SPIT in Dolomiti

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Alessio Conz

SPIT IN DOLOMITI 40 anni di battaglie

EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI


2022 © VERSANTE SUD S.r.l. via Rosso di San Secondo, 1 Milano Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati L’editore ringrazia Ivo Ferrari, Linda Cottino e Francesca Tresoldi per la preziosa collaborazione ed Eugenio Pinotti per i disegni delle vie. 1a edizione aprile 2022 www.versantesud.it ISBN: 978 88 55470 810


ALESSIO CONZ

SPIT IN DOLOMITI 40 anni di battaglie

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI


INDICE Introduzione

UNO L’arrampicata in Dolomiti

dalle origini agli anni Sessanta

DUE Verso l’arrampicata moderna TRE I Nuovi Mattini QUATTRO Il Verdon CINQUE Etica SEI La Valle del Sarca e le prime vie sportive

SETTE Marmolada - parete Sud OTTO Il 2000 - Le vie plaisir NOVE By fair means DIECI Roberto Mazzilis UNDICI Rolando Larcher.

Dall’alpinismo all’alpinismo

DODICI TREDICI QUATTORDICI QUINDICI SEDICI

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11 23 33 39 46 49 59 73 77 85 93

Opere d’arte

111

Polemiche

115

Altri fattori

145

Quale futuro

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Tavola rotonda

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Conclusione

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Ringraziamenti

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Alessio Conz

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Rolamdo Larcher su AlexAnna, Marmolada. Foto: Giampaolo Calzà

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INTRODUZIONE L’idea di scrivere questo libro mi è venuta tre anni fa. Ho iniziato a raccogliere idee e informazioni rendendomi conto che per quanto avessi sempre seguito la storia dell’arrampicata c’erano diverse cose che non sapevo. Oltretutto mi pareva di cogliere aspetti contraddittori sia nel tentativo di stabilire un’etica di riferimento sia nelle varie considerazioni storiche che venivano di volta in volta prese a modello di riferimento. Lavorando al libro mi sono avvalso della collaborazione di vari alpinisti e apritori e naturalmente abbiamo finito per parlare di vie, di storie vecchie e nuove, di polemiche, di stili. Gli apritori di vie moderne non sono ovviamente contrari all’utilizzo degli spit ma anche fra di loro ci sono differenze importanti e poi c’è chi invece storce il naso considerando gli spit decisamente blasfemi e privi della ragione di esistere. La diatriba sullo stile di apertura che ritenevo ormai marginale è ancora presente e in grado di scaldare gli animi. Ho iniziato a scalare 40 anni fa, ma gli spit erano già presenti: pochi, distanti, ma presenti, e allora? Era possibile tentare una ricostruzione storica contestualizzando l’utilizzo degli spit all’interno dello sviluppo dell’arrampicata con una visione maggiormente obbiettiva e scevra da pre-impostazioni ideologiche e concentrando l’attenzione nelle Dolomiti, che è il luogo che conosco meglio? Ci sono molte domande a cui dare una risposta: chi ha iniziato a usarli? E perché? Come mai oggi, dopo quarant’anni esatti e migliaia di vie sportive aperte, questo argomento è in grado di scaldare gli animi? Si può veramente parlare di un’etica dell’arrampicata? Lo spit uccide l’avventura? Questo lavoro non ha certo la pretesa di costituire un punto fermo nella storia dell’arrampicata né tanto meno di stabilire una verità assoluta a cui fare riferimento, poiché questa disciplina è in continua evoluzione con diversi stili che si influenzano, si attraggono, si respingono e si fondono. Voler fissare una norma per tutti è un’operazione che durerebbe un istante e svanirebbe quello dopo. In tanti ci hanno provato, qua e là, a sostenere una tesi a spada tratta, a stabilire delle regole fisse, ma nello stesso istante da qualche altra parte Alessio Conz SPIT IN DOLOMITI 6


