Di corsa ai confini del mondo

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Giuliano Pugolotti

Nel silenzio dei deserti

DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI

2023 © VERSANTE SUD S.r.l.

Via Rosso di San Secondo, 1 – Milano

Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati

1ª edizione

giugno 2023

www.versantesud.it

ISBN: 978 88 55470 803

DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO

Nel silenzio dei deserti

GIULIANO PUGOLOTTI
EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
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INDICE Introduzione 7 Casomai 11 Così 15 Difficile 19 Deserto 23 La trattoria 27 Monsieur le désert 31 Tortura 35 Psicologia 39 Paura 43 Ignoranza 47 Tecnologia 51 Scarpe 55 Pensare 59 Un senso 63 San Valentino 67 Ottimismo 71 Mi fido 75 Zero 79 Vivere 83 Contro 87 Animali 91 Di me 95 Non arrenderti 99 Quello che non ho 105
Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO
5 I N d I ce Coraggio e paura 109 Tosse 113 Immagino 117 Normalità 121 Dushanbe 125 Strada 129 Consolato 133 Oltre 137 Tempo 141 Vuoto 145 Militare 149 Patriarca 153 Ragazzo 157 Guerra 161 Sono 165 Ingenuità 169 468 173 Notte 177 Livelli 181 Specchio 185 Credere 189 Non giudicare 193 Ho trovato 197
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Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO

INT r O d U z ION e

Della corsa amo tutto. Tutto. Amo il silenzio, amo la sua apparente banalità. Amo la semplicità e la difficoltà di renderla facile. Ti puoi innamorare della corsa per caso, per scelta, per attitudine, per emulazione. Se continui, invece, lo fai solo perché la ami. La corsa vuole tutta l’attenzione per sé, alla corsa non piace essere tradita per altri sport. Per ottenere tutto il suo amore devi dare tutto te stesso, senza paura e senza limiti. Non è né generosa, né avara, la corsa. Lei ti ridà in cambio esattamente tutto quel che dai, non ciò che pensi di dare. Si fa rimpiangere, si fa odiare, si fa maledire, si fa amare.

All’inizio è un rapporto fatto di alti e bassi. Ci si studia a ogni incontro. Inizialmente fatichi senza avere nulla in cambio e così, facilmente, le rinfacci il giorno in cui l’hai incontrata. Poi rimani una settimana senza di lei e non vedi l’ora di riabbracciarla. È austera, la corsa, perché non ama i proclami. Non ama le grandi promesse. Apprezza invece l’umiltà del silenzio, sa trasformare la miseria della fatica in qualcosa di lussuoso. Il lusso di poter essere felici.

L'unione con lei scandisce le stagioni come nient’altro: d’inverno il freddo sulla faccia e le dita delle mani ghiacciate, l’odore unico del gelo e della neve; l’energia della primavera e il profumo dell’erba appena tagliata. La leggerezza dell’estate, con il caldo sulla pelle e la gioia dei colori. Poi l’autunno, con l’odore del terreno umido e delle foglie che cadono con il vento.

Non ama essere incontrata al chiuso, la corsa. A lei piacciono l’aria, la pioggia, il sole e anche la notte. La puoi incontrare in montagna, in una strada di campagna, in città. Passano così gli anni, quasi senza accorgersene, perché la corsa sa fare anche questo, sa ingannare la carta d’identità, sa scombinare le carte. È un rapporto che ti rende attivo, energico e positivo e questo ti fa capire che il tuo amore è corrisposto.

Non ti tradirà mai, la corsa. Potrai anche cadere in disgrazia, ma non ti volterà mai la faccia. Non sa fingere e non sa mentire, perché per la corsa sei quello che sei: ricco, povero, giovane o vecchio, non fa distinzione.

Per conoscere la corsa basta poco o nulla. Un paio di scarpe, un paio di pantaloncini e una canottiera. Non pretende niente di più. Semplice, spartana e vera: la corsa è così che ti riconosce. Alcuni al primo incontro rimangono delusi: la corsa non li ama e loro non amano lei. Semplicemente capiscono che non sono fatti l’uno per l’altra.

7 I NT rO d U z ION e

Altri studiano come approcciarla: leggono, si informano, cercano strade a volte furbe per conquistarla, ma lei non si lascia mai ingannare. Mai e poi mai. È troppo saggia e finirà per lasciarti senza rimpianti.

È ai silenziosi e agli ostinati, invece, che la corsa dà tutto il meglio. Non promette chissà cosa, ma a loro assicura l’anima impagabile della felicità.

