La lunga fuga dall'Istria

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Quaderni di Generazioni

La lunga fuga dall’Istria PROFUGHI GIULIANO DALMATI A NOVARA (1946-1956)

a cura di

Novara


Questa pubblicazione è stata creata a seguito del laboratorio “La Storia raccontata ai più giovani” all’interno del progetto

Onde positive per raggiungere nuove sponde è un progetto della Biblioteca Civica Carlo Negroni, dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Novara e di Associazione Culturale Muse , realizzato grazie al contributo di Fondazione Cariplo. Un sasso gettato in uno stagno crea cerchi concentrici che si allargano e si allargano fino ad arrivare a riva. Partendo dalla biblioteca, attraverso azioni molteplici e mirate, vogliamo allargarne il campo d’azione per raggiungere nuovi pubblici e approfondire distinti argomenti. I Quaderni di Generazioni, secondo questo spirito di allargamento degli orizzonti e di creazione di nuove connessioni, vogliono contribuire a mettere in comunicazione diverse generazioni della nostra città e vogliono raccontare ai più piccoli ciò che è accaduto e che ha lasciato un segno tangibile nella vita quotidiana.

a cura di Anteas Novara - Associazione Terza Età Attiva e Solidale Organizzazione di volontariato promossa da Fnp Cisl Novara, viale Dante 22 Tel. 0321.393976 Editing e impaginazione: Elena Lah | Associazione culturale Muse Revisione editoriale: Alessandra Bianchi | Associazione culturale Muse

realizzato grazie al contributo di


La lunga fuga dall’Istria PROFUGHI GIULIANO DALMATI A NOVARA (1946-1956)


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Leggendo le testimonianze raccolte dalle volontarie Anteas dei novaresi che hanno vissuto l’esperienza di profughi, la prima cosa che viene alla mente è quanto le storie di migrazione siano sempre attuali e ci coinvolgano direttamente. Novara è stata, alla fine della Seconda Guerra mondiale, una nuova casa per chi è stato mandato via o è scappato dalla propria terra, un trauma che sconvolge le vite di chi l’ha vissuto, che spezza legami familiari e cambia violentemente le prospettive del proprio futuro. Si leggono parole di disperazione, di infelicità, ma anche di accoglienza, di apertura verso chi è in difficoltà, con la coscienza di poter essere destinati a trovarsi nella stessa situazione. L’importanza di questa pubblicazione sta proprio in questo: riscoprire una storia così vicina che troppo spesso leggiamo come lontana, come riguardante altri popoli, altre regioni. Ringrazio chi ha raccolto queste storie e chi ha voluto raccontarle, per fare in modo che la Storia sia riconoscibile nelle storie di chi conosciamo, nostri concittadini che hanno un vissuto che può farci riflettere. Paola Turchelli Assessore del Comune di Novara al sistema dei beni e delle attività culturali, la promozione della cultura e della creatività giovanile e le iniziative culturali per le famiglie

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Due volontarie Anteas Novaresi, Luisa e Carla, si sono imbattute in racconti fatti da alcuni anziani novaresi che avevano vissuto, direttamente o nel cerchio parentale, l’esperienza dolorosa di profughi istriani. Da questi contatti stimolanti è nata l’idea di raccogliere queste testimonianze in una piccola raccolta di ricordi, con il solo intento di “restituire” a loro che l’hanno raccontata - ma anche ad altri anziani e non - frammenti di storia vissuta, affinchè non fossero dimenticati e perchè la loro narrazione fosse “valorizzata” e condivisa. Sull’argomento moltissimo è stato scritto in modo autorevole e storicamente qualificato. Qui, come ricordato, si vuole solo “farsi portavoce” di racconti e esperienze personali, raccolte da anziani che amano ripercorrere e condividere il loro vissuto, spesso drammatico. Un vissuto particolarmente presente a Novara, il cui fenomeno – quello dei profughi istriani – è parte integrante della storia novarese e che ha dato vita addirittura ad un popolare quartiere cittadino: il Villaggio Dalmazia. La partenza forzata nel primo dopoguerra di gran parte della popolazione italiana dell’Istria di Fiume e della Dalmazia rappresenta uno dei passaggi più tormentati della storia del nostro Paese: un evento indotto dalle gravi pressioni a cui la popolazione italiana di quelle terre - assegnate alla Jugoslavia alla fine della guerra - fu sottoposta dalle autorità di Belgrado. Un esodo forzato che ha coinvolto oltre 350.000 persone costrette a lasciare la propria terra nativa, per cercare ospitalità all’interno dei molti campi profughi appositamente allestiti in tutta Italia: circa 130 strutture disseminate per tutto il Paese. La gestione di tali strutture fu affidata al Ministero dell’Interno e a quello dell’Assistenza Post-Bellica, che operavano in collaborazione con le autorità Municipali e gli Enti Comunali di Assistenza (ECA). In Piemonte furono predisposti tre grandi centri di raccolta profughi: alle Casermette di Borgo San Paolo a Torino, alla Caserma Passalacqua di Tortona e alla Caserma Perrone a Novara. Il totale dei profughi istriani, dalmati, giuliani raccolti nei Centri Profughi Piemontesi ammonta ad oltre 12.500 unità. Un esodo “biblico” che coinvolge intensamente quindi anche Novara dove, a fine 1945 inizio 1946, i primi profughi arrivano, privati di quasi tutto, portando con sé il minimo indispensabile. A Novara i primi 160 esuli Giuliano-Dalmati, vengono ospitati nel Centro Raccolta Profughi della Caserma Perrone (oggi sede dell’Università). Negli anni successivi, Novara vede l’arrivo dei profughi aumentare fino ad oltre 1200 presenze, per poi attestarsi attorno al migliaio, fino al 1956, anno di chiusura del Campo ed alla creazione del Villaggio Dalmazia, istituito tra il 1954 e il 1956.

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Come negli altri Campi di Raccolta, anche a Novara alla Caserma Perrone gli esuli si trovano a vivere in condizioni estremamente precarie, dove interi nuclei familiari vivono in spazi angusti di pochi metri, separati solo da coperte, lenzuola, cartoni o compensati, dove gli ambienti sono malsani e precarie le condizioni igieniche. A questo si aggiunge spesso l’emarginazione e l’isolamento sociale, poiché i campi e i loro occupanti finiscono per essere un mondo completamente estraneo alla vita e alle consuetudini del resto della città. Questa condizione di degrado viene efficacemente descritta sulle pagine novaresi del giornale La voce del popolo dove, riferendosi al Campo della Caserma Perrone, si denuncia “un brulicare di famiglie, una comunità organica, dove i bambini nascono e crescono e le vicende si intrecciano; ma tutto con un senso di incompleto e provvisorio, che stringe il cuore”. Tuttavia bisogna ricordare che a Novara l’arrivo dei profughi vede anche manifestazioni di solidarietà da cittadini e da istituzioni civili e religiose, impegnate fin dai primi arrivi, ad offrire aiuti ed assistenza. Un esempio: già nel dicembre del 1946 una pubblica sottoscrizione a favore dei profughi consente di raccogliere fra i cittadini novaresi la considerevole somma (per quei tempi) di 800mila lire. Così come va rilevato l’importante ruolo di soccorso morale e materiale giocato dalla Chiesa novarese con a capo Monsignor Ossola, all’epoca Vescovo della città. Nel novembre del 1947 il Vescovo, fra l’altro, vuole impartire personalmente la comunione e la cresima a un centinaio di bambini profughi della Caserma Perrone. Un gesto di grande valore non solo religioso, poichè la scelta di padrini e madrine fra cittadini novaresi permette anche di rinsaldare il legame tra i profughi e la cittadinanza. Nel 1952 viene emanata una Legge per la costruzione di abitazioni destinate ai profughi ospitati dai Centri di Raccolta. A Novara alla Caserma Perrone erano ancora presenti oltre 300 famiglie. Dopo alterne vicende, nel 1953 al Torrion Quartara, viene individuata un’area di circa 60.000 mq sulla quale edificare, a cura dello IACP, le nuove abitazioni. Nasce così il Villaggio Dalmazia destinato ad accogliere 1300 profughi. Il 20 agosto 1956 il Villaggio Dalmazia viene inaugurato con una fastosa cerimonia, presieduta dal Sottosegretario del Governo Oscar Luigi Scalfaro che, insieme a quella del sindaco, vede la partecipazione delle principali autorità politiche, religiose scolastiche, amministrative e militari della Città. Un grazie ed un apprezzamento vivissimo va rivolto alle due volontarie Anteas, Luisa e Carla, che hanno voluto “dare voce a chi non ne ha”, fissando su carta le testimonianze raccolte fra anziani, rendendole fruibili anche ad un pubblico più giovane, ai nipoti, ed agli adolescenti: non solo perchè questo rafforza il dialogo intergenerazionale, ma anche consapevoli che un futuro migliore si costruisce avendo consapevolezza del proprio passato, coi suoi errori e coi suoi pregi. La Presidenza Anteas Novara 8


ALCUNE NOTE STORICHE SULLA VITA AL CAMPO PROFUGHI DI NOVARA Fonte: Archivio di Stato di Novara: Fondo Prefettura Affari Generali (Fpag) e Fondo Prefettura Gabinetto (Fpg) 1) Presenze nel Centro Raccolta Profughi (CRP) di Novara (Caserma Perrone). La gestione del CRP è di competenza del Ministero Assistenza post-bellica. Alla data del 1.06.1947 erano presenti e registrati n. 1257 profughi, negli anni successivi e fino al 31.03.1955 si sono succedute altre 2835 presenze per un totale di 4092 persone, in questo periodo sono stati dimessi 2796 profughi, passati ad altre sistemazioni. (Fpag; 415/6) 2) Presenze al CRP nell’agosto 1953: n° 1275, ma la capienza massima prevista è di 1215, perciò l‘eccedenza da sovraffollamento risulta essere di 59 unità. (Fpag; 414/4) 3) Ogni settimana si aggiorna la presenza al CRP ripartendo i presenti secondo le categorie di appartenenza: a) Profughi propriamente detti; b) reduci militari; c) ex internati civili; d) partigiani; e) rimpatriati dall’estero; f) stranieri. (Fpag; 414) 4) Assistenza ai Profughi e loro definizione. Con disposizione del Consiglio dei Ministri e dell’Ente Nazionale per l’assistenza ai Profughi e la tutela delle Provincie Invase, agli effetti dell’assistenza devono essere considerati come profughi: a) i provenienti dalle Provincie invase dal nemico per timore giustificato di rappresaglia o per ordine della autorità militare; b) quelli che, temporaneamente uscito dalla residenza nelle terre occupate, sono rimasti privi di reddito e di aiuto; c) chi, residente nelle terre libere, traeva i mezzi di sussistenza dal patrimonio nelle terre invase; d) i nativi delle terre invase che traevano i mezzi di sussistenza da parenti (militari e impiegati) che per ragioni di servizio si trovano nelle terre invase; e) i nativi delle terre invase rimpatriati a causa della guerra. (Fpag; 453/2) 5) Gli assistiti vengono alloggiati in 39 grandi camerate dislocate su tre piani. Su ogni piano ci sono i servizi igienici, con venti gabinetti tipo turca e circa sessanta “posti con acqua corrente separati per uomini e donne”. A questi si aggiungono i bagni, due a dieci posti, dislocati all’interno del cortile. Ci sono inoltre, nel cortile, due fontane con vasche, lavatoi e quaranta rubinetti. A ciascun ospite vengono messe a disposizione nella stagione estiva due coperte e cinque in quella invernale, dormono su letti di ferro e su letti di ferro ed assicelle (tipo militare), i materassi sono in cascame di cotone e pagliericci. La paglia viene rinfrescata 9


una volta al mese e cambiata ogni volta se ne riscontra la necessità. (Fpag; 453/f. diversi) 6) Ai nuovi arrivati al CRP viene fatta la disinfestazione col D.D.T. Alle ore 23,00 i profughi devono tassativamente fare rientro nel CRP, e alle ore 23,30 scatta il silenzio. Coloro che non si presentano alle prescritte iniezioni (vaccini) saranno esclusi dalla assistenza sanitaria e verranno proposti per le dimissioni forzate. ( Fpag; 588/1 – Fpag; 415 fogli sparsi) 7) Registro provenienza dei profughi presenti al CRP all’1.8.1953: a. da Gorizia 18 b. da Trieste 5 c. da Pola 369 d. da Fiume 535 e. da Zara 68

