PrimoPianoTurismo

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INDICE INTRODUZIONE 1.

Thera-Santorini: nasce qui la leggenda della mitica Atlantide? .........................................................................................

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Da Tiro del Libano a Gadir in Spagna: le rotte dei navigatori fenici .................................................................................................

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3.

Le sette meraviglie del mondo antico ........................................

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4.

Pellegrini all’oracolo di Delfi .........................................................

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5.

Il piacere della tavola in Grecia e a Roma ..................................

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6.

Verso i giochi di Olimpia ...............................................................

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7.

L’ellenismo: da Alessandria a Pergamo come cittadini del mondo ........................................................................................

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8.

Il tempo libero dei romani al circo o alle terme ........................

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9.

Per le strade di Roma e dell’impero romano .............................

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10. Viaggiare nell’antichità ..................................................................

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11. L’alimentazione nel Medioevo ......................................................

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12. Una viaggiatrice moderna all’alba del Medioevo: Egeria .........

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13. In viaggio con i vichinghi ..............................................................

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14. Ospiti nel monastero benedettino ...............................................

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15. Le vie dei pellegrini nel Medioevo: il cammino di Santiago .....

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2.


INTRODUZIONE Premessa L’analisi di argomenti legati a diversi fattori sociali come il viaggio e l’alimentazione, e a manifestazioni artistiche e spirituali, come l’architettura, o la religione, rappresenta un approccio privilegiato per lo studio delle trasformazioni intervenute nella storia della civiltà umana sin dall’antichità.

Obiettivi del fascicolo Lo spirito della proposta consiste nello sforzo di agevolare lo studio della storia in modo da renderla vicina all’esperienza dei giovani e allo stesso tempo utile a creare legami di comprensione e confronto tra passato e presente.

Organizzazione delle schede Il fascicolo è composto da schede che intendono sollecitare i ragazzi a una lettura del passato in stretta correlazione con il tempo presente, sia attraverso l’esperienza diretta, sia grazie alle prospettive offerte dai media del villaggio globale. • Le schede si presentano come delle brevi monografie illustrate, corredate di apparato didattico, bibliografia e sitografia. • Le sezioni sono corredate da brevi indicazioni didattiche volte soprattutto a sollecitare la riflessione e a fornire imput di ricerca per gli studenti. • Possono essere affrontate indipendentemente le une dalle altre e in relazione o meno con le unità del manuale, a seconda delle esigenze dell’insegnante. • Esse costituiscono un prezioso strumento complementare per il lavoro in classe o a casa, in quanto sono autoconclusive e di facile lettura per i ragazzi. • In chiusura si offrono alcuni riferimenti bibliografici.


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Primo piano sull’ospitalità e sul turismo XI SECOLO

776 Svolgimento della prima olimpiade.

Colonizzazione fenicia del Mediterraneo ed evoluzione delle tecniche di navigazione.

VIII-VII SECOLO Nell’Odissea si accenna ad alcune abitudini alimentari greche.

VII SECOLO

IV SECOLO

Primo sviluppo del santuario di Delfi.

Callimaco di Cirene elenca le sette meraviglie del mondo.

V-IV SECOLO

1500

Platone dà notizia dell’esistenza di Atlantide.

323 Morte di Alessandro Magno.

Eruzione vulcanica a Santorini.


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X SECOLO

San Benedetto da Norcia fonda il monastero di Montecassino.

Nell’Europa medievale si impoverisce la dieta delle classi piÚ umili a causa della crescita demografica.

79 Eruzione del Vesuvio a Pompei.

IV SECOLO Egeria intraprende il suo lungo viaggio in Oriente.

IX SECOLO

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Invasioni e scorrerie vichinghe in Europa.

Viene ultimata la basilica di Santiago de Compostela.


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Primo piano sull’ospitalità e sul turismo

1. THERA-SANTORINI: NASCE QUI LA LEGGENDA DELLA MITICA ATLANTIDE? Film e romanzi famosi ci hanno abituato a immaginare la mitica isola di Atlantide immersa nel fondo dell’Oceano Atlantico; da sempre oggetto di infinite ricerche da parte di archeologi e avventurieri, dell’isola viene per la prima volta data notizia nel Timeo, celebre opera del filosofo greco Platone, vissuto tra il V e il IV secolo a.C.: “L’Oceano Atlantico aveva un’isola posta dinanzi allo stretto che voi chiamate Colonne d’Ercole. L’isola era più grande dell’Africa e dell’Asia unite insieme. In quest’isola, chiamata Atlantide, v’era un grande e meraviglioso impero, che dominava l’isola stessa insieme a molte altre e a parti del continente. Inoltre, al di qua dello stretto, gli uomini di Atlantide dominavano le regioni dell’Africa sino all’Egitto e dell’Europa sino all’Etruria”.

possedevano tante ricchezze quante mai ne ebbero in precedenza sovrani e potenti”. Il quadro che risulta dalle parole di Platone è tanto attraente quanto fantastico perché riassume le massime aspirazioni dell’uomo di ogni tempo e, come ogni mito, non tiene conto dei confini che la realtà impone ai sogni. Ma allora perché il mito di Atlantide, così lontano Statua raffigurante Platone conservata ad Atene.

Il mito Si tratta in effetti di un cenno o poco più che viene ripreso successivamente anche in un’altra opera dello stesso Platone, Crizia: “Gli abitanti di Atlantide

La mitica isola di Atlantide.


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greco oltre le colonne d’Ercole, lo stretto di Gibilterra, al di là cioè dei confini che gli antichi consideravano il limite delle terre che circondavano il Mediterraneo. Le colonne d’Ercole costituivano il limite del mondo conosciuto dai popoli del Mediterraneo e soprattutto dai navigatori: le navi in uso presso i popoli antichi, utilizzate anche da quelli che si sono sviluppati mediante il commercio marittimo, come per esempio i fenici e i cretesi, non erano tali da consentire viaggi che potessero affrontare l’ignoto che attendeva chi avesse oltrepassato questa barriera.

L’isola di Thera

Il moderno monumento simbolo delle Colonne d’Ercole a Gibilterra.

nel tempo, suscita da sempre tanto interesse da spingere davvero periodicamente i ricercatori ad annunciare il ritrovamento dei suoi resti in fondo al mare? Si tratta probabilmente dell’effetto dell’innata curiosità umana, mai sazia di scoperte e attratta da tutto ciò che sfugge agli strumenti della conoscenza a nostra disposizione. A ben vedere però ogni mito, anche il più ardito (come per esempio quello di Icaro, che riflette tra l’altro l’antico sogno dell’uomo di volare, o quello di Minosse, re di Creta), si ispira ad alcuni aspetti della realtà che, trasformata dalla fantasia, dà corpo e forma alla leggenda. Stando così le cose, se cioè Atlantide non è altro che il risultato della fertile fantasia degli antichi, possiamo però a buon diritto domandarci come abbia avuto origine questo mito e cercare così il luogo, o il fatto, che lo abbia almeno ispirato.

Il fatto quindi che si collocasse Atlantide al di fuori delle rotte tracciate dai marinai del tempo antico è funzionale alla collocazione del mito in una dimensione che in tal modo sfuggiva alla verifica da parte degli uomini. Così si spiegherebbe la collocazione del mitico continente sommerso nell’oceano ma non la sua ”creazione”, che invece può essere ricondotta alla vicenda che riguarda l’isola greca di Thera, l’odierna Santorini. Ci dobbiamo quindi spostare al centro dell’Egeo, nell’arcipelago delle Cicladi: 3500 anni fa Thera vedeva il suo massimo sviluppo. L’isola costituiva, infatti, un importante snodo nell’arcipelago delle Cicladi per i traffici commerciali che collegavano Creta, sede di una civiltà fiorente, con le altre isole dell’Egeo, con l’Asia e la Grecia. Qui gli archeologi, Veduta satellitare dell’isola di Santorini.

Le origini Proviamo così a leggere con più attenzione i passi tratti dalle opere di Platone che abbiamo citato: possiamo notare che Atlantide viene collocata dal filosofo

Bibliografia MANCA


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Primo piano sull’ospitalità e sul turismo

L’insenatura formatasi in prossimità del cratere dopo l’eruzione a Santorini.

durante la campagna di scavi del 1966, hanno portato alla luce i resti di splendidi e imponenti palazzi decorati da pitture che richiamano, per i colori e le scene, quelle dei palazzi cretesi, oltre che ampi magazzini dove giacevano ancora i resti di anfore che dovevano contenere vino e olio.

La fine di questa splendida civiltà Verso il 1500 a.C. una eruzione del vulcano che si trovava al centro dell’isola, cui fece seguito un violento tsunami, annientò senza rimedio l’intero villaggio lasciando al suo posto, in prossimità del cratere, un’insenatura occupata ancora oggi dal mare. Gli archeologi non hanno trovato sepolti dagli strati di detriti e lapilli né oggetti preziosi né resti umani, prova del fatto che gli abitanti dell’isola furono in grado di mettersi in salvo, probabilmente avvertiti dai fenomeni sismici che solitamente precedono le eruzioni vulcaniche. L’isola di Santorini che oggi, proprio in conseguenza di quella eruzione, ci appare come una singolare conformazione a mezza luna, ha dunque rappresentato la culla di una splendida civiltà mercantile, ricca e pacifica, improvvisamente scomparsa a causa di uno

spaventoso cataclisma. Possiamo immaginare l’eco che ebbe la notizia di un evento così devastante negli uomini delle terre vicine, i quali poterono solo immaginare quanto veniva narrato dai testimoni diretti della vicenda. Il mito di Atlantide dunque con buona probabilità nasce dalla ispirazione offerta dalla catastrofica fine di una civiltà pari, per ricchezza e raffinatezza, a quella cretese. 1 Che cosa spingeva gli uomini antichi a cre-

are un mito? Si tratta di un prodotto esclusivo della fantasia o si basa anche su fatti storici? Ci sono miti nati nel nostro tempo? Puoi confrontarli con quelli antichi? 2 Quale fenomeno può essere stato all’origi-

ne del mito di Atlantide?

Bibliografia E.E. Cayce - G.C. Schwartzer, I misteri di Atlantide, Roma, ed. Mediterranee, 1996.


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2. DA TIRO DEL LIBANO A GADIR IN SPAGNA: LE ROTTE DEI NAVIGATORI FENICI I fenici si possono definire un popolo marittimo a tutti gli effetti perché vivevano più in mare che sulla terraferma: usavano infatti la terra solo ed esclusivamente come base da cui potersi allontanare di continuo per solcare il mare con le loro imbarcazioni. Essendo i fenici un popolo militarmente debole, il mare rispondeva meglio alle loro esigenze di vita rispetto alle insicurezze offerte dalla terraferma, continuamente soggetta a invasioni spesso violente da parte di altri popoli. È evidente quindi che i fenici vivessero intensamente l’esperienza del viaggiare, ben meritando l’appellativo di “nomadi del mare”.

Le città Da sempre proiettati nel Mediterraneo, essi migrarono inizialmente dalla zona di confine tra Siria e Palestina giungendo sino alle coste del Libano, ricche del legno dei cedri; qui fondarono molte città, la più importante delle quali fu Hiram. Posta su una baia particolarmente protetta dal promontorio antistante, Hiram rappresentava una sorta di “nascondiglio” sul mare, cioè un approdo sicuro: senza questa intuizione i fenici non avrebbero potuto difendere, con le loro deboli forze, le ricchezze accumulate contro le potenze di terra e per questo cercarono di interporre il mare tra loro e Rilievo raffigurante una imbarcazione fenicia rinvenuto a Cartagine.

i potenziali nemici. Fu determinante anche la fondazione di Tiro, situata in una posizione altrettanto strategica, insieme alla vicina Sidone; queste città, anche se sorgevano sul mare, erano ricche di pendii, rocce scivolose e baie seminate di scogli che avrebbero fatto desistere qualunque invasore dall’intraprendere un attacco, che appariva un’impresa assai pericolosa. Un altro centro, Ahsiv, offriva un porto in una posizione davvero strategica, poiché il territorio della città era costituito da terrazze pietrose che si affacciavano sul mare e che davano origine a violenti vortici e grandi gorghi: in tal modo i fenici ottennero un porto nel quale due o quattro navi potevano attraccare senza essere viste dal largo. Alle spalle della città si innalzava una collinetta circondata da una zona paludosa dove si poteva avvistare l’avvicinamento dei nemici e, nel caso, prendere il largo verso il mare.

Le navi Come ricordavamo, fu proprio grazie alla presenza delle grandi foreste presenti nella catena del Libano, ricche di legname adatto alla costruzione di navi, che i fenici divennero i più importanti costruttori di imbarcazioni dell’antichità, sviluppando conseguentemente nuove tecniche di navigazione: durante il giorno localizzavano il punto in cui si trovava la nave prendendo come riferimento la posizione del sole mentre di notte si orientavano guardando le stelle, più precisamente la stella polare, conosciuta anche come “stella fenicia”. Va detto inoltre che, rispetto a quelle usate dagli altri popoli del Mediterraneo, le loro navi erano lunghe e strette, capaci di affrontare viaggi faticosi e talvolta molto lunghi. Erano formate da una chiglia, la cui invenzione ha portato grandi vantaggi nella navigazione e rendeva le navi più resistenti delle altre. La vela era sostenuta al centro da un albero e poteva essere quadrata o rettangolare, capace di sfruttare il vento che veniva da poppa. I remi assicuravano di avanzare nella navigazione anche senza vento, manovrati da schiavi o rematori sui due lati. A volte remavano anche quando c’era vento perché così facendo


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andavano più veloci nella loro corsa. Ma il timone fu la più grande invenzione dei fenici; esso serviva per manovrare meglio la nave durante la navigazione. All’epoca era molto primitivo, infatti era costituito da due enormi remi, che, messi a prua, consentivano di manovrare la nave in corsa.

Le rotte commerciali Con lo sviluppo di queste tecniche e di nuove e potenti imbarcazioni, i fenici estesero la loro rete commerciale a tutto il Mediterraneo; la loro espansione lungo le coste, dall’oriente fino all’occidente, rappresentò un grandioso fenomeno storico e culturale e diede luogo al costituirsi di un mondo fenicio d’occidente e uno d’oriente. A bordo dei bastimenti carichi di merci erano imbarcati anche viaggiatori diretti oltremare verso le principali città del bacino del Mediterraneo. I grandi itinerari, che erano percorsi dalla flotta commerciale fenicia e conducevano dai mercati del Levante ai giacimenti e alle colonie di Occidente, furono sempre costanti. Una prima rotta, detta anche rotta meridionale, che sviluppava oltre tremila miglia e che rimase quasi costantemente attiva, fu quella che dalla costa siro-palestinese conduceva lungo i lidi spesso deserti dell’Africa settentrionale, fino agli insediamenti situati sui versanti dell’attuale Marocco e della penisola iberica fino a Gadir, toccando le coste dell’Italia sino alla Sardegna. Possiamo immaginare quanto potesse influire un’attività commerciale così intensa ed estesa nello sviluppo di una mentalità aperta da parte dei fenici verso le usanze dei popoli con cui entravano in contatto, a tal punto da diventare abili nell’arte della

mediazione diplomatica. La loro fama, tuttavia, non era condivisa da tutti: i greci per esempio attribuivano ai mercanti fenici una spregiudicatezza tale da identificarli con i pirati che rapivano e depredavano senza scrupoli le grandi navi commerciali attuando violenti assalti nei mari. A tale riguardo, nell’Odissea appaiono emblematiche le parole di Eumeo, il guardiano dei porci di Ulisse, che racconta di essere stato rapito e rivenduto come schiavo da un fenicio.

La porpora I prodotti esportati dai fenici, particolarmente richiesti e apprezzati dai mercati, erano il frutto delle loro notevoli abilità artigianali; certamente furono la porpora, il vetro e i metalli preziosi a determinare la fama dei fenici nei mercati di tutto il Mediterraneo: l’introduzione della porpora nella tintura delle stoffe, per esempio, rappresenta un fattore di estrema importanza storica, oltre che economica, a tal punto da connotare, con il nome del colore porpora (phoinix), il nome stesso dei fenici. Presso i popoli antichi, il colore rosso era emblema di ricchezza e quindi di potere, anche per la rarità del pigmento necessario per ottenere una buona tintura che non stingesse e scolorisse in breve tempo. La porpora era impiegata dunque per ottenere una tintura indelebile (perciò particolarmente pregiata) delle stoffe di lino o di lana, prodotte localmente o importate dall’antico Egitto. La fabbricazione del pigmento necessario per ottenere la tintura veniva effettuata raccogliendo un Una nave fenicia.


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Uno dei tipici prodotti dell’artigianato fenicio conservato al museo di Cartagine.

