APERTURA SENZA FINE

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Emanuele Avolio

Storia dell’arrampicata romana

EDIZIONI VERSANTE SUD | I RAMPICANTI

2023 © VERSANTE SUD S.r.l.

Via Rosso di San Secondo, 1 – Milano

Per l’edizione italiana tutti i diritti riservati

1ª edizione

settembre 2023

www.versantesud.it

ISBN: 978 88 55471 381

EMANUELE AVOLIO APERTURA SENZA FINE

Storia dell’arrampicata romana

EDIZIONI VERSANTE SUD | COLLANA I RAMPICANTI
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INDICE Introduzione 7 Sottosezione Universitaria 17 La prima SUCAI e Enrico Jannetta 19 La Seconda SUCAI e i ragazzi degli anni ’50 22 Luigi Mario, l’eterno antesignano 29 Il Piccolo Cabotaggio 33 Alpinismo e politica 33 Verso un Nuovo Mattino 38 Salpare lungo la costa 40 Amore 44 Prime tappe del Piccolo Cabotaggio 47 Rys Zaremba e le nuove rotte 50 Il nostro Caporal, le nostre Kundalini 55 Gli epigoni di Bini (1977-1982) 67 La cometa e la rivoluzione 67 In principio Dio creò il Morra 72 La preistoria dell’arrampicata sportiva 82 La rivoluzione francese 93 Declino della monarchia sucaina 101 Tigri, poeti e geometrie 106 Sperlonga classica (1982-1987) 117 Labbra Verdi e i pionieri della via Flacca 117 1983: l’anno spartiacque 125 Il ciclo della fondazione 140 Kajagoogoo e Polvere di Stelle: la rivoluzione industriale 148 Carosello dal 1985 155 Lo scisma e la diaspora 169 Il rovescio della medaglia 177 Mondi intrecciati 177 Le gesta del Grazzini: parte I 179 L’etica è una vittima incosciente della storia 187 Le gesta del Grazzini: parte II 191 Marzialemastracci 197 Alpinismo e lavoro 198 Roberto Iannilli 199 Shaka Zulu 205
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5 I N d I c E Il nuovo canone (1987-1997 e oltre) 211 Scene dal Verdon 212 La colonia romana di Frosolone 214 Ripa Maiala 217 Pietrasecca e Ferentillo 218 Grotti 226 Petrella Liri 235 Il Grottone dell’Arenauta 237 Verso il ventunesimo secolo 239 Le palestre commerciali 241 Meschia e l’alba del boulder 244 Culottes e sanculotti: la rivoluzione della moda 247 Il futuro classico 249 Chiodatori seriali 250 Graecia capta: le grandi mete del turismo verticale 252 Ultima periodizzazione e conclusioni 252 Ringraziamenti 256 Bibliografia parziale 258

Le fotografie presenti nel volume sono state fornite dai vari archivi privati, particolarmente quelli di Pierluigi Zolli, Gianni Battimelli, Filippo Iacoacci, Alfredo Massini, Lea Sansone, Andrea Di Bari, Massimo Frezzotti, Pierluigi Bini, Luca Bevilacqua, Paolo Abbate, Donatello Amore; a queste si aggiungono alcune foto dell’archivio del CAI. Il lavoro di reperimento, selezione, elaborazione e scannerizzazione del materiale è stato svolto insieme a Pierluigi Zolli, che ha messo a disposizione la sua esperienza di fotografo unita al suo entusiasmo per l’arrampicata. Grazie anche a Gianni Battimelli e a Fredi e Lea per aver dato convivialità alla "Commissione Foto", e in generale a tutti quelli che hanno voluto rovistare tra le vecchie diapositive. E un grazie va anche allo scanner della sezione del CAI di Roma, dietro la cui identità si cela la mano divina di Luca Grazzini.

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IN tr O d U z IONE

Prendete dieci gruppi di dieci ragazzini, in dieci posti diversi. Date a ciascun gruppo una palla, senza che ne abbiano mai vista una prima. Giocheranno, è chiaro. Ma come – se con le braccia, con i piedi, con ogni parte del corpo; se a togliere la palla ad altri, se a lanciarla in un cesto, questo varierà da gruppo a gruppo. Col tempo, ciascuna decina svilupperà le sue proprie regole del gioco. Allo stesso modo, per vie traverse e molteplici, si sono canonizzate le attuali regole dei giochi che si possono fare col pallone – uno dei quali costituisce il maggior business sportivo al mondo.

Dato un qualunque terreno di gioco, l’approccio ad esso, col suo insieme di regole, i riti, gli atteggiamenti, si sviluppano all’interno di comunità particolari e si tramandano culturalmente, di persona in persona, di generazione in generazione, senza soluzione di continuità, ma spesso con costante evoluzione nell’impostazione e nella visione.

Per attività, giochi o discipline ben canonizzati, cristallizzati, formalizzati in importanti federazioni, questo approccio tribale, di trasmissione culturale, legato a comunità particolari e radicate al loro territorio, è decisamente ridotto: c’è, ad esempio nel calcio moderno, un riferimento internazionale, coi suoi miti e le sue formulazioni, che riduce al minimo l’impatto di sviluppi autonomi locali.

La storia dell’alpinismo e dell’arrampicata è viceversa storia di culture tribali. È la storia di comunità di persone che hanno scoperto un terreno di gioco e ne hanno via via esplorate le possibilità; le hanno, certo, sviluppate negli anni grazie alla reciproca comunicazione regionale e internazionale, ma rielaborandole pur sempre sulla base del contingente, del momento e dell’ambiente reale, trasmettendone i risultati solo ai membri del gruppo particolare che in quel momento formavano – sicché può accadere che gruppi diversi nello stesso territorio possano esprimere anche tradizioni culturali diverse.

Per capire l’arrampicata, questo concetto di filiazione e trasmissione culturale è fondamentale: perché aver ricevuto iniziazione, impostazione, visione da un gruppo – o da un singolo esponente di una visione culturale – piuttosto che da un altro, può variare anche di molto il proprio modo di concepire, esprimere, vivere questa disciplina. E questo nonostante l’arrampicata, nel trinomio canonizzato in boulder, lead e speed, sia ora disciplina olimpica e abbia molto

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più potere d’imporsi nelle formule formalizzate dai circuiti mainstream: il mondo delle gare, degli sponsor e del mercato per sua natura sceglie un modello, che poi viene seguito dalla grande maggioranza dell’utenza. Solo che i modelli più spinti e diffusi tendono a oscurare la vasta gamma di possibilità che l’arcobaleno del mondo verticale ha offerto e offre.

Al di fuori dei circuiti garistici, sponsorizzati e mainstream, ci sono difatti gli ambienti reali, nei quali si sono susseguite le staffette delle generazioni, inventando il loro gioco personale o tribale e segnando le tappe della storia delle realizzazioni su roccia.

L’ambiente reale esercita il suo richiamo sulle persone, e le persone adattano il loro estro all’ambiente reale. Ne conseguono codificazioni di comportamenti da parte degli uomini, di modalità di approccio alle montagne, alle rocce, alle pareti marine. Ed è con la frequentazione degli ambienti reali che le tribù di arrampicatori hanno plasmato la loro etica – o meglio, etiche.

Parola chiave in tutto questo discorso, etica viene dal greco ethos, che vuol dire qualcosa come “usanza”, “comportamento”: essa è l’insieme di usi e pratiche che portiamo avanti di volta in volta nello svolgere una determinata attività, segnando dunque sia le regole che ci autoimponiamo, sia il nostro stesso atteggiamento. Noi seguiamo, generalmente, questa o quell’etica perché ci è stata trasmessa così: è dunque un portato culturale, e anche quando la mutiamo, la mutiamo a partire dall’etica che ci è stata trasmessa. Essa, a sua volta, è il frutto delle visioni e degli atteggiamenti dei membri della comunità che ci hanno preceduto. Conviene dunque essere consapevoli della sua storia e dei suoi percorsi per conoscere i nostri limiti e le nostre possibilità – per scoprire, cioè, la misura della libertà.

Negli anni, diversi arrampicatori romani hanno intrapreso la via della scrittura pubblicando storie, autobiografie e memorie. Al contempo, associazioni culturali e aziende hanno cavalcato la curiosità delle nuove generazioni per le epoche in cui si è costruita l’arrampicata sportiva, e sono così spuntati qua e là documentari di varia natura, ora incentrati su interviste di qualche protagonista, ora su un’esposizione più meramente estetica di falesie storiche. Le quali operazioni hanno tutte il merito di ispirare e diffondere nozioni e vedute su quei mondi che ci sono ormai alle spalle, a cui voltarle sarebbe impossibile, oltre che errato e limitante.

Mancava però un’opera che riunisse le storie raccontate a quelle non raccontate, e si facesse carico di dipingere l’evoluzione dell’arrampicata su roccia nel suo complesso – con le sue linee di sviluppo, le sue traiettorie geografiche

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e relazionali, le sue reti culturali. Un’opera che non avesse la pretesa di essere esaustiva nei dettagli (raccontare ogni singolo avvenimento è impossibile, e se fosse possibile sarebbe dispersivo e dunque inutile), bensì orientativa: di essere, cioè, quasi quel che sarebbe un manuale, il cui scopo è fornire un quadro d’insieme, dando poi la possibilità di approfondire singoli aspetti in un secondo momento.

