Sull'Oceano

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CISEI

CISEI

Centro Internazionale di Studi sull’Emigrazione Italiana Comitato promotore

Centro Internazionale di Studi sull’Emigrazione Italiana Comitato promotore

“Dal porto al mondo”

“Dal porto al mondo”

Questa è l’unica edizione – controllata sul manoscritto e commentata tenendo conto dell’Archivio delle carte di De Amicis – di un libro straordinario che apparve nel 1889 e diventò subito uno tra i più fortunati, letti e discussi di fine Ottocento. Sull’Oceano è il grande affresco della nostra emigrazione in Sudamerica, traguardata nel microcosmo avventuroso, doloroso, variopinto della nave.

Il CISEI si avvale della collaborazione di un gruppo di noti studiosi che garantiscono il rigore scientifico dell’iniziativa. Il Comitato scientifico è composto da Lorenzo Coveri, Federico Croci, Chiara Evangelista, Ferdinando Fasce, Antonio Gibelli, Adele Maiello, Silvia Martini, Augusta Molinari, Don Luigi Molinari, Pierangelo Campodonico, Francesco Surdich e dai rappresentanti di Direzione Marittima della Liguria, Soprintendenza Archivistica di Genova, Archivio di Stato.

Mi porterai 4 o 5 volumi… l’Assommoir, Germinal, Une vie di Mau-passant… Magari Sull’Oceano di D.A., magari i Miserabili… Filippo Turati dal carcere alla madre, 1898 Alla vita gaudente e leggiera e pettegola dei passeggieri della prima classe l’autore contrappone il triste, commovente, angoscioso spettacolo della poveraglia dell’ultima classe, carne d’Italia gettata sul mercato straniero. Benedetto Croce, 1903

Edmondo De Amicis

SULL’OCEANO a cura di Giorgio Bertone prefazione di Antonio Gibelli

SULL’OCEANO

Il Comitato Promotore del CISEI è costituito da: Autorità Portuale di Genova, Comune di Genova, Provincia di Genova, Regione Liguria, Camera di Commercio di Genova, Università di Genova, Curia Arcivescovile di Genova, Direzione Marittima della Liguria, Archivio di Stato e Soprintendenza Archivistica della Liguria.

Il primo fra noi che abbia studiato l’emigrazione dal vero è stato De Amicis, ed essa gli ha ispirato alcune pagine stupende, quelle che danno il maggiore e il più permanente valore al suo nuovo libro. Pasquale Villari, 1889

Sull’Oceano è un libro completo. Il contrasto fra i viaggiatori di 1a e di 3a, la sanguinante disparità fra coloro che godono la vita in tutte le sue manifestazioni più elette e quelli che vedono maledire la vita… Vero Eretico alias Benito Mussolini, 1908

€ 16,00

DIABASIS

Per conservare e valorizzare la memoria dell’emigrazione in partenza dal porto di Genova durante il periodo storico contraddistinto dalle grandi migrazioni transoceaniche, l’Autorità Portuale di Genova si è resa promotrice dell’ideazione e della creazione del CISEI, un centro di eccellenza internazionale per lo studio della storia dell’emigrazione dedicato a studiosi e appassionati, attivo a Genova a partire dalla primavera 2005.

Edmondo De Amicis

Dal porto al mondo è una collana promossa dal Centro Internazionale di Studi sull’Emigrazione Italiana (CISEI) di Genova e coordinata da Antonio Gibelli. Al centro dell’attenzione Genova come porto di imbarco dei migranti, luogo metaforico di transito, crocevia della comunicazione tra l’Italia, le Americhe, il resto del mondo. La collana privilegia racconti di viaggio, testi di autobiografia e di memoria, epistolari dove i percorsi della diaspora rivivono attraverso la soggettività dei protagonisti e le tracce scritte della loro esperienza.

