Legàmi | Alessia Porro

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alessia porro

Legàmi

Mappare l'immateriale per disegnare nuove geografie umane

tesi | architettura design territorio

Il presente volume è la sintesi della tesi di laurea a cui è stata attribuita la dignità di pubblicazione. “Per la grande cura nell'analisi di una tematica particolarmente attuale e l'attenzione metodologica con cui è stato affrontato un tema di notevole valore nella disciplina del design contemporaneo”.

Commissione: Proff. S. Cerri, F. Tosi, G. Lotti, A. Brischetto, M. Marseglia, M. Rossi, M. Fioravanti

Ringraziamenti

Alle persone e alle loro immense geografie umane.

in copertina

Segni che raccontano storie; segni che raccontano vite presenti, passate e vite non ancora vissute; segni che raccontano di lunghe attese di fronte al mare, di ricordi, di profumi e di dettagli. Il racconto di un luogo, un piccolo pezzo di terra in mezzo al mare, che si fa grande per svelarci nuovi immaginari e complessità non ancora ragionate: Procida.

progetto grafico didacommunicationlab

Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze

Susanna Cerri

Federica Giulivo

didapress

Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121

© 2023 ISBN 978-88-3338-176-3

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset

alessia porro

Legàmi

Mappare l'immateriale per disegnare nuove geografie umane

Una strada, una fila di case, una montagna, un ponte, un fiume sono per me qualcosa di più di un semplice sfondo. Possiedono infatti una storia, una personalità, un’identità che deve essere presa sul serio; e influenzano il carattere degli uomini che vivono in quell’ambiente, evocano un’atmosfera, un sentimento del tempo, una particolare emozione. Possono essere brutti, belli, giovani o vecchi; ma sono comunque elementi presenti, e per un attore è proprio l’unica cosa che conti. Quindi meritano di essere presi sul serio.

(Wim Wenders, 1992)

Di cosa sono fatti i luoghi

Il territorio è il frutto di un luogo processo di coevoluzione fra insediamento urbano, modelli di civilizzazione, ambiente naturale e storia. Comprendere i luoghi, capirne il segreto per inventare il futuro, richiede un sapere multidisciplinare, per ricondurre ad unità la conoscenza del luogo che è indivisibile.

Il luogo dove decidiamo di abitare è quindi qualcosa di più di un semplice rifugio ma implica che gli spazi in cui si svolge la vita siano spazi dotati di un carattere distintivo. È impossibile per noi immaginare un evento senza un luogo a cui riferirlo, comunemente diciamo che un evento ha avuto luogo e luogo è il termine concreto che usiamo per definire un ambiente. Ma cosa si intende dunque per ‘luogo’?

Non certo una semplice localizzazione astratta, piuttosto un insieme di cose concrete, forme, colori, materiali, atmosfere, che ne definiscano l’essenza, qualcosa di più di una semplice somma di fattori, quanto piuttosto un fenomeno totale, qualitativo. Terreno, orizzonte, cielo, delimitano lo spazio dei luoghi, il paesaggio, così come pavimento, parete e soffitto delimitano lo spazio costruito: la struttura di un luogo potremo forse provare a definirla proprio attraverso la relazione tra paesaggio e insediamento analizzando le categorie di “spazio” e “carattere”.

In letteratura il termine spazio ha subito numerosi tentativi di definizione in termini di concretezza e qualità e se a questo aggiungiamo il concetto di ‘carattere’ inseriamo la variabile dell’‘atmosfera’: tutti i luoghi hanno un carattere che viene definito dalla costruzione materiale, formale del luogo, su cui agiscono anche funzioni temporali, che ne modificano la percezione a secondo delle stagioni, del tempo, della luce stessa. Gli edifici con le loro tipologie definiscono l’articolazione formale di un luogo, ma “un edificio è qualcosa che ripara. Funzione ancestrale della casa è proteggere e fornire privacy, tanto psicologica che fisica” (Venturi, 1980).

Complessità e contraddizioni intrinseche al fenomeno architettonico quindi, ma anche emotività, ambiguità, l’ironia e mutamento, perché la struttura di un luogo non è una condizione fissa, eterna: i luoghi mutano e proteggere e conservare il genius loci significa concretizzarne l’essenza in contesti storici sempre nuovi.

Abitare significa anche e soprattutto creare una relazione identificante con l’ambiente, un’identificazione che in larga misura si sviluppa attraverso la relazione con i luoghi e con le cose: un luogo deve contenere oggetti concreti con cui identificarsi. E compito del designer della comunicazione è concretizzare il racconto di questi processi: narrare i luoghi per contribuire con i propri strumenti al processo di identificazione e riappropriazione degli spazi da parte degli abitanti, intendendo con questo termine chi vive, chi lavora o chi semplicemente li attraversa.

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Susanna Cerri Dipartimento di Architettura Università degli
Presentazione pagina
Prospettive di cielo dal traghetto Pozzuoli-Procida.

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Passeggero in attesa di attraccare sullisola, traghetto Pozzuoli-Procida.

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto. (J. Burges, 1984)

Con topofilia si intende il rapporto di profondo attaccamento che lega le persone ai luoghi. La parola deriva dal greco tópos che significa luogo e philía, amore. Tutti l’abbiamo sperimentata perché è proprio dalla topofilia che nasce il senso di appartenenza ad una città, un quartiere, persino ai colori di un paesaggio. L’amore per un luogo, infatti, fa sì che questi entri nel nostro immaginario, nella sfera emotiva e spirituale, che sia sedimento della memoria e perno della nostra identità profonda. Come la casa che abbiamo abitato da bambini, la strada in cui giocavamo fino a tarda sera, la spiaggia delle nostre vacanze o la meta di un viaggio che abbiamo sognato e mai realizzato.

Il 18 gennaio 2021, Procida, l’isola flegrea con poco più di 10.000 abitanti, la più piccola del Golfo di Napoli, è stata nominata Capitale Italiana della Cultura 2022

La mia ricerca inizia da qui, dallo stupore che ha destato tale nomina a livello mondiale. Un 'pezzo' di terra circondato dal mare che diviene il simbo-

lo della cultura. Partendo da un'analisi semiotica, letteraria e territoriale si è cercato di indagare l'essenza dell'essere isola, gli stati d'animo di chi vive questi territori per costruire nuovi itinerari di senso. Lo strumento che, da secoli ormai, geografi, urbanisti e progettisti, utilizzano per raccontare i luoghi sono le mappe. Analizzandone le varie tipologie, ci si è interrogati: e se questo racconto non si narrasse del patrimonio materiale di un luogo? Monumenti, case, chiese, strade... Se fossero le persone a farsi luogo? Se riuscissimo a costruire una nuova geografia, una geografia umana?

L'obiettivo del progetto è stato proprio quello di rispondere a queste domande, costruire mappature capaci di invertire la narrazione per comunicare l'immateriale e l'umano. Procida non è solo “l'isola che non isola”, Procida non è solo l'isola di Arturo o di Elsa Morante. Procida è di chi ci approda, di chi la vive, di chi ci passa. E allora, forse, in questo anno dovremmo esplorare non soloi vicoli di Procida, la

storia, i monumenti, le bellezze tangibili, ma anche ciò che è nascosto dietro una rete da pesca, una barca legata al porto o l'insegna di una bottega. Forse, soltanto così, potremo dire davvero di conoscere un luogo e averne compreso l'essenza, Succede solo nei posti in cui il mare comanda, abbraccia, strozza.

Succede nei posti in cui le persone si fanno dettare l'umore dal vento. Succede che t'innamori.

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Introduzione

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo.Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.

(J. Burges, 1984)

Ogni viaggio che si rispetti ha un punto di partenza. All’origine di questo viaggio c’è la cultura. Il cuore pulsante, la forza motrice e l’energia insita in quello che viene definito, lo spirto dei luoghi. Parlare di cultura significa sicuramente confrontarsi con uno dei maggiori temi da sempre affrontati e, storicamente, diversi sono stati i tentativi di darne definizione.

Se ci rifacciamo a scritti o normative, nessuno dei documenti istitutivi dell'Unione Europea propone una definizione rigorosa e restrittiva di cosa sia la cultura, lasciando alla discrezione degli Stati membri e dei singoli definirla, in base alla loro sensibilità nazionale, locale e individuale. La base giuridica del Programma Europa creativa, attuato per il periodo dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2020 ed attualmente l'unico programma dell'Unione europea specificamente dedicato al sostegno della cultura, fornisce tuttavia una

definizione illimitata dei settori culturali e creativi.

In tutte le regioni e città dell'Unione Europea le industrie culturali e creative (ICC) sono una risorsa vitale per la competitività e l'attrattiva economica regionale e il patrimonio culturale è un elemento chiave dell'immagine e dell'identità delle città e delle regioni.

La Nuova agenda europea per la cultura 2018 della Commissione europea riconosce che le città e le regioni dell'UE sono in prima linea nello sviluppo guidato dalla cultura e costituiscono partner naturali per la sperimentazione, l'anticipazione delle tendenze e l'esplorazione di modelli di innovazione sociale ed economica.

Il quadro d'azione europeo sul patrimonio culturale include una serie di azioni specifiche che sono rilevanti per le città e le regioni. Le iniziative europee proposte si concentrano in particolare sulla rigenerazione di città e regioni attraverso il patrimonio culturale, sulla promozione del riutilizzo adattivo degli edifici del patrimonio e sull'equilibrio tra l'accesso al patrimonio culturale e il turismo culturale sostenibile e il patrimonio naturale.

La cultura come visione strategica

Capitali europee della cultura Tra le varie iniziative promosse dalla Commissione Europea in tema di cultura ci sono sicuramente alcune storie di successo da menzionare.

L'iniziativa Capitali europee della cultura (ECOC) è un'istituzione nata nel 1985 per promuovere la conoscenza del patrimonio storico-artistico e culturale dei Paesi membri dell'Ue. La prima è stata la capitale greca Atene, mentre l'Italia è stata rappresentata in passato da Firenze nel 1986, Bologna nel 2000 e Genova nel 2004. Tale iniziativa è progettata per:

• Evidenziare la ricchezza e la diversità delle culture in Europa

• Celebrare le caratteristiche culturali condivise dagli europei

• Aumentare il senso di appartenenza dei cittadini europei a uno spazio culturale comune

• Favorire il contributo della cultura allo sviluppo delle città Oltre a questo, l'esperienza ha dimostrato che l'evento è un'ottima opportunità per:

• Città rigeneranti

• Aumentare il profilo internazionale delle città;

• Migliorare l'immagine delle città agli occhi dei propri abitanti

• Dare nuova vita alla cultura di una città

• Promuovere il turismo

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pagina precedente Prua del traghetto Pozzuoli-Napoli.
Attese dal mare, porto Marina di Procida, Procida.