Per questo motivo non si troveranno qui elencati enciclopedicamente tutti i singoli luoghi e i singoli personaggi, che pure hanno fatto parte delle scene descritte. In effetti, anche le porzioni più aneddotiche sono state selezionate per dare un’idea della realtà, in virtù della proporzionalità della rilevanza dei personaggi trattati, e non perché lo scopo fosse di per sé descrivere i percorsi di singoli personaggi e i loro aneddoti – i quali ovviamente abbondano ben oltre quanto qui raccolto, e varrebbero la pena di un’opera a parte.

Vuole dunque essere un manuale. Ma forse è piuttosto come un insieme di appunti raccolti ed elaborati dallo studente che segue un lungo corso universitario, pazientemente sistemati, amalgamati, integrati. Appunti intrecciati a formare un mosaico dall’iconografia più lineare possibile, certo perfettibile, ma comunque rappresentativa della lunga marcia che cento anni di arrampicata su roccia hanno lasciato a Roma.

Qui si troverà l’esposizione di ricerche fatte negli anni, sui libri e sulle guide su cui si edifica il fascino del principiante e si accrescono i sogni dell’apprendista; dal vocio origliato per caso nelle falesie e dal dialogo nato dalle frequentazioni assidue. Letture e conversazioni andate intensificandosi, fino all’idea di darvi logica e comporle in queste pagine: e a quel punto dovettero diventare vere e proprie interviste e analisi di fonti.

Le fonti consultate sono dunque sia scritte che orali. Per queste ultime si è riusciti a intervistare, e talvolta a confrontarsi prolungatamente anche in corso d’opera, con molti dei protagonisti della storia narrata. Per quelle scritte si sono usate anzitutto le memorie personali, sia quelle pubblicate con editori affermati da alcuni dei personaggi principali (Jolly Lamberti, Andrea Di Bari, per dirne solo due), sia quelle che erano state condivise originariamente sul blog Fuorivia, in un’epoca in cui questa forma di social era molto in voga.

Queste in parte sono state ricondivise successivamente su altri siti, come la Storia dell’arrampicata romana di Luca Bevilacqua, ora nel blog di Gogna; altre sarebbero andate perse con la cancellazione del sito di Fuorivia, se Gianni Battimelli non ne avesse conservata copia, come un novello salvatore dei volumi della perduta biblioteca di Alessandria.

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Sono stati consultati naturalmente gli articoli delle riviste che si sono susseguite nelle stagioni in cui quel formato era particolarmente in auge: su tutte, L’Appennino, monumento del CAI romano e memoria storica imprescindibile; ma anche riviste come Scandere, Alp, Pareti, su cui sono spesso apparsi articoli di particolare rilievo. E a ciò si aggiunga anche la consultazione dello storico Quadernone della SUCAI, su cui gli alpinisti romani hanno segnato le loro prestazioni e aperture durante anni fondamentali: l’accesso a questa preziosa fonte è stato ancora una volta merito di Gianni Battimelli, vero Petrarca della Scuola di alpinismo romana.

Non va dimenticato anche l’apporto di alcuni inserti delle guide storiche, particolarmente Flippaut di Furio Pennisi: le cronistorie delle falesie, seppur sintetiche, hanno spesso dato ordine nella confusione di informazioni esorbitanti durante questo lavoro. Oltre a tutto ciò, di grande importanza sono state anche opere storiche precedenti alla presente, come la Storia dell’alpinismo in Abruzzo di Stefano Ardito o I conquistatori del Gran Sasso di Dell’Omo, la cui lettura e consultazione è stata fondamentale sia per le informazioni, sia – e forse ancor di più – per il quadro storico lì suggerito, che ha contribuito a tratteggiare quello che si troverà qui.

Accanto ai testi già menzionati un posto speciale e di rilievo dovranno avere gli articoli di Gianni Battimelli, pubblicati al tempo ora qua, ora là, e adesso raccolti nel volume Molti friends e alcuni nuts: perché di tutte le riflessioni sui fatti accaduti e il loro significato, quelle di Battimelli sono senz’altro le più complete e le più profonde tra quelle messe per iscritto: la visione storiografica qui presente si inserisce senz’altro nel suo solco, pur tentando di ampliarne l’orizzonte con gli scorci delle memorie orali di altri esponenti di rilievo degli anni ’70 e ’80, tra i quali va senz’altro ricordato Donatello Amore.

Si aggiungano ancora le memorie personali di Fabio Delisi raccolte in alcuni testi da lui gentilmente messi a disposizione per questo libro: è da lì che sono tratte le sue citazioni qui riportate, laddove non sia specificato diversamente. Stesso discorso vale per quelle di Paolo Abbate, che le sta raccogliendo in un libro di prossima pubblicazione.

E a questo punto, parlando di riflessioni personali rifluite nel libro, tornando alle fonti orali, tocca menzionare il prezioso apporto di chi ha dedicato a quest’opera più tempo di tutti: Pierluigi Zolli, che tra chiacchierate cittadine e giornate in falesia, ha ragionato a lungo con me su quanto da lui visto e vissuto in quarantacinque anni di arrampicata coi romani, sempre col piglio di chi non ha nessun intento di protagonismo e sa ragionare con distacco sul concerto dei fatti accaduti.

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Insomma, lo scopo del presente lavoro è duplice: da un lato, evitare che la memoria dei fatti e degli aneddoti si perda, e pervenga agli arrampicatori del futuro come ispirazione d’imprese e di spirito. Dall’altro, rendere un quadro complessivo di quel che è stata per i romani l’arrampicata su roccia nelle sue linee di sviluppo, con particolare attenzione agli anni di snodo che hanno visto imporre il monotiro in stile rotpunkt come modello sportivo. La difficoltà maggiore è stata nell’armonizzare questi due intenti, districando e selezionando nella grande matassa quegli avvenimenti che apparivano, con la migliore approssimazione possibile, più rappresentativi.

Ciò ha ovviamente comportato una notevole selezione di episodi a discapito di altri: non se ne abbia a male nessuno se si è tralasciato qualche volto o qualche fatto. Il nostro scopo non era di scrivere tutto, ma di permettere al lettore di orientarsi in tutto.

Ma cosa bisogna intendere con “arrampicata romana”? Col primo termine intenderemo l’arrampicata su roccia, tralasciando l’universo parallelo dell’alpinismo invernale. Col secondo termine non si indicherà certo qualcosa di geografico: Roma sorge nel centro della grande piana del Lazio antico, e le pareti rocciose le sono lontane. L’alpinista romano è da sempre itinerante, abituato a confrontarsi e cooperare con altre comunità di amanti della montagna. L’arrampicata romana andrà intesa come l’arrampicata fatta dai romani, ovvero per gran parte di questa storia da coloro che ruotavano attorno al Club

Alpino Italiano di Roma: nella scarsità numerica di personaggi attivi nel verticale, la storia dell’arrampicata romana ha coinciso per quasi tutto il ’900 con la storia dei membri del CAI romano, e in particolare della tribù della sua Sottosezione Universitaria, dei clan che ne sono scaturiti, dei personaggi che ne sono fuoriusciti oppure orbitati attorno. La linea di sviluppo qui tracciata è la loro linea, che si dipana con coerente tradizione verso gli anni ’90 e oltre, fino ad affrontare l’infiltrazione del mercato negli sport di montagna e l’avvento delle palestre commerciali, che massificando l’approccio all’arrampicata ne hanno moltiplicato le porte d’accesso, rendendo più complessa la ricostruzione delle filiazioni e delle trasmissioni culturali.

Man mano che si procede cronologicamente è dunque sempre più difficile l’equilibrio nella dicotomia prima segnalata tra aneddotica e sinottica, tra racconti dei singoli e quadro generale: nel corso degli anni ’90 se ne perderà inevitabilmente traccia, e moltissimi dei personaggi – alcuni dei quali considerati da molti veri simboli – sono stati per necessità di spazio tralasciati. Per raccontare l’antropologia, le avventure e le atmosfere degli arrampicatori romani dalla fine degli anni ’90 a oggi servirà senz’altro un’opera a parte.

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Man mano che mantenere un’unità narrativa nella complessa congerie di personaggi di rilievo diviene operazione ardua, sempre più il principio adottato nella ricostruzione di una catena di eventi significativi è quello della priorità d’azione: chi abbia fatto per primo qualcosa – la libera di una via di una certa difficoltà, l’apertura di una via in una certa modalità – o lo abbia fatto comunque in una maniera ritenuta eccezionale. Ovvero chi abbia compiuto qualcosa che poi sia andato a influenzare altri arrampicatori, contribuendo ad alimentare l’eterna catena di ispirazione che porta avanti fino ad oggi una lunga serie di aperture senza fine.

