania ed Emirati Arabi sono i Paesi più apertamente schierati a fianco del governo di Beida. Qatar, Turchia e Sudan appoggiano più o meno apertamente la controparte di Tripoli. Le Nazioni Unite, attraverso l’inviato speciale Bernardino Leon tentano da mesi inutilmente di creare le premesse per un dialogo politico. L’Europa preoccupata solo del fenomeno migratorio è praticamente assente dalla scena come pure gli Stati Uniti che forse, soddisfatti del loro importante contributo militare nel provocare la caduta di Gheddafi, si limitano a banali inviti alla moderazione.

intervento militare predisposto nel marzo 2011 con l’operazione Unified Protector a guida NATO ha conseguito due risultati contrapposti: da un lato ha dato alle milizie rivoltose la forza per eliminare Gheddafi e il suo regime, dall’altro ha favorito l’insorgenza di una situazione caotica che dura ancora e sembra lungi dal poter essere risolta in tempi brevi. Nel 2015, poi, l’uccisione “rituale” di 21 cristiani copti egiziani sulle coste occidentali della Libia ha segnato, I RIFUGIATI E anche sotto il profilo propagandistico l’ingresso in scena del Califfato che, nato nel mese di giugno del RICHIEDENTI 2014 in Siria si è rapidamente espanso in Iraq, nel Sinai ASILO LIBICI egiziano ed ora in Libia, contribuendo a rendere ancora (GIUGNO 2015) più difficile e intricata la situazione. Oggi la Libia ha due parlamenti, due governi e virtualmente non esiste lo Stato. Il Paese è diviso in tre macroregioni in lotta tra loro: la Tripolitania, dominata dagli islaIMMIGRAZIONE CLANDESTINA DALL’AFRICA misti che si riconoscono nel governo di Tripoli e nel Congresso Generale Nazionale; la Cirenaica controllata dalle Amsterdam Londra dalla terraferma forze lealiste del Generale Khalifa Haftar alleato con il godal mare verno di Beida e la Camera dei Rappresentanti di Tobruk GERMANIA (che sono le uniche due istituzioni libiche riconosciute dalParigi la comunità internazionale); il Fezzan diviso in aree tribali Milano dove dominano “signori della guerra” indipendenti che a FRANCIA Ljubljana secondo delle convenienze congiunturali si alleano con Genova l’una o con l’altra fazione. Marsiglia Questa situazione è ulteriormente aggravata dalla preSPAGNA ITALIA senza sul terreno di una miriade di milizie autonome, alRoma Barcelona cune jihadiste altre a componente tribale, che operano sulMadrid GRECIA la base di affinità politiche o religiose o di interessi econoTunisi mici (contrabbando di petrolio e traffico di migranti) a supAlgeri porto di questa o dell’altra fazione. Tutti i protagonisti ocCeuta MALTA Lampedusa Oujda cidentali che tanto si adoperarono per favorire la caduta di Rabat Mar Mediterraneo Melilla Gheddafi (Francia e Inghilterra, in primo luogo e Italia di Benghazi Tripoli rincalzo) sembrano oggi impotenti e preoccupati soltanto Ouargla MAROCCO per l’effetto di riverbero della situazione libica che si espridal ALGERIA Cairo me in ondate migratorie incontrollate che sono anche conAdrar da Ovest seguenza del crollo dell’argine che Gheddafi aveva costruiSebha to sul territorio per bloccare il flusso di migranti. LIBIA Molti Paesi della regione mediorientale si sono schierati Tamanrasset secondo le proprie convenienze geopolitiche con le fazioni 200 miglia in lotta, sostenendole economicamente e con consistenti Tessalit da Est 200 km Dirkou aiuti in armi che violano sistematicamente l’inutile embargo imposto sulla Libia dal Consiglio di Sicurezza delle Fonte: icmpd; reuters

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l’araba fenice

L’ascesa del reclutamento jihadista femminile Il caso della Tunisia analizzato in una conferenza organizzata dal Centro Internazionale di Studi Strategici, della Sicurezza e Militari di Tunisi di Marta Pranzetti Arabista, laureata in Scienze Politiche, si occupa di analisi strategica (geopolitica e sicurezza) con particolare attenzione ai temi dell’Islam politico, del terrorismo e delle questioni di genere

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IL NUMERO DI DONNE TUNISINE PRONTE A COMBATTERE PER LA CAUSA JIHADISTA

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n una famosa arringa del 2001 Ayman Al-Zawahiri, oggi leader di un’Al Qaeda in evidente declino se paragonata alla nuova macchina del terrore dall’ineguagliabile carisma mediatico dello Stato Islamico, affermava che non c’era spazio per le donne nel jihad e che tantomeno queste fossero attive nei ranghi della sua organizzazione. Un’affermazione immediatamente smentita dal caso di Sajida Al Rishawi - militante nel ramo iracheno di Al Qaeda e fallita attentatrice kamikaze negli attacchi dinamitardi del 2005 contro vari hotel della capitale giordana, Amman - e ulteriormente screditata ai nostri giorni. Sono in netta ascesa, infatti, le donne che si uniscono ai teatri dov’è in atto la jihad, su scala globale. Negli anni Ottanta avevano fatto scalpore le prime donne kamikaze operative nei ranghi della resistenza palestinese, così come negli anni Novanta le terroriste cecene note come “Vedove Nere”. Oggi, con l’avvento del Califfato Islamico di Siria e Iraq, il battaglione femminile di ISIS (noto come Katiba AlKhansaa) ha attirato nuovamente l’attenzione internazionale sull’adesione femminile alla jihad. “Il problema - spiega a Lookout News Badra Galoul, direttrice del Centro Internazionale di Studi Strategici, della Sicurezza e Militari di Tunisi - non è relativo esclusivamente alle donne che partono per i teatri di guerra, quanto a quelle che restano in patria a occuparsi della gestione delle cellule jihadiste locali, di cui abbiamo statistiche sempre più preoccupanti”. Dei circa 5.000 tunisini partiti a combattere in Siria, almeno 700 sono donne, mentre altre cento sono attualmente detenute nelle carceri tunisine per coinvolgimento in attività terroristiche su scala nazionale (Museo del Bardo incluso). Questi dati, forniti durante la conferenza organizzata il 21 maggio a Tunisi dal Centro Studi Strategici sulla partecipazione femminile alle organizzazioni terroristiche, evidenziano un incremento del ruolo attivo delle donne nella jihad: “Nel momento in cui molti uomini partono a combattere all’estero, alle donne viene delegata la gestione delle organizzazioni sul piano logistico e dei contatti, dell’informazione, della pianificazione e del mantenimento dell’ordine” conferma l’esperta. Le donne rivestono dunque un ruolo sempre più strategico all’interno delle organizzazioni

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donne, società e i tanti volti dell’islaM

terroristiche, pur mantenendo un rapporto di subordinazione all’uomo, come sottolineato anche dagli interventi di accademici, ex ministri, colonnelli ed esperti di terrorismo che hanno partecipato al convegno. In base all’ideologia stessa di questi gruppi, le donne non possono assumere ruoli di comando, ma svolgono ugualmente degli incarichi esecutivi rispondendo direttamente alle direttive che provengono dai ranghi maschili al potere. “La donna si rivela così una risorsa fondamentale per il reclutamento, l’educazione, la gestione delle informazioni e dei contatti - asserisce Badra Galoul - tanto che si osserva un mutamento delle dinamiche concernenti la figura della donna negli ambienti jihadisti. La donna passa così dall’essere vittima a carnefice, nel senso che da schiava sessuale o vittima subordinata del marito combattente, assume sempre maggior consapevolezza delle proprie capacità di affermarsi quale attivista in prima linea”. Lo dimostra anche l’arresto nell’ottobre 2014 di Fatma Zouaghi, una giovane studentessa di medicina appena ventenne, che in Tunisia curava la propaganda dei salafiti di Ansar Al Sharia, per i quali gestiva il reclutamento giovanile e assicurava il raccordo tra questa organizzazione e il gruppo jihadista Katiba Oqba Ibn Nafaa, su incarico diretto del leader di Ansar, Abou Iyadh, dopo l’arresto del suo predecessore Afif Lamouri, di cui Fatma era prima assistente. La riflessione generata dalla conferenza di Tunisi implica il tenere in considerazione gli ambienti sociali dove si genera l’adesione femminile al jihad che, esattamente come nel caso maschile, dipende fortemente da ragioni socioeconomiche quali povertà e disoccupazione, livello di istruzione e località di provenienza (regioni più sfavorite e zone rurali meno sviluppate), educazione familiare e incidenza del discorso religioso. Tutti fattori che restano fondamentali nel plagiare e radicalizzare giovani menti. Se la conferenza di Tunisi dimostra il sempre maggiore interesse istituzionale verso un fenomeno in divenire - l’adesione femminile al terrorismo evolve con l’evolvere del jihadismo stesso su scala globale - si è ancora troppo lontani dal comprendere e contrastare le cause profonde che tengono vivo quello che Galoul chiama “lo spirito di Daesh”, ovvero l’attrattiva esercitata da ISIS sulle giovani generazioni tunisine.

Lo “spirito di Daesh” in Tunisia

Operazione Martesë in Italia Maria Giulia Sergio, 28 anni non ancora compiuti, è la prima italiana conosciuta ad aver dichiarato la propria adesione allo Stato Islamico. Da settembre 2014 è in Siria a combattere per il Califfato, dopo la conversione del 2007 cui è seguito il cambio di nome in Fatima al Zahra. Cinque altri membri della famiglia, originaria di Torre del Greco, sono stati arrestati dalla Digos di Milano in procinto di recarsi a loro volta in Siria.

Secondo un rapporto presentato a fine maggio dell’Unione Generale degli Studenti di Tunisia (UGET), più del 20% dei giovani che frequentano le università del Paese ha subito e subisce influenze della propaganda di estremisti religiosi o di gruppi militanti. Dopo quello di Tunisi, i centri universitari più interessati dal fenomeno sono quelli di Kairouan, Kasserine, Susa e Monastir. Preoccupante anche il dato che riguarda gli studenti tunisini andati a combattere in Siria e Iraq al servizio di ISIS (o Daesh, dall’acronimo in arabo) e altri gruppi jihadisti: a oggi, oscillerebbero tra gli 800 e i 1200, di cui il 96% uomini. La percentuale femminile è comunque un dato rilevante, che dimostra la crescente adesione delle donne al jihad. Non a caso, alla testa del battaglione femminile Katiba al-Khansaa, al servizio del Califfato Islamico in Siria e Iraq, figura proprio una combattente di origine tunisina.

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geopolitica la copertina

UN RIFUGIO DI PLASTICA a cura di Marta Pranzetti

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geopolitica

Sono veri e propri quartieri. talvolta, intere cittĂ . Sulle cartine non esistono, eppure vi abitano 60 milioni di persone. Sono i campi profughi, rifugi temporanei divenuti ormai permanenti

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MEDITERRANEO alle stragi nel campo profughi siriano di Yarmuk alle emergenze in mare di fronte a Lampedusa. Nel loro comune nefando destino, che li ha portati negli ultimi mesi sotto i riflettori mediatici internazionali, questi due luoghi, Yarmuk e Lampedusa, rappresentano i poli opposti a seguire: della questione globale dei rifugiati. L’uno in Siria, nato come campo profuMARE ghi per i palestinesi NOSTRUM in fuga dall’aggresLa diaspora sione israeliana e migratoria più di recente teatro della barbarie Confini e numeri dello Stato Islamico; l’altro in Italia, Vocabolario del migrante a metà strada tra l’Africa disperata e le porte d’ingresso MALTA per l’Europa, nato come centro di acIntervista coglienza per gestiall’Ambasciatrice re i flussi dei migranti dal sud del BALCANI mondo. Con 59,5 milioni La terra di mezzo di migranti forzati d’Europa (ripartiti in 19,5 milioni di rifugiati, 38,2 milioni di sfollati interni e 1,8 milioni di richiedenti asilo), il 2014 è stato l’anno con il più alto incremento di persone costrette a fuggire dal proprio Paese mai registrato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). È quanto attesta l’ultimo rapporto, “World at War - Global Trends Report 2014”, pubblicato il 18 giugno dall’Agenzia dell’ONU. Una drammatica realtà di esuli e senza terra, costretti a fuggire da guerre, persecuzioni e violenze, che

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CRISI DEI RIFUGIATI SIRIANI Egitto, Iraq, Giordania, Libano e Turchia ospitano più di 3,8 milioni di rifugiati siriani, secondo gli ultimi dati dell’UNHCR (UN High Commissioner for Refugees)

Fonte: un high commissioner for refugees (unhcr); u.s. department of state's humanitarian information unit.

