Paolo Portoghesi

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Gioia Seminario

Paolo Portoghesi l’architettura come riflesso dell’anima

Edizioni Scientifiche e Artistiche



ARCHITECTURA 1



Gioia Seminario

Paolo Portoghesi L’architettura come riflesso dell’anima

EDIZIONI SCIENTIFICHE E ARTISTICHE


Copertina: fotografia di Rosa Scalzo, schizzi di Giuseppe Massimiliano Ronga

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ISBN 978-88-95430-10-2 E.S.A. - Edizioni Scientifiche e Artistiche Š 2009 Proprietà letteraria artistica e scientifica riservata www.edizioniesa.com info@edizioniesa.com


Ai miei genitori



Anche lĂ dove innovavo, mi piaceva sentirmi anzitutto un continuatore. da Memorie di Adriano di Marguerite YOURCENAR



Nota dell’Editore

Siamo abituati ad un duplice approccio con la letteratura dell’architettura, da un lato testi con una prevalenza di riferimenti iconografici; dall’altro volumi che hanno per protagonista la visione teorica della disciplina. L’indirizzo di questa collana è quello di raccogliere opere che trovino un connubio tra le due forme di lettura dell’architettura, dunque sintetizzando e confrontando la teoria con la prassi progettuale. Nella presente ricerca, l’Opera teorica e costruita di Paolo Portoghesi diviene il mezzo per una più profonda comprensione del suo itinerario scientifico e delle tematiche ad esso connesse. Avvalendosi della collaborazione attiva dello stesso Architetto, l’Autrice ne ripercorre gli snodi fondamentali della carriera, dall’individuazione delle fonti teoriche alla realizzazione progettuale. L’analisi delle opere più significative del Progettista romano, sviluppata secondo un criterio cronologico, restituisce quindi, di volta in volta, la misura dell’evoluzione della sua esperienza.



Presentazione Sono ormai dieci anni che insegno nella facoltà di Architettura di Napoli Federico II e il nome di Paolo Portoghesi è sempre stato molto ricorrente nelle mie lezioni. Presso i giovani studenti napoletani la fama e la figura dell’architetto romano è molto nota e, nel mio piccolo, ho contribuito a fare in modo che questi guardassero al mio maestro come ad un esempio di architetto capace di “interpretare” e rappresentare ad un tempo i molti ruoli che la disciplina offre e che lui ha saputo interpretare in modo poliedrico, ma totale: progettista e professionista, storico dell’architettura e uomo di cultura sterminata, autore di libri e fondatore di riviste, ma soprattutto appassionato dell’architettura, eletta al centro del suo universo. Il trasporto con il quale parlo di Paolo Portoghesi ai miei studenti ha fatto breccia in molti di loro che costantemente mi chiedono notizie sulla sua poetica e dettagli circa il suo modo di progettare. Gioia Seminario è stata, tra i miei allievi, la prima ad interessarsi compiutamente della sua opera, essendo stata anche la prima a vincere, al termine degli studi universitari, un dottorato di ricerca che le ha consentito di approfondire, in ambito accademico, lo studio sul nostro caposcuola di tante e tante generazioni di architetti. E, sebbene non abbia avuto il piacere di seguirla ufficialmente nella ricerca universitaria, ho egualmente avuto l’opportunità di sostenerla nel raccontarle la mia personale esperienza al fianco di Portoghesi e, qualche volta, di indirizzarla nello svolgimento specifico della ricerca. Tuttavia, l’interesse della Seminario verso la figura di Paolo Portoghesi è nato, al di là dei miei racconti, quando, ancora giovanissima e alla soglia della laurea, mi ha proposto di scrivere un libro che riguardasse la mia opera di architetto: il libro, intitolato L’architettura sensibile di Giancarlo Priori, ha messo la giovane studiosa a più stretto contatto con la sfera portoghesiana, in quanto il professore è stato autore di una splendida prefazione. Il libro fu pubblicato nel 2004 e Gioia Seminario, ispirata da questo incontro, ha scelto di dedicare la propria ricerca di dottorato al nostro maestro. Sono stato presente, qualche volta, agli incontri di studio ed ho potuto

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apprezzare quanto la Seminario rimanesse affascinata dal sapere del suo interlocutore. Sebbene riveduto ampiamente, anche in termini editoriali, il risultato delle ricerche universitarie e della tesi di dottorato viene riproposto in questo testo, facendo ulteriore tesoro di altri suggerimenti del professore. In differenti incontri, avvenuti tra Calcata e Roma, infatti, il professore ha avuto modo di guidare la giovane ricercatrice negli ambiti più profondi della propria architettura. Portoghesi e Seminario hanno poi usato la metodologia dell’intervista che offre sempre i caratteri della spontaneità e della freschezza e che l’architetto, grazie ad una capacità oratoria eccezionale, rende viva e precisa. Impreziosisce questo lavoro, che assume le caratteristiche di un saggio, il bel contributo di Lucio Valerio Barbera che, oltre ad arricchire i lettori di notizie su Paolo Portoghesi, ha offerto, anche a me personalmente, una precisa visione dell’architetto ai tempi in cui era ancora studente. Il Ricordo di un giovane Paolo Portoghesi coglie in più occasioni alcuni aspetti che, visti in filigrana, aiutano a completare la conoscenza della sua complessa personalità. Un fascino particolare assume il pezzo di Barbera quando “tratteggia” Paolo ancora studente che però già si porgeva come un riferimento per molti, facendo comprendere anche come gli studenti di allora sentissero con forza il bisogno del confronto tra le diverse “correnti” architettoniche. Leggendo questo libro si ripercorrono cinquant’anni e più di una attività di ricerca orientata in un certo modo, una ricerca basata sulla continuità e sull’innovazione, dove luogo e natura sono le invarianti di sempre. Una ricerca divenuta fondamento per la cultura architettonica italiana e non solo e che Gioia Seminario ripropone all’attenzione degli addetti ai lavori, inserendo un’altra tarsia per la conoscenza del pensiero di Paolo Portoghesi, così semplice e così complesso. Giancarlo Priori Roma, novembre 2008