DIABASIS

Edmondo De Amicis (1846-1908), ufficiale all’Accademia militare di Modena, dopo la partecipazione alla battaglia di Custoza scelse la via del giornalismo turistico, pubblicando i volumi Spagna (1873), Olanda e Ricordi di Londra (1874), Marocco (1876), Costantinopoli e Ricordi di Parigi (1879). L’adesione al partito socialista italiano segnò una svolta nella sua produzione, già preannunciata dalle tematiche affrontate in Cuore (1886) e Sull’Oceano. Icona dell’intellettuale postunitario criticato e dissacrato dalla critica letteraria degli anni Sessanta (Eco, Arbasino), De Amicis è stato riscoperto da Calvino con il racconto dimenticato Amore e ginnastica (1971). Giorgio Bertone insegna Letteratura italiana all’Università di Genova. Ha pubblicato testi e studi critici di vari autori dell’Otto-Novecento. Si è occupato dei rapporti tra parola e paesaggio a partire dal saggio Paesaggio e letteratura, in: Storia d’Italia, La Liguria (1994); con il volume Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella letteratura occidentale (2000), premio Grinzane Cavour-Hanbury; infine con Letteratura e paesaggio. Liguri e no: Montale, Caproni, Calvino, Ortese, Biamonti, Primo Levi, Yehoshua (2001).


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Dal porto al mondo Collana coordinata da Antonio Gibelli


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In copertina Emigranti sul ponte Federico Guglielmo nel porto di Genova in attesa di imbarcarsi sullo Scrivia. Disegno da «L’Illustrazione Italiana», 30 novembre 1884

Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 88 8103 319 4

Prima edizione © 1983 Herodote Edizioni s.r.l. © 2005 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 info@diabasis.it www.diabasis.it


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Sull’Oceano a cura di Giorgio Bertone prefazione di Antonio Gibelli

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Dal porto al mondo, con De Amicis, Antonio Gibelli

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Nota alla nuova edizione 2005, Giorgio Bertone

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La patria in piroscafo. Il viaggio di Edmondo De Amicis Giorgio Bertone

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L’imbarco degli emigranti

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Nel golfo Leone

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L’Italia a bordo

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A prua e a poppa

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Signori e Signore

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Rancori e amori

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Sul tropico del Cancro

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L’oceano giallo

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Gli originali di prua

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Il dormitorio delle donne

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Il passaggio dell’equatore

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Il piccolo Galileo

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Il mare di fuoco

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L’oceano azzurro

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Il morto

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La giornata del diavolo

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In extremis

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Domani!

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L’America

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Sul Rio de la Plata

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Nota al testo, Giorgio Bertone

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Tavole


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Dal porto al mondo, con De Amicis Antonio Gibelli

Questo libro costituisce una tra le più note e suggestive testimonianze d’epoca sul fenomeno migratorio, impreziosita dalle puntuali annotazioni, storiche e letterarie, ma anche tecniche, di uno studioso che conosce bene tanto De Amicis quanto la vicenda ottocentesca della marineria e in particolare le sue peripezie in ordine al trasporto dei migranti: e che avverte (e sa trasmettere) il fascino del viaggio, anche e soprattutto del viaggio per mare, fascino che è pur implicato in qualche modo nell’esperienza migratoria, malgrado gli affanni e le miserie da cui i migranti furono allora e sono ancor oggi afflitti nelle loro traversate, e malgrado i fattori in senso lato costrittivi che ne motivarono, come ne motivano oggi, lo spostamento quanto mai periglioso. Per noi è poi un’occasione per riflettere sopra un tema di grande attualità, sul quale di recente sono fiorite molteplici iniziative scientifiche, artistiche e museali, e sulle angolazioni nuove, le nuove fonti e i nuovi tipi di “racconto” che oggi si possono utilizzare per guardare al fenomeno e alla sua storia. Tutto ciò può ben partire da Genova, come partirono da Genova milioni di migranti italiani (l’assoluta maggioranza di quelli che andavano oltreoceano, almeno fino all’inizio del Novecento), come partirono da Genova quelli descritti da De Amicis, e quelli che Agostino Bertani osservò affollarsi sulle banchine in attesa dell’imbarco e interrogò, nel quadro delle sue inchieste sulle condizioni della società contadina, più o meno nella stessa epoca. Genova rappresenta un punto di osservazione assolutamente privilegiato del tema in questione. Dal suo porto si imbarcarono nel corso di circa un secolo, a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, quasi quattro milioni di persone, con un flusso che toccò il massimo di intensità proprio nel periodo in cui cade il viaggio di Sull’Oceano (due milioni in totale nell’ultimo quarto del secolo XIX). Sulle sue banchine attraccarono centinaia di navi per migliaia di viaggi verso il Sud e verso il Nord America: prima a vela, poi a vapore, in una transizione economicamente difficile, per taluni proibitiva, che attraversò fasi di combinazione tra l’uno e l’altro mezzo propulsivo, di cui il piroscafo Nord America, utilizzato dallo scrittore onegliese, è un tipico esempio. Nei suoi palazzi e nei suoi «scagni» abitarono armatori piccoli e grandi che fecero fortuna sul movimento degli uomini, sui velieri o sui bastimenti dai ventri capienti, capaci di «insaccar miseria» in quantità