YARMUK Il campo profughi palestinese alla periferia di Damasco, in Siria, è stato teatro di violenti scontri tra Esercito, ribelli siriani, Jabhat Al Nusra e Stato Islamico

appare in vertiginoso aumento (nel 2011 si contavano 51,2 milioni di migranti e 37,5 milioni nel 2005). Dalle ricerche di Michel Agier, etnologo e antropologo francese, esperto di dinamiche di globalizzazione-esilio e autore del saggio Un monde de Camps (La Découverte, 2014), si evince che negli almeno 450 campi ufficialmente gestiti da agenzie delle Nazioni Unite (UNHCR e UNRWA) vive un totale di oltre 6 milioni di rifugiati. Per la maggior parte, questi agglomerati umani determinati dall’emergenza si trovano paradossalmente nei Paesi in via di sviluppo, che ospitano l’86% dei rifugiati totali (per non parlare delle stime ancora più alte di sfollati interni), mentre l’Europa ne ospita complessivamente il 14%. Nelle sue più varie forme, il fenomeno dell’“accampamento” ai margini dello Stato-nazione, a detta di Agier, rappresenta oggi un elemento fondamentale sul piano demografico e sociologico, poiché altera la percezione della frontiera costituendo al contempo una delle “emergenti forme di governance mondiale e di gestione dell’indesiderabile”. Sebbene, di regola, la formazione di un campo per rifugiati o per sfollati risponda a un criterio di emergenza contingente e nasca per gestire una situazione di


geopolitica

crisi (dovuta a conflitti o catastrofi naturali), avviene sempre più di frequente che questi agglomerati assumano un carattere di permanenza. Dunque, spesso i campi diventano realtà prolungate nel tempo, perdendo progressivamente la natura di “eccezionalità” e “temporaneità”. La dinamica dell’esilio-ritorno, descritta come i due moti contrapposti legati al fenomeno dei campi, non appare quindi realistica. A ogni partenza, infatti, non corrisponde un rientro. E anzi, la tendenza evidenziata nel Global Trends Report attesta piuttosto l’affermazione della dinamica del non-ritorno. Nel 2014, solo 126.800 rifugiati hanno potuto fare rientro in patria rispetto agli oltre 500mila del 2011, complice il peggioramento delle condizioni di sicurezza globali. Negli ultimi cinque anni, inoltre, sono scoppiati o si sono riattivati almeno 15 conflitti nel mondo, che costituiscono la sorgente primaria degli esodi di massa, destinati ad affollare periferie e forzare le frontiere con il rischio di rappresentare una sorta di “invasione”. La precarietà che è tipica della vita nei campi, con il tempo lascia pertanto il posto a soluzioni di sempre maggiore sedentarietà, sia in senso urbanistico che “affettivo”. Questa forma diffusa di “normalizzazione dell’emergenza” non si accompagna, però, a una conseguente regolarizzazione legale e amministrativa. Ragion per cui i campi rimangono caratterizzati dagli intrinseci elementi di extra-territorialità: sia dal punto di vista geografico che di esclusione sociale e di eccezionalità giuridica. È in questo modo che i campi, da nonluoghi diventano progressivamente centri di una nuova società che, seppure relegata ai margini della collettività e dall’esistenza costantemente incerta, desidera sopravvivere. Spesso questi luoghi d’incessante attesa, di relegazione e di disumanizzazione, con la forza di volontà e della disperazione (e con l’aiuto di coraggiosi volontari da ogni parte del mondo) diventano luoghi di vita, di risocializzazione e a volte di agitazione politica. Mentre dal punto di vista architettonico, con lo scorrere del tempo, cresce il fenomeno dell’urbanizzazione permanente dei campi.

450 CAMPI PROFUGHI IL NUMERO DEI CAMPI UFFICIALMENTE GESTITI DALL’ONU

86% RIFUGIATI TOTALI SONO OSPITATI NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO

14% RIFUGIATI TOTALI LA QUOTA OSPITATA COMPLESSIVAMENTE DALL’EUROPA

59,5 MILIONI I MIGRANTI TOTALI DEL MONDO NEL 2015

questioni di termini I campi per rifugiati (o campi profughi) sono il prodotto dello sconquasso causato da due conflitti mondiali e dallo sregolamento internazionale nel post-guerra fredda, unitamente alla difficoltà di far fronte ai disastri politici, ecologici ed economici del XIX secolo. Lo status di rifugiato è stato giuridicamente chiarito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e poi dal Protocollo di New York del 1967. Per definizione, il termine “rifugiato” si riferisce a quella categoria di persone fuggite da guerre o persecuzioni o espulse dal proprio Paese per discriminazioni politiche, religiose o razziali, che trovano appunto rifugio in un altro Stato. A differenza del concetto di “profugo” - un termine generico usato per indicare chi è costretto ad abbandonare il proprio Paese in seguito a un conflitto - il riconoscimento dello status di rifugiato è frutto del riconoscimento di asilo politico e dunque di protezione da parte del Paese ospitante. A differenza dei campi per rifugiati, i campi per sfollati (IDPs) rimangono all’interno della giurisdizione nazionale e dei confini territoriali del Paese di origine, a prescindere dalle cause che spingono le popolazioni all’esodo di massa (per lo più disastri ambientali ma anche violenze, conflitti o violazioni dei diritti umani). Pertanto, lo status effettivo degli sfollati (in mancanza di una definizione legale univoca) rimane quello di cittadini dello Stato in questione. Il mandato originario dell’UNHCR non copriva questa categoria di emergenza, sebbene la contingenza degli eventi abbia fatto sì che l’Agenzia oggi collabori nell’amministrazione di questa tipologia di campi. In alcuni Paesi e in alcune società è poi possibile riscontrare alcune forme di accampamento più o meno clandestine e più o meno regolamentate dallo Stato ospite. È il caso dei Rom in Italia e Francia o dei lavoratori migranti nei Paesi del Golfo, che vengono confinati in veri e propri campi-dormitorio che ne indicano lo status di subalternità. Esistono, infine, quelli che vengono definiti in base ai Paesi (o addirittura ai governi che li decretano) centri di accoglienza o centri di detenzione amministrativa o ancora centri di espulsione che proliferano sempre più massicciamente lungo la frontiera del “nord del mondo” (USA, UE, Giappone e Australia). Si tratta di soluzione amministrative temporanee volte a gestire i flussi migratori dei disperati provenienti dal “sud del mondo”. Degli oltre mille esistenti, almeno 400 sono concentrati in Europa e contano un turn-over di oltre 500 mila persone che vi transitano all’anno.

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Campi profughi: i casi più eclatanti DADAAB, KENYA La periferia più grande del mondo on oltre 450mila occupanti registrati nel 2013, il campo sorge alla periferia del villaggio di Dadaab in Kenya e rappresenta la più grande concentrazione di rifugiati al mondo. Situato vicino alla frontiera somala, nel deserto kenyota, questo imponente agglomerato umano si compone di quattro unità distinte: ai tre campi (Ifo, Dagaheley e Hagadera) aperti nel 1991 per ospitare profughi in fuga dalla guerra civile in Somalia, se ne è aggiunto un quarto (Ifo-2) nel 2000. Considerate come un unico blocco, queste quattro unità fanno di Dadaab il terzo centro demografico nel Paese, dopo le città di Nairobi e Mombasa. Dadaab rappresenta al meglio la tensione tra emergenza e sviluppo, laddove interventi umanitari che impiegano soluzioni logistiche sostenibili e durature e mezzi tecnologici per migliorare le condizioni di vita dei suoi occupanti, si scontrano con la persistente concezione di precarietà dell’emergenza. A Dadaab più che altrove il carattere di eccezionalità, che è intrinseco alla condizione di profugo, si scontra con l’organizzazione definitiva dei campi.

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SHATILA, LIBANO Il fenomeno dell’inurbamento l campo di Shatila è stato riconosciuto ufficialmente dall’UNRWA nel 1951. Se nei primi vent’anni di gestione libanese dei campi il numero dei rifugiati è stato contenuto dalle restrizioni imposte dal governo di Beirut, con l’arrivo dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) all’interno dei campi tra il 1969 e il 1970, questi hanno subito una rapida evoluzione sul piano demografico e urbanistico. Durante il conflitto libanese (1975-1990) il campo è divenuto centro di pressioni politiche, scontri regionali e rivalità interne palestinesi, coinvolto nel tristemente noto massacro di Sabra e Shatila del “Settembre Nero” 1982, quando vi morirono almeno 3.500 profughi. Ancora, tra il 1985 e il 1987, Shatila è rimasto coinvolto nella cosiddetta “guerra dei campi” che rifletteva la contrapposizione tra Siria e Libano. Negli attacchi del regime siriano attraverso i suoi alleati libanesi (le milizie sciite di resistenza, Amal) contro i campi palestinesi nel sud del Libano, in pochi mesi l’80% di Shatila è stato distrutto. Ricostruito negli anni Novanta, il “nuovo” campo di Shatila è obbligato a crescere e a svilupparsi in altezza a causa della politica libanese - che intende confinare i palestinesi all’interno del campo - e del contestuale aumento della popolazione rifugiata. Ormai è una città di periferia alle porte di Beirut. Oggi ospita: le famiglie di sfollati palestinesi provenienti dai campi profughi libanesi chiusi di Tall el-Zaatar e Nabatiyyeh (10mila persone); parte della popolazione libanese fuggita durante la guerra civile; gli iracheni fuggiti dal conflitto del 1991; la popolazione siriana che ha abbandonato il Paese nel 2011.

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geopolitica

TINDOUF, ALGERIA L’amministrazione dello Stato in esilio campi dei rifugiati saharawi a Tindouf, nel sud dell’Algeria, rappresentano la seconda più vecchia installazione d’emergenza della storia dopo quelli palestinesi. Nati nel 1975 per ospitare temporaneamente la popolazione saharawi fuggita dai territori (tuttora contesi) del Sahara Occidentale dopo l’annessione da parte del Marocco, oggi rappresentano l’unico esempio al mondo di autogestione totale di un campo profughi, se non addirittura una forma di amministrazione statuale in esilio. L’Algeria lascia, infatti, alle istituzioni della Repubblica Araba Democratica Saharawi (RASD) il controllo e l’amministrazione delle varie unità che formano l’agglomerato dei campi di Tindouf: Rabouni, Smara, El-Ayoun, Dakhla, Ausserd e 27 Febbraio. Gli oltre trent’anni di vita in esilio dell’autoproclamatasi Autorità Saharawi, hanno trasformato Tindouf in un terreno di sperimentazione politica di “nation-building” che non ha eguali. Nonostante godano di condizioni più favorevoli rispetto ad altri quanto a disponibilità alimentare, accesso all’acqua, livello di istruzioni minimo e speranza di vita, e nonostante l’autonoma organizzazione della vita quotidiana grazie a scuole, centri ricreativi, bar-ristoro e mercati, il carattere mobile e spartano dell’architettura dei campi riflette comunque la lotta politica contro l’“occupazione” marocchina tale che conferisce a questi ambienti, dove crescono ormai le terze generazioni, quel senso di temporaneità e precarietà che alimenta l’aspirazione al ritorno.

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I CAMPI-DORMITORIO IN QATAR Il confinamento dei migranti economici come gestione dell’indesiderabile a globalizzazione del lavoro e la circolazione dei lavoratori hanno prodotto in alcuni Paesi come quelli del Golfo, un fenomeno di relegazione degli immigrati economici in campi-dormitorio, che sorgono nelle zone industriali alle periferie cittadine e che rispondono alla politica di contenimento del fenomeno migratorio. In Qatar, su una popolazione di poco più di 2 milioni di abitanti, i lavoratori stranieri sono almeno l’85%, ma senza alcuna speranza di ottenere la cittadinanza o i diritti politici. La non-integrazione degli stranieri, che si produce con il loro confinamento fisico in appositi campi che sorgono nei pressi delle aziende dove sono impiegati, risponde al bisogno dello Stato di gestire vantaggiosamente lo straniero e l’“indesiderabile”. Seppur diversi dai campi per rifugiati o sfollati, queste sistemazioni sono sottese agli stessi criteri di temporaneità, esclusione ed extra-territorialità.