qualcuno si muoveva in modo diametralmente opposto, pertanto rimangono varie scuole di pensiero che sono in linea di principio tutte assolutamente legittime, e il confronto resta acceso. Il mio obbiettivo è stato pertanto quello di ricostruire in modo semplice e lineare la brevissima storia dell’arrampicata vista dalla prospettiva dello spit, tanto usato e tanto demonizzato, e di analizzare con occhio disincantato le varie opinioni in merito. Durante un’intervista, un giornalista disse a Jimi Hendrix che aveva copiato lo stile dai vecchi bluesman. Lui rispose che nel rock tutti copiano da tutti e si influenzano a vicenda, e che è per questo che il rock migliora sempre. Al di là delle opinioni personali e delle singole scelte, nessuno può negare quanto l’arrampicata e l’alpinismo siano cambiati e migliorati. Compiere un lavoro come questo non può lasciare indenni, nel senso che lo sforzo di affrontare il tema nella maniera più lucida possibile e senza pregiudiziali di partenza, mantenendo un’apertura mentale a 360 gradi, mi ha portato inevitabilmente a mettere in discussione le mie idee. Ci è voluto del tempo per costruire l’ossatura del libro e per tracciare la sua linea di sviluppo, e altrettanto per ragionare sui vari temi e cogliere gli aspetti essenziali per evitare di finire nello scontato o per sviluppare componenti a volte trascurate nel merito ma che alla fine, volenti o dolenti, pesano. Ringrazio tutti quelli che mi hanno aiutato nel percorso e anche a vedere le cose in modo diverso; mi auguro che la lettura possa essere utile per questo a chi avrà la pazienza di leggerlo.

Introduzione 7


Gli spit: in questo testo è stato utilizzato indifferentemente il termine spit, per definire sia quelli posizionati a mano che quelli posizionati con il trapano. Le vie moderne, dopo i primi anni Novanta, sono state quasi tutte aperte con l’utilizzo del trapano e quindi con la posa di tasselli e piastrine.

SPIT POSIZIONATI A MANO

Foto: Mattia Menestrina

La prima ditta che commercializzò gli spit fu la Société de Prospection et d’Inventions Techniques, che produceva ancoraggi per l’edilizia. I primi spit furono inizialmente utilizzati dagli speleologi e poi dagli arrampicatori, per attrezzare le prime falesie e vie sportive, almeno fino agli anni Novanta. Il foro viene creato manualmente utilizzando un cilindro in acciaio, filettato da un lato e dentato dall’altro, che viene montato su un perforatore su cui si batte ripetutamente. Una volta fatto il foro, è sufficiente inserire un piccolo cuneo nella testa del cilindro e battere fino a far espandere la testa; successivamente viene fissata una placchetta forata con un bullone di acciaio classe 8.8. Con un po’ di pratica si può piazzare uno spit in pochi minuti, sia su calcare che su granito. La scarsa profondità di infissione, 3 cm, costituisce un punto debole specialmente su roccia tenera come il calcare, ma secondo le prove effettuate la tenuta è generalmente accettabile e simile a quella di un buon chiodo da roccia. Alessio Conz SPIT IN DOLOMITI 8


Come tutti gli ancoraggi esposti agli agenti atmosferici, tendono ad arrugginire e ormai quelli piazzati negli anni Ottanta si possono considerare totalmente inaffidabili.

SPIT POSIZIONATI CON TRAPANO

Foto: Mattia Menestrina

Con un trapano si realizza il foro, cui segue l’inserimento di un tassello ad espansione e la posa della piastrina. Il tesaggio del dado sulla piastrina provoca l’espansione della testa del tassello e la conseguente tenuta. La tenuta dipende dalla qualità dell’acciaio e della roccia, nonché dalla lunghezza del tassello, ma normalmente è maggiore di 2000 kg a taglio, quindi abbondantemente in grado di sopportare il carico di una caduta. Le prove effettuate dimostrano che su rocce più tenere si verifica una progressiva frantumazione della roccia fino alla creazione di un “cono di roccia” con conseguente cedimento. In sostanza, solamente sul granito o il porfido la sezione resistente del tassello lavora correttamente fino al suo limite, mentre negli altri casi il cedimento è dovuto alla qualità della roccia. La durata può essere di venti o trent’anni, ma in condizioni di umidità il processo di formazione della ruggine può essere molto accelerato con evidente diminuzione della tenuta. Si pone comunque un problema di manutenzione di migliaia di vie sportive nell’arco alpino! Introduzione 9


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L’ARRAMPICATA IN DOLOMITI DALLE ORIGINI AGLI ANNI SESSANTA I primi pionieri iniziarono a scalare le montagne fin dalla fine del Settecento: si trattava per lo più di cacciatori o pastori, che però si arrestavano ben prima delle vette a causa di un timore reverenziale e superstizioso. Ma dai primi dell’Ottocento iniziò la salita alle cime vere e proprie, spesso da parte di nobili che assumevano qualche locale per farsi accompagnare più in alto possibile. Nel 1857 John Ball raggiunse da solo la cima del Pelmo, poiché la sua guida valligiana non lo seguì nell’ultimo tratto; si trattò della prima conquista di una cima dolomitica, e negli anni che seguirono molte altre si aggiunsero all’elenco. La Cima Grande di Lavaredo fu salita nel 1869 da J.S. Phillimore e A.G. Raynor con Angelo Dimai e G. Colli di Cortina, che allora aveva circa 500 abitanti! Dopo la conquista delle cime dolomitiche più facili iniziarono anche le prime vere vie di arrampicata: nel 1899 Otto Ampferer e Karl Berger salirono la via Normale al Campanil Basso in Brenta. L’arrampicata in Dolomiti dalle origini agli anni Sessanta 11


