Una stagione d'acqua

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Una stagione d’acqua Emanuele Rosso

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Una breve introduzione

“Una stagione d’acqua” è una raccolta di racconti scritti tra gennaio e luglio 2012. I racconti sono nati per essere letti, come dei piccoli radiodrammi, durante le puntate di Questa è l’acqua, trasmissione andata in onda settimanalmente sull’emittente Città del Capo - Radio Metropolitana di Bologna. Insieme alla trasmissione è nato anche un blog dove nel corso dei mesi ho pubblicato i singoli brani (emanuelerosso.blogspot.it). Per questo nella pubblicazione della qui presente raccolta mi è sembrato più naturale mantenere lo stesso ordine cronologico inverso. Questa è l’acqua deve il titolo al discorso tenuto nel 2005 da David Foster Wallace al momento del conferimento delle lauree ai giovani studenti del Kenyon College in Ohio. Il discorso inizia con un brevissimo racconto emblematico: «Ci sono due pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?” I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa “Che cavolo è l’acqua?”», ed è con questo preambolo che io stesso ho dato il via a ogni puntata della mia trasmissione radiofonica. I racconti che ho scritto sono almeno in parte le mie riflessioni su cosa sia l’acqua. Di conseguenza la raccolta che avete sotto gli occhi non poteva che essere dedicata a David Foster Wallace e a tutti colori che senza saperlo, nuotando nel mio stesso acquario, mi hanno aiutato nella scrittura di questi racconti.

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Il finale è a sorpresa

Giulia si stava annoiando. No, “si stava annoiando” forse non era l’espressione giusta. A vederla lì, seduta sul letto, in maglietta e mutandine, col ventilatore sparato in faccia e col portatile ormai bollente appoggiato sulle lenzuola di fronte a lei, certo avrebbe potuto sembrare in preda all’uggia. Giulia stava immobile, anche il respiro era rallentato nel tentativo di sudare il meno possibile. Per combattere doveva non combattere. Non sempre però riusciva a trattenersi dallo sbuffare. Le gocce di sudore erano il suo nemico numero uno. Piuttosto sembrava ipnotizzata da se stessa. Mentre fuori di lei il caldo parlava, la avvolgeva, riempiva ogni centimetro cubo di spazio, incancrenendosi nelle piccole intercapedini tra la pelle e gli indumenti che aveva indosso, dentro un guazzabuglio di pensieri si agitava in maniera scomposto, e la agitava. Le stava sudando il cervello, ecco cos’era che sudava e non poteva farci nulla, quasi riusciva a percepire le goccioline che scendevano lungo la corteccia cerebrale. La maionese impazzita. Non sapeva neanche cosa fosse davvero, o come potesse impazzire la maionese, ma le pareva che quel modo di dire sentito chissà dove descrivesse perfettamente lo stato delle cose al momento. La sera prima aveva fatto un danno. O forse no? Non lo sapeva. Era questo il punto. Non lo sapeva. E non c’era modo di saperlo. Poteva solo aspettare. Ogni tanto buttava un occhio sul cellulare. Da lì sarebbe giunta la risposta, se mai fosse giunta. Come sempre, all’origine di tutto, un sms. All’origine o alla fine? Alla fine della serata, all’origine del problema. Che poi, a voler essere onesti, la colpa non era neppure del tutto sua. Ci si era messo anche il vecchio scassone di cellulare che si portava dietro da anni. Si stava odiando per l’affetto che nutriva per quel reperto che sembrava provenire da una lontana era geologica, tecnologicamente parlando. Perchè non era passata a uno smartphone, come tutti? Già troppe domande senza risposta. Il suo

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amato cellulare aveva un grosso limite, ben oltre l’assenza di una fotocamera, dell’impossibilità di potersi collegare a internet e via dicendo. Non permetteva di salvare i messaggi inviati. Faceva finta di non ricordare che tutta la (poca) memoria del telefono era occupata da messaggi ricevuti e salvati nel corso degli anni e delle relazioni passate. Perchè mai poi uno dovrebbe salvare i messaggi inviati? Tanto una volta inviati sono inviati, e se fossero stati bei messaggi, ci avrebbe pensato il ricevente a salvarli. Ora capiva il perchè. Non importa tanto il contenuto, cioè sì, ma non importa quanto il destinatario. Specie se si fanno le cose in automatico senza riflettere su quello che si sta facendo, senza fermarsi un attimo a pensare. Oppure se si pensa troppo, al punto che si annebbia la vista. Giulia aveva un dubbio atroce: a chi lo aveva mandato, quel messaggio? C’erano pure buone possibilità che fosse arrivato correttamente a destinazione, eh. Ma c’era pure il tarlo nel cervello che, a parte farla sudare, le diceva che no, che invece l’aveva mandato alla persona sbagliata. E si sa che spesso i tarli c’azzeccano. È che Enrico e Francesco, nella rubrica del cellulare, stavano vicini, praticamente attaccati. Nessun Erica o Filippo a dividerli. Giusto una Fabiola con cui, per inciso, non si sentiva da anni. Non avrebbe potuto salvarli come “A” e “Z”? Erano così diversi che la scelta non avrebbe fatto una grinza, anche metaforicamente. Nella propria vita aveva inviato messaggi ben più compromettenti di questo (eh, se lo aveva fatto... Le veniva da ridere al pensiero), ma questo era compromettente nel peggior modo in cui poteva esserlo, e finiva per inguaiare non una, non due, ma ben tre persone, lei compresa. Da quanto conosceva Enrico e Francesco? Abbastanza poco, in realtà. Non poteva neanche dire di conoscerli sul serio. Un triangolo nato quasi per caso. Compagnie di amici che si incrociano, poi la selezione naturale fa il suo corso, e se le maggior parte delle volte sono i rapporti di vecchia data a prevalere, alle volte succedono strane e misteriose alchimie che generano nuove dinamiche. Fatto sta che ora si vedevano e si sentivano praticamente tutti i giorni. Sul vedersi, nessun dubbio, si vedevano, tutti e tre. Sul sentirsi il discorso era un po’ più complicato: Giulia e Francesco erano perennemente in contatto, mentre Enrico andava un po’ a ruota, facendosi trascinare dalla corrente. Enrico non si esprimeva mai su cosa volesse davvero. Alle volte sembrava che si unisse agli altri due quasi per dovere, per non spezzare l’equilibrio di quel triangolo. A Giulia piacevano entrambi, Enrico proprio per il suo essere taciturno, quasi scorbutico ma con la battuta sempre pronta,

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Francesco per il senso dell’ironia più estroverso, per la sua sensibilità e per le attenzioni che le dedicava. Il primo era in grado di stare un’ora senza proferire parola, il secondo nello stesso tempo avrebbe potuto raccontare dieci romanzi. Il punto è che non le piacevano allo stesso modo, e più passava il tempo più ne prendeva coscienza. La sera prima, quella maledetta sera, anzi no, non maledetta, la serata in sé era stata pure carina, maledetto il dopo, i tre si erano dati appuntamento al solito bar. Non c’era mai troppa gente, il proprietario li aveva presi in simpatia, e il resto lo facevano i tavolini all’aperto, in un cortile interno in cui misteriosamente circolavano delle correnti d’aria che mitigavano il caldo torrido di quei giorni. Come sempre Enrico era giunto con un abbondante ritardo rispetto all’orario stabilito. Giulia lo odiava per i suoi ritardi. Possibile che non gliene fregasse niente? Che avesse sempre qualcosa di meglio da fare da cui non riusciva a staccarsi? Lo odiava pure per un sacco di altre ragioni. Prima fra tutte per come la guardava. Come la guardava? Non lo sapeva. Non riusciva mai a intuire cosa gli passasse per la testa. Era illeggibile per lei, che si considerava infallibile alla stregua del protagonista di quella serie tv americana dove un team affiliato alle forze dell’ordine deve scoprire chi mente e chi no. Giulia e Francesco stavano chiacchierando, Francesco la faceva ridere raccontando aneddoti di quando era bambino e ciccione, e non sapeva andare in bicicletta. Giulia quella sera aveva capito anche un’altra cosa. Francesco aveva una cotta per lei. L’aveva sempre sospettato ma, senza sapere bene perchè, ora era diventato evidente. Non poteva negare che la cosa la lusingasse. Rileggendo in questa chiave gli ultimi inviti, le uscite, le conversazioni, capiva anche che tutta la loro recente amicizia si fondava su questo ingombrante “tra le righe”. E qual era il “tra le righe” di Enrico? C’era un “tra le righe”? Non poteva credere che uscisse ogni volta con loro con l’intenzione di fare il reggitore di moccoli, la spalla comica, o il supervisore silenzioso. Doveva esserci dell’altro. Quanto poteva ancora reggere quella dinamica, tra i tre? Non molto a lungo. Ma aveva paura che lasciate a se stesse, le cose non si sarebbero evolute nella direzione che si auspicava. Bisognava prendere in mano il pallino del gioco. Non avrebbe dovuto farlo lei, lei era la femmina, ma quante possibilità c’erano che i due si affrontassero in un duello all’arma bianca e che vincesse il suo preferito? Non che le piacesse essere considerata la posta in palio, a meno che la sfida non fosse truccata o decisa preventivamente a tavolino.

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La serata trascorse secondo le ormai consolidate dinamiche, e se anche ci fossero state rivoluzioni all’orizzonte, era chiaro a Giulia che non si sarebbero innescate quel giorno, a meno che lei... Si era fatto tardi, e arrivò il momento dei saluti. Nessuno dei tre abitava nello stessa zona della città, e ogni volta che si lasciavano prendevano direzioni diverse. Tra Enrico e Francesco intercorse il solito cenno della testa, un classico gesto di complicità maschile, o forse solo la constatazione che non c’era bisogno di saluti più elaborati, tanto con ogni probabilità i due si sarebbero rivisti l’indomani. Poi toccò a Giulia, che, come faceva sempre, strinse in un abbraccio e baciò sulle guance prima uno e poi l’altro, dedicando a queste azioni un tempo lunghissimo, come se volesse dare la massima importanza a ogni istante. Sembrava l’ultimo saluto a due condannati a morte, che poi puntualmente resuscitavano. Solo che stavolta strinse uno dei due un po’ di più, e lo baciò più vicino alle labbra. Niente di eclatante, ma un occhio attento se ne sarebbe accorto. Lei sperava che lui se se fosse accorto. Poi si dissero “ciao”, e ognuno prese la propria strada. Ma Giulia non era soddisfatta. Doveva fare qualcosa. Doveva rendere evidente quello che l’abbraccio da solo non poteva dire. Sentiva di dover cambiare le cose prima che quell’equilibrio diventasse una gabbia da cui fosse impossibile scappare. Stava camminando con piccoli passi svelti, quasi aveva il fiatone. Prese il cellulare dalla borsa, e sull’onda concitata del ragionamento digitò il messaggio, e lo inviò. Furia cieca. Anche di quest’espressione capì la portata solo quando era troppo tardi. Così cieca e definitiva che non aveva fatto in tempo a vedere a chi lo aveva mandato. Aveva vinto l’automatismo? Il subconscio? La volontà? Enrico o Francesco? Non lo sapeva. Il pollice era stato troppo veloce. Giulia se ne stava ancora immobile, seduta sul letto. Non sapeva quanto tempo fosse passato. Forse un minuto, forse un’ora. Il telefonino taceva ancora. La suoneria che aveva scelto per i messaggi ricevuti non le piaceva granchè ma era l’unica melodia che avrebbe voluto sentire in quel momento. Faceva così caldo che neanche grilli e cicale riuscivano a produrre suono. Perchè non rispondeva? Uno dei due, qualsiasi cosa andava bene. Qualsiasi. In un senso o nell’altro, almeno avrebbe capito. Si lasciò cadere all’indietro, finendo per rimbalzare leggermente sul materasso. Le lenzuola si alzarono intorno a lei in uno sbuffo, per poi afflosciarsi come un paracadute dopo

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l’atterraggio. Sorrideva, anzi ora le veniva proprio da ridere. Non le importava che le contrazioni dei muscoli facciali e addominali l’avrebbero spinta a sudare di nuovo. Sudava e rideva, pensando a quanto fosse cieco quel nuovo sentimento e cieche le azioni che ne erano derivate. Fu allora che il cellulare trillò. (2 luglio)

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Il reato più grave

- Calma, calma. Ricapitoliamo. - Come, ricapitoliamo? Ancora? - Ricapitoliamo. Lei è qui per...? - Denuncia! Sporgere denuncia! - Stia calmo. Una parola alla volta. - Ma è già la terza volta che- Bisogna seguire la procedura. Devo verbalizzare. - Ma non poteva farlo subito? - Una parola alla volta. Con calma. La tastiera ha i tasti piccoli. - Sì, ma... - Con calma. - Ok. - Bene. Il qui presente... - Ramirez. Tuco Ramirez. - Nazionalità? - Italiana. Sono italiano. Non si faccia confondere dal nome. - Bene. Lunedì 2 luglio. Ore... 11.34. Il qui presente Tuco Ramirez, di nazionalità italiana, è qui per... - Sporgere denuncia. - Sporgere denuncia contro...? - Eh, non lo so, non conosco il nome. Magari. Anzi, sono qui proprio per- Sporgere denuncia contro ignoti. - Ecco, voi non potete, per caso? Il nome? Il numero di telefono? - Si attenga ai fatti. - Ok. - Ricapitoliamo. - Mmmmmm... Ieri sera ero a- Dov’era? A che ora? Con chi?

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- Mmmrgh. In centro, dopo cena, saranno state le dieci di sera, da solo. Ero da solo. - Così non ci aiuta. Non ci aiuta per niente. Deve essere preciso. - Via Rizzoli. Stavo camminando. Anzi, mi stavo recando in piazza Verdi, in direzione ovest-est, marciapiede lato sinistro, erano le dieci, cinque primi e quarantesette secondi. - Non c’è bisogno di essere sarcastico. Lei lo sa, più riesce a essere preciso più ci aiuta. - Ha ragione. Mi scusi. Ma deve capire... - La capisco, la capisco. È a quel punto che...? - Sì, sì, è a quel punto che. - Bene. Procediamo con la deposizione. - Insomma stavo camminando... - Era distratto? - Cosa vuol dire “ero distratto”? Stavo camminando, sono sempre distratto! Penso ai fatti miei, mi guardo in giro. Ma distratto da cosa, poi? - Non si alteri, la prego. Proceda. - Stavo camminando e mi è passata a fianco. - L’aveva vista arrivare? - No, è apparsa praticamente dal nulla. - Allora lo vede che era distratto. - Non ero distratto! È lei che è apparsa dal nulla, lo giuro. - Mantenga la calma. Me la descriva. - Prima ho sentito il profumo. È stato quello che ha richiamato la mia attenzione. - Che profumo era? - Ma che ne so! Lei sa di uomini che riconoscono i profumi? - No. - Ecco. Lo dicevo io. Comunque era un misto di profumo da donna, dolce, intenso. E di odore di sigaretta. - Eh, se lo conosco quel misto... - Lo conosce? Mi capisce, allora. Mi capisce! - La capisco. Ma continui, prego. - Ho alzato gli occhi. Lei era, come dire, era lì. Camminava, anzi, si stagliava. - Deve descrivere meglio, altrimenti non possiamo procedere con l’identikit.

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- Aveva i capelli scuri, quasi neri. Tagliati corti. Giusto dei piccoli riccioletti ai lati delle orecchie. Altezza media, magra, poco seno. Indossava un vestitino nero, senza spalle, finiva un po’ sopra il ginocchio. Anche gli stivali erano neri. - Segni particolari? Più particolari, magari. - Un tatuaggio che le copriva l’intera spalla sinistra, e che scendeva fino al gomito. Una qualche pianta intrecciata e dei fiori, mi pare. E poi gli occhi. - Cosa avevano gli occhi? Era strabica? - Ma no! Erano neri, profondi. Giganti. Due buchi neri, due vortici. Abbiamo incrociato lo sguardo. È stato a quel punto, credo, che- Come mi diceva prima. - Ecco, sì, come le dicevo prima! - Si è compiuto il reato. - Sì, il reato! - Furto, abbiamo detto. - Mi ha anche sorriso. Un accenno di sorriso, in realtà. I muscoli del viso le si sono contratti appena. Ho visto le punte delle labbra che si sollevavano, però. - Furto aggravato, insomma. - Aggravato, addirittura? - Le leggo il codice. L’articolo 625 del codice penale prevede le circostanze aggravanti... Mi faccia cercare il suo caso... Ecco: se il colpevole usa violenza sulle cose o si vale di un qualsiasi mezzo fraudolento, o anche questo, ancora meglio... Se il fatto è commesso con destrezza! Non si scappa, carta canta. - Ha ragione! È proprio così! - E quindi lei non si è accorto di niente... - No no, io mi sono accorto di tutto. Non sarei qui se no. - E un attimo dopo era sparita, mi diceva. - Mi sono girato e già non c’era più, non so com’è possibile. - E si è reso conto di aver subito il furto. - Sì, subito, immediatamente. - Come? - Lo sa come vanno queste cose. Salivazione azzerata. Respiro mozzato. Sguardo perso nel vuoto. Pensieri che girano su se stessi a velocità folle. - Ha ragione. La sua descrizione non lascia dubbi a riguardo. E perchè ha aspettato così tanto per venire?