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LA COPER TINA cittadinanza italiana Si acquisisce iure sanguinis, cioè se si nasce o si è adottati da cittadini italiani. Esiste una possibilità residuale di acquisizione iure soli, se si nasce sul territorio italiano da genitori apolidi o se i genitori sono ignoti o non possono trasmettere la propria cittadinanza al figlio secondo la legge dello Stato di provenienza. La cittadinanza può essere richiesta anche dagli stranieri che risiedono in Italia da almeno dieci anni e sono in possesso di determinati requisiti. In particolare il richiedente deve dimostrare di avere redditi sufficienti al sostentamento, di non avere precedenti penali, di non essere in possesso di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica. Si può diventare cittadini italiani anche per matrimonio. cittadinanza europea Condizione giuridica dei cittadini degli stati dell’Unione Europea, che prevede, fra l’altro, il diritto di soggiorno in tutti gli stati membri, il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali ed europee nello stato dove si è scelta la residenza.

Vocabolario del migrante clandestino In Italia si è clandestini quando, pur avendo ricevuto un ordine di espulsione, si rimane nel Paese. Dal 2009 la clandestinità è un reato penale. L’espressione corretta è “migrante irregolare”.

migrante/immigrato Soggetto che sceglie volontariamente di abbandonare il proprio Paese per ragioni di lavoro o affettive. Non essendo un perseguitato, può scegliere di fare ritorno nel proprio Paese in sicurezza e senza subire ritorsioni.

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apolide Secondo la Convenzione di New York del 1954, l’apolide è una persona che non ha la cittadinanza di nessun Paese.

sFollato o proFugo interno (internally displaced person) Soggetti che, pur abbandonando la propria dimora a causa di crisi o eventi eccezionali (guerre, carestie, violenze settarie, etc.), non oltrepassano il confine nazionale, restando all’interno del proprio Paese in condizioni di precarietà e incertezza.


geopolitica

immigrato regolare L’immigrato regolare è un soggetto che risiede in un Paese con regolare permesso di soggiorno, rilasciato dall’autorità competente.

proFugo Termine generico che indica soggetti che abbandonano il proprio Paese a causa di guerre, invasioni, persecuzioni, rivolte o catastrofi naturali.

immigrato irregolare Il migrante irregolare è un soggetto che è entrato in un Paese evitando i controlli di frontiera, o ha il visto turistico scaduto o si è sottratto al rimpatrio forzato da parte dell’autorità competente del Paese in cui è immigrato.

protezione sussidiaria Secondo l’Unione Europea, può ottenere la protezione sussidiaria quel soggetto che corre il pericolo di subire torture, condanne a morte, trattamenti inumani o degradanti per motivi diversi da quelli previsti dalla convenzione di Ginevra.

riFugiato Nell’articolo 1 della convenzione di Ginevra del 1951 si stabilisce che il rifugiato è un soggetto che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese”. L’Italia ha fatto propria tale definizione, assorbendo questo concetto nella legge numero 722 del 1954.

richiedente asilo Soggetto che, in attesa del pronunciamento dell’autorità competente, ha diritto di soggiornare regolarmente nel Paese verso il quale è immigrato, anche se è giunto senza documenti d’identità e dunque clandestinamente. La condizione per richiedere asilo è subordinata alle ragioni politiche, etniche, razziali che ne hanno determinato la fuga dal Paese di origine.

BeneFiciario di protezione umanitaria Beneficia della protezione umanitaria chi, pur non essendo vittima di persecuzione individuale nel proprio Paese d’origine, ha bisogno di protezione e/o assistenza, perché vulnerabile sotto il profilo medico, psichico o sociale o perché a rischio di violenze e maltrattamenti nel Paese d’origine. In questo caso, secondo le leggi europee, si parla di “protezione sussidiaria”.

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La Valletta chiama, Bruxelles che fa? dall’estrema punta meridionale dell’ue, il governo maltese chiede una risposta unita all’emergenza migranti nel Mediterraneo. L’intervista all’ambasciatrice in Italia, vanessa Frazier di Rocco Bellantone @RoccoBellantone

subire le conseguenze dell’emergenza migranti nel Mediterraneo non è solo l’Italia ma anche la piccola isola di Malta, distante solo 330 chilometri dalle coste libiche. Negli ultimi mesi il governo maltese in più occasioni ha sostenuto le richieste del nostro governo affinché siano tutti gli Stati membri a farsi carico di questa crisi. “Per l’UE è arrivato il momento di ricostruire la fiducia tra gli Stati membri e con i suoi stessi cittadini - spiega l’ambasciatrice maltese in Italia, Vanessa Frazier -. Può riuscirci solo dimostrando di saper affrontare concretamente questa grande tragedia umanitaria”.

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Quali sono le dimensioni dell’emergenza migranti a Malta? Un numero rilevante di immigrati ha presentato richiesta di protezione internazionale al governo maltese da quando, nel 2002, il nostro Paese ha registrato i primi significativi sbarchi con l’arrivo di oltre 1.600 persone. Negli anni successivi i numeri sono continuati a crescere e a essere elevati per gli standard di una piccola isola come Malta che ha un territorio di 316 chilometri quadrati e una popolazione di poco più di 400mila abitanti. A più del 50% degli irregolari è stato riconosciuto lo status di persona bisognosa di protezione internazionale. Di conseguenza

VANESSA FRAZIER Da quasi vent'anni al Servizio Esteri maltese, fino a marzo 2015 ha servito come direttore per le questioni della difesa per l'Ufficio del Primo Ministro. Da aprile ha assunto il ruolo di ambasciatore a Bruxelles, accreditato presso il Belgio, il Lussemburgo e la NATO.


geopolitica

sono aumentate anche le richieste d’asilo. Ma da soli non possiamo far fronte a questa situazione. Come avete gestito l’aumento degli sbarchi? Il sistema maltese prevede un periodo detentivo per tutti gli immigrati irregolari che arrivano sull’isola senza documenti di riconoscimento. Ovviamente, questa misura non vale né per i bambini né per le persone che arrivano in gravi condizioni fisiche. In questi anni lo Stato si è attrezzato ristrutturando i suoi centri di accoglienza. È stato inoltre migliorato il sistema per la valutazione e l’accettazione delle richieste d’asilo che coinvolge l’Ufficio del commissario per i rifugiati in primo grado e la Commissione per i rifugiati in appello. Che aiuti state ricevendo dall’Unione Europea? L’assistenza da parte dell’Unione Europea è arrivata principalmente sotto forma di fondi per la ristrutturazione dei nostri centri di accoglienza e per la gestione del sistema di identificazione dei migranti. Il governo maltese ha anche chiesto la delocalizzazione all’interno dell’UE di una parte dei migranti a cui è stato riconosciuto lo status di persone bisognose di protezione internazionale. Dal 2007, a seguito di un accordo tra Malta e gli Stati Uniti per il ricollocamento dei migranti, se ne fanno richiesta queste persone possono ottenere il trasferimento negli USA. Ma l’isola ha una limitata capacità di integrazione a lungo termine e dunque serve un aiuto anche da parte dell’UE. Come valuta l’agenda per la migrazione approvata dall’UE? Il riconoscimento della necessità di una risposta immediata e la presentazione di piani d’intervento a lungo termine sono positivi. È un passo compiuto nella giusta direzione, soprattutto alla luce delle situazioni di

instabilità nei Paesi del Nord Africa e del potenziale impatto che queste decisioni potranno avere per il ricollocamento dei richiedenti asilo in tutta l’UE. Il punto su cui è più difficile raggiungere un accordo è per l’appunto la distribuzione dei richiedenti asilo nei Paesi membri dell’UE. Sarà possibile raggiungere un’intesa in tempi brevi?

È FONDAMENTALE RIDARE UNA STABILITÀ POLITICA ALLA LIBIA

Abbiamo sempre sottolineato la necessità di puntare su un approccio collettivo e su soluzioni concrete, compresa l’indicazione di una quota per la ridistribuzione dei migranti in tutta Europa, da definire in base a criteri specifici e attraverso la creazione di un meccanismo obbligatorio e automatico di delocalizzazione. Anche l’impegno per migliorare il sistema di rimpatrio degli irregolari è lodevole. Malta crede nell’utilità dei colloqui di pace su cui la comunità internazionale sta puntando per risolvere la crisi libica? Gli interventi per fermare i traffici di migranti nel Mediterraneo sono importanti, ma è anche fondamentale ridare stabilità politica alla Libia che, in quanto principale Paese di transito dei migranti, deve essere vista come parte della soluzione del problema. L’Europa e i Paesi africani devono lavorare insieme per garantire l’efficacia del piano UE. È necessario non solo per impedire altri morti in mare ma per garantire la sicurezza dei nostri Paesi. Se non saremo uniti, i gruppi criminali continueranno a sfruttare questa situazione di incertezza.

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Tutti i muri del mondo Quello di Berlino resterà per sempre scolpito nella memoria storica collettiva. Ma quell’esperienza non si è conclusa nel 1989. ecco tutte le barriere artificiali che separano popoli e nazioni

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In irlanda del nord le cosiddette “linee della pace”, mura e recinzioni apparse ormai quarant’anni fa a Belfast, hanno continuato a crescere nel tempo. E oggi continuano a separare le comunità IN cattoliche da quelle proteKASHMIR stanti. A Cipro, un recinto 3.300 KM di filo spinato si estende SONO LA per 180 chilometri da KokBARRIERA PIÙ kina, nel nord-ovest delESTESA AL l’isola, fino a Famagosta MONDO nella parte sud-ovest dell’isola, separando i turchi dai greco-ciprioti sotto il controllo delle Nazioni Unite (nonostante oggi la situazione sia assai più rilassata). Tra Ceuta e Melilla, Spagna e Marocco sono separate da una ventina di chiloCISGIORDANIA metri di barriere, così come 33 km di un muro in cemento alto fino muro separano il confine sensibile tra a 8 metri, con tanto di recinzioni, Bulgaria e Turchia. filo spinato, fossati e check point, separa Israele dalle popolazioni palestinesi.

L’araBia saudita è forse l’esempio più chiaro, dove il confine con l’Iraq è protetto da 800 km di recinzioni elettrificate e dotate di sensori ultratecnologici, mentre è in via di sviluppo un’altra barriera per separare il Paese dallo Yemen. Baghdad a sua volta ha visto nascere una barriera al confine col Kuwait, lunga 190 chilometri e costruita a partire dal 1991, subito dopo l’inizio della prima Guerra del Golfo.

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In iran, una barriera di 900 km separa la Repubblica degli Ayatollah dall’Afghanistan e un altro che si vorrebbe estendere fino a 700 km, la separa dal Pakistan. Paese, quest’ultimo, a sua volta separato dall’India grazie alla cosiddetta “linea di controllo” che divide la regione contesa del Kashmir e forma una frontiera per ben 3.300 chilometri. Lungo il 38esimo parallelo, Corea del Sud e Corea del Nord sono a loro volta separate dal 1953 da un confine che risulta essere il più militarizzato al mondo. Nel Sahara Occidentale sei diversi muri, eretti nel 1987 e lunghi 2.700 km con tanto di fossati e filo spinato, separano Marocco e Mauritania e le terre abitate dal popolo Sahrawi (senza considerare che la regione è ricca di mine antiuomo).

ceuta e melilla sono separate da oltre 220 chilometri di costa marocchina. In queste due città autonome della Spagna il governo di Madrid ha costruito nel 1998 delle recinzioni lunghe rispettivamente 8 e 12 chilometri: tre barriere alte sei metri, sormontate da reticolati di filo spinato, dotate di un’illuSTRETTO minazione ad alta intensiDI GIBILTERRA tà e di videocamere a cirA MIGLIAIA cuito chiuso funzionanti TENTANO LA anche di notte. Le aree e i TRAVERSATA passaggi via mare sono sorA NUOTO vegliati dagli agenti della Guardia Civil. Finora almeno 4mila persone sono morte annegate nel tentativo di attraversare lo Stretto di Gibilterra per entrare illegalmente in Spagna.