(Fpag; 414/4)

8) Problemi riguardanti il vitto. Il 28.09.1947, presente il Direttore del CRP Antonio Nava, durante un sopraluogo, il Prefetto Ispettore De Dominicis, interviene per il miglioramento delle condizioni del vitto nel Campo disponendo: - l’aumento delle razioni di grassi e sapone; - adeguamento della paga dei profughi che prestano servizi nel Campo da 70 lire a 115 lire al giorno. 9) Si riferisce di una manifestazione di protesta di 200 profughi rimasti senza rancio: il Questore lo comunica al Prefetto. La tabella dietetica giornaliera al Campo prevede: pane gr. 325; minestra gr. 85; legumi gr. 100; carne gr. 400 settimanali; latte evaporato gr. 100; zucchero gr. 33; olio gr. 6,6; sale gr. 10; sapone gr. 3,0. Inoltre vengono corrisposte 40 lire pro capite per altri alimenti forniti dalla Direzione. (Fpag; 588/1) 10) Assistenza spirituale. Il 15.03.1949 giunge al CRP don Giuseppe Coffano in sostituzione di don Giovanni Somarè. Arrivano, in settembre, anche due suore Pianzoline a cui sono affidate le seguenti incombenze: - assistenza spirituale; - insegnamento di cucito alle giovani ospiti del Campo e tenerle impegnate in attività confacenti durante la giornata; - cucina e preparazione pasti, con particolare riguardo alle gestanti, ai debilitati ed ai bambini; - infermeria e asilo nido. 10


Al Capellano viene assegnato un compenso di lire 18.000 ed alle due suore di lire 6.000. (Fpag; 588 – Fpag; 415/3) 11) Sfollamento dal CRP. L’8.05.1949 si tiene una Assemblea di profughi al Broletto contro il Decreto del Governo n. 556/1948 riguardante lo sfollamento dai Campi di tutti coloro che sono stati assistiti per almeno 18 mesi. I profughi protestano perché non saprebbero come vivere e dove andare. Chiedono anche di essere rimborsati dallo Stato per le perdite subite (beni e case abbandonate con la fuga) o per rientrare in possesso degli stessi beni, dato – sostengono - che lo Stato Italiano ha già avuto compensazione e riparazione dei danni di guerra. L’avvenimento ha una vasta eco sulla stampa locale e nazionale (l’Unità; La voce del popolo; Difesa Adriatica). (Fpag; 588/45-57) 12) Ancora sullo sfollamento dal CRP. Nel 1952 viene emanata una Legge tendente a svuotare i Campi. In essa si stabilisce che: - l’assistenza viene data solo ai profughi dai territori sui quali è cessata la sovranità dello Stato Italiano, a seguito dei Trattati di Pace (Parigi 1947 e Londra 1954); - chi si dimette volontariamente dai CRP entro il giugno 1955, avrà un premio di lire 50.000 più sei mesi di sussidio pari a lire 125 per il capo famiglia e di lire 100 per ogni altro famigliare. (Fpag; 415)

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Una immagine della Caserma Perrone sede del Centro Raccolta Profughi con un lato diroccato a causa della guerra

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Amedea Mengotti Nata nel ’27 a Fiume; la mamma da Zagabria si era trasferita a Fiume; il papà era fiumano doc. Il papà era meccanico fochista in una raffineria di oli minerali, la mamma lavorava al silurificio che fabbricava siluri per tutto il mondo. Abitavano nel centro storico di Fiume. Fiume era una città industriale con cinque o sei industrie importanti e il porto. Un fiume attraversava la città e separava l’Italia dalla Croazia, ma allora non c’erano problemi. A Fiume dal ’27 al’43 si stava bene, era Italia, c’era il fascismo. I Croati, quelli veri, andavano d’accordo con gli italiani. Dopo il ’43 c’erano i tedeschi che hanno bruciato la sinagoga degli ebrei. Gli ustascia erano croati, ma non davano fastidio. I partigiani di Tito portavano via gli italiani perché dicevano che erano fascisti. Da Fiume sono emigrati per colpa di Tito, che li obbligava a cambiare lingua. Tito cercava dei cavilli per trattenere la manodopera. Il papà aveva deciso di venire in Italia e aveva avuto i permessi della Questura, è stato un trasferimento con tutte le regole, non una fuga. Sono stati prima a Trieste al silos, poi una notte a Udine e poi a Novara. Avevano lasciato la casa ma avevano preso i loro mobili, li avevano anche alla Perrone. Alla Perrone sono rimasti cinque anni, poi hanno abitato case private. Veniva dato un sussidio per persona, c’era un magazzino con arredi per chi non aveva niente. Il papà aveva trovato lavoro nella raffineria di Bolzaneto. “Ci hanno accolti bene, ma ci faceva soffrire essere chiamati fascisti”.

Antonio Sardi

Nato nel ’31 a Visignano d’Istria, aveva vissuto sempre a Fiume. Tutta la famiglia era italiana. Dopo le medie aveva lavorato come elettricista nel cantiere di Fiume, presso il Comune, dove gestiva il magazzino dell’UNESCO. Ne divenne responsabile, era un lavoro importante, ma nel ’48, poiché non aveva voluto iscriversi al partito comunista, fu licenziato. In seguito aveva lavorato al silurificio (sotto il regime di Tito era vietato non lavorare) e in un’impresa edile sempre come elettricista. Dopo il ’45 aveva optato per la cittadinanza italiana, ma è partito da Fiume nel ’51 mentre il papà, che lavorava nel porto, e la mamma sono rimasti là. Nel ’51, dopo l’opzione, va a Trieste nel campo di prima accoglienza, con gli Americani che cercavano sempre di conoscere da chi partiva come si vivesse in Jugoslavia. Poi è andato al campo di smistamento di Udine. Si era già sposato, ma la moglie aveva seguito la famiglia a L’Aquila. Da Udine l’aveva raggiunta; per tre anni ha lavorato in un’officina e fatto il commerciante di pesce. Quando il campo è stato chiuso, sceglie Novara e nel ’53 va alla Caserma Perrone. La caserma era un postaccio, le pareti divisorie degli stanzoni erano di compensato. 13


Ognuno doveva prepararsi la sua rete per dormire e il pagliericcio riempito. Levavano la luce di sera, si poteva stirare solo nei locali a pian terreno, alle 23 si doveva rientrare come in caserma. Prendevano le impronte digitali solo a loro. Veniva dato un contributo di 150 lire per persona. Ha trovato subito lavoro, a Novara, al mercato come scaricatore. Ma dopo pochi mesi è entrato in un’impresa che lavorava per la Montecatini, quindi definitivamente alla Montecatini - Rodiatoce per più di trent’anni: operaio, capo officina, sindacalista. Nel lavoro ha trovato amici, però i comunisti li chiamavano fascisti. La gente un po’ alla volta ha incominciato a conoscerli. Nel ’54 hanno costruito le case del Villaggio Dalmazia, gli affitti erano speciali, nel ’56 è stata chiusa la Perrone. L’Italia aveva pagato i danni di guerra - 120.000.000 di dollari – con gli averi e i beni lasciati in Jugoslavia dagli Italiani; 70.000.000 di dollari sono stati scalati dai loro beni. L’Italia aveva promesso di restituirli, lo ha fatto attraverso il Villaggio Dalmazia di cui era proprietario il Comune che ha portato l’affitto all’equo canone. L’ATC – Ente autonomo case popolari – ne è diventato il proprietario nell’87 e da allora era possibile l’acquisto delle case da parte di chi le abitava.

Aurora

Moritz

È nata a Cherso nel 1916 e lì è rimasta da sposata; il marito lavorava al catasto, poi è stato richiamato nell’esercito italiano, nella Marina. La maggioranza della popolazione era italiana, veneta, pochi i croati, le scuole erano italiane. Il marito è stato richiamato nel ’35 e poi nel ’39 era stanziato a Lussino e poi a Pola fino al ’43. Aurora lo ha seguito. A Pola c’erano i Tedeschi, non si sapeva nulla di quello che succedeva nelle isole. Dopo l’8 settembre i soldati italiani cercavano di scappare, attorno c’erano già i partigiani di Tito. L’11 maggio del ’44 è ritornata in barca a Cherso con i tedeschi. La popolazione dava da mangiare ai soldati italiani, ma i tedeschi non volevano. Un giorno hanno deportato tutti i soldati italiani. A Cherso ha trovato gli ustascia (croati ultra nazionalisti), i cetnici (serbi nazionalisti) e i partigiani di Tito. Le tre formazioni hanno combattuto contro gli ultimi Tedeschi che si erano arresi e li hanno uccisi tutti. I tedeschi non si comportavano male. I partigiani italiani erano scappati dall’Italia per combattere con quelli di Tito. Anche i capi dei fascisti italiani si sono messi con i partigiani. Nel ’43 hanno portato via i ragazzi italiani e li hanno obbligati a combattere con Tito. I titini hanno fatto pulizia dei tedeschi già prima del ’45. I soldati italiani a Pola, presi dai tedeschi, si sono lasciati arrestare invece di combattere. Gli inglesi sono arrivati solo a Pola. A Pola la gente spariva anche prima del ’43. Con Tito si poteva andare in chiesa solo di nascosto, le scuole erano croate. Finita la guerra si doveva diventare croati. 14


Si faceva ostruzionismo contro chi non voleva rimanere. Ci furono le opzioni. Aurora e il marito sono partiti nel ’51, sono stati portati prima a Udine, poi ad Altamura nel campo profughi, poi a Novara. Sono rimasti due anni alla Perrone e nel ‘56 nella casa attualmente abitata alla Bicocca.

