Cultura Commestibile 107

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redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto grafico emiliano bacci

Con la cultura non si mangia

N° 10

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Io vengo da Firenze e la mia città è diventata una città incredibile non per la qualità degli artisti ma per la presenza del sistema bancario e questa presenza del sistema bancario ha creato le basi per lo sviluppo dell’arte, della cultura, di queste attività

Matteo Renzi intervista a Class Nbc (in inglese)

La città più bella del mondo editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare di

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Sul treno della memoria Un diario di viaggio

Paolo Ciampi

Chi ascolta un superstite diventa a sua volta un testimone”. Santa Maria Novella. Difficile dire quanti abbiano ben presente queste parole di Elie Wiesel tra quanti stanno per salire sul Treno della Memoria organizzato dalla Regione Toscana. Però ci si può scommettere: è qualcosa del genere che anima i volti e i cuori degli studenti che, in questo freddo lunedì mattina, stanno cercando il loro scompartimento. Il binario, il numero 16, non è stato scelto a caso. Da qui, all’alba del 6 novembre 1943, partì il treno su cui i nazi-fascisti ammassarono gli ebrei fiorentini rastrellati. Un monumento, in testa a quel binario, ricorda quanto è successo. Forse qualcuno dei ragazzi si è fermato lì davanti, anche solo per il pensiero di un istante. Già in questo modo il Treno della Memoria ha messo in movimento ciò che deve muovere. Questo è un convoglio carico di persone chiamate a diventare testimoni. Forse già lo sono, sui loro cellulari, sui loro tablet. Dovere della testimonianza, o piuttosto, responsabilità. Attenzione all’etimologia: responsabile è colui che risponde. Ovvero chi sa ascoltare e non rimane indifferente a ciò che ascolta. Ricordando Primo Levi. È inevitabile, sono molti i pensieri che sono saliti a bordo con noi, sul treno che ha appena lasciato la stazione di Firenze, puntando verso il Nord, ripercorrendo la stessa strada che fu delle migliaia di deportati dall’Italia. A volte pensieri apparentemente marginali possono anche stimolare riflessioni non banali, che comunque stanno ben dentro quell’esperienza collettiva. Per esempio sulla velocità di questo treno, che certo non è quella a cui siamo abituati oggi, con le Frecce Rosse che solcano la penisola, ma non è nemmeno quella dei vagoni piombati. Difficile immaginare quella lentezza, e con essa l’esperienza di quelle ore, di quei giorni. I corpi stipati, la mancanza di aria e di cibo, la paura per quanto li avrebbe attesi alla fine di quel viaggio. Il nostro treno non passerà troppo

distante da Fossoli, anticamera del lager per migliaia di internati. Sul primo dei convogli, il 22 febbraio 1944, fu caricato anche Primo Levi. Nelle sue pagine ritorna il ricordo dell’ultima notte. L’ordine di partenza era arrivato il giorno prima: lui e gli altri sarebbero partiti l’indomani mattina. Tutti: anche i vecchi e i bambini. Fu una notte di silenzio, preghiera, attesa. Solo apparentemente uguale alle altre, per le incombenze: i bagagli da sistemare, la biancheria ancora stesa ad asciugare sul filo spinato, i pochi giocattoli dei bambini da raccogliere. Un giorno Primo Levi su Fossoli avrebbe scritto anche una poesia, col primo verso da incidere in ogni coscienza: “Io so cosa vuol dire non tornare”. Non usate la parola zingari. La storia di Auschwitz è anche la loro storia e ricordare la loro storia è pensare ai muri che ancora oggi ci dividono. Passato e presente, perché ha ragione Luca Bravi, tra i pochi studiosi in Italia del Porrajmos - come Rom e Sinti parlano del loro sterminio nei lager. “Non li teniamo distanti. Fino a che li teniamo distanti non si vince lo stereotipo”. Ad Auschwitz la notte del 20 agosto 1944 i nazisti liquidarono in una sola notte tutti i 24 mila “zingari” presenti nel campo. Cosa accadde non potrà ricordarlo uno di loro, ma alcuni ebrei, come Piero Terracina, che racconterà dello sbraitare dei cani, delle persone portate via, del silenzio del giorno dopo. Al processo di Norimberga non si parlerà del Porrajmos. Più tardi qualcuno si lascerà scappare cose così: se l’erano cercata. Pregiudizi e ancora pregiudizi. I

nazisti li sterminarono per il loro istinto al nomadismo. Ma ancora oggi li consideriamo nomadi e si pensa che la soluzione sia quella dei campi nomadi. E allora fanno bene le testimonianze di Rom e Sinti su questo treno. Persone come Ernesto Galliano, nome italiano per una famiglia che per generazioni ha lavorato alle giostre. O come Demir Mustafà, che da una casa della Macedonia è finito in una roulotte circondata da una rete. “Io non ho paura di essere Rom dice quest’ultimo - non mi sento uno sporco zingaro, conosco la mia storia e non le vedo su di me le cose che di me dicono. Pensare che sono anche musulmano, in questi giorni. Bisogna conoscere se stessi” Il pregiudizio dentro. “Se oggi andiamo ad Auschwitz non ci andiamo solo e soltanto per le vittime, ma per riflettere sui carnefici e per capire quanto di loro c’è nel presente”. E’ con queste parole che, sul treno verso la Polonia, si conclude il laboratorio dedicato alla persecuzione degli omosessuali sotto il nazismo, assieme a Emanuele Bambi di Azione Gay e Lesbiche. Parole che si intrecciano nel vagone ristorante, mentre si passa il confine in una notte che la neve rende più silenziosa. Ben altri sono i silenzi - e le reticenze - che hanno dovuto scontare le persecuzioni per chi non rientrava nei canoni della sessualità ammessa sotto Hitler. E ben altri sono i confini quelli del pregiudizio - che ancora non abbiamo saputo varcare. Triangoli rosa, così erano marchiati gli omosessuali nei lager. Ma quanti triangoli ci portiamo dentro di noi, pronti a cucirli su coloro che

non rispondono alle nostre visioni della normalità? La famiglia svanita. Per esempio la famiglia Huppert, una delle tante inghiottite nella voragine di Auschwitz. Le loro fotografie sono appese in una delle pareti a conclusione del percorso della “Sauna”, l’edificio nel quale gli ebrei che avevano scampato la selezione e le altre persone che si avviavano alla detenzione venivano spogliate, rasate, lavate con getti di acqua gelida, tatuate. Questo, insomma, era il posto dove i nomi diventavano numeri. Le fotografie della famiglia Huppert e le altre fotografie di tanti altri uomini, donne, bambini. Immagini che si sono salvate dalla volontà nazista di distruggere sistematicamente qualsiasi testimonianza di una vita normale. Non solo ai corpi si doveva appiccare il fuoco. Almeno queste fotografie sono arrivate a noi. Della famiglia Huppert in realtà è tutto quello che é rimasto. Di loro si sa solo quello che esse raccontano. Con quelle parole sono come un pugno che stringe il loro cuore. L’augurio che Artur scrive sotto la foto del figlio, il piccolo Peter, nato nel 1938: “Possa egli vivere 120 anni”. Questi nostri ragazzi.Hanno visitato le camere a gas e abbracciato con lo sguardo i prati dove una volta si accesero roghi con poveri corpi. Hanno sostato davanti allo stagno dove furono gettate le ceneri delle vittime. A lungo hanno indugiato a cercare una ragione impossibile davanti a foto come quelle dei bambini ungheresi ritratti proprio sotto quelle betulle, spensierati come per un picnic, a poche centinaia di metri dalla morte per Zyklon B. Ora camminano nel corteo che li porterà verso la cerimonia della Toscana a Birkenau. Sono in silenzio. Molte hanno lo sguardo rivolto verso il basso, come a voler cercare dentro qualcosa di più profondo. Tra loro non ci sono i sorrisi e i cenni di intesa delle gite scolastiche. Diverse di loro hanno i lucciconi agli occhi. Sono i ragazzi che tra poco, nel vento di Birkenau, parteciperanno alla cerimonia di commemorazione ognuno pronunciando il nome di un deportato al microfono. Uno per uno. Un nome come una promessa: io non ti dimenticherò. Il coraggio di Vera. “Non perdete


Da non saltare

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mai la speranza, non siate mai indifferenti quando comincia a esserci qualcosa che non va”. E’ stato un giorno lunghissimo per gli studenti toscani - l’arrivo il mattino presto, i passi nel silenzio e nel gelo di Birkenau, le molte forse troppe emozioni - anche senza tenere conto del lungo viaggio del giorno prima. Stanchezza e distrazione sarebbero più che giustificabili, dopo queste 48 ore vissute ad alta intensità. Eppure non vola una mosca nel cinema di Cracovia dove si srotola il tappeto di parole dell’incontro con Vera Jarach, donna che ha vissuto sulla sua pelle due crimini della storia la Shoah e la dittatura argentina: due storie e due continenti diversi, ma per lei lo stesso epilogo di morti senza tomba. Non c’è chi non sia conquistato dalla dolcezza di Vera che sa essere forza, coraggio, speranza. Ottimismo: questa parola avvolge l’intera sala. La parola e ancora di più il calore con cui Vera la offre a chi la sta ascoltando. A pensarci bene forse è questo che vince la stanchezza di tutti. C’è bisogno di questo ottimismo che sa guardare avanti, appena pochi giorni dopo le stragi di Parigi. C’è fame di una donna come Vera, “militante della memoria, o meglio, in Italia, partigiana della memoria”. Di una donna che, con tutto quello che é successo, può ancora dire: “Sono contenta della mia vita. Anche per mia figlia, meravigliosa. E’ vero che me l’hanno portata via, ma l’ho anche avuta. Ragazzi, non arrendetevi mai”. Di fronte all’orrore. Afferma Art Siegelman, l’autore di quel capolavoro che è “Maus”, che dopo Auschwitz la nostra civiltà è come un personaggio dei cartoni animati Loony Tunes - per esempio Vil Coyote - che va avanti nel vuoto del canyon anche quando non ha più terreno sotto i piedi. E che per un pezzo va avanti anche senza accorgersene. E’ proprio questo senso di vuoto sotto i piedi, di voragine che inghiotte ogni nostra certezza, che si vive uscendo dal crematorio di Auschwitz,l’unico rimasto in piedi dopo che i nazisti in fuga tentarono di cancellare le prove dei loro crimini. Ci sono i camini da cui venivano gettate le pasticche di veleno, ci sono i forni dove altri schiavi attendevano il loro turno spingendo altri corpi nelle fiamme. Dovevano sbrigarsi,