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i chiama “Operation Sovereign Borders” ed è il piano varato dal premier conservatore australiano Tony Abbott, al governo dal settembre del 2013. Il primo ministro si è affidato alla marina militare per costringere i barconi partiti dall’Indonesia a invertire la rotta. I numeri finora hanno dato ragione a questa politica. Dal dicembre del 2013 solo un’imbarcazione ha raggiunto l’Australia, mentre prima gli sbarchi si registravano con cadenza quasi quotidiana e in centinaia - migranti provenienti soprattutto da Iran, Afghanistan e Sri Lanka - morivano in mare durante i viaggi della speranza nel sud est asiatico. Più che in patria, la linea dura adottata dal governo australiano preoccupa l’Agenzia per i rifugiati dell’ONU (UNHCR) e le ong internazionali impegnate per la difesa dei diritti umani. Nel mirino della critica c’è la legge sull’immigrazione in vigore in Australia, l’Immigration Act approvato nel 1958. In base alle ultime modifiche apportate alla legge nel 2012, tutti i migranti e i richiedenti asilo che raggiungono l’Australia vengono trasferiti nell’isola di Nauru e in quella di Manus, nella Papua Nuova Guinea. Quelli a cui non viene riconosciuto la status di rifugiato politico sono spostati nel centro di Christmas Island, isola situata a ovest dell’Australia. Nonostante le latitudini esotiche, le condizioni di questi campi d’accoglienza sono però tutt’altro che paradisiache. Il recente scandalo degli scafisti che sarebbero stati pagati dalle autorità australiane per riportare in Indonesia decine di migranti ha messo in difficoltà il governo. Abbott però non intende fare un passo indietro. Per tutti gli immigrati in cerca di accoglienza lo slogan è perentorio: “No way. Non farete dell’Australia la vostra casa”.

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Australia “non si passa”

NO WAY “Non farete dell’australia la vostra casa” parola del premier conservatore Tony Abbott

BotsWana-zimBaBWe sono separate da una barriera elettrificata alta tre metri, costruita dal Botswana, ufficialmente per evitare la diffusione dell'Afta Epizootica, ma nel frattempo è servita per tenere alla larga gli immigrati clandestini. Stessa cosa tra Israele-Egitto, Egitto-Striscia di Gaza, Messico-Stati Uniti. Come a dire che nel mondo sono più le barriere che i liberi passaggi. E proprio l’Unione Europea, che ha visto cadere il muro di Berlino e il mondo che esso rappresentava, e che sull’abbattimento delle frontiere ha fondato la propria ragione d’esistere fino a metterlo nel nome (Unione non significa proprio questo?), oggi l’Unione Europea rischia di crollare per un muro invisibile ma non meno invalicabile.

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LA ROTTA BALCANICA In costante aumento il numero di migranti che tenta di attraversare la Penisola per raggiugere i Paesi dell’Unione Europea di Luigi Rossiello

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flussi migratori diretti verso l’Unione EuIn Germania 41mila siriani e 27mila serbi hanropea sembrano aver trovato una via pre- no presentato domanda di asilo. In Svezia, inveferenziale: il corridoio balcanico. Secondo ce, i rifugiati provenienti dalla Siria sono 31mila, i dati forniti da Frontex (Agenzia europea seguiti dagli eritrei (12mila). I kosovari richieper la gestione delle frontiere esterne), i denti asilo in Ungheria sono 21mila, ai quali si migranti in fuga da aree di crisi che tenta- aggiungono 8.700 afghani (dati Eurostat 2014). no l’attraversamento della Penisola balcaL’ingresso nei Balcani si verifica al confine tra nica sono in aumento esponenziale e supere- Turchia e Bulgaria, ma anche tra Grecia e Macerebbero di gran lunga coloro che tentano la tra- donia. L’attraversamento via terra non è privo versata del Mediterraneo. di rischi. A fine aprile, in Macedonia, un treno Sono sufficienti questi numeri a confermare con destinazione Belgrado ha investito un grupla gravità della situazione. Si è passati dai circa po di 50 migranti clandestini diretti a Nord. Le 4.500 attraversamenti clandestini del vittime, prevalentemente afghani e so2011 agli oltre 43mila del 2014. Ciò mali, sono state 14. Evento accidenche preoccupa maggiormente ritale rispetto ai morti causati dai freLA CITTÀ guarda il primo trimestre dell’anquenti naufragi delle “carrette del SERBA DI no in corso, in cui sono stati semare”. I gruppi di migranti che SUBOTICA gnalati già 32mila ingressi illegariescono ad attraversare tali fronÈ UNO li. Nel periodo gennaio-febbraio tiere sono organizzati dai traffiDEGLI SNODI 2015 i transiti sono aumentati del canti di esseri umani, che grazie PRINCIPALI 107% rispetto allo stesso periodo alla complicità di funzionari cordell’anno passato. rotti, “assicurano” il raggiungimento I migranti provengono per lo più da delle destinazioni per un corrispettivo Siria, Afghanistan, Libia, Iraq, Pakistan, Soche può arrivare fino ai 7mila euro. malia, Eritrea e dai Balcani stessi, in particolaLa Serbia, attraversata “a piedi”, viene indire dal Kosovo. Le destinazioni più ambite sono cata come un corridorio di transito verso i vii Paesi del Nord Europa, come Germania, Fran- cini Paesi dell’Unione, come Ungheria e Croacia, Gran Bretagna e Svezia. zia, anch’essi intesi, però, terre di passaggio. La città di Subotica, nella regione settentrionale serba della VojvoFLUSSI MIGRATORI VERSO L’UE dina, si attesta come uno degli snodi principali per la tratta dei Rotta Nazionalità - % sul totale migranti. Qui ci sono veri e proTotale arrivi 123 pri punti di raccolta di clandestiVariazione rispetto al 2013 % ni in attesa del momento migliore Da terra per varcare il confine con l’UnConfine Dal mare terrestre orientale gheria. Va da sé che queste rotte Balcani Vietnam 20% Occidentali Kosovo 51% possano essere battute anche da 1.275 -3% cellule terroristiche che, sposan43.357 +117% do la causa della jihad, puntino Rotta albanese al cuore dell’Europa. A loro è ofMar Nero Albania 99% Ovest Afghanistan 60% Mediterraneo ferto totale supporto dalla radica8.841 Camerun 99% 433 +1% +193% ta rete islamista, attiva qui so7.842 Est +15% prattutto in Bosnia-Herzegovina. Mediterraneo Siria 62% Questi allarmanti dati dimoAfrica dell’Ovest 50.834 Marocco 19% strano dunque ancora una volta +105% 276 come l’area balcanica rappresenti Mediterraneo -2% centrale 170.664 il lato debole d’Europa. Una vulSiria 23% +277% nerabilità spesso causata dalle gravi lacune organizzative e normative di questi Paesi.

I

ICELAND

FINLANDIA

SVEZIA

NORVEGIA

LETTONIA

FEDERAZIONE RUSSA

BIELORUSSIA

POLONIA

GERMANIA

UCRAINA

FRANCIA

UNGHERIA

ROMANIA

ITALY

BULGARIA

TURCHIA

SYRIA

IRAN

IRAQ

MAROCCO

ALGERIA

EGITTO

LIBYA

Fonte: dati Fran al Febbraio 2015 - FronteX

ARABIA SAUDITA

IL DIZIO NARIO Prima di fare retromarcia, il 17 giugno il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto ha annunciato l’intenzione di volere erigere una barriera lungo i confini con la Serbia: un tracciato di circa 175 chilometri di quattro metri d’altezza, che nel suo percorso attraversa anche un tratto fluviale. L’obiettivo è fermare i flussi di migranti clandestini che arrivano in Ungheria dalla Serbia. L’Ungheria è membro dell’Unione Europea dal maggio 2004 e si trova nell’area Schengen. Secondo il dipartimento per l’immigrazione ungherese, dall’inizio del 2015 sono state circa 57mila le persone che hanno attraversato illegalmente i confini del Paese, rispetto ai 43mila ingressi registrati nel 2014. La maggior parte di questi migranti arriva dal Medio Oriente e dall’Africa. Nell’area dei Balcani la Bulgaria ha costruito delle recinzioni lungo i 240 chilometri di confine che separano il Paese dalla Turchia. Stessa cosa fatta anche dalla Grecia. Il governo di Atene ha delimitato i 10 chilometri di frontiera con la Turchia non attraversati dal fiume Evros con un tessuto di filo spinato tagliente alto 4 metri spendendo 3 milioni di euro.

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COME SI AFFRONTA L’EMERGENZA MIGRANTI?

I nostri due “ministri degli Esteri” gentiloni e mogherini

geopolitica

l’opinione

MASSIMO ZAURRINI direttore responsabile di Africa e Affari

PAOLO GENTILONI Ministro degli esteri italiano l governo italiano e la comunità internazionale riconoscono la legittimità dell’esecutivo di Tobruk. Detto questo, però, la collaborazione con tutte le autorità libiche nel contrasto dell’immigrazione clandestina è utile. Se ci sono disponibilità in questo senso sarebbe sciocco non accoglierle. Non possiamo accettare l’idea che l’Europa si dimostri riluttante verso una soluzione condivisa di questa emergenza. Altrimenti il rischio certo è che il Mediterraneo non sarà più il mare nostrum ma un mare nullius. Il Mediterraneo è al centro dei nostri interessi geostrategici e pertanto serve un maggiore protagonismo politico dell’UE. Per quanto riguarda le possibili azioni militari, dobbiamo tenere conto del fatto che l’epoca dell’interventismo massiccio tipico degli Stati Uniti si è conclusa. Il che significa che ogni tipo di operazione verticale, mirata a combattere la minaccia jihadista di Al Qaeda e Stato Islamico, deve essere accompagnata da un’azione orizzontale mirata a favorire il processo di dialogo con il mondo islamico, tanto con le forze sunnite quanto con quelle sciite. In quest’ottica, i passi avanti fatti con l’accordo sul nucleare iraniano potranno contribuire a una descalation delle tensioni. Per la sua posizione geografica nel Mediterraneo e per i rapporti storici che la legano soprattutto ai Paesi del Nord Africa, l’Italia può e deve essere determinante.

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emergenza migranti continua a essere analizzata dai Paesi europei da un’angolatura miope. A volte ci si dimentica che l’Africa conta oltre 1 miliardo e duecento milioni di persone, che la sua popolazione è destinata a raddoppiare da qui ai prossimi vent’anni e che si tratta della seconda zona al mondo per crescita economica dopo l’Asia. È il continente del futuro e si sta costruendo un domani in parte con le proprie mani. Pensiamo ai flussi del money transfer. Solo i migranti provenienti dall’Africa subsahariana ogni anno mandano a casa da ogni parte del mondo oltre 60 miliardi di dollari. È una cifra che non conosce crisi, superiore nettamente agli aiuti internazionali destinati allo sviluppo di questi Paesi così come agli investimenti diretti esteri. Se si considerano poi i canali non ufficiali, il flusso delle rimesse potrebbe essere doppio o triplo. Affrontare la questione dell’immigrazione con i toni che si sono sentiti negli ultimi tempi dimostra pertanto una scarsa lungimiranza. L’Africa ha bisogno di partner e infrastrutture per sviluppare le proprie risorse energetiche. L’Europa deve dimostrarsi in grado di intercettare queste necessità, creare occasioni di investimenti, lavoro e pace. Tutto ciò è stato tagliato fuori dal dibattito. L’Italia più di altri Paesi si sta invece muovendo in questa direzione e con l’intervento di funzionari del ministero degli Esteri sta iniziando a toccare alcuni dei tasti giusti.

L’


FARE BUSINESS ALL’ESTERO

MEDITERRANEO DA SCOPRIRE a sponda sud del Mediterraneo - dopo le illusioni di democratizzazione generate dalle primavera arabe con la caduta dei regimi autoritari - non è stata in grado di generare un nuovo e stabile equilibrio politico. Le conseguenze, anche in termini economici, sono sotto gli occhi di tutti. In questo contesto, l’Italia deve evitare di guardare sempre in direzione nord e ricordare qual è la sua reale posizione geopolitica, ovvero il baricentro del bacino mediterraneo. Si tratta di un’opportunità e non di una minaccia, la nostra naturale proiezione è senza dubbio il Mediterraneo e lo stretto di Gibilterra sta lì a ricordarcelo.

