LA VIA PER LA MONTAGNA

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LA VIA PER LA MONTAGNA

Il viaggio di uno scalatore tra la vita e la morte

Paul Pritchard
EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI

Titolo originale: The Mountain Path. A climber’s journey through life and death.

2021 © Paul Pritchard

Prefazione 2021 © Hazel Findlay

Vertebrate Publishing, Sheffield 2021 www.v-publishing.co.uk

2023 © VERSANTE SUD S.r.l.

Via Rosso di San Secondo, 1 Milano

Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati

Fotografie: Paul Pritchard se non diversamente indicato

Traduzione: Luca Calvi

1a edizione

Gennaio 2023

www.versantesud.it

ISBN: 978 88 55471 411

LA VIA PER LA MONTAGNA

Il viaggio di uno scalatore tra la vita e la morte

traduzione di Luca Calvi

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
INDICE Prefazione di Hazel Findlay 9 Introduzione 13 UNO La libertà 25 DUE Il pellegrinaggio 49 TRE Il dolore 71 QUATTRO La paura 91 CINQUE La morte 107 SEI La quiete 119 SETTE L’avvicinamento 129 OTTO La preparazione 137 NOVE La scalata 143 DIECI La voragine senza fondo 153 Ringraziamenti 172 Bibliografia 176
A Eli Gareth

Tra il sole e la luna, tra l’inquieto desiderio di vivere e l’irrequieto desiderio di morire, la linea di equilibrio è costituita dalle montagne.

– Etel Adnan, Viaggio al Monte Tamalpais

PREFAZIONE DI HAZEL FINDLAY

Avevo sentito parlare di Paul ben prima di incontrarlo e avevo letto il suo libro The Totem Pole molto prima di andare a scalare il faraglione che ha dato il nome al libro. L’incidente patito da Paul non mi aveva fatto passare la voglia di scalare quel pinnacolo simile a un fiammifero che sembrava ondeggiare sotto i colpi infertigli dal mare di Tasmania. A chi non arrampica magari suona strano che io abbia trovato interessante andare a scalare un pezzo di roccia che aveva quasi fatto perdere la vita a qualcuno, ma il Totem Pole è un esempio assolutamente improbabile di architettura rocciosa e parla direttamente a quei desideri che fanno sì che gli scalatori diventino quel che sono.

Quando vidi il Totem Pole per la prima volta, mi chiesi per quale ragione ancora non fosse crollato dentro l’oceano. Quando poi iniziai a scalare quella sottile scheggia di roccia mi chiesi subito come avrei fatto a scalarla senza farla cadere.

Quando raggiunsi la cengia mediana, cominciai a immaginare nella mia mente le sette ore di dolore e solitudine che Paul aveva passato lassù, a perdere sangue e fluido cerebrale dopo essere stato colpito in testa da un masso grande quanto un computer portatile. Lasciò su quella cengia metà del suo sangue e sa solo Dio quante cellule cerebrali ma, come suole dire egli stesso, “guadagnò ottant’anni di saggezza”.

La prima impressione datami da Paul fu quella della fragilità. Non è in grado di utilizzare a dovere metà del corpo a causa dell’emiplegia e parla lentamente e con fatica in seguito ai danni al lobo frontale. Tutto ciò potrebbe portare a pensare che Paul sia una persona vulnerabile. Così è fin quando non lo si guarda negli occhi, nei quali si vede una forza interiore unica per qualcuno che abbia visto la morte in faccia tre volte.

Come per il Totem Pole, è facile sbagliare scambiando l’immagine esteriore di Paul con quella della fragilità, tuttavia c’è in Paul una duttilità tale da farlo sembrare impermeabile alle turbolenti ondate della vita. Detto questo, non ha nemmeno l’ombra dell’ottusità o dell’arroganza tipica di numerosi alpinisti avanti negli anni; ride di gusto come un bambino, soprattutto di sé stesso.

È da quando avevo sei anni che l’arrampicata per me rappresenta ciò che per un albero è la luce. Sono anche un’appassionata lettrice di libri.

9 PREFAZIONE

Nonostante io ami le scalate e i libri, riesco solo di rado ad apprezzare i racconti o le biografie di grandi scalatori. Li trovo sempre noiosi, egoistici e inadatti a descrivere il nostro rapporto con l’arrampicata. Li prendo in considerazione per mettere in evidenza tutti gli aspetti negativi della mascolinità, una superficiale ripetizione del viaggio dell’eroe senza il cuore e la vulnerabilità della vita dello scalatore così come io la vivo. Per qualcuno, forse, la sfida delle scalate sta nelle realizzazioni, nel far diventare ancora più grande il nostro ego. Io invece volevo leggere del vero valore della sfida e della battaglia di un eroe per smantellare l’ego.

A un certo punto mi passò sotto il naso Totem Pole, libro che riuscì a carpire la mia attenzione. Forse perché è la storia di una sconfitta in arrampicata, si presta molto meglio ad avvicinarsi al perché lo facciamo. È anche il racconto di come la peggiore delle cose che ci possono capitare possa poi diventare la migliore, quindi è anche una storia di accettazione, di crescita e di coraggio. Una storia alla quale mi potevo sentire molto vicina.

Poco più che ventenne, un infortunio alla spalla mi impedì per qualche tempo di andare a scalare e mi trovai ad allenarmi a essere felice pur senza arrampicare. Alcune serie di eventi concatenatisi nei quali non starò ad addentrarmi mi fecero poi arrivare in un centro di meditazione Vipassana e fu lì che appresi la reale natura della felicità come condizione della mente, dipendente dalla forza interiore e non da condizioni esterne.

Dopo l’incidente anche Paul era andato a seguire lo stesso corso e ne La Via per la Montagna riesce ottimamente a spiegare quanto strabilianti possano essere dieci giorni passati a starsene col culo a terra a non fare assolutamente nulla. L’accettazione, per Paul, era destinata a essere cosa ben più difficile. Prima di quel suo incidente era stato uno dei migliori scalatori al mondo ed era andato a visitare una gran quantità di montagne favolose in tutto il mondo. Era passato dal salire le vie di arrampicata più difficili all’imparare ex novo a camminare e a parlare. Quel suo incidente l’aveva realmente fatto tornare bambino. Credo proprio che se si riesce ad accettare questo, si possa davvero accettare tutto.

La meditazione è un metodo per allenare la mente all’accettazione; sfortunatamente non è che ci si diverta un gran che. Gli scalatori sono fortunati perché le montagne sono anche grandi maestre. Con il giusto approccio mentale, le esperienze in montagna che richiedono presenza e controllo del nostro dolore e delle nostre paure primordiali portano con sé grande saggezza.

In questi ambienti attraversiamo un campo di addestramento mentale e ne veniamo fuori più forti.

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Ne La Via per la Montagna leggerete di queste lezioni attraverso gli occhi e le emozioni di qualcuno che non solo ha dovuto imparare nel modo più duro cosa sia l’accettazione, ma che continua a praticare questa saggezza applicata al suo attuale rapporto con le montagne e alle sue avventure da persona con disabilità. Magari vi verrebbe da pensare che vivere con una disabilità, l’emiplegia, le crisi e gli attacchi siano già una sfida più che impegnativa, ma la curiosità senza limiti di Paul di capire se stesso lo ha portato a girare il mondo per varie sfide, tra cui un viaggio in trike lungo 1.100 chilometri attraverso il Tibet fino al Campo Base dell’Everest.

Le montagne sono una sorta di scuola per chi vuole avere risposte più velocemente degli altri ed è curioso di vedere le profondità di sé, per quanto doloroso possa essere. Il problema è che poco importa quanto perfetta sia la scuola o quanto brillante sia il docente, allo studente serve essere pronto e desideroso di apprendere. Per quelli di voi che hanno passato la vita tra le montagne, magari ignorando le lezioni di alpinisti e scalatori, suppongo che questo libro possa essere un trampolino verso un’indagine interiore.

Per chi è già su quella via, questo libro è probabilmente qualcosa che stava aspettando da tempo. Paul espone le lezioni spirituali che possiamo apprendere sulla via per la montagna con umorismo e umiltà. Le esperienze di Paul in montagna e i suoi incontri ravvicinati con la morte fanno di lui l’autore perfetto per questo libro.

11 PREFAZIONE

INTRODUZIONE

Non crucciarti mai per la tua caduta, o Icaro del volo senza paura, perché la tragedia più grande per tutti loro

è quella di non provare mai la luce che arde.

– attribuita a Oscar Wilde

«Non ti sei lavato i piedi vero?».

Rimproverai Steve così, allegramente, dopo aver piazzato la faccia sul suo piede sinistro nudo. Al mio corpo emiplegico non erano rimaste altre possibilità per salire contorcendomi fin sulla vetta di quell’ago di roccia grande quanto un francobollo. Il mio unico braccio funzionante era diventato pressoché inutile dopo le 126 trazioni con un braccio solo necessarie per arrivare in cima al Totem Pole.

Avevo le gambe ancora in fuori, a penzolare nel vuoto, ma col resto del corpo ero lì, in vetta al mondo a baciare i piedi del mio caro “primo di cordata”. Mi tese la mano e mi aiutò a issarmi fino a prendere una posizione eretta piuttosto instabile a causa degli spasmi alle gambe affaticate.

Dopo un gioioso abbraccio pensai bene di mettermi nuovamente seduto e di condurre le operazioni seduto a gambe incrociate. Steve verificò i nodi e iniziò a lasciarsi scivolare lungo la corda che avevamo teso precedentemente per essere collegati alla terraferma, quella che gli scalatori chiamano anche tirolese e che consiste in una corda tesa posta per superare un tratto di vuoto.