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- Non volevo crederci. E un po’ mi vergognavo anche. - Posso capirla. Ma in futuro non abbia timore. Non c’è niente di cui vergognarsi. È successo a tutti prima o poi. Noi siamo qua per questo. - Le prometto che la prossima volta starò più attento. - Ah, non deve prometterlo certo a me. Ricapitolando, il qui presente Tuco Ramirez sporge denuncia contro ignoti per furto aggravato. Furto aggravato di cuore. Segue deposizione del denunciante, e via dicendo. Maresciallo incaricato di raccogliere la deposizione, il sottoscritto Badaloni Guglielmo. - Esatto. - Ora aspetti che stampo il documento, in modo che possa firmarlo. Fornirò anche l’identikit agli agenti di pattuglia, non le prometto nulla, ma sono sicuro che i ragazzi terranno gli occhi aperti. - La ringrazio davvero. Dovete fare il possibile, lo sa, non è tanto per il cuore in sè... - Quello è difficile che lo riabbia indietro. - Lo so, però potessi confrontarmi con la ragazza, forse potremmo risolverla, forse potrei ritirare la denuncia. - Ah, fossero tutti concilianti come lei. Metta una firma qua. - Cerco solo di fare il mio dovere di cittadino. - Arrivederci. - Arrivederci. (29 giugno)

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Il bandolo della matassa

Strano come nella fine, alla fine, tutto riacquisisca senso, assuma il proprio significato, o almeno dovrebbe. È che la fine non la comprendiamo mai, di sicuro non la nostra, di sicuro non subito, sennò tutto sarebbe più chiaro. Spesso neppure c’è, una fine, o se c’è la neghiamo, insomma è un casino bello e buono, fili annodati, trame sfilacciate, matasse senza bandolo, chi ci capisce qualcosa? Ho pure cercato bandolo su internet, proprio adesso, è una bella parola bandolo. Suona bene, riempie la bocca, rimbalza tra denti, labbra e alveoli. Vorrei dire di più ma non ricordo quasi nulla dell’esame di fondamenti di linguistica. Occlusive e fricative, ecco, giusto quelle. E comunque ero curioso dell’etimo della mia nuova parola preferita. Bandolo è il diminutivo di banda, di striscia, e allude al legame. In pratica la parola che sta a significare l’inizio, o la fine, di una matassa di filo è figlia del filo stesso, è proprio un piccolo filo, che però non lega niente, anzi interrompe. Mi sembra che potrebbe esserci dietro qualcosa di metaforico, di profondo, ma mi sa che è troppo complicato da spiegare, e poi io volevo parlare d’altro, e poi dai, avete capito. Luigi l’avevo conosciuto per via del suo lavoro, cioè non proprio conosciuto, anche il nome lo venni a sapere solo dopo, leggendo il giornale. Forse ci eravamo anche presentati, ma io alle presentazioni faccio schifo, sti benedetti nomi non li ricordo mai, come tutti, tutti troppo impegnati a dire il proprio per ricordarsi quello altrui. Che sia una metafora, un sintomo anche questo? Luigi lavorava in banca, allo sportello, e mi era stato antipatico dal primo istante. E non tanto perchè mi proponeva sempre, in modo ottuso, investimenti di tutti i tipi con cui far fruttare i quattro spicci che tenevo sul conto, fondi pensionistici integrativi o carte prepagate per acquistare il mondo su internet, ma perchè ciò che mi trasmetteva dal punto di vista umano stava agli antipodi

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della fiducia. Ora, io non so come sia regolata la politica di assunzioni nelle banche, quali siano i criteri di valutazione, ma credo che la trasmissione di fiducia e la capacità di rassicurare le persone dovrebbero stare ai primissimi posti. Magari sono io quello strano, magari con tutti gli altri clienti emanava vibrazioni positivissime, fatto sta che ogni volta che arrivava il mio turno allo sportello indossavo la mia armatura di diffidenza e lo guardavo storto tipo “Vuoi fregarmi, eh? Io non mi faccio fregare” dall’inizio alla fine, anche se si trattava solo di fare un semplice versamento. Luigi sorrideva, mi chiamava spesso per nome (scelta personale o tecnica appresa in qualche corso di formazione?), provava a fare qualche battuta, ce la metteva tutta insomma. Ma a me quello che arrivava era qualcosa di indefinibile, di viscido e di subdolo, come se dietro a ogni parola ci fosse dell’altro, come se nel suo caso le medaglie avessero ben più di un rovescio. O sarà che gli sudava il labbro superiore, sempre imperlato di piccolissime goccioline, saranno stati gli occhi tristi e un po’ acquosi, o i nodi giganteschi della cravatta, che non mi sono mai piaciuti. Forse non era lui a essere antipatico, forse sono io che sono stronzo. Forse non l’ho mai capito ne mi sono sforzato di farlo. Ormai non c’è più niente da fare a riguardo. Un altro punto da aggiungere al mio elenco delle curiosità senza risposta. Ana, questo il nome che si era scelta, un po’ perchè facile da ricordare e da pronunciare, un po’ perchè semplice, immediato e anche anonimo, faceva la prostituta. Un buon nome poteva già essere una mezza garanzia di successo: si imprimeva nella mente dei clienti al pari delle gambe snelle e del piccolo culetto tondo che mostrava per strada senza apparente vergogna. Un buon nome ti permette anche di costruirci intorno una nuova personalità, un’anima diversa, una solida parete che divide quella parte della vita, quella lavorativa diciamo, da tutto il resto. Anche di Ana scoprì il nome solo dopo, sullo stesso giornale. Il vero nome invece non lo so neppure adesso. È il punto subito successivo dell’elenco delle curiosità senza risposta. Ana prendeva servizio abbastanza presto la sera, intorno alle dieci, un orario perfetto per intercettare padri di famiglia e lavoratori, di ritorno alle rispettive case dopo l’ufficio, il calcetto o una birra con gli amici. Aveva uno spiccato senso degli affari, nonostante la giovane età. Aveva iniziato presto il lavoro (appena maggiorenne, così dichiarava almeno), e presto lo avrebbe terminato, dopo aver messo da parte una congrua quantità di denaro, congrua per una casetta di proprietà e

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magari un piccolo negozio di vestiti vintage. Ana aveva infatti un gran gusto nel vestire, peccato che poi fosse sempre costretta a sfoggiare minigonne davvero mini, e delle scomode zeppe che però piacevano tanto ai suoi “mecenati”. Chissà, forse c’entrava quella scontatissima estetica da film porno. Ne aveva visti di porno, anche insieme ai propri accompagnatori, e mai che le attrici indossassero sandali bassi, o ballerine. Sarebbero state molto più sexy. E dire che tutte le attrici erano comunque delle stangone già di loro, con quei fisici da valchirie. Che bisogno avevano dei tacchi, di quei tacchi smisurati? Chi aveva imposto quelle scarpe? Qualche ditta produttrice che in cambio del finanziamento del film poteva promuovere le proprie calzature? A questi e altri pensieri si dedicava la ragazza mentre passeggiava nei pressi della propria postazione abituale, una fermata dell’autobus dotata persino di pensilina, sui viali esterni della città. La fermata dell’autobus era proprio di fronte alla banca. È lì che Luigi la conobbe. Luigi aveva una vita abbastanza triste, e lo sapeva. L’unica cosa di cui andava davvero fiero era aver mollato casa dei suoi e, forte dello stipendio fisso garantito dalla banca, aver preso in affitto un bel bilocale in questa città così lontana dalla sua terra d’origine. Appena avuta l’opportunità, si era lasciato tutto alle spalle ed era partito. Non gli piaceva il proprio lavoro, si sentiva finto tutte le volte che cercava di mettere in atto quelle strategie di marketing spiccio che aveva imparato ai vari corsi d’aggiornamento. Ma sapeva che lo controllavano, quindi toccava ingoiare il rospo e andare avanti. L’indipendenza era un valore non negoziabile, e mai e poi mai sarebbe tornato dai genitori con la coda tra le gambe, come un perdente. Non aveva molti amici, ne fidanzate. Era sempre l’ultimo a uscire dalla filiale la sera, forse per rimandare il momento in cui si sarebbe trovato faccia a faccia con se stesso. Quella volta che fece particolarmente tardi, per sistemare un po’ di incartamenti arretrati, fu anche la volta in cui Ana raggiunse la pensilina prima del solito, nella speranza di riuscire a rimediare qualche soldo extra, attanagliata dai sensi di colpa per aver intaccato il proprio gruzzoletto con l’acquisto di un paio di scarpe decisamente non in saldo. Ana era metodica. Più che metodica. Aveva abitudini consolidate e non erano consentiti sgarri alle regole, perchè altrimenti qualcosa di brutto sarebbe successo, ne era certa. A prescindere dalle mie puntatine in banca, passavo spesso davanti a quella fermata dell’autobus nel mio tragitto dal centro verso

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casa, e a forza di soffermarmi sui dettagli avevo ormai capito quando Ana era in servizio, anche se lei non era lì in attesa del prossimo cliente. La sua presenza era segnalata infatti da una bottiglietta di Coca-Cola quasi piena (sempre. Mai che l’avessi vista vuota o anche solo con un fondino di bevanda. Questo rimarrà per me il più grande mistero, altro che l’elenco delle curiosità senza risposta), sistemata con precisione millimetrica sull’angolo esterno della piccola seduta rettangolare protetta dalla pensilina. Era un segno inconfondibile. Chissà se era mai capitato che qualcuno, passando, gliela fregasse. Chissà se un tale evento avrebbe causato un crollo di nervi nella ragazza. Io fui spesso tentato, non di prenderla quanto di spostarla, anche solo di pochi millimetri, e nascondermi nei pressi per vedere poi se se ne sarebbe accorta. Forse se la scolava tutta tornando a casa, a fine turno. Con Ana non avevo mai parlato, anche se più di una volta i nostri sguardi si erano incrociati. Il suo era malizioso, una promessa e una scommessa, il mio era perplesso, e sconsolato. Ammetto che mi faceva curiosità, titillando una parte remota del mio subconscio, però la scarsezza delle mie finanze era un freno abbastanza forte a qualsiasi pensiero più strutturato. La prima volta Luigi e Ana si scambiarono solo un’occhiata. Ma Luigi, da solo nel bilocale, ci rimuginò sopra tutta la notte. Una puttana? Poteva piacergli una puttana? No, che schifo. Ma che male c’era? Chissà se lo parlava l’italiano. Se la poteva permettere una puttana? Beh, la sua vita sociale stava a zero, non spendeva una lira in divertimenti, perchè no? Che poi cosa c’era di diverso dall’uscire con una qualsiasi altra ragazza? Certo la forma di pagamento era più diretta, però almeno aveva la garanzia di portare a casa il risultato. Fu così che il giorno successivo fece in modo di rimanere in ufficio fino a quando non arrivava la signora delle pulizie, e uscendo non si limitò a un’occhiata, ma ingoiando il groppo che aveva in gola rivolse la parola ad Ana, che pure aveva trascorso la notte in pensieri opposti ma simili, tra un appuntamento e l’altro. Non so se ne sarebbe sbocciato un amore, so che comunque non ce ne fu il tempo. Li vidi insieme una volta, tornando a casa. Stavano chiacchierando sotto la pensilina, come due amici, anzi come due amanti. Percepivo la loro intimità. Fui stupito, e sorrisi. Tutto sommato mi sembrava una cosa bella. Ma io non faccio testo, quando c’è del sentimento le cose mi sembrano sempre belle. Si allontanarono insieme, non si tenevano per mano (sarebbe

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stato troppo, anche per loro), ma Luigi accompagnava Ana tenendole una mano sul fianco. Dove andavano? A casa di lui? O lei si portava i clienti nel proprio appartamento? O magari da qualche parte in macchina? Anche questo lo scoprì dopo, leggendolo sul giornale. Mi rendo conto che in realtà tutto questo è frutto della mia ricostruzione a posteriori, frutto delle poche occasioni che avevo avuto per interagire con quei due, degli articoli che per un paio di giorni si erano susseguiti sui principali giornali locali (poco più che trafiletti, d’altra parte perchè dedicare tanto spazio a due sconosciuti?), e soprattutto della mia immaginazione sempre a caccia di storie. Stavo facendo colazione al bar (era una drammatica mattina in cui mi ero accorto di aver finito sia il latte che i biscotti), e mi misi a sfogliare i quotidiani. Era lunedì, tutte le notizie erano compresse per lasciare più pagine ai resoconti sportivi. L’articolo attirò immediatamente la mia attenzione. Anzi, furono le foto formato fototessera sotto il titolo. Erano sbiadite, le facce erano quelle di due persone molto più giovani, chissà dove le avevano pescate, ma non c’erano dubbi, si trattava di Ana e Luigi. Lessi febbrilmente l’articolo, e poi mi misi a cercare riscontri anche sugli altri quotidiani, litigando quasi con due anziani e una signora con la permanente che non volevano sganciare le loro copie. Ebbi la meglio. Ana e Luigi si erano schiantati con la macchina contro il muro di una caserma in periferia, dopo una fuga durata un paio di chilometri. Evidentemente oltre al bilocale possedeva anche un’automobile, non ci avevo pensato. La caserma sorgeva proprio dove la strada faceva una curva ad angolo retto. Non una curva da affrontare a oltre cento chilometri all’ora. Scappavano da una volante che aveva accostato, per un controllo, la macchina ferma in un parcheggio, cogliendo i due in fragrante. Perchè scappare? Potevano inventarsi una scusa qualsiasi, al massimo potevano rischiare una denuncia e forse una multa. Perchè? La curiosità aveva contagiato anche i giornalisti. Ecco perchè la notizia tenne banco un paio di giorni. Ma si sa, i giovani precari del giornalismo che si occupano di cronaca locale non possono certo spendere più tempo del dovuto su una cosa del genere, che forse meriterebbe un’inchiesta, ma un’inchiesta più morale ed emotiva che fattuale. Fu così che anche questa notizia passò. Doveva per forza finire così male? Che divinità si erano inimicati? Da cosa fuggivano davvero? Qua si ferma anche la mia immaginazione. Non so perchè, ma mi sento in colpa nei loro confronti. In colpa per non aver capito, in

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colpa perchè qualcosa mi è sfuggito ma no so cosa. Forse è la fine che non torna, a dispetto di quanto avessi premesso. Ora, per rimediare a modo mio, ho aperto un fondo pensione integrativo, anche se ci verso sì e no cinquanta euro al mese, e tutte le volte che torno a casa, sulla solita strada, mi fermo al distributore automatico, compro una bottiglietta di Coca-Cola, e la posiziono esattamente su quell’angolo, dopo averne bevuto solo un piccolo sorso. (24 giugno)

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Non è poi così complicato

- Cosa ci fai qua...? - Lascia stare, dai. - Non si era detto “a domani mattina”? Con tanto di ammicc-ammiccocchiolino? - È complicato. - Non così tanto, direi. - No no, è complicato. - Cosa c’è di complicato? Avresti dovuto passare la notte fuori e invece sei qui. - Lo sai anche tu che non è tutto bianco o nero. - E invece lo è. Vedi che sbagli già in partenza? Te l’ha data: bianco. Non te l’ha data: nero. O viceversa. La sostanza è questa. - No. Non è vero. Può andare bene anche se non si conclude. - Lo dici ogni volta. Ogni. - Non mi sto giustificando. - Almeno hai limonato? - No. Non ho limonato. Te l’ho detto che è complicato. - Smettila. Smettila! Non c’è niente di complicato. Hai limonato: nero. Non hai limonato: bianco. O viceversa. - Guarda che può andare bene anche se non... - Almeno limonare, cazzo. - È che... - Mettiamola così. Sei contento? Sei felice? No, perchè non ti vedo mica tanto felice. - Beh, è stata una serata piacevole... - Ma sei serio? Stai dicendo sul serio? - Va bene! Va bene, va bene va bene. Hai ragione tu. È stata una merda. - Non dico questo, non esagerare adesso. Uno dei tuoi problemi è proprio

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questo. - Questo quale? - Tendi a caricare tutto di troppo significato. - Se ho culo mi capita un appuntamento ogni tre mesi. Come faccio a non caricarlo di significato? - Vedi? Già sbagli. Già lo chiami appuntamento. Chi va a un appuntamento nel duemiladodici? Nessuno. Nessuno va agli appuntamenti nel corrente anno due. Mila. E. Dodici. Negli anni Cinquanta, Sessanta al massimo. - E come lo chiami? - Ma perchè lo devi chiamare? Perchè gli devi dare un nome? Si esce a bere una cosa, dai. Ci si incontra. Agli appuntamenti si andava quando poi la gente pure si sposava. Anzi, quando si fidanzava. Ufficialmente. - Dio, mi stai mettendo un’ansia... - Vedi? Vedi? Se la metto io a te, figuriamoci una ragazza a cui chiedi un APPUN-TA-MEN-TO. - Ma io non le ho chiesto un appuntamento. - Non so cosa le hai chiesto, ma di sicuro hai sbagliato. - Grazie. E comunque ha accettato. Quindi non devo aver sbagliato troppo. - Pietà. Curiosità. Masochismo. Magari tutte queste cose insieme. Sono mille i motivi per cui una donna potrebbe acconsentire a un’uscita. - Non che magari le piaccio, eh? Proprio no? - Sei un caro ragazzo. Anche bellino. Sai che ho la massima stima di te. Ma guardiamo in faccia la realtà. Non hai combinato un cazzo. Se le piacevi forse qualcosa sarebbe successo. - Ma cavolo, se una ragazza mi invitasse fuori io accetterei solo se mi piacesse. - Serio? Non ci credo. Sei un cazzo di crocerossino, tu. Accetteresti comunque. E poi quant’è che una ragazza non ti invita fuori? - Mmm... In realtà non ricordo che una ragazza mi abbia mai invitato fuori. - Te pareva. Le ragazze non hanno bisogno di invitare fuori nessuno. Siamo noi che dobbiamo muoverci. Dobbiamo cacciare. Individui la preda e attacchi. - Dai, sai che non sopporto le tue reductio ad catena alimentare. - Il latino. Pure il latino. Non s’è mai visto che si conquistano le ragazze con la cultura. Le hai mai conquistate tu, con la cultura? - No. Va bene, no. Hai ragione, no. Ma le tue metafore mi fanno cagare comunque.

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- È la vita che è cattiva. Ma non l’ho inventata io. È la vita che fa cagare. Vuoi le donne? Vuoi una donna, che già sarebbe abbastanza? Te la devi conquistare. - Occhei, ma se accetta, lo sa che è perchè mi piace. Dovrebbe scegliere responsabilmente. Non è costretta a dire di sì. Deve sapere che può spezzarmi il cuore. - Forse una parta di lei lo sa, forse. Forse però non gliene frega niente. Forse è una parte troppo subconscia. Forse vuole che la conquisti da capo. Forse vuole che la conquisti da capo tutte le volte. Di sicuro vuole che glielo fai capire. Glielo fai capire tu? - Non lo so. Credo di sì. Boh. - Cosa fai? Come fai? - Parlo. Molto. Racconto chi sono. Cosa faccio. Aneddoti divertenti. Ma ascolto pure, eh. Faccio un sacco di domande. Mi mostro interessato. Ma più che altro perchè sono interessato. - Va bene. Poi cosa? - Poi che? Non è che c’è un poi. Si va avanti a chiacchierare finchè non è ora dei saluti, o finchè non l’accompagno a casa. - Tutto qua? - Come sarebbe, tutto qua? Non credo che ce ne siano molti come me con un’infarinatura di qualsiasi, e dico qualsiasi, argomento, con una buona cultura generale, buona parlantina, idee politiche definite, ottimi gusti musicali che non guasta, sensibile, comprensivo, ascoltatore attento, e un bel ragazzo aggiungerei. E mi vesto pure bene. - Sì ma cosa fai? Fai, voce del verbo fare. Come agisci. Le rintroni di chiacchiere? Aspetti che svengano e poi te ne approfitti? - Cerco di capire se c’è dell’interesse. Di sentire un’eventuale tensione sessuale. Se la sento cerco di- C’è sempre tensione sessuale! Cosa vuol dire... Niente. Non vuol dire niente. Nei rapporti uomo/donna c’è sempre. A meno che non sia tua madre. Ma in certi casi anche lì. Edipo, Elettra, non sono mica fregnacce. - Vabbè comunque se percepisco queste cose cerco di farmi sotto, di trovare l’occasione, il momento per un avvicinamento che porti magari a un bacio... - Il momento per un avvicinamento per un questo di quello per quell’altro... Dio, cheppalle anche solo sentirti. Non vorrei mai e poi mai essere la femmina che esce con te. Arriva mai sto momento?