Ausilia Zanghirella

Abitavano a Dignano d’Istria, a 10 km da Pola. Il papà lavorava in una ditta per la lavorazione delle pelli, la ditta Jansu, il cui padrone, con l’avvento di Tito, era stato sostituito nella fabbrica dai titini. Il papà, padre di sette figli, anche se si era dichiarato italiano, non avrebbe voluto partire perché non sapeva dove andare in Italia. Tutti allora avevano una casa in proprietà e un po’ di campagna. Ma dopo che nel ‘48 erano tutti senza pane, il 20 aprile del ‘49 sono partiti. Aveva venduto tutto, ha portato via solo dei mobili. Gli optanti erano visti male, erano messi in condizione di partire, erano perseguitati. Sono partiti in 350.000, il 92% dall’Istria, solo il 7-8% era rimasto o perché non legati all’Italia o perché sostenitori della nuova politica. Nelle foibe gli Italiani sono stati buttati dai titini, dai fascisti italiani e dagli ustascia. Si partiva per l’Italia di notte, col treno. I viaggi in treno erano orribili, stipati uno sull’altro. A Trieste le masserizie venivano messe nel silos, le persone nei capannoni. Sono rimasti a Udine, nelle caserme, per cinque giorni. Poi a Civitavecchia via Firenze e Roma. Li tenevano separati fra di loro per paura di insurrezioni. A Civitavecchia c’erano profughi italiani, ma anche greci e turchi. Da là sono partiti per Novara il 10 gennaio del ’50. Sono stati alloggiati alla caserma Perrone per dieci mesi. L’intera famiglia stava in 3 mq, separati dagli altri con coperte appese a corde. In seguito, per sei anni, sempre alla Perrone hanno abitato in uno spazio un po’ più ampio. Il 20 maggio ’56 sono entrati in un appartamento del Villaggio Dalmazia.

Beatrice Veggian

È nata a Rovigno, la nonna materna era di Venezia, il papà era militare sotto l’Austria. Quando c’era il fascismo si stava bene, c’era lavoro, la casa, le colonie estive diurne. In tutta l’Istria vivevano diverse etnie. Durante la guerra i tedeschi facevano rastrellamenti e chi seguiva i partigiani di Tito si nascondeva nei boschi. Nel ’45, quando giunse Tito, nelle scuole italiane si doveva parlare croato o serbo o russo. Si doveva scegliere tra essere croati o Italiani. La sua famiglia optò per l’Italia. Le emigrazioni furono del ’48 e del ’51, le persone avevano tutte il passaporto. Alla sera si partecipava ai comizi dove si veniva invitati a fermarsi. Venivano mandate cartoline di minaccia per chi sceglieva l’Italia. Veniva imposto l’ateismo, dalle case venivano levati i crocifissi. Requisivano le case di chi optava per l’Italia e le davano ai 15


gerarchi. Una volta giunti in Italia venivano definiti fascisti. Furono risarciti dallo Stato italiano per quello che avevano lasciato là. “La mamma diceva: meglio mangiare una volta al giorno ma essere in pace”. In Italia andarono prima a Tortona e poi nel ’58 a Novara. Ha trovato lavoro alla Sant’Andrea.

Claudia Grassa Mattias

“Sono nata a Fiume nel 1940, allora italiana come l’Istria e la Dalmazia. Era l’inizio della II guerra mondiale, della quale ricordo poco. Quello che sto per raccontare mi è stato detto o ne ho sentito parlare dai miei famigliari o da amici e conoscenti che sono passati nella nostra casa. La mia mamma era giovane durante l’epoca fascista, raccontava con entusiasmo le cose belle che il partito faceva allora: raduni sportivi, feste primaverili estive e autunnali, pacchi dono a Natale per tutti i bambini. Le donne che avevano più figli ricevevano doni in lire; mi parve di capire che i giovani in quel periodo se la passassero bene. Mio nonno era di altro parere, intanto se non eri iscritto al partito eri mal visto, poi rischiavi di perdere il posto di lavoro. Infatti il cognato di mio nonno non si iscrisse mai e fu mandato via, non trovò più un posto di lavoro, meno male che la mia zia era una brava sarta e così tirarono avanti. Poi il regime consigliò a tutta la popolazione di italianizzare i cognomi che, essendo di origine slava: Boccarcich e Clarich divennero Boccarini e Clarini. Di questo sono più che sicura perché sono cognomi della mia famiglia. Naturalmente non tutti aderirono, i più si tennero i loro cognomi, ma molti li cambiarono sia per tenere il posto di lavoro, sia perché fascisti convinti. Essendo Fiume, l’Istria e la Dalmazia sotto il governo italiano, i giovani di sesso maschile erano chiamati al servizio militare italiano, così si fecero tre guerre di seguito: Abissinia, Spagna e la II guerra mondiale. Molti di quelli che rimasero vivi divennero partigiani di Tito, come mio padre. Intanto anche a Fiume si preparavano per la guerra. Fiume, essendo una città di mare, aveva e ha un porto e uno scalo ferroviario importanti, le fabbriche erano tante anche belliche. Il siluro fu progettato e poi costruito a Fiume e la sua produzione durò per tutto il resto della guerra. In quel periodo furono scavati in diversi posti della città dei rifugi dove, durante i bombardamenti, le persone dovevano ripararsi. I miei famigliari erano operai, abitavano in un rione popolare un po’ fuori città, sul monte dietro a tutte le fabbriche più importanti: silurificio, cantiere navale, raffineria petroli, cosicché quando cominciarono i bombardamenti il rione fu quasi raso al suolo. In città la vita si fece dura per tutti, per procurarsi da mangiare le donne dovevano in qualsiasi modo uscire dalla città e andare per le campagne dai contadini i quali, in cambio di soldi, vestiario, biancheria da casa, oro davano patate, fagioli e quanto era possibile. Tutto questo ti poteva costare la vita perché se ti beccavano i tedeschi e i fascisti come minimo finivi in Germania e da là non tornavi più. Ho detto donne, perché gli uomini o lavoravano o erano in guerra o erano imboscati; i rastrellamenti che facevano i tedeschi 16


erano all’ordine del giorno e se non eri in regola con i permessi finivi male. Anche la nostra casa venne danneggiata e noi fummo spostati, andammo a vivere a Susak, una cittadina separata da Fiume da un piccolo fiume, un ponte le congiungeva. Di quel periodo ho un qualche vago ricordo: le corse di notte al rifugio con il cielo illuminato a giorno, il brusio dentro al rifugio dove la gente era tanta, la luce era fioca e c’era ammassato di tutto: letti, tavoli, armadi, sedie. Mi dissero che passammo giorni e giorni senza tornare a casa. Intanto nelle nostre zone la lotta partigiana si fece dura, con rappresaglie feroci da una parte e dall’altra, treni che saltavano in aria, paesini rasi al suolo con i pochi abitanti che erano rimasti dentro, tedeschi e fascisti che entravano nelle case e portavano via le persone e non sapevi più che fine avevano fatto. Ma i partigiani avanzavano e alla fine respinsero i tedeschi fino a Trieste. E venne la fine della guerra. Dalla finestre di casa vedevo passare le colonne di prigionieri ustascia, l’equivalente croato dei fascisti italiani. Da quel momento in poi cambiarono radicalmente le cose, tutto apparteneva allo Stato: le case, i terreni, le industrie, le attività commerciali. Molti Italiani di quei territori furono oggetto di rappresaglia da parte dei nuovi governanti, sparirono moltissime persone perché accusate di collaborazionismo con il nemico. Mi raccontarono che li buttavano nelle foibe, caverne carsiche. Li sentivano urlare e nessuno poteva andare a salvarli. Fummo spostati nuovamente da Susak a Fiume, a tanti come noi vennero assegnati gli appartamenti vuoti, ma completamente ammobiliati, perché durante la guerra gli abitanti sparirono e finita la guerra nessuno si fece avanti per reclamarne il possesso. Il ricominciare fu difficile, c’era ancora il tesseramento soprattutto per i generi alimentari di prima necessità e anche per l’abbigliamento. Le persone si mettevano in fila in piena notte, davanti ai negozi dove sapevano che ci sarebbe stato qualcosa da comprare e a volte anche per niente perchè la merce non arrivava. Per la ricostruzione e lo sgombero delle macerie la popolazione fu invitata a fare da mano d’opera volontaria! Dato che ogni edificio adibito ad abitazione aveva un capo casa, questa persona doveva prendere nota di chi andava o no al lavoro volontario e segnalarlo al dirigente del partito di quartiere; naturalmente per paura di conseguenze tutti si davano da fare. I ricordi si fanno più precisi, so che per un periodo non tanto lungo si poteva andare in Italia, o perlomeno a Trieste, con facilità; non so quali documenti ci volessero, ma ricordo di essere andata con la nonna e una zia per il matrimonio della sorella della mia mamma. Non so cosa stesse succedendo, ma sentivo i grandi che parlavano tra di loro abbassando la voce, e ho sentito tante volte dire: “Se ti sentono ti mettono in galera”. Da grande ho capito che nonostante le distruzioni della guerra, le sofferenze della gente, il cambio di governo politico passato da fascismo a comunismo, era cambiato ben poco, dovevi fare come volevano loro e non si discuteva, e pensare che il loro motto era: “Morte al fascismo, libertà ai popoli”. Purtroppo dopo la guerra, le deportazioni, le epurazioni che stavano facendo ai nostri perché accusati di essere stati fascisti italiani, i posti di lavoro, dirigenziali e non, vennero occupati da tutti i nuovi 17


venuti che parlavano croato e che occupavano quei posti per merito di partito e non per competenza. I motivi di disagio per la popolazione nativa aumentavano di giorno in giorno. Penso che la nostra gente cominciò a lasciare quelle zone che erano diventate Jugoslavia quando capì che se rimanevano dovevano cambiare identità. Infatti il governo disse: “Voi ora siete iugoslavi, se volete essere italiani andatevene”. Naturalmente chi se ne voleva andare doveva “optare per l’Italia”. In principio le persone potevano portarsi via tutto l’arredamento delle case, i loro soldi; in seguito ciò non fu più permesso e la gente cominciò a vendere tutto quello che poteva e alla fine regalavano le loro case a quelli che rimanevano anche perchè non c’erano soldi per comperare. Non a tutti fu dato il permesso di espatriare, capitava che in una famiglia le donne potevano andare in Italia e gli uomini no: mio zio, fratello di mia madre, sposato con cinque figli maschi, non ebbe mai questo permesso. Intanto, dall’Italia, quelli che se n’erano già andati scrivevano ai parenti che là si stava bene, che c’era lavoro, che era tutta un’altra vita, incoraggiando così i dubbiosi a fare le domande di espatrio. Tra questi ci furono anche i miei genitori i quali ottennero il visto; oramai eravamo nel 1950. A quell’epoca andavo già a scuola, l’insegnamento era in lingua italiana, frequentai fino alla quarta elementare. Eravamo tutti pionieri,frequentavamo tutte le manifestazioni, vestite con la gonna blu e la camicia bianca, la bustina bianca con la stella rossa e il fazzoletto rosso al collo. Le scuole naturalmente non erano religiose perché tutto ciò che era religione fu abolito, non fu proibito di professare la propria fede, ma di fatto e soprattutto nei posti di lavoro era conveniente non avere nessuna religione, se poi eri iscritto al partito comunista era meglio. Devo dire che la vita cominciava a migliorare, le tessere non c’erano più, i negozi erano riforniti, almeno il cibo non mancava, ma la nostra gente continuava ad andare via. Venne il giorno che partimmo anche noi. Ricordo alcuni discorsi che fecero i miei con i vari parenti che rimanevano là; tutti a dire: “Non andate, cosa farete là, qui bene o male avete una casa, un lavoro”. Ma soprattutto mio padre non volle saperne di rimanere, in seguito mi chiesi tante volte il perché, visto che lui era stato per anni nella resistenza, partigiano di Tito. Non ricordo la partenza, ma ho un vago ricordo di un campo di accoglienza a Opicina, Trieste, grandi tendoni bui, molta gente, e poi una littorina che ci portò a Udine, nel primo campo profughi che vidi in Italia. Era un campo di smistamento, dividevano le donne dagli uomini, si stava insieme tutto il giorno, ma si dormiva separati. Tutto questo nell’attesa della nuova destinazione; nel frattempo si ritiravano i soldi in lire che a Fiume avevamo depositato in banca, poca cosa perché era proibito portare via dalla Jugoslavia qualsiasi bene materiale, tranne lo stretto necessario per sopravvivere. Noi partimmo da Fiume con un cassone di legno fatto da mio nonno con un po’ di vestiario, qualche coperta, qualche lenzuolo, le stoviglie necessarie per fare da mangiare e qualche oggetto personale al quale i miei tenevano. Tutto questo veniva controllato dalle autorità prima di spedirlo in Italia. Non so con quali criteri provvedevano a smistare tutta questa gente per i vari campi 18