Ero rimasto solo, come Simeone Stilita, una figura solitaria su un pilastro di diabase che ondeggia dolcemente come non mai, a meditare su ciò che ero appena riuscito a fare.

Mi ci volle un po’ per riuscirci. Diciotto anni di apprendimento e di sforzi per arrivare fin lì, ma avevo appena scalato il faraglione più esile al mondo. Innalzandosi verso il cielo per sessantacinque metri, il Totem Pole è tre volte più alto dell’Obelisco dell’Ago di Cleopatra a Central Park o dell’Argine Vittoria (sono identici).

Coi suoi quattro metri quadri, peraltro, è solo largo il doppio. Si trova nell’Oceano Meridionale su un remoto tratto di costa nella Tasmania del sud.

13 INTRODUZIONE

Uno di quegli adesivi che si appiccicano ai veicoli riporta la seguente scritta: «Un’isola che si stacca da un’isola in culo al mondo».

Circa due decenni prima avevo subito l’esperienza più dolorosa, solitaria e confusa della mia vita sulla roccia di quel faraglione. Io e la mia compagna Celia Bull stavamo tentando di scalare in libera quella torre quando un pezzo di diabase delle dimensioni di un computer portatile aveva falciato l’aria dopo essersi staccato venticinque metri sopra di noi, e mi aveva colpito il cranio con la stessa forza di un colpo di scure.

Ero rimasto a testa in giù, appeso al capo della corda, dritto sopra il mare, col sangue che mi fuoriusciva dalla testa e che faceva diventare rossa l’acqua.

Celia, in piedi sull’unica cengia del Totem Pole, era di fronte al suo oceano traumatico mentre mi issava lungo la parete verticale, con la corda in nylon da nove millimetri che le segava le mani. Va tenuto presente che tutto ciò ebbe luogo prima dell’avvento dei telefonini cellulari. Non c’era alcuna possibilità di chiamare il soccorso da lì. Le ci vollero tre ore buone prima di riuscire a mettermi in sicurezza sulla cengia. Poi mi disse che sarebbe dovuta andare alla ricerca di aiuto.

Lottando per rimanere in equilibrio, Celia iniziò a risalire la corda che avevamo lasciato fin sulla cima della torre. Passò poi il moschettone dentro a quella nostra zip-line che collegava il Totem Pole alla terraferma. Iniziò a trascinarsi lungo quella corda e si fermò per rifiatare sessanta metri al di sopra delle ondate che stavano aggredendo la base di quella colonna.

In un momento di morbosa curiosità mi passai le dita tra i capelli appiccicosi fin sopra la testa e scoprii di avere un buco enorme sul cranio. Scioccato ritrassi subito la mano e vidi di avere le dita tutte rosse per il sangue e appiccicose per il fluido cerebrospinale. Tutta la parte destra del corpo era priva di sensazioni e non riuscivo a muovere né il braccio, né la gamba.

Quando cercai di chiamare Celia dalla bocca non mi uscì nessun suono, solo un debole gracidio. Ero da solo e malmesso su un distante faraglione nell’Oceano Meridionale e anche se non avevo la minima idea del perché avessi gli arti paralizzati, una cosa la sapevo: potevo di certo affidare a Celia la mia vita, anche se mi rendevo dolorosamente conto che questa aveva tutta l’aria di dover terminare di lì a non molto. Potevo farci ben poco, in realtà. In quel mio stato di confusione poi, avevo poche energie per rivedere tutta la mia vita. Sembravo del tutto distaccato rispetto alla mia ormai imminente dipartita. Tutto ciò che potevo fare era accettare con calma il mio destino e rendere i miei ultimi istanti il meno stressanti possibile. Allo stesso tempo dovevo tenere aperte tutte le opzioni e qui sopraggiunse un pensiero: e se avessi continuato a vivere?

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Alla deriva tra coscienza e incoscienza mi ricordo di aver pensato: «Ma che cavolo ci faccio io qui?». So che non intendevo solo «Ma cosa ci faccio su questa cengia?». Quello lo sapevo.

Ormai non sapevo più nulla di Celia, solo di averla vista risalire l’ultimo tratto di sentiero che portava in cima al tratto di terraferma. Le ci vollero due ore per tornare di corsa a Fortescue Bay e far partire i soccorsi. In seguito mi disse di avermi guardato da lontano su quella cengia e di aver pensato che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui mi avrebbe visto ancora vivo.

Va bene, smetto per un attimo di descrivere quel momento piuttosto drammatico in cui ormai stavo per andarmene su quella cengia mentre Celia correva per andare a chiamare i soccorsi, e ne approfitto per far sapere a voi che state leggendo di aver già scritto due libri su quel pezzo di roccia e sull’incidente che mi è capitato. Quei libri erano resoconti dell’accaduto e dell’anno passato in ospedale, scritti di prima mano e a caldo.

Lo scopo di questo mio libro è ora farvi partire con me per un arduo pellegrinaggio alla scoperta di noi stessi, confrontando gli appunti dei nostri alti e bassi. Un viaggio che non sarà né comodo, né sicuro, ve lo garantisco. Esiste però la possibilità che possa farvi cambiare il modo in cui guardate alle cose del mondo, magari anche solo di poco. Gli eventi raccontati in questo libro di sicuro hanno cambiato la mia vita in modo profondo.

Ho imparato molto dai luoghi selvaggi in cui ho girato e dalle montagne che ho scalato o che non sono riuscito a scalare, comprese due volte in cui, prima, ho rischiato la vita per delle cadute. Dubito che sarei potuto sopravvivere quel giorno sul Totem Pole a versare metà del mio sangue nell’oceano e su quella cengia senza le conoscenze acquisite in montagna. Sento ancora il gemito dell’aria che mi usciva dai polmoni, distante, come se Celia stesse issando qualcun altro, pochi dolorosissimi centimetri alla volta lungo quella parete.

Lì, su quella cengia, tutto ciò che volevo fare era andare a dormire. Ed ero certo che se mi fossi lasciato andare quella sarebbe stata l’ultima volta. Feci una sorta di patto con me stesso: che avrei quanto meno provato a vivere.

Mi ritrovai così a sforzarmi di alzarmi facendo forza col corpo sul mio unico gomito funzionante, per poi guardare in basso verso quella pozza rossa e appiccicosa e gemere. Lasciai quindi che la mia testa finisse dritta contro il mio sangue freddo e appiccicoso con un tonfo sordo.

Non voglio provocare ribrezzo, voglio solo farvi capire che senza quella ferma determinazione non avrei portato a termine nemmeno la metà delle cose che ho fatto da allora.

15 INTRODUZIONE

Ho grossi dubbi che avrei tentato di scalare il Kilimanjaro o di andare in bicicletta fino all’Everest. No, questa mia determinazione, insegnatami dalla montagna, non è cocciuta e tanto meno aggressiva. È più una risolutezza paziente.

Dovevo rimanere vigile e sveglio, ma anche restare calmo ed equilibrato. Ripensando a quegli eventi più di vent’anni dopo, riesco ora a capire che lo stato di trance meditativa in cui ero entrato, in cui non dormivo ma nemmeno ero sveglio, altro non era che un vitale meccanismo di difesa.

Quando ci troviamo in situazioni di vita o morte rimanere paralizzati dalla paura non sopraggiunge in maniera naturale. Nel 1844, David Livingstone fu aggredito da un leone e pensò che quello sarebbe stato il momento più sereno della sua vita. Come Livingstone, non ero poi troppo preoccupato per la paralisi o la morte. Rimasi in uno stato d’animo di tranquillità su quella cengia grande quanto un divano, per sette lunghissime ore, fino a quando mi resi conto di avere qualcuno al mio fianco. No, non era Gesù (o un qualsiasi altro dio o simile), era il mio salvatore, un paramedico di nome Neale Smith. A giudicare dalla quantità di sangue che si era trovato di fronte sulla cengia mentre stava arrivando da me, Neale aveva pensato di trovarsi di fronte al semplice recupero di una salma. Quando poi vide che ero ancora vivo comprese immediatamente che non c’era un solo secondo da perdere.

In montagna credevo di poter abbracciare il vero significato di libertà, non la libertà illusoria di seguire la mia passione. Fino al Totem Pole però non avevo fatto altro che seguire la mia passione. Abbandonai l’apprendistato di falegnameria che avevo iniziato all’età di sedici anni e partii per andare a scalare ogni giorno fino a quando, quindici anni dopo, mi trovai col cranio aperto in due. Scoprii in seguito che esiste una libertà più grande di questa. Sì, esiste una libertà più grande. Qualcuno magari potrebbe pensare che quella mia esperienza quasi fatale avrebbe potuto essere facilmente evitata se solo avessi ignorato la mia passione e avessi continuato il mio apprendistato nei sobborghi di Manchester. Una vita passata a lavorare il legno però per quanto potesse essere attraente come idea per più di qualcuno, non lo era per me. Come peraltro spiegherò e spero di potervi convincere, aver vissuto con la paralisi per tutti questi anni ha davvero migliorato la mia vita. Tanto che ora posso affermare senza dubbio alcuno che questo catastrofico infortunio al cervello sia stato in assoluto la cosa migliore che mai mi sarebbe potuta capitare nella vita. Mi ha fatto avere una nuova prospettiva sulla vita e mi ha regalato una filosofia marcatamente differente.

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La lesione cerebrale è profondamente diversa da ogni altro tipo di trauma perché non ha a che fare solo con ciò che si potrebbe diventare. Ha a che fare con ciò che realmente si è: il continuo agitarsi in pubblico, il comportamento simile a quello di persone con dipendenza, la verbalizzazione dei pensieri sul sesso. La labilità emotiva che ti porta prima a vedere il lato irrazionalmente divertente della morte e subito dopo ad avere le lacrime che ti rigano il volto per aver visto la luce di un fulmine su un albero. Il trovarsi sempre in una varietà di stati di crisi esistenziale e altri stati piuttosto scontati . Questo è ciò che siamo realmente quando lasciamo cadere a terra la maschera, quando smettiamo di interpretare la parte che abbiamo creato per noi stessi.