L’arrampicata iniziò quindi a evolvere, a diventare più sportiva, con l’impegno a superare difficoltà maggiori, nonché la via più diretta ed elegante per raggiungere la cima. Le difficoltà raggiunte in quel periodo erano già intorno al V - V grado superiore, ma si faceva anche ricorso a piramidi umane, aghi da mina e fittoni poiché non esistevano regole precise riguardo alla tecnica da utilizzare. In realtà l’idea di forare la roccia per poter superare in artificiale tratti considerati inaccessibili si era formata fin dai primi anni di storia dell’alpinismo. In questo contesto si inserisce la figura di Paul Preuss, arrampicatore austriaco che tra il 1907 e il 1913 realizzò una serie di importanti salite e divenne uno dei migliori dell’epoca. Nel 1911 salì da solo e senza corda la parete Est del Campanile Basso, aprendo una nuova via e scendendo poi in arrampicata dalla stessa, destando clamore nel mondo dell’alpinismo dell’epoca. In pochi anni scalò centinaia di cime e aprì nuove vie quasi sempre da solo, e morì precipitando dal Mandlkogel mentre arrampicava in solitaria. Nel 1900 non esisteva appunto una base ideologica cui fare riferimento e Preuss decise di proporre alcune regole sulla base della propria indole ed esperienza, teorizzando il rispetto per la montagna e una arrampicata con utilizzo estremamente limitato di chiodi e di mezzi artificiali durante le scalate, corda compresa. Le sue teorie vennero criticate aspramente da molti dei suoi contemporanei, che consideravano invece normale l’utilizzo dei chiodi e della corda per la sicurezza. In sostanza troviamo già agli albori della arrampicata una divisione fra diverse mentalità ed approcci, fra chi intendeva la scalata come una disciplina senza mezze misure e chi invece era disponibile ai compromessi in cambio di maggiore sicurezza. In generale i primi del Novecento furono anni di nascita di grandi ideologie anche in senso sociale e politico, ideologie che dimostrarono nel tempo la loro incapacità di reggere il peso delle naturali differenze e tendenze umane. Dal punto di vista strettamente alpinistico l’idea che il proprio modo di concepire l’alpinismo debba diventare “quello di tutti” è un paradosso che si verifica di continuo, una forma culturale rigida, poco dialettica e rispettosa delle altrui opinioni. Ad ogni modo Preuss gettò le basi di una delle infinite controversie che attraversano il mondo alpinistico, ed è necessario ammettere che di fronte al suo pensiero qualsiasi altra concezione “etica” risulta solamente un compromesso. Alessio Conz SPIT IN DOLOMITI 12


Preuss pubblicò su una rivista specializzata le sue sei regole per lo scalatore: 1. Non basta essere all’altezza delle difficoltà che si affrontano, bisogna essere superiori a esse. 2. La misura delle difficoltà che uno scalatore può affrontare in discesa, con sicura e piena coscienza delle proprie capacità, deve rappresentare l’estremo limite delle difficoltà che egli affronta in salita. 3. L’impiego di mezzi artificiali trova giustificazione solo in caso di pericolo incombente. 4. Il chiodo da roccia deve essere un rimedio di emergenza, e non il fondamento del proprio sistema di arrampicata. 5. La corda può essere una facilitazione, ma non il mezzo indispensabile per effettuare una scalata. 6. Tra i massimi principi vi è quello della sicurezza. Non però la sicurezza che risolve forzosamente con mezzi artificiali le incertezze di stile, bensì la sicurezza fondamentale che ciascun alpinista deve conquistarsi con una corretta valutazione delle proprie capacità. Hans Dülfer fu un’altra figura importante dell’epoca; tedesco, fu un ottimo arrampicatore e musicista. Nel 1911 con Hans Kämmerer salì la parete Sud della Croda da Lago, lungo una via valutata V-, ma in una ripetizione del 2005 la difficoltà del passaggio chiave fu rivalutata in VI grado: in base a questa valutazione, Hans Dülfer sarebbe stato il primo alpinista a superare il VI grado. Oltre a questo notevole risultato, compì molte altre notevoli scalate fra il 1911 e il 1913, e morì nel 1915, soldato nella Prima Guerra Mondiale. Nel periodo fra le due guerre ci furono molte figure importanti di scalatori, anche se in quel periodo non era ancora ben chiaro cosa fosse l’arrampicata libera e i suoi confini, e durante le salite la si abbinava all’artificiale. Emil Solleder e Gustav Lettenbauer aprirono nel 1925 una storica via sulla parete Nord del Civetta, valutandola di VI grado. La comunità degli scalatori decise di fissare il VI grado come il massimo livello raggiungibile di difficoltà e fu costruita una scala di riferimento presentata da Willo Welzenbach nel 1926, ma che in realtà era frutto di una elaborazione degli alpinisti di Monaco di Baviera. Questa scala diventò il metro di misura delle difficoltà per gli anni a venire, diventando poi, nel 1967, scala U.I.A.A. (Unione Internazionale Associazioni Alpinistiche). L’arrampicata in Dolomiti dalle origini agli anni Sessanta 13