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Prefazione Conosco Paolo Portoghesi da quando ero appena uno studente, quindi da quando avevo diciannove o vent’anni. Lui è un po’ più grande di me, quindi allora era agli ultimi anni. Era uno studente già molto eminente: stava per uscire in quei mesi il suo primo libro su Guarini, che – mi sembra di ricordare – egli scrisse durante i suoi studi. Si può dire che già allora fosse uno studente fuori dal comune, che si distingueva per essere particolarmente colto, privo delle timidezze culturali tipiche dei giovani: Paolo è una persona timida nei rapporti umani, ha della sue sensibilità, però da un punto di vista culturale non aveva quelle timidezze che di solito bloccano i giovani dal fare passi che possono sembrare troppo grandi per le loro forze; in più aveva abbastanza energia, capacità di analisi, cultura. Ebbi il mio primo contatto diretto con Paolo quando ero studente al primo anno, perché il professore di analisi matematica, che cercava di interpretare questa disciplina per gli architetti in una maniera meno fredda, e quindi cercava un maggiore contatto con gli studenti più attivi per riuscire ad interessarli, mi chiese di fare una tesina sul controllo geometrico-matematico delle proporzioni architettoniche, una lunghissima storia legata alla cultura tradizionale. Io, al primo anno, non sapevo come orientarmi. M’informai presso gli studenti più grandi di me, e qualcuno mi disse: «Mah, forse l’unico che può indirizzarti verso un libro è Paolo Portoghesi». «E chi è Paolo Portoghesi?», domandai. Mi descrissero il personaggio e nel giro di pochi giorni fui a casa sua. Lui abitava ancora coi genitori e stava in una stanza molto bella per quei tempi e per quell’età. Ciò che mi colpì di più fu che dal soffitto pendeva un violoncello, la straordinaria scultura di un violoncello. Aveva una stanza totalmente adibita a biblioteca, solamente con un piano e una scrivania, e poi una camera più piccola dove aveva il tavolo da disegno. Stava preparando il progetto per il quarto o il quinto anno; il tema era un immobile per una della pareti di Piazza Navona, il professore, appena arrivato da Venezia, era Saverio Muratori. Ci presentammo ed io gli spiegai: «Mi hanno mandato da te amici comuni che mi dicono...». E lui mi prestò due libri molto belli, sulle tecniche

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del proporzionamento architettonico, dei grandi monumenti, delle piramidi, delle cattedrali. Ricordo che Paolo aveva dei libri bellissimi. Ci intrattenemmo un’ora, forse anche di più, e fui molto attratto – anche perché lui li estrasse e me li mostrò – da alcuni libri strepitosi di Guarino Guarini sulla stereotomia, cioè l’applicazione della geometria al taglio delle pietre che dovevano andare a combinarsi, a comporsi nelle volte delle sue opere torinesi. E proprio questo tema si è rivelato, secondo me, un elemento fondamentale anche nella poetica di Portoghesi e nel suo modo di incidere sull’architettura: questo rapporto molto forte tra forma e controllo geometrico, che si legge chiaramente anche nelle sue opere, delinea una geometria non euclidea, né pitagorica, ma una geometria spaziale, molto articolata, che ha le sue radici, come in Guarino Guarini, in una sorta di reinterpretazione della forme geometriche naturali, che sono molto complesse, tridimensionali: sono difficili, ma anche emozionanti da riprodurre se si mantiene un controllo geometrico preciso. Eravamo nel 1955/56, quindi cinquant’anni fa. Cinquant’anni fa egli aveva già ben presente questa strada da reimmettere nell’architettura. Certamente questi aveva anche compreso come fino al Movimento Moderno l’architettura fosse intrisa del rapporto con la matematica: basti pensare a Le Corbusier con tutti i suoi studi – il rapporto tra matematica e spazio, matematica e uomo, la geometria, il modulor, il proporzionamento delle facciate, ecc. – ma anche a Terragni – si pensi al Danteum, al gioco della spirale. Quella era una generazione che era profondamente, naturalmente pervasa dall’idea che il rapporto tra l’architettura, la geometria e la matematica di ordine superiore, quindi tridimensionale, e con modelli di sviluppo non semplicemente euclidei fosse innato. Ed è una prerogativa che mi sembra di leggere ancora nelle architetture recenti di Paolo: soprattutto in questa fase Natura e architettura di nuovo emerge – non l’ha mai perduto, ma in questo momento emerge fortemente – questo aspetto fondamentale della sua ricerca: il legame tra la geometria, la matematica, il proporzionamento nello spazio piuttosto che nel piano, il rapporto tra le forme. In qualche modo si può dire che, già allora, la strada che egli vedeva tracciata per l’architettura movesse dalla trasposizione geometrica di

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forme naturali, sempre molto complesse e molto affascinanti. Non so se tutto ciò venga dallo studio precocissimo di Guarini o se al contrario egli si sia accostato a Guarini perché in esso ha trovato un interesse, una riverberazione di questi interessi personali: questo è molto difficile da capire nel corso del tempo. Ma era così, nel 1956. C’è un’altra cosa, sempre di quegli anni, che completa la mia percezione della figura di Portoghesi. A quei tempi la facoltà era molto piccola e il numero di studenti era molto basso. In realtà al mio anno c’eravamo iscritti in tanti, perché eravamo centocinque, ma a Natale eravamo già cinquanta. Perciò in definitiva le persone che frequentavano la facoltà si conoscevano tutte. Io conoscevo tutti, non solo quelli del mio corso, ma tutti quelli che erano in facoltà in quegli stessi anni. Costituivamo una comunità divisa culturalmente e facevamo molta attività culturale, più che politica. Eravamo anche divisi in gruppi avversari: io facevo parte di una corrente il cui elemento fondamentale era Manfredo Tafuri, i modernisti, che rivendicavano il razionalismo, la modernità, e così via. Paolo Portoghesi era, invece, il riferimento di un gruppo di studenti molto interessanti di cui facevano parte anche Paolo Marconi, Gianfranco Caniggia, Sandro Benedetti, Toni Malavasi. I due scheramenti si fronteggiavano spesso e una delle sedi dove qualche volta ci riunivamo era palazzo Salviati: mostravamo i nostri progetti e discutevamo su questioni culturali. Regolarmente, noi modernisti avevamo come riferimento negativo – quindi, in qualche modo, come avversario culturale – i professori della facoltà, quelli più anziani, che erano stati fascisti, che avevano costruito opere importanti nella Roma piacentiniana, oppure che erano eredi accademici di Piacentini, di Foschini ecc. Tra questi c’erano Del Debbio, che poi al contrario è stato esaltato per le sue doti naturali di architetto di grande stile, Vincenzo Fasolo, che era preside in quel momento, ed era uno storico ma anche un architetto operante che aveva fatto una serie di opere addirittura prefasciste – uno strano barocco simbolico – nell’immediato primo dopoguerra. Ricordo perfettamente una sera in particolare, in cui Paolo Portoghesi tenne un discorso che mi rimase impresso: era un discorso sulla tradizione