Felici di incontrarla ogni giorno, felici di faticare con il sorriso dentro. Felici della sua semplice compagnia. Felici quando la corsa dura tanto. Ore, persino giorni. Stagioni, anni, niente e nulla sa di rimpianto. Niente sa di consumato.

Ogni giorno in cui la incontri è sempre un bel giorno, il meteo non conta: anche se piove è bellissima.

Passi ore piene. A volte puoi parlare con te stesso, in altri momenti resti in silenzio, perché pensare è un esercizio che dà valore a quelle ore. Chi ti vede passare tutti i giorni in compagnia della corsa non capisce il perché e non capisce il tuo amore. Inutile perdere tempo: non lo capiranno mai. E poi come fai a spiegare un amore? Come fai a raccontare quella storia che va avanti da così tanti anni, senza un apparente perché?

Gli anni passano e ti domandi quando finirà questa bellissima storia, se è vero che tutto abbia un inizio e anche una fine. Poi rincontri la corsa e si riparte, perché il suo mantra è “adesso e ora”, non “chissà quando” e “poi”.

E così, senza accorgermene, ho parlato della mia vita e di un amore che condivido da tanto tempo. A me sembra addirittura da sempre. Il libro che ho scritto racconta aneddoti di questa lunga storia, frammenti di incontri, luoghi, notti, paure, coraggio, cadute e risalite.

Alla fine è la mia vita, vissuta con la corsa, senza averla mai lasciata neppure un attimo, né con il pensiero, né con le gambe. Sono racconti, appunti, riflessioni; sono cose che ho vissuto – nel bene e nel male – in relazione al mio modo di pensare, così come sono, come ho imparato a essere.

Non voglio insegnare nulla a nessuno. Non voglio convincere, esaltare. Non voglio essere diverso da quello che sono. Racconto il me stesso di corsa, di certo molto diverso dal me stesso che vive la quotidianità.

Non è un fatto di scelta e neppure di convenienza. È la corsa che mi rende libero.

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Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO Felice dopo una maratona.

c ASOMAI

Ho imparato a dare importanza al caso, perché ciò che ho vissuto per caso si è rivelato spesso una coincidenza che ha cambiato la mia storia, e quella storia è la mia vita. Se ripercorro il mio passato credo che il caso abbia sempre avuto un’importanza unica e irripetibile. Mille coincidenze messe lì, all’interno del mio ordine prestabilito, che ogni volta è stato modificato e ha cambiato schema, così, senza un apparente perché.

Anche la corsa è nata per caso, in una domenica mattina di sole di fine febbraio del ’92, nei Boschi di Carrega, a Collecchio, il paese in cui sono nato, alle porte di Parma. Non conoscevo nulla della corsa, proprio nulla. Ricordo che erano stati i primi raggi del sole che scaldavano quella mattina a spingermi a fare una corsetta, così per assaporare un tepore che ancora non c’era, ma metteva energia e voglia di muoversi.

Quel giorno volevo solo togliermi di dosso la pigrizia dell’inverno, non certo cambiare la mia vita. Ricordo che avevo addosso un paio di pantaloni grigi, larghi e lunghi della Everlast e una felpona sgraziata e infeltrita, che di sportivo non aveva proprio nulla. Poi, per completare il quadro del perfetto improvvisato, ricordo le scarpe da tennis – e non da corsa – la cui marca era tutto un programma. Si chiamavano Mike. Proprio così, con la M al posto della N.

11 c ASOMAI

Sono ormai le quattro del pomeriggio, ma al campo non c’è traccia del suo arrivo. Non è nella lista delle classifiche.

Vado in infermeria a malincuore, perché quel luogo non mi piace: nessuno sa di Steve. Dopo otto ore deve essere per forza arrivato, mi dico, altrimenti dev’essersi ritirato. Provo un po’ di angoscia e dispiacere. In questo luogo noi tutti alla fine siamo dei pazzi, e anche se ognuno è un individuo a sé finiamo per assomigliarci in una sorta di fratellanza multietnica.

Vado al traguardo e aspetto sotto la tenda. Fa ancora caldo e la sabbia è rovente, ma pian piano il sole perde potenza e questo aiuta. Poco prima delle cinque riconosco Steve dall’abbigliamento e gli corro incontro. Barcolla ed è allo stremo. In volto è completamente irriconoscibile, sembra abbia vent’anni di più. Ha rughe profonde e uno sguardo spento. Il deserto lo ha annullato completamente.

Lo sorreggo e lo aiuto sino al traguardo. Passata la linea di arrivo gli tolgo lo zaino e l’aiuto come posso, poi arriva il medico e si occupa di lui.