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- No... Quasi... No. Quasi mai, diciamo. - Ecco. Sappi che quando arriva, se arriva, è solo perchè lei ne vuole. Ma ne vuole davvero. Tanto. E si è così rotta le palle che ci prova lei. - Dici? - Dico? Cristosanto se è così. Tira fuori le palle. - Ma se ci provo e mi respinge? Se mi dice che ho capito male? Che non le piaccio in quel senso? Che mi vede solo come un amico? Sento che non potrei sopportarlo. - Se ti vede come un amico è proprio perchè hai speso il tuo tempo a parlare. Anzi, non speso, perso. Ti dico una verità. La mia verità, almeno. Alle femmine non gliene frega niente di cosa parli, e di quanto parli. Potresti pure essere Eco, Chomsky e Stephen Hawking insieme, se Stephen Hawking parlasse normalmente. Conta solo l’iniziativa. Se vuoi una cosa, prova a prendertela. - Sono timido. - O cambi, o soccombi. È la selezione naturale. Darwin. - Magari un miracolo... - Un miracolo, sì. Succedono anche in natura. Tanto, se va male, cosa ci perdi? Era la tua migliore amica? No. Ci vorresti ancora uscire insieme? Se ci hai provato e non ci è stata, no. Se non ci hai provato, magari avresti potuto e ormai hai perso l’occasione, ti ricorderà solo quanto sei un fallito. Quindi no. - Sì ma poi cosa ci fai tu a casa a quest’ora? - Mi sa che ci ho provato troppo presto. Avrei dovuto farla bere di più, prima. (18 giugno)

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Calamite, ascensori e la fine del mondo

Era la fine del mondo. No, non in senso figurato. Era la fine del mondo sul serio. Tra un paio d’ore, minuto più minuto meno (non che avesse ormai molta importanza), un asteroide si sarebbe schiantato sulla Terra, in un’area compresa tra il Nord Africa e il mare Mediterraneo, secondo quanto calcolato dai principali osservatori astronomici mondiali. La scoperta del corpo celeste di prossima collisione col nostro pianeta era merito, o forse sarebbe stato meglio dire colpa, di un solitario osservatore, un anziano austriaco appassionato di astronomia, che fino a quel momento si divertita a passare le nottate estive a osservare il cielo col proprio telescopio, forse per evitare i continui rimbrotti della moglie, una donna che non amava più da anni. L’anziano si era fatto beffe di numerosi osservatori sparsi per l’Europa, individuando un punto luminoso inedito nella mappa stellare. A questo punto sarebbe il caso di specificare che, per quanto decenni di film di fantascienza ci abbiano lasciato credere che il cielo intorno a noi sia perennemente sotto osservazione, la realtà è molto più inquietante: la porzione di universo che riusciamo a controllare con i nostri mezzi tecnologici è davvero limitata, e non stupisce più di tanto che un solitario “amatore”, dotato di pazienza e anche di molta fortuna, abbia scovato ciò che decine di telescopi di ultima generazione non sono stati in grado di vedere. Non possiamo in questa sede rendere conto prima delle reazioni dell’austriaco, e poi della difficoltà nel contattare qualche eminenza del campo scientifico disposta a credergli, fatto sta che nel giro di qualche ora i telescopi erano stati riallineati, si erano susseguite febbrili riunioni e teleconferenze tra esperti (dove, per una volta, erano state messi da parte antipatie e dogmi scientifici contrapposti), ed erano infine stati contattati i governanti dei principali stati del mondo. Le conclusioni degli esperti non lasciavano molto spazio all’interpretazione: fra quarantotto ore si sarebbe verificato l’impatto, e niente poteva impedirlo.

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L’asteroide era molto più grande di quello che si ipotizzava avesse determinato l’estinzione dei dinosauri, e nonostante i sessantacinque milioni di anni di evoluzione trascorsi nel frattempo, gli esiti del prossimo evento non avrebbero avuto conseguenze molto diverse rispetto al genere umano. Quelli che non sarebbero morti direttamente a causa dell’impatto, non avrebbero comunque potuto sopravvivere alle terribili condizioni ambientali dei giorni e delle settimane successivi. Vista l’impossibilità di trovare una qualsiasi soluzione a questa crisi planetaria, si era deciso di diffondere l’informazione alle popolazioni l’indomani mattina stesso, in modo che ognuno potesse decidere al meglio come trascorrere le ultime ore di vita. Non ne erano seguiti rivolte, proteste o particolari atti violenti, d’altra parte che senso avrebbero avuto? Dopo lo stupore iniziale, nella gente era subentrato un sentimento di fatalismo, misto a depressione e alla serenità di chi accetta il proprio destino. Era stato anche il momento di celebrità dell’anziano austriaco. Una celebrità di cui probabilmente avrebbe fatto a meno (e non solo per le interviste cariche di livore e risentimento a cui aveva dovuto sottoporsi), e che comunque era durata anche meno del previsto, visto che già all’ora di pranzo del giorno in cui era stata data la notizia l’anziano era stato ucciso da un fondamentalista religioso che si era poi suicidato. Non si era però capito se il suddetto estremista pensasse che l’austriaco fosse un messia, la reincarnazione di Cristo, un messaggero di Satana, o Satana stesso. Ma neanche questo aveva molta importanza, giunti a questo punto. Teo e Nina si conoscevano da tempo. Erano come calamite. Bastava che i loro campi magnetici entrassero in contatto per scatenare un’attrazione senza pari. Ma se per un qualsiasi motivo i poli si invertivano, la repulsione era altrettanto potente. In più erano scarsamente coordinati, anzi, non erano coordinati per niente. Quando Teo era libero, Nina era sempre alle prese con qualche improbabile avventura sentimentale, e viceversa. Passavano dal desiderarsi al detestarsi, soprattutto per le reciproche scelte in fatto di partner. Insomma non un solo bacio era ancora intercorso tra i due. La fase che stavano vivendo quando l’asteroide aveva fatto la sua apparizione sulla scena era decisamente “no”. No perchè Teo stava vivendo una prolungata singletudine che lo stava mettendo a dura prova, mentre Nina, per le notizie che erano giunte a Teo, pareva invece alle prese con uno dei suoi tormentati amori che

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stava però resistendo più degli altri. Vuoi per lo stato d’animo del ragazzo, vuoi per le vicissitudini della ragazza, che scoccasse la tanto attesa scintilla tra i due sembrava ora più impossibile che mai. L’ascensore si aprì. Qualcuno lo aveva prenotato dal terzo piano. Teo era in ritardo. Non si capacitava di come potesse essere in ritardo anche il giorno della fine del mondo, ma si sa, certe abitudini sono dure a morire. Ora capiva fino in fondo il senso del detto “il tempo perso non si recupera”. In tutto il pianeta erano stati organizzati eventi per festeggiare la fine. Eventi di tutti i tipi, dai rave ai raduni di preghiera. Non restava che festeggiare. Teo aveva scelto di aspettare l’arrivo dell’asteroide a casa di amici, bevendo, ascoltando musica e ricordando i bei tempi andati, come fosse un capodanno qualsiasi. Un capodanno triste. Avrebbe voluto un epilogo diverso, ma non aveva avuto né la forza né la fantasia di pensare a qualcosa di alternativo. Non sarebbe cambiato niente, loro stavano in quella parte di mondo che non avrebbe neppure sofferto, tanto veloce sarebbe sopraggiunta la fine. Ormai mancava poco più di mezzora all’impatto, poi come si sarebbero svolte le cose nessuno lo sapeva di preciso, era la prima (e l’ultima) volta che gli scienziati potevano mettere alla prova i propri modelli teorici, anche se in quell’occasione nessuno ci teneva a dimostrare la correttezza dei propri studi. Il ragazzo si ridestò da una fantasia che lo stava totalmente assorbendo quando davanti agli occhi gli apparve Nina. L’incontro in quell’ascensore era così improbabile che ci mise un po’ più di un attimo a riconoscerla, tanto che stava già per chiedere alla ragazza qual era il suo piano di destinazione. - Nina? Sei tu? Cosa ci fai qui? - Teo? Teo! Anche Nina ebbe bisogno di qualche secondo per razionalizzare. Un po’ la sorpresa, un po’ la testa che era ancora sintonizzata su pensieri del tutto differenti. Se si trovava lì, nell’ascensore, era perchè fino a pochi secondi prima stava litigando con il suo tormentato amore che abitava proprio in quel condominio. Non che si fossero proprio lasciati, ma di certo non c’era neanche più il tempo per fare pace. Che senso aveva litigare e incazzarsi il giorno della fine del mondo, si stava chiedendo Nina, e quasi le era scappato un sorriso, dopo aver sbattuto la porta di casa, al pensiero che lei era fatta così, prendere o lasciare, e non sarebbe cambiata neppure se fosse stata inviata al

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cospetto di Dio. Un dio che non poteva che essere sadico, o menefreghista, vista la situazione. - Dove vai? - Non lo so. Pensavo sul tetto. Tu? - Quinto piano. Amici. - Sei il solito. - Perchè? - Il coraggio. Chi non ce l’ha non se lo può far venire. La fine del mondo e tu te ne stai a casa con gli amici. - Perchè sul tetto cambia qualcosa? - Non dovevo neanche essere qua. Ma a questo punto voglio vedere la morte in faccia. - Sei sempre così tragica. - Meglio tragica che noiosa. - Va bene. Mi hai convinto. Tetto sia. E tetto sarebbe stato, se l’ascensore non avesse deciso di bloccarsi a un paio di metri dal traguardo. - E adesso? - Non riparte. - Chiamiamo l’assistenza? - Ah. Ah. Ah. - Lo so, era una brutta battuta. - Ma che sfiga che abbiamo. - Forse la vicinanza dell’asteroide sta iniziano a compromettere il campo elettromagnetico terrestre. - No no, questa è proprio sfiga. Neanche il tempo per Nina di pronunciare queste parole, che andò via anche la luce. - L’hai chiamata. - Ho un conto in sospeso con lui, lassù. Ma tanto risolviamo presto. - Odio questo tuo vittimismo cosmico. - Vittimismo cosmico?! Stiamo per morire per colpa di un cazzo di asteroide,

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dov’è il vittimismo? - Va bene. Hai ragione tu. Hai vinto tu. - Smettila di darmi ragione. Mi dai sempre ragione. Mi fai incazzare ancora di più. E poi non ho vinto un cazzo. Sono bloccata in ascensore al buio con il peggior pallemosce della storia. - Odio litigare, va bene? Lo odio e lo sai. Lo sai e hai sempre cercato di farmi sbroccare. Che gusto ci provi? - Mi diverte. Non puoi essere sempre così compassato. Finisce il mondo e tu ti dai all’understatement britannico? Ma vaffanculo, va! - Perchè invece è meglio darsi agli isterismi, no? - Io almeno le emozioni me le vivo. - Tu, almeno, ne hai sempre avuto la possibilità. - Le possibilità me le sono costruite. - Le tue. Senza lasciare spazio agli altri. Le tue hanno sempre occupato tutto lo spazio disponibile. - Di cosa stiamo parlando? - Come di cosa? Di noi, è ovvio. - Ah, ecco. Ora. Ora vengono fuori le cose. Ci voleva la fine del mondo. - Tu, tu, tu. Tu e i tuoi scleri, c’era mai stata l’occasione prima? - Potevi cercartela. Se ci tenevi potevi farlo presente. - Lo sapevi che ci tenevo. L’hai sempre saputo. - Io non so niente. So delle persone in base a quello che le persone fanno. Fanno, hai capito? - Ma cosa vuoi che facessi, se non eri impegnata con uno, lo eri con un altro. - Mi stai dando della troia? - No. Hai capito cosa intendo. - Ecco, di nuovo. No, non ho capito. E comunque cosa ti frega degli altri. Non posso stare ad aspettarti. Cosa ti frega degli altri. Sono amici tuoi? Al massimo me la vedo io. Se vuoi una cosa devi venire a prendertela. - Lo sai che non sono fatto così. Potevi concedermi una possibilità. - E pensi che tutte quelle volte che ti facevo avere notizie di me fosse per caso? - Sembrava che lo facessi apposta. Sempre quando ero io quello impegnato. - Certo che lo facevo apposta. Non hai mai avuto le palle di mollare una di quelle sciacquette e venire da me. - Pensavo che ci sarebbe stato tempo.

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- Tanto poi erano loro a mollarti. - Perchè avevo la testa altrove. Colpa tua. - No. È colpa tua. Non riesco a capire cosa mi piaccia così tanto di te. - Che sono figo? - No, non sei figo. Al massimo carino. - Tu invece sei bella. - Lo so... Cristosanto, ma mi baci? Devo supplicarti? - Volevo farlo da quando ti ho visto entrare in ascensore. - Volevi e non l’hai fatto. Perchè non l’hai fatto subito? Dio quanto mi fai incazzare. - Scusa. - AAAAAH! Non chiedere scusa. Baciami. Dai che non c’è tempo. - Ti amo. Mi sa che ti ho sempre amato. - Adesso non esagerare. Voglio solo quel bacio che aspetto da un po’. (11 giugno)

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Non è mai il momento giusto per un primo bacio

- Dai, allora ci beviamo una birra? - ... - Facciamo stasera in piazzetta? - Mmm... Può essere che ci passi. - Eddai, non farti pregare. Io arrivo per le nove e qualcosa, massimo le dieci. Mi trovi lì, comunque. - Va bene, se ce la faccio a liberarmi prometto che passo. - Io ti aspetto. *** Ore: Prima delle nove - Luogo: Piazzetta Grande. L’ho convinta, alla fine. Certo che è una difficile. Forse potevo chiederglielo in maniera più esplicita prima. Ma se mi avesse risposto di no? Non avrei avuto appelli. Quante volte ci ho parlato fino ad adesso. Perchè ci riescono tutti in metà del tempo che ci metto io? Si fa sempre un po’ i cazzi suoi, non so mai a cosa pensa davvero. È simpatica però. Non direi che è una figa di legno. E comunque non è mai stato facile. C’è mai stata una volta in cui ti fosse sembrato facile? Mai. Le birrette ce le ho. Lubrifichiamo la conversazione all’inizio. Poi qua dietro c’è anche il pakistano d’emergenza. Dio, quanto mi piace sta piazza. I ciuffi d’erba che spuntano tra il ciottolato, i portici alti, è il set di un film americano in trasferta. Sembra fatta apposta per questi incontri. Per fortuna non ci sono coppiette. Sai l’imbarazzo sennò? Vabbè che poi lo sa perchè l’ho invitata. Lo sa? Chissà di cosa sa la sua bocca. Non pensarci non pensarci non pensarci. Speriamo arrivi presto. Apriamoci una birra nell’attesa. Sennò sembra che la stia aspettando. Ma quando arriva?

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Ore: Fine della seconda birretta - Luogo: Piazzetta Che sia già andato via? Ah no, eccolo là. Certo che fa tenerezza. Chissà a che ora è arrivato. Forse potevo venire un po’ prima. Forse sono un po’ stronza. Ma guardalo, sta facendo finta di non avermi ancora vista. Adesso mi giro e me ne vado, ahahah. Vorrei ci fosse una telecamera puntata su di lui per vedere la faccia che fa. No dai, che stronza che sono. Si alza pure per salutarmi, che gentiluomo. Che palle sti gentiluomini. No, aspetta, si è messo a correre... Dove va? È pazzo? Aspettarlo lì dov’era seduto? Torno subito? Gli do cinque minuti. Ah, ma si era già scolato le birre. Sarà qua da un’ora. Non pensavo ci tenesse così tanto. Eccolo che arriva. Birre fresche. Speriamo non siano Splugen. Mi fa schifo la Splugen. Sono Splugen. Non ce n’erano rimaste altre. Iniziamo bene. Che poi a guardarlo bene è carino, sì, si veste pure bene. Anche troppo. Devo chiedergli dove ha comprato quella polo. Così freddino, misurato. Che sia gay? Non mi avrebbe invitata fuori. Magari è gay e non lo sa ancora. Con la mia fortuna... Li trovo tutti io i gay inconsapevoli. Dovrebbe farsi crescere i baffi. Anzi no, sembrerebbe anche più gay. Comunque gli donerebbero. Ma poi mi interessa? Cavolo che secchione, parla tutto giusto, non sbaglia un congiuntivo. Sì, potrebbe, però ha qualcosa che... Come scoperà uno così? Non riesco a immaginarlo. Non me lo vedo proprio che scopa. Non fa sesso. Un po’ sarei curiosa. Cosa me ne frega delle sue ex. Ma sono cose da raccontare a una ragazza, a me? Non sono la sua migliore amica. Sì, vabbè, è stato un po’ sfigato, ma è successo a tutti. Cioè a me no, ma ne ho già avuti di tipi come lui. Secondo me queste si erano solo rotte le palle. E poi dicono perchè ci piacciono gli stronzi. Se questa è l’alternativa. Dai, devo solo sorridere ancora per un po’. Una vibrazione. Il cellulare. Ah, no, falso allarme. Forse devo andare a farmi controllare. Ne ho troppe di queste allucinazioni tattili. Forse dovrei metterlo silenzioso. Nah. Guardalo che tenero che si avvicina un po’ alla volta. Di toccarmi il braccio mentre gesticola potrebbe evitarlo, eh. Mi ha sempre dato fastidio. Oddio vuole baciarmi, lo sento. Avrà problemi d’alito? Non mi pare. Tanto sappiamo tutti e due di birra. Ma cosa dico? Stasera non lo bacio. Magari la prossima volta. Proprio nella piazza delle coppiette doveva portarmi? Ha davvero pensato che fosse il posto giusto? Sembra interessato a quello che gli sto dicendo. Sul serio. O vuole solo portarmi a letto? E se provasse a baciarmi all’improvviso? Non credo che lo farà. Se lo fa ci sto,

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ahahah. Che scema che sono. Premiare lo spirito d’iniziativa! Non possiamo mica fare sempre tutto noi, mi sono rotta. Dov’è l’uomo che ti prende di forza quando lo vuoi. Si è azzittito. Ha dei bei occhi. Scuri ma belli. Aspetta che io dica qualcosa? Si guarda intorno. Ha paura di incrociare qualcuno che conosce? Non sarà mica una sua ex. Che ci provino solo a passare di qua. Che imbarazzo. Odio questo momento. Se non prova a baciarmi entro un minuto, mi invento una scusa e me ne vado. È lei? Si è lei. È venuta. Alla fine è venuta. Ora la chiamo... No. Vediamo se mi sta cercando. Fingi indifferenza. Non deve pensare che la stai aspettando. Mi ha visto. Quanto mi piace come cammina. Leggins e Converse, mi fanno impazzire. Che cascata di ricci, il vestito a fiori. Oddio è proprio bella. Le birre! Cazzo. Se non vado adesso... Devo andare adesso. Ecco, ha capito, mi aspetta. Non sarà mica incazzata? Che espressione sprezzante... Le dona. Almeno è tutta per me. No, non chiudere, non è troppo tardi, mi servono quelle birre. Cosa prendo? Moretti? Peroni? Heineken? Cosa le piacerà? Splugen? Vada per la Splugen. Mi piace la Splugen. Dai dai dai, non posso farla aspettare ancora. Azz, non ho chiesto lo scontrino! Pure i pakistani evadono le tasse qui. Vabbè stavolta passi, ci sono cose più importanti. Si è seduta, sembra rilassata. Incrocia le gambe come una bambina. Dio, mi piace anche di più. La Splugen non le piace. Cazzo. Te pareva. Post-it mentale, mai più Splugen. Di cosa parliamo? Evitare il silenzio. Ora le racconto di quella cosa assurda che mi è successa prima... No, aspetta, evitare le cose troppo egocentriche. Riprendo quello che mi stava dicendo l’altro giorno, meglio. Ma si sta divertendo? È interessata? Non riesco a capirlo. Guarda il cellulare. Odio le ragazze che guardano il cellulare quando sono fuori con me. Non può aspettare dopo? Ma chi cazzo le scrive a quest’ora, poi? Non avrà mica delle storie in corso. L’ha messo via. Succede sempre. Io non lo guardo mai il cellulare. Abolire il cellulare durante gli appuntamenti. Che denti bianchi che ha. Sorride anche col naso. Sento che potrei innamorarmi. Com’è che siamo finiti a parlare delle mie ex? Che poi, chiamarle ex... Possibile che sia sempre così sfigato? Vabbè non pensarci adesso. Mi sento l’aura nera di sfiga intorno. Le femmine le sentono queste cose. Dai dai dai, oggi svoltiamo. Parlare di storie passate crea più intimità. Chissà quanti uomini avrà avuto? Con quanti avrà fatto l’amore? Non pensarci non pensarci. Più o meno di dieci? Ci sono i miei coinquilini a casa. Speriamo viva da sola. Ma cosa vado a pensare. Cercare il contatto fisico. Devo avvicinarmi, è troppo lontana ancora. Un po’ alla volta.

