Kairòs

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Anno I - trimestrale - Giugno 2011

Luca Bracali Oleg Supereco Sundek Smart ecosostenibile Sicurlive Group

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INDICE Anno I – N°1 – Giugno 2011 Presidente Giovanni Buffoli Editore ECOnvention S.r.l. Via del Tappezziere, 4 40138 Bologna (BO)

EDITORIALI

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COGLIERE L’OCCASIONE di Giovanni Buffoli

TRAVEL

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POITOU CHARENT di Lamberto Selleri

REPORTAGE

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LUCA BRACALI di Roberta Filippi

SPORT

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GAETANO RACCONTA GAETANO di Gaetano Mura

I CIGNI NERI E LA SICUREZZA di Lamberto Cantoni

Direttore Responsabile Lamberto Cantoni Direttore Editoriale Roberta Filippi r.filippi@kairosonline.it Marketing Editor Marcella Tusa m.tusa@kairosonline.it

FOOD

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GUALTIERO MARCHESI di Sara Guidi

ALIMENTAZIONE

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WINE

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MOSTRE

LA PATATA di Antonio Bramclet

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AZ. AGRICOLA VILLA FRANCIACORTA di Marcella Tusa

FASHION

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SUNDEK di Marcella Tusa

Advertising Editor Giorgio Armaroli commerciale@kairosonline.it Reporters Antonio Bramclet, Simona Gavioli, Sara Guidi, Lamberto Selleri, Anna Serini

ECOFASHION

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IL BELLO E IL BUONO di Antonio Bramclet

ARTE LES ARBRES di Lamberto Cantoni

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TERRE VULNERABILI di Simona Gavioli

ARTISTI

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OLEG SUPERECO di Simona Gavioli

Art Director Francesca Flavia Fontana Redazione Via del Tappezziere, 4 40138 Bologna (BO) Tel. 051.6024776 Fax 051.6024722

DESIGN

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D’AURIA DESIGN di Roberta Filippi

TECNOLOGIA

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ARCHITETTURA

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SMART ECOSOSTENIBILE di Giorgio Armaroli

CURITIBA COCKTAIL di Marcella Tusa

EVENTI

SICURLIVE GROUP 84

Stampa Varigrafica Alto Lazio s.r.l. Via G. Bettolo, 39 00195 Roma Reg. al Trib. di Bologna N° 8190/7/06/2011 In copertina: Costa, Plant 5, 2011, foto plexi, cm125x250

SICUREZZA NOVITA’ NEI CANTIERI di Giovanni Matteazzi

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EDIL 2011 di Anna Serini

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SICURLIVE • SICURLIVE SYSTEM SICURZONE • EDILSERVIZI

PEOPLE UGO ROSATI di Roberta Filippi

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Cogliere l’occasione Pubblicare una nuova rivista oggi rappresenta una suggestiva sfida. La crisi economica e morale che stiamo attraversando ha polarizzato le identità. Giustamente individui e aziende hanno cercato di difendere la propria specificità, arroccandosi dietro l’immediatamente utile e vantaggioso, a scapito di un contesto più allargato. Questo ripiegamento su ciò che si conosce e produce meglio nella fase di resilienza alla crisi rappresenta una mossa obbligata. Tuttavia sappiamo che la crescita di una azienda e di una forma di vita presuppone l’espansione, l’aumento di conoscenza, la condivisione con altri soggetti di obiettivi e finalità. Ecco perché ho deciso di dar vita ad una esperienza editoriale che possa fungere da punto di incontro tra aziende che aldilà della comunicazione di se stesse mirino ad essere un punto di riferimento per il territorio e i referenti internazionali necessari alla crescita. Si dice che le crisi oltre ai danni offrano opportunità inedite. Mi trovo d’accordo con questa visione ed è per questo che ho scelto di chiamare la rivista Kairòs che significa nel greco classico occasione, nel senso di saper cogliere il momento e agire. Gli esperti mi hanno detto che questo modo di affrontare la realtà precede la nascita della filosofia. In Pindaro, il poeta, troviamo scritto: l’occasione, kairòs è signore del mondo, da essa dipendono, in ultima istanza, le vittorie e le sconfitte. In seguito molti filosofi si sono interrogati sul sottile intreccio tra casualità, opportunità, azione. Non è dunque per caso se tra i manager più evoluti oggi si parla di kairologia ovvero di teoria dell’occasione. Ebbene, ho avuto la sensazione che per sostenere le sfide che il nuovo millennio ci impone dovessimo diventare bravi a sfruttare i momenti favorevoli e, al tempi stesso, non perdere mai di vista il mutamento di contesto in atto. Oggi sappiamo che senza innovazione non potremo crescere come nel passato; sappiamo anche che la tecnologia deve farsi carico di problemi inediti ovvero deve rispondere all’appello della sostenibilità ecologica. Tutto ciò comporta un diverso modo di vedere il mondo e organizzare i saperi necessari per viverlo con onore e dignità. Non spetta certo alle aziende farsi carico di questo nuovo sapere. Ma trovo giusto lo sforzo di comunicare, da parte nostra, le idee guida a mio avviso decisive: l’efficienza viene prima dell’efficacia fine a se stessa ; l’efficienza ci fa essere efficaci nel senso di una trasformazione progressiva che non forza la realtà, non induce inutili spettacolarizzazioni, ma punta ad un rendimento compatibile con la situazione in atto. Occasioni, bellezza ed efficienza sono parole che raccontano bene il contesto del quale giustamente Brescia e i bresciani vanno fieri. Vogliamo raccontarlo al mondo e al tempo stesso vorremmo contribuire a far crescere la cultura del territorio. Insomma ho immaginato una rivista glocal, globale e locale, capace di raccontare prodotti tecnologici e emozioni umane, cultura d’impresa e visioni d’insieme, efficienza e bellezza. A noi piace immaginare che fare impresa sia un’avventura che attraversa tutto ciò che dà valore alle cose; con Kairòs vogliamo raccontarla bene.

Giovanni Buffoli Presidente Kairòs

EDITORIALE

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I cigni neri e la sicurezza Carlo è un affermato esperto della sicurezza nel settore edilizio. Un giorno riceve l’incarico di effettuare un sopralluogo per verificare le condizioni di un edificio industriale da ristrutturare. Per un professionista, da quindici anni sul mercato, è un normale lavoro di routine. In ufficio si studia velocemente le specifiche del tetto in vetro da controllare, poi raggiunge il luogo nel quale si trova la struttura. Sale lungo le scale, attraversa la porta che introduce alla copertura vetrosa, ma dopo pochi passi precipita sfracellandosi al suolo. I presenti scioccati chiamano il pronto soccorso ma, purtroppo, la caduta si rivela fatale. Com’è possibile che un esperto possa incorrere in un incidente così grave? Perché Carlo non ha preso le precauzioni previste dai più ovvi protocolli sulla sicurezza? Come mai l’esperienza non lo ha preservato dal compiere un banale errore? Carlo è un nome di un personaggio immaginario, ma si riferisce ad un increscioso incidente realmente avvenuto nei dintorni di Bologna qualche settimana or sono, con protagonista un noto professionista della sicurezza. E’ chiaro che non posso sapere esattamente come sono andate le cose. La magistratura dopo i rilievi del caso non si è ancora espressa e il fatto è velocemente uscito dalle pagine della cronaca. Tuttavia la narrazione proposta dai giornalisti subito dopo la fatale caduta ci illustra in modo drammatico un problema reale che potremmo definire “la cecità verso gli eventi rari”. Ritorniamo al nostro personaggio immaginario. Cosa può essere successo nella mente di Carlo nel brevissimo arco di tempo nel quale è maturata la decisione di fare una passeggiata sul soffitto di vetro, senza prendere precauzioni di sorta? Per rispondere a questa domanda conviene ipotizzarne subito un’altra: quante volte Carlo avrà testato in modo empirico strutture da sottoporre a controlli? Possiamo congetturare che in quindici anni di attività il

professionista avrà affrontato queste situazioni parecchie volte. Essendo fino a quel giorno fatale sopravissuto ad ogni perlustrazione, abbiamo buone ragioni di pensare che stesse sopravvalutando le regolarità del suo passato a scapito dell’evento raro. In generale noi tendiamo a memorizzare le azioni che funzionano (o i vincitori) e a ricordare con difficoltà gli insuccessi ( o i perdenti). Di conseguenza siamo vittime di una visione sbagliata delle probabilità che accada un evento. Per dirla con Nassim Nicholas Taleb, autore di “Giocati dal caso”(il Saggiatore): “Non siamo sensibili alla probabilità, ma alla valutazione che ne dà la società”. In breve, è possibile che Carlo si sia fidato troppo di una visione ingenua del calcolo delle probabilità apparso per un attimo alla luce della coscienza, dominante tra il senso comune, responsabile di aver prodotto il sentimento di inconsapevole fiducia che lo ha reso cieco nei confronti della crescita spaventosa delle dimensioni del rischio sempre accostabile all’evento raro negativo. In un altro fantastico libro, “Il cigno nero” (il Saggiatore), Nassim Nicholas Taleb, affronta direttamente il problema dell’impatto dell’evento raro, narrandoci e spiegandoci quanto le persone considerate esperte, in realtà, stentino a capire l’impatto del caso, denegandone la possibilità e non accettandone le disastrose conseguenze. Il cigno nero come metafora dell’evento raro utilizzata dall’autore, si ricollega alle parole del filosofo David Hume contenute nel suo “Trattato sulla natura umana”, espresse per suggerire in modo sintetico un punto di vista pregnante sul cosiddetto problema dell’induzione: “nessun numero di osservazioni di cigni bianchi autorizza l’inferenza che tutti i cigni siano bianchi, ma l’osservazione di un solo cigno nero è sufficiente per confutare tale conclusione”. In altre parole, non è vero che un aumento di informazioni porta automaticamente ad un incremento della conoscenza; e se questo è vero allora le inferenze statistiche dietro


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Cosa poteva fare Carlo? Cosa posso fare io, dal momento che come il personaggio immaginario di quest’articolo, sono e sarò beffato dal caso? Se non posso essere né tanto intelligente da escludere l’inatteso dalla mia vita e né abbastanza forte per mettere a tacere le mie emozioni, potrei tuttavia essere consapevole di questi miei limiti. Dal momento che le emozioni non sono eliminabili dalla mia vita posso tentare di trasformarle. Per esempio posso cercare di immaginare che ogni struttura precaria che devo analizzare sia una specie di palude punteggiata da sabbie mobili. Ogni passo riuscito invece che produrre soddisfazione e un rafforzamento nelle mie capacità di indovinare a priori la consistenza della superficie calpestata, potrei considerarlo un avvicinamento al fatale cigno nero. A questo punto la ripetizione (tutti i passi felici che ho fatto) sarebbe accompagnata meno dalla rassicurante certezza che alla fine mi rende cieco nei confronti del rischio e più dal timore di essere fallibile che, tra le altre cose, induce la prudenza e forse mi farà sopravvive all’evento raro negativo. So benissimo che tutto ciò non ha niente a che fare con il calcolo o la scienza. Ma mi conforta sapere che ci sono dei trucchi con i quali posso giocare col caso senza perdere tutto e talvolta addirittura guadagnarci.

Lamberto Cantoni Direttore Responsabile Kairòs

EDITORIALE

le quali si pavoneggiano i cosiddetti esperti portano più problemi che soluzioni. Cosa c’entra il caso di Carlo con il problema dell’induzione, vi chiederete. Se ci pensate bene il filosofo scozzese ci sta dicendo che la storia passata non può darci una misura del rischio utilizzabile per avere la certezza del futuro. Se Carlo, dal numero di osservazioni del passato ha tratto la percezione che l’effettivo rischio in quel momento fosse perfettamente calcolabile allora è andato incontro ad uno degli errori più comuni previsti dal potere che l’induzione ha nei confronti del senso comune (quando dobbiamo prendere delle decisioni tendiamo a dare un’eccessiva importanza alle nostre osservazioni empiriche). Se alla mancata comprensione dei limiti della nostra possibilità di misurare rischi futuri associamo il fatto che non siamo fatti per essere sempre e comunque razionali, allora comprendiamo l’effettiva portata del rischio del cigno nero. I ricercatori di psicologia evoluzionista, tra i quali segnalo Daniel Kahnemann, da anni ci suggeriscono, sulla scorta di esperimenti basati sull’effettivo comportamento delle persone, di riflettere sullo scarto facilmente rilevabile tra un atteggiamento razionale previsto da un approccio normativo (basato su prescrizioni) e la costante presenza di distorsioni dalla razionalità osservabili nelle decisioni di fatto, prese in situazioni di effettivo rischio. Insomma, noi pensiamo che le persone agiscano razionalmente sulla base di ciò che abbiamo stabilito seguendo un certo standard scientifico, ma in realtà spesso succede il contrario. Per Kahnemann la distorsione è prodotta dal lavoro del nostro cervello emotivo, molto più antico e immediato del lento lavoro psichico della razionalità. Quindi non riusciamo ad essere facilmente razionali, non possiamo non provare emozioni e non abbiamo nessun sapere certo capace di calcolare esattamente il cigno nero.


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POITOU-CHARENTES NON SOLO COGNAC La natura, la cultura, i sensi, lo sport, la salute, la fede, l’economia e la religione sono con pari dignità i princìpi propulsori che determinano le mete dei nostri spostamenti. L’acqua, per esempio, è un elemento coagulante che ci aiuta a scegliere i luoghi da visitare. Poitou-Charentes è una regione francese che abbonda di acqua dolce, salata e palustre e sono molteplici le motivazioni che ci spingono a visitare questo territorio che dispone di una via fluviale navigabile: la Charente. Questo fiume congiunge 4 città culturalmente interessanti: Angoulême, Cognac, Saintes e Rochefort: quest’ultima città lambisce la costa atlantica. Senza nessuna formalità burocratica, si noleggia un battello da 4 fino a 12 posti e si parte con la qualifica di comandante, con cambusa rifornita, telefonino e orologio rigorosamente sotto chiave. È impareggiabile una vacanza senza il frastuono della civiltà e l’assillo dei tempi convenzionali che ritmano la nostra vita nella quotidianità. La navigazione inizia, con voi al timone, da Angoulême, i cui antenati erano celti e romani: lo si intuisce dalle fortificazioni che si trovano nel centro storico, dove la cattedrale Saint Pierre, con facciata romanica, è il vero tesoro della città vecchia. Poi il battello fa rotta verso la città di Cognac, meta di veri e propri pellegrinaggi “spirituali”. Qui nasce, prende corpo, anima e invecchia il pregiato distillato di vino, il Cognac.

TRAVEL

di Lamberto Selleri


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Si possono visitare le più rinomate distillerie per conoscere il processo produttivo e assaggiare distillati con 50 anni sulle spalle. Ci si può poi recare al museo per apprendere le origini di questo brandy apprezzato in tutto il mondo. Resta anche il tempo per visitare il castello dei Valois (1494). Il fiume poi raggiunge la città di Saintes, di cui avi fondatori sono stati i romani. Le testimonianze sono molteplici: l’arco del Germanico (18-19 d.C.), l’anfiteatro romano (40 d.C.) e altri reperti gallo-romani giacciono nel museo archeologico. Dell’epoca medioevale svetta la cattedrale gotica di Saint Pierre. Vi sono anche due abbazie benedettine rimarchevoli, l’Abbaye-Aux-Dames (1047) e la Basilica di Saint Eutrope (1081). Il viaggio in battello termina a Rochefort, città arsenale dal XVII secolo al 2002. Il lungo edificio (ora adibito a mostre ed eventi) che misura 374 metri, ospita l’esposizione permanente “Cordes e cordages” (fabbrica di corde per navi militari). Il museo della marina di questa città, che conserva stupendi modellini, è considerato tra i più importanti di Francia. E’ possibile effettuare questo itinerario anche in macchina o bicicletta. Il litorale della regione che guarda l’Atlantico si estende per più di 400 km, di cui più di 100 km sono di spiagge di sabbia fine. Ma non solo: quattro splendide isole fronteggiano la costa. Sono terre incantevoli dove il ritmo della vacanza è scandito solamente dalle attività sportive che volete praticare. A 3 km dalla terra ferma, le più pregiate ostriche di Francia nascono e soggiornano nell’isola d’Oléron (175 km2 - seconda dopo la Corsica), gradite ospiti nelle capanne degli ostricoltori in attesa di compiacenti visitatori che sappiano apprezzare, o per meglio dire gustare, la loro compagnia. La stazione balneare di Royan ricorda i fasti che questa isola conobbe durante la Belle Époque. L’Île de Ré è collegata alla costa da un ponte di 3 km ed è lunga 30. Si possono percorrere in bicicletta i 100 km di piste ciclabili o raggiungere a piedi grandi spiagge che attirano gli amanti del dolce far niente. Île de Aix, invece, è la meta ideale di coloro che hanno un buon rapporto con la natura e desiderano muoversi a piedi o in bicicletta. E’ lunga 3 km, larga 700 metri e dista 20 minuti di battello dalla costa. L’ultima isola è l’Île Madame, piccolissima, solamente 75 ha. E’ una avventura raggiungerla: si può farlo solo a piedi con la bassa marea. Dalla città di Niort, che mette in bella mostra un possente Mastio, retaggio della dominazione inglese del XII secolo, si può partire per esplorare una interessante zona umida paludosa, la Marais Poitevin, seconda solo alla Camargue. È ancora ricoperta da vegetazione palustre e si può perlustrare con barca inoltrandosi


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nell’intreccio dei canali, oppure in bicicletta. La zona pianeggiante della Marais si presta a tranquille gite familiari. La capitale della regione Poitou-Charentes è la famosissima Poitiers, per via della storica battaglia del 732 che pose fine all’avanzata degli arabi in Europa e per essere un passaggio obbligato per i pellegrini che da Parigi si dirigono a Santiago di Campostela. Tuttavia per molti italiani il nome della regione rimane sconosciuto, anche se tutti conoscono il Cognac, un distillato di vino chiamato così dal nome dell’omonima città del PoitouCharentes. Il Cognac ha due padrini: l’Imperatore romano Probo (328 -388 d.C.), che concesse agli abitanti della regione Gaullois (allora si chiamava così) il privilegio di coltivare le vigne, e gli olandesi, che furono i precursori nella distillazione dei vini francesi (1600). Questo bidistillato di vino invecchiato in botti rovere è venduto in bottiglia solo dal 1880 e oggi vi sono 450 aziende che lo producono.