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Antonio Gibelli

enormi, e che infatti promossero e finanziarono riviste di intonazione liberista per sostenere l’utilità e la modernità del fenomeno migratorio, in contrasto con le opinioni prevalenti all’epoca. Nei suoi circoli scientifici e intellettuali si coltivarono studi sul Nuovo Mondo, si promossero iniziative divulgative per descriverne le caratteristiche e i pregi, per fornire informazioni e consigli a chi intendesse seguire la via che si era aperta. Malgrado pregevoli studi prodotti soprattutto negli ultimi vent’anni, non si può dire che la memoria di questo imponente passaggio della storia genovese abbia ancora il posto e l’evidenza che merita, né che sia stato adeguatamente valorizzato e risulti quindi immediatamente leggibile all’incontro con la città. Il recupero del porto antico ha reso finalmente accessibili quei luoghi che furono abitati per molti decenni dalle popolazioni migranti, le banchine dove si addensavano in attesa dell’imbarco (fino al tardo Ottocento esposti alle intemperie, senza alcuna protezione o riparo), dalle quali vedevano staccarsi in lento movimento i giganteschi bastimenti. Nelle biblioteche genovesi esistono collezioni importanti di riviste ottocentesche e novecentesche, spesso graficamente eleganti e ampiamente illustrate, dai titoli esotici come «L’Amazzonia», dove si può trovare eco di quell’epoca di traffici, avventure, commerci, sofferenze, speranze. Negli archivi cittadini sono sepolte migliaia di carte che parlano di quelle vicende, elenchi di partenti, certificati medici per i nullaosta, carte processuali concernenti le “diserzioni”, ossia gli abbandoni della nave da parte di membri dell’equipaggio una volta toccati i porti sudamericani, per sfidare la fortuna. Da qualche tempo, inoltre, il CISEI (Centro internazionale di studi dell’emigrazione italiana), promosso dall’Autorità Portuale di Genova (anche per la spinta delle innumerevoli richieste di recupero delle radici di discendenti dei migranti), con la collaborazione di altri enti, ha meritoriamente e faticosamente cercato di avviare un percorso di recupero della memoria e di coordinamento dei molteplici cantieri esistenti. Tuttavia manca ancora un luogo fisico dove le tante tracce grandi e piccole dell’imponente flusso, gli esempi di oggetti, documenti, suoni e immagini che lo raccontano abbiano una collocazione adeguata, o almeno un luogo virtuale dove il visitatore, lo studioso e il curioso possano trovare una rappresentazione efficace di questo universo, una mappa per orizzontarsi al suo interno e una guida per seguirne il percorso dentro la città e per collegarsi di qui – come ormai consentono gli straordinari mezzi elettronici – al resto del mondo, ripercorrendo i mille fili che la mobilità degli uomini e la comunicazione tra di essi hanno steso tra i continenti come una ragnatela invisibile. Occorreranno ancora impegno e convinzione perché prenda corpo un’iniziativa organica all’altezza di Genova capitale della diaspora italiana per circa un secolo e custode di un pezzo importante della sua memoria: un’inizia-


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Al valoroso comandante CARLO DE AMEZAGA

dedico questo libro in segno di affetto e di gratitudine.


