Sul filo della memoria

Page 1

Quaderni di Generazioni

Sul filo della memoria LA STORIA NELLE STORIE DELLE DONNE DI NOVARA

a cura di

Novara


Questa pubblicazione è stata creata a seguito del laboratorio “La Storia raccontata ai più giovani” all’interno del progetto

Onde positive per raggiungere nuove sponde è un progetto della Biblioteca Civica Carlo Negroni, dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Novara e di Associazione Culturale Muse , realizzato grazie al contributo di Fondazione Cariplo. Un sasso gettato in uno stagno crea cerchi concentrici che si allargano e si allargano fino ad arrivare a riva. Partendo dalla biblioteca, attraverso azioni molteplici e mirate, vogliamo allargarne il campo d’azione per raggiungere nuovi pubblici e approfondire distinti argomenti. I Quaderni di Generazioni, secondo questo spirito di allargamento degli orizzonti e di creazione di nuove connessioni, vogliono contribuire a mettere in comunicazione diverse generazioni della nostra città e vogliono raccontare ai più piccoli ciò che è accaduto e che ha lasciato un segno tangibile nella vita quotidiana.

a cura del Coordinamento Donne SPI CGIL di Novara Editing e impaginazione: Elena Lah | Associazione culturale Muse Revisione editoriale: Alessandra Bianchi | Associazione culturale Muse

realizzato grazie al contributo di

Fotografia di copertina: in questa foto di famiglia appaiono la mamma (classe 1914) e la nonna di Armando, marito di Paola, Coordinatrice del Gruppo Donne SPI CGIL, a rappresentare tutte le grandi donne della loro generazione.


Sul filo della memoria LA STORIA NELLE STORIE DELLE DONNE DI NOVARA


4


Il mondo cambia in continuazione e non soltanto nei grandi equilibri geopolitici, nelle azioni dei governi; cambia nelle abitudini e nel quotidiano delle persone. I racconti della vita normale raccolti in questa pubblicazione fanno sentire il colore e l’atmosfera che si viveva quando il mondo era diverso, meno tecnologico, più semplice anche da capire. Le donne novaresi hanno raccontato a quelle dello Spi Cgil le loro storie, che sembrano piccola cosa, ma sono quello che costituisce la memoria orale di una popolazione, che merita di essere scritto perché venga tramandato alle presenti e future generazioni. La povertà, il freddo, la fatica fisica, ma anche il festeggiare con poco, i piatti locali, l’uso degli avanzi e poi la conservazione quando non esisteva il frigo, il burro per condire, la balia, i pannolini di stoffa, il malocchio... sembrano appartenere ad un mondo fantastico e lontano che invece era quello dei nostri nonni, nelle nostre terre, neanche tantissimi anni fa. E poi - nel racconto di Franca - il mondo delle mondine, così affascinante e così faticoso insieme, l’entusiasmo come arma per combattere le giornate così dure, cantare per non sentire il freddo nei piedi. Infine Novara durante il fascismo e la Resistenza di Orlando. Quando gli ideali erano quelli in base a cui decidere da che parte stare fattivamente, se accettare o uscire e combattere, rischiando e a volte perdendo la vita. Tempi che sembrano lontani, finché non ci rendiamo conto che quello che viviamo ogni giorno è conseguenza delle scelte fatte allora. Quindi meglio conoscere, per capire le nostre radici e progettare il nostro futuro. Paola Turchelli Assessore del Comune di Novara al sistema dei beni e delle attività culturali, la promozione della cultura e della creatività giovanile e le iniziative culturali per le famiglie

5


6


Descrizione metodologica Questo lavoro di ricerca storica, dal titolo “Sul filo della memoria”, si compone di tre distinti capitoli: il primo contiene le testimonianze di una cinquantina di donne, molte delle quali allora ultranovantenni, raccolte negli anni dal 2001 al 2007 nelle loro case, nei Centri-Anziani, nelle Case di Riposo (tra Novara, Caltignaga, Romentino, Arona, Borgomanero e Galliate), grazie a interviste fatte dalle componenti del Coordinamento SPI CGIL di Novara, “munite” di questionari predisposti. Essa è, a sua volta, divisa in tre parti, alla guisa di grandi “filoni” tematici dai titoli: Quando non c’erano gli avanzi; Non solo cure... e Quando il lavoro c’era... e i diritti? Le intervistatrici chiesero alle anziane di regalare qualche ricordo dell’infanzia, legandolo al paese da cui erano venute via spinte dal desiderio di vivere meglio, alle cose che si mangiavano tutti i giorni, la domenica e le Feste, alle cure che si prestavano ai bambini e agli anziani, all’amore e al sesso, alla fatica del lavoro, alla tutela dei diritti... Durante le interviste, si ricreava quasi l’atmosfera delle chiacchiere fatte alla fontana del paese, o di balcone in balcone, o sedute sui gradini davanti alla casa, o addirittura nella stalla, d’inverno a raccontare. I ricordi e le narrazioni si intrecciavano e si rinforzavano, trovando conferme l’uno nell’altro e i dettagli si aggiungevano ai dettagli. Durante le interviste alle più anziane a casa loro, c’era sempre una figlia “giovane” , di 50/ 60 anni, che incalzava la mamma: “Ti ricordi? Tu mi dicevi questo… tu facevi così… la nonna invece faceva…, diceva quest’altro…”. Il progetto poteva apparire arcaico in un mondo che comunica velocissimo attraverso i tweet, le chat, Facebook, Internet e la tv, e che pare aver dimenticato i racconti fatti di parole, tramandati di padre in figlio, anzi, in questo caso, di madre in figlia. Alle autrici, invece, è parso opportuno navigare “sul filo della memoria”, poiché sono proprio i racconti fatti di parole che ci mancano, quei racconti che le donne meno giovani non fanno più perché “tanto, nessuno ti sta a sentire”, “tanto, son cose vecchie”, “tanto, fanno solo ridere di compassione poiché noi eravamo troppo ignoranti...”. Ma è proprio questo intreccio di ricordi, di cose vissute e di cose sentite raccontare, che dà davvero il senso alla ricerca: ciò che la nonna ultraottantenne quasi non vuol più raccontare, poiché le sembra la prova della sua ”ignoranza” e di quella della sua generazione, quella frase: “Ma eravamo indietro! Ma non abbiamo studiato! Ma non sapevamo niente!” si trasforma in mito, in racconto epico! E le figlie si gloriano di quella nonna e della sua antica sapienza, ritrovando le radici che hanno permesso loro di diventare come sono oggi. La curiosità, peraltro, è femmina, le chiacchiere pure, le chiacchiere sono come le ciliegie e una tira l’altra, è bello riallacciare il prezioso filo di parole che ci lega alla storia 7


delle mamme e delle nonne, magari per darne un pezzettino alle figlie e alle nipotine. Queste narrazioni sono capaci di restituire un po’ di Storia, scritta non a caso proprio con la maiuscola, poiché la Grande Storia che si studia sui libri non può trascurare la troppo spesso dimenticata e lontana storia delle piccole cose di cui è intessuta la vita di ognuno. E’ allora più che mai necessario ricucire col filo della memoria i “pezzi” della Storia, essa è troppo preziosa per lasciarla fuggire via. Un discorso a sé stante merita il brano “Mi chiamavano cirabibè”, scritto da Franca Crivellin. Franca è una componente del Coordinamento donne SPI, nata nel 1944, quindi troppo giovane per entrare nella lista delle donne intervistate (tutte almeno over-settanta), però ha una qualità tutta speciale: LA PASSIONE PER SCRIVERE, scoperta quando è andata in pensione, nel 1994. Studiare le piaceva tanto, ma si è dovuta accontentare della licenza elementare; e, nonostante i pochi anni di scuola, scrive benissimo, tanto che il racconto della sua prima esperienza di lavoro come mondina, a 14 anni, è stato pubblicato su “Libera età”, il giornale dello SPI: il 1° gennaio 2003 è uscito un numero speciale intitolato “Una memoria che ha un futuro” e tra gli altri racconti c’era proprio quello di Franca. L’esperienza di mondariso, da lei affrontata in età adolescenziale, contiene in sé un corposo affresco rurale, vivacizzato dai personaggi con cui “Cirabibè” viene a contatto, dalle difficili situazioni lavorative della risaia e dai sentimenti contrastanti della giovane mondina cui, per motivi di natura economica, viene impedito di andare a scuola. Quel mondo contadino, ormai scomparso dalle nostre terre, è tratteggiato con sapienza espressiva, dando vita a un bozzetto storico - artistico di piacevolissima e istruttiva lettura.

8


PRIMO CAPITOLO Parte prima

Quando non c’erano gli avanzi Che cosa si mangiava a colazione, a pranzo, a merenda, a cena?

Ed ecco la prima sorpresa, non sempre ricordare quell’infanzia lontana dà allegria: “Eravamo poveri, c’era poco da mangiare!…. Altro che merenda! Era già tanto se si mangiava due volte …” Polenta e pane. Minestra e pane. Polenta e fagioli. Riso e fagioli. Pane e cipolla. Pane e lardo. Minestra di zucca. Riso e latte. Patate. Zuppa di cipolle e pane di segale. Pane e gorgonzola. Al mattino, se avanzava, qualche fetta di polenta messa sulla stufa o sulla pietra del camino. A Romentino c’era la rüsümà per chi doveva lavorare tanto e pesante: vino con dentro un uovo sbattuto e un po’ di zucchero. Pesci e rane, se il papà o i fratelli ne pescavano. Con le rane si faceva la minestra per le donne “appena partorite”. Quaglie e uccelletti, se qualcuno andava a caccia. In Monferrato i contadini, al tempo della vendemmia, mangiavano la “Soma”… cioè? una pagnotta su cui si sfregavano spicchi d’aglio. Mangiata insieme all’uva, è una vera squisitezza. Galline, uova, …? Raramente: si dovevano vendere. Le galline da uova si tenevano fino alla vecchiaia. Quando non producevano più, finalmente si potevano mangiare, bollite molto a lungo perché erano piuttosto dure. E che buon brodo! Però c’erano anche le bambine di città, magari benestanti perché papà faceva il ferroviere, o l’ufficiale, o l’impiegato… E allora sì: per merenda avevano pane e cioccolato, pane e olio, pane e gorgonzola, pane e burro, pane e la “Mariana” …ah! Ecco una ricetta alternativa: ½ cucchiaino di zucchero, una punta di cucchiaino di caffè in polvere; si mescolano gli ingredienti e si spolverano su una bella fetta di pane, magari fatto in casa. Molto più sana della brioches, di certo, ma era un lusso di poche. In casa si cucinava proprio tutto, spessissimo anche il pane… “e se in casa si era in 10, bisognava alzarsi prima dell’alba a impastare e impastare pagnotte”. Il pane si portava a cuocere al forno del paese, in grandissima quantità: doveva bastare a tutta la famiglia per almeno una settimana! Tutte le famiglie portavano al forno il loro pane… ma come facevano poi a riconoscerlo? Facile!!! Ognuna aveva un suo segno inciso sulle pagnotte, che quindi si riconoscevano subito. 9


In campagna non si comprava quasi nulla, e poco anche in città, visto che quasi tutti avevano un pezzettino d’orto fuori porta. Appaiono rapidi flash di acquisti oggi inusuali: ad esempio le briciole di tonno, che unite a pomodori, poco olio e aceto facevano un piattino da leccarsi i baffi. E se nei paesi il macellaio apriva solo una volta la settimana, per il bollito della domenica o per l’arrosto delle grandi feste, a Milano si trovavano anche negozietti pieni di ghiottonerie: i pesciolini fritti o il merluzzo fritto che una mamma lavoratrice, ma direttrice dello stabilimento, comperava rincasando troppo tardi per mettersi ai fornelli.

E la frutta?

Poca frutta, comprata al mercato in città, raccolta dai propri alberi, scambiata con quella dei vicini, o… “grattata” arrampicandosi svelti svelti su piante altrui e poi correndo via ancora più lesti, per sfuggire alle ire del contadino. In campagna, era uno dei pochi divertimenti. Chi abitava nelle valli di montagna raccoglieva mirtilli nel secchiello, e poi li mangiava con un po’ di zucchero. Si facevano arrostire le castagne nella padella coi buchi. C’era l’uva americana. Comunque, niente frutta fuori stagione. Al più, i pum mujà - mele messe a macerare in botti finché diventavano molli e un po’ acide, oppure cachi raccolti acerbi e lasciati maturare sulla cappa del camino. A volte, in inverno, una profumata pentola di prugne secche e di fichi secchi bolliva sulla stufa… La frutta era spesso l’unico prezioso regalo ricevuto a Natale o per la Befana. Arance e mandarini. Fichi secchi. Noci. Arachidi. Solo i bimbi più ricchi trovavano nelle calze anche cioccolatini e torrone, e addirittura qualche giocattolo. E nemmeno frutta esotica! Le prime banane sono apparse al mercato solo dopo la guerra d’Africa, e subito sono diventate nientemeno che uno status symbol o, detto più chiaramente, un segno di distinzione sociale. Una bambina di Torino, benestante perché papà faceva l’impiegato nelle ferrovie, non voleva mai fare colazione e allora la sua mamma la portava con sé al mercato e le comprava una banana. In un paesino del Novarese, un’altra bimba aveva fatto delle banane un oggetto del desiderio. Finalmente, una volta cresciuta, in gita ad Arona, ha potuto comprarsi una banana, per tre soldi. Ma non sapeva come mangiarla, e così non ha tolto la buccia. Immaginiamo noi disgusto e delusione!

Animali da allevamento...

Molte volte il pollaio era ben rifornito di galline, conigli, tacchini. C’era chi aveva anche la mucca: però serviva per il latte della colazione, aggiunto al caffè d’orzo, o per fare polenta e latte o riso e latte. I ricordi di Itala sulla mucca sono molto precisi. A lei, da bambina, sarebbe molto piaciuto mungerla – cosa che faceva sempre la sua mamma. 10


Così, quando mamma andava al mercato, la bimba andava di soppiatto nella stalla, armata di sgabellino e secchiello e si avvicinava alla mucca; ma questa, appena toccata, assestava un bel calcio a secchiello e sgabello… e addio sogni di gloria! Itala si consolava bevendo la schiuma del latte appena munto. Ha conservato questo vizio negli anni e un giorno non lontano suo figlio l’ha rimproverata, per via dei microbi: - Ma quali microbi? L’ho sempre bevuta e sono arrivata a novant’anni! Si vede che i microbi fanno bene! Se in casa c’era il maiale, c’era anche una festa in più, quando si ammazzava il maiale. Tutti aiutavano i vicini, e l’aiuto era ricambiato. Anche chi non aveva il maiale ne comprava magari mezzo, e poi chiamava l’uomo che sapeva fare i salami. A salami fatti, si facevano delle gran mangiate, a casa dell’uno e poi dell’altro. Del maiale, nulla andava perduto, nemmeno il sangue: era l’ingrediente principale per i sanguinacci, ma si poteva mangiare anche subito, unito a pane grattugiato e poi fritto. E i sanguinacci, sminuzzati, servivano a variare la solita polenta con un nuovo tipo di ragù. Non si faceva la fame, in campagna, anche perché i magri salari dei contadini erano integrati “in natura”, con riso, frumento, granoturco.

Quanto incideva la spesa per il cibo sul bilancio familiare?

Quasi nessuna sa quantificare; solo due azzardano: il 50%… il 60%… Parecchie risposte sono desolate: “Che bilancio e bilancio? I soldi finivano subito e il conto al negozietto si allungava, si allungava…”. Ma c’è anche chi motiva la propria ignoranza al riguardo confidandoci che, nella sua famiglia, era considerato volgare parlare di denaro, specialmente davanti ai bambini, i quali non dovevano occuparsi dei soldi per nessuna ragione!

La domenica e le altre Feste…

Il menù della domenica non era poi molto diverso da quello degli “altri giorni”, solo forse un po’ più abbondante, o un po’ più ricco. Magari si faceva la pasta, o gli gnocchi di patate, o polenta e spezzatino, oppure spezzatino con patate, carote e cipolle. Poteva esserci un po’ di bollito (il biancostato!), così la sera si mangiava una buona minestra col brodo di carne; se il pollaio era ben fornito, un polletto arrosto non mancava mai. Dolci? Qualche volta, e sempre molto semplici: la torta mandata a cuocere al forno insieme al pane; i biscotti di pasta frolla fatti dalla nonna. Però c’è chi ricorda il pacchetto delle paste, ben infiocchettato, che papà portava a casa tutto fiero ogni domenica. Natale? Pasqua? La festa del paese? Erano certo solennizzate con un buon pranzo. Niente di esagerato: più o meno, come quello della domenica. Agnolotti in Piemonte e Lombardia. Risotto, addirittura con lo zafferano. Lasagne e cappelletti in Emilia e 11


Romagna. Gallina ripiena. Arrosto. Tacchino. E un dolce, fatto in casa pure quello. C’è anche chi ricorda bei menù completi, dall’antipasto (salame, insalata russa, viteltonè, sottaceti), al dolce, preceduto da frutta e formaggio. Molte volte però la festa era associata a cibi molto, molto più poveri: la torta, per esempio, poteva essere soltanto la solita pagnotta a cui erano stati aggiunti dei ciccioli di maiale. Questa torta era messa a cuocere sulla pietra del camino, coperta con un coperchio su cui era stata messa della cenere calda. Certe volte, per ricordare che era Pasqua, bastava fare un pane a forma di colomba. A Natale, per alcuni bimbi c’erano solo delle bamboline fatte di pane. Loro le tenevano un po’ di giorni, per giocarci, poi le mangiavano. Altri ricordi sono molto allegri: le uova colorate per Pasqua, il Carnevale, coi bambini che si travestivano con gli abiti dei genitori e andavano di casa in casa a farsi dare i dolcetti, i parenti che arrivavano da lontano… A proposito di dolci natalizi, solo poche signore citano il panettone, come dolce della loro infanzia, ma una delle poche è milanese e ci fa una vera e propria rivelazione! Angelo Motta, proprio lui, il “padre” del primo panettone d’Italia, era un soldato del suo papà; da civile, faceva il pasticcere, a Milano. Ogni anno mandava al suo “signor ufficiale” un bel panettone, basso e largo come qualsiasi torta.. Finchè un anno ha inventato uno stampo alto e stretto, per guadagnare spazio nel forno; così i dolci si gonfiavano tutti in alto. Semplice e... geniale!