La versione della vita in cui ci troviamo a essere intrappolati dentro ad Aspettando Godot

In aggiunta a tutto ciò, la perdita parziale della memoria a lungo termine di cui avevo sofferto e una mancanza pressoché totale di memoria di lavoro avevano fatto sì che fossi costretto a vivere il momento. Nella mia mente, la perdita della memoria può essere una maledizione o una meditazione, in quanto l’essenza di quest’ultima sta nel vivere il momento presente.

Ero costantemente attaccato a steli rinsecchiti di tempi andati che, appunto, erano ormai passati, e ciò era estenuante. Poi però ho imparato che se avessi potuto accettare il fatto che quella era la realtà di quel momento, avrei potuto ribaltare la perdita di memoria fino a farla diventare un aspetto positivo. Non fraintendetemi però.

Continuo ancora ad avere momenti di imbarazzo nei locali quando devo ordinare la colazione. Nella mia mente vedo un uovo, ma per nulla al mondo riesco a ricordarmi quale sia il suo nome per poter così dire, semplicemente: «Un uovo per favore». Ecco, invece di quello io dico: «Uno di quei cosi ovali che escono dalle galline».

Le persone con lesioni cerebrali fanno da specchio alla società. Le persone cerebrolese possono apparire terrificanti alle le persone “normali” per strada perché queste possono arrivare a pensare che ciò che vedono potrebbe accadere anche a loro. Mi capita con frequenza quasi giornaliera di vedere persone avere reazioni imbarazzanti, altre guardarmi di traverso e altre ancora dedicarmi commenti quanto meno strani, alcuni dei quali, sono certo, avrebbero voluto essere dei complimenti.

«Certo che sei proprio coraggioso!» mi dicono quando non sto facendo altro che una passeggiata lungo un sentiero di campagna. Altre volte i commenti sono avvolti di empatia. «Oh, fa nulla, sono anch’io uno smemorato».

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Altre volte è più dura. Le persone con disabilità spesso suscitano sospetto. In più di una occasione mi è stato chiesto cosa cavolo stessi facendo mentre stavo fotografando mio figlio a calcio o mentre stavo cercando mia figlia ai campetti della scuola.

Non mi addentrerò nella psicologia del perché la maggior parte dei cattivi dei film di James Bond abbiano una disabilità. È comunque una fortuna che mi piaccia l’umorismo nero e riesca a vedere il lato divertente di questi momenti. A volte però è davvero dura.

In più di una occasione mi è capitato di essere aggredito fisicamente. Proprio poco tempo fa stavo portando i miei figli a una rappresentazione mattutina di The Wind in the Willows presso un teatro del posto. La mia andatura barcollante deve aver attirato l’attenzione di un uomo che, senza alcuna provocazione, attraversò la strada e mi colpì dietro l’orecchio, facendomi finire a terra. Andai a sbattere contro il marciapiede con la testa, già fragile di suo. Dopo essersi piegato sopra di me e avermi invitato ad “andarmene a fanculo e crepare”, quell’uomo corse via per sparire dietro a un angolo.

Un passante mi aiutò a rimettermi in piedi. A farne le spese maggiori furono le mele che avevo messo dentro a un sacchettino che portavo a tracolla e che finirono schiacciate. Unica grazia salvifica fu il fatto che i miei bambini fossero già dentro al teatro e che così non furono costretti a vedere il loro padre vittima di bullismo. Sì, mi sono trovato in situazioni di merda che nessuno dovrebbe mai trovarsi ad affrontare.

Attraverso questo processo, ma in un modo più misurato di quello di un masso che mi apre in due il cranio, sono stato condotto su un differente cammino di pensiero. Per quale motivo la gente si comporta così? Dovrei forse perdonare il mio assalitore? Forse è solo gente confusa, perché nessuno nasce così malvagio e meschino. Qual è l’etica di ogni singola situazione?

Penso che questa costante messa in discussione della realtà ci costringa a intraprendere un viaggio filosofico. Con me di certo è stato così. E si tratta di un viaggio che comprende parecchie prospettive, non ultima un’interpretazione più chiara della paura. Questa, peraltro, non giustifica l’importanza che molti di noi le attribuiscono. Questo non vuol dire che non dovremmo preoccuparci del nostro benessere; no, vuol solo dire che con ogni probabilità il risultato sarà sempre lo stesso, indipendentemente dal fatto che siamo paralizzati o meno dalla paura. Coraggiosa è la capacità di confidare nel fatto che sarà l’universo a provvedere.

Undici anni dopo l’infortunio al cervello feci la mia prima arrampicata da primo da quando avevo avuto l’incidente.

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Chiaramente sarebbe stato più sicuro rimanersene alla base e non rischiare il collo. Io però avevo capito che c’era un’opportunità di crescita lì, sulla montagna. Per quello vado lo stesso a scalare. Col passare degli anni poi, scoprii che questo coraggio consiste nell’essenziale e spesso difficile capacità di vivere nel presente e di non cercare anticipazioni del futuro.

Fu però solo quando mi imbarcai a forza di pedalate in un viaggio attraverso l’altopiano tibetano che arrivai a comprendere cosa comportasse davvero essere nel momento presente. In Tibet mi resi conto di non essere nemmeno lontanamente tanto importante quanto pensassi di essere.

Fu poi solo mentre facevo girare monotonamente i pedali lungo la strada per l’Everest che compresi l’effetto rivoluzionario che un pellegrinaggio può avere sulle nostre vite.

La monotonia di pedalare lungo l’altopiano del Tibet mi ha fornito un gradito spazio per l’introspezione. Ho potuto ricordare migliaia di esperienze belle e terrificanti tra le montagne. Guardare dall’alto il blu di un ghiacciaio pieno di crepacci tortuosi da una torre rocciosa in Pakistan, come se stessi guardando per la prima volta il tipo di immagini satellitari che vediamo così comunemente ora su Google Earth… Da solo, sospeso su una parete alta un chilometro e mezzo in Patagonia, con solo una corda sottile che scompare in vorticose nuvole bianche sopra e sotto di me… Aggrappato a una parete di ardesia gallese, tenendomi sulle sole punte delle dita; trenta metri sopra le rocce frastagliate, sapendo che una sola mossa falsa avrebbe voluto dire la mia fine… Gli spettri di Brocken sull’Eiger nelle Alpi svizzere… Passi nella torbiera tutta illuminata dalle alghe fosforescenti sull’Isola di Lewis… Oppure il globo rosso del sole di mezzanotte, visto da una parete sull’Isola di Baffin.

Durante le tante discussioni avute con la nostra guida tibetana e con i monaci che avevo incontrato sull’Altopiano, ero arrivato a capire che molte persone in Tibet avevano una visione del mondo simile a quella che avevo, per una sorta di osmosi, appreso tra le montagne. Arrivai a capire che andando sulla montagna ad affrontare le mie paure più profonde stavo imparando a vivere il momento, un insegnamento di base incarnato nella filosofia buddhista.

Dopo aver passato su quella cengia quella che mi era sembrata un’eternità, mi resi conto che mi stavano agganciando all’imbrago del mio soccorritore. Quindi che mi stavano calando fin dentro a una barca sballottata dalle onde.

Quando arrivò l’onda della marea, Neale tagliò la corda ed ambedue finimmo dentro quella barca che partì a razzo e mi portò fino a un elicottero che stava aspettando sulla spiaggia. Una cosa davvero straordinaria.

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Arrivato all’ospedale il chirurgo dovette lavorare tutta la notte per salvarmi la vita. Iniziò così nel 1998 la spedizione più lunga alla quale abbia mai partecipato, quella che sto ancora portando avanti. E sono state proprio la mia capacità di ripresa e la fede in me stesso fatta crescere grazie ad anni di scalate su roccia e di alpinismo a mettermi in grado di affrontare la sfida della mia seconda vita.

In tutto l’anno passato in un ospedale di Merseyside dopo il mio salvataggio, ho sempre dato l’impressione di aver saltato le cinque fasi del dolore. Non sono mai passato in nessuna occasione attraverso la fase della negazione. Non mi sono mai trovato a chiedermi, seduto sulla sedia a rotelle: «Che senso ha tutto ciò?».

Non me la sono mai presa con il Totem Pole o con me stesso. Non mi sono mai chiesto: «Perché io?». Non sono mai sceso a patti con qualche dio e tanto meno ho sussurrato alla notte qualche “Se solo…” Ero comunque sprofondato in una grande depressione al pensiero che non sarei mai più stato in grado di tornare a scalare.

Non molto tempo fa, lo scrittore David Roberts mi ha ricordato di quella volta che era venuto da me in Galles per farmi un’intervista per il National Geographic Adventure. Avevo appena scritto The Totem Pole e avevo vinto il più grande premio di letteratura di montagna, il Boardman Tasker, e il Gran Premio al Festival del Libro di Montagna a Banff, quindi facevo notizia.

Mi portò fino alla mia falesia del cuore, Gogarth, sull’isola di Anglesey. Zoppicai fino al bordo della scogliera e lì, seduto tra i gigli di mare a guardare sotto di me i flutti tempestosi del Mare d’Irlanda, mentre pulcinelle di mare e urie volteggiavano davanti alla parete, crollai e mi misi a singhiozzare per ciò che avevo perso.