LA COLONIZZAZIONE FENICIA oceano Atlantico

mar Nero

Cadice Malaga Tangeri

Olbia

Ibiza Mastia Gunugu

Rusaddir

Tharros Sulcis

Caralis Mozia Palermo Hippo Utica

Cartagine Adrumeto

Anato lia Grecia

mar Mediterraneo Sabratin

Leptis Magna

rado o Arado Biblo Berito erito Sidone Tiro o

Cizio

Malta

Rodi Cipro Creta

Fenicia Egitto

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m

Zone in cui vennero fondate colonie fenicie

o ss Ro

particolare genere di molluschi reperibile in grandi quantità nei bassi fondali di tutte le coste del bacino mediterraneo.

Il vetro Un’ulteriore attività artigianale caratteristica del mondo fenicio, al quale tuttavia è da attribuire non la paternità bensì la diffusione, è la produzione del vetro. Scoperto nell’antico Egitto e prodotto in quantità apprezzabili attorno alla metà del II millennio a.C., il vetro fu oggetto di produzione e di commercio da parte dei fenici. Se si sorvola, come si è detto, sulla leggenda che attribuisce erroneamente l’invenzione del vetro proprio ai fenici, si comprendono i motivi che permisero a questo popolo di impadronirsi della tecnica di lavorazione e di rappresentarne il maggior veicolo di diffusione in tutto il Mediterraneo. La pasta vitrea veniva ottenuta con la fusione a elevate temperature di silicati di calcio, particolarmente diffusi nella sabbia delle spiagge del Libano. L’agevole reperimento della materia prima permise indubbiamente lo sviluppo di questa attività artigianale e la produzione di oggetti, quali ampolle colorate vistosamente con pigmenti minerali, ai quali ben si attagliava la qualifica di beni pregiati e che, oltre all’indubbio valore, univano le qualità di minimo ingombro e di ampio profitto per il trasporto navale.

I gioielli Oltre che per la produzione del vetro, i fenici erano noti in tutto il Mediterraneo anche per quella dei metalli preziosi e, in particolare, della gioielleria; l’in-

Un antico unguentario fenicio.

novazione portata dalle botteghe artigianali fenicie consistette nell’affinare al massimo grado le tecniche e le rese artistiche già in uso nel mondo orientale. Particolare importanza assume l’abilità artigianale, propria dei fenici, nella rielaborazione delle materie prime reperite nei mercati d’oltremare, la cui costante ricerca era necessaria per alimentare le botteghe della madrepatria. Si ricorderanno a questo proposito la lavorazione dell’avorio (per ottenere pissidi, amuleti o, principalmente, intarsi da inserire in suppellettili lignei quali seggi, letti o stipi e oggetti da esportare presso le vicine corti orientali), oppure l’intaglio delle pietre preziose o dure, dalle quali venivano ricavati pendenti e sigilli, questi ultimi particolarmente importanti per l’apposizione di impronte su documenti ufficiali o di viaggio. 1 Quali fattori hanno contribuito a fare dei

fenici un popolo di mercanti? A tale riguardo ti sembrano importanti le risorse ambientali presenti nel loro territorio? 2 Quali aspetti ti sembrano caratterizzare

l’indole di questo popolo? Che rapporti intrattengono i fenici con i popoli vicini? 3 Dove fondano le loro città? Che caratteristiche del territorio ritenevano indispensabili per la fondazione di una città? Bibliografia S. Moscati, I fenici e Cartagine, Torino, UTET, 1972.


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3. LE SETTE MERAVIGLIE DEL MONDO ANTICO La percezione della realtà che aveva l’uomo del mondo antico è certamente più circoscritta di quanto sia quella che abbiamo oggi, anche grazie ai mass media che ci permettono di vedere in tempo reale ciò che accade in tutto il mondo. Inoltre, la possibilità di spostarsi anche per lunghe tratte in tempi relativamente brevi, grazie ad aerei e a treni sempre più veloci, ha determinato una percezione diversa delle distanze e dello spazio in generale. Possiamo affermare quindi che, almeno attraverso i media se non di persona, ciascuno di noi può compiere un giro del mondo alla scoperta delle sue meraviglie. Gli antichi, invece, potevano disporre di poche informazioni, tramandate spesso solo oralmente, integrate all’occorrenza dalla fantasia che provvede, ieri come oggi, a deformare i contorni della realtà. Ecco allora spiegati i miti e leggende con cui l’antichità interpretava ciò che sfuggiva ai mezzi della ragione umana o che non era alla portata dell’esperienza diretta. L’orgoglio, innato nella natura umana, se in parte ha spinto sempre l’uomo a sfidare i suoi stessi limiti, per altro lo ha portato anche a definire, ordinare e classificare la realtà che lo circonda. Da questa seconda inclinazione è nata la definizione delle sette meraviglie del mondo. Lo storico greco Erodoto, nel V secolo, indicava alcuni monumenti in Egitto e

La piramide di Cheope.

a Babilonia, la cui magnificenza era tale da essere considerata unica nel mondo conosciuto. Un secolo dopo, Callimaco di Cirene, uno degli studiosi della biblioteca di Alessandria d’Egitto, definiva una lista di sette costruzioni frutto della genialità umana, sette meraviglie da ammirare.

La piramide di Cheope

Erodoto

Il numero sette ha sempre avuto valore sacrale nella sensibilità antica, in molte culture: sono sette per esempio i giorni impiegati per la creazione dell’universo, come viene narrato dalla Bibbia nel libro della Genesi, sette i colli su cui sorge la città eterna, Roma: sette è un numero perfetto dunque, con il quale riassumere le grandi opere che l’ingegno umano era stato capace di creare. La più antica delle sette meraviglie si trova in Egitto, a Gizah, a 11 km dal Cairo, ed è la più alta piramide della valle, fatta costruire da Cheope, faraone della IV dinastia. La tomba del sovrano egizio raggiungeva un’altezza complessiva di 146 metri per 230 metri di lato, edificata in venti anni di duro lavoro con sette milioni di tonnellate di pietra da circa centomila persone tra tecnici e manovali. La piramide faceva parte di un più vasto complesso funerario che comprendeva edi-


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Pausania nel II secolo d.C., il quale ricordava come l’immagine di Zeus si presentasse, a chi giungeva nei pressi del tempio, seduta in trono, coronata di ulivo, con indosso un mantello decorato da gigli e ai piedi dei calzari d’oro. Nella mano destra Zeus teneva una statuetta della Nike, ovvero la vittoria, nella sinistra impugnava lo scettro; la decorazione del trono era ricchissima. Nel resoconto del suo Viaggio in Grecia, Pausania ricorda che al cospetto di tanta solenne maestà si aveva l’impressione che Zeus fosse realmente presente, vivo. La statua andò distrutta in un incendio nel 475 d.C. e non ne rimangono copie, nonostante la grande fama che ebbe nel mondo antico.

I giardini di Babilonia

L’illustrazione rappresenta la statua di Zeus, scolpita da Fidia, così come doveva apparire all’interno del tempio eretto in suo onore.

fici di culto e piramidi più piccole per i membri della famiglia reale. Mentre l’esterno è rivestito da blocchi di pietra proveniente dalle cave di Tura, lungo il Nilo, l’interno si presenta suddiviso in tre camere poste a diversa altezza, il cui accesso è consentito tramite corridoi, rampe, gallerie. La più alta e la più grande delle tre sale era destinata a ospitare la mummia del faraone, ma per problemi strutturali, intervenuti assai presto, non fu mai utilizzata allo scopo per cui era stata predisposta. Come per i turisti di oggi del resto, la visita della piramide da parte di un viaggiatore dell’antichità doveva risultare un’esperienza davvero meravigliosa!

Il tempio e la statua di Zeus Più recente rispetto alla piramide di Cheope, la seconda delle opere annoverate tra le meraviglie dell’antichità si trovava in Grecia, a Olimpia, e risale al 471 a.C.: si tratta del grande tempio eretto in onore di Zeus, che conteneva la imponente statua del dio scolpita dal celebre artista greco Fidia. Alta ben 12 metri e arricchita da inserti in oro e avorio, la statua fu descritta dal celebre scrittore di viaggi

Fra tutte le meraviglie, la più suggestiva e al tempo stesso sfuggente è certamente quella dei giardini di Babilonia. Se buona parte di tutte le altre opere è scomparsa e giunge fino a noi solo attraverso il racconto e la testimonianza di fonti indirette come iscrizioni, riproduzioni sulle monete e racconti di antiI giardini di Babilonia.


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chi viaggiatori, non si conosce con esattezza neppure dove fossero collocati i giardini che abbellivano la città fondata dal grande re Sargon di Accad sulla riva dell’Eufrate, a 80 km dall’odierna Bagdad. Un viaggiatore, nel 250 a.C., Filone di Bisanzio, ci ha fornito la descrizione di questi giardini con grande ricchezza di particolari: “I giardini pensili sono detti così perché hanno piante coltivate in alto rispetto al livello del terreno e le radici degli alberi affondano in una terrazza superiore invece che a terra. L’enorme costruzione è sostenuta da colonne di pietra cosicché l’intero spazio al di sotto di essa è occupato dai basamenti delle colonne decorati a rilievo. Le colonne sostengono dei travi disposti a intervalli molto ravvicinati, fatti di tronco di palma perché questo tipo di legno non marcisce e quando è umido e sottoposto a forte pressione si incurva verso l’alto. Questa struttura sorregge una poderosa ed estesa massa di terra nella quale affondano le radici di alberi dalle foglie larghe e una grande varietà di fiori di tutte le specie.”

Il mausoleo di Alicarnasso La serie delle meraviglie comprendeva anche un grandioso monumento funebre dedicato a Mausolo, satrapo della Caria, in Asia Minore, dalla moglie-sorel-

la Artemisia. Dal nome di Mausolo deriverà in seguito il termine che indica i monumenti funerari, detti appunto “mausolei”. L’opera sorgeva ad Alicarnasso, capitale della regione della Caria, e venne costruita per ospitare i resti del sovrano morto nel 352 a.C. Anche in questo caso dobbiamo affidarci al ricordo di un viaggiatore dell’antichità, lo scrittore romano Plinio il vecchio, il quale racconta che la struttura, davvero imponente, raggiungeva in totale 42 metri di altezza ed era costituita da un alto corpo di base sovrastato da un colonnato di 36 colonne e da una piramide di 24 gradini, la cui sommità era coronata dalla scultura di una quadriga.

Il tempio di Artemide Due delle sette meraviglie hanno in comune lo scopo della loro costruzione: erano doni fatti alla divinità per riconoscenza della benevolenza dimostrata dagli dei in occasione di campagne militari. Per questo a Efeso, sulla costa occidentale dell’Anatolia, si innalzava il grandioso tempio dedicato ad Artemide, detto Artemision. Sorto nel 334 a.C. per volontà di Alessandro Magno, il tempio doveva costituire un’offerta alla dea della fecondità per il buon esito della campagna militare in Persia a cui il sovrano si stava accingendo. Il mausoleo di Alicarnasso. I resti del tempio dedicato ad Artemide (Artemision) a Efeso.


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Il mitico faro di Alessandria, nell’isola di Faro.

Il Colosso di Rodi, la statua raffigurante il dio Helios eretta nel 305 a.C.

Il colosso di Rodi A Rodi, colonia dorica dell’Asia minore, nel 305 a.C. fu eretta la statua di Helios per celebrare la vittoriosa resistenza della città all’assedio del re macedone Demetrio Poliorcete. La tecnica con cui fu realizzata l’opera dimostra il livello davvero elevato delle competenze tecniche raggiunte all’epoca. Il colosso era alto ben 32 metri, i piedi della statua erano fissati alla base marmorea con grossi perni di ferro mentre il corpo era costituito internamente da un’intelaiatura di ferro appesantita dall’inserimento di blocchi di pietra; all’esterno il rivestimento bronzeo era formato da varie parti assemblate e fissate all’intelaiatura mediante perni. Nella mano della statua brillava una fiaccola dorata, visibile da molto lontano sotto i raggi del sole del Mediterraneo, anche per gli antichi viaggiatori che si avvicinavano all’isola a bordo di una nave. Un’immagine, quest’ultima, che può richiamare alla nostra mente quella attualissima del porto di New York con il suo celebre simbolo, la statua della libertà.

ganti, con la fiamma che ardeva sulla sua sommità, l’ingresso nel porto della città. Si tratta in effetti del primo faro della storia della navigazione, che proprio all’isola deve il suo nome, e che raggiungeva la straordinaria altezza di 100 metri. La sua realizzazione, per volontà del re Tolomeo I, fu possibile anche grazie al finanziamento di un ricco uomo di corte che lo volle dedicato agli dei. 1 Perché gli antichi sentirono il bisogno di

indicare le sette opere più importanti prodotte dall’ingegno umano? Ti sembra che la necessità di classificare e definire le conquiste realizzate dall’uomo sia diffusa anche oggi? 2 Quali aspetti accomunano le sette meravi-

glie del mondo antico? 3 Che percezione della realtà avevano gli

uomini dell’antichità? Come si rapportavano con ciò che sfugge alla valutazione della ragione umana? Ti sembra che permanga anche oggi qualche traccia di quella mentalità?

Il faro di Alessandria L’ultima delle sette meraviglie sorgeva nell’isola di Faro, all’estremità ovest del Nilo, ed era la torre che, nei pressi di Alessandria d’Egitto, segnalava ai navi-

Bibliografia P.A. Clayton-M.Y. Price, Le sette meraviglie del mondo, Torino, Einaudi tascabili, 2005.


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Primo piano sull’ospitalità e sul turismo

4. PELLEGRINI ALL’ORACOLO DI DELFI Il variegato sistema delle poleis greche (profondamente diverse tra loro per leggi, sistemi di governo, eserciti ecc.) avrebbe reso davvero difficile, se non impossibile, il processo di acquisizione da parte dei greci della coscienza di essere un solo popolo, con comuni radici culturali, se non vi fosse stata la presenza dei santuari panellenici. In effetti, alcune località della Grecia agli occhi dei cittadini di tutte le poleis apparivano come luoghi sacri, dove cioè era possibile trovare, più che altrove, la manifestazione diretta della divinità. Dobbiamo ricordare che la religione praticata in Grecia venerava dei antropomorfi, caratterizzati non solo da aspetto fisico ma anche e soprattutto da personalità molto simili a quelli umani. Conoscere la volontà dei numerosissimi dei, raccolti in una grande famiglia nell’Olimpo, intorno al padre Giove e alla sua sposa legittima Giunone, era importantissimo per i greci che temevano di suscitare con i loro comportamenti oltraggiosi le avversità delle divinità.

L’importanza degli dei Ogni decisione di particolare rilevanza, sia privata che pubblica, era inoltre sottoposta al vaglio degli dei protettori della città o della famiglia, attraverso riti compiuti sia individualmente che mediante l’intervento dei Le divinità olimpiche ad Atene.

Giove, il padre degli dei, come tutte le altre divinità olimpiche era un dio antropomorfo. Qui è raffigurato in una copia romana di un originale busto greco, conservata ai Musei Vaticani di Roma.

sacerdoti. In ogni caso ogni città, mediante i riti pubblici cui prendevano parte tutti i cittadini in giorni previsti da un apposito calendario stabilito dai sacerdoti, tributava un culto specifico alle divinità di cui vantava la protezione particolare, ma a svolgere una funzione decisamente importante per tutta l’Ellade erano i santuari panellenici. Qui, a scadenze prefissate e con periodicità, i greci delle diverse poleis si riunivano, senza


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I ruderi del tempio di Zeus a Olimpia.

le tradizionali divisioni che in altri frangenti avrebbero reso impossibile la loro coesistenza pacifica, per celebrare feste, gare e riti in onore degli dei. I santuari panellenici furono quattro: quello di Zeus a Nemea, nel Peloponneso settentrionale, quello di Poseidone sull’istmo di Corinto e, frequentati da folle decisamente imponenti per i tempi, i santuari di Apollo a Delfi e di Zeus a Olimpia.

Un luogo di culto Il termine “santuario” definiva in sostanza uno spazio destinato esclusivamente al culto divino, dove non era lecito all’uomo alcun altro tipo di attività se non quella religiosa. Si trattava di un recinto inviolabile che gli uomini delimitavano all’interno delle città, nelle quali lo spazio che non era destinato alle abitazioni era occupato dalle attività umane. Per rendere possibile l’incontro con gli dei, si era quindi stabilito di delimitare un territorio dove si potesse entrare direttamente in contatto con il dio. Dapprima semplicemente coltivati come giardini alberati che sorgevano intorno ad altari di pietra, dove si svolgevano i sacrifici offerti alla

divinità, con il tempo i santuari andarono assumendo l’aspetto di veri e propri templi in pietra, costruiti secondo lo stile architettonico ionico o dorico. La caratteristica di costituire un’area che facesse da intermediaria tra realtà divina e umana contribuì a fare di alcuni santuari il luogo privilegiato per lo svolgimento di agoni, cioè gare. I greci infatti ritenevano che le dispute atletiche tra giovani aristocratici, condotte nel massimo rispetto di rigorose regole di lealtà e correttezza, ovvero le competizioni tra poeti o tra musicisti impegnati nella composizione di opere in versi o in musica, richiamassero presso il santuario il favore degli dei.