Il mio è solo un conforto amichevole, lui invece ha bisogno del conforto della medicina e della scienza. Scompare senza dire una parola.

Dopo aver mangiato qualcosa vado in infermeria e lo trovo su una brandina, con la flebo attaccata. Il medico mi dice che non gli darà il permesso per ripartire il giorno dopo. Corsa finita. Stop. Il deserto lo ha distrutto.

Poteva infierire di più, lo ha comunque graziato. È vivo, e dopo qualche cura potrà riprendere il suo aereo per la via di casa. Sapevo in cuor mio che sarebbe andata all’incirca così . Nella nostra società l’aereo privato e il personal trainer sono emblemi che hanno un valore. Raccontano qualcosa di una persona, senza che la si conosca. Si può essere ricchi per capacità , per eredità , o per fortuna. Nel deserto no. Se arrivi è perché sei. Senza se e senza ma. Se ottieni, è perché vali qualcosa per quel luogo. Se superi gli ostacoli, è perché hai combattuto con tutta la tua forza. E questa è la democrazia del deserto. Quella che ho imparato a rispettare da sempre.

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Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO

TO rTU r A

Torturo le mie gambe con i chilometri, lo faccio ormai da anni, mi sembra addirittura da sempre.

Un tempo, quando correvo le maratone, il mio obiettivo era il cronometro. Ore, minuti e secondi, poi l’avversario, quello che ti raggiunge appena rallenti di un soffio, e non vuoi dargliela vinta. Cronometro e avversari.

Mi ricordo che nelle gare soffrivo, soffrivo tanto. Controllavo continuamente il ritmo, contavo con attenzione i chilometri che mancavano all’arrivo. Una corsa di dieci chilometri, una mezza maratona o una maratona... Non cambiava nulla. Soffrivo e lo striscione d’arrivo mi sembrava una liberazione.

Per me arrivare in fondo era come liberarsi di un peso fisico che forse era anche mentale. È un po’ come quando i fondisti nello sci tagliano il traguardo esausti: dopo la linea d’arrivo si lasciano cadere. Hanno dato tutto e chiuso gli occhi sino alla fine. Poi il sollievo.

Rivedo così quegli anni. Non mi hanno lasciato chissà quali ricordi. È come la strada che percorro tutti i giorni per andare al lavoro. Mi interessa arrivare prima possibile, poi tutto il resto passa attraverso una continua routine.

È per questo che la mia idea di corsa e la mia storia iniziano per me nel 2005. Il primo deserto: la Tunisia. È l ì che ho imparato il concetto dell’ultra.

35 TO rTU r A

Mi sono tolto l’orologio che avevo fisso in mente e ho imparato che si parte da un punto e si finisce in un altro. La distanza diventa un dettaglio.

Continuo per ore, senza chiedermi quanto manchi alla fine. È con questa mentalità che un traguardo e un obiettivo arrivano sempre in modo naturale. È questo che passa per la mia esperienza oggi. È così che funziona dentro di me.

Ora è ancor più vero piacere. Corro per giorni in posti incredibili, duri e maledetti, che mi appartengono come la mia vita. Per questo spero che tutto duri il più possibile. Porto con me esperienze irripetibili, uniche, in cui si mischiano la logica della corsa, della sfida e della vita.

Proprio in questo giro senza un perché, ricordo un episodio di tanti anni fa. Libya Challenge, centonovanta chilometri in linea. Deserto dell’Acacus. Il deserto dei labirinti. Al via individuo tra i concorrenti una donna francese eccessivamente folcloristica. Molto appariscente nei modi di esprimere la gioia di essere alla partenza di quella sfida dura e selettiva. Una gara con la G maiuscola, ma pur sempre una gara. Poi l’ho rivista all’arrivo, qualche giorno dopo, con le lacrime che uscivano copiose dagli occhi, incapace in apparenza di sopportare un ritiro. La delusione è cosa normale, tutti quelli che corrono queste gare prima o poi finiscono per conoscere il vuoto della resa e del ritiro. Dispiace, ma passa, perché dentro di te sai che ci sarà un’altra occasione, un’altra sfida, un altro deserto da solcare. Poi arriva quando meno te lo aspetti, La Lezione, quella con la L maiuscola come la G maiuscola della gara.

Non so come, ma qualcuno a lei vicino mi spiega che quella donna, pochi mesi prima di partire, aveva ricevuto una sentenza tremenda: un male incurabile, di cui non ho voluto sapere le caratteristiche e il nome, le aveva lasciato due, tre mesi di vita prima della fine di tutto. Tre mesi e poi la morte.