profughi d’Italia. A noi toccò di andare a Gaeta, dove c’erano tre campi, due erano ex conventi e uno una caserma. Noi fummo abbastanza fortunati, perché in un immenso camerone di un ex convento fecero tanti box in muratura e a noi ne fu assegnato uno. Ma altri dividevano gli spazi con le coperte tenute su da spaghi. In principio ci diedero da mangiare minestra e pane, ma poi chi voleva poteva avere poche lire a testa al mese e i miei optarono per questa soluzione. Lì ricevemmo gli ultimi soldi che i miei avevano depositato in banca e con quelli comperarono un fornelletto a petrolio, due sedie, un tavolino per appoggiare il fornello, un secchio per l’acqua, un catino. Il cassone ci faceva da tavolo, i letti erano due cavalletti di ferro, tre tavoloni e un pagliericcio di foglie di granoturco datoci in dotazione dal campo. Tutti i servizi naturalmente erano in comune: lavatoi, gabinetti. Tutti gli spazi anche se divisi da muri o coperte alti poco più di due metri e perciò aperti al di sopra impedivano una vita privata. Cominciai a frequentare la quinta elementare, eravamo tanti bambini di tutte le età, a scuola con i bambini del luogo andavamo d’accordo, ma poi a casa giocavamo fra di noi. In principio ci sentivamo spaesati; Gaeta era ed è comunque una bella cittadina con un istmo in mezzo al mare. Tutto il suo spazio è in altezza, le stradine strette, le scalinate, tante chiese, un castello enorme a picco sul mare, ovunque andavi o salivi o scendevi. Il punto è che non c’era lavoro per i locali, figurarsi per noi; mio padre che faceva il saldatore elettrico non lavorò un giorno. Allora prese la decisione di andare a Lecce dove c’era una sua sorella che lavorava in una manifattura di tabacchi nella speranza di trovare lavoro. Si fece liquidare dal campo, cioè a chi usciva venivano date cinquantamila lire a testa però si perdeva il diritto di ritornare in un qualsiasi campo profughi d’Italia, insomma non si aveva più diritto ad alcuna assistenza. Tutto questo avvenne nell’arco di una decina di mesi dalla nostra uscita da Fiume; io non finii la scuola e così non ebbi neanche la licenza elementare. A Lecce neanche parlare di lavoro, i soldi stavano finendo, così mio padre, attraverso un amico di mia zia, venne a Novara ed ebbe un lavoro. Provvisoriamente ci accolsero al campo profughi senza nessun diritto, con la clausola che prima ce ne fossimo andati, meglio sarebbe stato. Questa volta era un buco in un grande stanzone diviso da coperte, eravamo in inverno, era freddo e umido, la mia mamma cominciò a fare la donna di servizio a ore, mio

Momenti di vita quotidiana all’interno del CRP

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padre lavorava saltuariamente, i soldi non bastavano mai. A Novara cominciammo a comprare con il libretto, cioè il negoziante scriveva il conto della spesa giornaliera sul libretto nostro e uno suo e di solito ogni quindici giorni tirava la somma e si pagava, non si riusciva mai a saldare il conto, rimaneva sempre qualcosa che si accumulava alla spesa successiva. I miei, forse incalzati dalla direzione del campo in quanto abusivi, trovarono due stanze in affitto in Piazza d’Armi, una sotto e una sopra, gabinetto fuori, in una cascinetta e lì andammo ad abitare. La mamma tutti i giorni a piedi andava a lavorare in via dei Cattaneo. Venne anche per me il tempo di andare a lavorare, feci fatica a trovare un posto di lavoro e quando lo trovai non mi piaceva. Intanto mio padre faceva il trasfertista, ma tra un lavoro e l’altro rimaneva a casa e noi eravamo sempre carichi di debiti. Era il momento in cui costruirono il Villaggio Dalmazia e a tutti i profughi venne assegnato un appartamento mentre veniva chiuso il campo Caserma Perrone. A noi non spettava niente, in quanto liquidati già da tempo, ma i miei fecero domanda per le case popolari e, visto che eravamo comunque profughi e abitavamo in uno schifo di casa, ci assegnarono un appartamento. Naturalmente per comperare due mobili dovettero fare le cambiali, il carbone d’inverno si pagava poco per volta, dovevi dire grazie al commerciante che ti dava i generi alimentari con il libretto, e tutto questo per sentirti dire: “A voi profughi vi va bene, vi hanno dato la casa, i posti migliori di lavoro li avete voi”. Può anche darsi che molti si siano trovati bene, ma la maggior parte no. Questi sono i fatti concreti successi alla mia famiglia che in qualche modo sono stati superati, ma cosa dire delle sofferenze, del dolore, delle umiliazioni subite? E come loro tanti e tanti profughi della Dalmazia, Istria, Fiume? Ma se poi erano italiani e per rimanere tali si sono spostati da una regione all’altra perché chiamarli profughi? Io non credo che noi tutti abbiamo tolto qualcosa a qualcuno, la guerra è stata dura per tutti e ricominciare non è stato facile per nessuno”.

Domenico Bresich

La mamma, italiana, nata nel 1936 era di Rovigno. Il papà, del 1930, era di Fiume. Tutta la regione chiamata Venezia-Giulia era territorio non omogeneo dal punto di vista del linguaggio. Il dialetto di Fiume e della Croazia era istrio-veneto, quello di Trieste e del Carso era italo-sloveno. Dopo l’armistizio i tedeschi hanno invaso Fiume e operato grandi rastrellamenti. In quell’occasione il papà, che ha solo tredici anni, era stato deportato nei campi di lavoro. Ritorna a Fiume e, rimasto orfano, viveva in casa della zia e del cugino. Con loro nel ’47, ha optato per l’Italia, raggiungendo il campo profughi di Tortona. “In quell’anno si ebbe la tanto attesa regolamentazione jugoslava sulle opzioni per la cittadinanza italiana che riguardava la popolazione residente nei territori ceduti. Ma nell’esercizio di questo diritto gli interessati vennero a trovarsi di fronte a varie difficoltà: è evidente che l’eventualità di un afflusso plebiscitario delle opzioni per l’Italia non poteva riuscire gradita al Governo di Belgrado, per le evidenti implicazioni 20


di carattere politico (in relazione alla credibilità del regime instaurato) ed economico (in relazione al trasferimento, assieme agli optanti, di un patrimonio di competenze tecniche e professionali difficilmente sostituibile)”.1 La mamma, profuga nel ’51, è andata prima a Udine, poi ad Altamura, a Massa Carrara e nel campo profughi di Tortona ha sposato il papà. Quando si sono licenziati dal campo sono venuti a Novara, abitando in una casa presa in affitto e il papà ha trovato lavoro alla Sant’Andrea. A Novara ritrovano anche compagni dei campi profughi, mettendo così in atto il desiderio vivo tra loro di riunirsi come comunità in “esilio”. “Infatti, giunti in Italia attraverso le neo costituite associazioni giuliane, i profughi chiesero al Governo di non essere dispersi, chiesero che fosse loro permesso di vivere in comunità, per consentire di riprendere così la vita nella solidarietà, nell’identità di linguaggio, della cultura, delle tradizioni. Ma una pubblicistica negativa in ambienti politici e di governo, e pure tra la gente comune (che faceva propria la falsa ma diffusa equazione esule = fascista), unitamente a difficoltà logistiche e di sistemazione, vollero respinte queste richieste”. I fuoriusciti dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, in tutto 450.000, erano stati distribuiti su tutto il territorio italiano. La loro presenza non era sfociata in comportamenti illegali. Tutti avevano trovato lavoro, sicuramente chi era nel settore pubblico; ma anche nel privato, in virtù della laboriosità e delle competenze di cui disponevano. “Così bollati di un marchio politico che faceva dei profughi giuliani reazionari e oltranzisti di destra, ebbe luogo la dispersione nei 109 campi di raccolta, mentre circa 50.000 emigrarono nel mondo, ma soprattutto in Australia e Canada…”. La storiografia anche attuale ha carattere troppo ideologico. Non viene ancora riconosciuto il problema, la gente non sa, non conosce la verità dei fatti. Il primo presidente della Repubblica Italiana che si è recato a Basorizza è stato Cossiga. Di Basorizza sapevano bene anche gli Alleati.

Elisa Gabbi

La mamma, Gisella Crivellari, era nata a Cherso nel ’26. Il papà, finanziere, era stato trasferito a Cherso nel ’21. Al marito era stato cambiato il cognome in Zenzerovich con l’avvento di Tito. Anche a Cherso, che apparteneva all’Italia, si era insediato il regime fascista. Tutti avevano la tessera fascista. Nel ’43 erano venuti a Cherso gli ustascia, partigiani fascisti che stavano per il re Pietro; deportavano nelle foibe. Sono rimasti poco perché erano arrivati i tedeschi che invece deportavano in Germania. Erano i croati a fare la spia. Da principio gli ustascia erano stati scambiati per partigiani titini, deportavano tutti quelli di idee comuniste. Gli ustascia erano mescolati ai titini, insieme facevano scaramucce, ma alla fine erono rimasti solo i titini. 1 Le dichiarazioni di Domenico Bresich sono tratte da “Italia 1943-1975: Variazioni del confine orientale e movimenti migratori”, tesi di Laurea di Domenico Bresich.