Riti, agoni e vaticinii Per i giovani greci gareggiare era un vero e proprio onore e la disputa assumeva anche il valore di rito con cui venivano considerati ormai a tutti gli effetti degli adulti. In ogni caso lo svolgimento delle gare era strettamente legato ai riti sacri che i sacerdoti tributavano alle divinità mentre i fedeli restavano fuori dalla cella del tempio. Oltre che grazie al richiamo


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Primo piano sull’ospitalità e sul turismo

rappresentato dagli agoni, il santuario era meta di continui pellegrinaggi a motivo degli oracoli da cui si potevano ottenere i tanto ambiti vaticinii. I greci infatti, nel momento in cui dovevano compiere delle scelte impegnative o in caso di situazioni che nella vita si rivelavano particolarmente difficili, interrogavano le divinità con la mediazione di specifici sacerdoti, gli indovini. Questi sapevano interpretare la volontà degli dei sia indirettamente, ovvero osservando per esempio il volo di uccelli, sia direttamente, essendo posseduti dallo spirito stesso della divinità che così poteva esprimersi per mezzo dell’indovino. Si diventava indovini per volontà della divinità stessa, che, tramite altri sacerdoti, manifestava direttamente la sua predilezione scegliendo gli eletti, senza distinzione di sesso, tra i bambini delle famiglie aristocratiche. I genitori, anche se può sorprenderci, erano felici di destinare un figlio o una figlia, sin dalla più tenera età, a questa funzione sacra, ritenendo che in quel modo avrebbero onorato la divinità ottenendone in cambio protezione per tutta la famiglia. Il santuario di Delfi nella Focide, sacro ad Apollo, era il più celebre, grazie alla uccisione che lo stesso dio avrebbe fatto del mostruoso serpente pitone, simbolo delle forze oscure e malefiche della terra. I ruderi del santuario di Apollo a Delfi.

Apollo, dio greco cui era dedicato il santuario di Delfi.

Proprio dal serpente pitone sconfitto dal dio, la sacerdotessa del santuario era chiamata Pizia; i fedeli che desideravano interrogarla venivano ammessi alla sua presenza nel momento in cui Apollo scendeva in forma di spirito dentro di lei: la Pizia, che la tradi-


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I PRINCIPALI LUOGHI DI CULTO

Monte Olimpo (Zeus, tutti gli dèi)

Dodona (Zeus)

mar Ionio

mar Nero

Samotracia (Ermes) Lemno (Ermes)

mar Egeo

Ege (Poseidone) Eleusi Chio (Demetra) (Dioniso) Corinto Atene (Poseidone) (Atena) Olimpia Samo Argo (Zeus) (Era) Epidauro (Era) (Asclepio) Delo Sparta (Apollo) (Era, Ares, Artemide) Coo (Asclepio) Delfi (Apollo)

Citera (Afrodite)

La Pizia intenta a pronunciare i suoi vaticinii assisa sul tripode.

zione vuole sedesse su uno sgabello a tre zampe, il famoso tripode, allora cadeva in uno stato di delirio e dava voce al suo dio pronunciando parole non sempre comprensibili. In seguito all’oracolo, dal senso spesso oscuro e misterioso, i sacerdoti dovevano spiegarne il senso, azzardando comunque interpretazioni non sempre chiare che venivano recapitate ai fedeli in forma scritta.

L’offerta dei doni A servirsi delle profezie della Pizia erano sia uomini comuni che personaggi potenti del mondo della politica, giunti al cospetto della sacerdotessa per sottoporre al dio diversi interrogativi; in ogni caso si trattava di vaticinii che, qualora non avessero poi trovato riscontro nella realtà, avrebbero potuto essere attribuiti all’errore di interpretazione commesso dai sacerdoti. I giorni dedicati alle consultazioni della sacerdotessa erano inizialmente molto ridotti, vennero gradualmente aumentati fino a diventare frequenti; l’affluenza dei pellegrini fu tale poi che per soddisfare tutte le richieste vennero impiegate fino a tre sacerdotesse che vaticinavano contemporaneamente. La consultazione dell’oracolo, in ogni santuario, comportava in cambio da parte dei fedeli l’offerta di doni che, a seconda delle possibilità e dell’importanza del personaggio che giungeva al santuario, potevano assumere anche valore rilevante.

Santuari e altri luoghi di culto mar Mediterraneo Era Divinità cui erano dedicati

Efeso (Artemide) Alicarnasso (Poseidone) Cnido (Afrodite)

Creta

In tal modo, grazie ai numerosissimi fedeli che raggiungevano questi luoghi sacri in ogni periodo dell’anno provenendo da tutta la Grecia, il tesoro che venne via via accumulandosi presso i santuari fu in breve tempo davvero ingente, contribuendo a fare delle località sacre anche importanti centri politici ed economici. 1 Quale funzione svolgevano i santuari nel

mondo greco? 2 Che idea avevano i greci delle divinità?

Quale rappresentazione ne davano? 3 Che cosa rappresentavano gli agoni per i giovani greci? Ti sembra che le competizioni agonistiche abbiano conservato oggi qualcosa del significato di allora? 4 A quale ceto appartenevano i pellegrini che giungevano presso i santuari panellenici per chiedere il vaticinio degli oracoli?

Bibliografia M.L. Finley, Gli antichi greci, Torino, Piccola biblioteca Einaudi, 1965.


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5. IL PIACERE DELLA TAVOLA IN GRECIA E A ROMA La tavola imbandita: un importante fattore di civiltà Una delle espressioni più significative della civiltà umana è la preparazione e la consumazione del cibo: sin dal Paleolitico l’uomo ha compreso l’importanza dell’uso del fuoco per rendere la carne degli animali cacciati più gradevole e digeribile, come anche ha apprezzato la possibilità di cuocere i frutti della terra rendendoli più appetibili; la cucina ha quindi assunto, di pari passo all’evoluzione umana, un significato sempre più complesso. Da semplice risposta alla fame, quindi a un bisogno primario, la preparazione dei pasti si è trasformata parallelamente allo sviluppo degli stili di vita. È evidente infatti che la tavola imbandita, anche oggi, presso ogni popolo della terra, diventa un’occasione di condivisione, di scambio di idee, molto di più che una banale risposta alla nostra fame! Sia che si consumi in famiglia o che si allarghi agli ospiti, il pasto ha sempre svolto un ruolo rilevante nella storia. Pensiamo a quanto racconta Omero nell’Odissea a proposito dell’ospitalità riservata dai Feaci al mitico Ulisse: il banchetto che viene preparato per fare degna accoglienza allo straniero viene consumato in un’atmosfera di autentica serenità, al consumo delle vivande si intercalano poi i discorsi tra i commensali interrotti solo dal sopraggiungere del cantore, che allieta l’occasione narrando piacevoli storie.

Le abitudini alimentari in Grecia e a Roma «I Feaci, sui cibi pronti, imbanditi, tendevano le mani. Poi, quando scacciata la voglia di bere e di cibo, la musa indusse l’aedo a cantare le glorie degli uomini». (Odissea, Libro VIII, 71-74) Per quanto si tratti di una narrazione mitica, frutto della fantasia di chi ha dato vita alle imprese di Ulisse, il passo dell’Odissea qui riportato è la rappresentazione attendibile di un modo di condividere il pasto assai diffuso nell’antica Grecia, dove al gusto del cibo si somma quello della narrazione da parte dell’aedo (il cantore delle imprese mitiche degli eroi greci).

Possiamo facilmente ipotizzare che su quella tavola imbandita i cibi presenti non dovessero essere molto elaborati: in Grecia, dove era particolarmente praticata la pastorizia, era largamente diffuso il consumo di formaggi che insieme al pesce rappresentava l’alimento principale della maggioranza degli abitanti. Le occasioni di particolare importanza, nelle case più agiate, erano rese ancor più solenni dalla presenza sulla mensa di carne arrostita allo spiedo, più spesso di montoni e agnelli che non di bovini, essendo questi ultimi entrati tardi nella pratica dell’allevamento. Verdure e cereali accompagnavano le portate più sostanziose, senza tuttavia costituire una vera e propria alternativa ai cibi di cui abbiamo detto. Per i Romani, e in generale in tutto il Mediterraneo, i momenti principali della giornata dedicati ai bisogni Rappresentazioni di frutta e pietanze sulle mura dei palazzi di Pompei.


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Ricostruzione di una strada cittadina con taverne, botteghe e venditori ambulanti.

della gola erano in linea di massima tre: la prima colazione, il pranzo a metà giornata e la cena nel tardo pomeriggio. I primi due erano semplici spuntini, consumati in fretta, senza grande attenzione alla elaborazione delle vivande che spesso venivano assunte fredde, senza la necessità quindi di impiegare i fornelli e il focolare, per i quali occorreva impegno e tempo. La cena diventava così il pasto principale della giornata, assumeva il valore di momento conclusivo dei traffici svolti in un clima che, nelle maggiori città dell’antichità, risultava non poco frenetico. A questo appuntamento i cittadini dei centri più grandi arrivavano spesso dopo essere passati alle terme, occasione di incontri e di socializzazione oltre che luogo di relax aperto a tutti, anche ai cittadini di estrazione sociale più umile. Se poi la sorte era propizia, nelle piscine o nelle saune termali era possibile

incontrare qualcuno da cui ricevere magari un invito a cena, niente affatto trascurabile per intrecciare nuove relazioni e amicizie! Ma se la cena risultava, almeno nelle case facoltose, l’occasione di gustare la gioia del cibo in piacevole compagnia, non va dimenticato che gran parte di coloro che non avevano i mezzi e le comodità dei ricchi, per mangiare dovevano arrangiarsi e molto spesso i pasti venivano consumati per strada: come accade oggi nei moderni fast food, taverne e venditori ambulanti provvedevano alla ristorazione veloce, offrendo un po’ di tutto: olive, pesci in salamoia, pezzetti di carne arrosto, frutta e formaggio. 1 Che cosa rappresenta la cucina nella storia

della civiltà umana? È un fatto essenzialmente legato all’alimentazione o c’è qualcosa di più?


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Il vino nell’antichità Di solito il pasto di un povero era rappresentato dal pane e da piccoli pesci in salamoia accompagnati da un bicchiere di vino diluito, secondo l’usanza antica, con parti di acqua; la consistenza e la gradazione alcolica del vino prodotto a Roma e in tutto il Mediterraneo erano infatti diversi da quelle a cui oggi siamo abituati. Il vino, conservato in anfore di terracotta, risultava più torbido e forte del nostro, per berlo era indispensabile innanzitutto passarlo al setaccio per eliminare i depositi, quindi si provvedeva a ridurne il sapore e il grado alcolico con l’addizione di acqua spesso unita a miele, quest’ultimo ne stemperava l’acidità prodotta dalla lunga fermentazione a cui era sottoposta l’uva. Sulle anfore un’etichetta ricordava l’origine e la data di produzione, come garanzia per l’acquirente che non di rado tuttavia cadeva vittima di truffatori abilissimi nel contraffare e capaci così di mettere in circolazione vino adulterato o scaduto.

La vite e l’ulivo: due colture determinanti per la dieta greco-romana Se la vite faceva quindi già parte sin dall’antichità del paesaggio della penisola e dava alle tavole il vino di cui si è detto, gli ulivi, diffusissimi in tutto il bacino

Antica anfora utilizzata per trasportare il vino.

del Mediterraneo, procuravano ai Greci e ai Romani l’oliva che, sia conservata in salamoia, sia trasformata in olio, rappresentava una voce irrinunciabile nella loro dieta. È stato calcolato che il consumo medio di olio da parte di un cittadino dell’impero romano era di circa 2 litri in un mese: Roma faceva la parte del leone in quanto è stato scoperto che il monte Testaccio nella capitale non è altro che un’autentica montagna artificiale, formata da frammenti di materiale da riporto, in particolare resti di laterizi e, soprattutto, di anfore olearie. Gran parte di queste ultime proveniva dalla regione ispanica della Betica, da cui i romani importavano ingenti quantitativi di olio destinato a rifornire i mercati interni.

Il garum La più importante voce dell’industria agroalimentare romana e greca era il garum, una salsa diffusa a tal punto da essere la prima voce nelle esportazioni che dalla Spagna rifornivano, a caro prezzo, le tavole dei romani. Si trattava del prodotto liquido della macerazione sotto sale delle interiora di pesce commiste di olio, vino, aceto, pepe. Lasciata a riposo per una notte in un orcio di terracotta e messa all’aperto al sole per due

Anfore di grandi dimensioni, anticamente utilizzate per la conservazione dell’olio.


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L’antica città romana di Baelo Claudia, presso Tarifa, in Spagna, conserva le rovine di una factoria specializzata nella produzione del garum.

o tre mesi, la miscela veniva mescolata di frequente per favorirne la fermentazione; quando gli addetti alla lavorazione verificavano che la parte liquida era giunta a evaporare grazie al calore del sole, riversavano il composto in un cesto con funzione di setaccio, da cui filtrava lentamente la salsa ormai pronta per essere messa in commercio. Possiamo immaginare facilmente l’odore e il sapore che il garum dovesse avere, insopportabile ai nostri gusti, tuttavia era stimato come una delizia del palato da parte di quasi tutti i cuochi dell’antichità che ne facevano largo uso per condire sia carne che pesce. Non possiamo negare che anche i cibi, più in generale, avevano sapori diversi da quelli che ci attraggono oggi: la scoperta dei moderni metodi di refrigerazione, utili per la corretta conservazione, ha reso infatti possibile oggi preservare alcuni cibi, come appunto la carne, dall’inevitabile processo di alterazione che si avvia a poche ore dalla macellazione o dalla pesca. Nel mondo antico non era infrequente quindi che alcune pietanze a base di carne rivelassero spesso già il sapore un po’ rancido che il garum sapeva mascherare con notevole efficacia. Non tutti i romani comunque amavano e condividevano il piacere di consumare il garum e le salse a esso

ispirate. Interessante, a questo proposito, risulta la testimonianza offerta dal poeta Marziale, nato a Bilbilis (una cittadina della Spagna Tarragonese) e vissuto nel I secolo d.C., ritenuto il più importante epigrammista in lingua latina. Egli, in uno dei suoi pungenti e spiritosi Epigrammi, per descrivere un certo Papiro, noto per non essere un uomo molto profumato, scrive: “Era un unguento profumato quello contenuto fino a poco fa in un vasetto di onice; dopo che l’ha annusato Papiro, ecco, è garum”. 2 Confronta i momenti in cui si svolgevano i

pasti nell’antichità greco romana e le abitudini del nostro tempo: che cosa è cambiato da allora? 3 La tecnologia si è sviluppata. Come ha

modificato, nel corso del tempo, i nostri gusti e le abitudini alimentari?

Bibliografia U.E. Paoli, Vita romana. Arnoldo Mondatori editore, 1986. Sitografia www.archeoempoli.it


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6. VERSO I GIOCHI DI OLIMPIA Secondo la leggenda, dal 776 a.C ogni quattro anni, durante l’estate, presso il santuario di Zeus a Olimpia, nel Peloponneso orientale, si svolgevano le gare in onore di Giove, padre di tutti gli dei venerati dai greci. Non si trattava dell’unica manifestazione del genere, visto che tanto a Delfi quanto a Corinto e ad Argo si svolgevano altre competizioni agonistiche, ma certamente quelle di Olimpia erano le più solenni e per questo vedevano una partecipazione di massa da parte del pubblico. La percezione che si trattasse di un evento di rilevanza centrale era così diffusa che, per assistervi, una folla imponente convergeva a Olimpia dalle diverse poleis dell’Ellade, anche da quelle che si trovavano in guerra tra loro. In nome della devozione a Zeus olimpio, infatti, era sospesa per l’intera durata delle gare, che si protraevano per sette giorni, ogni ostilità tra le città della Grecia: una insolita tregua stabilita al fine di consentire agli atleti e agli spettatori di prendere parte alle Le rovine dell’antica Olimpia.

manifestazioni più famose e popolari dell’antichità. La tradizione voleva che la città di Olimpia fosse sacra a Zeus e che dunque non fosse lecito entrare nei suoi confini con armi di alcun tipo, e tale divieto valeva tanto per gli eserciti che per i singoli: chi avesse osato infrangerlo si sarebbe macchiato di un gravissimo sacrilegio davanti agli dei e agli uomini. Le gare di Olimpia assumevano pertanto una rilevanza tale che in tutta l’Ellade, come data di riferimento, era stata adottata la convenzione di iniziare il computo dell’anno dalla prima olimpiade, avvenuta nel 776 a.C.

