Comete di carta colorata

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Antonio Abbagnano

Comete di carta colorata

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Edizioni Scientifiche e Artistiche

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ANTONIO ABBAGNANO

COMETE DI CARTA COLORATA

EDIZIONI SCIENTIFICHE E ARTISTICHE


Copertina: Elaborazione grafica dall’opera “Kyte flyer” di Maria Pace-Wynters.

Progetto grafico ed impaginazione: Ferruccio Russo

Prima edizione: 2004 per i tipi della Ed. Pironti, Napoli.

I diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, archiviata anche con mezzi informatici, o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico, con fotocopia, registrazione o altro, senza la preventiva autorizzazione dei detentori dei diritti.

La casa editrice desidera ringraziare Luigi Mari per il materiale iconografico concesso. ISBN 978-88-95430-20-1

E.S.A.

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Edizioni Scientifiche e Artistiche

© 2010 Proprietà letteraria artistica e scientifica riservata www.edizioniesa.com info@edizioniesa.com


a Giorgia, Alfredo e Antonio



Prefazione Erano un piccolo mondo colorato e solidale, le scalinatelle di lava. Quelle dette ‘e grariatelle d’a ciucciara - dalla dinastia dell’Agnese che vendeva latte d’asina casa per casa - erano poi davvero speciali. Rosse di corallo steso ad asciugare sui gradini, profumate di salsedine, sorvolate da lievi comete azzurre verdi blu vermiglie: gli aquiloni costruiti dalle svelte mani di qualche popolana dei bassi di mare. Di nero c’erano solo gli scialli delle vedove e gli occhi ardenti di Sufenella, la bella orfana di guerra. Occhi saraceni, come le parole portate da un’altra sponda del blu e ancora risonanti, nicruté, a nish... Al tempo vicinolontano delle grariatelle povertà non sempre faceva rima con infelicità. C’era un non so che di disteso, di forte come un pugno chiuso, in quella gente tesa a stentare la vita senza lamenti. Bastava l’eco di una canzone popolare o di un pernacchio sfottente, un panino umido d’olio e pallido di zucchero, un nuovo pastore da presepio, lo scambio lampeggiante di un sorriso per riscaldare i giorni. E una cometa poteva perfino scendere dal cielo con un biglietto amoroso infilato tra gli stecchi. Accadde a Gaetano, il giovane uomo dei cammei, e sul foglio era disegnato un cuore e il suo cuore gli disse con certezza che l’aveva mandato Sufenella. Nacque così una bella storia d’amore, sulle grariatelle d’a ciucciara, e si sviluppò davanti all’acqua cantante delle Cento Fontane giù al porto. Antonio Abbagnano la narra con leggerezza, come rapito dal ricordo di quel piccolo mondo variopinto. Sufenella diventò Sofia e fu la prima promozione sociale. Sposò Gaetano vestita nell’abito bianco ricavato da un paracadute americano, andò alla chiesa camminando su un tappeto rosso di carta velina. I giorni volarono come comete, lui diventò sempre più bravo a usare il bulino, un artista consacrato quando l’imperatrice Michico appuntò sulla veste da sposa un suo cammeo. Lei lo aiutò, viaggiò accanto a lui, imparò a disegnare modelli adatti alla sua bravura, fu madre e manager. Vissero felici e contenti? E no, questo avviene solo nelle regge delle favole e le grariatelle d’a ciucciara mai furono una reggia. Persero una figlia infelice,