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This other man I had dreamed

A drunken, vainglorious lout. He had done most bitter wrong To some who are near my heart, Yet I number him in the song; He, too, has resigned his part In the casual comedy; He, too, has been changed in his turn, Transformed utterly: A terrible beauty is born.

Quest'altro lo avevo immaginato

Un vanaglorioso zotico ubriaco. Aveva fatto sanguinoso torto A qualcuno che è vicino al mio cuore, L'annovero tuttavia nel mio canto; Anch'egli ha rinunciato alla sua parte Nella commedia del caso; Anche lui è stato a sua volta mutato, Interamente trasformato: Una terribile bellezza è nata.

W. B. Yeats, Easter 1916, vv. 31-40 A chi arrampica domani Franco Alletto all'attacco della Via dello Spigolo a Gaeta. Foto: Arch. CAI

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Durante la maggior parte del ’900 l’arrampicata non esisteva.

Si arrampicava, quello sì. Si arrampicava molto, con ogni stile, in ogni tipo di luogo: in libera e in artificiale, sulle Alpi Orientali e Occidentali, cercando le vie normali o forzando direttissime. Si era arrampicato sulle pareti di bassa quota, anche lontanissime dalle montagne. Si era arrampicato sul mare.

Ma l’arrampicata, intesa come indipendente, era ancora lontana. L’arrampicata non era una disciplina, tanto meno uno sport: l’arrampicata era perlopiù uno strumento per fare l’alpinismo – questo sì disciplina indipendente, approfonditamente praticata, coltivata quasi religiosamente. Superare un passaggio in libera, così come in artificiale, era un altro modo per camminare quando le gambe non bastavano, superando i passaggi obbligati dalla via che gli apritori si erano imposti di percorrere.

Questa “nuova scienza”, qual era l’alpinismo, come tutte le scienze aveva già scaturito le sue branche di specializzazione: l’uomo rimane uguale in tutto quel che fa, ed è naturale che alcuni preferiscano la roccia lavorata e irregolare delle Dolomiti, altri le gialle linee dei torrioni granitici, altri il gusto brutale delle salite invernali. E questo anche seguendo ciò che l’ambiente può offrire: in Gran Bretagna si sviluppava l’arrampicata sulle basse falesie del Galles, in Boemia sulle tondeggianti strutture di arenaria.

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In California, la conquista delle interminabili fessure del Capitan e dell’Half Dome. Ambiente creava comunità. E presto ogni comunità mise insieme le sue regole del gioco, spesso diverse di luogo in luogo: dal dispiego di ogni misura di protezione possibile che si ebbe in Dolomiti, con chiodi di metallo sbattuti violentemente nella roccia, alla ricerca di un clean climbing, ossia con protezioni solo mobili, tipico delle falesie britanniche, alle estreme misure boeme dove (tutt’oggi) è considerato legittimo solo l’uso di nodi di corda strozzati nelle asperità rocciose. Le comunità di alpinisti crescevano così più o meno indipendentemente, seguendo le propensioni dei loro membri trainanti e del loro terreno di gioco.

Questi ultimi costituivano comunque un’élite alpinistica che cresceva e si allenava sì negli ambienti locali, ma generalmente in vista di obiettivi internazionali, ricercando realizzazioni di ampio riconoscimento. I club alpini dei vari paesi mettevano, com’è logico, i loro membri più forti nella condizione di viaggiare e comunicare con gli altri, permettendo così il confronto, che è presupposto necessario della crescita.

E il termine élite era da prendere anche nel suo senso socio-economico: fino e oltre gli anni del boom sono poche le eccezioni alla regola per cui l’alpinismo, come quasi tutte le attività “di diporto”, come si diceva una volta, era praticato solamente dalle classi più agiate: solo ai signori delle valli alpine era riservato spendere giorni e giorni a esplorare camini e fessure alti sopra le finestre delle proprie case, solo ai benestanti era riservato vagare con la mente sui profili lontani dei monti intravisti dalle città e andare a esplorarne i reconditi anfratti.

L’alpinismo nasceva dunque come attività elitaria per eccellenza, praticata da un’élite dell’élite; e fin da subito le doti che un alpinista doveva avere, quell’abnegazione, coraggio, scienza e determinazione, diedero gioco facile alla creazione di immaginari e stereotipi che ne diffusero la fama in tutta la società, specie durante gli anni ’30 e ’40, in cui l’immagine dello sportivo della montagna fu tanto usata per propaganda dai vari stati europei. Tutt’oggi quell’immagine dell’alpinista, rocciatore o ghiacciatore con la corda legata in vita, piccozze o martello e pantaloni alla zuava, in una generica quanto esaltata lotta con l’alpe, rimane fortemente impressa nell’immaginario collettivo. Sebbene nel frattempo le cose si siano dilatate e trasfigurate in maniera abnorme, prima di arrivare a raccontare la nascita degli imbraghi e delle scarpette, dei fix e delle vie di falesia, dovremo partire da quella antica cultura puramente alpina, da cui tutto germogliò in una serie di fiori inaspettati e mostruosamente differenti.

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LA P r IMA s U c AI E EN r I c O JANNE tt A

L’attività alpinistica romana nasce a cavallo tra i due secoli XIX e XX, perlopiù su impulso dell’immigrazione delle élite del nord Italia a Roma, questa capitale così lontana culturalmente dall’idea di ascendere le montagne. Dalla fondazione della sezione romana del Club Alpino Italiano, nel 1873, partiranno presto varie iniziative per salire (ovviamente a piedi: erano più che altro delle gite) le più vicine vette (Soratte, Gennaro); e poi uscite al Gran Sasso, iniziando peraltro quella cooperazione con gli ambienti abruzzesi che sarà fondamentale per la storia alpinistica centroitaliana.

Era dunque un alpinismo di origine alpina – il che sembra un gioco di parole, ma come abbiamo accennato poco sopra, non è affatto scontato: Roma non nasce con un suo “andar per rocce” autoctono, ma ne riceve il seme dagli ambienti settentrionali, che al contrario erano il cuore pulsante della ricerca alpinistica e arrampicatoria. Da lì vengono i modelli, i riferimenti, i sogni più grandi; e se pian piano aumenterà l’importanza attribuita al Gran Sasso conformemente alla formazione di un alpinismo centroitalico, il legame con la cultura della madrepatria, le Alpi, resterà fondamentale in questa colonia provinciale quale era Roma.

Gli esponenti di questo alpinismo d’alta classe erano organizzati nella struttura dell’associazionismo, con quella parola, "Club", che è preso dalle associazioni hobbistiche britanniche1. E la componente sociale non mutò tra fine ’800 e inizi del ’900; ma al cominciare del secolo negli ambienti del Club Alpino già si manifestava quel contrasto interno, di base generazionale, che continuerà per gran parte del diciannovesimo secolo. Se l’andare in montagna è espressione di libertà per eccellenza (in termini spinoziani: se la libertà è consapevolezza della necessità, andare in montagna significa sottostare alle sole necessità naturali, sospendendo quelle sociali), l’organizzazione gerarchica del CAI risulta ingombrante, ossimorica, problematica. E il tentativo di quell’istituzione, come ogni istituzione, di regolare, normare, imbrigliare le libere iniziative creò presto reazioni da parte di coloro che erano animati da più schietti spiriti. Nel 1908 gli studenti romani, seguendo gli esempi degli ambienti caini del nord (specialmente monzesi), si costituirono in Sottosezione Universitaria del Club Alpino Italiano (S.U.C.A.I.) e stilarono un programma per un’uscita invernale sul Gran Sasso. Questo, oltre a presentare

come era necessario all’epoca – un’organizzazione piuttosto complessa (diverse giornate di viaggio in bicicletta, treno e/o diligenza, con pernotto ad

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1. Difatti durante il fascismo l’anglicismo “Club” verrà sostituito con l’italiano “Centro”.

In ogni caso, il periodo in cui la sua arrampicata ha camminato accanto all’arrampicata del restante ambiente romano, è riuscita a conferirle una spinta tale da sconvolgerlo e cambiarlo per sempre.

IN P r IN c IPIO d IO cr EÒ IL MO rr A 4

Se il Piccolo Cabotaggio aveva già iniziato un distacco col vecchio alpinismo caiano, con Bini si crea una frattura netta, di portata mai vista prima. Quel gruppo di giovanissimi arrampicatori, che iniziano a scalare tra la fine del ’77 e il ’78, ha lui come riferimento piuttosto che i maestri del CAI.

Bini, nel pieno della sua epopea, era un mito vivente, un oracolo: e iniziare con lui diede ai nuovi ragazzi un imprinting che scaverà un solco incolmabile tra loro e quelli del Piccolo Cabotaggio. Angelo Monti, Giampaolo Picone, Marco Forcatura, Luca Grazzini, Paolo Abbate, Maurizio Tacchi, Giuseppe e Roberto Barberi, Marco Re, Beppe Aldinio, Massimo Nardecchia, e poi Andrea Di Bari, Roberto Ciato, Stefano Finocchi, Luca Bucciarelli: sebbene

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Emanuele Avolio APERTURA SENZA FINE 4. Cfr. Ledda, 1998, p. 239. Agosto 1979. Pierluigi Bini (primo piano) con dietro Augusto Azzoni, Angelo Monti e Giampaolo Picone alla cengia circolare del Pordoi dopo aver aperto la Via della Baita Biolchina. Foto: Arch. Bini

successivamente orbiteranno tutti attorno alla Scuola Paolo Consiglio o ne saranno istruttori, furono pur sempre i primi a nascere fuori da essa: era la prima rottura coi canali tradizionali, con la filogenesi precedente.