Pelope e la prima olimpiade Secondo il mito, la prima olimpiade si sarebbe svolta per celebrare il rito funebre in onore di Pelope, l’eroe da cui deriva il nome del Peloponneso; è evidente, però, che con il tempo i giochi avevano assunto un altro valore, poiché attraverso di essi si esprimevano il valore e la virtù che i greci ritenevano requisiti indispensabili per essere considerati uomini degni di onore e rispettati.


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Il mitico eroe greco Pelope con sua moglie Ippodamia.

L’aretè Nella competizione sportiva si rifletteva il tradizionale antagonismo tra le poleis, rappresentate dagli atleti che scendevano in campo: lo sport dunque assumeva anche un valore politico vero e proprio. Potevano prendere parte alle gare solamente i cittadini maschi (salvo un’unica eccezione che vedremo più avanti) che fossero tuttavia liberi e di stirpe greca, La rappresentazione di un allenamento atletico, conservata presso il Louvre di Parigi.

ovvero non stranieri. Quest’ultimo requisito conferma ulteriormente l’importanza che le Olimpiadi dovevano avere per sottolineare il senso di comune appartenenza all’Ellade: la patria di tutti i greci, sebbene frammentata sul piano politico grazie al complesso sistema delle città-stato, era fondata su valori e sentimenti comuni, riassunti dall’ideale omerico dell’aretè, ovvero della virtù.

La cerimonia di apertura Il primo giorno delle Olimpiadi avevano luogo le cerimonie di apertura, dedicate ai riti sacri in onore di Zeus olimpio: alla divinità erano infatti offerti dai sacerdoti del santuario olocausti di animali durante solenni riti propiziatori. Si dava quindi il via ai giochi veri e propri che avevano inizio con la corsa dei carri trainati da cavalli e con quella dei fantini. Queste competizioni richiamavano, oltre alle delegazioni ufficiali di gran parte delle città greche, anche un foltissimo pubblico che assisteva assiepato senza troppe precauzioni sugli spalti improvvisati che circondavano l’intera pista predisposta per il transito di diverse file di carri. Non era infrequente però che la velocità raggiunta causasse la fuoriuscita dei carri dalla corsia e l’invasione delle tribune dove sedevano gli spettatori, con le gravi conseguenze che possiamo immaginare per l’incolumità del pubblico. La corsa dei carri risultava così la gara più pericolosa ma certamente quella di


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Un antico vaso greco con raffigurati diversi atleti.

indubbio richiamo per un pubblico già allora attratto dall’“alta velocità”. Dopo l’equitazione, si svolgevano le gare di atletica del pentathlon, che prevedeva cinque specialità: il lancio del disco, il salto in lungo, il lancio del giavellotto, la corsa dei 200 metri e la lotta. Questa era la fase indubbiamente riservata agli atleti di indiscusse capacità: venivano preparati per l’occasione attraverso durissimi allenamenti i campioni migliori di ogni città, per tentare di conquistare il primo posto. Un atleta con il giavellotto.

Gare e combattimenti Per i greci, contrariamente allo spirito con cui il conte francese Pierre de Coubertain ripristinò nel 1892 i giochi olimpici, non era importante partecipare ma esclusivamente vincere. Ad animare le Olimpiadi antiche era quindi il fortissimo individualismo e l’antagonismo che caratterizzava la mentalità greca. Il vincitore della gara diventava agli occhi di tutti un eroe, la sua città gli innalzava addirittura un monumento dopo averlo portato in trionfo al rientro dai giochi olimpici. Per questo comprendiamo perché il collegio dei giudici incaricati di valutare le gare era severissimo nel penalizzare eventuali infrazioni alle regole del gioco che stabilivano il rispetto assoluto della correttezza tra atleti. Del tutto privo di norme di comportamento era invece il pancrazio, un tipo di lotta particolarmente violento nella quale era consentito ai contendenti qualsiasi approccio pur di avere la meglio sull’avversario: schiaffi, calci, pugni, colpi bassi; l’unico limite da non superare era mordere o cavare gli occhi ma, per il resto, più il combattimento si faceva crudele e cruento, tanto maggiore appariva il gradimento del pubblico. Gli spettatori attendevano facendo il tifo e pregustando il momento in cui uno dei lottatori non sarebbe stato più in condizione di proseguire il combattimento cosicché, per dichiararsi sconfitto e riconoscere la vittoria dell’avversario, avrebbe alzato le braccia in segno di resa.


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famiglia, come moglie e madre. Oltretutto, durante le gare olimpiche, almeno in età classica, gli atleti non indossavano alcun indumento, come era abitudine fare anche nei licei dove i giovani greci si dedicavano ad allenamenti atletici oltre che alla formazione filosofica. In considerazione di ciò, sarebbe stato impensabile consentire alle donne di assistere alle gare. Tuttavia, durante i giochi in onore di Zeus, le ragazze nubili potevano gareggiare, separatamente, nella corsa in onore della dea Era. Si trattava di uno spazio piuttosto marginale e prevalentemente occupato dalle ragazze spartane, la cui educazione prevedeva infatti l’allenamento sportivo, durante il quale potevano mostrare il corpo nudo.

In onore di Elena

Il mosaico rappresenta la lotta contro un toro.

Le gare femminili Fin qui abbiamo parlato delle olimpiadi ufficiali, quelle cioè riservate agli uomini. Sappiamo infatti che in Grecia (con l’unica eccezione di Sparta), come in gran parte del mondo antico, la donna non aveva un proprio spazio nella vita pubblica: l’unico ruolo che le veniva ufficialmente riconosciuto era all’interno della Le uniche gare olimpiche cui potevano partecipare le donne erano quelle di corsa.

A Sparta, infatti, le ragazze che non dovevano ancora occuparsi della famiglia si cimentavano nella corsa in onore di Elena di Troia. Può sembrare strano che a essere onorata dalle giovani spartane fosse proprio la donna che, secondo il racconto di Omero nell’Iliade, con il tradimento del marito Menelao sarebbe stata all’origine della guerra e della distruzione di Troia. A Sparta si riteneva invece che la versione della vicenda offerta da Omero non fosse quella veritiera, poiché in realtà la bella Elena aveva tenuto fede al legame con il marito, senza fuggire con Paride. Le ragazze spartane quindi, con la corsa in onore di Elena, celebravano un vero e proprio rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta, entrando così a pieno titolo nella società, ormai pronte ad affrontare gli impegni delle nozze e della maternità. 1 Che cosa rappresentano le gare olimpiche

per l’intera Grecia? Ti sembra che nella società attuale lo sport possa svolgere una funzione analoga? 2 Perché i greci non permettevano alle don-

ne di partecipare alle Olimpiadi? Puoi trovare oggi degli esempi di discriminazione nel mondo sportivo? 3 Che cosa spingeva gli atleti greci a com-

petere nelle gare sportive? E oggi che cosa spinge gli uomini e le donne a intraprendere quella carriera? Bibliografia M.L. Finley, Gli antichi greci, Torino, Einaudi,1965.


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7. L’ELLENISMO: DA ALESSANDRIA A PERGAMO COME CITTADINI DEL MONDO Alla fine del sogno di Alessandro Magno di un impero universale, che coincide con la morte prematura del giovane sovrano, non corrisponde la crisi della cultura greca che, al contrario, nei secoli successivi andrà assumendo una dimensione sempre più internazionale. La disgregazione dell’immenso impero di Alessandro, frammentato nei diversi regni governati dai suoi generali, comporta infatti la diffusione in tutto il Mediterraneo di quel gusto e di quella mentalità di ispirazione greco-orientale su cui il sovrano macedone aveva costruito il suo impero universale.

Il viaggio e la conoscenza A dimostrazione di quanto detto, possiamo considerare anche la diffusione del greco che, gradualmente, divenne la lingua della comunicazione politica, Il monumento eretto in onore di Alessandro Magno ad Alessandria d’Egitto.

Nell’antichità i testi scritti erano consultabili in rotoli di papiro.

dell’amministrazione e del diritto in tutti i regni ellenistici sorti dopo la morte di Alessandro. A questa mentalità culturale che si diffonderà nel Mediterraneo viene dato il nome di ellenismo. Un interessante fenomeno che ricevette un notevole impulso in questo contesto è la comparsa di una abitudine che continuerà a essere praticata fino ai giorni nostri: il viaggio. Se Socrate, uno dei maggiori filosofi greci, si vantava di non aver mai varcato i confini della sua città, Atene, gli artisti, i filosofi, gli scienziati dell’età ellenistica acquisirono invece l’abitudine a viaggiare, a spostarsi sul territorio, attratti dalla possibilità di trovare presso i grandi centri della cultura nuove conoscenze. Se fino al IV secolo Atene aveva rappresentato per gli intellettuali la capitale del sapere, con l’età ellenistica la cultura assunse una dimensione internazionale, non più circoscritta al territorio di una sola città o di un solo regno. Atene mantenne il primato nel campo della filosofia, tuttavia, insieme all’Attica, divennero meta privilegiata degli uomini di scienza l’Egitto, la Siria e l’Asia minore dove, in particolare, si distinsero per le imponenti


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La moderna Biblioteca di Alessandria, così come appare oggi.

istituzioni le città di Alessandria e di Pergamo. Gli intellettuali che si trovavano in questi centri erano professionisti specializzati: i sovrani infatti finanziavano le loro ricerche corrispondendo anche ingenti stipendi a quelli che ritenevano a tutti gli effetti dei funzionari al servizio dello stato. Questa condizione contribuì anche alla specializzazione delle conoscenze per ambiti ben distinti e quindi alla nascita di specifici centri di ricerca. Ad Alessandria d’Egitto, il re Tolomeo I volle istituire una splendida biblioteca che contenesse, secondo un progetto assai ambizioso, tutti i libri del mondo allora conosciuto. Biblioteche erano esistite anche in Mesopotamia e in Egitto, ma si era sempre trattato di raccolte limitate di testi che rispondevano a una concezione del sapere molto circoscritta, limitata alle esigenze del palazzo, del sovrano o dei sacerdoti. L’ispirazione che muoveva Tolomeo era ben diversa, mirava a fare di Alessandria la capitale del sapere universale. L’ambizione del sovrano si spinse a tal punto che su suo ordine venivano confiscati tutti i libri presenti sulle navi che sostavano nel porto di Alessandria affinché arricchissero la biblioteca, che riuscì così a contenere circa 400 000 volumi (rotoli di papiro) che riguardavano tutto il sapere umano: matematica, geometria, musica, medicina, botanica, zoologia, astronomia, geografia ecc. Tutto ciò che rappresentava materia di studio era ospitato in quella che divenne famosa come lo scrigno del sapere.

La cultura scritta I libri che giungevano nella biblioteca venivano copiati dagli scribi incaricati di correggere eventuali errori compiuti nelle precedenti trascrizioni: nacque così l’idea di analizzare le diverse copie dei testi per cercare la versione più vicina all’originale, nacque cioè la filologia. Chi avesse cercato una risposta a uno dei problemi della conoscenza, avrebbe trovato nella biblioteca alessandrina il libro in grado di fornirgliela: la consultazione dei libri, cioè dei testi scritti, si andava così afL’interno della Biblioteca di Alessandria.


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fermando come la modalità privilegiata della trasmissione del sapere, in sostituzione della tradizione orale che aveva dominato sino ad allora. Il rotolo del papiro era custodito dentro un cilindro di legno che a sua volta veniva riposto nelle nicchie che si aprivano lungo i corridoi della biblioteca. Data la delicatezza del materiale, era previsto un centro di restauro dei papiri all’interno alla biblioteca stessa. Chi entrava doveva orientarsi da solo, cercando i rotoli che lo interessassero per portarli nelle sale di lettura: la tentazione di uscire portando via i papiri era forte al punto che si dovette imporre ai lettori all’ingresso di giurare formalmente che non avrebbero mai sottratto i libri… non sappiamo con quanto successo! Va detto che, parallelamente all’affermazione dei libri come strumenti di diffusione della conoscenza, si passò a una visione del sapere sempre più individuale, come un processo cioè che coinvolge l’individuo che si immerge nella lettura e nello studio del testo scritto, escludendo il coinvolgimento di altri soggetti come avveniva in precedenza nelle scuole dei filosofi, dove la conoscenza era il risultato della discussione tra i discepoli e il maestro.

Alessandria e Pergamo Chi giungeva via mare ad Alessandria, prima di vedere la costa scorgeva la luce del faro, il primo della storia della navigazione. La città che vantava uno degli scali commerciali più importanti del Mediterraneo era stata in grado, grazie agli scienziati e ai tecnici di cui disponeva, di dotarsi di una struttura mai vista prima. Alto

Il modello fornisce una ricostruzione dell’antica città di Pergamo. Le rovine delle mura dell’acropoli di Pergamo.


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Nella fase di espansione greca verso l’Asia Minore la città di Pergamo, capitale del regno degli Attalidi, uno dei più fiorenti centri ellenistici, diventa luogo di interpretazione dei modelli greci secondo nuove chiavi geografiche e culturali. Il colossale altare dedicato a Zeus costruito da Eumene tra il 197 e il 156 a.C. (oggi ricostruito al Pergamon Museum di Berlino) era già ritenuto dagli antichi una delle sette meraviglie del mondo. Il grande fregio che si sviluppa su tre lati a forma di U, sormontato da un colonnato, è lungo 120 metri e alto 2,30 metri. Vi è rappresentato un complesso racconto cosmico-mitologico dove il tema della battaglia tra dèi, portatori dell’Ordine, e Giganti, simbolo del Caos, si sviluppa in aspetti monumentali oltre che patetici.

circa 100 metri, il faro era sormontato da una lanterna che conteneva l’illuminazione prodotta da un fuoco alimentata da olio e potenziata da specchi metallici, probabilmente di bronzo, rifrangenti. La torre era costituita da tre corpi progressivamente rientranti: il primo, a pianta circolare, alto 60 metri, 30 il secondo, che aveva pianta ottagonale, e 15 il terzo, anch’esso a pianta circolare, che sorreggeva la lanterna. Il culmine dell’imponente torre era costituito da una statua, forse del dio del mare Poseidone o dello stesso Zeus. All’interno della torre, oltre alle condutture che portavano il combustibile alla lanterna, si trovavano le scale e gli alloggi dei tecnici responsabili del funzionamento del faro. Insieme alla piramide di Cheope, al tempio di Zeus di Olimpia, ai giardini pensili di Babilonia, al

mausoleo di Alicarnasso, all’Artemision di Efeso e al colosso di Rodi, il faro di Alessandria era una delle sette meraviglie del mondo antico (vedi scheda 3). La rivale di Alessandria era Pergamo. Qui l’architettura era riuscita a integrarsi con il paesaggio creando edifici di grande effetto scenografico che suggestionassero il visitatore. A prova di questa intuizione è l’altare dedicato a Zeus e innalzato per celebrare la vittoria della dinastia, che era alla guida del regno, sui galati nel 166 a.C. I resti dello splendido complesso sono attualmente a Berlino, sistemati accanto a una copia del monumento in scala reale. Anche a Pergamo era stata innalzata una biblioteca che voleva competere con quella di Alessandria per la quantità dei volumi: i resti del colonnato che sono giunti fino a noi ci fanno immaginare una struttura di dimensioni imponenti anche per il nostro tempo. 1 Quale elemento sopravvive alla fine del-

l’impero di Alessandro Magno determinando la storia e la cultura di un’intera epoca? Perché? Bibliografia L. Casson, Viaggi e viaggiatori nell’antichità, Milano, Mursia, 2005.


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8. IL TEMPO LIBERO DEI ROMANI AL CIRCO O ALLE TERME Uno dei modi di trascorrere il tempo libero più apprezzati dai romani era assistere ai giochi del circo o passare alle terme. Non possiamo parlare del mondo romano come di una società dove fosse già maturata l’idea del tempo libero dalle occupazioni e dal lavoro come un diritto, ma era tuttavia diffusa, sia in età repubblicana che in quella imperiale, la tradizione di assistere agli spettacoli del circo o di trascorrere qualche ora nei complessi termali. In età repubblicana, gli spettacoli del circo erano offerti alla popolazione dai magistrati, un modo per accattivarsi le simpatie degli elettori; in età imperiale sarà invece lo stesso imperatore a finanziare l’allestimento dei ludi circenses per i cittadini dell’impero, mostrando così la sua generosità verso il popolo. I giochi venivano organizzati anche per celebrare in modo solenne giornate particolari, anniversari di vittorie militari, ricorrenze personali dell’imperatore stesso o di un magistrato, giorni sacri per la mitica storia di Roma ecc. La tradizione voleva che si trascorresse tutta la giornata all’interno dell’area del circo, dalla mattina al tramonto: gli spettacoli venivano aperti dalla caccia, il Una rappresentazione della caccia che apriva i giochi.

pranzo era poi consumato sugli spalti con le provviste portate da casa o acquistate in una delle tante botteghe e delle bancarelle presenti lungo le strade urbane, mentre nel pomeriggio si svolgevano i giochi veri e propri, i combattimenti tra gladiatori.