La designazione delle Capitali della Cultura avviene seguendo uno specifico iter. Attualmente il titolo viene assegnato a turno a due degli Stati che fanno parte dell’UE. Sei anni prima dell'anno del titolo, gli Stati membri ospitanti selezionati pubblicano un invito a presentare candidature, di solito tramite il proprio Ministero della Cultura. Le città interessate a partecipare al concorso devono presentare una proposta a titolo oneroso.

Le domande presentate vengono esaminate in base a una serie di criteri stabiliti al termine di una fase di preselezione da un gruppo di esperti indipendenti nel campo della cultura o dello sviluppo urbano basato sulla cultura. La giuria concorda un elenco ristretto di città, alle quali viene poi chiesto di presentare candidature più dettagliate.

Quindi, la giuria si riunisce per valutare le domande finali e raccomanda una città per paese ospitante per il titolo. L'autorità competente dello Stato membro interessato designa, dunque, formalmente la città raccomandata

come Capitale europea della cultura. Queste ultime sono designate formalmente quattro anni prima dell'anno del titolo effettivo e questo lungo periodo di tempo è necessario per la pianificazione e per la preparazione dell’evento. Serve però, soprattutto, per inserire l'evento in una strategia culturale a lungo termine, per impegnarsi in modo significativo con i cittadini, per creare i collegamenti europei necessari e per garantire la presenza delle giuste infrastrutture.

Il panel, sotto gli auspici della Commissione europea, ha un ruolo costante durante questi quattro anni nel sostenere le Capitali europee della cultura con consigli, orientamenti e linee guida.

Incontri e racconti n un pomeriggio di metà luglio ho avuto la possibilità e il piacere di poter discutere di Capitali della Cultura, del dossier Matera2019 e del modo in cui il design si è integrato in questo percorso, con Paolo Verri, direttore Matera2019, editore, organizzatore culturale ed esperto di sviluppo urbano. Tutto ha avuto inizio il 17 ottobre 2014 quando, a conclusione dei sopralluoghi effettuati presso le sei città raccomandate (Cagliari, Lecce, Matera, Perugia, Ravenna, Siena), la Commissione esaminatrice raccomanda al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo la designazione di Matera quale Capitale europea della cultura 2019. Tale designazione rappresenta un forte impulso per la cittadina lucana che diviene la prima città del Sud Italia ad essere nominata patrimonio dell'umanità.

Durante il nostro incontro ho chiesto a Verri quanto ci fosse di design all’interno del loro progetto e lui mi ha risposto che il design lo hanno fatto le persone, gli abitanti e la comunità di Mate-

ra che è stata coinvolta nell’intera fase di progettazione, di ricerca e sviluppo e nella fase di sperimentazione. Il loro è stato infatti un metodo learning by doing, che non ha visto come protagonista un singolo designer o progettista, bensì tante menti e tante esperienze che hanno deciso di collaborare ed essere, mai come allora, comunità, essere luogo.

Ma dopo? Dopo che i riflettori si sono spenti, dopo che il testimone passa alla prossima Capitale della cultura, cosa succede? Il lavoro che è stato fatto, i presupposti che si sono creati e il processo di co-design, di cultura condivisa che si è innescato apporta dei cambiamenti a lungo termine su un territorio che per tanto tempo è stato considerato e percepito come fragile e periferico? La risposta che, a mio avviso, meglio riesce a soddisfare tali quesiti è quella contenuta all’interno di MT19-ODP, il portale Open Data che racconta quello che è successo durante il 2019, ponendo le basi per la programmazione futura che la comunità è chiamata, oggi più di ieri, a sviluppare. I dati, protagonisti

della piattaforma, sono rilasciati in formato aperto. Si trasformano in un bene comune digitale in grado non solo di informare, ma anche di ispirare e supportare nuove pratiche informative e progettuali a supporto della comunità lucana, italiana e internazionale.

Parlare di futuro può sembrare retorico. Tutti siamo ossessionati dall’eterno presente in cui siamo immersi, come se fosse impossibile guardare lontano ed impegnarsi per le generazioni future. Ma proprio una città antica come Matera può, senza timore, pensare ai tempi che verranno, viste le tante volte in cui è riuscita a riprogettarsi e in cui ne è uscita vincente dalla sfida con il tempo. Con molte altre piccole e medie città europee Matera ha condiviso lo stesso destino di area di consumo di prodotti provenienti dai grandi centri di produzione culturale. Negli ultimi anni, però, il quadro sta cambiando. Si fa strada un movimento che rimuove sistematicamente le barriere di accesso alla cultura: usa nuove tecnologie, adotta licenze aperte per rende -

re culturalmente ed economicamente sostenibile un modello in cui la produzione culturale è diffusa, orizzontale, partecipata. Questa opportunità è cruciale per il futuro di tante città europee che, come Matera, si sono trovate ai margini della produzione culturale del ventesimo secolo: se progetti di grande valore possono prendere l’avvio dalla cooperazione emergente di un grande numero di cittadini connessi, allora le città più piccole possono stare sui mercati della cultura senza essere schiacciate dalle grandi capitali.

La partita non si gioca sulla concentrazione delle grandi istituzioni in pochissime città, ma mobilitando il numero più alto possibile di persone nella produzione culturale.

Matera ha concepito il processo di candidatura come occasione utile per aprirsi a operazioni culturali inaspettate. La candidatura “aperta” ha mostrato alla città che chiunque può reinventarsi ruoli nuovi e partecipare al grande gioco della produzione di cultura. La tradizione millenaria di Matera, basata sulla capacità di abitare luoghi per certi versi inospitali, e di creare tecniche per portare il bene primario per la vita, l’acqua, distribuendolo a tutti i livelli della popolazione, ha stimolato gruppi di giovani, ormai più di cinquant’anni fa, a non considerare Matera una città che potesse collassare e morire, ma a tornare ad abitare i Sassi e farli diventare patrimonio dell’umanità. (Dossier Matera 2019 - Open Future, 2014)

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pagina precedente I vicoli del Comune di Matera nel 1971. Slogan di Matera Capitale Euorpea 2019.

Procida Capitale

Italiana della Cultura 2022

Procida sarebbe una Capitale della cultura sovversiva perché in grado di mettere in discussione la nostra concezione dello spazio e delle connessioni che lo strutturano. Metterebbe in discussione immaginari, svelerebbe complessità fin qui non ragionate e porrebbe sul piatto la sfida cruciale della sostenibilità.

(G. D'Argenio, 2020)

In modo silenzioso e probabilmente anche inconsapevole, l’eredità che Matera ha lasciato è stata più di quanto ci si potesse aspettare. Durante il 2019, infatti, non è stata solo la ricchezza del patrimonio di tutta la Basilicata ad entrare a Matera, ma si è anche attivato un movimento inverso, che ha portato il flusso culturale attivato da Matera 2019 dentro le aree remote, i circa 131 comuni lucani che sono stati classificati come “aree interne” nell’ambito della Strategia Nazionale per le Aree Interne del 2014.

L’impatto di questa ondata di cultura, però, ha innescato dinamiche nuove anche a livello nazionale. Dalla vivace e partecipata competizione che culminò il 17 ottobre 2014 nella designazione di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, infatti, nasce un’ulteriore iniziativa: Capitali Italiane della Cultura. L’impegno, la creatività e la passione che avevano portato le sei finaliste

a costruire dei dossier di candidatura di elevata qualità progettuale convinsero il Governo a proclamare le altre cinque concorrenti, ossia Cagliari, Lecce, Perugia, Ravenna e Siena, Capitali Italiane della Cultura 2015 e a indire contestualmente una selezione per individuare, a partire dal 2016, la città meritevole di questo titolo. L’iniziativa, in linea con l’azione comunitaria Capitali Europee della Cultura, è volta a sostenere e promuovere l’autonoma capacità progettuale e attuativa delle città italiane nel campo della cultura, affinché si possa diffondere il valore della leva culturale per la coesione sociale, l’integrazione, l’innovazione, la crescita sociale ed economica individuale e collettiva.

Il 18 gennaio 2021, Procida, l’isola flegrea con poco più di 10.000 abitanti, è stata nominata Capitale Italiana della Cultura 2022. Grande è stato lo stupore che tale designazione ha destato; per la prima volta dall'istituzione di questa iniziativa, infatti, il riconoscimento è andato ad un piccolo borgo, un’isola, invece che a un capoluogo di provincia o di regione: un cambio di marcia nelle politiche culturali nazionali che negli ultimi trent’anni si sono quasi esclusivamente orientate al potenziamento dei grandi attrattori. Procida immagina è il percorso che ha condotto l’isola alla candidatura, un

processo di co-creazione e capacity building fortemente sintonizzato su una azione desiderante della comunità per il quale i cittadini non sono stati chiamati ad esprimere pareri marginali, ma a discutere nel merito dei contenuti da sviluppare.

Si tratta di un progetto che ha come obiettivo quello di studiare la complessità dell'immaginario dell'isola, scoprirne le radici mitiche e arcaiche di ogni costruzione razionale, proiettare su un'immagine-luogo tutto ciò che si ha bisogno di rielaborare e respingere: la reclusione, la trappola, l'angosciante mistero.

Un piano strategico che si sviluppa lungo quattro assi ispirate all’ Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: agenti critici del cambiamento grazie al coinvolgimento di giovani e bambini nella costruzione di programmi collettivi, lo sviluppo dell'ecosistema delle Industrie Culturali e Creative come strategia per rendere protagonisti i giovani di ritorno, presupposto necessario per poi agire con un cambio di paradigma ecologico, innovazione sociale e rigenerazione urbana per dare nuova centralità a un patrimonio comune in disuso, turismo lento e di ritorno.

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pagina precedente Icona del Cristo Crocifisso, dipinto su tela e fissato su sagoma di legno, del 1845, porto Marina di Procida.

L'isola è regno di doppi: apertura/chiusura, accoglienza/esclusione, libertà/ reclusione, legame/distanza. Dualità identitarie che svilupperemo nei principi e nel programma culturale di Procida Capitale Italiana della Cultura per l’anno 2021, accogliendo l'opportunità dell'isola come prospettiva privilegiata per sperimentare le contraddizioni continue, l’eterna battaglia tra il senso di appartenenza e il bisogno di dichiarare la propria differenza.