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L’architettura come forma espressiva Incontrai per la prima volta Paolo Portoghesi nel Maggio del 2005, nel suo studio di Calcata. L’impatto con questo luogo fu da subito stimolante per la vivace fantasia di una giovane architetto alla ricerca di un’impronta per i propri studi, eppure allora non mi si era ancora pienamente chiarito quello che il tempo e la ricerca hanno lentamente delineato nella mia mente. Arrivai a Monte Menutello di pomeriggio. In una campagna inondata di sole, di un verde sorprendente per chi viene dalla città, scorsi tra gli alberi, come in una proiezione onirica, un piccolo edificio dalla facciata preziosa come un ricamo, che già al primo sguardo si percepiva ricca di memorie e di simboli ma che anche lasciava quel senso di indeterminazione che era già di per se un invito ad entrare. Tuttavia mi soffermai a lungo su quell’immagine, vista tanto spesso in fotografia. Aveva per me tanti volti quella facciata, muta ed insieme parlante, granitica e dolce. Aveva i diversi aspetti di quest’uomo allo stesso tempo tanto chiaro e profondamente imperscrutabile, raccontava di lavoro artigiano e di poesia, di memoria e di ricerca, di natura e di artificio. Parlava insomma di tutto quello che costituisce la materia stessa dell’essere un architetto, al di là delle convenzioni stilistiche di un dato tempo storico, ma in una vera e propria condizione di dinamica fissità, in cui si percepisce il movimento, ma il senso di permanenza è esaltato. Ed entrandovi questa intima sensazione non fu disattesa. Lo studio non era un luogo di memorie, come in tanti avevano sottinteso, e tantomeno un asettico atelier alla moda: era un ambiente semplice, in cui l’utilità trovava risposte originali e funzionali insieme.

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Percepii immediatamente quanto la personalità di Portoghesi fosse radicata in questo luogo, come il suo stile trasparisse da ogni dettaglio. E quando lo incontrai mi resi conto di quanto tale ambiente armonizzasse con il suo stesso essere, di come tutto quello spazio intorno fosse materia plasmata sulla sua stessa persona, con un senso profondamente saggio dell’origine che ti porta a foggiare il tuo habitat con il gesto istintivo che è proprio dell’uomo naturale. La mia prima conversazione con lui fu in realtà un monologo, venti lunghissimi minuti in cui lo ascoltai come rapita, mentre lui mi parlava lentamente, incidendo la prima traccia della sua personalità nella mia mente. Oggi posso dire che quella conversazione mi servì a ben poco sotto il punto di vista della ricerca: non avevo parole, non avevo domande, né un taglio per i miei scritti. E forse mi ostinavo a cercare uno spunto interpretativo nuovo laddove già tanto era stato detto. È stato invece il tempo a plasmare questo lavoro che, a cavallo tra il racconto e la critica, narra insieme la storia di un uomo e di tanti uomini, di Paolo Portoghesi e di tutti coloro che come lui hanno guardato al mondo con curiosità insaziabile e non hanno avuto timore nel continuare a ricercare e ad esprimersi. Allo stesso modo, sfidando l’esistenza di numerosi testi che raccontano l’evolversi dell’attività professionale di questo architetto, la presente trattazione afferma la propria autonomia, movendo dalla precisa volontà di indagare, andando oltre la semplice esposizione delle opere, il lavoro di un noto progettista che ha lasciato il suo segno indiscutibile nella storia dell’architettura italiana dal secondo dopoguerra. Architetto dal grande carisma intellettuale, Paolo Portoghesi interpreta pienamente con la multiformità della sua produzione il significato della romanità contemporanea, divisa tra un incontenibile senso della storia ed un necessario anelito a restare al passo con il proprio tempo. In questo senso, si può dire che la singolarità del suo lavoro risieda nel fatto che, molto più dei tanti altri architetti della stessa generazione, con spirito antico egli concepisca il progresso1 inteso come evoluzione rispetto al passato, contrap1 - Il termine progresso proviene dal latino progrèssus che significa letteralmente cammino, essendo composto dal prefisso pro (avanti) e dal suffisso gressus (passo), che è anche il participio passato di gradi, camminare. Progredire è dunque muovere in avanti, incrementare, avanzare. Va da se che il termine non implica letteralmente superamento.

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Premessa - Il riflesso dell’anima posto al tanto diffuso senso di superamento che ci imbarbarisce nella testarda negazione del passato. Questo volume, lontano dal voler ripercorrere in maniera sistematica e compiuta la grande vastità dei contributi teorici e pratici lasciati da Portoghesi nel corso degli anni, si configura piuttosto come una analisi critica della sua lunga carriera, rivolta essenzialmente ad evidenziarne il contributo culturale permanente all’architettura attuale. Per definire il proprio campo d’indagine, il testo assume come punto di riferimento il volume del 1974 Le inibizioni dell’architettura moderna, opera centrale nella produzione dell’architetto romano, che compendia le componenti più significative del lavoro da lui svolto nei quindici anni che ne hanno preceduto la pubblicazione ed anticipa le evoluzioni successive del suo pensiero. Prenderlo come base di indagine significa proprio cercare di analizzare questo metodo a partire da un momento cruciale, crocevia tra un primo tempo fatto di indagini solipsistiche e originali e un secondo tempo di ricerca di una coralità, nella convinzione che dietro a queste ci sia una logica complessa a cui pervenire, integrando per parti il risultato finale. Il passaggio dallo studio dei primi anni di attività, che vide Portoghesi impegnato fino alla fine degli anni Settanta in quella ricerca da lui definita lo spazio come sistema di luoghi, ai successivi aneliti postmoderni per giungere negli anni novanta alla conclusiva fase di architettura e natura, segnano le tappe di un cambiamento evidente sotto il punto di vista formale e della ricerca, ma lo sono soprattutto, come asserisce egli stesso, in quanto segni di un sostanziale passaggio da una posizione di isolamento intellettuale, pur se paradossalmente più largamente condivisa, come era quella che lo legava alla ricerca spaziale, ad una posizione di apertura, una ricerca di coralità, come egli la definisce, che tuttavia lo conduce a dei risultati formalmente ridondanti che per lo più, a differenza degli studi precedenti, ne sanciscono una distanza rispetto agli architetti dei suoi anni. Ma ciò che questo testo vuole rilevare, oltre l’evidenza di tali fatti, è il valore originale che questo progettista ha aggiunto all’evolversi dell’architettura, mettendo nel giusto rilievo l’importanza di taluni temi da lui sollevati e mai sufficientemente interpretati, prescindendo da quelle sovrastrutture accumulatesi nel tempo che ne travisavano l’effettiva qualità. Ciò significa

