Casa Nostra: II parte - Centro e Nord Italia

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n.35 - settembre 2017

A viaggio fra i beni confiscati alle mafie d'italia parte i I - centro e nord italia


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LE STORIE CHE NON TI ASPETTI Giuseppe Mugnano

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TRA FORMELLO E NEPI Il Lazio tra legalità e integrazione Danilo Daquino

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“LA TOSCANA NON è TERRA DI MAFIA, MA LA MAFIA C’è Salvatore Lo Monaco

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ALLA RICERCA DEL VERO BENESSERE Matteo Campana

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IN ABRUZZO UNA CASA PER RINASCERE Marta Costantini

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MARCHE. IL TEATRO DELL’ASSURDO Matteo Campana

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EMILIA ROMAGNA REGIONE DI SEQUESTRI. è IL RIUTILIZZO? Irene Astorri

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SARACINESCHE PARLANTI E LEGALITà RESPONSABILE Veronica Rafaniello

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CONFISCATI E RICONFISCATI. Lo strano caso di Campolongo Giuseppe Mugnano

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LIBERA MASSERIA DI CISLIANO. Un bene confiscato recuperato dal basso

Giovanni Modica Scala 24

PIEMONTE. DOVE IL RIUTILIZZO FUNZIONA Sergio Scollo

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RIFORMA DEL CODICE ANTIMAFIA Parla il deputato Davide Mattiello Chiara Valzano

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editoriale

TRA FORMELLO E NEPI

LE STORIE CHE NON TI ASPETTI

di Giuseppe Mugnano

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ui la mafia non esiste”: sembra essere andato definitivamente in sordina il ritornello che molti si affrettavano a cantare, soprattutto al Nord. A spegnere i microfoni ci ha pensato la magistratura, ma anche i fatti di cronaca. Troppo schiaccianti per essere ignorati o minimizzati. Riavvolgendo il nastro delle innumerevoli inchieste condotte, si è scoperto poi che non solo la mafia c’era, bensì era ben radicata da decenni, anche nei luoghi più insospettabili. Finito il negazionismo, si prova poi a spiegare, soprattutto ai più giovani, le storie dei rispettivi territori, trovando testimoni di realtà pa-rallele, che hanno percorso una strada fin qui poco battute. Allora ecco che si viene a sapere che già negli anni Ottanta la ‘ndrangheta era arrivata in Piemonte e in Veneto, che la camorra aveva messo radici in Emilia-Romagna, che nelle Marche vi aveva messo su casa uno della Banda della Magliana, che Cosa Nostra non era un problema solo siciliano, ma un po’ di tutta l’Italia. Un po’ ovunque si corre ai ripari affermando che quelle della mafia erano dinamiche latenti, mentre oggi ci si interroga sul come sia stato possibile non accorgersi di nulla. Non solo, scavando ancora un po’ si trovano realtà associative che sono presenti sul territorio da più di dieci anni, mentre in altre regioni d’Italia, come nel caso di Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto-Adige, in seguito alle confische (seppur si contino sulle dita di una mano) non vi è nata alcuna attività di riutilizzo dei beni confiscati, oppure quelle che vi erano sorte sono ormai scomparse. Questo accade per le difficoltà che s’incontrano per l’assegnazione dei beni, gli iter interminabili, le difficoltà nel reperire fondi utili a portare avanti una cooperativa sociale che non vive solo di ideali, ma anche di fatturati (come vedremo più avanti) e stipendi da pagare. Spesso si fa affidamento sul lavoro di volontari (vedi Libera), pronti a mettere a disposizione tempo e competenze per progetti sociali, però si tratta comunque di un lavoro. Spiegare e contrastare la mafia e provare a creare delle alternative produttive non dovrebbe essere un’occupazione svolta per beneficenza. �

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IL LAZIO TRA LEGALITà e integrazione di Danilo Daquino

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econdo le stime di gennaio, il Lazio, con 1270 beni immobili, è la sesta regione in Italia per numero di confische. Di questi, la fetta più importante – quasi il 66 per cento – sarebbe gestita dall’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati, mentre la parte restante è già stata destinata prevalentemente ai comuni. «I pochi beni confiscati che abbiamo qui, non vengono dati in affidamento», dice

Marco Carducci, che con la cooperativa Sinergie ha gestito Villa Sandra durante la fase di sequestro. «Solitamente le assegnazioni avvengono dopo la confisca definitiva e una volta terminato l’iter giudiziario. Lì è accaduto il contrario, è bastato il primo grado di giudizio – racconta Carducci –. Il presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Roma ha pensato di avviare un utilizzo sociale dell’immobi-

le ed è stato stipulato un contratto di affitto tra l’amministratore giudiziario e la nostra cooperativa. Poi, dal momento in cui l’iter giudiziario è andato avanti e si è concretizzata la condanna definitiva, è passato tutto in mano all’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati. A luglio 2015 il Comune di Formello è diventato proprietario visto il decreto dell’ANBSC e ha garantito la continuità delle attività che la

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cooperativa aveva concordato con l’amministrazione giudiziaria, il tutto nelle more di un bando di gara che ancora non è stato pubblicato», aggiunge.

sequestrato e non ancora confiscato, andando ad abbattere i costi e le lungaggini che caratterizzano la gestione dei beni confiscati», ammette.

Acquapendente, e ancora servizi di pulizia in due comuni, un’università agraria, un’industria privata e un cinema, con diversi lavoratori impegnati».

Si tratta di un bene di oltre 3500 metri situato nel territorio comunale di Formello e confiscato nel 2011 alla società Adonis, che secondo i magistrati era collegata alla ‘ndrina dei Gallico di Palmi. Al centro delle iniziative svolte dalla cooperativa all’interno della tenuta, i campi di formazione e volontariato di Libera, andati avanti per tre anni consecutivi, poi laboratori con i ragazzi dei centri diurni e con gli adolescenti del centro giovanile del comune, tutte attività sporadiche perché la gestione non era definitiva. La precedente amministrazione comunale di Formello l’aveva immaginata come una struttura adatta per realizzare una casa famiglia per minori ma in realtà, secondo quanto sostiene Carducci, da quando la villa è stata assegnata al comune di Formello, si è fermato tutto. «La classica burocrazia che rallenta la gestione dei beni confiscati si è concretizzata anche su questo bene – accusa l’uomo –. Siamo un po’ dispiaciuti, perché abbiamo prestato la nostra opera imprenditoriale a sostegno del disegno di quel giudice che ha voluto provare ad avviare una gestione speciale di un bene

Oggi, dal percorso di fusione tra le cooperative Sinergie e Alice, è nata Alicenova che si

Ma quello di restituire alla collettività ciò che per anni è stato nel patrimonio della collettività resta uno dei principi della cooperativa. A Nepi, in provincia di Viterbo, nel 2015 la Alicenova ha avuto assegnata – insieme alle cooperative Punto e a capo, Gea e Fattorie solidali – un’azienda agricola confiscata alla camorra, che verrà trasformata in luogo di aggregazione e formazione. «Metteremo su un progetto di agricoltura sociale, con laboratori per le attività riabilitative, un piccolo progetto di residenzialità che garantirà anche la guardiania, un punto per la vendita di prodotti nostrani col marchio Sémina e ristorazione», spiega il presidente. Intanto è stata riattivata la corrente e sono stati ripuliti gli spazi. Il bene, confiscato al clan Nuvoletta nel 1997, comprende tre ettari di terreno e spazi che si estendono per 400 metri quadri, con un casale, una piccola abitazione e alcune stalle. Tutte strutture che necessitano di essere ristrutturate. «Stiamo cercando le risorse, adesso c’è anche la possibilità di ottenere finanziamenti a tasso zero per i beni confiscati, intanto ci è stato finanziato un progetto dall’Inail per la bonifica di una parte dei tetti in amianto» conclude Spigoni �

occupa di servizi socio sanitari e educativi, nelle province di Viterbo e Roma, della gestione di centri diurni, di assistenza domiciliare, oltre all’accoglienza di richiedenti asilo con il modello dell’accoglienza diffusa, aggregazione giovanile e attività di impresa con l’assunzione di persone con difficoltà economiche. «In particolare – spiega il presidente Andrea Spigoni – abbiamo un settore agricolo dove oltre alla parte produttiva, seguita dalla cooperativa Fattorie solidali che è uno spin-off di Alicenova, effettuiamo servizi riabilitativi per persone con disagio psichico, con problemi di dipendenza e di vario tipo, poi abbiamo un settore di grafica e stampa e un altro turistico tramite il quale gestiamo un ostello a Formello, un casale nella riserva naturale Monte Rufeno, due piccoli alberghi ad

“LA TOSCANA NON è TERRA DI MAFIA, MA LA MAFIA C’è” di Salvatore Lo Monaco

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onfisca e riutilizzo dei beni sono tematiche ricorrenti presso la regione Toscana, particolarmente attenzionate da una moltitudine di enti, primo tra questi “L’Osservatorio sui beni confiscati alla criminalità organizzata in Toscana” (OBCT), il quale riceve le informazioni di base a cura dell’ANBSC e quel-

le aggiuntive con il contributo delle amministrazioni locali, di Libera Toscana, dell’Arci Toscana, della Fondazione Caponnetto, dei volontari e dei ricercatori che lavorano quotidianamente sul tema, mantenendo aperta la possibilità di ulteriori contributi di tutte le associazioni operanti sul tema dell’antimafia sociale.