Questo risultava chiaro nel loro modo di vivere l’alpinismo: seguendo il modello di Bini, i loro esordi su roccia furono completamente liberi da ogni inibizione imposta dall’alto, da ogni tabù propugnato dai vecchi con gli scarponi; e in pochissimo tempo superavano passaggi che gli istruttori caiani non riuscivano a immaginare, realizzavano vie che la generazione precedente aveva impiegato una vita a fare.

Questa diversa visione portò inevitabilmente a uno scontro generazionale, e le espulsioni dal CAI non erano insolite: l’ambiente era in completo subbuglio. Un esempio di come e quanto potesse destare sorpresa l’avvento di questi piccoli personaggi allucinanti e senza senso agli occhi di quelli “già grandi”, può essere un articolo di Stefano Ardito, esponente della generazione anni ’70, uscito su Scandere, in cui peraltro i titolisti del nord non ebbero problemi a definirli “ragazzi di borgata” – con assimilazione impropria dell’atteggiamento libero e scanzonato a una non veritiera origine operaia o comunque periferica: i “regazzini”, come effettivamente li chiamavano, non venivano dalla borgata manco per niente5. Borgataro era piuttosto l’atteggiamento di alcuni di loro, che rifletteva forse proprio l’agio tipico dei figli dei borghesi, ma che cozzava pur sempre con una certa posa di superiorità e spocchia che caratterizzava la vecchia SUCAI, compresa buona parte della generazione anni ’70, orgogliosa di far parte di un’élite chiusa.

Lo schema base degli ambienti frequentati da Bini era tutto sommato lo stesso di prima: la sede della SUCAI, le pareti del Morra. Vi furono un paio di aggiunte dovute all’intuito di Bini stesso, come il famoso ponte della Casilina, o Ciampino, scoperta in una giornata di pioggia del ’78 con Massimo Marcheggiani6 e Angelo Monti, e dove tornò subito dopo con Angelo a mettere i primi chiodi. La cava di Ciampino si trova poco fuori Roma, lungo l’Appia, dove c’è un’ampia area composta di leucitite, la roccia lavica con cui si fanno i sampietrini, che si presenta in forme squadrate, poligonali, e anche a fessure. Vicino all’aeroporto, in via di Fioranello, un ampio teatro di questa roccia scende sotto il livello del suolo, accanto a una pineta: lì fu trovata quell’antica cava in disuso che fu tramutata in nuova palestra di roccia dei romani.

5. L’emblematico articolo (con premessa di Battimelli) in Scandere ’81/’82, pp. 96 sgg.; vedi anche Ardito, 2014, pp. 166-167 e in generale 159 sgg.

6. Per Marcheggiani, poi divenuto uno dei più importanti invernalisti del centro Italia vedi Marcheggiani, 2019.

73 g LI EPI g ONI d I B INI (1977-1982)

L’atteggiamento schivo di Bini lo portò a diffondere la notizia solo a una ristretta cerchia di suoi amici; ma la cosa non poté durare molto, e negli anni ’80 divenne la palestra più frequentata, data la vicinanza alla città, svoltando a molti la possibilità di allenarsi7.

Ma tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 è il Morra ad avere il suo periodo d’oro, divenendo al contempo iconica palestra della generazione di Bini e luogo di incontro (e scontro) tra diversi approcci all’alpinismo. In un mondo a corto di falesie e senza palestre artificiali, era inevitabile che qualunque entità arrampicante convergesse su quel montarozzo appena spruzzato di pareti rocciose.

I gruppi più disparati affluivano al Morra: membri dell’ESCAI (il gruppo giovanile, di liceali) e varie altre comitive prendevano tutti la corriera unica dalla stazione Termini per dirigersi verso i monti Lucretili; partivano con le tende, per restare tutto il fine settimana. Iniziavano facendo le classiche più facili, come la Bambi, il Boscaiolo, la Zapparoli.

Era una stagione di unità e di condivisione, e tra i viaggi insieme nella corriera e gli accampamenti del weekend si creò un senso di gruppo, di comunità, con le sue codifiche e col piacere di fare cose all’aperto sognando sulle gesta dei grandi alpinisti.

Tuttavia, non erano proprio tutti uguali. Pur condividendo spazi e passioni con gli altri, quelli che avevano iniziato direttamente con Bini avevano una visione del pericolo e della dedizione completamente differente. E infatti il Morra poteva essere terreno di placide domeniche per alcuni e luogo di ossessivi allenamenti per altri, che affrontavano l’arrampicata in maniera più totalizzante. A leggere le storie dell’epoca, viene quasi da pensare che quel posto catalizzasse personaggi strani e storie surreali; ma il fatto è che, semplicemente, era la falesia principale dove andare, e tutto avveniva necessariamente lì. Come quella volta che Bini si stava allenando con Donatello Amore: stavano arrampicando in velocità su alcune vie classiche della parete, quando a un certo punto Donatello volò giù, e le protezioni si staccarono dalla roccia. Precipitò per la quasi totalità della parete, decine e decine di metri da cui fu salvato solo grazie alla parata che gli fecero gli alberi sotto di lui. Bini tenne tutto il volo a spalla, miracolosamente: «Non lo so come ho fatto a tenere Donatello, non lo so proprio» dice ricordando l’episodio.

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Emanuele Avolio APERTURA SENZA FINE 7. Grazie allo stesso Angelo Monti, anche Andrea Di Bari e il suo giro vennero a conoscenza della cava, e di lì si diffuse la sua conoscenza a tutto l’ambiente romano; vedi anche Di Bari, 2017, p. 103.

Non passò molto prima che la voce si diffondesse: il venerdì sera a via Ripetta per mesi e mesi, quando Donatello passava, sentiva tutti i ragazzini intonargli: «Donatello, Donatello, mezzo uomo e mezzo uccello!», sicché l’occasione per infierire contro uno dei “vecchi” si offriva su un piatto d’argento. Poco dopo Amore fece una prestigiosa solitaria sul Corno Piccolo, e come era normale scrisse della sua prestazione sul Quadernone, con specificato:

«Tempo di salita: 3h e 29 minuti». Subito dopo, qualcuno aggiunse sotto: «Tempo di discesa: 3 secondi e 29 decimi».

Nel ’78 il mondo dell’arrampicata era ancora pieno di gente che scalava con gli scarponi, e sulla Rivista della Montagna Motti traduceva l’articolo di Boardman Dove sta volando l’arrampicata in Gran Bretagna8 riferendosi all’evoluzione inglese come a qualcosa di futuristico e lontano. In mezzo alla maggioranza di rocciatori tradizionali e la sparuta avanguardia che seguiva le tendenze di Motti, a Roma a spingere la libera e uno spirito schiettamente punk, di rottura con i canoni precedenti, c’era solo Pierluigi: fu davvero lo spartiacque per un mondo che si rovesciava. Bini da una parte creò un nuovo modo di approcciarsi alla montagna, e dall’altro si fece canale, a Roma, di quanto aveva creato al nord gente come Mariacher.

Questo reame di possibilità alpinistiche, questa scuola di vita vissuta tra l’alpinismo esperto e l’alpinismo sgangherato, passò direttamente in eredità da Bini ai suoi epigoni, quei figli non biologici e anzi coetanei, che in principio nacquero quasi come sue copie in miniatura. Così Angelo Monti, Giampaolo Picone – i suoi primi discepoli – e tutti gli altri ricevettero la loro forma mentis da quel canale privilegiato, dando luogo a una corrente inevitabilmente diversa, come una mutazione genetica.

Quando Angelo manifestò il suo interesse per la montagna, fu subito indirizzato verso il CAI, cui si iscrisse già nel ’76. Nel ’77, insieme al suo amico Luca Grazzini, decise di trovare il modo di avvicinarsi all’arrampicata, quel mistero del gesto e della roccia che tanto li attraeva. Non fece corsi col CAI, ma frequentando via Ripetta conobbe direttamente Bini lì in sede, una sera.

In quel periodo tutti si accalcavano su Pierluigi, per chiedergli delle sue imprese; da parte sua Pierluigi, come ogni alpinista, era sempre alla ricerca di compagni di cordata, con la solita problematica di doverne trovare uno con cui ci si trovi anche bene umanamente.

(https://gognablog.sherpa-gate.com/dove-sta-volando-larrampicata-in-gran-bretagna/ ).

75 g LI EPI g ONI d I B INI
(1977-1982)
8. Rivista della Montagna , 33, settembre, 1978.