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non tanto l’aver verificato, quanto l’aver misurato la coincidenza tra le due cose: dando dunque per acquisito il necessario collegamento tra teoria e pratica, le pagine che seguono si rivolgono a chiarire quanto l’opera di teorico e di storico abbia influito sulla ricerca architettonica di Portoghesi e quanto, viceversa, la ricerca architettonica ne abbia condizionato l’indagine storica, dando la misura dell’efficacia del suo lavoro nell’ambito più vasto della cultura italiana della seconda metà del Novecento. È il resoconto di un’attività dalla natura estremamente complessa, ma anche la storia di una vita dedicata all’architettura, raccontata tra critica e cronaca per mettere in luce gli infiniti volti di un architetto dalla sensibilità d’artista.

Dove nasce l’ispirazione Formatosi alla scuola romana in quel particolare periodo in cui l’architettura italiana, appena uscita dall’autoritarismo del regime fascista, era assorbita da un tentativo di rifondazione culturale, Paolo Portoghesi avverte in maniera profonda i mutamenti prodotti dagli eventi del suo tempo. Un tempo in cui stridente è la dicotomia tra il poetico passato delle più belle città italiane e l’evidente devastazione prodotta dal secondo conflitto mondiale ed in cui è particolarmente difficile comprendere da dove debba ricominciare a vivere un’architettura frammentata che ha più che mai bisogno di confrontarsi con la gente comune. Per questo motivo le vicende degli anni Cinquanta, in particolare, costituiranno lo spunto essenziale d’ispirazione per l’architetto romano, all’interno della cui opera è facile ravvisare da subito tracce di un forte curiosità verso la vicenda neorealista – e in particolare verso la figura di Mario Ridolfi, dalla cui opera egli mutua una forte inclinazione all’uso di materiali e tecniche tradizionali, ma anche quell’attenta elaborazione della forma che è tipica delle più tarde opere del maestro – e nondimeno un’attenzione particolare al dibattito sul neoliberty che deriva dalla proiezione del suo già grande interesse per l’architettura Art Nouveau su una precisa volontà di superare il primato della regola moderna in favore di una riscoperta dell’identità nazionale. A questi fattori si aggiunge l’attenta assimilazione della lezione di Saverio Muratori che proprio in quegli anni, per primo, reintroduce a livello

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Premessa - Il riflesso dell’anima accademico lo studio della storia dell’architettura come metodo di ricerca per la progettazione architettonica:2 in un periodo in cui si rimette in discussione l’importanza dell’indagine e dell’adeguamento degli insediamenti antichi e moderni alla nuove esigenze della società postbellica, Muratori ricercherà fra i caratteri della tradizione antica che considera permanenti le matrici tipologiche, distributive e costruttive accettate collettivamente e riproducibili,3 lasciando la sua impronta peculiare alla allora poco popolosa accademia romana. E Portoghesi, che ne fu allievo, assorbì da subito tale insegnamento, dimostrandosi sin dagli anni dell’università sensibile ai valori della tradizione e traslando questi principi nella sua personale ricerca. D’altro canto, nel vario contesto dell’architettura italiana dagli anni Sessanta in poi, la sua prassi operativa segue un percorso decisamente articolato, caratterizzato da uno sdoppiamento dell’attività che, se per un verso si svolge in un ripiegamento che sfocerà nella ricerca dedicata a lo spazio come sistema di luoghi,4 per un altro verso lo vede direttamente coinvolto nelle vicende intellettuali e politiche del tempo:5 una dualità che è caratteristica permanente di tutto il suo lavoro e che costituisce il cardine dell’analisi di questo testo. Proprio nell’ottica di orientare da subito l’indagine in questa direzione, chi scrive ha individuato nel libro Le inibizioni dell’architettura moderna un testo particolarmente rappresentativo di tale peculiarità, una sintesi di questa multiformità di azione che, svolgendosi a cavallo tra verifica storica, 2 - Cfr. P. PORTOGHESI, Dopo l’architettura moderna, ed. Laterza , Bari 1980, pag. 82. 3 - Cfr. L. BENEVOLO, L’architettura nell’Italia contemporanea, ed. Laterza, Bari 2006 (ultima edizione), pag. 189. 4 - La ricerca, condotta a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta insieme a Vittorio Gigliotti, procede in parallelo con l’opera teorica e pratica di Ch. NORBERG SCHULZ che, in merito agli studi di Portoghesi e Gigliotti pubblicherà il libro Alla ricerca dell’architettura perduta, ed. Officina, Roma 1976. Una più diffusa trattazione di questo tema è rinviata ad un capitolo successivo. 5 - Il riferimento è al dibattito che ha coinvolto la Facoltà di architettura di Milano sul finire degli anni Sessanta. La polemica, ampiamente documentata nelle cronache del tempo è in P. PORTOGHESI, Le inibizioni dell’architettura moderna, ed. Laterza, Bari 1974 (Parte Terza), ma anche in AA.VV. Cronaca di una polemica in Controspazio n. 10-11 del nov. 1971, pagg. 2 a 11; in P. PORTOGHESI, L’architetto è un fossile. Chi lo nega va in castigo in L’Espresso n.48 del 28/11/1971, pag. 2; in P. PORTOGHESI, Perché Milano. Une saison en enfer in Controspazio n. 1 del giu. 1973, pagg. 6 a 9.

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fig. 1 - La Casa Lina alle Marmore di Mario Ridolfi, Terni 1966.

fig. 2 - La Sede centrale della Democrazia Cristiana di Saverio Muratori, Roma 1955/58.