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Così non se ne accorge. Toccarla per caso quando muovo le mani. Come bacerà? Come muoverà la lingua? La muoverà? Voglio morderle quelle labbra. Poi diventano ancora più rosse. Certo che non credevo che facesse tutte queste cose. Pure l’aikido. E dipinge. Devo chiederle di farmi un ritratto. Non le manca niente. Spero solo non ascolti musica reggae. E adesso perchè non dice nulla? Cosa devo fare? Non c’è nessuno. La piazza è per noi. Trova un argomento, subito. La bacio? E se si tira indietro? Se mi fa quella faccia tipo “mi dispiace”? Non potrei sopportarlo. Sto perdendo troppo tempo, cosa faccio? Cosa faccio, cosa faccio? Sta aspettando che faccia qualcosa. Vuole che la baci. Lo vuole? Mi avvicino un altro po’. Non è troppo tardi. Ho ancora un attimo per*** Ore: Un po’ più tardi - Luogo: Non la piazzetta Il trucco del telefono funziona sempre. Mi sa che ci è rimasto di merda. Dovrei fare l’attrice. Poteva decidersi però. Un po’ mi dispiace. Magari la prossima volta. Magari no. Non mi chiamerà più. Lo sapevo. Odio quell’imbarazzo. Lo detesto. Certo che poteva muoversi. Aspettava che ci provassi io? No, mai. Magari si sveglia. Forse sono una stronza. Poverò però. Dai, la prossima volta gli concedo un minuto di più. Chissà se tiene gli occhi chiusi quando bacia. (5 giugno)

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Le tette di Proust

Neanche il tempo di inserire la scheda e accenderlo. Neanche il tempo e senti già il bip-bip di un messaggio. Sei stato tagliato fuori dal mondo della comunicazione mobile per quarantotto ore, da quando l’acquazzone ti ha sorpreso in bici e niente si è salvato, tantomeno il vecchio cellulare che tra alti e bassi ti accompagnava da ormai cinque anni. Non è neppure un sms, ma un mms! Il tuo primo mms. Questo cellulare li può ricevere, ha pure lo schermo a colori. Non è proprio uno smartphone, ma questo era tutto quello che potevi, viste le tue attuali condizioni finanziarie. È vero, esistono le rate, ma le rate sono per quelli che credono nel futuro. Ti hanno mandato una foto, ma pensa te. Le foto sul telefono, già pensarci dieci anni fa era una roba assurda. Il numero non ti pare di riconoscerlo. Ma poi chi li sa più i numeri? A malapena il proprio. Ah, giusto, perchè hai perso tutti i numeri in rubrica. Oltre ai vecchi messaggi, ma quelli vabbè. Vabbè, vabbè un corno, ma cosa puoi farci? Pietra sopra. Amen. Tabula rasa, una nuova verginità telefonica. Visualizzi la foto. Tette. Sono delle tette. Delle tette? Tette vere, questo è certo. In calce un messaggio: “Ricordi? :)”. Pure la faccina sorridente. Ma ricordi cosa? È uno scherzo? Ritorni sulle tette. Sì è vero, non sono proprio delle tette nude, sono coperte da uno di quei reggiseni mezzi trasparenti, velati, ma sempre tette sono. Un busto nudo. C’era della premeditazione insomma. E non poca. Guardi di nuovo il numero telefonico. Non ti dice proprio nulla. Un busto di donna, il primo piano di un paio di tette, avvolto nell’oscurità. Cosa dovrebbe ricordarti? Ti concentri sulle tette. Che detto così... Ti ci concentri come si concentrerebbe uno storico dell’arte mentre cerca di risalire dai dettagli di un quadro senza datazione ne firma, all’autore o almeno alla scuola di appartenenza. Le ricordi quelle tette? Cavolo non è mica così facile... Se si escludono quelle caratterizzate da tatuaggi, da nei, da capezzoli particolari, da dimensioni evidentemente

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ragguardevoli, per le altre come si fa? Se ti mettessero davanti agli occhi una serie di foto con le tette di tutte le ragazze che hai frequentato, o di cui hai potuto apprezzare a breve distanza l’anatomia, riusciresti ad assegnare a ogni paio la corretta proprietaria? Non ne sei così sicuro. Di alcune sì, ma non di tutte. Non che siano poi così tante. Ti sembrano familiari, ma magari ti stai autosuggestionando. Un attimo, non facciamoci prendere dall’entusiasmo. Queste cose nella vita vera non succedono. Non a te almeno. C’è di sicuro di mezzo la brillante mente di uno di quegli stronzi dei tuoi amici. Per fortuna sei a casa, quindi accendi il computer, li raduni in chat e fai notare loro di averti fatto uno scherzo di pessimo gusto, che non si gioca con i sentimenti della gente, che già stai passando un periodo abbastanza duro anche senza queste genialate, che per loro che sono fidanzati e felici è tutto facile, che per te invece che brancoli alla ricerca non dico dell’amore, ma solo di un po’ di “stare bene”, questo è proprio un colpo basso. Negano tutto, negano forte. Che è anche la prima regola del fedifrago, negare sempre tutto, anche di fronte all’evidenza. Ma ti paiono sinceri. Decidi di credere a quello che ti scrivono. Anzi, ora vorrebbero pure saperne di più, e soprattutto vedere la foto. Per ora no. Una volta che ti capita una fortuna del genere, è solo per te. Senti che te la sei meritata. Resta che sei alla casella di partenza. Ricordi? Ma che poi, ti ricordi delle tette in se, di un qualcosa del passato connesso alla di loro proprietaria, o di aver fatto richiesta di una foto di tette? È questa la vera discriminante. Ammettiamolo, sei un maschio single due-punto-zero, internet è il tuo territorio di caccia quanto se non di più di un qualsiasi locale, festa od occasione mondana. Anzi, è proprio il rifugio per quelli come te, che a cuccare alle feste son proprio scarsi. Centinaia di conversazioni imbastite online, centinaia di ami lanciati nella speranza di tirar su qualcosa prima o poi, magari anche solo per tastare il terreno in vista di mosse future. Può essere che qualcuna sia stata al gioco, che abbia addirittura rilanciato. È internet, magari è immorale, o anche solo triste, ma sai che bisogna tenere aperti più fronti per evitare di trovarsi con il famoso pugno di mosche in mano. Questo in teoria. In pratica sono solo pugni di mosche. Quindi non sai di preciso chi potrebbe essere. Perchè ti hanno mandato un messaggio sul cellulare, però? Non poteva lei, chiunque sia lei, mandarti la foto via mail, o su uno dei mille social network a cui è

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iscritta, lei come le altre? Ma poi com’è possibile che avesse il tuo numero? Cacchio, ora che ci pensi, è di dominio pubblico per i tuoi “friends & followers”. Ma mai nessuno se ne era approfittato. Fino a ora. Almeno la causa è buona. E se fosse una ex alle prese con un attacco di nostalgia, connesso a un desiderio ormonale incontrollabile? Quelle tue poche ex che potrebbero definirsi tali lo sanno che comunque tu hai sempre preferito i sederi alle tette. È chiaro che farsi un autoscatto al culo è un po’ più complesso. Non che ti sia lasciato così male con queste, ma da qui a lanciarsi in un’iniziativa del genere, ti pare improbabile... Rimangono le altre. Quali altre? Quelle con cui avevi giusto dato il via a un aborto di relazione naufragato poi miseramente? Per colpa di chi o di cosa non è mai stato chiaro? A rileggere così il tuo passato sentimentale ti senti quasi un latin lover. Niente di più falso. Le tette come una madeleine proustiana, che è l’unica cosa che sai di Proust, per altro. In tutto questo non le hai ancora risposto al messaggio, e sai che devi farlo subito. Cosa scrivere? Oddio, e se semplicemente fosse una che ha sbagliato numero? Questo pensiero adesso ti getta in uno sconforto profondo. Dentro di te sai che non può che essere così. Non hai ma avuto una fortuna del genere, meritata o no che sia. E allora rispondi: “Grazie dell’emozione che mi hai regalato, ma credo che tu abbia sbagliato numero”. Ormai hai perso ogni speranza. La replica giunge quasi immediata: “Non so se offendermi, o essere felice che tu abbia apprezzato il regalo”. Allora ti conosce, e la conosci. Non ne sei ancora del tutto convinto, ma per spedire le proprie tette una deve essere abbastanza certa del destinatario. E sono delle belle tette. Dimensione media, anzi giusta, forma tonda e regolare, areola piccola... Devi capire chi è. Assolutamente. In fretta. Come fare? Stai pensando di passare in rassegna le foto di tutte le ragazze che conosci, spulciando nel tuo hard disk e su internet, quando a un tratto, un’idea. Balzana, forse destinata a fallire miseramente, ma perchè non provare. Scarichi la foto dal telefono al computer, la risoluzione è sufficiente per i tuoi scopi. Apri Photoshop, e inizi a giocare con luminosità, contrasti e colori. Tutto quel nero dietro alle tette e al busto deve nascondere qualcosa, te lo senti. Una libreria. Dietro la sua spalla sinistra appare una libreria. Zoommi, schiarisci, contrasti. Non è che si possono ridurre i pixel come fanno in CSI Las Vegas, è fisicamente impossibile, però ora qualcosa si vede. Intravedi una fila di libri, dimensioni diverse, ma tutti dello stesso autore. L’immagine adesso è molto sgranata, ma qualche lettera si legge. C. E. P. T. Crepet. Paolo Crepet. La ragazza ha in casa, anzi, in

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camera, anzi proprio nella libreria più personale, tutti i libri di Paolo Crepet. Lo psichiatra, o psicologo, o quel che è, che vive negli studi dei programmi pomeridiani della tv. Perchè? Dici, capiresti anche l’intera bibliografia di Fabio Volo, ti farebbe schifo ma avrebbe un senso, ma Crepet no. Perchè? Una ragazza in quella fascia d’età non può e non deve leggere certi libri. Con tutti i bei libri che sono stati scritti e che andrebbero letti, poi. Perchè? Che sia un ex-fidanzata, una ragazza conosciuta su internet, o la fugace fiamma di una notte soltanto, ora non importa più. Certe cose hanno l’effetto di annichilire ogni tuo entusiasmo. Di ricacciare indietro persino la tua morbosa curiosità. Di dispiace da matti rinunciare a quelle tette, e alle promesse che si portano dietro, ma certe cose non le puoi tollerare. Ci sono scale di valori, di priorità, di senso e di gusto che nella vita non vanno mai, mai per nessuna ragione al mondo, sovvertite. Anche in periodi di grande crisi ed emergenza. Cancelli la foto, cancelli il messaggio e non ci pensi più. (28 maggio)

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Là dove dobbiamo essere

“Gran bella fotografia, e che regia...” - pensava Francesco, di ritorno dal cinema - “Sì, ma quando si dice così è quasi sempre perchè il film ti ha fatto cagare, o comunque la storia non ti ha preso”. La strada era sempre la stessa. Come ogni buon camminatore, Francesco aveva sviluppato i propri percorsi specifici che collegavano casa a tutti i punti sensibili della città, tagliando le vie principali del centro e sfruttando ogni piccola scorciatoia possibile. Quasi si emozionava quando scopriva una nuova strada e poteva sviluppare un tragitto alternativo ancora più efficace. “Ma a me, sto film è piaciuto o no? Bah, in parte...” - il grosso problema di Francesco è che non riusciva mai a bocciare un film che fosse uno, perchè in fondo ci trovava sempre qualcosa che potesse essere salvato, anche fosse solo un piccolo spunto che gli permettesse di macinare pensieri - “lei era monodimensionale, non ci credo che le femmine ragionino così. Però lui, quel conflitto tra dovere e piacere, quel debole per la carne che non riusciva a tenere a freno, nonostante tutto...”. Insomma ci stava pensando sopra, e quindi gli era piaciuto, alla fine gli piacevano sempre. Faceva fresco quella notte, la primavera non ne voleva sapere di sbocciare. Sarà stato per quello, o perchè da camminatore temerario e amante della bella stagione sfoggiava già il pantalone corto d’ordinanza, o forse perchè, diciamola tutta, durante la visione del suddetto film si era scolato mezzo litro di Pepsi, che si rese conto di non riuscire più a trattenere la pipì. Non gli piaceva pisciare per strada, ma essendo forse l’unico vero privilegio dell’essere nati maschi (quello di potersi liberare con gran comodità ovunque si volesse), fece una rapida ricognizione mentale della parte di percorso che ancora mancava, cercando di focalizzare l’angolo più adatto, e soprattutto a breve portata. Accelerò il passo. Era uno di quei momenti in cui i bisogni del corpo bypassano qualsiasi altro livello di pensiero, e diventano dominanti.

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Non c’era più tempo per pensare a un angolo sufficientemente riparato. Era quasi giunto all’incrocio con il viale che correva lungo tutto il perimetro del centro storico. Senza neppure controllare se ci fosse qualcuno nelle vicinanze, si fermò lì dove il resto di un bastione delle mura medievali combatteva contro il passare del tempo. Poi gli automatismi ebbero la meglio, e si arrese a quella piacevole sensazione di svuotamento, condita da brividino finale. Riemerse dall’apnea mentale, trovandosi a sorridere al pensiero di quante persone nel corso dei secoli si erano piazzate in quello stesso punto, calpestando la stessa terra, per espletare i propri inederogabili bisogni. Ancora alle prese con le ultime scrollate, sentì distintamente l’avvicinarsi di una bicicletta. Anzi era ormai troppo tardi per usare la parola “avvicinarsi”. Da dietro l’angolo, dove il passaggio pedonale piegava costeggiando il bastione, spuntò la bicicletta. Un lampione sulla strada alle spalle della figura in rapido avanzamento rendeva impossibile ogni tentativo di riconoscimento. In controluce, la silhouette era nera e compatta. L’unica cosa che su due piedi Francesco riuscì a visualizzare era una figura troppo minuta per essere quella di un uomo. Francesco invece era ben visibile e riconoscibile, e soprattutto aveva ancora la patta aperta e le mani occupate. A poco più di un metro da lui, la figura proruppe in un rapido “ciao”. La battuta era stata troppo essenziale per leggerci dentro il tono ironico, canzonatorio che si sarebbe aspettato vista la situazione, ma fu sufficiente per dare un volto e un nome alla proprietaria della voce. Fece appena in tempo a rispondere “ehi”, che la figura gli passò a fianco e proseguì la corsa nella direzione opposta, senza neppure voltarsi indietro. “Merda, che risposta del cazzo” - lo disse ad alta voce, non riuscendo a trattenere il pensiero - “perchè non ho mai la battuta pronta? Ma anche qualsiasi cosa meglio di uno stronzissimo ehi”. Ultima scrollata, accompagnata stavolta da un brivido che invece di procurargli piacere gli diede fastidio, e Francesco si tirò su la zip dei pantaloni. Poi si rimise in marcia a passo spedito, verso casa. Quant’era che non la vedeva? Che non la incrociava? Come vivessero in due dimensioni parallele. Non ci pensava neanche più tanto, ormai. Però quando capitavano momenti come quello sentiva ancora una piccola fitta dentro, che partiva dalla pancia e lo prendeva alla gola, salvo poi dissolversi nel giro di

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qualche secondo, nonostante avesse da lungo tempo smesso di interrogarsi sui significati, sui perchè e sui per come dietro a ogni suo gesto, a ogni sua parola, detta durante e dopo. Energie sprecate, almeno questo l’aveva imparato. Stava cercando di capire un po’ di più se stesso, ed era già tanta roba. Ma poi perchè quei momenti capitavano sempre in delle occasioni così sfigate? Gli era venuto in mente una specie di proverbio zen, che diceva qualcosa del tipo che siamo sempre nel posto e nel tempo in cui dobbiamo essere, e dobbiamo agire di conseguenza. E comunque mai, ma proprio mai, che ne uscisse in modo brillante, da vero figo. Ci faceva sempre delle gran figure di merda. Mai che fosse riuscito a prendersi una rivincita come si deve. Neanche morale. Dov’era quella dannata legge della compensazione quando serviva? Esisteva una compensazione possibile? Un paio di idee a riguardo le aveva, cose che si sentiva di meritare. Forse però l’unica compensazione possibile a quello che aveva passato era proprio quello che aveva passato. O forse aveva avuto bisogno di convincersene, per tirare avanti. Sapere che gli era servito a qualcosa. E il karma? “Se ci fosse una raccolta punti-karma ne avrei messi da parte così tanti da vincere il premio più grosso” - pensava, percorrendo l’ultimo tratto di strada - “Peccato che succeda solo nei film, in quelli che ancora un po’ non piacciono neppure a me”. (21 maggio)

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Il perché non lo sa neppure Elvis

- E quindi le ho scritto di nuovo io. Però cazzo mi sono rotto. - A-ah. - Cioè è chiaro che mi interessa. - Eh beh. - E poi dicono la parità dei sessi al giorno d’oggi. Ma ti pare...? - Sì. - Ma mi stai ascoltando? - Giusto. Ah, sì, no, è che la vedi quella tipa là che- Oh! Oh, ma l’hai visto quello?! - Quello chi? - Quello, il tizio, il vecchio che si è fiondato nella cabina! - Ma cosa stai dicendo? - Dai, la cabina telefonica dall’altra parte della strada! Laggiù! - Esistono ancora persona senza cellulare, eh. - Ma no, ma cosa c’entra! Si è proprio fiondato, si... Si è lanciato dentro, come se dovesse proteggersi da un’esplosione nucleare! - No, comunque no, non l’ho visto, ti stavo dicendo di quella tipa là, la vedi che- Andiamo a vedere! - Ma sei scemo? A vedere cosa?! - Attraversiamo, e passiamo davanti alla cabina! Voglio dare un occhio. - O mio dio. Un occhio a cosa? - Dai, cosa ti costa! Fammi vedere che combina il vecchio. - Ma starà telefonando, no? Cosa vuoi che faccia uno in una cabina! - Giuro che era davvero troppo di fretta. C’è qualcosa sotto. - Tu stai male. Non voglio essere complice di un guardone. - Allora seguimi e guardami almeno le spalle. - Sì ma la tipa che-

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*** - Vieni! VIENI!!! - È morto? Si è impiccato col filo del telefono? - VIENIII!!! - Ma non c’è nessuno! È vuota! - È VUOTA!!! - Eh, è vuota. Stavolta ti tocca andare da uno bravo. - È vuota! - Sì. Cazzo. Lo vedo da me. È vuota. - Ma io l’ho visto! L’ho visto, c’era. - Sì. - Te lo giuro! Non sono pazzo. L’ho visto correre velocissimo. - Sì. Ora la smetti di toccare tutto? Sai quante malattie? Quanta gente ci avrà pisciato qua dentro? - Si è buttato qua dentro. Qua dentro! - E com’era vestito? - Aveva dei pantaloni marroni e una camicia azzurra. - Capelli? - Quasi pelato, col riporto che gli svolazzava dietro. - Ne borse, ne giacche, nient’altro? Aveva le scarpe almeno? - Ma la smetti con ste domande di merda? Non me lo sono inventato. C’era. - Io non lo vedo. - Lo so che non lo vedi, non lo vedo neanche io. È impossibile. - Senti, vogliamo andare ora? - Non possiamo andare! - Ah. Vuoi rimanere qui per...? - Non lo so. Ma non possiamo abbandonarlo... - Abbandonare chi? Cosa? Ma soprattutto perchè?! La smetti? Chi vuoi che appaia? La Madonna? L’arcangelo Gabriele? Satana? Elvis? Clint Eastwood? - Non è mica morto! - Occhei, va bene. Ma tu ora vieni. Via. Con me. Adesso. E smettila di cercare botole. Non ci sono botole. - Ma-

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- ANDIAMO. Che mi hai pure fatto perdere la tipa. *** - Non me lo sono inventato. - Ok. - Non ho avuto una visione. Sono pienamente cosciente. Sono presente a me stesso. - Ok. Ammettiamo che sia successo davvero. - Ammettiamo? - Ammettiamo. Dove potrebbe essere finito? - Le botole le escludiamo? - Le botole le escludiamo. Nessuna traccia di botole sul fondo della cabina. - Forse si è teletrasportato. - Io dico che è Superman. Cazzata per cazzata... - Troppo vecchio. E poi l’avremmo visto uscire. - Se è entrato. E la supervelocità? Magari è troppo veloce per essere visto. - No, quello è Flash. Dai, l’avremmo visto. - Cambia poco. Poi mica siamo in un fumetto, mica dobbiamo rispettare i personaggi. - Ci sono, è diventato invisibile. - Poteva farlo anche per strada. - Ma qualcuno se ne sarebbe accorto. - E poi che? Si sarebbe messo a urlare? “Oddio oddio c’è un uomo invisibile?” Ah, giusto, tu l’avresti fatto. - Era lì. È corso dentro. Fidati cazzo. - Forse era un alieno. Si scompone in elettroni e passa attraverso i fili del telefono. - Ecco! È come in Matrix! È tornato nella vita vera. - Ci mancava solo Matrix. - Cos’hai contro Matrix? Io l’ho sempre sospettato che- La tipa! Era entrata in un negozio! Ok, sei graziato. - Graziato di che? - Graziato perchè me l’avevi fatta perdere con le tue cazzate. - Non sono cazzate. Giuro. L’ho visto. È entrato. Poi è scomp- Ssssh. Ora taci. Taci e osserva il miracolo della natura. - ...un altro?