Sul treno della memoria Un diario di viaggio

tenere da parte i cadaveri dei bambini per sistemarli negli spazi vuoti accanto ai cadaveri degli adulti. Spaccare le ossa più grandi, come il bacino, perché bruciassero prima. “Mantieni il silenzio”, chiede un cartello. Fuori, solo silenzio e sguardi che si cercano quasi a cercare conferma di ciò a cui non si vorrebbe credere. Con le parole di una studentessa. Non torna molto che nelle indicazioni stradali e anche ai cancelli di ingresso Auschwitz sia indicato come un museo. Sarebbe come dire che tutto questo riguarda solo il passato mentre, si sa, la memoria, se è tale, è una promessa e anche un varco verso il futuro. Italo Calvino una volta lo disse in un modo splendido: “La memoria conta solo se tiene insieme l’impronta del passato e il progetto del futuro, se permette di diventare senza smettere di essere e di essere senza smettere di diventare”. Sono parole così che racchiudono il senso di un’esperienza come il Treno della Memoria. Ma se questa mattina ci sono parole che hanno saputo restituire questo senso, farsi promessa, speranza, futuro, queste sono state le parole di Kleoniki Valleri, giovane studentessa del Parlamento degli Studenti. “Vi chiedo di non dimenticare di riportare a casa il senso di ciò che avete visto e sentito. Non è necessario fare il medico o il missionario in un posto lontano,però è importante riuscire a indignarsi, è importante cambiare il modo di guardare le persone che ci sono diverse e aiutare a cambiare il modo di guardare delle persone che ci sono vicine”. Parole emozionate, sospinte con il cuore verso i coetanei radunati di fronte al “muro della morte”,

dove migliaia di prigionieri sono stati eliminati con un colpo alla nuca. Parole accolte più che da un applauso, Come una promessa che i ragazzi e le ragazze del Treno si sono sentiti di fare con la voce di Kleoniki. Il memoriale italiano Ora è sicuro, l’annuncio viene fatto questa mattina. Il memoriale italiano del Block 21 sarà presto trasferito in Toscana. Troverà ospitalità a Firenze, a Gavinana, grazie alla Regione e al Comune che hanno raccolto l’appello dell’Associazione deportati. La notizia si accompagna a una sua apertura straordinaria: era da quattro anni che non si poteva più vedere. Ci era stato sottratto il contratto con questa opera, realizzata nel nome di tutte le vittime italiane dell’Olocausto dagli architetti Baffi e Belgioioso, reduci di Mauthausen, con la collaborazione artistica del pittore Pupino Samonà, del musicista Luigi Nono e di Primo Levi. Quella di oggi non è solo una notizia. E’ anche una nuova responsabilità da assumersi con orgoglio. Non solo Auschwitz. “Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stato inutile la nostra morte per te e i tuoi figli”. Queste parole di Primo Levi salutano all’ingresso del memoriale italiano. “Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile”. A volte basta anche la domanda giusta, non scontata. Come quella di un ragazzo perplesso di fronte a una mappa della macchina dello sterminio. Treblinka, Chelmo, Belzec, Sabibor... “Perché non sono conosciuti come Auschwitz?”. Già, perché non si riserva la

stessa attenzione a Majdanek, la cui struttura, peraltro, è rimasta integra, perché i nazisti non fecero in tempo a distruggerla? Forse in questo caso la risposta c’è, solo che è ancora più dolorosa della sua assenza. Da Majdanek a tornare furono ancora meno. Non ci fu un Primo Levi a raccontarne l’inferno. Fa effetto pensare che la differenza per Auschwitz l’abbiano fatta i sopravvissuti. I nomi ritrovati. Sfogliano una pagina dietro l’altra di quell’immenso libro, che da solo occupa una sala del nuovo percorso espositivo realizzato ad Auschwitz grazie a Israele e allo Yad Vashem. Cinque metri di carta, un foglio accanto all’altro: dentro nomi, solo nomi. Per essere precisi, il cognome, il nome, l’anno di nascita, il luogo dove la loro vita è stata cancellata. Sono i milioni di nomi delle persone inghiottite dalla macchina dello sterminio. “Monumento” di carta che desta le stesse emozioni del “monumento” sonoro al memoriale di Berlino, con la sala buia in cui si ripetono senza interruzione i nomi delle vittime. Quelle pagine i ragazzi toscani non le stanno sfogliando solo per una qualche curiosità ci sarà anche il mio cognome lì dentro? Basta poco per capirlo. In realtà quello che stanno cercando è il deportato che il giorno prima, nella cerimonia di Birkenau, hanno adottato pronunciandone il nome. Anche questo è resistere ai carnefici, a coloro che con la vita vogliono sempre portarsi via anche la possibilità di ricordo. Gli ultimi testimoni. Oggi è stata la volta delle sorelle Tatiana e Andra Bucci, da anni instancabili testimoni del treno toscano (e di tanti altri treni), le due sorelline con i capelli bianchi scampate a Birkenau e al dottor Mengele, deportate a quattro e sei anni. E con loro c’erano anche Vera Michelin Salomon, antifascista spedita a ventuno anni al carcere duro in Germania dopo l’arresto a Roma e Marcello Martini, staffetta partigiana spedito a 14 anni a Mauthausen. Anche oggi non vola una mosca. Raccontano storie di giovinezza, spiega Marino Sinibaldi, direttore di RadioTre. Certamente la loro voce è ancora giovane. Però è impossibile non ascoltarli senza pensare anche ai loro anni. Cosa succederà alla memoria quando non ci saranno più?


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx

Gli studenti del liceo classico romano Torquato Tasso se lo ricordano ancora con la sua camminata a petto in fuori e con le sue continue esternazioni, fatte più per manifestare la propria presenza che per dire qualcosa su qualche accadimento. Una volta esternò così tanto che dovettero andare a riprenderlo in giardino. Il buon Gasparri, già ministro della Res Pubblica, ha recentemente esternato, non richiesto da nessuno, sulle due donne rapite in Siria e poi rilasciate. Il nostro ha dichiarato: “Senta, io sono contrario al pagamento del riscatto. Anzi, scriva che se rapiscono me, non voglio che il governo, di destra o di sinistra, paghi. Poi, non si sa cosa quelle due siano andate a fare in Siria e ora che sono state liberate ho letto che dicono pure di volerci tornare”. Tutti allora si sono domandati chi inizierebbe la colletta per pagare il ratto del Gasparri. E soprattutto chi sarebbe il rapitore (o i

Il ratto La scoperta di Gasparri di Palazzo Vecchio Nardella che ride

rapitori) che ne avesse lo stomaco. Ma poi ricordandosi dei trascorsi liceali si sono tranquillizzati. Il riscatto di cui parla il buon Gasparri è il suo. Solo facendo finta di esistere ogni tanto con qualche parola detta a caso riesce a credere di continuare ad essere un “importanteuomopolitico”. Il riscatto del Gasparri è un’operazione onanistica.

I Cugini Engels

Il quinto Beatles

Lo Zio di Trotzky

Fiat lux culturae La delocalizzazione della Fiat colpisce duro anche ai piani alti dell’azienda torinese (ops, anglo-americano-torinese). Dirigenti, in carica ed ex sono allo sbando e alla ricerca di una nuova posizione di lavoro per maturare un po’ contributi per godersi una meritata pensione. E cosa di meglio di un posto in una fondazione, un ente che si occupa di cultura? Il primo a “rottamarsi” è Paolo Fresco (noto mecenate di se medesimo) che già si è insediato alla Scuola di Musica di Fiesole dove potrà far valere quella lungimiranza che lo ha portato a produrre la Multipla (un capolavoro di dimensioni picassiane) per “portare la Scuola oltre i confini nazionali e farla diventare un punto di riferimento per l’educazione musicale non solo in Italia, ma anche all’estero” come dice il sindaco Ravoni. Ancora non sono ufficiali ma sono praticamente cosa fatta la nomina di Sergio Marchionne al Maggio Musicale dove solo con l’obbligatorietà dei maglioncini per gli orchestrali al posto del costoso frac genererà un risparmio tale da permettersi l’innaffiamento del parco della Musica; e quella di

Cesare Romiti alla Pergola, classe 1923 perfettamente in sintonia con il pubblico habitué del teatro fiorentino. Per svecchiare un po’ però a fianco di Romiti ci sarà Lapo Elkan nel posto di responsabile per l’innovazione, progetti speciali e marketing del maestro Riccardo Ventrella. E già si pensa ad un teatro ridipinto in verde mimetico… Bobo

Emiliano Fossi, sindaco di Campi Bisenzio, si è fatto immortalare per una campagna sulla sicurezza stradale nel suo comune insieme a assessori e collaboratori nel rifacimento della famosa copertina di Abbey Road dei Beatles, nella posa e posizione che fu di Paul McCartney. Il sindaco, da qualche giorno anche assessore alla cultura della neonata città metropolitana, o non è superstizioso o non conosce la leggenda sulla morte di Paul McCartney. Quella per la quale il bassista sarebbe morto in un incidente stradale (quello di A Day in a Life) e sostituito da un sosia. Una leggenda che i

Beatles stessi hanno contribuito ad alimentare inserendo nelle loro opere riferimenti e citazioni, da I’m the Walrus alla copertina di Abbey Road per l’appunto, dove gli “indizi” sarebbero la targa della Volkswagen maggiolino parcheggiata a sinistra e McCartney che attraversa scalzo (simbolo che nelle filosofie orientali frequentate all’epoca dai membri del gruppo sta a significare proprio il trapasso dalla vita alla morte) la strada. Noi a Fossi invece auguriamo lunghissima vita personale e politica. La seconda perché è un sindaco bravo e competente e perché come assessore alla cultura metropolitano avrà tanto da fare, per la novità dell’ente, il bilancio ristrettissimo e soprattutto per il confronto col collega della capitale Firenze, nonché sindaco della stessa e della città Metropolitana. Insomma al prode Fossi capiteranno molte notti di giornate dure.