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Premessa - Il riflesso dell’anima sperimentazione progettuale e attività divulgativa, riconosce nel passato il riferimento fondamentale di tutti questi ambiti di ricerca. Difatti nel piccolo volume del 1974, che prende come sfondo la critica a quella che viene definita dall’autore l’inibizione razionalista, Portoghesi realizza un’analisi mirata della condizione architettonica che ha come obiettivo la esposizione del proprio personale approccio alla materia. Riconoscendo nella storia della architettura6 uno strumento insostituibile di conoscenza, di giudizio e di azione costruttiva sin dalla premessa al testo questi anticipa la propria posizione. Già in questi tre termini chiave è infatti possibile scorgere una grande quantità di principi cardine della sua ideologia, ma soprattutto è possibile leggere una precisa dichiarazione di metodo, che condensa tre momenti fondamentali del pensiero dell’architetto romano. La designazione di storia come strumento di conoscenza costituisce un presupposto che si riconduce ad un metodo d’indagine ben definito che, se per un verso prevede una lettura analitica delle opere e dei luoghi, per un altro implica il riconoscimento e il recupero di codici consolidati mutuabili dalla tradizione storica, che costituiscano il presupposto di un metodo storicamente verificabile e confortato da regole precise. Difatti, attribuendo alla ricerca sull’antico la qualità di un consapevole strumento7 per misurarsi con la pratica progettuale, egli incoraggia a rivalutare l’importanza di riferirsi ad un sistema storicamente accertato come mezzo di governo del progetto, che aggiunga8 al controllo diretto legato alla verifica empirica della rispondenza di un edificio ai suoi scopi un controllo indiretto basato sulla congruenza dell’opera con una serie di regole stabilite a priori. Tale affermazione, rilevante per molti aspetti relativi al pensiero dell’architetto, spiega chiaramente l’importanza che egli attribuisce a quella com6 - P. PORTOGHESI, Le inibizioni dell’architettura moderna, ed. Laterza, Bari 1974, Premessa a pag. VII. 7 - Cfr. G. PRIORI, La poetica dell’ascolto - Presentazione di P. Portoghesi, ed. Clear, 1988, pagg. 9 e 10. 8 - Ibid. a pag. 67.

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ai giorni nostri questa indagine, alla ricerca del “segno che il tempo lascia sugli oggetti e sui luoghi”. Accanto alla triade vitruviana, “firmitas, utilitas, venustas“, ormai da tempo sembra vada inserito un quarto termine, quello della “propinquitas“, dell’adesione ai luoghi e a ciò che ci sta accanto. Nessuno di questi valori deve essere prioritario: ne deriverebbero architetture sbilanciate e deformi. Se l’architettura costruisce una scena fissa per la vita degli uomini, se è la modificazione della terra che la rende abitabile e se l’abitare è vivere pacificati sulla terra sotto il cielo (per usare parole di indimenticabili maestri), l’architettura sarà immobile e serena poiché già troppo veloce e mutevole è la vita.29 Questa affermazione30 conferma la scelta fondamentale su cui si muove l’etica progettuale di Natalini, improntata alla ricerca di soluzioni non stupefacenti, quanto fondate su un riconoscimento dell’architettura come sede del vivere quotidiano. Ancora oggi l’architetto sposa questa ottica, che è punto di partenza fondamentale per il suo lavoro:31 Sono sempre stato interessato ad un’architettura che nasce dai luoghi e che possiede radici le più profonde possibili con il luogo stesso. Naturalmente ogni luogo non è un elemento puntiforme, ma il nodo di un sistema di relazioni molto estese. Ogni progetto per radicarsi nel luogo deve quindi sondare, non solo le dimensioni della superficie in cui si insedia, ma comprendere un intorno significativo e quindi affondare in un asse temporale. Questa ricerca di una progettualità vicina all’identità più profonda dei luoghi costituisce il carattere peculiare della sua ricerca, di cui egli stesso dice:32 Cerco di costruire un’architettura appropriata ai luoghi e alle persone, solida e rassicurante, serena e dignitosa come sono o dovrebbero essere le città cui appartiene. 29 - Cfr. AA.VV. University of Florence. Natalini Architetti in Mondo n. 2 del sett/dic 2006. 30 - C. DONATI, Un dialogo con Adolfo Natalini in Costruire in Laterizio n. 97 del gen/feb 2004, pag. 46. 31 - M. PISANI, Intervista ad Adolfo Natalini in Costruire in Laterizio n. 38 del mar/apr 1994, pag. 134. 32 - C. DONATI, Un dialogo..., cit., pag. 46.

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Prima parte - La ricerca dell’armonia

fig. 12 - Schizzo di progetto e veduta di un edificio per uffici nel piĂš ampio progetto per la Waagstraat a Groningen di Adolfo Natalini.

fig. 13 - Due vedute del Polo Universitario di Porta Tufi a Siena di Adolfo Natalini.

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Differente è la concezione di luogo che emerge dalla prassi di Franco Purini. Fortemente legato al concetto di paesaggio, il suo approccio teorico al tema si discosta rispetto a quelli di Portoghesi e Natalini – il primo più decisamente legato al rapporto con il luogo storico, il secondo principalmente dedito allo studio del luogo come scenario di vita umana. Nell’indagine di Purini è la ricerca del paesaggio originario il vero centro dello studio sui luoghi, spiegato nel testo Sette paesaggi33 del 1988, che implica un processo di retrospezione dei siti, cercando di coglierne l’identità non soltanto in base a ciò che essi sono diventati, ma principalmente in ciò che erano in origine: l’ascolto dei luoghi nel suo approccio diviene, dunque, un’operazione per certi versi metafisica, in cui l’architetto cerca di ritrovare il primo segno insediativo dell’uomo, come egli stesso scrive nel breve saggio intitolato Questioni di paesaggio:34 Quando l’architetto deve progettare qualcosa in un luogo qualsiasi della Terra innesca quella che Bachelard chiama réverie, vale a dire un potente atto della fantasia attraverso il quale si demolisce idealmente, strato per strato, l’ordine dei manufatti che da sempre si sono accumulati su quel sito, ricostruendo idealmente l’immagine che quel paesaggio aveva in un certo momento della sua storia. In questo percorso occorre individuare il primo segno insediativo, il primo gesto che l’uomo ha fatto in un intorno naturale da lui scelto, perché proprio in quel gesto v’è il codice genetico delle trasformazioni che riguarderanno quella porzione di superficie terrestre. L’esito di questa operazione potrebbe essere chiamata il paesaggio originario. Alla radice del progetto c’è quindi un’operazione fondamentalmente decostruttiva che tende a riscoprire l’immagine che la scena originaria aveva prima di divenire paesaggio, quando essa era una pura virtualità che già conteneva, seppure in nuce, tutti gli elementi del suo sviluppo futuro. Quando progetta l’architetto istruisce sempre processi di questa natura, e la sua azione compositiva è tanto più efficace quanto maggiore è la consapevolezza di dover compiere un’opera di distruzione preventiva dei livelli che costituiscono il paesaggio. Dunque, sostiene Purini, il paesaggio dell’architetto è un luogo visto in una prospettiva diversa, guardato come quello che questi immagina es33 - Cfr. F. PURINI, Sette paesaggi ed. Electa, Milano 1989. 34 - F. PURINI, Questioni di paesaggio in Archphoto, rivista digitale di architettura, arti visive e cultura.

