Guida ai Green Jobs

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tascabili dell’ambiente

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Tessa Gelisio e Marco Gisotti

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come l’ambiente sta cambiando il mondo del lavoro realizzazione editoriale Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it coordinamento redazionale: Diego Tavazzi impaginazione: Roberto Gurdo progetto grafico: GrafCo3 Milano immagine di copertina: Mauro Panzeri © 2012, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02 45487277, fax 02 45487333 ISBN 978-88-6627-037-9 Finito di stampare nel mese di settembre 2012 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100% i siti di edizioni ambiente: www.edizioniambiente.it www.nextville.it www.reteambiente.it www.puntosostenibile.it www.freebookambiente.it seguici anche su: Facebook/EdizioniAmbiente Twitter.com/#!EdAmbiente

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sommario

un paese per imprenditori verdi

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introduzione

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intervista ad achim steiner

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intervista a ferruccio de bortoli

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intervista ad alberto grando

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intervista a domenico mauriello

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1. energie rinnovabili Intervista a Paolo Rocco Viscontini Intervista a Fabrizio Bonemazzi Intervista a Paolo Mutti Intervista a Michele Scandellari Analisi del settore

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2. chimica verde Intervista ad Armido Marana Intervista a Ugo Cappellacci Intervista a Francesco Ferrante Analisi del settore

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3. risorse e rifiuti Intervista a Walter Facciotto Intervista a Francesco Carcioffo Intervista a Olivo Foglieni Analisi del settore 4. mobilitĂ sostenibile Intervista a Giuliano Pisapia Intervista a Olivier Quilichini Intervista a Francesco Fontana Giusti Analisi del settore 5. industria agroalimentare Intervista a Oscar Farinetti Intervista a Gianfranco Meazzi Intervista a Fabio Brescaccin Intervista a Vincenzo Tassinari Intervista a Franco Mura Analisi del settore 6. ecofinanza Intervista a Ugo Biggeri Intervista a Luciano Balbo Analisi del settore 7. green building Intervista a Matteo Thun Intervista a Flavio Ruffini Intervista a Paolo Perino Analisi del settore 8. foreste e dintorni Intervista ad Alessandro Bozzola Intervista ad Alessandro Saviola Analisi del settore

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9. sicurezza del territorio Intervista a Corrado Clini Intervista a Franco Gabrielli Analisi del settore 10. certificazioni ambientali Intervista a Claudio De Rose Analisi del settore

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11. green marketing e advertising Intervista a Marco Testa Intervista a Massimo Oriani Analisi del settore

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12. green fashion Intervista a Ilaria Venturini Fendi Intervista a Luigi Perinelli Analisi del settore

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13. benessere naturale Intervista ad Alessandro Pizzocarro Intervista a Fausto Panni Analisi del settore 14. prodotti Intervista ad Alessandro Giuliani Intervista ad Angelo Ballarini Intervista ad Andrea Cusinato Intervista a Francesco Cucchi Analisi del settore 15. giornalismo ed editoria ambientale Intervista a Giuseppe Nardella Intervista a Paolo Fabbri Analisi del settore

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16. aree protette Intervista a Giampiero Sammuri Analisi del settore 17. turismo sostenibile Intervista a Stefano Di Marco Intervista a Chema Basterrechea Analisi del settore 18. avvocati e ambiente Intervista a Pierfrancesco Federici Analisi del settore 19. ricerca Intervista a Giovanni Lelli Intervista a Luigi Nicolais Intervista a Enrico Loccioni Intervista ad Andrea Merloni Analisi del settore

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bibliografia

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ringraziamenti

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un paese per imprenditori verdi

Non è facile stabilire la data in cui fissare l’inizio della green economy o della green revolution, ma ormai la virata verso il verde dell’economia è una realtà che evolve a differenti velocità, secondo varie vie e in molti modi nei paesi sviluppati e in quelli emergenti. All’epoca della prima edizione della Guida ai green jobs nel 2009, gli Stati Uniti e l’Europa si affacciavano sulla crisi senza ancora coglierne con esattezza la misura. Si comprendeva che non sarebbe stata breve e che avrebbe lasciato il segno, non solo sulle casse di stati e aziende o sulle tasche di ognuno di noi, ma anche sul sistema economico dominante, sulla filosofia economica basata sulla crescita senza fine e sulla produzione all’infinito. Indipendentemente dalla rivoluzione verde, la necessità di una rivoluzione economica è evidente. Nella prima edizione di questa guida abbiamo intervistato imprenditori, politici, comunicatori e teorici che parlavano con l’eccitazione degli esploratori e dei pionieri di fronte a un continente sconosciuto e indicavano una via alternativa, forti di dati e tanto ottimismo. In Italia la green economy si era infiltrata da qualche anno, e i pochi che avevano colto le vibrazioni del terremoto in arrivo e intuito le possibilità di un nuovo mercato (ancora prima che Obama cercasse di imprimere una svolta green all’economia statunitense), si erano mossi d’anticipo. Ora tutto sembra combaciare, la crisi forza un cambiamento e ha fatto sì che sempre più imprese e idee imprenditoriali imboccassero il sentiero verde, l’unico a guidare sulla strada dell’ottimizzazione delle risorse e dei costi ambientali e sociali della produzione, e a essere in linea con nuove esigenze dei consumatori. Quello che solo tre anni fa era un mondo per imprenditori visionari e per il consumo di nicchia, oggi si è tramutato in un’onda che ha invaso più