24 gennaio 2015 pag. 5 di John

C

Stammer

on la recente apertura del museo del Novecento (o per meglio dire del museo che accoglie alcune opere di alcuni dei movimenti artistici del Novecento, già facenti parte delle collezioni comunali) nei locali dell’antico ospedale di San Paolo, poi scuole Leopoldine (che già ospita il museo Alinari), si è concluso l’intervento di riqualificazione della piazza di Santa Maria Novella. Il progetto era stato avviato dall’amministrazione comunale nel 2006. La realizzazione della piazza fu avviata, su iniziativa del comune di Firenze, intorno alla fine del XIII secolo (la conclusione dei lavori è databile intorno al 1325) per garantire lo spazio per accogliere i cittadini che volevano assistere alle prediche dei padri Domenicani del prospiciente convento di Santa Maria Novella. La sua forma deriva dalla demolizione di edifici preesistenti. Ha subìto varie trasformazioni fra le quali la più significativa, che permane fino ad oggi, fu la apposizione di due obelischi in “marmo mischio di Serravezza” poggianti su basamenti in pietra bigia. Gli obelischi, realizzati intorno alla fine del XVI secolo, e posti in opera intorno al 1608, erano le mete della corsa dei “cocchi” che si svolgeva il 23 giugno, vigilia della festa del patrono della città. Il restauro della piazza si collocava allora (nel 2004-2005 quando si inizio a progettarlo) nell’ambito di un più ampio progetto di sistemazione delle piazze cittadine che si sta concludendo ora con la parziale pedonalizzazione della piazza del Carmine. La piazza era stata oggetto nel corso del secolo scorso di diversi interventi di “sistemazione” fra i quali quello, che poi è risultato determinate, realizzato nella prima metà degli anni trenta con la realizzazione di alcune aiuole inerbite che seguivano si dice (ma non ci sono mai stati elementi certi) uno schema disegnato da Pietro Porcinai. L’idea iniziale di sistemazione prevedeva la eliminazione delle aiuole poste all’interno dell’ideale percorso dei cocchi intorno agli obelischi, e la completa pavimentazione della piazza in pietra, riprendendo la originale uniformità della pavimentazione, che prima del secolo scorso era unitaria. Ma la possibilità dell’accendersi di polemiche e

La piazza spezzata discussioni, che avrebbero potuto ritardare e mettere a rischio la realizzazione dell’opera, consigliarono un atteggiamento di “autocensura preventiva” sul progetto. Fu così che si scelse di realizzare le aiuole come “inserti” di verde all’interno della pavimentazione in pietra, senza nessun elemento di caratterizzazione in alzato (cordoli, piante, ecc.) nel punto di passaggio fra una pavimentazione e l’altra. Le due pavimentazioni, quella in pietra e quella con erba, dovevano essere alla stessa quota, divise solamente da un elemento in bronzo, anch’esso alla quota del pavimento, di contenimento della terra inerbita, in modo da garantire, se non nei materiali, almeno nella percezione visiva, la assoluta continuità e la totale percorribilità della piazza. Fu anche deciso di eliminare la grande aiuola centrale, che ospitava anche una vasca con fontana, e di sistemare quello spazio con sedute per i cittadini. Queste sedute, alcune delle quali realizzate con finiture in acciao corten, sono molto usate nelle stagioni miti ma impossibili da utilizzare in estate, e i fiorentini le hanno già ribattezzate “friggipassere”. Ma si sa che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni e difatti da li a poco qualcuno ha ben pensato di recingere le “specchiature” a verde della piazza con interventi di “abbellimento”, piantumando rose fiorentine ai bordi delle parti a verde. La recinzione in rose è stata inoltre ulteriormente “arricchita” da una piccola recinzione di sostegno e da cartelli di “non calpestare le aiuole”.L’effetto di questo intervento è la completa rottura della lettura unitaria della piazza che oggi risulta “compartimentata” in una infinità di piccoli spazi e di fatto limitata nella sua fruizione, tradendo la scelta iniziale del progetto di restituire, pur con il mantenimento degli elementi più importanti degli interventi del passato, la completa fruibilità e godimento della vasta spianata fatta realizzare, davanti alla facciata, poi completata dall’Alberti, della chiesa dei Domenicani, proprio per ospitare i cittadini in uno spazio aperto.


24 gennaio 2015 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

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ipingere la realtà significa dotarla di toni personali e soggettivi, densi di aspettative ed emozioni; significa porsi in un rapporto diretto con il dato da rappresentare, essenzializzandolo nelle proprie specifiche particolarità, al fine di operare una riduzione estetica atta a creare un’immagine vivificata e interpretativa; significa, in definitiva, sapere cogliere il senso dell’esistenziale insito nel quotidiano e i tratti fenomenologici della percezione capace di tradursi in un’espressione figurativa dal sapore letterario e descrittivo. La fascinazione del quadro nasce nel momento in cui l’artista concretizza la propria poetica nelle forme e nelle cromie che solo il gesto artistico riesce a donare agli occhi dello spettatore, ignaro di condividere il pathos della percezione al momento della realizzazione artistica, la quale procede come una vera e propria narrazione, all’interno dell’immanenza meditativa del pensiero. Nelle opere di Piero Vignozzi il dato sensibile si veste di toni lirici dall’alto sapore elegiaco, in quanto piena contemplazione dell’essenzialità. I particolari del quotidiano sono colti nella loro perfezione formale, spogliati da ogni artificio retorico, convenzione o accomodamento stilistico, per vivere sul supporto come sostanze pure, in un figurativo dettato dalla volontà di rappresentare, esprimere e imprimere sul supporto estetico la propria liricità. Vi è nell’artista la necessità di accedere all’anima delle cose al fine di cogliere l’esperienza più intima e personale: quell’esperienza capace di superare i limiti del Tempo e porsi al di là delle declinazioni temporali, trascendendo l’istante e il senso dello scorrere e della durata sugli oggetti del mondo. Quello di Piero Vignozzi è uno sguardo in continua tensione, volto a cogliere le suggestioni legate alla riflessione e alla contemplazione, colme di una poetica capace di farsi leggere nel suo intimismo commovente e travolgente. Le immagini dei luoghi dell’esperienza soggettiva si traducono in codici di vita vissuta, in un correlativo oggettivo velato dalle evanescenze del

La perfezione del quotidiano

Piero Vignozzi

ricordo, che trasmette al lettore le suggestioni e le emozioni proprie del gesto estetico. Un continuo vagare fra presente e passato, fra atmosfere rarefatte e tenui cromie, fra ricordi e visioni oniriche, in grado di ricostruire intellettualmente la forma pura di una realtà sfuggente e dalla quale è necessario imparare a cogliere quell’essenzialità intima e innocente chiusa fra la materia e lo spirito del mondo.

Dall’alto Scalinata a Villa Bardini, 1979 Olio su tavola cm. 83x93 Finestra, 1982 Olio su carta intelata cm. 99x69 Natura morta, 1983 Olio su cartoncino cm. 35x50 Tutte Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


24 gennaio 2015 pag. 7 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

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onostante sia passato quasi mezzo secolo dalla scoperta e dalla pubblicazione delle lastre fotografiche di Bellocq, e nonostante sia stato quasi del tutto dissipato il mistero che sembrava circondare la sua figura, questo personaggio e la sua opera stentano ancora a trovare un posto nelle diverse e sempre più corpose “Storie della Fotografia” pubblicate negli ultimi decenni al di qua ed al di là dell’Atlantico. Non facilmente classificabile e non etichettabile, John Ernest Joseph Bellocq (1873-1949) viene quasi sistematicamente ignorato dagli storici, e quando viene ricordato viene relegato fra i fotografi “vernacolari” o fra i fotografi “dei bordelli”. Non avendo mai aderito a scuole, accademie, circoli o confraternite, non avendo mai partecipato al dibattito culturale, e non avendo mai esposto o pubblicato le proprie immagini, Bellocq risulta indigeribile alla maggior parte degli storici. La natura delle sue immagini, ritratti di prostitute in abiti più o meno discinti, quando non completamente nude, rende ancora meno digeribile questo fotografo, nato e morto a New Orleans nel quartiere francese, mentre viene accettata (bongré-malgré) la sua opera, composta da numerosi ritratti realizzati nei primi anni del Novecento all’interno del quartiere a luci rosse di Storyville. Di professione fotografo industriale, Bellocq ama passare il proprio tempo libero frequentando le prostitute, e, come molti fotografi professionisti insoddisfatti della propria condizione, ama portare con sé la propria fotocamera, cercando al di fuori della professione il soddisfacimento delle proprie pulsioni estetiche, artistiche o semplicemente espressive. La familiarità con le ragazze e le donne di Storyville gli permette di instaurare con esse un rapporto di fiducia e di complicità, e di realizzare una serie di ritratti altrimenti impensabili. Non è possibile conoscere l’ampiezza complessiva dell’opera di Bellocq, ma dalle relativamente poche lastre ritrovate fortunosamente alla fine degli anni Sessanta, per lo più in penose condizioni di conservazione, è possibile comprenderne la profondità e la grandezza. Le

Bellocq genio incompreso ragazze posano per Bellocq nei loro momenti di libertà, in maniera spontanea e secondo le loro stesse inclinazioni e preferenze, in esterni oppure in interni, completamente abbigliate o parzialmente o completamente nude, in piedi, sedute o sdraiate, da sole o in coppia, talvolta con il loro animaletto preferito, un gatto o un cagnolino. Nessuna di esse viene costretta o condizionata in alcun modo,

ed è facilmente immaginabile che almeno una copia delle immagini scattate venisse consegnata a loro come una sorta di omaggio, risarcimento o rimborso per il tempo perduto. Qualcuna di esse espone il volto come espone il corpo, altre mostrano il corpo ma nascondono il volto dietro una piccola maschera nera. Su alcune lastre viene cancellato mediante abrasione il volto della modella,

non in segno di disprezzo o di violenza sull’immagine, come qualcuno ha voluto insinuare, ma in segno di rispetto, e molto probabilmente su richiesta della stessa modella, in seguito ad un ripensamento o forse nella prospettiva di cambiare vita e professione, senza lasciare tracce troppo evidenti di un passato per lo meno imbarazzante. La delicatezza e la profondità con cui Bellocq tratta i propri personaggi femminili sono molto diverse dall’atteggiamento di altri fotografi, citati su tutte le storie della fotografia, nel corso delle loro occasionali e frettolose visite nei bordelli e di cui hanno lasciato registrazioni visive. Ben più di un semplice “fotografo dei bordelli” Bellocq si innalza con la sua statura allo stesso livello dei grandi della fotografia dell’inizio del secolo, al pari di un Atget o di un Sander, con buona pace di Walter Benjamin che non ebbe mai l’occasione di conoscerlo.


24 gennaio 2015 pag. 8 Paolo Marini p.marini@inwind.it di

V

a premesso che il testo, di sicuro interesse storico (e, aggiungo, spirituale), non sempre è di agevole lettura e i nuclei tematici dispiegati nel suo svolgimento sono, per così dire, da cultori della materia: il primo sul pellegrinaggio in Terra Santa (con 8 saggi), il secondo sulle controverse relazioni tra ordini religiosi nel pieno/ tardo Medioevo (con 6 saggi). Il volume “Monaci e pellegrini nell’Europa medievale”, curato da Francesco Salvestrini (Edizioni Polistampa, 2014, pagg. 272, € 20,00), così raccoglie gli atti di due seminari del Centro Internazionale di Studi “La ‘Gerusalemme’ di San Vivaldo” promossi dal Comune di Montaione e svoltisi nel luglio del 2006 e 2007. Diffuso presso tutte le religioni (tranne quelle a carattere panteistico), il pellegrinaggio ebbe, in epoca medievale e in ambito cristiano, tre grandi mete: Gerusalemme, Roma e Santiago di Compostela. Premesso il suo tradizionale carattere religioso-devozionale, quasi mai attento a luoghi e persone, nei primi decenni del Trecento – come riporta Renzo Nelli nel suo “il pellegrinaggio in trasformazione” - acquistò un inedito interesse per gli aspetti ‘profani’ del viaggio, si dilatò “la percentuale di incidenza dell’osservazione personale e della autonoma capacità di giudizio rispetto all’autorità delle fonti usate” e la narrazione del viaggio acquistò più spazio anche per la parte che si svolgeva fuori della Terrasanta. Ma la vicenda umana è sempre complessa e per alcuni valeva più la ‘participatio’ alla Città Celeste che la ‘peregrinatio’ ai Luoghi Santi. Come bene illustra Francesco Vermigli (in “Bernardo di Chiaravalle e la Terrasanta”), la vicinanza fisica a Gerusalemme fu reputata effimera, né abbisognava il monaco “della vista di quei luoghi per incamminarsi lungo la strada che conduce, già qui e ora, alla conoscenza di Dio”. Nel pensiero bernardino, ad una estetica “aniconica” (“colui che indugia sulle immagini artistiche attesta di una vita spirituale