Come si utilizzavano gli avanzi?

La risposta è sempre accompagnata da un sorriso, a volte un po’ triste, certo sorpreso per l’ignoranza dell’intervistatrice, che magari è stata piccola nei primi anni ‘50, quando il boom cominciava a farsi sentire…”Ma non c’erano avanzi!” Quel che si faceva, si mangiava; era così poco, del resto. Al massimo, se si era cucinato apposta del risotto in più, lo si faceva saltare in padella, fino a fargli venire una bella crosticina dorata. Il pane lo si faceva in casa, e si andava al forno a farlo cuocere, una volta ogni tanto. E se era diventato troppo duro? Serviva per il pancotto; oppure per le polpette, bagnato nel latte o nell’acqua e unito a pochi resti di carne, a patate bollite e un uovo, tutto ben tritato, mescolato, e insaporito con sale e pepe. Nessuno sprecava niente, nemmeno nelle famiglie della buona borghesia. Un ricordo prezioso: a casa di Elena si comprava il pane francese a cassetta, che aveva sempre, sopra, un bel po’ di farina tostata. Il compito della bambina era di raccogliere meticolosamente e tenere da parte tutta quella farina, che serviva per un buonissimo pancotto. In campagna non si buttava nemmeno l’acqua del cotechino. A proposito: il cotechino spesso era della padrona, che lo affidava da cuocere alla moglie del bracciante, forse 12


per non far “impuzzire” la sua casa. Poi la signora si riprendeva il suo cotechino cotto, lasciando l’acqua all’altra, che ci cucinava una sostanziosa minestra di riso. E le veniva buonissima! A volte la fame era proprio grande, ma grande era anche la dignità di chi non si sarebbe mai abbassato a chiedere qualcosa per i propri figli. Un’anziana signora emigrata dalla laguna veneta racconta la sua storia commovente. Aveva tanti fratellini e poco poco da mangiare. La sua vicina invece era “ricca”, perché gli uomini di casa pescavano molto pesce. Questa signora sapeva che la mamma dei molti bambini non avrebbe mai accettato cibo per carità, così lasciava in bella vista le teste e le lische dei cefali, pronte da buttare… Ma la bimba correva di nascosto a prenderle e le portava alla mamma, che arrostiva le grosse teste per dare sostanza alla magra polenta. Quanto alle lische, avevano sempre attaccati molti pezzettini di carne. Questi venivano raccolti e messi a seccare, per l’inverno. Anche questa è solidarietà.

Dove si teneva la roba da mangiare?

Nel frigo no di certo. E’ arrivato anche lui alla fine degli anni ’50, bianco e panciuto, magari pagato a rate con le cambiali che non finivano mai. Prima, in città e in paese c’era la ghiacciaia. Ma era quasi un lusso. Come era fatta questa ghiacciaia? Un armadietto, con uno scomparto in alto in cui si teneva, ben avvolto in stracci di cotone, un grosso blocco di ghiaccio. Il ghiaccio si comprava per strada, da un carrettino preannunciato dal grido in dialetto: “Doni, doni, al giasc!!!”. Donne e bambini, che dovevano spiarne l’arrivo, si affollavano attorno, e l’uomo del ghiaccio tagliava i grossi blocchi con un uncino, o con uno scalpello. In campagna c’era solo la cantina o, più spesso, il cantinotto, chiamato in dialetto coi nomi più vari. Si trattava di un locale scuro posto accanto alla cucina, solo alcuni gradini più in basso. Lì si tenevano al fresco lardo, strutto, e burro. Dal soffitto, pendevano i salami messi ad asciugare, trecce di aglio e di cipolle. Per conservare, c’era il sale. Anche i fagioli piccoli si toglievano dal baccello e si mettevano, a strati, sotto sale.

Quali condimenti si usavano?

In tv e nelle riviste specializzate adesso c’è una voce sola: unico condimento deve essere l’olio di oliva, preferibilmente extravergine. Tutti gli altri no. Sono nemici giurati di colesterolo e trigliceridi. E invece quasi nessuna delle antiche ricette lo prevede. Perché? Semplice. L’olio di oliva appartiene soprattutto al Sud, come gli spaghetti e il pomodoro. Al Nord, si usavano burro e strutto, lardo e pancetta. L’olio di oliva veniva dal Garda, ci è stato detto da una signora, ed era meno forte di quello meridionale, ma di solito si adoperava olio di ravizzone o olio di noci. 13


Si dovranno aspettare gli anni della Fiat e della Grande Immigrazione al Nord, per mescolare sapori e abitudini. I pomodori non fanno venire il sugo “bello rosso”: ci vuole il concentrato di pomodoro. Questo si comperava, come pure l’estratto Liebig. Le tavolette vengono dopo. Anche la gelatina in dadi non c’era: si faceva con il brodo del bollito. E se si volevano ravioli ben conditi, o verdure saporitissime, si doveva aspettare di avere abbastanza fondo di arrosto. Sì, sì: avete capito bene. Quel che restava in fondo alla pentola dell’arrosto veniva “grattato” accuratamente e conservato in barattolini… altro che buttato subito, un po’ schifate, nel lavandino!

E le dosi? I tempi di cottura?

Ahimè! Le principianti cuoche troveranno ben di rado indicazioni precise in grammi, decilitri, gradi o minuti. I parametri più comuni sono: “un po’”; “un dito”; “un pizzico”; “finchè basta”; “regolati tu”; “ad occhio”; “secondo quanto ne hai”… La bravura della cuoca si misurava proprio lì, nel dosare, mescolare, impastare, assaggiare e… cuocere. Esatto. Come si cuoce? Cura. Tempo. Pazienza. Minestre, sughi e minestroni vogliono il loro bravo soffritto, fatto con il lardo e con la dote (rosmarino, sedano, carota, cipolla, anche un pezzettino di aglio), tutto ben tritato. La verdura non si fa bollire per poi saltarla in padella alla bell’e meglio; la si deve stufare piano piano nel solito soffritto. Se si tratta di carote, si friggono a crudo in tanto burro, lasciate intere se sono piccolissime o tagliate a fettine un po’ spesse: si girano e si rigirano, finché diventano dorate e croccanti fuori e morbidissime dentro. Ma è un’arte sopraffina e richiede anni di esperienza.

14


Parte seconda

Non solo cure... L’idea di partenza era di capire come ci si curava tanti anni fa, di andare a scovare le ricette per liberarsi di acciacchi e malattie, magari trovando anche la cura empirica, ma miracolosa, che ci avrebbe permesso di fare a meno di medico e farmacista. Però “cura” vuol dire tante e tante cose, e lo sanno bene le donne che del “lavoro di cura” hanno riempito, e riempiono, la loro esistenza. Cura dei bambini, cura delle altre donne, cura della casa, cura del marito, cura degli anziani, cura di se stessa (di questa, poco: manca il tempo…). Seguendo questo filo, abbiamo ritrovato un po’ della vita delle donne che avevano vent’anni cinquanta, sessanta, settanta e più anni fa.

La cura dei bambini: dalla gravidanza al lieto evento

Si annuncia l’arrivo di un bebè. Sarà maschio? Sarà femmina? Non c’era l’ecografia a togliere il gusto della sorpresa, o a troncare sul nascere le aspettative: perché di aspettative ce n’erano… Ma era più ambito il maschio o la femmina? La risposta pare ovvia e anche abbastanza unanime: maschio! L’erede è lui, quello che “porta avanti il nome”. Tuttavia ci hanno anche detto che era diffuso il desiderio di una femmina “per avere una servente, da piccola e da grande”. Non c’era l’ecografia, dicevamo, ma si spiavano lo stesso gli indizi. Le convinzioni in merito, per quanto smentite dai fatti, erano granitiche. Pancia aguzza, pancia in alto, pancia prominente: maschio. Pancia tonda, pancia in basso, pancia larga: femmina. A noi che nei primi anni del femminismo abbiamo letto devotamente la Elena Gianini Belotti (“Dalla parte delle bambine”) vengono in mente le molte spiegazioni psicologiche e sociologiche volte a interpretare questa convinta diceria. Ben più ricco è l’elenco di tutto quello che si poteva, o non si poteva, fare per assicurarsi un parto senza problemi e un figlio a misura dei propri desideri. Perché il nascituro non corresse il rischio di avere il cordone ombelicale attorcigliato attorno al collo, non si doveva: portare cinture né collane né vestiti stretti, ricamare a punto croce, passare sotto fili tesi, allacciare il grembiule… Perché il piccolo non nascesse con macchie brune o rosse, bisognava assecondare le voglie a tavola, a cominciare da quella di caffè. Ma guai a toccarsi se non si poteva soddisfare subito la voglia! Se proprio non si resisteva, bisognava toccarsi solo il sedere: lì, almeno, le macchie non si sarebbero viste! Se non si voleva un figlio col sedere troppo magro, non ci si doveva sedere su scalini di sasso. La stessa accortezza bastava ad evitare al bimbo malformazioni, quali al pie’ ad porc, ovvero il piede di capra… Perché il bimbo non avesse le gambe storte non si dovevano accavallare le gambe. Volevi un figlio buon ballerino? Pancia o no, dovevi ballare tanto con tuo marito. 15


Volevi una bimba ricciuta? Dovevi darti da fare arrotolando spolette di filo o gomitoli di lana. Una nonna di 75 anni ricorda che la sua mamma le raccomandava di non guardare Topo Gigio, se no il bimbo che aspettava gli avrebbe assomigliato. Erano i primi anni della Tv, e questa era la variante moderna, e meno discriminante!, del divieto di guardare animaletti repellenti, o persone brutte, deformi o comunque menomate. Infine, non si dovevano fare fotografie. Ma perché? e per evitare che cosa? Resta un mistero. Per star bene durante tutta la gravidanza, bastava mangiare tanto limone, eccellente rimedio contro le nausee. Ma soprattutto si raccomandava di mangiare tanto, di mangiare per due. Se poi il bimbo era di sei chili e mezzo, peggio per chi lo doveva partorire!

Il bimbo è nato…

Le giovani donne di oggi entrano ed escono dalla sala parto a piedi, col loro bimbo in braccio, e a letto restano solo se sono stanche. Le loro nonne e le loro bisnonne invece a letto dovevano rimanere “almeno una settimana”; ma consigliabile era rimanerci per quaranta giorni, se c’era aiuto. Se l’aiuto mancava, però, dopo otto giorni erano già a mondare, col bimbo in un cestino, o a far legna, o al fosso a lavare pannolini, o al pozzo, distante qualche chilometro, a prendere l’acqua. Durante la quarantena, comunque, grazie al cielo dovevano mangiare tanto e bene, per far venire il latte: pane bianco, latte, uova, brodo di gallina, tagliolini… insomma tutto quel che c’era di meglio; potevano bere un bicchiere di buon vino, e tanta birra. No ai cavoli, all’aglio, ai cibi piccanti o salati, e la voglia di salamin d’la duja si doveva soddisfarla di nascosto: il controllo della puerpera era rigido, specie da parte della suocera. In quarantena era fatto assoluto divieto di lavarsi i capelli, e anche di fare un bagno intero! E finché il bimbo non era stato battezzato, non si poteva uscire. Ai piccoli si dava da mangiare quando e quanto volevano (anche 13 volte al giorno, il primo mese!), non si conosceva l’uso della bilancia, e si allattava mesi e mesi. A questo proposito, qualcuna ha ricordato lo sgabellino su cui si arrampicava il figlioletto di due o tre anni, per succhiare dalla mamma. E Angela ricorda che sua madre ha allattato undici figli, pur dovendosi occupare della trattoria di famiglia. Ma in ogni tempo il latte è un bene che non tutte hanno: o c’è o non c’è e non c’è trucco per farlo venire, sentenziano tutte concordi. Se ce n’era troppo, e quindi veniva la febbre alta, un trucco per farlo regredire c’era e consisteva nel mettersi sul seno un pettine per i capelli…E si poteva far qualcosa anche per non farlo andar via: evitare i dispiaceri e anche gli spaventi. “Succede anche alle mucche. Se si spaventano per il temporale, il latte irrancidisce!” Se il latte proprio non c’era, si ricorreva a quello di mucca, o a quello di capra, o alla balia. 16


La balia

Era un lavoro di cura molto comune, in campagna; bastava avere tanto, tanto latte, si nutrivano i figli propri e quelli altrui, a volte disinteressatamente, per solidarietà verso l’amica più sfortunata che non poteva allattare di suo, ma più spesso per mestiere. Le signore di città, forse per non sciuparsi il seno, o per non rinunciare ai molti impegni mondani, portavano a balia in campagna i loro figli. I baliot crescevano coi figli della contadina, dividendo cibo, giochi e amore. Ma più spesso era la balia a lasciare la sua casa e il suo piccolo non ancora slattato (per farlo, gli si davano “cose amare” da succhiare sul seno), e ad andare dai signori, in città. Le balie andavano a passeggio, a Milano; con le carrozzine o da sole, nelle poche ore libere. Erano riconoscibilissime perché indossavano una specie di divisa: gonna larga e ricca, camicetta con maniche a sbuffo, scialle e fazzoletto in testa; e sfoggiavano quasi tutte begli orecchini di corallo, regalo d’obbligo dei loro padroni.

Pannolini, pappa, nanna…

I pannolini erano di stoffa, ricavati in casa dalle lenzuola più vecchie e ormai tutte lise perché fossero più morbidi. E si dovevano lavare tutti a mano, recandosi magari al pozzo o alla fontana; d’inverno li si lasciava ad asciugare sulla stufa appesi a dei ferri… I neonati erano accuratamente avvolti in fasce rigide “per tenere su la schiena”, e tenuti nelle suddette anche fino a sei mesi. Sul come si dovevano fasciare i bambini coesistevano due scuole di pensiero: la più diffusa, nonché la più antica, diceva che bisognava avvolgere nelle fasce il bimbo completo, comprese gambe e braccia. Quei poveri bambini erano “legati come salami”, con solo la faccina incorniciata dalla cuffia fuori. In un crocchio di donne c’era pure Angelo (85 anni), che ascoltava zitto zitto le chiacchiere femminili, ma a proposito delle fasce è intervenuto: in casa sua, lui era un abilissimo e assai ricercato fasciatore di bambini: “Gli tiravo ben bene gambe e braccia e li avvolgevo stretti; così venivano su belli dritti!” La seconda scuola di pensiero invece prevedeva fasce solo attorno alla schiena e al pancino: in tempo di guerra si poteva scappare più in fretta, all’allarme, se si fasciava poco il bambino. Avvolti a salame, o con le gambine libere, i piccoli venivano poi introdotti in un sacchetto di flanella, c’era anche quello bello, tutto ricamato, per uscire a passeggio. Se le braccia erano libere, si mettevano addosso graziosi coprifasce, di lana o di cotone, sferruzzati o ricamati con amore dalla mamma in attesa, dalle nonne e dalle zie. Per portare i neonati in giro, li si legava su un cuscino, che nelle grandi occasioni, ad esempio per il Battesimo, veniva inserito in un portenfant ornato di pizzi e trine e tutto ricamato. Ovviamente c’era anche la carrozzina, che serviva bene quando ad accudire il neonato erano fratellini di pochi anni. Ma capitava anche che la sorellina grande dimenticasse la carrozzina col fratello sull’aia dove era stata a giocare… 17


E per farli mangiare?

Per far mangiare i bambini, c’erano pochi problemi, per alcune: “Chi non mangia, ha mangiato. Quando ha voglia mangerà”. Ma c’è chi ricorda grandi tribolazioni, fatte di favole, filastrocche, aggiunte di zucchero, o espedienti vari, del tipo “sedersi fuori di casa col piatto e distrarre il bimbo coi passanti, per infilargli in bocca qualche pezzetto di cibo”. Niente di molto diverso da oggi, quindi; e niente di diverso neanche per farli dormire: cullare, cullare, cullare… Molte ricordano di aver cullato con un piede, tenendo l’altro sul pedale della macchina per cucire; o di aver cullato tramite uno spago legato alla culla, per non tirare fuori le braccia dalle coperte nelle gelide notti invernali. Cullare e cantare, cullare e raccontare storie. E poi c’era il ciuccio, magari quello provvisto di serbatoio per la camomilla, altro indispensabile aiuta-nanna. Ma se il bimbo non dormiva e piangeva troppo, lo si portava dal prete a farlo benedire. La culla a volte era la cesta della biancheria, ma quasi sempre veniva costruita col legno dal papà o dal nonno, e durava generazioni. Nei ricordi di Elena c’è anche un lettino di ferro smaltato, con la sponda che si alzava e si abbassava, regalo della nonna maestra che aveva anche scritto dei versi per l’occasione: “Nel bianco lettino, Elena, sogna i bei dì. Nel bianco lettino, Elena, non far la pipì”. In quel bianco lettino hanno dormito Elena, i suoi tre cuginetti, tutti i loro figli ed i loro nipoti.

Chi si occupava dei bimbi se la mamma lavorava?