SCALA UIAA composta dai numeri romani dal I al VI seguiti dal segno “+” o “-”. Grado

Descrizione

I È il grado più facile dell’arrampicata. Le mani utilizzano gli appigli solo per l’equilibrio. II Rappresenta l’inizio dell’arrampicata vera e propria. È necessario lo spostamento di un arto alla volta. Gli appigli e gli appoggi sono ancora numerosi. III La parete è più ripida, anche verticale, e richiede un certo uso della forza. IV Sono presenti un minor numero di appigli ed appoggi e inizia a essere richiesta una buona conoscenza delle tecniche di arrampicata e un allenamento specifico. V Gli appigli ed appoggi sono ancora più rari, i passaggi vanno studiati e la salita diviene faticosa o delicata. VI Gli appigli ed appoggi sono più piccoli e rari. Il passaggio può richiedere una sequenza di movimenti obbligata. Nell’epoca del VI grado gli scalatori di lingua tedesca e quelli italiani fecero importanti realizzazioni. Emilio Comici fu una delle figure di spicco di quel periodo, aprendo circa duecento vie nuove in Dolomiti e nelle Alpi Giulie, a partire dagli anni Trenta. Comici viene ricordato anche per una concezione estetica dell’arrampicata, percepita come un momento dove, attraverso un movimento armonioso, è possibile esprimersi, nonché per le sue vie alla ricerca della linea perfetta, la goccia d’acqua. Vale la pena ricordare alcune delle sue salite più importanti, che rimangono dei punti di riferimento per chi voglia cimentarsi nella ripetizione di itinerari classici. Oltretutto Comici scalerà slegato la sua via alla Nord della Cima Grande in meno di 4 ore. Le Vie di Emilio Comici Via Comici-Fabjan, Dito di Dio, 600m, V, 1929 Via Comici-Benedetti, Monte Civetta, 1500m, VI e A2, 1931 Via Comici-Dimai, Cima Grande di Lavaredo, 600m, V+ e A1, 1933 Spigolo Giallo, Cima Piccola di Lavaredo, 350m, V+ e A0, 1933 Alessio Conz SPIT IN DOLOMITI 14


Via Comici-Mazzorana, Cima Piccola di Lavaredo, 350m, VI+ e A1, 1936 Via Comici-Casara, Salame del Sassolungo, 450m, VI+, 1940 Altre figure importanti furono Riccardo Cassin, Raffaele Carlesso, Alvise Andrich, Bruno Detassis, Ettore Castiglioni, Giovan Battista Vinatzer, Gino Soldà, Luigi Micheluzzi, Hermann Buhl. Castiglioni e Detassis arrampicheranno spesso assieme creando linee di notevole estetica. Riccardo Cassin è stato uno scalatore famosissimo che realizzò itinerari di tutto rispetto spaziando dalle Dolomiti alle Alpi. Cassin era un vincitore nato, partiva per finire le vie e non si agitava tanto se doveva usare qualche chiodo in più per passare in artificiale, anche dove altri avevano rinunciato. Le Vie di Riccardo Cassin Camino Cassin, Pizzo d’Eghen, 500m, VI, 1932 Via Cassin-Ratti-Esposito-Molteni-Valsecchi, Pizzo Badile, 1100m, VI e A0, 1933 Via Cassin-Ratti, Torre Trieste, 700m, VI+ e A1, 1935 Via Cassin-Ratti, Cima Ovest di Lavaredo, 550m, VI+ e A1, 1935 Via Cassin-Esposito-Tizzoni, Grandes Jorasses, 1200m, VI e A0, 1938 Un altro eccezionale scalatore fu Giovan Battista Vinatzer di Ortisei, che dal 1930 al 1936 realizzò alcune importanti salite. La salita della parete Sud della Marmolada con Ettore Castiglioni fu considerata per lungo tempo l’ascensione più difficile delle Dolomiti. Allora gli scalatori usavano spesso delle scarpette di feltro, ma in quella occasione Vinatzer arrampicò anche scalzo. Vinatzer divenne anche famoso per l’utilizzo esiguo dei chiodi di protezione: “Dove era difficile non riuscivo a fermarmi per piantare chiodi e dopo, quando era più facile, non servivano più”. Le Vie di Giovan Battista Vinatzer Via Vinatzer-Riefesser, Furchetta, 900m, VII, 1932 Via Vinatzer-Riefesser, Sass dla Luesa, 300m, VI-, 1933 Via Vinatzer-Peristi, Stevia, 220m, VI+e A0, 1933 Via Vinatzer-Riefesser, Piz Ciavazes, 250 m, VI e A0, 1934 Via Vinatzer-Peristi, Terza Torre di Sella, 350m, VI e A0, 1935 Via Vinatzer-Peristi, Catinaccio, 300m, VI e A1, 1935 L’arrampicata in Dolomiti dalle origini agli anni Sessanta 15