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o meno tutti i settori economici, dall’automotive alla chimica, passando per l’edilizia e varie aree del manifatturiero fino al settore dei servizi, dove l’efficientamento e la consulenza ambientale (non solo tecnica, ma anche legale) stanno diventando attività richieste e ben remunerate. Alcuni settori green, come quello delle energie rinnovabili, appaiono persino maturi e “stanchi” (non solo a causa dell’incerta politica energetica che il nostro paese sta seguendo), altri sono nascenti come quello del riutilizzo e del recupero, attività che cominciano a interessare anche grandi realtà aziendali. È un mondo nuovo quello cui ci siamo trovati di fronte, un mondo la cui esistenza è insospettabile per i più: un universo di imprenditori agguerriti, tutt’altro che rassegnati, persino ottimisti. Siamo stati, sinceramente, presi alla sprovvista, condizionati da un clima generale (e a ragione) depresso, dallo scoprire un angolo economico del paese su cui splende ancora il sole o che, comunque, non è stato ancora investito in pieno dall’alluvione. La forza del settore deriva anche dalla carica di innovazione che porta con sé, e dove c’è voglia di innovare spesso troviamo imprenditori giovani, ricchi di idee e con forti motivazioni. In questi tre anni la green economy all’italiana è maturata, dando impulso sia a tipologie di impresa e professioni nuove sia dando prospettive di rinascita a settori maturi e professioni “tradizionali”, permettendo a tutti di vestirsi di verde per aggiornarsi e tornare a mordere il mercato. A fianco dei tecnici e dei progettisti esperti di rinnovabili, riciclo e nuovi materiali ecosostenibili, si affermano o muovono i primi passi filoni rinnovati come quello degli operatori edili esperti in efficientamento energetico, dei consulenti legali esperti in tematiche ambientali, degli agricoltori bio- e dei loro canali di distribuzione, degli operatori ecoturistici o dei gestori di mercatini dell’usato. Lo stesso approccio alla definizione dei profili professionali è molto più elastico: la figura tipica del settore, indipendentemente dall’ambito e della specializzazione è per lo più ibrida, multidisciplinare ed estremamente malleabile, con soft skills, quali la capacità relazionale e comunicativa, forti. La green economy richiede persone globali ma non globalizzate, curiose e alla ricerca di idee anche in luoghi lontani (spesso là dove oggi si cercano risorse energetiche e materie prime). La green economy chiede di essere giovane a chiunque la approcci, indipendentemente dall’anagrafe.

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un paese per imprenditori verdi

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Il verde prometteva di essere un’opportunità per tutti e pare mantenere la promessa: a oggi gli occupati (direttamente o indirettamente) nel settore sono tra gli 850 e i 950.000, un piccolo esercito di green workers che secondo gli esperti potrebbe, nell’arco di dieci anni, diventare un’armata di 1.500.000 di unità. E questo avviene mentre il paese sta conoscendo una crisi profonda a livello finanziario e politico che sta minando il pur sano tessuto produttivo nazionale. Sano ma a volte troppo poco reattivo e resiliente, caratteristiche dimostrate chiaramente, invece, dagli imprenditori verdi, che stanno inventando un settore basandosi su un ambiente economico ben diverso, dove produrre è ancora il verbo dominante ma che viene applicato a una condizione, ossia nel rispetto di parametri sempre più stringenti di sostenibilità ambientale e sociale; un ambiente dove la durata della vita dei prodotti non è più secondaria (o peggio ancora breve per convenienza); dove le risorse rappresentano un parametro limitante e l’efficienza energetica viene considerata un plus importante. Insomma, il green sembra il mood adatto per affrontare il mondo che verrà. Il profilo del vero imprenditore green si è andato via via delineando e risponde sempre più a quello di persone giovani, attente alla tecnologia (sempre più spesso donne), molto vicine alle esigenze del mercato reale e non quello fittizio costruito dal marketing, e sempre più consce del valore economico dell’ambiente. Con il crescere della normativa che lo regola, lo stesso mercato della green economy sta cominciando a selezionare naturalmente, “lasciando in vita” solo gli attori più credibili, eliminando gli approcci più naïf (privi cioè delle necessarie competenze imprenditoriali e troppo basati su un certo ingenuo entusiasmo) da un lato, e creando barriere nei confronti dei green washer più incoerenti che adottano semplici quanto facilmente smascherabili operazioni di comunicazione dall’altro. Eccoci qua, dopo tre anni, a contemplare un bambino che diventa adolescente, non cinico come un navigato mercante ma nemmeno più tanto ingenuo, che agli entusiasmi infantili sta sostituendo passione e crescente consapevolezza dei propri mezzi: un adolescente che con l’incoscienza della gioventù sta affrontando la crisi come se si trovasse di fronte alla migliore delle opportunità.

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introduzione

Quando abbiamo scritto la prima edizione della Guida ai green jobs era il 2009. Il crollo della Lehman Brothers era una ferita fresca e molto dolorosa che Wall Street si era autoinferta. Gli Stati Uniti avevano da poco rischiato un tracollo ben peggiore di quello del 1929 e il mondo si domandava quali sarebbero state le conseguenze della crisi del debito per la fragile Unione europea. Ci si cominciava anche a domandare, persino al di fuori delle università, se fosse giunto il tempo di mettere in discussione il sistema economico dominante basato sulla crescita perenne di produzione e consumi, come se l’umanità fosse esentata dal considerare seriamente la limitatezza delle risorse del pianeta. Si cercava una via di fuga, una possibilità per economia e mercati, se non per gli individui stessi. Obama, appena insediato, spiegò agli americani (e in qualche misura al mondo) che la green economy era molto più di una tra le tante opzioni, era l’Opzione, l’unica che permettesse di dare un nuovo impulso a un sistema economico ormai ripiegato su stesso e che tenesse in conto i limiti del pianeta in termini di risorse, spazio e capacità degli ecosistemi di reggere la crescente pressione umana. Oggi la presidenza americana è agli sgoccioli, l’attuale inquilino della Casa bianca è tutt’altro che sicuro di rinnovare il proprio mandato e la sua spinta verso l’economia verde potrebbe rimanere il suo maggior contributo a questo spicchio di storia. Cosa è accaduto da allora? Molto, moltissimo, mentre il mondo continua a rotolare su una china pericolosa. Secondo l’UNEP la green economy potrebbe generare da 15 a 60 milioni di nuovi posti di lavoro a livello globale nei prossimi 20 anni e sollevare decine di milioni di lavoratori dalla povertà. Il settore delle energie