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- Un miracolo vero, stavolta. - Sta camminando... - Appunto. Appunto! Ma cos’hai una pietra al posto del cuore? E più in basso? Lasciamo perdere. - Non ti permetto di- Guarda lo splendore di quei shorts... E lo stivaletto nero, un po’ da biker... - Ma non sarà salita in moto una sola volta in vita sua! - Chissenefrega! E quelle gambe magre... - Sono storte. - Taci, capra! Non lo capisci che quella leggera stortura è la base della sensualità che ha nel muoversi? - Sculetta. - Che spreco parlare con te. Non cogli le sfumature, sbagli le parole. Guarda come il movimento dell’anca si trasmette al resto della gamba. Sculettare... Tzè. Guarda come si contrae il polpaccio quando solleva il tallone e spinge in avanti il passo... Le gambe delle femmine mi fanno impazzire. - Vabbè le guardi due volte poi basta. - Le seguirei in capo al mondo. - Allora ti conviene sbrigarti che sta accelerando. - Si è messa a correre... - Hai visto dove va? - No, dove? Ehi, aspetta... - Cazzo, l’hai vista anche tu? - Sì. NO. No, non è possibile. E adesso? - Ahahahah, e adesso stocazzo. - Ti prego vieni con me a controllare. - Ti prego vieni con me a controllare... Hai capito, eh, come ci si sente?! Eh? - Dai, cazzo, non adesso. Facciamo che tu stai un passo indietro e io mi affaccio. Ma come cazzo è possibile che ci siano ancora tutte ste cabine del telefono? (15 maggio)

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Cosa fai quando pensi di non essere visto?

Cosa fanno le persone quando pensano di non essere viste? Quando credono di essere sole, al riparo da occhi indiscreti? Che vizi ci concederemmo se fossimo su un’isola deserta dotata di tutti i comfort? La ragazza entra in camera, appoggia la borsa ai piedi della scrivania, si toglie la giacchetta che indossa e la lancia sul letto. Poi si ferma un attimo, indecisa sul da farsi. No, non è veramente indecisa, è come se temporeggiasse gustandosi quel momento di attesa. Non è un’attesa fremente, di quelle in cui si batte ripetutamente il piede per terra o si tamburellano le dita sul tavolo, è più un’attesa calma, placida, una sorta di raccoglimento interiore. Poi si volta verso lo specchio. È uno specchio a muro, grande, privo di cornice, delle dimensioni di una porta, sistemato nel bel mezzo di una parete totalmente bianca, come se non tollerasse altri elementi che possano rubargli la scena, quasi un portale per un altro mondo. L’effetto è amplificato dal fatto che sulla parete opposta, quella sotto cui sono stati posizionati letto e scrivania, è un tripudio di foto, poster, quadri e cartoline pubblicitarie. Inizia a spogliarsi. Non c’è erotismo nei suoi gesti, o almeno non c’è l’intenzione in lei che li compie. Per chi guarda, per chi avesse la possibilità di farlo, è tutto un altro discorso. Come faccio a saperlo io? Ma soprattutto, chi sono io? Ve lo spiego dopo. Durante questi piccoli gesti, mentre si slaccia le scarpe, mentre si sfila la maglia, la gonna e le calze, non smette mai di guardare il proprio riflesso nello specchio, neanche per un attimo. Rimane in slip e reggiseno. Oggi non ha un completo abbinato: slip bianchi sportivi, sgambati e a vita bassa, quasi un perizoma, e un reggiseno nero con leggerissimi inserti di pizzo.

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Continua a guardarsi intensamente. Si gira su se stessa, ruotando la testa fin quando possibile per non perdere mai di vista la propria immagine. Recupera la propria posizione iniziale, alza prima un braccio poi l’altro, infine entrambi. Non so, è come se cercasse qualcosa, come se le sfuggisse un dettaglio, come se cercasse di mettere a fuoco un particolare che solo lei è in grado di vedere. A questo punto si slaccia il reggiseno e si sfila le mutandine. Tutto il vestiario giace ai suoi piedi, dall’alto potrebbe sembrare una corona, o una specie di nido. Ha la pelle molto chiara, e un sacco di nei. È magra, ma senza i muscoli e le fibre di chi plasma il proprio fisico attraverso uno sport. Eppure ha un bel sedere tondo, e dei piccoli seni bianchi irrorati da una selva di venuzze azzurre. Continua a guardare il proprio riflesso. La luce del tardo pomeriggio che entra dalla finestra la colpisce di taglio, e conferisce alla scena una dimensione quasi religiosa. È come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro, un’apparizione, una rivelazione, ma non succede niente. Si siede sul bordo del letto, che è subito dietro di lei, e allarga le gambe. Penserete di sicuro quello che ho pensato io la prima volta. Vi immaginate un determinato tipo di spettacolo. E invece no. La ragazza non fa proprio nulla di quello che vi aspettereste, o magari sperereste. Semplicemente continua a osservarsi, a studiarsi, anche lì. Certo, si aiuta con le dita, ma davvero vi giuro che non c’è eccitazione nei suoi gesti. Non sta cercando di darsi piacere, è piuttosto alla ricerca di qualcosa. Solo che non l’ha ancora trovata. Non l’ho mai vista o sentita, neanche nel buio della notte, darsi piacere. Forse è la chiave per entrare dentro se stessa, che desidera, non lo so. Ancora non l’ho capito, e secondo me non l’ha capito neppure lei. Eppure è un rito che si ripete praticamente tutti i giorni, al rientro a casa della ragazza. So che vive da sola, e inoltre da quando ho scoperto il buco non ho mai visto entrare in camera sua altre persone, maschi o femmine che siano. Le notti le passa sempre a casa, a parte quando si assenta per l’intero fine settimana, ma credo che sia perché va a trovare la famiglia. Ormai mi sento una specie di angelo custode. Veglio dall’alto su di lei. Il buco lo scoprì per caso, spostando un armadio durante un impeto pulitorio la scorsa primavera. Non stiamo parlando di un buco gigante, ma di una sorta di canaletto di neanche dieci centimetri di diametro scavato nel parquet e nel cemento sottostante. Chi aveva abitato la casa prima di me l’aveva pensata

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proprio bene. O magari era stata un’idea già del progettista? O dei muratori che avevano realizzato l’edificio? Non era presente in nessun’altra stanza, e tantomeno si intravedevano buchi, fori o feritoie nei soffitti. Un piccolo sistema di specchi, come in un periscopio, rendeva possibile tenere sotto osservazione buona parte della stanza al piano inferiore. La ragazza si era appena trasferita lì. Diventò subito una droga, soprattutto nella fase iniziale. Ormai ho preso i suoi ritmi, e so quando posso permettermi di abbandonare la mia postazione. Non come quella prima settimana in cui mi barricai in camera, cercando di limitare al minimo anche le tappe in bagno. Per fortuna ha degli orari regolari, come capì presto. Magari chi mi aveva preceduto non era stato così fortunato, e traslocò dopo aver sistemato l’armadio sul buco in un barlume di rinsavimento. Dalla porta di casa mia alla sua ci metto sei secondi, mi sono cronometrato, otto al ritorno, ma solo perché le scale in salita sono un po’ più faticose. Lascio la porta socchiusa, mi fiondo giù per le scale cercando di fare meno casino possibile, suono il campanello, e poi faccio le due rampe che mi separano dal mio appartamento a tre gradini alla volta, aggrappandomi con tutta la forza delle braccia al corrimano. Mi chiudo la porta alle spalle facendo molta attenzione a non sbatterla, e mi precipito al buco. Quando sono bravo riesco a beccarla che sta ancora riemergendo dalla dimensione intima in cui è avvolta, come se il trillo del campanello ci mettesse una vita a penetrare la bolla che si è costruita attorno. A quel punto si spaventa, colta di sorpresa si guarda rapidamente intorno, recupera le mutandine da terra, se le infila, prende la vestaglia appesa dietro la porta, indossa anche quella, e corre scalza all’ingresso, ma è sempre troppo tardi. È un gioco che mi concedo ogni tanto, ma non troppo spesso, che ho paura che inizi a sospettare qualcosa. Magari un giorno invece di scappare via aspetto che venga ad aprire e mi faccio invitare in casa per un caffè. (6 maggio)

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La storia di Gennarino

Questa è una storia vera. Ma anche non lo fosse, è comunque vero che è una storia. Per essere poi una bella storia, ha bisogno di un protagonista che spicchi e che conquisti il lettore grazie alle sue qualità. È necessario stabilire pure il punto di vista, decidere chi debba assumersi la grande responsabilità di narrare gli eventi per come si sono svolti, o per come avrebbero potuto svolgersi. A questo punto mancano solo ambientazione geografica e temporale, e un tocco di contesto sociale, per mettersi a scrivere. Panoramica a stringere, partendo da una selva di tetti fino a planare a volo d’uccello su una via della città. La città in questione è Bologna, la via Via del Borgo di San Pietro. Per una volta non possiamo omettere dei riferimenti precisi, perchè questa è una storia particolare, anzi una storia in particolare. Il narratore sono io, Emanuele Rosso, nato a Udine il 13 gennaio 1982, e per quanto questa affermazione dovrebbe conferire valore di verità al tutto, non dimenticate che sono solo una funzione del testo, reale quanto sono reali queste parole, inventate, anzi combinate insieme, dall’autore materiale del racconto, che poi voi leggete e interpretate secondo la vostra sensibilità. Il protagonista invece si chiama Gennarino, meglio noto come Gennarino Penna d’oro, meglio noto ancora come il barbone (anche se la barba non ce l’ha) che staziona spesso sotto uno dei portici della via da cui eravamo partiti. Non so se questa è una di quelle storie che partendo da un caso unico, piccolo, acquisisce spessore universale, so però che potrebbe dire qualcosa tanto a chi già conosce Gennarino, quanto a chi ne ignorava fino ad adesso l’esistenza. Non è scontato che i primi siano tutti residenti a Bologna, considerando che

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al momento in cui scrivo Gennarino Penna d’oro ha 3692 fan su Facebook. Egli sosteneva, e probabilmente sostiene ancora, fossero più di 3800, ma in quell’occasione io non potevo saperlo, e comunque sto precorrendo i tempi della narrazione. Torniamo alla nostra panoramica, che ora si è stretta fino a diventare un campo medio, una prospettiva centrale che inquadra a sinistra le vetrine degli uffici e dei negozi che si affacciano sulla via, e a destra il ritmo regolare delle colonne del porticato. In primo piano Gennarino, seduto sullo scalino che innalza uno di questi uffici sfitti dal livello del marciapiede, sullo sfondo una figura che avanza velocemente verso la nostra macchina da presa virtuale. La figura in questione sono io. Non è la prima volta che vedo Gennarino da queste parti, so già pure come si chiama, avendolo sentito richiamare da qualcuno sempre in questa zona, ma non posso dire di aver avuto contatti diretti con lui. Mentre gli passo di fronte bofonchia qualcosa, credo voglia qualche spicciolo o una sigaretta, ha un timbro di voce basso, molto rauco, come se gli avessero grattato le corde vocali con una carta vetrata spessa. Altre volte gli sono passato di fronte, gettando un occhio ma ignorando eventuali richieste, ma non questa volta. Sarà che sono meno di fretta del solito, sarà che sono di buon umore, saranno le congiunture astrali, fatto sta che mi fermo. Mentre cerco il portafogli nella borsa Gennarino inizia a parlarmi, io sollevo lo sguardo su di lui e a quel punto l’aspetto economico non ha più molta importanza. Gennarino ogni tanto interrompe i suoi discorsi per bere del vino che si versa da una bottiglia senza etichette che ha al proprio fianco, aggiunge costantemente vino su vino, senza mai lasciare il bicchiere di plastica vuoto. Allunga anche il vino con acqua, e questo mi fa sorridere pensando allo spritz tanto comune nelle mie terre d’origine. Salvo che poi ci tiene a precisare, come leggendomi nel pensiero, che non di acqua si tratta, ma di gin. Resto in piedi di fronte a lui, e questo mi fa sentire a disagio, sembra che io mi attribuisca una qualche forma di superiorità, ma l’idea di sedermi al suo fianco o per terra in mezzo al marciapiede non mi piace neppure. Insomma sto lì, curvo in avanti, un po’ imbarazzato ma concentrato sulle sue parole. Non sapevo che il suo soprannome fosse “Penna d’oro” e questa è una delle

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prime cose che mi dice. Mi dice di andare a controllare su Facebook se non gli credo. Ha 3800 fan su Facebook. Chissà chi gliel’ha aperta, la pagina, e chi la gestisce. Chissà se ogni tanto qualcuno gli fa vedere gli aggiornamenti tramite uno smartphone, passando di lì, o raccoglie le sue dichiarazioni da poter poi postare sul social network. Ho paura che lo malinterpretino, che la tendenza a fare di una persona un personaggio finisca per schiacciare l’umanità costruita in anni di chissà quali esperienze. Gennarino è un fiume in piena, ha voglia di parlare, o forse come tutti ha bisogno di sapere che c’è qualcuno che lo ascolta. “Penna d’oro” perchè è un poeta, anzi, un autore di canzoni, ne ha composte ben sei, e sta lavorando alla settima. Poi ci mette dodici giorni a impararla a memoria. Così dice. Mi stupisce che abbia stabilito in modo incontrovertibile il tempo necessario a fissarla in mente, e che sia un tempo diverso, separato da quello della composizione. Me ne recita un paio, una è questa: Sei più bella te che il mare Gioia mia sta piovendo quanto è bella l’Innocenza In un minuto mi innamorai in un secondo guardai il mare ad un tratto l’incontrai io davvero m’innamorai Sei più bella te che un gelato a fragola non ci furono lacrime in quel bel mare Che bel inverno in quella bella pioggia che bel sciampo in quelle belle lacrime Lei non mi amò in quel peccato Ma come mi amò in quelle belle lacrime Non avrei mai potuto ricordarla, ma la ritrovo dopo sulla sua pagina, insieme

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a tutte le altre, e sono ben più di sei. Chissà perchè, pur essendo così preciso sull’argomento, a me ha fornito un’informazione diversa. Che ce ne siano di apocrife? Incomplete? Bozze? Quali saranno le sei ufficiali? Gennarino le recita tutte con la stessa intonazione, e la stessa cadenza, come se per la propria scrittura avesse scelto un metro unico su cui declinare le frasi, dopo aver fatto un attimo di pausa per aprile il file giusto, e forse anche per creare la giusta attesa. Non so se in quel momento sia ubriaco, ma credo che non faccia differenza, quelle canzoni fanno parte di lui come un braccio, e come l’alcol stesso. Tra una canzone e l’altra Gennarino fa balenare visioni del proprio passato, e quasi riesco a vederlo ragazzino, per le vie della città vecchia a Palermo, correre per casa mentre si prende gioco del padre che lo insegue barcollante per dargliele. La mamma osserva impotente la scena, e alza gli occhi al cielo recitando una preghiera tra le labbra. Il padre, col fiato che sa di vino, blocca il ragazzino in un angolo e gli allunga due ceffoni, per poi uscire incarognito dall’abitazione e raggiungere gli amici al bar sotto casa. Gennarino ora piange aggrappandosi alla gonna della madre, chiedendosi come mai il padre ritorni tra le mura domestiche sempre in quelle condizioni. A riportarlo per iscritto suona come uno scenario neorealista posticcio, ma attraverso gli occhi tristi e infossati di Gennarino riguadagna la propria indiscutibile verità. Non c’è rabbia o rancore in quegli occhi, solo nostalgia di un tempo passato che ora si è perso, un tempo in cui l’essere grandi era una questione ancora a mille anni luce di distanza. (24 aprile)

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E tutto va come deve andare

Era da troppo tempo che Leo mancava da casa. Ogni volta che si faceva strada nello scompartimento tra pendolari e giovani universitari (ma quanto giovani erano diventati? O era lui che stava invecchiando così in fretta?), armato di zaino, borsa a tracolla e borsone, dopo aver salutato la propria città natale, gli sembrava di stare partendo per l’ennesimo Erasmus. E invece si trattava solo di poche ore di treno. Troppo lavoro e pochi soldi (anzi, troppi lavori che messi insieme non avrebbero raggiunto neppure a stento un salario accettabile) fanno di te un recluso, uno di quei condannati ai lavori forzati con la palla di cemento legata alla caviglia, si ripeteva. Non riusciva ancora a capire perchè si facesse sempre incastrare alla stessa maniera. Era giunta l’ora di riprendere possesso del proprio tempo, che poi comunque nessuno te lo pagherà mai abbastanza. Ma non quella volta lì. Quella volta lì sarebbe rientrato per il classico fine settimana volante, estorto con le unghie e con i denti ai propri datori di lavoro, che non avrebbero mancato di farglielo pesare per i prossimi due mesi almeno. *** Raggiunse il bar dove sapeva che avrebbe trovato amici e conoscenti, senza bisogno di darsi appuntamenti a cui si sarebbe giunti immancabilmente in ritardo. C’era già un discreto capannello di persone che chiacchierava, beveva e fumava fuori dal locale, godendosi il primo tepore primaverile. Diede un’occhiata in giro, occupandosi di fare una checklist mentale dei presenti. Andrea e Martino, compagni di bevute (e non solo) da almeno metà della sua vita, non erano ancora arrivati, quindi decise di intromettersi in un cerchio costituito da un gruppo di ragazze. No, non erano delle sconosciute. In tal caso gli sarebbe mancato il coraggio (e nel profondo aveva sempre invidiato quel genere di tipi che non si fanno problemi ad attaccare bottone con più