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Sofia si chiuse in se stessa come le anziane negli scialli del dolore. L’ultima cometa che fece era tutta nera. Gaetano pazientò e quando il cuore glielo disse impugnò il nero aquilone, v’infilò una poesia e lo fece calare nel grembo di Sofia che in un amen ridiventò Sufenella. Lei volle fare un nuovo, breve viaggio di nozze, la mèta erano le grariatelle, cos’altro? Ma non c’erano più. Al loro posto si stendeva l’asfalto nero come l’ultima cometa, i colori vivaci perduti sotto il grigio del cemento, i negozi sciccosi quasi tutti sprangati, l’isola pedonale di un tempo invasa da auto velenose. Erano svaniti il Teatro Garibaldi e il cinema Metropolitan e il bel Palazzo Bonfiglio. La chiesa del Rosario, quella del loro sì, era sprangata. Il silenzio armonioso rotto appena dalle canzoni e dalle risate era diventato puro rumore. E la gente aveva la faccia triste perché non sempre il benessere significa felicità. I funerali di Agnese la ciucciara chiusero un’epoca con l’evidenza del lutto. La cometa di mille colori che Ciccillo depose sulla bara fu un atto di tacita promessa mantenuta. Diventato magistrato, cercava giustizia per gli uomini e per le pietre. Ecco così che il racconto di un luogo e di un sentimento diventa metafora di un tempo di sprechi, di sperperi e di oblio. La scomparsa delle grariatelle si fa simbolo dei mille sfregi fatti ai paesi vesuviani in nome di una presunta modernità, calcolabile in danaro sonante. Antonio Abbagnano ha avuto mano felice nel raccontare questa storia minima che diventa storia senza aggettivi, perché la complessità di quanto è accaduto non si può capire se non si parte dal particolare, dall’intreccio di tante vicende. Pur raccontando cose e figure lontane - la riffa di vicolo, i raccoglitori di cicche, merzuni, la squilla del banditore - Antonio è riuscito a evitare le trappole della nostalgia. Perché in fondo alla lettura, più che da tenerezza, sei assalito da rabbia per quanto di vivo è stato brutalmente sprecato. Le lave d’acqua che ancora scorrono nei vicoli in discesa quando piove più forte non bastano a lavare certi peccati. Pietro Gargano

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La spiallatura del corallo con spada e tenaglia


A differenza delle scalinatelle della costiera sorrentina e amalfitana costruite per collegare luoghi impervi e con grandi dislivelli, le “grariatelle” dei paesi vesuviani della costa erano invece gradinate larghe, lunghe e soprattutto basse, scolpite sulla traccia di antiche lave vesuviane che digradavano senza fretta verso il mare. Essendo larghe, parte del loro spazio era usato dagli abitanti delle case prospicienti come un’appendice all’aria aperta e su questo spazio svolgevano ogni sorta di attività: i pescatori asciugavano e riparavano reti, gli artigiani vi poggiavano i propri attrezzi, le donne lo usavano per piccoli commerci, leciti o poco leciti, senza quasi alcuna preoccupazione per i figli che giocavano nei paraggi. Particolare eccitazione procurava poi l’arrivo delle coralline, barche per la pesca del corallo, allorquando le grariatelle diventavano rosse dal manto di corallo pescato, che restava steso ad asciugare, sorvegliato e difeso dalle donne dei pescatori. I commercianti, per evitare mediatori o sensali, accorrevano allora alle grariatelle per acquistare il corallo direttamente dai pescatori, tirando sul prezzo e discettando, con discussioni a volte infinite, se il corallo era “canniato” o “lasco” oppure “legnammoso” o “camolato”, di prima scelta o “cariato”. Alla fine delle trattative, il corallo di buona qualità e di grosso spessore, chiuso in sacchi di iuta, era portato verso i laboratori degli artigiani con carretti trainati a mano. Il corallo di piccole dimensioni e di scarsa qualità era lasciato in lavorazione alle donne delle grariatelle che, dopo aver tirato fuori dai bassi i loro artigianalissimi banchetti da lavoro e i ben custoditi antichi attrezzi, li piazzavano all’aperto sull’antistante grariatella ed incominciavano a lavorarlo. Con una pesante spada e una tenaglia lo “spiallavano”, con