Via Vinatzer-Peristi, Cima Mugoni, 300m, V+, 1935 Via Vinatzer-Castiglioni, Marmolada , 1000m, VI e A0, 1936 L’elenco dei nomi potrebbe essere ancora lungo, ma vale la pena nominare due scalatori che si legarono spesso assieme: Bruno Detassis, il “Re del Brenta”, ed Ettore Castiglioni. Bruno Detassis aprì numerose vie di grande respiro in Dolomiti e soprattutto nel Gruppo del Brenta dove rimane nella storia la Via delle Guide al Crozzon di Brenta. La sua via sul Piccolo Dain in Valle del Sarca, aperta nel 1938 con B. Costazza, rimane una perla per le forti difficoltà unite a una scarsa chiodatura e a una roccia non sempre perfetta, una via decisamente più impegnativa di altre vie classiche delle Dolomiti. L’avvento della Seconda Guerra Mondiale fermò l’attività alpinistica, e solamente dopo il ’45 iniziò la ripresa dell’attività alpinistica, anche se la famosa e bellissima via sul Pilastro della Tofana di Rozes fu realizzata nell’estate del ’44 da Ettore Costantini e Renato Apollonio. È giusto ricordare che nei primi del Novecento e nel periodo fra le due guerre c’era spesso, e non era possibile altrimenti, una connotazione culturale dell’alpinismo fortemente intrisa di retorica e lo stesso era anche politicizzato e utilizzato a fini di propaganda. La stampa presentava gli alpinisti come eroi indomiti ma certo gli stessi non si sottraevano a questa celebrazione. “Io credetti e credo nella lotta con l’Alpe utile come un lavoro, nobile come un’arte, bella come la fede”, Guido Rey (introduzione di Alpinismo acrobatico1). Il dopoguerra sarà caratterizzato da importanti novità tecniche: l’introduzione della suola Vibram e l’evoluzione del chiodo, che venne prodotto in varie fogge e misure, compresi i chiodi a pressione. Le salite in Dolomiti, e non solo, furono contraddistinte da un uso diffuso delle tecniche artificiali, fino a giungere agli eccessi delle direttissime. Ma non mancarono certo grandi vie di arrampicata mista libera e artificiale con Cesare Maestri, Lino Lacedelli, Armando Aste, Walter Bonatti, Dieter Hasse e Lotar Brandler, Ignazio Piussi, George Livanos... Vale la pena osservare che già negli anni Trenta venivano utilizzati sia i chiodi a pressione che i primi antesignani dei moderni spit, ovvero delle piastrine forate fissate alla roccia con un tassello a pressione. 1.

Guido Rey, Alpinismo acrobatico, Lattes Editori, Torino 1914

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Via Vinatzer-Peristi, Stevia.