Per informazioni: www.poitou-charentes.fr www.iledere.com www.ile-oleron-marennes.com www.iledaix.fr www.ilemadame.com it.franceguide.com


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LUCA BRACALI di Roberta Filippi


nella pagina accanto: Orso con cuccioli - Wapusk, Canada a destra dall’alto: Orso Grizzly - Portage, Alaska Coccodrillo - Limpopo, Sudafrica

Finalmente sono arrivate le tanto attese vacanze. Era un po’ che pianificavo questo viaggio in Madagascar, uno dei paesi con il più ricco patrimonio ecologico del mondo in cui si contano circa 50 aree protette tra riserve e parchi. Sono in aeroporto, check-in già fatto. Amo viaggiare da sola, aver del tempo da dedicare alla lettura e a me stessa. Decido di andare in edicola a comprare una rivista per far scorrere il tempo. Scorgo una rivista di fotografia, la mia nuova passione. Sfogliandola mi imbatto in filtri, polarizzatori, tempi di otturazione… finché la mia attenzione non viene catturata da una delle vedute più spettacolari che io abbia mai visto: l’inusuale immagine del Coeur de Voh, un cuore “scolpito” da madre natura in una foresta di mangrovie lungo la barriera corallina a nord ovest dell’isola principale. Decido di acquistarla e mi dirigo verso la sala d’aspetto. Passeggio continuando a leggere e incautamente mi imbatto contro un giovane. Alzo lo sguardo e, nello scusarmi, scruto con insistenza quel viso famigliare. Cerco di far mente locale e mi rendo conto che sulla rivista che tengo stretta tra le mani c’è proprio una sua fotografia. Luca Bracali. Fotografo pistoiese doc che da più di vent’anni gira il mondo per raccontare di luoghi, fauna, culture e civiltà documentando la realtà dell’uomo e della natura con immagini fotografiche, servizi e articoli pubblicati sulle principali testate italiane di viaggi, turismo e natura. Ovviamente lui si accorge del mio imbarazzo e, con estremo garbo, mi chiede se può offrirmi un caffè. Accetto e ci dirigiamo verso il bar. “Il Tibet è uno dei 13 luoghi imperdibili al mondo che ancora mi manca da visitare e la sua cultura è così affascinante che perdersi dentro è già di per se un viaggio nell’anima” rompe il ghiaccio Luca, capendo che il mio sguardo si era soffermato sul libro di James Redfield “The Secret of Shambhala” che tiene sottobraccio. “Se poi penso alle ingiurie che questo popolo ha subito negli anni e soprattutto a quelle che sta affrontando adesso, non posso che provare la mia più grande ammirazione per la loro straordinaria dignità”. L’accento toscano di Luca e la sua loquacità mi fanno subito sentire a mio agio. Mi racconta di aver visitato 124 paesi e di aver fotografato dalle aride steppe della Mongolia fino alle isole Svalbard, dal delta dell’Okavango fino allo Yukon, dalle San Blass all’Antartide. “Adoro le mete artiche, qualunque esse siano. Islanda, Groenlandia, Svalbard, Canada e Alaska sono le mie destinazioni preferite, quelle nelle quali ho vissuto i miei momenti più belli e dove ho realizzato i miei reportage più significativi. Dovessi scegliere un viaggio forse

REPORTAGE

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rifarei la spedizione in Canada e Alaska del 2008, dove con la mia troupe video abbiamo trascorso 35 giorni in pieno inverno, seguendo l’uscita dalle tane dei cuccioli di orso polare e cercando di conoscere meglio il mondo degli ultimi inuit.” Incuriosita, chiedo a Luca di raccontarmi una delle sue esperienze più belle. “Questa è una domanda piuttosto impegnativa” mi dice sorridendo “concedimi almeno di ricordarne tre. La prima è stata avvistare l’aurora boreale e vivere a Barrow la sua intensa magia in quella danza fluttuante di colori. La seconda è quando ho colto le effusioni fra mamma orsa e i suoi cuccioli dopo aver atteso questo momento per 5 ore a 53 gradi sottozero. L’ultima l’ho vissuta un paio di mesi fa, quando sono stato fra i pochissimi fotografi al mondo, se non addirittura l’unico dopo l’inaugurazione, ad entrare nella «inaccessibile» camera 2 del Global Seed Vault, la Banca Mondiale dei Semi, la stessa dove persino Bill Gates, Al Gore e il Principe di Norvegia sono rimasti fuori.” Sono letteralmente conquistata da questi suoi racconti e incalzo la conversazione con altre domande. “Cosa ti ha spinto a fare questo lavoro?” Luca mi guarda intensamente poi con molta sincerità mi confessa che voleva dimostrare prima di tutti a sé stesso che non era “the fool on the hill” cantato da Beatles. “Ero considerato lo zimbello dagli amici del mio paese, il più deriso della classe alle superiori, un timido, insicuro e pauroso. E poi la grande scoperta della fotografia. Insomma è stato un po’ un senso di rivincita.” Improvvisamente sentiamo annunciare che il volo per Antananarivo è in ritardo di due ore. E’ forse la prima volta che non mi indispettisce dover subire un ritardo. Alzo le spalle e chiedo a Luca se ha voglia di raccontarmi come si prepara a un viaggio estremo. “Con la mente. Faccio una specie di training autogeno ogni mattina prima di alzarmi. Proietto nella mente le difficoltà che dovrò sopportare: il freddo, la fatica, lo stress, i rischi ambientali. Ma, come mi disse alla vigilia della mia partenza sugli sci per il polo nord geografico Victor Boyarsky, uno fra i più grandi esploratori al mondo, l’80% di una missione polare non dipende dalla forza fisica bensì da quella del pensiero. Poi l’alimentazione e i vizi giocano un ruolo fondamentale. Io fortunatamente non ho mai fumato, né bevuto un caffè, o tantomeno usato droghe. E mangiare di tutto un po’ oltre ad essere libero da qualsiasi forma di dipendenza, ti aiuta a svegliarti con quell’energia in più”. Ero stata completamente assorta dai suoi racconti che non mi ero neppure resa conta che Luca aveva ordinato una spremuta d’arancia. Provo a immaginare, freddolosa e amante del confort

nella pagina precedente: Aurora Boreale - Wapusk, Canada a sinistra dall’alto: Albero solitario - Parco di Yellostone, USA Ippopotami - Delta dell’Okavango, Botswana a destra: Geyzir - Parco di Yellostone, USA


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nella pagina accanto: Masai - Lake Manyara, Tanzania a destra dall’alto: Donna - Pachabhiya, Nepal Bambina - Amazzonia, Perù sotto: Luca Bracali - Polo Nord Geografico, 90° parallelo

come sono, di come possa essere fare un viaggio estremo al Polo Nord. “Qual è stata la tua paura più grande?” gli chiedo. “Un faccia a faccia con un orso polare in pieno Mar Glaciale Artico a 40 gradi sottozero. Ma anche la fuga da un branco di elefanti in Benin e Botswana, l’attacco di un ippopotamo nel Kafue River in Zambia ed aver finito l’ossigeno a 23 metri di profondità mentre riprendevo un branco di 5 squali alle Seychelles.” Veramente incredibile. E pensare che Luca, che pesa solamente 57 chili, abbia avuto il coraggio di affrontare ippopotami, elefanti e squali mi rende consapevole del fatto che probabilmente la potenza muscolare non è così importante quanto la resistenza fisica. Luca ha studiato la pittura del 16esimo secolo, rimanendo affascinato dalla luce di Van Eyck e dai toni saturi impressi dal Caravaggio, detesta il fotoritocco perché “sporca” la purezza dell’immagine e, a suo avviso, fuorvia l’occhio del lettore. Il suo linguaggio conosce solo tre regole: soggetto, forma e colore. Ed è questo, secondo l’artista, il miglior modo per comunicare a tutti la struggente bellezza del nostro mondo e ciò che rischiamo di perdere se non impariamo ad amarlo. Il fotografo fa, dunque, della foto di reportage naturalistico un’esperienza estetica. Alla funzione di documentazione del reale sovrappone gli effetti artistici. Questa magia è il risultato di un encomiabile controllo del mezzo fotografico e dell’attitudine a confrontarsi con i valori visuali tipici della grande pittura di ogni tempo. Stanno annunciando il mio volo. Questa entusiasmante chiacchierata mi ha permesso di trascorrere piacevolmente due ore senza quasi accorgermi del ritardo. Mentre riprendo la mia borsa, stringo la mano a Luca e, salutandolo, gli porgo un’ultima domanda: “Qual è Il tuo desiderio più grande?” Senza pensarci mi risponde: “Fermare il tempo in questo istante e continuare a fare il Luca Bracali per tutta la vita.”


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GAETANO RACCONTA GAETANO di Gaetano Mura


La terra, il Brasile, Salvador de Bahia, il traguardo. Poche ore e il risultato, l’obiettivo, la scommessa è quasi vinta. Quasi perché tutto può succedere. Non posso permettermi di pensare al dopo, al futuro seppur vicinissimo. Mente e corpo sono concentrati sul qui e ora. Nessuna distrazione, resettare il sogno. Fino all’ultimo “metro” mi sono imposto la massima concentrazione come alla partenza, proprio in questi momenti può succedere di tutto, sono le ore più critiche. Non è finita. Potrò far respirare il cervello solo quando tutta la barca ha attraversato la linea del traguardo. Questi i pensieri dopo 31 giorni di navigazione in solitario dentro l’Oceano, novemila chilometri su una barca che non raggiunge i sette metri, in pratica un guscio, quando si è vicini alla meta. In quei momenti ho imparato a saper aspettare perché non si può sprecare un sogno coltivato da ragazzo, un lavoro di anni per un’esaltazione. Ho iniziato dalla fine il mio racconto sulla Transat 2009, la regata oceanica in solitario, a cui ho partecipato due anni fa e che mi ha regalato soddisfazione, gioia e piacere. E tanti sacrifici. Non solo in mare aperto, lontano da tutti, e avvolto da freddo e stanchezza ma anche nella impresa precedente: anni di fatica per costruire la barca, trovare gli sponsor, preparare fisico e mente. L’emozione del traguardo ma la felicità, e la paura di non farcela, l’ho sperimentata anche alla partenza: sulle banchine del “Vieux Port” a La Rochelle. Anche quello un traguardo: essere ammesso ad una delle sfide più impegnative per un navigatore. E ricordo bene la vivacità, il brulicare di appassionati, sportivi, parenti, amici, affetti cari in quelle banchine francesi. I tamburi, le foto, le telecamere professionali delle televisioni francesi e quelle amatoriali, i baci, i saluti. Una festa sportiva ad alto tasso umano. Poi vele, alberi, scafi e mare tanto mare. L’avventura che pompa nelle vene e la mente libera. Perché i pensieri devi espellerli quando navighi. La barca è il tuo riferimento continuo. Ti accompagna continuamente con la paura che si rompa qualcosa perché anche la migliore preparazione, il miglior stato fisico, la strategia e la tattica di gara più studiata non servono se ti manca quella dose giusta e necessaria di fortuna. Vincere e controllare lo stress perché bisogna andare veloci. Molto veloci. Sei in mezzo al Oceano per quello, per far andare la barca. Fino alla meta. In mezzo navigare, studiare il tempo, risparmiare energie. Ogni movimento sulla barca è quattro volte più dispendioso di uno a terra. Dormire è un frame di 20/30 minuti, intervalli di micro sonno. Mangiare da soli, il cibo diviso giorno per giorno, dentro una busta diversa. Quasi tutto secco o liofilizzato, col giusto apporto energetico. Cibo da consumare a

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seconda delle diverse zone climatiche che si attraversano. Quando il mare è veramente brutto solo barrette energetiche. Astronauta dentro il pianeta terra. Stanchezza e freddo. L’acqua inzuppa e bisogna cercare di asciugarsi il più possibile, i vestiti che non si asciugano e resta la coperta termica. Il corpo è sferzato di continuo. La mente ballerina. Con gli sbalzi repentini d’umore. Urli ma non ti ascolta nessuno: chi e cosa mi hanno portato qui. Poi: ma faccio il mestiere più bello del mondo. Bilanciare le emozioni è questa la capacità più importane di un navigatore che deve tenere la barra su: umore costante. Una sfida con il tempo, la tecnologia della barca ma soprattutto una sfida con se stessi. Il viaggio più importante è quello interiore. Poi le allucinazioni che si chiamano illusioni; reali e vissuti pur con la consapevolezza che non esistono. Un’ illusione lucida, figlia della stanchezza ma molto pericolosa e da tenere sotto controllo. Perturbazioni normali in mare, in montagna, nel deserto quando si affrontano situazioni estreme. Quando non puoi comunicare con nessuno e parli alla web cam, registrazioni che poi ho usato per il mio film Transat 2009, da solo. Quanto daresti in quei momenti per cinque minuti cinque di telefonata con i tuoi cari. Con tua moglie, con i tuoi figli Anche solo per scherzare, lamentarmi, ridere. Ma anche questo fa parte del gioco. Ed è bello perché è una delle poche avventure in solitudine. Lontano dai cellulari, dal satellitare, da internet. Sei solo e quando ci sono le calme equatoriali ti chiedi ma sono solo io fermo. Gli altri dove sono. Ma quando si arriva scivola tutto e si pensa subito alla nuova meta e obiettivo. Ma prima, per vincere la vera sfida con te stesso, è obbligatorio riassaporare il gusto di navigare sotto casa. Respirare soddisfazione con la barca nel mare di Cala Gonone, al centro della costa orientale sarda, dove mi rifugio. Nella mia casa a strapiombo sugli scogli di lava. Gironelmondo il mio nuovo sogno che sto costruendo giorno per giorno. La nuova barca, gli sponsor, le idee di comunicazione, le collaborazioni. Un nuovo viaggio con il progettista e architetto navale Sam Manuard, una nuova impresa con Bert Mauri nella sua casa accogliente, laboratorio d’idee di macchine a vela, cantiere artigianale di alta qualità tra le colline romagnole. Nuova solidarietà con tutti gli amici che mi sostengono e mi danno una mano. Anche questa è avventura. Regole sociali e non quelle della natura. Un viaggio per un altro viaggio. Il gironelmondo che spero bello ed entusiasmante come la Transat 2009.


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GUALTIERO MARCHESI di Roberta Filippi Nato a Milano nel 1930 nell’albergo “Mercato” di proprietà dei genitori, Gualtiero Marchesi si è subito confrontato con la cucina e l’ospitalità. Il suo approccio con la gastronomia avvenne, quindi, in giovane età e la sua formazione professionale iniziò al Kulm di St. Moritz. Molto affascinato dal «disordine calcolato» tedesco (come ama definirlo) si recò a Lucerna, in Svizzera, per completare i suoi studi nella scuola alberghiera (1948 - 1950). Ritornò dunque ad occuparsi dell’albergo di famiglia, immergendosi completamente nel lavoro. Nonostante fosse appassionato da sempre di musica classica – passione ereditata dal padre – e avesse iniziato a suonare il pianoforte abbandonò tutto per dedicarsi a quello che sarebbe poi diventato l’amore della sua vita: la cucina. Fu il primo, nella metà degli anni ‘50, a stilare una carta dei vini italiani mirata e qualitativamente esauriente, dando al nettare di Bacco, l’importanza che meritava e ponendo al fianco di ogni etichetta la gradazione corrispondente. Successivamente si recò in Francia per perfezionare le sue tecniche culinarie presso alcuni dei migliori ristoranti francesi quali il “Ledoyen” a Parigi, “Le Chapeau Rouge” a Digione ed il ristorante dei fratelli Troisgros a Roanne. Esperienze che gli permisero di capire l’importanza della conoscenza della materia e lo resero sempre più attento all’evoluzione che anima l’alta cucina. Dopo aver chiuso l’albergo dei genitori, decise di aprire nel 1977 il ristorante a Bonvesin de La Riva. Frequentato da persone di gran fama come Fellini, Agnelli, Testori e Visconti e proposto dalle migliori guide ai vertici della ristorazione ricevette in solo otto anni le tre stelle Michelin: nessun italiano era mai arrivato a tanto. Dato che il servizio in quegli anni si stava annientando e il cuoco voleva essere garante fino in fondo della compiutezza del piatto, Marchesi decise di recuperare la gestualità del maître con portate


come l’Anatra al Torchio trinciata e torchiata in sala e il Rombo in Crosta di Sale, aperto e diviso in porzioni al tavolo del cliente. Il maître, infatti, trinciando o aggiungendo un ingrediente, fornisce il tocco al piatto per avvicinarlo alla sua perfezione. Nell’arte culinaria, ogni gesto ha una sua intrinseca giustificazione. Esiste così un rapporto ben definito tra la scelta di un certo ingrediente, l’adozione di una determinata tecnica di cottura, l’impiego di una particolare combinazione aromatica e l’effetto finale che si vuol conseguire: le cognizioni possedute in proposito costituiscono allora il fondamento senza il quale la cucina non potrebbe esser altro che l’inesplicabile risultato di accostamenti fortuiti e azioni casuali Si trasferì nel 1993 nel verde della Franciacorta, terra di quiete bucolica dall’antica nobiltà bresciana rinomata per i suoi vini. «Qui, in questo tempio nascono le mie idee, inspirato dal ciclo delle stagioni, sedotto dal potere magico del posto. A contatto diretto con la natura, ho trovato la mia condizione ideale per creare. In questo luogo tranquillo e incontaminato, trascinati dallo stesso entusiasmo, io e la mia brigata vorremmo far sognare i nostri ospiti scambiando con loro, attraverso il linguaggio universale del cibo, “tradizione”, “divertimento” e “professionalità”. Qui, risiede la forza generatrice, il motore che trasforma le idee in materia. Se cibo è comunione, l’Albereta è il presupposto ideale perché ciò avvenga». I piatti proposti nel ristorante dell’Albereta, non sarebbero gli stessi se il Maestro avesse operato in Baviera o in Sicilia. Questo perché ama utilizzare gli ingredienti del territorio e operare sulle ricette della tradizione locale per poi proporre anche piatti nuovi ma in sintonia con l’ambiente. Si tratta, come viene definita dallo stesso Marchesi, di una «cucina microclimatica in quanto è il microclima che condiziona tutto il territorio. Un bravo cuoco deve imparare a cucinare e non a fare delle ricette. Una volta imparato questo, in qualunque parte del mondo si trovi l’importante è interpretare il microclima». È dunque la tecnica che permette di dominare il territorio e fare qualcosa di universale. La volontà di Marchesi è quella di rendere al cibo la sua caratteristica prima, senza barocchismi e senza gravare con componenti, aromi e salse sull’essenzialità aromatica. Marchesi suddivide l’Italia in 3 fasce microclimatiche: la cucina nordica, più dolce; quella centrale (Lazio, Toscana, Umbria) piccante, forte, sapida, quasi volgare; fino al Sud, dove la freschezza e la dolcezza richiamano nuovamente l’immagine della cucina nordica. Gualtiero Marchesi, dopo aver ricoperto dall’1986 la carica