Storie senza tempo Monaci e pellegrini nell’età di mezzo

monasticamente inordinata”) si congiunse l’idea che “chi pellegrina verso quei luoghi che sono stati testimoni della vita, della morte e della Resurrezione del Cristo (…), vive una condizione spirituale che non è quella che si vive nel chiostro, dove si insegna una conoscenza del Cristo (…) totalmente slegata da qualsiasi vicinanza fisica ed affettiva alla Gerusalemme di quaggiù”. Da qui il lettore può ormai muovere agevolmente verso il mare scomposto Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

delle controversie religiose, spesso originate da motivi che si ripeteranno nella storia. Lo scontro che oppose “i monaci neri di Cluny ai monaci bianchi di Citeaux nasceva - spiega Antonella Degl’Innocenti in “Polemiche monastiche nella Francia dei secoli XI e XII” - da due diverse concezioni della vita monastica, che la comune radice benedettina rendeva paradossalmente ancora più distanti e inconciliabili”. Ancora una volta uno dei protagonisti

fu Bernardo di Clairvaux, che stigmatizzò l’intemperanza nel mangiare e nel bere, la rilassatezza dei costumi, l’incuria degli abati, l’amore per il lusso dei (o di alcuni) monaci cluniacensi. Il conflitto poteva anche, un po’ meno nobilmente, riguardare la riconducibilità di un santo alla propria o altrui tradizione monastica, come avvenuto tra benedettini vallombrosani e francescani minori a proposito del “rustico anacoreta” Torello da Poppi (vedasi “‘Sacre dispute’ e affermazioni di identità” di Francesco Salvestrini) che, dichiaratosi indegno dell’abito monastico, aveva compiuto la scelta di “ascetico ritiro”. Queste sono solo alcune delle storie che si possono gustare, leggendo il volume, con piacere sottile e meditabondo. Per qualcuno potranno avere un sapore ignoto o astruso, lontane come appaiono dalla (in)sensibilità di questo tempo. Chi scrive propende, per l’appunto, per una loro insospettata modernità: avendo sempre a che fare, direttamente o mediatamente, con l’idea/realtà di Dio e i limiti dell’uomo, emergono dalla storia quasi fossero senza tempo.


24 gennaio 2015 pag. 9 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

Nell’ultimo mezzo secolo il folk inglese ha espresso molti artisti di grande rilievo: da Shirley Collins a Ewan McColl, da Martin Simpson a Martin Carthy. Quest’ultimo, attivo dal lontano 1962, ha inciso il primo disco tre anni dopo (Martin Carthy, 1965). Lo affiancava il violinista Dave Swarbrick, col quale avrebbe sviluppato un rapporto intenso e duraturo. Nel 1972 Carthy si è unito al gruppo vocale dei fratelli Waterson (Elaine, Mike e Norma). Il suo legame sentimentale e artistico con Norma Waterson avrebbe avuto un effetto determinante sul folk inglese del Novecento. I due artisti, che si sono sposati nel 1972, hanno dato vita a una lunga serie di collaborazioni fra i vari membri della famiglia. Blue Murder, The Waterdaughters e Waterson:Carthy’s sono soltanto alcuni dei gruppi nati da questo incessante intreccio di musicisti imparentati. Dall’unione di Norma e Martin, oltre a una sterminata discografia, sono nate Eliza e Lucy. Entrambe hanno scelto di dedicarsi alla musica, ma è la prima che merita particolare attenzione. Pur essendo stata avvantaggiata dall’ambiente in cui è cresciuta, Eliza ha saputo sviluppare una personalità artistica autonoma. Cantante,

compositrice e violinista, questa inglese ruspante ha realizzato una discografia pregevole. In Anglicana (2003), premiato col Mercury Music Prize, Eliza ha riaffermato l’intenzione di fare un disco inglese, cioè di ridare piena visibilità a un patrimonio musicale a lungo oscurato da quello celtico (gallese, irlandese e scozzese). Nonostante le tante collaborazioni fra i membri della famiglia, però, la musicista non aveva ancora realizzato un disco in duo col padre. Per colmare questa lacuna i due hanno

inciso The Moral of the Elephant (Topic Records, 2014). L’album è stato prodotto da Oliver Knight, cugino di Eliza e nipote di Norma Waterson. “Grand Conversation on Napoleon” è una canzone di Ralph Vaughan Williams, (1872-1958) il grande compositore che ha avuto un ruolo centrale nella riscoperta del folk inglese (a lui è intitolata la biblioteca della English Folk Dance and Song Society). La dolce “Happiness” è una vecchia canzone scritta da Molly Drake, madre di Nick Drake (1948-

1974). Questo cantautore raffinato e malinconico è stato riscoperto molti anni dopo la morte, diventando oggetto di culto per appassionati e musicisti. “The Queen of Hearts” è la nuova versione di un brano tradizionale già apparso sul primo LP di Martin Carthy. La conclusiva “Died for Love” è dedicata a Mike Waterson (1941-2011), zio di Eliza e membro del vecchio gruppo vocale insieme a Norma. È un brano tradizionale che aveva arrangiato lui. Il violino di Eliza e la chitarra di Martin, insieme alle loro voci, scolpiscono suoni che attingono alla tradizione, ma al tempo stesso moderni e stimolanti: “Non mi interessa parlare di patrimonio culturale: questa roba è viva” ha detto Martin in un’intervista al Guardian. Il disco è uscito in coincidenza con i settacinque anni della Topic Records, che può essere definita la principale portabandiera del folk inglese. Nata nell’ambiente della sinistra marxista, l’etichetta si è poi affrancata dai condizionamenti politici assumendo un ruolo centrale nel folk revival degli anni Settanta. Oggi pubblica i dischi di molti musicisti folk britannici, fra i quali Nic Jones, June Tabor e Linda Thompson. The Voice of the People, la serie di 20 CD pubblicata nel 1999, è un monumento al folk inglese.

ed organizzare tali eventi con la consapevolezza della loro necessità. Per questo tra le tante e belle iniziative che in questi giorni si prospettano, quella che va in scena oggi e domani al Teatro di Rifredi credo sia decisamente da consigliare. Intanto per la qualità dello spettacolo, Stones, della compagnia israeliana orto-da che torna a Rifredi dopo un grande successo nel 2010. Uno spettacolo che parte da delle pietre, le stesse pietre che Hitler aveva scelto per il suo monumento alla vittoria che l’artista Nathan Rapoport utilizzerà, dopo la guerra, per erigere il monumento che celebra le vittime della

rivolta del ghetto di Varsavia e che si trova all’ingresso dell’ex ghetto della capitale polacca. E’ proprio quel monumento che prende vita in scena, che si trasforma tra riso e pianto, tra i simboli dell’olocausto che diventano stelle nel cielo. Uno spettacolo visivo di grande impatto che non fossilizza l’esperienza della shoah, la manifesta nel nostro tempo. Ci rende consapevoli del suo potenziale e possibile riproporsi, senza moralismi, senza

retorica, solo attraverso la poetica della mimica e delle immagini. Orto-Da Theatre Group, Stones 24 e 25 gennaio (sabato ore 21-domenica ore 16:30) al Teatro di Rifredi, via V. Emanuele 303, Firenze.

La famiglia del folk inglese

Pietre di memoria Michele Morrocchi twitter @michemorr di

Mai come in questi giorni l’importanza della memoria ci appare così essenziale, così come importante ci dovrebbe apparire la naturalezza del dottor Rieux ne la Peste di Camus, per il quale il contagio si combatte, persino contro la speranza, perché così bisogna fare. Dunque ci dovrebbe apparire naturale, avvicinandosi al giorno della memoria, sentirci naturalmente in dovere di mettere in moto la memoria della shoah. Non un obbligo, non un forzato bisogno. Così come, chi fa l’operatore culturale, dovrebbe approcciarsi


eco

lette ratura

24 gennaio 2015 pag. 10

Diego Salvadori diego.salvadori@unifi.it di

Nel rispondere a Fernand Desnoyer, Baudelaire era stato categorico: “la natura che fiorisce e si rinnova ha in sé qualcosa di impudente […] di rivoltante”. Sulla stessa linea si era posto Oscar Wilde, condannando una natura imprevidente e crudele, cui l’arte deve insegnare a stare al suo posto. Esempi, questi, di un anti-naturalismo poi impugnato dall’Avanguardia: una presa di distanza rivendicata con piglio, quasi a voler occultare un legame profondo. Prima di allora, la natura era stata ‘altro’: kosmos per i greci; consustanziale nel Medioevo; liber naturae secondo Galileo; fonte e sede di poesia vera per Schelling, Novalis e gli altri romantici. Mai come adesso scrittura e natura vengono a porsi l’una di fronte all’altra: la narrazione richiama i luoghi, gli spazi, in un continuo moltiplicarsi dove il reale viene guardato, sondato e riscritto attraverso un’ottica inedita. Le parole, insomma, mostrano una natura autentica e – per quanto spaventosa o minacciata – fedele a se stessa, dove la diversità (la biodiversità) diviene un valore aggiunto e propizia un rapporto inedito con l’umano: uno scambio – quasi un’empatia – suggerito e tracciato dalla scrittura, ora Simone Siliani s.siliani@tin.it di

Non Brigitte e Paula e neppure il loro (sfortunato, perduto, angosciante) amore sono i protagonisti del romanzo di Elfrfiede Jelinek, che il teatrino Giullare ha magistralmente messo in scena al Teatro Studio di Scandicci (13-14 gennaio 2015); bensì la provincia. Una qualsiasi, piccola, ipocrita, non necessariamente quella provincia della Stiria dove, forse, è ambientata la vicenda di Brigitte, operaia in una fabbrica di reggiseni, e di Paula, quindicenne che per sfuggire a una vita senza prospettive lotta contro i genitori per studiare da sarta. E’ in questa provincia che la Jelinek squaderna davanti a noi, con un linguaggio straordinario, il modello di una vita fondata sulla crudeltà nei rapporti personali e familiari, sulla insensatezza della vita in fabbrica, sull’ossessione

Tra le parole della natura un viaggio con più ritorni chiamata a dare soluzioni e risposte all’emergenza ambientale. L’ecocritica, o ecologia letteraria, muove il proprio assunto dalla constatazione che la crisi ambientale sia anche una crisi culturale; e la questione investe la letteratura poiché il testo non solo risponde – per dirlo con Jauss – a un preciso “orizzonte di attesa”, ma soprattutto narra, e rivela, lo stato presente delle

cose. Inizialmente nate sulla scia del movimento ecologista, le teorie ecocritiche si sono poi sviluppate come un ponte interdisciplinare che sovverte l’ordinamento consueto degli studi letterari e si concentra sul setting, l’ambiente testuale. Se la natura è un sistema di segni, questa viene fatta propria dalla scrittura e genera una semiosi inedita, inaspettata, che fa del