L’arrampicata in Dolomiti dalle origini agli anni Sessanta 17


Nella guida compaiono molte vie dello stesso Rabanser: vie aperte con vari compagni, eredi di una tradizione classica dove la chiodatura rappresenta una vera arte. È opportuno ricordare che in quegli anni l’artificiale faceva pienamente parte del gioco e che inizialmente non si era ancora sviluppata l’attenzione sulla differenza fra libera e artificiale e sul grado obbligatorio. Nei primi anni Ottanta la Sud della Marmolada diventa il banco di prova per salite che faranno la storia, cercando di sviluppare al massimo la libera. Sulla parete si cimentano alpinisti come Maurizio Giordani, che aprirà una cinquantina di vie, e Heinz Mariacher, che si muovono sulla linea dell’alpinismo classico e rispettando in pieno le regole del gioco. Sarà attivissimo in parete anche Igor Koller, che nel 1981 aprirà Weg durch den fisch, la via Attraverso il pesce, con Jindrich Sustr, una via simbolo. Mariacher sarà più rigoroso nella sua scelta di non utilizzare mai gli spit e anche di non aprire passaggi in artificiale (anche se poi qualche passaggio ci sarà). Heinz Mariacher e Luisa Iovane firmano Tempi moderni (VII+), mentre Maurizio Giordani crea Irreale (VII, A3) con Franco Zenatti nel 1983 e la via Futura (VII, A3) con Rosanna Manfrini e Fortuna (VII+, A0) con Zenatti nel 1985 a cui seguono la prima solitaria della via Tempi moderni nel 1985 e la prima solitaria della via Attraverso il pesce nel 1990. In quel periodo arrampica anche Ludwig Rieser, con i suoi inconfondibili frac e cappello a tuba, che aprirà diverse vie fra cui Ombrello da sole con Wolfgang Müller, VII+, solo con otto chiodi oltre a friend e nut. Rieser scalerà speso con Mariacher, condividendo a pieno l’idea di non utilizzare mai gli spit. Specchio di Sara sarà un’altra via estrema di Giordani, seguita da Andromeda. Un altro indiscusso protagonista della Sud sarà Igor Koller, che aprirà diversi itinerari di grande impegno fra cui Weg durch den fisch, la via Attraverso il pesce del 1981 con Jindrich Sustr (VII+, A3), ripetuta per la prima volta solo nel 1984 dal mitico gruppo composto da Luisa Iovane, Heinz Maricher, Bruno Pederiva e Manolo. La prima RP sarà poi di Heinz Mariacher e Bruno Pederiva nel 1987. Nel 1987 Heinz Mariacher scrive un articolo per la rivista Alp, poco dopo l’apertura della via Tempi modernissimi.

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“IL RITORNO AI MONTI” DI HEINZ MARIACHER Solo qualche anno fa, la realizzazione del IX grado su una parete alpina era considerata un obiettivo molto importante. E invece le imprese che avrebbero dovuto costituire delle pietre miliari della storia alpinistica hanno perso il loro fascino ancor prima di essere realizzate. Un motivo sono stati i troppi annunci di successo, che promettevano più di quello che c’era effettivamente dietro. Troppo spesso si è letto di grandi vie nuove di IX grado sulle Alpi che non erano poi nient’altro che arrampicate sportive chiodate e provate dall’alto come ne esistono da anni in Verdon. Ancora peggio fanno i rigidi avversari dei chiodi a pressione, che si calano dalla cima su pareti di 300 metri per provare con la corda dall’alto passaggi mal protetti. Solo dopo giorni di queste ispezioni salgono la via dal basso. Questa usanza non è negativa solo per lo stile in se stesso, ma soprattutto per la maniera con la quale queste “grandi imprese” vengono vendute. Chi non ha avuto occasione di osservare, per caso, i primi salitori, andrà a fidarsi di una cronaca dove non si fa parola di questo “stile particolare”. I poveri ripetitori andranno dunque a rischiare l’osso del collo, non sapendo che per arrivare all’attacco bisogna prima andare in cima! Anche quelli che salgono con la tecnica artificiale tradizionale e poi parlano di IX grado invece che di A1 o A2, sembra non abbiano capito bene le regole del gioco. Alla Kirchlispitze, invece di tante contraddizioni ci sono solidi spit. Martin Scheel è uno dei pochi che riconosce onestamente il proprio stile e ciò è molto più importante dell’etica più raffinata. Le sue vie non sono solo protette da spit ma anche da credibilità. Quando nell’82 abbiamo fatto Tempi moderni, mi era parso un brutto stile aver messo tre chiodi per la sicurezza in artificiale nonostante avessi ripetuto il tiro, subito dopo, “rotpunkt”. Le mie regole erano infatti: 1) niente spit; 2) vie nuove solo in pura arrampicata libera (e ciò significa anche sistemare le protezioni dalla posizione di arrampicata libera); 3) vie nuove dal basso e senza alcuna preparazione dall’alto. L’importanza che davo allora a un’onesta e precisa descrizione dello stile, si legge nella mia relazione di Tempi moderni nella guida della Marmolada. Purtroppo i tempi non erano (e non sono) maturi per principi etici così rigidi. Marmolada - Parete Sud 61