In alto, 1982, Pierluigi Bini, Marco Forcatura e Giovanni Bassanini al Circeo.

Foto: A. Giambisi, arch. Bini

In basso, Finocchi, Pennisi e Medio Verme a Ciampino.

Foto: Arch. Battimelli

Emanuele Avolio APERTURA SENZA FINE

II
III
Pierluigi Bini in Hoggar Foto: A. Giambisi, arch. Bini

Sopra, Maurizio Tacchi su Physical Presence al Tempio di Sperlonga.

Foto: Arch. Iacovacci

A sinistra, Finocchi al ponte Duca D’Aosta.

Foto: Arch. Iacovacci

XI

Era ormai diverso dal pischello semiprincipiante che si era preso quaranta punti di sutura rovinando giù da Pisco Montano.

Come era naturale per dei rocciatori, l’estate dell’83 fu dedicata alla montagna. Di Bari, dopo aver partecipato a un raduno sull’arenaria delle torri di Adršpach-Teplice in Boemia su invito di Marco Bernardi, dove sperimentò con un certo sgomento la rigidissima etica di quei posti (divieto di magnesite e di qualunque protezione che non sia costituita da cordini)9, iniziò la stagione alpinistica facendo più salite possibile al Gran Sasso, allenandosi in vista della spedizione dolomitica di quell’anno.

Già dall’estate precedente, in cui avevano avuto un’annata in Dolomiti piuttosto sfigata per il meteo, il suo compagno di cordata era un ragazzo del gruppo che aveva iniziato a scalare nel suo stesso periodo: Stefano Finocchi. Questi aveva notevole esperienza in montagna: vantava l’apertura di diversi itinerari sul Corno Grande, aveva viaggiato alla ricerca di nuove pareti in posti “esotici” come la Sardegna. Lo abbiamo già visto come uno dei pionieri dell’allenamento a Roma: da subito ebbe una grande attenzione per la prestazione e il gesto, che in quei primi anni ’80 declinava secondo i riferimenti dell’epoca.

Questo, oltre alla sua particolare abilità nell’intessere relazioni sociali, lo porterà a vivere giornate di rara epicità, come quando fece la prima ripetizione della linea originale della Stefano Tribioli con Pennisi e i Vermi; o quando salì slegato la Vinatzer in Marmolada assieme ad amici del calibro di Roberto Bassi – il quale, uscendo bello bello in canotta dall’ultimo tiro, fu quasi centrato da una palla di neve tirata da un bambino in gita.

Alto 1.90 e oltre, riccetto e magrissimo, il Quadernone ci attesta i suoi nomignoli dell’era dei viaggi sardi: “Cazzetto” o “Lo Smilzo”. Era uno dei più fissati: diciannovenne e ancora studente, già da questo periodo aveva deciso di dedicare più tempo possibile alla scalata; e così si trovò legato dalla stessa ambizione ad Andrea Di Bari.

Già nell’estate dell’82 conobbero, alla faccia della pioggia, il piacere di allenarsi insieme e scoprire i piccoli gesti che preparano alle grandi idee; così, l’anno successivo erano determinati a realizzare una volta per tutte il loro progetto del Philipp-Flamm sulla nord del Civetta – che era la via di riferimento per l’alta prestazione a Roma.

Un po’ come oggi si chiede «Che grado fai?» o peggio «Ma ce l’hai l’8a?», allora, in quella Roma pre-grado francese ma, se possibile, molto più coatta di oggi, la domanda che ricorreva era: «Ma tu l’hai fatto er Philipp-Flamm?», con

128
Emanuele Avolio APERTURA SENZA FINE 9. Al riguardo vedi Di Bari, 2017, pp. 190-195.

annessa la constatazione più naturale per un maschio cis-etero degli anni ’80: «Se nun hai fatto er Filippo sei frocio10».

A fronte di una arrampicata libera in pieno sviluppo, nell’età a ridosso della storia ma ancora preistorica i confronti si facevano ancora sulle grandi classiche dell’alpinismo. Ma il Finocchi, come anche il Di Bari, pure se si erano vissuti quel vecchio alpinismo con tutti loro stessi, in fondo al loro cuore erano in cerca di qualcosa di nuovo: la realizzazione più importante di questa cordata non sarà sulle titaniche smarzumiere del Civetta, bensì sul grigio calcare del nuovo mondo: Sperlonga.

Quell’estate, comunque, andarono: dopo la preparazione al Gran Sasso su vie come la Diretta Alessandri-Leone sulla parete Est dell’Occidentale del Corno Grande, partirono su una 127 per le Dolomiti insieme a Luca Bucciarelli, amico d’infanzia di Stefano.

Il Finocchi è un grande trascinatore, uno che, sempre col sorriso e sempre a dire cazzate, riusciva a unire persone di gruppi diversi che di per sé non avrebbero mai comunicato tra loro, ed era sempre un passo avanti a tutti sulle idee: sulla musica era il primo a lanciare le mode, coi suoi Cure e i suoi Depeche Mode; sull’abbigliamento fu tra i primi a Roma a portare i fuseaux tipici della nuova scalata francese, simbolo dell’eliminazione del superfluo e della rottura col passato: se li andava a far fare a via Cola di Rienzo, scegliendo lui stesso le sgargianti stoffe glam. Poi negli anni ’90, quando tutti ormai avevano i fuseaux, sarà uno dei primi a portare i pantaloni larghi e colorati, fondando infine il marchio E9 con Mauro Calibani11. Fu il primo a andare in falesia col cane, si fece il furgone per primo: insomma, il prototipo del falesista moderno. Solo che ancora non sapeva cosa fosse la scalata moderna, e non sapeva che sarebbe stato così all’avanguardia. Nell’estate dell’83 voleva solo salire il Philipp-Flamm. Dunque, una volta arrivati al rifugio Tissi, trovarono lì belli sdraiati al sole i fratelli Vermi, tutti abbronzati e in canotta, tiratissimi, in formissima. Dopo un paio di settimane di bel tempo, avevano in saccoccia una quantità di vie da far invidia a chiunque. Compreso il Philipp-Flamm: leggenda vuole che durante quel periodo trionfale non si siano fatti la barba, e alla fine, dopo il Philipp, andandosi a radere Gaston si sia lasciato i baffi, i suoi caratteristici baffoni che da allora non si è più tagliato. Una origin story degna dei migliori fumetti.

10. In termini ben più civili ed eleganti, esprime bene l’importanza del Philipp l’articolo di Grazzini, Tacchi e Abbate su L'Appennino, settembre-ottobre, 1980, pp. 105 sgg. Ovviamente l'autore e l'editore prendono le distanze dall'omofobia di cui era – e purtroppo è – intrisa la cultura popolare e mainstream , che si riflette – per quanto più o meno bonariamente – nei modi di dire.

11. Vedi infra .

129 s PE r LON g A c LA ss I c A (1982-1987)

Alla notizia che avevano salito la via dei loro sogni, Luca e Stefano impazzirono. La finestra di bel tempo doveva finire da un momento all’altro; ma volevano così tanto salirla che, con la sicurezza dei loro 19 anni, decisero di andare lo stesso. L’incidente che ebbero, la pioggia del giorno dopo, il sasso che ruppe la gamba al Finocchi, il recupero con l’elicottero, fanno parte delle tante storie del folklore romano, nei numerosi incidenti che ovviamente colpirono i ragazzi della SUCAI12. Ma forse quell’incidente in particolare è di quelli da menzione speciale: capitava, infatti, nell’anno spartiacque della storia dell’arrampicata romana.

Buccia avrebbe continuato con la montagna in maniera assidua fino a diventare Guida di lì a poco, scalando con amici come Cristiano Delisi; invece, quando una volta finita l’estate sarebbe ricominciata la stagione di Sperlonga, Stefano era pronto più che mai a buttarsi in un tipo di ricerca che lo avrebbe portato ben lontano dai chilometrici diedri della punta Tissi.

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Emanuele Avolio APERTURA SENZA FINE 12. Per questa storia vedi ad es. Di Bari, 2017, pp. 201 sgg. Giuseppe "Gaston" Barberi. Foto: Arch. Barberi

Non c’è vera soluzione di continuità tra l’83 e il precedente periodo in cui i Vermi ancora poco più che bambini scalavano al Morra, Grazzini e Monti si lanciavano sulla Crepa come loro prima avventura in montagna, e gli altri ragazzini si iniziavano l’un l’altro all’arcana arte di Bini, in una trasmissione di conoscenza che ricorda quella di una setta dedita al culto di uno strano fanciullo oracolare – quell’oracolo col baffetto e le Superga che solo pochi anni prima aveva portato Marco Forcatura al Precipizio del Circeo, e poi dopo un po’ con Forcatura iniziò a venire anche Giovanni Bassanini, ed ora Giovanni era sulla buona strada per diventare talmente forte sul Monte Bianco da far sembrare dei pellegrini erranti gli alpinisti di Chamonix.