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rinnovabili sta occupando, in tutto il mondo, cinque milioni di lavoratori. Negli Stati Uniti, tre milioni di persone lavorano nell’ambito della produzione di beni e servizi ambientali. In Spagna, ci sono più di mezzo milione di posti di lavoro in questo settore. In Brasile il settore green ha già creato poco meno di tre milioni di posti di lavoro, pari a circa il 7% dei posti di lavoro. Nella sola Ue, la tutela della biodiversità e la riabilitazione delle risorse naturali e foreste impiega, direttamente e indirettamente, 14,6 milioni di persone. I dati parlano chiaro. Dopo tre anni la crisi sta smascherando le debolezze dell’Ue e sta mettendo a dura prova l’economia globale. L’Italia è uno degli anelli deboli della catena europea, e nonostante la forte potenzialità produttiva (che rimane tale da decenni: ossia soltanto una potenzialità) lotta disperatamente menando fendenti un po’ scoordinati contro un drammatico debito pubblico. Il regnante clima di austerità e paura che ha messo in ginocchio centinaia di aziende italiane e presto, forse, migliaia di famiglie sembra pesare come una cappa sul futuro economico del nostro paese, incapace di reagire, depresso e a volte represso da forze politiche e dalla finanza internazionale. Eppure, mentre il bollettino di guerra che racconta storie di quotidiana disperazione imprenditoriale si allunga giorno dopo giorno, un’area non piccola (e anzi sempre più ampia) dell’economia italiana prosegue il suo cammino resistendo bene, tutt’al più tentennando, di fronte allo tsunami della crisi. Questo gruppone variegato di imprese di ogni dimensione che tira la volata (in salita) della green economy nostrana è costituito dalle realtà che in tempi non sospetti per passione dei singoli, intuito imprenditoriale o puro calcolo strategico si sono inserite nel green stream della nuova economia. È stata una bella sorpresa per noi, una boccata di ottimismo. La green economy, dal 2010, ha accolto sotto le proprie insegne tre imprese manifatturiere su dieci (30,4%) fra quelle piccole-medie, vale a dire quelle che hanno fra i 20 e i 499 dipendenti. Nel 2011 questo numero è praticamente raddoppiato, con sei imprese su dieci (57,5%) che hanno scelto di investire in prodotti e tecnologie green, a maggior risparmio energetico o a minor impatto ambientale. A livello puramente concettuale esistono due tipologie d’impresa che si muovono nella green economy: quella delle aziende appartenenti a set-

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introduzione

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tori tradizionali e mercati maturi che stanno cercando la riqualificazione e nuovi mercati in ottica sostenibile; e quella delle aziende pioneristiche che hanno aperto la strada a nuovi settori, caratteristici della green economy, e a nuovi mercati, praticamente inesistenti nel nostro paese prima del 2008. In effetti, potremmo dire di trovarci di fronte a una piccola rivoluzione, specialmente se pensiamo alle decine di aziende che si stanno realmente riconvertendo investendo capitali, pensiero (finalmente, un po’ di quel sopito ingegno italico) e tecnologia in una reale virata verso il verde, cambiando processi e prodotti, cominciando a mettere in discussione i cicli di vita dei beni di consumo, che cominciano a essere concepiti all’insegna della riciclabilità totale e del basso consumo di risorse... Insomma, molte aziende hanno cominciato a pensare sostenibile. Prima di entrare nel dettaglio dell’economia verde all’italiana è importante una premessa: il verde si sta insinuando ovunque nella comunicazione aziendale perché, pensate un po’, vende. Questo è il sintomo dell’evoluzione culturale in corso (con differenti intensità e gradi di consapevolezza) nei paesi industrializzati. Dopo decenni di campagne di comunicazione governative e non e di crisi energetiche e finanziarie globali, la sensibilità degli individui verso i temi legati all’ecologia è clamorosamente aumentata. Oggi essere “ambientalista” (il termine qui viene usato con una valenza molto più soft di quella letterale), in generale dichiararsi amici dell’ambiente, fa tendenza, ma in realtà non si tratta di una moda. Stiamo assistendo a una vera rivoluzione che sta rendendo la sensibilità ecologica un patrimonio culturale acquisito irreversibilmente. Le evidenze dei danni ambientali inflitti dalle attività umane negli ultimi 200 anni sono ormai chiare e non possono più essere nascoste e messe in discussione, così come la necessità reale e quotidiana del risparmio energetico. Di fronte alla realtà senza veli dell’emergenza ecologica ed economica globale anche l’opinione pubblica ha cominciato a considerare la sostenibilità dei prodotti e dei servizi un plus sempre più importante, tanto da far virare inesorabilmente molti mercati (da quello dell’automotive passando per quello energetico fino all’alimentare) verso il verde. Ormai una consistente popolazione di consumatori (la maggior parte) a parità di prezzo e prestazioni sceglie green, altri gruppi scelgono invece in base a specifiche caratteristiche green, ma in generale è oggettivo che

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il trend dei consumi green ed etici sia in crescita. La crisi ha determinato un’accelerazione dell’affermazione degli stili di vita sostenibili, andando a minare le basi dell’iperconsumismo tanto caro ai mercati affamati di perenne crescita. I vecchi comportamenti virtuosi delle nostre nonne, sempre attente a evitare gli sprechi, si stanno nuovamente diffondendo e ci auguriamo, anzi, crediamo fermamente, che quando la crisi sarà passata molti di questi comportamenti rimarranno acquisiti e fissati. Vediamo dunque come il nostro paese si sta inserendo nel green stream globale.

rinnovabili Nel 2011 l’Italia ha raggiunto gli obiettivi fissati per il 2020 dall’Ue nel campo della produzione energetica da fonti rinnovabili, caso più unico che raro in cui ci siamo dimostrati di una solerzia straordinaria. Non solo: nello stesso anno il nostro paese è diventato il primo mercato fotovoltaico al mondo, coprendo il 33% di tutta la domanda globale del settore. Miracoli degli incentivi previsti dai quattro conti energia degli ultimi anni, che nel complesso hanno innaffiato il mercato con milioni e milioni di euro. Su un fatto sono tutti concordi: il settore delle energie rinnovabili è stato “drogato” dagli incentivi e in pochi anni da mercato in pieno boom si è passati a un mercato già maturo, specialmente per quanto riguarda i grandi progetti di fattorie solari e gli impianti industriali. Il tempo delle concessioni per gli impianti a terra è finito e ora rimangono da coprire i tetti di mezza Italia. Il futuro degli incentivi, tuttavia, è oggi più che mai incerto: prima o poi verranno interrotti e il fotovoltaico dovrà camminare sulle proprie gambe. Ce la farà, soffrendo, ma ce la farà. La grid parity presto verrà raggiunta e la rivoluzione energetica da trascinante diventerà inesorabile. Molti operatori del settore non si dicono nemmeno troppo dispiaciuti dello “sboom”, che comporterà una selezione naturale delle aziende del settore lasciando solo quelle più forti e motivate, mentre la miriade di realtà che senza gli incentivi forse nemmeno esisterebbe sparirà e il mercato diventerà più stabile e competitivo. Il fotovoltaico, tuttavia, attualmente è