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o meno qualsiasi genere di femmina, e che non si fermano al primo rifiuto, ma neppure al secondo). Che poi nella piccola città gli sconosciuti (o le sconosciute) praticamente non esistevano, era solo una questione di gradi di separazione (comunque mai più di due). Stavano discutendo di cose scritte, lette e commentate su facebook, verificando poi in diretta via smartphone le informazioni salienti e i passaggi chiave. Gli passò per la mente quella frase che si usava qualche anno fa: “Parlare della vita vera su internet, e di internet nella vita vera”. Aveva ancora senso la distinzione? Cercò di lanciare sul piatto qualche constatazione brillante, le ragazze risero alle sue battute. Erano tutte molto carine, vestite casual, ma quel casual che presuppone un’attenta preparazione. A Leo piaceva osservare i dettagli: scarpe, accessori, trucco, movimenti delle mani... E lo inebriava stare immerso in quella piccola isola tutta femminile. Avrebbe potuto innamorarsi di tutte loro, e forse era già sulla buona strada. Peccato che. Peccato che alcune le sapesse già fidanzate, e soprattutto peccato che vivessero lì, tutto l’anno, in quella città da cui aveva sempre voluto scappare (finchè non c’era riuscito), che detestava amabilmente, che però lo spingeva a tornare di tanto in tanto, fosse per gli amici o anche di più perchè qualcosa di quei luoghi continuava a scorrergli dentro e a fare da richiamo. *** Di Andrea e Martino neanche l’ombra ancora, e senza sapere bene come si ritrovò solo con Anna. Nell’attimo di imbarazzo (probabilmente solo suo) che seguì questa presa di coscienza, Leo riavvolse rapidamente il nastro fino ad aver chiaro dove si erano disperse le altre fanciulle: un paio erano entrate nel bar per prendere da bere, una era corsa a salutare il fidanzato appena giunto, e l’ultima stava parlando con un’amica a due passi da lì. In fondo non gli dispiaceva, Anna era la sua preferita. Da che l’aveva conosciuta (quando? Boh, non era importante) l’aveva sempre osservata con curiosità. Non dava molto nell’occhio, era un po’ timida, e questo Leo lo apprezzava molto, soprattutto perchè quando si apriva agli altri lasciava intuire un mondo di pensieri. Gli piaceva il suo sorriso, che coinvolgeva in egual misura bocca e occhi, questi ultimi al riparo dietro un paio di buffi occhiali da vista. Era sempre molto stilosa nel vestire: quella sera indossava un paio di jeans, decolleté col tacco, e un cappotto grigio fumo di Londra dal taglio originale, con dei grossi bottoni posizionati in diagonale. Si misero a chiacchierare

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del più e del meno, raccontandosi qualcosa di inoffensivo delle rispettive esistenze, lavoro, amici e compagnia bella. Leo era venuto a sapere (città piccola, gente che mormora), che Anna si era lasciata da poco col fidanzato, ma aspettò che fosse lei a tirare fuori l’argomento. Parlarono di sistemi per combattere i dolori e le nostalgie post-relazioni, Leo avrebbe voluto fare qualche commento per rendere evidente il suo interesse, ma non ci riuscì. Forse era il momento che non era adatto, forse non erano adatte le loro vite, così distanti, così diverse. Forse erano tutte scuse che si era creato dentro di sè per giustificare la propria incapacità. Tornarono le amiche, la conversazione confluì nella loro e si perse. Arrivarono anche Andrea e Martino, i gruppi si divisero naturalmente, maschi con maschi e femmine con femmine, senza neppure bisogno di salutarsi. *** Dopo aver conquistato il posto a sedere e aver buttato la propria roba nella mensola portabagagli, Leo si mise a guardare fuori dal finestrino attendendo la partenza del convoglio. Viaggiare in treno gli metteva sempre una gran tristezza, come se il peso di quello che stava lasciando fosse sempre maggiore delle opportunità a cui andava incontro. In questi momenti in cui il cervello gli si metteva a brulicare amava esagerare, non c’era nulla di così importante da mettersi alle spalle, né alcuna grande opportunità che lo aspettava. Ma la tristezza regnava comunque. Avrebbe voluto provare l’esperienza di catapultarsi in un universo parallelo, un universo in cui aveva deciso di non lasciare la città, in cui si era messo a studiare tutt’altro per poi trovare un lavoro stabile e redditizio, un universo in cui magari avrebbe avuto un senso costruire qualcosa con Anna, o con una ragazza come lei. Ma che motivo aveva ora di abbandonarsi a queste riflessioni? Le cose erano andate come dovevano andare. Mentre scivolava nel classico torpore da viaggio si domandò se anche Anna avesse mai pensato a lui e a tutto ciò. (17 aprile)

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L’uomo che amava le donne tatuate

L’uomo che amava le donne tatuate non era un maniaco, o almeno non si considerava tale. L’uomo che amava le donne tatuate non le amava da sempre, era più una cosa che gli era cresciuta dentro con gli anni. Anche volendo non avrebbe saputo stabilire una data d’inizio, un evento scatenante. Forse per questo l’uomo che amava le donne tatuate non si considerava neppure un feticista. I feticisti hanno sempre di mezzo castrazioni, invidie del pene, complessi d’Edipo e d’Elettra, sublimazioni, transfert, Freud, Jung Lacan e compagnia bella. Al massimo un estimatore. All’uomo le donne tatuate piacevano di sicuro molto, ma piacevano e basta. O almeno questo lui vi avrebbe spiegato se glielo aveste chiesto. Questo amore necessiterebbe di un approfondimento. Non tanto sulla natura dell’amore stesso o dell’uomo, quanto sull’oggetto. Donna tatuata è ormai una categoria troppo vaga e soprattutto ampia. Non conosciamo le statistiche, ma si potrebbe pensare che almeno i due terzi delle femmine tra i diciotto e i trentanni oggi come oggi abbia un tatuaggio. Molto inflazionati caviglia, collo del piede, spalla, inguine, schiena e fianco. Ultimamente sta prendendo piede anche la nuca e quel lembo di pelle tra orecchio e attaccatura dei capelli. Ma non è che l’uomo amasse per questo tutte le donne tatuate, anche se, messo alle strette, avrebbe confessato che si considerava un formidabile osservatore di tatuaggi, anzi, addirittura un individuatore, intendendo con questo l’esperto che con occhio clinico sa sempre dove guardare, e intuisce comunque dal più piccolo dettaglio che rientra nel proprio campo visivo la presenza dell’inchiostro sulla (o nella) pelle di una donna. Ammettiamolo, l’uomo che amava le donne tatuate provava un gran piacere

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a scoprire lettere e parole, piccole fantasie colorate, simboli, ideogrammi, disegni iconici o icastici che l’abbigliamento femminile lasciava fugacemente intravedere. Era uno dei motivi per cui l’uomo rifioriva a ogni primavera, più che un ciliegio. Si dedicava a lunghe passeggiate per le vie del centro, tra scollature che crescevano, pantaloni che s’accorciavano e talvolta si trasformavano già in gonne, calze e leggins che sparivano, lasciando spazio a preziosi centimetri di chiara epidermide. Lo considerava una specie di talento naturale, non serviva neppure fare uno screening completo delle ragazze che gli si paravano di fronte, era come se l’occhio, mosso da volontà propria, cadesse proprio lì dove la pelle era stata segnata. E di sicuro non avrebbe saputo spiegare a parole l’emozione data da un tatuaggio che appare furtivo in seguito a un movimento un po’ più pronunciato del solito, una torsione del busto, un piegamento in avanti, un allungamento che porta la mise indossata a sfilarsi dalla propria sede, liberando superfici cutanee solitamente riservate. Una volta era rimasto incantato, ipnotizzato in mezzo al marciapiede, osservando una ragazza intenta ad agitare un braccio per richiamare l’attenzione di un conoscente: il movimento si era trasmesso alla manica corta della camicia a sbuffo che la giovane portava, facendo apparire uno “smile” (sì, il classico smile giallo e rotondo con gli occhi grandi e il sorrisone congelato) sul fianco, proprio sotto l’ascella. No, nonostante l’uomo apprezzasse e ricercasse tali piccole epifanie, non è di questo amore che stiamo parlando. Questo era più il carburante necessario ad alimentare quotidianamente il motore. L’amore era sbocciato per caso, chissà chi o cosa aveva piantato il seme, facendosi strada sottopelle (non poteva essere altrimenti), e trovando subito un terreno fertile nella moltiplicazione di blog, siti web e network di condivisione fotografica dedicati all’universo delle giovani donne tatuate. Una quantità smodata di foto di ragazze più o meno nude, ma comunque ricoperte di disegni e scritte di ogni tipo. L’uomo passava magari non proprio ore ma molti minuti saltando da un link all’altro, ammirando questi giovani corpi segnati in maniera indelebile. Non gli dispiaceva di certo l’aspetto erotico delle immagini, le ragazze erano sempre belle e discinte, spesso atteggiate in pose provocanti, ma sapeva che non era quello l’elemento davvero importante. Magari lo stuzzicava di più lo scatto rubato di una donna intenta a seguire con le dita foglie e petali del fiore che aveva tatuato sulla coscia.

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Che poi lo sapeva che donne così, di quello che si trovano su internet, nella vita vera, reale, non esistono. O se esistono stanno nascoste, forse escono solo di notte, più probabilmente frequentano solo i propri simili. Se così è, l’uomo sapeva che il suo amore difficilmente sarebbe stato corrisposto. Egli infatti di tatuaggi non ne aveva. Cos’era? Cos’era quindi che lo attirava magneticamente verso quella dimensione del mondo femminile? Sarebbe sbagliato credere che non ci pensasse. Se lo domandava anche lui. Non era giunto a una risposta univoca, di certo gli piaceva l’idea che qualcuno decidesse di segnare il proprio corpo, di modificarlo in maniera definitiva, e che lo facesse con una modalità così evidente, ostentata, attraverso simboli e immagini che era abbastanza raro che fossero davvero originali (che un tot numero di donne cercasse di affermare la propria sensibilità, individualità, intelligenza tatuandosi stelle di varie forme e dimensioni, invece di ripugnarlo lo eccitava). Una forma di devianza, un atto di ribellione ormai socialmente accettato, una folla in cui tutti urlano “Io!”. Di sicuro era affascinato dal concetto del corpo come riscoperta di un nuovo ma anche antico spazio di scrittura. A forza di osservare si era reso conto che non era neppure tanto importante quali fossero i soggetti dei tatuaggi, e che l’attrazione era generata dalla pelle (tanta pelle) dipinta in quanto tale, dal contrasto acceso tra il candore della cute e le linee dai colori ora accesi ora scuri che la percorrevano. Certo, un bel tatuaggio era comunque un bel tatuaggio, ma faceva poi differenza se si fosse trattato di una citazione di una poesia di Emily Dickinson o di un “Mio mini pony”? Interessanti costruzioni teoriche, queste e altre a cui si dedicava, peccato che solo teoriche rimanessero. All’atto pratico l’uomo che amava le donne tatuate non era mai stato con una donna davvero tatuata. Sì, aveva frequentato ragazze che si erano dotate di piccoli marchi, ma erano quei gesti, quei riti dal valore altamente personale, pieni di significato, condensati in un qualche simbolo astratto... Insomma troppe riflessioni dietro a un po’ di inchiostro perchè l’uomo potesse sentirsi soddisfatto. Sognava di schiene totalmente coperte da geishe, draghi o madonne, di arbusti e rampicanti che avvolgono gambe e braccia, di rondini e uccelli vari che nidificano intorno all’ombelico, di seni che mostrano le tracce del passaggio di ogni sorta di animale. Si immaginava assorbito nell’atto di scorrere le mani su quei dise- gni, lentamente, gustandosi ogni singola porzione, accarezzandoli, baciandoli, passan-

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doci sopra le labbra, leccandoli pure. Già normalmente la pelle di una donna ispira tutto questo, ma qui l’ispirazione è doppia, pelle in quanto tale e pelle in quanto tela solcata da un mondo di linee. Ci sperava ogni volta che conosceva una donna, l’uomo che amava le donne tatuate. Che dietro l’aspetto normale, da brava ragazza (perchè sempre così erano le donne che gli capitava di conoscere, e in fondo gli piacevano pure le brave ragazze, solo che avrebbe voluto che fossero brave solo in apparenza, e d’altra parte quelle palesemente “ribelli” o “alternative” un po’ lo spaventavano), anzi, che sotto i vestiti, si nascondesse un multiforme universo colorato. Finora non era stato fortunato, ma non perdeva le speranze. Gli bastava notare la punta di un’edera o di un gelsomino spuntare su un polso lasciato scoperto da una manica che si ritrae all’improvviso per riprendere a sognare. (8 aprile)

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Fa’ la cosa giusta

La ragazza sta seduta storta. Che poi a pensarci non ho mai visto nessuno sul bus che si sieda come vorrebbero designer e progettisti di sedili per mezzi pubblici, anziani a parte. Ma anche loro mica sempre, eh. Storta del tipo che ha trovato il suo equilibrio appoggiando la testa al vetro e lanciando le gambe di fronte a lei, perpendicolare rispetto all’asse fronte/ retro del mezzo. Se lo può permettere per tre motivi: i primi due sono autoevidenti, e i jeans sono troppo attillati per occultarli, il terzo è che al momento l’autobus è in parte vuoto, vuoi il caso, vuoi quell’ora senza padroni poco prima di pranzo. Vuoi il caso (ancora lui), il posto dietro la ragazza è libero. Mi siedo, e lascio vagare lo sguardo di fronte a me. Cerco di fingere che non la sto guardando. La lascio nel campo periferico e mi fermo un attimo a riflettere se sia possibile osservare qualcosa nel proprio campo periferico, a livello anatomico ma pure linguistico. Sento che mi si contorce il nervo ottico. Mi accorgo solo adesso che non sono l’unico ad avere di questi pensieri e visioni (forse solo le visioni): due posti avanti è seduto un giovane che avrà circa la mia età (giovane insomma), che fa finta di starsene bello comodo quando invece ha assunto una postura davvero contorta pur di mettersi nella condizione di guardare l’oggetto del desiderio che ci divide. Da qualche parte un progettista di sedili si contorce nella tomba, o starnutisce, o gli fischiano le orecchie. La ragazza pare sovrappensiero, forse annoiata, come se non dovesse scendere prima del capolinea. Ha una frangia molto corta, squadrata al millimetro. Mi inquietano le frange così precise. Quindi mi attirano. Ogni tanto si guarda intorno, ha guardato anche me, i nostri sguardi si sono incrociati (sapeva che ero in attesa di questo momento). Ha quasi sorriso, è apparsa un’ombra di fossette. Io circa, boh, non riesco mai a controllare i muscoli

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della faccia in queste occasioni. Poi però ha guardato pure lui, che le ha sorriso in modo molto più convincente (maledetto). Respiro l’impasse. Dovrei uscirmene con una frase a effetto, una constatazione arguta e fulminante, e soprattutto dovrei farlo prima che lo faccia lui. Prossima fermata Pontevecchio, dice la voce registrata. L’autobus si ferma, le porte si aprono, sale una signorotta bella in carne. Vero che il bus è mezzo vuoto, ma i posti a sedere sono tutti occupati, se si esclude quello in fondo tra due pakistani. La signora punta dritta al centro, dove io e Tizio ci stiamo silenziosamente combattendo i favori della ragazza. Si piazza davanti a noi, non dice nulla. Fa scorrere lo sguardo su tutti e tre, poi fa un secondo passaggio, soffermandosi prima su Tizio, poi su di me. Intanto l’autobus è ripartito. La ragazza segue lo sguardo della signora, come se volesse studiare le nostre reazioni. È tutta una questione di prontezza. Il primo che offre il proprio posto ha vinto. Però poi tocca stare in piedi. In piedi dove? Di fronte a lei? Troppo sfacciato. Poi non si tratta più di occhiate di traverso ma di fissarla proprio, pure dall’alto in basso. E se non dici niente sicuro passi per maniaco. E se ti sposti altrove, o le dai le spalle, beh, è comunque tutto finito. Però forse così sarà lei a rivolgerti la parola. Forse. Com’è che i gesti egoistici hanno sempre un ritorno immediato mentre di quelli altruistici invece se ne intravede vagamente uno? Stai giusto riemergendo da questa valutazione di pro e contro, con la bocca aperta pronta a formulare la fatidica frase, quando senti Tizio che dice: “Vuole sedersi, che tanto io devo scendere alla prossima fermata?”. Merda. Penso sempre troppo. La signora risponde secca: “No grazie, non sono mica vecchia”. L’istante successivo il tempo si ferma. La ragazza ha sgranato gli occhi in una risata silenziosa, a Tizio invece si sta sciogliendo la faccia in una smorfia sorpresa. Il tempo riparte. Tizio si sente di sicuro un coglione, io un vigliacco. La ragazza se potesse riderebbe di entrambi. La signora sembra aver ricevuto un’offesa mortale.

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Regna il silenzio, la battaglia si è conclusa, senza vincitori. Con due vinti. Alla fermata successiva Tizio scende davvero. Non si guarda neppure indietro. L’autobus riparte di nuovo, la signora si siede nel posto ora libero. Vorrei fare una battuta alla ragazza, ma non mi esce niente. Continuo a guardarla di sguincio. Sono uno sfigato e lei lo sa, le leggo in faccia che lo pensa. Ancora un paio di fermate e scende anche lei. La osservo mentre si alza, si sistema i jeans alla vita con un gesto da cineteca, si avvicina alla porta e fa un piccolo salto per atterrare direttamente sul marciapiede. Mi becca nel momento in cui le porte si chiudono e il bus riprende la marcia. I nostri sguardi si incrociano per un’ultima volta, ma il suo non riesco a capirlo. Rientrato a casa accendo il computer, cazzeggio un po’ su facebook, tra gli aggiornamenti di status dei miei amici. Mi cade l’occhio su una foto profilo sconosciuta, ma stranamente familiare. Cazzo è lei. Com’è che siamo amici? E da quanto? E lei lo sa? Cioè lo sapeva? Le scrivo? Sì ma cosa? Mi spiego? Faccio finta di nulla e le scrivo e basta? Su facebook sono brillante e spigliato. (3 aprile)

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La parentesi Sasha

- Dove sei? - Sto arrivando. Tu? - Sono in ufficio, ti aspetto. Clic. Si era sempre chiesto chi avesse incominciato a chiamarlo “l’ufficio”. Non era poi così importante, ma pensava che bisognasse rendere merito allo spirito paradossale insito in quella definizione. L’ufficio non era nient’altro che una piccola enoteca in pieno centro, diventata principale posto di ritrovo per due validissimi motivi: la qualità dei vini (certo, un po’ più costosi della media, ma vuoi mettere come migliora la qualità della vita quando una sbronza come si deve non lascia postumi?), e soprattutto la collocazione, in una viuzza per cui transitava chiunque, un po’ come quel fiume sulla cui riva dovremmo sederci per veder passare il corpo del nostro peggior nemico, e nel frattempo di tutti gli altri. - Ma hai già un bicchiere in mano! - Se devo fidarmi dei tuoi “sto arrivando”... - Non trovo mai parcheggio. - Abiti qua dietro, cazzo. Vieni a piedi! - Cheppalle, ti odio quando fai il salutista. - Ma che c’entra il salutista adesso. Sei tu che sei pigro. - No comunque devo raccontarti un sogno pazzesco che ho fatto stanotte. - Oh, ma hai visto quella? Uguale a Sasha Grey! - Insomma ricevevo un pacco dall’Enel. Ma Sasha Grey dove? - Massì, le stesse sopracciglia malefiche, quelle da brava ragazza posseduta dal demonio.