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di presidente dell’Euro-Toques Italia, viene eletto nel triennio 2000-2002 Presidente dell’Euro-Toques International, carica di gran prestigio dato che l’associazione, con sede a Bruxelles, è rappresentata in diciotto paesi e raccoglie quasi 3000 Chefs di altissimo livello. Nel gennaio 2001 inaugura il nuovo ristorante Gualtiero Marchesi per il Lotti a Parigi, in rue Castiglione 9, nelle vicinanze do Place Vendome, all’interno del Jolly Hotel Lotti. Questa apertura rappresenta un passo ulteriore della strategia, in fase di continua materializzazione, che prevede l’apertura di alcuni ristoranti gastronomici particolari a marchio Gualtiero Marchesi che, situati in location molto selezionate, consentiranno ai clienti di trovare e riconoscere il suo stile e la sua filosofia di cucina. Il Ristorante di Parigi è inserito nella guida Michelin 2002 con una stella e verrà trasferito nel 2004 a Cannes, in Boulevard La Croisette, 50 dove verrà battezzato Les Princes par Gualtiero Marchesi. Nell’ottobre 2002 Gualtiero Marchesi inaugura l’Hostaria dell’Orso, il più antico ristorante della capitale, ubicato in una palazzina medioevale di proprietà del Comune le cui fondamenta risalgono al 1400 d.C., sita tra Piazza Navona ed il Tevere. L’Hostaria dell’Orso si sviluppa su 3 piani, il piano-bar quindi l’ampio ristorante con il gran loggiato che si affaccia sul Tevere; completamente ripensata la discoteca all’ultimo piano, con una delle viste più belle di Roma. All’Hostaria dell’Orso viene presentata da un allievo di Gualtiero Marchesi la sua filosofia di cucina, dai suoi piatti storici ad una raffinata rivisitazione della cucina romana. Nel 2003 inaugura il Club Medusa su Costa Mediterranea dove un allievo di Gualtiero Marchesi realizza per gli ospiti della nave piatti classici della cucina regionale italiana rivisitati in chiave marchesiana. Nel gennaio 2004 apre i battenti Alma, Scuola Internazionale di Cucina Italiana, fortemente voluta da Gualtiero Marchesi. Le esperienze e il vissuto hanno spinto l’uomo e il professionista ad impegnarsi in un progetto che offre la possibilità di apprendere la Cucina Italiana in modo unico e singolare.Gualtiero Marchesi ha da sempre affermato che «l’esempio è la più alta forma di insegnamento». Con Alma ha superato se stesso verso una dimensione composita e connotata. Alma ha sede nello splendido Palazzo Ducale di Colorno, a pochi chilometri di distanza da Parma. La scuola attrezzata da strutture didattiche all’avanguardia, vede tra i suoi insegnanti alcuni degli chef più rappresentativi della

cultura gastronomica italiana. Gualtiero Marchesi, nel ruolo di Rettore, offre la sua esperienza e professionalità con una équipe di professionisti al fine di realizzare un centro di formazione a livello internazionale che permetta di cogliere l’essenza della Cucina Italiana, simbolo nel mondo di uno stile sinonimo di eleganza, leggerezza e semplicità. Alma concepita con una sinergia di particolari creanti un insieme decisamente armonico vuole trasmettere nello stesso tempo conoscenza e innovazione, tipicità e sperimentazione, svelando i segreti per dominare la tecnica. Nel gennaio 2007 è stata inaugurata a New York L’Italian Culinary Academy che nasce da una partnership tra il French Culinary Institute e la Scuola ALMA di cui Marchesi è il Rettore. Nel maggio 2008 apre a Milano il Ristorante Teatro Alla Scala il Marchesino. Il ristorante è anche un laboratorio che come tutti i posti dove si mettono alla prova le idee deve contare su qualcuno che coltivi la stessa capacità reattiva. Qualunque sia l’orario, il maestro Gualtiero Marchesi inizia volentieri, a parlare, a spiegare, coinvolgendo dialetticamente ed emotivamente l’allievo, Daniel Canzian. Da questa collaborazione, poco cerimoniosa e molto concreta, sono nati alcuni piatti che non appartengono più solo alle divagazioni di Marchesi e alla tenacia di Canzian, ma alla storia del locale. «Il Marchesino ci permette di sentirci più liberi, e questa indipendenza fa sì che, grazie all’entusiasmo, alla curiosità e alla passione, alla fine ci sia più purezza nel piatto. Meno giri di parole. È il caso, per esempio – precisa Canzian – di carn’è pesce, nato nel 2009. Sembra niente, quelle fette di manzo e branzino crudi, alternate con tre salse accanto. Eppure c’è molta tecnica e molta esperienza. Con il maestro succede quasi sempre così. Ci parliamo, provo, ci rivediamo, riproviamo e alla fine, serafico, mi dice: Daniel non hai capito niente, però funziona!» Sempre nel 2008 rinuncia pubblicamente ai punteggi delle guide e a gennaio 2009 riceve a Madrid il Grembiule d’oro insieme ad altri dieci cuochi internazionali che hanno influenzato la cucina dell’ultimo decennio. Sempre a Madrid, in febbraio, il settimanale Metropoli (supplemento del quotidiano El Mundo) gli consegna il premio internazionale alla carriera, istituito per il primo anno. Nella primavera del 2010, in occasione dei suoi ottantanni, il Comune di Milano ha dedicato a Gualtiero Marchesi una grande mostra al Castello Sforzesco. Per festeggiare, Gualtiero Marchesi ha ideato una nuova versione del suo più famoso riso. Se il riso all’oro si componeva sul piatto come una sorta di architettura simbolica, il nuovo riso al nero di seppia appare come un’istantanea


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dallo spazio. Il piatto che lo inquadra come una imprescindibile cornice avrà sulla falda dei profili in platino e sopra il riso nero cadranno come astri delle schegge di oro bianco. Resta ancora segreto l’ingrediente finale. Importante per Gualtiero Marchesi è conoscere prima di tutto la materia prima, saperla poi cuocere e presentarla facendosi coinvolgere con tutti i sensi: la vista, l’olfatto e il gusto ma anche il tatto, importantissimo per la consistenza e l’udito, per il rumore delle preparazioni. È questo che rende la sua cucina totale e gli permettono di pensare e costruire i suoi piatti come un’opera d’arte visiva. «Amo la cucina salutistica, della purezza, della semplicità. La cucina nella quale tutti i valori essenziali vengono rispettati: la qualità del prodotto, il territorio, la tradizione, la cottura, la leggerezza, l’eleganza, l’estetica. Il tutto mi ha condotto ad una cucina minimalista. La semplicità mi ha permesso di cogliere l’essenza. Il minimalismo sinonimo di essenza. Quale migliore frase può esprimere il mio lavoro se non “La verità della forma è l’unica strada per eliminare l’inganno dell’apparenza” ». Assaporando la cucina di Gualtiero Marchesi ci si trova coinvolti sia nel cuore che nella mente, oltre che nei sensi, cedendo ad emozioni che implicano profondità e riflessione. Le diverse fasi della cucina di Gualtiero Marchesi Gualtiero Marchesi ha attraversato varie fasi nel suo modo di cucinare, mantenendo sempre ben presente che «la cucina è prima di tutto salute». Partendo dall’influenza che quotidianamente gli veniva trasmessa dai genitori e dai suoi parenti (tutti grandi chef) che lavoravano nell’albergo di famiglia “Mercato”, egli cucinava materie prime stagionali e piatti che nonostante rimanessero ancora molto legati alla tradizione si rivelavano già freschi, moderni e leggeri. Prima di sposare la nouvelle cousine decise di comporre piatti non esclusivamente ricchi e golosi ma belli, buoni e semplici al contempo. Egli, grande estimatore di musica classica, paragona spesso la musica alla cucina in quanto entrambe, secondo Marchesi, sono dotate di partitura. «Ma nella partitura c’è tutto, tranne l’essenziale» fa notare il Maestro. Maturando esperienze, Gualtiero Marchesi si rese conto che l’importante era riuscire a valorizzare il prodotto per quello che voleva esprimere. È per questo che presenta il fritto in cestini di vimini con coperchio o porta in tavola il rognone cotto intero alla coque (in quanto cotto nel suo grasso) per poi tagliarlo al tavolo. O ancora il brasato a

porzione servito nelle cocotte di rame saldate con la pasta pane, che verrà rotta al tavolo facendo assaporare al cliente, oltre che l’aspetto olfattivo anche la riscoperta visiva delle pietanze. Dopo trent’anni scopre, in uno dei suoi viaggi in Giappone, come la cucina kaiseki rispecchi il suo pensiero. «I giapponesi» racconta «fanno tutti i tipi di cottura: sashimi (pesce crudo raffreddato in contenitori di ghiaccio), tempura (fritto), teppan yaki (alla piastra) ». Attraverso cotture diverse ogni cosa viene posta in valore per ciò che vuole essere. Cerca quindi il lato estetico del piatto. Un’estetica vera e propria e non solamente coreografia. E il Maestro, essendo amante di Kierkegard, conosce bene la differenza fra i due concetti. La fase successiva è la riscoperta della spettacolarità. La cucina è come l’arte, bisogna riuscire a stabilire un equilibrio tra cuore e cervello. Evidentemente è necessario rifarsi alla tradizione ma bisogna dimenticarla senza tuttavia tradirla per ignoranza o per negligenze. E così si diventa cuochi senza pregiudizi che nella confezione di un piatto riconoscono soltanto la legge dell’equilibrio imposta dalla natura. In ultimo, come i musicisti che rinunciano a suonare per diventare direttori d’orchestra, anche Gualtiero Marchesi si allontana dai fornelli per dirigere la sua orchestra, ma con tutti i cinque sensi attenti a recepire anche la più piccola imprecisione della seconda tromba.

Cosa pensa di sé stesso Mi considero fondamentalista nel mio rapporto col cibo, dove fondamentalista racchiude i tre principi essenziali: semplice, buono, bello. Tutti e tre viaggiano paralleli e sono necessari l’uno all’altro. Fondamentale è la semplicità estrema dove l’alimento, spogliato dall’inutile, esprime le sue vere qualità. Fondamentale è il buono dato dalla qualità del prodotto e dalla capacità del cuoco nel contestualizzarlo rispetto agli altri elementi, e valorizzarlo attraverso l’esecuzione. Fondamentale è il bello come massima rappresentazione visiva di tutti i valori.


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LA PATATA

L’alimentazione corretta dipende soprattutto dalle materie prime con cui è fatto il nostro cibo. Una collana di prestigiosi libri racconta l’avventurosa storia dei componenti di base della nostra cultura alimentare intrecciando scienza, agricoltura, storia e costume.

Da un po’ di anni il crescente interesse nei confronti di come ci alimentiamo ci ha fatto riscoprire l’importanza di saperne di più sui prodotti base della nostra dieta e sulle condizioni della loro produzione. Oltre al cotto ci stiamo appassionando al crudo che del primo ne rappresenta le condizioni materiali. Bayer Crop Science grazie ad una colossale avventura editoriale ha colto le ragioni profonde di questa nuova domanda di cultura e ha presentato sul mercato della conoscenza una collana di libri di nuova concezione, centrati sull’analisi dei prodotti di base della nostra alimentazione, raccontati a partire da punti di vista eterogenei, ma senza mai perdere di vista le ragioni della scienza applicata alla loro producibilità. Ultimo arrivato in libreria è la monografia sulla patata; 1000 pagine dedicate ad uno dei prodotti agricoli più importanti dell’alimentazione mondiale. Abbiamo chiesto a Giancarlo Roversi, curatore delle sezioni culturali e umanistiche, nel corso di una breve conversazione, di chiarirci utilità e scopi di una ricerca imponente per vastità e dimensioni, unica sul mercato dei saperi.

ALIMENTAZIONE

di Antonio Bramclet fotografie di Paolo Barone


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Perché un libro così importante per un prodotto così poco spettacolare? Dobbiamo partire dalla considerazione che la patata è uno dei cibi più comuni nel mondo; forse è il cibo più democratico dal momento che la sua diffusione non conosce confini, potendo essere coltivato praticamente su qualsiasi terreno e in qualsiasi situazione climatica. Soprattutto nei paesi a basso sviluppo sarebbe impensabile sfamare la popolazione senza l’utilizzo delle patate. Pur avendo origini antichissime, in Europa si è diffuso veramente solo a partire dal ‘700. Prima veniva considerato un cibo da utilizzare per animali e prigionieri. Poi, grazie a piccole scoperte culinarie ha cominciato a conquistare la tavola di tutte le classi sociali. Al punto che verso la metà dell’800 era già divenuto il cibo di base dell’alimentazione dell’intera Europa. Si può senz’altro affermare che senza di esso avremmo avuto ciclicamente carestie devastanti che avrebbero avuto effetti sociali e politici incalcolabili. Lo dimostra ciò che avvenne in Irlanda dopo la metà dell’800, quando la peronospora distrusse le coltivazioni di patate: il paese venne sconvolto dalla carestia, vi furono milioni di morti e gran parte della popolazione fu costretta ad emigrare. Ma aldilà di queste considerazioni geoagricole, possiamo semplicemente affermare che se la patata non esistesse la nostra cucina sarebbe molto più povera di quanto possa immaginere il senso comune. Ci è parso utile quindi raccontare la patata, privilegiando la sua centralità nella nostra alimentazione, per colmare un vuoto culturale che ci è sembrato irragionevole. Quindi Lei sostiene che abbiamo trascurato la cultura della patata, a parte ovviamente i risvolti tecnico-scientifici? In un certo senso è così. Oggi la patata contribuisce in modo importante alla nostra alimentazione. Non sapremmo come sostituirla come ingrediente e come piatto autonomo. Per ritornare alle evidenze storiche, sempre nell’800 quando i cereali andarono incontro a problemi che ne limitarono tantissimo la produzione, la nostra alimentazione di base fu salvata dalla patata nella forma di fecola entrando nel processo di panificazione. Probabilmente questa sua multiformità si è scontrata con lo scarso appeal della forma del prodotto. La patata non ha mai interessato pittori o fotografi; viene considerato un tubero bruttino da segregare nelle dispense. Quindi indispensabile per l’alimentazione ma poco rappresentato. Di conseguenza la massa

Paolo Barone Catanese, ha vissuto metà della sua vita a Bologna prima di ritornare in Sicilia. Dopo aver abbandonato gli studi di Medicina, scoprì la magia della pellicola quasi trent’anni fa. Da allora ha riversato nella fotografia tutta la sua ricerca, la sua passione e il suo bisogno espressivo. Cimentandosi per esigenze professionali anche nella fotografia pubblicitaria, ha voluto arricchire i suoi lavori, i suoi prodotti da fotografare con una “narrazione intorno” fatta di presenze, di oggettisimbolo, di luci e di atmosfere che rasentano le composizioni pittoriche fiamminghe.


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del pubblico sulla patata ha poche informazioni emozionali. Il volume edito da CropScience (Bayer) si fa carico di questo problema e con il collega prof. Luigi Frusciante abbiamo creato una rete di studiosi che hanno analizzato la patata sotto molteplici punti di vista: scientifico, agronomico, tecnologico, storico e di costume. Abbiamo ampliato l’orizzonte di ricerca per presentare al pubblico la patata a 360°, non trascurando le curiosità e l’attenzione alle immagini esplicative e spettacolari.

sotto da sinistra: Renzo Angelini, Paolo Villoresi e Giancarlo Roversi

Si può sostenere che il vostro volume sulla patata, malgrado le 1000 pagine, non sia solo per gli addetti ai lavori ma per un pubblico molto più vasto? Insieme al prof. Luigi Frusciante abbiamo voluto unire l’idea di un manuale pronto all’uso, al libro da leggere con piacere. La parte scientifica è stata trattata senza trascurare gli aspetti innovativi e di ricerca tipici della saggistica universitaria. La parte umanistica l’abbiamo voluta molto più leggibile e divertente. Siamo fieri di avere collaborato ad una impresa editoriale che è riuscita a mettere insieme la divulgazione scientifica d’avanguardia con la sensibilità verso ciò che trasforma la patata in un simbolo per la nostra forma di vita. Faccio solo un paio di esempi: nel libro il lettore troverà un elenco prezioso di antiche ricetta a base di patata e le ricette attuali di 50 tra i chef più affermati dei migliori ristoranti dalle Alpi alla Sicilia.