Ma, in primo luogo, perché andare a scalare? Dopo tutto ci sono almeno mille ragioni per non scalare una montagna. Caduta di rocce, ipotermia, valanghe, mal di montagna, il rischio di cadere, condizioni meteo durissime o anche solo la durezza di tutto l’insieme. Quando decisi di guardare il tutto con attenzione, mi resi conto che esiste una sola e unica ragione per scalare una roccia o una montagna. Può essere la più bella montagna mai vista. Può trovarsi in un distante angolo del mondo che hai sempre voluto visitare. Potrebbe essere una linea dall’aspetto futuristico che muore dalla voglia di essere scalata o che uno decide di scalare per puro allenamento e la vista dalla cima. Non importa quali possano essere le ragioni. La ragione per cui scaliamo è la sfida.

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Questo magari suona banale. «Ma certo che è per la sfida!» – mi pare di sentirvi dire. Questa sfida però ha al suo centro mettersi in discussione, e questo mettersi in discussione è fondamentale se vogliamo vivere al massimo la nostra vita. Sfidarsi e mettersi in discussione, se fatto con sufficiente frequenza, ci spinge a dare il meglio, a essere al meglio, a sforzarci di essere più a nostro agio con le nostre inevitabili paure, ad avere più fiducia e a saperci impegnare di più. Ci permette di inserire all’interno di una prospettiva eventi dolorosi come la malattia, il dolore, la perdita e, oserei dire, ci consente di vivere una vita più armoniosa.

Così, nonostante la mia depressione, nel giro di pochi mesi ero riuscito a venire fuori dal profondo pozzo della disperazione e avevo accettato la mia situazione. Come era stato possibile? Sospettavo che avesse a che fare con l’aver trascorso la mia vita in montagna. Se avevo ragione, cosa mi aveva insegnato la montagna? Cosa c’era nei luoghi selvaggi a infondermi una tale risolutezza? E cosa della montagna aveva instillato in me questa accettazione del cambiamento e mi aveva portato a far mio il cambiamento più profondo di tutti, la morte? Ciò che mi preoccupa non è come scalare una montagna, ma come la montagna possa aiutarci a capire in cosa cavolo consista la vita.

Questo non è un manuale di istruzioni. In queste pagine non troverete consigli su condizionamento mentale o tecniche fisiche per scalare le montagne. La montagna non è neppure una semplice metafora nietzscheana per il trionfo della volontà, nella quale la valle sta per la mediocrità e la vetta per l’appagamento della realizzazione. Ciò che mi affascina è solo come la montagna e il muoversi su di lei in maniera attenta possano essere una via d’accesso per trascendere il mondo materiale.

Tornando al 1987, stavo facendo a Gogarth la scalata in falesia più terrificante della mia vita. Mi trovavo in una posizione molto precaria in cui una scivolata avrebbe potuto significare la morte, tanto per me che per il mio compagno (che aveva una fiducia grandissima in me). Improvvisamente mi trovai proiettato fuori dal mio corpo. Ero diventato una coscienza separata e osservavo me stesso mentre scalavo con sicura certezza nel fluire dei movimenti e poi – bam! – mi schiantai nuovamente dentro di me alla fine di tutte le difficoltà. Molti scalatori, in situazioni estreme, hanno avuto esperienze extracorporee simili a questa. L’“esperienza di picco”, come la chiamò Maslow nel suo libro del 1964

Religioni, Valori ed Esperienze di Punta1 .

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1. Abraham Maslow, Religions, Values, and Peak Experiences , Ohio State University Press, 1964

Molte sono le vie di accesso alla trascendenza simili a questa: la pittura o la poesia, gli scacchi o il ballo. Tuttavia, quella miscela unica dell’energia della natura e dell’incertezza del successo o addirittura anche della propria sicurezza personale, combinata con la consapevolezza necessaria per fare lo scalatore, rende unica la montagna.

Quando sento il vento, sulla montagna, sento anche un desiderio di scalarla di quelli che strappano il cuore, come se mi stesse chiamando. Quando si ascolta una montagna, nel silenzio, prestandole attenzione, questo desiderio si rivela. Quando passiamo tempo tra le montagne non fuggiamo dai nostri guai. No, torniamo a casa e impariamo ad accettarli.

Questo libro, dunque, è una riflessione personale sulla mia relazione con la montagna e sulle qualità che questa partnership aveva favorito dentro di me e che mi avrebbero permesso di andare incontro a una nuova vita con nuove sfide ogni momento.

Quelle lezioni imparate tra le montagne mi hanno fatto superare un infortunio straziante e un recupero dolorosamente lento. Continuo ripetutamente a farne uso, ogni singolo giorno della mia seconda e radicalmente differente vita. Sono state proprio quelle lezioni a rendere possibile un ritorno al Totem Pole diciotto anni dopo, per affrontare finalmente quel torrione nel mare che tanto male mi aveva fatto. Lo stesso che, paradossalmente, tanto migliore aveva reso la mia vita.

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Paul Pritchard LA VIA PER LA MONTAGNA

LA LIBERTÀ

Il viaggio scende, non sale. È come se la montagna puntasse verso il centro della terra invece che tendere verso il cielo. Invece di trascendere la sofferenza di tutte le creature, ci dirigiamo verso la turbolenza e il dubbio. Ci entriamo saltando. Scivolando. In punta di piedi… Al nostro passo, senza essere veloci o aggressivi, scendiamo e scendiamo ancora. Con noi si muovono milioni di altri, che come noi si risvegliano dalla paura. Nel fondo scopriamo l’acqua… Proprio laggiù, nel folto delle cose, scopriamo l’amore che non muore.

– Pema Chödrön, Se il mondo ti crolla addosso

Quando ero bambino mia madre mi portava spesso a fare camminate sui colli, alla scoperta di tutto il Regno Unito. Intorno alla nostra casa sulle brughiere c’erano i monti Pennini, meta pressoché quotidiana delle nostre esplorazioni. Di tanto in tanto andavamo a fare gite più lunghe, al Lake District in Inghilterra o a Eryri (Snowdonia) in Galles. Fu tuttavia in Scozia, sull’isola di Arran che mi resi conto in quale modo un oggetto inanimato come una montagna possa diventare un compagno e un mentore.

Mia madre all’epoca aveva all’incirca quarant’anni, più giovane di quanto sia io adesso che me ne sto qui seduto alla scrivania a ricordare queste avventure, che qualcuno potrebbe anche definire un po’ da pazzi.

25 LA LIBERTÀ

All’epoca avevo all’incirca undici anni ed ero al primo anno di scuola media. Quella particolare “vacanza in cammino” era destinata a diventare la mia prima esperienza di quella passione totale che arriva con la paura. Fu proprio attraverso quella paura, dovuta al fatto che io e mia madre avevamo rischiato la vita, che arrivai a sentirmi libero, veramente libero, per la prima volta nella mia vita.

Tornato a casa mia a Bolton, una squallida località avviata a diventare rapidamente una ex-cittadina industriale nelle brughiere del Lancashire, mi misi a spulciare la collezione di guide escursionistiche di mia madre, composta per la maggior parte dalle famose guide escursionistiche illustrate di Alfred Wainwright. Mia madre aveva nella libreria una considerevole collezione di libri di quel beneamato figlio del Lancashire, con quei disegni in bianco e nero squisitamente e raffinatamente dettagliati… Ne aveva centinaia, migliaia.

Avevo visto uno schizzo minuzioso del pericoloso Passo della Strega in quello che era allora l’ultimo libro di Wainwright, Disegni di Montagne Scozzesi

Volume Sei. Ero molto incuriosito da quella formazione, Ceum na Caillich in gaelico, un profondo intaglio sulla cresta del Caisteal Abhail in cima al Glen Sannox sull’isola di Arran. “Il Passo” richiede un certo livello di confidenza con le scalate su roccia perché lo si riesca a effettuare. Ne divenni ossessionato e pregai mia madre di portarmi lì. Fortunatamente aveva bei ricordi ad Arran, di un tempo in cui lei e mio padre stavano ancora bene assieme. Mamma e papà erano andati in quell’isola a fare la luna di miele ed erano saliti fin sulla vetta più alta, la Goat Fell. Accettò. La Datsun blu della mamma fu stipata di materiali e provviste e passammo una settimana qua e là tra i vari ostelli. Solo ora, mentre mi ritrovo a scriverne, mi rendo conto di quanto coraggio abbia avuto.

Il giorno prima della nostra avventura per poco non ci lasciai le penne per l’attacco di un cigno. All’epoca facevo collezione di uova che poi tenevo con cura all’interno di una scatola di un modellino di bombardiere Lancaster dell’Airfix. Li tenevo avvolti e divisi nella segatura, divisi per file, dal più piccolo al più grande, dallo scricciolo al fringuello, fino al tordo e all’oca canadese. Dovevo però ancora procurarmi l’uovo più piccolo della Gran Bretagna, il cardellino, e il più grande che, come ogni scolaro sapeva, era quello del cigno reale. Avevo giustappunto adocchiato una magnifica femmina di cigno reale sul suo nido all’imbocco di una piccola insenatura a Loch Ranza.

Mio padre mi aveva detto che il capitano Webb si era cosparso di vaselina per la sua traversata a nuoto del Canale della Manica.

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Dato che io invece ne ero sprovvisto, mi diedi al suo posto un’abbondante passata di Vicks Vaporub su tutto il corpo.

Partii poi nuotando nelle fredde acque del lago, o quanto meno facendo quanto di più simile al nuoto fossi in grado di fare, visto che nelle brughiere del Lancashire c’era ben poca possibilità di praticare quella attività.