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- Posseduta, soprattutto. Nel pacco, anzi sopra, c’era un biglietto, che diceva- Ma si può smettere di fare porno così giovani? Vabbè che ci ha dato dentro, ma cazzo no. Tanto a fare l’attrice seria non sfonda. - Eviterò le battute. Ma trovati una nuova passione. Non è che manchi la carne fresca. Ultimamente mi prende molto Jessie Andrews. - E chi è? - Una biondina, super giovane, faccia d’angelo, occhioni e nasino all’insù, solo che poi si fa fare delle robe... Col biglietto l’Enel mi avvertiva che il pacco conteneva un gas pericoloso e di non aprirlo assolutamente in casa. - E tu che hai fatto? Ma robe tipo? A livello di Sasha? - Sono corso fuori di casa col pacchetto in mano. Mi piace che hanno in comune questa passione nel farsi dominare, nel godere a subire violenza. - Ancora che fai pubblicità a sta Jessie Andrews? Ma chi cazzo sei il suo ufficio stampa? Dai che è una mezza delusione, non è neanche retroattiva! Il terzetto si era ricomposto. Non c’era sul serio bisogno di darsi appuntamento. Quando tornavano in città, il ritrovo scattava automatico. Il luogo era noto, e così anche l’ora, che poi come in tutte le città del Nord-Est corrispondeva a quella fascia pre-serale in cui la gente si riversava per strada, beveva un paio di bicchieri, faceva quattro chiacchiere e poi spariva nel nulla, lasciando il centro deserto a un’ora in cui nel resto del mondo le città iniziano ad animarsi di vita notturna. Tanto valeva godersi quel poco che c’era a disposizione. - Eh?! Retroattiva? - Retro... Attiva... - ... - ... - Ma dai non vi è piaciuta? Perchè bisogna essere per forza volgari, o usare espressioni inglesi? L’italiano ha tutte le risposte. - Retroattiva fa cagare. - Sì. Anche a me. - Insomma poi stavo nel mezzo del giardino, e dovevo aprire il pacco per verificare che quanto scritto sul biglietto fosse vero. - Scemo quanto nella vita vera. - Che pacco ha ricevuto?

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- No, niente, è un sogno. Lo apro e poi cerco di scappare subito via. - Dio cheppalle i sogni, interessano solo a chi li fa. Sarà ben meglio quella tizia là? - Che chiappette. La primavera mi uccide. - Peccato che abbia le basette. - Riesci sempre a cagare la minchia, eh? Ci credo che sei single da una vita. - Le femmine bisogna amarle tutte, mica a pezzi. Non ti metti mica con un paio di tette, o con un culo. - Parla per te. Io con quel culo mi ci sarei messo. - Sperando che sia “retroattiva”... - Va bene, occhei, me lo rinfaccerete tutta la vita? - No, non credo, devi prima finire di pagare per “masterizzare”. - Ahahah, cazzo è vero, masterizzare! Me n’ero dimenticato. - Che stronzi che siete. Ci stava. Aveva un perchè. Il disco vergine, la masterizzazione. Dai la metafora viene naturale. - Esistono pure le brutte metafore, eh. - Ma brutte forti. Ma non scappo correndo. No. Come un idiota mi metto a strisciare per terra, sui gomiti. - Poi ci raggiunge la tua amica? - Ma chi, la giovanissima, proprio lei? - Non dire così che mi fai sentire di un vecchio... - Ormai sei vecchio. Vecchio e pure maledetto, come cazzo è possibile che ci provi con te ogni volta io non lo so. - Non ha senso. E tu la rimbalzi pure, cristosanto. - Sto gas, che poi è un veleno, verdissimo, inizia a espandersi nell’aria, e io intanto striscio, solo che vado lentissimo. - Mi fa paura. Mi inibisce. Io a una così non credo di starci dietro. - Non potevo correre? No, striscio, cazzo. Ma perchè? È ovvio che il gas mi raggiungerà. - Oddio... Non mi sembra così aggressiva. - Ma no, è che non ho il fisico per farmi una così, mi prende un coccolone, secondo me ha degli standard altissimi. - Infatti mi raggiunge. E io procedo sempre più lento, le braccia mi pesano un casino. - Non mi si rizzerebbe neanche, troppa ansia. - Mica è Sasha Grey! - Sei arrivato tardi. Per oggi la parentesi Sasha è chiusa.

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- Ma perchè abbiamo dovuto mettere sta cazzo di regola su Sasha? - Perchè è da malati passare tutta la sera a parlare di una pornostar, anzi, che poi è pure ex-. - E a quel punto perdo conoscenza, e muoio! E mi sveglio di botto, spaventatissimo. - Ah cazzo, finalmente hai finito. Contento ora che l’hai raccontato? - Siete delle merde. - Facciamo che d’ora in poi la parentesi Sasha la possiamo aprire solo quando siamo tutti e tre presenti? - Occhei, ma se arrivi tardi sono cazzi tuoi. (27 marzo)

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Conto alla rovescia

- Tieni, è per te. - Ma cos’è? - Aprilo! - E perché non me l’hai dato prima? - Volevo il colpo di scena. Ok. La cena è andata bene. Vi siete seduti sul divano. Anzi. Ti sei seduto e poi si è seduta anche lei. Avrebbe pure potuto mettersi nella poltrona di fronte. - Secondo me è un libro. - Dai, smetti di palpeggiarlo e aprilo! - ... - ... - Ma è lui! - Mm-mmh. - Te ne avevo parlato solo la sera che ci siamo conosciuti. - Per i libri ho una memoria di ferro. - I maschi non ricordano mai queste cose. - Eccomi! Sono qua, sono pronto! La mia missione è salvare la categoria. Forse hai esagerato. Va bene l’ironia, ma tieni un profilo basso. Non fare il ganassa. Certo che però un bacetto di ringraziamento poteva pure mollartelo. Cazzo non è mai così facile. - Intanto pensa a salvare te stesso. Guarda che non sei ancora stato perdonato per quei due giorni là, senza dare segni di vita... Dopo l’aperitivo! - Merda. È vero. Dimmi cosa devo fare per... Sono disposto a qualsiasi cosa pur di salvare il mio onore!

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Col cazzo. Vabbè la gag, ma quanto te la vuole menare? Che puoi continui a non capire... Cosa funziona meglio? Fare gli stronzi e non farsi sentire o i romantici premurosi con tanto di messaggino della buonanotte? Mai capito. - Potresti venire a pulirmi il bagno tutte le settimane per i prossimi due mesi. - Guarda che lo considero un invito. Poi finisce che faccio la tenda e non vado più via. - Pulisci anche la cucina? - Pure la camera da letto! Dai l’allusione è chiara. O è chiara solo nella tua testa? Forse dovresti solo (solo?) lanciarti su di lei e baciarla. E se ti respinge e dice che hai equivocato tutto? - Ah no. Quella è zona protetta. Ci vuole un lasciapassare speciale. - Azz. Carta bollata e timbri speciali? Devo avere il permesso dall’ufficiale in comando? Chi è costui...?! - Ahahah, è un uomo rigidissimo, non si può sgarrare! E vorrà di sicuro le tue referenze. - Il mio stato di servizio è esemplare. Ma dove vuole andare a parare? Vabbè intanto ti stai facendo un centimetro alla volta più vicino e lei non si ritrae. Ti sembra rilassata. Forse troppo? Ha le gambe accavallate però è girata verso di te. Beh, certo, siete su un divano. Sennò come fareste a interagire? Cazzo ma perché quei decaloghi sull’interpretazione della postura non prendono mai in considerazione questi casi? - Seh seh... Dicono tutti così. Chissà quante volte ti sei introdotto di nascosto in una zona protetta e poi se scappato lasciando dietro un disastro! - Non stiamo più parlando di camere, vero? ...Avverto una vibrazione nella forza... Qualche ferita ancora aperta. - Non si risponde a una domanda con una domanda. - Non era proprio una domanda la tua. - E comunque non ti avevo autorizzato a uscire dalla metafora!

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- Serve un timbro anche per quello? Grande. L’hai incastrata. Scacco. E adesso? Meglio farla sfogare o cambiare argomento? Se poi le scende la catena? Attenzione! Pericolo confidente! Pericolo confidente! - Forse l’ufficiale può chiudere un occhio... È che di guastatori, diciamo, ne ho conosciuti un casino. Altro che zona protetta, è un groviera... - Finché non sono buchi troppo grossi! - Niente che non si possa tappare. - Insomma pare che sia facile insinuarsi... Cioè, non nel senso cheBravo. Bella mossa. In pratica le hai dato della zoccola. Sì, è vero che su facebook ha mille foto con uomini vari ed eventuali, ma cosa vuol dire. Forse potevi evitare di spulciare il suo profilo e tutti gli aggiornamenti dell’ultimo anno. Ma ormai chi non lo fa. Di sicuro l’ha fatto anche lei. - Ho raddoppiato i turni di guardia. - Azz. E il passaggio segreto? Lo sorvegli? - Quale passaggio segreto? Merda si è indurita di brutto. Siete così vicini ormai. Basterebbe uno scatto combinato testa-collo-busto, le sue labbra nel mirino, e la staresti già baciando. Di cosa saprà la sua bocca? Ti sta guardando. Cosa aspetta? Una risposta o...? Cazzo provaci. Cos’hai da perdere? Questo momento lo odi. No lo ami. È tutto ancora in potenza. Questo momento che poi non sai mai quanto è durato davvero. Questo momento che sta per(16 marzo)

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La finestra

Una città piccola non vuol dire niente. Le persone non si incontrano mai per caso. La più piccola delle città può essere infinitamente grande se il tempo degli incontri è passato. Non ti ho più incontrato per strada, da quella volta. A dirla tutta non ti incontravo mai per strada neanche prima, e poco durante. Forse è un bene, non lo so. Ho pure traslocato, spostandomi da un capo all’altro della città, ma non è cambiato nulla, se non le strade che cammino tutti i giorni. Ho anche un nuovo lavoro, uno dei tanti che faccio. La cosa buffa è che mi ha portato a ripercorrere strade che non credevo avrei più fatto, dopo. Il tragitto è breve, una volta sceso dall’autobus. La strada è spesso silenziosa. Poca gente in giro. Nella mia testa questa è la zona berlinese della città, saranno gli alberi, o le piste ciclabili, o proprio il silenzio. Quando ci passo è già sera, quando torno a casa notte. Conosco tutto di questa strada ormai, mi accorgo perfino di quando appare una nuova firma su un muro. Fra un po’ inizierò a riconoscere anche le macchine parcheggiate. E ogni volta non resisto alla tentazione. Alzo lo sguardo, lo spingo tra quei due palazzi, oltre la cortina d’alberi, e cerco la tua finestra. Una portafinestra, anzi. La luce è quasi sempre spenta, e non mi stupisce, vista l’ora. Quelle poche volte che è accesa invece, non si scorgono ombre. In effetti mi chiedo come mai sia accesa a quell’ora. Ma è solo il tempo di un’occhiata, non so niente di più, e niente voglio sapere. È una specie di tradizione, ormai. Sono strane le associazioni mentali, non seguono schemi logici o di causa ed effetto, uniscono punti apparentemente distanti, ma in fondo lo spazio del cervello è una dimensione curva, è tutto molto più vicino di quanto sembri.

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Una delle prime volte, prima che diventasse una tradizione, ho pensato che a quei tempi pesavo molto di più di adesso, per i miei standard almeno, qualcosa come cinque chili di sicuro. È strano che un maschio si soffermi su queste cose? Forse, non lo so. So che da sempre mi colpisce come siamo in grado di forgiare il nostro corpo in base a quello che viviamo, o come esso forgia noi. Ho sempre detestato la ciccia, anche se si tratta solo di un filo di pancetta che ci si porta dietro dai tempi delle scuole medie, vorrei essere assolutamente tonico e asciutto, senza un filo di grasso, detesto anche quando le donne dicono che vogliono l’uomo con la pancetta, no, non è vero, mi pare una cazzata bella e buona. E non sono pigro, quindi cammino molto, e veloce, con la bella stagione vado a correre, faccio sempre gli esercizi (addominali, flessioni) prima della doccia. Voglio piacermi, voglio conformarmi al mio ideale personale. Anche se una cosa è metterlo in pratica, una cosa è ammetterlo esplicitamente. Darsi un metodo, e riuscire pure a seguirlo, sembra un po’ folle. A te tutto questo non piaceva. Dicevi che non potevi accoccolarti comoda su di me, come un gatto, se avevo troppi muscoli o ero troppo magro. E io ho smesso con gli esercizi, e credo di aver pure iniziato a mangiare di più. Se ora guardo le foto di quel periodo mi vedo gonfio come un pallone, e sorrido di quel me stesso del passato. Anche lui sorride, ma non di me, vorrebbe solo spiegarmi che è contento perchè non deve limitarsi a seguire il proprio ideale, e vorrebbe farmi capire quanto grande è il privilegio di piacersi per come piacciamo a un’altra persona, attraverso i suoi occhi. No, è una bugia, lui tutto questo mica l’aveva capito. Che poi non è che adesso abbia capito molto di più. (9 marzo)

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L’occhio trombino

- Com’è andata? - ... - Eddai, non siamo in teatro, puoi anche evitare queste pause a effetto. Allora? - Boh. - Cazzo eri così carico... Cos’è successo? - Pensavo che l’invito fosse chiaro, ma si è incasinato tutto. - Ma ti aveva fatto intendere che...? - No. Non mi aveva fatto intendere un bel niente. Però dai, cioè davvero tu non ti fai almeno un po’ il viaggio la prima volta che vieni invitato a casa? - Tu guardi troppi film porno. Che non sono proprio dei miracoli di sceneggiatura neorealistica. - Mica pensavo a quello! Cioè, sì, magari anche sì, ma non per colpa dei porno. Poteva anche essere solo un romantico limone sul divano. Bacio intensopausa-sguardo intenso-pausa-altro bacio. - Vabbè, e quindi? Perchè devi sempre prenderla così alla larga? Odio. Arriva al punto. - Abbiamo pranzato... - Take away o ha cucinato lei? - Ma che importanza ha? E poi dici a me. - Sei matto? Ha tutta l’importanza del mondo. Cucinare per un ragazzo ha un sottotesto potentissimo. La scelta dei piatti, il tempo dedicato all’operazione, scegliere di sottoporsi a un inevitabile giudizio... - Beh, ma perchè tu saresti così pazzo da dire a una tipa che ti vuoi fare e che ti ha invitato a pranzo che il suddetto pranzo fa cagare? - No, ma lei lo sa che tu non glielo diresti. O comunque potrebbe voler sfruttare l’occasione per metterti alla prova. Magari sceglie di cucinare male apposta per vedere come reagisci.

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- È assurdo. Cazzo è, un trucco mentale Jedi? Ma poi chi l’ha detto che la sincerità paga? Secondo me non paga una fava. - Guarda che io ne ho conosciute di femmine diaboliche. Pensa alla potenza di una simile strategia. Lei cucina di merda, apposta. Se tu glielo fai notare, lei può scegliere se offendersi e sfancularti o se lodarti per la sincerità che potrebbe deporre a tuo sfavore. Se taci, lei potrebbe apprezzare il fatto che tu vada oltre queste categorie veteromaschiliste, oppure potrebbe risentirsi pensando che ingoieresti qualsiasi rospo pur di portartela a letto. - Vabbè, però così si incastra da sola. Perchè non saprà il perchè della mia scelta a meno che non me lo chieda esplicitamente. Ma se me lo chiedesse esplicitamente dovrebbe ammettere che è tutta una strategia, e questo di sicuro non lo farebbe MAI. - Questo perchè non consideri il tipico ragionamento femminile autolesionistico in continuo avvitamento su se stesso. - Tu devi avere alle spalle delle gran brutte esperienze. Comunque ha cucinato lei. E ha cucinato bene. E io non ho pensato una sola volta a nulla di sta roba che dici tu. Abbiamo preso il caffè. - Avete parlato sempre? Qualche silenzio-imbarazzante-carico-di-tensionein-cui-nessuno-sa-cosa-dire-e-ci-si-guarda-di-sfuggita-negli-occhi-per-poiriabbassare-lo-sguardo? - Sereni. Chiacchiere come fossimo amici da una vita. - Male. Malissimo. Neanche un accenno di malizia, così, tra le righe? Qualche battuta che si prestava a doppi sensi, che alludeva a? - Boh, non mi pare... - Le cose sono due: o hai lo spirito di una patata lessa, o non ce n’è. È strano però, perchè se anche sei una patata lessa, e ho il sospetto che tu lo sia, da che mondo e mondo anche la più innocua comunicazione uomo/donna si porta dietro una tensione sessuale latente. - Tu stai male. E poi sono io quello che guarda troppo porno. Comunque il fatto è che a quel punto è rientrata a casa la sua coinquilina. - Ah! - Non poteva dirle di fare più tardi? O al massimo di chiudersi immediatamente in camera? E invece no. È venuta proprio lì, in cucina. Si è seduta, si è presentata, e si è messa a parlare con noi. Non è stata neanche sfiorata dal pensiero di essere di troppo, che quella era la classica situazione a due che non prevede ingerenze. In nessun modo. - Che mi stai raccontando, allora? È chiaro che-

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- No, no, aspetta. Ora viene il bello. Quando si è presentata non me n’ero accorto, e dire che ci siamo guardati pure negli occhi, ma poi quando si è seduta sì. - Ma cosa? - Cioè mi ha guardato proprio negli occhi, e non mi sono accorto di nulla, giuro. Insomma dopo le presentazioni, mentre si continuava a parlare, l’ho guardata di nuovo, di sfuggita, lei si era distratta e stava guardando fuori dalla finestra, o almeno credo, non so, con un occhio di sicuro. - Eh? - Tipo che era mega strabica, ma guarda una roba che se anche mi fossi alzato non avrei trovato un punto cieco della cucina in cui nascondermi dalla sua vista, cioè dai suoi occhi, uno dei due almeno. Però poi se guardava te, riusciva ad allineare gli occhi e non potevi capire che era strabica. Era come vedere in azione chessò il bicipite, o un qualsiasi altro muscolo, cioè osservare uno che fa dei piegamenti sulle gambe, e notare lo sforzo, il lavoro di contrazione. E da quel momento non sono riuscito a fare altro che cercare di osservarla senza che lo capisse, e vedere come rimetteva in posizione l’occhio pigro, e come poi lo lasciasse andare quando aveva finito di guardare qualcosa che necessitava della sua attenzione. Contrazione-rilassamento-contrazione-rilassamento. Mi sembrava uno di quei momenti di iperconsapevolezza, hai presente no? Quando diventi super cosciente tipo di una tua mano, o di una spalla, o del polpaccio. Solo che in questo caso era una consapevolezza non su di me ma su di un’altra persona, quindi forse ancora più grande, capisci? - Capisco che sei scemo. Cosa c’entra con tutto il resto, con la tipa soprattutto. - Cazzo non puoi capirlo finchè non lo vedi. È che a quel punto non riuscivo più a seguire la conversazione, cioè questa cosa stava assorbendo tutta la mia attenzione, interrogavo l’amica invece che lei, solo per poter ammirare un’altra volta il ripetersi dell’evento. Pensa che figata sarebbe se avessimo la libertà di muovere gli occhi in modo indipendente, come dei camaleonti. E lei poteva quasi farlo. Magari è una mutante, il primo gradino della prossima evoluzione della specie umana, che ne sai? Chissà come vede il mondo? Non ti viene voglia di entrare nella sua testa, un po’ come in Essere John Malkovich? Lei sì che sceglie davvero cosa guardare, mica come noi. - Non mi sembravi così entusiasta all’inizio. - È che a quel punto mi ero pure scordato perchè ero lì. La missione origi-