L’amore difficile in una tediosa provincia della ricerca di un amore che serva a tenere la posizione sociale nel sistema delle convenzioni vigente. Una ricerca introspettiva attraverso la psicologia dei personaggi, che però mette allo scoperto la meschinità delle convenzioni familiari, le depravazioni dello sfruttamento lavorativo e dell’alcolismo perfettamente consustanziali alla vita di provincia, la profondità di solitudini, l’incapacità sentimentale degli uomini e degli stessi genitori. La noia, la ripetitività degli schemi sociali rendono claustrofobica, prigione senza possibilità di evasione la provincia della Jelinek. Non c’è scampo: anche quando i sogni si realizzano, siamo condannati

liber risposta e specula da cui guardare la realtà in corso. Come affermato da Cheryll Glotfelty – che nel 1989 curò The Ecocriticism Reader, testo chiave dell’ecocritica – il letterato torna a essere militante e viene chiamato a rispondere alla distruzione della natura. Chi si occupa di ecocritica deve sapere uscire dai banchi accademici e, soprattutto, abbandonare gli stereotipi che, da sempre, viziano il concetto di stesso di ‘natura’. Non più, quindi, loci amoeni o giardini all’inglese, né tantomeno spiagge paradisiache o paesaggi da cartolina: importa l’accezione di ‘ambiente’, inteso come risposta e cartina di tornasole della realtà in atto, anche culturale. Entro un’ottica della compresenza, natura e intelletto cessano di essere separate e originano un’etica altra, desumibile anche, e soprattutto, dalle opere letterarie, pronte a farsi portatrici di immagini di valore: di un ethos che risponde alle urgenze del presente. Secondo Serenella Iovino – che per prima si occupata di tali teorie in ambito italiano – l’ecologia letteraria si propone un duplice intento: ricostruire la storia della crisi ecologica e individuare un modello alternativo di valore che possa sostituirsi a quelli consueti. La parola, insomma, torna a essere ancora di salvezza. a tornare al punto di partenza e il male di vivere, “il tedio, l’odio o morte del vivere in provincia” (per dirla alla Guccini) attanaglia senza possibilità di fuga la vita di tutti, vittime e carnefici. Il sarcasmo del testo e le trovate sceniche del Teatrino Giullare rendono la messa in scena scandiccese davvero strepitosa: ritmo e delicatezza insieme per raccontare in forma satirica la retorica sull’Eros. Una pièce che alterna sorrisi beffardi, pugni nello stomaco e tragedie immani: “se qualcuno vive un destino, allora non qui. se qualcuno ha un destino, è un uomo. se qualcuno riceve un destino, è una donna. disgraziatamente qui la vita passa, solo il lavoro resta. qualche volta una delle donne cerca di unirsi alla vita che passa e di chiacchierare un po’ con lei. ma spesso la vita va via in macchina, troppo veloce per la bicicletta, arrivederci!”


24 gennaio 2015 pag. 11 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

A

vevo sentito alla televisione e letto sui giornali che i recenti episodi terroristici avevano sconvolto la vita quotidiana dei parigini anche se il resuscitato Hollande continua a ripetere la vie doit reprendre sa place e lui stesso ha tenuto a dimostrare di non rinunciare alle sue abitudini istituzionali e private. Arrivata a Parigi tutto mi sembra infatti normale. Per le strade pochissima polizia e la solita vita frenetica, i soliti grandi magazzini presi d’assalto per le liquidazioni (con oltre 100.000 persone al giorno), lunghissime file davanti all’ingresso dei musei e delle mostre più importanti: al Grand Palais negli ultimi giorni della mostra di Hokusai erano previsti fino a 5 ore d’attesa, 3 per quella di Niki de Saint Phalle anche se la Notte dedicata a questa artista il 31 gennaio è stata annullata. Tutto come prima quindi e mi sono venute alla mente le parole di Jacques Brel cantate da Juliette Gréco agli inizi degli anni 60: on n’oublie rien de rien, on s’habitue c’est tout. Ma sotto questa apparente normalità, da una settimana sono stati prese misure eccezionali: nel territorio parigino, l’esercito pasFabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it di

Via Carlo Maggiorelli è una traversa di Via Villamagna, nella zona della Nave a Rovezzano: presumo che pochi di quelli che leggono queste note abbiano avuto ragione di percorrerla e che, di quei pochi, forse alcuni addirittura ignorano chi fosse quell’uomo. In compenso credo che molti di Voi il 4 novembre 1966 lo abbiano vissuto o, almeno, ne abbiano sentito parlare da amici e parenti. Mi è sembrato giusto iniziare il racconto, scandito su più puntate, di alcuni degli episodi legati alle non poche volte che l’Arno si è accanito su Firenze cominciando dal ricordo di quest’uomo, uno degli eroi sconosciuti del novembre 1966. Carlo Maggiorelli aveva 52 anni e viveva a Pozzolatico. La sera del 3 novembre era arrivato con la SITA: doveva effettuare il turno di notte di sorveglianza agli impianti dell’acquedotto dell’Anconella. Nelle prime ore del 4 novembre l’Arno

Pensieri da Parigi

sato da 2.500 unità a 10.000 e i 4.700 poliziotti (sono stati sospesi tutti i congedi) sono mobilitati a proteggere i siti più a rischio: stazioni, edifici amministrativi, luoghi di culto, scuole, luoghi molto frequentati e, per i recenti fatti, anche le sedi dei giornali. Misure di sicurezza che sono entrate, in parte, anche nella vita familiare come, ad esempio, la sospensione delle settimane bianche nelle scuole per evitare spostamenti in massa di bambini e ragazzi (e per questo provvedimento interi settori dediti agli sport invernali già parlano di disastro economico). Ma è il tessuto sociale, sotto

l’apparente normalità, a essere quello più seriamente provato. Beur FM, la radio delle comunità islamiche che dal 1990 trasmette su una ventina di frequenze in tutta la Francia con più di 200.000 ascoltatori l’anno, è stata presa d’assalto dalle tantissime telefonate tanto da dover riadattare il suo normale palinsesto fatto di notizie e di musica. La gente, dice il suo direttore, ha bisogno di parlare, di esprimere la paura di essere oggetto di islamofobia, di denunciare il dramma di una comunità che non si riconosce in un Islam violento e sanguinario, di dichiararsi non musulmani

Via Maggiorelli

Storie dell’Arno cattivo esondò proprio in quella zona e l’acqua invase gli impianti. Franco Nencini, giornalista della “Nazione”, riuscì a mettersi in contatto telefonico con Maggiorelli e lo esortò a lasciare immediatamente i locali, ma l’uomo rispose che stava cercando di staccare le pompe per fermare i motori e ridurre al minimo i danni all’impianto. Lo trovarono due giorni dopo, sepolto nel fango. Altre persone erano al lavoro quella notte: una guardia notturna avvertì Cesare Nesi, custode dell’ippodromo delle Mulina, che il Mugnone aveva rotto gli argini al Barco e stava per inondare la zona. Allora non c’erano i cellulari, ma Nesi riuscì a mettere in piedi, alle 2 di notte, una catena telefonica, avvertendo

proprietari e allenatori di accorrere per mettere in salvo i cavalli; duecento furono salvati, ma per settanta non ci fu niente da fare: le loro carcasse furono bruciate con i lanciafiamme qualche giorno più tardi. A poche centinaia di metri dalle Mulina c’era il piccolo zoo delle Cascine; il Mugnone lo travolse: tutti gli animali rimasero intrappolati e morirono annegati (riuscirono ad evadere dalle loro gabbie solo la cer-

della Francia ma francesi musulmani. Per il rispetto per il loro Dio, dice il conduttore Yassine Belattar, vorrebbero dire Je ne suis pas Charlie ma hanno paura ad essere considerati degli estremisti. Anche a Radio J, l’emittente del mondo ebraico aperta nel 1981, i palinsesti sono stati stravolti. Anche in questa radio gli ascoltatori sentono la necessità di esprimere le loro crescenti angosce. Dalle loro telefonate si rileva il fenomeno, che a partire dal 2000 si è acuito in questi giorni, dei molti ebrei di qualsiasi origine sociale, anche quelli integrati nell’alta borghesia, che esprimono il desiderio di lasciare la Francia che giudicano per loro non più sicura. Vorrei terminare questa breve e insufficiente cronaca con le parole di Voltaire trovate tra le pagine dell’allegato di Le Figaro. Nel 1723 Voltaire scrive La Henriade. Il testo tratta dei tragici eventi accaduti nel 1572 quando migliaia di francesi cattolici trucidarono migliaia di francesi protestanti. Riflettendo su questo evento Voltaire si pone la domanda e la pone all’umanità: Che rispondere a un uomo che vi dice che preferisce obbedire a Dio piuttosto che agli uomini e che di conseguenza è sicuro di meritare il Paradiso sgozzandovi? va Matilde e la cinghialessa Esmeralda). Fra gli altri morì il cammello Canapone, idolo dei bambini fiorentini che non accettarono però la scomparsa del loro amico e continuarono a lasciare noccioline e ricordini dove tante volte avevano allungato la mano per cercare di accarezzare il muso di Canapone. A Natale arrivò a Firenze il circo equestre Palmiri e i proprietari, commossi, regalarono due cammelli alla città. Così un altro Canapone tornò al piccolo zoo ricostruito: ma non fu più la stessa cosa. Quella notte non ci furono solo tragedie: 80 detenuti, trasferiti all’ultimo piano del carcere di Santa Teresa, riuscirono ad evadere. Alcuni, saltando di tetto in tetto, arrivarono, in Via Manzoni, alla terrazza della famiglia Lumachini, che aprì loro la porta e offrì ospitalità. Andando via all’alba, dopo aver rimesso in ordine la casa, uno di loro disse: “Signora, appena sarò in grado di fare un buon colpo, mi ricorderò di lei e dei suoi figli”


24 gennaio 2015 pag. 12 di

Francesco Carini

A connotare in maniera inconfondibile l’operazione di Fabrizio Crisafulli nell’odierno panorama del teatro di ricerca è la sua capacità, quasi un istinto rabdomantico, di andare oltre il valore puramente formale degli strumenti operativi, per captare una dimensione nascosta, impenetrabile alla ricognizione implacabile dell’occhio, percepibile solo attraverso le antenne sensibili di un movimento interiore, una particolare disposizione dell’anima. L’originalità del suo lavoro non consiste nella scelta degli strumenti o nella spettacolarità delle soluzioni multimediali, ma nel come i suoi materiali vengono indagati e rielaborati all’interno di un processo che scaturisce da una qualità rara in un professionista dello spettacolo, la disposizione all’ascolto”. Questo scrive Silvana Sinisi nell’introduzione a Place, Body, Light: The Theatre of / Il teatro di Fabrizio Crisafulli, volume bilingue edito da Artdigiland, curato da Nika Tomasevic, pubblicato in occasione dei vent’anni di attività della compagnia di Crisafulli, regista e ricercatore teatrale italiano, particolarmente attivo all’estero. Ascolto è un termine che ricorre spesso anche negli scritti di Crisafulli: il regista individua in esso una qualità che dovrebbe caratterizzare non solo il lavoro registico, ma anche quello degli attori, dei danzatori e di chi si occupa degli altri aspetti dello spettacolo, come lo spazio, la luce e il suono. Le ragioni e il nutrimento relazionale del teatro sono per Crisafulli fortemente legati all’attitudine all’ascolto. Il volume è stato presentato nei giorni scorsi alla Casa dei Teatri di Roma, per iniziativa dell’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, con interventi, oltre che di Silvana Sinisi e della curatrice, di Paolo Ruffini, di Raimondo Guarino e di Silvia Tarquini, direttore editoriale Artdigiland. Guarino, storico del teatro e docente al DAMS di RomaTre, è intervenuto in particolare sul teatro dei luoghi, progetto che Crisafulli conduce fin dall’inizio della sua ricerca e che consiste nel collocare il luogo nel punto di