Tutto il percorso che ha portato i Vermi a godersi il sole al rifugio Tissi era in piena continuità col big bang nato dalla meteora biniana; ma c’è anche da dire che, d’altra parte, il livello di libera secca e pura era talmente aumentato, sia fattualmente sia concettualmente, che tutte le vie di ricerca della difficoltà aperte tra le varie Morra e Leano avevano saturato la logicità (e l’illogicità), e si sentiva ampiamente la mancanza di quegli spit che invece così largo uso avevano nelle falesie del civilizzato nord. Il rischio, aprendo vie che sfidassero le pareti più dure – che sullo stile calcareo vuol dire anche meno proteggibili –era troppo elevato perché il gioco valesse la candela; inoltre ci si era resi conto ormai, mentre aprire una via dal basso in stile classico significava crescere insieme alla via stessa nella sua creazione, che “spit dall’alto” voleva dire alzare il livello di possibilità a priori, e potersi mettere in gioco per raggiungerlo senza rischiare ogni volta caviglie, gambe e vita. Ma l’etica ferrea che era imperante nel mondo sucaino impediva ancora di osare l’inosabile.

«Poi un giorno accadde l’evento che fece finalmente voltar pagina. Paolo Caruso, diventato professionista come Guida Alpina, fregandosene delle possibili critiche, mise uno spit a espansione calandosi dall’alto su un tettino di sesto grado superiore su una sua via, Il lungo cammino dei Comanches13» a Sperlonga. All’apice del periodo d’esplorazione, ricominciato dopo la pausa estiva dell’83, Caruso aveva lanciato il mattone che infranse la grande vetrina dell’etica arcaica su quelle pareti che sembravano create per proiettare i romani nel futuro. Con l’eversione di quel piantaspit sacrilego, nell’autunno del 1983 nasceva l’arrampicata sportiva in terra romana.

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13. Di Bari, 2017, p. 212. La linea originale di questa via è rimasta sprotetta ed oggi è abbandonata. Parte nel diedro a destra di Karma stai kalma . Cfr. Pennisi, 1986, p. 75. La via fu aperta insieme a Marco Forcatura (vedi UpClimbing #7/2020, p. 28). Un tentativo su quel diedro era già stato compiuto da Finocchi e Bucciarelli, non armati di spit.

A

Foto

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Emanuele Avolio APERTURA SENZA FINE Sopra, Massimo Gambineri su Jockerman, Pietrasecca. Foto: Arch. Gambineri destra, Finocchi su Requiem, Grotti. : Arch. Zolli
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Di Bari su Totem, Gabbio. Foto: Arch. Zolli

Alcuni di questi personaggi, in primo luogo Sebastiano, sono stati anche tra i più creativi chiodatori di vie sportive nel centro-sud Italia, lasciando ai posteri delle classiche di riferimento; ma in generale tutti loro recitarono una parte nel teatro falesistico romano, caratterizzandolo per i decenni seguenti.

sull’alpinismo al Gran Sasso di quegli anni. Per la figura di Germana Maiolatesi, una delle alpiniste più forti d’Italia, che sul Gran Sasso ha aperto vie di rilievo ed è stata capofila dello sci alpino, si rimanda direttamente a Maiolatesi, 2020.

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Emanuele Avolio APERTURA SENZA FINE Luca Grazzini sotto una cascata d'acqua sui tiri finali della Via dell'Ideale in Marmolada, 1984. Foto: D. Amore

IL NUOVO c ANONE (1987-1997 E OLtr E)

Quello spirito d’esplorazione che aveva caratterizzato Roma almeno dal Piccolo Cabotaggio (e, nel caso di personaggi come Gigi Mario, Dado Morandi e Roberto Ferrante, da ben prima), trovava ancora terreno di gioco per soddisfare gli arrampicatori in cerca di difficoltà e gli alpinisti in attesa della stagione estiva. La fine degli anni ’80 e la prima parte dei ’90 furono caratterizzati dalla scoperta di nuove falesie, che diventeranno in molti casi quelle canoniche nei trent’anni seguenti. Alcune furono creazioni nate con la valorizzazione di muri fino ad allora ignoti o ignorati da parte di personaggi legati ai giri dell’alpinismo, con l’intento principale di farne palestre per la montagna più che falesie competitive: in questo senso Ripa Maiala di Roberto Iannilli e Paolo Caruso, Castelnuovo di Porto di Ezio Bartolomei, Guadagnolo di Guglielmo Fornari e altri posti affini hanno, rispetto alla grande narrazione del nucleo originario sucaino, il sapore di spin-off.

E d’altra parte quel filone principale, portato avanti a partire dal Morra e Leano, e che con Sperlonga vide nascere e mutare l’ottica e il livello dell’arrampicata sportiva, con nucleo invariato affluì al Moneta e a Pietrasecca, e poi a Ferentillo, Petrella e Grotti come suoi teatri principali.

211 IL NUOVO c ANONE (1987-1997 E OLtr E)

Negli anni ’90 questi ultimi sono i grandi laboratori della difficoltà, dove ci si allena e dove si chiodano, provano e liberano le grandi vie che hanno segnato la tribù romana. Qui i grandi classici e le tappe fondamentali, fino agli 8c e oltre.

In un certo senso, l’età classica di Sperlonga, con la ricerca disperata della difficoltà sui suoi muri minori, era stata la grande preparazione collettiva agli anni ’90, l’età della difficoltà e in qualche modo l’età d’oro dell’arrampicata romana.

sc ENE d AL VE rd ON

Dalla seconda metà degli anni ’80 i romani avevano preso l’abitudine di spostarsi, usualmente in comitiva, nelle falesie templari di Buoux e ancor più del Verdon per lunghi periodi; in particolare in Verdon si andava generalmente in estate, col solito schema dello scalare nel pomeriggio, sfasciarsi la sera e dormire fino a tardi per riprendersi e ricominciare il ciclo (che ha avuto parecchio successo nelle varie comunità di arrampicatori nei decenni successivi). Le incursioni pionieristiche di Battimelli e compagnia si erano trasformate in una vera e propria colonizzazione nei campeggi. Ciato, Paolo Rocca, Pierluigi

“Cafiero” Zolli, il Dibba, e ancora il Finocchi, i Vermi con i Labozzetta e tutti gli altri: quella tribù, che nel bene e nel male aveva condiviso esperienze fondamentali nel corso del decennio precedente, si ritrovava, al di là delle scelte di vita individuali, a fare l’esperienza comune delle grandi falesie internazionali – in quelli che erano poi, di fatto, i primi viaggi di falesia relax, che oggi hanno il corrispettivo nelle comitive che animano Rodellar, Siurana, Ceüse, Kalymnos, Leonidio eccetera.

I romani erano come le cavallette: dove passavano loro sembrava ai poveri francesi una vera e propria piaga biblica. A partire da faccende di ordinaria amministrazione, come quando Paolo Rocca – di professione musicista, esperto di musica jazz ed etnica – si portava il clarinetto a Buoux esercitandosi nelle lunghe mattinate in attesa dell’ombra. L’esasperazione era tale che un giorno fu rinchiuso dentro un cesso a esercitarsi con le sue scale musicali.

Di Bari da parte sua era in un periodo in cui stava esplorando il mondo della filosofia e della psicanalisi.

«Ognuno provava le sue vie» racconta: «Roberto [Ciato, NdR] la bellissima Echograpie, un solido 8a, Jolly un altro 8a e io un famoso storico di Tribout, Les Braves Gens, 8b a cui riservai tutte le energie, cercando di essere il primo italiano a fare un 8b all’estero. Durante le pause oziose, mi appartavo nella mia amaca a leggere L’interpretazione dei sogni e Totem e tabù di Freud.

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Più eclatante il caso di Ivano “Er Marmista” e la sua banda di San Lorenzo. Ivano era un artigiano che lavorava in uno dei laboratori vicino al cimitero monumentale del Verano, nella zona di San Lorenzo, che se oggi è il quartiere studentesco per eccellenza, all’epoca aveva ancora una fortissima anima popolare. Appresso a lui una folta schiera di ragazzi dello stesso quartiere, uno più soggetto dell’altro: una carrellata di personaggi pasoliniani che, con la caciara che facevano nel campeggio del Verdon, vennero subito identificati come “quelli der condominio di via dei Campani”, dal nome del loro luogo di residenza a San Lorenzo, o semplicemente “er Condominio”. Come si dice a Roma: «Se sentivano solo loro» e tra urla romanacce e impropèri di coatti ubriachi, i francesi erano scandalizzati.

Ma non ci si limitava a sfondarsi la sera: si scalava anche duro. Pur se con uno spirito da “scappati de casa”, completamente alla bersagliera e un po’ a casaccio, quelli der Condominio ce la mettevano davvero tutta.

L’apice fu toccato quando Ivano andò con Zolli e Fredi Massini – tre arrampicatori completamente diversi per estrazione e formazione – a ripetere la leggendaria Pichenibule: sul passo chiave, dove la roccia è scolpita e marmorizzata dalle smartellate dei vecchi chiodi per farla in artificiale, Er Marmista, esperto di quella particolare sensazione sotto le mani, passò in libera, lasciando sbalorditi quelli che lo videro. Ma questo spirito goliardico e delirante aveva anche dei risvolti opposti: un giorno Cafiero raggiunse Ivano a una sosta e lo trovò autoassicurato… al portamateriale.