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introduzione

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in sofferenza per un’incertezza normativa che comunque non durerà per sempre. La rivoluzione solare è cominciata e non potrà finire in niente, l’unica incertezza riguarda la velocità e le modalità di questa mutazione. Rimane un fatto però: le rinnovabili, specialmente il fotovoltaico, hanno trainato il comparto green con la forza di un rimorchiatore arrivando a impiegare oltre 100.000 persone, con una proiezione al 2020 che parla di 250.000 unità.

efficientamento Ma l’energia, oltre a essere prodotta, può (e sempre più deve) non essere sprecata. La crisi ha acceso la miccia sotto il settore green più esplosivo del momento: quello dell’efficientamento. Anche se i suoi confini sono difficili da definire, possiamo però descriverlo come quell’area in cui rientra qualunque attività mirata alla riduzione dei consumi energetici e più in generale di materie prime, all’ottimizzazione dei processi produttivi, alla creazione di modelli di consumo e risparmio, all’integrazione dei processi... Insomma, qualunque azienda o professionista operi specificamente in uno di questi ambiti può dirsi appartenente al settore dell’efficientamento. È senza dubbio uno degli ambiti più tipici della green economy. Se le sue origini sono forse legate semplicemente al buon senso, la sua espansione è indissolubilmente legata alla crisi finanziaria ed energetica, e il suo successo è destinato a durare ben oltre: chi è il pazzo che di fronte alla concreta opportunità di spendere meno (e badate, non si parla di riduzione dell’impatto ambientale, che sappiamo essere argomento con molto meno appeal) vorrà tornare a un modello di consumo o produttivo dispendioso? Confindustria, che sa far di conto, immagina il settore potrà “generare un effetto cumulato nel decennio di un aumento della produzione diretta e indiretta a livello nazionale di quasi 240 miliardi di euro, la creazione di oltre 1,6 milioni di posti di lavoro, con un incremento del Pil medio dello 0,6% annuo”.

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chimica Se l’industria pesante soffre, la chimica tradizionale, in Italia, non sta tanto meglio. Eppure, per un settore giunto a maturità da qualche anno si aprono prospettive interessanti, se non le porte di un futuro roseo. La chimica verde sta infatti vivendo il suo primo momento d’oro. Gli italiani eccellono nella produzione e ideazione di nuovi materiali, e la nostra esperienza in campo chimico poggia su una storia gloriosa che ora va solo un po’ rinverdita (scusate il gioco di parole). Porto Torres e Marghera non sono casi eccezionali, sono progetti ambiziosi, possibili e anzi reali. Due poli per la chimica verde di queste dimensioni possono fare tanto per il paese ma anche fungere da battistrada per un intero settore un po’ restio a smuoversi dalle vecchie posizioni: o la chimica cambia e intraprende nuove vie (e l’unica possibile per ora è quella verde) oppure è destinata a morire. Imporre i sacchetti in bioplastica è stato difficile, una guerra parlamentare contro le lobby della plastica. Eppure chi ha convertito per tempo gli impianti alla produzione delle bioplastiche ora fiorisce e prospera.

rifiuti L’Ue sta anche promuovendo con energia l’evoluzione del settore dei rifiuti. Anche l’era delle discariche, abusive e non, e dai magheggi low tech delle mafie sedute sulle montagne di monnezza di Napoli e Palermo, è destinata a finire, lasciando il posto a un vero business high tech incentrato sul riciclo delle materie prime. L’investimento tecnologico e di pensiero nel campo dei rifiuti è stato notevole, tanto che in Italia possiamo collocare alcune eccellenze a livello mondiale come Conai, Corepla, Coou e Cobat (rispettivamente il consorzi per il recupero degli imballaggi, della plastica, degli oli usati e delle batterie) e altre realtà caratterizzate da un’efficienza veramente strabiliante. Molti imprenditori d’ingegno si sono interessati al settore e così legno, carta, vetro, gomma, plastica, metalli di varia natura dal ferro all’alluminio diventano oro nelle mani di chi ha il know how necessario. Esiste forse un ambito più certo del proprio fu-

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turo? I rifiuti saranno sempre più preziosi dato che le materie prime non rinnovabili diventeranno sempre più scarse e costose.

agricoltura Veniamo a uno degli ambiti più classici e tradizionali del “verde all’italiana”: l’agricoltura di qualità. Siamo stati e siamo tra i migliori in questo campo, tra i primi al mondo, anzi i primi al mondo, per esempio, nelle esportazioni di prodotti biologici. Magari arranca ancora un po’ il mercato interno, anche se sta nettamente migliorando, ma il bio c’è e aumenta e non verrà mai più sradicato. Oltre al successo delle catene specializzate (NaturaSì è giunta a quasi 100 punti vendita su tutto il territorio nazionale), la Gdo ha cominciato a investire seriamente e a catalizzare l’offerta dei produttori. È anche per questo che molti piccoli fornitori stanno sparendo, in parte colpiti dalla crisi e in parte dall’incapacità di reagire alle richieste della grande distribuzione. Chi ha fatto il salto di qualità diventando un grande imprenditore agricolo oppure si è organizzato nel suo piccolo fornendo prodotti di qualità a Gruppi d’acquisto solidale e vendita locale sta resistendo alla maturazione del mercato e alla crescita dell’offerta. I prodotti agroalimentari, infatti, a livello globale, hanno prezzi sempre minori e la penetrazione di prodotti d’importazione, che crea una competizione che a volte va ben oltre i termini della correttezza, è sempre più forte. Lo scenario è perciò estremamente difficile per chi già opera nel settore e ancor di più per chi apre un’azienda sotto il fuoco di un mercato sempre meno remunerativo e sempre più competitivo. Un fatto è certo: il numero delle aziende (sia bio sia tradizionali) negli ultimi anni è calato per i motivi che abbiamo sopra descritto ma anche perché il mercato ha selezionato le microaziende e, diremmo così, quegli amateur un po’ troppo improvvisati: fare il produttore agricolo è cosa assai complessa! Nonostante questo, l’agricoltura biologica italiana sta bene: 130.000 occupati, fatturati e redditività in aumento. Stesso trend va registrato per i prodotti tipici, vera bandiera della cultura del cibo italiana e baluardo dell’economia agricola nazionale.