I giochi del circo a Roma Ogni città di un certo peso era dotata di un circo, ma certamente la possibilità di assistere ai giochi nelle imponenti strutture del circo della capitale era da molti considerata un sogno che valeva la pena di realizzare almeno una volta nella vita, magari facendo duri sacrifici. Per questo, in occasione dei giochi, si riversavano a Roma, insieme ai cittadini dell’Urbe, anche tanti provinciali, venuti a visitare per l’occasione anche le bellezze della capitale. Assistevano ai giochi uomini e donne, intere famiglie, incuranti che la natura violenta dello spettacolo non fosse adatta ai più giovani: la sensibilità per la tutela dei più deboli e indifesi sarà una conquista degli ultimissimi tempi della nostra storia. A differenza dei nostri giorni in cui l’ingresso negli stadi è consentito generalmente solo con un biglietto, il cui costo come è noto varia in base al settore, l’accesso al circo era gratuito, sebbene vi fosse una tribuna riservata alle autorità e, in età imperiale, all’imperatore. Questi spalti erano distinti dagli altri per le tende di copertura che li sovrastavano così da impedire al sole di colpire, specialmente in piena estate, le personalità del mondo politico ed economico che assistevano all’evento da questo settore riservato. Gli altri posti erano situati allo scoperto e la folla, spesso accalcata sulle gradinate, doveva provvedere da sola a schermarsi dal sole e dal caldo estivo, rinfrescandosi di tanto in tanto alle numerose fontanelle presenti lungo i corridoi di accesso agli spalti. Lo spettacolo aveva inizio con la pompa: una processione a suon di musica, durante la quale facevano il loro ingresso nell’arena i campioni che si sarebbero esibiti durante il giorno: come avviene oggi col tifo riservato ai campioni dello sport, gli spettatori dei ludi circenses avevano un gladiatore per cui tifare, e il momento della pompa era quello più adatto per manifestare il proprio entusiasmo.


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Combattimento di gladiatori durante i ludi.

Gli spettacoli Dopo i trionfi, si dava il via agli spettacoli veri e propri: dai sotterranei del circo venivano lasciate libere le bestie feroci, animali esotici come leoni o rinoceronti, oppure tori cacciati da gladiatori armati fino ai denti. Lo spettacolo risultava comunque avvincente e la folla si entusiasmava anche quando veniva introdotto nell’arena un condannato a morte, lasciato solo, inerme a combattere il suo ultimo, disperato duello con le fiere. La scena che si svolgeva sotto gli occhi degli spettatori doveva essere davvero cruenta, ma la folla mostrava di essere appagata soprattutto dalla vista del sangue che, in breve, avrebbe tinto di rosso l’arena. Durante la pausa del pranzo, se l’allestimento dei giochi era davvero fastoso, venivano rappresentate delle commedie adatte a intrattenere un pubblico così vasto ed eterogeneo: non si trattava certamente di pezzi impegnativi, ma piuttosto di storie divertenti il cui intreccio era quasi sempre lo stesso, basato sugli imbrogli orditi dai servi ai danni dei padroni e sugli amori illeciti tra vecchi intraprendenti e giovani insidiate, condito da battute prevedibili che ottenevano comunque un certo gradimento. Nel pomeriggio, i giochi riprendevano con la competizione tra gladiatori: si trattava di atleti pronti a combattere fino alla morte sul campo. I campioni in gara dovevano fronteggiarsi corpo a corpo con l’uso di un’armatura che, a seconda degli equipaggiamenti, li distingueva in di-

verse categorie, in base alle quali variavano anche le armi: lo spettacolo era davvero avvincente, la lotta che si svolgeva sotto lo sguardo teso degli spettatori divenuti improvvisamente silenziosi, davvero spietata, non risparmiava colpi bassi purché uno dei due lottaDurante i ludi, gli schiavi venivano fatti combattere contro belve importate dall’Africa.


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tori ottenesse la caduta dell’avversario, sul quale poi avrebbe avuto diritto di vita o di morte.

Le terme Se l’allestimento dei giochi avveniva, come si è detto, in giorni di particolare solennità, la frequentazione delle terme da parte dei romani era quasi quotidiana. Anche in questo caso va detto che si trattava di un servizio diffuso in molte delle più grandi città fondate dai romani, ma certamente quelle presenti nella capitale rappresentavano una innegabile attrattiva anche per la bellezza delle architetture dei complessi termali di Roma. Nelle città di provincia il costo del biglietto di ingresso alle terme era relativamente basso, tale da consentirne l’acquisto anche alle classi meno agiate, mentre a Roma il servizio era quasi sempre gratuito, visto che i complessi termali in età imperiale furono spesso un dono che il principe faceva al suo popolo. Contrariamente a quanto accadeva in Grecia, dove le terme erano soprattutto luogo di rilassamento del corpo e della mente, prerogativa dei soli uomini benestanti, per i romani queste rappresentavano essenIl mosaico, risalente alla fine del III secolo d.C., rappresenta varie fasi del combattimento tra gladiatori.

zialmente occasione di incontro: gli uomini (e anche le donne, che potevano accedervi a orari prestabiliti) vedevano i bagni e la cura del corpo più che altro come un piacevole pretesto per parlare di politica, fare affari, stringere relazioni. Tra le tante possibilità che avevano i frequentatori delle terme, oltre alle saune e alle piscine, avevano anche quella di acquistare cibi e bevande consumandoli in piacevoli conversazioni, di sottoporsi ai massaggi, alla depilazione e persino di giocare a palla, liberamente, in appositi spazi. Il tutto avveniva in un’atmosfera che talvolta poteva arrivare a essere non molto tranquilla, data la notevole affluenza di cittadini che ogni giorno frequentavano le terme. A questo riguardo il filosofo romano Seneca, in uno dei suoi scritti annota: “Abito sopra un bagno: immagina un vocio, un gridare di tutti i toni che ti fa desiderare di essere sordo: sento il mugolio di quelli che si esercitano ai manubri, che sibilano, che respirano affannosamente. Se qualcuno si fa tranquillamente massaggiare, sento il colpo della mano sulla spalla. Quando arriva uno che non Busto del filosofo Seneca, conservato a Berlino.


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Il monumentale complesso delle Terme Antoniane, i bagni pubblici costruiti durante l’impero di Caracalla e a lui intitolati.

Le terme di Diocleziano.

può giocare a palla, eccolo gridare e contare i colpi a voce alta. C’è chi litiga, il ladro colto in flagrante, quella che chiacchiera stando a sentire solo il suono della sua voce. E poi quelli che si tuffano nella piscina per nuotare, con l’acqua che schizza rumorosamente da ogni parte; il depilatore che fa il verso in falsetto per offrire i suoi servizi, per non parlare del vocio di chi vende bibite, salsicce, pasticcini, degli inservienti delle bettole che girano offrendo la loro merce”. 1 Che idea avevano i romani del tempo libero dalle occupazioni quotidiane? Confrontala con quella di oggi. 2 Che aspetti caratterizzavano i giochi nel

circo? Che tipo di spettacolo desiderava vedere il pubblico? A che tipo di mentalità ti sembra di poter attribuire questo gusto? 3 Che differenza c’era tra le terme dei greci

e quelle dei romani? A che cosa la attribuisci? Esiste un servizio che oggi può essere paragonato alle terme romane? Bibliografia A. Dosi, Otium. Il tempo libero dei romani, Roma, Quasar, 2006.


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9. PER LE STRADE DI ROMA E DELL’IMPERO ROMANO I motivi per mettersi in viaggio L’abitudine di viaggiare, spostandosi per lunghi tragitti, era piuttosto diffusa nel mondo romano: le motivazioni che inducevano a lasciare la loro casa i cittadini di un impero che arriverà a estendersi dal Mediterraneo all’Asia minore erano diverse. Si decideva di viaggiare per necessità di lavoro, di studio o, forse più raramente, per il piacere di farlo. I romani di condizione sociale più agiata erano soliti mandare i figli maschi a trascorrere un periodo in Grecia; va ricordato infatti che gli unici in famiglia destinati a ricevere una formazione culturale erano appunto solo i figli maschi, che grazie all’insegnamento dei filosofi e dei maestri di retorica più rinomati dell’antichità sarebbero stati in grado di svolgere una professione di prestigio sia in ambito politico, intraprendendo la carriera di magistrati, che in tribunale come avvocati. Non dimentichiamo che a Roma la filosofia, come larga parte della letteratura e l’arte del parlare, ovvero la retorica, erano influenzate dai modelli provenienti dalla Grecia considerata nettamente superiore al mondo latino, anche dopo la fine della sua indipendenza politica. Per raggiungere le scuole dove veniva impartito l’insegnamento delle dottrine era quindi necessario mettersi in viaggio, sfidare i rischi della navigazione e di lunghi tratti di strada, spesso non troppo agevole, da percorrere a cavallo o su carri appositamente predisposti al trasporto di persone che tuttavia non dobbiamo immaginare muniti dei moderni confort.

I disagi del viaggiatore nel mondo classico Chi si metteva in viaggio, giovane o più avanti negli anni, sapeva di accingersi a una impresa tutt’altro che semplice. A rendere disagevole il viaggio era anche l’assenza di alberghi decenti. La ristorazione in quelle che sono le strutture alberghiere cui siamo abituati oggi, era in effetti sconosciuta nel mondo antico: chi non poteva essere ospitato da amici, doveva rassegnarsi a soggiornare in taverne che sorgevano lungo le grandi vie di comunicazione o nelle maggiori città, quasi sempre spoglie, sporche e frequentate da ogni genere di persone, spesso non particolarmente rac-

comandabili come ladri, prostitute o uomini in cerca di fortuna. Queste locande accoglievano i viandanti in camere dotate di diversi letti sui quali avrebbero dormito all’occorrenza uomini e donne senza distinzione, se necessario anche estranei tra loro. Il nostro senso della privacy in questo caso era completamente sconosciuto al mondo antico che pure, in altre situazioni, mostrava di essere, almeno in apparenza, molto attento alle convenzioni che volevano rigorosamente separati gli spazi riservati rispettivamente alle donne e agli uomini. La dimostrazione che le condizioni del soggiorno nelle locande non dovessero essere ottimali ci è offerta da quanto troviamo anche oggi sui muri delle locande di Pompei che sono giunti fino a noi. Qui infatti si trovano ancora incise espressioni colloquiali, talvolta ingiuriose e sconce che gli ospiti, graffiando l’intonaco con semplici punteruoli, lasciavano a ricordo del loro passaggio. Per esempio in una “caupona” (osteria) all’interno di un’insula si legge: “Talia te fallant utinam mendacia copo tu vendes acuam et bibe ipse merum” (“Vorrei che tali inganni ti si ritorcessero contro, oste, tu vendi l’acqua ma bevi vino puro”) (CIL, 3948). Le rovine di un antico forno a Pompei.


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Le frasi che vi possiamo leggere ci parlano spesso di fatti di cronaca, di politica, di semplici questioni private o, quasi sempre in tono non troppo gentile, dell’albergatore, descritto con schiettezza come un vero e proprio furfante. Va detto però che il diritto romano era particolarmente severo nei confronti degli osti che venivano accusati di particolare negligenza nell’esercizio della loro attività. Non era infatti infrequente che, come avviene oggi per i turisti che non ricevono quanto promesso dai tour operator nel pacchetto di viaggio, i clienti esasperati dal trattamento di soggiorno inaccettabile perché eccessivamente promiscuo o improvvisato, denunciassero il gestore della locanda alle autorità pubbliche. Le locande romane di Pompei, frequentate dagli avventori per la consumazione di vino e di pasti veloci, offrono numerosi esempi di iscrizioni parietali. Rappresentazione di una locanda romana.

1 Confronta i motivi che inducono gli uomini

oggi a viaggiare con quelli del mondo classico: che cosa ti sembra resti ancora attuale e che cosa è certamente cambiato da allora?


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I principali viaggiatori Per quanto scomodo, il viaggio era comunque una vera e propria necessità per un popolo che, come quello romano, aspirava a essere imperiale. Il continuo spostamento da una provincia all’altra dell’impero rendeva inevitabile ai magistrati la percorrenza di lunghe trasferte in compagnia di un piccolo seguito di funzionari e segretari che condividevano in tutto l’esperienza che abbiamo descritto. Anche i militari che non viaggiavano alla testa di un esercito, quindi con tutti gli equipaggiamenti, ma per raggiungere individualmente la loro destinazione erano costretti a ricorrere, come i civili, all’ospitalità presso le locande di cui si è detto.

Come ci si attrezzava per affrontare un lungo viaggio L’abbigliamento da viaggio più diffuso, salvo per i magistrati di rango che indossavano solitamente la toga e per i militari, protetti dalla loro armatura, era la tunica lunga sino al ginocchio e stretta ai fianchi da una cintura, nei periodi più freddi ci si copriva anche con un mantello munito di cappuccio, assai utile in caso di pioggia o neve in un contesto dove il nostro ombrello non aveva ancora fatto la sua comparsa. Dalla cintura pendeva una borsa detta marsupium, evidentemente a essa si deve il termine che nella nostra lingua indica

Rappresentazione del tipico abbigliamento da viaggio.

il marsupio largamente diffuso ai giorni nostri. Il viaggiatore riponeva qui i suoi effetti personali, sapendo di non poter portare con sé niente altro che non fosse strettamente necessario, a meno che non fosse ricco e quindi accompagnato da servi che portassero al suo posto casse più voluminose e pesanti che conRappresentazione di una portantina e di una lettiga, mezzi di trasporto utilizzati dai membri delle classi più abbienti, soprattutto per effettuare brevi tragitti.

Abbigliamento romano.


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Esempi di carri utilizzati dai romani per compiere viaggi ed effettuare trasporti.

tenessero altri indumenti e beni di conforto. La cavalcatura, quando le condizioni economiche del viaggiatore lo consentivano, prevedeva l’uso di un cavallo ma assai frequente era l’impiego di asini e muli, altrettanto resistenti ma più economici; chi voleva viaggiare con maggior agio, specie se viaggiava in compagnia di donne, si faceva portare su un carro. In questo caso la gamma delle possibilità offerte al viaggiatore era vasta: dall’oriente i Romani avevano imparato l’uso della lettiga su cui giacere comodamente distesi o di una portantina dove stare invece seduti; entrambe le soluzioni erano rigorosamente monoposto e quindi non permettevano la conversazione con compagni di viaggio ma sia nell’una che nell’altra modalità si poteva godere di una certa riservatezza grazie alle tende che chiudevano l’abitacolo permettendo di ridurre anche il disagio causato da insetti molesti, in estate dal sole e dalla polvere delle strade. È evidente che questi veicoli rendevano tuttavia necessario l’impiego di portatori, schiavi robusti, scelti di uguale statura e equipaggiati in modo simile ai militari. Come mezzo di trasporto la lettiga e la portantina apparivano, come oggi le auto di grossa cilindrata, rivelatrici dell’importanza sociale del viaggiatore o che almeno voleva sembrare tale ma, data la lentezza, risultavano adatte soprattutto a brevi tragitti, ai soli “trasporti urbani” diremmo oggi. Il traffico nelle maggiori città era anche per gli antichi un problema, tanto da richiedere l’imposizione di norme rigorose sulla circolazione stradale: esplicite disposizioni vietavano in città, durante il giorno, l’uso

dei carri più grandi e veloci trainati da cavalli, per consentire la circolazione più agevole dei pedoni e dei carri più piccoli e lenti all’interno delle mura urbane; questo divieto rendeva la lettiga e la portantina una necessità per chi volesse spostarsi senza troppa fatica nelle grandi città. Quanto abbiamo appena ricordato dimostra l’attenzione in cui erano tenuti i pedoni e la circolazione tranquilla lungo le strade urbane: un interessante insegnamento per il nostro tempo! Ci sorprende scoprire addirittura che per rendere il divieto di transito ai carri davvero assoluto, anche in assenza di controlli, era stata introdotta la prassi, testimoniata ancora una volta dalla strade di Pompei, di collocare lungo le vie sbarramenti in pietra che restringevano la carreggiata rendendola inaccessibile ai veicoli più grandi. 2 Rifletti sui mezzi e le risorse che avevano a disposizione i viaggiatori antichi e rapportali alla realtà di oggi: come è cambiata dal punto di vista tecnico la realtà di chi viaggia? 3 Ripensa a quanto hai appena letto sulla circolazione stradale nell’antichità e confrontalo con il modo contemporaneo di muoversi lungo le strade della tua città da pedoni e da automobilisti.