L

il nuovo egitto di al sisi Tra i paesi del Nord Africa bisogna saper distinguere, ad esempio, tra la catastrofica situazione libica (se ancora si può parlare di Libia) e il “nuovo” Egitto del presidente Abdel Fattah Al Sisi, pronto nel prossimo quinquennio

a veder rinascere la sua economia. Secondo le ultime stime dell’Economist, la crescita media annua sarà di oltre il 4,5% e ripartirò proprio dal simbolo dell’Indipendenza, quel Canale di Suez che Nasser nazionalizzò come primo passo verso il sogno (infranto) del panarabismo. I progetti che ruotano intorno al Canale rappresentano uno dei pilastri della ricostruzione del Paese. In programma non c’è solo il raddoppio della sua portata ma anche la creazione di una nuova area metropolitana con abitazioni, centri servizi, zone industriali, collegamenti stradali e ferroviari. Le nostre aziende sono pronte a dare il loro contributo. L’Egitto, d’altronde, è impegnato a dimostrare di saper coniugare stabilità politica e crescita economica e secondo le stime del gruppo assicurativofinanziario SACE se si riuscisse a cogliere a pieno questo trend, espresso dalla domanda di beni da importare, le nostre esportazioni potrebbero raggiungere i 4 miliardi di euro entro il 2019.

oltre ai traffici degli scafisti e i morti in mare, le sponde del nord Africa offrono molte opportunità di investimento per le imprese italiane. In egitto e Marocco i mercati più solidi marocco, porta d’accesso all’aFrica Nel Mediterraneo c’è anche un Paese che non conosce crisi da oltre dieci anni e che ha trasformato la minaccia dell’instabilità derivante dall’affermarsi delle primavere arabe alle sue porte, in un’opportunità per favorire - con l’approvazione di una nuova costituzione - il rafforzamento dell’autonomia del governo. Si tratta del Regno del Marocco, che sotto la guida di Mohammad VI sta valorizzando appieno la posizione strategica al crocevia tra Africa, Europa e Medio Oriente, riuscendo a dispiegare appieno le sue potenzialità e affermandosi progressivamente come porta d’accesso all’Africa. La crescita dell’economia marocchina non conosce crisi dall’ormai lontano 2003 e anche nel prossimo quinquennio, sempre secondo l’Economist, è previsto un tasso di crescita medio equivalente a quello egiziano. Nel Mediterraneo quelli di Egitto e Marocco sono mercati in crescita, sempre più stabili, affidabili e competitivi. E le nostre imprese ne stanno prendendo sempre più coscienza.

TOP EGITTO MAROCCO TUNISIA

FLOP LIBIA ALGERIA MALI

a cura di

IBS ITALIA Società di consulenza specializzata nell’offerta di servizi all’internazionalizzazione d’impresa: studi di mercato, tax planning, ricerca partner, assistenza operativa in loco, organizzazione eventi, redazione pratiche per finanziamenti agevolati

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PLACES I luoghi meno conosciuti al mondo Maggio-Giugno-Luglio 2015

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MOUNT SINABUNG, INDONESIA Il vulcano si è risvegliato e minaccia una dozzina di villaggi intorno alla provincia nord di Sumatra. Oltre 10.000 persone sono già sfollate a fine giugno.

ZURIGO, SVIZZERA Ogni anno, come da tradizione, centinaia di svizzeri attraversano a nuoto il Lago Zurigo, percorrendo una distanza di oltre un chilometro e mezzo.


VENTIMIGLIA, ITALIA Un gruppo di immigrati è stato appena respinto alla frontiera francese ed è costretto a dormire sugli scogli con le coperte termiche.

CHONGQING, CINA Ufficiali giudiziari attraversano il fiume nella contea di Fengjie per portare l’emblema nazionale cinese in tribunale, in tempo per una causa di divorzio.

MOSCA, RUSSIA Un militare passeggia di fronte al sistema missilistico Buk-1M durante il forum internazionale delle forze armate di Kubinka.

ATENE, GRECIA Sotto gli occhi degli dei olimpici, i greci si riuniscono in Piazza Syntagma in attesa di conoscere il futuro del referendum e della propria nazione.


spy gaMe

Francis Walsingham, il fondator Il protetto della regina costruì una rete di agenti in servizio permanente effettivo in tutte le corti d’Europa li anni che seguirono la morte di Enrico VIII, il Re che per divorziare dalla sua prima moglie abbandonò la chiesa cattolica a favore dello scisma protestante, videro l’Inghilterra travagliata da una guerra civile strisciante ispirata e orchestrata dal Vaticano e dal Regno di Spagna, in cui cattolici e protestanti si affrontarono con le armi e con l’intrigo. Durante i suoi dieci anni di regno Maria I Tudor, primogenita di Enrico, nel tentativo di riportare l’Inghilterra nella sfera di Roma perseguitò i protestanti facendo uccidere più di 300 membri della nobiltà inglese che rifiutavano di riconvertirsi al cattolicesimo. La violenza dei metodi usati dalla Regina le sono valsero il titolo di “Bloody Mary”, Maria la Sanguinaria.

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di Alfredo Mantici Direttore editoriale di Lookout News, capo del Dipartimento analisi del Sisde fino al 2008

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È in questo clima che cresce il giovane membro della piccola nobiltà rurale Francis Walsingham, studente per tre anni alla scuola di legge di Cambridge, di fede protestante, che durante il regno di Maria la Sanguinaria pensa bene di autoesiliarsi in Francia prima e in Italia dopo, dove oltre che continuare gli studi di legge approfondisce la conoscenza delle lingue straniere che gli sarebbe tornata utile nella sua futura carriera. Rientrato in Inghilterra dopo la morte della Regina Maria e l’ascesa al trono di Elisabetta, figlia di Enrico e di Anna Bolena, il giovane Francis viene notato dal potente ministro reale Sir Robert Cecil, il quale, colpito dalla sua cultura e dalla sua intelligenza. Lo introduce a corte e gli affida la costruzione di un apparato di sicurezza interno e di un servizio di intelligence estero. In un periodo in cui per raccogliere informazioni si ricorreva sbrigativamente all’esercizio della tortura, Francis Walsingham costruisce una struttura informativa che ancora oggi in Inghilterra si rispecchia fedelmente nell’MI5 e nell’MI6. Per reclutare gli agenti della sua rete, Walsingham attinge alle giovani leve dei neolaureati di Cambridge e di Oxford e istituisce a Londra la prima scuola di addestramento per agenti segreti della storia. È una scuola dove si insegnano tutte le “arti del mestiere”: lingue, criptazione e decriptazione, gestione delle fonti, contraffazione della calligrafia e dei sigilli postali, individuazione e gestione di fonti all’interno e all’estero. Mentre la giovane Regina Elisabetta è costantemente in pericolo di perdere il trono e la testa, Walsingham costruisce una rete di oltre cinquanta agenti in servizio permanente effettivo presenti in tutte le corti d’Europa, Vaticano compreso. La struttura di sicurezza all’interno non funziona come una polizia segreta ma si occupa di individuare gli agenti inviati dalle potenze nemiche, spesso gesuiti. Invece che arrestarli, li fa seguire e sorvegliare


storie di spionaggio e controspionaggio

re dell’intelligence moderna e tenta, in più occasioni con successo, di “rivoltarli”, di portarli cioè a fare il doppiogioco. È grazie a questa struttura, agile ed efficiente, che Walsingham riesce a sventare uno dopo l’altro tutti i complotti contro la Regina Elisabetta, il più famoso dei quali, il “Babington Plot”, costerà la testa alla Regina di Scozia Maria Stuart. Questa, fervente cattolica, rinchiusa dalla cugina Elisabetta in una residenza di campagna, manteneva un fitto epistolario con gli agenti cattolici sparsi per l’Inghilterra. Nel 1885 un giovane prete di nome Gilbert Gifford, viene intercettato mentre dalla Francia portava istruzioni per i sostenitori di Maria Stuart in Inghilterra. Walsingham invece che arrestarlo o torturarlo, lo convince a passare dalla sua parte e a fungere da corriere tra Maria Stuart e i nobili cattolici. Per due anni, dal 1585 al 1587, grazie ai suoi decriptatori tutta la corrispondenza in cifra di Maria Stuart viene attività sovversive ispirate dalla Regina di Scointercettata, letta e spesso contraffatta. In una zia. Mentre Cecil e Waslhingam usano quella lettera a Lord Babington, la Regina di Scozia firma per farla decapitare la mattina successiva chiede in un post scriptum contraffatto dai fal- alla condanna. È la fine dei complotti contro Elisasari di Walsingham i nomi dei nobili a betta e l’inizio di una nuova era nei lei fedeli, e cioè di tutti i cospiratori. servizi di intelligence. Robert Babington prontamente risponde LA StruttrA Cecil, nel frattempo diventato alla sua richiesta fornendo il quadI WALSInGhAM Lord Burghley, dice a Walsindro completo della congiura. SI rISpeCChIA gham: “Voi avete combattuto e AnCorA oGGI L’ultima lettera fatale scritta da vinto più con la vostra penna di Maria Stuart è quella nella quale NELL’MI5 E MI6 tutta la flotta inglese con le sue ammette di essere d’accordo con I due SerVIzI dI navi”. Alla sua morte nel 1590, un il Re di Spagna per uccidere la cuSuA MAeStà agente spagnolo informa il Re di gina Elisabetta. Spagna con questa frase: “Walsingham Con questa lettera, Cecil e Walsinè morto e qui in Inghilterra c’è molto dispiagham ottengono che la Regina firmi il 7 febbraio del 1587 la condanna a morte della cere”. A margine della lettera il re di Spagna Regina di Scozia. Elisabetta intendeva usare la scrive: “Da queste parti, invece, questa è una condanna come deterrente nei confronti delle buona notizia”.

ELISABETTA I TUDOR Figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, fu dichiarata illegittima nel 1536 e tenuta prigioniera nella torre di Londra dalla sorellastra Maria Tudor. Divenne regina il 17 novembre 1558, inaugurando una politica forte, anti-cattolica e anti-spagnola, che le causò numerosi attentati alla vita, cui scampò sempre grazie alle astuzie del fidato apparato di sicurezza. Nel 1588, la sua marina inglese sconfisse l’Invencible armada di Filippo II. Con la disfatta della flotta spagnola iniziò il declino definitivo della Spagna e l’ascesa della potenza militare e mercantile inglese. Sotto la sua corona l’Inghilterra prosperò ed Elisabetta poté regnare a lungo, fino al 24 marzo 1603, giorno della sua morte.

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econoMia MERCATO GLOBALE Lo spettro di una crisi prolungata

IRAN A un passo dall’accordo

ARABIA SAUDITA I grattacapi di Riad

Tempesta 44

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econoMia

il mondo industrializzato è entrato in una fase di stagnazione secolare? può la grande recessione essere il sintomo di un grave e diffuso malessere, destinato a incidere negativamente sul futuro economico mondiale? l’analisi del fenomeno di Ottorino Restelli

EUROPA ella Research Conference del FMI del novembre 2013, Larry Summers, ex Segretario del Tesoro dell’Amministrazione Obama, ha rilanciato quanto sostenuto nell’articolo U.S. Economic Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis and the Zero Lower Bound, ovvero l’eventualità che il mondo industrializzato sia ormai entrato in una stagnazione secolare e che la Grande Recessione altro non sia che la manifestazione estrema della riduzione del tasso percentuale di crescita reale del PIL, in atto sin dagli anni Settanta del secolo scorso (FIGurA 1). Da allora, un interessante dibattito si è sviluppato su blog, riviste economiche e quotidiani tra i sostenitori, come Paul Krugman (premio Nobel per l’Economia), e gli avversari, come Ben Bernanke (ex Governatore della FED USA), della tesi di Summers. È bene chiarire che non si tratta di un’astratta disputa economica, quanto piuttosto di riconoscere l’esistenza di un’eventualità da cui far discendere concrete politiche economiche per mitigarne, se non impedirne, gli effetti.