Place, Body, Light

partenza del processo creativo, nel considerarlo matrice della creazione: in una posizione simile, quindi, a quella che nel teatro è più usualmente occupata dal testo. Il luogo, in questo tipo di lavoro, non è solo spazio, scenografia, ambientazione. Ispira, suggerisce, genera le scelte riguardanti tutti gli aspetti del lavoro: lo spazio e i percorsi, certamente, ma anche e soprattutto la parola, le azioni, il movimento, il suono, la luce. Lo studioso ha poi suggerito un confronto tra il teatro dei luoghi di Crisafulli e il site-specific theatre, nell’accezione di Mike Pearson, il principale teorico di questa modalità del teatro “fuori dai teatri”. Con immagine suggestiva, ha associato il site-specific theatre, nel quale il teatro viene “associato” ai siti e spesso affascinato da

Il teatro di Fabrizio Crisafulli

luoghi polverosi e abbandonati, alla figura del “fossile” e il teatro dei luoghi, per la sua ricerca di essenza e di struttura e per le nitide visioni con cui rigenera l’immagine del luogo, alla figura del “cristallo”. Ha anche messo l’accento sul fatto che la ricerca visiva di Crisafulli e il suo originale uso della luce, costituiscano aspetti strutturali e non di contorno

del suo teatro. Si legge in un suo scritto del 2003, riportato nel libro: “La presenza di Crisafulli nel teatro non è la mera proiezione di una competenza artistica, ma la sua ridefinizione in termini di teatro. E, nello stesso tempo, una delle riformulazioni possibili dell’identità registica. In questo senso vanno rivisti gli spartiacque novecenteschi tra il regista come creatore di azioni attraverso gli attori, e come pedagogo creatore di attori; e il regista che, in una diversa accezione, agisce indirettamente sull’attore attraverso il contesto materiale, e che sollecita l’apporto dell’attore, provocandolo attraverso una ricerca comune”. Del “contesto materiale”, nel lavoro di Crisafulli, il luogo e la luce sono elementi importantissimi, che vengono messi in campo con funzione generativa. Ancora Guarino: “Tra il suo itinerario e l’esperienza fondatrice delle avanguardie, e il loro uso della scena, tra lui e l’esperienza prossima del teatro-immagine dei registi romani degli anni ’70, corre la distanza di una disillusione, di un altro livello di coscienza nell’uso e nella produzione di immagini. Si tratta della distanza che separa l’immagine come asserzione, e il suo uso proiettivo e progettuale, dall’immagine come elemento e oggetto di sospensioni e analisi capziose e straniate”. Il libro, molto ben curato anche dal punto di vista editoriale (contiene peraltro oltre 300 immagini, la maggioranza a colori, che ben restituiscono il lavoro di Crisafulli), è significativo della linea editoriale di Artdigiland, nuova casa editrice internazionale con sede a Dublino, creata da un’italiana col supporto alle start-up del programma Enterpise Ireland. Artdigiland sta pubblicando diversi libri sul cinema e sul teatro, con particolare attenzione al tema della luce (tra i titoli usciti: La luce necessaria, un volume-intervista su Luca Bigazzi, uno dei nostri migliori direttori della fotografia), e dedica spazio alla riscoperta di artisti di alta levatura che la storiografia ha imperdonabilmente lasciato nell’ombra. È il caso, ad esempio, del regista francese Marc Scialom, il cui Lettre à la prison è giustamente definito nel bel volume Marc Scialom: Impasse du cinéma, “il film mancante della nouvelle vague”


24 gennaio 2015 pag. 13 Simone Siliani s.siliani@tin.it di

C’è ovviamente un debito di riconoscenza verso Susanne Linke che Angela Torriani Evangelisti tributa alla grande ballerina e coreografa tedesca nel suo ultimo lavoro “Mit Affekt”, andato in scena al Teatro Cantiere Florida lo scorso 17 gennaio in prima nazionale. Ma non è un debito fermo, immobile. Angela Torriani lo dichiara in apertura della coreografia: nel 1989 – mentre cadeva il Muro di Berlino e di rovesciavano mondi e assetti ideologici ritenuti incrollabili – lei assiste al debutto italiano di “Affekte” della Linke con Urs Dietrich e il suo personale mondo ne viene stravolto, rivoluzionato: le impostazioni classiche nella danza concepite come assoluto di perfezione formale vengono strappate e sconvolte da un universo artistico e formale parallelo, rovesciato per certi aspetti. Cambia, da allora, completamente la sua visione artistica e la sua ricerca. E Angela Torriani ce lo dice in apertura della coreografia che si rifà esplicitamente alle atmosfere della Linke con i due ballerini che cambiano il piano e la prospettiva su cui lavorano, non più quella verticale e frontale con il pubblico, bensì il piano orizzontale, quello di Marco Pacioni pacionim@gmail.com di

t martiri cristiani dei primi secoli erano coloro che cadevano vittime per aver testimoniato la loro fede. Oggi martire è più spesso definito come chi per uccidere è disposto a morire. Chi viene definito “votato al martirio” è colui che è determinato a farsi ammazzare per ammazzare. Qui omicidio e suicidio, orrore e terrore, vittima e carnefice, sacrificio e sacralità della vita vengono a coincidere. Invece quelli come Santo Stefano – si festeggia il giorno successivo a Natale collegando inquietantemente così la nascita del bambino Gesù con il futuro sacrificio di Cristo – non erano martiri perché votati alla morte, ma perché vittime della violenza a causa della loro testimonianza. Per loro, oltre a testimoniare, continuava a rimanere importante anche avere salva la vita se ciò era possibile. Comunque erano definiti martiri dopo la

Con affetto calpestio su cui inizia a svolgersi lo spettacolo. Fino alla camminata di schiena finale che è chiaramente il tributo che Angela Torriani paga alla Linke. Ma in 25 anni da quella fulminazione di “Affekte”, Angela Torriani ha fatto molta strada. Intanto ha potuto costruire un sodalizio artistico con la Linke con un lavoro realizzato insieme dal 2003 al 2008. Ricordo quando Angela me ne parlò la prima volta (allora svolgevo pro tempore le funzioni di assessore alla cultura del Comune di Firenze) e, al di là del rilievo di avere a

Favola delle parole

Martirio

morte violenta inflitta da altri e non prima perché preventivamente votati a morire, cioè a suicidarsi. Nei votati al martirio di cui nuovamente si parla in questi giorni non si salva nessuna distinzione. Oltre che martire, suicida, vittima, carnefice, il terrorista è anche soldato. Ed è proprio in questa indistinzione che la violenza illegale dell’atto terroristico inizia a giustificare la sospensione interna della legalità e la legittimazione esterna della guerra. Il votato al martirio del terrorista diventa l’analogo del capro espiatorio. Questo viene sacrificato per stabilire la sacralità della propria comunità; il terrorista viene sacralizzato per giustificare sia il sacrificio della libertà all’interno della comunità sia il sacrificio bellico all’esterno contro un’altra comunità.

Firenze per un iniziale periodo di 3 anni una delle più importanti coreografe del mondo, colpiva la luce negli occhi di Angela, l’incredulità quasi di aver raggiunto il sogno di una vita e allo stesso tempo il senso della sfida a cui un progetto con Susanne Link l’avrebbe messa di fronte. Quell’incontro professionale e artistico ha lasciato il segno, ovviamente, anche in “Mit Affekt”: il tema degli affetti, con le paure, l’amore, il dolore, la compassione, l’avvicinarsi e il respingersi delle persone che altro non è che il

contenuto delle nostre vite, si carica qui dell’esperienza e delle mediazioni di una vita vissuta e non invece dalla furia iconoclasta di chi ha davanti tutta una esistenza da sconvolgere e rovesciare. Così Angela Torriani e Leonardo Diana (l’ottimo ballerino che accompagna “con affetto” Angela Torriani escono dalla scena camminando schiena rivolta al pubblico con l’eco delle note dei Pink Floyd e della “Notte” di Dino Campana: “Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.... Uno spettacolo intenso e maturo. Una lettera di ringraziamento alla coreografa tedesca da una cui la sua arte ha cambiato la vita. Con affetto, Angela.


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a datazione del Battistero di Firenze continua a essere dibattuta: da una parte chi sostiene una cronologia paleocristiana (ammettendo comunque che l’edificio sia poi stato incrostato di marmi in età romanica) e dall’altra una romanica, a sua volta collocata da alcuni nell’XI secolo e da altri, fra cui Tigler, nella prima metà del XII. Tuttavia è proprio l’innegabile relazione formale col Pantheon di Adriano, già osservata da Giovanni Villani e Vincenzo Borghini, a dover essere ribadita con forza, anche se non nei termini di una parentela formale fra edifici contemporanei bensì in quella di un rapporto modello - copia. Il Battistero fiorentino va quindi a inserirsi nella lista di libere riprese medievali dal Pantheon, già correttamente individuata da Richard Krautheimer, costituendo inoltre un esempio della tendenza all’imitazione architettonica caratteristica del Romanico toscano: analogamente il distrutto Duomo Vecchio di Arezzo si ispirava a San Vitale

Il Battistero e il Pantheon a Ravenna; il Duomo di San Giovanni e Santa Reparata di Firenze, consacrato nel 1059, riprendeva Cluny II; il Battistero di Pisa il Santo Sepolcro di

Gerusalemme. Resta da capire perché la committenza del Battistero di Firenze abbia chiesto all’anonimo architetto (probabilmente lo

Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it

Dalla collezione di Rossano schi nudi da rivestire e, in gruppo,

Entriamo nella sezione, non abbastanza esplorata, degli oggetti d’arte di Rossano, non necessariamente bizzarri forse, ma sempre interessanti. Statuetta di bronzo, a cera persa, di Piero Bertelli, “L’impagliatrice” o “Fiascaia”, raffigura la madre dell’artista che esercitava questa professione, tipicamente femminile e tipicamente della zona di Signa, Montelupo e non solo. La statuetta di Rossano è la versione mignon di quella, sempre in bronzo, a grandezza naturale collocata di fronte al Museo del vetro di Montelupo Fiorentino. Spiegare la tecnica “a cera persa” potrebbe essere parecchio complesso così come complesso e completamente manuale e bisognoso di attenzione ed abilità è il suo procedimento attuativo: si tratta di creare un modello dell’opera che si immagina e desidera creare, in cera, lo si chiude poi tra due forme di materiale refrattario: l’anima, interna e il mantello, esterno. Attraverso un processo di cottura delle forme, si ottiene lo scioglimento della cera e la formazione di una intercapedine nella

quale viene colato il bronzo fuso. Una volta liberato il bronzo dal mantello e dall’anima è necessario un lavoro di ripulitura, cesellatura e patinatura, minuzioso e preciso, esclusivamente manuale, che può durare mesi o anni, a seconda delle dimensioni dell’opera. Forse voi conoscevate la fusione a cera persa, ma mi piaceva dedicare spazio ad una locuzione così carina... Il nostro Bertelli, nato a Montelupo nel 1940, a soli 15 anni fu messo a lavorare presso la famosa Fonderia fiorentina Marinelli e fu proprio lì, ove passavano e passano artisti e scultori di chiara fama e grande abilità, che imparò prima a cesellare e ripulire le forme degli altri e poi, scopertasi la passione, a coltivarla apprendendo l’arte dello scolpire sue personali opere. Tuttora attivo espone alla Galleria “Pietro Bazzanti e figlio” di Firenze. Impagliare era attività da femmine, le donne del contado partivano con i loro barrocci per procurarsi dai maestri vetrai fia-

a cura di

Bizzarria degli oggetti

d’inverno al chiuso e in estate sull’uscio o nelle aie, si accingevano a questa opera. Erano malpagate, ci potete credere, nel 1896 nel corso di uno sciopero c’erano anche loro a rivendicare migliori condizioni economiche. Passiamo ora al fiasco :.. “vaso di vetro, rotondo e corpacciuto, senza piede, con una copertura di erba palustre che ne cinge il corpo e forma a piè di esso la base..” così nel 1887 l ‘Accademia della Crusca. Nasce in vetro soffiato con la forma che ha, in quanto di semplice soffiatura, intorno al 1200, per il rivestimento che gli permette di stare ritto e che fu per molto tempo a fasce orizzontali, si usano essiccate delle erbe ,una sala, un’altra strancia, e anche foglie e steli di quelle piante dal fiore cilindrico marroncino che si vedono lungo laghi e fiumi dette “tife”. Tutte le piante utili venivano “sfalciate” nelle epoche giuste per non danneggiare la successiva produzione, c’era grande attenzione, come sempre in altri tempi, a non minare gli ecosistemi in cui crescevano distruggendo una ricchezza naturale. Esiste un EcoMuseo delle erbe palustri a

stesso che nel coevo prospetto di San Miniato al Monte rievocava la facciata di San Pietro in Vaticano, con le sue cinque navate e il suo mosaico apocalittico) di prendere a modello proprio il Pantheon, trasformato nel 609 in chiesa di Sancta Maria ad Martyres. Dopo il grande successo del primo ciclo di conferenze Firenze prima di Arnolfo, la seconda parte dell’iniziativa, promossa dall’Opera di Santa Maria del Fiore, è iniziata martedì 13 con Il Battistero e il Pantheon a cura di Guido Tigler. Il ciclo di conferenze, nato da una proposta dallo storico della viabilità Renato Stopani e coordinata da Mons. Timothy Verdon, prevede 6 conferenze, a ingresso gratuito, che si terranno di martedì, alle ore 17.00, presso il Centro Arte e Cultura dell’Opera di Santa Maria del Fiore (Piazza San Giovanni 7, Firenze). Il secondo appuntamento è previsto il 27 gennaio con Nicoletta Matteuzzi e le Tarsie marmoree del Battistero fiorentino.

Villanova di Bagnocavallo. Nella Cappella degli Scrovegni Giotto ha dipinto un fiasco impagliato; allego la foto della “Nascita di S.Giovanni Battista” del Ghirlandaio ( Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni ) in cui una giovane donzella tiene in mano due fiaschi, ben vestiti fino al collo, e,verosimilmente, contenenti del vino con cui far riprendere dalle fatiche del parto la puerpera. Pantagruel :”O fiasco, ognor sincero / gravido di mistero / oh, dimmi tu del vero...”


Al

cinema

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Stefano Vannucchi svannn1170@gmail.com di

Uno normale non avrebbe mai potuto farcela” dice l’amica Joan Clarke (Keyra Knightley) a Alan Turing (un grande Benedict Cumberbatch) nel film “The imitation game” adattamento cinematografico della biografia “Alan Turing. Una biografia” di Andrew Hodges. Solo lui poteva farcela e ce l’ha fatta, ma a un prezzo incredibile. Iniziato a pagare fin da bambino. Perché era diverso, troppo diverso. Faceva parte di quel piccolo gruppo di persone prive di un senso naturale della destra e della sinistra e perciò si dipingeva una macchiolina rossa sul pollice sinistro (la chiamava “il puntino sapiente”). Era omosessuale e genio assoluto e irritante anche a causa di una scorza che veniva dalla lotta per sopravvivere e dalla sua particolarità. Lui, meraviglioso crittografo, ha sofferto per tutta la vita l’ostilità dei tanti che non avevano gli strumenti o la pazienza per decifrare il suo linguaggio. Secondo quelle statistiche che gli piacevano tanto, Alan Turing ha salvato circa 14 milioni di persone decifrando Enigma, il codice di comunicazione nazista, e abbreviando così la II guerra mondiale. Ha fatto questo e molto di più. Ha salvato il futuro e tutti noi aprendoci delle porte incredibili grazie ai suoi studi e al suo calcolatore digitale. L’antenato del computer costruito a mano nel ‘40 durante la guerra. Un’impresa straordinaria. Come quella di mantenere i suoi segreti e sopravvivere al dolore e alla solitudine. Iniziata poco più che bambino quando il preside del rigido college inglese in cui studia e viene perseguitato per le sue stranezze e la sua fragilità gli annuncia che l’amato Christopher, l’unico che capisce la sua lingua e ha la pazienza di tradurla, è morto di tubercolosi bovina, malattia coraggiosamente tenuta nascosta. Alan è distrutto, ma capisce che non può farlo vedere perché già si chiacchiera dell’amicizia troppo stretta fra i due e così con uno sforzo immane resta impassibile e nega tutto. Lo

Genio, benemerito e perseguitato The imitation game

farà per tutta la vita finché non lo scopriranno e lo distruggeranno con una castrazione chimica a furia di ormoni che è costretto ad accettare per non finire in carcere e abbandonare Christopher, la meravigliosa macchina sogno di una vita. Le conseguenze di quella “cura” lo porteranno al suicidio nel 1954. L’omosessualità era illegale in Gran Bretagna (Oscar Wilde fece le spese della legislazione repressiva) e lo restò fino al 1967. Un film, seppur bellissimo, è poco per ricordare quest’uomo straordinario. Incrementerà però la sua riscoperta già in corso da anni fra studiosi e giovani di tutto il mondo che ora sanno che senza quell’ “anormale” non avremmo avuto i Bill Gates e Steve Jobs. Senza di lui e senza Christopher che ha creduto in lui, ha avuto la pazienza di ascoltare e cercare di capire il suo linguaggio (come farà Joan Clarke con il Turing adulto) senza sbeffeggiarlo, lo ha protetto finché ha potuto e gli ha regalato il primo testo di crittografia.

Francesco Cusa info@francescocusa.it di

I

mmaginiamo non sia facile concepire e realizzare un film sul cecchino texano Chris Kyle, uomo dalle ruvide certezze e dai pochi solidi principi: in poche parole, il prototipo del soldato americano. Tratto dall’autobiografia dello stesso Kyle, il film ripropone da un lato lo scarno cliché quotidiano del vissuto di un uomo cresciuto a pane e valori, fedele alla bandiera e alla manichea concezione di male e bene, dall’altro lo stacco surreale dello scenario di guerra, nell’intermittenza che segna le varie fasi di crisi del personaggio. Certamente è possibile aderire alla vicenda del cecchino e, volendo, leggere nell’omaggio alla vita di questo infallibile tiratore una qualche sintonia con la visione senile di Eastwood, magari di una sua palese identificazione con l’attuale scenario socio-politico, secondo uno sguardo pragmatico e poco critico. Oppure è possibile fruire queste grandi pagine di cinema come una sorta di transfert - proprio nel senso freudiano di morfologia dell’inconscio che si struttura simbolicamente nel corpo dell’opera, - ovvero di un vero e proprio passaggio del testimone che Eastwood consegna al pubblico, riportando fedelmente i fatti e le vicende nella nuda follia della guerra irachena. Di certo una visione troppo aderente non renderebbe plausibile il cortocircuito generato dall’inversione del concetto di eroe. Il mondo di Kyle è tolemaico e governato dalle leggi del Fato. L’assurdo della guerra in Iraq è il buco nero della depressione che non può essere esplorato. Da qui, nella fissità di un universo di stelle e valori perpetui, il processo di straniamento del cecchino, che pare scindersi in due distinti personaggi: in guerra lo spietato e glaciale soldato, in casa l’uomo traumatizzato in preda ai fantasmi della battaglia. A partire da questi cardini, appare evidente che la forza del film sta tutta nella capacità evocativa delle immagini, nella forza simbolica dello scenario bellico che si alterna senza filtri a quello dell’ordinario e, altrettanto (in)verosimile familiare. Kyle ambisce a salvare tutte le vite, perfino quelle dei caduti in guerra, ma non riesce a vivere il suo Reale, la sua vita. E’ l’onirico-bellico che rivive nell’assunto lacaniano: “”La realtà

Il cecchino texano American Sniper

è una costruzione di fantasia che ci permette di mascherare il Reale del nostro desiderio”. La mannaia giunge alla fine sotto il mascheramento di una ritrovato equilibrio, nel momento topico della tragedia e ancora una volta con l’irruzione della follia nel quotidiano (come nella Maggie di “Million Dollar Baby”, la paralisi che costringerà Frankie-Eastwood al gesto estremo): perdere la vita per mano di un ex reduce dopo essere sopravvissuti agli apocalittici scenari di guerra. E’ per queste ragioni che il cinema di Eastwood non è mai realmente descrittivo: lo è semmai falsamente; è letteralmente una “messa in scena”. I paragoni con i pur encomiabili lavori di una Bigelow possono essere efficaci fino ad un certo punto, giacché il nostro Clint mira sempre a quel nucleo irriducibile, al petit object a che è la roccia densa di significato, irriducibile che ci lega al significato dell’esistenza. L’immaginario ideologico di Kyle non trova posto dunque, paradossalmente, nell’accettazione della vita quotidiana, che è elemento succedaneo all’onirico bellico ove prospera il sogno ideologico individuale e di una nazione (la folla al funerale, a salutare la salma, nelle immagini di repertorio che scorrono sui titoli di coda). E’ ancora una volta l’Assurdo a porre termine ad ogni “resistenza” e a far breccia sull’Inganno, devitalizzando l’automa e restituendolo Kyle alla vita dello spirito, ai suoi fantasmi.