Se la mamma lavorava in campagna, si portava fin dai primi giorni il bimbo appresso, tenendolo in un cestino. Negli altri casi, erano i nonni ad occuparsi dei più piccoli, o più spesso i fratelli di poco maggiori. “I bambini si guardavano da soli!”. Nei paesi c’erano vere e proprie comunità di bambini che crescevano tutti insieme, giocando nella stessa aia e poi andando a scuola in folto gruppo, a piedi magari per qualche chilometro; c’è chi ricorda di averne percorsi oltre diciassette, ogni giorno. Si diventava grandi in fretta, e i primogeniti conoscevano ben presto responsabilità e sacrifici, specie se erano femmine. Maria ha 88 anni, ha avuto sei figli e racconta dispiaciuta che la maggiore non è riuscita a prendere la licenza elementare perché andava a scuola solo quando poteva, e si portava sempre appresso i fratellini in età prescolare. La maestra le lasciava il banco in fondo alla classe perché i piccolini potessero giocare senza disturbare troppo. Ma certo la concentrazione della sorella scolara non poteva essere al massimo! I maestri erano severi bacchettavano ancora…, i compiti c’erano, eccome! Chi non sapeva farli da sé, poteva farsi aiutare dal papà o dalla mamma, o dai nonni, se avevano tempo e se erano in grado di farlo, o anche da altri compagni più in gamba. Elda ricorda di aver aiutato spesso una compagna ricca e asinella, a casa di lei, ma di aver sempre 18


rifiutato la merenda che quella le offriva, per paura di essere giudicata povera. Eppure moriva dalla voglia di assaggiare certe buone cose. Il successo scolastico era sottolineato dalle medaglie da appuntare sul grembiulino, consegnate durante cerimonie in cui, in epoca fascista, era di rigore la divisa da piccola italiana. Le maestre erano autorevolissime, il loro giudizio insindacabile, la minaccia di bocciature terribile, e accompagnata dall’incubo di essere mandati immediatamente a sgobbare sotto padrone. Se i voti erano brutti, fioccavano rimproveri e punizioni; se erano belli, nessun premio: “hai fatto solo il tuo dovere”. Ma era dovere anche aiutare un po’ in casa, dopo la scuola, rispettando rigorosamente i ruoli. Per le femmine c’erano le pulizie, che per fortuna non richiedevano molto tempo (i mobili erano pochi, bastava una spolveratina, e una scopata per terra); c’era la minestra da mettere al fuoco; la tavola da apparecchiare; i piatti da lavare. I maschi erano esentati dalle suddette disprezzate attività, ma quelli che abitavano in campagna dovevano dare una mano, a raccogliere fieno e legna, a portare le bestie al pascolo… L’infanzia finiva comunque prestissimo, soprattutto per le ragazzine, che si tendeva a far studiare meno dei maschi; a dodici, quattordici anni erano quasi tutte al lavoro, magari in fabbrica, da raggiungere a piedi percorrendo chilometri e chilometri.

La cura degli anziani

Quando l’Italia era ancora in alta percentuale contadina e la famiglia era patriarcale, vale a dire all’incirca fino agli anni quaranta o poco più, gli anziani erano la componente più importante della famiglia. Da loro venivano esperienza, saggezza e autorità; bastava un’alzata di sopracciglia per far rigare dritto figli, generi, nuore e nipoti. Dai nonni veniva l’aiuto alle mamme; dai nonni venivano affetto, racconti di vita, giochi per i più piccoli; i nonni sapevano fare le bambole di stoffa e pure i carrettini di legno. Sapevano capire e consolare. Ma sapevano a volte essere più severi dei genitori, specialmente con le ragazzine un po’ ribelli che volevano farsi guardare un po’ troppo… Ma anche prima spesso le famiglie si disperdevano in città o paesi lontani e il rapporto coi nonni si allentava. La difficoltà dei trasporti rendeva impossibile incontrarsi più di un paio di volte all’anno… Quando i nonni non erano più autosufficienti, ci si rivolgeva all’ospizio solo in caso di estrema necessità, e la cosa era considerata quasi una vergogna. La famiglia, o meglio le donne di casa, si facevano carico degli anziani. Se tutti vivevano sotto lo stesso tetto, il sacrificio non era grandissimo. Ma se si era lontani, o ci si stringeva un po’, accogliendo il nonno o la nonna nella propria casa, o ci si recava quasi quotidianamente da loro. E i sacrifici erano davvero tanti. Ecco il racconto di Franca, che parla in nome della sua mamma. “Ero molto piccola nei primi anni cinquanta, quando il nonno si è messo a letto, colpito 19


da una paresi. Viveva con la nonna ed uno zio scapolo, in una cascina della campagna novarese, distante circa venticinque chilometri dalla nostra casa. La mia mamma, che pure lavorava, andava quando poteva ad aiutare la nonna. Portava con sé me, di pochi anni, e mio fratello di quattro anni maggiore. Per fare quei venticinque chilometri ci voleva tutta la mattinata: in corriera fino a Novara; poi un’altra corriera diretta a Vercelli. Si scendeva ad una fermata intermedia in mezzo alla campagna e si doveva camminare più di mezz’ora su una strada tra le risaie. D’estate, zanzare e zanzare; d’inverno, nebbia e poi nebbia, sempre fitta. La mamma era carica di una pesante borsa, e doveva portare in braccio anche me, quando ero stanca. Ci si fermava a dormire dai nonni e si rincasava il giorno dopo, quando la mamma aveva finito di aiutare la nonna nelle pulizie di casa, nel fare il bucato, nel tenere in ordine il nonno… Si partiva il sabato e si tornava la domenica, nel periodo della scuola; in estate, ci si tratteneva qualche giorno in più”. Franca non sa con quali medicine era curato suo nonno, ma sa bene con quanto amore e con quanta fatica la sua mamma si occupava di lui.

La cura dei malanni

C’era molto fatalismo a proposito della malattia. Specialmente per gli acciacchi degli anziani, la cura più diffusa pare fosse “lascia che passi” oppure “come è venuto, il male se ne andrà”. Il medico appariva di rado, solo se era davvero necessario, e per l’occasione si tiravano fuori nientemeno che le lenzuola più belle del corredo, quelle più ricamate: bisognava fargli buona impressione! Soldi per le medicine ce n’erano pochi, quindi ci si ingegnava con quello che si aveva in casa, e le ‘ricette’ frutto di una sapienza antica erano tramandate di generazione in generazione. Ad ogni buon conto, ai figlioletti, specie se gracilini, si cercava di assicurare una buona salute somministrando loro in quantità industriali l’odiatissimo olio di fegato di merluzzo, magari tentando di renderlo meno disgustoso con qualche goccia di limone. Ma nulla poteva sventare l’arrivo di certi malanni… I più diffusi, tra grandi e piccoli, erano soprattutto raffreddore e mal di pancia. I rimedi, eccoli qua. Ce n’è per tutti i gusti, e le nostre amiche assicurano che vanno molto ma molto meglio delle schifezze che prescrivono adesso i dottori. Provare per credere.

Raffreddore. Tosse. Mal di gola. Mal d’orecchi.

Bisognava stare al caldo. Per scaldare bene il letto, ci voleva al previ. Traduzione: il prete, e non indaghiamo troppo sull’origine di questo nome, né azzardiamo maligne interpretazioni del termine (!). Si trattava di una specie di trabiccolo di legno dalla forma ovoidale, schiacciato sulle parti strette e alto in centro. Era piuttosto ingombrante e si metteva sotto le coperte, per tenerle alte. Nel previ si introduceva la stufetta, un recipiente di terracotta colmo delle braci raccolte dalla stufa a legna. Stessa funzione riscaldante era esercitata da 20


una grossa pietra tenuta nel forno per tutto il giorno, poi avvolta in uno straccio e in un sacchetto e messa sotto le lenzuola. Oppure dalla bottiglia zincata riempita d’acqua bollente. Se si bucavano, le preziose bottiglie erano fatte aggiustare dallo stagnino. Gocce di aloe nel naso, oppure carta da zucchero calda unta di burro appoggiata sul petto e sul dorso. In alternativa, si poteva usare carta gialla tutta bucata, unta con acqua e olio. Suffumigi: se ne ricordano due tipi, entrambi molto avversati dai bambini, e non solo da loro. Ecco di che si tratta. Profumi di camomilla: si prendono delle braci dalla stufa a legna, si buttano sopra fiori di camomilla essiccati (si raccoglievano in estate e si conservavano in vasi di vetro), si mette un asciugamano in testa e, ben piegati sulle braci, si respirano i fumi. Se la cosa pare a dir poco allucinante, in alternativa, si può respirare vapore d’acqua bollente, sempre con tanto di asciugamano in testa. Polentine calde di linosa (fatte cioè coi semi di lino) impacchettate in un sacchetto e collocate sul petto, vanno bene anche per la bronchite. Crusca messa in un sacchetto di stoffa poi scaldato, messo sempre sul petto. Cenere calda contenuta in un sacchetto appoggiato sulla gola, per combattere il mal di gola. Gargarismi fatti con acqua e aceto, oppure con acqua e bicarbonato, per far sgonfiare la gola. Il mal di gola si curava anche massaggiando energicamente i cantarì, tendini del polso che si dicevano in relazione alle corde vocali e si dava latte caldo molto zuccherato o addolcito col miele. E c’era anche il “vin brulé”: vino bollente, con zucchero, buccia di limone, chiodi di garofano, pezzettini di cannella. Era riservato ai maggiorenni, ma molto desiderato anche dai più piccoli… a cui se ne consentiva un dito al massimo. Pezze di lana calde messe sul petto, dopo averlo ben unto con olio d’oliva. Lana di pecora unta: ottima per curare il mal d’orecchi. Per far respirare meglio il bambino malato, era bene bagnargli spesso il naso con la propria saliva. Se il raffreddore era accompagnato da tosse, andavano bene infusi di fiori di tiglio, a cui si aggiungeva miele come espettorante. Se le orecchie si infiammavano, ecco l’unguento adatto: prendere foglioline di semprevivo (è una pianta grassa con foglioline carnose formate a rosetta che resiste all’aperto anche in inverno); schiacciarle e, attraverso una garza, filtrare il succo, molto oleoso. Intiepidire il succo e assorbirlo in un batuffolo di cotone. Strizzarne alcune gocce nell’orecchio malato. C’erano anche le medicine, poche e ora passate alla storia: Rinoleina; Vix Vaporub; Formitrol. Chinino per la febbre alta. Per il mal di denti: decotto di malva, oppure foglie di malva tenute sulle gengive per toglierne l’infiammazione. Mal di pancia: i neonati si mettevano a pancia sotto e gli si massaggiava la schiena. Per grandi e piccoli, se serviva un purgante si somministrava acqua e sale o un cucchiaio 21


di olio d’oliva in un po’ d’acqua calda. Dal farmacista si comprava l’olio di ricino oppure la mannite. Se invece c’era diarrea, si cercava di capire, dal colore delle feci, che cosa avesse fatto male, e lo si evitava in futuro. Non si dava latte da bere, ma acqua di riso; se il caso era più grave, si prendevano pastiglie di carbone; i bambini si alimentavano per qualche giorno con brodo di rane e cosce delle rane stesse. Le tisane di finocchio selvatico facevano sempre bene, come pure la camomilla e, soprattutto, il decotto di malva, che ”purifica l’organismo”. La tisana di gramigna curava le emorroidi. Le cipolle bollite funzionavano da diuretico. Per curare l’orzaiolo, al mattino, appena alzati, bisognava guardare nella bottiglia dell’olio per tre volte, per tre mattine di seguito. Verruche, calli, geloni, bernoccoli e contusioni... Bagnare la verruca col latte uscito dai frutti giovani del fico. Mettere tre o quattro pellicine sottilissime di cipolla sul callo e poi fasciarlo. Camminare scalze nella neve oppure sfregare le mani nella neve per curare i geloni. I geloni e le ragadi si potevano anche curare facendoci sopra la pipì (!), o facendoci colare gocce di cera calda da una candela. Bernoccoli e contusioni si medicavano ungendoli con lardo, oppure appoggiandovi sopra carta da zucchero, oppure con una moneta da cento lire tenuta ferma con un fazzoletto legato.

E... per i vermi?

Erano l’incubo di tutte le mamme, che al comparire della febbre alta sentenziavano subito: “ha i vermi”, anzi, “avere i vermi” è rimasto in alcuni luoghi sinonimo di “avere un febbrone”. Solo pochissimi fortunati se la cavavano bevendo la “vermicina”, cioè un vermifugo acquistato dal farmacista, certo più rapido ed efficace dei rimedi tradizionali. Per tutti gli altri, i vermi si prevenivano e si curavano con l’aglio, usato in vari modi: collane d’aglio appese al collo; spicchi d’aglio sotto il cuscino; aglio tritato, mescolato con ruta e messo in un sacchetto, da portare al collo; aglio pestato da mangiare; in alternativa, si poteva far respirare il vapore prodotto da una pentola d’acqua bollente in cui era stato messo del piombo fuso. L’odore doveva bastare a tener lontani i vermi o a farli scappare via. Ma se così non fosse stato, ahimé, bisognava andare dalla guaritrice o dal guaritore. Prima di tutto occorreva accertare la presenza degli incomodi parassiti; per questo, si mettevano in un bicchiere d’acqua dei pezzetti di filo bianco (dodici fili attorcigliati, precisa Attilia); se si muovevano, i vermi c’erano davvero. A questo punto, si doveva far “segnare” il bambino: solo poche persone, munite di particolari doti, avevano questa sapienza, che tenevano ben segreta perchè altrimenti avrebbero perso tutti i loro poteri. Si sa che venivano fatti dei segni sulla fronte, forse delle croci, e che venivano recitate misteriose preghiere; qualcuno metteva la preghiera scritta su un fogliettino 22


dentro un sacchetto da appendere al collo, ma non si doveva assolutamente leggerlo, se no la magia non funzionava. Teresita ha un’esperienza diretta: suo padre segnava i vermi sulla fronte con carbone di legna, poi metteva una sciarpa nera attorno alla testa del paziente e lo faceva rimanere in casa al caldo fino alla scomparsa dei fastidiosi inquilini… I segni pare fossero difficilissimi da imparare, e nessuna delle nostre amiche ne è a conoscenza. Il mistero sulle preghiere, fittissimo, è squarciato solo dalla rivelazione di Ausonia che, a novantatré anni, conserva ottima memoria e recita la Preghiera a San Giove. Eccola qui: San Giove glorioso / manda via quei vermi pelosi / Per la virtù della Beata Maria / fa’ che questi vermi vadano via. (Questa è la traduzione; in dialetto, le rime vengono meglio!).

Pidocchi...

Anche questi molesti inquilini erano troppo spesso presenti tra i capelli dei bambini, che se li passavano l’un l’altro all’asilo o a scuola. Anche in questo caso si conosceva un solo rimedio: rapare a zero il malcapitato! Se non si voleva essere così drastici, specialmente con le bambine, la soluzione c’era: lavare la testa infestata con petrolio o con l’acqua e cenere (o acqua e lisciva) del bucato o con acqua in cui erano state bollite teste di fiammifero (uno o due pacchetti); togliere le lendini col pettine fitto o con le unghie.

Gli acciacchi dell’età

Fondamentale era non farci caso, tanto non se ne sarebbero comunque andati. E’ questo il motivo per cui quasi nessuna trova risposte alla domanda: “Come si curavano gli acciacchi? Che cosa si faceva per tenere a posto pressione e colesterolo?”. I dolori articolari, chiamati più banalmente mal di schiena o male agli ossi, si attenuavano ungendo le parti in causa con grasso di maiale, o con lardo rancido (ovvio: quello buono si metteva nella minestra!), o con olio di trementina; poi si massaggiavano e ci si tenevano sopra pezze di lana ben calde; ugualmente efficaci e molto meno puzzolenti erano gli impacchi caldi di resina di pino. Utili anche le foglie di fico o di cavolo da appoggiare sulle ginocchia o comunque sul male. Con impacchi di aceto si toglieva il gonfiore dalle mani e dai piedi. Compaiono i nomi di altre due medicine storiche: il Cerotto Bertelli e il Veramon. Quanto a pressione e colesterolo, a dir la verità, certe parole non si sentivano proprio… e di certi malanni non si sapeva neppure che esistessero. A volte si adoperavano le sanguisughe per abbassare l’ipertensione: si attaccavano al collo e poi si mettevano in un vasetto di vetro con della crusca per farle svuotare e poterle poi usare di nuovo. Tutti sapevano che aglio e cipolle facevano assai bene alla salute, e se li mangiavano in 23


abbondanza, persino al mattino, per colazione, insieme a qualche fetta di lardo. Che sia questo l’elisir di lunga vita?