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una grossa tenaglia e una lima procedevano poi alla“tagliatura”, indi alla “aggarbatura”, fatta con una grossa mola di pietra arenaria, per finire con “la bucatura”, fatta con un piccolo trapano imbrigliato nella corda di un archetto di bambù e pigiato col palmo della mano, protetto con mezzo guscio di noce. Per tutto il periodo della lavorazione, le grariatelle diventavano una fucina di piccoli laboratori all’aperto, dove si mescolavano tra mille voci e pettegolezzi, i canti gioiosi delle giovani donne, felici di guadagnar soldi e usarli senza dar conto ad alcuno. Agnese aveva completato la vendita del latte dell’asina e ritornava al suo basso. Da qualche tempo aveva messo da parte ogni velleità di matrimonio e lasciato sfiorire il proprio fisico, intenta ormai solo a sbarcare il lunario e a guadagnare qualche soldo. Risaliva come al solito Corso Umberto I, passava davanti alla Banca Popolare, l’antica Bancarella, attraversava l’incrocio dal lato della farmacia di don Vincenzino ed imboccava i gradini che in discesa portavano alla stalla. I gradini, Via Gradoni e Canali, prendevano il nome da una sua trisavola, che anch’essa campava vendendo latte d’asina; si chiamavano, infatti ‘e grariatelle d’a ciucciara, le gradinatelle della ciucciara, cioè le piccole gradinate dov’era colei che possedeva una ciuccia. Agnese sistemò l’asina accanto al fieno, la liberò da ogni imbracatura, le mise, accarezzandola, una vecchia coperta sul dorso, il sacco di tela con la “vrenna e le sciuscelle” al collo e, dopo aver preso da sotto il tavolo una grande cesta, andò a sedersi fuori la porta del “basso” sulla propria grariatella. Mise la preziosa cesta in grembo e tirò fuori canne, carta velina, coriandoli, colla, spago, aghi, forbici e quant’altro le servisse per fabbricare le comete …gli aquiloni. Oltre al latte d’asina, la vendita degli aquiloni era un’altra piccola fonte di guadagno, che le permetteva di tirare avanti. In realtà solo la

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Scalinatelle della Ciucciara - Bucatrice di corallo


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vendita del latte era da lei ritenuto un impegno, perché nella costruzione delle comete ella traeva, oltre al piccolo guadagno, anche la soddisfazione di esprimersi artisticamente. Sceglieva con accuratezza tra le canne quelle più flessibili, le tagliava a strisce in modo da formare lo scheletro della cometa, sul quale incollava o cuciva la carta velina colorata, cui poi aggiungeva dei coriandoli a formare la coda. Con un chiodo praticava tre buchi, in alto, al centro ed in coda, nei quali faceva passare il filo di spago, controllava che tutto fosse ben bilanciato e con un nodo ne fissava l’aerodinamicità. Finito il suo capolavoro lo appoggiava allo stipite della porta del basso ed incominciava a costruirne un altro. I ragazzi aspettavano pazientemente cogli spiccioli in mano che la ciucciara mettesse in vendita la cometa appena ultimata, ma lei, come se fosse dispiaciuta di distaccarsene subito, avvertiva i ragazzi che la colla doveva ben aderire e, solo dopo una calcolata attesa, acconsentiva alla vendita della sua ultima “opera d’arte”. Negli ultimi tempi la costruzione di una cometa richiedeva molto più tempo perché Agnese aveva deciso di insegnare quest’arte a Sufenella, una cugina orfana di guerra molto giovane, perennemente scalza, i capelli neri sempre raccolti in un fazzoletto, occhi da saracena. Ogni atto della creazione della cometa, prima di farlo eseguire da Sufenella, era spiegato da Agnese nei minimi particolari, con le espressioni più affettuose verso il materiale, mentre era evidentemente scarsa la considerazione delle qualità artistiche della cugina. Costei passava parte del suo tempo osservando la gente entrare al Cinema Metropolitan o, se c’era una rivista importante, andando al Teatro Garibaldi, nella speranza di incontrare qualche attore conosciuto, per toccargli la spalla, scappare via e vantarsene poi con tutti. Sufenella viveva fantasticando e nell’attesa dell’amore. Ogni momento, ogni incontro pensava potesse essere quello fatale, per cui aveva un’aria sempre distratta, ma diventava attentissima appena nei paraggi com-