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Prima parte - La ricerca dell’armonia sere stato e non già come il progettista lo vede nell’atto di esplorarlo.35 Proprio questa considerazione ci fornisce la chiave di lettura ideale per comprendere la differenza che è alla base di tre modi di interpretare il complesso tema del rapporto dell’uomo col luogo e per completare attraverso il raffronto la comprensione delle specificità della dialettica di Portoghesi. Se Franco Purini fonda la sua ricerca sull’astrazione della memoria, Adolfo Natalini persegue un rapporto di materiale pacificazione con l’esistente, mentre Portoghesi giunge attraverso la ricerca teorica a metabolizzare i segnali propri dei linguaggi della tradizione per avviare un dialogo tra questi e la contemporaneità. E, dal momento che il confronto delinea necessariamente il profilarsi di tre modi operativi diversi, che conducono a esiti differenti, non si può non notare che, di fatto, sia nel caso di Natalini che per Purini la ricerca sul luogo e la prassi progettuale sono rimaste sostanzialmente equidistanti nel corso dei tempi, mentre al contrario nel percorso di Portoghesi è visibile una mutazione nel rapporto tra teoria e progetto. Un fatto che, sebbene molto evidente, va tuttavia sottolineato, per evitare di incorrere nell’equivoco di arrischiare una periodizzazione troppo marcata. Difatti man mano che, nel solco di un pensiero univoco, le teorie vengono approfondite ed arricchite, questi smembra le esperienze passate per evolvere l’architettura in una espressività che solo apparentemente è nuova, ma che di fatto è profondamente supportata dalle ricerche precedenti. E così è avvenuto anche quando, negli anni Ottanta, l’indagine sui luoghi ha messo in secondo ordine il rigore geometrico che nei primi tempi aveva ispirato i progetti di Casa Andreis o dell’aeroporto di Khartoum per cercare un avvicinamento alla più concreta idea di luogo inteso come custode di memoria che domina nei progetti di Amman o della Moschea romana: un’idea che è naturale evoluzione della ricerca in una dimensione globale e condivisa, ma che giunge a maturazione in un momento complesso, in cui il mondo inizia a raccontare di se stesso come «postmoderno». 35 - Si veda anche M.D. MORELLI, a cura di, Saper credere in architettura. Franco Purini e Laura Thermes ed. Clean, Napoli 2007.

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fig. 14 - La Casa del Farmacista a Gibellina di Franco Purini, 1981. fig. 15 - Un’opera d’arte firmata dall’architetto.

fig. 16 - Una delle “Cinque piazze” realizzate a Gibellina di Franco Purini e Laura Thermes.

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Prima parte - La ricerca dell’armonia

L’interpretazione della prospettiva storica dalla modernità al postmoderno Il maturare della ricerca intorno a un rinnovamento dell’architettura, che a partire dalla fine dell’epoca moderna e lungo tutto il secondo dopoguerra aveva interessato le diverse branche dell’architettura italiana, porta alla fine degli anni Settanta al determinarsi di quello che viene definito il periodo postmodern. Così come proviene dalla sua definizione Americana, il postmodernismo è un fenomeno complesso che investe una grande quantità di discipline tra cui arte, architettura, musica, cinema, letteratura, sociologia, tecnologia.36 Certamente la sua definizione deriva da quella di modernismo, ma in effetti è chiaro che questa derivazione non implica altro che l’idea di un suo superamento. E’ inoltre difficile da localizzare in un periodo storico definito, dal momento che non è esattamente chiaro quando tale fenomeno abbia avuto inizio. Ciò che è certo è che nel 1977, nel suo libro-manifesto The language of post-modern architecture, Charles Jenks, tentando di definire i confini temporali di questo nuovo ciclo, data arbitrariamente questo evento, sentenziando:37 Modern Architecture died in St. Louis, Missouri on July 15, 1972 at 3.32 p.m. (or thereabouts) when the infamous Pruitt- Igoe scheme, or rather several of its slab blocks, were given the final coup de grace by dynamite. Sebbene tale considerazione sia indubbiamente eccessiva e certamente non realmente indicativa di uno stacco temporale che segni il passaggio dal periodo Moderno a quello ‘post’, d’altro canto essa mette in evidenza un evento indicativo della metamorfosi che investiva in quegli anni l’estetica statunitense, ed era nondimeno sintomatico di un’insufficienza del modus operandi razionalista rispetto alle richieste della società contemporanea 36 - Per una più ampia trattazione in merito si veda il testo di J.F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Ed. Feltrinelli Milano, 1985. 37 - «L’Architettura Moderna è morta a St Louis, Missouri il 15 Luglio 1972 alle 15.32 (o giù di lì) quando all’abominevole progetto Pruitt-Igoe, o per meglio dire a diversi suoi blocchi in calcestruzzo, fu dato il colpo di grazia finale con la dinamite». Ch. JENKS, The language of post-modern architecture, ed. Academy Editions, London 1977, pag. 9.