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AL DI LÀ DEL DIVINO ORO di Marcella Tusa


Il vino affonda le sue radici in culture leggendarie di origini divine. Secondo gli antichi Egiziani, infatti, i primi veri maestri delle produzione vinicola, il dio Osiride aveva donato agli uomini il vino, preziosa bevanda prodotta per piacere dei Faraoni. Ma se le origini di questa antica tradizione risalgono ai tempi egizi, è solo a partire dal I sec. a.C., in particolar modo in età augustea, che si si definiscono le proprietà fondiarie con grandi villae rusticae, una forma primordiale delle attuali aziende agricole ma già organizzate in produzione di vino ed olio con destinazione commerciale su piccola e larga scala. E’ in epoca romana che si introducono le tecniche di imbottigliamento del vino, così come le prove d’invecchiamento e la definizione del concetto di annata ed è negli stessi anni che si registra la comparsa dei primi vitigni francesi di Borgogna, Loira e Champagne. Seppur non così ancestrale anche la nota azienda agricola Villa ritrova le sue origini nel Medioevo e nella storia che la lega al Borgo Villa sito nel Comune di Monticelli Brusati, nel cuore della Franciacorta. Sin dal 1610 vengono citati i “vini dolci” di Monte Brusati mentre è nel 1852 che Gabriele Rosa, profondo conoscitore della viticoltura franciacortina, considera tra i migliori vini quelli di “Monticello, Erbuscolo, Capriolo, ma il vino di Monticello sta in cima a tutti per valore e bontà”. Un’equivocabile affermazione che descrive il ruolo di primaria importanza che da sempre la viticoltura riveste per l’antico borgo. Nel 1960 la famiglia Bianchi acquisisce il borgo con i relativi cento ettari di terreno circostante ma è solo verso la fine degli anni ’70 che, in seguito ai viaggi effettuati in Champagne assieme ad altri produttori vinicoli, nasce la vocazione spumantina dell’azienda agricola Villa battezzata dalla vittoria della medaglia d’oro durante la celeberrima manifestazione Douja d’or. Se per il drammaturgo greco Eschilo “il bronzo è lo specchio del volto, il vino quello della mente”, così è lo spumante per Casa Villa, un vino prodotto da un’elaborata e sapiente mescolanza di tradizione, innovazione ed attenzione particolare a ciò che il terroir sa esprimere. Ed è proprio la filosofia del terroir che l’azienda Villa applica caparbiamente a tutte le sue produzioni al fine di valorizzare, fin nei minimi dettagli, le potenzialità dei Franciacorta Docg di Villa, vini unicamente millesimati e provenienti esclusivamente

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da cru di proprietà. Il rispetto perla natura, le tradizioni e la qualità che caratterizzano la filosofia di Casa Villa non si limitano al terroir ma trovano la giusta coralità all’utilizzo di sostanze esclusivamente biologiche e naturali per la gestione del vigneto, a potature corte, a quantità minime di uva per pianta e ad un rispetto quotidiano per l’ambiente circostante. Un divino oro, dunque, dalle mille bollicine che diventa partner di inesauribile creatività e tendenza anche in cucina, così come lo dimostra la Rassegna SparklingMenù giunta alla sua IX edizione, un momento unico in cui rinomati ristoranti si cimentano in creatività gastronomiche alla ricerca di abbinamenti che sposino al meglio il Franciacorta a tutto pasto. E’ proprio in occasione di una delle tappe del concorso 2011 che abbiamo potuto assaporare la struttura e morbidezza del Millesimo 2005 di Villa Franciacorta Cuvette Brut, fiore all’occhiello della collezione Villa, ottenuto da uve Chardonnay per l’85% e da Pinot Nero per il 15%. I migliori tre abbinamenti creativi ed emozionanti, selezionati nel corso delle diverse tappe, comporranno in occasione dell’evento finale il “menù dei premiati”. La proclamazione dei vincitori nonché la premiazione del vincitore assoluto avverranno durante la serata di gala del 18 Settembre 2011 presso l’azienda Villa.


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Per un’occasione importante ecco una ricetta semplice, delicata e raffinata. Risotto bianco ai gamberetti del fiume Oglio Per 4 persone 24 gamberetti di fiume 300 gr. di riso 80 gr. di burro 10 gr. di Parmigiano Reggiano grattugiato 50 gr. di cipolla tritata 1 Calice di Franciacorta DOCG Villa Satèn 1 l. di brodo leggero 10 cl di coulis di gamberi ridotto sale e pepe bianco Per la salsa In una casseruola far sudare la cipolla in 10 gr di burro. Aggiungere quindi ½ calice di vino e lasciare ridurre il liquido sino a metà volume. Aggiungere 50 gr di burro ridotto a fiocchetti ed emulsionare con la frusta. Filtrare la salsa attraverso un colino e mettere da parte. Per il riso Fare tostare il riso in casseruola i restanti 20 gr di burro. Aggiungere la seconda metà di vino, lasciar evaporare, bagnare con il brodo bollente e portare a cottura mescolando di tanto in tanto aggiungendo il sale necessario. Per i gamberetti Cuocere i gamberetti di fiume in un court-bouillon (in francese significa brodo ristretto e si ottiene aromatizzando dell’acqua salata con sedano, carote e cipolle) per 4 minuti quindi aggiungere le code sino a cottura ultimata Mis en place Mantecare il riso con la salsa preparata e il parmigiano. Stendere il riso a velo sui piatti piani, disporre i gamberetti di fiume e guarnire con il coulis di gamberi ridotto e montato al burro. Accompagnare il tutto con Franciacorta Villa Satèn.

Azienda Agricola Villa Località Villa, 12 25040 Monticelli Brusati (BS) www.villafranciacorta.it


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IL LATO B DEL BEACHWEAR SI CHIAMA SUNDEK di Marcella Tusa


Non v’è dubbio alcuno che Sundek, azienda leader nel settore del beachwear, sappia come vestire alla perfezione “il lato b” di sportivi e non. Con eleganza, determinazione ed ironia il logo che ricorda i raggi delle fiamme o le onde del mare, simbolo inconfondibile del marchio Sundek del gruppo toscano Kickoff SPA, si afferma con determinazione nel settore sporstwear/surfwear a livello mondiale. Nata nei primi anni ‘40 come azienda produttrice di costumi da bagno, fin dagli inizi degli anni ‘60 Sundek abbraccia la causa del surf anticipando la diffusione che lo sport stava avendo sulle coste californiane ed hawaiiane. Sono gli anni dei film Gidget, Endless Summer e dal movimento hippie. Per garantire ai numerosi praticanti resistenza ed asciugabilità, il nylon inizia a sostituire il classico cotone canvas, l’uso del velcro si sostituisce alla zip, le triple cuciture concorrono a rendere più solido il prodotto. Anche dal punto di vista grafico inizia una vera e propria rivoluzione: le stampe e i disegni tropicali diverranno da allora lo standard del surf-wear a livello planetario. Negli anni ‘80 l’arcobaleno diviene un must per il boardshort invadendo letteralmente le spiagge USA e italiane: il brand diventa simbolo del surf e del suo stile di vita connesso, nonché sponsor della ESA (Eastern Surfing Association). E’ proprio in questi anni che leggende del surf come Ken Bradshaw, Corky Carrol e Mark Foo entrano a far parte del team così come risale a quest’epoca la nascita del legame tra Sundek e KickOff. Una partnership sempre più solida in cui l’azienda italiana si impegna a favorire lo sviluppo del brand in Europa partecipando attivamente alla creazione del prodotto ed affiancando alla linea di boardshorts il design di capi “fuori acqua”. Con la nascita del progetto SUNDEK BY NEIL BARRET, nato dalla collaborazione con Neil Barrett, Sundek unisce la storicità del marchio simbolo del surf wear allo stile grafico di Neil Barrett. La collezione, distribuita dallo showroom SUNDEK di New York e dallo Studio Zeta di Milano, si compone di circa 50 capi: dalla nuova versione del rainbow short a uno sviluppo completo che include t-shirts, polos, jackets, walkshorts e beach accessories. “Quando Sundek mi ha contattato cinque mesi fa, stavo iniziando a disegnare la mia collezione Primavera Estate 2011 e mi è sembrato naturale collaborare con uno dei leader del settore mondiale del beachwear. L’estate è arrivata e la prima delle

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quattro collezioni in collaborazione con Sundek è stata presentata a Pitti Uomo. Il concept si basa sulla riproduzione dei tessuti dei capi classici del guardaroba maschile stampati su indumenti e accessori da mare: costumi, t-shirts, k-ways, infradito” dichiara Neil Barrett. Con la collezione PE2011 Sundek allarga la gamma di capi urbanwear a completamento del costume, unico vero protagonista, ed ora parte integrante dei total look. E’ Davide De Giglio, già stilista di Vintage 55, il designer per l’abbigliamento Sundek, autore di una collezione nata dal mix tra beachwear e gusto retrò: T-shirt e polo in cotone stampate con bandiere in patch ispirate alle storiche scuole di surf, pantaloni e maglie in felpa, boardshort di varie lunghezze ed accessori in coordinato. Da questa collaborazione nasce in casa SUNDEK, leader storico nel beachwear, anche la prima collezione Autunno Inverno, novità assoluta che verrà presentata a gennaio prossimo e verrà distribuita nei negozi top del mondo. Non mancano in collezione SUNDEK PE11 anche boardshort tinta unita e fantasia con capi in coordinato, così come costumi dai tessuti più innovativi come il boardshort floreale: il fiore ibiscus non è più stampato bensì ricavato da una preziosa armatura jacquard tono su tono reso ancora più particolare dal piping in silicone in colore a contrasto. E se le novità non bastassero Sundek ha ancora un ultimo asso nella manica: il primo costume 3D in novità assoluta. Sì, avete capito bene, un vero costume 3D che renderà maggiormente attraente il nostro lato b con stampe ispirate alle opere degli artisti Pop Art degli anni ’80. Un trucco? No, la visualizzazione tridimensionale è consentita grazie allo speciale occhiale con il quale andrà in vendita in limited edition in un packaging ideato ad hoc. Gli obiettivi del gruppo Kickoff SPA quindi non si limitano ad estendere ulteriormente la propria rete di punti vendita mondiale raggiungendo quota 500 bensì l’azienda intende stupirci con idee sempre più innovative e di tendenza.

nella pagina precedente: Fotografia di repertorio


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PIETRA PISTOLETTO, Abito-tappeto-luce, 2004. Foto Max Tomasinelli.

IL BELLO E IL BUONO

Un importante libro edito da Marsilio, a cura di Maria Luisa Frisia e Marco Ricchetti, esplora le varie dimensioni del paradigma della sostenibilità nella moda. di Antonio Bramclet


Il concetto di sostenibilità, come dicono i politici, è bipartisan, ovvero mette d’accordo più o meno tutti. A parte il numero sempre più esiguo di bastian contrari, favorevoli alla plastificazione del mondo e che, se fosse possibile, monterebbero una micro centrale nucleare nello scaldabagno di casa, ogni persona di buon senso si trova d’accordo con una limitata serie di asserzioni assunte come se fossero un a-priori: a. il nostro pianeta ha risorse limitate; b. le stiamo consumando troppo in fretta; c. dobbiamo rallentare i consumi più onerosi per il pianeta senza danneggiare l’economia; d. dobbiamo attivare modalità di manutenzione delle risorse naturali. Le asserzioni elencate, per il senso comune, cominciano a funzionare come un’assiomatica. Valgono cioè come dei principi validi aldilà di ogni ragionevole dubbio che da un po’ di tempo hanno trovato un concetto sintetico, la sostenibilità, capace di distribuirne l’ombra semantica su tutte le dimensioni della nostra forma di vita. Ma l’uso disinvolto, ripetuto fino alla noia, della parola magica evocata all’inizio, ha prodotto una sua sempre più diffusa circolazione direttamente proporzionale allo svuotamento di contenuti certificabili. Niente di particolarmente nuovo. I meccanismi della moda si nascondono anche nel linguaggio. Da sempre, alcune parole con leggerezza invadono i nostri discorsi per poi repentinamente ritirarsi nella quiete dei dizionari. Durante il loro dominio le troviamo un po’ dappertutto. Per esempio oggi le aziende della moda che pensavamo fossero ancorate al principio del dispendio produttivo del tipo “vizi privati per pubbliche virtù”, sembrano soggiogate dal fascino della parola magica. Non si contano più i marchi che si dichiarano, in un modo o nell’altro, a favore dell’ambiente, presentano abiti prodotti con fibre e tessuti ecocompatibili, accessori riciclati. Nei loro siti web vengono esibiti protocolli che evidenziano il rispetto di processi produttivi puliti, responsabili, etici. Ma come facciamo a sapere se dicono la verità? In base a quali criteri possiamo verificare se il loro appello alla sostenibilità è sincero e corretto dal punto di vista del sapere disponibile? Un bel libro editato da Marsilio in collaborazione con il Centro di Firenze per la Moda Italiana, ci aiuta a capire le molteplici dimensioni del concetto di sostenibilità, affrontandolo da numerosi punti di vista. Il lavoro di ricerca si compone di cinque parti consequenziali, scritte da autori che coprono una vasta gamma di competenze. La prima, I fondamenti, è dedicata all’analisi dei cosiddetti stakeholder, ovvero dei soggetti individuali o collettivi che possono influenzare o essere influenzati dall’azienda; mi pare di capire che secondo gli autori la loro gestione oggi implichi la creazione di valori condivisi che non coincide con la supremazia del profitto. In breve, oggi occorre creare una struttura che connetta concorrenza, opportunità di crescita e cooperazione; il sentimento morale legato al concetto di sostenibilità può essere

il valore che fonde l’altruismo con il business. Nella seconda parte, Il design e i materiali, diversi interventi focalizzano la base materiale e i processi innovativi implicati dal paradigma della sostenibilità: come ridurre gli sprechi? Come limitare l’impatto ambientale causato dalla produzione dei tessuti? Come aumentare il riciclo dei prodotti che hanno esaurito il loro ciclo di vita?. La terza parte del libro è dedicata al Mercato e consumatori, nella quale vengono analizzate pratiche della moda sostenibile eterogenee. dimostra che differenti modelli di business sono attraversati da una idea centrale L’obiettivo degli autori è dimostrare che aziende affermate, di differente dimensione, fanno della sostenibilità non una narrazione di comodo per strizzare l’occhio al consumatore critico, bensì uno dei motori più importanti della produzione dei valori immateriali dell’ identità della marca. La quarta parte del libro, la più strategica, Politiche: obiettivi e strumenti per la moda sostenibile, mette a fuoco gli steps da superare per dare un futuro alla sostenibilità della moda italiana: il controllo della certificazione dei marchi, i passi fondamentali che una azienda deve compiere per incamminarsi verso una sostenibilità sostenibile, nascita di un nuovo marketing eco-fashion capace di far cambiare di passo una moda stagnante (per via di modelli di consumo resi obsoleti dalla crisi) con una sustainability declinata con la bellezza. La quinta e ultima parte del libro, Atlante iconografico, è praticamente un piccolo catalogo di atti di comunicazioni di moda e di immagini di prodotti proposti da numerose aziende che si riconoscono nel paradigma della sostenibilità. Gli autori del “Il bello e il buono” con uno stile di scrittura rapido e incisivo, chiariscono bene la situazione complessa della sostenibilità nel contesto della moda, presentandoci numerosi case history e fornendoci fondamentali strumenti per pensarla con precisione ammirevole. Ma se posso permettermi una critica, direi che il loro tentativo di fondere le suggestioni platoniche con la ragione analitica di tradizione aristotelica cozza contro la troppo evidente partigianeria degli autori nei confronti della green economy. Non sarebbe stato male presentare interventi nati a partire da un sano scetticismo nei confronti di assunzioni verosimili ma ancora tutte da dimostrare. Per esempio: è in questa pagina dall’alto: proprio vero che il consumatore vero, quello che produce fatturato per le aziende, è così sensibile alle qualità green? E’ vero che il prezzo per DIESEL, Love Nature, 2004. Foto Henrik Halvarsson. i prodotti sostenibili non è più una variabile decisiva? Il riciclo diffuso degli abiti dipende più dalla crisi o da una genuina sostenibilità? Si è Esposizione «Naturale, rigenerato, fatto a mano: mai visto una moda vera basata su idee buone e sane? Dove; quando; la moda etica di Christina Kim», a che condizioni? Museo Internazionale e Attenzione, non voglio essere frainteso. Sono eccitato, interessato e cuBiblioteca della Musica, rioso come tanti spero, dal nuovo paradigma della moda sostenibile. Bologna 2008. Voglio soltanto dire che sarebbe sano non farla diventare una ideoloFoto Mark Schoole. gia, ma un vero dibattito. Courtesy Dosa

ECOFASHION

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LES ARBRES

Nell’anno internazionale della foresta, la Galleria Forni di Bologna ha presentato una suggestiva mostra dedicata agli alberi, raffigurati dal punto di vista di numerosi artisti, eterogenei per cultura, tecniche e stile. di Lamberto Cantoni


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in apertura: interno Galleria Forni a destra dall’alto: Colombo, Albero in riva al mare, pastello su carta, cm 80x120. Tonelli, Ricordo di Anacapri, 2007, olio su tavola, cm 64x80.

La mostra alla Galleria Forni, grazie alla collaborazione di un vasto elenco di artisti, ha raccolto opere che presentano una notevole gamma di risonanze emotive prodotte dal tema degli alberi. Non mi sembra gli organizzatori abbiano voluto favorire un punto di vista sulla natura o una tendenza artistica in particolare. La varietà di tecniche e la molteplicità di idee riscontrabili nella mostra sembra dunque suggerire una attenzione critica sulla valenza etica del soggetto delle opere. Considerare l’albero un tema importante quanto il ritratto significa restituirgli il posto nell’umanità che lo sviluppo industriale gli aveva tolto, riducendolo a materia da trasformare o sfruttare. Per esempio, è difficile resistere alla tentazione di attribuire agli alberi di Carlo Mattioli un’anima. Ovviamente non mi riferisco solo a quello esposto in mostra, la Ginestra, praticamente un concentrato di energia nervosa, ma a tutti quelli disseminati nei suoi materici paesaggi. Mattioli difficilmente restituisce alla natura

Galleria Forni Via Farini, 26 40124 Bologna www.galleriaforni.it

ARTE

Un tempo raramente gli edifici creati dall’uomo superavano in altezza e complessità gli alberi che ne accompagnavano l’esistenza. Con lo sviluppo delle città, la loro silenziosa presenza cominciò ad essere vissuta come un affronto alla razionalità dell’abitare. In una società sempre più eccitata dal rumore, le ieratiche presenze silenziose dei grandi alberi risultavano inutili, fastidiose, forse inquietanti e quindi finirono con l’essere spostate sempre più lontano dai non-luoghi dell’abitare moderno. Oppure venivano segregati in spazi compressi, come simbolo del potere dell’uomo sulla natura, parte anch’essi dei rumori delle città. Dopo secoli di distruzione, divenuti a loro modo rari, ecco gli alberi, agli occhi dei bipedi parlanti, angosciati dalle implicazioni ecologiche della loro scomparsa, apparire come circondati da un’aura non più silenziosa, ma pregna di eloquenza. Assenti nelle nostre vite quotidiane in città, come mai nel passato, gli alberi si trasformano in simulacri di una bellezza perduta e fonte di ispirazione per artisti e poeti. Non sorprende dunque se, divenuti segno di se stessi, gli alberi si siano trasformati nella contemporaneità in un segnale che emerge dai rumori della società post industriale. Segnale che artisti e poeti hanno trasformato in una molteplicità di simboli uniti da una presupposizione etica, rispettandoli non difendiamo la vita?, ma anche differenziati da una molteplicità di risonanze emotive.