La francese era l ì , al via di quella corsa per urlare al destino il suo attaccamento alla vita. Era lì per sbeffeggiarlo, il destino. Ma la realtà di una corsa così dura non poteva passare attraverso un fisico minato e indebolito. Si è resa grande e ha provato lo stesso. Sapeva di provarci senza avere un’altra occasione. Non era un ritiro qualunque, era il ritiro dalla vita, l’ultimo.

In quella occasione capii a fondo il significato barbaro del giudicare senza prima sapere. Mi sentivo un idiota. Ero un idiota! Avevo giudicato come fuori luogo l’euforia eccessiva, avevo giudicato fuori luogo le lacrime per un ritiro. Solo che il motivo non erano la gara e il mancato risultato: era la vita che andava via. Pensai poi che ognuno di noi si allena e si tortura ogni giorno per combattere con forza la natura ostile di quei luoghi e poi il nemico può essere lì, dentro di te, silenzioso e maledetto.

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Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO

Siamo forti, pensiamo di essere forti, ci convinciamo di esserlo. Poi tutto può cambiare e così , senza un perché, ti trovi a segnare il passo.

Dopo quella gara non ho più avuto notizie di questa donna francese. Non so cosa abbia deciso alla fine il destino. Siamo forti e fragili, sicuri e insicuri in base al momento, “giusti” o “sbagliati”. Se ti fermi un attimo a pensare non ne vieni a capo. È anche per questo che io vado, spesso come viene, come arriva, senza drammi se non va come volevo.

Poi non sono mai arrivato a capire sino in fondo se quello che mi capita sia solo perché l’ho deciso e perché l’ho voluto. Non capisco mai se il peso del caso, della circostanza e del non so cosa abbia realmente un valore alla fine. Spesso quando rifletto su questo mi sento un po’ condannato ad andare avanti, senza un perché.

Nelle corse nei deserti e nei luoghi ostili ho trovato alcune risposte. Quel piacere di andare per giorni, con il corpo che spinge, è una sensazione che, ne sono sicuro, anche a spiegarla non sarà mai sufficientemente comprensibile. Sentirsi naufrago nel nulla, sperando che l’attracco, il traguardo, sia il più lontano possibile. È questa la spiegazione più razionale che ho trovato. Non serve ragionare, serve andare. Andare a volte come capita, senza cercare a tutti i costi e in ogni momento la prestazione massima.

Mi è capitato spesso di rimanere deluso per qualche minuto in più o per qualche posizione in meno in classifica. Riguardando tutto questo, oggi considero quelle delusioni inutili.

Anche quando mi sembrava un cattivo tempo era, in qualche modo, un buon tempo. La mia filosofia, dopo tanti anni, è mutata: rimane la sfida, quella sì, al luogo, a me stesso, al vuoto.

37 TO rTU r A

PSI c OLOGIA

Io la chiamo psicologia spicciola. Psicologia di sabbia. Psicologia di corsa.

Insomma, niente di scientifico, ma piuttosto qualcosa che ha a che fare con la vita, la vita di chi corre, ma che può essere rapportato anche a chi con lo sport non ha nulla a che fare. In tutti questi anni ho imparato che spesso chi corre e chi fa sport è portato a cercare di reinterpretare la realtà del momento. Certo, è una cosa che non sempre mi piace, ma nel tempo, con l’esperienza, ho imparato che lo sportivo, e in questo caso un corridore che affronta distanze infinite, deve cercare di convincersi della propria forza e delle proprie capacità, a prescindere. Quella ricerca della realtà deformata è una forza che permette di considerarsi meno vulnerabili. Insomma, ho capito che spesso mi racconto cose che non corrispondono alla realtà solo perché in quel momento non ho nessun’altra possibilità per andare avanti.

Potrei fare tanti esempi. Quando sono in difficoltà estrema con il caldo, quando i 50 gradi fanno annebbiare la vista penso che poi finiranno, e che la temperatura scenderà in fretta. In realtà in quel momento so benissimo che non sarà così, ma il pensare che una nuvola prima o poi si frapponga tra me e il sole è un modo per distrarmi e andare avanti.

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Nel caldo più atroce mi aiuta pensare, per esempio, a tutto il freddo che ho dovuto sopportare durante l’inverno per allenarmi. Dirmi che mi merito quel caldo perché ho maledetto il freddo è una cosa che in qualche modo mi fa star bene. Così come quando sono stato inondato di pioggia e vento in Islanda: mi sono detto che dopo tante corse al caldo quel freddo e quel vento erano ciò che desideravo da tempo. Mi racconto e mi illudo da solo. Non capita sempre, ma capita.