Le esperienze che emergono all'interno e dall'isola, che accompagnano e guidano il percorso di candidatura, sviluppano una mappatura di fatti ed eventi: punto dopo punto, nessun luogo immaginario e finzionale acquista concretezza reale, si lascia trovare e scoprire. Sull'ambiente e nei luoghi isolani si innestano laboratori in cui la

vita quotidiana, gli elementi della natura e l'espressività culturale sono gli strumenti di un progetto umano evolvente.

I progetti hanno un doppio livello di esplorazione. Ad un primo livello, orizzontale, descrivono la superficie creativa dell'isola come appare, con il ciclo delle sue manifestazioni vitali e culturali. Questo itinerario, però, ha una profondità verticale che configura un autentico viaggio, una miniatura del potenziale contemporaneo in cui l'idea del progresso, della scienza e della tecnologia collocano l'uomo al centro della propria memoria e, quindi, della propria capacità di presa verso il futuro, sviluppando la coscienza di essere abitanti e non di mero passaggio.

(Dossier Procida 2022 – La Cultura non Isola, 2021)

Il modello che è stato proposto e che inizia ad essere sistematizzato all'interno delle pratiche culturali internazionali, si basa sul processo che diventa progetto: un laboratorio in costante evoluzione, che guarda alla comunità e alle sue peculiarità come punto di partenza e di arrivo e al cui interno si cercano di sperimentare pratiche di innovazione sociale a base culturale: attivare percorsi d'innovazione che rispondono a bisogni specifici del territorio in cui si opera attorno all'ambito del patrimonio culturale, con l'obiettivo di attivare contestualmente altre direttive di sviluppo, non solo quelle propriamente culturali.

Il turismo estivo sbarca sull'isola di Procida, traghetto Pozzuoli-Procida.

Vicoli ed icone sacre di Procida, agosto 2021.

Il modello Procida è già da esportare La vittoria di Procida può essere definito il trionfo dell'utopia, un evento quasi epocale nell'ambito delle politiche culturali del nostro paese. Il modello di innovazione sociale a base culturale, infatti, è stato riconosciuto come buona pratica nell'ambito del programma di peer learning Cultural Heritage in Action del progetto European Framework for Action on Cultural Heritage promosso dalla Commissione Europea.

A Procida non ha vinto il patrimonio culturale materiale, ma quello vivente: l'affermazione di una comunità di patrimonio che agisce e genera continuamente patrimonio culturale. Basti pensare che ad un certo punto, su base totalmente volontaria, sono iniziate ad arrivare e continuano ad arrivare de-

libere di sostegno da parte dei comuni del Sannio, dell'Irpinia ma anche di molte altre aree residuali del sud Italia. Nei primi 45 giorni dalla nomina, la notizia di Procida capitale è stata citata su 13.800 testate giornalistiche web, 90 articoli su edizioni cartacee, 40 servizi radiofonici e 5 servizi di copertina su magazine nazionali, oltre che le principali testate giornalistiche internazionali di 17 paesi tra cui il The Guardian, The Daily Mirror, Lonely Planet e Forbes. Una copertura mediatica a cui si aggiungono milioni di impression social, che testimoniano un grande coinvolgimento di un pubblico che in Procida ha visto una speranza di futuro: un approccio alla cultura che scavalca l'idea d’intrattenimento poggiandosi, invece, sulla sua capacità trasformativa.

(R. Capozucca, 2021)

Tale modello attua un’inversione di marcia e trasforma il paradigma del ruolo della cultura all’interno delle comunità come strumento per le sfide di sviluppo sostenibile ma offre anche una nuova chiave di lettura ad una narrazione spesso stereotipata delle aree interne, una narrazione che vada oltre la sua oleografia e che parli, piuttosto, del processo di cambiamento. Procida può essere, per l’Italia e, in particolare per il Sud, un banco di prova per riflettere sugli ecosistemi più fragili in quanto le dimensioni ristrette possono fungere da laboratorio di sperimentazione.

Innovazione sociale a base culturale, nuova agricoltura e microeconomie, cooperative di comunità nella gestione

dei beni comuni, pratiche di reinsediamento, nuove declinazioni del welfare, trasferimento tecnologico appropriato, valorizzazione delle risorse locali, turismo slow, sono solo alcune delle infinite pratiche che permettono di attuare una nuova visione costruttiva e produttiva degli spazi e delle società. Per lungo tempo ha prevalso un'idea di sviluppo di questi territori basato sulla loro patrimonializzazione materiale in fondo essenzialmente finalizzata al turismo; ma oggi questo modello rischia di ostacolare nuovi percorsi di sviluppo ed è pertanto necessario immaginare altre direzioni che puntino a quello che invece è il patrimonio immateriale dei luoghi, il fattore umano e di comunità, la valorizzazione della storia, delle tradizioni e dei patrimoni locali.

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I-sole di terra, di mare e dell'anima

È che il fascino delle isole è proprio quello di perdersi. Guai a ritrovarle al primo colpo (U. Eco, 1994)

Siamo partiti dalla cultura, l’abbiamo indagata e siamo approdati su un’isola, una terra lontana e circondata dal mare.

Quasi il 10% della popolazione umana, circa 600 milioni di persone, vive oggi su delle isole, coprendo circa il 7% della superficie terrestre. Un quarto degli stati sovrani del mondo consiste di isole o di arcipelaghi. Le isole possono offrire identità e spazi distinti in un mondo sempre più soggetto a fenomeni di omogeneizzazione e di perdita di senso del luogo.

Parlare di isole significa evocare un potente topos dell’immaginario, richiamare alla mente una quantità smisurata di riferimenti: parlare di luoghi e al tempo stesso di storie, di avventure di terre e di mare, di viaggi, di scoperte, di naufragi e di nessi imprescindibili tra realtà e immaginario.

Lo spazio dell’isola è uno spazio marcato dalla discontinuità rispetto al resto del territorio, incarna l’opposizione fra terra e acqua.

Godfrey Baldacchino nel suo saggio, che nella versione originaria apriva il volume Our World of Islands , importante opera per lo sviluppo degli Island Studies come campo di ricerca, afferma quanto la mera definizione dell’isola come “una porzione di terra circondata dal mare” sia accademicamente imprecisa e quanto dietro la sua geografia finita ci sia un’identità più complessa che sfida i vari tentativi di definizione.

Un ampio numero di studiosi identifica il mare come soltanto uno di una serie di fattori che agiscono come frontiere, o ostacoli per effettuare trasferimenti o scambi. In altre parole, le isole sono solo uno tra le miriadi di situazioni insulari proprie del mondo fisico.

Si prenda un lago che è presumibilmente un’isola per il pesce che ci abita, o una riserva naturale; o il concreto ‘isolarsi’ di una specie animale che abita una piccola porzione di taiga […] Non ci vuole molto per immaginare similari estensioni dell’isolanità: oggigiorno abbiamo isole nelle nostre cucine e le isole di Langerhans sono nel nostro pancreas, Bill Holm considera il suo pianoforte un’isola… Forse la no-

stra ossessione per un solo tipo di isola e di ostacolo è alimentata da un’impressione pregiudiziale e ostile propria del punto di vista continentale, che percepisce il mare come “la più concreta barriera.

(F. Sedda, 2019, p. 229)

Se si vuole cogliere la reale profondità dell’essere-isola e della condizione d’isolanità bisogna articolare in modo più chiaro l’ampio materiale che la realtà geografica, storica, linguistica, immaginaria ci ha lasciato in eredità e che continuamente produce. In altri termini bisogna individuare, tra i frammenti di un discorso isolano, dei vettori di significazione che quasi come una bussola ci consentano di orientarci all’interno di esso.

L’opposizione fra l’isola e il mare, infatti, è solo la prima distinzione che consente di donare il giusto senso alle isole, tirandole fuori da quello statuto indefinito, informe e instabile che vede l’isola sempre sul punto di essere risucchiata dall’acqua o di confondersi con le correnti. A questa prima relazione è necessario farne seguire altre, altrettanto fondanti ma portatrici anche di altre possibilità di senso: quella

che mette in tensione l’isola con il continente o, come viene solitamente definita, la terraferma, quella che mette in correlazione l’isola con le altre isole e, infine, vi è un’ultima e peculiare relazione, la relazione dell’isola con se stessa. Questa auto-percezione di totalità, di una totalità separata e originaria, di un luogo che è luogo lontano e al tempo stesso si fa mondo, poggia su un gioco di auto-descrizione da parte degli isolani che può anche generare o essere testimonianza di forme di ‘insulofobia’, ovvero una valorizzazione negativa della condizione insulare o addirittura di una fuga da questa percezione di sé, attraverso forme di mimetismo rispetto agli altri.

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pagina precedente L'isola e il mare

pagina precedente Ritratti di isolani e scene di strada scattati durante un viaggio in Madagascar.

Le isole sono luoghi particolari. Si differenziano molto tra loro, esistono quasi isole più isole di altre in base alla distanza dalla costa più vicina, alle caratteristiche del canale che le separa dalla terraferma, se può essere percorso a remi o no – dato che ci dimostra in che misura il mare effettivamente unisca o separi.

Ulteriori differenze sono legate anche all’immagine o all’impressione che esse suscitano: ci sono isole che sembrano navigare o affondare, altre che sembrano immobili, ancorate e sono davvero soltanto resti del continente, staccate e incompiute, separatesi in un tempo e mai più tornate. Alcune si trovano in uno stato di profondo disfacimento, su altre, invece, ogni cosa è al suo posto tanto da potervici stabilire quasi un ordine ideale.

Alle isole vengono spesso attribuiti connotati e disposizioni umane così, al pari di noi, diventano solitarie, silenziose, talvolta assetate, deserte, piacevoli oppure ignote, nude, alcune misteriose, inospitali o accoglienti, sconosciute, incantate, altre volte beate e fortunate.

Le isole diventano spesso luoghi di raccoglimento o quiete, pentimento o espiazione, esilio o incarceramento. La peculiarità comune alla maggior parte delle isole consiste nell’attesa, l’attesa di ciò che accadrà. Anche le più piccole

attendono la nave che deve attraccare, le notizie che porta.

Gli isolani hanno più tempo per attendere rispetto agli altri, l’attesa è il contrassegno del loro tempo.