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fotografica, fosse in realtà mutuato da un interesse alla verifica delle interpretazioni storiche dell’architettura. Se si considera, tra tutte, l’Opus Architectonicum di Francesco Borromini, si percepisce chiaramente l’ispirazione che Portoghesi – in questa ricerca prevalentemente iconografica e legata ad una analisi di tipo percettivo – trae dalla sua opera, così come è facile leggere all’interno del suo lavoro gli spunti mutuati dall’architettura classica, rinascimentale e barocca fino alla più prossima corrente Art Nouveau.86 In secondo luogo si percepisce come, già sul finire degli anni Sessanta, fossero presenti nell’indagine dell’architetto romano tutti i temi cardine della sua ricerca nel tempo: l’investigazione sul luogo, sull’iconografia storica, sulla natura. Si potrebbe anzi sostenere che, se in quegli anni è già possibile ravvisare tutto il ventaglio dei suoi campi di interesse prevalenti, questi si siano poi sviluppati in maniere diverse in tempi diversi, ma nessuno di essi ha totalmente sostituito o cancellato il precedente, mantenendosi sul filo di una sottile integrazione che si mostra più evidente, come vedremo, nelle opere recenti. Mentre nella sperimentazione portata avanti fino agli anni Settanta il tema naturale era una sottile allusione all’interno di una indagine prevalentemente legata alla ricerca formale fondata sulla geometria, nell’ambito della temperie postmoderna l’interesse verso il tema naturale va riemergendo progressivamente, come è possibile constatare nei diversi progetti dei tardi anni Ottanta. In una recente intervista che ripercorre le tappe salienti del suo percorso egli sottolinea come l’esaurirsi della postmodernità, spesso fraintesa e relegata alla stregua di un ossequio alla moda universale, abbia avuto come effetto la ricerca di un contatto con le“forme naturali intese come forme che in fondo preannunciano le armonie delle forme artificiali”.87 D’altronde anche Lucio Barbera, nell’excursus retrospettivo che fa da prefazione a questo testo, ricorda come nell’attività di Paolo Portoghesi una particolare propensione a privilegiare il rapporto con la natura sia sempre esistita ed abbia costituito il retroscena costante di tutta la sua attività pre86 - Possono essere interpretati in questo senso i diversi testi scritti da Portoghesi su Michelangelo Buonarroti, Guarino Guarini, Frncesco Borromini, Victor Horta, che enfatizzano tutti il rapporto con l’elemento naturale. 87 - Intervista a Paolo Portoghesi, negli Apparati al volume.

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Prima parte - La ricerca dell’armonia

figg. 22/23 - A sinistra, un grafico di studio per la copertura del Teatro di Catanzaro; a destra, una conchiglia.

fig. 24 - Veduta della copertura interna del Teatro Lirico di Catanzaro di Portoghesi.

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cedente: il richiamo naturale di questi anni della sua carriera è, secondo Barbera, espressione della raggiunta “libertà di fare emergere questo aspetto della ricerca che è sempre stato presente”.88 Se una ispirazione di natura storica può dirsi determinante nella definizione del cambiamento di rotta operato da Portoghesi nei primi anni Novanta, questo rinnovamento della sua ricerca si deve anche da un lato all’urgenza dei problemi ambientali che assumono progressivamente carattere sociale, da un altro alla presa d’atto dell’inevitabile influenza di una ormai avvenuta rivoluzione in campo scientifico sul nostro universo percettivo. Per quanto attiene al primo aspetto, non si può non tener conto del fatto, assai rilevante, che già a partire dagli anni Sessanta i temi legati all’ambiente avevano assunto una grande importanza, e durante gli ultimi decenni questa consapevolezza si è fatta urgenza anche nel campo dell’architettura. Anzi è proprio nel periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta che tali questioni assumono una rilevanza particolare: una rinnovata ricerca si impone in campo ecologico, conducendo anche l’architettura a rimettersi in discussione e a rivedere la gamma delle proprie soluzioni. In questo senso, la progettazione trova un proprio filone di applicazione con tutte quelle discipline inerenti al campo della sostenibilità ambientale e della bioclimatica, che obbligatoriamente incidono sulla materia del comporre. Numerosi sono gli architetti che si dedicano alla progettazione naturale mettendo in campo approcci diversi: si consolida la ricerca intorno ai temi del risparmio energetico, della fornitura di energia pulita, dell’uso di materiali ecocompatibili e riciclabili, tutti aspetti che, spogliando l’architettura dei suoi vecchi stilemi, diventano dei veri e propri elementi compositivi a vista. Ma naturale è anche quella composizione che si serve di una fonte d’ispirazione naturale o che utilizza tali forme come repertorio iconografico su cui fondare il progetto. Sotto il profilo dell’approccio tecnologico al tema naturale, numerose e significative sono le coniugazioni che l’architettura ha assunto durante gli ultimi decenni, che hanno condotto all’introduzione di forme innovative di sostenibilità ambientale. Tra tutti, certamente il nome più rappresentativo è quello di Norman Foster, i cui progetti hanno come comune denominatore 88 - L.V. BARBERA, Prefazione al volume.

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Prima parte - La ricerca dell’armonia una sperimentazione tecnologica che conduce a soluzioni altamente innovative anche sotto il profilo compositivo, come l’ormai celebre cupola del Reichstag o la Free University progettate per Berlino. Meno spettacolosa ma certamente essenziale ed elegante è l’architettura di Joachim Eble, la cui progettualità è incentrata su una concezione dell’edificio come un organismo di cui controllare l’intero ciclo costruttivo e vitale: questi realizza opere in cui la sobrietà nulla toglie all’audacia ideativa, come il Prisma di Norimberga, un vero e proprio edificio vivente, simbolo di questa poetica. Muovendosi in questo ambito, è necessario citare le affascinanti architetture di Philippe Samyn, che hanno come aspetto fondamentale il conseguimento della sostenibilità ambientale attraverso un linguaggio costruttivo eloquente, sviluppando le conquiste della scienza per caratterizzare i manufatti e calibrarne l’inserimento all’interno del contesto ambientale, configurando un’architettura che abbia dei canoni nuovi rispetto al passato ma supportati da basi teoriche concrete. Di forte suggestione è, ad esempio, la NMBS Train station Canopy a Londra, caratterizzata per la forte tensione della struttura. E se la tecnologia ha trovato un ampia collocazione nell’ambito della ricerca sul tema naturale, nondimeno si è fatto strada un filone interpretativo che collega strettamente la ricerca tecnologica a quella formale: vale la pena di ricordare, ad esempio, l’attività di Renzo Piano, che in progetti come quello del Centro culturale Canaco a Nouméa, in Nuova Caledonia, rievoca89 in una ibridazione raffinata e innovativa (…) una ipotesi di interpretazione anche antropologica di una tradizione costruttiva locale con procedimenti tecnologici sofisticati e hi-tech o l’attività progettuale di Santiago Calatrava, interamente imperniata sull’ispirazione alle forme naturali ridotte alla loro essenza, richiamando nelle sue strutture la conformazione anatomico-osteologica degli scheletri animali.90 Ancora procedendo in questo ambito si scopre come, se queste interpretazioni si mantengono in bilico sul filo di un’integrazione tra il tema natu89 - C. POZZI, Ibridazioni architettura/natura, ed. Meltemi, Roma 2003, pag. 40. 90 - Ibid. a pag. 23.

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fig. 25 - Una veduta interna della cupola del Reichstag di Berlino di Norman Foster. figg. 26/27 - Due immagini della Free University di Berlino di Norman Foster.