Bibliografia U.E. Paoli, Vita romana, Arnoldo Mondatori editore,1986.


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10. VIAGGIARE NELL’ANTICHITÀ Chi nell’antichità giungeva in una grande città come Roma, Pompei, Capua, Siracusa o comunque anche in altri centri non così importanti ma analogamente popolosi, per orientarsi nella ricerca della casa verso cui era diretto o comunque per trovare un punto preciso, non aveva che da affidarsi al caso. Infatti, nel mondo antico, né in Grecia né a Roma era in uso la denominazione delle vie e la numerazione delle abitazioni che sorgevano lungo le stesse. Abituati come siamo oggi a indicare con precisione questi riferimenti spaziali indispensabili per individuare il recapito di chiunque risieda in città, troveremmo molte difficoltà a orientarci nel mondo antico. Il nostro “abitare in via…” era infatti piuttosto un “abitare presso”, prendendo come riferimento un luogo vicino (un foro, un tempio, una basilica, un palazzo pubblico, un teatro…) noto a tutti. Oggi troviamo naturale l’uso di intitolare le strade a personaggi o avvenimenti che hanno avuto rilievo nella storia recente e passata, ma nelle città antiche le strade, fatta eccezione per quelle “consolari”, cioè

fatte costruire dai consoli per mettere in comunicazione Roma con le regioni conquistate, non avevano nome e venivano indicate come “la strada che porta verso…”. Molto comune sia nel mondo greco che in quello romano era l’uso di denominare una via dalla presenza di botteghe artigiane, così era ben chiaro a tutti che l’espressione “presso il cacio fresco” si riferiva alla strada dove si aprivano le botteghe dei produttori di formaggio, o “presso gli ortaggi” indicava la strada dei mercati di verdura. A volte a fare da punto di riferimento erano gli alberi, piante secolari che si innalzavano lungo le vie e si distinguevano rispetto a quelle comuni per la loro imponenza o per l’antichità. In questo caso si usava quindi indicare la via “presso il leccio”. Le città romane di nuova fondazione, rispetto a quelle più antiche, assimilavano la caratteristica del territorio nel quale si inserivano, suddiviso in centurie, cioè secondo una ripartizione basata su assi perpendicolari tra loro, che formavano lotti estesi per circa 50 ettari. In stretto rapporto con la campagna circostante, i

I ruderi del foro romano, uno dei luoghi più noti dell’antica Roma e di conseguenza usato come punto di riferimento per indicare i luoghi posti nelle vicinanze.


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Il decumano a Pompei.

progetti delle nuove città prevedevano così una pianta quadrata ripartita in quartieri dai due assi viari principali: il cardo e il decumano. Lungo questi assi sorgevano i monumenti e gli edifici pubblici come le basiliche e i templi, posti in modo da colpire l’attenzione di chi entrava in città da una delle

Il decumano della colonia romana di Jerash, in Giordania. Anche le colonie fondate nei territori più remoti dell’impero furono dotate dai romani della stessa struttura urbana e viaria propria delle città fondate nella penisola italica.

porte che si aprivano sulle mura di cinta, in corrispondenza delle strade principali.

Il sito archeologico di Pompei Possiamo immaginare con sufficiente approssimazione come si dovesse trovare un visitatore in una città


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del mondo antico grazie alla presenza di quello straordinario sito archeologico che è Pompei. È noto infatti che l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., coprendo di lava e detriti vulcanici l’intera città, ha creato incidentalmente un ambiente ideale alla conservazione di molti elementi architettonici e urbanistici, oltre che di veri e propri spaccati di vita quotidiana. Gli abitanti di Pompei furono infatti colti quasi di sorpresa dalla eruzione, molti di essi non ebbero il tempo di fuggire al riparo e restarono letteralmente sepolti là dove si trovavano. E con loro anche tutto il resto, dagli oggetti di uso comune, alle abitazioni, alle strade, piazze, botteghe: tutto è stato sepolto e, paradossalmente, reso immune dalla trasformazione dei secoli. Immaginare cosa vedesse uno straniero in procinto di entrare a Pompei, quindi, diventa un’operazione relativamente semplice. Giungendo alle porte della città che sorgeva alle falde del Vesuvio, il viaggiatore aveva davanti a sé una agiata città di provincia: il vulcano si stagliava all’orizzonte con un aspetto tutt’altro che inquietante, appariva piuttosto fertile, ricco di vegetazione, coltivato in vigneti da cui ricavare un vino tra i più apprezzati del tempo.

La vita quotidiana a Pompei Entrando in città si aveva subito la percezione del lavoro che ferveva nelle numerose botteghe: tintorie,

forni e imprese artigiane (che proprio a Pompei si dedicavano alla produzione della più diffusa salsa del tempo, il garum), laboratori per la produzione di vasi di terracotta e di vetro, bar e locande costeggiavano le strade congestionate dal traffico. Va detto che lungo le strade, quasi sempre strette e poco aerate, scorrevano il più delle volte i liquami degli scarichi domestici, visto che rare erano le reti fognarie e quasi sempre riservate alle arterie principali. È naturale a questo punto pensare che l’odore che saliva alle narici dei passanti non fosse proprio dei migliori e per neutralizzarlo era diffusa presso le signore l’usanza di uscire di casa con una pallottola di ambra, una resina profumata, da accostare di tanto in tanto al naso per respirare così liberamente. Lungo le vie comunque si svolgeva gran parte della vita pubblica, testimoniata anche dalle numerose iscrizioni, paragonabili in tutto ai graffiti del nostro tempo, rimaste impresse sui muri delle case. Queste scritte ci parlano di amori, di contese sportive, di competizioni politiche, testimoniando in tutto la vita quotidiana degli abitanti di Pompei. Dobbiamo ricordare che, nel tracciare le vie di collegamento all’interno della penisola e in tutte le province in cui l’impero si andava gradualmente estendendo, i romani si rivelarono indubbiamente molto abili. Parte delle strade che infatti costruirono è arrivata sostanzialmente inalterata sino a noi, mante-

Veduta dei ruderi dell’antica Pompei che si stagliano sul Vesuvio.


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Le antiche strade romane, larghe dai 3 ai 5 metri, erano costituite da strati di pietre, ciottoli e ciocci cementati, su cui poggiavano le pietre lastricate.

nendo la loro importanza strategica dal punto di vista commerciale. Se infatti i tracciati stradali progettati erano inizialmente funzionali al controllo militare e all’amministrazione delle regioni che si collegavano a Roma, divennero immediatamente decisivi per lo sviluppo di una attivissima rete commerciale e, conseguentemente, per lo spostamento dei viaggiatori. Ma qual è il segreto della solidità delle strade romane? Per rendere la carreggiata resistente al transito di mezzi anche pesanti, i tecnici romani sapevano che era decisiva una fondazione solida, per questo sul terreno venivano tracciati due solchi paralleli che costituivano i bordi della carreggiata che raggiungeva una larghezza variabile da 3 a 5 metri. Tra i bordi veniva effettuato uno scavo profondo circa 60 centimetri, colmato da uno strato di pietre di notevole consistenza cementate da sabbia e terriccio, cui seguiva un secondo livello costituito da ciottoli e cocci legati dalla malta. Da ultimo si spandeva uno strato di ghiaia sul quale in città poggiava la pavimentazione vera e propria, costituita da grandi blocchi di pietra lastricati, sostituiti, nelle strade extraurbane, da una massicciata di ghiaia amalgamata con la calce. I tecnici romani prestavano molta attenzione alla scelta del terreno su cui fondare la strada, affinché non risultasse soggetto a cedimenti e frane o, nel percorso complessivo del

tracciato, fosse ostacolato da particolari condizioni del territorio come la presenza di montagne o fiumi; in questo caso, dove non era possibile scegliere un altro percorso, si ricorreva alla realizzazione di opere di ingegneria come gallerie e ponti realizzati con sorprendente competenza tecnica. 1 Come venivano determinati i recapiti delle

abitazioni lungo le strade urbane? Confronta questa modalità con quelle in uso attualmente: ti sembrerebbe possibile oggi ricorrere a quel sistema? 2 Che tipo di articolazione aveva l’asse viario delle città di fondazione romana? Confrontalo con quello che trovi nella tua città oggi. 3 Che impressione si aveva percorrendo le

strade di una città come Pompei? E oggi cosa vedi lungo le strade della città dove vivi? 4 Perché la costruzione delle strade eseguita dai romani risultava preferibilmente in sintonia con la conformazione del territorio? Bibliografia P. Garnsey-R. Saller, Storia sociale dell’impero romano, Bari, Laterza, 1989.


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11. L’ALIMENTAZIONE NEL MEDIOEVO L’alimentazione dell’Europa medievale ci appare piuttosto diversa dalla nostra: sulla tavola dei ricchi feudatari come dei contadini delle piccole masserie non giungevano pomodori e patate, ancora sconosciuti prima delle scoperte geografiche, e inoltre l’uso dei prodotti provenienti dal mondo orientale come il riso, lo zucchero e gli agrumi era assai raro perché particolarmente costoso. Dobbiamo ricordare che il divario tra il tenore di vita di un ricco e di un povero era davvero rilevante e di conseguenza l’alimentazione dei servi, sia in città che nelle campagne, era limitata alla semplice sopravvivenza, priva cioè di qualsiasi concessione al palato di chi si considerava già fortunato se trovava appena il pane di cui sfamarsi, spesso una sola volta al giorno.

La dieta nell’Europa carolingia Gli abitanti dell’Europa carolingia traevano il loro sostentamento alimentare da una dieta povera di proteine perché essenzialmente composta da carboidrati derivanti da cereali, spesso non nobili, come La miniatura rappresenta dei contadini che raccolgono il miele. Nel Medioevo lo zucchero era ancora sconosciuto e si usava il miele sia come dolcificante dei cibi sia nella preparazione di farmaci.

la segale e legumi tra cui primeggiavano fave, ceci o lenticchie. L’agricoltura infatti non aveva ancora subito le decisive trasformazioni che deriveranno da innovazioni tecniche entrate in uso solo più tardi, con la svolta dell’anno mille, quando sarà introdotta la pratica dell’avvicendamento delle colture nei campi, della maggese e del debbio. Le terre coltivate erano limitate ad appezzamenti assai circoscritti, posti ai margini di quella macchia fatta di boschi e foreste che copriva ancora il 60 % della superficie dell’Europa. Era tuttavia all’interno di queste stesse foreste che si trovava la cacciagione che integrava la dieta di ricchi possidenti e servi, mettendo a disposizione un apporto di proteine animali di non poco conto se si considera quanto già abbiamo detto sullo scarso valore energetico dei cereali di cui si disponeva. Animali piccoli e grandi quali lepri, cinghiali e volatili costituivano una voce importante nell’alimentazione comune in questo periodo, ma la crescita demografica intervenuta nel X secolo rese indispensabile il diboscamento di una parte sempre più consistente dei boschi, destinata alla crescente esigenza di prodotti agricoli.

La dieta dei poveri In questo modo, mentre cresceva la produzione di cereali, diminuiva la fauna a disposizione dei cacciatori; il fenomeno divenne rilevante al punto che i grandi feudatari posero vincoli alla possibilità di cacciare nelle loro proprietà, riservando la cacciagione alle loro tavole già ricche. Avvenne dunque un progressivo ulteriore impoverimento della dieta orientata verso un regime alimentare sempre meno vario, dove cioè la parte preponderante era rappresentata ancora di più solo dai cereali e dai vegetali, soggetti alle variazioni dei raccolti stagionali. La dieta dei poveri si distinse così ulteriormente da quella dei più abbienti: i primi disponevano solo di poco pane di segale e orzo, il pane “nero” piuttosto indigesto, mentre sulle tavole dei ricchi veniva servito il pane di grano, bianco e tenero. Dal faticoso lavoro svolto dai contadini nei campi dei grandi latifondisti,


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Nel Medioevo, la fauna a disposizione dei cacciatori diminuì a tal punto da essere riservata esclusivamente ai grandi feudatari.

non giungeva pressoché nulla perché tutta la produzione era destinata al padrone, per il suo sostentamento e per i suoi commerci. L’unica opportunità per i servi della gleba era rappresentata dalla coltivazione dei piccoli appezzamenti limitrofi alla casa, spesso meno fertili perché irti di sassi e pietre, sui quali venivano seminati i cereali inferiori, bisognosi di meno lavoro da parte del colono, ma anche poco nutrienti. Quindi la dieta contadina era limitata all’impiego di avena, miglio, sorgo, non utili alla panificazione e quindi consumati come zuppe e minestre con l’aggiunta di legumi e verdure.

La carne e le bevande Dove la collina o la montagna le offrivano, era inoltre diffuso l’uso della farina delle castagne per la preparazione di polente e focacce. Sebbene la carne fosse ormai divenuta quasi esclusivo appannaggio dei più ricchi, si andava diffondendo l’allevamento di animali da cortile, primo fra tutti, il maiale che forniva la maggioranza dei grassi impiegati in cucina e delle carni, mediante la conservazione ottenuta talvolta con il sale, tuttavia troppo costoso, e più spesso con l’affumicatura. Alla scarsità della frutta fresca, unica eccezione le

mele, faceva da contrappeso, al termine dei pasti, l’usanza di bere distillati della fermentazione di cereali come il luppolo, cioè la birra, o delle mele stesse da cui si ricavava il sidro. Queste bevande alcoliche, Un fornaio disonesto, che era solito imbrogliare i clienti, viene punito: appoggiato su una sorta di slitta, viene trascinato per il paese con del pane legato al collo.


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Una donna è intenta a preparare e conservare le bevande alcoliche.

oltre a sostituire l’acqua (molto spesso sporca e malsana perché, data la scarsa diffusione di acquedotti, veniva conservata a lungo senza troppe precauzioni), contribuivano a generare, in quanti disponevano di ben poche energie dovute a un’alimentazione troppo povera, la sensazione di benessere e di calore che in realtà svaniva assai presto.

La tavola dei ricchi Come ricordavamo, alla tavola imbandita dei ricchi proprietari di campagna dell’impero carolingio non mancavano mai pane bianco e vino che accompagnavano le pietanze a base di carni arrostite soprattutto di ovini e di cacciagione. L’abbondanza delle vivande soprattutto a base di carne di cacciagione era anche una manifestazione di potere a cui i feudatari ricorrevano per impressionare i loro ospiti durante i banchetti la cui durata, nei casi più solenni, si protraeva per l’intero arco della giornata. Tra una portata e l’altra, i commensali erano distratti e allietati dalle esibizioni di giullari e menestrelli; non mancavano inoltre, accucciati ai piedi dei padroni, i cani da caccia del signore, simbolo di fedeltà e sot-

tomissione, ai quali era dato direttamente dal padrone il cibo, preso dalla stessa tavola imbandita come pure era frequente la presenza del falcone, anche’esso impiegato nelle partite di caccia dei signori. Nei grandi camini accesi nelle cucine dei castelli e delle case più ricche, c’era quasi sempre uno spiedo in funzione: anche se intenti a lavorare per ricchi feudatari, ai cuochi non era richiesto l’uso della fantasia nel variare la preparazione degli arrosti; solo con il trascorrere dei secoli, verso il 1300, si avrà la ricomparsa, sulle tavole dei cavalieri, delle ricette più elaborate provenienti dalla riscoperta degli usi gastronomici dell’antica Roma; fino ad allora tuttavia la carne verrà sempre arrostita per essere mangiata, al di là di ogni pregiudizio, senza l’uso delle stoviglie che noi riteniamo indispensabili ma che erano sconosciute sin dall’antichità. Il monaco Eginardo, autore di una Vita di Carlo Magno, ci descrive i pasti “normali” dell’imperatore come tutt’ altro che frugali, costituiti da ben quattro portate più l’arrosto di cacciagione. Il sovrano dovrà proprio a un’alimentazione del genere, basata essenzialmente sulla carne, il male che lo tormenterà sino alla morte, la gotta, malattia considerata sin dai tempi antichi tipica dei ricchi, che potevano concedersi pietanze abbondanti e condite. Un pasto frugale consumato da una famiglia di umile estrazione sociale.