Gli abitanti delle isole sono meno spensierati della gente della costa: isolati dal mare, sono più rivolti verso se stessi. La loro terraferma, quella vera, è dall’altra parte del canale. La loro lingua differisce da quella della costa vicina più di quanto non lo esiga la distanza che le separa: questo scarto influisce verosimilmente sul rapporto dei suoi abitanti con il mondo e crea qua e là personalità strane e singolari. Alcune isole possiedono parecchie lingue e la cosa dipende dalla provenienza di chi le abita, dal tempo che è passato dal loro insediamento e dalla separazione o dalla chiusura dell’isola stessa. Ciononostante gli abitanti delle isole accettano più facilmente i nuovi arrivi, più di quanto facciano gli altri, forse anche per il fatto che, quando attraversano il pezzo di mare che divide l’isola dalla terra, anche loro diventano nuovi arrivati, oppure perché si ricordano di essere venuti anche loro, una volta, da un altro luogo. Solo nella prima età sognano presto, poi, considerano superato il periodo dei sogni e guardano al futuro come ad una ripetizione del passato. Questo, in realtà, vale spesso anche per gli abitanti delle zo-

ne costiere ma non nella stessa misura e sembra essere una condizione diffusa su gran parte del Mediterraneo. Tutte le isole hanno città simili, accessibili alla grande vita marina ma al tempo stesso rivolte all’interno, sul lato di vita ritirata e inquieta. Andando dalla costa dell’isola al suo interno, muta la relazione con il mare e il rapporto che si instaura con esso. I porti insulari non sembrano avere le stesse ambizioni di quelli sulle coste dei continenti: i primi sono fatti soprattutto per i naviganti, gli altri per le navi. Le città e i porti insulari non sono nati come quelli che si trovano altrove: li costruiva di solito la riva più forte, il mare doveva accettarli. Anch’essi possiedono il loro retroterra ma lo hanno più ravvicinato. I luoghi delle isole hanno qualcosa di più comune fra loro, di insulare.

Penso che questo viaggio nell’anima delle isole e degli isolani sia racchiuso nelle parole di Lawrence Durell che, dopo aver navigato intorno alla Sicilia, Rodi, Corfù, Cipro, Patmos, ecc., ha raccolto molte annotazioni a proposito di ciascuna di queste isole e ha salvato dall’oblio “islomania” (insulomania):

Ho trovato in un punto dei quaderni di Gideon la descrizione delle malattie che la scienza medica non ha ancora classificato; fra esse c’era l’islomania, descritta come una rara e sconosciuta pena dell’animo. ‘Ci sono uomini’, spiegava in questo caso Gideon, ‘che ritengono in qualche modo le isole irresistibili; la conoscenza che riescono a ottenere di qualcuna di esse, di questi piccoli mondi circondati dal mare, li colma di un’indescrivibile ebrezza. (L. Durell,1960, p.15)

Se nella percezione dominante e probabilmente collegata al punto di vista continentale, non si può far altro che cader vittima dell’insulomania, non è da escludere che dal punto di vista interno, si sviluppino, invece, forme di insulofobia. Paura di perdere l’isola, paura della condizione insulare e di dirsi isola. Atteggiamento sicuramente contraddittorio, se affiancato alla tendenza che vede l’isolano necessariamente orgoglioso di sé, geloso del suo spazio ma, invece, sicuramente rivelatore di un moto di scarsa stima di sé, mancata assunzione della propria identità e paura di essere isola.

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Insulomania

Facciamo spesso ricorso al concetto di “identità”, ad esempio quando parliamo della nostra vita digitale oppure in quanto persone con un nome, un cognome e una manciata di dati anagrafici. Si colloca al crocevia di tutte le discipline, se ne parla in politica, quando si intende definire qualcuno – un gruppo, magari – in relazione o in contrapposizione ad un altro e se ne parla in relazione ai luoghi, facendo riferimento all’identità pubblica.

È un concetto solo in apparenza semplice e lineare. Definire un’identità porta con sé una serie di problemi di non facile soluzione e per questo è stata ed è, al centro del dibattito filosofico, sociologico e antropologico, oggetto d’interesse per la psicologia, il marketing e, naturalmente, il design.

Francesco Remotti, nel suo libro Contro l’identità (2001), parla dell’identità come qualcosa di complesso, un concetto “equivoco”, un “pasticcio” su cui convergono spesso tesi opposte.

Ma da cosa deriva tale “pasticcio”? Dal fatto che da una parte l’identità indica qualcosa di stabile, di permanente (se no, non parleremmo nemmeno di identità) e dall’altra l’identità è pur sempre calata nel magma della vita sociale, nel suo divenire incessante, nella sua insopprimibile complessità. Il pasticcio dell’identità è dovuto al fatto che essa è un misto di “essere” e di

“divenire”, di aspirazione all’essere ma, tuttavia, essendo costretti a mutare. Secondo Remotti dell’identità si può fare a meno, si tratta di un concetto che abbiamo ereditato da una specifica tradizione di pensiero, di cui potremmo benissimo liberarci.

Ciò di cui abbiamo bisogno non è l’identità ma di un po’ di continuità, coerenza e riconoscibilità: tutti concetti che possono essere intesi senza fare ricorso all’identità.

All’interno del suo libro Remotti porta avanti un discorso che si muove entro due poli opposti: da un lato, si insiste sul carattere irrinunciabile dell’identità; dall’altro, si afferma che l’identità rappresenta un vicolo cieco, un piano fallimentare. Tutto questo avrebbe il significato di andare “oltre l’identità”, uscire dalla logica identitaria dell’”io”, poiché l’identità da sola rischia di essere troppo selettiva e riduttiva: si colgono certi fenomeni e se ne perdono degli altri. A perdersi, però, è soprattutto l’apertura all’alterità e il bisogno di alterità.

Si può tranquillamente affermare che nessuna società è mai riuscita — per fortuna — a costruire e mantenere la propria identità sotto forma di una sfera compatta e inattaccabile: la “ben rotonda Identità” — potremmo dire parafrasando Parmenide (fragm. I,

30) — è più un miraggio, forse anche un obiettivo talvolta caparbiamente perseguito, che non la descrizione di situazioni effettive. “Tutte le culture sono il prodotto di interazioni, di scambi, di influssi provenienti da altrove… le culture non nascono ‘pure’” (Fabietti, 1995, p.21). Ogni società ha da fare i conti con l’alterità; ogni società avverte entro di sé — in modo segreto e problematico — una sorta di ferita, di apertura, di “breccia”. Se anche fa di tutto per avvolgersi nella propria identità, rimane incancellabile il sospetto, al fondo persino la certezza, che la propria forma di umanità (la propria identità) non è sola. (F. Remotti, 2001, p.61)

L’identità secondo Remotti si costituisce a scapito dell’alterità, è suo interesse schiacciarla, far scomparire dall’orizzonte l’alterità. Questo tentativo, però, non giunge mai a un suo pieno compimento. L’identità respinge ma l’alterità riaffiora in modo prepotente e invincibile.

L’identità dei luoghi

La premessa dalla quale siamo partiti, e cioè che l’idea con cui si rappresenta l’identità, personale o pubblica che sia, non è che il riflesso della società cui apparteniamo, ci ha portati a comprendere quanto l’identità personale sia una finzione e la purezza identitaria un mito.

La presa di coscienza che l’identità vive un continuo dialogo con l’alterità, inoltre, conduce a ricercare nuovi sistemi di rappresentazione visiva, in particolare per l’identità pubblica, che si differenzino dai precedenti.

Come abbiamo già detto, si parla di identità non riferendoci soltanto alle persone ma a tutto ciò che abbia senso di esistere ed in questo senso anche ai luoghi.

I luoghi hanno una personalità, un carattere, un temperamento. Il senso di un luogo contiene al suo interno la storia delle proprie trasformazioni, un sistema composto di progressive iscrizioni e cancellature che delineano così le modalità di vita nei luoghi stessi. Se ne erano accorti anche gli antichi.

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Contro l'identità
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I Romani lo chiamavano Genius Loci Ritenevano che ogni luogo fosse abitato da una divinità minore, un’entità sovrannaturale che lo condizionasse col suo particolare umore. Il genio proteggeva e lasciava la propria impronta in chiunque vi abitasse o anche solo in chi era di passaggio.

Oggi, con la stessa espressione si fa riferimento all’insieme dei caratteri che contraddistinguono una città o un paesaggio. I rapporti tra le persone, i modi di vivere e di abitare, le espressioni culturali, le rappresentazioni che di quel luogo ci danno le arti. In una parola, la loro identità. In ogni luogo possono infatti esserci campi di attenzione, ossia elementi e caratteri che acquisiscono valore per l’individuo dopo una lunga immersione e frequentazione. Un vicolo, una piazzetta, la radura di un bosco. Essi ci daranno il senso di un luogo, ci restituiranno il sentimento che sempre assoceremo a quel posto. I campi di attenzione si differenziano dai simboli pubblici, ossia quei monumenti a cui collettivamente si attribuisce valore e di cui fruiamo attraverso la vista, la visita veloce, il tradizionale sightseeing. Non è un caso che fino ad ora si sia fatto riferimento a luoghi e non a spazi. Lo spazio, infatti, è concepito da un punto di vista oggettivo e astratto. Attiene alla prospettiva oggettiva e quantificabile e si rappresenta attraverso il linguaggio della matematica. Pensiamo alla cartografia classica, alla rappresentazione in scala della geografia tradizionale, alla geografia studiata a scuola. Il luogo, invece, è caratterizzato da una storia, dalla visio-

ne e dal valore che gli uomini gli attribuiscono. È immerso in una sfera soggettiva.

Un fenomeno qualunque può essere molto vicino a noi da un punto di vista spaziale, ma lontanissimo emotivamente, la localizzazione di un oggetto non basta. Conta il senso che vi attribuiamo, conta il nostro sguardo e il nostro sentire rispetto ad esso. Il duomo del nostro paese, per esempio, può essere per noi un luogo meraviglioso indipendentemente dal suo valore artistico o storico, perché percepiamo un forte senso di appartenenza, avendolo frequentato spesso e avendovi intrecciato esperienze e sentimenti. Al contrario, pur se dotato di opere d’arte e di tesori architettonici, possiamo percepirlo come un luogo insignificante perché lo collochiamo nella sfera del banale e dell’usuale e sogniamo, magari, viaggi in paesi lontani. Nel primo caso il luogo ci è emotivamente vicino, nel secondo caso lontanissimo, benché dal punto di vista spaziale oggettivamente non cambi nulla. In questo senso possiamo parlare di interazione fra soggetto e oggetto, dove non è detto che il soggetto sia sempre l’essere umano e l’oggetto lo spazio. A volte, infatti, è proprio lo spazio ad agire sull’uomo, imponendo percorsi, suggerendo pratiche e forme di vita, stabilendo valori pragmatici ed economici, ma anche estetici. Possiamo leggere la città come un insieme di livelli e segni sovrapposti:

1. Trama urbanizzata

2. Architettura

3. Spazio esterno

4.