Mentre mi stavo avvicinando vidi che la madre era fuori dal nido. Nonostante il Vaporub stesse facendo meravigliosamente il suo malefico lavoro di tenere il calore ben lontano dal mio corpo, mi costò gran fatica contenere l’eccitazione quando adocchiai un gruppo di ben sei di quelle tanto agognate uova bianche in quell’enorme nido. Mentre stavo respirando affannosamente per tenermi a mala pena a filo d’acqua, sentii improvvisamente dietro di me un suono simile a quello di un clacson e subito dopo un colpo secco dietro la testa. Mi girai e vidi il cielo oscurarsi per l’arrivo di quell’immensa madre bianca. Riuscii a fatica a tornare a riva, rischiando di annegare, e fu quella l’ultima volta in cui tentai di andare a rubare un uovo di un uccello selvaggio.

Il mattino dopo io e mia madre ci svegliammo di buon’ora e andammo a mangiare le nostre uova di gallina à la coque nella cucina deserta dell’ostello dei giovani. La nebbia stava lentamente calando sopra i campi battuti dal sole e stava avvolgendo le rovine del Lochranza Castle.

Parcheggiammo l’automobile all’entrata di Glen Sannox dove iniziammo la nostra escursione. Mi comportavo come un cagnolino eccitato, correndo avanti per poi trotterellare indietro per dire a mia mamma di un gallo cedrone o di un fiore colorato visti poco più avanti. Raggiungemmo rapidamente la cima e una volta lì vagammo attorno alle surreali torri di granito in una nuvola che si stava rapidamente addensando. Quando eravamo partiti la mattinata era calda e perfettamente immobile, c’era solo qualche vago cirro. Ora il vento stava spingendo il grigio vapore acqueo attraverso i torrioni della vetta con una certa forza. Ci rannicchiammo dietro uno dei blocchi di granito a mangiare una barretta di muesli mentre il vento aumentava di intensità. Il leggendario Passo della Strega era lì a due passi da noi. Vedevo che la cresta aveva una improvvisa interruzione per poi continuare poco più avanti.

Estraendo la mappa dalla sua custodia di plastica trasparente iniziai a lottare per far sì che si piegasse in modo da mostrare la nostra posizione attuale, ma a metà dell’operazione una forte folata di vento me la strappò di mano. Subito dopo essermi sfuggita, la mappa assunse un’aria aggraziata. Era libera. Io e mia madre potevamo solo guardarla, a bocca aperta, danzare nell’aria come un grande uccello bianco che portava con sé, nelle sue grinfie, il nostro percorso, una linea tratteggiata di colore verde.

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Avevo scoperto di essere già ben informato in merito alla disciplina e all’impegno necessari per intraprendere un pellegrinaggio così arduo.

Ogni singola montagna sulla quale ero stato nel corso degli anni mi aveva preparato sempre più a un simile viaggio ed ero ormai abituato ad affrontare inevitabilmente dolore e scomodità. Muovendomi tra epilessia e spasticità, sentendo la stilettata del dolore nel ginocchio a ogni pedalata e soffrendo di un dolore costante alla colonna lombare, a tutti gli effetti mi stavo sottoponendo a disciplina e umiltà nello stesso modo in cui i monaci o le monache o i semplici pellegrini buddhisti non possono avviarsi al proprio viaggio di scoperta di sé senza un bel po’ di disagio.

Durante tutte quelle ore di pedalata meditativa senza sosta lungo l’altopiano ero arrivato a capire qualcosa: avevo trovato anche la devozione, quella che avevo scoperto già parecchio tempo prima. La devozione per le mie “divinità” personali, le forze degli elementi. Il vento che colpisce tutto l’altopiano. Il sole cocente dell’alta montagna. Le vivifiche precipitazioni nevose e la pioggia sferzante. L’atmosfera, quel manto impalpabile che protegge ogni forma di vita sulla Terra.

L’azoto, l’ossigeno, l’argon e l’anidride carbonica nelle quantità giuste per la nostra unica biologia. Una persona arriva di certo a comprendere la sacra importanza dell’aria quando si trova a muoversi in alta montagna. Soprattutto la natura selvaggia, della quale facevo parte.

A ogni singolo giro di pedali io mi stavo trasformando. Muovendomi all’interno di quel paesaggio stavo riaffermando la mia vita come parte di quello stesso paesaggio. Stavo tornando da me, a casa mia, come facciamo tutti nei momenti più importanti delle nostre vite.

Stavo tornando a casa.

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IL DOLORE

Ci sono altezze dell’anima dalle quali perfino la tragedia cessa di apparire tragica. – Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male

Ghiaccio scatolato o a guscio d’uovo. È così che gli scalatori in montagna chiamano quella fragile pellicola che racchiude un nucleo interno di morbida neve. È un pericolo avventurarsi erroneamente nel suo fragile interno.

A seconda di quanto è ripido può diventare letale. Nelle montagne della Scozia di solito si forma dopo le tempeste che vanno a ricoprire una cascata ghiacciata con strati di neve seguiti da spruzzi d’acqua, combinati in rapido ciclo di gelo-disgelo.

Questa sequenza forma un guscio d’uovo che va a coprire, isolandola, la parte interna della cascata, con il ghiaccio che diventa gas senza passare attraverso lo stadio liquido. Questo processo di sublimazione trasforma l’intera struttura in qualcosa di precario e fragile, simile a una scala di legno marcio e altrettanto inaffidabile.

Stavo scalando una cascata ghiacciata chiamata Centre Post Direct sulla montagna delle Highland scozzesi dal nome di Creag Meagaidh (che si pronuncia Creg Meggie), quando andai a colpire con la piccozza una chiazza di questa malefica sostanza.

71 IL DOLORE

Dopo aver sfondato quel fragile guscio tutto ciò che trovai dietro fu solo polvere soffice e volatile. Feci un buco, abbastanza profondo da inghiottire tutto il mio braccio fino in fondo. Nessuna traccia di ghiaccio solido. Provai ad afferrare la piccozza per la testa in modo tale da poter usare il manico come prolungamento del braccio di almeno un altro avambraccio. Niente, nemmeno così riuscii a trovare alcunché di solido. Ci riprovai, stavolta con ambedue le braccia, con un movimento degno di un Transformer, usando le spalle per muovermi di pochi centimetri. Avevo i ramponi in equilibrio precario sul guscio, ma quando tentai di sollevare lo scarpone sinistro, quello destro penetrò nel ghiaccio e sprofondò di qualche centimetro con uno scricchiolio nauseante. Poteva venire giù tutto. Avevo i piedi che formicolavano dolorosamente, e mentre l’adrenalina mi faceva affluire il sangue al cuore mi trovai costretto ad abbandonare ogni tentativo di salita.

Avevo piazzato due viti da ghiaccio, dei tubetti da venti centimetri in titanio per l’industria aeronautica di fabbricazione polacca che avevo comperato da Sean Smith, che era stato in Polonia per uno scambio con il British Mountaineering Council. Uno si trovava nel canalone circa cinque metri più in alto e sulla destra rispetto a Robert e Nick, i miei compagni di cordata. L’altra vite, nell’ultimo tratto di ghiaccio decente, si trovava all’incirca venti metri sotto di me, sotto una pancia, quindi non riuscivo a vederlo.

Guardando verso il basso mi resi conto di aver scavato una sorta di trincea verticale che risaliva quella parete gelata, nuotando contro la corrente gravitazionale. Compresi anche che non potevo andare avanti, così timidamente presi la decisione di tornare giù, nonostante scendere in arrampicata su ghiaccio non sia mai cosa semplice e il fragile stato del terreno da ridscendere rendesse la prospettiva ancor più incerta e tetra.

Sapere di essere sul punto di cadere è una sensazione curiosa. Stai ancora scalando, non stai soffrendo, stai ancora pensando ed elaborando il prossimo movimento da fare. Io però sapevo che stavo per cadere. Tutto quel processo interiore aveva qualcosa di inevitabile, ma non è che uno possa prendere e buttarsi giù dalla parete così, come se nulla fosse. Così, in un anelito volto ad abbreviare il volo, istintivamente feci tre movimenti all’indietro per avvicinarmi alla mia ultima protezione. Poi, gradualmente, mi accomiatai dal Creag Meagaidh: dapprima triturai con lo scarpone sinistro parecchi centimetri di quel guscio, costringendo ad assumersi l’onere della mia conservazione personale proprio le braccia, che, per quanto fossero infilate fino in fondo a quel buco, non avevano nulla a cui aggrapparsi per impedire che io perdessi del tutto il contatto con la montagna.

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Urlai, più per avvisare i miei compagni che per la paura, e poi mi imbarcai in quel viaggio attraverso lo spazio-tempo.

Come la maggior parte delle persone che conosco dedite alle scalate, anch’io ho fatto una gran quantità di voli, fa parte del gioco, e l’unica cosa che i voli lunghi hanno in comune è che sembrano sempre aver luogo in una distorsione temporale. Mentre si è nell’atto di cadere questo sembra durare un’eternità, ma quando ci si ferma sembra sia durato solo un istante: una sensazione curiosa e non del tutto spiacevole.

La prima cosa che riesco a ricordare è il piccozzino che lentamente mi si avvicina al volto e mi colpisce all’occhio. In seguito, dopo essere stato portato in elicottero all’ospedale di Fort William con l’intervento della squadra del Soccorso Alpino di Lochaber, da una radiografia risultò che l’attrezzo mi aveva fratturato l’osso frontale del cranio e l’orbita dell’occhio destro. Guardandomi allo specchio scoprii di avere un bulbo oculare emorragico di color rosso fuoco come il robot di Terminator. Il mio ricordo immediatamente successivo è quello delle punte dei ramponi dello scarpone destro che cercavano di far presa sul pendio una volta arrivato a un tratto meno ripido del canalone, tratto nel quale mi fratturai il malleolo mediale della caviglia. Iniziò un carosello, simile a quello della corsa delle bighe in Ben-Hur, un turbinio di punte di metallo che giravano veloci giù verso la brughiera alla base del Glen Spean.