L’OBCT è realizzato dal Centro di documentazione “Cultura della Legalità Democratica” della Regione Toscana in vista della pubblicizzazione di tutta la documentazioni disponibile sui beni confiscati alla criminalità organizzata presenti nella regione, con il proposito di facilitare le attività di studio, prevenzione e il riutiliz-

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zo sociale dei beni; la relativa banca dati, con accesso georeferenziato, è destinata ad approfondire l’informazione sui beni, soprattutto di quelli localizzabili ed in particolare per quelli già destinati. Secondo l’ultimo aggiornamento, tramite sistema georeferenziato (giugno 2017), la regione Toscana conterebbe 52 immobili destinati e ben 301 in gestione, mentre per quanto riguarda le aziende 2 sono quelle destinate e 45 quelle risultanti in gestione; 31 i Comuni che ospitano sul loro territorio beni o aziende confiscate definitivamente. Il numero più alto (ben 43 immobili sequestrati) si concentra a Marciano della Chiana in provincia di Arezzo; le aziende sequestrate si concentrano invece nei territori di soli cinque comuni: Aulla, Campi Bisenzio, Licciana Nardi, Prato e Sesto Fiorentino, una a testa per i primi tre, un paio per gli ultimi due. La frase del magistrato Caponnetto, “La Toscana non è terra di mafia, ma la mafia c’è”, è illuminante nella descrizione dell’attività mafiosa nella regione Toscana, e ne abbiamo dimostrazione in riferimento alla cronaca locale riguardo la confisca di beni legati ad attività di stampo mafioso e alla loro provenienza: a partire dalla confisca del “Caffè Bonetti” 8

di piazza Pitti per mezzo della polizia di Napoli, avvenuta nel febbraio 2013, locale ritenuto di proprietà di una società con sede legale nella città partenopea, nei confronti della quale è di quindici milioni l’ammontare complessivo di immobili

ed esercizi posti sotto sigillo; altro caso registrato è quello di Prato, in cui la Direzione investigativa antimafia di Firenze ha sequestrato un patrimonio stimato di oltre cinque milioni di euro nei confronti di tre imprenditori calabresi operanti in Toscana, nelle province di Prato, Firenze e Pistoia. Tra i beni sequestrati figurano anche bar e pizzerie a Firenze, sei appartamenti del complesso immobiliare Il Teatro in via Vallecorsi a Prato, il Bar Becco d’Ora (sempre a Prato), un immobile a Montecatini, un terreno e un fondo a Buggiano. Altro caso di confisca, a cui ha avuto seguito, questa volta, l’applicazione della legge 109 del 1996 (Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati), è quello registrato nella provincia di Pisa, presso

il comune di Montopoli in Val D’Arno, ove, lo scorso dicembre 2016, un appartamento precedentemente confiscato al boss catanese Vincenzo Aiello è stato proficuamente destinato a “Centro Antiviolenza” sulle donne, affidato all’associazione “Frida”. Andando incontro alla sempre più crescente minaccia della violenza sulle donne, che tra il 2013 e il 2015 ha registrato dati allarmanti a livello nazionale (ben il 70% delle donne ha denunciato violenze e/o abusi per mezzo dei numeri rosa o rivolgendosi ad associazioni come “Frida”), primeggia l’impegno del vice Sindaco di Montopoli in Val D’Arno, Linda Vanni, la quale, in riferimento allo stesso bene dichiara: “Un bene come questo appartamento confiscato alla mafia e riutilizzato socialmente è un simbolo positivo a cui guardare con fiducia nelle istituzioni e speranza nel futuro dei cittadini, pensiamo inoltre che sarà un’opportunità di riscatto e crescita per tutto il terrritorio”. Oggi, comunica lo staff di “Frida”, la struttura del centro risponde perfettamente alla finalità per cui è stata costituita, e grazie agli operatori, impegnati quotidianamente a soccorrere le vittime di abusi e violenze, il centro assurge a modello organizzativo tendente a debellare il fenomeno, non

solo a livello regionale, ma in un prospettiva nazionale. Il caso più celebre e complesso di confisca alla criminalità organizzata in Toscana è quello della tenuta di Suvignano (Monteroni D’Arbia, Siena), confisca avvenuta in un primo step per mano del magistrato siciliano Giovanni Falcone nel 1983, il quale sospettava rapporti del proprietario, imprenditore siciliano, Vincenzo Piazza con “Cosa Nostra”; successivamente la tenuta di Suvignano tornò in possesso dell’imprenditore fino al 1994, quando, a seguito dell’arresto di Piazza per associazione mafiosa, i magistrati siciliani fecero scattare un nuovo sequestro. Solo nel 2007, con il passaggio in giudicato della condanna di Piazza, tutti i suoi beni vengo-

no definitivamente confiscati, e tra questi anche Suvignano. Il podere toscano, che vanta un’estensione di circa 700 ettari, è stato assegnato nel luglio 2016 ai comuni di Monteroni D’Arbia e di Murlo, i cui sindaci hanno preso parte alla sigla dell’intesa insieme all’assessore regionale alla legalità

Vittorio Bugli, e il viceministro per le politiche agricole Andrea Olivero. In merito all’utilizzo sociale che dello stesso bene può farsi, si esprimono anche i vertici politici: “Abbiamo un progetto pilota e che mi auguro sia di riferimento per l’assegnazione e l’utilizzo sociale, ed in tempi più rapidi, di tutti i beni sottratti alla criminalità”, dice il governatore Enrico Rossi; la realtà è però differente, infatti da ben 23 anni l’azienda Suvignano è gestita dallo stesso amministratore giudiziario, Cappellano Seminara, il quale, dal novembre 2009 è inoltre amministratore unico della “Società Agricola Suvignano s.r.l.”, di cui lo stesso podere fa parte. Già durante il governo Letta la Regione Toscana, in seguito ad un ricorso al TAR, aveva presentato un’autonoma proposta di utilizzo del podere, ma tutto sembrò essere paralizzato sotto la “solita” gestione, e oggi si assiste alla medesima situazione, nonostante il ricircolo dell’intero apparato politico.

della regione Toscana, Enrico Rossi, attualizza la già citata frase del magistrato Caponnetto: “In Toscana per ora non sembra esserci un’organizzazione criminale residente, con la testa qui”. Chi opera nella regione è legato ad organizzazioni che fanno capo ad altri territori – alla Campania, alla Puglia, alla Sicilia e alla Calabria – o a gruppi stranieri. Ma non è detto che domani non possa accadere e per questo, affinché il tessuto ancora sano non sia corrotto, dobbiamo essere pronti, vigili e attrezzati”; in tale prospettiva, “l’attrezzatura” di cui la Toscana gode rappresenta qualcosa di unico, dalle Alpi alla Sicilia, una vera e propria “Casa della Memoria”, il Centro di documentazione Cultura della Legalità Democratica (nel cuore di Palazzo Strozzi Sacrati a Firenze, sede della presidenza della Regione), un fornitissimo archivio contenente misteri, curiosità storiche, testimonianze sulla mafia e la criminalità organizzata, il tutto aperto a studiosi, curiosi e “addetti ai lavori”, con il fine di preservare e rinforzare la coscienza civica�

L’impegno della regione Toscana nella lotta alla mafia e alle sue manifestazioni è dimostrato dall’attività di “istigazione alla legalità” esercitata dai vertici. In una dichiarazione dello scorso 25 luglio il presidente

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ALLA RICERCA DEL VERO BENESSERE di Matteo Campana

L’

Umbria è una delle regioni del centro Italia col minor numero di confische di beni sul proprio territorio: secondo i dati riportati e aggiornati al 21 maggio 2017 da OpenRegio dell’ANBSC, si contano 112 beni confiscati, tra immobili destinati (43), aziende destinate(1), immobili (64) e aziende in gestione (6). Secondo quanto riporta OpenRegio, l’Umbria è diventata, e continua ad essere, un’importante area di ramificazione per i più potenti clan mafiosi, ‘ndrangheta e camorra. Imponenti capitali son stati seque-