Le cure magiche

Guaritori… Maghi… C’erano o no? Parrebbe di sì, anche se la loro figura e la loro azione restano avvolte in un velo di mistero abbastanza fitto. In altre parole, quasi tutte le nostre amiche ammettono di averne molto sentito parlare, da piccole e da grandi, ma asseriscono anche di non essere mai ricorse ai loro artifici. Si sa che c’era a Ghemme una strega molto famosa e frequentata anche da gente “studiata”; si parla di maghe a S. Agabio, a Novara; guaritori, ce n’era un po’ dappertutto. Dal medico si andava il meno possibile. Per le storte e le slogature c’era il conciaossi; i porri, bastava farli incidere da un guaritore bravo e non tornavano più. Pare che fosse piuttosto diffuso il “fuoco di S. Antonio”; per farlo passare, ci si faceva “segnare” dalla guaritrice – erano in prevalenza donne ad esercitare questa professione. Una nostra amica settantacinquenne assicura di saperlo fare, perché ha imparato i segni a tredici anni quando, in occasione dell’esame di terza media, le è venuto il fastidioso disturbo ed è stata portata a farsi curare. La guaritrice, forse colpita dalla sua giovane età, o forse perché la ragazzina le sembrava munita delle virtù necessarie, le ha tramandato il segreto. Lei lo mette ancora in pratica con amiche e conoscenti, pare con molto successo. Ma non vuole dire come si fa, perché altrimenti la magia va via. Dice solo che bisogna farsi segnare una settimana dopo la comparsa dei primi sintomi. Dunque i guaritori curavano i malanni, coi segni appunto e con formule misteriose; ma qualcuna dice che curavano soprattutto i mali psicologici. C’era il “mal dal miserere”, cioè la tristezza senza motivo che colpiva specialmente le donne dopo il parto. Oggi si parla tanto di depressione, ma questo male oscuro è sempre esistito, in tutti i ceti. Nei casi più gravi, si curava andando dalla maga, ma si curava soprattutto con la “terapia di gruppo”, praticata dalle donne tra loro, parlando e parlando, in casa e fuori. D’estate, per esempio, si mangiava col piatto in mano, nel cortile. Ciascuna raccontava le sue cose… e ci si consolava a vicenda.

Cosa si faceva per il malocchio?

Le maghe erano indispensabili contro il “malocchio”, sempre assai temuto. Lo allontanavano preparando sacchetti con miscugli di erbe misteriose, da portare addosso, o con riti vari. C’era chi metteva sale e una candela in un bicchiere d’acqua e poi faceva con l’olio una croce in fronte alla cliente. Non si sa quanto costasse la pratica, ma non si hanno notizie di persone rovinate economicamente dalle maghe. Il malocchio, si diceva, era molto temuto e sempre in agguato. Ma prima di intervenire, bisognava avere la certezza di esserne vittima. Per questo, si faceva venire la maga a cercarne la presenza nel letto. Lei apriva il materasso, e se venivano fuori cose strane, del tipo aghi, capelli, corolle appassite di fiori o erba secca, o se le piume erano tutte 24


aggrovigliate…il maleficio era scoperto e si poteva cacciare via, cominciando con l’aprire materassi e cuscini e dare aria alle piume – o magari cambiarle del tutto. E si stava subito meglio. A ripensarci oggi, queste magie non sembrano proprio tali. Ma, in epoca non poi così lontana, ci voleva poco a credere magici persino certi oggetti assai comuni: Chiara ha solo settantadue anni, ma ricorda che quando a casa sua, in provincia di Nuoro, è apparsa la prima stufa economica del paese, tutta la gente del piccolo borgo correva a vedere strabiliata il “fuoco nel cassetto”…

Santi e santuari

La funzione terapeutica più efficace era comunque svolta dalla Chiesa. Fede vera? Superstizione? Quel che è certo, è che nelle processioni, nelle candele accese, nelle preghiere, e nei pellegrinaggi si cercava soluzione a molti problemi. Un ricordo quasi corale: per ottenere la grazia di un bimbo, si doveva andare a piedi in una chiesa molto fuori del proprio paese o in un santuario. Meglio di tutto, era salire a piedi al Santuario di Oropa; o a quello di Crea. Anzi, salendo a quest’ultimo, si trovava la Cappella di S.Anna, e ci si poteva sedere su uno scalino dai poteri quasi incredibili.

Portare bene...

Ma c’era anche qualcosa che “portava bene”? Ecco una “superstizione” molto carina e molto diffusa nei nostri paesi: portava bene regalare scarpine da neonato ad una futura mamma, nei primissimi mesi di gravidanza. Ma perché? Rita l’ha scoperto da una anziana signora e ce lo riferisce. In un’epoca in cui la mortalità prenatale e perinatale era altissima, le scarpine rappresentavano l’augurio, per il bimbo, di arrivare all’età in cui si muovono i primi passi. Dopo, era più facile restare al mondo… E’ una superstizione che nel nostro mondo occidentale per fortuna non ha molta ragion d’essere; ma l’augurio delle scarpette è sempre accolto con molta gioia dalle future mammine, e accompagnato da questa spiegazione aiuta tutte noi a ricordare quanti bambini nel mondo hanno ancora bisogno di un talismano.

25


26


Parte terza

Quando il lavoro c’era... e i diritti? Scuola...

A proposito di obbligo scolastico: ci ricordiamo che la legge che istituiva una Scuola Media unica, con diritto di accesso a tutte le Scuole Medie Superiori è del 1960? Solo chi è nato dopo il 1952 ne ha beneficiato, ma le donne da noi intervistate sono nate ben prima. Ai loro tempi c’era la Scuola Media, oppure l’Avviamento Professionale e la “selezione” cominciava prestissimo. Infatti per accedere alla Scuola media occorreva superare l’Esame di Ammissione, al quale le maestre preparavano i bambini fin dalla terza elementare, scegliendo i più bravi, a cui dedicarsi a furor di analisi logica, per fare bella figura coi prof. delle medie. Non dimentichiamo poi che in quasi tutte le famiglie si parlava il dialetto, e che la buona padronanza della lingua italiana era fondamentale, per capire chi era bravo e chi non lo era. A provvedere all’integrazione linguistica, avrebbe presto pensato la televisione, una volta tanto benemerita! C’era anche una trasmissione: Non è mai troppo tardi con il maestro Alberto Manzi, andata in onda dal 1959 al 1968 per alfabetizzare ed educare gli adulti che non avevano potuto frequentare la scuola. Le cifre degli analfabeti di allora erano imponenti! Nel 1951 c’erano in Italia ancora 5 milioni di persone che non sapevano né leggere né scrivere, contro 36 milioni di alfabetizzati. Grazie al Maestro Manzi e al suo programma, in quegli anni un milione e quattrocentomila italiani poterono conseguire la licenza elementare, assistendo alle lezioni in TV.

...e lavoro!

Il lavoro, dunque, compagno dolce-amaro di lunghi, lunghi anni. Volevamo sapere tanti particolari, farci descrivere ambienti, mansioni, tempi di lavoro. Ma non è stato facile, anzi abbiamo incontrato spesso un po’ di resistenza a ricordare. Addirittura una signora ha detto chiaro e tondo che non voleva parlare di questi argomenti poiché “Non mi piace ricordare. Il passato è passato”. I ricordi forse sono pesanti, fatti di fatica, di ansia, di rabbia anche per lo sfruttamento subito. La signora che non vuole raccontare, ad esempio, ci riferisce che, dei suoi trentotto anni di lavoro, per la pensione ne contavano solo venti: erano spariti diciotto anni di bollini! Eppure lei aveva firmato il libretto di lavoro. E non ha potuto neppure far causa ai titolari della piccola azienda familiare per cui lavorava, perché ormai morti, e non c’era più nessuno su cui rivalersi. Il lavoro c’era, era tanto, ma i diritti dov’erano? 27


Era facile trovare lavoro?

Pare di sì: in tempo di guerra, perché gli uomini erano al fronte e le porte delle fabbriche, spesso impegnate nella produzione bellica, si spalancavano alle ragazze, per poi richiudersi, però, al ritorno dei soldati. C’è chi dice: “Se una non lavorava, era perché non ne aveva voglia”. O magari era perché doveva badare alla famiglia e ai bimbi ed era costretta, dopo il matrimonio, a fare la casalinga e ad “arrangiarsi” portando a domicilio un lavoretto in nero o sfruttando l’esperienza in fabbrica per improvvisare una attività, per esempio di cucitrice o di sarta.

Come e dove si trovava lavoro?

Il curriculum? L’agenzia interinale? I sindacati? Ma che cosa sono? I datori di lavoro preferivano non passare di lì per ragioni facilmente intuibili. A tal proposito, una ex mondina si vanta di non essersi mai dovuta mettere in lista: il padrone la “prenotava” prima, perché era brava. Funzionava molto bene il passaparola, una fitta rete di familiari e amici che avevano esperienza e sapevano indirizzare le ragazze al posto giusto. Un esempio per tutte: la mamma di Maria P. faceva la balia e, tra un baliotto e l’altro, la mondina. A questo lavoro ha indirizzato la figlia dodicenne che più avanti, sempre usando le conoscenze della mamma, è diventata colf, prima in Italia e poi in Svizzera, aiutata in questo caso dal fratello. Maria ricorda con gioia il periodo di lavoro in Svizzera, sia perché era trattata meglio, sia perché lì ha trovato marito, un emigrato italiano che faceva il pastore. Tina poteva vantare uno zio Monsignore, grazie alla cui raccomandazione ha trovato lavoro al Santa Corona di Pietra Ligure, dove si è occupata di bambini poliomielitici. Filomena è stata messa in collegio dalle suore a dieci anni, e lì è rimasta fino alla maggiore età. In collegio ha imparato a sferruzzare e a ricamare; a 14 anni le suore le hanno trovato lavoro in un maglificio e pensavano loro a metterle i soldi sul libretto. Così lei, a ventun’anni, è uscita dal collegio col corredo, col lavoro e coi soldini sul libretto. C’era anche il “caporalato”: bastava presentarsi ”alla porta” della fabbrica; se si veniva chiamate a entrare, si veniva selezionate e assunte direttamente, a tempo indeterminato. C’era anche chi, intraprendente, se la cavava proprio da sola. Angela aveva quattordici anni e una gran voglia di lavorare. Per questo andava in bicicletta presso tutte le aziende di Arona, ed erano tante!, e si faceva iscrivere nelle liste degli aspiranti. All’ultima fabbrica, stanca di non avere risposte, ha provato a rivolgersi direttamente ad un signore dall’aria buona, vestito in tuta. Gli ha parlato del suo peregrinare e delle sue aspirazioni… ed è stata immediatamente assunta: il signore era il padrone dell’azienda in persona, ma lei, data la tuta, mai l’avrebbe supposto né, tanto meno, avrebbe osato parlargli! 28


Quale lavoro?

È necessario fare una premessa. La nostra ricerca ha interessato un gruppo abbastanza ristretto di donne, piuttosto omogeneo per età e appartenenza sociale, ma scelto in modo casuale, vale a dire, come si è detto all’inizio, tra le ospiti delle Case di Riposo, nei Centri Anziani, tra le nostre amiche e conoscenti più anziane. Però le esperienze che raccontano sono così simili che pensiamo possano rappresentare davvero lo spaccato di un luogo, il Novarese, e di un tempo, 50, 60 ,70 e più anni fa, che si va perdendo tra i fili della memoria e che sarebbe ingiusto lasciar scorrere via. Si è già detto che non è stato facile far parlare le donne su questo argomento. Ambienti, mansioni, modi e tempi di lavoro si sfumano, perdono concretezza, si stemperano nel rievocare piuttosto l’atmosfera della prima giovinezza, l’incontro con altre ragazze, la gioia per la scoperta della prima sia pur piccola indipendenza economica. Quanta allegria e quanta soddisfazione c’è ancora nel rievocare le prime scarpette, comprate a diciotto anni con i soldi dello straordinario, da indossare al posto dei soliti zoccoli, per andare a ballare. Le scarpette si nascondevano fuori della porta di casa; si ingozzava un po’ di cena e poi via! A ballare tutta la sera, la stanchezza della monda non c’era più. Nelle parole delle donne c’è spesso il rammarico di aver dovuto rinunciare al lavoro per seguire le necessità della famiglia. Molte volte c’è la fierezza di appartenere ad una azienda importante: lavorare in un certo cotonificio o in una certa fabbrica metalmeccanica conferiva quasi un blasone. Spesso l’esperienza maturata in fabbrica serviva a crearsi una attività in proprio, come sarta o cucitrice.

La campagna

Quello delle “mondine” è il gruppo più numeroso, e il loro è il lavoro di cui tutti crediamo di sapere tutto, grazie a film e a racconti letterari. Anna, Lina, Elvira, Wanda, Maria… raccontano tutte la stessa storia. Per tutte, vale il ricordo di nonna Pasqualina, nata nel 1870, custodito con tanto affetto dalla nipote. Fare la mondina era un lavoro stagionale, che si affiancava, per le ragazze di campagna, a quello abituale di contadina, a cui erano avvezze fin da piccolissime, accanto a genitori e fratelli: a cinque o sei anni già si sapevano accudire gli animali da cortile, si scartocciava la meliga, si curavano i bambini più piccoli, nelle sere invernali si tagliavano e si cucivano i sacchi per il riso. A volte si lavorava solo d’estate e allora, per raggranellare qualche soldino in più, la domenica si faceva lo straordinario, presso un altro padrone. Levatacce alle 4 del mattino, per essere in risaia alle 5; corse in mezzo alla campagna in bicicletta o in corriera; otto, nove, dieci ore con l’acqua alle cosce, con la schiena rotta; la difficoltà, solo il primo anno, però!, di capire qual era il riso e quale l’erba da buttare. Sole o pioggia, il lavoro non cambiava mai, e neppure il terrore delle sanguisughe, delle zanzare “che ti portavano via” e delle bisce. Wanda è precisa: due file di mondine si fronteggiavano e in mezzo il bisciaro allontanava a bastonate le bestiacce. 29


Pausa pranzo? Mezz’ora, sedute sull’argine o, se pioveva troppo forte, rifugiate in cascina a mangiare il rancio, sempre lo stesso: una scodella di riso e un po’ di formaggio. Andare ai servizi? La pipì si faceva direttamente “sul lavoro”, se no, c’erano tanti boschi, tutto intorno… La paga? Certo non era alta. Ancora una volta è Wanda la più precisa: a 14 anni, nel 1936, prendeva £ 2,50 al giorno, che arrivavano fino a £ 6, con gli straordinari, ma erano un lusso raro. A fine monda, si riceveva un sacco di riso per ogni giorno di lavoro, qualche volta pure polli e conigli facevano parte della paga. C’erano le “pendolari”, quelle che in risaia arrivavano ogni giorno in bicicletta o in corriera, e le “stanziali”, quelle che venivano da lontano persino da altre regioni, o dalle valli di montagna: si stabilivano in cascina per il periodo della monda; lì avevano vitto e alloggio. Una signora ricorda una cascina grande, dotata di scuola, chiesa e forno; un’altra dice che c’era la cuoca, che preparava fagioli, ben raramente pasta, e riso, riso, riso. Le ragazze dormivano tutte insieme, in un capannone con tante brandine in fila. Il sabato ballavano sull’aia, o andavano in altre cascine vicine, così conoscevano i ragazzi con cui darsi appuntamento. Il fidanzato, loro, se lo trovavano da sé; niente a che vedere con nonna Pasqualina, a cui i genitori avevano presentato il futuro marito due giorni prima del matrimonio! E tante belle storie d’amore sono nate e concluse con un matrimonio durato tutta la vita… Molte mondine erano mamme di bimbi appena nati: non potevano rinunciare al lavoro, grazie al quale la loro famiglia avrebbe potuto sostenersi molti e molti mesi, quindi portavano con sé in risaia il loro piccolino, che lasciavano sull’argine in un cestino, in attesa della poppata. Questa situazione così difficile e – diciamolo pure - ingiusta non è sfuggita alla Chiesa, attenta a proteggere i più deboli. All’inizio del ‘900 è stato fondato da Padre Pianzola (un sacerdote di Mortara) un ordine di suore, le Pianzoline, che avevano il compito di andare di cascina in cascina ad occuparsi dei bimbi delle mondine. Le suore Pianzoline sono ancora ben attive a Novara, a S. Agabio. Per molte il lavoro di mondina era un’esperienza che finiva col matrimonio, il primo lavoro da ragazzina, seguito da uno un po’ più leggero e redditizio, quale la colf o l’operaia. Ma per qualcuna è stato a lungo l’unico, preziosissimo lavoro con cui sostentare la famiglia. E’ il caso di Lina, dalla vita che ha del miracoloso. Infatti la prima cosa che ci racconta è che è stata per tre volte “salvata dalle acque”. “Altro che Mosé!” dice lei: la prima volta a tre anni, recuperata da un cane nel torrente in cui era caduta; le altre due, in modo meno straordinario. Ma veniamo alla sua storia, che è anche una storia di ordinaria intolleranza. Lina è nata in provincia di Rovigo da una famiglia di contadini; ha cominciato a lavorare in campagna a sei, sette anni, ha smesso la scuola dopo la terza elementare, per badare 30


ai due fratellini gemelli e alla casa. In Piemonte è arrivata col marito nel 1951, poco prima dell’alluvione in Polesine. Ha abitato a Vicolungo, a Biandrate, a Landiona, sempre guardata male dalla gente del posto, convinta che “voi rasconi venite a prenderci la michetta a noi”. Solo un prete l’ha aiutata a cercare casa, ma inutilmente. A Landiona finalmente ne ha trovata una, non abitabile, tutta diroccata, c’è voluto un anno per ottenere la residenza. In quel periodo il suo bimbo si ammalò alle tonsille e Lina sostiene che non lo volevano far operare, poiché, secondo il sindaco, loro erano clandestini, non avendo la residenza. Il marito di Lina faceva il cavallante, ma era quasi sempre disoccupato, per via della gelosia di altre persone a cui “rubava il posto”. Toccava ancora a Lina andare a cercargli lavoro, tornata dalla monda. Il conto in bottega si allungava; l’incubo di essere cacciati di casa era sempre lì; ogni anno si faceva San Martino1. Addirittura, la seconda figlia di Lina è nata sul camion che li portava nella nuova cascina.