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i suoi parametri ordinari. I suoi alberi per esempio possono essere macchie di bianco, penso al Paesaggio (1984) o La foresta di Birnam (1980), che sembrano un’escrescenza di materia colorata trasudata dalla tela-madre che dell’idea di natura del senso comune contesta il vitalismo ingenuo, ambendo a simbolizzarne ciò che i filosofi chiamano l’essenza, in altre parole il carattere immutabile. Mattioli, a mio avviso, tra le opere esposte è quello che definisce meglio la linea di confine tra natura e cultura, lungo la quale è riscontrabile l’atto pittorico dalla significazione più intrigante: la natura è l’indispensabile Altro dell’umanità (non è l’altro nel senso della persona o cosa dai significati immediati), ecco perché nella nostra cultura scientista è scivolata nel posto del morto; ma da questo luogo impossibile può parlarci se ne indoviniamo l’anima. E anche se non sono un entusiasta del misticismo dissimulato di tanta arte contemporanea, mi inchino di fronte alle poetiche derive dell’interpretazione che Mattioli propone dell’enigmatica cerniera aperta tra natura e cultura.

a destra: Calanca, Intorno a casa mia 2, 1990, foto, cm 220x125. nella pagina a fianco: Calanca, Intorno a casa mia, 1990, foto, cm 220x125.

Ovviamente ogni artista in mostra, se volete, si pone a suo modo lungo la linea di confine che vi ho segnalato. Ottone Rosai e Piero Marussig la interpretano nei modi di una tranquilla, pacificata visione; tuttavia non posso guardarla senza sentire l’evocazione di una struggente nostalgia ( Via S.Leonardo e Parco della Villa sono quadri del 1934 e 1919; i pittori cercavano la quiete tranquilla del paesaggi; noi post moderni trasformiamo la luminosità alberata in sensazioni via via sempre più lontane). Ana Kapor ha preferito evocare le atmosfere armoniose e incantate del paesaggio nel quale l’integrazione dell’albero con la vita urbana avviene all’insegna di una correlazione positiva ( quindi l’artista ci mostra il sogno di ciò che oggi ci appare improbabile); Bitman lavora nella stessa direzione, aggiungendo espliciti riferimenti mitologici; Arcangelo Ciaurro usa i colori come un musicista romantico usava i suoni della musica per configurare il mood dei boschi nei quali si rintanavano maghi e streghe; Graziella Marchi ci parla della fratellanza con gli alberi attraverso la


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nella pagina a fianco da sinistra: Rangoni, Cambogia 2, foto, cm 220x81. Marchi, Al mare al mare, tela, cm 120x100.

metafora visiva di strade sulle quali, non ci sentiremo mai soli e abbandonati; Di Piazza usa il fiabesco patafisico per convincerci che con gli alberi possiamo giocare a riscoprire l’homo ludens che l’homo economicus ha confinato nelle stressanti Las Vegas metropolitane; Giuseppe Colombo preferisce presentarci l’aspetto sofferente dell’albero, lo scheletro di un tronco piegato dal vento in un paesaggio nel quale la notte prende i colori che rinviano ad un mondo di plastica; Vladimir Pajevic e Isabella Molard, raffigurando alberi grandiosi, rigogliosi nelle loro chiome avvolgenti, dal tronco forte e possente, denegano la fragilità della natura mostrandone l’improbabile resilienza all’uomo. Potrei continuare l’elenco delle emozioni attraverso le quali gli artisti in mostra tentano di restituire l’anima che abbiamo tolto agli alberi (e per estensione, alla natura). Dalla metafisica concretezza di Mattioli, mi scuso per l’ossimoro ma questa espressione non lineare mi sembra corretta per l’artista dal quale sono partito, alla gioiosità stilizzata di Cargiulli, fino alle cupe premonizioni delle foto di Cicognani, un vasto repertorio di emozioni viene visualizzato per farci sentire le molteplici anime della natura. Ma che senso ha, per una società sempre più pragmatica e scientista, animare la natura? La domanda sul senso ci porta ovviamente al valore attribuibile all’arte. E’ un trucco, lo sappiamo bene, la natura non ha un’anima. Ma è un trucco a fin di bene: senza questi residui affettivi di ciò che un tempo apparteneva al sacro (forse non così lontano dal sacro religioso, come pensavano i primi teologi), gli alberi e la natura sarebbero semplicemente muti, estranei alla nostra vita e come tali consegnati fino alla fine all’utilitarismo rozzo e ingenuo. Con quale esito? Ce lo mostra bene una grande fotografia di Giacomo Costa: il paesaggio di una città fatta di edifici enormi con problemi di manutenzione, sovrastati da colossali alberi mutanti (quale alterazione genetica può averli generati?) alti quanto grattacieli, impossibilitati a reggersi senza una ossatura di impalcature e di leganti di ferro saldamente assicurati al suolo. Un paesaggio angosciante nel quale non vediamo la benché minima presenza umana. Ecco allora, sto guardando la scultura in mostra di Annali, per i sopravvissuti, rintanati in qualche profondità, un’ultima reliquia dell’albero/natura o, se volete, nuovo feticcio e idolo, intorno al quale raccogliersi e pregare: una corteccia in vetroresina dalla quale fuoriesce linfa che dà origine a nuove forme di vita.

Paola e Tiziano Forni, il fondatore e l’attuale proprietaria dell’omonima prestigiosa galleria d’arte bolognese, fotografati da Ferdinando Cioffi


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TERRE VULNERABILI

in apertura: Elisabetta di Maggio, Dissonanze, ghiaccio e ferro, misure variabili, 2010 in questa pagina: Mario Airò, Atlantide, laser, legno e metallo, misure variabili, 2010

Quante volte, insonni e pensierosi, siamo usciti a guardare il cielo mentre la notte con i suoi segreti si faceva spazio e imperversava incontrastata a scandire il tempo e quante volte alzando lo sguardo siamo stati abbagliati dal chiarore della luna che spiccava tra i rami di un albero gigantesco che ci sembrava un elefante sul cemento. Quanta emozione nello scoprire che quella compagnia che ci segue da tutta la vita, quella sera in cui avevamo bisogno di scorgerla era lì, che gioia osservarla e vederla piena nel suo splendore e nella sua fase più completa, che spettacolo romantico si offre ai nostri occhi nel momento in cui raggiunge il culmine e diventa perfetta. La luna, cerchio assoluto, luce argentea che illumina l’oscurità, femmina contemplatrice di se stessa, distaccata e serena, amante fedele e silenziosa del sole dal quale ruba la luce per apparirci così com’è. Quella stessa, che nel momento di massima espressione simboleggia l’apice dell’energia creativa e vitale, che come una madre racchiude in sé l’infanzia e la giovinezza e si proietta verso la vecchiaia, lei come discendenza della specie, quella identica luna che nella sua pienezza include le precedenti fasi di nuova e crescente ed ha davanti a sé la fase calante, nella sua perfezione vi troviamo il passato e i suoi mille futuri, la sua eterna, continua e autonoma rigenerazione. Ed è proprio la luna ad essere stata scelta come simbolo del progetto Terre Vulnerabili ideato da Chiara Bertola a cura di Andrea Lissoni presentato per l’Hangar Bicocca sulla base di una fiaba che racconta di un bambino che ha perso la capacità di guardare la luna dopo aver recuperato una moneta per terra dalla quale non distoglierà più lo sguardo. Nell’intento di far rialzare la testa verso il firmamento ad un bambino per tornare a sognare, la mostra vuole crescere nel tempo identificandosi nelle quattro fasi lunari, che rappresentano la metamorfosi, il cambiamento e l’evoluzione della nostra vita, in un continuo divenire e interagire tra ciò che siamo, ciò che siamo stati e

MOSTRE

di Simona Gavioli


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ciò che saremo. È sempre il tempo che domina le nostre azioni ed è sempre lui a determinare il passaggio che ci attraversa per costruire il nostro essere. Terre vulnerabili vuole essere un organismo vivente, mai statico nella forma assunta al momento dell’inaugurazione, ma un continuo divenire tra metamorfosi, supplementi e sottrazioni. Si creano così varie sfaccettature della parola chiave – vulnerabilità – che si esprime non soltanto nelle opere ma anche sulla modalità curatoriale basata sul comune riconoscimento, sulla condivisione e collaborazione tra artisti che porterà a esperienze singolari e inaspettate. Quella stessa vulnerabilità che è un invito a mettere in discussione il proprio atteggiamento nei confronti dell’ignoto, dell’oscuro e dell’invisibile, che trova la luce nella prospettiva della visione personale dell’individuo e lo esorta a chiedere aiuto alla comunità, lasciando l’esperienza dolorosa in un angolo per far spazio alla comprensione di sé stessi e degli altri. Vulnerabilità della terra come metafora di evoluzione, ciclo organico vitale, crescita di idee e luogo di appartenenza come pianeta, patria territorio che con l’originale visione degli artisti assume la concezione di libertà e di evoluzione. Vulnerabilità dei corpi come luogo d’incontro e dialogo che con la mescolanza delle etnie, la dissolvenza delle frontiere e la combinazione delle lingue restituisce un luogo a chi il luogo lo attraversa e lo vive riconoscendo nella debolezza una grande forza. Terre Vulnerabili - a growing exhibition visitabile fino al 17 luglio 2011 ha scandito il suo ultimo quarto creando un ecosistema espositivo in metamorfosi dove le opere vivono in simbiosi tra loro supportandosi e compenetrandosi, talvolta annullandosi e tracciando una mappatura in questa pagina: Stefano Arienti Rampicante, 2 teli, m 15 x 5, vetro circa 70 cm, 2009-2010 nella pagina accanto: Gelitin Mona Lisa, plastilina e materiali vari su tela, misure variabili, 2008-2010

che connette l’individuo ad altri e all’ambiente che lo circonda. Il progetto è articolato in quattro quarti temporali –le fasi lunari– che si sono susseguite da ottobre 2010 ad oggi. Le installazioni site specific dei 30 artisti internazionali coinvolti, sono un condensato di idee che nascono, si evolvono e germinano le une dalle altre. Gli artisti che hanno partecipato a diversi incontri a partire da settembre 2009 condividendo, modificando e trasformando il loro lavoro per armonizzarlo agli altri. Ogni quarto ha preso in prestito il titolo da citazioni di maestri che hanno lasciato un peso nella storia del Novecento. Così nel primo, secondo Yona Friedman, (presente anche con videoanimazione “la terra spiegata agli extraterrestri” e il lavoro architettonico modulabile “Labirinto”) le soluzioni vere vengono dal basso, nel secondo si è optato di interrogare ciò che ha smesso per sempre di stupirci, da una frase di Georges Perec, mentre nel terzo, il compositore Roger Miller dispensa la perla per cui Alcuni camminano nella pioggia altri semplicemente si bagnano. Giunti alla fine/inizio in base a come lo si voglia pensare o vedere, il quarto ultimo attinge la massima dallo scrittore polacco Stanislaw J. Lec secondo cui “l’anello più debole della catena è anche il più forte perché può romperla”. In una società, la nostra, dove la modernità ha origine nell’idea che le cose possano cambiare, rivoluzionarsi e travestirsi di innovazione questo progetto suggerisce una dissimile ed inedita, quindi nuova, costruzione di ordine verso un futuro che vede la vulnerabilità non più in senso negativo bensì come spiraglio verso il progresso e il miglioramento delle condizioni esistenti.

Artisti in mostra: Ackroyd & Harvey / Mario Airò / Stefano Arienti / Massimo Bartolini / Stefano Boccalini / Ludovica Carbotta / Alice Cattaneo / Elisabetta Di Maggio / Rä di Martino / Bruna Esposito / Yona Friedman / Carlos Garaicoa / Alberto Garutti / Gelitin / Nicolò Lombardi / Mona Hatoum / Invernomuto / Kimsooja / Christiane Löhr / Marcellvs L. / Margherita Morgantin / Ermanno Olmi / Roman Ondák / Hans Op De Beeck / Adele Prosdocimi / Remo Salvadori / Alberto Tadiello / Pascale Marthine Tayou / Nico Vascellari / Nari Ward / Franz West


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PASSATO E FUTURO NEL PRESENTE DI OLEG SUPERECO

C’era una volta il Rinascimento di Michelangelo che con il suo recupero della bellezza comunicava ai sensi, tutti, stimolando il peccato e inibendo le buone imposizioni. E c’è oggi la contemporaneità rivisitata che guarda al passato con occhio attento alla perfezione e alla finitezza di Oleg Supereco. Classe 74’, di origine russa ma residente in Italia ormai da più di dieci anni, questo giovane maestro basa la sua pittura sul concetto di realismo idealizzante, prendendo ispirazione dalla natura madre di tutte le madri, bella perché in lei risiede la bellezza assoluta, grande protagonista del mondo visibile, imitata e investigata a volte abbandonata e poi ripresa da pensatori di ogni secolo. Un artista che sembra spostarsi dalle tendenze dei filoni dell’arte dell’oggi facendo rinascere i valori che furono capisaldi nell’arte del passato ma non imitandoli bensì trovando un suo percorso e una sua filosofia personale. È proprio cosi che Oleg guarda alle opere e agli artisti rinascimentali calandoci in un tempo che sembra distante dal nostro con il recupero dell’antico, che insieme al senso per il bello, all’armonia delle

ARTISTI

di Simona Gavioli


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proporzioni e al gusto per la perfezione esteriore mette da parte i nuovi materiali e i nuovi format della contemporaneità a favore del riscatto dell’olio, delle pennellate precise e dei colori dati per emozionare. In questo tempo, dove la bellezza della natura torna occasionalmente ad affacciarsi alla ribalta e la sua funzione consiste per lo più nel salvare l’arte dalla caduta libera e dall’artificio, gli affreschi di Supereco forniscono la conoscenza della “verità” dell’uomo di essere naturale nella Natura stessa e ci danno un metro di misura di quanto la nostra esistenza non possa e non debba sempre e comunque vedere il passato come un punto fermo ma, al contrario attingere da esso per costruire un presente e un futuro migliore. Se Hegel aveva aperto il XIX secolo dicendo che l’arte, per quanto potesse svilupparsi e perfezionarsi, aveva ormai “cessato di essere il bisogno supremo dello spirito”, per Nietzsche continuava ad essere “l’unico luogo di giustificazione dell’esistenza” e secondo Baudelaire, soltanto l’arte è capace di “eternizzare ciò che è caduco”, allora ciò che mi sento di dire della sua pittura è che con lei e per lei realizza la sua preghiera, comunica con Dio attraverso il suo pennello, rende omaggio alle iconografie tendendo una mano verso la divinità. È dall’unione della sua grandezza e la sua creatività febbricitante, dal temperamento deciso e dalla sacralità del suo operato che nasce Oleg, giovane paladino dello spirito capace di far rivivere corpo e anima in un solo sguardo, il nostro, che rimane rapito tra emozioni e stupore, tra muscoli e movimenti, tra nostalgia e euforia. Il ciclo di affreschi da poco terminati nella cattedrale di Noto sono un concentrato di emozioni potenti che lasciano lo spettatore attonito e incredulo, la magnificenza dei quattro Evangelisti e la Pentecoste mostrano l’intensità dei colori, la compiutezza inviolabile delle fisionomie e l’umanità fremente che abbraccia i pennacchi e l’intera cupola. Esiste un filo invisibile che unisce il senso del divino alla potenza vitale che davanti al nostro sguardo si mostra in tutta la sua grandiosità. È un si alla vita, alla natura, al corpo, alla bellezza, all’armonia e alla sofferenza. È un SI al ritorno, al ripristino alla rivisitazione, è un si che grida emotività più di quanto non si riesca a percepire.

nelle immagini: Volta della Cupola della Cattedrale di Noto affrescata dal pittore russo Oleg Supereco


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SIMONE D’AURIA. LA CREATIVITÀ È AMORE di Roberta Filippi


Divano, luci soffuse, televisione rigorosamente spenta. La giornata si è conclusa e finalmente, dopo aver passato alcune ore tra treno, aver corso su vertiginosi tacchi alla ricerca di un taxi, aver mangiato un panino senza averne assaporato il sapore, ma solamente per la necessità di riempire uno stomaco mai sazio, posso dedicare in po’ di tempo a me. La vasca si sta riempiendo lentamente e la schiuma emana un piacevole profumo di vaniglia. La tenue luce delle candele e la musica di Chet Baker sono il sottofondo ideale per il meritato relax. Scivolo nell’acqua calda e guardo dalla finestra il cielo sereno e senza nubi. Riesco a scorgere anche la luna, quasi piena. Pian piano nella mia mente riaffiorano i ricordi dell’incontro di oggi con Simone D’Auria. Una frase in particolare: “Io punto alla luna e se, comunque, non riesco a raggiungerla, navigo tra le stelle”. Ripenso che, forse, è un pensiero un po’ ambizioso, ma del resto se così non fosse, Simone non avrebbe creato il mondo D’Auria Design. Simone D’Auria Ha iniziato a lavorare come operaio nell’azienda del padre Antonio, dal quale si nascondeva, con l’aiuto degli altri dipendenti, per creare, manipolare e inventare oggetti di ogni tipo. Simone non è un architetto, non è un designer e non è neppure un semplice creativo. La sua complessità è affascinante quanto un quadro di Monet: rigoroso, lineare, trasparente, ma anche eclettico, spiritoso e creativo. Ecco. Simone D’Auria è un artista. Nato a Bergamo il 29 settembre 1976, si è affermato coniugando il suo senso ribelle dell’estetica con la logica dell’estrema funzionalità. Simone fonda nel 2000 D’Auria Design: impresa orientata alla contaminazione del design con ogni espressione del gusto quotidiano. Una filosofia apripista che riflette nella professione, la passione per le corse automobilistiche. Cresciuto nel gruppo di famiglia che con lui giunge alla terza generazione, applica il suo segno inconfondibile a strutture pubbliche, abitazioni, uffici, design hotel, club e concept store. Ma i suoi progetti partono sempre da elementi per interni. Rileggendo i grandi classici dell’arredamento nell’epoca della personalizzazione e della customizzazione, infatti, nel 2004 D’Auria inventa il Re-design. “Si tratta di una reinterpretazione delle opere più storiche del design alla luce dello zeitgeist. – mi spiega Simone - Se la chaise longue di Le Corbusier si riveste di una nuova nappa a specchio che aggiunge alla dormeuse la funzione riflettente di una specchiera, la Tulip di Saarinen, rigorosamente bianca, diventa d’oro, d’argento, di legno o di carbonio. Mentre, le classiche lampade da scrivania ripensate in volumi titanici, assumono le dimensioni di abat-jour.” Di stagione in stagione, il progetto Re-design si articola, evolvendo e arricchendo l’antologia del design internazionale.