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naria era passata in secondo piano. Quando ti ricapita una cosa del genere? - Tutte le volte che tornerai in quella casa, no? - Eh, la vedo dura. - Ah, ecco! L’hai fatta ingelosire. - Ma magari. No no, mi sa che si è accorta che la mia attenzione era tutta catturata da quell’occhio libero di vagare dove più gli piaceva. - E con questo? - Nel giro di dieci minuti ha trovato il modo di mettermi cortesemente alla porta, con qualche scusa su tutte le cose che doveva mettersi a studiare proprio quel pomeriggio. - Tanto non te la saresti fatta comunque. - Credo di no. - E quindi è andata male. - Sì, ma non poi così male. - In effetti no. (19 febbraio)

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Meglio di Euclide

Mi ero appena chiuso la porta alle spalle. Ci eravamo salutati con quei bacetti sguinci che non so perchè mi sono sempre sembrati vigliacchi, sarà perchè sono rapidi, perchè è più uno sfiorarsi di guance che dei baci veri e propri, sarà perchè non ci si guarda neppure. Vabbè che neanche quando ci si bacia sul serio ci si guarda, che tanto non si capisce quasi niente, al massimo apri gli occhi per vedere se chi ti bacia tiene gli occhi chiusi o meno. E se poi li apre quando li chiudi tu? Ci si potrebbe alternare all’infinito, nel senso dell’infinito della durata di un bacio. Ci hai mai pensato? Vabbè sto degenerando. Ho sceso le scale e mi sono ritrovato in strada. Avevo la busta con me. Sì, questa busta che vedi. Dentro? Dentro ci sono dei libri. No, non li conosci. Sono quei libri che piacciono solo a me, poi ogni tanto cerco di convertire qualcuno ma non ci riesco mai. Secondo me non li leggono neppure. Alcuni me lo dicono anche. Beh, sì, lo preferisco. Forse, non lo so. Un po’ fa male comunque. È pur sempre come dare un pezzo di sé che poi ti viene restituito lindo, immacolato. Non dico che dovresti soffiartici il naso, ma cavolo almeno maneggialo, studialo, giocaci un po’. Sì no, parlavo del pezzo di me non dei libri. O dei libri come pezzi di me, vabbè è una metafora un po’ così, dai hai capito. E comunque non era dei libri che volevo parlare, potevano pure essere dei dischi o una vecchia felpa che avevi prestato un giorno che il cielo si era annuvolato quasi dal nulla, si era alzato il vento e la temperatura era precipitata di tipo dieci gradi. È solo che io mica li rivolevo indietro quei libri. Ho le mie teorie sui prestiti. È vero, ho le mie teorie su tutto. È così bello teorizzare. Puoi partire dalla tua esperienza e costruirci sopra teoremi, assiomi, postulati che neanche Euclide. Tanto mica devi farteli convalidare da chicchessia. E se poi i fatti li smentiscono ti basta aggiustarli, almeno fino

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alla prossima volta. Vabbè sto degenerando di nuovo. Ci sono vari tipi di prestiti, e non parlo di soldi. E poi chi li ha avuti mai soldi da prestare? Grazie, non serve che me lo dici tu che guadagnare poco e avere le mani bucate non è l’accoppiata ideale. Ci sono i prestiti, come dire, funzionali. Tipo quando presti una chiavetta usb, che poi la rivuoi indietro il prima possibile che ti può sempre servire, vabbè non serve neanche che te li spieghi questi. Poi ci sono quelli che io chiamo prestiti culturali, quando presti appunto libri, fumetti, cd. So che ci sono quelli che si segnano tutto, tipo il quadernino dei prestiti, completo di doppia colonna del dare/avere, solo l’idea mi fa rabbrividire, manco fosse un bilancio aziendale. Io non ho mai segnato niente, sono dell’idea che la cultura deve girare, devi trasmetterla, e tanto una volta che un libro l’ho letto ormai fa parte di me, quindi quando lo presto metto in conto che alle volte ritorni, e alle volte no. Lo so, lo so che non sempre chi si tiene le cose che gli presti è in buonafede, e fa conto sulle tue dimenticanze. Ma mi piace pensare che se non te le restituisca di propria iniziativa sia perchè quella cosa gli è piaciuta anche più che a te, e quindi in un certo senso se la merita di più. O forse l’ha a propria volta prestata a qualcun’altro, e in questo caso la trasmissione è salva. Sogno sempre che i libri mi vengano restituiti dopo giri pazzeschi, dopo che sono passati per chissà quante mani, e che siano pieni di sottolineature (ma solo a matita) e di appunti a bordo pagina in grafie sconosciute, ma non succede mai. Comunque no, non era di questo tipo di prestito che volevo parlare all’inizio, cioè alla fine. Perchè nella mia tassonomia c’è pure un terzo tipo di prestiti, i miei preferiti, che non conta cosa presti ma perchè lo presti. Sono quei prestiti che poi non sono veri e propri prestiti, ma più una specie di mezzo per creare degli sbilanciamenti, dei disequilibri. Che palle l’equilibrio. Con l’equilibrio non si va da nessuna parte. Sono quei prestiti che fai per creare un legame, per unire una persona a te. Ammetto che alle volte non li presento neanche come prestiti, perchè se dimentico apposta qualcosa a casa o nella borsa di qualcuno di certo non si può parlare di prestito. È sbagliato dire “dimenticare apposta”? Lo so, ma “lasciare apposta” come espressione non vale mezza tacca in confronto. E insomma poi è fatta. Un prestito così è sempre una buona occasione per rivedersi. Forse poi ti farai restituire la cosa in questione, ma forse anche no. Rimanderai. Alimenterai lo squilibrio. Non è per forza una roba di qualche

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giorno, eh. Alcuni di questi prestiti li tieni vivi tipo per anni. Sai che sono lì ad aspettarti, quando sarà il momento. Però poi ci sono le volte come oggi, ogni tanto succede, dovrei averci fatto il callo ma lo odio lo stesso, quando qualcuno insiste per restituirti quello che gli avevi prestato, o forse ti eri dimenticato a casa sua, non importa, e non puoi più rimandare. E sai che non potrai più usare trucchetti così, che se uno vuole il suo bell’equilibrio indipendente, da te di sicuro, glielo devi permettere. Ecco i tuoi libri, e ti porge una busta. Una busta di Intimissimi, per giunta. Odio le buste di Intimissimi, mi fanno sempre sentire uno scemo quando cammino per strada con sta roba che mi sbatacchia sulla gamba. (13 febbraio)

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L’ultima sigaretta è del maresciallo

Le porte si aprono. Scende dal treno. Si avvia in mezzo alla gente verso il sottopassaggio. Giunge nella hall della stazione. È nervosa, ha bisogno di fumare una sigaretta. Si guarda intorno, sta aspettando qualcuno. Ha i capelli corti, biondo platino, un principio di ricrescita. È magra, veste un vecchio eskimo, e come si dice in questi casi, sembra un pulcino spelacchiato. Non ha borse o valigie con sé, non ha praticamente nulla. No, in realtà qualcosa ha. In una tasca interna, al caldo, riposa un panetto di hashish. Non è la prima volta che quella tasca fa da deposito per quel tipo di materiale. Deve consegnare il panetto a un ragazzo. Non è il suo ragazzo. Anche se qualcosa in passato, lo ammette, c’è stato. Ora è più una questione di affari. Ma solo perchè è parecchio a corto di denaro. Ha una terribile voglia di una sigaretta. È poco più che un fantasma, ma le porte scorrevoli rivelano la sua presenza. Esce dalla stazione. Fruga nella tasca (un’altra tasca), e recupera il pacchetto di sigarette. Proprio in quell’istante una volante dei carabinieri rallenta e si ferma parallela al marciapiede, di fronte a lei. Scendono due agenti, una giovane recluta e uno scafato maresciallo. Lei è rimasta immobile, ipnotizzata dalla scena, col pacchetto di sigarette in mano, sembra un film italiano degli anni Settanta. Il giovane carabiniere rimane vicino alla macchina, beatamente appoggiato al cofano, lato guidatore, quello anziano si avvicina alla ragazza. Cosa vuole? Mi scusi, signorina, ha una sigaretta? È una richiesta cortese, ma ferma. Difficile dire di no. Lo sguardo del mare-

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sciallo è di quelli abituati a recepire solo cenni d’assenso. La ragazza apre il pacchetto. Ce n’è rimasta una sola. Di fronte il maresciallo in attesa. Lei ha una tremenda voglia di fumare. E perchè il tizio non arriva? Perchè si trova in questa situazione di merda? Guarda il maresciallo. Abbassa lo sguardo verso il pacchetto. Guarda di nuovo il maresciallo. Mi dispiace. Me n’è rimasta una sola. Il tono potrebbe sembrare quasi irriverente. Ma è più ironico, quasi amaro. Non sa da dove l’è venuto questo scatto di orgoglio, di ribellione all’ordine costituito. Il maresciallo fa un piccolo cenno con il capo, un gesto raffinato in anni di servizio, un ringraziamento nella sua più piccola forma intelleggibile, e sorride. Sorride, volte le spalle alla ragazza, e si dirige verso la volante. In fondo non era così difficile dire di no, no? Quella terribile voglia di fumare. La ragazza si porta la sigaretta alla bocca, accartoccia il pacchetto e lo rimette in tasca (è sempre l’altra tasca). Recupera l’accendino, ma prima di azionarlo si ferma un attimo a osservare il maresciallo confabulare con il suo giovane collega. Quasi non si accorge di stare dando la prima boccata, incantata com’è dalla visione, mentre riflette sul fatto che non si ricorda neanche una barzelletta sui carabinieri. Il maresciallo si gira, per un momento gli sguardi si incrociano. La ragazza forse si rende conto solo adesso che la sua è stata una mossa un po’ affrettata. Il maresciallo torna a voltarsi, ride fragorosamente, troppo fragorosamente, a una battuta del collega, poi di colpo tace. Si gira un’altra volta e torna con passo lento dalla ragazza. Mi scusi, signorina, può favorire un documento? Cazzo. Cazzo cazzo cazzo. Tutta colpa di quella cazzo di sigaretta. Perchè non ha aspettato che se ne andassero? Maledetta voglia di fumare. Stare tranquilli. L’imperativo. È. Stare. Tranquilli. Il maresciallo attende con un braccio proteso, quasi stesse invitando la ragazza a un ballo. Dopo una nervosa e interminabile ricerca condotta a una mano (l’altra regge immobile quella sigaretta che brucia e pesa come un mattone) la ragazza estrae una carta

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d’identità sgualcita dalla tasca posteriore dei pantaloni, e la porge al maresciallo, guardandolo negli occhi, con espressione interrogativa. Normali controlli. Dice il maresciallo, rispondendo allo sguardo, prima di raggiungere la macchina e chiamare la centrale. Normali controlli un par di palle, questa si chiama vendetta. Che cogliona. Che poi lo sa di essere segnalata, che quel paio di volte che l’hanno beccata a fumarsi una canna rimarranno impressi vitanaturaldurante sulla sua fedina. E chi lo sapeva prima di avere una fedina. Che poi perchè si chiama fedina? Una piccola fede? Ma in cosa? Boh. E adesso? Mica se ne può andare. E se la vogliono perquisire? No, dai, non è possibile, va contro i suoi diritti. Vero? Per perquisire qualcuno ci vorrà come minimo un mandato. Giusto? Troppi telefilm americani. Ma come funziona in Italia? Ma cazzo fateli dei telefilm fighi che spieghino queste cose. Quanto tempo ci sta mettendo, soprattutto? Non è mica una serial killer in libertà vigilata. Il maresciallo continua a confabulare via radio, il giovane collega invece è girato verso di lei, braccia conserte. Sarebbe anche carino, chissà perchè se ne accorge solo adesso. Peccato la divisa. Peccato il momento. E intanto la sigaretta è finita, non avrà dato più di tre tiri in tutto, il filtro che scotta ancora tra le dita. La ragazza, stupita da quel calore che le brucia le dita, lascia cadere a terra il mozzicone. Si guarda la mano. È bianca, screpolata. Fa freddo. Dovrebbe mettersi della crema idratante. Soprattutto dovrebbe smettere di mangiarsi le unghie. Il carabiniere giovane la sta ancora guardando. Chissà se a lui lei piace. Deve smetterla di pensare queste cose. Certo, se si fossero conosciuti in un qualche bar, magari... Invece di questa situazione del cazzo. Il maresciallo termina i suoi colloqui via radio. La ragazza darebbe quasi qualsiasi cosa per sapere cosa gli hanno raccontato di lei. Richiama il collega in macchina. I due scambiano un paio di rapide battute. Poi escono. Il maresciallo torna ad avvicinarsi alla ragazza, ma non ha il documento con sé, lei se ne accorge subito. Signorina, come mai è qui in stazione? Sta aspettando qualcuno?

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Eccoci. Bene. Benissimo. E adesso? Vaglia tutte le risposte a propria disposizione. Non ce n’è una che possa metterla al riparo da tutti i sospetti. Perchè il maresciallo di sicuro ha dei sospetti, glielo legge in faccia. Però una volta ha letto su un libro che le bugie troppo elaborate si sgamano subito. Sto aspettando un amico. Che poi è pure vero, in un certo senso. Potrei riavere il mio documento? Forse non doveva chiederlo. Ma cazzo perchè la sta tenendo lì senza dire nulla? Potrebbe almeno insinuare qualcosa. Di sicuro vuole insinuare qualcosa. Ma cosa aspetta? Deve attendere un attimo, alla centrale stanno ultimando le verifiche. Le teniamo compagnia mentre aspetta. Così eventuali malintenzionati evitano di avvicinarsi, non è contenta? La ragazza non sembra aver colto l’ironia del maresciallo. La sua attenzione si è spostata su una figura che si sta avvicinando, camminando nel cono d’ombra lasciato dalle luci che illuminano la stazione. La figura non si è ancora accorta né di lei, né dei carabinieri, tiene la testa bassa, il cappuccio di una felpa protegge il volto da eventuali sguardi sgraditi. È lui. Riconoscerebbe il modo in cui strascica i piedi ovunque. Il lui si ferma. Ha alzato la testa. Ora l’ha vista. Ora LI ha visti. Immobile, sembra indeciso sul da farsi. Poi si gira. Riprende a camminare in direzione opposta, prima piano, poi sempre più veloce. Si mette a correre. La ragazza ha seguito tutta la scena. È allibita. Maledetto bastardo. La scena l’ha seguita anche il maresciallo. Sembra sia sul punto di scoppiare a ridere. Ma non lo fa. Corre verso la macchina. Tu resta qui con lei. Dice al giovane collega. Avvia la macchina, fa una rapida inversione, e par-

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te all’inseguimento del bastardo. Vedrai che lo prende. Lo deve prendere, maledetto. Lui, il bastardo. Che stronzo. Cazzo se lo è meritato. Se esiste un karma, la legge di compensazione, la divina provvidenza o checcazzonesalei, lo deve prendere. Sì però intanto lei è ancora lì. Senza documento. Il carabiniere giovane si avvicina. E adesso questo cosa vuole? La ammanetterà a un palo della luce? Tieni. E sparisci. Ma sparisci proprio. Prendi il primo treno. Non importa in quale direzione. Le porge il suo documento sgualcito. Ma... Ma tu... Ma cosa dirai a...? Non ci si crede. Forse il karma esiste sul serio. Non preoccuparti per me. E ora va. Veloce. La ragazza afferra il documento, guarda il carabiniere un’ultima volta e lui guarda lei, ma cosa pensa proprio non si capisce. Il tempo di un baleno, lui il nome della ragazza lo sa, nel caso. E poi è solo un tuffo veloce dentro le porte della stazione, battuta dalle fotocellule per un soffio. (7 febbraio)

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Il semaforo

Raggiungi il semaforo. Sei di fretta. Devi attraversare. Il semaforo è rosso. Rimbalzi prima su un piede e poi sull’altro nell’attesa. Lanci lo sguardo all’altro capo delle strisce pedonali. La vedi. È lei. Sì, non c’è dubbio, è lei. Non pare averti visto. Ti guardi attorno, non c’è posto dove nascondersi. E non hai alternative, devi attraversare quella strada. Fai l’unica cosa possibile, in un amen ti sposti dietro quel grosso tizio col cappotto grigio e la cuffia da pescatore che sta pure aspettando il verde. Hai meno di un minuto per pensare al da farsi. Pensi. Cosa fai? È sicuro che ti vedrà. Non siamo a uno di quei mega attraversamenti pedonali giapponesi dove in pochi secondi transitano migliaia di persone. Hai mai visto due che si fermano in mezzo a un mega attraversamento pedonale giapponese per salutarsi e scambiare due chiacchiere? La saluti? La saluti e ti fermi. Fai il brillante, lo splendido, un po’ di conversazione sugli ultimi mesi. Cosa hai fatto in questo periodo? Era un po’ che non ci vedevamo. Sì sì, tutto bene, solite cose, solita vita. Naaah. Non ne sei in grado. Non lo sei e lo sai. La saluti rapido e tiri dritto. Sei di fretta, non hai bisogno di giustificarti, ne di dare spiegazioni. Oppure tiri subito dritto, fai finta di non vederla. Magari lei farà altrettanto. O magari non ti vedrà proprio. Per una volta potrà andarti bene, no? Verde. Stop ai pensieri. Cappotto grigio si rianima, si mette in marcia come una specie di anziano golem. Ora tocca a te. Ti mantieni dietro di lui, procedendo. Davvero. Troppo. Lentamente. Quanto sei patetico. Fa niente, pietra sopra. Ancora dieci metri. Guardi il cielo, scie di aerei appena passati. Ti guardi i piedi, forse è ora di comprarsi un nuovo paio di scarpe. Ancora cinque metri. Studi la trama del cappotto del golem. Tieni la visuale occupata. Non cedere alla tentazione. Quanto mancherà? Dai che forse l’hai già

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passata. L’hai già passata, il golem ti ha protetto e lei non ti ha visto. Grande, cazzo. Ce l’hai fatta. È ora, alzi gli occhi. È lì, di fronte a te. Proprio di fronte a te. Ma dove? Sul marciapiede, cazzo. Ti ha aspettato sul marciapiede. Ti saluta. E sorride. Questo non lo doveva fare. Non sorriderti con quel sorriso lì. Quel sorriso che ti aveva sciolto già la prima volta, non c’era praticamente stato bisogno di altro. Ma ora tu lo sai cosa c’è dietro quel sorriso. Sai pure quanto male ti ha fatto. Sì, certo, lo sai, ma adesso? (18 gennaio)

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Indice

Una breve introduzione Il finale è a sorpresa Il reato più grave

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Il bandolo della matassa Non è poi così complicato Calamite, ascensori e la fine del mondo Non è mai il momento giusto per un primo bacio

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Le tette di Proust Là dove dobbiamo essere Il perchè non lo sa neppure Elvis Cosa fai quando pensi di non essere visto? La storia di Gennarino E tutto va come deve andare L’uomo che amava le donne tatuate Fa’ la cosa giusta La parentesi Sasha Conto alla rovescia La finestra L’occhio trombino Meglio di Euclide L’ultima sigaretta è del maresciallo Il semaforo

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