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edilizia Se l’edilizia va in crisi significa che la crisi è vera e profonda. E così è: non si costruisce più, specialmente le opere pubbliche creano problemi seri ai costruttori che vantano crediti enormi verso pubblica amministrazione e stato. Tuttavia, in un panorama desolante, nel poco che si costruisce, cresce la percentuale del green building. La normativa sulla classe energetica degli edifici, fattore sempre più premiante per chi vende, e la necessità di risparmio hanno stimolato un gruppo di imprese a specializzarsi nella costruzione con un occhio al risparmio energetico e all’ecocompatibilità. È ancora un piccolo drappello perché il settore è fortemente radicato sulle tecniche tradizionali e la maggior parte degli imprenditori edili non è particolarmente portato all’innovazione, ma il loro numero è destinato inevitabilmente a crescere. La riqualificazione stessa degli edifici esistenti, di cui tanto avremmo bisogno anche per contenere l’italica tendenza alla cementificazione facile, è un’attività non molto diffusa ma che, presto o tardi, decollerà.

le professioni Se questi sono i settori green che più caratterizzano l’onda verde italiana, le professionalità più richieste dal mercato si collocano in una top list ben definita, come si vedrà nel corso delle interviste e negli interventi degli imprenditori stessi. In generale si rileva ancora la mancanza di profili scientifico-tecnologici, anche non necessariamente esperti. Semplicemente mancano laureati in materie tecnico-scientifiche: ci portiamo dietro il solito viziaccio di spingere i nostri giovani verso le materie umanistiche vivendo nel mito che di avvocati e commercialisti, di funzionari pubblici e insegnanti ci sarà sempre bisogno. È così certamente, ma basta annusare l’aria, anche distrattamente, per capire che di commercialisti e avvocati l’Italia è piena (migliaia gli iscritti a ogni esame di stato sono sintomo di un certo intasamento), che gli insegnanti vivono un’esistenza da precari e che la pubblica amministrazione più che aumentata va ridotta e riqualificata. Ecco un numero che ci ha lasciati sbigottiti: su

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192.000 laureati circa nel 2011 si sono registrati 13.000 laureati in legge e 106 laureati in chimica industriale (settore che, come abbiamo visto, ha ottime prospettive green)! L’università è perciò importantissima, ma non è l’unica strada possibile. Per chi ha finito la scuola superiore e non vuole o non può proseguire gli studi un’eccezionale opportunità è fornita dagli Istituti tecnici superiori, poco noti ancora, ma che offrono una formazione tecnica certificata di grandissima qualità e molto richiesta nel mondo del lavoro. Gli Its sono caratterizzati anche dallo stretto rapporto che la formazione ha con le imprese, le quali non di rado pescano i propri lavoratori da questi percorsi. Ci sono, infine, numerosi corsi, spesso gratuiti, erogati da scuole di formazione private ma con fondi pubblici su base regionale e provinciale di cui viene data notizia sui siti degli assessorati alla formazione locali. Anche in questo caso sono da preferire quelli che prevedono una fase di stage in azienda. Alla luce di questo, vi stupirà leggere chi si colloca al numero uno della lista. 1. I più richiesti nel settore green sono i venditori, i commerciali: una delle professioni più classiche, quella del venditore, rimane tuttora una delle più richieste nell’ambito del comparto più moderno. Il perché è chiaro. La green economy è un ambito in cui l’innovazione è la base di ogni attività. Rinnovare ciò che già esiste o creare settori completamente nuovi (per lo più ad alto tasso tecnologico) richiede non solo senso dell’impresa ma anche un grande bagaglio tecnico. È per questo che il mondo green è per ora povero di grandi commerciali. Il neo della formazione accademica e tecnologica italiana è quello di non preparare i tecnocrati di domani a comunicare la propria attività o le proprie idee, i servizi offerti o i vantaggi di una tecnologia cercando un appeal commerciale e comunicativo. È per questo che molti tecnici a capo di imprese fiorenti lamentano la mancanza di personale in grado di rendere accessibile a tutti l’informazione ad alto tasso tecnologico e di sfruttare questa capacità per vendere. Attenzione: se state leggendo questo libro per orientarvi professionalmente, ricordate che un super tecnico senza soft skills (capacità di relazione, comunicatività, iniziativa...) e senza competenze commerciali, nel vasto mondo al di fuori dell’R&D parte nella gara al succes-

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so con una gamba legata. Quello che manca è, infatti, una figura ibrida del commerciale che conosca il mestiere della vendita ma che al contempo abbia forti competenze tecnologiche, un profilo raro e richiestissimo in cui antico e moderno si fondano al meglio. 2. Quando qualcuno vi dice che una laurea in ingegneria apre ogni porta, be’, forse esagera, ma non è lontano dalla verità. A tutt’oggi, infatti, i laureati più richiesti e con la migliore collacabilità sono gli ingegneri. Vuoi per il grande bagaglio tecnico pratico, vuoi per la forma mentis che viene costruita nelle aule universitarie sbattendo la testa contro tomi di Analisi... il titolo di Ing. è un biglietto da visita che offre una vasta gamma di possibilità in ambiti tra i più svariati. La green economy chiede ingegneri, brama ingegneri, ma quelli di cui più sente il bisogno appartengono a un tipo ormai desueto: l’ingegnere elettrico, richiesto da chi opera tanto nel settore delle rinnovabili quanto in quello dell’efficientamento, ossia il settore che più ne impiegherà nei prossimi anni. 3. L’energy manager è una figura che si sta affermando negli ultimi anni (potremmo azzardare negli ultimi cinque). Non esiste però ancora un percorso specialistico ben preciso in grado di portare a questa qualifica ma ci si può fregiare di questo titolo conquistandolo sul campo, oppure scegliendo di intraprendere un percorso post universitario ad hoc (diverse università italiane di ottimo livello offrono master nella gestione dell’energia). Cosa fa dunque l’energy manager? È la classica figura multidisciplinare che a fianco di forti competenze nel campo della produzione e della distribuzione energetica, sviluppa soluzioni taylor made per privati, ma soprattutto aziende, finalizzate all’efficientamento energetico. La figura è ambita, anche se rara, da chi opera nel campo delle rinnovabili ma soprattutto da chi si occupa di efficientamento e anche da grandi aziende o addirittura poli industriali: l’energy manager fa risparmiare e di questi tempi è una dote assai gradita. 4. Al gradino quarto, ai piedi del podio, ma non lontano dalla terza piazza, il designer(eco) industriale. Il ciclo di vita dei prodotti, la loro ecosostenibilità, la loro riciclabilità e la loro ergonomicità cominciano a diventare priorità per molti ambiti produttivi. Senza contare, considerando il lato consumer, che gli ecoprodotti ideali sono progettati per avere anche costi minori. Il futuro del design industriale è “eco” e non ci so-