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Signori e Signore

Con un gazzettino vivente com’era quell’agente bancario, non tardai a conoscere, anche senza volerlo, quasi tutti i passeggieri di prima. La mattina seguente egli mi si venne a mettere accanto a tavola, al posto dell’avvocato, che non s’era levato da letto. Ogni giorno egli faceva una mezza dozzina di conoscenze nuove. La sera avanti aveva attaccato conversazione con gli sposi, che occupavano il camerino accanto al suo, ed essendosi accorto ch’eran così timidi e impacciati davanti alla gente, si proponeva di stuzzicarli un poco. Appena seduto, domandò allo sposo, che gli era seduto di faccia, se aveva riposato bene. Quegli rispose bene, grazie, guardandolo con occhio inquieto. – Eppure, – disse l’altro con l’aria più naturale del mondo, fissando lui e lei, – mi è parso che questa notte il mare fosse agitato. – I vicini sorrisero, e quelli, arrossendo tutti e due, si misero a osservare le posate con attenzione profonda. Ma l’agente non mostrò d’avvedersene. E attaccò il lucignolo subito, parlando piano e spedito, senza far però meno onore alla cucina del Galileo. Il prete lungo era un napoletano, stabilito da circa trent’anni nell’Argentina, dove ritornava dopo un breve viaggio in Italia, fatto, diceva (ma era dubbio), per vedere il Papa. Gli aveva inteso raccontar la sua storia una sera. Era andato all’Argentina senza camicia, aveva fatto il parroco nelle colonie agricole nascenti, in varii Stati della Repubblica, in terre quasi disabitate, dove andava a portare il viatico a cavallo, galoppando per notti intere, col santissimo Sacramento a tracolla e la rivoltella alla cintura, e diceva d’esser stato più volte assalito, e d’essersi difeso a rivoltellate, e che anche si era dato il caso di viaggiatori, i quali, incontrandolo al lume della luna, atterriti dalla sua gigantesca ombra nera, s’erano dati alla fuga. Si capiva che doveva aver curato altrettanto la borsa propria che l’anima altrui, facendosi pagar matrimoni e sepolture a prezzi d’affezione, tant’è vero che si vantava francamente d’aver messo insieme un buon gruzzolo, e non parlava d’altro che di pesos e di patacones, con un certo giro inquietante della mano a ventarola, e con un accento di Basso porto, che trent’anni di parlata spagnuola non eran riusciti ad alterare. Del tenore sapeva poco: doveva avere una bella voce, ma un po’ di gatto scorticato: del resto, il solito pavone in corpo: fin dal primo giorno andava mostrando ai passeggieri un giornale logoro, con un


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articoletto di cronaca teatrale, in cui erano sottolineate le parole: quest’artista possiede la chiave del cuore umano; e quella chiave del cuore diceva l’agente che lo faceva pensare a quella di casa dei suoi uditori; ma si poteva anche ingannare. Credeva che stesse preparando un concerto vocale e istrumentale per la sera del passaggio dell’equatore. Conosceva meglio la signora bionda dalle calze nere, svizzera italiana, moglie d’un italiano, professore non sapeva di che a Montevideo: aveva fatto con lei il viaggio da Genova in America due anni prima. Una amabilissima creatura, buona come il pane, un cervello di passero, bella e ignorante come una dalia, una vera fanciullona di trent’anni, a cui la condizione degli uomini soli in un lungo viaggio di mare ispirava un sentimento di pietà amorosa e coraggiosa. In dieci anni, rifacendo ogni tanto una scappata in patria, essa aveva già rallegrato del suo riso infantile e consolato della sua dolce pietà sette o otto piroscafi, e godeva d’una certa celebrità simpatica presso le società di navigazione. Nel viaggio di due anni avanti, fra l’altre, le era seguita un’avventura comica con un deputato argentino, il quale si trovava appunto con noi, per caso, sul Galileo. Costui, che era un signore faceto e amabile, ma assestato e intollerantissimo del disordine nelle cose sue, occupava un camerino sopra coperta. Ora mentre egli giocava nel salone o passeggiava a prua, la signora e una sua amica avevano preso l’abitudine d’andargli a metter tutto sottosopra per farlo poi ammattire a riordinare. E il gioco era riuscito bene parecchie volte. Ma un giorno, essendosi arrischiata sola la svizzerella a fare il solito arruffio, era sopraggiunto all’impensata l’argentino e, montato sulle furie, aveva chiuso l’uscio del camerino per obbligarla a rimettere ogni cosa al suo posto. Senonché le cose spostate essendo molte, il lavoro di riordinamento era durato un pezzo, e levatasi in quel frattempo una burrasca per effetto d’un colpo di vento improvviso, la signora aveva dovuto rimaner chiusa là dentro per varie ore, mentre di sotto, pei corridoi, il marito spaventato la chiamava da ogni parte ad alte grida, e voleva che si gettasse una lancia in mare per ripescarla, senz’accorgersi della ridente commiserazione che lo circondava. Nondimeno tutto era finito senza guai. Ma in questo viaggio pareva che il signore e la signora non dessero segno di conoscersi. Io mi voltai a guardar lui, in fondo alla tavola: era un bruno tra i trentotto e i quaranta, di profilo energico, con l’occhialetto: una faccia d’uomo, infatti, da non permettere che gli si violasse impunemente il domicilio. Quanto al marito professore, disse l’agente, era un bel capo: appassionato, sebbene avesse una faccia più letteraria che scientifica, per gli studi di meccanica nautica: passava la giornata in gravi meditazioni davanti alla macchina, ai timoni, ai verricelli, a ogni più piccolo ordigno del piroscafo, facendosi dare dagli uffiziali delle spiegazioni minute, che andava poi a ripetere a prua, per il gusto di sbocconcellare al popolo il pane della scienza, mentre altri gli addentava il suo a poppa. Ma in