Poi finalmente la corda entrò in tensione più di cinquanta metri al di sotto del punto da dove era partita quella mia corsa vorticosa pochi secondi prima. Quando tagliai il traguardo c’era il silenzio assoluto, con l’agonia pronta a iniziare subito dopo. A terra, piegato all’indietro sull’imbrago, mi resi conto che quella montagna mi aveva usato come uno yo-yo umano all’altro capo di una corda molto sottile ed elastica, di 8,8 millimetri di diametro. Una radiografia alla schiena rivelò che quattro vertebre lombari su cinque avevano subito uno schiacciamento a causa della caduta. In tutto solo sei ossa rotte. Me l’ero cavata davvero a buon prezzo per un volo così lungo.

Il mio collega Nick Kekus mi venne in aiuto. Fissò un ancoraggio su una parete laterale del canalone e iniziò a calarmi a corda. Lottavo per respirare mentre la mia schiena ferita amplificava il dolore di ogni singola minima asperità andassi a grattare, nonostante lui cercasse di eseguire l’operazione con la massima delicatezza possibile. Alla fine fui libero di accasciarmi alla base di quella parete nella sua veste invernale. Nick poi si calò e recuperò le corde.

Ero steso su quel terreno ghiacciato e duro mentre ormai stava arrivando il buio, in attesa della squadra di Lochaber e del loro grande elicottero giallo.

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Rimasi lì, tutto preso dal mio delirio, mentre a ogni respiro l’aria mi riempiva i polmoni e sembrava spingermi la colonna vertebrale fratturata contro il terreno gelato. Era una notte scura e limpida, e mi persi tra le stelle del Braccio del Cigno nella Via Lattea.

L’elicottero atterrò e ne vennero fuori cinque scozzesi belli in carne che iniziarono a muoversi in silenzio attorno a me mentre potevo vedere i loro respiri alla luce delle lampade frontali per effetto della condensazione.

Sentii una serie di burberi grugniti scozzesi e poi, mentre mi stavano spostando sulla barella, una di quelle figure in profilo mi disse: «Eh Paul, cosa diavolo ti sei fatto stavolta, pezzo di idiota?». Probabilmente lo conoscevo, ma la combinazione del mio delirio unita al dolore e alla cecità causata dalla sua lampada frontale mi impedì di rispondere con il mio solito umorismo.

Questa particolare disavventura fu il secondo di tre incidenti molto pericolosi per la mia vita che ebbi nel giro di sei anni. Il primo era stato un volo in mare da trenta metri d’altezza, in Galles, quando a tutti gli effetti affogai, dopo essere rimasto sott’acqua per dieci minuti. Di questo parleremo dopo. L’ultimo incidente serio fu quello che ebbe luogo in Tasmania sul Totem Pole. Tutte e tre queste disgrazie erano assolutamente evitabili: se solo non avessi corso rischi… Se solo fossi rimasto al sicuro sul divano… Se solo non avessi deciso di fare quel tipo di vita… Io però l’avevo fatto. Soffrii molto durante ognuna di quelle disavventure, tanto che ora ritengo di essere una sorta di esperto in questioni di dolore.

Probabilmente do l’idea di essere uno sfortunato o uno con cui non viene la voglia di legarsi alla stessa corda. D’altra parte, la lista di scalatori molto abili eppure caduti è molto lunga. Può essere davvero sottile la linea che divide il riuscire ad attaccarsi tantissimi metri al di sopra dell’ultima protezione con la punta delle dita e il commettere quel piccolissimo errore che ti distrugge. Quando ci si muove su quella linea sottile, di tanto in tanto sono destinati a succedere anche degli incidenti. Questa è la realtà delle scalate.

Alcuni degli scalatori più forti di tutti i tempi sono morti facendo ciò che amavano: Wanda Rutkiewicz, John Bachar, Anatoli Boukreev, Alison Hargreaves. Così, mentre non augurerei a nessuno schiena ed arti rotti, fratture al cranio, lesioni cerebrali, emiplegia, epilessia post-traumatica, afasia, disfasia e agnosia facciale, ora che queste cose a me sono successe, mi sembra che la cosa migliore da fare sia quella di accettarle, di imparare da loro ciò che posso fare e andare avanti a testa alta, anche se magari lentamente.

Ecco, credo che questo sia il modo migliore di agire per tutti noi quando accade una disgrazia.

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Nel corso degli anni ho scoperto come questa accettazione mi abbia dato la risolutezza necessaria ad affrontare le vicissitudini della vita con grazia e coraggio. Ho visto per esperienza diretta ciò che possiamo imparare dalle nostre disgrazie individuali. Quando succede il peggio, non è la fine. È un inizio.

Oltre a ciò, io adesso capisco che il dolore fisico e l’angoscia mentale non sono altro che due facce della stessa medaglia. Ambedue hanno la stessa causa, le stesse “firme neurali”.

In uno studio condotto nel 2013 presso l’Università della British Columbia, persone in preda alla disperazione e al terrore esistenziale prendevano il paracetamolo e dicevano di sentirsi meglio. Ovviamente non sto giustificando l’assunzione di antidolorifici per evitare ciò che ci rende umani, la fonte di ogni grande arte e filosofia. No, è solo per sottolineare che il dolore fisico è anche un’esperienza emotiva e soggettiva.

Quando, a causa delle mie disabilità, vado a sbattere con la faccia sulle rocce mentre sto scendendo troppo rapidamente da un ripido sentiero di montagna, mi provoco una dolorosa distorsione al braccio e mi taglio la mano, non provo solo dolore: allo stesso tempo sono deluso di me stesso e contemporaneamente mi arrabbio con la situazione, così la crisi si amplifica. Tuttavia, con il passare del tempo, ho imparato a non essere più così reattivo.

Anche se dolore e lutti prima o poi colpiscono tutti noi, alle persone va dato lo spazio per comprendere ciò che stanno provando. Ognuno di noi si troverà di fronte a delle difficoltà, a un certo punto della vita. Una giornata pessima capiterà a tutti, prima o poi. A fare la differenza quando si presenta un dolore è come si reagisce allo stesso. È il nostro rapporto con il dolore a determinare quanto soffriamo.

L’ho già detto in precedenza parecchie volte: l’incidente sul Totem Pole è stata la cosa migliore che mi sia mai capitata. Molte sono le persone che fanno fatica a crederci. «Come può l’essere diventato un epilettico emiplegico con difficoltà di parola e di memoria essere anche la cosa migliore che ti sia mai capitata?» mi viene chiesto sempre, ogniqualvolta faccia una delle mie presentazioni.

Non intendo nemmeno dire che se quel masso non mi fosse atterrato in testa, come in una semplice realtà alternativa alla Sliding Doors, io non mi sarei trasferito in Tasmania e non avrei sposato la mia infermiera ed ex-compagna Jane, che mi ha donato due figli stupendi, Cadi ed Eli. No, è molto di più di questo. La mia esperienza sul Totem Pole mi ha insegnato a essere incrollabile di fronte alle difficoltà e alle avversità. Mi ha insegnato l’importanza dell’accettazione totale del modo in cui stanno le cose, in quel preciso momento.

75 IL DOLORE

Le persone care rimaste sono addolorate e hanno ragione di farlo. Il dolore è naturale. Sono stato a più funerali di giovani scalatori di quanti ne voglia ricordare. Queste morti sono dure per le famiglie di coloro che non ci sono più. La vita di alcune persone, soprattutto di alcuni scalatori, sembra essere insolitamente effimera. È come un fiore sbocciato durante una gelata fuori stagione.

Ognuno di noi è impermanente quanto una nevicata a primavera e nelle nostre vite tutto è fondamentalmente imprevedibile.

Nessuno di noi sa quando dovrà morire. Non sarebbe allora possibile per le famiglie accettare radicalmente anche la morte delle persone amate?

La morte ci circonda ogni giorno e chi ha perso qualcuno a lui caro deve sapere che quell’amico, madre o fratello è semplicemente tornato a casa, nell’uno. Con questa consapevolezza c’è una ragione per festeggiare una vita ben vissuta, per quanto breve.

Può sembrare che pensare continuamente alla morte, come sono incline a fare, metta un freno alla vita. Io, tuttavia, sostengo spesso che la contemplazione della nostra morte è essenziale se vogliamo ottenere il massimo dalla nostra vita.

Come ebbe a dire il pioniere della psichiatria esistenziale Irvin Yalom, “l’esistenza non può essere posposta”. Per vivere una vita piena dobbiamo conoscere fin nel dettaglio i nostri limiti, il più profondo dei quali è non sapere quanto a lungo rimarremo aggrappati a questa roccia che chiamiamo Terra. La nostra vita è la più grande delle prime ascensioni che faremo mai. Non voltatevi a guardare l’altra cresta pensando di aver scelto la via sbagliata. La via al di sopra può sembrare difficile, ma voi avete scelto la linea a piombo. Certo, potreste trovarvi a dover traversare ogni tanto spostandovi di lato per evitare alcuni ostacoli. Ciò di cui avete bisogno però è provare a dare il vostro meglio su questo tratto della vostra scalata, proprio qui, proprio ora.

Quando affrontiamo la morte sappiamo di essere vivi. Capiamo dunque di essere parte dell’eternità. In quel momento della morte ho visto che avevo vissuto una vita brancolando nel buio. Fino alla mia morte non avevo conosciuto la bellezza. Non veramente. Non conoscevo la beatitudine. Non ho mai provato soggezione.

Finché non sono morto.