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in arrivo

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Dopo sette anni dall’esplosione della Grande Recessione, conseguenza della crisi dei mutui subprime, la crescita economica tarda a manifestarsi, nonostante anni di politiche monetarie espansive che hanno ridotto praticamente a zero i tassi d’interesse e mandato in territorio negativo i rendimenti dei titoli pubblici di molti paesi e i tassi sui depositi bancari. Per di più, laddove una qualche crescita economica si è manifestata, come negli USA e nel Regno Unito, questa si è accompagnata a una crescita innaturale dei listini azionari (le borse sono ai massimi storici, le obbligazioni offrono rendimenti bassissimi, etc.) che fanno temere l’azione di nuove bolle speculative: l’indice Standard & Poors 500 è di oltre 5 punti sopra la

FIGURA 1

MERKEL E OBAMA I DUE LEADER STARANNO PARLANDO DI UCRAINA, CRISI ECONOMICA O DEL FUTURO DEL MONDO?

media storica (20,5 rispetto a 15,5) del rapporto Price/Earnings (P/E), cioè del rapporto tra quotazione azionaria e valore dei profitti per azione di un’azienda quotata (FIGurA 2). Potrebbero allora essere le bolle speculative a guidare la crescita economica, come accaduto durante le amministrazioni Reagan, Clinton e Bush junior, e non la produttività dei fattori e la domanda aggregata. Fonte: penn World tables; the economist

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che cos’è la stagnazione secolare? La Stagnazione Secolare, cioè un cronico eccesso di risparmio rispetto agli investimenti, fu evocata da Alvin Hansen nel discorso presidenziale all’American Economic Association nel 1938. Essa è caratterizzata da alcuni fattori: stagnazione demografica, modesta crescita della produttività, tassi d’interesse molto bassi e vicini a zero.


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La tesi della stagnazione demografica è molto suggestiva ed è sufficiente ricordare che nel periodo 1960-1985 la forza lavoro USA cresceva a un tasso annuo del 2,1%, sostenendo così l’economia attraverso la domanda, mentre le previsioni 2015-2025 indicano una crescita della popolazione compresa tra 18 e 64 anni, pari dunque allo 0,2% annuo. Se a questo si associa il brusco calo dell’innovazione e delle sue ricadute sulla produttività, come sostenuto da Edmund Phelps (altro Premio Nobel per l’economia), allora non si creeranno posti di lavoro e quindi una domanda sufficiente. I tassi d’interesse a zero, indicano poi che il tasso d’interesse naturale di piena occupazione è negativo. In una situazione del genere, le normali regole di funzionamento dell’economia sono sospese. Krugman, riprendendo Keynes, definisce questa situazione come una “trappola delle liquidità” e avverte che ogni pratica virtuosa di contenimento dei disavanzi pubblici, se attuata attraverso politiche di austerità, non potrà che peggiorare la situazione generale. Secondo Ben Bernanke, invece, la stagnazione attuale delle economie occidentali è dovuta a un eccesso di risparmio mondiale determinato dalla crescita delle economie asiatiche, Cina e India in primo luogo, ma anche Paesi produttori di materie prime ed energia, che hanno fatto segnare perduranti ed elevati surplus commerciali. Questa crescita economica, spinta dalla globalizzazione, ha determinato un aumento del reddito

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Fonte: s&p 500 p/e ratio

di popolazioni caratterizzate da una Se Larry Summers ha ragione, come più elevata propensione al risparmio da queste parti si ritiene, allora le poe, quindi, si è tradotta in un vero e litiche di austerità imposte dalla Troiproprio eccesso di risparmio mon- ka non solo sono inefficaci, ma risuldiale, che ha compromesso la dina- tano fatali alle economie dell’eurozomica della crescita economica e spin- na, proprio perché incapaci di rilanto al ribasso i tassi d’interesse. Poi- ciare gli investimenti oggi fortemente ché la maggior parte di questi Paesi insufficienti anche con tassi d’interessono in via di sviluppo se pari a zero. In quee comunque niente afsta situazione, vicefatto economie matuversa, andrebbero perre, allora la stagnazioseguite politiche fiscane secolare è un falso li in deficit per sosteproblema. nere la domanda agUna più attenta anagregata. Con questi LA PERCENTUALE DI lisi delle principali ecotassi, il costo dell’inCRESCITA ANNUALE DELLA nomie mondiali, non debitamento pubblico FORZA LAVORO USA sembra però sostenere sarebbe molto basso e la spiegazione dei basogni investimento gesi tassi d’interesse nererebbe automaticaavanzata da Ben Bermente i ricavi capaci nanke. Infatti, i dati indi ripagare il debito a dicano un trend decreesso associato, grazie scente del risparmio anche al solo moltipliLA PERCENTUALE DI mondiale e una ridu- CRESCITA PREVISTA DELLA catore fiscale. zione ancora maggiore Come sostiene Larry FORZA LAVORO USA del risparmio globale e Summers, questo non delle famiglie nelle economie più svi- è un punto di vista teorico, ma quanto luppate del mondo. Anche per ciò che affermato dallo stesso FMI che nel riguarda i saldi delle partite correnti, World Economic Outlook dell’ottobre dal 2007 si osserva un progressivo mi- 2014 suggerisce che “gli investimenti glioramento del disavanzo commer- pubblici nei Paesi con tassi d’interesse ciale degli USA e un peggioramento prossimi allo zero è molto probabile del saldo commerciale di Giappone e che riducano significativamente il rapsoprattutto della Cina. porto debito pubblico/PIL”.

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do you spread?

Europrevisioni. Il fantasma della desertificazione Modelli e indici economici a confronto: Atene, Londra, Parigi, Berlino, Madrid e Roma crescono con il fantasma della desertificazione e della disuguaglianza sociale di Brian Woods l Commissario per gli Affari Economici Pierre Moscovici ha presentato a Bruxelles le previsioni sull’economia dell’Unione nel 2015, che indicano una crescita media dell’Eurozona attesa attorno all’1,5%. Escludendo la Germania, per la quale si prevede una crescita dell’1,9% e sulla cui peculiarità si è a lungo parlato, ed escludendo anche la Spagna, che con il suo 21% di tasso di disoccupazione certo non sembra un modello replicabile, emergono due possibili sentieri alternativi di uscita dalla recessione. Da una parte la Francia, con una crescita attesa dell’1,1% nel 2015 (1,7% nel 2016) e dall’altra il Regno Unito, con un +2,4% del PIL atteso nel 2015 (+2,6% nel 2016). A favore del modello britannico si sono levati, dopo l’inatteso successo elettorale del Conservatore Cameron, anche i sempiterni rigoristi e teorici dell’austerità italiani. Secondo un’interpretazione molto in auge sui quotidiani nazionali, il successo elettorale di David Cameron è il risultato delle politiche di austerità fatte di tagli di spesa (-14 miliardi di sterline nel 2014) e di riduzione di imposte e tasse. Va però aggiunto che il Regno Unito ha

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potuto attuare, fin dal manifestarsi in Europa della crisi dei mutui subprime (2009), una politica monetaria anticiclica di acquisti di titoli sul mercato secondario (375 miliardi di sterline), che ha ridotto il valore della sterlina contro l’euro, sostenendo così le esportazioni nell’Eurozona, e spinto allo 0,5% il tasso d’interesse, dove è tuttora. Questo ha permesso a Cameron di essere il primo ministro dai tempi di Attle, ad aver governato per un intero mandato in assenza di aumenti del tasso d’interesse, con un tasso d’inflazione a zero. Quindi, il modello franSTILE BRITISH cese basato sulla spesa in IL ModeLLo deficit, che ha consentito eConoMICo di limitare la riduzione dI CAMeron del PIL (-2,9% contro il FunzIonA SoLo 5,6% della Germania) per LondrA negli anni bui della Grande Recessione (2008-2009). La Francia, durante l’ultimo lustro ha accresciuto la spesa pubblica fino a raggiungere il 57% del PIL (+4%), portando il rapporto deficit pubblico/PIL al 4,4% e il debito pubblico a 2091 miliardi di euro (95% del PIL). Questa politica ha consentito a Parigi di contenere gli effetti della recessione, di arrestare l’esplosione della


voci dal Mercato globale

+1,5% +1,9% +2,4% LA CRESCITA DELL’EUROZONA PER IL 2015

LA CRESCITA DELLA GERMANIA PER IL 2015

IL PIL DEL REGNO UNITO PER IL 2015

disoccupazione (10,5%), di tutelare il potere d’acquisto dei salari e di limitare i fenomeni di esclusione sociale. Tutto ciò è stato realizzato solo violando il fiscal compact e senza pagare il dazio dello spread. Infatti, i rendimenti sui titoli a 10 anni hanno raggiunto i minimi storici (0,51% contro lo 0,23 della Germania) mentre quelli a più breve scadenza sono andati in territorio negativo, in conseguenza del Quantitative Easing della BCE. Il modello francese è però gravato dalla crescente ipoteca della bilancia delle partite correnti che, ormai in negativo da anni, manifesta la perdita di competitività dell’economia transalpina a vantaggio di quella tedesca. Quello di Londra non è un modello esportabile, né tanto meno desiderabile. Il Regno Unito è il paese del vecchio continente con la più alta disuguaglianza sociale, con le minori prospettive di mobilità sociale e i salari minimi “da fame” (working poor). A testimonianza di ciò, basterebbe ricordare la rivolta di Tottenham del 2011, che poi si estese ad altre città inglesi, e l’esodo delle 500 famiglie che ogni settimana sono costrette ad abbandonare Londra per motivi economici, fenomeno definito da alcuni quotidiani una vera e propria “pulizia sociale in stile Kosovo”. Non resta che il modello francese, ma senza un asse Parigi-Roma per una nuova politica economica espansiva basata sugli investimenti pubblici in deficit, non c’è alternativa al declino economico e sociale e all’esplosione della disuguaglianza e dell’esclusione. La vicenda greca testimonia che non c’è alcuna ragione economica che legittimi i sacrifici imposti ai popoli dell’Eurozona se non la rigida osservanza di regole arbitrarie, la cui fondatezza è stata negata da esperti, premi Nobel ed economisti, e il cui unico effetto sarà la desertificazione industriale di intere aree geografiche.

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IRAN

È arrivata l’ora dell’Iran. Sì all’accordo per il nucleare (con riserva) dopo un rinvio tecnico di alcuni giorni, l’accordo sul nucleare tra teheran e il gruppo del 5+1 riuniti a Vienna, dovrebbe arrivare il 7 luglio. L’intesa prevede tre step e richiederà sei mesi di tempo per entrare in vigore

di Gianni Rosini @Gianni Rosini (https://twitter.com/GianniRosini)

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o storico accordo è in arrivo e sembra cancellare la possibilità che l’Iran, nei prossimi dieci anni, possa costruire la bomba atomica. “Non è un accordo perfetto - ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, poco dopo la stretta di mano tra John Kerry e il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif - ma sufficiente per rendere il mondo un posto più sicuro”. Una sola centrale, quela di Natanz, con massimo 5mila centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, il trasferimento all’estero del plutonio prodotto dal reattore di Arak e “ispezioni frequenti e trasparenti” per garantire il rispetto degli accordi da parte di Teheran. Il tutto in cambio dell’immediato stop alle sanzioni nei confronti della Repubblica Islamica dell’Iran. “Teheran avrà ancora le tecnologie sufficienti per arricchire l’uranio - spiega Theodore Postol, professore di Scienza, tecnologia e sicurezza internazionale al Massachussetts Institute of Technology - ma se le numerose ispezioni stabilite verranno svolte in maniera trasparente, allora questo può essere veramente un buon accordo”. Un punto d’incontro che Obama ha inseguito per anni e che è stato messo in cima all’agenda del governo americano. Se le informazioni fatte circolare da Teheran nei mesi scorsi fossero confermate, i colloqui sul nucleare permetterebbero ai due Paesi di intavolare anche una cooperazione nella lotta allo Stato Islamico in Iraq, con il governo di Hassan Rouhani disposto a continuare a fornire combattenti e gli Usa che, pur non impegnando militari sul suolo iracheno, garantirebbero all’Iran maggiore protezione al confine con l’Iraq per bloccare l’avanzata di Isis. L’accordo non poteva essere digerito da Israele che da sempre addita Teheran come il vertice di quell’“Asse del Male” che ha l’obiettivo di distruggere lo Stato Ebraico e conquistare il Medio Oriente. L’Ayatollah Ali Khamenei “vomita l’odio più antico, il più antico odio antisemita unito alla recente tecnologia. Con questo accordo, l’Iran avrà presto la bomba atomica”, ha detto settimane fa il primo ministro israeliano,