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Nel ’45, prima del 25 aprile, i tedeschi avevano combattuto duramente contro i partigiani e perso. Ricordo ancora la piazza davanti al duomo piena di morti. I titini facevano stragi, deportavano nelle foibe, chiamavano fascisti anche chi non lo era. Hanno scristianizzato il Paese, in chiesa si poteva andare solo di nascosto. C’era vera paura. Le opzioni, Jugoslavia o Italia, si facevano a Pola nel ’46. Pola era nella zona A, sotto l’amministrazione degli Alleati. Chi voleva, poteva andare in Italia. Sono rimasti in pochi. Le case di chi partiva venivano occupate dai titini. Pur avendo chiesto di partire, Gisella e il marito sono rimasti a Fasana, vicino a Pola, dal ’49 al ’56. Non li lasciavano uscire per un puntiglio, presumibilmente perché il marito era stato militare di leva sotto Tito. Sono venuti in Italia quando Tito era sistemato e aveva preso tutti i posti migliori. Il 13 maggio del ’56, in treno, sono partiti per Udine, campo di accoglienza. Da lì a Novara dove la famiglia di origine abitava dal ’48. A Novara sono stati per poco alla caserma Perrone e poi al Villaggio Dalmazia. A chi giungeva in Italia venivano date 50.000 lire a testa come liquidazione. Gli optanti non pagavano per poter uscire dalla Jugoslavia. Chi, invece, era rimasto più a lungo, come loro, doveva pagare lo svincolo per avere il passaporto e lasciare tutto. Nel ’56 la legge era più severa. Nel ’48 potevano portare con sé qualcosa. Dal ’48 al ’56 Tito aveva aggravato le leggi. I partigiani italiani in Istria erano d’accordo con i titini, erano loro che facevano deportare.

Gina Decleva

È nata nel 1938 a Fiume ed è vissuta là fino ai dieci anni. È partita nel ’48 con i suoi genitori e due dei tre fratelli; il maggiore, con la nonna, era partito già nel ’47. Il papà era capotecnico nel silurificio di Fiume. Si stava bene con il fascismo, anche economicamente. È di quel periodo la strada Fiume - Trieste. Dopo il ’43 c’è stato il caos. Non avevano paura dei tedeschi, ma dei titini, sì. Finita la guerra, la guerra è continuata. Nell’isola Nuda esisteva un campo di concentramento dove i titini avevano portato gente da Monfalcone. I titini erano contro gli Italiani, chi non li accettava veniva infoibato. Il papà ha continuato a lavorare e, al momento delle opzioni dal ’47 al ’48, era minacciato di non poter partire, premevano perché si iscrivesse al partito comunista, forse volevano tenerlo perché aveva un lavoro importante, era maestro d’arte. Gli ustascia erano cattivissimi. Nel ’47 i titini hanno invaso Trieste per 40 giorni e anche lì ci sono stati altri morti. Partiti da Trieste sono andati a Udine, dove erano alloggiati in un silos e da lì a Novara ,dove c’era già la nonna. Altri italiani sono ancora là. Chi ha fatto il militare da italiano, ha la pensione. 22


Momenti di vita quotidiana all’interno del CRP

A Novara sono andati alla caserma Perrone dove erano molto controllati e nel ‘ 56 al Villaggio Dalmazia. Il papà ha lavorato alla Montecatini fino alla morte nel ’49. Era stato richiesto dalla Sarpom. La mamma ha avuto la pensione, mentre il fratello maggiore si è messo a lavorare. A Novara c’erano profughi italiani anche da altri Stati.

Giorgina Ghirardi

È nata a Voloska (Fiume) nel 1942, la mamma era croata (è morta da poco), il papà lavorava ai cantieri navali di Monfalcone. Era rischioso per il papà a rimanere a Fiume nel periodo ‘46-’48 perché italiano; perciò ha scelto di partire. Ha lasciato là tutto quello che aveva. Il fratello della mamma aveva un negozio di alimentari che fruttava bene ma che, poi, è diventato di Stato, la Jugoslavia. A sei anni, nel ’48, Giorgina è arrivata a Novara in treno con molte altre persone; per caso sono venuti qui a Novara. Alla caserma Perrone, in uno stanzone in cui vivevano quattro famiglie, lo spazio era diviso da coperte su intelaiature di legno; una sola lampadina da 20 candele, in mezzo, doveva illuminare tutto. Se a qualcuno dava fastidio, bisognava spegnerla. I bagni e i lavatoi erano in comune, senza luce, perciò si usavano le candele. 23


I loro mobili consistevano in un tavolino, due brandine da campo, un divano su cui dormivano i genitori, un fornelletto, una stufetta a carbone con il tubo che usciva dalla finestra. Dall’America arrivavano pacchi di viveri: latte condensato, scatolette, mortadella, carne in scatola e biscotti. Quando le scorte erano esaurite, si viveva a caffè e latte. C’era un dottore nell’ambulatorio, era il dottor Filippo Neri. C’era la scuola elementare interna, dalla prima alla quinta. Ricordo ancora la maestra Sacchi. Le Medie erano al Galileo Ferraris. In primavera a tutti facevano delle iniezioni dolorosissime nella schiena di cui non sapevamo il senso. Uscivano, andavano in via Magnani Ricotti a guardare i negozi, quando la gente li vedeva li additava per spaventare i bambini. Tra i profughi c’era anche un dentista. Nel cortile si ballava. I bambini giocavano tra loro, andavano a gara a lucidare le pentole. Giorgina e il fratello avevano terrore a dormire in uno stanzone dove tutto era aperto. Un po’ alla volta si sono organizzati, a turno pulivano i bagni e le scale. Quando hanno incominciato a lavorare, c’era qualche soldo. Il papà ha lavorato da un gommista privato. Alla Perrone sono rimasti dal ’48 fino al ’56, anno in cui sono andati al Villaggio Dalmazia. Le case del Villaggio sono state inaugurate da Scalfaro. La casa al Villaggio è sembrata un sogno. Una legge ha permesso di comperare l’appartamento in cui si viveva, a prezzo equo.

Irene Visintin

È nata nel ’47 a Visignano d’Istria. A Novara è arrivata nel ’50 , il sussidio, per ogni persona, era di 160 lire, per 18 mesi, poi é diventato di 110 lire. Lo toglievano a chi lavorava. È rimasta alla caserma Perrone fino a nove anni. All’interno c’erano l’asilo e la scuola elementare, erano seguite da due suore pianzoline, suor Giacinta e suor Florida. Le camerate erano divise da tende e dal compensato, esisteva un’infermeria, facevano a tutti le vaccinazioni nella schiena. Il medico era il dottor Neri, che era stato in un campo di concentramento. I bagni erano comuni, quelli dei militari; si riempivano le pentole di acqua presa dalle fontanelle, le docce si facevano una volta al mese. Uscivano pochissimo dal campo. Non ci sono stati disordini, ma tutti assieme sentivano la diffidenza dei novaresi. Fino alla III elementare la scuola era in caserma, la IV e la V alla scuola Rosmini, le medie al Galileo Ferraris. Si erano trovati bene alla Rosmini, meno bene alle medie. Alle medie erano emarginate, all’inizio, da alcuni professori e dalle compagne. I ragazzi andavano a vedere le partite di calcio, le bambine ricamavano con le suore. Nel ’51 è nata l’ultima sorella, anche lei considerata profuga, per culla aveva una cassetta di legno, foderata. Per cucinare, all’inizio, avevano un fornellino a gas con la bombola. Poi hanno comperato una cucina economica, veniva data la legna, una certa quantità per persona. 24


Abituata agli spazi aperti ancora ora non sopporta le porte chiuse. Insieme parlavano il loro dialetto giuliano-dalmata-triestino. Dopo anni sono stati trattati come persone normali. Tutti loro si considerano doppiamente italiani, sono partiti di là per restare italiani, invece sono stati ritenuti fascisti; i comunisti non li vedevano bene. Nel ’56 si sono trasferiti al Villaggio Dalmazia. La panetteria che c’era alla Perrone si era spostata al Villaggio, così anche il dottor Neri. A Messa andavano in seminario, poi hanno costruito prima un capannone (il parroco era don Teresio Giacobino che li aiutava tanto), poi nel ’71, la chiesa nuova. Le famiglie che si sono allontanate dal Villaggio lo hanno fatto perchè gli appartamenti erano più piccoli di come dovevano essere. Per entrare alla Posta ha avuto il punteggio da profuga. “Quelli che sono rimasti là adesso stanno meglio di noi”. La casa che era della mamma è ancora abitata; quella del papà è stata abbandonata. Ritornano raramente di là.

Laura Salvai “È molto difficile raccontare avvenimenti non vissuti in prima persona, ma a me sono stati descritti così bene da sentirmeli dentro, facenti parte di me. Ero molto piccola quando sono venuta via da Pola, avevo quattro anni e probabilmente non riuscivo a capire perché ad un certo momento, con la nonna e il papà dovevo abbandonare tutto e tutti. Solo dopo tanti anni ho compreso lo strazio dei miei, che avevano dovuto dire addio a tutto ciò che era la loro vita, ai loro affetti e alla loro terra. Papà non era istriano, ma amava Pola forse più di un polesano e ha sofferto moltissimo. Prima di partire anch’io sono stata fotografata, come tutti del resto, seduta su una bitta del molo davanti all’Arena. Credo che per molti sia stato l’ultimo frammento di vita nella loro città prima dell’esodo. Io ho avuto la fortuna di tornare per tanti anni, altri purtroppo non hanno potuto farlo. Riguardando vecchie fotografie, mi fa tenerezza l’immagine di quella bambina con la pelliccetta di coniglio. Sorride ignara, ma chi la sta fotografando ha gli occhi velati di lacrime (era il mio papà). Allontanandoci dalla nostra città abbiamo portato pochissime cose con noi, i pochi mobili sono rimasti in un deposito italiano per tanti mesi e io ho “odiato” per lungo tempo una famiglia che abitava vicino a noi perché, oltre ad essere rimasta, aveva comprato la nostra radio, unico legame per me con la mia mamma, che era ricoverata in un ospedale lontano, dove poi è morta, e che una volta la settimana mi dedicava una ninna nanna dandomi la buona notte. Allora non avevo capito che, se pur a malincuore, i miei avevano dovuto vendere la radio e tante altre piccole cose per aver due soldi in mano. Per me erano i “signori cattivi”. Avevamo una casa nostra, vicino al mare, nella quale hanno continuato a vivere i miei bisnonni e che abbiamo venduto dopo la loro morte. 25


Ogni anno, durante le vacanze estive, ritornavo nella “mia casa” e quando, a vacanze finite dovevo rientrare in Piemonte, dentro di me si rinnovava lo strazio della prima volta. Il profumo della mia terra, la vita non vissuta in quei luoghi, i legami con il resto della famiglia e con gli amici, sono stati tanti fil rouge che mi hanno accompagnato nella mia vita e che mi accompagnano ancora oggi. Papà ci aveva fatto andare nel suo paese di origine in Piemonte, ma purtroppo non trovava lavoro e io e la nonna abbiamo vissuto per qualche mese da una zia. Non abbiamo avuto problemi di integrazione, anche perché la nostra era una famiglia anomala, in quanto non era composta esclusivamente da esuli. Nella mia città natale non è rimasto nessuno, a parte qualche amico d’infanzia. Il legame con la mia terra è tuttora fortissimo, direi quasi viscerale, anche se non ci ritorno da parecchi anni e sovente, andando col pensiero agli anni passati, riesco a sentire addirittura i profumi della terra e del mare e il rumore del vento che passa tra i rami dei pini. Nei racconti che mi venivano fatti dai miei parenti probabilmente ci saranno stati accenni al contesto politico del momento, ma erano marginali, non influivano su quanto mi veniva trasmesso. Crescendo ho potuto constatare che, nonostante il dolore per la separazione da tutto e da tutti e per le vicende tristissime conseguenti alla guerra, non mi è stato insegnato ad odiare, ma a capire e, se è possibile, perdonare per il male subito.”