Segnaletica stradale

5.

L'immateriale e l'umano

Per immateriale ed umano, il quinto livello della nostra scala di analisi, si intende: tutto ciò che offre vita, anima e respiro ad un luogo.

L’immateriale che corre fra i vicoli, che si scorge sui balconi, tra i panni stesi al sole e in quelli che diventano i posti del cuore e della memoria. In riferimento all’ultimo livello, così come abbiamo parlato di insulomania per le isole, si parla di topofilia: il rapporto di profondo attaccamento che lega le persone ai luoghi. La parola deriva dal greco tópos che significa luogo e philía, amore.

Tutti l’abbiamo sperimentata almeno una volta, perché è proprio dalla topofilia che nasce il senso di appartenenza ad una città, a un quartiere, persino ai colori di un paesaggio.

L’amore per un luogo, infatti, fa sì che questo entri nel nostro immaginario, nella sfera emotiva e spirituale, che sia sedimento della memoria e perno della nostra identità profonda. Come la casa che abbiamo abitato da bambini, la strada in cui giocavamo fino a tarda sera, la spiaggia delle nostre vacanze o la meta di un viaggio che abbiamo sognato e mai realizzato. Una topografia privata, una geografia personale, insomma, che abita nella nostra interiorità e che ciascuno di noi modella attraverso la propria esperienza, la propria cultura, l’emotività e la fantasia.

2021.
Vicoli di Procida, agosto

L'attesa estiva, Procida, agosto 2021.

Insegna farmacia antica, Procida, agosto 2021.

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Abbiamo già analizzato nei precedenti capitoli, come l’isola si configuri quale luogo di congiunzione fra terra ed acqua, come qualcosa di estraneo e di esterno rispetto al normale fluire della vita, di quella vita che si svolge su di una terra che, se pure è stata generata da quella stessa acqua, ha ormai potuto mettere radici nella sua profondità. Tale estraneità è talmente marcata che nelle mappae mundi medievali l’isola viene raffigurata con colori diversi da quelli utilizzati per la ‘terra’, apparendo più simile ai mostri che abitano l’oceano che a vera terra.

Le mappe, così come le pensiamo oggi, iscrivono percorsi, suggeriscono approcci, strategie di viaggio, nel disegno delle quali spesso, in passato, le isole rappresentavano un fattore di sorpresa, o perché danno corpo ad un accidente non previsto, o perché si svelano diverse da come le immaginavamo. È curioso, però, analizzare quanto nel tempo le cose siano cambiate.

Oggi siamo abituati a suddividere il globo in continenti, cioè in grandi, continue, definite masse di terra, idealmente separate dagli oceani. L’uso anglosassone ne individua, in ordine di grandezza, proprio sette, come i pezzi del corpo di Dioniso: l’Asia, l’Africa, l’America settentrionale, l’America meridionale, l’Antartico, l’Europa e l’Oceania. Esistono suddivisioni diverse da questa, dove per esempio Europa e Asia, che in effetti non sono separate dal mare, formano l’Eurasia. Continente è un termine che significa qualcosa che contiene qualcos’altro, ma a dispetto del suo significato non si richiama a nessuna concezione ricorsiva. Esso inizia ad affermarsi tra Sei e Settecento e s’impone in maniera definitiva nell’Ottocento (Lewis e Wigen 1997, pp. 28-31), in seguito alla sempre maggior circolazione e diffusione degli atlanti. […] Prima dell’atlante vi erano soltanto gli isolari, libri composti da carte e descrizioni in cui tutto il globo, a

partire dal Mediterraneo, veniva scomposto in isole, in qualcosa cioè che prima di contenere qualcosa era invece, per definizione, contenuto in qualcos’altro, nel mare. Isole venivano considerate tutte le terre emerse, da quelle piccolissime fino a quelle, grandissime, di recente scoperte nell’oceano occidentale (la «terra di Santa Croce», come viene chiamata l’America nell’Isolario di Benedetto Bordone del 1528). E la differenza tra l’atlante e l’isolario è una: nel primo il globo viene trasformato in spazio, nell’isolario al contrario tale trasformazione non è compiuta, e le terre emerse sono ancora considerate come luoghi. Spazio, bisogna a questo punto precisare, è una parola che deriva dal greco stàdion. Per gli antichi greci lo stadio era l’unità di misura delle distanze, e significava dunque alla lettera un intervallo metrico lineare standard. Ne deriva che all’interno dello spazio tutte le parti sono l’un l’altra equivalenti, nel

senso che sono sottomesse alla stessa astratta regola, che non tiene affatto conto delle loro differenze qualitative. Tale regola è quella rappresentata dalla scala, che dal Cinquecento inizia ad apparire sistematicamente sulle carte (P. D. A. Harvey, 1985), e indica il rapporto tra le distanze lineari del disegno e quelle che esistono nella realtà. Luogo, al contrario, è una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun altra, che non può essere scambiata con nessun altra senza che tutto cambi. Nello spazio invece ogni parte può essere sostituita da un’altra senza che nulla venga alterato, proprio come quando due cose che hanno lo stesso peso vengono spostate da un piatto all’altro di una bilancia senza che l’equilibrio venga compromesso. (F. Farinelli, 2003)

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Un mondo di isole
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L'isola di San Brandano, una mitica isola-pesce che si sarebbe trovata ad Ovest del continente Africano.

In questo stralcio di testo riportato e contenuto all’interno del libro Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo di Franco Farinelli, vediamo come si sia verificata un’inversione di marcia nella rappresentazione ma anche nella percezione comune del territorio insulare, “tanto che verrebbe da pensare che sia ‘terra’ un’isola di cui non si vedono i confini e che ogni continente sia un’isola che non sa o ha scordato di esserlo.” (Sedda, 2019, p. 51) Abbiamo visto la differenza che si interpone tra spazio e luogo. Così come nell’isolario, nel Medioevo lo spazio non era presente e il mondo si componeva di un insieme di luoghi. Ogni luogo aveva la propria misura e nessuna di esse era standard. Le cose del mondo si limitavano a stare tra loro in proporzione, una proporzione per la quale non esisteva scala. Di conseguenza, a meno di non essere un messaggero o un soldato, nel Medioevo il problema della velocità in genere non esisteva, non esisteva il tempo, se non nella forma dell’alternarsi della notte, del giorno e delle stagioni. Luoghi e giornate erano la stessa cosa, coincidevano nell’esperienza del cammino, e gli uni servivano da misura alle altre e viceversa. Si trattava di una misura che mutava di volta in volta, e che non aveva nulla di metrico, di lineare o di standard. Soltanto lo spazio, che è uniforme e continuo, im-

plica il ritorno, la reversibilità del movimento. Ma se il mondo si compone di luoghi, di parti non continue, non omogenee, non isotropiche, non è detto che il ritorno avvenga. Anzi.

Un altro dato altrettanto curioso è invece riguardante l’altro fattore d’interesse che abbiamo analizzato: l’acqua. Fino a quasi tutto il Seicento, infatti, le carte che mostravano il tracciato dei cammini terrestri erano davvero poche: la forma della strada prendeva a modello quella dei corsi d’acqua, ai quali spesso era parallela, e così il cartografo, non potendo rappresentare tutto, raffigurava i corsi d’acqua e non le vie di terra, che quindi venivano spesso considerate meno importanti. A partire dal Settecento, però, le strade, proprio perché diritte, si svincolano dalla struttura della rete idrica, e iniziano quindi a spiccare anche sulle carte, proprio perché non più assimilabili alle sinuose vie d’acqua.

Frontespizio: Isolario Tomo II dell'Atlante Veneto

Il secondo modo per regolare l'informazione consiste nella scelta di una prospettiva o punto di vista. Si dirà che il racconto è focalizzato o non focalizzato, a seconda che esista o meno una restrizione del campo visuale-informativo, e cioè che il racconto si modelli sul punto di vista di uno o più personaggi (ed ecco la focalizzazione) oppure che promani direttamente dal narratore, senza limitazioni dell'ambito percettivo.

(A. Marchese, 1983)

Dal Medioevo tante sono le cose che sono cambiate nella rappresentazione delle mappe e nella scrittura del mondo. Ciò che conta è delineare il proprio punto di vista sul mondo, quello che scegliamo di narrare e le modalità e gli strumenti che selezioniamo per il nostro racconto. Nessuna mappa fornisce una visione del tutto oggettiva della realtà: anche il cartografo meglio intenzionato deve decidere quale proiezione usare, quali caratteristiche includere e cosa escludere, quali colori, quali sfumature, quale testo, quali immagini usare ma ci sono mappe che usano il linguaggio cartografico per comunicare un messaggio diverso dalle informazioni geografiche oggettive. Segue una distinzione di mappe per categorie, in base al punto di vista e al focus della narrazione:

Mappe che raccontano altro La cosiddetta cartografia persuasiva. Lo strumento della mappa viene utilizzato per influenzare opinioni o convinzioni, per inviare o rafforzare la diffusione di un messaggio, invece che per comunicare informazioni geografiche oggettive. Mappe di questo tipo sono state descritte nel tempo come “cartografia suggestiva”, “cartografia retorica” e “mappe di propaganda”. Nessuna mappa fornisce una visione del tutto oggettiva della realtà: anche il cartografo meglio intenzionato deve decidere quale proiezione usare, quali caratteristiche includere e cosa escludere, quali colori, quali sfumature, quale testo, quali immagini usare ma ci sono mappe che usano il linguaggio cartografico per comunicare un messaggio diverso dalle informazioni geografiche oggettive.

Mappe che spiegano cose

Si tratta di mappe che non hanno l’obiettivo di fornire pure informazioni spaziali ma che, attraverso la rappresentazione territoriale, cercano di spiegare avvenimenti, fatti, influenze e dinamiche intrinseche in quello specifico territorio. Ciò che conta non è una riproduzione fedele del dato spaziale ma una comunicazione efficace del messaggio che si vuole trasmettere.