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strati di recente nelle principali città umbre; nel 2015 sono addirittura stati confiscati milioni di euro al clan dei Casalesi nelle città di Foligno e Terni; a Perugia, invece, nel giugno 2016 sono stati confiscati tre autovetture e diversi conti correnti bancari ad un pregiudicato calabrese affiliato alla ‘ndrangheta. Ciò che un poco affievolisce le speranze e la volontà di chi fa antimafia, di chi si batte per la giustizia e per la legalità, specie in Umbria, è l’ovvietà dei fatti: dati alla mano, in Umbria, solo per un bene è stato avviato un effettivo percorso di riutilizzo socia-

le. Il bene in questione, che per la cronaca risulta essere anche il primo bene confiscato alle mafie, si trova in provincia di Perugia, presso Col della Pila, nelle vicinanze di Pietralunga. Con ovvietà dei fatti s’intende evidenziare che, oggigiorno, la confisca dei beni alle mafie non giunge a un effettivo risultato a causa della mancanza di fondi che garantirebbe la sua concreta e futura riutilizzazione nel corso del tempo avvenire; permane così in Italia una vera e propria moltitudine di beni “fermi”, confiscati e sequestrati, sì, ma non (redi) vivi. Fossili a vita della crimi-

nalità e non testimoni viventi della giustizia che prevale, della speranza che sopravvive ad ogni tipo di assenteismo, rassegnazione e disinteresse. Ora però qualcosa comincia a muoversi. L’Amministrazione comunale di Pietralunga, un piccolo paese collinare in provincia di Perugia, in collaborazione con l’associazione Borghi Autentici d’Italia e Libera, si propone infatti di trasformare il sito in una Cooperativa di comunità. Questo sito comprende un’azienda agricola e un palazzo del centro storico del paese. Al momento lo Stato, tramite l’ANBSC, ha dato in mano questa situazione alla prefettura di Perugia in modo che vengano trovate associazioni o enti vari che si mobilitino per riutilizzare e (ri)gestire questo bene. La prefettura di Perugia ha successivamente fatto un accordo col comune di Perugia per individuare una soluzione per la gestione del bene e a seguito di ciò è stato quindi aperto un bando pub-

blico a per trovare dei possibili gestori per i beni. Questo bando pubblico scade il 10 settembre. Tra le associazioni partecipanti vi troviamo anche Borghi Autentici d’Italia, il cui segretario generale, Maurizio Capelli, ha voluto sottolineare che, nonostante i lavori in corso, “l’associazione non preclude niente e nessuno. Siamo aperti a ogni tipo di associazione o individuo che voglia mettersi in gioco e rendersi disponibile nel partecipare alla riutilizzazione di questi beni. Accettiamo o g n i forma d’aiuto. Nonostante il bando, per il quale si dovrà aspettare la chiusura prevista per il 10 di settem-

bre, il Comune di Pietralunga ha di recente chiesto aiuto all’associazione per dar vita ad una cooperativa di comunità, per “sostenere cioè interventi di natura sociale ed economica basati sulla mobilitazione sia di una compagnia cooperativa a partecipazione giovanile e femminile, che dell’intera comunità locale. In questo modo il bene confiscato ritorna a pieno titolo nella disponibilità sociale ed economica della comunità locale, trasformando una criticità in opportunità”, precisa il segretario generale Capelli. “Quella della cooperativa di comunità è una realtà tutta nuova in Italia” - continua“Si sta diffondendo di recente in diversi comuni italiani.

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Consiste nella voler dar vita a una cooperativa che svolge e si occupa di servizi collettivi all’interno del Comune. I cittadini volenterosi, proponendosi come volontari, a questo scopo hanno la possibilità di occuparsi di servizi di diverso tipo e ambito: dal turismo all’assistenza famigliare, dalla tutela dell’ambiente al settore energetico fino ad arrivare alla creazione propria di mestieri e attività che non sono ancora presenti sul territorio. In particolar modo l’associazione Borghi Autentici d’Italia andrebbe a focalizzarsi sul campo della produzione agricola e del turismo in generale. Questi progetti sono stati pensati e voluti al fine di rendere e sperare il proprio territorio una terra fertile e ricca di opportunità e di servizi per il bene delle persone. Dal malessere e inquinamento della mafia alla sostenibilità di cittadini liberi e desiderosi di benessere”. Questo è un vero amore: spendersi, dare, lavorare per una qualsiasi causa pretendendo nulla in cambio. Occuparsi della comunità, accudirla e farsene carico in comunione, nella condivisione; prendersi cura e avere realmente a cuore il bene comune. Mettersi in secondo piano dando spazio all’altruismo e alla generosità. Sono questi il bene e l’amore che solo una madre è in grado di dare. Non una madre qualunque. Non una madre presunta. Non la mafia: infame e bugiarda che con violenze e malvagità mette i figli in secondo piano e che in testa ha solo unicamente il proprio benessere �

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IN ABRUZZO UNA CASA PER RINASCERE di Marta Costantini

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proventi dell’usura trasformati in bene per la collettività. È la storia di un’abitazione civile appartenuta a una famiglia rom e destinata a diventare una casa di accoglienza per ex detenuti e le loro famiglie. «Un luogo per chi ne ha bisogno», come lo descrive suor Benigna Raiola, dell’associazione Liberi per Liberare. L’appartamento, situato in via Garibaldi 327 ad Avezzano, è stato confiscato nel 2006 e successivamente, nel 2009, affidato al Comune marsicano dall’ANBSC - Agenzia per la Gestione dei Beni Sequestrati e Confiscati. L’anno successivo don Francesco Tudini, di Liberi per Liberare, richiede al Comune la cessione dell’immobile per destinarlo all’accoglienza di ex carcerati, cessione accordata per un periodo di 99 anni. Dopo un’esperienza trentennale nelle carceri, don Francesco, insieme a suor Benigna, si è fatto promotore di una struttura che sia in grado di accompagnare i detenuti del carcere San Nicola nel loro percorso rieducativo, con lo scopo principale di fornire assistenza per il reinserimento sociale. Quattro anni di lavori, tra iter burocratici e costruzione dell’edificio, hanno dato vita ad una struttura di due piani, per un totale di 400 me-

tri quadrati. Fornita di cucina, refettorio, studio, lavanderia e posti letto, la casa è capace di ospitare 12 persone. Come spiega suor Benigna, l’associazione «ha dovuto demolire l’immobile, perché inagibile, e ricostruirlo ex novo». È stato faticoso trovare i fondi, arrivati dai finanziamenti della Diocesi di Avezzano e del Senato della Repubblica ma anche dalle donazioni di privati, per un totale di circa 500 mila euro. A maggio, terminati i lavori, la struttura è stata inaugurata, ma l’effettiva apertura è prevista per settembre, in quanto l’associazione sta aspettando le autorizzazioni per l’agibilità dell’immobile e il collaudo degli impianti. L’abitazione, «un’esperienza completamente nuova nel territorio» per don Francesco, nata dai resti di attività illecite, è stata trasformata in un luogo di rinascita, tanto metaforico quanto letterale, per coloro che vivono, o hanno vissuto, un percorso di detenzione. Secondo quanto fornito da Libera, la struttura d’accoglienza di Avezzano è il solo, in territorio abruzzese, tra i beni confiscati alla criminalità già riutilizzato per fini sociali. Infatti, stando ai dati dell’ANBSC, aggiornati a luglio 2017, il totale degli immobili seque-

strati che hanno concluso l’iter di rassegnazione e che sono stati destinati, è di 63. Tra questi è possibile perlopiù trovare appartamenti, garage, terreni agricoli e ville. Nello specifico, 22 immobili sono stati riassegnati nel teramano, 18 in provincia de L’Aquila, 14 nel pescarese e 9 in provincia di Chieti. Tra i principali beneficiari degli immobili ci sono i singoli comuni che devono adoperarsi affinché le strutture vengano destinate a servizi utili alla comunità, così come vuole la precisa clausola di riutilizzo a fini sociali, emessa dai tribunali per 27 dei 63 immobili. Una decina degli edifici sequestrati sono stati, invece, destinati alla Polizia di Stato e alla Guardia forestale, mentre nessuna clausola è prevista per le strutture rimanenti. In totale i beni confiscati in Abruzzo, immobili e aziende – sia quelli in gestione, per i quali non è ancora stata emessa la destinazione, sia quelli che sono stati destinati – sono 259. Si tratta di un

dato in aumento rispetto agli anni precedenti, che testimonia «l’efficacia della strategia, degli strumenti e delle risorse impegnate sul versante della legalità, della giustizia sociale, dell’inclusione, della diffusione di una cultura della cittadinanza responsabile e dell’etica d’impresa», come dichiara la dottoressa Tatiana Giannone dell’associazione Libera. Tuttavia sta anche a rappresentare un rinnovato interessate della criminalità organizzata nei territori abruzzesi. Nonostante alcune inchieste giudiziarie negli anni Novanta avessero già testimoniato la presenza di associazioni di stampo mafioso nella regione, è il terremoto del 2009, e la successiva ricostruzione, a rappresentare la chiave di volta attraverso cui la criminalità organizzata, ed in particolare la camorra dei Casalesi, è riuscita ad infiltrarsi in diversi settori. Primo fra tutti quello del mattone. A confermare l’interesse delle associazioni di stampo mafioso in