Durante le scampeggiate in Verdon i romani entrarono ancor più in contatto con molte comitive e tribù scalatorie del nord Italia, conoscendo personaggi del calibro di Dal Prà; e i ragazzi der Condominio facevano così tanto colore che addirittura un milanese conosciuto lì per caso entrò nella loro orbita e si innamorò dello spirito centroitalico, tanto da decidere poi di trasferirsi al sud: Roberto Toffanin, detto “Il Toffa”.

Si frequentò in queste condizioni il Verdon per tre anni di fila; i francesi erano talmente stufi che presero provvedimenti seri. Alla fine i romani furono scacciati con una retata della polizia, Toffa incluso.

La pittoresca partecipazione di personaggi come i ragazzi der Condominio di San Lorenzo o l’affiliazione di individui milanesi è un piccolo esempio di

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E OLtr E)
(1987-1997
“A Dibbà, ma che stai a fa’… sempre a legge ’ste stronzate…” mi diceva Ciato1».
1. Di Bari, 2017, p. 318.

come negli anni ’90 continui forte l’infiltrazione di forze diverse, con contributi nuovi: rotto l’argine del CAI e dell’alpinismo negli anni ’80, questa infiltrazione proveniva ora da ambienti diversi e più eterogenei, che non erano più quelli dinastici tradizionali. Si viaggiava anche molto di più, contribuendo a far circolare più idee, più visioni. La contaminazione aumentava.

In Verdon Seba Labozzetta aveva conosciuto due palermitani, Ignazio Mannarano e Antonio Nastri, che stavano nel giro di Roby Manfré: anche loro erano entrati nel trip dell’arrampicata, che si stava espandendo al sud. Dissero a Seba che c’era tanta roccia a Palermo, tutta ancora da chiodare. Così un giorno lui partì con la sua Guzzi 350 da Roma, verso le 6 del pomeriggio da Piramide, e raggiunse il porto di Napoli, fece il biglietto e salpò, con posto ponte. Da solo. Raggiunse i palermitani e attrezzò parecche vie al Bauso Rosso.

LA c OLONIA r OMANA d I F r O s OLONE

Forti di una cultura acquisita in un decennio di esperienza, coltivata nelle antiche falesie laziali e nei grandi viaggi europei, Roma era finalmente pronta a distribuire il suo nuovo patrimonio culturale anche ad aree non ancora toccate dalla furia verticale.

Nel 1987 Francesco Rauco, un amico di Paolo Caruso, fece capolino alla sede del CAI e a una seduta di allenamento a Ciampino per far vedere agli altri un nuovo posto che aveva scoperto. Mostrò delle foto – in formato piccolo – di alcuni massi che stavano su una collina in Molise, vicino Frosolone. Una serie di monoliti grigi che, su quelle piccole foto, sembravano piuttosto insignificanti: «So’ dei sassi der cazzo!» commentò Medio quando le vide.

«No che state a di’ so’ alti quaranta metri ao!». Rauco allora organizzò una spedizione per esplorare quel posto: c’erano, con lui, Gianluca Mazzacano, Federico Arcioni, Massimo Cingolani.

Federico Arcioni era uno dei più forti dell’ambiente romano. Dopo pochi mesi che aveva cominciato a scalare, faceva già l’8a – e questo in un’epoca senza palestre. Leggerissimo, per batterlo a braccio di ferro facevano fatica in tre uniti contro di lui, tanta era la sua forza di braccia; era paragonabile a Jolly per quanto si teneva.

Gianluca Mazzacano all’epoca andava ancora al liceo, e faceva sega per andare a scalare. Anche se oggi lo conoscono tutti senza capelli, all’epoca aveva capelli lunghi e biondi; ma il carattere è lo stesso. Scalmanato, senza regole e senza catene, e senza alcun tipo di ritegno: con la sua voce dal tono basso fa uscire parole schiette di puro stile romanesco, e tante, tantissime prese per il culo.

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Sta sempre a perculare e fare scherzi di varia natura e vario livello di gravità. Era stato cacciato dal CAI perché sputava sui passanti dal balcone di via Ripetta e aveva tirato un raudo in testa al presidente, Bruno Delisi: un esordio eloquente della sua storia futura.

Il Mazzacano – al di là del suo allontanamento dalle scene tra il ’90 e il 2000 – è uno dei volti più costanti del panorama romano. Nonché dei più noti: se i francesi temono i romani quando vanno nelle loro falesie, quello di Mazzacano è il nome che viene in mente a rappresentare tutta la cagnara che si crea.

Come è stato notato2, è forse il personaggio che più di tutti incarna il romano per eccellenza, coatto, strafottente, irriverente e rumoroso, ma al contempo esperto e sensibile, che nelle sue battute che potrebbero offendere molti nasconde vere perle di saggezza. Non è uno di quelli fissati con l’allenamento: è più appartenente alla scuola del rock’n’roll, sempre pronto a divertirsi piuttosto che a sacrificare bicchieri di birra in compagnia per chissà quale prestazione. Ma al contempo, non essendo neanche il classico arrampicatore mingherlino che se la cava col pesare nulla, ha un rapporto peso-efficienza raro, e il suo curriculum è invidiabile e colmo di vie di gran blasone, tra cui la gran parte degli 8a di scala romana antica – cioè durissimi. E oltre a ciò, è stato sempre e con costanza, negli anni, un chiodatore raffinato, scovatore di linee da subito classiche, come le sue recenti creazioni di Petrella o Subiaco insieme ad altri grandi del trapano romano, come Mati Logoreci e Domenico Intorre.

Molte delle linee più apprezzate di Frosolone sono sue. Ma d’altra parte rappresenta anche l’apoteosi sincera dell’“io te lo devo buttà ar culo”, l’esaltazione massima di quella competitività già vista col Finocchi e il Dibbari.

Il Mazzacano era così competitivo che ti buttava letteralmente giù dalle vie. Una volta buttò giù Franco Capotorti tirandogli la corda per non fargli liberare la via. E la sua mancanza di ortodossia si manifestava anche in altre occasioni socialmente quasi banali: una volta stava facendo sicura a Sofficini, intento a chiodare a mano Arrivederci e Grazie – e dato che ci stava mettendo tantissimo, Mazzacano si addormentò, scaraventando il povero Sofficini a terra e facendogli spaccare il mento (e la giornata finì ovviamente all’ospedale a mettere i punti).

Il Colle dell’Orso è un rilievo che sovrasta piane e colline verdi nel Molise più rurale, sopra il paese di Frosolone. È irto di massi alti fino a quaranta metri dis-

2. Vedi UpClimbing, #7/2020, p. 52, dove è definito “paradigma” dell’arrampicata romana. In realtà Mazzacano non apprezzò molto il tono dell’articolo e chiodò a Subiaco una via chiamata appunto

Il Paradigma, per ironizzare..

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Il Manifesto dei Diciannove diceva: «La competizione concepita e realizzata da una minoranza può rapidamente e troppo facilmente diventare il riferimento assoluto»; oggi questo è generalmente inveratosi nei grandi numeri, laddove, sul modello delle competizioni indoor e dell’enorme risonanza attribuita da media e sponsor al prestazionismo outdoor d’altissimo livello, che passa tipicamente per il superlavorato, oggi chi inizia in palestra è spesso ossessionato dal grado non come termine orientativo per la scelta relativa di un itinerario, ma come valore assoluto per determinare sé stessi e la realtà tutta, facendo quasi andare il gesto, la via di roccia di per sé, in secondo piano; sicché fin dai primordi ci si affannerà a provare e riprovare passaggi di 6b, riportando automaticamente al proprio supposto livello quel che fa Ghisolfi sui 9b, sovrallenandosi per poter riuscire dopo infiniti tentativi e senza perder tempo su vie di grado meno prestigioso ma più didattiche tecnicamente.

Il riferimento assoluto dei media è quello più diffuso nelle palestre, dove quel che conta per le masse è, prima del gesto, il grado dato dal colore: le blu, le verdi, le gialle. Se le palestre dal canto loro hanno tutte le ragioni del mondo, nell’ottica della formazione degli atleti, che necessariamente devono prendere a riferimento i circuiti delle gare, qui emerge con forza il contrasto tra chi scala per gareggiare e chi scala per sé: perché la gara per natura àncora a criteri rigidi, il che è tutto il contrario dell’approccio libero – diremmo artistico – che può avere un percorso individuale quando quegli ormeggi li molli.

Per converso, c’è anche da dire che il maggior numero di persone che si avvicinano al mondo del verticale comporta una loro distribuzione nelle varie discipline proporzionalmente simile a quella di un tempo, percentualmente differita a seconda della varietà presa in questione: sicché, in ogni caso, si vedrà più gente sulle Spalle del Gran Sasso oggi che negli anni ’80, seppur quei tanti che vi si vedono siano pochi rispetto ai frequentatori delle sale indoor, e così via.