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Carlo Magno, goloso di arrosti, fu ghiotto di carni rosse e selvaggina. Quando, a causa della sua malattia (la gotta), i medici di corte gli consigliarono una dieta più equilibrata, egli rifiutò di cambiare le sue abitudini alimentari. Rappresentazione di un ricco banchetto tipico delle classi agiate.

“Carlo Magno mangiava a banchetto assai raramente e solo nelle grandi solennità, allora tuttavia con un grande numero di commensali. La cena di ogni giorno era solo di quattro portate, a parte l’arrosto, che i cacciatori erano soliti infilzare allo spiedo e che egli mangiava più volentieri di qualsiasi altro cibo”. 1 Quali fattori determinano l’uso quasi esclusivo di cereali e legumi nella dieta diffusa nel medioevo? Ti sembra di poter stabilire un confronto con il nostro tempo? 2 Perché dopo l’anno Mille le abitudini alimentari dei servi e dei contadini peggiorano?

Eginardo, autore della Vita Karoli, fonte di primaria importanza per gli studi su Carlo Magno e sull’epoca carolingia.

3 Che significato hanno i banchetti nel contesto della corte feudale?

Bibliografia Eginardo, Vita Karoli, Roma, ed. Salerno, 1980.


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12. UNA VIAGGIATRICE MODERNA ALL’ALBA DEL MEDIOEVO: EGERIA Il ruolo della donna nell’antichità e nel Medioevo Quando Egeria si mise in viaggio alla volta della Terrasanta, non dovevano essere molte le donne disposte a scalare montagne alte e ripide, inerpicandosi sul Sinai e il Nebo, oppure a varcare grandi fiumi come l’Eufrate, dove si trovò a navigare.

Dobbiamo ricordare infatti che nell’antichità, e in seguito nel Medioevo, alle donne era riservato esclusivamente il ruolo di moglie e di madre all’interno della famiglia. Si riteneva quindi del tutto superfluo fornire alle ragazze, destinate sin dalla nascita al matrimonio, una istruzione che le rendesse indipendenti dal giudizio e dall’autorità del padre e del marito. Lo spazio che nella vita degli uomini sin dall’infanzia era riservato alla loro formazione sia fisica che intellettuale, in vista del futuro ruolo sociale che un cittadino a pieno diritto era chiamato a svolgere, per le donne si riduceva al solo apprendimento del compito di responsabile del funzionamento della casa essendole affidata, tutt’al più, l’educazione delle figlie femmine che avrebbero seguito la sua stessa sorte.

Il diario di viaggio Se dunque la famiglia e l’ambito domestico erano il fine esclusivo della vita di una donna, si capisce come la maggioranza dei genitori ritenesse inutile, se non addirittura dannosa, l’esperienza di un viaggio tanto impegnativo quanto lungo come quello intrapreso da Egeria in Palestina. Lungo il cammino avrebbe potuto conoscere persone e fare esperienze tali da ampliaDue donne intente a svolgere mansioni tipicamente femminili.

Nell’antichità, il capofamiglia di sesso maschile esercitava il ruolo predominante.


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te le condizioni precarie in cui il testo si presentava alla lettura, gli studiosi hanno potuto giungere alla datazione e all’attribuzione del diario al talento di una donna: Egeria appunto. Alla fine del IV secolo d.C., quando lasciò la nativa Galizia, forse Santiago de Compostela, diretta in Oriente, Egeria doveva essere ancora piuttosto giovane e di famiglia benestante, il che le permetteva di soggiornare in modo agiato, alloggiando nelle locande migliori lungo il cammino percorso in quegli stessi anni dai pellegrini, avvalendosi anche di guide qualificate, accolta dalle massime autorità religiose presenti nei luoghi che raggiungeva. Come gran parte degli abitanti dell’Europa in quel periodo, Egeria era stata iniziata alla fede cristiana ma, a differenza della maggioranza degli uomini e soprattutto delle donne del suo tempo, sapeva leggere e scrivere e conosceva con grande precisione la Bibbia. Non dimentichiamo infatti che nel Medioevo Nell’antichità la scrittura era riservata ai religiosi e in particolare agli amanuensi dei monasteri.

Le terre della Galizia, punto di partenza del lungo viaggio intrapreso da Egeria.

re la sua cultura e le aspettative di vita, mettendo in discussione una tradizione consolidata da secoli che voleva la donna subordinata all’uomo. Non sappiamo come e perché fu data a Egeria la possibilità di viaggiare; possiamo immaginare che la meta della Terrasanta giustificasse il fatto che a compiere il pellegrinaggio fosse anche una donna, è innegabile però che, dal racconto che Egeria ci ha lasciato, riconosciamo in lei uno spirito davvero moderno, capace di osservare, interrogarsi davanti agli orizzonti nuovi che via via le si presentano. Il manoscritto che ci ha permesso di conoscere questo diario di viaggio ha subito notevoli vicissitudini, ritrovato casualmente alla fine dell’’800 e privo della fine e dell’inizio. Nonostan-


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Primo piano sull’ospitalità e sul turismo

non solo chi proveniva dalle classi meno agiate era analfabeta, ma anche chi vantava un’origine nobile ignorava spesso la scrittura, perché considerata un’attività pratica da riservare agli scribi e agli amanuensi dei monasteri. Inoltre, se è vero che il cristianesimo come l’ebraismo si basa sulla parola tramandata dalla Bibbia, la conoscenza diretta dei testi sacri era considerata una prerogativa del clero, venendone addirittura in molti casi sconsigliata ai fedeli, che pure ne fossero stati in grado, la lettura individuale. 1 Prova a riflettere sugli ostacoli che nell’an-

tichità rendevano difficile a una donna intraprendere un viaggio come quello di Egeria.

Un lungo viaggio per raggiungere la meta Fu grazie alla sua singolare cultura, dunque, che la giovane Egeria poté compiere il suo lungo viaggio, protrattosi per circa tre anni, con le sacre scritture alla mano, visitando tutti i luoghi menzionati nell’Antico e nel Nuovo Testamento.

Lungo il cammino annotò tutto quello che le sembrava degno di nota nel suo diario di viaggio, consentendoci ancora dopo milleseicento anni, di vedere coi suoi occhi stupiti le meraviglie della Terrasanta. Egeria si imbarcò, non sappiamo bene da quale porto della costa del Mediterraneo, presumibilmente nella Pasqua del 381e giunse in nave sino a Costantinopoli, quindi proseguì sia a piedi che su cavalcature e battelli attraversando la Palestina, l’Egitto, la Fenicia, la Mesopotamia, l’Arabia, affrontando parte del suo cammino in compagnia di altri viaggiatori, e parte invece in modo solitario: nella narrazione del suo diario infatti passa dall’uso del singolare al plurale. La fatica, non irrilevante, dati i mezzi precari di cui disponeva il viaggiatore del tempo, non sembra offuscare il suo gusto per la bellezza del paesaggio, che non manca di annotare con vivaci sequenze descrittive. Le regioni che si trovava a visitare ci appaiono così, attraverso i suoi appunti, ricche di monasteri, chiese, romitori, sacre tombe; Egeria si rivela anche appassionata osservatrice dell’indole umana, curiosa di conoscere la vita degli abitanti di quelle regioni lontane; frequenti sono i passi del diario che descrivono gli incontri con monaci ed eremiti di entrambi i sessi,

Egeria descrive l’Oriente come una terra ricca di monasteri e chiese. Nella foto, il monastero di Santa Caterina, in Egitto. La scalinata sulla sponda del lago di Tiberiade descritta da Egeria nel suo diario di viaggio.


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La valle del fiume Giordano, descritta da Egeria con dovizia di particolari.

Nei conventi e nei monasteri si forniva ospitalità ai viandanti, prestando cure mediche e offrendo cibo.

testimonianza di una vita religiosa ancora assai fervente in oriente. 2 Quali aspetti ti colpiscono del tempera-

mento di Egeria?

Come si svolgevano i viaggi Non manca mai, inoltre, durante le soste in case e monasteri, l’offerta a Egeria da parte dei suoi ospiti delle eulogie. Si trattava di doni molto spesso consistenti in piccoli manufatti, paragonabili ai nostri souvenir, che talvolta potevano essere semplici frutti come per esempio un tipo particolare di mele coltivate negli orti monastici, di cui la giovane viaggiatrice annota il gusto fragrante. Nella descrizione dei paesaggi che osserva, Egeria si sofferma a rilevare

ogni minimo dettaglio, per esempio quando visita i luoghi della predicazione di Giovanni Battista, lungo il corso del Giordano, descrive con molta cura la valle “amenissima” e il frutteto incantevole dove scorre una sorgente d’acqua zampillante e fresca che forma un vero e proprio ruscello. Contemplando estasiata l’Eufrate, il mitico fiume della Mesopotamia, ne paragona il corso a quello del Rodano, con cui sembra avere una certa familiarità. Si affaccia dunque nel lettore delle sue memorie di viaggio il sospetto che la misteriosa viaggiatrice conoscesse bene non solo la sua terra di origine ma anche la Gallia narbonense, al punto da rievocarne più volte il paesaggio naturale durante il suo cammino in terra d’oriente. Il piacere e il gusto del viaggiare si accompagnano costantemente alla devozione ma ci fanno pensare che a spingere Egeria in Oriente fu uno spirito di avventura davvero moderno. 3 Rilevi delle analogie tra il modo di viag-

giare dell’antichità e quello contemporaneo o puoi indicare solo grandi differenze? Bibliografia Egeria, Diario di viaggio, introduzione e note di E. Giannarelli, Torino, Edizioni Paoline,1992.


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13. IN VIAGGIO CON I VICHINGHI A partire dal IX secolo hanno inizio in Europa le scorrerie dei vichinghi. Gli abitanti della penisola scandinava erano anche chiamati normanni dal nome della loro nazione che era appunto la “Terra degli uomini del nord”, Nordmannaland, l’attuale Norvegia. La fama di abili marinai e temibili guerrieri che li accompagnava era avvalorata dalla consuetudine a spostarsi in bande indipendenti, che esercitavano una violenza cieca e crudelissima astenendosi solo in cambio di ingenti quantità d’oro. Ma che cosa li spinse a spostarsi nel sud dell’Europa dalla loro lontana terra d’origine? Una delle cause responsabili del dilagare del “flagello divino” dei vichinghi fu certamente l’incremento demografico favorito dalla pratica della poligamia, ma certamente a spingerli verso le rotte nord occidentali fu la necessità di incrementare i loro traffici commerciali dopo le conquiste dell’impero carolingio. Già nell’874 un gruppo ridotto di vichinghi si stabilì in Islanda e di lì a cento anni fu la volta della Groenlandia, da cui probabilmente salparono altre navi vichinghe, dirette verso le coste dell’America del Nord.

Le rotte dei vichinghi Per comprendere meglio la natura ra di quenche noi sto popolo, possiamo compiere anche enun viaggio a ritroso nel tempo, scenUn’antica fibbia vichinga.

dendo dall’estremo Nord della Norvegia verso Bergen a bordo di un battello postale. Fin dall’ Ottocento, infatti, esiste un servizio postale che percorre questa tratta costeggiando la penisola scandinava frastagliata dai caratteristici fiordi, le profonde insenature dove il mare del Nord si addentra a formare splendide baie in cui si specchiano le montagne. I postali in effetti percorrono le stesse rotte seguite dagli antichi vichinghi a bordo delle veloci drakkar, le tipiche navi dallo scafo poco profondo che consentivano di navigare in fondali bassi e quindi di risalire anche il corso dei fiumi. Il nome di queste imbarcazioni deriva dalla forma della prua, ornata dalla testa di un mostro e di un drago.

Le tecniche di navigazione Sebbene la chiglia fosse relativamente bassa, le drakkar erano abbastanza capienti così da essere in grado di imbarcare truppe e bottino e da consentire una velocità superiore alle navi rivali dei Franchi e degli Anglosassoni. I vichinghi a bordo delle loro navi contavano molto sull’effetto sorpresa: giungevano nei pressi delle città con inaspettata velocità, navigando agilmente lungo il corso dei fiumi come il Reno, la Senna, il Tamigi; facevano razzia con crudeltà

La testa di drago di legno intagliato che ornava le navi vichinghe, per questo motivo chiamate drakkar.


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e violenza e rapidamente risalivano il fiume sino al mare. Va detto che l’uso della vela venne introdotto dai Vichinghi solo tra il VII e l’VIII secolo, quando svilupparono una capacità di navigazione davvero temibile, avendo usato sino a quel momento soltanto la trazione dei remi. Le drakkar rappresentavano qualcosa di più che non una semplice ancorché funzionale imbarcazione, dal momento che i capi vichinghi, alla loro morte, venivano deposti all’interno della nave, circondati da un ricco corredo funerario, per essere poi sepolti con essa nelle torbiere di cui la Norvegia è ricca. Grazie a questa tradizione sono giunti fino a noi alcuni esemplari di queste imbarcazioni, come per esempio la nave di Gokstad, ritrovata all’interno di un cumulo di argilla azzurrastra che ne ha consentito la conservazione. Lunga 26 metri, per 6 di larghezza, in legno di quercia, questa imbarcazione appare il risultato di una tecnica assai avanzata: lungo i fianchi si aprono fori per sedici paia di remi sopra i quali, da ogni fiancata, sporgevano in fila gli scudi. La chiglia è ricavata da un solo tronco mentre le assi che compongono lo scafo sono assemblate con il pelo animale intriso di pece. Il timone, costituito da

un tronco di quercia, era assicurato al fianco destro in prossimità della poppa, con alla sommità una sbarra che serviva per governarlo con maggiore facilità rispetto ai modelli tradizionali.

Le isole Lofoten Se torniamo al nostro viaggio a bordo del postale su cui ci siamo imbarcati, ci accorgiamo che la rotta si sta orientando a ovest, verso il mare aperto, per raggiungere l’arcipelago delle Lofoten, celebri non soltanto per la tradizionale pesca dei merluzzi ma anche per gli improvvisi gorghi del Maelstrom, nemici temutissimi dei naviganti che ne attribuivano l’origine a orribili mostri marini. Anche stavolta il ritorno al passato è inevitabile: i vichinghi, gli avventurosi navigatori che non temevano di scontrarsi con le potenze rivali del mare del Nord, guardavano con vero terrore a questo misterioso risucchio capace di inghiottire improvvisamente una nave. L’epica diffusa tra gli uomini della terra del Nord narrava la disfatta di interi bastimenti imprigionati dai flutti di questi gorghi che si schiudevano improvvisamente tra le strettoie dell’arcipelago.

Il Museo delle navi vichinghe di Bygdøy, vicinissimo a Oslo, ospita tre navi trovate in tre grandi cumuli funerari sul fiordo di Oslo. È perfettamente conservata l’imponente nave di Gokstad, di cui vediamo qui a fianco una foto d’epoca scattata durante il ritrovamento.


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In realtà non esistono misteriosi mostri ma solo pericolose correnti marine generate negli stretti bracci di mare tra le isole Lofoten, una delle località più inospitali del pianeta: solo muschi e licheni sono in grado di sfidare l’erosione del vento che soffia in ogni stagione mentre, nelle lunghe notti invernali, il ghiaccio copre ogni cosa. Ma con quel vento i Vichinghi seppero convivere, arrivando a usarne la potenza per essiccare il merluzzo pescato disteso in lunghe rastrelliere, allora come oggi, davanti alle piccole abitazioni di legno scurito.

Le saghe I villaggi che anche oggi, infatti, sorgono sulla costa sono costituiti da poche case che ci ricordano come la vita a queste latitudini sia tutt’altro che facile ma anche che, nonostante tutto, chi vi nasce non rinuncia a restare. Così era per i mercanti e i predoni normanni che tornavano a bordo delle drakkar dopo i lunghi viaggi nel sud in cerca di prede, allenati da condizioni di vita davvero proibitive. Possiamo immaginarli intenti a scaldarsi davanti al fuoco che arde nel vasto ambiente

centrale delle loro lunghe case di legno, coperti da folte pellicce e infiammati dalla birra e dal sidro di cui erano assidui consumatori. Le lunghe veglie notturne erano allietate dalla narrazione delle saghe, i racconti dove i miti antichissimi del popolo della terra del Nord si uniscono alle storie nate dall’esperienza dei commerci. Ci colpisce al riguardo la saga di Erik il rosso, in cui leggiamo dell’incontro-scontro tra un mercante islandese, Torfinn Karlsefni, e gli indigeni americani, chiamati letteralmente skraelingar ovvero “uomini brutti”; dall’episodio appare chiaro l’intento di spiegare in chiave fantastica la decisione dei vichinghi di non restare in America del Nord: “Quando cominciò la primavera, videro una mattina presto molti uomini navigare da Sud davanti alla penisola con imbarcazioni di cuoio. Quando si incontrarono, presero a mercanteggiare e quella gente voleva acquistare specialmente panni rossi. In cambio offrivano oggetti di cuoio e pelli interamente grigie. Volevano comprare anche spade e lance. Per tre settimane non accadde nulla. Ma quando fu trascorso questo tempo, essi videro avanzare da sud una grande schiera

Uno dei temibili gorghi del Maelstrom, a largo delle isole Lofoten.