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introduzione

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no dubbi. Questa la professione più vicina al tanto urlato made in Italy: il design è cosa nostra, è tempo di renderlo eco. 5. I nuovi materiali hanno vinto una battaglia importante con il bando dei sacchetti di plastica dagli esercizi commerciali italiani. Ma le bioplastiche sono solo la punta di un iceberg ancora tutto da scoprire. L’apertura di due grandi poli della chimica verde, la forza di grandi aziende e i brevetti dei nostri maggiori politecnici ci dicono che gli italiani hanno il bernoccolo per la chimica e per la fisica dei nuovi materiali, quelli del futuro, derivati da materie prime seconde, da materie organiche, quelli straordinariamente resistenti, flessibili, macro o micro, in grado di isolare, assorbire, condurre più che mai. In questo campo, tanto vasto quanto promettente, il consiglio è indirizzato a chimici, fisici e ingegneri: è un settore affascinante dove ricerca è ancora sinonimo di potenziale guadagno. 6. La gestione dei rifiuti è un problema prima di tutto di governance e di logistica, ma il loro smaltimento è anche un problema tecnologico: c’è un universo di innovazioni oltre la discarica e l’inceneritore. In Italia, a parte i già citati consorzi obbligatori, esistono eccellenze in tal senso, prese come esempio nel resto del mondo. Non lasciamoci fuorviare da folli progetti di discariche o dai roghi campani e siciliani: in Italia esistono le competenze e la voglia per rispettare i parametri imposti dall’Ue e i grandi passi avanti compiuti nel Nord e nel Centro sulla raccolta differenziata indicano che la popolazione recepisce il messaggio: riciclare è possibile, funziona e conviene. Questo settore ha un grande futuro e ha bisogno di una moltitudine di figure: tecnici, manager, comunicatori e anche forza lavoro cosiddetta “bassa”. 7. La figura dell’operatore agricolo specializzato nella coltivazione biologica si trova in fondo alla lista solo perché il bio italiano, per quanto forte e sano, ha ancora tanta strada di fronte a sé. Con la crescita del settore ci si rende sempre più conto che coltivare biologico non richiede solo abili imprenditori ma anche manovalanza esperta che conosca tempi e dinamiche di una pratica complessa e delicata. Col crescere del bio, crescerà la domanda di questi profili: il manovale agricolo e la base del sistema agro-alimentare stanno entrando nel XXI secolo.

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Molte altre figure rimangono per il momento relegate a nicchie di mercato che però danno forti segnali di espansione (per esempio il turismo ecologico) oppure sono talmente rare da non poter essere considerate opzioni per il momento plausibili per un gran numero di persone (come i mercatini dell’usato). D’altronde, secondo i dati del rapporto “GreenItaly” di Fondazione Symbola e Unioncamere, quasi il 40% delle professioni censite dall’Istat sono oggi interessate da una riconversione verde. Secondo il rapporto sui green jobs pubblicato dal Programma per l’ambiente delle Nazioni unite (UNEP) e dall’Organizzazione internazionale del Lavoro (ILO) pochi giorni prima della Conferenza di Rio de Janerio del 2012, intitolato “Working towards sustainable development”, almeno la metà dei lavoratori di tutto il mondo – circa un miliardo e mezzo di persone – sarà interessata nel prossimo decennio dalla trasformazione green. Saranno otto in particolare saranno i settori chiave chiamati a svolgere un ruolo centrale: l’agricoltura, la silvicoltura, la pesca, l’energia, il manifatturiero ad alta produzione, il riciclaggio dei rifiuti, l’edilizia e i trasporti. La green economy ha molto da offrire, lo si sente, lo si respira e lo si vede dati alla mano. Non è un club per pochi entusiasti imprenditori, ed è il campo giusto per chi ha energia, fantasia, ottimismo da vendere, voglia di fare e curiosità. L’onda verde sta spazzando il paese, speriamo non si infranga contro interessi antichi e una politica cieca. Se così fosse, l’Italia perderà l’occasione di restare al passo con i tempi, di competere a livello globale. Spesso ci dimentichiamo che oltre le Alpi e il mare c’è il resto del mondo, un mondo che ospita nazioni che avanzano e innovano seguendo il sentiero verde, ottenendo giorno dopo giorno un sempre maggiore vantaggio su chi si attarda su posizioni superate e retrograde, rimasuglio del vecchio sistema economico morente. Per chi non l’avesse ancora capito: la rivoluzione planetaria green è inarrestabile: l’Italia cosa vuole fare?

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“Quelle di tutela dell’ambiente, e quindi di salvaguardia dei beni della natura, sono politiche che debbono essere fatte in modo costante, per molti anni. Non sono politiche che si risolvono e che risolvono i problemi in due, tre, quattro, cinque anni (e dico cinque anni pensando al fatto che si vota ogni cinque anni per il Parlamento). Ma sia che si voti per il Parlamento, sia che cambi la situazione politica, non si deve ricominciare sempre da capo: ci vuole continuità nel perseguire questi obbiettivi, sapendo che sono raggiungibili non solo in un breve giro di anni ma in un periodo ben più lungo. Costanza, tenacia, continuità.” Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica

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Intervista ad achim steiner, UN Under-Secretary General ed Executive Director dell’United Nations Environment Programme. In Italia, a causa della crisi economica, si sta registrando un rallentamento del settore della green economy, l’unico, fino a qualche anno fa, che faceva registrare performance positive. Com’è la situazione nel resto del mondo? La green economy è ancora una forza trainante? Alla conferenza Rio+20, tenutasi di recente in Brasile, leader e politici di tutto il mondo hanno spiegato che la transizione verso un’economia verde – sostenuta da un forte impegno delle società per la dignità del lavoro – rappresenta un percorso verso la sostenibilità nel XXI secolo. Oltre 190 nazioni concordano sul fatto che la green economy può contribuire ad accelerare la diffusione dello sviluppo sostenibile e a eradicare la povertà. Molti paesi hanno sostenuto questa posizione anche perché hanno posto in essere iniziative e politiche volte alla costruzione di società a bassa intensità di carbonio, che siano efficienti dal punto di vista energetico e inclusive. Anche il settore privato si sta muovendo nella stessa direzione, e a Rio centinaia di imprese hanno preannunciato il loro impegno. Basta un solo esempio: quasi 30 compagnie leader del settore assicurativo, valutate circa 5.000 miliardi di dollari e con una quota pari al 10% del volume globale dei premi, assieme ad associazioni di assicurazioni di ogni parte del mondo, hanno aderito al processo, sostenuto dalle Nazioni unite, per la promozione dei Principles for Sustainable Insurance. L’obiettivo è quello di definire una serie di strumenti assicurativi e per la gestione del rischio capaci di supportare la sostenibilità ambientale, sociale ed economica. In aggiunta, un gruppo composto da cinque borse valori – presso cui sono quotate più di 4.600 società – ha dichiarato di voler cooperare con gli investitori e le autorità di regolamentazione per promuovere sui propri mercati investimenti sostenibili nel lungo termine. E questi sono solo alcuni tra i molti esempi possibili. Le aziende e i governi hanno capito che non possono più permettersi di operare nell’ambito di uno scenario business-as-usual, scenario nell’ambito del quale le risorse naturali e gli schemi di consumo non vengono conteggiati. Quindi direi che sì, la green economy è ancora una forza trainante per lo sviluppo sostenibile.