Mappe come memoria soggettiva

Le mappe in questione hanno poco a che vedere con la realtà, non sono legate ad una rappresentazione fedele ma sono plasmate dalla propria memoria soggettiva, dalla propria esperienza, dal proprio vissuto e da ciò che in un modo o nell’altro ci lega ad un dato territorio.

Mappe che raccontano forme

Anche questa categoria di mappe ha poco a che vedere con la realtà. Si tratta di forme che si generano dall’intersezione di esperienze diverse, di vari punti di vista, di approcci e modalità grafiche differenti ma che lavorano su un focus ed un obiettivo comune.

Mappa vs diagramma

Si tratta di un approccio diverso alla rappresentazione delle mappe che si basa principalmente su tre punti chiave:

1. Focus: concentrarsi sull’obiettivo e sul perché di un progetto

2. Semplicità: perseguire la semplicità lungo tutto il processo progettuale ed evitare le cose ridondanti ed inutili

3. Interdisciplinarità: pensare al progetto in chiave interdisciplinare, cercando anche il confronto con altri punti di vista

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Milano nel 1470 – Geografia di Tolomeo (1470 circa)

Procida Racconta

Possono esserci isole ovunque, in ogni strada, in ogni città, in ogni casa. Ognuno ha il suo mare intorno. E ogni terra è terraferma finché il mare rimane come il cielo che disegnano i bambini: una striscia blu separata, in alto sul foglio, tutto il resto in basso e molto bianco in mezzo. Poi inevitabilmente accade. Ti accorgi che non è vero che ogni terra è terraferma e che oltre al mare c’è altro mare e a te non resta che scegliere cosa fartene, se attraversarlo o se guardarlo dalla spiaggia. (E. Greco, 2019)

Esperienze curiose i viaggi. Per quanto possiamo impegnarci a programmare, delineare, stabilire itinerari, tappe e tempi, alla fine, quando giungi alla meta e ti guardi indietro, nulla è mai completamente come ti eri prefissato. L’itinerario si trasforma man mano che si procede ma, soprattutto, noi cambiamo. Non si ritorna mai a casa come si è partiti. Se provassimo ad unire i punti di questo viaggio, siamo partiti da un concetto, la cultura e abbiamo provato ad Es-

sere luoghi, poi ad Essere luoghi fra gli altri, abbiamo provato ad essere rete e a Farci arcipelago e infine, prima di arrivare alla meta siamo diventati isola, non quella dell’immaginazione e della fantasia ma un’Isola che c’è, è reale, tangibile, fatta di case, spazi, edifici ma, soprattutto, fatta di persone che la abitano e la vivono.

Anche questa volta, questo viaggio è stato inaspettato, perché all’arrivo non c’era un panorama ad aspettarmi ma una domanda: come si racconta veramente un luogo? Nell’agosto 2021 con un traghetto mi sono diretta sull’isola di Arturo, così è conosciuta nel mondo da quando Elsa Morante ci ha ambientato la sua storia, e fin dal mare aperto c’era qualcosa di quel luogo che attirava alla riva e ad approdare su quelle terre.

Saranno state le tinte pastello delle case, tutte diverse, che da secoli sono utilizzate dai pescatori per riconoscere la propria abitazione anche in mare aperto, sarà stato il sole caldo e battente, eppure dopo qualche ora lì, al porto dei pescatori, nei vicoli stretti

dell’isola, ho compreso come a Procida ci sia “ancora un senso di verità nell'aria: il turismo non ha dato alle persone e alle cose quella patina frivola che si sente nei luoghi più rinominati”. (F. Arminio,2018)

E allora la domanda è sorta spontanea: come si può raccontare davvero un luogo del genere? La magia che ne affiora, l’essenza vera? Il profumo del mare, l’arte e la dedizione per la pesca che si scorge in ogni angolo di questo luogo? Probabilmente, basandomi esclusivamente sul patrimonio materiale

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pagina precedente Reti da pesca stese al porto di Corricella, Procida, agosto 2021.

del luogo, sarei caduta nell’inganno di molti studiosi del territorio che quasi categorizzano i luoghi in classe A e B: quelli che morfologicamente hanno tratti interessanti, caratteristiche degne di un racconto cartografico e quelli che invece sono povere, non hanno una topografia del paesaggio tale da poter essere approfondita.

Fin dal primo momento, a me non interessava questo, avrei potuto parlare dell’origine geologica dell’isola, che si tratta di un’isola vulcanica, nata dalle eruzioni di almeno quattro diversi vulcani, dire che ha una superficie di 3,7 km² e che il rilievo più elevato è rappresentato dalla collina di Terra Murata. Sì, avrei potuto ma nulla di tutto ciò sarebbe riuscito a raccontare davvero quella magia della quale parlavo in precedenza, molto più vicina al Genius Lo-

ci che alle caratteristiche fisiche del paesaggio.

Ho provato, allora, ad abbandonare il materiale e a rifarmi all’immateriale, l’intangibile, ad invertire la narrazione e a portare all’interno delle mappe ciò che non si vede, che è celato dietro ai dettagli, dietro a delle mani che sciolgono reti da pesca, a delle barche ferme nel porto, alle persone sedute sul balcone a guardare i turisti che puntuali, ogni estate, arrivano a riempire l’isola e a settembre ripartono, portandosi via il brusio e lasciando solo il rumore delle onde che si infrangono contro la roccia.

Franciscu Sedda all’interno del suo libro Isole, fa una constatazione critica e afferma che “chi ha parlato di isole è spesso un non-isolano” e allora, forse, di questo luogo devo raccontare non

attraverso i miei occhi ma attraverso quelli di chi lo abita, di colui che ne vive le varie stagioni, vive la lentezza e la pazienza, lo ama e forse nel tempo lo ha odiato, sognando di salpare il mare per giungere alla terraferma.

Ombre sul muro al porto di Corricella, Procida, agosto 2021.

Cartografie interpretative

Il primo passo è stato conoscere il territorio ed in particolare la trama umano/abitativa. La popolazione di Procida è in parte raccolta in un centro abitato e in parte sparsa per le campagne dell'isola, che sono disseminate di case coloniche e di ville: in complesso essa risulta secondo i dati ISTAT (2017) di 10.496 abitanti. Il centro urbano occupa gran parte della sporgenza nord-orientale (di fronte a Napoli), dominata dalla Terra Murata, ed è abitato soprattutto da marinai.

Gli strumenti che ho utilizzato per rappresentare i dati, non sono cartografie descrittivo-quantitative ma cartografie interpretative. Manifesti visivi con i quali ho cercato di comunicare delle informazioni propedeutiche ad uno sviluppo successivo di progetto.

Anche in questo caso sono partita da un elemento grafico primordiale, una delle prime forme che i bambini iniziano a rappresentare sul foglio bianco: il punto. Pensato come punto di partenza, come indicazione, o come punto d’arrivo, il punto è un elemento che ritroviamo continuamente sulle mappe: l’indicazione che nelle mappe informative all’interno dei posti pubblici, ci comunica: Voi siete qui •, ogni giorno cerchiamo su Google Maps il tragitto che dobbiamo compiere per spostarci da un punto a ad un punto b,. Continuamente, in ogni momento della nostra vita, colleghiamo in modo del tutto immaginario ed involontario punti sulla mappa e nel mondo.

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Trama Urbana Trama Umana Luoghi Pulsanti innescano un'elevata concentrazione demografica

Cartografie soggettive

Quando ti addentri nella conoscenza di qualcosa di sconosciuto, che non ti appartiene ma ti affascina, inizi a cercare informazioni, dati, qualsiasi cosa che possa aggiungere tasselli e che possa aiutarti a delineare un’immagine più chiara del tuo oggetto di analisi. Io cercavo l’immateriale, cercavo storie, cercavo persone disposte a raccontarmi di Procida, di questo luogo in mezzo al mare che da lì a poco sarebbe diventato Capitale Italiana della Cultura 2022.

Il carattere [di un luogo] è determinato da come le cose sono, ed offre alla nostra indagine una base per lo studio dei fenomeni concreti della nostra vita quotidiana.

Solo in questo modo possiamo afferrare completamente il Genius Loci, lo “spirito del luogo” che gli antichi riconobbero come “quell’opposto” con cui l’uomo deve scendere a patti per acquisire la possibilità di abitare. (C. Norberg-Schulz, 1981)

Cercando e analizzando, ci arrivi al centro delle cose, quelle che ti aspettano infilandosi dentro pretesti che si scoprono occasioni. La mia occasione era lì: Procida racconta. Sei autori in cerca di personaggio, un originale festival letterario nato da un’idea della scrittrice Chiara Gamberale.

Dal 2015, ogni anno, sei autori incontrano un territorio, anzi un’isola. Il festival nasce da una formula semplice, ma a suo modo rivoluzionaria su molti piani. Sei scrittori soggiornano per pochi giorni sull’isola. Vengono accompagnati e introdotti alla conoscenza dei luoghi e della comunità che li abita, dei temi e dei problemi sociali, economici, umani con cui si confronta. E subito dopo sono chiamati ad una sfida: scegliere un isolano, la sua vita e la sua storia, per farlo diventare il prota-

gonista di un proprio racconto da scrivere entro un tempo breve e determinato. Successivamente, in una serata di festa e di condivisione, ogni autore legge di fronte alla comunità il proprio racconto. Gli incontri, avvenuti nelle case, sui posti di lavoro o per le strade dell’isola, producono una doppia emozione: quella dello scrittore che raccoglie ricordi, pensieri intimi e sentimenti della persona che ha accettato di raccontarsi, e quella del protagonista quando ascolta, davanti a tanta gente, come la sua storia è stata rielaborata, guardandola dall’esterno con l’intensità, la complessità e con le mille sfumature con cui è stata raccontata dall’autore e che la fa diventare, immediatamente, qualcosa di più rappresentativo di una singola storia personale e soggettiva.

Tutto questo mi ha profondamente affascinata, in questo gioco-sfida letterario si “respira insieme la nitidezza della geografia umana interna dell’isola, ma anche il respiro e l’indefinitezza del mare che la circonda”.

Il passo successivo, quindi, è stato raccogliere queste storie, analizzarle, individuarne i tratti distintivi e trasformarle in strumenti di studio: cartografie soggettive.