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Enrico, dieci anni, balzò dal letto e, tremando per il freddo che entrava dalle sgangherate finestre di casa, si vestì in fretta, ingozzò dalla ciotola il latte ed orzo ed alcune molliche di pane, mise sottobraccio la cartella più grande di lui e si avviò per andare alla scuola elementare Nazario Sauro. Aveva cinque lire in tasca, raggranellate vincendo una grande gara coi tappi di birra sotto il muro il giorno prima con Michele, figlio di un funzionario della ruana di piazza del Popolo. Con quelle cinque lire non aveva ancora deciso se comprare finalmente il mitico pennino a forma di torre Eiffel, che ormai tutti i ricchi della sua quinta classe del professor Ascione possedevano o un “coppetto di sorbe pelose” (corbezzoli) da quel signore col carrettino, che si posizionava provocatoriamente e tutte le mattine all’ingresso della scuola. Appena fuori il portone, guardando le nuvole nere che prepotentemente accarezzavano la cima del Vesuvio e sentendo il rumore assordante tipico delle rapide di un fiume, si rese conto che nella notte un nubifragio si era abbattuto nella zona. Da via De Bottis, da via Piscopia e dal vicolo del Carmine scendevano infatti tre fiumi di acqua piovana, che si congiungevano all’inizio di via XX Settembre, il rio appunto, formando, con un fragore enorme, una lava di acqua pericolosissima. L’acqua che usciva da Vico del Carmine, sbattendo contro la statua di Garibaldi, aveva ormai distrutto l’edicola dei giornali e il chiosco dell’acquafrescaio e si infrangeva contro il negozio di scarpe all’inizio di via XX Settembre. La lava che scendeva da via De Bottis, già carica di carretti e suppellettili, andava ad infrangersi contro la pasticceria di don Leone, mentre quella da via Piscopia, che conteneva anche la lava scesa dalle scale dell’Annunziata, trasportava

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anche ortaggi, frutta ed altre cose portate via dai vari negozi che aveva sventrato nel suo percorso. Un fiume in piena che s’incanalava verso san Giuseppe alle Paludi. L’acqua entrava ed usciva dai palazzi sfondando bassi e portoni, portandosi a mare le pile di fascine accatastate sul marciapiede del panettiere Vartummeo Garofalo e la merce della salumeria Di Lecce, distruggendo la sartoria Falanga ed accompagnando questa furia devastatrice da un cupo rombo. Si trascinava a mare purtroppo anche persone che non erano riuscite a ripararsi in tempo. Cosciente di questo, dalle finestre dei primi piani, la gente si era procurato da tempo reti e funi e le lanciava verso chi annaspava in questo fiume. Ogni cosa confluiva a mare attraverso il ponte della ferrovia alla fine di Via XX settembre e quando questo si intasava di suppellettili, auto, carretti, carogne di animali e alberi, la furia dell’acqua rimbalzava indietro ed invadeva i palazzi circostanti ed i binari, impedendo anche il passaggio dei treni. Quando la furia delle acque si placava, la gente usciva fuori tra il fango per sincerarsi che nulla fosse accaduto alle persone care. A volte mancava qualcuno ed allora si correva al mare tra le carcasse accatastate sotto il ponte o tra le onde a cercare i corpi. Non c’erano, oggi come allora, pompieri nella città e persone coraggiose, con grande pericolo per la loro stessa incolumità, temerariamente si calavano fra le onde agitate per cercare tra gli scogli, negli anfratti, tra le macerie. Poi, armati di ramazza, il popolo del “rio” spalava il fango dai bassi, dalle botteghe, dai portoni; i negozianti cercavano di recuperare il recuperabile, tutti con le lacrime agli occhi. Via XX Settembre rimaneva completamente sventrata dallo scoppio delle inadeguate fognature e sarebbero occorsi, come sempre, mesi per rimetterla in sesto. Fino al prossimo temporale, quando ricominciava tutto daccapo. Enrico, che avrebbe dovuto imboccare vicolo del Carmine uscendo da Palazzo Bonfiglio, si vide costretto a risalire via del Purgatorio, passando davanti al negozio pieno d’acqua dei mezzoni, commer-