in apertura: Worldhub in questa pagina pagina: Zoolight

DESIGN

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in alto: Simone D’Auria nella pagina accanto: Salsola

L’originale approccio creativo di Simone si estende anche alla materia. Nel 2006, col progetto Wood vibrations, ripensa la sostanza e le prestazioni del legno, sezionandolo in lamine tanto sottili da essere trasparenti e pertanto utilizzabili come il tessuto dei paralumi in lampade di memorie Anni ’50 che inaugurano una vera e propria produzione: Luce D’Auria. Il 2007 è l’anno dell’Estetica cinetica che muove le superfici di nome e di fatto. Applicando la Op Art, “inganna occhio” agli elementi d’arredo e trasferisce la roccia sezionata, dalla natura della montagna all’arredamento dei salotti. Sicuramente, quando Simone mi mostra Cub-ik, un monolite di soli 180x180 cm che contiene tutti i servizi a scomparsa di una cucina, resto esterrefatta, ma ancora di più quando mi mostra Water wood è un provocatorio water che associa la resistenza del legno alla liquidità dell’acqua in un pezzo-scultura di noce mutuato dalle tecniche costruttive degli yacht. Estrema sintesi della contaminazione dei generi e dei materiali è anche la Smart reinterpretata da Simone D’Auria in un’avveniristica versione di carbonio. Mentre Simone mi racconta di essere stato invitato dalla Triennale di Milano, in occasione del Salone del Mobile 2007, a esporre, alla mostra permanente del design, una serie di sue lampade, scopro, scorgendo una fotografia alle pareti, che nel 2008 ha inaugurato un vero e proprio concept store. Un vero e proprio bagno di fama internazionale che ha portato il nome-marchio e le sue creazioni, dalle latitudini californiane e mediterranee alla scandinava Turning Torso Gallery, all’esposizione in Triennale. Un luogo che diventa il crocevia meneghino globale di tutte le sue creazioni: dai mobili, fino agli originali accessori d’arredo che per il loro stile personale hanno caratterizzato fin dall’inizio il percorso dell’artista. E tutto perfettamente predisposto sottoforma di una fittizia mostra d’arte contemporanea, dove il visitatore dello spazio diventa osservatore e cliente ideale delle opere realizzate da Simone. Un concept fatto di installazioni presenti tutto l’anno, perciò non solo punto vendita, ma anche meeting d’incontro o confronto tra amici e artisti. Simone è una continua sorpresa. Le sue più recenti elaborazioni nascono dal suo confronto originale, individuale ed esplorativo con i materiali, innanzitutto con quelli naturali. “Ritengo il legno un materiale prezioso. Con il suo patrimonio di “significati” e di legami con la tradizione e il vissuto, ma anche con la sua versatilità che lo porta ad essere materia prima per le sperimentazioni e le performance più ardite e sofisticate.” Giunto al traguardo dei dieci anni di ricerca creativa e progettuale, Simone D’Auria conferma nelle sue opere l’importanza che la plurisensorialità riveste nella sua produzione. Le sue lampade si prestano ad essere “lette” e “sentite” con la vista e con il tatto. Intendono essere oggetti d’uso e icone di un preciso credo estatico. Sono concepite come il

risultato di un confronto costante tra l’habitat del vivere umano e il mondo naturale, come somma di funzionalità e valenze evocative. Simone mi ha raccontato molte cose della sua azienda, tutte estremamente interessanti e soprattutto degne di nota, ma ciò che mi ha colpito maggiormente è la sua volontà a farmi capire come progetta e concretizza le sue idee. Partendo dal prodotto, conoscendolo, crea. Il segreto è guardarsi in giro ogni giorno e con occhi sempre interessati. Nonostante sembra che tutto sia già stato creato e viviamo in un mondo “inquinato da assurdità” – come l’ha definito Simone – lui riesce a cogliere spunti sempre nuovi. In occasione del Fuori Salone 2010 Simone D’Auria ha presentato tre delle sue collezioni/installazioni di lampade Luce D’Auria prodotte da Minitallux srl in Triennale Bovisa. Comprendendo la presenza di quest’anno, Simone D’Auria celebra il suo 9 anno consecutivo al Salone internazionale di Milano, ottenendo ottimi riscontri dalla critica di settore. Quale riconoscimento del suo personale successo, espone permanentemente alcuni suoi progetti presso la Triennale Milano ed il museo storico di S. Francesco a Bergamo. Eco-compatibilità, riciclo, fantasia creativa e ricerca, sono alcune regole base della filosofia di Simone D’Auria. Zoolight sono installazioni luminose ispirate a forme animali, autoalimentate da pannelli solari. Si tratta di una collezione attenta all’ambiente, realizzata con materiali di recupero metallici. Zoolight riproduce le sagome tridimensionali di piccoli animali stilizzati che osservano curiosi dalla luce posta sul loro capo, quasi ad illuminare la nostra eco-coscienza. La seconda installazione è Salsola (nome latino della Rosa di Gerico), che parte dal recupero degli scarti della rifilatura delle tavole in legno, ricchi di venature e di straordinaria elasticità. D’Auria modella e assembla il legno creando forme sferiche dal cui intreccio traspare la luce. È così che Salsola, come errante presagio di tempi bui e sterili, rotola nel deserto urbano in cerca di energia vitale, fino a che, trovata un’oasi di speranza, si ferma e schiudendosi irradia l’atmosfera di luce calda e rassicurante. Infine, ha presentato Worldhub una grandissima sfera che dalla terra illumina l’ambiente irradiando luce da fessure aperta tra il legno. Come in una retrospettiva, l’installazione ci pone di fronte ad antiche memorie che riemergono dalle nebbie ancestrali. L’origine del pianeta: come in un’astratta teoria della tettonica a placche, la crosta si lacera, i materici tasselli di legno si aprono lasciando trapelare il bagliore caldo del nucleo infuocato della terra di luce. Suona il telefono. Improvvisamente riemergo dalla vasca e dai miei pensieri consapevole che Simone, per produrre in equilibrio costante tra richiami all’artigianalità e alla manualità degli interventi da un lato e attenzione per le più avanzate forme di approccio al design ad elevata definizione tecnologica dall’altra, crea con amore, curiosità e passione. Ed è quello che ognuno di noi dovrebbe fare nel proprio lavoro.


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SMART ECOSOSTENIBILITÁ DIVERTIMENTO di Giorgio Armaroli


Siamo nel 1972. Alla Mercedes-Benz si esplora l’idea di una city car del futuro. Il designer Johann Tomforde ne progetta una visione radicale: un veicolo di soli due metri e mezzo di lunghezza, per due sole persone. Per i tempi sembra fantascienza. Le auto prodotte allora, ispirate dal modello americano, erano sempre più grandi e sempre più potenti e una vettura così bizzarra avrebbe fatto sorridere i più. Meno di dieci anni dopo, nel 1981, vengono realizzati i primi prototipi. Nasce così la NAFA ultra-compact city car, il cui nome deriva dalle parole tedesche nahverkehrs, traffico locale e fahrzeug, veicolo. Un’auto a due posti per il traffico locale, maneggevole e versatile, perfetta per le strade congestionate delle città e la scarsità dei parcheggi. Tuttavia a causa delle ridotte dimensioni, del peso e dei limiti tecnologici di quegli anni, la NAFA city car non soddisfa gli alti standard di sicurezza di Merces-Benz e la produzione in serie viene annullata. Nonostante la momentanea infattibilità, il progetto non viene però accantonato e nel 1988, a seguito dell’emanazione del California Clear Air Act, con rinnovata fiducia nella propria idea Mercedes-Benz sperimenta un veicolo cittadino ecosostenibile, realizzando una versione della NAFA city car ad alimentazione elettrica. I risultati sono positivi, ma l’autonomia delle batterie è insufficiente e ancora una volta la possibilità di una commercializzazione viene rimandata. Negli anni successivi continua l’evoluzione del progetto di Mercedes-Benz per lo sviluppo di una city car ultracompatta e già nel 1993 sono pronti prototipi che tecnicamente sono adatti a essere immessi sul mercato. Mancano però l’immagine e il design del prodotto, che deve essere accattivante e all’avanguardia. E’ grazie al contributo prima di un gruppo di studio costituito da diplomati dell’Art Center College of Design di Pasadena, California, poi di Nicolas Hayek, ideatore degli orologi Swatch e co-fondatore della Micro Compact Car GmbH, un’altra azienda impegnata nella creazione di una city car all’avanguardia, che il progetto viene completato. Nasce la smart. Nel 1998 comincia la produzione di questa city car di nuova generazione. Un’auto che esprime tutti i valori dei precedenti prototipi e progetti. Ecosostenibilità, oltre che per i bassi consumi della vettura e per l’utilizzo di materiali reciclabili al 100%, anche negli avanzatissimi impianti di produzione. Compattezza, manovrabilità nel traffico e facilità di parcheggio. Sicurezza, grazie all’introduzione della cella di sicurezza tridion, sviluppata basandosi sulle più moderne tecnologie di protezione

TECNOLOGIA

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dell’incolumità dei piloti di auto da corsa. Tra il 1999 e il 2006 la smart, poi ribattezzata smart fortwo per distinguerla dai nuovi modelli forfour a quattro posti e roadster, diventa un successo inarrestabile. Le vendite eccedono le aspettative e la fortwo vince le perplessità dei più scettici, che ne mettevano in dubbio la sicurezza e criticavano il costo troppo elevato. Negli anni smart continua a proporre soluzioni innovative, introducendo anche una versione decappottabile e un’ampia gamma di accessori che aumentano ulteriormente la versatilità della vettura. Nel 2007 viene presentata e commercializzata la nuova versione di smart fortwo. Una tappa fondamentale, non solo perché smart si conferma leader di progettazione, innovazione e design, migliorando l’eccellenza già raggiunta con la prima fortwo, ma anche perchè contemporaneamente riesce a portare a compimento l’ambizioso progetto iniziato nel 1988 con la NAFA city car ad alimentazione elettrica. Nasce la smart fortwo electric drive. Inizialmente prodotta in 100 esemplari, un numero comunque consistente che denota la fiducia di smart nel progetto, la qualità e le caratteristiche di funzionalità ed efficienza della ED portano subito a un rapido aumento della produzione. Nel 2009 viene lanciata la seconda generazione di fortwo ED, prodotta in 1.000 esemplari, e nello stesso anno prende il via il progetto di carsharing car2go, con cui smart intende introdurre e diffondere un’altra nuova idea. Quella di una mobilità urbana libera dall’ossessione della proprietà del mezzo da parte dei fruitori, che invece ne condividono civilmente l’utilizzo. I costi sono ridotti rispetto al mantenimento di una normale autovettura e chi utilizza il servizio di carsharing paga solo quando ne fa veramente uso, abrogando l’assurda abitudine di sostenere dei costi anche quando il mezzo è in garage, inutilizzato. Stato in cui, a ben riflettere, solitamente una vettura di proprietà passa la stragrande maggioranza del suo ciclo di vita. Oggi è giusto sottolineare come Mercedes-Benz sia riuscita a portare al successo un progetto nato ben 30 anni fa, prima come city car per venire incontro alla esigenze di mobilità urbana, poi come veicolo ad altissima ecosostenibilità, dimostrando che impegnarsi nella tutela dell’ambiente e nella produzione di alta qualità non è una pazzia, neanche per una multinazionale di notevoli dimensioni da cui ci si aspetta una notevole inerzia nell’innovazione. Quello della Smart è un successo che rafforza l’esempio già portato avanti da altre imprese che, agendo secondo i principi più moderni di


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concepire la produzione e la commercializzazione, generano un circolo virtuoso da cui poi fioriscono altre, ottime, sinergie di business, nonché la speranza di un futuro migliore. Ultimamente smart ha rafforzato un altro concetto moderno: se è vero che rispettare l’ambiente e il nostro futuro è nobile, giusto e vantaggioso, chi ha detto che non possa anche essere un’attività ludica? E’ così che oltre ai già esistenti prototipi di ebike ed escooter elettroalimentati, al salone di Ginevra 2011 e in anteprima italiana alla quarta edizione del Salone della mobilità sostenibile MoTechEco a Roma, è stato presentato un nuovo prototipo per la gamma smart electric drive, la forspeed. forspeed ripropone il concetto - già adottato da smart crossblade - di una vettura pensata per il puro divertimento, capace di alte prestazioni e dotata di un immagine sportiva, oggi abbinata alla elettromobilità. Le linee e le propozioni della smart forspeed sono futuristiche e richiamano immediatamente alla memoria veicoli fantascientifici visti al cinema e nei videogame. Pur mantenendo le caratteristiche di compattezza, l’estetica comunica dinamicità, prestazioni elevate e quindi piacere di guida. La struttura è completamente aperta, priva di tetto, cristalli laterali e parabrezza, sostituito da un deflettore anteriore chiaramente ispirato a modelli aeronautici e nautici. Le prese d’aria anteriori e posteriori allargano la siluette e, unendosi all’effetto dei pneumatici larghi, da 205/35 R 18 all’anteriore e 235/30 R 18 al retrotreno per garantire trazione e tenuta di strada in ogni condizione, rendono la forspeed otticamente incollata al terreno. I fari anteriori e i gruppi ottici posteriori, di forte impatto visivo, contribuiscono all’immagine futuristica della vettura sfruttando al massimo le potenzialità dell’illuminazione a LED. L’abitacolo, altrettanto avveniristico, è in perfetta armonia con l’esterno. Pilota e copilota, seduti sui sedili sportivi e allacciate le cinture a quattro punti di ancoraggio, si trovano davanti a due plance di forma circolare. Mentre al pilota sono affidati i comandi della vettura,

il copilota ha la possibilità di monitorare e gestire le funzionalità della vettura attraverso uno smartphone dotato dell’applicazione appositamente creata da smart e già utilizzata sugli attuali modelli in produzione di smart fortwo electric drive. Se dal lato estetico la forspeed è decisamente convincente, lo stesso vale per i dati tecnici e le prestazioni. Dotata di un motore a magnete permanente di 30 kW di potenza, accelera da 0 a 100 in 5,5 secondi e, tramite l’apposito comando di attivazione posto sulla console centrale, può generare altri 5kW di potenza aggiuntiva utili, per esempio, per effettuare sorpassi in sicurezza. La velocità massima di 120 km/h è quasi eccessiva per un uso urbano, mentre la durata delle batterie agli ioni di litio, che garantiscono ben 135 chilometri di autonomia, è ulteriormente sorprendente se si valuta che una ricarica parziale, che arriva all’80% della capacità massima, richiede solo 45 minuti. Interessanti anche alcune soluzioni sperimentali di cui è dotata la forspeed: la presenza di celle fotovoltaiche sul deflettore anteriore per evitare che il consumo energetico delle apparecchiature elettroniche di bordo vada a incidere sull’autonomia delle batterie della vettura; l’assenza di maniglie all’esterno delle portiere perché superflue, in quanto non essendoci cristalli laterali è possibile utilizzare quelle interne; la completa impermeabilizzazione degli interni per consentire lo scolo dell’acqua attraverso canalizzazioni sui sedili e sul pianale in caso di acquazzoni improvvisi o per offrire la possibilità di divertirsi con la forspeed anche in condizioni inappropriate per una vettura scoperta. La smart forspeed per il momento rimane un prototipo, un esercizio di stile affascinante le cui innovazioni estetiche e tecniche, però, potranno essere applicate nei modelli a venire, così come le tante soluzioni particolari dei prototipi del passato sono state utilizzate nel loro futuro, contribuendo a rendere migliore il nostro presente.


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CURITIBA COCKTAIL 50 ml di trasporti efficienti 100 gr. di piste ciclabili ecosostebinilità q.b. di Marcella Tusa


Il caldo e l’afa si fanno sentire in queste ultime settimane, soprattutto per chi come me lavora in un quartiere industriale urbano fatto di cemento ed asfalto. Ogni giorno percorro in auto il dedalo di vicoli che innerva il quartiere industriale e penso a quanto mi piacerebbe poter prendere l’autobus che, purtroppo, passando solo due volte al giorno, rimane solamente un sogno. Un altro passaggio a livello, una lunga fila di auto a motore acceso per tenere viva l’aria condizionata e sopperire all’afa del sole cocente. Mi fermo ed aspetto che il solito trenino mezzo vuoto e sgangherato mi sfrecci di fronte in tutta la sua velocità di quasi 20 Km/h. E’ in questo contesto che mi ritrovo immersa in un sogno ad occhi aperti, immaginandomi una città bella e pulita, con un centro storico ricoperto da centinaia di migliaia di alberi e spazi verdi, completamente pedonalizzato, con bambini che disegnano su grandi striscioni di carta apposti sulle strade una volta percorribili da inutili automezzi e colorato da residenti, negozianti e turisti felicemente integrati. Magari con un servizio di raccolta differenziata sostenuto e sponsorizzato dagli stessi cittadini in quanto fonte di guadagno per l’intera cittadinanza o una rete di trasporti rivoluzionaria, caratterizzata da arterie e strade riservate agli autobus e rampe coperte da tubi trasparenti per accompagnare al marciapiede, sullo stesso piano dei mezzi pubblici, chiunque, invalidi ed anziani compresi. Più di 20 mila passeggeri trasportati ogni ora con collegamenti efficienti, veloci ed a basso costo che rendono immediati gli scambi culturali e commerciali tra la città ed i quartieri più periferici. Spingo oltre la mia immaginazione e sogno di poter fare a meno della mia auto grazie a 160 chilometri di piste ciclabili che consentono di percorrere l’intera città in sicurezza e serenità. Penso a 14 mila case popolari costruite con bioedilizia a costo zero ed un Comune che regala, per ogni nuova abitazione, un albero da frutto ed uno ornamentale quale gesto di buon auspicio. Una città con 36 ospedali, 4.500 posti letto, medicinali gratuiti ed assistenza medica diffusa su tutto il territorio, 24 linee telefoniche a disposizione dei cittadini, 30 biblioteche, 20 teatri, 74 musei e 120 scuole. Il rumore del treno mi riporta bruscamente alla realtà ed alla coda che lentamente si muove. Caldo, odore di smog, automobilisti arrabbiati, mamme in ritardo, macchine in doppia fila, capannoni in disuso e discariche abusive in ogni dove. Questa è la realtà che ci circonda. Possibile che una città bella, pulita e vivibile possa rimanere solo sogno? No, la realtà ha superato la fantasia con l’esempio vivente di Curitiba, una delle città più prosperose, organizzate e vivibili del mondo. Con

in apertura: immagine di repertorio - Città di Curitiba In questa pagina dall’alto: La prima Abitazione Residenziale certificata CasaClima Nature Edificio ecologico Tsinghua University di Pechino Arch. Mario Cucinella

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due milioni e mezzo di abitanti Curitiba, metropoli localizzata nel sud del Brasile, ha vinto nel 2010 il premio internazionale del Globe Sustainable City Award, un riconoscimento del Globe Forum, gruppo di investitori svedesi che punta a promuovere l’innovazione sostenibile individuando le città più meritevoli in questo ambito. Come riportato da Jan Sturesson, Presidente della giuria, il progetto Biocittà di Curitiba comprende e integra diverse aree di intervento: “dalla dimensione ambientale a quella intellettuale, culturale, politica, economica e sociale, con l’obiettivo di creare una comunità forte e sana […] un master plan olistico che integra le risorse strategichecon l’innovazione e la sostenibilità futura”. E’ quindi plausibile ipotizzare che la lungimiranza di una città brasiliana possa essere presa come riferimento anche per le città del nostro Paese?