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In Italia le aziende leader della green economy operano nei settori delle energie rinnovabili, dell’alimentazione, della chimica e dell’edilizia. Com’è la situazione negli altri paesi? A livello globale, i settori più importanti nell’ambito della green economy sono agricoltura, foreste, pesca, energia, manifatturiero, riciclo, edilizia e trasporti. Assieme, riguardano almeno 1,5 miliardi di persone – metà della forza lavoro globale. Tuttavia, va sottolineato che gli impatti della green economy sono e saranno diversi da paese a paese, dato che i piani per la transizione rispecchieranno le priorità, i valori e gli assetti propri di ciascuna nazione. Il settore delle rinnovabili, dopo aver raddoppiato il numero di occupati nel giro di pochi anni, adesso dà lavoro ad almeno cinque milioni di persone, e ci si aspetta che questa espansione continuerà in futuro. Per fare due esempi, il programma tedesco per la riqualificazione energetica degli edifici ha creato 300.000 posti di lavoro, e si ritiene che il programma solare del Marocco possa creare fino a 80.000 nuovi posti di lavoro in dieci anni, a patto che la costruzione delle componenti avvenga a livello locale. In Italia, gran parte dei green jobs è costituita da “vecchie” professioni che hanno acquisito competenze “verdi”. Anche nel resto del pianeta si stanno sviluppando professionalità completamente nuove o si tratta di vecchi lavori ridipinti di verde? La trasformazione verde dell’economia richiede massicci investimenti in nuove tecnologie, materiali, edifici e infrastrutture. Tutto ciò ha ovviamente bisogno di nuove competenze e del miglioramento di quelle già esistenti per accelerare la transizione. Dal “Green Economy Report” dell’UNEP emerge che, continuando con il business-as-usual, si perderanno sempre più posti di lavoro. Al contrario, ci sono ampie dimostrazioni del fatto che il passaggio a un’economia verde ha un grande potenziale di generazione di nuovi posti di lavoro. C’è già un numero crescente di nuovi posti di lavoro, o di professioni che sono state ridefinite. In particolare, alcuni settori hanno bisogno di competenze ingegneristiche o tecniche, penso per esempio a quelli delle auto ibride, dei pannelli solari o dei LED. Gli occupati nell’ambito della pesca potrebbero essere costretti a trovare nuovi mezzi di sussistenza,

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tra cui probabilmente la gestione delle aree protette o la reintegrazione delle risorse ittiche. Altri, invece, come quelli che sono impiegati nell’agricoltura biologica, nell’edilizia o nel riciclo, potrebbero semplicemente aver bisogno di riqualificare i propri profili professionali. È ovvio che l’innovazione giocherà sempre un ruolo importante. Ed è ovvio che qualsiasi lavoro potrà diventare più “verde”, come nel caso delle assicurazioni menzionato prima. In Italia lo sviluppo della green economy soffre per la mancanza di ingegneri, chimici, fisici e matematici che abbiano una specializzazione sulle tematiche verdi. Queste specializzazioni mancano anche a livello globale? Secondo un’indagine condotta dall’UNEP all’inizio di quest’anno, la mancanza di competenze è un ostacolo in molti settori (inclusi quelli delle rinnovabili, dei servizi degli ecosistemi, della sicurezza alimentare e dell’acqua). Nello specifico, una più ampia diffusione di competenze matematiche, ingegneristiche, tecnologiche e scientifiche sarà essenziale per soddisfare molte delle richieste della green economy. In ogni caso, i governi e le istituzioni non possono limitarsi a fornire educazione e formazione per i lavori attuali, ma devono dare ai più giovani gli strumenti con cui guidare una vera trasformazione verde, come la capacità di adattarsi rapidamente alle nuove tecnologie. I giovani sono la metà della popolazione mondiale, e in alcuni dei paesi in via di sviluppo più del 60% della popolazione ha meno di 25 anni. I giovani sono la risorsa più importante per qualunque paese. Di conseguenza, qualsiasi investimento in capitale umano deve essere accompagnato da politiche economiche e ambientali con cui promuovere la sostenibilità e la tutela del capitale naturale. Che crescita prevede delle professioni verdi su scala globale? La gran parte degli studi indica che su scala globale potrebbero essere creati 15-60 milioni di nuovi posti di lavoro. Secondo una ricerca presentata recentemente dall’ILO (International Labor Organization), investimenti mirati potrebbero potenzialmente condurre alla creazione di più posti di lavoro nei paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo, che hanno il vantaggio, rispetto ai paesi già sviluppati, di non dover affrontare i costi della transizione dall’economia “marrone” a quella verde. L’agricoltura, per