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Gaetano, il marito di Sofia, aveva acquisito grande maestria nell’incisione dei cammei e don Basilio il commerciante aveva da tempo incominciato a commissionargli cammei ben più importanti, da incastonare con oro per farne ciondoli, spille, orecchini, parures. Era praticamente diventato un provetto scultore e le sue incisioni, raffiguranti principalmente figure mitologiche, come “Leda e il cigno”, “Le Grazie”, “La Medusa”, oppure copie di quadri e sculture famosi come il “Carro dell’Aurora” di Guido Reni, “La Pietà” di Michelangelo o la “Primavera” del Botticelli, erano richiestissime. Aveva man mano poi creato un suo personalissimo stile, incidendo e modellando originali sculture,che primeggiavano nelle varie fiere in tutto il mondo e erano contese tra grandi collezionisti, commercianti ed addirittura famiglie reali. In Giappone il futuro imperatore Akihito sposava Michico Shoda; era il 1959. Questo episodio, che sembrava non avere alcuna attinenza col lavoro di Gaetano, fece invece la sua fortuna, quella di don Basilio il commerciante e di tutti i maestri incisori, perché la sposa sull’abito nuziale indossava un cammeo pregiatissimo. La Televisione di allora portò le immagini del matrimonio in tutte le case dei giapponesi e il cronista, descrivendo l’abito della futura imperatrice, magnificò la fattura e l’eleganza di quella spilla, esaltandone il significato artistico e storico e rammentando che esso era il gioiello esclusivo delle imperatrici e nobildonne dell’antica Roma. Da quel giorno avere ed ostentare un cammeo fu ritenuto dalle donne giapponesi irrinunciabile. In pochissimo tempo giunsero mi-

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Il matrimonio del futuro imperatore Akihito e Michico Shoda.


Indice

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Prefazione

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‘E grariatelle d’a ciucciara

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Sofia e Gaetano

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Palazzo Bonfiglio

38

La loggia

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Il parto difficile

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Le lave d’acqua

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I raccoglitori di cicche

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I merzuni

53

Il mistero delle verruche e dei porri

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Il fischio alle orecchie

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Sofia e Gaetano in Giappone

66

La rivolta dei marittimi

73

Anna

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Il disagio di vivere


L’Autore è reperibile ai seguenti recapiti: Via Cimaglia, 23E - 80059 Torre del Greco Tel: 081.8825857 - 333.6761294 e-mail: usn123@fastwebnet.it

Finito di stampare presso Cangiano Grafica in Napoli nel mese di Giugno 2010

E.S.A. - Edizioni Scientifiche e Artistiche © 2010 Proprietà letteraria artistica e scientifica riservata www.edizioniesa.com info@edizioniesa.com tel. 081 3593146 - 339 8774962



Un mondo incantato tra scale di lava, una bella storia d’amore nata all’ombra di uno dei più antichi e nobili borghi ai piedi del Vesuvio, un romanzo che racconta di figure e di cose forse ormai lontane. In esso si intreccia una miriade di personaggi, pennellati dalla mano veloce dell’autore, dei quali, a volte, t’innammori. Maria Antonia Iannantuoni Nacque così una bella storia d’amore sulle grariatelle d’a ciucciara e si sviluppò davanti all’acqua cantante delle Cento Fontane, giù al porto. Antonio Abbagnano la narra con leggerezza, come rapito dal ricordo di quel piccolo mondo variopinto. Pietro Gargano – Il Mattino Il corallo, i lupi di mare, maghi e fattucchiere. Leggende moderne di una città un tempo bellissima, stretta tra lava vulcanica, pini e la nera sabbia di una spiaggia perduta. Stella Cervasio – La Repubblica

€ 10,00

ISBN 978-88-95430-20-1

9 788895 430201

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