Abruzzo è anche la più recente operazione “Isola felice”, indagine dell’Arma dei Carabinieri conclusa a settembre dello scorso anno, che ha portato alla custodia cautelare 25 soggetti. L’inchiesta, che ha coinvolto in totale 6 regioni (Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Sicilia e Marche), ha rivelato la consistente ascesa nella regione della ‘ndrangheta calabrese, i cui interessi si muovono dal traffico di stupefacenti e di armi all’usura e al riciclaggio di denaro. Il rapporto della Direzione Investigativa Antimafia sul secondo semestre del 2016 ha confermato anche la continua e invasiva presenza dei clan romanì, le cui attività comprendono corruzione, narcotraffico, estorsioni, truffe e gioco illegale. Un intreccio perverso, soprattutto per quanto concerne il traffico di droga, i cui proventi legano la criminalità rom con le associazioni di stampo mafioso, che fa dell’Abruzzo un’isola tutt’altro che felice �

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terno del territorio marchigiano, e in larga scala, all’interno di tutto il Centro-Italia. Di questi 47 beni, circa il 90% di essi sono beni immobili, suddivisi in “abitazioni di tipo civile” o “di tipo economico”, secondo quanto è riportato dall’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata. Interessante la vicenda di un podere nella contrada di Tufi, presso Jesi (An), bene confiscato e sequestrato a un affiliato della Banda della Magliana, che ora invece si occupa di accoglienza, assistenza e cura verso pazienti con disagi perlopiù psichici. “Circa venticinque anni fa, un terreno di 28.000 mq sito a Cupramontana presso la Con-

nio indisponibile del Comune di Cupramontana. Per alcuni anni il bene venne ceduto a privati e adibito a coltivazioni. Nel 2009 il Comune, dopo aver reperito i fondi necessari, sottoscrisse una convenzione con la Cooperativa Sociale Vivicare per la concessione in comodato di uso gratuito degli immobili e, in accordo con il Dipartimento di Salute Mentale e con l’Ambito Sociale competenti, venne deciso di costituire nel terreno confiscato una comunità residenziale per utenti con disagio psichico. Il progetto della Comunità nasce quindi da una stretta integrazione e collaborazione, anche economica, tra Pubblico e Privato sociale. L’obiettivo di tutti gli attori coinvolti era ed è quel-

trada Tufi, con annesso fabbricato rurale di circa 200 mq di superficie, venne sequestrato e quindi confiscato perché risultato essere parte dei beni riconducibili ad Enrico Nicoletti, tesoriere della banda della Magliana di Roma, che lo aveva acquisito tramite un prestanome. Con provvedimento del 29/10/2002 n. 33962 dell’Agenzia del Demanio gli immobili vennero trasferiti al patrimo-

lo di restituire alla comunità e ai cittadini un bene che in passato aveva alimentato l’economia di un’importante organizzazione criminale e che oggi svolge una fondamentale funzione pubblica al servizio del territorio. In questa prospettiva è essenziale anche la collaborazione che abbiamo con Libera, che ogni anno realizza un campo estivo nel bene confiscato.” riferisce il presi-

MARCHE IL TEATRO DELL’ASSURDO

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n teatro che mette in scena un variegato spettacolo di culture, tradizioni e territori: un palco variopinto di monti, colline e di un litorale che svela un Adriatico misteriosamente limpido. Una regione portuale ricca di commercio e turismo; ventre natale del grande poeta, filosofo e scrittore Giacomo Leopardi; manifesto ininterrotto di tradizioni e feste cittadine

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di Matteo Campana che si tramandano ancora oggi di paese in paese, di famiglia in famiglia, di generazione in generazione; terra ostinata, orgogliosa e desiderosa di conservarsi a lungo, frammentata in porti, città, borghi, sobborghi, stradine, vicoli, cucine e dialetti. All’oscuro del sipario che copre quest’intera meraviglia si cela un vecchio morbo ormai comune in tutta la penisola ita-

liana, la mafia. La regione Marche è infatti caratterizzata, oltre le sue diverse attrattive, dalla presenza di circa 47 beni confiscati alle mafie. Queste decine non sono di certo paragonabili alle migliaia che macchiano altre regioni, sono altresì, indistintamente, un importante segnale che attesta quanto le mafie siano vive, influenti e presenti all’in-

dente della cooperativa sociale Vivicare, Nicola Vannoni. “La nostra struttura - continua - è una comunità alloggio che attualmente ospita 12 utenti e che si rivolge perlopiù a chi ha problemi borderline e/o antisociali di personalità accanto ai disturbi psichiatrici più stretti, con le sue diverse attività e proposte per la cura e la relativa assistenza ci ha resi in grado di dare una risposta efficace a un bisogno emergente del territorio con la definizione di progetti e di percorsi individuali che si pongono l’obiettivo di strutturare l’esperienza in comunità come una fase propedeutica e funzionale al passaggio a situazioni di maggiore autonomia, come quelle dei gruppi appartamento.” Questo bene, nato e predisposto come nido di villeggiatura per l’affiliato e tesoriere della banda della Magliana Enrico Nicoletti, rappresenta quindi un’importante svolta sociale e rivoluzionaria, bandiera della legalità e della giustizia. Il riutilizzo di questo bene, volto ad attività di volontariato, all’informazione, al sociale, alla cura e alla riabilitazione di persone con diversi tipi di disagi, è un altro pezzo considerevole che va ad aggiungersi a quel vasto puzzle che rappresenta tutti i frutti dell’antimafia e dell’onestà, un puzzle frequentemente trascurato e sminuito o altrimenti ostacolato; bensì un frutto sbocciato e ben maturato, non dimentichiamocene, per merito dell’applicazione della legge 190/96, la legge “Rognoni-La Torre”, pietra angolare della confisca dei beni alle mafie �

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EMILIA ROMAGNA REGIONE DI SEQUESTRI. E IL RIUTILIZZO? di Irene Astorri

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na costruzione completamente abbandonata a se stessa e piena di erbacce. È questo ciò che rimane dell’ex hotel King Rose di Granarolo, bene immobile sequestrato alla mafia ormai sei anni fa, nel 2011, e mai più utilizzato. Tre stelle, cinquantacinque stanze e duemila metri quadrati di terreno sequestrati a Vincenzo Barbieri, rappresentante della ‘ndrangheta in Emilia. Per un breve periodo, l’hotel è stato utilizzato per ospitare i terremotati dei territori della

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Bassa, colpiti dall’evento sismico che si è abbattuto sulla regione nel 2012, ma poi anche quello scopo sociale è venuto meno. E adesso la costruzione è divorata dalla burocrazia: nessuno si è fatto avanti per comperarla, nonostante il bene sia stato messo all’asta. Da un valore stimato iniziale dell’immobile intorno ai tre milioni e mezzo di euro, si è arrivati ad una offerta di un privato di poco più di un milione, praticamente meno di un terzo, immediatamente rifiutata dall’Agenzia per i Beni