Punta Penìa

Pilastro Ovest

La parete sud della Marmolada. Foto: Manrico Dell’Agnola

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Punta Rocca


Punta Ombretta Pilastro Est Monte Seràuda

Marmolada - Parete Sud 63


C’è quindi un passaggio tra la Larcher-Vigiani con l’alpinismo sportivo in senso stretto e AlexAnna che è aperta in stile semi-alpinistico. L’esperienza di AlexAnna porterà alla apertura di altre due vie, Invisibilis e Scacciadiavoli con Geremia Vergoni, anche se Larcher deciderà di non utilizzare più i chiodi normali in quanto, semplicemente, non garantirebbero nel tempo la sicurezza necessaria, la stessa che si è potuta creare nella prima salita. Al loro posto, nell’impossibilità di piazzare protezioni veloci, saranno utilizzati solamente spit inox. Invisibilis è il completamento del tentativo effettuato nel ’94 su Coitus interruptus, una linea indipendente effettuata con utilizzo minimo di spit e molte protezioni veloci, al punto che una volta terminata la seconda parte Larcher e Vergoni hanno cercato coerentemente una linea nuova anche nella parte bassa, mantenendo così per intero lo stesso stile. Scacciadiavoli arriva all’8b con il 7c obbligatorio e 32 spit su 570 metri, ovviamente percorsa rotpunkt in due giorni nel 2016. Nel 2019 nasce un’altra via nel gruppo di Brenta, in una zona selvaggia e sconosciuta, con pareti di roccia liscia dall’apparenza insalibile, che ha messo a dura prova le capacità di Larcher e Luca Giupponi, altro compagno storico; Fine di un’epoca nasce dal lutto per la morte del padre che lo aveva sempre sostenuto e accompagnato nel suo percorso ma certamente non segna la fine delle salite di Rolando e della sua voglia di sperimentare e di inventare progetti. A chiusura di questa carrellata che attraversa l’intero periodo preso a riferimento in questo libro, possiamo fare alcune osservazioni: gli scalatori iniziarono ad usare gli spit attratti da linee perfette, estetiche, con roccia eccellente e continuità nelle difficoltà, ma inizialmente era tutto ancora da sperimentare e non esistevano parametri di riferimento. Il concetto di rotpunkt era applicato ai tiri di falesia e non ancora esportato sulle grandi pareti, inoltre lo stesso confine fra il grado obbligatorio e i tratti in artificiale era ancora incerto. Su molte vie aperte negli anni Sessanta e Settanta, ma anche dopo, era difficile capire dalle relazioni quali difficoltà si andava effettivamente ad affrontare; le vie potevano essere state aperte con i cliff e poi gradate “a occhio” dal secondo di cordata, ma ovviamente solo la ripetizione rotpunkt della via può dare l’effettiva certezza del grado affrontato. Non possiamo neanche dimenticare ricognizioni e aperture parziali dall’alto, o trucchi vari per far apparire gli apritori di maggior valore di quello che sono. Alessio Conz SPIT IN DOLOMITI 100


Scacciadiavoli, Marmolada

Rolando Larcher - Dall’alpinismo all’alpinismo 101


Affermare che oggi come oggi non si verifichino queste azioni sarebbe ridicolo, però la strada va nella direzione di una maggiore chiarezza. Trovare oggi relazioni che indicano solamente il grado massimo della salita senza l’indicazione del grado obbligatorio e senza un preciso riferimento sulla proteggibilità, o prive della distinzione fra gli spit e i chiodi, fanno decisamente storcere il naso e richiamano spesso ad una volontà sottintesa di gonfiare la prestazione. Rimane chiaramente plausibile l’utilizzo del grado UIAA riferito alle vie trad. Larcher è stato oggetto di critiche e a sua volta non si è certo risparmiato nel criticare altri stili di apertura, ma certamente ha difeso a spada tratta il suo operato perfezionandolo dal punto di vista tecnico ma anche da quello teorico. Le ultime aperture in Marmolada oltretutto dimostrano un ritorno verso l’alpinismo propriamente detto e il by fair means, nel senso di affrontare la parete lealmente con il minor uso possibile di spit e secondo precise regole di ingaggio. A mio parere la presenza di spit alle soste non deve essere neanche messa in discussione, perché mi pare un dato assodato che il 90% degli scalatori siano d’accordo nel dover salvaguardare la cordata da una caduta mortale. Detto questo, non sono certo dieci o venti spit su 500 metri di parete a trasformare una salita da alpinistica a sportiva: in sostanza Larcher ha compiuto uno sviluppo circolare tornando alle origini, con tutte le trasformazioni che ci sono state in 40 anni e che non possono semplicemente essere dimenticate.

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30m

5c 40m

7b/c

30m

6b/c

30m

6b 35m

6c/7a 30m

7b

30m

6b/c

30m

7a/b 30m

8a+

Due spit alla fine alla Cima d’Auta

Rolando Larcher - Dall’alpinismo all’alpinismo 103


Guida alpina e maestro di sci, istruttore ai corsi guida con quarant’anni di attività in montagna a 360°: ripetizioni, aperture, spedizioni e chiodature. Membro di Fassa Guides, Casa delle Guide, Campitello di Fassa.