La lavandaia

Maria Luisa faceva la lavandaia, in tempo di guerra lavorava per i conti Negroni, che erano sfollati dai contadini; avevano chiesto una donna che gli lavasse la biancheria, ogni 22 giorni, e Maria Luisa aveva accettato. Non si lavava mica come ora, con la lavatrice: ci voleva cenere, un secchio di cenere, e acqua bollente; a volte si buttava persino la calcina, nell’acqua. Il giorno successivo, quando andava a tirar fuori dall’acqua la biancheria, le mani si pelavano…

La fabbrica

Quasi tutte le donne intervistate erano occupate in fabbriche tessili, qualcuna in una fabbrica metalmeccanica. Dell’ambiente di lavoro, ricordano tutte il rumore delle macchine, la polvere, l’unto, a volte il freddo; si stava sedute, o in piedi, per 8 o 10 ore, a ripetere sempre le stesse mansioni; il “punteggio” che condizionava il salario dipendeva spesso dall’efficienza della macchina: se si rompeva qualcosa e il meccanico ne aveva troppe da aggiustare, addio cottimo. Si lavorava alla catena, una mansione a testa. Nelle fabbriche di confezioni, ad esempio, c’era chi faceva le maniche, chi il davanti, chi il dietro, chi assemblava il tutto, chi stirava, chi piegava, chi imbustava. Dalle macchine uscivano camicie, calze, pantaloni, maglie, mutande, piccoli impermeabili col cappuccio… in tempo di guerra si facevano mutandoni militari, quelli 1 Fare S. Martino vuol dire cambiare posto di lavoro o anche traslocare. La festa di San Martino cade l’11 novembre, vale a dire nel periodo che segna la fine dell’annata agricola e l’inizio della stagione invernale. In quei giorni si rinnovavano i contratti d’affitto dei fondi rustici, dei pascoli, dei boschi. Molte famiglie caricavano le masserizie su di un carro e cambiavano padrone e residenza.

31


per l’America con impunture colorate…; uscivano persino i costumi per Miss Italia. Per chi non ha mai visto una fabbrica, è arduo capire come si lavorava e le nostre amiche non hanno affatto voglia di spiegarlo, o meglio: forse il lavoro era talmente ripetitivo che non ci facevano neppure più caso e non se lo ricordano proprio. Solo Piera è stata un po’ più precisa: lei era filatrice e gestiva un gruppo di ragazze che “facevano le levate”, cioè toglievano la spola su cui era avvolto il filato e rimettevano il tubetto vuoto: “ ...ed era tutto un correre ad inseguire le spole”. Pausa pranzo: un’ora o poco più, tra le 12 e le 14; il tempo di correre a casa in bicicletta, di scaldare il pranzo preparato la sera prima “sulla macchinetta a petrolio” precisa Pierina: “poiché non c’era tempo per accendere la stufa”. C’era la mensa, ma quasi nessuna la frequentava; nel refettorio si poteva mangiare quello che ci si portava da casa; in certe fabbriche c’erano le suore che davano la minestra, solo alle operaie in condizioni più disagiate, però. Per andare ai servizi? Nei casi più fortunati, ci si poteva allontanare, previa richiesta alla maestra, e purché la macchina non risentisse dell’interruzione. Ma Clorinda ricorda anche una certa “marescialla”, che si premurava di controllare se il bisogno era vero o se ci si voleva solo riposare un pochino; ma le ragazze fregavano sempre le sue sorveglianti, fingendo di lavarsi le mani. La domanda: “Che cosa faceva se si sentiva troppo stanca?” sembra proprio assurda a tutte, che la accolgono ridendo. Non c’era stanchezza! Erano e giovani e sane! Al più, si “riposavano” a casa, con tre ore buone di casalingaggio. Quasi nessuna si lamenta del salario, per poco che fosse, di cui andavano orgogliose perché permetteva di affrontare le spese domestiche e di far studiare un pochino i figli. E nemmeno si lamentano dei rapporti con i colleghi maschi, tra cui annoveravano spesso galanti corteggiatori. Ben accettati quasi sempre i superiori, specialmente se si trattava di maestre brave e capaci, eque nello stabilire la paga, in base alla qualità del lavoro; amichevoli e solidali le relazioni con le colleghe, tra cui non pare ci fossero invidie o rivalità, anzi, qualcuna ha detto chiaramente che i punti del cottimo si dividevano in modo che nessuna avesse troppo o troppo poco. Se le parole con cui spiegano il loro lavoro sono poche, strappate quasi a fatica rimestando tra gli angoli della memoria, ben più abbondanti e precise diventano quando parlare del lavoro è solo il pretesto per parlare della loro vita, delle loro traversie, e loro stesse, raccontandole, quasi stentano a credere di essere state tanto brave a superarle…

E allora, ecco una storia, fra le più significative...

Angela V. è del 1912; è nata a Novara in una famiglia benestante, avevano una trattoria e il papà faceva pure il falegname ebanista. Però c’erano undici figli e Angela doveva dare una mano in casa e alla trattoria; per 32


questo ha studiato solo fino alla quinta elementare e a 12 anni è andata al lavoro, in una fabbrica tessile a S. Agabio. Ha lavorato lì fino a 30 anni, quando si è sposata con un maresciallo della polizia stradale al seguito del quale si è trasferita in Albania, da dove è tornata per far nascere il loro bambino. Il papà ha visto il piccolo una volta sola, a sei mesi, poi è morto in un campo di prigionia. (Angela riconoscerà il corpo dalla fede in acciaio e solo così potrà, dopo 15 anni, far seppellire il marito a Vigevano nella tomba dei Caduti). Angela a 32 anni è sola, una vedova di guerra senza pensione, l’avrà, 18 anni dopo, e con quei soldi comprerà al figlio la prima automobile. “Che fare?” La sorella di Angela sta a Vigevano, dove fa la sarta e ha aperto anche una tintoria. Angela la raggiunge e lavora da lei, visto che sa stirare bene. Per arrotondare lo stipendio, si mette a rimagliare le calze. Dormiva col bambino nel retro della tintoria, in mezzo all’odore persistente della trielina; si alzava alle sei, quando le donne le portavano il lavoro, poi usciva per portare il bimbo in collegio, dove lui restava fino a sera; a mezzogiorno mangiava in fretta, in piedi; a cena, sempre caffelatte. Ma il negozio andava bene, le clienti si affezionavano alle due signore della tintoria che chiamavano ”le novaresi”… Angela ce l’ha fatta, e bene: il figlio si è diplomato, lei si è comprata casa a Novara; ora ricorda le vacanze dalla sorella, che addirittura s’era comprata una villa a Rapallo; le belle gite col figlio; il primo viaggio in aereo, a 81 anni!... Alla domanda finale: “Un bilancio della sua esperienza di lavoro: la ripeterebbe?” risponde sincera: “Solo se obbligata!”. Ma è grazie al suo lavoro che ora gode di una pensione dignitosa, si è sempre pagata i contributi, e grazie all’affitto della sua casa è autosufficiente al “De Pagave “, dove, precisa, paga solo la camera, poiché sa ancora lavare e stirare la sua roba.

Quando giocare con le bambole diventa un lavoro

Angela T. , di Arona, quella dell’autopresentazione al padrone in tuta, ricordate?, vestiva le bambole: quelle bambole belle e costose, abbigliate come vere e proprie signorine, che si mettevano sedute in mezzo al letto …e si potevano solo guardare. La fabbrica delle bambole produceva le pupe dall’inizio alla fine, cominciando dall’imbottitura in tela; anche i bei vestitini venivano tagliati, cuciti e stirati in fabbrica, secondo modelli tutti diversi: in una apposita stanzetta le bambole venivano vestite con cura, calzine e scarpette di pelle comprese, in un’altra stanzina i loro capelli “veri” erano acconciati con eleganza. In una fabbrica così, il lavoro a cottimo non esisteva; infatti “presto e bene raro avviene” dice Angela che ha cominciato lì come “piccinina”, vale a dire la piccola aiuto-sarta che, tra spilli da recuperare spazzando il pavimento e commissioni, imparava anche il mestiere. Ma proprio quel lavoro così accurato e tutto manuale faceva crescere i prezzi e… crollare le richieste, anche per l’avvento massiccio delle bambole tutte in vinile prodotte in serie, certamente non così belle, ma di sicuro molto meno care. E così la fabbrica si è riconvertita nella produzione di pelouches imbottiti. Ma non era più la stessa cosa. 33


Lavori, lavori, lavori…

Quattordici anni e un lavoro pesantissimo; ecco il ricordo di Anna Maria, nata in Polesine dove dai quattordici ai ventun anni ha fatto la coadiutrice delle FFSS. I genitori di Anna Maria erano “casellanti”, vale a dire addetti ad un casello delle Ferrovie e la ragazza, per il suo lavoro, riceveva un contributo per la famiglia, non comprensivo dei versamenti INPS (così quegli anni non sono stati recuperati nel conteggio per la pensione). Il primo treno passava alle 5 del mattino, l’ultimo alle 11 della sera: ad ogni passaggio si doveva aprire un ponte girevole su un canale navigabile con una chiave che pesava 30 chili , e Anna Maria ne pesava 45. Tra un treno e l’altro trascorrevano 20 o 30 minuti, il tempo dipendeva dalle barche che dovevano transitare; con un fonogramma si chiedeva l’autorizzazione per aprire il ponte e si doveva aspettare la conferma per chiuderlo. A quei treni sono legati ricordi di tanta fatica e di tanto dolore: due fratellini di 5 e 6 anni sono finiti sotto un treno passato fuori orario. Tina ha lavorato per parecchi anni occupandosi di bambini sfortunati; lei era infermiera al Santa Corona di Pietra Ligure, nel reparto dei piccoli poliomielitici. Il lavoro di Tina era pesantissimo, anche perché lei per poter studiare di giorno aveva scelto il turno di notte, dalle 19 alle 7. In reparto, in due stanzoni, c’erano 36 bambini e una sola infermiera, di giorno ce n’erano 4. Se i bambini dormivano “si ramazzava”, cioè si facevano le pulizie nello studio dei medici. Tina era lontana da casa e viveva in Convitto, in un camerone dove non si doveva disturbare nessuno. Nel giorno libero, Tina usciva con le amiche e con la suora, incaricata di vigilare sulle ragazze lontane da casa, anche se erano più che maggiorenni. Del resto, bisognava sempre fare i conti con la Madre Superiora, che poi riferiva al Direttore: “Guai se il grembiule era un pochino più corto del dovuto o i capelli non erano ben legati sotto la cuffia”. Guadagnava bene, Tina, 50.000 £ al mese più il mantenimento al Convitto, ma mandava tutto a casa, in una frazione di Cremona, per aiutare la madre e i fratelli più anziani che lavoravano solo saltuariamente in campagna. Tina, a quel tempo, non si è comprata neppure gli occhiali da vista.

Le impiegate, le autonome, le casalinghe

C’era una volta… la macchina da scrivere, strumento di lavoro indispensabile per dattilografe e segretarie fornite di licenza d’Avviamento o addirittura di Diploma alle superiori. Le ragazze erano impiegate presso professionisti, o in aziende commerciali, o in Assicurazioni, in Esattoria o in Biblioteca: uffici spesso grandi e belli, qualche volta situati in stabili prestigiosi (è il caso della R.A.S., che aveva in affitto a Milano la casa del conte Gallarati Scotti). Il lavoro era abbastanza gratificante, forse, ma anche un po’ monotono, visto che nessuna delle poche nostre amiche, occupata in mansioni impiegatizie, ha molto da raccontare su come si svolgeva il suo lavoro. Si dà per scontato che tutti sappiano quali 34


sono i compiti di un’impiegata o di una centralinista. Solo Elena ci parla di un lavoro un pochino diverso dal solito, quello dell’informatrice economica. Consisteva nel fornire a ditte produttrici informazioni circa l’affidabilità di clienti a cui vendere a credito. L’impiegata attingeva la documentazione da un archivio assai ben fornito e poi dettava al registratore a ben tre dattilografe le notizie raccolte. In ultima analisi, spettava a lei dare un giudizio sulla “serietà” delle persone; con orgoglio, la signora dice che, in tanti anni, solo una volta un cliente si è lamentato, ma la ditta ha dato per buona la sua valutazione. Anche fare la centralinista era un bel mestiere: Silvana aveva sedici linee a cui pensare, “parlavo col mondo intero e sapevo tante cose”, dice con un filo di nostalgia. Se metteva in attesa delle persone, per intrattenerle chiacchierava con tutti del più e del meno, del tempo che faceva, della città in cui vivevano… le pareva di avere un sacco di amici sparsi dappertutto. Dalle nostre interviste, si diceva, abbiamo raccolto pochissime informazioni specifiche sui vari tipi di lavoro. In compenso, abbiamo scoperto tanti percorsi di vita che non possono cadere nella dimenticanza, poiché ci aiutano a capire come siamo arrivati a conquistare quel poco di libertà di cui oggi forse neppure ci accorgiamo e che ci viene continuamente insidiata. Ascoltiamo Elda. Lei aveva quattordici anni e mezzo quando è stata assunta in fabbrica; di quegli anni ricorda l’obbligo di andare in piazza a sentire il discorso del duce che annunciava l’ingresso dell’Italia in guerra; poi la paura delle sirene che suonavano l’allarme; ricorda che i dirigenti della fabbrica avevano acquistato una grande cascina e vendevano agli operai i prodotti agricoli, alla borsa nera; ricorda anche che era vietato cantare “Polvere di stelle”, in quanto canzone americana. Infine, ci racconta che nel 1944, a 19 anni, per alcune sue spontanee quanto ingenue osservazioni contro il governo, è stata accusata di disfattismo, poi licenziata come antifascista. Elda ammette che, allora, non sapeva neppure bene che cosa significavano ed implicavano le sue parole, dette perché le sentiva in casa, dai suoi, e ripetute impavida anche davanti al federale. Però per quelle parole ha perso il lavoro, ha dovuto allontanarsi da casa e cambiare città. È stato così che è entrata nel movimento clandestino, è diventata una staffetta partigiana e ha maturato la sua forte e chiara coscienza politica. Mondina, operaia, impiegata… si passava di lavoro in lavoro, spesso accettando il lavoro in nero. I soldi non bastavano mai, e occorreva rimboccarsi le maniche, inventandoselo. Dando fondo ai risparmi e con l’aiuto di tutta la famiglia, a volte, si apriva un negozietto, in un primo tempo come integrazione del salario del marito ma che presto, grazie all’abilità della signora nell’intrattenere “relazioni umane” con le clienti, diventava l’attività principale. Maria P. era commerciante in tessuti; aveva cominciato aiutando il marito che aveva un banco al mercato coperto e faceva l’ambulante portando la mercanzia di cascina in cascina. Ci son voluti più di dieci anni per poter aprire il negozio, 35


curato da lei mentre il marito e il figlio continuavano a fare gli ambulanti. Lavorare in una fabbrica tessile faceva nascere la… vocazione di sarta. Si riusciva addirittura a confezionare una camicia senza averne mai fatta una e avendo per modello una camicia vecchia. E se ago e filo diventavano proprio una passione, si arrivava a frequentare la scuola di cucito di nascosto da papà. Si lavorava più che si poteva, togliendo tempo al sonno e accettando “commesse” da chi capitava (negozi, laboratori, grandi magazzini, amiche a cui non si osava chiedere un prezzo, ma che, oneste, pagavano lo stesso quel che ritenevano giusto). Il marito brontolava spesso per la casa trascurata o la cena poco gustosa, ma la brava sartina aveva un gruzzoletto tutto suo, per le lezioni private dei figlioli non proprio brillantissimi a scuola… Dopo il matrimonio, il destino di molte era “tornare a casa”, a fare la moglie e la mamma. Era una vera scelta? E ne erano felici? Boh! Quasi nessuna risponde a queste domande, né è disposta a dilungarsi sul suo “casalingaggio”. C’è una sola eccezione, di tutto rispetto. Si tratta di Maria C., ultraottantenne assai sveglia e attiva, che si autodefinisce manager di casa. Nata benestante, dopo gli studi ha fatto l’impiegata per un anno, poi ha sposato Mario, proprietario di una azienda di cui, detto per inciso, si occupa ancora, prezioso e ben ascoltato consulente per i suoi figli. Come racconta il suo lavoro Maria? “Correre tutto il giorno”: la casa, grande, su quattro piani, da tenere in ordine e risplendente; lavare, stirare, preparare tre pasti completi al giorno, portare i bambini a scuola, in palestra, al catechismo, farli giocare con altri bimbi. Faceva tutto lei, senza contare su nessun aiuto domestico: “e nemmeno ora ne ho bisogno” aggiunge tutta fiera. Si considerava una privilegiata, Maria, rispetto a chi faceva anche un lavoro fuori casa, retribuito? Oggi riconosce che era davvero privilegiata, anche se allora, da giovane, non si sentiva tale. Con malinconia, ricorda che solo dopo la guerra si è resa conto della sua situazione, quando quasi tutti non avevano nulla e lei invece aveva tutto. “Privilegiata” è un aggettivo che a Maria non piace proprio; per definire il suo rapporto col lavoro lei sceglie “orgogliosa” della sua attività, perché ha sempre amato marito e figli e tutto quel che ha fatto è stato per far stare bene tutti quanti. Suo marito, da giovane, a casa si vedeva poco; dava per scontato che fosse sempre tutto pronto e tutto bello, e non diceva nulla. Mario, che assiste all’intervista zitto zitto, adesso dice apertamente di essere stato e di essere molto fortunato. A Maria la mancanza di uno stipendio “suo” non è mai stata di peso. L’azienda rendeva bene, il marito le portava a casa un buon budget e non voleva sapere come lo spendeva. L’autonomia della signora, dunque, era salva. Maria è ben contenta della sua scelta di vita, aggiunge però che le donne, oggi, vogliono lavorare fuori casa perché fare la casalinga vera è molto, molto pesante; inoltre gli uomini più giovani dividono i lavori domestici con le loro compagne e quindi di “vere casalinghe” non c’è più bisogno. 36


Il sindacato c’era?