Confiscati. A pesare sull’offerta, sono stati anche un leasing del valore di un milione e mezzo di euro gravante sulla proprietà, oltre che i costi aggiuntivi di gestione ed operativi, considerati troppo alti da affrontare per eventuali privati interessati. L’ultima società che si è fatta avanti, e che voleva trasformare l’hotel in una casa di cura, si è scoperto essere priva del certificato antimafia: una vera e propria situazione paradossale. Per questo motivo la proprietà del bene si trova attualmente

in mano ad una società di leasing, con il compito di cercare un compratore e liquidare allo Stato ciò che avanza. In ogni caso briciole, anche se dovesse riuscire nell’impresa. Quello dell’hotel King Rose non è l’unico fallimento, per quanto riguarda la gestione dei beni sequestrati alla criminalità organizzata. Un altro esempio è quello dell’ormai arcinoto caso della villa bolognese “La Celestina”, una costruzione a tre piani sequestrata al palermitano Giovanni Costa, arrestato più volte, prima per associazione a delinquere negli anni Novanta e successivamente per il presunto riciclaggio del denaro di Cosa Nostra nel 2001. Ormai della Villa non è rimasto più nulla: non è altro che un rudere, posizionato su Viale Aldini, tenuto su dalle impalcature. Ed è imprigionata in un limbo: impossibile venderla, impossibile ristrutturarla. L’eventuale costo di ristrutturazione è stato stimato intorno ai quattro milioni di euro, una somma assolutamente insostenibile per il Comune. Ma anche l’ipotesi di abbatterla sarebbe impraticabile. Sul bene era presente anche un’ipoteca, sciolta dall’Agenzia che attualmente l’ha in gestione. Ma a quanto pare, neanche questo è servito. Queste due situazioni, l’hotel King Rose e la villa “La Celestina” sono soltanto la punta dell’iceberg in Emilia Romagna, la regione che, secondo quanto riportato dal sito mafieeantimafia.it, “negli ultimi anni ha visto aumentare in maniera considerevole il numero dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità or-

ganizzata di stampo mafioso” e nella quale si sta svolgendo il processo “Aemilia”. Secondo un rapporto del Ministero dell’Interno, datato dicembre 2015, il numero dei beni sequestrati si aggira intorno alle 700 unità, mentre quello dei beni confiscati supera le 350, collocando così l‘Emilia Romagna al settimo posto tra le regioni italiane per quanto riguarda i beni sequestrati e al quarto per quelli confiscati. Questi dati, se da un lato riescono ad evidenziare il lavoro svolto nel contrasto alla criminalità organizzata, dall’altra dimostrano come questa situazione sia ampiamente diffusa

parecchio eterogena: si passa infatti dal Comune di Parma, dove il numero dei beni confiscati coincide con quello dei beni destinati (11 su 11), a quello di Modena e Reggio Emilia, dove la percentuale rasenta lo zero. Non a caso è stato proprio nel Comune di Brescello, situato nella provincia di Reggio nell’Emilia, che è partita l’inchiesta che ha portato al processo Aemilia. Caso a metà strada è il capoluogo di Regione, Bologna, dove circa il 50% dei beni confiscati viene riutilizzato. Un interessante esperimento in materia è stato portato avanti dagli studenti del Dipartimento di Scienze della

anche in zone che, in maniera completamente errata, sono ancora considerate, almeno a livello mentale, alquanto lontane da questo fenomeno. Di fatto, l’insieme dei beni confiscati e sequestrati rappresenta un patrimonio immenso, stimabile in decine di milioni di euro, che però fatica a tornare alla collettività, restando troppo spesso congelato tra le mani dell’Agenzia per i Beni Confiscati e Sequestrati. Secondo le stime della stessa agenzia del 2016 infatti, quasi il 70% di questi beni non vengono riutilizzati, anche se la situazione regionale è in realtà

Comunicazione dell’Ateneo Bolognese: per settimane hanno inviato richieste a diversi Comuni della Regione, per raccogliere informazioni sullo stato dell’arte in materia di beni confiscati e sequestrati e come su questi fossero riutilizzati. Di fronte a 44 comuni coinvolti nell’esperimento, la maggioranza non ha fornito alcuna risposta. E anche quelli che l’hanno fatto, a malapena 12, non sempre hanno fornito risposte esaurienti. La strada da percorrere è ancora lunga �

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SARACINESCHE PARLANTI E LEGALITà RESPONSABILE

COSì LIGURIA COMBATTE LE MAFIE di Veronica Rafaniello

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a Liguria è un territorio nel quale negli anni, le mafie, hanno avuto modo di insinuarsi e fare affari. Tuttavia, cittadini e istituzioni non sono rimasti inermi, a guardare, ma si stanno pian piano riprendendo locali e terreni che fino ad ora sono stati simbolo della ragnatela con cui la criminalità organizzata aveva avvolto la regione. La Liguria ‘vanta’, a dispetto delle dimensioni, diversi primati re-

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lativi alle tematiche di mafia e antimafia. Sono Liguri, infatti, i primi due comuni (Bordighera e Ventimiglia) sciolti per infiltrazione mafiosa nel Nord Italia, dopo il comune di Bardonecchia, nel 2011. Ed è genovese la confisca di beni più rilevante non solo del Settentrione, ma dell’intero territorio nazionale: 115, di cui ben 96 nel centro storico del capoluogo. “Mai si erano visti così tanti immobili confiscati contem-

poraneamente in una porzione urbana così densa e circoscritta” ha commentato Libera Liguria. Con l’operazione Terra di nessuno, la Direzione Investigativa Antimafia di Genova ha assestato, nel 2009, un colpo clamoroso ai danni della famiglia Canfarotta, arricchitasi tramite sfruttamento della prostituzione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il 26 febbraio 2014 la sentenza definitiva, che ha

restituito allo Stato e alla città, un quartiere da anni flagellato dal degrado e dal malaffare. Per favorire il riutilizzo con l’applicazione della legge 109/96, è stato istituito il Cantiere per la legalità responsabile con lo scopo di ‘fare rete’ tramite la collaborazione tra associazioni, cittadini, Comune e attività del terzo settore. Prima del maxi sequestro, infatti, i beni confiscati nella provincia di Genova erano 43 (e quelli totali dell’intera regione 58), tuttavia lo stato di abbandono e la violazione di norme igieniche e di sicurezza, rendono particolarmente ostica la riassegnazione di quelli nuovi,

ed è stato ritenuto necessario un impegno maggiore da parte di tutti i soggetti coinvolti. Solo recentemente, il 14 febbraio 2017, il Consiglio comunale di Genova ha approvato all’unanimità la delibera per l’acquisizione gratuita del primo gruppo di immobili (11 su 96) confiscati ai Canfarotta. Si tratta per lo più di lotti la cui riqualificazione non necessita di un alto dispendio monetario. Ora si attende un riscontro dall’ANBSC che deciderà se accettare o meno la richiesta del Comune e, nel caso di risposta positiva, avverrà l’effettivo passaggio di gestione con conseguente riassegnazione. MANIFESTI DI RINASCITA - Nonostante la portata del sequestro, ci si è resi conto che c’è poca consapevolezza a riguardo. Quasi nessuno, a Genova, sapeva il perché delle saracinesche chiuse lungo le strade del centro. Si è quindi deciso di fare di necessità virtù, utilizzando le stesse, tristi e grigie saracinesche, come manifesti dell’avvenuta caccia all’illegalità. Nel corso del 2016 il Cantiere per la legalità responsabile, in particolare il gruppo Agesci Genova 5 del quartiere Maddalena e gli autori di GOA Cares hanno elaborato e messo in atto un’incursione notturna. Nella notte tra l’1 e il 2 aprile, infatti, i ragazzi del Cantiere hanno affisso sulle saracinesche di alcuni beni confiscati un cartello bianco, con la scritta nera che colpisce per la sua semplicità e forza espressiva: ‘Questa non è una saracinesca, ma un bene confiscato alla criminalità organizzata, quindi una risorsa per la comunità’. A seguito del successo dell’ini-

ziativa si è poi deciso di rendere permanenti le ‘saracinesche parlanti’. Ne è nato un vero e proprio percorso urbano, chiamato Maddacinesca, per visitare la città attraverso messaggi di rinascita. Ogni saracinesca, in diverse occasioni, è stata dipinta e decorata da artisti o alunni delle scuole e contiene un preciso messaggio, legato esplicitamente a quello di un altro bene confiscato. In questo modo si mostra il legame tra i diversi locali e l’importanza che hanno all’interno non solo dei confini cittadini, ma dell’intera nazione: lotta, speranza, impegno. FARE ANTIMAFIA IN LIGURIA - “Ogni territorio ha la sua storia, e anche all’interno della stessa regione sono molte le specificità che impongono a chi si occupa di lotta alle mafie grande attenzione e cura – ci ha spiegato il Dottor Stefano Busi, responsabile regionale di Libera Liguria- Senz’altro in Liguria lo scoglio più grande è rappresentato, più che dal negazionismo (che pure ancora ci riguarda), da forme ancora più subdole di sottovalutazione del fenomeno”. Queste si traducono in “un atteggiamento diffuso di sostanziale indifferenza rispetto al problema, mai davvero avvertito come preoccupante dalla cittadinanza”. Tuttavia, le statistiche e le informazioni rilasciate dagli organi preposti mostrano la centralità di questa regione del Nord Italia e della sua economia nell’ambito delle strategie criminali. La sfida per chi fa antimafia in queste zone, dunque, risulta essere principalmente quella di scuotere gli animi, aprire gli occhi alle coscienze ed educare i residenti,