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quel momento io stavo osservando, accanto all’argentino, un signore biondo slavato, con due favoriti che parevan due salici piangenti di capelli, come quei che si vedono nelle vetrine dei parrucchieri; il quale girava intorno degli occhi di pesce sospettosi, e non parlava a nessuno. Domandai all’agente se sapeva chi fosse. Oh! un bel caso. Si sospettava che fosse un ladro fuggitivo. Ne correva la voce sul Galileo. Era un francese. Non si sapeva quale dei passeggieri, leggendo il Figaro arrivato a Genova il giorno stesso della partenza, aveva creduto di riconoscere una maravigliosa rassomiglianza fra quella faccia strana e diffidente, e certi connotati che dava il giornale parigino di un cassiere di non so quale casa bancaria di Lione, scappato tre giorni prima, lasciando un vuoto di macchina pneumatica. Egli avrebbe fatto delle investigazioni: alla peggio, sperava di scoprire il segreto all’arrivo, quando fosse salita a bordo la polizia. Della coppia matrimoniale che sedea di rimpetto a costui, non aveva ancora chiesto informazioni: erano i miei due vicini di camerino, quelli della spazzola: la signora, sulla quarantina, piccoletta, con due occhi freddi, e un perpetuo sorriso forzato sulle labbra sottili; non brutta, ma di quelle persone a cui l’animo ha guastato il viso, le quali, a primo aspetto, ispirano ripugnanza per cagion del male che debbono fare agli altri, e compassione per quello che debbono soffrire esse medesime: il marito, una figura di maggior di cavalleria in riposo, d’animo forte, pareva; ma domato da una natura più forte della sua, e logorato da un’afflizione sorda e immutabile. Non si parlavano mai, come se non si conoscessero, e non erano mai insieme, fuorché a tavola; ma il mio vicino aveva osservato che lei saettava a lui delle terribili occhiate di traverso, quando le pareva che fissasse qualche signora: all’affetto morto era sopravvissuta la gelosia dell’orgoglio. Una coppia male accoppiata, insomma, come due forzati stretti da una catena, fra i quali ci doveva essere un’avversione profonda, e un mistero. Quello che conosceva meglio di tutti era il comandante: bravo marinaio, rozzo e irascibile, possessore d’un vocabolario maravigliosamente ricco di sacrati e d’ingiurie genovesi, che prodigava al basso personale dell’equipaggio: vere litanie d’improperi, condotte con un crescendo di effetto irresistibile; e altero della vigoria dei suoi pugni, dei quali s’era molto servito durante i suoi vent’anni di onorato comando. Aveva una fissazione, quella d’una severità assoluta in fatto di morale. Porcaie a bordo no ne vêuggio. – Non voglio porcherie a bordo – era il suo intercalare. Voleva il bastimento casto come un monastero, e credeva d’ottenerlo. All’occasione dava delle lezioni memorabili. In uno degli ultimi viaggi, avendo scoperto una sera che due passeggieri di diverso sesso, non legati né dal codice né dalla chiesa, erano addormentati in un camerino di coperta, egli aveva fatto inchiodare una grand’asse a traverso all’uscio, e ce l’aveva lasciata fino a che i due, il dì seguente, morsi dalla fame, dopo aver