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Benjamin Netanyahu, davanti al Congresso degli Stati Uniti. Le sue parole (smentite anche dai dati in mano al Mossad, i servizi segreti israeliani, e poi diffusi dagli Spycables), spiega però Postol, non rispecchiano la reale situazione del programma nucleare iraniano: “Al momento, l’Iran non è in possesso di sufficienti quantità di uranio arricchito e, quindi, non è in grado di fabbricare la bomba”. Il programma nucleare iraniano non ha mai raggiunto i livelli descritti da Netanyahu, che già nel 1992 metteva in guardia sulla fabbricazione dell’atomica e nel 2012, durante un discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, disse che Teheran era ormai oltre il 90% del processo che porta alla creazione dell’ordigno nucleare. “Per costruire l’atomica sostiene il professore del MIT - sono necessari circa 25 chilogrammi di uranio arricchito almeno all’85-90 per cento. L’Iran, secondo i dati raccolti, ha minori quantità di uranio e con un livello di arricchimento di appena il 3,5 per cento”. Numeri che permettono a Teheran di usarlo esclusivamente per scopi civili. “Facendo un calcolo approssimativo - continua Postol - all’Iran servirebbe più di un anno per costruire un ordigno nucleare”. Le parole del Primo Ministro, intenzionato a formare un governo di coalizione con l’ultradestra religiosa, devono essere collocate in un contesto di ricerca dei consensi che

PARIGI Il Segretario di Stato John Kerry insieme ai ministri degli esteri dei Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, per mediare la questione nucleare

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P5+1 I negoziatori per l’accordo sul nucleare sono rappresentanti di: USA, RUSSIA, CINA, FRANCIA, REGNO UNITO E GERMANIA

il premier ha sempre ottenuto quando ha dimostrato concretamente la volontà di sconfiggere “i nemici d’Israele”. Era già successo in occasione del definitivo cessate-il-fuoco dopo la campagna militare “Protective Edge”, a Gaza: la decisione di ritirare le truppe aveva fatto crollare i consensi per il governo dall’82% al 32%. Percentuale che è poi leggermente aumentata dopo l’attuazione di provvedimenti restrittivi nei confronti dei palestinesi che vivono nei territori occupati. Netanyahu auspicava “un accordo migliore” di quello sul tavolo a Losanna, o un inasprimento delle sanzioni a carico di Teheran. “Avevamo tre possibilità - ha risposto il presidente Obama durante il suo discorso alla Nazione -: seguire la linea della diplomazia e cercare di ottenere un buon accordo, come abbiamo fatto; Iniziare una guerra contro l’Iran, che avrebbe fermato il loro programma nucleare per


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un paio di anni e che, però, avrebbe che l’Iran voglia veramente dato il via a un nuovo conflitto in Me- fare l’ultimo passo e creare dio Oriente; continuare con le sanzio- un arsenale atomico: “Ho ni in cerca di un accordo ancora mi- l’impressione - conclude il gliore, ma così il programma iraniano professore del MIT - che il sarebbe andato avanti ancora per an- governo di Teheran non voni. La soluzione raggiunta fa sì che glia privarsi della possibilità l’Iran, da oggi, sia il Paese sottoposto di fabbricare la bomba, cosa al più alto numero di ispezioni”. che gli farebbe perdere preSecondo Postol, ci sono due aspetti stigio e autorevolezza in tutimportanti che il presidente israeliano ta l’area. Allo stesso tempo, non ha considerato nella sua analisi: però, sa bene che possedere uno di natura tecnica, ossia l’importan- un arsenale atomico metterebbe a riza del ruolo degli ispettori nell’accordo, schio prima di tutto la propria sicurezza e uno di natura politica, l’effettiva con- nazionale. Se l’Iran si dotasse di bombe venienza per l’Iran del dotarsi di un ar- atomiche, infatti, altri soggetti dell’area senale nucleare: “Un buon accordo mediorientale, penso soprattutto alpassa prima di tutto dalla possibilità di l’Arabia Saudita, non rimarrebbero a svolgere ispezioni periodiche e a sor- guardare e si muoverebbero per sviluppresa, oltre a un monitoraggio delle pare un proprio arsenale nucleare. centrali di produzione, per veE il Pakistan ha già fatto saperificare il rispetto dei limiti re loro di essere disposto ad stabiliti”. Ma Postol non aiutarli con mezzi, mateA teherAn sembra essere convinto riali ed esperti”.

SerVIreBBero

365 GIORNI per AVere LA BoMBA TEHERAN CI CREDE La società di navigazione iraniana National Iranian Tanker Company (Nitc), sussidiaria della National Iranian Oil Company, negli ultimi due anni ha acquistato nuove navi dalla Cina, rendendo così la sua flotta di superpetroliere la più grande al mondo, con ben 42 mercantili. Oggi l’Iran può assicurare il trasporto di quasi 2 milioni di barili di greggio per nave e invadere il mercato petrolifero internazionale. Segno tangibile che Teheran crede fortemente all’accordo.

SCRIPTA MANENT

L’accordo quadro in via di definizione a Losanna sul nucleare iraniano, sarà firmato dagli Stati Uniti solo se attuato in “modo corretto” e se “consentirà di centrare il mio obiettivo ovvero che Teheran non abbia l’arma nucleare”. Sono state le parole del presidente Barack Obama a poche ore dalla “fine dei giochi”, prevista il 7 luglio 2015 dopo una lunga trattativa ed ennesimi rinvii.

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Alleati cercasi la nuova generazione dei monarchi saud è di fronte a sfide cruciali per il futuro del regno saudita. una sfida difficile con la guerra alle porte di Marta Pranzetti

ARABIA SAUDITA entre Kerry attende con ansia gli sviluppi degli accordi sul nucleare con l’Iran, il Regno saudita stanco ormai di aspettare invano rassicurazioni che da Washington non sono arrivate (nemmeno con l’apposito vertice con i leader del Golfo ospitato a Camp David lo scorso maggio) volge il suo sguardo altrove e tende la mano alla Russia di Putin. Il 18 giugno il principe ereditario (secondo in linea di successione), figlio dell’attuale monarca saudita nonché ministro della Difesa, Mohammed bin Salman, si è recato in visita di Stato a San Pietroburgo, dove ha stretto accordi bilaterali con il presidente russo su petrolio e cooperazione nella tecnologia spaziale. I colloqui hanno riguardato anche il binomio proliferazione nucleare-crisi in Yemen. Due argomenti dal denominatore comune: l’Iran e il crescente ruolo che questo Paese si sta ritagliando nello scacchiere mediorientale, grazie soprattutto alla mediazione americana che vuole ad ogni costo l’intesa sul nucleare. Ciò che più preoccupa Riad è probabilmente lo Yemen, poiché alle porte di casa è in corso una guerra sostenuta più o meno apertamente dall’Iran che, attraverso la ribellione della comunità sciita degli Houthi, punta a destabilizzare la pace sociale dell’Araba Saudita.

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VICERÉ Mohammed bin Salman è in giro per il mondo per la causa saudita

Ma casa Saud teme anche il disinteresse americano, perciò ben venga il Cremlino. Vero è che l’allora Unione Sovietica, nel lontano 1926, fu il primo Stato a riconoscere Re Abdul Aziz come sultano del Regno di Najd e Hijaz (poi Arabia Saudita) e che da allora le relazioni bilaterali tra i due Paesi sono sempre state salde su ogni fronte. Ma è anche vero che con il tempo (e i petrodollari) il Regno saudita si è avvicinato sempre più agli USA e ha fatto grandi affari con l’Occidente, ottenendo in cambio la protezione militare e politica da parte di Washington verso i propri interessi (mantenere il primato nella regione).

Adesso che questa situazione è messa in discussione dall’accordo sul nucleare con l’Iran, spinto proprio dall’Amministrazione Obama, è evidente che l’Arabia Saudita, dopo aver tentato la via dell’affermazione militare con l’intervento in Yemen, cerchi altri alleati. Del resto, la vecchia generazione della leadership del Regno deve ormai lasciare spazio alle giovani reclute giovanissime se si pensa che Mohammed bin Sultan, che ha rappresentato il Re saudita nell’incontro con Putin, ha appena 30 anni - che sembrano sempre più indipendenti dai gusti filo-americani della generazione precedente.

PROVE DI DISGELO USA-RUSSIA Vladimir Putin ha preso il telefono e ha chiamato Barack Obama per discutere delle grandi tensioni che attraversano Cremlino e Casa Bianca. È successo il 24 giugno 2015. Se è alquanto prematuro parlare di disgelo tra Washington e Mosca, tuttavia ci sono questioni cruciali per le quali vale la pena soprassedere alle prove muscolari in corso nell’Europa dell’Est. E queste sono anzitutto il dossier nucleare dell’Iran e il terrorismo a trazione militarista dell’ISIS, che adesso ha annunciato anche la nascita del Califfato del Caucaso. Il giorno che Russia e Stati Uniti collaboreranno davvero, ammansire il Medio Oriente sarà opera meno ardua.


borsa energetica

coMe caMbia il Mercato del petrolio e del gas

OPEC, nulla cambia La riunione dei Paesi produttori di petrolio conferma i disequilibri interni e le distanze che caratterizzano questa istituzione A CURA DI NOMISMA ENERGIA Società di studi economici indipendente, realizza attività di ricerca e consulenza economica per imprese, associazioni e pubbliche amministrazioni, a livello nazionale e internazionale

ome previsto, la riunione dei Paesi produttori OPEC del 5 giugno scorso si è conclusa con un nulla di fatto, confermando i (dis)equilibri interni che vedono il predominio della linea saudita a non tagliare l’output né il tetto produttivo. Resta pertanto 30 milioni di barili giorno il target da realizzare, in assenza di quote individuali tra i Paesi, ma la produzione continua a scorrere abbondante verso i 31 milioni, livelli che non si verificavano da circa 3 anni. L’obiettivo dichiarato di mantenimento di quote di mercato a discapito delle produzioni non convenzionali americane e canadesi, in realtà cede il passo all’annosa diatriba tra sauditi e persiani, ancor più accentuata dopo che il 2 aprile 2015 il presidente USA Barack Obama ha annunciato un accordo preliminare sul nucleare con l’Iran. Per la prima volta si parla di un’ipotesi di soluzione della controversia internazionale, iniziata nel 2003 e aggravata dal 2012 con l’imposizione di sanzioni stringenti da parte di USA e UE. L’avvicinamento dell’Iran all’Occidente rappresenta, infatti, una

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EXPORT PETROLIFERO SAUDITA PER MACRO AREA DI DESTINAZIONE

elaborazioni e stime ne nomisma energia su dati argus

vera rivoluzione negli equilibri con il Medio Oriente, al momento incentrati sulla collaborazione energetica con il blocco arabo. Essendo la fine dei nuclear talks tra i 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania) attesa, almeno inizialmente, per la fine di giugno 2015, era chiaro che Riad avrebbe assunto un atteggiamento attendista, decidendo solo dopo eventuali ritorsioni verso l’Occidente. Difficilmente comunque si spingerà oltre a quanto fatto negli ultimi mesi, in particolare aumentando ancora la produzione. I suoi livelli estrattivi sono soddisfacenti intorno ai 10 milioni di barili giorno, che la confermano quale primo player al mondo davanti a Russia e Stati Uniti. Tale produzione è in massima parte destinata alle esportazioni, circa il 70%, con un contributo fondamentale dei Paesi dell’Asia Pacifico, mentre la fornitura verso gli Stati Uniti continua a calare (nel 2014 -15% rispetto all’anno precedente). Tuttavia, alla vigilia degli incontri dei 5+1 a Vienna, l’accordo sembra ancora lontano, per problemi che riguardano principalmente la disponibilità dell’Iran ad accogliere gli ispettori e la chiarezza sul programma militare iraniano. Inoltre, le ispezioni realizzate hanno rivelato che, a partire dall’inizio dei negoziati, l’Iran ha aumentato le scorte di uranio. In termini di conseguenze, l’abolizione delle sanzioni comporterebbe un potenziale afflusso di greggio iraniano sui mercati internazionali in grado di far precipitare le quotazioni verso le medie di lungo periodo. Già in due anni, infatti, l’output del Paese potrebbe tornare, secondo stime prudenziali, da meno di 3 milioni di barili giorno a 4 milioni, destinati a diventare 5,5 in un lustro. L’afflusso di capitali esteri conseguente all’apertura al mondo dovrebbe impattare altresì sul settore della raffinazione, con un aumento della capacità produttiva dagli attuali 1,8 milioni di barili giorno a circa 4 nei prossimi 5 anni, portando Teheran sul mercato anche come esportatore di prodotti. Il rinvio di ogni decisione era pertanto scontato.