Bella domanda! Peccato che solo la metà delle nostre amiche intervistate abbia risposto, molto laconicamente per giunta, alle poche richieste in merito: a chi si rivolgeva in caso di difficoltà col lavoro, o con i capi, o con i colleghi? Quali sindacati erano presenti? È capitato di fare sciopero? Per quali motivi? E che risultati ha avuto lo sciopero? In caso di difficoltà, ci si rivolgeva ai superiori, alla Maestra o al Direttore; solo in casi estremi, al sindacato, se c’era. Ma c’è chi dice che piangeva, e basta. Quale sindacato? Le poche che ne ricordano uno, parlano di CGIL, solo due di CISL; sul ruolo del sindacato, non dicono pressoché nulla: solo la quasi ottantenne Filomena rimprovera al sindacato, ma non ricorda quale fosse, di “stare troppo col padrone”. A questo proposito, un ricordo si fa più preciso. Quando il sindacato non c’era, la paga si contrattava direttamente col padrone; le più brave e le più sveglie spuntavano paghe migliori, ma senza dover subire molestie!, precisano orgogliose. Un’altra ottantenne ricorda ancora lo stupore per la prima tredicesima ricevuta, che non era nemmeno “giusta” e che solo l’intervento del sindacato era riuscito a correggere. E ancora: tutti gli straordinari dovevano essere pagati. Ecco un altro dei diritti che nemmeno si sapeva esistessero.

37


Mi chiamavano “Cirabibè” Franca è una di noi, nata nel 1944, quindi è troppo giovane per entrare nella lista delle donne che abbiamo intervistato (tutte over-settanta almeno); però ha una qualità tutta speciale, LA PASSIONE PER SCRIVERE, scoperta quando è andata in pensione, nel 1994. Studiare le piaceva tanto, ma si è dovuta accontentare della licenza elementare; e, nonostante i pochi anni di scuola, scrive benissimo, tanto che il racconto della sua prima esperienza di lavoro come mondina, a 14 anni, è stato pubblicato su “Libera età”, il giornale dello SPI: il 1° gennaio 2003 è uscito un numero speciale intitolato “Una memoria che ha un futuro” e tra gli altri racconti c’era proprio quello di Franca. Noi lo vogliamo regalare a tutti. Nei primi giorni di maggio, all’alba, già si sentiva un canto giungere dalla campagna; erano le mondariso che a quell’ora iniziavano il loro lavoro. In fila, una dietro all’altra, il largo cappello di paglia abbassato sulla schiena, il capo coperto da un grosso fazzoletto di tela colorata, e annodato dietro la nuca, degli ampi mutandoni legati stretti alle ginocchia prendevano il posto delle gonne e sotto a quei mutandoni, delle lunghe calze di lana a cui era stato tagliato il piede perché la mondina, nella risaia, ci poteva entrare solo a piedi nudi: qualsiasi cosa avesse avuto ai piedi, avrebbe reso lento e quasi impossibile il suo camminare in quel fondo fangoso. Ad una ad una le vedevi entrare in quella risaia, curvarsi quasi a sfiorare l’acqua con il viso ed iniziare il loro faticoso lavoro. E cantavano. Per non sentire il freddo del mattino, per sopportare le punture delle zanzare, per dimenticare la fatica, cantavano… Quando ormai tutte si muovevano nell’acqua il canto si faceva più forte. C’ero anch’io tra di loro, avevo solo quattordici anni, ero di costituzione esile ma la fatica non mi spaventava: avevo tanta buona volontà. Mi muovevo svelta nella risaia e per questo e perché ero tanto esile mi chiamavano ”CIRABIBE’.” Non era un dispregiativo, quel soprannome voleva dire libellula. Io non conoscevo ancora le canzoni delle mondine e quando il coro taceva, intonavo le canzonette in voga a quei tempi. Cantavo, non perché ero contenta di trovarmi lì, avrei preferito essere a scuola, ma la mia famiglia aveva bisogno del mio contributo ed io, consapevole di questo, avevo accettato quel lavoro: cantavo per consolarmi. 38


La mia voce di ragazzina piaceva e c’era sempre qualche anziana che mi diceva: “CIRABIBE’, cantaci Lazzarella”. Lazzarella era la mia canzone preferita ed io la cantavo pensando alla studentessa della canzone. Cantando dimenticavo di essere in una risaia, circondata dalle zanzare, a piedi nudi dentro all’acqua ed al fango, con la paura che qualche biscia si potesse avvicinare, con le mani tutte rovinate , con quel fazzoletto legato in testa ed intorno al collo ma m’immaginavo di andare a scuola, proprio come Lazzarella: con i libri sottobraccio, ben vestita, con i miei capelli neri, sciolti sulle spalle, camminare con le mie vecchie compagne, che ormai avevo perduto, specchiarmi con loro nelle vetrine e ritrovare il mio viso di ragazzina spensierata. Cantandola non pensavo più di essere lì curva nella risaia, in quell’acqua che solo prima di iniziare il lavoro, era pulita e ci si poteva specchiare ma che poi con i passi delle mondine, diventava torbida e fangosa e quando il sole incominciava ad intiepidire si riempiva di insetti e non sempre quelle lunghe calze di lana, quel fazzoletto legato in testa ed intorno al collo, quelle manichette: così le chiamavano le mezze maniche che indossavamo anche sopra gli altri indumenti e che ci coprivano dal gomito fino al polso, riuscivano a proteggerci dai loro attacchi. Io cantavo e sulle note di quel canto fuggivo lontano e per un momento dimenticavo la fatica. In quel periodo si trapiantava il riso. Al mattino, la risaia appariva come un grande lago e alla sera già affioravano dall’acqua migliaia di piantine. Ad una ad una, erano state piantate dalle mondine. Si prendevano da mazzetti che venivano sparsi nella risaia. Con una mano, si teneva il mazzetto e con l’altra si piantava. Si affondava il braccio nell’acqua, fino ad arrivare al fango e con la punta delle dita si schiacciavano dentro le radici più che si poteva. Dopo un po’ di giorni le unghie si rompevano e le dita sanguinavano ma noi non potevamo risparmiarci; se non si premevano bene, nel fondo fangoso, quelle piantine sarebbero tornate a galla. A spargere nella risaia le piantine di riso da trapiantare, era “ al cavalantt” (il cavallante); le prendeva dalla risaia-vivaio dove alcune mondine, all’inizio della giornata, le avevano strappate e legate in tanti mazzetti. Il cavallante, che era l’addetto all’uso dei cavalli per il lavoro nei campi, arrivava con il carretto carico, trainato da un grosso cavallo: il più forte della scuderia. Il carretto era, con metà delle ruote, dentro all’acqua ed al fango ed il cavallo, anch’esso con le zampe affondate nel fango, avanzava con la testa bassa e tutti i muscoli tesi per lo sforzo. Il cavallante lo incitava con la briglia in mano:“Iù valà! Iù valà!” (Avanti! Avanti!) Era un brav’uomo “al cavalantt”... Io, me lo ricordo ancora... Dentro la risaia, a piedi nudi come noi, con i pantaloni arrotolati fin sopra al ginocchio, 39


la blusa scolorita dal sole e imbrattata di acqua e fango che il cavallo, ad ogni passo, gli schizzava addosso. Quando ero mandata, con lui, a caricare sul carretto quei mazzetti pesanti, tutti inzuppati d’acqua e fango, vedendomi faticare tanto, gli dispiaceva e, con modo paterno, mi diceva: “Và da drè dal carèt fiulina, an dua l’è che id vedan mia e riposatt un po’, la tò part i t’la carghi mì” (Vai dietro al carretto bambina, dove non ti possono vedere e riposati un po’; la tua parte te la carico io). Io non avrei voluto, ma quel lavoro mi spezzava la schiena, non avevo la forza di farlo di continuo, per tanto tempo e allora lo ringraziavo con tutto il cuore, andavo a sedermi sulla stanga del carretto mi appoggiavo al cavallo e riposavo un po’. Ed anche se il cavallo era tutto sudato, pieno di schizzi di fango e di tanti tafani che gli ronzavano intorno, io, continuavo a ringraziare in cuor mio “al cavalantt” per avermi dato quel sollievo. In risaia, durante il lavoro, non si poteva parlare: le mondine si dicevano tutto cantando. Cantavano gli stornelli, oppure vecchie canzoni popolari alle quali cambiavano le parole a secondo di quello che dovevano dirsi. Questi canti diventavano, a volte, vere provocazioni e qualcuna si offendeva. Le più focose non rispondevano cantando, ma con spintoni e litigando cadevano spesso in acqua: occorreva l’intervento del “campè” (il camparo) per dividerle. Il “campè “, in piedi sull’argine della risaia, sempre appoggiato al manico del suo badile che teneva piantato nella risaia, controllava le mondine. Era lui che dava gli ordini ricevuti dal “Sciur padron” (dal signor padrone) e dirigeva le ragazze nel loro lavoro. Quando si doveva cominciare, guardava il suo orologio da tasca e avvisava gridando: “L’è ura doni!!” (È ora donne!!) Ma a fine giornata l’orologio del “campè” non si sapeva come mai, ritardava sempre. Allora le mondine, per avvisarlo che l’ora era arrivata, attaccavano un canto con queste parole: “Siur padron l’è ura l’è ura; cal tira fora la so’ scigula; sal vora dì la verità custa l’è l’ura dan dè cà!”(Signor padrone è l’ora è l’ora; tiri fuori il suo orologio; se vuol dire la verità questa è l’ora di andare a casa!) Intanto le settimane passavano, il trapianto era finito. Le giornate cominciavano a farsi più calde. Le piantine di riso stavano crescendo e con loro anche le erbacce infestanti e bisognava strapparle tutte e tutte a mano: incominciava “la monda”, il lavoro si faceva più duro. Al mattino, quando ci si fermava per la colazione, sedute sull’argine della risaia, non parlavamo più ad alta voce ed a mezzogiorno cercavamo un po’ d’ombra sotto i filari degli alberi, mangiavamo in fretta, senza parlare, poi ci sdraiavamo nell’erba per riposare un po’. Ma presto “il campè” dava l’ordine di riprendere il lavoro. Ed eccoci ancora in fila, sull’argine della risaia sotto il sole cocente: l’una dietro all’altra, il largo cappello di paglia in testa, il viso bruciato dal sole, le braccia e le gambe 40


punzecchiate dalle zanzare, ci affrettiamo per ridiscendere in quella risaia ormai colma e rigogliosa. Il “campè” ci controllava da lontano; lui, rimaneva sotto i filari degli alberi, all’ombra. Intanto il riso cresceva, il caldo aumentava e con il caldo arrivavano anche i temporali. Nel calore del pomeriggio si sentono dei tuoni in lontananza e dei nuvoloni neri, sospinti dal vento, si avvicinano. Sta arrivando un temporale. Le mondine attaccano un canto. Mi ricordo come fosse ora. Ai primi goccioloni si levano il largo cappello di paglia e corrono a mettersi delle mantelle di gomma col cappuccio che lasciavamo sempre sull’argine della risaia e così faccio anch’io, poi, con le gambe immerse nell’acqua e con la pioggia che batte sulla schiena, torniamo a lavorare… e a cantare. I tuoni si sentono sempre più vicini, le nuvole si fanno minacciose il temporale si scatena. Dei lampi paurosi squarciano il cielo mentre raffiche di vento scuotono i filari degli alberi e spingono le nubi sempre più in basso quasi a sfiorare la campagna che si è fatta buia. Ancora tuoni, ancora lampi, mentre la pioggia si fa acquazzone. E loro, per vincere la paura, per trovare la forza di resistere cantano ancora, ancora più forte: quel canto diventa quasi un grido disperato; ed in mezzo a quel canto si sentono anche delle preghiere. Anch’io sono spaventata. Sono tutta bagnata, l’acqua mi cola dal viso: ad ogni lampo trattengo il fiato, ad ogni tuono un tremito mi percorre tutta. Vorrei scappare da quell’inferno, ma le altre continuano a lavorare cantando. Io non ce la faccio a cantare: la voce mi si strozza in gola. Un’anziana, vicino a me, mi guarda e vedendomi così impaurita mi stringe al braccio dicendomi: “Curacc cirabibè curacc t’ha vedarè che prestu a la finisa” (Coraggio libellula coraggio vedrai che presto smetterà). Quel gesto materno, quelle parole dette con affetto, mi rincuorano. Cerco di asciugarmi il viso con il palmo della mano, mi lego più stretta la mantella che il vento vorrebbe strapparmi, mi faccio forza e continuo anch’io a lavorare. Poi finalmente il temporale si allontana, è quasi finita anche la giornata; un sospiro di sollievo! Anche oggi è passato. E la monda continuava. Le piantine di riso erano cresciute, tanto da pungere, con la punta delle foglie, gli occhi alle mondine, e il “pabi” (il giavone), una delle erbacce più dannose che infestavano la risaia, si sviluppava rapidamente: più la stagione andava avanti, più questo “pabi” si 41


radicava e per strapparlo ci voleva molta forza. A me di forza n’era rimasta poca e per non rimanere indietro dalle altre, ce la mettevo tutta. Quando mi capitava quel “pabi” tanto duro da strappare, lo tiravo con tutte due le mani e se si sradicava di colpo, a volte, cadevo all’indietro finendo seduta nella risaia. Allora, sebbene bagnata ed imbrattata di fango, cercavo di rialzarmi in fretta, per non farmi vedere dalle altre e per rimanere in fila con loro. La nostra era una squadra formata da una trentina di mondine e ce n’erano cinque o sei che avevano un falcetto nascosto ed invece di strapparlo, quel “pabi” tanto radicato, lo tagliavano alle radici. Erano sempre le prime, davanti alla fila e facevano bella figura agli occhi del “campè”; ma quel “pabi” tagliato alle radici sarebbe ricresciuto presto. Intanto i mesi passavano: giugno era finito. Incominciava il mese di luglio. Il caldo continuava ad aumentare: un caldo umido, soffocante. Le mondine erano sfinite, non cantavano più. La campagna era silenziosa: in quei pomeriggi afosi ed assolati si sentiva solo il fruscio dei nostri passi tra i cespi di riso ed il gracidare delle rane. C’era qualche mondina in meno, in risaia, quelle più deboli non ce l’avevano fatta a finire la stagione. Tra queste c’ero anch’io. Un mattino, un malore mi aveva tolto anche quelle poche forze che mi erano rimaste e non ce l’avevo più fatta a riprendere quel lavoro. Ed ecco, verso la metà di luglio, la risaia, libera dalle erbacce, appare come un grande prato verde. La monda è finita. Si fa festa in cascina. C’è musica: le mondine cantano e ballano; il signor padrone offre loro il pranzo di chiusura: “la culmaia”. Una grande tavolata, sotto il portico vicino alla stalla, con tanto risotto. C’ero anch’io. Le anziane erano venute a prendermi a casa: ormai si erano affezionate e non volevano fare festa senza il loro “cirabibè.” Mi ricordo quella tavola: con intorno delle sedie, una diversa dall’altra e delle panche, per tovaglia una tela cerata, sopra dei piatti bianchi pieni di risotto fumante e dei fiaschi di vino. Non ricordo altro… Forse non c’era altro. Mi trovavo un po’ spaesata, in mezzo a quella baraonda di balli, schiamazzi e battute a volte un po’ pesanti. Avevo una gonna a righe bianche e rosse tutta arricciata in vita, per sembrare un po’ tonda nei fianchi ed una camicetta bianca, con il volant, per nascondere quel petto ancora da bambina. Ancora oggi, quando ci penso, rivivo quei momenti. 42


Guardo le altre ridere e mangiare, qualcuna mi grida: “Cirabibè mangia al risott che ta vegni grasa!” (Libellula mangia il risotto che ingrassi!) Non mi va di mangiare. Un grosso nodo mi chiude la gola. Penso a quanto avevo desiderato continuare gli studi. “Non c’è la possibilità” mi avevano detto in famiglia. Ma io ci speravo sempre e ad undici anni, con i libri prestati da una compagna, mi ero preparata con impegno ed entusiasmo all’esame per essere ammessa alle scuole medie. Ma non fui mai iscritta E quando ebbi l’età del lavoro andai a fare la mondina. Ora, non mi illudevo più. Ormai ero entrata nel mondo del lavoro e sapevo che non sarei più tornata a scuola. Con fatica ho accettato questa realtà. “L’acqua della risaia aveva bagnato le ali a quella fragile libellula ed aveva fermato il suo volo”. Ed ecco mi chiamano ancora: “Cirabibè! Dai Cirabibè! Vieni a cantare con noi!”. Non voglio, non devo apparire triste; rispondo con un sorriso, inghiottisco quel grosso nodo e canto con loro.

43


44


SECONDO CAPITOLO

Ricordi del Fascismo e della Resistenza nel Novarese Dirà il sindaco Sandro Bermani: “Erano i tempi in cui leggevamo scritta sui muri di Novara la terribile frase «Pietà l’è morta»”.

Testimonianza di Oretta P.