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picchiato furiosamente, erano stati costretti a uscire coram populo, mëzi morti da-a vergêugna. Ma aveva rischiato d’ammalare dalla rabbia nell’ultima traversata, portando da Buenos Ayres a Genova un’intera compagnia lirica, e un corpo di ballo di cento e venti gambe; a tener a segno le quali non ci sarebbero stati sul piroscafo abbastanza assi né chiodi; e tutta la sua eloquenza minacciosa nella lingua del scì non aveva impedito che il Galileo si convertisse in un paradiso maomettano, filante dodici miglia all’ora. In condizioni ordinarie, peraltro, quando non era soverchiato dal numero e dall’audacia del nemico, era rigoroso al punto da non tollerare nemmeno un corteggiamento discreto. Ma si vantava di far stare tutti a segno senza mancare menomamente alle leggi della cortesia, di saper dir tutto a tutti senza offendere. Quando un passeggiere si stringeva troppo intorno a una signora, egli lo chiamava in disparte, e gli diceva rispettosamente: – Mi scusi, lei comincia a diventar nauseante (angoscioso). Porcaie a bordo no ne vêuggio. – Del rimanente, un galantuomo. Il vecchio maestoso che gli stava accanto – l’Hamerling – era un chileno, un gran signore, chiamato a bordo quello che fa forare una montagna, perché aveva fatto quel po’ di viaggio dal suo paese (trentacinque giorni di mare) per andare a comprare delle perforatrici in Inghilterra, non trattenendosi in Europa, dallo sbarco all’imbarco, che due settimane precise. Serio, come sono i chileni in generale, e di modi aristocratici, aveva bazzicato nei primi giorni la brigata degli argentini; ma questi avendolo punto in una disputa sull’eterna questione dei confini meridionali delle due repubbliche, egli se n’era scostato, e non parlava più che col comandante e col prete. Altri non conosceva, per il momento, il mio vicino. Ma andava spiando un giovane toscano sbarbatello e azzimato, seduto a tavola davanti alla moglie del professore, addosso alla quale lasciava gli occhi, assorto a tal segno che qualche volta gli rimaneva la forchetta per aria, a mezza via tra il piatto e la bocca, come colpita anch’essa d’ammirazione. Costui aveva l’aspetto d’un Don Giovannino affamato, che facesse la prima volata lunga fuori di casa; ma dotato, sotto quell’apparenza di primo amoroso esordiente, d’un’audacia unica; e mentre circuiva la svizzera, che doveva aver conosciuto a terra, faceva ogni momento delle escursioni a prua, fiutando l’aria come un poledro stallino, la sera in special modo, con molto rischio di farsi spolverare dagli emigranti i panni attillati, ch’ei cambiava due volte al giorno. Ciò dicendo, l’agente fece rotolare un’arancia fin quasi sul piatto dello sposo, e tese improvvisamente la mano, dicendo: – Favorisca... – Povero sposo! Proprio in quel momento, approfittando della solita confusione d’ogni fin di pasto, egli lasciava spenzolare il braccio destro sotto la tavola, mentre la sposa teneva nascosto nello stesso modo il braccio sinistro: alla improvvisa domanda, le due mani risalirono vivamente sopra la mensa, separate, è ve-


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ro, ma troppo tardi: la «casta porpora» aveva tradito il segreto. – Son troppo felici, – mi disse sotto voce l’agente; – gli voglio amareggiare la vita. Poi s’alzò, e mezz’ora dopo, salendo sul cassero, lo vidi sul castello centrale, che discorreva con un prete delle seconde classi. Ma queste, quasi spopolate, non dovevano offrire gran pascolo alla sua curiosità. C’eran due preti vecchi che leggevano quasi sempre il breviario; una vecchia signora sola, con gli occhiali verdi, che sfogliava dalla mattina alla sera una raccolta di antichi giornali illustrati, e una famiglia numerosa, tutta vestita a lutto, che formava in mezzo al piroscafo un gruppo nero e triste, immobile per ore intere. Solamente i due ragazzi più piccoli facevano qualche volta, per il ponte pénsile, una scappata fin sul cassero di poppa, dove la signorina dalla croce nera li carezzava mestamente, con le sue manine affilate d’inferma.