Questo raccontarsi eventi mi aiuta a superare momenti difficili. Ricorro a questo metodo quando non so che Santo pregare. Ricordo quella notte in cui nel Gobi, durante una gara di duecentocinquanta chilometri, ero rimasto senza pila frontale, al buio pesto, da solo sotto un cielo nuvoloso e senza luna. Aspettando che passasse qualche altro concorrente di lì, mi ero convinto che quella sosta era utile per riposarmi. Ero stanco di quei chilometri interminabili, del caldo umido di quel deserto e una sosta sarebbe stato un buon modo per ricaricarsi da tanta fatica.

La realtà non era quella. Era sfiga e basta. Ma quando sei così stanco, solo e abbandonato pensare di essere anche sfigato è peggio che reinventarsi la realtà. Quanti fatti del genere ho dovuto rimodellare per convincermi, per non dar retta, per non vedere ciò che in quel momento era palese. Non sono così stupido, è che per andare avanti a volte devi far finta di non vedere.

Ricordo una tappa di una corsa in Egitto, nel deserto bianco, quando ho visto due o tre concorrenti cadere come pupazzi sotto l’effetto del colpo di sole. Se ti lasci impressionare e pensi che quello che è accaduto ad altri corridori può capitare anche a te non vai più avanti. Ti fermi lì. I chilometri interminabili sono quelli per tutti. Il caldo è quello per tutti.

Eppure mi ricordo benissimo di essermi detto che quelli erano caduti nella trappola del colpo di sole perché stavano correndo al di sopra delle loro possibilità. Che non erano preparati. Che non erano adatti. Tutte cose così, che in definitiva finivano per sollevarmi dal dubbio che quello potesse accadere anche a me. Era la realtà?

Come quella notte in Libia, quando vuotai lo zaino, preso dalla convinzione di dover correre leggero per un problema a entrambe le ginocchia. Ricordo che alle dieci di sera, solo in pieno Acacus, decisi di svuotare lo zaino con l’idea folle che poi avrei trovato sulla mia rotta altri concorrenti che mi avrebbero ceduto qualcosa da mangiare in cambio del trasporto di un po’ del loro peso. Follia.

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Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO

Lybia Challenge.

L’arrivo dentro la tempesta di sabbia.

II
Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO I segni dopo 250 chilometri di sabbia e fatica.
III
Karakum Desert, Turkmenistan.
IV
Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO

I deserti sembrano simili ma nessuno è uguale all’altro. Colori, sabbia e vento. Ognuno ha una propria anima.

V
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Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO Vita in Mauritania.

VIV ere

Lungo la rotta tra Erg Ourane ed Erg Timinit, in Mauritania, non c’è traccia di vita. Solo sabbia bruciata dal sole. Solo sabbia alzata dal vento. Solo rocce sgretolate dal tempo, in alcuni punti più marroni, in altri più gialle. Sempre sabbia, poi piste infuocate. L’aria che brucia al sole crea facilmente la suggestione dei miraggi.

Quante volte ho ammirato questi effetti che catturano e illudono. L’esperienza mi ha insegnato a osservare con distacco gli effetti dei miraggi. Sembrano ammassi d’acqua all’orizzonte, proprio qui dove l’acqua è l’elemento che determina la vita o la morte.

Lungo la rotta incontro un giovanissimo pastore. Pochi anni, a occhio e croce non più di sedici. È magro e scavato, con le ossa che si potrebbero contare una a una. Il volto è bruciato dal sole, e ha con sè un asino che, invece di cavalcare, tira lentamente con una corda. Quando l’asino si ferma, per farlo ripartire il pastore gli batte la schiena con un piccolo bastone. Tra una sosta e una legnata, l’asino segue il volere di questo ragazzo. Mi ferma e scruta un po’ la mia presenza. Uno che va di corsa qui, in queste lande bruciate, suscita sempre sorpresa e naturale curiosità. Certamente non sa da dove vengo, non sa dove sono diretto. Il pastore, però, ha un’esigenza che ha a che fare con la vita, e questa esigenza non si perde fra altri pensieri.