Lidia Balanzin

È nata a Visinaga (Pola) così come i genitori e i nonni. Il papà aveva la terra, la lavoravano i braccianti (siamo nel ‘29 – 30) prendevano come paga 1 lira alla settimana, 5 sigarette e il pranzo: pane, polenta, vino. Il papà aveva studiato agraria. Nel ’43 c’è stato il caos con il fascismo e i tedeschi. Quando è arrivato Tito aveva lasciato che si fermasse chi voleva, ma il guadagno delle attività andava a lui. Molti sono partiti. La terra dei suoi genitori era stata venduta alla Jugoslavia al valore del ’38. I soldi sono stati dati all’Italia nel ‘58-’59 in seguito ad un accordo e poi restituiti ai proprietari. Erano venuti a Novara perché due zie stavano già qui e c’era lavoro per il papà. Il nonno non voleva assolutamente lasciare l’Istria, la nonna l’ha fermato mentre cercava di impiccarsi. Poiché la famiglia era numerosa avevano avuto un camerone tutto per loro alla Perrone. Lo avevano arredato con i mobili che avevano portato da Visinaga con un camion. Nella cantina della caserma c’erano topi insieme alla legna e al carbone che potevano usare. Dal ‘49 al ‘57 frequentava la scuola elementare della Cittadella, poi il Villaggio. Alle scuole Commerciali si trovava bene. 26


Le suore pianzoline insegnavano a ricamare e a fare teatro. Nei corridoi si ballava e si cantava. Nel ‘57 nel Villaggio non c’erano luci, fango per le strade, si stava meglio alla Perrone. Gli appartamenti erano piccoli. Arrivava il pullman n. 5. Alla Perrone arrivavano profughi anche da Romania, Bulgaria, Tunisia, Ungheria. Venivano tenuti in isolamento.

Loredana

Brakus

È vissuta con la nonna a Fiume. Le persone che erano ritenute fasciste andavano in prigione oppure sparivano, li prendevano di notte e li buttavano nelle foibe. Anche il papà del marito ha fatto questa fine. La gente aveva paura, per questo sono scappati in Italia. La domenica gli operai dovevano lavorare gratis per i capi. È venuta in Italia nel ’48. Lo Stato non si era preoccupato di loro. Non trovavano lavoro, ma poi il marito è stato assunto alla Montecatini.

Maria

Maracich

È nata nel 1912, viene da Veglia, è emigrata nel ’48 all’età di trentasei anni, con la mamma, la sorella, due figli; il marito era rimasto ancora quaranta giorni nella speranza di poter portare in Italia i loro pescherecci. Avevano potuto portare con sé i mobili (rimasti nei magazzini a Trieste) e gli oggetti personali, ma le barche no, per decisione di Zagabria. Erano italiani, con la scuola, la chiesa, il console italiano, ma nel ’48 l’ordine era che si facessero croati, altrimenti si doveva tornare in Italia. Nel loro ricordo Tito era bravo, ma non i suoi emissari. Veglia era diventata italiana dopo il ’18, già nel ’19 partivano i primi italiani. Per andare da Veglia a Fiume bisognava avere il passaporto già prima del ’40. Sono partiti da Veglia il giorno della Madonna della Salute, il 21 novembre e tutti sono andati a salutarli alla marina. È stato un grande dolore lasciare la casa, il terreno, le barche. Tito portava via tutto, uva, olio, vino, in cambio si davano loro dei buoni per gli acquisti e pochi soldi. Senza i buoni anche se avevano soldi non potevano comprare nulla, le tessere (i buoni) obbligavano a spendere i soldi tutti là, senza portarli fuori. Producevano ricchezza e allora erano accettati. Poterono portare via 5000 lire per adulto, il resto rimaneva là. In tempo di guerra molti italiani venivano presi e fatti sparire, ma anche croati, quelli per esempio che stavano per la monarchia. I Tedeschi erano stati chiamati per aiutare gli italiani contro i croati. Erano croati quelli che di notte portavano via gli italiani, ma portavano via anche i croati. Partendo da Veglia andarono a Trieste, poi da Trieste a Udine nei campi profughi (che erano le caserme) poi a Laterina in provincia di Arezzo. A Laterina sono rimasti più di un anno, poi a Chiavari dove è nata la loro terza figlia. 27


Uno dei tanti box allestiti nelle camerate della Caserma Perrone per ospitare le famiglie dei profughi

In seguito hanno fatto domanda per venire a Novara dove c’era lavoro, il marito fu assunto alla Montecatini. Abitavano alla caserma Perrone. Dormivano in cameroni divisi da tende, coperte, su brande di ferro. Stavano vicini parenti e amici creando una grande coesione. Prima davano il cibo, poi 120 lire al giorno per persona. Dalla Perrone sono passati all’INA casa della Bicocca.

Pia

Ghesla

“Era l’autunno del 1940, ero diventata maestra due anni prima, avevo vent’anni circa. Nel 1939 avevo fatto una breve esperienza di scuola in un paese dell’Alto Adige dove tutti parlavano tedesco tranne il parroco, che sapeva il latino, ma era più tedesco di tutti. Dopo pochi mesi tutti gli scolari delle cinque classi riunite disertarono la scuola italiana. Io rimasi sola e venni via, in pieno inverno, su uno slittone regolato coi piedi dal guidatore, in discesa fino a valle, la Pusteria. Una esperienza iniziale traumatica. Nel 1940 l’ONAIR (Opera Nazionale Assistenza all’Italia Redenta) mi mandò in Istria, provincia di Pola, comune di Albona, scuola di Caidraga. Anche queste terre erano da “redimere” per lo Stato, cioè da essere italianizzate. A differenza dell’Alto Adige qui alla gente non importava niente parlare slavo o italiano. La nostra lingua era parlata e capita, anche se in casa si parlava un dialetto slavo, dolce ed espressivo. 28


Pola è una bellissima città, con un clima dolce anche in inverno e un anfiteatro romano integro e splendido. L’ho vista una volta sola e in fretta; non ci sono ferrovie, tutto il traffico si muove sulle strade con un unico mezzo oltre l’automobile: la corriera. Albona è deliziosa. In cima a una collina e dal campanile alto e snello si vede il mare e, per un tratto, la pianura piatta, estesa all’infinito con pochi alberi di ulivo e un cielo sbiadito sopra. La strada è di fango rosso, argilloso, da fare a piedi o con un mezzo trainato a mano: porta a Caidraga. Non era un paese, ma tre case a due piani, disposte a elle, una piccola vigna rampicante e un pozzo rotondo in mezzo. Si beveva acqua di pozzo e andava risparmiata. Quando sono ritornata a casa mia madre mi ha messa nella vasca da bagno e mi ha strofinata con un bruschino per pavimenti. In casa si cucinava sul fuoco vivo e sotto la cenere del caminetto aperto, con la cappa sopra e la catena per la pentola. Il fuoco era sempre acceso e creava un po’ di tepore quando soffia la bora. Quando soffiava la bora i vetri delle finestre tintinnavano, di notte non c’era pace. La padrona di casa fa il pane tutti i giorni: grandi pagnotte cotte sotto la cenere calda; avevano una crosta dorata e saporita, ma dentro era fango. Si mangiavano a fette, con le verze arrostite nell’olio. C’è la luce elettrica, solo per vedere dove mettere i piedi. Le notti erano fredde, prima di andare a letto io mi vestivo, mettevo tutte le maglie che avevo portato da casa nel baule verde. Solo una notte, e la ricordo con piacere, avevo dormito al caldo insieme alla padrona di casa nel suo letto matrimoniale, nelle lenzuola del suo corredo, perché il signor Matteo era stato arrestato dai carabinieri e non so perché. Tornò presto e tranquillo, ma per due giorni la moglie girovagò per il cortile gridando: “Lipa moia glaviza camo ti mi res?” (bella mia testolina dove mi vai tu?). Avevano una figlia, Mariza, con una chioma di capelli ricciuti e biondissimi, belli da incantare. Mai più visti in vita mia bambini belli come alla scuola di Caidraga: tutte le tonalità dell’azzurro negli occhi, a piedi scalzi, sporchi e contenti. Ma come capirci con quel loro slavo delicato e misterioso? Il modo più facile e utile era il disegno: disegnavano tutti, maestra e scolari; l’ONAIR ci aveva forniti di carta e matite colorate. I bambini erano intelligenti e imparavano in fretta anche la lingua. Ho una fotografia della maestra Pia a Caidraga: indossava la divisa di donna fascista! Era obbligatorio. Per fortuna teneva caldo in quell’aula freddissima. Sembrava che i bambini non soffrissero il freddo; arrivavano a scuola di corsa dai masi lontani sparsi in quella pianura sconfinata. Non era mai venuto a scuola un catechista, né un medico, né il direttore didattico che stava a Pola e neppure un genitore a chiedere qualcosa. Non avevo mai fatto né a scuola né fuori discorsi patriottici (cioè a favore del duce e del fascio) con nessuno né a scuola né fuori con gli adulti, anche se ero in divisa: non mi interessava e così agli slavi. Il direttore didattico un giorno ha raccolto tutti gli insegnanti ad Albona per una conferenza didattica d’obbligo. Ricordo, della sua conferenza, solo il racconto di uno 29


scolaro slavo che scriveva poesie “Ceprit ceprit” (incomincia) la primavera. Ma fra gli insegnanti, quasi tutti trentini, non ci fu nessun accordo, nessun legame non so perché. Io amavo Albona perché nella bella piccola piazza, sotto il porticato c’era la pasticceria, italiana. Mangiavo più paste che potevo e poi chiedevo perdono al Signore per la gola, ma era fame! A nord di Albona, sulla costa, gli italiani avevano riaperto una miniera di carbone e avevano costruito per i lavoratori un paese intero: Arsia si chiamava. L’ho visto, dopo la conferenza didattica , e mi ha incantata. Tutto in cemento bianco e in perfetto stile 900: le case attorno alla piazza, la chiesa, la scuola, l’albergo dove ho dormito fra le lenzuola nuove e profumate, la sala cinematografica che proiettava “Romantica avventura” in italiano. Ma tutto era deserto e silenzioso, come morto: un ricordo indimenticabile. Ad Albona anche il medico era italiano, giovane. Ma non ho mai visto un prete, né un frate, né una suora. La religione non era vissuta da nessuno, ma a scuola i bambini avevano imparato volentieri qualche preghiera. Scendendo da Albona, ai piedi del colle si incontrava una piccola frazione di case fra le quali c’era l’ufficio postale, ma non il telefono: un luogo importante per una maestra italiana lontana da casa; è da lì che è arrivato all’improvviso l’ordine ai maestri italiani di abbandonare tutto e di tornare a casa il più presto possibile. Perché? Il perché l’ho saputo da una maestra incontrata per caso, nativa di Pola: era cominciata la ribellione dei nativi contro gli italiani che non erano stati richiesti da nessuno e praticamente si erano impadroniti di tutto il paese, quasi costringendolo a diventare italiano. La ribellione è stata brutta e ingiusta. Le maestre italiane vennero violentate dai biondi ragazzi istriani e non dico il peggio. Io sono stata fortunata. Tutti gli imprenditori italiani sono stati costretti ad abbandonare tutto quello che avevano fatto per il bene dell’Istria. Ho conosciuto qualcuno di loro, buona gente che aveva fatto solo del bene e ora perdeva la casa, la barca, il negozio, la scuola, l’ospedale, il lavoro. O morire in modo crudele o abbandonare ogni bene e partire, fuggire: ho parlato con più persone che hanno dovuto abbandonare tutto così, pena la morte e una crudele, sadica morte. Anche io sono partita a tempo e nessuno ha pianto, neppure i bambini che amavo. Ero sporca, ma ero viva. Ricordo ora, con tristezza, l’indifferenza della gente di Caidraga alla mia improvvisa partenza. Nessuno è venuto a salutarmi, né i grandi né i piccoli, nessuno ha chiesto se e con chi la scuola continuasse e perché io la lasciavo così in fretta. Colpiva l’indifferenza della gente e il cattivo patriottismo dei giovani, di quello della popolazione slava la cui caratteristica era che parlava, e bene, due lingue, come mai non lo so. E da quando? Dal tempo della perfetta costruzione dell’anfiteatro di Pola? A Trieste ho trovato un’accoglienza affettuosa, cortese; ma nessuno sapeva cosa era successo in Istria. Dove io non sono più tornata. (Pia Ghesla è la sola, fra le testimonianze qui riprodotte, che non è transitata dal Centro Raccolta Profughi di Novara)