All’interno della mappa progettata, i singoli volti e le storie che dietro ad essi si nascondono, sono state posizionate in corrispondenza delle aree dell’isola che sono state individuate, nei racconti degli isolani, come luoghi di vita, luoghi del tempo oppure luoghi del cuore.

“Procida racconta. Sei autori in cerca di personaggio” festival letterario
Tina Terzo, Gianni Scotto di Carlo, Maddalena Castagliola di Polidoro, Maria Lotorchisco, Alberto, Napoleone Terzo, Titina, Rosaria, Pasquale, Giacomo Retaggio, Mimì, Maruzzè, Rachele, Girone, Osvaldo Di Dio, Gigetto il Moriello, Togouth, Chrysann Austin, Raffaele Delle Cave, Romolo Tranquilli, Giovanna Lauro, Giovanna Lauro, Nico Granito, Manuela Drora Stefanini, Libera di Iorio, Chiara di Iorio, Michele Scotto Lavina, Luisa Autuoro, Natalia Ambrosino, Leonardo Ambrosino, Galia Yeneva

Ascoltare storie lenisce sempre, lo fa soprattutto se per ascoltare ti allontani, ti circondi di cielo e di mare e nella valigia non metti il tuo armadio, solo cose distratte e smetti di indossare gli stessi vestiti.

(D. Sansone, 2018)

In tutto il processo di ricerca ci se è interrogati su quale potesse essere il modo migliore per comunicare l’immateriale.

Le mappe sono strumenti utili ed efficaci quando si tratta di rappresentare ‘cose’: edifici, case, dati tangibili, tutto ciò che poi possiamo confrontare effettivamente con la realtà. In mille modalità differenti, le mappe sono il riflesso di ciò che vediamo, a prescindere dal grado di verosimiglianza che ad esse vogliamo attribuire, esse sono il nostro sguardo sul mondo o su uno specifico oggetto d’analisi. Proprio per questa ragione, il vero problema subentra nel momento in cui ad essere rappresentato è l’immateriale. Dopo aver letto le trenta storie racchiuse all’interno dei libri delle cinque

edizioni di Procida racconta, mi sono chiesta: come posso trasformare queste storie in dati?

Il primo passo è stato cercare all’interno di tutte le storie un comune denominatore che mi permettesse di creare un struttura di base a questo mio racconto. Ogni storia ha caratteristiche differenti, non ce n’è una che in qualcosa si somigli ad un’altra, l’intensità, i ricordi, le mille sfaccettature che il racconto di una vita può contenere, le rende assolutamente uniche. Eppure, in ogni storia, in maniera forse del tutto involontaria, ogni persona dell’isola, Tina, Rosaria, Pasquale, Mimì, Giacomo, Maria… fa riferimento a due entità quasi supreme: l’isola e il mare. Andando più nel profondo, però, non si legge solo dell’isola in generale ma di luoghi, che in base al posto che ricoprono nell’esperienza e nella memoria,si configurano in modo diverso gli uni dagli altri.

Ho individuato cinque categorie di luoghi presenti, più o meno, in tutte le storie:

luoghi d’origine: il primo luogo che davvero ci appartiene, quello al quale facciamo riferimento ogni volta che parliamo di noi stessi. luoghi di vita: il luogo dove abbiamo vissuto gran parte della nostra vita e che consideriamo casa. luoghi del tempo: i luoghi che hanno accompagnato il nostro tempo, che abbiamo impressi nella memoria per avvenimenti importanti. luoghi del cuore: i luoghi per i quali proviamo un profondo attaccamento, perchè custodi di attimi, ricordi o persone.

luoghi d’altri: ci sono luoghi che non appartengono a noi e alla nostra vita ma che odiamo o amiamo perchè appartengono alle persone che ci sono vicine e che li fanno diventare un po' anche nostri.

Anche in questo caso sono partita da un forma primordiale, il punto e attraverso variazioni di diametro, traccia, alterazione simmetriche e intersezioni con altre forme ho creato un primo sistema di cinque segni distin-

tivi. Questi, però, a loro volta si suddividevano in altre tipologie: luoghi che appartengono all'isola, al continente ( così come la chiamano loro riferendosi all'Italia) e al mondo. Con altrettante alterazioni,ho creato un sistema di segni capace di generare una narrazione e rappresentare i tratti distintivi di ogni storia.

L’intenzione, però, era di andare ancora più a fondo.

Nelle storie, infatti, c’è un’altra caratteristica comune: quando si parla di luoghi altri, la tendenza è di restare abbastanza in superfice, parlarne senza troppo pathos, farne riferimento e non scendere troppo nel profondo. Riferendosi ai luoghi dell’isola, invece, il coinvolgimento e l’emozione è tangibile, si legge in modo chiaro. Ed ecco che abbiamo: “le grotte su all’antico carcere”, “la Chiaiolella che è un po’ l’Africa di Procida”… Per questo motivo il segno che ho dato a questi luoghi è più vicino ad una descrizione visiva ma è comunque abbozzato, come accade per i segni sul muro, rapidi, sfuggenti eppure impressi lì.

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Luoghi
vita Luoghi
Luoghi del cuore Luoghi d'altri
Luoghi d'origine
di
del tempo

Isola Continente Mondo

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Vivara Spiaggia di Ciraccio Locanda del Postino Cimitero Terra Murata Pizzago Corricella Ospedale Gaetanina Scotto Piazza dei Martiri Lido della Perdizione Punta di Pizzaco Strada Flavio Gioia Municipio Piazza posta Punta Solchiaro Belvedere Elsa Morante Chiaiolella Spiaggia Cala del Pozzo Vecchio Confraternita di Turchini Chiesa di San Giuseppe Faraglioni

Riproducibilità e unicità Abbiamo fatto riferimento al segno. Secondo il Dizionario Enciclopedico Italiano, il segno è: “Qualsiasi cosa (oggetto, fatto, fenomeno) sensibile che, oltre a manifestare se stesso è manifestazione più o meno immediata di un'altra cosa con cui sia in qualche modo connessa.”

A loro volta, un insieme di segni verbali, grafici, gestuali, numerici, cromatici, formano un codice. All’interno di esso i segni si combinano fra di loro in modo convenzionale, secondo regole precise stabilite dagli uomini che lo hanno creato.

La lingua, per esempio, possiamo definirla un codice linguistico e, per alcuni aspetti, ritenerla uguale agli altri codici in quanto: trasmette informazioni mediante specifici segni usa i segni secondo specifiche regole operative, che costituiscono la “grammatica” del codice.

In questa fase di ricerca, una reference di profonda ispirazione è stata Worlds Writing Systems. Si tratta di un sito web che raccoglie e presenta un glifo di riferimento ed informazioni di base per ciascuno dei sistemi di scrittura del mondo. È il primo passo del Missing Scripts Project, un'iniziativa a lungo termine che mira a identificare i sistemi di scrittura che non sono ancora codificati nello standard Unicode. Ad oggi, ci sono ancora 131 script non ancora codificati in Unicode e che quindi non possono ancora essere utilizzati sui vari devices digitali.

Partendo da tali premesse, dopo aver creato questo alfabeto di segni slega-

ti l’uno dall’altro, è stato necessario metterli a sistema, creare delle regole ed una struttura grammaticale di base capace di poterli tenere insieme per dare forma alle storie degli isolani.

L’obiettivo del progetto è stato, per tutto il tempo, quello di garantire, sì, la riproducibilità di questo sistema di segni, ma al tempo stesso mantenere l’unicità di ognuna di queste storie, perché non perdessero di complessità, intensità e sentimento.

Come struttura di base per la composizione dei vari segni ho scelto di utilizzare proprio la carta dell’isola.

Racchiudendola all’interno di un rettangolo, suddiviso in quattro righe e quattro colonne, ho ottenuto sedici quadranti e una griglia di base sulla quale lavorare.

Come detto in precedenza, tra i luoghi ho distinto tre categorie: isola, continente e mondo. Avevo, quindi, bisogno di individuare una regola comune per il posizionamento di questi luoghi.

Per arrivare o per lasciare l’isola non ci sono treni, aerei ma solo il mare e solo un luogo: il Porto Marina di Procida. Per questo motivo, il quadrante in alto a destra, in corrispondenza del porto accoglie tutti i segni relativi ai luoghi altri.

Allo stesso modo, spesso, nelle storie gli isolani raccontano dell’isola quasi come un’entità, non fanno riferimento a luoghi specifici. In questo caso i segni sono posizionati esattamente al centro della griglia, non in un quadrante ma nell’intersezione degli assi centrali e figurativamente al cuore dell’isola.

Poster serigrafico che presenta un glifo per ciascuno dei sistemi di scrittura del mondo. ATypI 2018 ad Anversa, Belgio

Il cuore dell'Isola

43 Griglia di base
Oltre l'Isola

Pasquale

[...] Un giorno stavamo ad abbracciarci sulla spiaggia di Ciraccio, in un canneto che adesso è stato mangiato dalla strada. Arrivò il vento da ovest e alzò le onde fino a quattro metri. Tre bambini di una colonia di Napoli cominciarono a chiedere aiuto. Io mi butto e li trascino dove si tocca, uno alla volta. Ma dopo averli messi in salvo, sono svenuto. Mi hanno salvato dei pescatori. Non so se lo rifarei. Ma allora lo feci anche per lei. Ci tenevo ad essere il suo eroe.[...] Ora che il porto si avvicina, sono contento di esserci arrivato con lei. Qui, sulla nostra isola. In fondo un'isola lo siamo stati anche noi. (M. Gramellini, 2016, pp.23-26)

Napoli 38 km Spiaggia
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Pervasivo

[per-va-sì-vo] agg.

• Che tende a diffondersi ovunque: odore p.

• fig. Che pervade, che prende l'animo o la mente in modo completo: sentimento p.

(F. Sabatini, V. Colletti, 1987)

Tante cose, concetti, sensazioni, possono essere pervasive: un suono può essere pervasivo, un pensiero può essere pervasivo, un’immagine può diventare pervasiva oppure può esserlo un fenomeno.

Un fenomeno che sicuramente lo è diventato negli ultimi anni, è quello soprannominato Space Invaders Space Invaders è un videogioco arcade sparatutto a schermata fissa del 1978, a tema invasione aliena, sviluppato da Tomohiro Nishikado.

Il fenomeno al quale ci riferiamo ha inizio, però, nel 1998, quando Franck Slama, un writer francese che i fan hanno soprannominato Invader, ha immaginato che questi alieni uscissero dallo schermo per invadere, letteralmente, inizialmente solo le rues francesi per poi espandersi nelle città di tutto il mondo fino ad arrivare a Melbourne, in Australia.