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Scottex

Aldo Frangioni presenta L’arte del riciclo di Paolo della Bella

Il piacere concesso da “i marmi di carta” è determinato dalla piena libertà che l’autore concede alle osservazioni o alla critiche di chi guarda. Quando gli abbiamo detto che Scottex n° 6 è per noi una sublime opera sacra, l’estasi di una santa, al pari della Teresa d’Avila del Bernini, lui ci ha risposto: “Se vi pare, va bene così, per me è solo un foglio stropicciato che ho usato per pulire lo schermo della televisione”.

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Scultura leggera

Sara Chiarello esse.chiarello@gmail.com di

P

apa Francesco ai fornelli e in braccio a Putin, il premier Renzi nei panni di Pinocchio, l’Italia allo sbando: torna il Carnevale di Viareggio, per fortuna! E propone un mese intero di carnevale, dal 1 al 28 febbraio, che si concluderà con il quinto corso mascherato, una sfilata eccezionale sui viali a mare, che inizierà alle ore 20.30 e terminerà con la proclamazione dei vincitori e lo spettacolo pirotecnico. Domenica 1 febbraio alle ore 15 i tre colpi di cannone daranno il via alla prima sfilata dei carri. I giganti di cartapesta torneranno sui viali nelle domeniche 8, 15 e 22 febbraio (a partire dalle ore 15). Per il giorno di martedì grasso (17 febbraio), in sostituzione della sfilata, è in programma una grande festa nella piazza Burlamacco, alla Cittadella del Carnevale. A essere protagonista sarà soprattutto la satira, dai temi sociali (violenza sui mino-

ri, temi di salvaguardia dell’ambiente), fino ai ritratti ironici dei personaggi più noti (torna anche Mina). Le sfilate saranno trasmesse dalla Rai e è in programma un contest fotografico e di filmati, in collaborazione con l’Istituto Europeo di Design. ‘Il carnevale di Viareggio è un’eccellenza a livello mondiale, con una ricaduta economica di 2 milioni e 300.000 euro’, è stato detto in conferenza stampa. Per ulteriori informazioni www. ilcarnevale.com.

Grandi corsi mascherati Torna il Carnevale di Viareggio


in

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giro

La storia della società israeliana e gli orizzonti dell’ebraismo “La società non si esaurisce nello stato, né lo stato può cooptare nella sua struttura tutta la società”, però può avvenire che la storia “metta più in luce lo stato che non la società”. E’ ciò che accade oggi a Israele. Ma ne “sappiamo a sufficienza della società israeliana distinta dallo stato di Israele? E’ possibile separare la società come organizzazione istituzionale e pratica della vita quotidiana per milioni di cittadini e lo stato come apparato normativo della sicurezza e della difesa e soggetto internazionale?”. Così Mario Aldo Toscano, per lungo tempo ordinario di storia e teoria sociologica presso l’UniversiPERCEPIRE: I CINQUE SENSI DELLA MEMORIA 29 e 30 gennaio 2015

TATTO: L’ARCHIVIO MATERIA

Questa sessione si svolge in parallelo al convegno. Saranno presentati in forma multimediale alcune significative realtà archivistiche e i risultati di progetti in corso o già realizzati.

Salvati dalle acque: il difficile recupero degli archivi alluvionati di Aulla

VISTA: L’ARCHIVIO IMMAGINE

Il Museo Salvatore Ferragamo e il suo archivio: luogo di memoria e laboratorio di ricerca

L’archivio dei filmati di famiglia raccolti dalla Banca della Memoria del Casentino: una storia per immagini

Design e prodotto attraverso l’archivio della Cooperativa artieri dell’alabastro di Volterra

Archivio Andrej Tarkovskij: dalla fotografia al film

OLFATTO: L’ARCHIVIO PROFUMO DEL TEMPO

L’Archivio Luciano Caruso tra sperimentazione artistica e militanza culturale

Archivi di famiglia nelle case dei proprietari

UDITO: L’ARCHIVIO SUONO L’archivio di Tempo Reale, Centro di produzione, ricerca e didattica musicale Progetto Gra.fo: Grammo-foni. Le soffitte della voce

Soprintendenza Archivistica per la Toscana

ARCHIVI IN TOSCANA

FARE RETE

SFIDARE IL FUTURO

Dal Parione a Le Corti: l’archivio Corsini cambia casa L’archivio della Società italo-britannica Manetti & Roberts GUSTO: L’ARCHIVIO DEI SAPORI Agricoltura e territorio: gli archivi di fattoria Gli archivi Frescobaldi: storie di famiglia, di fattoria e di produzione vinicola

Per informazioni e prenotazioni: F O N DA Z IO N E P R IM O CO N TI segreteria@fondazioneprimoconti.org Tel. 055 597095

29-30 gennaio 2015 “Le Murate. Progetti Arte Contemporanea” Piazza delle Murate - Firenze

Come raggiungerci: dalla Stazione Santa Maria Novella autobus linea 14-C2-C3-23 in collaborazione con

e con

Si ringrazia per la cortese ospitalità l’Associazione MUS.E e Valentina Gensini direttore artistico Immagine di copertina: Gianfranco Baruchello, “La Grande Biblioteca”, 1976/1986 (particolare)

GUERRIERI A DIFESA un’ opera di

PAOLO STACCIOLI al

Teatro del Popolo

Interverranno: Maria Cristina Giglioli

Presidente Fondazione Teatro del Popolo

Alessio Falorni

Sindaco del Comune di Castelfiorentino

Claudio Paolini

Soprintendenza BAPSAE

Maria Cristina Masdea Soprintendenza BAPSAE

Claudio Rosati

Direttore Museo Villa Caruso

Paola Panichi

Dal Natum Videte di Alberto Cavallini

Dirigente Scolastico di Castelfiorentino ed Empoli

ai Guerrieri di Paolo Staccioli:

Associazione Differenze Culturali e Non Violenza Onlus

Andrea Bigalli

una memoria per il futuro

Sabato 24 gennaio 2015 ore 17,00 Teatro del Popolo Castelfiorentino

Piazza Antonio Gramsci, 80 - 50051 Castelfiorentino FI Per informazioni: Tel. 0571 633482

L’ opera è stata realizzata il 26 maggio 2013 in occasione del 20° anniversario della strage di via dei Georgofili in collaborazione con: Associazione Differenze Culturali e Non Violenza Onlus Firenze Gruppo Culturale Ricreativo Il Mattone La Rotta (PI) Unione delle Fornaci della Terracotta Samminiatello - Montelupo Fiorentino (fi) Associazione Caba Sticciano - Certaldo (FI)

tà di Pisa, riassume le questioni al centro dell’incontro sul tema “La fondazione dello Stato di Israele e i nuovi orizzonti dell’ebraismo” organizzato lunedì 26 gennaio, alle 16, dalla Fondazione il Fiore presso l’auditorium dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze (via Folco Portinari 5) nell’ambito delle iniziative regionali per il Giorno della Memoria 2015. Un momento di riflessione a partire dai libri ‘Storia di Dan’ (Asterios Editore, Trieste 2013), di cui è autore lo stesso Mario Aldo Toscano, e ‘Costruire la società. Israele tra passato e futuro’, curato da Claudia Damari e Dan Soen (Pisa University Press, 2014), a cui interverranno, oltre a Mario Aldo Toscano e Claudia Damari, Paolo de Nardis e Claudia Napolitano. “Due volumi che, per quanto diversi nell’ispirazione e nell’impostazione, - spiega Mario Aldo Toscano - permettono di introdurre una serie di argomenti per una discussione non convenzionale su Israele, al di là delle ideologie e nel segno di una esigenza analitica e critica fortemente legata alla conoscenza del processo storico e alla lettura documentaria della condizione attuale”. Durante l’incontro, moderato dalla presidente della Fondazione il Fiore Maria Giuseppina Caramella, saranno toccati anche altri argomenti: dalla rievocazione di aspetti dell’Olocausto al futuro dell’ebraismo. E in chiusura interverrà

Marianne Zazo, che racconterà come sua madre riuscì a salvarla dai campi di sterminio nazisti. “La storia dell’ebraismo e la memoria dell’Olocausto – scrive Mario Aldo Toscano inquadrando storicamente l’appuntamento del 26 gennaio - hanno oggi un protagonista che un tempo non c’era e che costituisce un riferimento assolutamente indispensabile per il recente passato, per il presente e per il futuro: Israele”. “La deliberazione n.181 delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, che prevede due stati in terra di Palestina, e la successiva dichiarazione della fondazione e indipendenza dello stato ebraico (Medinat Israel) del 14 maggio 1948 ad opera di Ben Gurion – continua - sono dense di conseguenze. Il National Home del 1917 di cui parla la lettera di Lord Balfour al barone Rothschild è solo la premessa di qualcosa di enormemente più consistente”. “Dopo quella data fatidica, la questione ebraica ha assunto significati ulteriori e le ripercussioni sulla coscienza pubblica mondiale sono del pari assai vaste e profonde. Anche la memoria dell’Olocausto ha un soggetto preciso che la custodisce e la difende e dalla quale trae una elevata dose di legittimazione. Israele intanto si organizza e dà corso ad un’altra storia: che dura fino ad oggi. Conosciamo le tristi vicende delle guerre tra Israele e gli Stati Arabi, e conosciamo i tentativi di pace, più volte ostacolati da forze avverse, dentro e fuori di Israele. Ma Israele non è solo uno stato, è una società nata e cresciuta via via nel corso del tempo da un piccolo nucleo di comunità di ebrei residenti in zone diverse della Palestina. Dovremmo concordare che nessuno stato può essere istituito senza una società sottostante, come nessuna società può durare senza un assetto normativo che almeno nella modernità occidentale ha assunto la conformazione dello stato. Nello stesso tempo la società non si esaurisce nello stato, né lo stato può cooptare nella sua struttura tutta la società”Per ulteriori informazioni, Tel.: 055 22507


horror

vacui

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Impropriamente sognando Paul Klee e il suo Angelus Novus “La mia ala è pronta al volo ritorno volentieri indietro, poiché restassi pur tempo vitale, avrei poca fortuna” Gerhard Scholem, Gruss von Angelus

Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni


L immagine ultima

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Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni@gmail.com

A

l riparo di una tenda questa donna sta preparando il cibo per la sua famiglia e per altri che stanno raccogliendo la frutta. Così ad occhio mi pare di ricordare che si trattasse degli immancabili “fagioli” che i messicani, almeno quelli che ho incontrato da queste parti e in quel periodo, sembravano consumare in quantità quasi industriali. Come si vede chiaramente l’ambiente è di fortuna e la confusione sotto il tendone regna sovrana. Ogni volta che rivedo questa immagine mi chiedo come fosse possibile per lei indossare degli abiti così pesanti con un clima così caldo. La signora è stata molto gentile e mi ha invitato a pranzo raccontandomi poi un sacco di notizie sulla sua famiglia e il suo piccolo paese di origine. Le sue parole mi hanno fatto tornare subito alla mente un sacco di cose che avevo letto a suo tempo sui libri di Steinbeck.

Patterson, San Joaquin Valley, 1972


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