83 VIV ere

Con il pollice rivolto verso la bocca mi fa segno che ha sete. Controllo la mia scorta d’acqua e faccio un rapido calcolo dei chilometri che devo ancora percorrere. L’acqua nel deserto è sempre poca, ma quel poco che ho è tanto per quel ragazzo. Tolgo la borraccia dallo zaino e la porgo al pastore. Lì , in quel momento, capisco una volta di più con quale delicatezza e con quale importanza venga gestita l’acqua. Il ragazzo beve un solo sorso e mi ridà la borraccia. Nel passaggio tra la sua mano e la mia una piccola goccia cade sulla sabbia. Il ragazzo, vedendo cadere quella goccia, mi chiede mille volte scusa.

In questo luogo l’acqua è talmente preziosa che anche una goccia sprecata può essere tanto. Lo tranquillizzo e gli dico che non è nulla. Lo abbraccio in modo istintivo e gli chiedo la direzione. Sono le undici ed è diretto al villaggio da cui sono partito questa mattina. Sono tanti chilometri, credo più o meno trenta, e mi spiega che arriverà verso sera. Gli offro ancora un po’ d’acqua, perché capisco che la strada è lunga e il sole, che è quasi a picco, scalda e asciuga. Poi il vento forte e arido scava i segni sulle labbra. Mi fa segno di no. È a posto e ringrazia.

Questo giovane pastore sembra galleggiare dentro pantaloni enormi, il suo fisico è talmente asciutto e minuto da generarmi il timore istintivo di non stringerlo per non fargli del male. Ci salutiamo. Mi guarda da capo a piedi ancora una volta. Controlla nuovamente le mie scarpe, coperte con le ghette per non far passare la sabbia, e poi il mio cappello con la bandiera italiana, gli occhiali. Questi elementi bastano a farmi apparire ancora più straniero ai suoi occhi.

Sono sicuro che per il pastore sarò argomento di racconto, al villaggio. Chissà cosa avranno da fantasticare. La mia corsa prosegue, e anche il pastore riparte con il suo asinello. Un’altra legnata sulla schiena e anche l’asino riprende il suo cammino, solo in direzioni opposte. Continuo ancora per altri chilometri, cercando di intercettare la bava di vento che immancabilmente si alza nelle ore centrali della giornata. In pratica, il caldo della sabbia finisce per salire verso punti più freddi. L’aria calda genera un movimento che sulla pelle ha un bellissimo effetto di sollievo. Abbasso la cerniera della maglietta e accorcio ancora di più le braghette. Cerco, insomma, di far arrivare più aria possibile sulla pelle. Tra le dune sulla mia destra noto però qualcosa che non avevo mai visto in tutti questi anni. Sono delle piccole punte di roccia, poste in ordine una accanto all’altra. Tutte assieme formano un piccolo quadrato. È un cimitero.

Un cimitero nel deserto ha l’effetto esattamente opposto a quello che proviamo qui da noi in occidente. Per noi è qualcosa di triste e comunica morte. Nel deserto, istintivamente, mi fa un effetto contrario, mi comunica vita.

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Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO

Una vita passata, ma pur sempre vita.

Questo esempio mi dà conferma di quanto sia spoglio e veramente unico il deserto. L’incontro con un pastore è l’evento nella giornata che vale la pena di ricordare. Un sorso d’acqua è il fatto del giorno. Il cimitero è il simbolo di una vita che c’era. Non c’è nient’altro, qui, anche se capisco che ormai sono vicino al villaggio.

Nessun cimitero può essere lontano da un luogo di vita. Infatti dopo qualche chilometro arrivo al villaggio. Sono quattro capanne tonde in cerchio e una capanna grossa al centro. Poi una cisterna per l’acqua posta sopra un’impalcatura di legno. Il villaggio è tutto qui. Da un lato della pista ci sono pietre uguali a quelle del cimitero, servono per costruire una piccola casa. Le pietre formano i muri, e sopra legni e foglie delle palme che si vedono in lontananza. Un villaggio nel niente. Un cimitero nel niente. Questa è la vita nel pieno del deserto della Mauritania.

Alcuni bambini giocano con due cerchi di una vecchia bicicletta in disuso. Sono scalzi, e l’unico indumento che indossano sono delle piccole mutande. Alla mia vista i bambini si bloccano, rimangono immobili e poi osservano, si dicono qualcosa e scappano verso le capanne.

In fondo la mia presenza è sempre vista come qualcosa di diverso. L’istinto di protezione dell’uomo è uguale ovunque. I pericoli, quelli che avvertono i bambini, sono identici ovunque, sono abituato a questo. Le prime volte ci rimanevo male, ora ci ho fatto l’abitudine.