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Le principali manifestazioni di rabbia e dissenso Gli scontri di metĂ anno

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BUJUMBURA, BURUNDI Un manifestante si nasconde dalla polizia e tenta di riprendere il suo machete durante la marcia contro la decisione del presidente Pierre Nkurunziza di ricandidarsi per la terza volta.

SANTIAGO, CILE Studenti prendono fuoco dopo che contro di loro è stata lanciata un bottiglia riempita di petrolio durante le proteste contro il sistema scolastico.


MOSCA, RUSSIA Violenze e percosse durante una manifestazione in favore delle libertà sessuali. Finisce in rissa la marcia LGBT organizzata dagli attivisti per i diritti gay.

MUKALLA, YEMEN Folla di curiosi osserva il cadavere di un uomo accusato da Al Qaeda di essere una spia e di aver collaborato con gli Stati Uniti.

SHELBY, STATI UNITI Il ventunenne Dylan Roof viene scortato in tribunale dalla polizia, dopo aver compiuto la strage contro la chiesa di Charleston, simbolo degli afro-americani.

YEREVAN, ARMENIA Il getto degli idranti della polizia tenta di sedare le proteste della popolazione armena contro gli aumenti indiscriminati del prezzo dell’elettricità.


osservatorio sociale Monitoraggio dei principali eventi e fenomeni ribellistici ed eversivi nel nostro Paese

La pressione investigativa sugli antagonisti opo i gravissimi incidenti di Milano del primo maggio, che hanno visto all’opera anarchici provenienti da tutta Italia e da molti paesi europei, tutta l’area anarchica italiana ha dovuto subire la pressione investigativa di Magistratura e forze dell’ordine, impegnate nella ricerca dei responsabili e degli organizzatori delle violente manifestazioni con le quali gli antagonisti hanno tentato di sabotare l’inaugurazione di Expo 2015. Tuttavia la cronologia degli eventi dimostra che l’anarco-insurrezionalismo resta protagonista del conflitto sociale in Italia. Le violenze pre-elettorali, gli attacchi ai Bancomat, le occupazioni abusive e, soprattutto, l’invio di lettere esplosive ai CIE dimostrano tuttora buone capacità di coordinamento a livello nazionale nella pianificazione di “azioni dirette” contro gli obiettivi ormai classici delle forze antagoniste. Alla luce di queste riflessioni, vanno tenute in debito conto le minacce formulate dagli anarchici contro Poste Italiane, azienda ritenuta complice, attraverso l’operato della loro compagnia aerea Mistral Air, nella “deportazione” degli immigrati irregolari. Viste le citate capacità organizzative dimostrate sia in piazza che con gli attentati dalle formazioni anarchiche italiane nell’ultimo periodo, è lecito ipotizzare che anche questa estate sarà segnata da iniziative eversive, nel nostro Paese, lungo le direttrici “classiche” della prassi antagonista.

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MISTRAL AIR La società controllata da Poste Italiane nel mirino degli antagonisti

TIMELINE DEGLI EVENTI 13 maggio TRENTO Scontri con la polizia per lo sgombero di uno stabile occupato da due mesi dal gruppo “l’Assillo” 14 maggio FIRENZE Danneggiamento di cinque Bancomat, azione rivendicata come gesto di “solidarietà con i compagni dell’Assillo di Trento” 20 maggio TORINO, SONDRIO, LIVORNO, PISA Arrestati due hacker dell’organizzazione anarchica “Anonymous”, specializzata in sabotaggi informatici di siti istituzionali 21 maggio GENOVA Incendiato il blocco motore di un escavatore impegnato nel cantiere. Azione rivendicata dai “No Tav” 26 maggio ITALIA Minacce via internet: “I cieli bruciano. Fuoco ai CIE”. Il testo prevede azioni da compiere contro Poste Italiane e Mistral Air 27 maggio MILANO In via Torcello dati alle fiamme gli uffici della Italferr, società delle Ferrovie dello Stato che studia il potenziamento della linea ad Alta Velocità 28 maggio MILANO Durante un corteo di solidarietà con gli anarchici condannati in Val di Susa, devastata la sede della Lega di via Jacopino da Tradate

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copertina MAG-GIU-LUG

2015 Aggiornato al 3 luglio 2014

ATTENTATI LETTERE O PACCHI BOMBA

TRENTO

INCIDENTI DI PIAZZA RAPINE O AGGRESSIONI

MILANO

RISCHI O MINACCE

TORINO INO

ARRESTI GENOVA

FIRENZE


dietro lo specchio

L’ultima lezione del Professore L’Europa non è più quella che era dieci anni fa. È cambiata (in peggio)

ex premier italiano Romano Prodi, accanito sostenitore dell’ingresso dell’Italia nell’euro, recentemente ha dato due interessanti notizie, separate ma strettamente connesse. La Grecia è entrata nell’euro truccando i conti, e Francia Germania e Italia lo sapevano. Come d’altronde - ma non ha spinto fin qui l’outing - erano truccati anche i loro di conti, compresi quelli della sedicente virtuosa Germania. Con le obbligazioni della KFW Bank statale tenute fuori dal debito pubblico. Serviva l’euro in quel momento, e le irregolarità sarebbero state riassorbite dai vantaggi. Questo, almeno, era quello che speravano Francia, Germania e Italia. Serviva, insomma, quell’Europa e ci misero pure la Grecia, Paese debole con un’economia ai minimi termini, una scarsa massa di popolazione attiva per coprire le spese pubbliche e una corruzione alle stelle. La seconda notizia è sulla fine di quell’Europa. Afferma al riguardo Prodi: “Sia di fronte ai fatti del Nord (Ucraina) sia di fronte ai fatti del Sud (immigrazione) è divisa. Non è più quella che era dieci anni fa. È cambiata”. Francia, Spagna e Ungheria hanno fatto muro sulla distribuzione di quote dell’immigrazione ormai biblica che si sta riversando in Italia e Grecia, dalle guerre e dai varchi aperti in Africa e Medio Oriente e dalla destabilizzazione supportata dall’Occidente.

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il crollo (preventivato) della grecia La Grecia, durante l’euforia dell’euro - finita con la crisi scatenata da Wall Street - se l’è spassata. E se la sono spassata anche le banche (soprattutto quelle tedesche) che hanno speculato su quel trend di vita al di sopra dei numeri dell’economia. Il debito greco non è enorme in sé, è enorme rispetto alle capacità di ripagarlo per la congenita debolezza economica, cui si sommano gli enormi costi pubblici della diaspora in 230 isole. La Grecia non potrà mai ripagare il debito, quindi non starà più nell’euro. O, almeno, nel suo circuito principale. Qualunque sia l’escamotage inventato per ridurne gli effetti collaterali. Ma questo circuito secondario dell’euro - a moneta mista, o comunque esso sarà - non potrà riguardare solo la Grecia. Tratto il dado della sua possibile uscita, la sopravvivenza dell’euro potrà necessariamente valere il confino nel circuito “B” anche di altri Paesi con debito a rischio. La prima soggetta all’onda d’urto sarà l’Italia. In cui altri magheggi di bilancio hanno fatto il paio con roboanti annunci, a camuffare un ulteriore - e depressivo aumento delle tasse, con un piglio di governo da poteri speciali in fatua approssimazione della dittatura di Roosevelt nel New Deal. Non fosse che lui seppe tirare avanti il bluff della ripresa economica fino a che, provocando il Giappone tagliandolo fuori dal mercato del petrolio, riuscì a trascinare in guerra i recalcitranti Stati Uniti, riavviando così l’industria (bellica in primis) e prendendosi poi il dominio dell’Occidente. La guerra che aspetta l’Italia è invece quella sotto le sue coste scatenata nel Nord Africa e dell’esodo africano cui sta già facendo fronte. Una guerra in perdita.


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un libro al Mese

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fascia costiere, lo Stato Islamico potrà lo scontro usa-russia A differenza nostra, dopo il soqqua- fungere da terminale del gas qatariano. dro causato nel Mediterraneo e in Me- Hoc erat in votis. dio Oriente, gli USA hanno spostato a In generale, l’importante è che - mennord il loro interesse. La loro “New tre a Nord si rafforza la New Europe Europe “in costruzione (salvo un’im- USA-NATO - sia impedito alla Russia di probabile perdita di presa sugli alleati riattivare il progetto South Stream. Radella NATO) serve adesso per costrin- gione per cui nei Balcani proseguirà la gere la Russia a rintanarsi nei confini destabilizzazione avviata in Macedoimpedendole di mettere in discussio- nia, con la speranza di scatenare una ne l’egemonia globale americana. guerra tra musulmani e cristiani ortoL’attacco in Ucraina ha ovviadossi. In tutto ciò non va dimentimente questo scopo, ma non cato il Caucaso e tutti quegli è isolato. La NATO sta rafaltri teatri di guerra in cui ci è In CorSo forzando la presenza in siano sunniti, locali o inLA CoStruzIone tutto l’arco dell’Europa filtrati da jihadisti, pagati dI unA del nord, facendo perno dai reami del Golfo. su Germania, Polonia, NEW EUROPE Paesi Baltici e Norvegia, perché è VoLutA dAGLI con un progetto a medio irrealizzaBile AMerICAnI termine di replicare le riun’europa unita volte di Piazza Maidan in Il premier britannico David Bielorussia, contando su una Cameron, in contemporanea, ha sponsorizzata opposizione, sulle ri- ammonito: “l’UE non è fondata sulvendicazioni delle minoranze (polac- l’euro”. C’è anche la sterlina, infatti. che, ucraine e lituane) e sulla presi- Se già c’è un’altra moneta, questo il denza autoritaria di Lukashenko, retta messaggio di Cameron, altre ce ne posul rigido controllo di un servizio se- tranno essere, comprese quelle deboli greto ancora chiamato KGB. dei Paesi che rimarranno ai margini Sempre nel Nord Europa vi è sicura- della New Europe nordica. mente l’idea di spingersi fino alle riNo, l’Europa sperata dall’incauto sorse energetiche dell’Artico. Chiusa Prodi - caduto nelle false promesse sul la Russia dietro un muro di missili e Britannia - non c’è più. Ce ne saranno carri armati, l’Europa dovrà pur trova- due. Quella più ricca e determinata a re il gas per le sue industrie. Più diffi- Nord, che potrà finire in guerra di docile sfruttare il corridoio sud che col- minio con la Russia. E quella al Sud, lega al Bacino del Levante e al Medio più povera e inconcludente soggetta a Oriente. Qui, una volta consolidato e sconquassi e guerra di sopravvivenza reso presentabile e ridotta la Siria alla tra Mediterraneo e Balcani.

chi è il nemico? di Alain Bauer Altran Italia - pp. 55 onoscere l’Islam, imparare a discernere tra le sue confessioni religiose e la minaccia jihadista, rapportare questo complesso mondo al nostro. In un volume di 55 pagine Alain Bauer, professore di criminologia presso il Conservatorio Nazionale delle Arti e dei Mestieri di Parigi, offre un saggio pratico per analizzare l’evoluzione del terrorismo di matrice islamica: dall’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 all’avanzata dello Stato Islamico del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi. Capire Chi è il nemico?, questo il titolo del lavoro di Bauer, significa anzitutto intercettare i suoi cambiamenti. Solo così sarà possibile prevedere quale direzione prenderà la scia del terrore: colpiti gli Stati Uniti, emblema del nemico occidentale, la sfida è adesso lanciata contro i regimi paraislamici takfiri (infedeli) e contro lo Stato di Israele. Ma non solo. Perché crocevia di questo percorso è l’Europa, in balia degli attacchi sferrati dalle nuove reclute del jihad, gli emarginati delle sue periferie, le “armate dei rivoltosi”. Quale sarà il destino del Vecchio Continente, si chiede l’autore? Difficile pensare, come affermano alcuni dirigenti della Fratellanza Musulmana, a una “nuova frontiera islamica” frutto degli imponenti flussi migratori provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. Più probabile, invece, “che l’Europa come gli stessi Stati Uniti potranno diventare area del jihad della spada nella misura in cui l’avversario, noi, si mostrerà debole e incapace di difendersi”.

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LOOKOUT 16 - maggio-giugno 2015

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