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a partire dalle più piccole fasce d’età. Da qui la nascita di laboratori didattici e del progetto Osservatorio sulle mafie in Liguria dedic a t o a l l a m e m o ria di Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo assassinato da Cosa Nostra. LE REALTÀ DEL TERRITORIO- “Sono davvero poche, per il momento, le realtà nate da beni confiscati in Liguria- racconta Busi- Tuttavia ce ne sono due che vale la pena segnalare, perché, pur con tutti i limiti del caso, hanno rappresentato e rappresentano una risorsa per il territorio: l’esperienza del Quarto Piano a Sarzana (SP) e quella di In sciä stradda a Genova”. Quest’ultima è nato nel 2012, quando il bene confiscato in vico Mele, è stato assegnato alla comunità San Benedetto al Porto, che lo gestisce tramite la cooperativa sociale Il Pane e le Rose. In sciä stradda inizialmente si è presentata come bottega per la vendita dei prodotti di Libera Terra, provenienti dai terreni confiscati, e dei manufatti realizzati dai ragazzi di San Benedetto. In questo modo la comunità si è ripresa due ‘bassi da prostituta’, confiscati al boss di Cosa Nostra. Rosario Caci, trafficante di droga e sfruttatore della prostituzione, legato al mafioso Piddu Madonia. Oggi, a sei anni dall’assegnazione, il locale “ha cambiato pelle, di20

venendo uno spazio a disposizione delle associazioni del quartiere (e non solo) animato e vissuto da una decina di realtà” spiega Stefano Busi, orgoglioso. P e r q u e l che riguarda Il Quarto Piano, invece “è nato da un’idea di un gruppo di giovani volontari di creare un luogo dedicato alla cultura, al volontariato e al tempo libero, pensato soprattutto per i giovani delle scuole e delle associazioni” racconta Francesco Baruzzo, rappresentante di L’égalité, l’associazione fondata da studenti universitari sarzanesi, che gestisce il bene confiscato in via Landinelli 42. Le difficoltà maggiori sono state quelle amministrative, di assegnazione dell’immobile, che si sono protratte per ben due anni. Il bene è stato sequestrato nel 2010 all’imprenditore e criminale locale Gabriele Venturi, confiscato in via definitiva nel 2011 e riassegnato solo nel 2015. Da allora ha rappresentato “un vantaggio netto per la collettività - spiega Francesco - Non è la soluzione ai grandi problemi della nostra vita locale, ma senz’altro ci indica una via e una speranza.” In poco più di un anno di vita, Il Quarto Piano ha dato alla luce, con risorse esclusivamente private, un ambiente familiare e accogliente dove incontrarsi, studiare, passare del tempo insieme e svolgere le attività

più diverse, dal doposcuola ai corsi d’italiano per stranieri, o leggere un libro in biblioteca. Ma non è finita qui, i ragazzi di L’égalité non si fermano: “I nostri progetti futuri consistono nella prosecuzione delle attività aggregative e di intrattenimento che animano il bene confiscato e che coinvolgono, ogni anno, decine di persone” spiega Baruzzo. Circa le difficoltà incontrate nel trattare e nel parlare del tema dell’antimafia e dell’illegalità, Francesco non ha dubbi nell’esporre le posizioni dell’associazione, “Più che educare alla legalità, oggi è importante educarci ad una cittadinanza responsabile, attenta e attiva - afferma - Non abbiamo messaggi da lanciare né insegnamenti da proporre, ma soltanto il nostro tempo e il nostro volontariato da mettere a disposizione, per lasciare che siano i giovani e i meno giovani a dire la propria sul nostro tempo e sulla nostra comunità”. Ai posteri, dunque, l’ardua sentenza. Nel presente possiamo, però, riconoscere di aver trovato in Liguria un terreno fertile, anche se ancora poco ‘sfruttato’, per il recupero dei beni appartenuti al malaffare. Le esperienze di In sciä stradda e Il Quarto Piano dimostrano come la Regione abbia bisogno e dimostri di voler valorizzare i rinnovati beni comuni. L’attenzione e l’impegno di tanti cittadini lasciano ben sperare anche per il futuro della confisca Canfarotta, a patto che la burocrazia non freni la corrente dell’entusiasmo e la voglia di legalità che per ora gridano i loro messaggi dalle coloratissime saracinesche abbassate del capoluogo �

CONFISCATI E RICONFISCATI: LO STRANO CASO DI CAMPOLONGO di Giuseppe Mugnano

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osa Nostra, ‘ndrangheta, camorra, mafia cinese, ognuno con la propria zona di competenza, con i propri affari e i propri intermediari. È ciò che caratterizza il Veneto, regione che negli ultimi decenni è stata letteralmente invasa dalle organizzazioni criminali. Se poi ci si aggiunge anche la criminalità locale, il quadro si fa ancora più frastagliato. Negli anni Ottanta la Venezia criminale ha in Felice Maniero il proprio boss riconosciuto. Venuto alla ribalta prima come criminale locale, artefice di furti e rapine, Faccia d’angelo si è poi imposto come principale intermediario della criminalità organizzata nel traffico di so-

stanze stupefacenti dell’area veneta. “La sua storia - spiega Roberto Tommasi, responsabile regionale di Libera Veneto - ha assunto dei contorni che sono stati mitizzati: è stato complicato privarlo di quell’aura eroica agli occhi dei ragazzi, così come è stato difficile estirpare la credenza comune che la mafia qui non fosse affar nostro”. Oggi il boss della Mala del Brenta, la banda criminale sgominata grazie alle sue rivelazioni, ha cambiato vita grazie al programma di protezione testimoni; la sua villa di Campolongo Maggiore nel veneziano, in seguito alla confisca, ha cambiato faccia ed è diventata la sede dell’associazione Affari Puliti, a partire

dal 2008. “Inizialmente questo spazio - racconta Pietro Bordin, direttore amministrativo di Affari Puliti - era stato pensato come spazio anziani, ma quando presentammo il nostro progetto, venne accolto di buon grado dal Comune, il quale deteneva l’amministrazione del bene. La nostra idea è stata semplice quanto efficace: fare di un luogo una volta adibito agli affari illeciti, un incubatore di imprese giovanili”. Fare, in sostanza, da rampa di lancio a nuove realtà imprenditoriali, ammortizzando inizialmente i costi di gestione. Ben 15 imprese finora si sono appoggiate a quest’associazione, come Fab Lab, laboratorio di stampa in 3D che ha ottenuto importanti

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riconoscimenti. Ma nell’ultimo anno le cose non sono andate per il verso giusto: l’amministrazione di Campolongo nel 2016 è cambiata, passando nelle mani di una coalizione civica di centro-destra, capeggiata da Andrea Zampieri. Tra le nuove direttive anche quella di riprendere possesso di Villa Maniero, facendone uno spazio per le realtà associative del territorio. A marzo viene recapitata una prima lettera ad Affari Puliti, in cui si invitava l’associazione a lasciare l’abitazione. Pronta la replica, in cui si facevano valere i propri diritti, ovvero la convenzione ancora in essere con il Comune dal 2015. “La nuova amministrazione nei nostri confronti si è mostrata fredda sin dal primo momento - spiega Bordin -. Riteniamo che l’azione intrapresa contro di noi sia un atto di arroganza”. Difatti la vicenda ha assunto nuovi contorni, passando alle accuse. “Il Comune sosteneva - racconta il presidente di Affari Puliti - che la struttura non fosse idonea ad ospitare uffici, poi hanno accusato me di conflitto di interessi nel sostenere una delle imprese. La verità è che noi non siamo ben visti, perché non siamo allineati a loro”. Ora l’amministrazione comunale ha incaricato uno dei suoi consiglieri di maggioranza di farsi carico della vicenda, attraverso vie legali. “Hanno dato mandato ad un avvocato di seguire il caso. Il suo compenso si aggira intorno ai 13mila euro, una cifra considerevole per un Comune di 10 mila abitanti”commenta Bordin. Il Comune, invece, non vuole alzare i toni della discussione “Abbiamo riscontrato delle difformità con 22

la convenzione tra il Comune e l’associazione. - spiega la consigliera Katia Toson - Alle nostre rimostranze l’associazione ha risposto con una lettera di un legale. Vorremmo risolvere la questione in via bonaria, trovando un accordo tra le parti”. Se da una parte si spinge sull’acceleratore, dall’altra si morde il freno. Prossimo appuntamento a settembre, in cui si cercherà di trovare un

accordo. In tutto ciò, però, Libera tace. Non sono certo molti i casi in cui ad un bene confiscato riutilizzato si imputi una mala gestione, e in questi frangenti far da pacere dovrebbe essere un loro compito. Invece - a detta dell’associazione - Libera non si è mai interessata da vicino della questione, né si è mai fatta viva dalle loro parti. Come a dire, i panni sporchi è meglio che si lavino in casa �

LOMBARDIA:

Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati ad autorizzare nell’immediato la possibilità di stipulare un comodato d’uso gratuito per rendere immediatamente disponibile il bene alla collettività di Cisliano. “Con la nuova dirigenza di Libera - spiega Gigi - assai più tradizionalista, c’è stata la loro uscita”. Quindi a Cisliano si lavora principalmente con Ucapte (Una casa anche per te) di Cari-

stire i campi di Formazione e Lavoro nel bene confiscato Libera Masseria. “La confusione che si genera - spiegano i gestori in un comunicato chiarificatore del 27 luglio - è data dal termine LIBERA che diversi hanno impiegato negli anni ed appartiene alla lingua italiana (…). Cogliamo l’occasione per ringraziare chi in Libera - nomi e numeri contro le Mafie risponde al telefono e ci indirizza le assistenti sociali dei diversi comuni, che

sono 5 ettari di terreno in comodato a fianco della Masseria: è stato avviato all’interno uno spaccio di Fuorimercato e col tempo il ristorante funzionerà coi prodotti del campo. “L’idea - svela Gigi - è di costituire un’altra comunità sociale autogestita lì, dopo quella già avviata nel Lodigiano, e di avere tutte le realtà economiche all’interno della rete Fuorimercato tenute insieme da un progetto di economia popolare”.

tas, utilizzando 4 mega appartamenti per ospitare famiglie sfrattate (siamo a 28 nuclei transitati in attesa di alloggio in due anni). Sono poi coinvolte altre realtà, associative e non (Cgil Lombardia, Camera del Lavoro di Milano, Cgil Ticino Olona, La Barriera, Caritas Ambrosiana, Cooperativa Terra e Cielo, Cascina Contina, Ri-MAFLOW, cooperativa IES, cooperatica Madre e terra, Comune Di Cisliano, e Lega delle autonomie), impegnate collettivamente nel promuovere e ge-

cercano percorsi di formazione e lavoro per i ragazzi/e in difficoltà. Del resto anche NOI quando ci chiedono dei campi di E!StateLiberi formazione ed impegno diamo i contatti della associazione che tanto ha fatto e continua a fare, e resta nel nostro cuore.” Oltre all’uso abitativo per le famiglie sfrattate, lo stabile è dotato anche di una pizzeria (“siamo in attesa di farla funzionare di nuovo ufficialmente, creando anche posti di lavoro”). In più, grazie alla Caritas, ci

Nelle scorse settimane vi si sono tenuti campi di approfondimento e lavoro che hanno coinvolto centinaia di ragazze e ragazzi. La domanda, gravida di riflessioni, che Gigi pone al termine della nostra conversazione è la seguente: se si è potuto fare con la Masseria, perché non è possibile recuperare tutti i beni confiscati (e la Lombardia è la regione del Nord che ne possiede di più) e abbandonati attraverso un’iniziativa diretta dal basso? �

LIBERA MASSERIA DI CISLIANO - UN BENE CONFISCATO RECUPERATO DAL BASSO di Giovanni Modica Scala

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ex ristorante “La Masseria” di Cisliano è un bene confiscato il 13 ottobre 2014 al clan ‘ndranghetista Valle-Lampada e non ancora riassegnato definitivamente. Cisliano è un piccolo comune di circa 5000 abitanti a sudovest di Milano. Alla confisca seguirono numerosi “atti vandalici”: rimozione delle cancellate e delle tegole dal tetto, distruzione degli impianti, allagamento degli appartamenti e altri numerosi danni, per un ammontare di circa mezzo milione di euro. A fronte di tali atti, dopo che il Comune di Cisliano e Libera avevano più volte segnalato la situazione al Tribunale di Milano, in occasione del Consiglio Comunale aperto del 21 aprile 2015 (al quale hanno preso parte anche Libera e Caritas), è stato votato all’unanimità l’impegno dell’Ammini-

strazione a ottenere risposte dall’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati e proteggere il bene da ulteriori atti di vandalismo. “Si iniziò con il responsabile regionale di Libera, che già seguiva anche RiMaflow – racconta Gigi Malabarba della fabbrica recuperata RiMaflow - e insieme a noi e Caritas si trovò un accordo col Sindaco per evitare la depredazione da parte dei mafiosi, per poi arrivare a costruire un progetto di utilizzo.” Sulla base di questo impegno, il 13 maggio 2015 viene avviato da Libera, Caritas e Comune un presidio permanente di legalità: un susseguirsi di volontari che giorno e notte hanno presidiato la struttura, impedendo danni ulteriori; riuscendo il 25 maggio 2015 (dopo 12 giorni) a sbloccare la situazione di immobilismo e spingere finalmente l’Agenzia

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PIEMONTE DOVE IL RIUTILIZZO FUNZIONA di Sergio Scollo

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l fenomeno dell’infiltrazione mafiosa in molti settori economici e sociali si può riscontrare anche in regioni come il Piemonte, notoriamente considerata estranea a dinamiche legate alla criminalità organizzata. Secondo gli ultimi dati aggiornati al 2016, sono stati confiscati complessivamente 265 immobili appartenenti a clan mafiosi e il 55% è già stato destinato a riutilizzo mentre la restante parte si trova sotto la tutela dell’ ANBSC. Dalle statistiche si nota che la provincia più interessata è quella di Torino (con il 76%

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del totale dei beni confiscati) seguita, con percentuali molto più basse, da Cuneo (6%). I beni, nella maggior parte dei casi, sono stati destinati ai Comuni che ne hanno avviato il processo di riutilizzo per la quasi totalità. Considerando la tipologia dei beni confiscati già destinati, viene alla luce che la più presente è quella degli appartamenti in condominio (15,8%) seguita dai terreni agricoli (14%). In questi territori Libera e il gruppo Abele hanno avviato progetti di riutilizzo di notevole portata e importanza;

un esempio lampante è quello della Cascina Caccia, dedicata alla memoria del magistrato Bruno Caccia. Procuratore della Repubblica a Torino, era considerato un individuo incorruttibile e ligio al suo dovere; il suo lavoro di contrasto alle organizzazioni criminali, in particolar modo alla ‘ndrangheta, lo ha pagato a caro prezzo. Infatti, il 26 giugno 1983, venne assassinato con 17 colpi di pistola. Venne accusato come mandante dell’ omicidio Domenico Belfiore, un noto esponente ‘ndranghetista attivo in Piemonte, poi condanna-

to all’ergastolo. Nel 2008 è stata eseguita la confisca dei beni del boss, fra cui una cascina situata a San Sebastiano da Po, dimora della sua famiglia con difficoltà si riuscì a togliere dalle mani mafiose questo immobile che venne riutilizzato dall’associazione ACMOS e venne dedicato ai coniugi Caccia. “Oltre che all’operato del procuratore Bruno Caccia - spiega Noemi Tacconi, coordinatrice delle attività della cascina - la dedica va anche a sua moglie Bruna, che per tanti anni si è spesa per raccontare la storia di suo

marito in giro per le scuole, spiegando ai ragazzi cosa fosse la ‘ndrangheta. Si, perché in Piemonte non solo non si conosceva la figura di Bruno Caccia, ma tantomeno si aveva percezione del fenomeno criminale di matrice calabrese. Lo ammette Noemi, ricordando di un sondaggio fatto in giro per Torino che aveva tante facce interrogativi; da quella ricerca se ne è ricavato un video che facesse anche da memorandum. “Dopo l’operazione Minotauro - precisa Noemi - che nel 2011 portò alla luce i contorni delle vicende criminali del capoluogo piemontese, la consapevolezza è aumentata. Adesso molte persone sono a conoscenza che anche qui la mafia è presente, anche se molto più silenziosa”. Anche dopo la confisca della cascina, i parenti di Domenico Belfiore hanno continuato a dimorare in alcuni appartamenti antistanti al bene confiscato, fino a quando, nel maggio 2017, il nuovo sindaco di San Sebastiano (“dimostrando di avere pugno duro”, come dice la Tacconi) ha intimato loro lo sfratto. Dirimpettai a parte, in quasi dieci anni Cascina Caccia si è data un bel da fare per autogestirsi e portare avanti i propri progetti -“perchè è fisiologico che, dopo i primi anni in cui la Regione ti dà una mano, gradualmente i fondi amministrativi vadano esaurendosi; ed è anche giusto, perché una cooperativa ce la deve fare con le proprie forze, mettendo a frutto i propri progetti”. E attraverso l’Associazione Acmos ne hanno realizzati tanti, a partire dall’accoglienza, sia di chi si occupa dell’organizzazione (la stessa Noemi infatti abita nel-