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Paul Pritchard LA VIA PER LA MONTAGNA

LA q UIETE

E vanno ad ammirare le montagne altissime e le onde paurose del mare e il bacino dei grandi fiumi e l’orizzonte dell’oceano sconfinato e il girotondo delle stelle: eppure trascurano il mistero di sé stessi, gli uomini, senza un pensiero.

Sant’Agostino, le Confessioni

La Cordillera Real, Bolivia. Mi ero svegliato in una notte gelida. Il raggio della mia lampada frontale illuminava curiose rose di ghiaccio create dalla brina sui ciuffi d’erba intorno al mio sacco a pelo, steso in un recinto per gli alpaca. In alto si stagliava la parete sud dell’Ala Izquierda del Condoriri, l’Ala sinistra del Condor. Il cielo notturno era una massa di stelle di Van Gogh e di meteoriti che mandavano scintille entrando nell’atmosfera del pianeta.

Non disponendo di una tenda, a far da cornice sopra la mia testa c’erano le costellazioni di Cassiopea, della Croce del Sud e del Triangolo Australe. Il possente diamante di Sirio brillava e mi scaldava il viso. Beh, se non altro sembrava proprio farlo.

Spensi la frontale e mi sdraiai con le mani dietro la testa e subito dopo, abbastanza inaspettatamente, iniziai a piangere come un bambino.

Chi mi conosce sa bene che da dopo il Totem Pole tendo ad applicare estenuanti strati di complessità a ogni e qualsivoglia evento.

119 LA q UIETE

Mi metto a stravolgere anche la più semplice delle cose, come potrebbe essere fare del giardinaggio, fino a portarla alla sua logica conclusione filosofica. «Piantando i semi di questa piantina di lattuga sto metaforicamente ponendo le basi per il cambiamento, ovvero sto lasciando andare il passato per abbracciare il futuro? O sto invece cercando di distrarmi dal mio destino finale, la morte, come forma di gestione del terrore della mia paura esistenziale?».

Quella notte straordinaria sull’Altipiano aveva invece avuto luogo molto prima che quel masso mi arrivasse in testa. Era il 1990 e avevo ventitré anni.

Chiunque di noi abbia dormito sotto la Via Lattea ha provato quello stupore. E anche se non credo che possiamo semplicemente attribuire tali sensazioni all’incomprensibile vastità del cosmo, trovo comunque sbalorditivo che se viaggiassimo alla velocità della luce faremmo il giro della Terra sette volte al secondo. E che viaggiando a questa velocità ci vorrebbero quattro ore per raggiungere Nettuno. Quattro anni per arrivare a Proxima Centauri, la stella più vicina a noi. Venticinquemila anni per raggiungere l’addensamento del Cane Maggiore, la galassia più vicina a noi. Undici milioni di anni fino alla galassia ESO 540-030 nel Gruppo dello Scultore. E trentadue miliardi di anni per raggiungere GN-z11, l’oggetto più distante mai visto nell’universo (nonostante l’universo abbia solo 13 miliardi di anni, col suo tasso di espansione gli ci vorrebbero 32 miliardi di anni per raggiungerlo).

Assolutamente tutti noi abbiamo avuto epifanie di questo tipo in un momento o nell’altro. Sentimenti esistenziali di insignificanza come questi fanno parte della condizione umana. La sensazione di essere minuscoli granelli di polvere sembra voler far capire che nel grande schema delle cose noi non contiamo nulla.

La tentazione di lasciarsi sopraffare prevale per pochi minuti, al massimo per mezz’ora. Arriviamo persino a singhiozzare. Poi viene nuovamente riposta in qualche polveroso recesso della mente al fine di preservare la nostra sanità mentale.

Quella notte nella Cordillera, guardando verso l’alto al cielo notturno ebbi una di quelle esperienze di insignificanza. Come sarebbe facile pensare che gli esseri umani non contino, che siamo irrilevanti in questo universo di grandi eventi cosmici e di distanze inconoscibili… Ovviamente penso che noi contiamo. Contiamo tanto quanto ogni altra cosa nell’universo perché noi siamo l’universo. E l’universo è noi. Siamo tutti fatti degli stessi composti gassosi come la polverosa Via Lattea che incombe sopra di noi. Ognuno dei nostri corpi è vuoto e privo di vita come l’ampio cielo notturno.

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Paul Pritchard LA VIA PER LA MONTAGNA

Siamo fatti della stessa materia della montagna e della neve su di essa. I nostri corpi potrebbero sembrare solidi e tangibili, ma ognuno di noi è una casa vuota.

Quella notte, le mani giunte dietro la testa, sentii la libertà e la solidarietà che possono venire solo dal sapere che il tutto è contenuto nell’uno e che l’uno è contenuto nel tutto.

Ebbi delle convulsioni e il volto solcato da innumerevoli lacrime. Pareva stessi piangendo per la pura bellezza del tutto, per la vastità del cosmo combinata con la cruda semplicità di ciò che stava sopra di me. Come innumerevoli milioni di persone prima di me, stavo avendo uno di quei momenti in cui “l’universo è davvero enorme e io al suo interno sono insignificante”.

Forse lo ero. Eppure non era l’unica ragione per cui ero così sopraffatto dall’emozione quella notte amara, anche se in quel momento avevo solo un’idea del perché stessi piangendo così dolorosamente. Mi ci vollero otto anni e l’incidente sul Totem Pole per elaborarlo.

Avevo provato in precedenza questa dissoluzione dell’ego, questa singolarità psicologica, in rari momenti, da ragazzino nelle montagne di Scozia, Inghilterra e Galles quando, in un modo piuttosto simile a quello, mi ero lasciato assorbire dal paesaggio. Quelle rivelazioni si presentarono in maniera più profonda in seguito, quando iniziai a scalare su roccia. Intuizioni, solo intraviste, come vedere un volto sulla porta di casa attraverso un vetro smerigliato, oppure vedere il mio corpo arrampicarsi su una scogliera marina o il tempo rallentare fino a fermarsi durante una caduta particolarmente lunga da una cava di ardesia vicino a casa mia a Gwynedd.

In seguito, dopo che quel masso aveva distrutto la mia capacità di effettuare i complessi esercizi ginnici richiesti dalla montagna, avrei sperimentato la stessa prospettiva della realtà durante la meditazione.

Mi piacciono gli esperimenti di pensiero, e uno dei più famosi coinvolge Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen. Viene chiamato “il paradosso di EPR”. I tre fisici insieme dimostrarono che la teoria della meccanica quantistica era incompleta. Il comportamento di una particella in ciò che è conosciuto come una coppia intrecciata non aderiva alle leggi della fisica ed era, come disse Einstein, “spettrale”. Una delle coppie sembrava sapere quale misura era stata eseguita sull’altra, anche se una distanza considerevole (in termini quantistici) separava le due particelle.

Il paradosso di EPR aveva lo scopo di esporre i difetti della teoria quantistica, ma è fondamentale per la meccanica quantistica, dato che dimostra come una particella violi le leggi della fisica classica.

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Paul Pritchard LA VIA PER LA MONTAGNA

Una risonanza magnetica del mio cervello fatta subito dopo l’incidente. Da notare lo spostamento della linea mediana dovuto al suo rigonfiamento.

L’area più chiara è la parte danneggiata.

Foto: Royal Hobart Hospital

I
II
Paul Pritchard LA VIA PER LA MONTAGNA In alto, la famiglia Pritchard nella Cordillera Prebética in Spagna. Mia sorella Tracey (in piedi), mio fratello David e io, seduto in grembo a mia madre. Una foto ancora scattata con il Super 8, circa 1970. Sotto, io e mia madre in una delle nostre molte vacanze a piedi nel Lake District.
III
Molto tempo fa. Arrampicata sul Rainbow Slab, Dinorwig Quarries, Llanberis, Galles. Foto: Paul Williams

In alto, pedalando in Tibet con Carol Hurst. Sullo sfondo il profilo del Chomolungma. Foto: Sharyn Jones Sotto, nei primi tempi del mio recupero pensavo che non avrei mai più potuto viaggiare; mai avrei immaginato di pedalare fino alla montagna più alta del mondo. Foto: Sharyn Jones

IV
Paul Pritchard LA VIA PER LA MONTAGNA
V
La mia pazza famiglia. Da sinistra a destra: io, Cadi Pritchard, Veve Fry, Melinda Oogjes e (davanti) Eli Pritchard. Foto: George Smith

In alto, ed eccomi eccomi qui, a ripetere quel vecchio adagio come un mantra: “Non devo cadere. Non devo cadere”. La mia prima arrampicata da primo dopo l’incidente, ad Arco, Italia. Foto: Davide Negretti Sotto, arrampicando sul Rainbow Slab ancora una volta nel 2009 per il film To the Rainbow. Foto

Chicken Productions

VI
Paul Pritchard LA VIA PER LA MONTAGNA : Bamboo

Sotto

VII
In alto, le riprese a Cape Hauy per l’ascensione del Totem Pole. Foto: David Fraser , a Cape Hauy dopo la salita del Totem Pole. Da sinistra a destra: (davanti) Andy Cianchi, io, Zoe Wilkinson, John Middendorf; (dietro) Melinda Oogjes, Vonna Keller, Steve Monks, Matthew Newton. Foto: Margie Jenkin
VIII
Paul Pritchard LA VIA PER LA MONTAGNA Arrampicando sul Totem Pole. Man mano che salivo, lo stesso Totem Pole sembrava sparire dal livello del mare fino alla larghezza della corda da cui penzolavo. Foto: Melinda Oogjes

L’AVVICINA m ENTO

Dovremmo partire per il più breve dei cammini, forse, nello spirito di un’eterna avventura, per non tornare mai – pronti a rimandare i nostri cuori imbalsamati solo come reliquie ai nostri regni desolati. Se sei pronto a lasciare padre e madre, fratelli e sorelle, moglie e figli e amici per non vederli mai più – se hai pagato i tuoi debiti, fatto testamento, sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero – allora sei pronto a metterti in cammino.