Nei mesi terribili della Repubblica di Salò, la mia famiglia abitava in Via Tornielli. Mi ricordo il racconto di mia madre che, uscita con me nel passeggino, giunse sino all’Angolo delle Ore, ove le si presentò davanti una tragica scena: un giovane partigiano biondo e aitante, in calzoncini corti, che camminava per Corso Cavour, veniva schiaffeggiato in continuazione da un drappello di soldati tedeschi. I tedeschi e alcuni fascisti locali avevano fatto un piccolo corteo, la gente si fermava inebetita a guardare, ma non osava intervenire. Il giovane camminava incontro alla morte e i suoi sgherri non smettevano di percuotergli con ferocia la stessa guancia. Mia madre arrestò il passeggino e uno di quegli sgherri le intimò di salutare romanamente… La sera del 24 ottobre del ‘44, in cui si svolsero gli efferati eccidi di Piazza Francesco Crispi, ora Piazza Martiri della Libertà, e piazza Cavour, la mia mamma aspettava il ritorno di mio padre dal suo lavoro di ferroviere. Quando il papà fu a casa, le fece un drammatico racconto: era passato per Piazza Cavour, ove giacevano i corpi martoriati di Vittorio Aina, Giuseppe Piccini, Emilio Lavizzari e Mario Campagnoli, ammonticchiati lungo il muro ove allora sorgeva il caffè Menabrea. Il famigerato questore Pasqualy aveva ordinato ai suoi miliziani di non lasciar avvicinare nessuno ai corpi degli assassinati. La pioggia cadeva incessantemente e c’era foschia, la gente quasi inciampava nei poveri, gloriosi resti di quei martiri. Nella notte, sotto la pioggia incessante, mani pietose ricomposero le salme e le ricoprirono di garofani rossi. Mia zia Aurelia, che ora ha la veneranda età di 102 anni, era corteggiata da un ufficiale fascista, che andava ad aspettarla sotto casa, tra i due era nata una certa simpatia, ma la mia era una famiglia di socialisti convinti. La nonna, sua madre, era andata al corteo del Primo Maggio 1909 incinta di mio padre, che nacque il 24 dello stesso mese, il nonno era un capo macchinista delle Ferrovie, 45


figurarsi che pensavano di questa infatuazione! Gli antifascisti novaresi si ritrovavano al Circolo Archimede, proprio sotto alla sede della Camera del Lavoro, in Via Mameli. La zia uscì col suo bellimbusto e lui le confessò che l’indomani una squadraccia nera avrebbe fatto una retata al Circolo. Così tutti si resero irreperibili grazie alla sua “soffiata”! Aurelia disse a suo padre: - Hai visto che, nonostante tutto, sono stata utile anche io? e lui le perdonò la scappatella sentimentale.

Testimonianza di Gianna B.

La casa dove stavano i nonni aveva il giardino che dava su Via Rosmini, all’angolo con Corso Torino. Dove adesso c’è un colorificio, allora c’era un’osteria. Qualche giorno prima della Liberazione, che a Novara porta la data del 26 aprile, da via Rosmini transitava un sidecar diretto a palazzo Rossini, sede del “Kommando” germanico. Trasportava un ufficiale tedesco, alla guida il suo attendente. Avevano girato l’angolo e da questa osteria erano usciti due ragazzi coi capelli neri, con indosso un giubbotto scuro, da cui avevano estratto due mitra. Fecero fuoco sui due, l’attendente fu ferito e l’ufficiale morì. Mio nonno, che temeva il rastrellamento, corse a casa e chiese alla moglie e i figli di incamminarsi verso l’Agogna, dopo essere andato in soffitta a prendere le armi che nascondeva lì da tempo. I miei familiari passarono tutta la notte a dormire all’aperto nei boschi intorno al torrente, ma, per fortuna, il rastrellamento non ci fu, anzi, arrivarono i partigiani, si schierarono proprio in riva all’Agogna, poi entrarono e liberarono Novara. Mia nonna Ester faceva la sarta. Per lei le stoffe non avevano segreti, era una grande sarta: il gabardine, la batista, il percalle obbedivano alle sue mani veloci e si piegavano docili ad assecondare le forme matronali delle sue clienti. Abitava in Corso Torino e fra le sue clienti c’erano tutte le mogli dei benestanti novaresi, fascisti compresi. La aiutavano le ragazzine che stavano lì a imparare il mestiere e trovavi sempre sedute a imbastire o ad attaccare bottoni. Il nonno era un socialista convinto e gli sarebbe piaciuto, a ogni Primo di Maggio, andare in piazza col garofano rosso all’occhiello, ma, in quei tempi disgraziati, gli avrebbero fatto la festa a suon di manganellate e olio di ricino se l’avesse fatto! La nonna era rispettata da tutti e per questo nessuno gli avrebbe comunque torto un capello. Quel pomeriggio d’estate le sartine erano tutte sedute a lavorare sul ballatoio, una di loro stava cucendo una bella fodera rossa a una gonna a pois che le avevano commissionato, ma quel drappo scarlatto, non si sa come, sospinto dalla brezza malandrina di primavera, s’involò, fluttuando leggero nell’aria, prese il vento, vibrò sospinto da un refolo birichino, s’impennò in alto, per poi ricadere lentamente davanti 46


alla porta dei parenti del podestà Zurlo, che abitavano proprio al primo piano della casa … La vicina di casa raccattò quella stoffa, con quel colore così acceso e a loro ostile e ... la nonna venne portata al palazzo dei Vigili Urbani per accertamenti. Fortuna che il nonno era un vigile e il comandante della stazione dovette garantire che loro due non fossero oppositori del regime.

Testimonianza di Giampiera F.

Questa è una piccola storia con dei risvolti comici. Mia nonna, durante il ventennio, abitava a Galliate, vicino a una famiglia con tre figli. Il più piccolo di loro, Mario, era un ragazzino testardo e ribelle. Per un mese d’estate, dato che era mingherlino di costituzione, era costretto ad andare alla colonia elioterapica fascista del Ticino per rinvigorirsi un po’. Una volta, la mattina della partenza, Mario s’appese per le mani alla ringhiera di legno del balcone di casa sua, con le gambe penzoloni nel vuoto, gridando come un disperato: - Non voglio andare in colonia, perché lì mi obbligano a gridare sempre “Duce, duce …” e poi mi danno l’olio di fegato di merluzzo! Così lo dovettero tirare giù a suon di sberle per farlo arrivare a più miti consigli.

Testimonianza di Paola A.

La mia mamma era di famiglia socialista e non ha mai avuto la divisa da piccola italiana. Lei si disperava tanto, poiché tutte le sue amiche sfoggiavano la gonnellina e la camicetta bianca, ma era troppo piccola per capire il significato di tutto ciò. Le compagne di scuola, naturalmente, la schernivano. Allora la nonna, quella gran donna che era emigrata da giovane in Argentina, per consolarla, le diceva: – Ti prendono in giro perché non hai la divisa da piccola italiana?E tu di’ loro che sei una piccola americana!

Testimonianza di Franca C.

10 aprile 1945: Caltignaga rischia l’annientamento All’inizio della primavera del ‘45, la Liberazione si stava avvicinando, ma, sul territorio di Caltignaga era ancora numerosa la presenza di fascisti e partigiani. C’erano ancora scorrerie e fatti di sangue. Il 9 aprile doveva esserci una verifica, da parte dei fascisti, riguardo alla quantità di latte prodotta in paese, che, a parer loro o di qualche informatore, era decisamente ridotta rispetto al bestiame presente, deducendone che la parte mancante venisse ceduta ai partigiani. Informati della venuta di costoro, i partigiani tesero loro un’imboscata nei pressi di un mulino, poco lontano dal paese. Vi furono, nelle file dei fascisti, diversi morti e molti fatti prigionieri, tra questi, il giovanissimo figlio del capitano della zona. In paese fu imposto il coprifuoco, ma nella notte, nonostante le mitragliatrici continuassero a sparare, molti uomini e ragazzi riuscirono a fuggire e a nascondersi 47


nelle campagne. Al mattino del 10 aprile, in paese erano rimasti soltanto vecchi, donne e bambini, che i fascisti facevano uscire dalle loro case e radunare in piazza dove c’erano già, allineati contro il muro e legati a due a due con delle catene prese nelle stalle, degli uomini e dei ragazzi del paese. Altri ne arrivavano, trovati nelle campagne, tutti malconci, mandati avanti a pedate e colpiti col calcio del fucile. Intanto la piazza si riempiva. Tre mitragliatrici erano puntate contro di loro con la minaccia di fare un massacro se non fossero stati liberati al più presto i prigionieri e il giovane figlio del capitano. A cavalcioni di una delle mitragliatrici c’era una donna, un’attrice cinematografica notissima a quei tempi, Luisa Ferida1, molto bella, ma anche molto spietata. La Ferida inveiva contro la gente, facendo continuamente la mossa di sparare. C’erano urla, gente che cercava di fuggire, donne che svenivano. Intanto erano in corso trattative per evitare la strage, ma le ore passavano e la gente era sempre più terrorizzata. In prima fila, davanti a tutti, c’era una giovane donna minuta, con un bimbo di cinque anni per mano e una bimba, di quasi un anno, in braccio addormentata. Si teneva stretta i suoi bambini, ma non aveva paura. Guardava quella mitragliatrice e pensava: - Rimango qui, davanti a tutti, così, alla prima raffica, verrò colpita con i miei bambini e non soffriremo. Poi, invece, la bimba si svegliò e cercò il seno della mamma, e lei, noncurante delle urla di terrore, della minaccia delle mitragliatrici puntate contro, stringendosi vicino anche l’altro figlioletto, si mise ad allattare la piccola. I pensieri che aveva questa mamma, in quei tragici momenti, li conosco molto bene, poiché me li ha confidati lei. Il coraggio e la compostezza tenuti in quel tragico giorno me li hanno raccontati coloro con lei avevano vissuto quei momenti così drammatici. Quella giovane donna che allattava la sua bimba davanti a quell’arma pronta a sparare, era la mia mamma e quella bimba che succhiava il latte ero io. In mezzo alla tragedia sono prevalsi la tenerezza della mamma, la speranza nella vita e la forza della donna. Poi le trattative sono arrivate a un compromesso. La popolazione è stata lasciata libera, meno trentasette persone, scelte fra gli uomini e i ragazzi presenti in piazza. Sono stati portati a Novara e rinchiusi all’asilo San Lorenzo. Fra questi c’erano anche il fratello quattordicenne e il padre di quello che poi sarebbe divenuto mio marito. L’unica speranza per gli ostaggi era il ritrovamento del figlio del 1 Luigia Manfrini Farné, più nota come Luisa Ferida, nasce a Castel San Pietro Terme, vicino Bologna. La Ferida è una delle attrice più rappresentative del Ventennio Fascista. Esordisce nel 1935 con “Freccia d’oro”, ma arriva al grande successo di pubblico con “Un’avventura di Salvator Rosa”, per la regia di Alessandro Blasetti. Sul set del film, la Ferida conosce Osvaldo Valenti, anche lui attore, anche lui legato a doppio filo a Mussolini e al regime. Nel 1944, durante la Repubblica Sociale Italiana, Ferida e Valenti sono fra i pochi divi del cinema ad accettare di lasciare Cinecittà per il Cinevillaggio che il Duce ha costruito a Venezia. Nel 1945, i partigiani catturano i due attori e li processano per collaborazionismo. Il 30 Aprile, a 31 anni, la Ferida viene fucilata, insieme al suo compagno. (da www.raistoria.rai.it)

48


capitano e la liberazione dei prigionieri presi al mulino. Lo scambio non avvenne mai, ma l’intervento di persone molto influenti, Monsignor Leone Giacomo Ossola e il professore Pietro Fornara, fecero sÏ che, dopo dieci giorni di sevizie e sofferenze, i trentasette ostaggi caltignaghesi fossero lasciati tutti liberi. Era il 21 aprile 1945: dopo cinque giorni la Liberazione! Hanno fatto le interviste: Anna Crivellin, Fiorella Bosi, Mirella Pantaleo, Paola Assali, Giampiera Fonio, Giovanna Salmoirago, Laura Curti, Rita Mottino, Velide Guandalini Hanno raccontato: Anna Maria (pr. Rovigo) Elda C (pr. Vercelli) Maria P (Maggiora) Filomena M (Vercelli) Piera D (Vespolate) Giuliana S (Gemme) Pierina R (Novara) Piera P (Novara) Solima (pr. Rovigo) Maria B (Novara) Wanda T (Portotolle) Anna L (Lanciano) Santina (Novara) Maria P (Pontremoli) Ercolina G (Iesolo) Emilia p (Novara) Tina B (Cremona) Angela T (Arona) Avadina D (Vespolate) Eva (Genova) Elena C (Milano) Maria C (Bellinzago) Maria T (Novara) Pasqualina N (Novara) Elvina G (pr. Ferrara) Angela V (Novara) Lina F (pr. Rovigo) Maria Rosa B (Novara)

49


50


TERZO CAPITOLO

Storia di Orlando: Partigiano, Novarese, Resistente A tutti quelli che hanno creduto nella libertà e ancora resistono.

C’era un ragazzo di nome Orlando. Aveva 17 anni e faceva il partigiano… Un’altra storia della Resistenza? Adesso? Dopo più di sessant’anni! Ebbene, sì. Proprio adesso, poiché “viviamo davvero in tempi bui”, sull’onda dilagante di un revisionismo che nega, o sminuisce, o si appropria indebitamente di una pagina di storia. Quella storia appartiene a noi, ci identifica, e ha contribuito a creare quel poco o tanto di democrazia che qualcuno vorrebbe di nuovo ridurre a brandelli. Orlando ci ha ricevuti nella sua casa, in una sala piena di libri e di quadri, tutti dipinti da lui: ritratti della moglie, dei figli, dei nipoti, e un bell’autoritratto, che lo rappresenta col microfono in mano, mentre parla ad un gruppo di compagni dello SPI, riuniti nella piazzetta davanti a casa sua… Orlando racconta e ricostruisce puntuale la storia di un bambino, di un ragazzetto che diventa grande con la guerra partigiana e che a poco a poco acquista la coscienza politica e sindacale che lo accompagnerà tutta la vita. Orlando nasce a Quarna di Sotto (Novara) il 23 maggio 1926, da una ragazza-madre cacciata di casa dai fratelli per la vergogna. Dei primi anni, ha pochi ricordi: la nonna materna, maestra elementare, il nonno molto più anziano di lei, il marito della mamma, un uomo generoso (dati i tempi!) che ha scelto per lui il nome Orlando, in onore dell’ariostesco paladino delle cui gesta era avido lettore, i paesi, le cascine in cui la famiglia si spostava di San Martino in San Martino… Prima elementare. Loro abitavano ai Funtanasci, un luogo ben lontano dal paese, la scuola era nel castello, nel centro del paese, quando nevicava o pioveva, cioè quasi sempre, Orlando non andava a scuola. I suoi voti erano pessimi, tranne quello in condotta, visto che stava sempre zitto, e il piccolo viene bocciato. Ma non è questo il dramma. La mamma resta vedova, si risposa, nascono altri bambini e la famiglia si trasferisce a Novara, alla Bicocca. Ora Orlando può frequentare la scuola, anzi le scuole, poiché passa attraverso quasi tutte le elementari di Novara. Finisce la quinta, la maestra vorrebbe che lui continuasse gli studi, ma come si fa? I bimbi in casa sono 51


ormai quattro, la vita è durissima, la disoccupazione pesante. Orlando ha appena 10 anni, nel 1936, ma di quell’anno ricorda che la Wild lavorava solo tre giorni la settimana. La storia del secondo marito della mamma rappresenta bene l’epoca: nel 1917 ha 18 anni e deve partire per la guerra, la Grande Guerra!, ma scappa, lo prendono e lo processano a Gaeta per diserzione. L’alternativa che gli offrono è: o la Compagnia degli Arditi, o il muro. La scelta è ineluttabile. Il giovanotto va in guerra, insieme agli altri Arditi a cui viene dato da bere molto Pernod per indurli a combattere; viene ferito alla schiena dove gli restano conficcate sette schegge. Gli assegnano una pensione di invalidità, che Mussolini farà togliere nel 1926, perché gli ex disertori non la meritavano, anche se in guerra c’erano stati. Sarà anche questa una delle tante ingiustizie su cui dovrà riflettere il ragazzino Orlando? Tornando alla nostra storia, abbiamo già detto che la vita è assai dura: il capofamiglia, che Orlando chiama secondo papà, fa lavori vari e saltuari e quindi anche il ragazzo deve darsi da fare, accettando quel che c’è. Una fabbrica di armadi, poi un’officina meccanica, dove c’era una squadra di “sbavatori”. Questo è un lavoro pesantissimo e consiste nel grattare via con scalpelli o quant’altro la bava di metallo in eccedenza, dopo la forgia. Orlando lo fa, ma con la promessa di essere promosso ad apprendista meccanico. Di sera frequenta l’Istituto Tecnico “Omar”, dove c’erano vari corsi di specializzazione; lui dal 1940 al 1943 segue i corsi di aggiustatore meccanico e disegnatore. In questi anni la guerra entra di prepotenza nella vita di tutti, quando Mussolini il 10 giugno 1940 dichiara guerra alla Francia che si è appena arresa alle truppe naziste. Un episodio tra i tanti, che segna la formazione di Orlando. Siamo nel 1941. Il Podestà Meriggi arriva in fabbrica e tiene un comizietto per indurre gli operai - 100 in fonderia e 40 in officina - a seguirlo in piazza, dove gli altoparlanti trasmettono l’annuncio dell’ingresso dell’Italia in guerra contro l’Unione Sovietica. Il Duce fa il suo discorso; la piazza gremita, al grido unanime “O Mosca o morte!”, applaude vigorosamente. Orlando, preso da entusiasmo, pure. Ma accanto a lui c’è un compagno, socialista di vecchia data, che gli dice in dialetto: “Questo qui ci manda tutti in malora, l’hai capito o non l’hai capito? Perché questa è la disgrazia che abbiamo!” e gli pesta violentemente un piede, tanto che il battimani si trasforma in urlo di dolore. Da quel momento ad Orlando si “tolgono le fette di salame dagli occhi”. In fondo, che ne sa lui di fascismo e antifascismo? Comincia ad interrogare il patrigno, che aveva lavorato in Francia dove, diceva, gli operai francesi consideravano male il fascismo: in più, nel 1932 o nel 1933, in occasione di una venuta di Mussolini a Novara, era stato tenuto dentro per quattro o cinque giorni. In altre parole, era considerato un antifascista, non aveva mai preso la tessera e per questo era sempre rimasto un lavoratore precario.