la Cascina “anche - dice - per evitare che vengano fatti più danni che in precedenza”), sia di chi ha bisgno di una casa, ma non solo. Sono previste infatti diverse forme di ospitalità: la prima in giornata, la seconda di qualche giorno, entrambe per conoscere, più o meno in modo approfondito meglio la nostra realtà. Poi ci sono i percorsi formativi per persone provenienti da istituti penitenziari, anche minorili; un’occasione questa per offrire, durante un breve periodo di lavoro, una prima vetrina sul futuro che verrà. Infine Estate Liberi, momento in cui i ragazzi di Libera hanno l’occasione di vivere la realtà di un bene confiscato alle mafie dando una mano nella produzione dei prodotti di Libera Terra. Come il miele, ad esempio, “uno dei primi prodotti italiani a prendere l’etichetta di Libera Terra” - spiega Noemi. Dal 2009 si sono aggiunti anche i noccioli, e nel corso di questi anni è stata avviata la produzione di prodotti composti con queste due materie prime, che - come sperano in cascina - presto si potranno produrre in loco, per abbattere i costi, perché - “e questo nessuno lo dice - spiega Noemi - una cooperativa è una macchina produttiva che ha bisogno di alimentarsi, e noi ogni anno abbiamo bisogno di circa 150 mila per andare avanti”. Fondi che cercano di ricavare in modi diversi, dalle cene di raccolta fondi agli eventi privati. Tutto per portare avanti una comunità che sappia stare insieme coltivando prodotti e ideali �

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varato nel 2011, con legge delega del 2010. Dal 2013 in poi la Commissione Antimafia ha aperto un’inchiesta dedicata al funzionamento dei sequestri e delle confische, e nel dicembre 2014 ha redatto una proposta complessiva finale con l’aiuto di altre associazioni, tra cui Libera. Quest’ultima ha infatti giocato un ruolo significativo nella raccolta di firme, che hanno permesso di presentare la proposta come di iniziativa popolare di fronte al Parlamento. Di lì, la Commissione ha prodotto una nuova proposta di modifica.

RIIFORMA DEL CODICE ANTIMAFIA SULLA DISCIPLINA RELATIVA ALLA CONFISCA DEI BENI parla il deputato Davide Mattiello di Chiara Valzano

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on basta togliere e sottrarre beni alle mafie, se ciò che si è tolto e sottratto si trasforma in una sconfitta sociale. Non basta sequestrare i beni alla criminalità organizzata, se poi questi beni finiscono in malora, abbandonati a loro stessi. In Italia lo scenario sembra essere particolarmente complesso. Oltre 23.000 sono gli immobili confiscati, ma di questi non si conosce quanti siano stati effettivamente destinati. Più di 3000 sono le imprese confiscate, ma di queste solo pochissime hanno ripreso la loro attività. È alla luce di questi dati che è nata una nuova proposta

di legge che ha come oggetto i beni confiscati e la riforma del Codice Antimafia. Una riforma la cui parola chiave è organicità: contro la criminalità organizzata bisogna costruire un sistema forte e unitario, che non lasci spazio a lacune. Per comprendere meglio il testo della proposta, i nodi cruciali della stessa, mi sono rivolta ad un esperto, l’onorevole Davide Mattiello. Relatore della Commissione Permanente di Giustizia, è sicuramente uno dei soggetti che ha maggiormente influito su tale progetto particolarmente ambizioso. Innanzitutto Mattiello ha precisato che tale riforma mira a modificare il Codice Antimafia

“Cosa ha portato alla nascita di questa riforma, se si pensa che tale disciplina è entrata in vigore solo poco tempo prima con il Codice del 2011?” “La disciplina del Codice Antimafia prevede l’istituzione di un ente, quale l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Come si può dedurre dalla denominazione stessa, questo ente svolge essenzialmente due funzioni: la prima consiste nel governare la destinazione dei beni definitivamente confiscati, la seconda nell’amministrare quelli che ancora non hanno ottenuto una destinazione, e che non sono soggetti a confisca definitiva. Il problema che è stato riscontrato fin da subito è che tale ente funziona poco e male, pertanto i risultati sono stati al di sotto delle aspettative. Quest’ente ha le gambe troppo sottili, è troppo debole e poco organizzato, dotato di poco personale. È questo uno dei punti principali di questa

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riforma, che mira ad una ridefinizione e potenziamento del ruolo dell’Agenzia e del suo funzionamento.” “Il testo di legge prevede la creazione di un Fondo di garanzia per beni e aziende sequestrate. Come funziona questo strumento?” “Quello delle aziende è stato un altro dei punti fondamentali che ha portato alla nascita di questo testo. Circa il novanta per cento di queste aziende, una volta confiscate, falliscono. Tra i tanti motivi, ricordiamo il fatto che una volta che queste aziende vengono sequestrate, le banche che le finanziavano chiudono i rubinetti del credito. E questo mi porta a fare una considerazione di natura politica: perché le banche fornivano crediti alle aziende nel momento in cui erano gestite dalle mafie, e tagliano i fondi quando invece arriva lo stato a dare loro un riscatto? Questa proposta vuole con questo istituto aumentare i fondi di finanziamento per queste aziende sequestrate, tali da consentire all’amministratore giudiziario e all’Agenzia di potersi muovere più agevolmente nella strada che condurrà alla rinascita delle imprese. Di fatto, quando una di queste aziende fallisce, il fallimento è doppio: da un lato infatti lo Stato “distrugge” posti di lavoro, dall’altro è una sconfitta nella battaglia contro la mafia se si considera che la produttività di queste aziende era elevata ed efficiente quando queste erano sotto il controllo delle mafie.” “La riforma incide profonda28

mente anche nella procedura che intercorre tra la proposta di sequestro e la condanna definitiva di confisca. Quali sono gli obiettivi che si cercano di ottenere?” “Si, per quanto riguarda la procedura, l’intervento è stato profondo, per assicurare due garanzie: tempi certi e rapidi, ma soprattutto tutelare i diritti della difesa del proposto e del terzo creditore in buona fede. Relativamente al primo punto, vorrei osservare il fatto che oggi il processo che porta alla condanna definitiva può durare anche fino ai 10 anni. Il che è inconcepibile. Ad esempio, la proposta prevede la così detta distrettualizzazione. Si cerca in questo modo di concentrare le accuse all’interno dei singoli distretti antimafia. Per quanto riguarda la tutela dei terzi e del proposto, la questione è fortemente delicata. Sia l’UE, sia la Corte Costituzionale hanno più volte invitato il legislatore a rendere questa procedura maggiormente tutelante, soprattutto in tema di prevenzione patrimoniale. In questo caso sequestro e confisca prescindono dal giudizio del giudice. Nonostante non sia stato accertato alcun reato o delitto, si ha l’ablazione del bene. Il soggetto che subisce tale misura di prevenzione non è un condannato, ma solo un indiziato. L’effetto che si produce nei suoi confronti è devastante e pericoloso, proprio per le conseguenze negative che può comportare. Si genera un’indagine patrimoniale, si accerta che quei determinati beni oggetto dell’indagine non possano essere giustificati con il reddito o con il lavoro svolto

dal sospettato. Si cercano indizi di comportamenti illeciti e abituali. Si tratta di un istituto privo di garanzie processuali.” Questa riforma sembra costituire uno strumento rivoluzionario nella lotta contro la criminalità organizzata. A maggior ragione se pensiamo che il potenziamento degli strumenti in mano allo Stato avviene in assenza della spinta emotiva del “morto eccellente”, a differenza di quanto avvenne nella storia passata. Questa proposta nasce con la consapevolezza che le mafie sono tanto più forti e persuasive quando non sono in guerra tra loro. Quando non sparano. Quando non uccidono. Sono tanto più forti quando di nascosto accrescono il loro impero economico, contaminano la buona economia e la produzione di un Paese che, d’altro canto, non ha smesso mai di lottare contro di esse�

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Carlo Tamburelli

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n.35 | SETTEMBRE 2017 29


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