– Henry David Thoreau, Camminare

Dai, vieni con me in questa avventura, ti ci invito io. Farai tu da guida. Ti accompagnerò nell’avvicinamento alla montagna davanti a noi, quella in lontananza. Una volta alla base, preparerai il tuo equipaggiamento con cura e ci imbarcheremo insieme nella sua scalata.

Scendiamo dal veicolo a metà del passo e saliamo sulla strada asfaltata. Ci sono auto parcheggiate nella piazzola di fronte ai massi.

Ti guardo mentre attraversi la strada e afferri la X di legno lichenoso della staccionata. Al momento di fare il primo passo ti senti ansioso, anche se non riesci a capire perché.

Il tuo piede dentro allo scarpone indugia per un momento sulla strada, fotograficamente congelato, in punta di piedi sull’asfalto... E poi parte.

129 L'AVVICINA m ENTO

RINGRAZIAMENTI

Scrivere quello che è essenzialmente un libro di filosofia mi ha messo di fronte a più di qualche difficoltà visto che io non sono né Naess, né Nietzsche. Tuttavia, per le esperienze fatte sulle falesie e in montagna, sento di avere qualcosa da dire. A livello formale non posso affermare di avere un’istruzione di tipo filosofico, con la sola eccezione di quella di tipo buddhista.

Di conseguenza sono dovuto sparire per andare a seguire percorsi di ricerca durati intere settimane e dai quali spesso sono tornato a mani vuote. Tenendo dunque presente il fatto che la filosofia avrà sempre una moltitudine di punti di vista contrari, per scrivere La Via per la Montagna mi ci è voluto un tempo sostanzialmente più lungo rispetto agli altri miei libri.

Ho fatto appello alla conoscenza di tutta una serie di persone, alcune ancora in vita, molte altre scomparse da tempo, attraverso i loro libri e testi.

Ho mutuato molte conoscenze utili per La Via per la Montagna dal mio professore di Filosofia dell’Asia alla University of Tasmania, il Dr. Sonam Thakchoe, e alla Central University of Tibetan Studies di Sarnath, Uttar Pradesh, da me frequentata nel 2015.

La mia gratitudine va alla Fondazione AMP per avermi concesso una borsa di studio dal Tomorrow Fund. Senza la loro generosità per me sarebbe stato pressoché impossibile anche solo iniziare. Grazie davvero.

Sono grato anche ad Arts Tasmania e al Regional Access Fund dell’Australia per la loro generosità. In più, per il sostegno, a Kaz Ross, Steph Calahan e Danielle Wood.

Analogamente vorrei ringraziare il Banff Centre for Arts and Creativity per il sostegno dato al mio progetto tramite il loro programma Mountain and Wilderness Writing. Il mio editor personale presso quell’istituzione, Marni Jackson, ha fatto un ottimo lavoro e mi ha insegnato l’uso corretto dell’apostrofo e di altre sottigliezze grammaticali.

Molte grazie anche agli altri editor di MWW: Tony Whittome e Harley Rustad. Lo stesso ai miei colleghi scrittori, Meghan Moya Finn, Fiona McGlynn, Chris Kassar, Emily Chappell, Eileen Keen, Jim Davidson, Ailsa Ross e Christina Reynolds, i cui appunti e critiche si sono rivelati preziosissimi.

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Per la scalata del Totem Pole vorrei esprimere la mia profonda gratitudine a Catherine Pettman e Matthew Newton di Rummin Productions per le riprese di quanto era destinato a diventare Doing It Scared.

Per i miei libri, poi, sembra essere diventata una tradizione ringraziare Steve Monks… Sì, Steve Monks, tu sei veramente una star.

Vorrei inoltre esprimere il mio apprezzamento per l’opera di Vonna Keller, Jeffrey Blake, Zoe Wilkinson, John Middendorf, David Ross, Andy Kuylaars, Andy Cianchi e Margie Jenkin che sono stati letteralmente dei tuttofare e hanno anche garantito la mia sicurezza. Con loro Peter Curtis e David Fraser per l’audio e la videocamera supplementare, nonché Rian Taylor, Tom Waugh e Gene Millar di Ignite Digi per le loro superbe riprese aeree.

Il supporto direzionale di Rebecca Latham, produttrice di ABC’s Australian Story è stato inestimabile per potermi allineare mentalmente con il Totem Pole. Dato che parliamo del Totem Pole non posso fare a meno di ricordare Celia Bull e Neale Smith, senza i quali non sarei qui a riflettere sul significato della vita, della morte e dell’universo.

Per il Tibet vorrei ringraziare la mia partner a pedali, ovvero quella macchina da guerra di Carol Hurst. Oltre a lei, Sharyn Jones e Chris Jones per aver creato The Journey, un piccolo film davvero grande. Poi ancora Samdrup Tshering, Mel Weber e Jamphel Sonam per il supporto.

Desidero poi ringraziare anche Paul Kronenberg e Sabriye Tenberken di Braille Without Borders e Kanthari. Ho apprezzato inoltre l’aiuto di Anita Pryor e Pete Rae di Adventure Works per avermi aperto gli occhi sui sensazionali risultati che Bush Adventure Therapy ha sui diseredati in Australia.

Per avermi offerto consigli e pensieri sul testo mi sento debitore nei confronti di chi ha letto il mio manoscritto, ovvero George Smith, Neville Rodman, David Roberts, John Middendorf, John e Geraldine Palmer, Tim McFadden e Dave Barnes. Davvero grazie di cuore. Devo esprimere la mia gratitudine anche a Ian Lonsdale ed a Cam Burns per i consigli. Per sempre sarò poi grato a Ken Wilson e Harold Woolley, possano riposare in pace, per aver creduto nei miei scritti e per avermi avviato a La Via per la Montagna. Desidero anche ringraziare il mio editor, Ed Douglas, per l’incoraggiamento e i consigli editoriali.

Grazie infinite a Hazel Findlay per essersi presa il tempo per scrivere un’introduzione ben ponderata.

173 R IN g RAZIA m ENTI

La mia gratitudine va anche ai fotografi: Matthew Newton, Bill Hatcher, Melinda Oogjes, Paul Williams, Lynwen Griffiths e Dave Brown di Bamboo Chicken Productions, Sharyn Jones, Davide Negretti, Margie Jenkin, David Fraser, George Smith e il Royal Hobart Hospital.

Un ringraziamento enorme va anche a Johnny Dawes, Lynn Hill, Geoff Powter e Greg Child per le frasi dedicatemi in copertina. Un ringraziamento speciale va poi al mio editore italiano, Versante Sud, e al mio grande amico e traduttore Luca Calvi.

Amore e ringraziamenti vanno poi a mia madre, Jean Allen, e ai giovani della mia vita, Cadi Pritchard, Eli Pritchard e Veve Fry. Dentro al cuore porto poi il grazie per il contributo della mia compagna, Melinda Oogjes e per le molte intense discussioni filosofiche che abbiamo avuto durante la scrittura di questo libro.

In conclusione, riconosco il dono che i tradizionali custodi della terra ci hanno conferito, quello della responsabilità nei confronti della Terra su cui tutti camminiamo.

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179 BIBLIO g RAFIA

La Via per la Montagna è un’opera bella e riflessiva che conferma come Pritchard sia una delle nostre voci di montagna più perspicaci e coraggiose. È il seguito perfetto delle sue esplorazioni delle ragioni per cui andiamo a scalare (Deep Play) e delle loro conseguenze, a volte tragiche (The Totem Pole). La Via per la Montagna si muove con perizia sul terreno ancora più complesso del valore spirituale di una vita da uomo dei monti attraverso gli occhi di una guida molto saggia.

— GEOFF POWTER, psicologo, scrittore e scalatore

Paul è una persona straordinaria che ha superato diverse esperienze di quasi-morte e numerose sfide sulla strada del recupero dopo aver subito lesioni potenzialmente letali. Dall’imparare a camminare di nuovo, dalle cadute quotidiane e dalle crisi epilettiche Paul non solo ha imparato nuovamente a scalare, ma con quel suo approccio meditativo alla vita si è trovato a essere condotto verso un percorso di illuminazione dal quale tutti noi possiamo imparare.

— LYNN HILL, leggenda dell’arrampicata e prima persona ad aver scalato in libera The Nose su El Capitan

Visto che non è stato capace di suicidarsi adesso abbiamo i libri di Paul da leggere, il che ci permette di avere alcuni dettagli d’epoca.

Sentiamo parlare del campione di sputo della scuola, di quelle cose ovali che provengono dai polli ma anche del più diffuso Pritchard: quello che fa esperienza. Da un brodo di dolore e paure, quella emersa è una persona che ha ben chiaro ciò che conta per davvero. A Paul piaceva dire: “Eeehhh... La morte è la mia compagna costante”.

Introdotti così bene nel midollo delle sue esperienze, qui possiamo toccare con mano quanto sia vicina a noi quella compagna. La verità della vita per Paul è stata messa a nudo.

— JOHNNY DAWES, visionario dell’arrampicata

In Deep Play Paul ha sondato le menti di quei disadattati tra noi che vanno ad affrontare scalate grandi, dure e rischiose. Un successivo incidente quasi mortale sul Totem Pole ha quasi messo la parola fine alla sua vita attiva. Lui però si è reinventato, ha continuato ad andare avanti e, come vediamo dal suo nuovo libro, è ancora molto concentrato sul ruolo del rischio nella vita e soprattutto mostra uno spirito indomito.

— GREG CHILD, scalatore e autore

€ 20,00 ISBN 978 88 55471 411
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