In alto: Arch. Nicoletta Gandolfi nella pagina accanto: immagine di repertorio - Città di Curitiba

Risponde alla domanda l’Architetto Nicoletta Gandolfi, libero professionista e partner associato dello Studio Tecnico Gandolfi di Bologna. Secondo la sua esperienza quali sono le metodologie e tecnologie che dovrebbero essere applicate per rendere una città italiana una vera e propria green city? Innanzitutto occorre individuare nella sinergia di molteplici fattori la chiave di volta per un miglioramento reale e sostenibile di ogni città italiana. Non è sufficiente, infatti, concentrarsi solo sulla viabilità o sulla bioedilizia in quanto l’ecosostenibilità urbana, a mio avviso, è sostenuta da tre fattori principali: trasporti, impianti di condizionamento e raffreddamento, architettura ecosostenibile. Per migliorare l’ecosostenibilità complessiva di una città si deve intervenire contemporaneamente su tutti e tre i fattori altrimenti i risultati rischiano di diventare solo burocrazia ed incremento dei costi. A Bologna, ad esempio, quali indicazioni darebbe per avviare un processo di ecosostenibilità integrata? Uno dei problemi che attanaglia la maggior parte delle città italiane, ivi compresa Bologna, è la viabilità e mobilità. Comincerei, quindi, con l’estendere il concetto in questione insistendo sul potenziamento del sistema ferroviario metropolitano e sulla rapida realizzazione di nodi stradali che colleghino il centro città con i maggiori quartieri urbani. La pedonalizzazione del centro cittadino è un’azione necessaria che deve essere accompagnata da percorsi pedonalizzati ad hoc casa-scuola, piste ciclabili separate dalle corsie stradali, parcheggi sotterranei diffusi, circolazione di auto ibride e sostituzione della flotta dei bus vecchi ed ingombranti con piccole navette ecologiche.

In secondo luogo occorre abbattere i numerosi ecomostri presenti su tutto il territorio nazionale potenziando il recupero delle zone più degradate della città con nuovi inserimenti residenziali o in social housing, con la realizzazione di spazi verdi ed una rete di trasporti pubblici efficiente e razionale. Un po’ come è avvenuto per Via Tortona a Milano, un angolo di ex periferia industriale sottoposta a radicali trasformazioni a partire sin dagli anni novanta e divenuto oggi uno dei quartieri cittadini più trendy. E’ plausibile immaginare una forma di edilizia urbana ecosostenibile ed economicamente vantaggiosa? Sono diverse le modalità con cui si può affrontare l’edilizia rendendola compatibile con il territorio ed a basso costo. Si potrebbe cominciare dalle nuove realizzazioni residenziali: l’impostazione dell’assetto urbanistico dovrebbe privilegiare maggiormente la creazione di cortili centrali così come l’utilizzo di un’ampia quota di pilotis e portici. L’ausilio delle nuove tecnologie combinate quali solare, fotovoltaico ed eolico porterebbero a ridurre notevolmente l’inquinamento degli impianti di condizionamento e raffrescamento degli edifici. Risparmio delle risorse energetiche ed utilizzo di materiali non inquinanti devono diventare una prassi comune nella progettazione e realizzazione di qualunque nuovo edificio. Basterebbe cominciare utilizzando intonaci traspiranti e materiali con un buon coefficiente di isolamento termico tali da permettere l’accumulazione del calore nel periodo invernale, così come l’impiego di semplici tecniche di riscaldamento razionale che privilegino i pannelli a soffitto, utili sia per il riscaldamento che per il raffrescamento nel periodo estivo. Non si dimentichi che l’ottimizzazione del clima urbano, intesa come riduzione dell’effetto serra nonché miglioramento immediato della qualità dell’aria, può essere realizzata attraverso l’utilizzo di maggiori aree verdi integrate da quote minime di orti e zone dedicate al gioco con sabbia e prodotti naturali adatti ai bambini. Certo è che circondati quotidianamente dal traffico, dal rumore, dall’inquinamento acustico ed atmosferico e da un generale degrado economico ed intellettuale non è facile immaginarsi catapultati in una dimensione urbana diversa ma le parole dell’Architetto Gandolfi mi infondono fiducia. Fiducia in un miglioramento possibile che si concretizzi in un vero e proprio capovolgimento di ruolo: oggi cittadini schiavi della città, domani una città a disposizione del cittadino.


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UGO ROSATI

Miglior venditore Würth Italia 2010 di Roberta Filippi


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Incontro Ugo Rosati in un bar di Ospitaletto, paese in provincia di Brescia dove è cresciuto e dove esercita la sua professione. Arriva sulla sua nuova BMW grigio antracite e mi saluta con il sorriso che lo caratterizza. Nonostante ciò non riesce a mascherare un lieve imbarazzo. “Non sono abituato a rilasciare interviste” mi confida. Cerco di metterlo a proprio agio davanti a un cappuccino e gli chiedo quando è iniziata la sua esperienza in Würth. “Nel 2005” mi racconta “lavoravo come operaio dopo aver concluso gli studi all’Istituto Tecnico Industriale di Brescia. Un giorno mia madre mi informa che in Würth stavano facendo dei colloqui e decido di parteciparvi. Ho passato una selezione dopo l’altra e poi… eccomi qui.” Per essere il miglior venditore per tre anni consecutivi, avrà dovuto fare passi da giganti in una realtà non certo facile. “Ogni anno ho raddoppiato il fatturato, sono passato da 200 mila euro del primo anno fino al traguardo di 1.150.000 del 2010.” Lo guardo esterrefatta e, dopo essermi complimentata con lui, mi sorge una domanda spontanea: “Mediamente, a quanto ammonta il fatturato

in questa pagina: Ugo Rosati nella pagina accanto: Sede amministrativa Würth di Egna (BZ)

annuo di un venditore?” Ugo mi spiega che si aggira sui 220.000 euro annuali, praticamente 5 volte in meno rispetto al suo. “Non avrei mai pensato di poter fare il venditore e di ottenere questi risultati”. L’impegno che ci mette nell’acquisire nuovi clienti e nel “coccolarli” – come ama dire lui – cercando di accontentarli in ogni loro necessità, lo si percepisce ascoltandolo mentre dice di ritenersi “fortunato a collaborare con un’azienda così importante, basata sul rispetto di alcuni valori fondamentali: l’impegno e la passione nell’interesse del cliente, il rispetto dei collaboratori, l’attenzione per la qualità e l’eccellenza, l’ottimismo e il dinamismo”. La sua forza sta proprio nel saper capire il cliente e nel gestire importanti richieste. Ma è un ragazzo che sa anche capire che non sempre si può ottenere tutto-e-subito. “A volte passano anche sei messi prima che un cliente faccia il primo ordine” mi confessa. “Sarebbe, forse, più facile preferire le piccole realtà aziendali che di settimana in settimana acquistano pochi pezzi, ma con regolarità. Sembrerebbe una tecnica più sicura, ma io preferisco grosse aziende che, ovviamente, hanno bisogno dei propri tempi”. Ambizioso, dunque, ma anche estremamente intelligente e perspicace. Suona il telefono. E’ la sua segretaria che gli ricorda l’appuntamento delle 10.30. Un fugace sguardo all’orologio poi, scusandosi, mi offre la colazione. Lo guardo mentre si allontana pensando che, nonostante il difficile momento economico che caratterizza il nostro Paese, Ugo è riuscito a farsi strada e a crescere grazie ai valori che lo contraddistinguono: serietà, concretezza e umanità. E alla sua età sono certa che farà ancora molta strada.

PEOPLE

Ugo Rosati, a soli 28 anni, si conferma anche quest’anno il miglior venditore del gruppo Würth Italia. Sia nel 2008 che nel 2009 aveva conquistato il primato rivelandosi il venditore più giovane ad aver raggiunto un così importante risultato. Würth Srl, attiva sul mercato dal 1963, si è sviluppata in modo esponenziale divenendo ad oggi il partner di riferimento per i 240.000 professionisti nel mondo dell’automotive, dell’artigianato, dell’edilizia e dell’industria.


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NOVITÀ NEL SETTORE CANTIERISTICO di Giovanni Matteazzi


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La recente sentenza Thyssen-Krupp impone di rivedere l’intero sistema della sicurezza sul lavoro; sono state identificate le enormi responsabilità aziendali per le quali, per la prima volta, in caso di incidenti mortali sul lavoro è stato configurato il reato di omicidio volontario con dolo eventuale. Durissime e senza precedenti anche le condanne inflitte ai Dirigenti ai sensi D.lgs. 231/01 sulla Responsabilità Amministrativa; ciò ha comportato anche la parziale chiusura di un settore aziendale: è la prima volta nella giurisprudenza settore lavoro! Il continuo aggiornamento culturale per la sicurezza e prevenzione deve essere tassativo per tutti i ruoli tecnici di: Datore di lavoro (D.L.), Preposto, R.S.P.P., R.L.S. Direttore tecnico di cantiere, Capo Cantiere, C. Squadra e Addetti; il D.lgs. 106/09, inserito nel D.lgs. 81/08 ha definitivamente chiarito le necessarie procedure di informazione, formazione, apprendimento degli Addetti con la fondamentale verifica anche in cantiere. I documenti “Albero della responsabilità” e “Organigramma Operativo Aziendale” costituiscono documenti probanti per la dimostrazione di aver definito precisa responsabilità di ruolo per ogni figura operativa aziendale; ciò significa avere costruito la ragnatela culturale del tutto possibile informativo e in tale concetto si deve inserire prima la definizione di azienda virtuosa e poi consequenzialmente e tassativamente l’applicazione di un S.G.S.L. nelle scelte di procedura ritenuta la più confacente e la più idonea alla tipologia dell’azienda stessa. In data 24.06.2009 il Ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali Maurizio Sacconi ha definito il concetto delle valutazioni delle idoneità delle aziende utilizzando, come

parametro, il rispetto applicativo delle norme di sicurezza sul lavoro, introducendo in modo scientifico il concetto di “AZIENDA VIRTUOSA”; e a sostegno di quanto indicato è utile ricordare anche il messaggio del Presidente della I.L.O. (International Labour Organization) che recita: “il lavoro dignitoso deve essere anche lavoro sicuro”. È in dubbio che, quanto indicato, (sintesi di nuove riflessioni operative) introduce la procedura di “regia gestione sicurezza cantiere”, coinvolgendo un tragitto di percorso progettuale definentesi in: continuità informativa; coordinamento preciso cantieristico; comunicazione precisa con gli addetti. Quanto sopra introduce nell’attività aziendale il principio di responsabilità di gestione con dei contenuti funzionali sul lavoro, quali: forte motivazione culturale creata di chi si occupa della gestione dei rischi (cultura della sicurezza, recepimento di tutte le “guida” degli Enti superiori, corsi specialistici); il Datore di Lavoro garantisce tutte le risorse, affinchè la struttura lavorativa possa essere tutelata secondo la migliore acquisizione della migliore tecnologia (eliminazione di ogni materiale superato, obsoleto, difettoso, non a regola d’arte); motivazione e coinvolgimento degli addetti affinchè si rendano conto di una necessaria fondamentale loro conoscenza e competenza dettagliata sui precisi sviluppi lovorativi nell’ottica di prevenzione; conoscenza ed analisi di soluzioni valide in funzione di tutte le continue innovazioni scientifiche e tecnologiche disponibili (corsi di aggiornamento per gli addetti in funzione di nuova tecnologia); assenza di ostacoli per mancanza di risorse economiche, per mancanza di soluzioni disponibili, per effetti negativi per altri lavoratori non formati (stranieri); disponibilità di supporto esterno per situazioni complicate per rischi particolari. Allora quando l’addetto si rende conto che un determinato numero di rischi in cantiere, può essere evitato, o, parzialmente eliminato, si rende conto che i rimanenti rischi possono essere considerati molto bassi; l’addetto si rende conto che esiste un preciso progetto di sicurezza, che coordina il tutto, si rende conto

SICUREZZA

Ormai si sa che il 5% del P.I.L. viene bruciato causa incidenti e morti sul lavoro; alla data odierna non si può più ammettere incertezze sull’orizzonte operativo imprenditoriale, soprattutto per il settore cantieristico. D.lgs, disegni di legge, circolari ministeriali (n° 5/11) stanno evidenziando, come si voglia ottenere una situazione operativa finalmente positiva e soprattutto, come si voglia costruire un idoneo motore per la ripresa economica nazionale, uscendo dalla palude degli incidenti e dei morti sul lavoro. Qualsiasi evento negativo, dal più leggero alla disgrazia, risulta una sconfitta morale per tutti.


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che il ruolo operativo apicale non risulta essere formale, bensì portante per la propria attività lavorativa. Solo in questo modo si può instaurare il rapporto autoritàresponsabilità di cantiere! La responsabilità nasce anche eliminando i generici “corsettini” o peggio ancora, la consegna di materiale informativo privo di qualità ed obsoleto. La responsabilità nasce nel far capire che l’Azienda per le scelte, per le valutazioni, per tutti i requisiti essenziali necessari per la sicurezza ha coinvolto tutte quelle persone istituzionali, di ruolo cantieristico e che il cantiere non risulta un semplice contenitore di pittogrammi. La responsabilità nasce anche da: “sapere” (cognitiva) - “saper fare” (operativa) - “saper essere” (comportamentale). Il D.L. ha un ruolo fondamentale nella interrelazione dei tre punti citati, inquantochè ciò fa scattare la dinamicità della sicurezza eliminando tutta la staticità di vecchie impostazioni lavorative. Il D.L. in questa operazione di “aumento di cultura”, di “diritto dovere”, di “convinzione”, di “responsabilità”, crea una “crescita economica sostenibile” con posti di lavoro più razionali e più funzionali, con una migliore coesione sociale, in modo tale da creare e garantire per ciascun lavoratore le migliori condizioni per poter svolgere le proprie mansioni nel rispetto non solo della propria integrità fisica, ma anche di salvaguardia di uno stato di benessere sul luogo di lavoro. Significa interrelazionare il Codice Etico Aziendale con il Comportamento Socialmente Responsabile –C.S.R. (a riferimento ben preciso ed individuato nel modulo INAIL mod. OT24 per riduzione tasso medio) e in riferimento, come esempio, alla procedura proposta, per prima a livello nazionale: Piano Lombardia – Sicurezza Lavoro 2011/2013.

Arch. Giovanni Matteazzi Docente qualificato Ateco 3 Componente Consiglio Direttivo Nazionale A.I.A.S. - Milano Componente Consiglio Direttivo Nazionale A.I.A.V. - Pisa

L’applicazione del Codice Etico significa un rapporto di scambio tra Datore di Lavoro ed addetto e viceversa; ciò significa che il Datore di Lavoro deve pagare il suo debito di sicurezza nei confronti dell’addetto; l’addetto ottenuto il saldo del debito, ha un debito verso il Datore di Lavoro durante la fase lavorativa. Il Codice Etico rappresenta pure la procedura codificata per attività non eseguite in sicurezza e prevenzione da parte dell’addetto: richiamo verbale – richiami scritti – sanzione di


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tipologia di temporalizzazione – licenziamento. Il Datore di Lavoro, oltre a sviluppare un discorso di sicurezza e prevenzione, deve anche porsi nei confronti dei propri addetti come informatore per certe situazioni, coinvolgenti anche la vita esterna dell’addetto stesso in famiglia e nell’ambiente esterno; Il Codice di Responsabilità Sociale (C.S.R.) rappresenta pertanto un preciso dialogo di informazione vita sociale, ambiante, suggerimenti operativi di miglioramento vita dell’addetto. Le informative vengono realizzate in continuazione con aggiornamenti funzionali, quali: il fattore umano, il problema dell’errore umano, libro verde (Ministero del Lavoro 2008), libro bianco (Ministero del Lavoro 2009), gestione risorse umane, trasporto da casa al lavoro, organizzazione del lavoro, le apparecchiature utilizzate in ufficio, l’ascensore, l’illuminazione, la climatizzazione, uso servizi igienici, gestione dei rifiuti, energia – unità di misura, comportamenti sicuri, riduzione inquinanti indoor, utilizzo veicoli aziendali guida sicura. Per quanto sopracitato, ne deriva che non si può più di certo continuare a ragionare con obsoleti processi di schedatura di software in CD, con informazioni acquisite in standards, con eredità pseudoculturali mai calate in una codificazione funzionale per il lavoro cantieristico. Ciò significa creare l’attività operativa cantieristica, supportata da precisa convinzione e la convinzione nasce solo da fattori di natura efficace nel processo decisionale, in maniera di ordini lavorativi, di misure di prevenzione, che si evidenziano in: Capire - Anticipare - Pianificare - Innovare - Agire. È importante sottolineare che la interrelazione tra D.lgs. 231/01 – Lex 123/07 – D.lgs. 81/08 s.m.i.c. crea il tessuto culturale per applicare in Azienda un modello “Sistema Gestione Sicurezza Lavoro” (S.G.S.L.). L’applicazione del S.G.S.L. costituisce pertanto procedura necessaria, funzionale affinché l’azienda sia coinvolta dal sequestro giudiziario amministrativo e soprattutto non vengano applicati in caso di evento, gli articoli C.p. 589/590; soprattutto significa uscire dal provvedimento di “omicidio volontario”. Il S.G.S.L. costituisce preciso parafulmine per qualsiasi situazione operativa di natura penale, inquantochè il Datore di Lavoro si è organizzato nell’implementare un sistema che garantisce il più alto livello di sicurezza nei processi lavorativi; L’implementazione di un S.G.S.L. è la fotografia della dimostrazione di impegno profuso dal Datore di Lavoro per garantire la sicurezza. È indubbio che l’Azienda che si propone in tale modo, dimostri impegno, il privilegio di azioni preventive, il miglioramento continuo, il rispetto della legislazione, l’applicazione della responsabilità, il procedimento della prevenzione, il mantenere in funzione il budget della sicurezza. Ciò significa: aumento del livello di sicurezza aziendale, riduzione dei costi diretti e indiretti legati agli infortuni, miglior rapporto con gli addetti, miglior rapporto con gli Enti Superiori di controllo.