Si tratta di istallazioni ispirate ai piccoli personaggi pixellati dell’omonimo videogame, composte da piccole tesse -

re mosaicate dai colori sgargianti e ad ognuna viene assegnato un punteggio. È possibile anche visualizzare su una mappa online gli Invaders più vicini per poter andare alla caccia e guadagnare più punti possibili. Ad oggi si contano ben 3797 invaders, da trovare in 78 città diverse.

La posizione di questi mosaici ha diversi criteri: spesso fa riferimento a monumenti o a negozi vicini, altre volte ha un significato più concettuale che strategico. L’importante per l’artista è essere lì dove c’è la folla: nelle metro, nei mercati di quartiere, dal dottore, ovunque, proprio come suggerisce il suo motto “Anytime, Anywhere”.

L’obiettivo dell’artista è, quindi, non segregare la sua arte tra le mura di un museo, luoghi che lui stesso definisce “alienatori dell’arte”, ma trovarsi in mezzo agli stessi fruitori, a volte inconsapevoli, altre nelle vesti di veri e propri ricercatori.

Il fenomeno degli Space Invaders è una sinergia di attività e nuovi modi di fruire il gaming, l’arte e anche il turismo. Si viaggia e si sviluppa una conoscenza molto più intima delle città che si visita, soffermandosi su dettagli dei quali normalmente non ci si accorgerebbe e ritrovandosi in luoghi nei quali altrimenti molto probabilmente non si passerebbe nemmeno. Si cammina con il naso all’insù, all’ingiù, lo sguardo

Storie che si fanno strada

a destra e a sinistra alla ricerca di nuove forme d’arte per catturare non solo una creatura pixellata, ma anche un istante di libertà estetica. Tale fenomeno ha attivato nel tempo un processo di grafica e comunicazione pervasiva ma al tempo stesso di geografia pervasiva. Un tipo di geografia che non si limita più alla dimensione cartacea di una mappa, o ad una sterile ricerca di destinazioni su Google Maps ma innesca fruizione del luogo e del territorio differente. È proprio da qui che sono partita per sviluppare un possibile scenario di applicazione dell’alfabeto di segni ideato. Sicuramente, unendo i punti dei vari luoghi che costituiscono le storie degli isolani che hanno scelto di condividere le loro geografie umane, abbiamo compreso come il luogo, l’isola, Procida non è solo del personaggio immaginario Arturo, ma anche di Tina, Michele, Leonardo, Maria, Mimì, Girone, Rachele, Galia, Togouth, Libera, Chiara e tutti coloro che abitano questo territorio. Non dimentichiamo, però, che Procida che nell’anno corrente è stata proclamata Capitale della Cultura, sarà messa sotto i riflettori per un intero anno e probabilmente fiumi di turisti saranno curiosi di conoscere e di scoprire l’isola. E allora, forse, se davvero il modo più intimo di conoscere un luogo è farlo attraverso le storie di chi lo vive, lo ha vis-

suto, lo ha scelto fra altri o ha scelto di abbandonarlo, queste nuove geografie umane dovrebbero essere fruibili da chiunque scelga di visitare l’isola. Dovrebbero diventare di tutti, dovrebbero essere lette, dovrebbero raccontare di luoghi nascosti, di luoghi del cuore e di luoghi del tempo.

E allora così, Procida, potrà essere davvero l’isola che non isola.

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pagina precedente Vicoli di Procida La storia di Chrysann Austin
Vicoli di Procida La storia di Michele Scotto Lavina Vicoli di Procida La storia di Maria Lotorchisco
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La storia
Vicoli di Procida
di Rosaria
Vicoli di Procida La storia di Alberto e Napoleone Terzo Vicoli di Procida La storia di Nico Granito Vicoli di Procida La storia di Galia Yeneva

Vicoli di Procida

La storia di Luigi schiano detto Gigetto il Morello

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Vicoli di Procida La storia di Giacomo Retaggio

Alfabeto segnico

Per permettere la reale diffusione di un linguaggio e farlo diventare pervasivo, questo deve essere compreso da tutti, altrimenti, dopo un primo e fugace interesse, ciò che resterebbe di questi segni sparsi per le strade del luogo sarebbe solo uno sbiadito ricordo e sicuramente il progetto avrebbe fallito nel suo obiettivo.

Per questo motivo, oltre alla diffusione dei vari segni, si è pensato fosse necessaria, attraverso dei poster illustrativi, anche la diffusione dell'alfabeto segnico di base e quindi della struttura di tale sistema. Così come accade per le mappe e per le cartografie, tali poster fungono da legenda diffusa che attiva una ricerca da parte dell'utente, un tentativo di associazione tra i segni che vede per le strade e i significati che ne veicolano.

Legenda alfabeto segnico.

Fruizione e coinvolgimeno attivo Un linguaggio, per quanto pervasivo, se non innesca un coinvolgimento ed una partecipazione di coloro che se ne imbattono, resta fine a sè stesso e, nel nostro caso, un mero segno sul muro. Ecco che, dopo aver ideato questo alfabeto di segni, averlo reso visibile e conprensibile da tutti, il progetto ha reso necessario un intervento aggiuntivo: far in modo che gli utenti potessero entrare all'interno di queste storie, esserne coinvolti attivamente, poter partecipare a questa narrazione e scoprire l'isola attraverso queste geografie umane.

L'idea è quella di creare un'esperienza interattiva attraverso la realtà aumentata (AR) che i visitatori possono utilizzare come una lente d'ingrandimento per scoprire ciò che questi segni rac-

contano, cosa si cela dietro a quei tratti che si intersecano, creando segni quasi apotropaici.

La realtà aumentata funziona inquadrando l’ambiente circostante attraverso la fotocamera dello smartphone o del tablet e viene attivata quando il sistema di riconoscimento cattura le immagini di riferimento dette anche marker

Il marker è essenzialmente l’immagine stessa che il sistema dovrà riconoscere per attivare i contenuti virtuali e, nel nostro caso, i marker sono tutti i segni che, girando per l'isola, l'utente potrà scoprire tra i vicoli stretti o mentre si è fermi lì, a guardare il mare.

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Interazione attraverso la realtà aumentata.
Se è l'isola che non isola... #Memoria del luogo #Inclusione #...

pagina precedente Archivio digitale Procida, ipotesi di possibili scenari di applicazione futura.

pagina successiva Pescatore al porto Marina di Procida.

Durante tutto il mio percorso di ricerca che ha preceduto e accompagnato la realizzazione del progetto Legàmi, ho tentato di avvicinarmi ad un insieme di sensazioni, stati d'animo, caratteri che erano estranei alla mia esperienza di vita condotta fino ad oggi. Anche se alle volte cerchiamo di dissuaderci da tale convinzione, noi siamo quello che viviamo, siamo la cultura che ci plasma fin da bambini, siamo la nostra quitidianità, siamo le nostre tradizioni e siamo, inevitabilmente, il luogo nel quale nasciamo, cresciamo e che scegliamo come nostro spazio di vita.

Noi siamo tutto ciò ma questo non vuol dire che non possiamo cambiare, che non possiamo provare ad empatizzare per altre esperienze umane e per altre, come mi è piaciuto chiamarle in tutto il percorso, geografie umane.

Io non provengo da un'isola, non sono mai stata un'isolana e per questo è stato molto complesso per me provare ad immedesimarmici ma, posso dire, anche estremamente affascinante. I luoghi non sono nulla senza le persone, sono solo edifici soggetti all'effetto del tempo. I luoghi acquisiscono davvero carattere e vita solo quando le persone scelgono di farli propri. Questo è quello che è accaduto a me con Procida, quando l'ho vista, lontano dal mare aperto, quando l'ho raggiunta, quando l'ho esplorata ma soprattutto quando ho visto lo stupore che la sua proclamazione a Capitale della Cultura 2022 ha destato a livello mondiale. Quasi come se non fosse possibile che un piccolo luogo immerso nel mare potesse rappresentare la cultura per un intero anno.

L'isola che non isola, così è stata presentata. E allora, a questo punto, mi chiedo questo nuovo linguaggio che è stato progettato, questo alfabeto segnico pervasivo, come può essere fino in fondo, in scenari di applicazione futuri, la lingua dell'isola che non isola? Procida sarà davvero in questo 2022 l'isola che non isola?

Ho tentato di ipotizzare alcuni possibili scenari di sviluppo di questo linguaggio ma penso che il bello del design e della progettazione sia proprio questo, non smettere mai di ricercare, di adattarsi, di innovarsi, di evolversi e di seguire nuove rotte ancora inesplorate.

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Conclusioni

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61 Bibliografia

Presentazione

Susanna Cerri

Introduzione

La cultura come visione strategica

Procida Capitale Italiana della Cultura 2022

I-sole di terra, di mare e dell'anima

Insulomania

Contro l'identità Un mondo di isole Procida Racconta Legàmi di mare Storie che si fanno strada Bibliografia

Indice 5
7 9 13 17 19 21 25 29 37 49 61

didapress

Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze gennaio 2023

Ci sono molti modi per raccontare un luogo. Gli strumenti più antichi sono le mappe, che conservano la loro funzione primordiale di comunicare graficamente il patrimonio materiale di quel luogo.

Lègami nasce nel tentativo d’invertire questa narrazione e offrire nuovi paradigmi, trasformando l’invisibile nel visibile. Indagare la possibilità di comunicare un luogo attraverso il proprio patrimonio immateriale: le persone che lo abitano, le vite lente di chi ha scelto di mettere radici, le loro storie, i loro ricordi antichi, le loro geografie umane Il 18 gennaio 2021 Procida, l’isola flegrea con poco più di 10.000 abitanti, è stata nominata Capitale Italiana della Cultura 2022. Un ‘pezzo’ di terra circondato dal mare che diventa il simbolo della cultura per un intero Stato. Ma chi è Procida?

“Credo nelle isole perché esse sole inventano il mare.” (Serge Pey)

Alessia Porro, designer. Nasce ad Andria (Puglia) nel 1997. Si forma presso l’Università degli Studi “Gabriele D’Annunzio” di Pescara, laureandosi in Design nel 2019. Prosegue gli studi all’Università degli Studi di Firenze e consegue la laurea magistrale nel 2022 con Susanna Cerri.

ISBN 978-88-3338-176-3
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