Nel mondo di oggi gli stimoli sono innumerevoli, tutto è teoricamente più accessibile e facile da conoscere e provare. Ma in una foresta di informazioni reticolate e confuse, può essere comodo avere quantomeno gli strumenti per potersi orientare e fare le proprie scelte. Questi sono costituiti in gran parte dalla Storia e dai percorsi di chi ci ha preceduto: noi ne abbiamo tratteggiato le linee, sperando che possano essere da bussola e magnete per chi vorrà navigare domani.

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Emanuele Avolio APERTURA SENZA FINE

RINGRAZIAMENTI

Numerose sono le persone cui rendere grazie per questo sforzo, e forse per menzionarle tutte occorrerebbe una seduta di psicoanalisi. Ma intanto:

a Evelina Dubini, che ribalta i miei piani e mi fa sentire una betulla in piena estate.

Ringrazio i miei genitori per avermi lasciato scalare il granito del Campese. Angela Riccardi per avermi spinto in questo mondo. Il professor Pietro Vannicelli per avermi rivelato per primo l’importanza del logos.

Ringrazio Alberto e Adelaide per avermi fatto l’otto. Simone Calligaris per avermi insegnato a scalare in falesia. Nicolò Pesce, la cui sfacciataggine giovanile fece bene a tutti noi. Giorgio Jacoponi, che mi ha costretto a crescere.

Luca Daniele Gentile, i cui moniti sono un mantra. E Sebastiano Zadotti, che mi trasmette giorno dopo giorno cosa voglia dire montagna.

Grazie a Pierluigi Zolli, interlocutore prezioso e presente, generoso di riflessioni sagge, con cui in poco tempo ho condiviso tanto tempo: il suo sostegno e il suo aiuto sono stati fondamentali perché quest’opera vedesse la luce.

Grazie a Fabio Delisi per la bellezza con cui dipinge il mondo e la fiducia che mi ha dato da lontano e da vicino. Grazie a Gianni Battimelli, senza il quale nessuna parola sarebbe stata investita: tutto il percorso sorprendente e inaspettato che ha condotto qui è iniziato a casa sua.

Grazie a Roberto Capucciati, che da subito ha mostrato entusiasmo per il progetto e l’ha assecondato con favore. Grazie a Miriam Romeo per la gentilezza e la pazienza di stare appresso alla mia sgangheratezza.

Grazie a Jolly, che col suo modo singolare di essere presente, c’era. Grazie ad Andrea Di Bari, che è contagioso di vita, straripante di chiacchiere, e sa i doni dell’ospitalità antica.

Grazie ad Angelo Monti, che a qualunque ora del giorno e della notte risponde al telefono, ricorda ogni dettaglio e lo sa raccontare come solo un vero romano sa fare. Le storie che ci ha regalato a tavola con umanità teatrale saranno uno dei più bei tesori.

Grazie ad Alfredo Massini e Lea Sansone, che pur conoscendomi non hanno temuto di sopportarmi nella loro casa per rispondere alle mie domande e condividere la cena.

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Emanuele Avolio APERTURA SENZA FINE
εὐχαριστῶ

Grazie a Giorgio Mallucci, che ha trovato tempo per me nel suo instancabile viaggiare per mari e montagne.

Grazie a Enrico Jovane per i racconti e gli scambi d’idee. Grazie a Medio e Silvia, che hanno dedicato un lunghissimo aperitivo a questo libro.

E grazie a Luca Grazzini, le cui parole sono seconde solo all’oracolo di Delfi. Grazie a Paola Manoni, che ha un modo di voler bene e di incoraggiare metafisicamente viscerale.

Grazie a Pierluigi Bini e a Fabrizio Antonioli. E grazie al piglio da grande professore di lettere di Paolo Caruso.

Grazie a Furio Pennisi, che pur lontano da Roma mantiene la ferma analiticità e l’evocativa passione dei tempi di Flippaut. Grazie a Massimo Frezzotti per i dettagli fondamentali non altrimenti recuperabili.

Grazie a Franco Capotorti, le cui osservazioni hanno vivificato più di un periodo di questa storia. E grazie a Luca Bevilacqua, che ha scritto alcuni dei racconti che più mi hanno ispirato sulla roccia: anche a lui si deve in gran parte questo libro.

Grazie a Gianluca Mazzacano, che ha fornito con prontezza più di quello che gli avevo chiesto.

Grazie a Luca Bucciarelli, che dispensa tempo, sorrisi e racconti fondamentali ogni qual volta glielo si chieda. E grazie a Stefano Finocchi, la cui disponibilità ha superato i desideri di ogni intervistatore.

Grazie a Donatello Amore, che custodisce un culto vivo per le montagne che ha vissuto, e contraccambia ogni domanda con responsi pieni di ricordi rari, pensieri carichi di una passione vera.

Grazie ad Alessandra Bonifazi: ogni conversazione con te mi ha reso negli anni più ricco. E grazie a Piero Ledda, «che spande di parlar sì largo fiume», e che si può considerare il motore primo di questo lavoro.

Grazie anche a Roberto Iannilli, che conobbi solo su carta, ma cui i miei amici, conoscenti e studenti devono gran parte di quello che dico ogni giorno.

E un grazie a Gaston: con gli aneddoti che tu racconti, vive l’immaginario della mia generazione.

257 r IN gr A z IAMEN t I

BIBLIOGRAFIA PARZIALE

Stefano Ardito, Storia dell’alpinismo in Abruzzo, Teramo, Ricerche&Redazioni, 2014.

Gianni Battimelli, Molti friends e alcuni nuts , Roma, Ed. Del Gran Sasso, 2021.

Luca Bevilacqua, Storia dell’arrampicata romana I-IV, in Gognablog, 2016-173.1

AA.VV., Bollettino Unico della SUCAI di Roma 1947-1957. 2

AA.VV., Bollettino Unico della SUCAI di Roma 1957-1967 3

Francesca Colesanti, La libertà è tutto. Chiaretta Ramorino, tante vite in una , Roma, Ed. Gran Sasso, 2021.

Marco Dell’Omo, I conquistatori del Gran Sasso, Torino, Vivalda, 2005.

Andrea Di Bari, Il fuoco dell’anima , Milano, Corbaccio, 2017.

Federico D’Isep, Umberto Gentili, Andrea Giurato, Bruno Vitale, Arrampicare nel sole, Black Comix Press, 1995.

Luca Grazzini, Paolo Abbate, Guida dei monti d’Italia . Gran Sasso d’Italia , Milano, CAI-TCI, 1992.

Roberto Iannilli, Forse accade così. L’alpinismo: un gioco, ma non uno scherzo, Lecco, Alpine Studio, 2011.

Roberto Iannilli, Compagni dai campi e dalle officine, Teramo, Ricerche&Redazioni, 2016.

Alessandro “Jolly” Lamberti, Runout , Roma, Edizioni Climbook, 2014 (Milano, Versante Sud, 2016).

Piero Ledda, ...In cerca di guai, Roma, Edizioni Grafema, 1998.

Piero Ledda, ...In cerca di guai 2 , Perugia, Porzi Editoriali, 2006.

Germana Maiolatesi, Una storia d’amore e d’avventura , Teramo, Richerche&Redazioni, 2020.

Giorgio Mallucci, Kairos. In nessun luogo, fuori dal tempo, Sulmona, Edizioni Il Lupo, 2017.

Massimo Marcheggiani, Porto i capelli come Walter B., Milano, Versante Sud, 2019.

Alberto Sciamplicotti, Rotti e stracciati. Aria di Roma sulle cime, Lecco, Alpine Studio, 2020.

Furio Pennisi, Flippaut , Roma, Edizioni Mediterranee, 1986.

Luigi Mario/Engaku Taino, L’arte di arrampicare in roccia e lo Zen , Roma, 1965.

Luigi Mario/Engaku Taino, Lo Sci e lo Zen, ossia le curve fatte col cuore, Kobe, 1970.

Luigi Mario/Engaku Taino, Con gli scarponi e la corda legata in vita , Orvieto, 2001.

1. Originariamente pubblicato sul blog Fuorivia , poi su Climbingpills , ora raccolto sul blog di Gogna.

2. Consultabile sul sito della Scuola Paolo Consiglio.

3. Idem .

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Emanuele Avolio APERTURA SENZA FINE

La storia dell’arrampicata romana come paradigma della storia dell’arrampicata del mondo. Un trattato scientifico frutto di un enorme lavoro di ricerca. Finalmente un libro scritto senza la mediazione ingombrante dell’ego dei vecchi scalatori romani.

La storia raccontata da Avolio conduce attraverso oltre mezzo secolo di evoluzione del microcosmo verticale, coniugando con raffinato equilibrio il rigore della documentazione e la dimensione picaresca. Una escursione nel passato, cui va uno sguardo che è insieme riconoscente e disincantato, che porta alla ricchezza di espressioni del mondo odierno dell’arrampicata a Roma e dintorni.

€ 20,00 ISBN 978 88 55471 381
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