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Prima parte - La ricerca dell’armonia

figg. 28/29 - Due immagini del Prisma di Norimberga di Joachim Eble. fig. 30 - Una veduta dai binari NMBS Train station Canopy a Londra di Philippe Samyn.

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figg. 63/64 - Vista in sezione e planimetria della Moschea e del Centro culturale.

Milano,36 si dedica con particolare impegno all’attività professionale condotta con Vittorio Gigliotti, che conoscerà una vasta espansione verso i paesi mediorientali con progetti di grande portata come l’Aeroporto di Khartoum e la corte reale di Amman in Giordania, due progetti che gli consentono di entrare in contatto con la tradizione locale e di sperimentare. E proprio tale esperienza sarà espressa in maniera decisiva nel progetto romano della Moschea, che impegnerà Portoghesi per molti anni, 36 - Dal 1968 al 1976 Paolo Portoghesi è preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Quando nel 1971 l’università viene occupata da alcuni senzatetto mandati via dalle case che avevano occupato per protesta Portoghesi, insieme ad un folto gruppo di docenti emeriti tra cui Aldo Rossi, Franco Albini, Guido Canella, indice un’assemblea permanente sul tema della casa. Tuttavia l’università viene presto sgombrata e i professori ritenuti responsabili vengono allontanati per due anni dall’università. È a partire da quel momento che Portoghesi ricomincia con maggiore slancio la sua attività professionale.

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Seconda parte - L’armonia nelle forme manifestandone appieno la capacità di interpretare l’integrazione,37 il dialogo tra due culture diverse, ma che hanno in comune alcuni archetipi fondamentali: la colonna, l’arco libero, il conflitto tra centralità e modularità e, dal punto di vista urbanistico, la strada. Successivamente a questo progetto, definitivamente metabolizzato il tema della geometria in una visione più ampia, il tracciato dell’architettura di Portoghesi diviene più complesso. Se negli anni Ottanta la sua attività teorica e divulgativa si era orientata in maniera prevalente ad una difesa del recupero dei valori storici nel progetto, invero la sua produzione architettonica – profondamente assorbita la speculazione sul controllo geometrico del progetto architettonico – imprime alla propria opera una sostanziale variazione che tuttavia investe prevalentemente il campo formale ma non ne modifica il metodo, che comunque aveva sempre contemplato una visione della storia dall’interno. Ma mentre nei primi progetti il riferimento alla tradizione restava prevalentemente tra le righe della precedente sperimentazione, per cui il richiamo alle epoche passate si fondeva ad una consapevole ricerca sulla contemporaneità e il luogo era motivo ispiratore delle teorie sui campi, negli anni Ottanta questo rapporto con le forme mutuate dalla storia diviene più appariscente e allusivo. Potrebbe dirsi addirittura che quello che prima era un riferimento colto diviene qui un atto dimostrativo,38 contro la perdita di identità generata nelle città moderne da architetture anonime frutto di logiche economiche ma anche dall’uso di un linguaggio, quello dello stile internazionale, che ha trasformato tutte le città in clonazioni di qualcos’altro. Ma soprattutto il motivo principale della sua concentrazione sul tema storico diveniva una più spiccata ricerca di coralità, la volontà di trovare un linguaggio più partecipato e immediatamente leggibile da tutti,39 che sembra 37 - G. PRIORI, a cura di, Paolo Portoghesi, ed. Zanichelli, Bologna 1985, pag. 54. 38 - P. BERNITSA e M. ERCADI, Paolo Portoghesi, ed. Skira, Milano 2006, pag. 90. 39 - Intervista a Paolo Portoghesi, negli Apparati al volume. Portoghesi esprime chiaramente le ragioni di questo suo adattamento alla tendenza postmodern.

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fig. 65 - Un dettaglio della facciata delle residenze di Tarquinia.

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Seconda parte - L’armonia nelle forme

fig. 66 - La piazza del complesso residenziale di Tarquinia.

trovare anche un vero riscontro nella partecipazione di un gran numero di persone alla Biennale di Architettura del 1980, sebbene molto contestata da architetti e teorici, anche molto visitata dal grande pubblico. Diversi sono gli esempi di architetture di questi anni che mostrano una chiara inclinazione ad utilizzare la citazione storica, per avvicinarsi alle realtà locali attraverso il recupero di forme archetipe dell’architettura. Significativo è l’esempio costituito dal progetto delle Case per i lavoratori dell’Enel a Tarquinia (1981/1988), in cui si avverte con immediatezza la portata del tema storico, individuato nei grandi archi di mattoni che fanno da motivo conduttore, richiamando alla mente la ritmica cadenza dell’acquedotto romano, ma anche nel recupero della loggia e nella scelta di caratterizzare il progetto attraverso delle torri, direttamente mutuate alla tradizione del piccolo centro laziale. Differente è il discorso che si incontra nel Residential Park Borsalino di Alessandria (1987/1991) in cui il riferimento si fa più giocoso e disimpegnato con l’invenzione di torri-balcone che terminano in delle altane di diverse altezze, che divengono tema portante e definiscono lo skyline del complesso ad una lunga distanza.

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Indice generale

PRESENTAZIONE........................................................................................................................................................ 11 PREFAZIONE................................................................................................................................................................. 13 PREMESSA: Il riflesso dell’anima L’architettura come forma espressiva.......................................................................................................... 25 Dove nasce l’ispirazione....................................................................................................................................... 28 PARTE PRIMA: La ricerca dell’armonia Dopo la “frattura” moderna. La ricerca di una nuova espressività......................................... Dallo spazio al luogo: il segno diventa linguaggio............................................................................... L’interpretazione della prospettiva storica dalla modernità al post-moderno.......................... La riscoperta della semplicità esuberante.................................................................................................

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PARTE SECONDA: L’armonia nelle forme Progettare con la memoria viva....................................................................................................................... Il disegno di un istante: la poetica delle dissolvenze incrociate.................................................... Far rivivere i luoghi: un percorso tra memoria e ricerca................................................................. Il progetto negli anni Ottanta come nuova percezione della storia.......................................... Costruire per collaborare con la Terra.......................................................................................................

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APPARATI Un’intervista a Paolo Portoghesi.................................................................................................................... Regesto delle opere citate nel volume............................................................................................................. Bibliografia..................................................................................................................................................................... Indice degli articoli consultati...........................................................................................................................

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Paolo Portoghesi negli anni ‘70.



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