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esempio, dà lavoro a più di un miliardo di persone, inclusi un gran numero di poveri e di agricoltori di sussistenza. La creazione di posti di lavoro verdi nel settore agricolo contribuisce non solo a incrementare la sicurezza alimentare e ad alleviare la povertà, ma riduce l’esodo dalle campagne verso le città, promuove l’uguaglianza tra i sessi e garantisce migliore salute ed educazione. In Uganda, il sostegno all’agricoltura biologica sta aiutando decine di migliaia di contadini a guadagnare fino al 300% in più grazie alla vendita di ananas, zenzero, vaniglia e altri prodotti certificati. Quali sono i trend su cui l’UNEP sta basando le proprie strategie? Una quantità crescente di ricerche e studi dimostrano che il passaggio a un’economia verde ha delle solide giustificazioni economiche e sociali. Le crisi che di recente hanno colpito i settori della produzione alimentare, dei combustibili e della finanza hanno dimostrato che è indispensabile un nuovo paradigma economico, basato sui pilastri dello sviluppo sostenibile. La transizione globale alla green economy richiede massicci investimenti pubblici e privati – che devono essere supportati dalle giuste riforme politiche – per stimolare crescita e investimenti. Tra questi, è fondamentale investire nel capitale naturale e nella sua ricostruzione. I leader politici, le aziende e la società civile sanno che questa transizione non sarà facile. Allo stesso tempo, però, sanno che i benefici superano di gran lunga i rischi e i costi. Un’economia verde genererà tanta crescita e occupazione quanto l’attuale economia marrone, proteggendo l’ambiente e le società. Oggi l’UNEP fornisce assistenza tecnica e operativa a più di 20 nazioni, con l’obiettivo di rivitalizzare le loro economie nazionali e regionali. Dal Burkina Faso alle Barbados, dalle Filippine al Perù, molti paesi stanno portando avanti i loro progetti nella green economy perché sono convinti che siano vantaggiosi per il loro sviluppo. La strategia complessiva dell’UNEP è quella di continuare ad assistere i suoi stati membri e i suoi partner, fornendo analisi e opportunità di dialogo che possano indicare percorsi possibili. E attraverso la sua Green Jobs Initiative, condotta con l’ILO, con l’International Trade Union Confederation e con la International Organization of Employers, l’UNEP spera che il futuro del lavoro possa essere verde.

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Intervista a ferruccio de bortoli, direttore del Corriere della Sera. Una volta al mese, Sette, il magazine settimanale allegato allo storico quotidiano nazionale, esce in versione green. Sette green tratta temi legati all’ambiente, al risparmio energetico e alla sostenibilità in generale. Perché oggi, finalmente, le tematiche ambientali sembrano aver assunto il giusto peso nel contesto dei media generalisti? Da anni molti di noi si sono accorti delle possibilità offerte all’economia dall’ambiente. Oggi è giunto il momento di parlarne, anche perché l’Italia potrebbe ottenere una posizione favorevole nell’ambito della competizione globale se sviluppasse (come potrebbe) tecnologie dedicate al recupero ambientale e alla produzione energetica. A suo avviso, quindi, la green economy può essere una delle chiavi che porteranno l’Italia fuori dalla crisi? Direi proprio di sì. Abbiamo assistito allo sviluppo impetuoso delle energie rinnovabili, persino al di là degli obiettivi stabiliti dall’Europa entro il 2020. Forse abbiamo persino esagerato con l’incentivazione, che ha appiattito il mercato impedendo una vera selezione a favore degli operatori migliori (specialmente nel fotovoltaico), però è anche vero che siamo comunque riusciti a creare un settore. Tuttavia, non avendo sviluppato una vera industria competitiva a sostegno del settore neonato, siamo diventati dipendenti dalla tecnologia e produzione tedesca che ha anticipato il ciclo del fotovoltaico in particolare e la green economy in generale, muovendosi per tempo. Secondo lei quali di queste parti sociali ed economiche è più sensibile ai temi dell’ecosostenibilità: cittadini, aziende o politica? Non è possibile individuare una classifica d’interesse in questo senso. Si tratta di una tematica ancora sentita, fortemente, soltanto da minoranze individuabili magari in alcune città in cui si è presa coscienza della necessità di diminuire l’impatto ambientale, specialmente in aree d’antica industrializzazione in cui si ha il problema della scarsa qualità dell’ambiente e del territorio cittadino.

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Molti imprenditori lamentano la mancanza, a livello politico, di una visione almeno a medio termine relativa alla green economy. Stanno cominciando a guardare fuori dai confini nazionali come mercati di sbocco. A suo avviso siamo di fronte a un processo irreversibile? No, non credo, e gli imprenditori hanno ragione a evidenziare gli intralci burocratici e normativi che ostacolano lo sviluppo della green economy e dell’impresa in generale. Ma non deve diventare come accade spesso un alibi dietro il quale nascondersi per non agire: è una situazione in cui si può e si deve fare di più, anche a livello imprenditoriale. Come nasce Sette green e come è cambiato il modo di comunicare l’ambiente negli ultimi anni? Sette green nasce da una serie di richieste dei lettori che ci chiedevano di raccontare episodi di vita comune tenendo un’attenzione diversa, maggiore rispetto al passato, all’ambiente. Lo abbiamo fatto, soprattutto, facendo parlare i protagonisti e evidenziando la crescente sensibilità verso l’ecologia e l’ambiente da parte del cittadino che, per esempio, è sempre più attento ai processi che stanno dietro ai prodotti che consuma (non solo quelli alimentari ma anche quelli di abbigliamento, per esempio), al riciclo dei prodotti, al loro ciclo di vita e al recupero dei loro componenti (specialmente per quanto riguarda i rifiuti elettronici). Il cronista si è trovato di fronte a tante novità, tante innovazioni tecnologiche, tanta necessità di informazione ma anche al fatto che essere in sintonia con la natura è diventato uno status symbol moderno: la volontà di ridurre la propria impronta ecologica non è più figlia, come un tempo, di un atteggiamento pauperistico o anti-industriale. Persino molti marchi commerciali che fanno della sostenibilità un fattore vincente dei propri prodotti ci richiedono spazio per le loro impellenti necessità pubblicitarie. Lei ha dovuto acquisire dei giornalisti specialisti in materia d’ambiente? Ne abbiamo scovati sia per Sette green sia soprattutto per Corriere.it tra i nostri collaboratori più giovani e in rete attraverso un concorso. A volte trovo un difetto d’origine tra i giornalisti specializzati in ecologia ed è quello di avere spesso una forte impronta ideologica, figlia della passione ecologista.

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intervista a ferruccio de bortoli

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Molte aziende stanno cercando una chiave green per comunicare servizi e prodotti attenti all’ambiente. A suo avviso in quanto tempo passerà questa “onda verde” che sta caratterizzando la comunicazione aziendale? In quanto tempo il valore aggiunto green diventerà scontato? Il messaggio green è un vantaggio competitivo per le aziende che fanno della sostenibilità ambientale un elemento distintivo della loro comunicazione aziendale. Nel momento in cui la sostenibilità sarà un patrimonio comune e diventerà parte del vissuto quotidiano di cittadini e imprese, l’eccezione sarà mutata in regola e non esisterà più un vantaggio nel comunicarla con tanta energia: quando avverrà tutto ciò vorrà dire che la sensibilità ambientale sarà diventata un modo di pensare e di comportarsi condiviso a livello sociale ed economico.

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