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EDIL 2011 FIERA DI BERGAMO di Anna Serini


Compie 25 anni la rassegna delle macchine, dei materiali, delle attrezzature e dei servizi per l’edilizia civile ed industriale che si è svolta dal 24 al 27 marzo nell’ente Fiera di Bergamo. 605 gli stand presenti per un totale di 290 espositori. Riflettori puntati soprattutto sulla ristrutturazione e sul recupero del patrimonio esistente grazie alle nuove tecnologie e con un occhio di riguardo a ecologia e risparmio energetico. «Ci proponiamo – afferma Luigi Trigona, segretario generale dell’Ente Fiera Promoberg - di far rinascere l’edilizia e l’architettura bergamasca, che è sempre stata ai vertici mondiali. E per uscire dalla crisi che ha colpito il settore occorre riscoprire il patrimonio esistente e portarlo alla ribalta. Lo si può fare grazie alle nuove tecnologie, che vanno usate con intelligenza, tenendo conto di quelli che sono gli equilibri ambientali e sfruttando i metodi di risparmio energetico, ormai sempre più all’avanguardia. Da quest’anno vogliamo creare il connubio tra il tradizionale, che è stato il nostro punto di forza per 24 anni, con l’innovazione. Per quanto riguarda il tradizionale – continua Trigona – abbiamo l’esigenza di premiare l’eccellenza che nei prossimi anni significherà il saper recuperare i centri storici, ed infatti il tema portante quest’anno riguarda proprio la ristrutturazione. Per l’innovazione daremo sempre più spazio a temi quali sicurezza, eco compatibilità, risparmio energetico e domotica (ovvero la scienza che studia il miglioramento della qualità della vita in casa, ndr). Non solo: la parola d’ordine per il futuro è “internalizzazione”. A sostenere questa tesi c’è anche l’organizzatore della fiera, Alberto Cattaneo: «L’edizione 2011 della fiera vuole essere un momento di passaggio fondamentale tra passato e futuro, bisogna creare una continuità tra quello che

è stato e quello che sarà. Quest’anno abbiamo fatto un bel passo in avanti perché abbiamo “internazionalizzato” il nostro evento, richiamando diversi espositori stranieri, che rappresentano il 2% del totale: per noi è un gran successo.” Anche Sicurlive Group era presente alla Fiera di Bergamo dove si è presentata con un format di comunicazione rinnovato sia nello stile che nei colori, racchiudendo nel marchio tutte le aziende che permettono al gruppo di servire a 360° il mercato edile: Sicurlive, Sicurlive System ed EdilServizi. Agente catalizzatore dello stand è stata Valeria Mastropasqua (VisionAria), ballerina professionista e artista acrobata che con le sue evoluzioni ha incantato i 40.000 visitatori. La performance, che vedeva la ballerina ondeggiare e volteggiare in quota sorretta solo da una particolare corda di tessuto, riprende lo slogan della campagna di Sicurlive Group: “I tuoi passi non ti metteranno in pericolo”. L’utilizzo privilegiato dello spazio aereo e verticale è ciò che produce una diversa visione delle cose, un cambio di prospettiva che illude e fa sognare. In questa occasione Sicurlive Group ha mostrato un nuovo dispositivo di accompagnamento in sicurezza per chi opera sulle scale rimovibili. Si chiama “SicurUp”, innovativo sistema di fissaggio in acciaio, agganciato a un carrello mobile e alle linee vita grazie al quale l’operatore può muoversi in totale sicurezza, anche a decine di metri di altezza. Come sottolineava Alberto Cattaneo, con EdilFiera 2011 è necessario creare continuità tra passato e futuro. Sicurlive Group è già nel futuro.

EVENTI

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Sicurlive è un’azienda nata più di cinquant’anni fa ed è l’evoluzione di due generazioni di aziende legate al settore della carpenteria. Nei primi anni ‘60, l’attività degli artigiani di casa Buffoli era strettamente legata al settore agricolo. Col passare degli anni l’azienda sposta il suo interesse anche nel settore edilizio, rafforzando pian piano la sua incidenza nel mercato lombardo e diventando cosi una vera e propria realtà, oltre che nel settore edilizio, anche in quello militare. Giovanni, figlio di Carlo, impugna le redini dell’azienda e studia attentamente i prodotti linee vita. Dal 2000, infatti, la società comincia ad inserirsi nel settore sicurezza contro le cadute dall’alto. Da subito il sistema anticaduta riscontra risultati importanti ed oggi l’azienda è leader nella produzione e nell’installazione di sistemi di sicurezza anticaduta dall’alto, linee vita e dispositivi di ancoraggio a norma Uni EN795 classe A1 - A2 e C. Sicurlive vanta una schiera di personale altamente qualificato atto a risolvere qualsiasi tipo di problema dallo strutturale al fissaggio. Tutti gli elementi della linea vita sono stati studiati cercando di incontrare le esigenze di cantiere e perfezionati da una forte dose di ingegno, frutto di un continuo dialogo tra costruttori e ingegneri e tutti i prodotti e le installazioni, oltre a essere certificati secondo le direttive europee, sono testati all’Università degli Studi di Brescia dal Dipartimento di Ingegneria Meccanica. Certa della propria qualità, Sicurlive è l’unica azienda in Europa che, tramite filmati e report, permette ad ogni ingegnere di poter dimensionare il fissaggio. Sicurlive non solo progetta, ma si occupa di tutti gli aspetti necessari agli ancoraggi: dalla produzione, al taglio laser, all’assemblaggio tramite saldatura robotizzata di ogni singolo elemento, tutto avviene internamente e tutti processi di lavorazione seguono i rigidi processi della normativa Iso9001. Ciò permette di mantenere tempi e prezzi competitivi senza intaccare l’elevata qualità. “Tutti i prodotti sono dotati di un codice a barre che consente la tracciabilità di tutto lo storico: da chi ha prodotto il pezzo, a chi e quando lo ha installato” spiega Giovanni Buffoli, Amministratore Unico di Sicurlive. “Questo per garantire il massimo della sicurezza e garanzia. A fine dei lavori, inoltre, rilasciamo un manuale contenente le relazioni di calcolo, il progetto, la conformità dei prodotti, la scheda tecnica e l’assicurazione. Inoltre, i posatori eseguono periodicamente corsi di aggiornamento, così come regolarmente i prodotti sono

soggetti a controlli da parte degli enti accreditati per certificare la perfetta conformazione. Tra gli articoli di punta c’è uno speciale gancio sottotegola brevettato che non riscontra alcun problema di montaggio e, allo stesso tempo, si è rivelato efficientissimo in caso di caduta dall’alto.” Punta di diamante dell’azienda è, senza dubbio, “Sicur Climb”, ferma scala brevettato nel 2010 che pur non rientrando nella linea vita, ma più in generale in quello della sicurezza, si è rivelato come un progetto unico, introvabile presso gli altri competitor nel settore e grazie al quale Sicurlive è stata premiata alla Fiera di Bergamo quale azienda innovativa dell’anno. “Tecnicamente garantisce alla scala a pioli da terra di restare al sicuro appoggiata al muro evitando possibili ribaltamenti, cadute laterali o frontali. Può essere fissato su una gronda o sulla veletta del capannone.” spiega Buffoli. Altro prodotto di punta, ultimo in ordine di arrivo è SicurUp, presentato alla recente Fiera dell’Edilizia di Bergamo. Si sono affidati a Sicurlive e Sicurlive System, tra i più significativi: • ASL – fabbricato in via Biseo, Brescia • ASO Siderurgica, Ospitaletto (BS) • Auditorium e Palestra ITC Dagonari, Prato • Azienda Ospedaliera Mellino Mellini “Ospedale E. Spalenza”, Rovato (BS) • BARILLA S.p.A, Parma • Base Militare N.A.T.O. - Camp Ederle - US Army, Vicenza • Base Militare N.A.T.O. – NAVFAC - US Army, Livorno • Cattedrale di Noto • Centro Sportivo S. Filippo, Brescia • Chiesa di Capo di Monte (BS) • Chiesa e campanile Sacro Cuore Gesù di San Donato Milanese (MI) • Chiesa ed Oratorio di Nova Milanese (MB) • Comprensorio Sciistico Monte Pora, Passo della Presolana (BG) • Comune di Merate (LC) • Fonderie Officine Meccaniche S. Agostino S.p.A., Legnano (MI) • ISU – Istituto per il diritto allo studio universitario dell’Università di Brescia • Museo Tomba di Romeo e Giulietta, Verona • Ospedale Gemelli di Roma • Ospedali Riuniti di Bergamo • Scuola Elementare di Barberino di Mugello (FI) • Scuola Materna di Brembate Sopra (BG) • Scuola Materna di Crema (CR)

Giovanni Buffoli A.U. Sicurlive


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dall’alto: Michele Marchina - A.D. Sicurlive System, Omar Gabbamondo - Responsabile Tecnico

Nata nel 2008 come risposta alla richiesta sempre maggiore di fornire impianti chiavi in mano, Sicurlive System vanta un team di tecnici esperti, formati e qualificati per rispondere al meglio alle problematiche di cantiere. All’interno delle varie squadre vi sono posatori specializzati anche in altri settori - oltre alla linea vita - in modo da poter rispondere a 360° alle esigenze dei clienti. I tecnici dispongono di attrezzature specifiche e particolari oltre a furgoni allestiti e forniti di tutto per poter affrontare qualsiasi eventuale imprevisto. “Il personale è perennemente aggiornato sia rispetto alle norme in vigore sia alle novità tecniche. Le squadre rispettano tutti i requisiti per eseguire qualsiasi lavoro, dal privato al pubblico, presentando tutti i documenti indispensabili per lavorare al giorno d’oggi” dichiara l’amministratore delegato Michele Marchina. Tutto ciò consente a Sicurlive System di realizzare i più importanti impianti del settore per estensione e per interesse artistico. Il 75% delle commesse, ovvero oltre 3.000 impianti, di Sicurlive Group è installato dai propri tecnici. E questo a dimostrazione dell’affidabilità e della qualità dei propri collaboratori. Per venir incontro all’esigenze di mercato, Sicurlive System offre anche un servizio di sopraluoghi per verificare e risolvere in anticipo le problematiche di cantiere, soprattutto nel caso di coperture datate.


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• 3000 mq di cui 2700 mq esterni per la formazione pratica • Welcome desk • Spazio polifunzionale utilizzabile per sala congressuale e servizi catering • Area espositiva • Servizi tecnici necessari alle attività teoriche • Strutture e macchinari esterni per le attività pratiche


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Il Progetto, si suddivide in tre punti fondamentali: 1. Formazione degli operatori/utilizzatori delle linee vita: utilizzo del D.P.I. e delle linee vita con dimostrazione pratica delle conseguenze da caduta dall’alto, per errore di utilizzo e/o posizionamento linea vita 2. Progettazione linee vita ed evoluzione dello studio e della progettazione. 3. Campo di formazione ed addestramento per: - corsi antincendio (tipo A B C); - corsi per carrellisti; - corsi per uso imbracature di sicurezza; - corsi per lavori in altezza; - corsi per uso piattaforme elevatrici mobili; - corsi per montaggi e smontaggio ponteggi e trabattelli; - corsi per gruisti; - corsi per escavatoristi; - e quanto previsto ai sensi del D.Lgs. 81/08 relativamente alla formazione obbligatoria.

Il problema della sicurezza nei luoghi di lavoro è da sempre un argomento di grande rilevanza. Se si osserva la questione da un punto di vista puramente statistico si può rilevare come il trend storico del “fenomeno infortuni mortali” sia tendenzialmente decrescente. Dagli anni del boom economico, quando si superarono i 4.500 morti si è scesi ai poco più di 1.500 ad inizio millennio. Naturalmente in questi 50 anni si sono succedute profonde trasformazioni socioeconomiche nel Paese che hanno determinato, tra l’altro, una crescente attenzione, anche normativa, ai problemi dell’ambiente e della salute, con positive ricadute anche sulla sicurezza nel lavoro. Di grande influenza sono state le campagna di sensibilizzazione e le norme UNI EN 795 (dispositivi di ancoraggio - requisiti e prove) e UNI EN 517 (accessori prefabbricati per coperture ganci di sicurezza da tetto). “Non vi è ancora nessuno che istruisce i progettisti, gli operatori, gli amministratori condominiali e gli utilizzatori (responsabili per interventi di manutenzione sui tetti) al corretto utilizzo dei dispositivi di ancoraggio” dichiara il Geom. Raffaele Scorza, Direttore del Centro. Vista la sensibilità di molti Enti Pubblici, Associazioni di Categoria ed Aziende verso il problema della sicurezza nei luoghi di lavoro e, nello specifico, contro le cadute dall’alto, Sicurlive Group ha creato una struttura specifica che potesse formare gli operatori del settore. “L’apertura del Centro di formazione ed addestramento professionale SicurZone è rivolto a tutti gli utilizzatori delle linee vita e non solo” spiega il Direttore. “Attraverso corsi di Formazione, SicurZone vuole educare progettisti, installatori e, molto più importanti, gli utilizzatori, al corretto e responsabile utilizzo dei dispositivi di sicurezza. Tutto ciò, nasce anche perchè i datori di lavoro, per legge devono fare formazione ed informazione ai propri dipendenti.” E cosa c’è di meglio oltre alla formazione teorica? La formazione pratica sul campo! All’interno del Centro di Formazione e Sperimentazione, sarà inoltre affrontata, sia da SicurZone sia da altre società ed enti (vista la possibile locazione temporanea del campo), anche la restante parte di formazione obbligatoria e non, prevista ai sensi del D.Lgs. 81/08.

in alto: Rendering progetto Sicurzone Raffaele Scorza Direttore Sicurzone


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EdilServizi è l’azienda che, con sede a Concesio, gestisce tutta la rete commerciale di Sicurlive Group. “Il sistema anticaduta ha riscontrato buoni risultati e in pochi anni Sicurlive è divenuta una tra le aziende più importanti del nord Italia per prodotti di ancoraggio” dichiara l’amministratore di Sicurlive Group. Ad oggi sono 18 le agenzie di vendita che fanno capo a EdilServizi e si snodano su tutto il territorio italiano, isole comprese, proponendo i prodotti Sicurlive. “Sono facili nel montaggio e completi di ogni tipo di certificazione, assicurando all’impresa un’opera completa e inequivocabile” spiegano gli agenti. “Tutti gli elementi linea vita sono stati studiati cercando di andare incontro alle esigenze di cantiere e sono perfezionati da una forte dose d’ingegno, frutto di un continuo dialogo tra costruttori e ingegneri”. Sicurlive vanta una schiera di personale altamente qualificato che risolve qualsiasi tipo di problema: dalla progettazione, allo strutturale, al problema di fissaggio o alla sua manutenzione. E, ovviamente anche l’aspetto commerciale non è stato trascurato. EdilServizi è sempre alla ricerca di nuove zone per la vendita, ma anche di nuovi agenti sul territorio che condividano la filosofia aziendale. Nei lavori in quota, come è specificato nell’articolo 115 del Testo Unico, qualora non siano state attuate misure di protezione collettiva è necessario che i lavoratori utilizzino idonei sistemi di protezione per l’uso specifico composti da diversi elementi, come ad esempio connettori, dispositivo di ancoraggio e cordini. “Non

è semplice spiegare alle aziende, ma anche ai singoli cittadini, l’importanza dei sistemi di ancoraggio. Ogni regione ha le proprie leggi e c’è ancora poca conoscenza su questo argomento.” confida il referente. In ogni lavoro di costruzione, demolizione o altro (rifacimenti, tinteggiature, ecc.), devono, infatti, essere adottate tutte le necessarie precauzioni allo scopo di garantire la sicurezza e la incolumità dei lavoratori e di tutti i cittadini. Purtroppo pochi lo sanno, alcuni fanno finta di non sapere e molti se ne rendono conto solamente quando accadono disastrosi fatti di cronaca. “Le esigenze economiche” aggiungono i referenti “spesso vanno a discapito della sicurezza. Ciò non deve mai accadere in quanto l’esigenza che ha generato il recepimento della norma dovrebbe ridurre i molteplici incidenti causati dalle cadute dall’alto. La responsabilità grava sul proprietario dell’immobile che, in qualità di committente, si assume gli oneri della sicurezza. La corretta posa dei punti di ancoraggio permetterà agli addetti alla manutenzione di accedere alla copertura in piena sicurezza senza gravare di costi aggiuntivi all’intervento che andranno a effettuare”. EdilServizi, con i suoi collaboratori, non ricopre il mero aspetto economico, ma si dedica anche a far chiarezza e a esplicitare normative fondamentali per ogni cittadino.

dall’alto: Mauro Zucchetti e Ivan Giori Agenti Edilservizi


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