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Pietro Visintin È nato a Visignano (Pola) nel ’22. Il nonno, di Vicenza, a sei mesi era stato portato in Istria, nel 1870 quando allora era Austria. Il papà, contadino, e la mamma erano tutti e due italiani di Visignano. Nel ’42 è stato richiamato, è andato in guerra sul confine con la Slovenia, in Sardegna e in Corsica, dal ’44 al ’45 con gli americani. Il 9 novembre ’45 ritorna a Visignano. Fino al ’43, ’44 a Pola c’erano ancora i tedeschi, Tito nel ’45 era arrivato fino a Trieste. Nel ’46 si era trasferito a Fiume, lavorando come muratore, in ospedale, poi nel porto fino al ’50. Tutta la famiglia è partita perché bisognava stare zitti. Dall’Istria scappavano anche nei vagoni chiusi, sparavano a chi scappava. Nel ’46 i più benestanti optavano per la Croazia, erano obbligati. Davano il permesso per uscire solo ad alcuni membri delle famiglie, agli altri non lo davano e così avvenivano separazioni e divisioni, non li lasciavano partire. Hanno lasciato là tutto quello che avevano, hanno potuto portare solo un cassone con le cose trasportabili. Negli uffici lavoravano ancora i tedeschi. Il I° novembre del ’50 arrivano a Novara dopo essersi fermati a Udine. Alla caserma Perrone i grandi cameroni venivano divisi in quattro parti, fortunati quelli che stavano dalla parte delle finestre. Erano già nate le sue tre figlie. C’era un freddo terribile, poi hanno acquistato una stufa e dei mobili. I materassi avevano dentro la paglia, facevano la fila per l’acqua e i bagni. All’inizio distribuivano il cibo, poi col fornello cucinavano da soli. Ha subito lavorato, piccoli lavori, lavori giornalieri, a volte pagati con molto ritardo, alla Montecatini per l’ammoniaca, al Metanodotto, a Busto Arsizio (dove non pagavano i bollini) , portava il carbone nelle case, alla ditta Magistretti che faceva capannoni, poi alla Sant’Andrea in fonderia per dieci anni dove facevano i pezzi per le macchine tessili, poi nel reparto delle mole e in officina al controllo dei pezzi. Riusciva ad avere 32.000 lire di paga con gli straordinari. A Novara i profughi erano più di 2.000, davano 150 lire per persona di sussidio, in Prefettura certi impiegati non distribuivano i sussidi, ma li tenevano loro. Nel ’56 sono andati al Villaggio. Gli appartamenti erano più piccoli dello stabilito. Il Villaggio era stato pagato anche con soldi americani. L’affitto era di 5.000 lire al mese, poi è calato. Dopo trent’anni di vita a Novara sono stati apprezzati, avevano lavorato per i signori che non li avevano valorizzati anche se sapevano magari due o tre lingue. La minoranza (37.000 circa) è rimasta in Jugoslavia, quelli che avevano fatto la guerra in Italia.

Rinaldo Perovich

È nato a Zara nel ’40. Il padre era meccanico nella fabbrica di reti da pesca a Zara; la madre, casalinga. 31


Nel ’44 Zara aveva subito cinquantaquattro bombardamenti da parte degli Alleati, una volta liberata dagli Anglo-Americani, è arrivato Tito che voleva mandare via gli italiani. Si parla di pulizia etnica. Durante i bombardamenti si sono rifugiati a San Benedetto del Tronto, ma nel ’45 sono ritornati a Zara. Le frontiere erano chiuse, per loro non fu possibile l’opzione per l’Italia. Il prefetto di Zara non concedeva l’espatrio perché rimanevano sguarniti troppi posti di lavoro anche se poi venivano occupati da Italiani provenienti da Monfalcone o da altre parti con l’illusione di andare in un Paese socialista. Fino al ’53 ha frequentato le medie italiane escluso l’ultimo anno in lingua croata. Sono partiti nel ’55 come cittadini italiani, con passaporto italiano, “rimpatriati” (così si esprime). Prima sono andati al campo di Udine, poi a quello di Tortona. Ha studiato da elettricista. Il papà lavorava in una officina di autobotti. Nel campo di Tortona erano controllati, gli abitanti della città li vedevano come estranei. Quando lasciavano il campo venivano liquidati con 50.000 lire. Nel ’56 vengono a Novara, al Villaggio. Il papà lavora alla Sant’Andrea, infine all’ENEL. Venivano agevolati nelle fabbriche come profughi. Gli abitanti di Novara li consideravano dei privilegiati per gli affitti nelle case del Villaggio e per la facilità con cui trovavano lavoro.

Romano Vinaghi

È nato a Bucarest il 10 febbraio del ’40, il giorno delle foibe. Il papà era italiano. Dal ’46 al’51 ha frequentato le scuole a Budapest. Nel ’51 sono venuti in Italia, perché il papà, che era stato in prigione e ai lavori forzati, perché anticomunista era stato cacciato. Partirono il 4 dicembre del ’51 diretti in Ungheria, in Austria e poi in Italia. Restarono a Udine nel campo profughi per due mesi, poi a Sant’Eramo (dove frequentava la quinta classe elementare e ha imparato l’italiano), poi nel ’53 a Novara alla caserma Perrone. Ha frequentato le elementari Rosmini, poi la prima classe dell’Avviamento, ma a causa di due terribili insegnanti ha interrotto gli studi e non li riprenderà più. Ha lavorato alla Montecatini, poi fatto il militare, quindi l’autista delle Poste. Ha frequentato l’oratorio dei Salesiani, conosciuto don Ponzetto e don Mercoli che seguiva i profughi. Nel ’56 sono stati al Villaggio Dalmazia. Alla Perrone si era formata una squadra di calcio, partecipava ad un campionato la “Polisportiva giuliana” che veniva seguita da don Mercoli. Al Villaggio la stessa squadra si chiamerà “Adriatica”.

Sergio Bonivento

Nasce nel 1935 a Fiume. Fiume era città industriale, con un porto, un cantiere navale, le manifatture tabacchi, la fabbrica di compensato e di corde, il silurificio, la raffineria, l’artigianato. Era una città multietnica. 32


Un gruppo di giovani esuli presenti nel CRP nell’inverno del 1949

Il trattato di Rapallo (1920) aveva sancito la sovranità italiana sulla città. Era obbligatoria la tessera fascista, i fascisti hanno chiuso le scuole croate e obbligato tutti a parlare italiano. L’8 settembre 1943 ci fu molta confusione, i tedeschi fucilavano gli Italiani (uno zio rimase a Dakau per due anni), gli Alleati bombardavano. Il 3 maggio ’45 entrava Tito che nazionalizzava, confiscava tutto, tutto diventava del popolo, dello Stato, in realtà i capi-partito si erano impossessati di tutto. L’esercito partigiano di Tito non si fidava dei partigiani italiani. Il padre era falegname, fu costretto ad entrare in una cooperativa nella quale era trattato male perchè italiano. Le opzioni erano state decise dalle potenze vincitrici. Fiume aveva 50.000 abitanti, dopo le opzione ne erano rimasti 10.000 circa: i vecchi e i giovani si lasciavano guidare dalla propaganda comunista. La nonna era partita per prima, sola, nel giugno 1948, col passaporto, era operaia alla manifattura tabacchi. Prima sosta al campo di smistamento di Udine, poi ha trovato lavoro a Torino, poi a Milano, poi a Novara alloggiata alla Perrone. Nel ’49 il padre aveva chiesto l’espatrio ed era giunto a Novara. Il direttore del CRP era Antonio Nava. 33


Le camerate nella caserma Perrone venivano divise con legni e compensati o con le coperte. Per letto avevano cavalletti in ferro con tavole di legno, paglia per i materassi, lenzuola e coperte. Il papà che era falegname faceva la manutenzione e altri lavori. Aveva costruito anche le porte per i gabinetti delle donne e degli uomini che ne erano privi. Le camerate erano fredde. C’era la cucina militare, caffè e latte al mattino, minestra a mezzogiorno, pasta solo la domenica. Poi chi voleva, prendeva un fornello a petrolio per cucinare. Ogni dieci giorni veniva pagato il sussidio che consisteva in 114 lire al giorno per ogni persona. Chi decideva di non restare più in caserma riceveva una buonuscita di 50 mila lire per capofamiglia, 25 mila per i singoli. A Novara venivano definiti fascisti. Avevano diritto ad occupare una percentuale di posti di lavoro e nelle assegnazioni delle case popolari. Infatti si diceva che rubavano il posto di lavoro ai Novaresi. Per le strade molte volte venivano trattati male. Nel ’54 veniva messa la prima pietra del Villaggio Dalmazia che sarà finito nel ’56 con i fondi del Piano Marshall. Gli appartamenti erano piccoli. Nel ’58 lasciavano libero l’appartamento del Villaggio e si trasferivano in una casa vicino alla bottega dove il papà faceva riparazioni. Lui stesso aveva trovato lavoro in una falegnameria dal ’52.