Mi fermo qui per la notte. C’è acqua e certamente qualche stuoia su cui appoggiare zaino e sacco a pelo. Questo è il deserto che ho vissuto, questo è il deserto che ho conosciuto oggi. Un pastore, un cimitero, due bambini e ora anche un adulto che mi ha accolto davanti alla sua capanna. Un’altra giornata è andata, qui nel nulla a migliaia chilometri da casa, al confine di tutto.

85 VIVERE
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Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO

Iran. Lago salato e terra rossa. Tra il bianco accecante e il colore infuocato della terra. La magia dei contrasti.

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Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO Iran. Il lago salato.
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Turkmenistan (Darvaza). Davanti a Door to Hell, la Porta dell’Inferno.

Mhamid, Marocco. Di corsa verso il traguardo.

OLT re

La frontiera è qui, davanti a me. Da una parte il fiume a lato della strada piena di buche, tra sassi e polvere. Dall’altra, un cancello che mi ricorda l’accesso vietato di un cantiere in costruzione. Solo il filo spinato rende l’idea e puntualizza il luogo. Non c’è niente di familiare, qui.

Oltre il filo spinato una striscia di terra di nessuno. Non è Tajikistan. Non è Afghanistan. È la parte neutrale, una zona libera di pochi metri. La catena di ferro e il lucchetto nero sottolineano che per entrare dovrà arrivare ad aprire un militare con le chiavi, non basteranno le parole. Due elicotteri volano bassi e radenti sul fiume. Non so a quanti metri di altezza, ma so solo che fanno rumore e impressione. Sono Afghani, questo è sicuro; perché si muovano nel cielo di certo non lo so, lo posso solo immaginare. Sorveglieranno il confine del loro Stato. Qui i talebani, pochi mesi fa, hanno assaltato un mezzo che portava gli stipendi ai militari. L’assalto è stato tremendo, feroce e ha lasciato una lunga scia di morte. Me l’ha appena raccontato il driver che mi ha accompagnato sin qui da Khorog. Se voleva tranquillizzarmi, se voleva darmi un po’ di serenità, non c’è riuscito. Il ragazzo alla guida del fuoristrada mi spiega che è stato un attacco talebano: sono scoppiate le auto blindate sia della scorta che del mezzo che trasportava i dollari. Alla fine sono riusciti nel loro l’obiettivo: scappare con il bottino, come nei film western.

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OLT re

Mi dice che i soldi ai talebani servono per armarsi. Mi fa segno con tutte e due le mani mimando una montagna: una montagna di dollari.

Da queste parti la violenza non è una novità, anzi: è quasi la normalità. Ma incontrarla proprio qui, in questo punto della strada, fa più impressione.

La fantasia non è da scomodare, basta mettere il naso fuori dal finestrino di quest’auto per vedere i segni lasciati dall’attentato, ci sono alcune gigantesche buche a testimoniarlo. Ritorno così al presente, e lascio per forza il passato lì dov’è. Non posso fare altro, non posso fare nulla.

Sono passate le tredici e alla frontiera non c’è nessuno. Né dalla parte del Tajikistan, né da quella dell’Afghanistan; i militari sono in mensa, a mangiare. “Avranno pur anche loro la pausa pranzo”, mi dico, giusto per tornare un po’ a vivere le abitudini quotidiane.

Tolgo lo zaino e le poche cose che porto con me dalla macchina. Abbraccio il driver come fosse un amico. Lo conosco solo da qualche ora e non so neppure come si chiami. La promessa è di ritrovarci qui al mio ritorno, tra alcuni giorni. Mi dice “Buona fortuna”. Good luck. Poi un abbraccio e una pacca sulla spalla. “ È lo stesso augurio che mi faccio anch’io”, gli rispondo.

Aspetto in silenzio. Ora sono davvero solo. Mi sento solo come non mai, davanti a questo cancello nudo. Anzi: in nessun deserto della Terra mi sono sentito altrettanto abbandonato a me stesso. Dopo più di un’ora arriva con passo lento un militare del Tajikistan. Un ragazzo giovane, magro con il suo mitragliatore a tracolla e una borsa di pelle in mano. Immagino che nella borsa abbia i soliti timbri e in questo caso anche le chiavi per aprire il lucchetto.

È gentile e mi apre dalla parte del Tajikistan. La solita procedura: passaporto, visto e permesso di transito del Pamir. La solita stanza vuota, fredda, e il militare dal viso inespressivo e dal cappello che sembra un ombrellone da spiaggia, tanto è grosso.