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Il piroscafo Galileo La prima delle navi a vapore italiane ad essere battezzata Galileo fu quella dell’armatore Zucoli, genovese, che la fece costruire nei cantieri inglesi (1852). Stazzava appena 69 tonnellate ed era dotata di ruote a pale. Viaggiò solo nel Mediterraneo e fu impiegata nella linea “turistica” tra Genova e La Spezia.


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La Caracciolo L’Italia alla scoperta del globo: dopo il famoso viaggio intorno al mondo della corvetta ad elica Magenta (1866-68), nel 1881-84 fu la volta della Caracciolo, anch’essa una pirocorvetta militare (armata con tre alberi a vele quadre), che effettuò la circumnavigazione della terra al comando di Carlo De Amezaga (cui è dedicato Sull’Oceano: ecco dov’era durante la traversata deamicisiana), che ne lasciò un’importante relazione pubblicata a Roma nell’86 con dettagliate spiegazioni tecniche, biologiche ecc., e un esame generale delle possibilità di insediamenti coloniali italiani. Qui è rappresentata la Caracciolo a Capo Froward nello stretto di Magellano.


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La copertina dell’edizione del 1890 di Sull’Oceano In vista della lussuosa edizione illustrata del 1890 Emilio Treves decise di inviare al Plata il pittore Arnaldo Ferraguti sul Nord America, il medesimo piroscafo che trasportò De Amicis nell’84, per ottenere disegni più completi e realistici. Per la copertina furono scelte due illustrazioni che sembrano alludere, l’una, all’arte della vela moritura, l’altra, ai nuovi apparecchi a vapore che la stanno soppiantando. Comunque: due particolari. Già al tempo di Cuore De Amicis lamentava con Treves la «maledetta ostinazione degli illustratori a rifuggire dai disegni complessi, a scansare le difficoltà, a non voler lavorare d’immaginazione, a far sempre il ritratto, la figura, la coppia, il dettaglio». Arnaldo Ferraguti (che sposerà Olga Treves, nipote di Emilio) fu tra i primissimi illustratori di Cuore e attivissimo sui periodici della casa editrice. Tra l’altro nel 1895 illustrerà I naufraghi del Poplador di Emilio Salgari.


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Lo Scrivia È un “disegno dal vero”, che rappresenta degli emigranti – in attesa di imbarcarsi – sul ponte Federico Guglielmo nel porto di Genova, ed è apparso sull’«Illustrazione Italiana» del 30 novembre 1884 (l’anno del viaggio deamicisiano) con questa didascalia: «Emigranti! Ne abbiamo visti passare per Milano, nei giorni scorsi: erano delle campagne venete e lombarde; magri, pallidi co’ segni della fame sul viso; non lieti, certo. Ciascuno aveva un sacco; qualcuno, meno povero, si trascinava dietro una valigia. A Genova, s’imbarcarono sul piroscafo Scrivia, avviati all’America, dalla quale alcuni sperano di tornare con qualche po’ di ben di Dio. I nostri corrispondenti colsero dal vero il momento in cui quegl’infelici s’imbarcavano». Alla fine di quel viaggio, il 7 dicembre, il piroscafo, carico di emigranti, fu messo sotto mira da una cannoniera argentina per impedirgli lo sbarco, dal momento che a bordo era scoppiata un’epidemia. Ma poté poi approdare a Montevideo, evitando quindi di dover ritornare in Europa, come capitò ad altri bastimenti italiani a bordo dei quali all’andata s’era sviluppato il colera. Lo Scrivia fu ordinato nell’82 ai cantieri scozzesi, insieme con altre sei unità, dal giovane armatore genovese Raggio, e destinato con le navi gemelle all’esclusivo trasporto di emigranti (circa mille per volta).


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Affresco della migrazione italiana ottocentesca in America Latina i poveri e i ricchi nel corpo navigante di una nave questo libro tra i maggiori di De Amicis viene pubblicato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Grafitalia di Reggio Emilia nell’aprile dell’anno duemila cinque


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