Sergio Verderber

La nonna paterna di cognome si chiamava Pillepich, figlia di austriaci, il nonno paterno era ingegnere navale a Fiume, il papà lavorava ai cantieri di Fiume. La mamma di cognome si chiamava Safar. I suoi genitori abitavano in Argentina. La nonna materna era di Trieste. Nel periodo di guerra fino al ‘48 - ’49 erano sfollati a Virovitica, vicino all’Ungheria dagli zii contadini. Sono venuti in Italia nel ‘51 dopo l’ultima opzione. I loro parenti abitavano già qui a Novara, ma lavoravano a Milano. La mamma voleva venire via, il papà no, ma un po’ alla volta ha incominciato a capire chi erano i titini, cioè i partigiani di Tito. A Fiume coesistevano i partigiani italiani comunisti, i partigiani di Tito, i partigiani fiumani che erano spontanei, non organizzati (si dicevano “morti in bosco”). All’interno del territorio c’erano gli ustascia, fanatici della destra più bieca. Fino al ’43 c’erano i fascisti e i tedeschi che non facevano rappresaglie perché c’erano i titini che facevano fuori gli italiani fascisti e non. Fiume è stata bombardata dagli alleati. Era porto franco, città aperta, libera, potenza industriale e commerciale, città mitteleuropea, lo stemma era l’aquila a due teste. Nelle foibe venivano buttati dai titini. Il percorso in Italia andava da Fiume, Trieste, Udine, Laterina (Arezzo), campo americano diventato campo profughi, fino a Novara. 34


Alla Caserma Perrone sono restati fino al ’55-’56 poi alle Case Gescal di S. Agabio, in via della Riotta. Alla Perrone si era senza intimità. Non si pagava niente e allora si diceva che stavano bene. C’era gente che non sapeva l’italiano, gente che si è accodata all’esodo. C’era di tutto. Buona parte aveva trovato lavoro: il papà alla Gargano produceva “colonne di distillazione”. Erano in un ghetto, non si poteva uscire quando si voleva. C’era un guardiano, si era controllati, si poteva uscire con gli orari. Aveva frequentrato le elementari alla Rosmini; il maestro Ceffa non faceva differenze tra scolari di Novara e scolari dell’esodo. Poi l’avviamento professionale al Bellini, poi due anni all’Omar. Tutte esperienze positive a scuola.

Silvia Ghira

È nata a Fiume nel ’41 nell’Italia fascista; la madre era di Parenzo, il padre di Pola lavorava al silurificio austriaco di Fiume, che era il porto industriale dell’impero austroungarico. Le case avevano il bagno e l’acqua calda, la spesa si faceva con la tessera. Passavano molte ore nei rifugi per i bombardamenti degli slavi. Non hanno avuto problemi con i tedeschi. Il rifugio antiaereo a Fiume era in alto, in collina. Dormivano vestiti, con le pantofole, una pentola di fagioli vicino all’ingresso, pronta per portarla nel rifugio perché non si sapeva quanto ci si sarebbe fermati. Quando Fiume era passata a Tito (nel ’45-’46) si andava a scuola a 7 anni, già all’asilo i bambini dovevano parlare il croato. Sono usciti dalla Jugoslavia nel ’48, non sono fuggiti, chi lavorava nel silurificio, se istruiva un altro che lo sostituisse, aveva il permesso per andarsene in Jugoslavia i treni erano controllati dai militari, Silvia ricorda ancora i fucili puntati. Temeva perché il papà era stato in prigione per una decina di giorni perché accusato di aver aiutato una persona a fuggire dalla Jugoslavia dandogli una cartina. Ne era uscito pieno di pulci. Da Fiume erano passati a Trieste per poche notti in un centro raccolta. Erano riusciti a portare con sé i loro mobili imballati. Da Udine, dove si faceva lo smistamento, dopo sei giorni erano venuti a Novara in treno. A Novara c’era richiesta di manodopera. Il papà tornitore meccanico aveva trovato subito lavoro alla Sant’Andrea, lavorava alla ghisa, ai bruciatori. Alla caserma Perrone dove erano alloggiati c’era il cappellano, il direttore, la guardia, il medico, il dentista nell’ambulatorio. Vivevano in grandi stanzoni divisi da tende, coperte, cartoni. La luce elettrica c’era solo di sera e le lampadine non dovevano avere più di 25 candele. Nella lavanderia e nella stireria si poteva andare su prenotazione, così per poter fare la doccia (a volte veniva a mancare l’acqua). In cortile e nei corridoi si trovavano i lavandini per i piatti. In una camerata abitavano fino a venti famiglie, con i pagliericci per terra e le pantegane, 35


ma dal ’50 la situazione era migliorata, in una camerata alloggiavano solo due famiglie. I loro arredi consistevano nel letto dei genitori, un letto a castello, un baule, un tavolo, la macchina da cucire, un altro baule con il fornello a petrolio. I mobili portati da Fiume erano rimasti imballati in una stanza speciale. Avevano un bel rapporto con le altre famiglie, era nato anche un bambino ai vicini al di là delle tende divisorie. L’impatto con la gente, fuori dalla caserma, invece, era duro, si sentivano ed erano isolati. Prima del ’50 le suore salesiane allugavano le gonne alle ragazze che andavano da loro, cioè scucivano gli orli. Sono, invece, state molto vicine a loro le suore pianzoline a partire dal ’50. A sette anni incominciava la scuola elementare a Novara. Alle elementari Rosmini erano stati rifiutati perché costituivano nell’insieme una classe molto numerosa; allora avevano allestito un’aula nella camera mortuaria. Ma la maestra Sacchi non si rassegnò, andò dal prefetto e nel giro di una settimana il posto alla Rosmini fu trovato. Solo non potevano fare l’intervallo perché i genitori degli altri scolari non volevano. Le suore insegnavano a ricamare, a recitare, ci fu uno spettacolo teatrale al Cinema del soldato nell’anno di Trieste libera. Don Mercoli, invece, insegnava il calcio ai ragazzi. Nel ’49 ci fu la prima comunione e la cresima in San Gaudenzio per tutti, erano tantissimi perché in Jugoslavia non si amministravano sacramenti.

Suor Ausilia Trusnik

È slovena come tutti i familiari, di lingua slovena anche se ora non la ricorda più. Abitavano a Canale d’Isonzo, la parte slovena di Gorizia. Avevano casa e terra. Erano partiti nel 1947 con i documenti, ma senza portare nulla se non i vestiti che indossavano; Ausilia aveva dieci anni. Il cambio di sovranità tra Italia e Jugoslavia era stato traumatico per loro. Non volevano restare per motivi religiosi, per paura (stavano per portare il papà nelle foibe): chi era religioso perdeva il lavoro. Da Gorizia andarono a Udine, poi a Perugia, a Milano, poi di nuovo a Perugia, poi a Milano e poi a Novara: tutto questo avvenne da marzo ad aprile del 1947. In Italia il papà aveva lavorato prima a Cesano Maderno come muratore, poi a Novara. Ausilia a quattordici anni era alla De Agostini, in legatoria, dove non aveva perso il posto anche se non era iscritta alla Cgil. Erano alloggiati alla Perrone: la mamma li lavava usando delle pezze scaldate tra le mani. Erano assistiti da un sacerdote, don Giuseppe Caffano, poi da don Teresio Giacobino, poi dalle suore “pianzoline”: avevano la scuola elementare interna con bravissime maestre. Tutta la famiglia rimase alla caserma Perrone dal ’47 al ’57; poi si trasferirono al Villaggio Dalmazia. 36


Santa Messa nel cortile del CRP

I genitori nella caserma soffrivano della mancanza di intimità, ma, al contrario, godevano della coesione e dell’aiuto reciproco che esisteva tra famiglie. I bambini invece, ignari, giocavano e si divertivano tanto più che non mancava loro il sostegno e la partecipazione delle suore e del sacerdote. Ma intanto nel ’53 Ausilia era già a Mortara nella Congregazione delle Suore Missionarie dell’Immacolata Regina della Pace.

Suor Maria Giacinta Rigolli

Nel ‘50 era stata mandata alla caserma Perrone ancora novizia per assistere i profughi della Venezia Giulia. Era stata preceduta nel ’48 dalle prime suore Silvana e Matilde. Una delle ragazze ospitate - Ausilia Trusnik - si è poi fatta suora nello stesso ordine: le Missionrie dell’Immacolata regina della pace, fondate da Francesco Pianzola. L’ordine le aveva mandate a quel servizio su richiesta di mons. Fasola, oblato, mentre era vescovo Leone Ossola. Alla Perrone erano ospitate 3.000 persone nei cameroni divisi in sei box, separati da tende: ogni famiglia occupava un box. Le suore abitavano al piano terra, avevano due ambienti, in uno stavano con le ragazze e anche con i ragazzi per aiutarli a fare i compiti, per i giochi, i passatempi, il ricamo. C’era anche il cortile per i giochi, il teatro, le operette. Il servizio religioso era tenuto dal cappellano, don Giuseppe Coffano. Direttore del campo era il dottor Nava. Lo spirito dell’Ordine era quello di seguire i poveri e i più abbandonati. Seguivano anche le famiglie, ad una ad una. 37


Prendevano il rancio come tutti, a volte hanno patito la fame, ma è stata una vera esperienza missionaria. Uscivano dalla caserma con tutti i ragazzi che portavano a giocare al parco di S. Nazzaro della Costa. La scuola elementare era all’interno. Nel ’56 dalla Perrone si erano trasferiti chi al Villaggio Dalmazia, chi a San Rocco, alla Bicocca, a Sant’Agabio e a Sant’Andrea. Gli abitanti del Villaggio avevano chiesto di avere le stesse suore con cui avevano vissuto dal 1950; l’avevano ottenuto per intercessione dell’onorevole Scalfaro. Alle suore era stato assegnato un appartamento dove hanno organizzato la scuola materna. La frequentavano, all’inizio, 22 bambini. Quando sono diventati 44 hanno avuto un secondo appartamento contiguo, in via Tolmezzo 16. L’arredamento era semplicissimo: panche per sedere e panche, più alte, per mangiare. Controllavano l’asilo un direttore e un medico. Da principio andavano a messa in Seminario, poi hanno costruito una cappella con il tetto di eternit. Don Teresio Giacobino era il sacerdote ufficiante. Tra le persone influenti di Novara hanno avuto degli amici: Comazzi, Tarantola, De Giuli.

Teresio Giacobino Ricorda che i profughi scappati in Italia erano gli abitanti delle coste dell’Istria e della Dalmazia perché non avevano accettato Tito. Sono stati rimpatriati anche i veneti emigrati per lavoro in Romania, Turchia, Grecia abbandonando tutto quello che avevano. Il fascismo li aveva salvati e difesi. Durante la guerra gli italiani avevano infierito contro i croati. Don Tarcisio, prete dal ’51, aveva conosciuto suor Florida e suor Giacinta, le suore della Caserma Perrone, ma non aveva avuto esperienza in quell’ambiente. Era stato, invece, mandato al Villaggio Dalmazia dal Vescovo Monsignor Gremigni. Il 19 gennaio del ’58 si inaugurava la Cappella del Villaggio di cui diventava vicario curato. De Giuli (Presidente delle Case Popolari) e Comazzi (Industriale novarese) si erano impegnati per la sistemazione delle famiglie nelle case del Villaggio. Si sono occupati inoltre di attività ricreative per i ragazzi e di assistenza delle suore che dalla Caserma Perrrone avevano seguito i ragazzi nelle nuove abitazioni. I profughi erano sempre stati uniti fra loro anche al Villaggio. Avevano avuto rapporti molto corretti con le altre religioni, per esempio gli ortodossi rimpatriati. Le donne erano molto richieste per lavori domestici perché ordinate, pulite, capaci. Ai bambini è stato un po’ nascosta la loro situazione. Ha dovuto farsi carico della costruzione della Chiesa nuova del Villaggio dal punto di vista economico e architettonico (in sintonia con le disposizioni del Concilio).

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