RENATO BERNARD Sei stato vittima di una richiodatura, qualcuno ha messo gli spit su Mescalito al la Rupe Secca, una via storica del la Val le del Sarca, senza chiedervi una opinione in merito. Te la sei presa ? Ho un bellissimo ricordo dell’apertura con Renzo Vettori sulla Rupe Secca, una via difficile realizzata in più riprese con vari voli, una vera avventura anche perché non abbiamo usato i chiodi a pressione (Renzo era contrario). Dopo l’apertura non l’avevo più ripetuta, poi però avevo letto qualche recensione dove parlavano di una bella arrampicata libera e di una delle più belle vie della Valle del Sarca. Allora ho pensato: “Forse c’è qualcosa che mi sfugge...” e sono andato a ripeterla, riscontrando la via più plaisir di come l’avevamo lasciata noi, con spit sui tiri e alle soste, anche se c’era ancora ingaggio e qualche chiodo normale, ma in linea di massima era diventata una via bella e sicura come sono altre nella valle. Lì per lì l’ho percorsa con piacere, quasi in un’altra ottica, come se stessi ripetendo una via nuova, una via diversa da quella aperta. Ma la via, oggi, si sta ancora ripetendo e si può capire la storia che c’è sotto, e questo fa piacere. Tutto sommato, fa piacere anche che l’abbiano riattrezzata. Certo, diciamo che nessuno ci ha chiesto niente e questo sicuramente non è il modo di fare: non si può attrezzare a spit o riattrezzare una via aperta con un’altra ottica. Alessio Conz SPIT IN DOLOMITI 170


Nel caso di Mescalito va bene così, sennò probabilmente sarebbe rimasta una cattedrale nel deserto senza ripetizioni, comunque è opportuno un appello ad informarsi bene sulle classiche dei vecchi tempi e di parlare con gli apritori prima di programmare interventi. Molti criticano le nuove aperture: troppi spit, troppi incroci, ci vuole più rispetto, ma non è sempre stato così? Mi pare che le pareti più famose siano del le vere ragnatele di vie, dove districarsi diventa impossibile. Per quanto riguarda gli spit in montagna, diciamo sulle grandi pareti in apertura (non quindi nella riattrezzatura di vecchi itinerari), ovviamente sono molto favorevole perché fa un po’ parte della storia. L’alpinismo è nato sicuramente senza i chiodi, poi è uscito il chiodo normale che ha fatto la storia, ma sempre con critiche perché c’era chi era contro e chi era favorevole, e i chiodi sono stati usati non solo per la sicurezza ma anche per la progressione, per l’artificiale, e anche qui gran discussione e critiche, con chiodature e schiodature in Civetta e in altre parti delle Dolomiti, per poi passare ai chiodi a pressione e poi agli spit a mano e poi al trapano e ai resinati... c’è tutta un’evoluzione dei materiali che non si può tentare di fermare. L’evoluzione dei materiali, la tecnologia, andrà avanti e chissà dove arriverà e quindi, ora come ora, abbiamo gli spit, da 8 mm, da 10, da 12, piazzati col trapano elettrico, quindi con molto meno lavoro delle prime aperture con il martello a mano appesi ai cliffhanger. Dico che ognuno ha la libertà di fare come vuole: quando tu prendi e parti e apri una via su una montagna, decidi tu che materiale usare, che stile usare e quindi bisogna rispettare le scelte dell’apritore, anche se la sua libertà finisce quando comincia a ledere la libertà degli altri. Allora, se cominci a chiodare delle vie troppo vicine ad altre, o incroci ripetutamente delle classiche con i tuoi spit, eccetera, quindi magari anche a tua insaputa senza sapere quello che stai facendo, non va più bene ovviamente. Prima di aprire una via su una grande parete ti devi informare se c’è spazio, se incroci qualche via, che storia c’è sotto e sentire anche un po’ il pensiero dei locali: vedi ad esempio le Mesules, dove i gardenesi hanno deciso di non fare aprire vie a spit perché vogliono mantenere questo stile trad. Devi rispettare anche un po’ queste cose: se rispetti tutto, poi vai e apri come ti pare; decidi tu lo stile e la distanza, così lasci la tua firma e va bene così. Mi lasciano perplesso le aperture miste, quelle a spit ma da integrare parecchio, con tratti alpinistici, quelle che sulle guide vengono date RS: ho visto diverse porcherie in giro. Un po’ non vedi gli spit a grande distanza e rischi di Tavola rotonda 171


€ 20,00

ISBN 978 88 55470 810


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