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Veduta delle isole Lofoten.

di barche degli “uomini brutti”. Essi balzarono dalle barche, andarono loro incontro e si azzuffarono. Ci fu allora una fitta gragnola di proiettili, poiché gli uomini brutti avevano anche delle catapulte. Torfinn Karlsefni e i suoi credettero allora di vedere che in quel posto la terra offriva dei campi eccellenti ma là incombeva il pericolo e non v’era mai pace, per via degli abitanti primitivi. Quindi se ne andarono via e decisero di tornarsene al loro paese e veleggiarono verso nord, lungo la costa”. 1 Che cosa spinse probabilmente i vichinghi

a scendere verso il sud dell’Europa e a prendere il mare aperto verso Ovest? Fin dove si spinsero? 2 Quale carattere avevano i Vichinghi? Come

apparivano ai popoli dell’Europa del Sud? 3 In quale ambito si manifestava special-

mente la loro grande abilità? Erik il Rosso, protagonista di una delle più note saghe vichinghe.

Bibliografia J.Brondsted, I Vichinghi, Torino, Einaudi tascabili, 2001.


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14. OSPITI NEL MONASTERO BENEDETTINO

Impegnati in una vita di preghiera, lontano dai beni terreni e dalle ambizioni della società, i seguaci di san Benedetto svolsero tra l’altro una importante funzione

per la conservazione delle opere della letteratura e della filosofia classica. Nei monasteri infatti, dopo le preghiere recitate in diversi momenti del giorno nella chiesa abbaziale, accanto alle occupazioni destinate al sostentamento della comunità come la coltivazione e l’allevamento, alcuni monaci erano intenti a trascrivere, preservandoli così dalla totale distruzione dovuta al cattivo stato di conservazione, i testi degli scrittori antichi che la decadenza delle istituzioni civili e politiche, le scorrerie di soldati e predoni in tutta Europa avrebbero certo causato. Le abbazie benedettine, ovvero i complessi di edifici costruiti per le necessità dei monaci, si diffusero in breve tempo in tutta Europa divenendo importanti centri di vita culturale e anche economica, considerando la fervida attività agricola che i monaci intraprendevano accanto alla vita di preghiera. Gli edifici che costituivano un’abbazia si articolavano intorno alla chiesa abbaziale dove i monaci pregavano l’Ufficio divino (salmi e testi della Bibbia) durante il giorno e una parte della notte. Si trattava di costruzioni destinate a svolgere funzioni strettamente con-

San Benedetto da Norcia in un bassorilievo del 1250 circa.

Nello scriptorium i monaci amanuensi trascrivevano gli antichi testi classici.

Nel panorama desolato dell’Europa alto medievale, un ruolo certamente importante fu svolto dai monaci benedettini che contribuirono alla conservazione della cultura e della civiltà classica. Mentre infatti il monachesimo in oriente si sviluppò in forma eremitica, ovvero il monaco sceglieva di vivere in totale solitudine la sua esistenza dedicata alla preghiera, in Europa i monaci si organizzarono in comunità dette “cenobi” per praticare un’intensa vita di preghiera all’insegna del vangelo: la vita “cenobitica”. Una delle figure più interessanti di questo orientamento del monachesimo cristiano fu san Benedetto da Norcia, che nel 529 riunì intorno a sé una comunità di compagni nel monastero di Montecassino, nel Lazio meridionale, dettando un programma di vita comunitaria che fu da allora nota come la “Regola” dell’ordine dei monaci benedettini.

I monasteri


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nesse con la vita della comunità: il dormitorio con le celle dei monaci era il luogo destinato al riposo; nel refettorio venivano consumati i pasti in silenzio; la sala del capitolo era il luogo dove la comunità si riuniva intorno all’abate, il superiore, per discutere i problemi del monastero; nello scriptorium, generalmente caratterizzato da finestre più numerose e orientate a sud per catturare meglio i raggi del sole, i monaci addetti svolgevano l’opera di trascrizione dei testi classici che abbiamo già ricordato; i magazzini servivano a conservare i prodotti del lavoro agricolo e infine c’era la foresteria, un edificio appositamente destinato all’accoglienza di viandanti, pellegrini e anche personalità di riguardo.

L’ospitalità benedettina A questo proposito, dobbiamo ricordare che i monasteri vennero ben presto considerati luoghi privilegiati di ospitalità per quanti desideravano o erano obbligati

Bassorilievo raffigurante due monaci al lavoro.

1. Foresteria 2. Chiostro 3. Refettorio 4. Scriptorium 5. Orti 6. Cimitero 6

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4

2

3

1


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Primo piano sull’ospitalità e sul turismo

a spostarsi da un capo all’altro dell’Europa medievale. Sappiamo infatti che lo stato di decadenza delle vie di comunicazione, lo spopolamento delle città, la presenza di predoni senza scrupoli rendevano il cammino di chi viaggiava nel Medioevo piuttosto difficoltoso e incerto. Il monastero era quindi percepito come un porto sicuro dove chiedere asilo al riparo dai rischi che si incontravano frequentemente lungo la strada. La regola dettata da san Benedetto era inoltre esplicita in riferimento al dovere dell’accoglienza degli ospiti da parte del monastero. A tale riguardo si legge: Capitolo LIII - L’accoglienza degli ospiti Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto” e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai pellegrini. Quindi, appena viene annunciato l’arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore; per prima cosa preghino L’abbazia di Montecassino.

insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace. Questo bacio di pace non dev’essere offerto prima della preghiera per evitare le illusioni diaboliche. Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in partenza, adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità. Dopo questo primo ricevimento, gli ospiti siano condotti a pregare e poi il superiore o un monaco da lui designato si siedano insieme con loro. Si legga all’ospite un passo della sacra Scrittura, per sua edificazione, e poi gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità. Se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il superiore rompa pure il suo digiuno per far compagnia all’ospite, mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito. L’abate versi personalmente l’acqua sulle mani degli ospiti per la consueta lavanda; lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: “Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo Tempio”. Specialmente


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Il monastero di Fonte Avellana a Serra Sant’Abbondio, in provincia di Pesaro e Urbino.

i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare e, d’altra parte, l’imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé. (dalla “Regola monastica di San Benedetto”)

L’accoglienza di ospiti di ogni ceto sociale Potremmo sorprenderci osservando che il fondatore del monachesimo benedettino ritenesse fondamentale trattare il tema dell’ospitalità nei monasteri, invitando esplicitamente i monaci ad assicurare particolari premure a chi chiedesse di essere accolto, tuttavia va detto che non dovevano essere poi tanto rari i viandanti che attraversavano le regioni europee. Per quanto disagiati e pericolosi, i viaggi erano comunque necessari per raggiungere i luoghi santi della cristianità come per esempio Roma, Santiago de Compostela, Gerusalemme, luoghi di grande attrattiva per la cultura e la mentalità medievale. Non era infrequente poi che a chiedere ospitalità fossero coloro che si mettevano in viaggio per affari, lontani dallo stile di vita dei monaci ma convinti di trovare qui un luogo accogliente e sicuro, preferibile alle rare locande spesso mal frequentate che si potevano incontrare. Era poi possibile

che il monastero accogliesse con particolare sollecitudine aristocratici ed ecclesiastici abituati a tenori di vita ben diversi da quelli monastici ma costretti, se necessario, a ricorrere all’ospitalità benedettina. Ai pellegrini e ai viandanti di qualsiasi ceto, senza distinzioni, il monastero apriva le sue porte, senza chiedere nulla in cambio, ritenendo di assolvere così alla sua stessa vocazione, seguendo l’intuizione dello stesso San Benedetto. 1 Che attività svolgevano i monaci secondo

la regola di san Benedetto? 2 Come si articola un complesso abbaziale benedettino? 3 Perché dobbiamo ai monaci benedettini una parte importante del patrimonio letterario dell’antichità? 4 Che cosa prevedeva la regola di San Bene-

detto per quanto riguarda l’ospitalità? Bibliografia H.C. Preyer, Viaggiare nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 2005.


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15. LE VIE DEI PELLEGRINI NEL MEDIOEVO: IL CAMMINO DI SANTIAGO Il pellegrinaggio medievale: un modo particolare di viaggiare Il senso del pellegrinare lungo un itinerario, più o meno lungo, in direzione di una meta religiosa, nel Medioevo assumeva un significato molto particolare. Chi compie un pellegrinaggio oggi fa un viaggio interessante e sicuro alla scoperta di luoghi e culture dove trovare risposte alle domande di senso della vita. Per gli uomini del Medioevo, un tempo in cui la visione religiosa della vita riassumeva in sé tutte le altre dimensioni, il pellegrinaggio era il simbolo della vita stessa, intesa cioè come un viaggio che conduceva l’uomo verso la meta finale, ovvero Dio. È per questo che, generalmente, l’esperienza del pellegrinaggio era comune alla maggioranza degli uomini e delle donne di quell’epoca, in cui il tempo, non va dimenticato, era scandito dal ciclo stagionale della natura e dalle festività liturgiche della chiesa.

La concezione medievale del tempo Dai più piccoli villaggi agricoli alle città sviluppate in prossimità degli antichi centri di fondazione romana, questa concezione del mondo e della vita era inoltre ben rappresentata dalla presenza dell’edificio della chiesa e del campanile che sorgevano nel cuore del centro abitato, affacciati in genere sulla piazza. Il suono delle campane era familiare agli abitanti del borgo e li richiamava allo scorrere delle ore della preghiera che inevitabilmente diventava misura del tempo anche per le occupazioni quotidiane. In un contesto simile è comprensibile come, chi fosse in condizione di poterlo fare, prendesse la decisione di avventurarsi, è proprio il caso di usare questo termine, in una delle vie dei pellegrini che collegavano l’Europa cristiana. Da un capo all’altro delle regioni queste strade dissestate rendevano raggiungibili i principali santuari della devozione popolare in un contesto in cui non esistevano né treni né aerei, ma si poteva contare solo sulle proprie gambe o, nella migliore delle ipotesi, su animali da soma.

1 Prova a pensare ai ritmi che il tempo ha

assunto nella società attuale. Da che cosa sono scanditi? Si considera ancora l’andamento stagionale? E che ruolo hanno al riguardo oggi le festività religiose?

Le mete tradizionali dei pellegrini È facile intuire come le mete capaci di esercitare un’innegabile attrattiva sull’immaginario medievale fossero le due città sante della cristianità, Gerusalemme e Roma: la prima, a oriente, per essere stata il luogo che vide il Cristo predicare e morire sulla Croce, la seconda nel cuore dell’occidente, percepita come la sede del vicario di Cristo, il successore di San Pietro che a Roma fu martirizzato presso il colle Vaticano durante le persecuzioni di Nerone. Entrambe le città evidentemente preesistevano al Medioevo anche se in questo periodo saranno al centro di avvenimenti che le vedranno riaffermarsi sia come località religiose di grande rilievo che in qualità di determinanti centri politici. 2 Rifletti sul senso che assume il viaggio nel contesto della società globalizzata: l’alta velocità e i media hanno trasformato la nostra percezione dello spazio?

La novità di Compostela Del tutto nuova era invece la fama di una località situata sulla costa settentrionale della penisola iberica: Compostela. Qui giunse dalla Palestina, attraverso le complesse avventure che nel Medioevo vedevano spesso contese e trafugate le reliquie dei santi, il corpo dell’apostolo San Giacomo. Nel contesto culturale di cui abbiamo detto il cristianesimo è elemento centrale, il possesso di reliquie era considerato, dagli abitanti delle città che spesso se le contendevano, un inequivocabile segno di prestigio.


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La cripta sottostante l’altare delle maggiori chiese edificate in questo periodo era appositamente pensata per custodire gelosamente i resti mortali di quei santi ai quali la comunità civile si riferiva come protettori potenti della incolumità dai pericoli sempre in agguato. Fu davvero breve il passo che fece di questo borgo, ai limiti dell’Europa continentale in Galizia, un rilevante centro di culto, capace di reggere il confronto con le tradizionali mete della devozione popolare. Nessuno infatti metteva in dubbio la fama dell’apostolo Giacomo, scelto da Gesù tra i dodici e in seguito autore di alcune Lettere che fanno parte del Nuovo Testamento. La prima basilica, nata per ospitare a Compostela le reliquie di San Giacomo, fu fondata nell’899 e sarebbe stata sostituita da un secondo tempio in stile romanico assai più maestoso iniziato nell’XI secolo e terminato nel 1128 dopo oltre cento anni di lavori. La cattedrale di Santiago de Compostela.

LE QUATTRO VIE PER RAGGIUNGERE SANTIAGO Inghilterra

Mar Cantabrico

Portogallo Spagna

Mar Mediterraneo


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Primo piano sull’ospitalità e sul turismo

Il cammino di Santiago Per raggiungere e per venerare le spoglie dell’apostolo, i cristiani disponevano di quattro vie che, a partire da diversi centri noti alla religiosità popolare in Francia, si unificavano a formare un solo cammino alle falde dei Pirenei. Lungo il percorso, niente affatto lineare se si guarda al tracciato stradale e si pensa ai mezzi di equipaggiamento dell’epoca, i pellegrini potevano trovare accoglienza di tanto in tanto in alloggi di fortuna presso chiese e monasteri o, se le condizioni economiche glielo consentivano, in rare locande presenti lungo il percorso. Ciò non scongiurava il pellegrino, che si avventurava nell’impresa, dal rischio di imbattersi in predoni e avventurieri disposti a tutto pur di estorcere qualcosa ai malcapitati. La povertà diffusa e la scarsa presenza sul territorio di quelli che oggi consideriamo tutori dell’ordine rendevano molti, in questo contesto, potenziali aggressori di indifesi viandanti e stranieri. Nonostante tutto, non pochi si cimentavano nell’impresa del cammino, appartenenti a diversi ceti sociali, sebbene in prevalenza i pellegrini provenissero

Il cammino di Santiago.

dalla classe più abbienti, proprio perché l’agiatezza economica li metteva in grado di potersi allontanare facilmente dalle occupazioni quotidiane senza recare danno ai loro affari. 3 Verifica confrontando la cartina del Cam-

mino di Santiago con quella odierna, la trasformazione delle regioni interessate.

Il valore di una conchiglia, ben più di un souvenir Giunto sulla tomba del santo, dopo aver partecipato alle celebrazioni, ogni pellegrino riceveva al termine della permanenza presso il santuario una conchiglia che comprovava al suo ritorno a casa il compimento del pellegrinaggio. La conchiglia aveva già innegabilmente un importante valore simbolico sin dall’antichità classica: essa era da sempre il segno della vita misteriosamente generata dal mare. Con il cristianesimo essa si era arricchita di un valore ulteriore ma affine al precedente: nel battesimo


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La conchiglia, simbolo della vita generata dall’acqua, che ogni pellegrino riceveva al termine della sua permanenza presso il santuario di Santiago.

in Cristo ogni credente rinasceva dall’acqua come la conchiglia generata dal mare. Presso la maggioranza dei credenti tuttavia la conchiglia di Santiago diveniva il simbolo inconfondibile della mano del vero cristiano che si apre alle opere della carità e, secondo le parole scritte dall’apostolo Giacomo nella sua Lettera, dimostra la sua fede in Cristo. C’è così da credere che chi ne entrava in possesso considerasse la conchiglia di san Giacomo ben più che un souvenir. Riassumeva infatti il senso del cammino, per niente semplice, intrapreso verso Santiago e si traduceva nel proposito di perseverare, durante il restante percorso di vita, nella pratica della carità verso il prossimo. 4 Pensa se anche oggi esistono oggetti che

assumono come la conchiglia di Santiago un valore simbolico condiviso dalla collettività e spiega a che cosa si riferisce. 5 Ricerca notizie e informazioni su Santiago

de Compostela oggi. Ha ancora una rilevanza culturale in Europa?

Il simbolo della conchiglia, disseminato lungo il percorso, indica la giusta via verso Santiago. Bibliografia R. Ourcel, Pellegrini nel Medioevo: gli uomini, le strade, i santuari, Jaca book, 1978-2003. H.C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo, Dall’ospitalità alla locanda, Laterza, 1987. F. Cosi-A. Repossi, Il bastone e la conchiglia, ed. Ancora, Milano, 2007. D. Pericard Mea, Compostela e il culto di San Giacomo, Il mulino, 2004.


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