52


Sono questi dal ’40 al ’43 gli anni in cui Orlando costruisce la sua carriera di operaio, tra la consapevolezza di essere bravo e quel sogno di fare il meccanico. E finalmente, dopo varie esperienze che ci racconta dettagliatamente, entra alla Sant’Andrea, grazie alla raccomandazione di Don Ponzetto. Era quest’ultimo un prete sui generis, tutto dedito all’aiuto dei più poveri, con ogni mezzo, anche ai limiti del lecito. Orlando lo frequentava perché dai Salesiani si poteva giocare a pallone e la domenica, se si faceva la comunione, si riceveva un panino con la bologna (!). Orlando ricorda con un sorriso alcune gesta, di cui è stato compartecipe. Una volta hanno rubato i materassi del Convitto; il sacerdote li buttava dalla finestra, Orlando li caricava su un carrettino a mano e li portavano ai baraccati che stavano in Piazza d’Armi. Ancora ai baraccati l’infaticabile Don portava la luce elettrica: lui reggeva la scala di legno, Orlando tagliava i fili attorcigliati, uno per volta, e coi 50 metri di filo così ottenuto faceva un bell’impianto per i suoi protetti, rubando la corrente dai fili vicini. La guerra è sempre di più una sequela di sconfitte tragiche. Per tutte, basti il ricordo della Campagna di Russia, del terribile ritorno a piedi, nella morsa del gelo e della fame, ricordo ben vivo, dopo anni ed anni, nelle parole dei pochi sopravvissuti. Siamo ormai nel 1943, l’anno dello sbarco in Sicilia degli Alleati e della caduta di Mussolini, a luglio. Ora lo sfascio è totale, il disorientamento di tutti anche. Orlando ricorda il coprifuoco, il divieto di fare riunioni di più di tre persone, le pagine bianche imposte ai giornali. E arriva l’8 settembre. Tutti i Novaresi, e non solo loro, erano convinti che la guerra fosse finita e, davanti alle truppe tedesche che minacciavano l’occupazione di fabbriche, caserme, città, chiedevano armi che non c’erano. Il 9 settembre entrano i Tedeschi a Novara, con le camionette, i sidecar, gli autoblindo, da Corso Torino e da Corso Milano, e occupano l’istituto Santa Lucia. Le caserme sono vuote, i soldati scappati, gli ufficiali senza ordini; i Cavalleggeri sono morti quasi tutti in Russia, dove lanciavano cavalli contro i carri armati. I civili invadono le caserme e portano via tutto quello che trovano. Davanti alla Perrone c’è Orlando con un suo amico e un compagno di Cerano, Giuseppe Ubezio anche lui di 17 anni, lavoratore delle Poste. Arrivano due tedeschi in sidecar, Giuseppe ha qualcosa in mano (una ricarica di fucile, si disse poi); i due scendono, lo spintonano contro il muro e gli scaricano addosso una mitraglietta. Quel ragazzo diviso in due Orlando non l’ha ancora dimenticato. Dappertutto c’è confusione, c’è paura, ci sono di nuovo le squadracce in azione. In fabbrica, nonostante la direzione filofascista e il controllore tedesco, gli operai riescono a sabotare la produzione, facendo male ad arte le macchine utensili. Alcuni, noti come antifascisti, vengono arrestati. Il Comitato antifascista, presente da tanto tempo, ora diviene segreto, ma molti conoscevano i nomi dei suoi componenti.

53


Orlando stesso è ben noto, perché impegnato nel distribuire volantini, per sollecitare la ribellione, o almeno la non-collaborazione.1 Coi primi arresti in fabbrica, tutti gli antifascisti dell’arco costituzionale cominciano ad avere paura e così si decide che Orlando, che li conosceva tutti, deve andare in montagna: un suo arresto è troppo pericoloso; giovane com’è, i mezzi per farlo parlare i fascisti li avevano, e come! Così il ragazzo con un dirigente del PCI sale al Briasco, un monte di 1100 m sopra Celio - sopra Borgosesia. Vanno in trenino fino a Roccapietra, dove c’e il contatto. Segno di riconoscimento, “La Domenica del Corriere” aperta sulla pagina illustrata dal Beltrami. Apre il giornale, un altro ragazzo apre il suo alla stessa pagina. Parola d’ordine: ”Mi manda Giovanni”. E’ lui! Si sale a piedi al Briasco, da Roccapietra, tra paesi noti. Il ragazzo che accompagna Orlando ha un anno più di lui e si chiama Gaspare Pajetta, quasi costretto a diventare partigiano dal fratello Giancarlo. Gaspare morirà pochi mesi dopo, a febbraio del 1944 , a Megolo. I due giovanotti fanno amicizia, nel gruppo di 47 elementi guidato da Moscatelli, Commissario politico, e Gastone, Comandante militare (Cino e Ciro!). “Lì ho sperimentato i primi germogli di democrazia - dice Orlando - tutto veniva deciso insieme: le proposte venivano fatte dai più vecchi antifascisti, ma ognuno poteva dire la sua”. Il gruppo fa capo ad un’organizzazione capillare che, in particolare nella Bassa Lomellina, con l’aiuto dei contadini nascondeva moltissimi ex-prigionieri alleati, di tutte le nazionalità. Moltissimi di loro volevano passare il confine con la Svizzera e tornarsene a casa e in questo erano aiutati dai partigiani in collaborazione con gli Spalloni (cioè i contrabbandieri) espertissimi conoscitori di ogni passaggio. In certi periodi su al Briasco c’erano anche 150 / 200 persone da “traghettare”. Vita da partigiano: contatti tra un distaccamento e l’altro, ricerca di vettovaglie, trasferimenti… E un ricordo che fa male. All’inizio del ’44 due partigiani tra i più bravi, coraggiosi e più attrezzati militarmente, Livio e Tom, rapiscono Moscatelli. Lo sgomento è grande, nessuno capisce perché né dove l’abbiano portato. Pochi giorni dopo Moscatelli viene ritrovato e i due arrestati e processati. Tutto il raggruppamento è convocato e costituisce la giuria. Si chiede la condanna a morte. Gaspare Pajetta, appena rientrato da Omegna, dice di volersi astenere perché vorrebbe capire di più; Orlando un po’ per amicizia un po’ perché neppure lui conosce bene tutta la vicenda, ha la stessa posizione, ma Eraldo Gastone si arrabbia terribilmente coi due ragazzi: “Non avete capito un tubo! Questo reato in tempo di guerra è gravissimo e 1 Il suo riferimento è il PCI di Leonardi, tornato dal confino. Leonardi sarà arrestato alla Cascina Aurora, dove allevava polli e spedito a Mauthausen. Orlando ricorda le riunioni difficili, nella cantina della trattoria Scalo Nord, ma bisognava tener viva l’attenzione, elaborare la propaganda antifascista…

54


non ci può essere spazio per le esitazioni”. La fucilazione è decisa all’unanimità. Di quel pomeriggio di gennaio, alle cinque, col sole che illuminava il pianoro col fossato di cemento, Orlando ricorda la dignità con cui i due hanno diviso l’ultima e unica sigaretta e sono caduti senza fare una piega. “Ma io non ho voluto far parte del plotone di esecuzione” dice con la voce che un po’ gli si incrina, e non vuole scegliere nessuna delle molte spiegazioni che si son volute tentare dello strano rapimento. Ce le dice tutte, però. Il racconto torna sui più tranquilli, si fa per dire!, binari della quotidianità partigiana. Una quotidianità che a noi sembra quasi una leggenda, ma che lui racconta senza enfasi, con un sorriso ogni tanto, forse per sdrammatizzare gli eventi o forse per farci capire che non c’era niente di eroico nell’agire dei partigiani, che loro facevano solo la cosa giusta, come conseguenza di scelte già fatte o pensate prima. Ci si nasconde nei boschi per sfuggire ai rastrellamenti; si cammina tanto, di notte, per cambiare posto, per dormire almeno ogni tanto al coperto, in un casone magari. Freddo. Fame. Paura. La notte attraversata dagli spari. Paesi incendiati. Abitanti impiccati. Bisogna andare in ricognizione. Avvisare i compagni del pericolo. Bisogna fare la guardia. Aspettare il cambio. E quando il cambio non arriva? Il racconto si infittisce di luoghi: Grignasco, Varallo, la Cremosina, Castagnea, Cavagliano, i boschi della Cacciana, la Cascina Bindilina, il Fenera, la Madonna del Sasso, S. Maurizio d’Opaglio… Alla Bocchetta della Valle Strona ci sono due metri di neve e tanto freddo (-10° quando fa caldo e -15° quando fa freddo). Personaggi sbucano dalle storie, pronti ad entrare anche loro nel mito: il Rosso, il Ranghin, l’uomo col passamontagna che poi era un ex generale dell’esercito, Pesgo il panettiere, capo della Brigata Osella, Luciano, libero di circolare perché mutilato di guerra e congedato, il “calzolaio” siciliano, che vuole andare contro i carri armati con le bottiglie Molotov e viene immediatamente ammazzato dai tedeschi… Ancora fame, fame, fame; il pentolone di risotto sbranato in un attimo, dopo tre giorni di digiuno, da Orlando e tre suoi compagni che ne chiedono subito un altro alla signora che glielo aveva preparato e che li aveva pure rivestiti tutti e quattro. Ma lei aveva avuto il marito sul fronte russo. A volte si prendono degli abbagli che si pagano cari. Una volta, Orlando era di pattuglia su di una montagnola nei pressi di Gozzano con altri otto partigiani. Uno scende a vedere come mai non arrivano i rifornimenti aspettati. Poco dopo appaiono due autoblindo, precedute da uomini che parevano vestiti da partigiani. Sono i nostri! (da giorni circolava la voce che fossero stati sequestrati appunto due autoblindo). Gli otto si sporgono per vedere meglio, ma dietro gli autoblindo ecco un sacco di elmetti fascisti… e cominciano a sparare contro i partigiani ormai usciti allo scoperto. Sette scappano a rotta di collo, anche Orlando arraffa la coperta che si portava sempre a tracolla e si butta a correre, fino ad Ameno. Ma lì è tutto occupato dai 55


fascisti. Deve quindi salire al Mottarone per poi ridiscendere. Ancora tre giorni senza mangiare. Quando finalmente arriva in un paese coi negozi aperti chiede un panino col burro, e lo paga coi “buoni con su Garibaldi”, i buoni che si sarebbero dovuti rimborsare dopo la Liberazione, ma al primo boccone rimette tutto, tanto la fame arretrata gli aveva ristretto lo stomaco. E la guerriglia, perché di guerriglia si tratta, continua, anche dopo il gennaio del ’45 quando il Generale Alexander proclama il rientro dei Partigiani. Ma le Brigate Garibaldi non ubbidiscono, anche perché si univano a loro in montagna sempre più giovani, e i “lanci” alleati procuravano armi sempre migliori. Ancora qualche ricordo. A gennaio del ’45 Orlando, nominato Commissario politico col nome di battaglia Memo, è in missione nel territorio di Mortara. Percorre in bicicletta, di notte, strade di campagna coperte di neve. La bici scivola, lui cade e si rompe malamente il femore. I suoi due compagni lo caricano in spalla urlante per il dolore e lo portano in una casa, dove resta per tre giorni disteso su un tavolaccio. ”Mi sono morti tutti i pidocchi dalla febbre che avevo!”. Finalmente arriva in bicicletta il medico capo del Reparto di Pediatria dell’Ospedale di Novara e lo ingessa. Ma serve una radiografia. Lo portano a Palestro all’Ospedalino, dove il medico gli regala anche due pacchetti di sigarette “Africa orientale italiana”. All’uscita li aspettano quattro brigatisti neri: vogliono rompere il gesso per verificare che non ci siano ferite di arma da fuoco. Ma uno dei compagni di Orlando garantisce che non è così: hanno trovato il poveretto per strada, caduto dalla bici, col femore rotto, l’hanno fatto curare. I militi devono credergli, perché lui ha la tessera del Partito Fascista Repubblicano, e la mostra. Il compagno era il Luison, uno che girava con una Balilla a tre marce, e per avere libertà di movimento doveva possedere le giuste credenziali (!). Non è finita. La gamba per guarire deve essere tenuta in trazione, all’Ospedale Maggiore di Novara. Orlando ha bisogno di documenti falsi; li avrà e col nome di Varini Pietro da Confienza sarà ricoverato e affidato alle cure del dott. Lampugnani e del dott. Busti, amici dei partigiani. Al Maggiore c’è anche Luciano, uno dei compagni di Orlando, nel frattempo trovati e pestati dai fascisti; Luciano, ferito alla pancia e molto mal ridotto è ricoverato in una stanza con le sbarre poiché appena si rimetterà, ma i medici continuano a dire che le sue condizioni restano gravi anche quando non è più così, sarà processato a Torino; per questo minaccia ogni giorno di suicidarsi. Bisogna salvarlo. Ancora una volta risolve le cose il Luison: il 30 di marzo arriva in autoambulanza, preleva Luciano e pure Orlando. Le due guardie, l’Uberti e il Belotti, due pugili dilettanti, si mettono a piangere disperati e così il Luison porta via anche loro. Il giorno dopo tutti i medici del Reparto di Chirurgia ed il primario prof. Fornara sono arrestati e trattenuti per due giorni, poi rilasciati per mancanza di prove. Orlando resterà nascosto a Cavaglio fino al 23 o al 24 aprile in una cantina predisposta. Il 24 aprile Andrei, comandante della Nuova Brigata Pizio Greta, chiede ad Orlando che 56


conosce bene le strade e i paesini di guidarlo a Novara; così entrano gloriosi al Torrion Quartara, con una jeep rubata ai tedeschi, con tanto di mitragliatrice tedesca da 2000 colpi al minuto. I fascisti erano spariti tutti il giorno prima. Il 26 aprile i tedeschi invitati da Monsignor Ossola, Vescovo di Novara, cui il Comando partigiano aveva chiesto la mediazione in una trattativa, firmano la resa condizionata. Si arrendono, ma consegneranno le armi solo alle truppe alleate. La guerra è finita, ma non ancora per Orlando, impegnato in nuove avventure. Il 29 viene mandato a Castellazzo, dove dal 25 aprile c’erano i fascisti di Vercelli col loro prefetto, 1700 in tutto. I partigiani li circondano in 500 e quelli si arrendono, più che altro per fame, e vengono convogliati allo Stadio di via Alcarotti. Quando i partigiani stanno per salire sui loro sette camion, arrivano dall’autostrada per Milano due cacciabombardieri alleati, si abbassano, Orlando fa in tempo ad urlare “Tutti nel fosso che arrivano i nemici!”. I sette camion sono tutti bruciati dal “fuoco amico”, nonostante avessero i contrassegni stabiliti via radio per non essere mitragliati (la bandiera tricolore con la stella bianca a cinque punte in mezzo). A Novara coi prigionieri si va a piedi. Il 30 aprile ad Orlando viene dato l’ordine di raccogliere le bombe disinnescate abbandonate sulla strada da Borgomanero a Novara. Dopo Cressa, il motofurgone esce di strada, Orlando cade, picchia la testa su un paracarro, rotola nella riva, il cassone del motofurgone gli cade addosso e gli si rompe di nuovo il femore sinistro. Dopo l’Ospedale militare, il 15 luglio Orlando si presenta in fabbrica per essere riassunto. Tornerà al lavoro dopo agosto. “Questa è stata la mia Liberazione. Tre giorni. Ho visto tre giorni la Liberazione. E basta” Qui finisce il racconto di Orlando. Ma Roberto ha ancora un paio di domande che toccano i nodi più dolenti della questione fascismo e antifascismo. Le ragioni dei partigiani sono chiare e si riassumono nel desiderio di libertà maturato dopo tante vessazioni piccole e grandi. Ma gli altri italiani erano proprio tutti fascisti? E i fascisti in che cosa credevano? perchè combattevano? La risposta di Orlando è pacata: fascisti veri erano gli squadristi e i brigatisti neri, quelli che volevano continuare a fare il gradasso con i più deboli. La stragrande maggioranza degli italiani dopo l’8 settembre credeva solo nella fine della guerra. Solo quella aspettava e non certo le miracolose armi tedesche, come dice qualche storico. Quanto a chi aderiva alla Repubblica di Salò, Orlando è certo che fosse motivato solo dalla paura, per sé e per i propri genitori, e dalla convinzione, suggerita dai manifesti appesi ovunque, che i partigiani erano affamati e quindi avrebbero respinto chi avesse voluto raggiungerli. Altra domanda: è servita davvero la Resistenza? O sarebbero bastati gli alleati a liberare l’Italia, come si tenta di dire? Anche su questo Orlando non ha dubbi. Gli angloamericani avevano bisogno di un efficiente servizio di informazione nel Paese, e questo era ben rappresentato dai partigiani. 57


Avevano inoltre bisogno della guerriglia per creare piÚ difficoltà possibile a tedeschi e repubblichini: basti pensare che nel solo Piemonte una intera divisione tedesca di 12.000 uomini comandati dal Generale Kesserling era tenuta lontana dal fronte. Ma a dar credito alla nostra guerriglia erano soprattutto gli Americani, che lanciavano armi efficienti. Gli inglesi, col primo lancio in grande stile, avevano mandato metri e metri di micce, plastico, fucili ’91, sten 100, sigarette e‌ saracche! Hanno redatto il testo della ricerca: Paola Assali Franca Crivellin Patrizia Martini

58




Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.