Al pensiero dell’ombrellone mi metto a ridere da solo. L’uomo che controlla se ne accorge. Di sicuro si starà chiedendo cosa ci sia da ridere, in questo posto. Finita la pratica riprendo lo zaino e i documenti. Poi vado di nuovo fuori, ad aspettare nel corridoio di rete metallica che porta al confine afghano.

Da qui le macchine non possono transitare, si passa solo a piedi. Infatti questa corsia pedonale di cemento, delimitata dalla rete metallica, sarà lunga cinquanta metri e larga uno. Un altro cancello, un’altra catena. Un altro lucchetto. Aspetto con pazienza, e dopo un’altra ora vuota arriva un militare afghano ad accogliermi, per così dire.

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Giuliano Pugolotti DI CORSA AI CONFINI DEL MONDO

Srotola la catena e socchiude il cancello che fa il rumore del ferro arrugginito che gratta sul cemento. Posso passare, e con lui al mio fianco entro in un’altra guardiola.

Un’altra stanza, un altro controllo. In alto sventola la bandiera nera, rossa e verde. Passaporto, visto e permesso. Qui poi occorrono altri sei documenti. Uno per me; uno resta qui, in questa stanza di frontiera; gli altri quattro da dividere: Polizia di Confine, Caserma militare, Ufficio d’Immigrazione, Presidio Militare. L’uomo che mi rilascia i documenti è comunque gentile e tutto sommato socievole. O almeno mi pare tale, in tutta questa desolazione. Mi dice che gli piacerebbe vedere l’Italia e il nostro Paese. Poi aggiunge che sono stato fortunato, perché la frontiera rimane aperta solo due ore. Oggi sono stato l’unico a passare di qui.

Mi raccomanda poi una cosa vitale: “Il passaporto e i documenti devono essere custoditi con assoluta cura. Valgono più dell’oro”.

E così infilo le carte nello zaino, nella tasca interna chiusa con la zip. Poi ricontrollo ancora una volta di avere tutto con me. Diventa quasi un’ossessione, controllo e ricontrollo.

Spengo il telefono, già ammutolito da ore; da qui le comunicazioni con l’Italia si interrompono. Lascio in questa frontiera la mia quotidianità e le mie abitudini. Le lascio qui per un po’ di giorni: in Afghanistan non servono e non sono richieste. Qui mi serve solo il coraggio di entrare. Confesso di essermi fatto il segno della croce, non una, ma più volte. Non so se essere più contento per quello che andrò a realizzare o più spaventato per quello che non so. Frontiere, dogane, posti di blocco: in questi anni ho perso il conto di quanti documenti abbia dovuto fare, di quanti permessi abbia dovuto esibire. Ricordo la frontiera di uno Stato di finta democrazia e di reale dittatura come il Turkmenistan. Ricordo la Libia, anche all’epoca di Gheddafi. E poi Algeria, Iran, Mauritania, Uzbekistan, Kirghizistan.

Vado così , a ruota libera, e ne tralascio tante altre, la maggior parte di quelle che ho attraversato. Nessuna frontiera, comunque, è come quella afghana. Niente è simile, niente mi porta a dire: questo l’avevo già visto, questo gli assomiglia. L’Afghanistan è un mondo a sé. Un mondo che ha bisogno di essere capito, è miseria nera e leggi arcaiche, cultura e arretratezza. È curiosità e paura, pericolo e ricerca di libertà , ragione e follia.

Guardando il militare che allega la foto al librone nel quale è segnato il mio accesso penso a tutto questo. Tutto scritto a mano, senza alcuna sezione digitale. Vedo che sono il numero 87: credo che sia il resoconto cronologico di chi è passato di qui dall’inizio dell’anno.

139 OLT re

Ammiro e un po’ invidio chi, come Giuliano, ha la corsa nel sangue e la vive come io vivo l’arrampicata, come una grande, intima passione, che non puoi abbandonare. È questo, credo, che ci accomuna. Quel desiderio di esplorare nuovi limiti, nuovi terreni, nuove esperienze in ambienti dove è la natura a comandare. Un richiamo forte che si deve ascoltare, anche se costa grandi sacrifici. Il deserto è uno di questi luoghi, uno dei più severi. Sembra strano che ad affermarlo sia un alpinista, uno che dovrebbe temere più la quota e il freddo che il caldo e le lunghe distanze… ma se mi sono avvicinato, ed è successo, un po’ troppo al limite in passato, tanto da rischiare di non farcela, è stato proprio lì, dove la mancanza d’acqua e il sole che ti sfinisce non perdonano errori e sottovalutazioni.

€ 20,00 ISBN 978 88 55470 803
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